Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come Vittorio Feltri.
Le oche starnazzanti.
La Questione Settentrionale.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
Il Sud Sbancato.
La Televisione che attacca il Sud.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti.
Un mondo di confini spinati.
Quei razzisti come i Sammarinesi.
Quei razzisti come gli Svedesi.
Quei razzisti come i Norvegesi.
Quei razzisti come i Danesi.
Quei razzisti come i Tedeschi.
Quei razzisti come gli Spagnoli.
Quei razzisti come gli Svizzeri.
Quei razzisti come i Francesi.
Quei razzisti dei Paesi Bassi.
Quei razzisti come i Belgi.
Quei razzisti come gli Ungheresi.
Quei razzisti come i Rumeni.
Quei razzisti come i Kosovari.
Quei razzisti come i Greci.
Quei razzisti come i Giapponesi.
Quei razzisti come i Cinesi.
Quei razzisti come i Vietnamiti.
Quei razzisti come i Nord Coreani.
Quei razzisti come i Russi.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come gli Argentini.
Quei razzisti come i Cubani.
Quei razzisti come gli Austriaci.
Quei razzisti come i Turchi.
Quei razzisti come gli Israeliani.
Quei razzisti come i Libanesi.
Quei razzisti come gli Iraniani.
Quei razzisti come gli Arabi.
Quei razzisti come i Dubaiani.
Quei razzisti come i Qatarioti.
Quei razzisti come i Brasiliani.
Quei razzisti come gli Inglesi.
Quei razzisti come gli Statunitensi.
Quei razzisti come gli Australiani.
Quei razzisti come i Sudafricani.
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Genocidi dimenticati: Gli zingari.
Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.
Il genocidio silenzioso dei Dogon.
Shoah ed Antisemitismo.
Paragonare le foibe alla Shoah?
Il Giorno del Ricordo.
Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.
Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Immigrazione ed emigrazione.
Espatriati. In Fuga dall’Italia.
Il trattato di Dublino, spiegato.
La Sanatoria dell’Invasione.
Quelli che…lo Ius Soli.
La Cittadinanza col Trucco.
Il Soggiorno col trucco.
L’Africa pignorata.
La Tratta dei Profughi.
Porti Aperti.
Gli affari dell’accoglienza.
Morire di Accoglienza.
I famelici…
Lo Scuolabus dell’integrazione.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli…che Porti Chiusi.
Le “altre Lampedusa”.
Le Colpe in Libia.
Le colpe in Tunisia.
Le colpe in Algeria.
Le colpe in Siria.
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· I Genocidi dimenticati: Gli zingari.
Il genocidio dei 500mila Rom sterminati dai nazisti, il ricordo della comunità di Scampia. Rossella Grasso il 24 Gennaio 2020 su Il Riformista. La memoria dell’Olocausto appartiene a tutto il mondo. Nei campi di sterminio nazisti si è consumato il “Porrajmos” (in lingua romanì “distruzione, annientamento”). Dal 1936 al 1945 furono sterminati 500mila rom e sinti dal regime nazi-fascista. Furono vittime dello studio per la “mutazione della psicologia razziale” essendo ritenuti “esseri deviati”, tra loro migliaia di bambini. Tra il 2 e il 3 agosto 1943 più di 4mila persone, in maggioranza donne e minori, furono sterminati nel “campo degli zingari” ad Auschwitz. È una memoria dimenticata come quella della partecipazione tra le fila partigiane di Amilcare Debar, il partigiano Taro della Brigata Garibaldi, che ebbe il riconoscimento ufficiale dal presidente Sandro Pertini. E oggi? Quali condizioni vivono le comunità rom, spesso accusate e discriminate dalla propaganda politica? L’associazione Chi rom e chi no e Chikù – Centro culturale e gastronomico di Scampia hanno realizzato e diffuso un video in cui prendono parole le nuove generazioni rom, ragazze nate in Italia, che chiedono casa e futuro per un’inclusione lontana dalla logica dei campi “istituzionali” o dal degrado in cui sono costretti per la propria sopravvivenza. “La risoluzione europea del 12 febbraio 2019 – dichiarano Barbara Pierro, Biagio Di Bennardo ed Emma Ferulano – è molto chiara e, anche se in modo non vincolante per i Paesi membri, invita ad attuare le politiche di inclusione e di lotta alle discriminazioni. L’Italia è uno degli Stati membri già più volte condannati e multati per le politiche discriminatorie contro le comunità rom. Anche Amnesty International Italia ha più volte sottolineato il rischio per i diritti umani attraverso l’incremento degli sgomberi forzati e le politiche di ‘segregazione abitativa’ negli ultimi anni. A questi aspetti si aggiunge la centralità del tema relativo alle politiche ambientali e a loro impatto sulle condizioni di vita di queste comunità che vivono in territori sottoposti a forte inquinamento e tossicità. Per questo è necessario che accanto alle commemorazioni vadano impostati nuovi principi e politiche che mettano al centro le persone, i diritti, la giustizia sociale, un nuovo modello sostenibile, il futuro delle nuove generazioni, la liberazione da ogni oppressione”. Oltre al video e alla memoria, al Chikù – Viale della Resistenza, comparto 12, Scampia – il 28 gennaio alle 17.30 l’associazione Chi rom e chi no promuove la presentazione del libro “L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini di Irène Cohen-Janca”, illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello, edito da Orecchio Acerbo Editore. Un dibattito su Olocausto e discriminazioni. Un evento organizzato in collaborazione con la libreria indipendente: Mio nonno è Michelangelo.
Il libro, sinossi. Simone, poco più che adolescente, tiene per mano il piccolo Mietek. Insieme ai loro compagni dell’orfanotrofio -mesti, ma la testa alta e una canzone sulle labbra- stanno attraversando le strade di Varsavia per raggiungere l’altra parte, il ghetto. Così hanno ordinato gli occupanti tedeschi. A guidare quella comunità, come sempre, Pan Doktor, il dottor Korczak. Non la fame, né le malattie, e neppure le sadiche angherie naziste riescono a intaccare i principii e le pratiche della loro convivenza. Nel prendersi cura di Mietek, Simone gli racconta della Repubblica dei bambini, con tanto di Parlamento, Codici, Tribunale. E poi del giornale murale, delle sedute di lettura, delle rappresentazioni teatrali, delle vacanze alla colonia estiva… Quel treno che li preleva nell’estate del 1942, però, non in campagna li avrebbe portati ma nel lager di Treblinka.
· Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.
Srebrenica 1995, cronaca di un massacro. Come si uccidono ottomila prigionieri nel minor tempo possibile? Come si organizza un genocidio? Un romanzo-documento ricostruisce la strage con atti, testimoni, versioni a confronto. Per mostrare tutta la macchina dell’orrore, minuto per minuto. Gigi Riva il 21 febbraio 2020 su L'Espresso. Alla vigilia del suo cinquantaseiesimo, il 13 luglio del 1995, il colonnello Ljubisa Beara ricevette dal generale Ratko Mladic l’ordine di ammazzare ottomila persone e di far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile. Uso ad obbedire ai superiori e tanto più a quel comandante così stimato, per lui la faccenda non rappresentava un problema morale semmai una questione tecnica. Già, come ammazzare gli ottomila musulmani bosniaci fatti prigionieri a Srebrenica dopo che la città era caduta nelle mani dell’esercito dei serbi di Bosnia sotto gli occhi dei caschi blu olandesi delle Nazioni Unite? La decisione era stata presa all’improvviso, senza pianificazione precedente. Dunque si trattava, con tutto lo zelo di cui era capace, di montare una efficiente macchina genocidiaria, organizzare una catena burocratica per la morte all’ingrosso, senza tralasciare alcun particolare che potesse inficiare l’operazione. Per ricavarne un encomio, magari addirittura uno scatto di carriera. Doveva risolvere diverse equazioni matematiche. Quanti autobus servono per portare ottomila e passa persone in luoghi il più possibile discosti dalle vie principali per poi eliminarli? Quanta benzina si consuma? Quanti mezzi meccanici servono per scavare fosse comuni tanto capaci, grandi in totale qualche migliaia di metri cubi? E, soprattutto, quanti assassini ingaggiati a cottimo avrebbero dovuto svolgere il lavoro, calcolando alcuni renitenti e le sostituzioni necessarie di chi poteva stancarsi nel premere senza soluzione di continuità il grilletto contro le schiene dei condannati a morte legati e inermi? Non possiamo sapere se il colonnello Beara abbia rimpianto l’efficienza nazista mentre si adoperava all’impresa nel giorno del suo compleanno, quel 14 luglio che evoca l’origine dei diritti dell’uomo, e nei due successivi, avendo a disposizione scarsi mezzi, pochi uomini, tra mille difficoltà e troppi ostacoli. Sappiamo però come ha risolto le incognite di tutte le equazioni complicate, come ha affrontato gli imprevisti e come alfine ce l’ha fatta in uno spazio di tempo da record date le circostanze. Lo sappiamo grazie all’ostinazione e alla dedizione di uno scrittore, Ivica Dikic, oggi 43 anni, croato di Erzegovina, normalmente versato nella fiction, diventato famoso nel mondo come autore della serie “Novine” in onda su Netflix. Dikic ha compreso che davanti all’enormità della carneficina doveva abbandonare la fantasia per esplorare il territorio della letteratura del vero. Si è letto centinaia di migliaia di pagine dei vari processi all’Aja, in Serbia, in Bosnia, ha rintracciato una miriade di testimoni, ha confrontato e incrociato versioni e in capo ad alcuni anni ha finalmente dato alle stampe “Beara”, pubblicato nel 2016 in Croazia e che ora esce in Italia col titolo “Metodo Srebrenica” (Bottega Errante Edizioni, 280 pagine, 17 euro) con la splendida traduzione di Silvio Ferrari. Un libro definitivo, il romanzo documentario del massacro ricostruito quasi minuto per minuto, personaggio per personaggio. Perché, oltre al colonnello, c’erano almeno altre cento persone citate con nome e cognome che a vario titolo sapevano che cosa si stava perpetrando. Beara è parola dal suono dolce, ingentilito dalle vocali. Nell’ex Jugoslavia evoca le gesta di Vladimir Beara da Spalato, un portiere-mito degli anni Cinquanta, considerato tra i massimi della storia del calcio e di cui Ljubisa era cugino. Parenti così diversi, destinati a restare nell’ immaginario collettivo, campioni l’uno nello sport, l’altro nella caccia grossa, nella colonna infame dei pulitori etnici fino alla mattanza totale, affinché non restasse vivo nessun musulmano in quell’angolo di terra aspra a ridosso del fiume Drina. Uomo di mare dapprima, ufficiale della Marina jugoslava, fedele servitore del titoismo finché il Paese è imploso. E poi portato dalle circostanze ad abbracciare l’idea granserba, nella sempiterna considerazione auto-assolutoria che non era lui a cambiare ma i tempi. Per mantenere prebende e privilegi riconosciuti ai gradi gerarchici militari, è salito sulla scialuppa di salvataggio fornitagli dal nume supremo dell’esercito dei serbi di Bosnia Ratko Mladic, conosciuto a Knin, nella Krajina croata, agli albori delle guerre balcaniche degli anni Novanta, e messo a capo della Direzione di sicurezza del comando supremo. Così è passato dalle acque dell’Adriatico ai boschi della Bosnia, mantenendo la postura dell’uomo che non è nato per discutere e avere dubbi. Ma solo per «mettere in opera con efficacia e rapidità ciò che gli è stato ordinato». Fosse anche un genocidio. Attorno a lui, in quelle ore atroci, i dubbi sorgevano persino in assassini seriali che nei quattro anni del conflitto bosniaco si erano distinti per malvagità, riducendo ciò che aveva comunque nome e sembianze di un esercito in un’accozzaglia di macellai sciolti da qualsiasi legge bellica. E avevano infierito sulla popolazione civile, non risparmiando donne e bambini, ripristinando campi di concentramento di hitleriana memoria, dando carta bianca a miliziani col diritto di saccheggio e stupro. C’erano ufficiali suoi pari, persino generali, tentennanti nel concedere i loro sottoposti quali fucilieri scelti dei plotoni d’esecuzione. Non per un rigurgito di umanità ma perché lungimiranti nel prevedere che uno sterminio su così vasta scala non sarebbe potuto passare inosservato e ci sarebbe stato un giudice, a conflitto finito, in una inevitabile nuova Norimberga. C’erano politici del partito serbo di Radovan Karadzic che non erano contrari al massacro purché fosse fatto più in là, non nel territorio su cui avevano giurisdizione. C’erano cittadini che non volevano l’odore della morte nei campi adiacenti alle loro case. Beara annotava gli inciampi, risolveva, proseguiva. Piani a, b c, d per supplire ai dinieghi. Il colonnello ridotto a lucido orchestratore della catena di montaggio che produceva cataste di corpi senza vita nonostante l’alcol, le poche ore di sonno, le arrabbiature. Nonostante una situazione precaria sul campo di battaglia. Perché il suo compito era attività collaterale che succhiava uomini e mezzi al confronto ancora in atto con l’esercito dei musulmani di Bosnia. E nonostante, infine, una spaccatura sempre più palese tra l’ala politica (Karadzic) e l’ala militare (Mladic) complici nell’orrore ma divisi, in quella fase, dall’ingordigia del potere. Ljubisa Beara è instancabile, onnipresente, implacabile. Aumenta la produzione autorizzando le mitragliatrici invece dei fucili e se qualcuno sopravvive alle raffiche è finito col colpo di grazia. Più presto, più presto incita il colonnello. Sui due piedi si decide che fare degli inciampi naturali in un’impresa così titanica. Un bambino che corre verso una fossa comune piangendo e chiamando il papà, viene graziato, forse l’unico. Non ci debbono, non ci possono essere testimoni in grado di raccontare a posteriori. Gli autisti degli autobus, dei civili, sono i supplenti dei tiratori scelti, a loro viene dato il “privilegio” di vendicarsi dei musulmani. Uno di essi chiede pietà per uno di quei ragazzi: si chiama Eldar, lo conosce bene, l’ha portato da scuola a casa per tutti gli anni delle superiori. Viene considerata un’insubordinazione da pagare a caro prezzo. Sarà lui a dover sparare a Eldar, altrimenti verrà ucciso. Obbligato, esegue, poi seppellisce la sua vittima nella tomba di famiglia accanto a suo figlio, pure lui morto in combattimento. Inseguito dai suoi mostri, scappa in Canada a Calgary dove si suiciderà. Un danno collaterale. Ljubisa Beara avrebbe voluto l’encomio di Mladic per lo sforzo più impegnativo della sua carriera militare. Naturalmente non sarà possibile. Nel 2002, a sette anni di distanza, verrà incriminato per genocidio dal tribunale dell’Aja, si costituirà nel 2004. Davanti alla Corte sosterrà che in quei giorni di luglio era a Belgrado a festeggiare il compleanno con la famiglia. Non sarà creduto e nel 2015 condannato definitivamente all’ergastolo. Morirà nel 2017, a 77 anni, nel carcere di Berlino. Nessun altro luogo sarebbe stato più indicato.
· Il genocidio silenzioso dei Dogon.
Il genocidio silenzioso dei Dogon. Daniele Bellocchio su Inside Over il 23 febbraio 2020. Il Sahel, la fascia di paesi africani che fa da cerniera tra il Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana, è oggi sprofondata nell’anarchia delle soldataglie jihadiste. Dalla Mauritania al Burkina Faso, sulle sabbie del deserto si assiste all’avanzata dei gruppi islamisti che stanno sempre più prendendo controllo di intere porzioni di territorio. Governi deboli, eserciti senza mezzi e preparazione, assenza di strutture statuali sono solo alcuni dei fattori che stanno permettendo alle formazioni dell’internazionalismo salafita di impossessarsi di aree strategiche e allargare le loro fila con nuovi combattenti. Oltre a questi motivi non bisogna poi trascurare il fatto che la guerra del terrore ha trovato nell’endemica lotta tra pastori e agricoltori ulteriore combustibile per il jihad. È proprio all’interno di questo conflitto che si inserisce il dramma che stanno vivendo i Dogon, popolazione da secoli insediata ai piedi della falesia di Bandiagara, in Mali, al confine con il Burkina Faso e a sud di quella che è conosciuta come ”la grande ansa” del fiume Niger. I Dogon sono un popolo epico dell’Africa che il mondo ha iniziato a conoscere a partire dagli anni Cinquanta, dopo che l’ antropologo Marcel Griaule pubblicò il libro ”Dio d’Acqua” che descriveva con dovizia di particolari la storia, le abitudini, le straordinarie conoscenze astronomiche e la complessa cosmogonia dei Dogon. Per anni, le terre dei Dogon, hanno attirato visitatori. Dapprima esploratori e poi, nell’epoca del turismo di massa, frotte di viaggiatori affascinati dalle letture di antropologi e avventurieri e dalle raffinate opere di artigianato locale realizzate dagli uomini della falesia. Oggi però, questo mondo che negli anni è riuscito a resistere e rimanere autentico nonostante l’assedio di macchine fotografiche e parabole satellitari, si trova in serio pericolo perché minacciato dalla furia jihadista e mentre donne e bambini fuggono aumentando il numero dei profughi e gli uomini si arroccano sulle proprie pietraie cercando con vecchi fucili di arginare le incursioni dei ribelli islamici, il mondo, impassibile e sordo, distoglie lo sguardo dal massacro di un popolo, una cultura e una civiltà secolare. Dopo che nel 2011 è scoppiata la guerra in Mali e una marea fondamentalista ha travolto il nord del Paese dando inizio alla destabilizzazione dell’intera fascia saheliana, ecco che la violenza ha fatto incursione nelle terre dei Dogon. I Peul (conosciuti anche come fulani), tradizionali pastori della savana, non hanno mai avuto ottimi rapporti con i propri vicini allevatori, i Dogon appunto. Anche se non correva buon sangue però i pastori e gli allevatori erano arrivati nel tempo a un compromesso per una pacifica convivenza. Come spiega l’antropologo Marco Aime: ”dopo il raccolto i bovini potevano infatti pascolare sui campi fornendo così allo stesso tempo letame, estremamente prezioso per i contadini che non disponevano di altro fertilizzante. I Peul ricevevano in cambio miglio, altri prodotti alimentari e talvolta anche piccole somme in denaro.” Negli ultimi anni però la propaganda degli jihadisti ha attirato a sé i Peul che, sopratutto in un momento di siccità, desertificazione e quindi miseria diffusa, non hanno resistito al canto di sirene della predicazione salafita ed è iniziata così una penetrazione islamista nelle zone rurali del Mali. Incursioni dei Fulani e reazioni dei Dogon e la violenza ha iniziato ad aumentare giorno dopo giorno trascinando in una spirale di sangue l’intera regione. Stando a quanto raccontano i Dogon il momento che ha dato inizio alla guerra, che sta attanagliando la loro terra, è riconducibile all’ottobre del 2015 quando i Peul uccisero il celebre capo degli ”chasseurs” Dogon Souleymane Guido, detto Bahaga. Da quell’episodio c’è stata poi un’escalation di assalti e massacri. Human Rights Watch a febbraio ha stilato un rapporto all’interno del quale, allegando testimonianze che riportano di massacri compiuti sia dai Dogon che dai Peul, equipara le violenza commesse dai due gruppi. Che anche i Dogon si siano macchiati le mani e abbiamo commesso atrocità per rappresaglia è innegabile, come dimostra l’attacco compiuto da questi contro il villaggio Peul di Ogassougou nel marzo del 2019 durante il quale sono morte oltre 150 persone. L’obiezione che fanno i Dogon è quella di sentirsi vittime costrette a ricorrere alla violenza per non soccombere e che evidenziano il fatto che a combattersi ci sia da un lato una formazione di guerriglieri addestrati che impugnano armi automatiche e dall’altro contadini che imbracciano vecchi fucili da caccia e si spostano a piedi o con vecchie moto. Mentre massacri e scontri si registrano giorno dopo giorno, ai giornalisti è impedito l’accesso alle zone travolta dalle ostilità e le uniche informazioni arrivano attraverso messaggi e video diffusi con WhatsApp che mostrano violenze e barbarie senza limiti che si consumano quotidianamente: case e villaggi dati alle fiamme, intere famiglie trucidate, capi di bestiame abbattuti. L’equilibrio etnico in Mali è andato in frantumi, il futuro dell’intera regione è sempre più precario e non sembrano esserci argini concreti contro l’espansionismo salafita. E mentre contingenti internazionali e forze di interposizione si concentrano nelle regioni settentrionali del Paese, nella zona della falesia di Bandiagara sta consumandosi un massacro silenzioso che ha già spinto analisti e ricercatori a mettere in guardia il mondo sul concreto rischio che questa guerra, tra i Dogon, 250mila, e i Peul, 25 milioni, possa trasformarsi in un genocidio.
· Shoah ed Antisemitismo.
Dagospia il 14 febbraio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gent.mo Dagospia, sono portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, e vorrei dire in tutta franchezza che l'allarme dei media sull'antisemitismo mi pare eccessivo. Capisco il desiderio di fare notizia, ma il fascismo non è alle porte. Le leggi razziali neppure. Contrariamente a Germania e Francia, in Italia gli ebrei non vengono picchiati o uccisi. Non ci sono politici rilevanti che negano la Shoah o fanno dell'antisemitismo la loro politica. E io, come italiano, ne sono orgoglioso e ho il dovere morale di dirlo, anche se va contro quello che troppi media vogliono sentirsi dire. Esiste dell'intolleranza antiebraica in Italia? certo che sì, ed è sempre troppa. Ma quell'immagine di antisemitismo che traspare dai nostri media non corrisponde al paese reale. Non si cura l'antigiudaismo attribuendo agli italiani colpe che non hanno. Abbraccio con affetto e ringrazio chi mette in prima pagina le scritte antisemite, ma consideriamo che c'è anche il rischio dell'effetto emulazione. Proviamo a vedere che succede se proviamo a abbassare i toni, almeno per qualche settimana. Grazie e shalom. Davide Riccardo Romano
Abu Mazen: «Tagliamo tutti i rapporti con Stati Uniti e Israele». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Davide Frattini. Abu Mazen e i suoi consiglieri da due anni non incontrano Jared Kushner. Pochi giorni fa il presidente palestinese si è rifiutato di parlare al telefono con Donald Trump. Adesso il raìs sembra ufficializzare la rottura dei rapporti, non solo con la famiglia acquartierata alla Casa Bianca: «Interromperemo tutte le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti», proclama dal Cairo dove è in corso una riunione d’emergenza della Lega Araba. Il leader succeduto a Yasser Arafat dichiara anche di essere pronto a eliminare qualunque contatto con Israele e a cancellare la firma apposta da proprio da Arafat sotto agli accordi di Oslo assieme al premier israeliano Yitzhak Rabin. «Non passerò alla Storia come l’uomo che ha svenduto Gerusalemme». Lo sfogo rabbioso del presidente palestinese arriva dopo che martedì Trump ha presentato la «Visione per la pace», al suo fianco il premier Benjamin Netanyahu: gli israeliani hanno da subito abbracciato il piano americano, molto favorevole alle loro richieste. Il piano è stato rigettato anche dalla Lega Araba. Abu Mazen non può accettare che Gerusalemme resti «capitale indivisa» dello Stato ebraico – come indicano le 80 pagine – mentre ai palestinesi andrebbero le zone che non fanno parte della municipalità e sono al di là della barriera di sicurezza. Il presidente ha 84 anni, continua a fumare una sigaretta dietro l’altra nonostante le condizioni di salute. Si oppone all’iniziativa, per lui è una lotta esistenziale. Eppure il meccanismo per sciogliere l’intesa di Oslo – e quindi l’Autorità palestinese – è complesso. Soprattutto è improbabile che il raìs spinga la rottura fino a interrompere il coordinamento tra le sue forze di sicurezza e l’esercito israeliano. È vero che la collaborazione fa comodo a tutti e due, senza il supporto di Tsahal però anche Abu Mazen rischia di perdere il controllo sulla Cisgiordania a favore degli avversari di Hamas.
Intervista a Efraim Zuroff: “E’ l’antisionismo la nuova maschera dell’antisemitismo”. Umberto De Giovannangeli il 5 Febbraio 2020 su Il Riformista. «L’indignazione non può essere a intermittenza, legata al momento, in reazione a fatti particolarmente gravi, siano scritte vergognose come quelle apparse in Italia, o le continue profanazioni dei cimiteri ebraici o le brutali aggressioni contro ragazzi “colpevoli” di portare la kippah. L’indignazione non deve essere una medicina salva-coscienze, tanto per dirsi “io non sono uno di quei pazzi e non li giustifico”». A sostenerlo è Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. Dal suo ufficio, Zuroff coordina lo sforzo in tutto il mondo del Centro Wiesenthal per individuare i criminali di guerra nazisti e consegnarli alla giustizia. Negli ultimi quattro decenni, Zuroff ha personalmente dato la caccia e portato in tribunale decine di ex nazisti e collaboratori, da ufficiali a semplici guardie di campo passando per comandanti dei campi di sterminio. Tutti loro si erano rifatti una nuova vita dopo il 1945. Solo qualche giorno fa, i leader mondiali si sono riuniti a Gerusalemme per celebrare i 75 anni della liberazione di Auschwitz. Sono riecheggiate parole di indignazione e il ripetere “mai più”. Ma basta l’indignazione per contrastare l’antisemitismo che rialza la testa in Europa? No, non può bastare. L’indignazione è una reazione immediata ad un fatto che si avverte particolarmente grave, che va oltre il livello di tollerabilità. L’indignazione può essere la leva per far scattare l’allarme generale, ma se resta fine a se stessa diviene solo una medicina per tranquillizzare la coscienza. Oggi l’Europa non ha bisogno di “tranquillanti’” ma di ben altro…
Di cosa ha bisogno dottor Zuroff?
«Della consapevolezza che l’odio razzista e antisemita non solo non è stato estirpato ma che rischia di diventare un cancro capace di minare mortalmente le società democratiche. Vede, per noi del Centro Wiesenthal la memoria di ciò che ha significato l’odio verso l’Ebreo l’abbiamo mantenuta, coltivata, perché siamo convinti che senza memoria non c’è futuro. Sui nostri tavoli continuano ad arrivare notizie di episodi di antisemitismo che scandiscono la quotidianità in Europa: cimiteri profanati, lapidi distrutte o imbrattate con i simboli nazisti o con frasi dispregiative verso gli Ebrei, bambini picchiati solo perché vanno in sinagoga o indossano la kippah… Questi fatti, tutt’altro che isolati, dovrebbero far riflettere tutti, non solo chi ha responsabilità politiche e istituzionali, ma anche i mezzi d’informazione e l’opinione pubblica; riflettere in particolare sul contesto nel quale l’odio cresce alimentandosi di vecchi stereotipi e mascherandosi sotto nuove vesti…»
Quali sarebbero queste “nuove vesti” dell’antisemitismo?
«L’antisionismo. Imperante sui social, o nelle scritte che inneggiano alla lotta contro i “sionisti assassini”. Ecco, questo antisionismo maschera l’antisemitismo, perché alla fine ciò che s’intende mettere sotto accusa, non è la politica di un Governo ma l’esistenza di uno Stato e del suo popolo. Si deve avere se non il coraggio, quanto meno l’onestà intellettuale di definire le matrici dell’antisemitismo, oggi: e una di queste è il radicalismo islamista. Denunciarlo non significa sostenere l’equazione musulmano = antisemita, ma mettere in evidenza come un clima di odio verso gli Ebrei cresca in ambienti segnati dal fondamentalismo islamico. Lo vediamo monitorando i loro siti e quelli di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra in Europa. Cambiano i toni, i simboli, ma il messaggio veicolato è sempre lo stesso: senza gli Ebrei non solo la Palestina sarebbe libera ma il mondo sarebbe migliore. Quello che propagandava Goebbels e che oggi torna di attualità: la guardia è stata pericolosamente abbassata, il Mein Kampf si vende liberamente in tante librerie europee o si può acquistare via internet. Partiti che si ispirano al nazifascismo, e che in funzione antisemita abbracciano la causa palestinese con argomenti che si ritrovano nella propaganda jihadista, vengono tollerati, legittimati con la consolatoria affermazione che rientrando nel gioco democratico possono essere contenuti…»
E invece?
«Invece avviene il contrario. Perché da questa legittimazione, questi movimenti traggono forza, si presentano come forze nazionali, estendono la loro propaganda, additando i diversi da sé come dei nemici contro cui fare fronte. Ecco allora ritornare di attualità la figura dell’Ebreo usurpatore, che ha in mano la finanza mondiale decidendo le sorti delle varie comunità nazionali se non del pianeta. Questi messaggi attecchiscono soprattutto tra le giovani generazioni, quelle più esposte ad una propaganda pervasiva…»
Basta la repressione per contrastare il nuovo antisemitismo?
«Certo che no, ma questa considerazione non deve in alcun modo giustificare il lassismo o l’indulgenza verso quei gruppi, partiti, movimenti che fanno dell’antisemitismo, comunque declinato, il proprio elemento identitario. Questi movimenti vanno banditi dal consesso democratico perché della democrazia, intesa come rispetto e difesa del pluralismo culturale, ideale, religioso, sono nemici mortali. Quando faccio questi discorsi, qualche amico europeo mi dice «Efraim hai ragione, ma se li mettiamo fuorilegge rischiamo di farne delle vittime»…»
E lei come risponde a questa osservazione?
«Una democrazia che crede ancora nei suoi valori fondativi, in principi che sono stati alla base della civiltà europea, non deve aver paura di difendersi da quanti quei valori e quei principi li osteggiano apertamente e vorrebbero cancellarli. Democrazia non significa che tutto sia lecito in nome della libertà di opinione. No, le cosiddette “opinioni” di chi scrive “morte agli Ebrei, morte a Israele”, altro non sono che incitamento all’odio. Chi fa questo, chi torna a far circolare i “Protocolli dei Savi di Sion”, non è meno colpevole di quelli che picchiano ragazzi ebrei o massacrano fino alla morte, come è avvenuto non molto tempo fa in Francia, un’anziana signora scampata ad Auschwitz. I mandanti, quale che sia l’ideologia che li ispira, sono più pericolosi degli esecutori».
Dottor Zuroff, lei dirige il Centro Wiesenthal, l’uomo che ha legato la propria, straordinaria esistenza alla caccia ai nazisti. Un impegno che ha caratterizzato anche la sua di vita. Cosa c’è alla base di questo impegno?
«Potrei risponderle dicendo che per capire bisognerebbe almeno una volta nella vita, visitare lo Yad Vashem o raccogliersi nel Mausoleo dedicato ai bambini, 1,5 milioni, uccisi nei campi nazifascisti. Ma non è solo per loro, per onorare la loro memoria, che è nato il Centro Wiesenthal, il cui impegno non è legato soltanto alla caccia ai nazisti rimasti in vita. Il nostro impegno guarda al futuro, perché sappiamo, avendolo combattuto per una vita, che quella tragedia potrebbe ripetersi, in forme diverse, certo, ma potrebbe ripetersi. Il tempo passa per tutti, e tra non tanto, i sopravvissuti ai lager lasceranno questa terra. Ma con loro non devono portare la memoria di ciò che ha significato l’antisemitismo, delle atrocità consumate in suo nome. Abbiamo il dovere di far vivere quella memoria, trasmettendola ai giovani. E darne riconoscimento a quanti a questo hanno dedicato la loro esistenza, a mantenere in vita una memoria collettiva che non va sepolta nell’oblio”».
Antisemitismo il razzismo all’italiana rimosso per 50 anni. Guido Neppi Modona il 2 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Sembra ormai chiaro che gli oltraggi e gli altri segnali di stampo antisemita delle ultime settimane non sono episodi occasionali, ma sono frutto di una pericolosa miscela di ignoranza, di frustrazione e di odio che merita immediato e forte contrasto. Per meglio inquadrare le attuali manifestazioni di antisemitismo è opportuno richiamare alla memoria la vergogna delle italianissime leggi antiebraiche del 1938, volute da Mussolini in piena autonomia dall’alleato nazista. Allora come adesso le scuole iniziavano nei primi giorni di settembre e non fu quindi casuale che i primi decreti contro gli ebrei siano stati emessi in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico, espellendo da tutti gli istituti di istruzione pubblici, dagli asili all’Università, gli insegnati e gli studenti ebrei. In effetti, le scuole furono le sedi in cui divampò con particolare virulenza e aggressività la propaganda antiebraica. Il Il 17 novembre 1938 venne poi emesso il testo legislativo fondamentale per la difesa della razza italiana, che insieme a sempre più crudeli e vessatorie circolari ministeriali condannò gli ebrei ad una vera e propria morte civile, privandoli di tutti i diritti e emarginandoli da qualsiasi rapporto sociale. Antisemitismo, il razzismo all’italiana rimosso per 50 anni. Indifferente, voltò la testa dall’altra parte, ma non pochi uomini di cultura, alti magistrati, rettori delle università, senza esserne né richiesti né sollecitati, appoggiarono entusiasticamente le leggi contro gli ebrei. Fu quello il periodo della privazione dei diritti, a cui fece seguito dopo l’ 8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale e la nascita della nazi- fascista repubblica sociale italiana, il più tragico periodo della persecuzione delle vite, mediante la deportazione e lo sterminio nei campi di concentramento della Germania e della Polonia, ove perirono oltre 7000 ebrei. L’italianissima persecuzione dei diritti agevolò grandemente la successiva persecuzione delle vite attuata dai nazi- fascisti, si può dire che ne fu la logica e necessaria premessa. Per fortuna, in quegli anni terribili dal 1943 al 1945 non pochi furono gli italiani che aiutarono gli ebrei per sottrarli alla deportazione e alla morte nei campi di sterminio. Ebbene, per oltre un cinquantennio dopo la Liberazione questa oscura e vergognosa pagina della storia italiana è stata completamente rimossa dalla memoria collettiva. Nell’Italia repubblicana per almeno tre generazioni non si è più parlato del razzismo italiano e lo sterminio degli ebrei è stato addebitato esclusivamente alla ferocia e alla brutalità dell’occupante tedesco. Non vi è stato alcun tentativo di vaccinare la popolazione dell’Italia repubblicana, a partire dai giovani, dai germi e dai veleni sempre latenti del razzismo. Se dalla scuola era partita nel 1938 la persecuzione contro gli ebrei voluta da Mussolini, è proprio nella nostra scuola degli anni 2000 che vanno iniettati e fatti crescere gli anticorpi per contrastare qualsiasi manifestazione di razzismo, non solo gli oltraggi contro gli ebrei. Nel 1938 si trattò di un razzismo di stato, voluto e imposto da un regime totalitario; almeno per ora sappiamo poco su chi sta diffondendo i germi del razzismo antiebraico, ma sembra trattarsi di un fenomeno dal basso, che presumibilmente si sta sviluppando negli strati pieni di rabbia, più frustrati e più colpiti dalla profonda crisi della società italiana, alla ricerca di capri espiatori, quali sono stati nei secoli gli ebrei e nelle intenzioni di qualcuno potrebbero divenire anche gli immigrati extracomunitari. La senatrice Liliana Segre parlando pochi giorni orsono al Parlamento europeo di Bruxelles, a chi le chiedeva come mai si parli ancora di antisemitismo, ha spiegato con grande lucidità e saggezza che insiti nell’animo dei “poveri di spirito” ci sono sempre stati razzismo e antisemitismo, ma non “era il momento politico” per tirarli fuori, ma “poi arrivano i momenti più adatti, corsi e ricorsi storici, in cui ci si volta dall’altra parte”. Ebbene, compito della scuola – canale privilegiato di comunicazione tra i giovani, la famiglia e la società civile – deve essere quello di ricostruire e spiegare quali sono state nella storia le vicende più tragiche, assurde, pretestuose e strumentali del razzismo, a partire da quelle a noi più vicine, sì che nessuno volti più la testa dall’altra parte di fronte a quei “poveri di spirito” che continueranno a fare professione di antisemitismo o di qualsiasi altra forma di razzismo.
Intervista a Ruth Dureghello: “Antisemitismo non si fa solo con la memoria”. Umberto De Giovannangeli de Il Riformista 2 Febbraio 2020. Una fotografia inquietante di una società, in parte, malata. E senza memoria. Dal 2004 a oggi – rileva l’ultimo rapporto di Eurispes presentato giovedì all’Università La Sapienza di Roma – è aumentato il numero di coloro che pensano che la Shoah non sia mai avvenuta: erano solo il 2,7%, oggi sono il 15,6%. In aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche chi ridimensiona la portata della Shoah dall’11,1% al 16,1%. Inoltre, secondo l’indagine, riscuote nel campione un “discreto consenso”, 1 italiano su 5, l’affermazione secondo cui «molti pensano che Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio» (19,8%). Secondo la maggioranza degli italiani, recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati, che non sono indice di un reale problema di antisemitismo nel nostro Paese (61,7%). Parte da qui l’intervista concessa a Il Riformista da Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana.
Cosa racconta il rapporto Eurispes soprattutto nella parte dedicata all’antisemitismo in Italia?
«Per certi versi ciò che emerge è la dimostrazione allarmante del fallimento di una società intera che ha pensato, sbagliando, di poter contrastare l’antisemitismo facendo un esercizio di memoria che però è stato delegato al ricordo dei testimoni, dei sopravvissuti ai lager nazisti, senza una riflessione comune e una analisi puntuale di come la società civile stia pericolosamente degenerando su modelli di superficialità, individualismo e strumentalizzazione della stessa memoria. Mi lasci aggiungere che questi dati ci preoccupano ma non ci sorprendono. E questo perché da alcuni anni abbiamo la chiara percezione che attorno alla memoria della Shoah stia venendo meno un presidio culturale e questo nonostante l’incessante lavoro delle istituzioni, delle scuole e delle comunità ebraiche. I dati Eurispes devono quindi sollecitare una riflessione generale su come trasmettere alle prossime generazioni la storia della Shoah, anche nella prospettiva di quando verranno a mancare tutti i testimoni diretti. Il negazionismo non è solo una offesa per gli ebrei ma una volgare manipolazione della storia che deve preoccupare l’intera società».
Senza memoria non c’è futuro, ammoniva il premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah. Ma oggi si sta facendo il dovuto per sconfiggere l’oblio?
«Come comunità ebraica cerchiamo di fare molto, ma se questo lavoro non è sostenuto, condiviso, presidiato anche dalle istituzioni che ne hanno la primaria responsabilità, il rischio è quello di non essere ascoltati, e soprattutto di assistere, come purtroppo stiamo vedendo, a nuove e diverse forme di antisemitismo, razzismo, negazione e banalizzazione del Male».
Tra queste nuove forme di antisemitismo c’è anche l’antisionismo?
«Assolutamente sì. Perché negare il diritto dello Stato ebraico di esistere, proprio per la sua connotazione ebraica, è di fatto il disconoscimento del diritto di esistere del popolo ebraico. Non riuscendo a colpire gli ebrei nelle forme e nei modi di quel terribile passato, si è costruito un modello di negazione di esistere attraverso la negazione del diritto di esistere dello Stato ebraico».
Quando si fa riferimento al futuro, il discorso non può non cadere sui giovani. Come comunità ebraica siete molto sensibili e attivi su questo tema, ma quali sono, dal vostro punto di vista, i limiti, le difficoltà, incontrati in questo lavoro?
«È un lavoro che deve essere costante e non può essere relegato a singole occasioni, quali i “Viaggi della Memoria” che sono peraltro privilegio di pochi, o affidarsi alla buona volontà di comunicatori, insegnanti o singoli rappresentanti, ma deve essere invece un impegno e un monito costante e una priorità del dibattito e un’azione che punti a sconfiggere i seminatori di odio antisemita e razzista».
Perché l’Ebreo è ancora oggi per questi seminatori di odio l’emblema di una diversità che viene vissuta e affrontata come una minaccia da estirpare?
«Perché di fronte alle diversità, e chi meglio degli ebrei la rappresenta da millenni, non c’è una cultura di riconoscimento e di riconoscenza, sì di riconoscenza, ma anzi la diversità fa ancora paura e permette di infondere insicurezza e indebolire la coscienza di molti. Insisto su questo punto, perché alimentare l’idea della diversità come pericolo, come minaccia, diventa lo strumento per raccogliere consensi, aggregare e reclutare forze e persone al servizio delle ideologie più pericolose».
Se dovesse individuare tre campi su cui convogliare un’azione costante e propositiva per contrastare l’antisemitismo e l’odio verso le diversità, quali indicherebbe?
«La scuola, i social e una attenzione particolare al linguaggio comune e all’utilizzo delle parole, che non sono solo strumenti di divulgazione del pensiero ma possono diventare armi pericolose».
Se dovesse raccontare in breve a un millennial cosa è stata la Shoah, come la descriverebbe?
«Come la volontà di un continente intero di sterminare un popolo, cancellandone ogni traccia nel presente e nel passato, nelle forme e nei modi più disumani che la Storia abbia conosciuto».
«Qui ebrei», la scritta comparsa sulla casa del figlio di una ex deportata nei campi di sterminio. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Mondovì, lo sfregio alla staffetta partigiana Lidia Rolfi. Condanna unanime, aperta inchiesta. La stella di Davide come quella usata dai nazisti per identificare gli ebrei. E la scritta antisemita “Juden hier”, qui abita un ebreo. Le frasi sono state scritte la notte scorsa a Mondovì, in provincia di Cuneo. A pochi giorni dal Giorno della Memoria, il 27 gennaio, sono comparse sulla porta dell’abitazione di Lidia Beccaria Rolfi, staffetta partigiana, deportata a Ravensbruck come politica e testimone dell’Olocausto. In quella casa ora vive il figlio Aldo che ha già sporto denuncia contro ignoti. «Ho attraversato questa porta molte volte. La scritta è apparsa oggi, dopo che Aldo è intervenuto su un giornale locale per ricordare sua madre. Al di là della patente ignoranza - Lidia è stata una deportata politica - è uno dei molti segnali che ci dovrebbero fare alzare la voce per ricordare a tutti che essere antifascisti è il primo dovere della memoria che abbiamo» commenta lo storico Bruno Maida che con Lidia Rolfi ha scritto diversi libri sulla deportazione, l’ultimo nel 1996. Il figlio di Lidia, Aldo, oggi, è fortemente impegnato nel tramandare il messaggio e la testimonianza della madre. Per questo, anche se non di origine ebraica, Aldo Rolfi, ha scritto una riflessione sulla memoria e sull’antisemitismo su un giornale locale. I proprietari dell’abitazione hanno denunciato l’episodio ai carabinieri. Indaga anche la Digos di Cuneo. Staffetta partigiana, dopo la deportazione, Lidia Beccaria Rolfi lavorò per l’Istituto Storico per la Resistenza di Cuneo e per l’Associazione nazionale ex deportati. Nel ‘78 scrisse «Le donne di Ravensbruck», prima opera in italiano sulla deportazione femminile nei campi di concentramento della Germania nazista. Nel ‘97 uscì postumo «Il futuro spezzato», un saggio sull’infanzia durante la dittatura, con l’introduzione di Primo Levi. Peraltro la famiglia Rolfi non è di origine ebraica.
Mondovì, la scritta in tedesco «Qui ebrei» sulla porta dell’ex deportata. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Mondovì, lo sfregio alla staffetta partigiana Lidia Rolfi. Condanna unanime, aperta inchiesta. Da Mondovì fu costretta ad andarsene e a Mondovì, cittadina medievale adagiata fra le Langhe e le Alpi, nei mesi bui della prigionia promise a se stessa di tornare: «Voglio vivere per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno». Lidia Rolfi, staffetta partigiana, prigioniera politica e a lungo insegnante in questa terra piemontese di resistenza, riuscì nell’intento e così testimoniò al mondo l’inferno di Ravensbruck, il campo di concentramento tedesco dove fu deportata il 30 giugno del 1944. Succede che oggi, 76 anni dopo, nei giorni dedicati alla memoria dell’Olocausto, siano tornati anche i simboli antisemiti: «Juden Hier», qui ci sono gli ebrei, e la stella di David. È successo nella notte fra giovedì e venerdì scorsi proprio a casa di Lidia Rolfi, mancata nel 1996, dove oggi vive il figlio Aldo. Qualcuno ha imbrattato la porta d’ingresso mentre tutti dormivano. Se n’è accorta la compagna di Aldo alle sette del mattino, mentre andava di corsa al lavoro. Ha visto la scritta, l’ha fotografata e gliel’ha inviata su WhatsApp. Lui ha aperto il cellulare un paio d’ore dopo e da lì è iniziata una giornata convulsa. Carabinieri, Digos, sopralluoghi, testimonianze. La procura ha aperto subito un fascicolo. «Stiamo indagando per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di odio razziale, 604 bis, e lo stiamo facendo senza escludere nulla», ha detto con una certa prudenza il procuratore di Cuneo, Onelio Dodero. Al momento non ci sono indagati. Ma l’episodio è stato preso in seria considerazione dagli inquirenti, che da queste parti non ricordano precedenti. «Mai avuto a che fare con gruppi estremisti di destra», ricordano alla Digos. È stato naturalmente prelevato un campione della vernice nera della scritta per essere analizzato e si stanno controllando le telecamere della zona.Va anche detto che i responsabili del gesto un errore l’anno commesso: la famiglia Rolfi non è infatti ebrea. È un simbolo della resistenza, questo sì. Alla staffetta partigiana Lidia è intitolata una scuola primaria e una via, la stessa dove si trova casa presa di mira l’altra notte. «Mondovì non è un città razzista ed episodi di questo genere non ce ne sono mai stati, solo una svastica al cimitero tanti anni fa», spiega il sindaco Paolo Adriano che parla di «fatto gravissimo». Lui non crede alla ragazzata, piuttosto a un clima generale che sta alimentando rigurgiti di antisemitismo. Il pestaggio e le scritte di Roma contro Anna Frank, lo sfregio al Giardino dei giusti di Milano, le minacce alla senatrice Liliana Segre. In vista della Giornata della memoria, il settimanale locale «Provincia Granda» ha dato ampio spazio a Lidia Rolfi, ospitando un intervento del figlio e alcune interviste della madre, che sui lager ha scritto molto e un libro su tutti: «Le donne di Ravensbrück: testimonianze di deportate politiche italiane». «La violenza non è morta l’8 maggio del 1945, non è morta all’apertura dei lager, la violenza continua», ricordava oltre trent’anni fa con un refrain che oggi risuona come un triste presagio. Ieri è stata naturalmente una giornata di reazioni sdegnate. A partire da quella dello storico e docente universitario Bruno Maida, assiduo frequentatore di casa Rolfi: «Ho attraversato questa porta mille volte. Ci abitava la mia amica Lidia. È uno dei molti segnali che ci dovrebbero fare alzare la voce per ricordare a tutti che essere antifascisti è il primo dovere della memoria». Unanime la condanna del mondo politico. «Ecco dove porta la cultura dell’odio», è stata la sintesi di Nicola Zingaretti. «Sono ebrea anch’io», hanno scritto in un un post-it incollato sulla buca delle lettere di casa Rolfi.
Chiara Viglietti per la Stampa il 25 gennaio 2020. Primo Levi, dopo Auschwitz, veniva spesso qui. Da Torino a Mondovì, provincia di Cuneo. Saliva le scale, attraversava l’uscio della casa di Lidia, e si sedeva in cucina. Lì riempiva il silenzio con l’unica persona che lo avrebbe capito: una sopravvissuta come lui, Lidia Beccaria Rolfi. La sua casa, nella via che porta oggi il suo nome a vent’anni dalla morte, l’altra notte è stata profanata. “Juden hier”: qui ci stanno gli ebrei. Così qualcuno ha sfregiato di orrore la porta dei ricordi. Sotto ci ha messo l’altra stigmate: la stella di David. Fa male sempre. Nei giorni della Shoah ancora di più. E poco importa se il bersaglio fosse sbagliato: Lidia Beccaria Rolfi non era ebrea. Maestra, staffetta partigiana, fu tradita da una spia fascista in una vallata del Cuneese, internata per un anno a Ravensbrück come prigioniera politica. A guerra finita tornò. Ma quell’orrore, anni più tardi, si trasformò in una scrittura senza sconti, nata come un modo per guardare dentro l’inferno e raccontarlo. E, se possibile, sopravvivergli. Esattamente come Primo Levi. «Lo ricordo, Primo, mentre arrivava a Mondovì per salutare mamma. Si sedevano e parlavano. Poi calava il silenzio. Ed era un momento loro, che nessuno poteva condividere. In un certo senso sono rimasti là, in un lager, tutti e due. Non ne sono mai più usciti» ricorda il figlio di lei, Aldo Rolfi. A spezzare quel legame, nato sulle ceneri dell’indicibile, fu infine il suicidio di lui. Oggi è Aldo, testimone di quel dialogo a due voci, a ricordare. E lo fa come sua madre, nelle scuole e tra gli studenti. Vivendo nella casa che è stata di Lidia. E poi tornando ogni anno in pellegrinaggio al «campo di mamma», come chiama lui Ravensbruck. «A casa nostra si parlava sempre dei campi. Io sono cresciuto a pane e deportazione. Mamma non mi ha mai nascosto nulla», ricorda lui. Non è sempre stato così. Non nella Mondovì del Dopoguerra e non in una famiglia contadina, dove le donne erano nate per essere mogli o madri. Non sopravvissute a un campo di concentramento. Allora meglio nascondere la polvere sotto il tappeto. Quel mondo, contadino, cuneese, in fondo doveva già fare i conti con la tragedia di Russia. I deportati, invece, erano ancora un’altra storia: raccontavano cose indicibili, troppo disumane per essere di questo mondo. Diventeranno parole e verità con lei. Ma solo anni più tardi. Come per Liliana Segre. All’inizio solo gesti quotidiani ricordavano che da certe cose non si guarisce mai. Come quella dispensa di Lidia, piena zeppa, perché la fame dei lager non te la togli di dosso. Poi altre piccole regole: guai a sprecare. E guai a non mangiare di tutto. Un’economia mentale che non ha mai abbandonato la prima donna in Italia a scrivere di campi di concentramento. Era il 1978 quando a doppia firma, sua e di Anna Maria Bruzzone, uscì le Donne di Ravensbrück, seguito alcuni anni dopo da “L' esile filo della memoria”, racconto autobiografico. Lidia morì a 71 anni, nel 1996. La sua città non l’ha mai dimenticata. E ieri, sull’onda dell’emozione, tantissimi sono stati i messaggi di solidarietà e stima che, dalla politica alle istituzioni locali, hanno stigmatizzato l’offesa alla sua memoria. Dal Governo con le ministre Lucia Azzolina «profondamente turbata, quella scritta è un atto vergognoso. Con questo episodio si è superato il limite» e Fabiana Dadone che ha parlato di «un gesto che mi fa particolarmente male, visto che quella è la mia città» e il governatore del Piemonte Alberto Cirio che ha auspicato che «i responsabili vengano individuati al più presto e puniti con il massimo rigore». Mentre in serata la sua città ha voluto stringere idealmente il figlio Aldo e le parole che Lidia ha lasciato in un abbraccio: con una fiaccolata e un presidio antifascista a cui hanno aderito anche le associazioni partigiane. In ricordo di quella splendida resistenza interiore che dal lager le faceva scrivere: «Voglio vivere per tornare, per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto. E per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno».
Da La Stampa il 25 gennaio 2020. Aldo Rolfi, il figlio di Lidia, oggi è la voce di sua madre. Ed è stato lui, ieri mattina, a denunciare la scritta della vergogna. Rilanciandola anche sui social. Da dove arriva un gesto simile?
«Di imbecilli è pieno il mondo. Forse ho urtato la "sensibilità" di qualcuno. Ho appena scritto una riflessione sul giorno della memoria pubblicata su un giornale locale. Lasciando spazio all' analisi, profetica, che mia madre aveva fatto anni prima su immigrazione e convivenza civile».
Che cosa diceva sua madre di tanto scandaloso?
«Che aveva paura, e lo diceva in un' intervista del 1993, di questa inversione della destra che sta emergendo perché non siamo stati sufficientemente attenti».
E che pensava dell' immigrazione?
«Testuali parole: che ci piaccia o no siamo destinati a diventare Paesi multirazziali. Dobbiamo iniziare a vedere le persone che hanno pelle o tradizione diversa da noi come uomini. E diceva anche che offendere l' uomo è il delitto peggiore che si possa commettere. Perché è quello che lei ha vissuto sulla sua pelle nei lager». Che cosa avrebbe detto Lidia di quello che è appena successo sulla porta di casa sua?
«Credo che si sarebbe fatta prima una feroce risata, perché lei era così, molto ironica e forte. E poi avrebbe detto che abbiamo fallito. Perché se questo è il messaggio dopo l' orrore dei campi, allora è un fallimento per tutti».
E per Lei che cos' è?
«La prova di una regressione generale. Anche del sistema scolastico».
Che c' entra?
«C' entra eccome. Qualcuno vuol mettere mano alla riforma della scuola? Servono meno discorsi celebrativi e più conoscenza. Perché i giovani di oggi sono gli adulti di domani. E io non posso sentirmi chiedere da un insegnante, come è successo in una scuola piemontese, come funzionava il sistema scolastico nei lager». c. v.
Antisemitismo a Torino, scritta choc sui muri: «Crepa sporca ebrea». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Massimo Massenzio. Dopo Mondovì, un altro episodio di antisemitismo nel cortile interno dell’edificio dove vive la figlia di una staffetta partigiana. Nuovo episodio di antisemitismo dopo quello di Mondovì. La scritta «crepa sporca ebrea» è comparsa sui muri di un palazzo di corso Casale, precollina di Torino, dove vive una donna di origini ebraiche, figlia di una staffetta partigiana. «Una frase terribile, soprattutto nel Giorno della Memoria. Termini vecchi, passati, che però fanno ancora male», dice la signora Maria, che ha sporto denuncia in Questura. Sull’episodio indaga la Digos. La scritta è stata realizzata sui muri del cortile interno del palazzo. «Non ho mai fatto mistero delle mie origini, non ne ho mai visto il motivo», racconta uscendo dalla Questura di corso Vinzaglio la donna, molto scossa. «Purtroppo il mio non è il primo caso — sostiene — e questa escalation fa riflettere. Meno male che in tante scuole gli insegnanti, e non solo, educano i ragazzi al rispetto dei veri valori della storia. È una brutta scritta, fa male. Fa tanto male...».
"Crepa sporca ebrea", scritta shock su un palazzo di Torino. L'ingiuria su una casa di corso Casale, dove vive una donna di origini ebree, figlia di una staffetta partigiana. Indaga la Digos. Appendino agli autori: "Affogerete nella vostra ignoranza". La Repubblica il 27 gennaio 2020. Nuovo episodio di antisemitismo dopo quello di Mondovì. La scritta "crepa sporca ebrea" è comparsa oggi sui muri di un palazzo di corso Casale, precollina di Torino, dove vive una donna di origini ebree, figlia di una staffetta partigiana. "Una frase terribile, soprattutto nel Giorno della Memoria. Termini vecchi, passati, che però fanno ancora male", dice la signora Maria, che ha sporto denuncia in Questura. Sull'episodio indaga la Digos. La scritta è stata realizzata sui muri del cortile interno del palazzo. "Non ho mai fatto mistero delle mie origini, non ne ho mai visto il motivo", racconta uscendo dalla Questura di corso Vinzaglio la donna, molto scossa. "Purtroppo il mio non è il primo caso - sostiene - e questa escalation fa riflettere. Meno male che in tante scuole gli insegnanti, e non solo, educano i ragazzi al rispetto dei veri valori della storia. E' una brutta scritta, fa male. Fa tanto male...". Duro il commento della sindaca Chiara Appedino: "75 anni fa finiva l'orrore dello sterminio ebraico. Oggi, esattamente nella stessa data, un muro della nostra città viene sfregiato da scritte antisemite. Ma sapete qual è la differenza? Che la storia si ripete due volte, la prima in tragedia, la seconda in farsa. E mentre la Città cancellerà quelle scritte - aggiunge - voi continuerete ad affogare nella vostra ignoranza e nel vostro anonimato. Finché le forze dell'ordine non vi troveranno, s'intende", conclude.
La figlia della staffetta partigiana e la scritta antisemita: «Resterà lì, testimonia i nostri tempi». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Massimo Massenzio. Maria Bigliani compirà sessantacinque anni domani. È andata in pensione lo scorso ottobre e vive in una storica casa di ringhiera, sulla precollina di Torino. Sul muro del terzo piano, proprio accanto alla sua porta, qualcuno ha vergato con il pennarello nero una terribile minaccia: «Crepa sporca ebrea». Quella scritta è rimasta lì, anche se la sindaca Chiara Appendino si è offerta di farla cancellare, perché Maria vuole che diventi una «testimonianza importante dei tempi che stiamo vivendo». Per questo, dopo qualche incertezza, ha deciso di rivolgersi agli investigatori della Digos e alla Procura, che adesso ha aperto un fascicolo per minacce aggravate dalla finalità di discriminazione religiosa. Maria è ebrea, e non ha mai fatto mistero delle sue origini. Spesso è andata incontro a prese in giro e sfottò da parte dei compagni di scuola, ma più avanti anche da parte dei colleghi che per anni hanno lavorato insieme con lei nell’ufficio Ambiente del Comune di Torino. Riconosce: «Ho sempre risposto a tutti per le rime, anche quando si trattava di insulti pesanti. Questa volta, però, è diverso. Mia mamma non avrebbe voluto che rimanessi in silenzio». Sua madre era Ines Ghiron Bigliani, coraggiosa staffetta partigiana, protagonista della Resistenza a Roma e a Milano. Era nata ad Alessandria nel 1917, ma la sua famiglia era originaria di Casale Monferrato. «I miei nonni si trasferirono presto a Parigi, dove mia madre ha vissuto fino al 1934», ricorda adesso Maria Bigliani, pescando appunti e fotografie in una scatola di cartone dove conserva tutti i suoi ricordi. «Erano anni difficili e mi raccontava che, appena tornata in Italia, non capiva per quale motivo si dovesse vergognare di essere ebrea», va avanti. «Poi arrivarono le leggi razziali e la nostra famiglia cercò rifugio a Ginevra, ma lei decise di non scappare. Così prima si nascose da alcuni parenti e poi riuscì a raggiungere Roma. È allora che si iscrisse al Partito d’Azione e che le assegnarono l’incarico di portare documenti riservati verso il Nord Italia. Ha corso tantissimi pericoli perché davvero credeva nella libertà e ha cresciuto i suoi tre figli con queste idee». A ottantasette anni Ines Ghiron ha raccolto le sue memorie nel libro Nonna raccontaci la tua vita, che ha dedicato ai suoi nipoti: «Ci ha trasmesso l’orgoglio di essere ebrei — ricorda Maria —. E un altro importante insegnamento è arrivato da Primo Levi, molto amico dei miei genitori, con la sua paura che l’Olocausto e tutte le sofferenze del popolo ebraico fossero dimenticati. Per questo spero che questo gesto orribile, compiuto da persone ignoranti e codarde, non venga scordato in fretta». Rileggendo quelle tre parole scritte proprio sopra il suo campanello, Maria non riesce a non provare una grande rabbia: «Non comprendo come si possano tirare fuori dal passato questi termini. Ho un po’ di paura, ma vorrei davvero che quello che è successo a me servisse d’esempio per i giovani. L’antisemitismo è sempre in agguato, si nasconde anche nelle frasi scherzose e non bisogna mai abbassare l’attenzione». Maria è vedova da cinque anni, ha due figli e dallo scorso ottobre è andata in pensione: «Ho sfruttato Quota 100 e adesso posso concedermi qualche viaggio e dedicarmi alla pittura, la mia grande passione», conclude con un sorriso. «Non sono mai stata in Israele, forse finalmente, dopo tanta attesa, riuscirò ad andarci».
Svastiche e vetri rotti in un bar gestito da una giovane marocchina. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Lilina Golia. Nel giorno in cui si celebra la Giornata della memoria a Rezzato, pochi chilometri da Brescia, si registra un grave rai razzista contro una ragazza di origine marocchina che gestisce il bar Casablanca, in via Garibaldi. Vetrate sfondate, tende rotte, porte divelte e a terra, sul pavimento, una grande scritta, “negra troia”, con tanto di svastica e croce celtica. Madiha, la barista italiana, 36 anni è stata svegliata verso le 2 di notte dall’allarme del bar. Una volta arrivata sul posto, ha visto quanto accaduto, con il bar pesantemente colpito dal raid razzista e sessista. Indagano i carabinieri di Brescia. Le reazioni politiche al gesto non si sono fatte attendere. «Ancora una volta i fantasmi dei rigurgiti neofascisti colpiscono Brescia. Dopo le scritte ingiuriose e gli ordigni messi davanti alla casa del sindaco di Collebeato, reo di ospitare sul suo territorio alcuni immigrati sotto protezione internazionale, ora è il turno di Rezzato, dove un bar gestito da una ragazza di origine marocchina è stato vandalizzato da scritte razziste e inneggianti al nazifascismo. Brescia è una comunità ospitale e democratica, e non può tollerare queste continue provocazioni inaccettabili e violente, tanto più oggi, in una giornata dedicata al ricordo del più infame lascito dei regimi nazifascisti, i campi di concentramento. Nel manifestare la mia personale solidarietà alla ragazza vittima di questa vigliaccata, auspico la ferma reazione della comunità civile bresciana e delle istituzioni democratiche. Queste provocazioni indegne vanno stroncato sul nascere». Lo dichiara Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia della Camera. «Quello che è successo, oggi e non a caso, a Rezzato in provincia di Brescia è un gesto gravissimo che ci addolora. L’ennesimo episodio di violenza e razzismo, l’ennesimo gesto di chi inneggia all’orrore del nazismo. Esprimiamo tutta la nostra solidarietà e vicinanza alla ragazza vittima di questo vile gesto». Lo dichiara il deputato democratico Emanuele Fiano della presidenza del Gruppo Pd della Camera. «Combatteremo insieme questi rigurgiti di neonazismo. Le istituzioni democratiche e repubblicane sono più forti di chi agisce di notte, nell’ombra, per imbrattare muri e distruggere vetrine, e le forze dell’ordine sapranno presto individuarne gli autori. E siamo certi ancora di più oggi, Giorno della Memoria», conclude. «Ignobile e intollerabile. Non si può definire in altro modo il vergognoso atto criminale di stampo razzista contro un bar di Rezzato, in provincia di Brescia. Adesso basta. Contro questi episodi si interverrà con la massima severità. Le forze dell’ordine sono già al lavoro per individuare i responsabili di questo atto vigliacco e spregevole siano individuati al più presto. Alla titolare dell’esercizio commerciale invio la mia piena vicinanza e solidarietà. Fa molto riflettere che un atto del genere avvenga proprio il Giorno della Memoria». Così il viceministro dell’Interno Matteo Mauri.
Torino, scritte naziste sul campanello della figlia di un partigiano: terzo caso in una settimana in Piemonte. I bigliettini adesivi con le scritte e i simboli nazisti. Nuova intimidazione nel quartiere Vanchiglia contro un'attivista dell'Anpi: "Sieg heil", svastica e simbolo delle Ss su due bigliettini. Indaga la Digos. Cristina Palazzo e Jacopo Ricca il 30 gennaio 2020 su la Repubblica. Una nuova scritta nazista è comparsa ieri a Torino. Questa volta nel mirino è finita la figlia di un partigiano del quartiere Vanchiglia che si è trovata sul campanello due bigliettini con frasi ingiuriose in tedesco e una croce uncinata. La signora, attiva nel gruppo dell'Anpi di quartiere, si è rivolta alla Digos della questura di Torino che sta cercando di capire chi possa essere l'autore. Si tratta infatti di persone che conoscono la donna e la storia della sua famiglia. Il padre infatti è stato un partigiano conosciuto in città. Dopo le scritte "Juden hier" a Mondovì e "Crepa sporca ebrea" in via Monferrato a Torino si tratta del secondo episodio a Torino e del terzo in Piemonte in pochi giorni. "Ancora minacce e squadrismo - è il commento della presidente dell'Anpi provinciale di Torino, Maria Grazia Sestero - Il moltiplicarsi di aggressioni e minacce a cittadini antifascisti, presso le loro abitazioni, sta raggiungendo livelli socialmente intollerabili. Mentre aumentano quanti si riconoscono in Mussolini e nelle sue criminali politiche di oppressione e persecuzione degli oppositori politici, degli ebrei e di ogni persona ritenuta “diversa”, in questi giorni dobbiamo purtroppo denunciare un’altra vile minacciai a una donna, iscritta alla nostra associazione, figlia di un partigiano. Un biglietto recante slogan nazisti è stato trovato sul suo campanello del citofono di casa. La vittima ha prontamente denunciato l’accaduto; chiediamo alle autorità competenti di individuare gli autori dell’aggressione perché si interrompa questa catena di violenze". La presidente dell'Anpi sottolinea: "Forze neofasciste e neonaziste, la cui presenza a Torino abbiamo denunciato più volte, hanno portato questi richiami di orrore criminale in una città Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza. Troppa indifferenza si è instillata nell’opinione pubblica, troppo spesso riconoscendo libertà di espressione a chi evoca crimini del passato e introduce nella nostra democrazia germi di violenza che credevamo espulsi con la Liberazione dalla dittatura fascista. Le partigiane e i partigiani dell’Anpi, i tanti antifascisti che condividono nell’Associazione l’eredità della Resistenza chiedono che le forze sociali e politiche facciano dell’antifascismo la barriera a difesa della democrazia e della sicurezza nelle vie e nelle case della città". "L'ennesimo atto vigliacco, l'ennesima azione neonazista e neofascista a Torino. Gesti da non sottovalutare - dice il segretario metropolitano del Pd, Mimmo Carretta, vicepresidente della Commissione speciale del Comune per il contrasto ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza - "sono segnali preoccupanti a cui bisogna rispondere con la solidarietà e la fermezza antifascista. Gesti da non sottovalutare - afferma su Facebook - in un periodo in cui, come dimostra l'indagine Eurispes, si moltiplicano gli italiani che non credono più all'orrore dell'Olocausto e giustificano un dittatore come Mussolini". Carretta invita, "dalle scuole ai quartieri, dai posti di lavoro, alle strade e le piazze" a continuare "a tenere alta la guardia affinché il revisionismo, il neofascismo e il neonazismo non passino".
Da ilmessaggero.it il 31 gennaio 2020. La presa di posizione del sindaco Sala di Milano che ha affisso un cartello davanti alla porta di casa sua per sottolineare la sua posizione antifascista sembra essere contagiosa. Anche un parroco in un paese alle porte di Torino ha attaccato al portone della chiesa un cartello: "Juden hier, qui abita un ebreo, Gesù". Il quotidiano Avvenire ha raccolto la sua testimonianza: «Le persone che passano si fermano, leggono e alcune mi cercano per darmi una sorta di testimonianza positiva. Era quello che mi premeva di più: scuotere le coscienze» dice don Ruggero Marini, parroco della chiesa di San Giacomo di La Loggia. La scelta del parroco fa seguito alle scritte antisemite comparse a Mondovì e a Torino nei giorni scorsi. L'arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, si è mostrato molto preoccupato per questi rigurgiti di antisemitismo. «In tutte le sue forme, ha prodotto tragedie immani che dobbiamo non solo condannare, ma fare in modo che non si ripetano più. È grave che ci troviamo, nel nostro paese, fra la nostra gente, senza più ragioni forti per ricordarci che non solo siamo tutti fratelli, ma che condividiamo cittadinanza e interessi economici, lingua e territori». L'Osservatore Romano ha riportato il fatto di cronaca con un titolo significativo: «Smuovere le coscienze».
Insulti alla barista e svastica «Ho paura, non so se riapro». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Pietro Gorlani. Una svastica al contrario, una croce celtica e una scritta offensiva e razzista. È quello che ha trovato nel sua bar a Rezzato (nel Bresciano) Madiha Khtibari, 36enne di origine marocchina. Proprio ieri, mentre si celebrava il Giorno della Memoria. «È un gesto vergognoso, che mi cambierà la vita. Adesso ho paura, non so se riaprirò il bar» ha detto a caldo la donna con in tasca un diploma da ragioniera e la cittadinanza italiana (è nata qui) e fidanzata con un imprenditore bresciano. Oltre alle offese razziste ha subìto anche ingenti danni al locale: vetrine sfondate, bottiglie di alcolici e latte rovesciate sul bancone, i bicchieri in mille pezzi, il tendone del gazebo divelto. È una scenografia inquietante, che ricorda tempi più bui della vernice usata per scrivere quelle infamie, quella scoperta da Madiha alle 2.40 dell’altra notte. «Mi è arrivato il messaggio d’allarme sul cellulare: pensavo a un furto o a un guasto tecnico» ha spiegato a Radio Onda d’Urto. Invece no. «Nel mio bar non si parla l’arabo, per rispetto nei confronti del Paese in cui vivo. Ma ricevo apprezzamenti insistenti dai clienti e anche minacce verbali». Non solo minacce, ma «anche offese razziste» spiega alCorriere il dipendente egiziano del distributore a fianco: «Madiha gestisce il Casablanca da un anno. È brava, i clienti sono cresciuti molto ma mi ha confessato che negli ultimi mesi dei ragazzi le hanno detto “Marocchina di m...”, rovesciando il caffè sul tavolo. È successo tre volte, l’ultima poco prima di Natale». Madiha però non ha mai sporto denuncia. Inizia a fare caffè alle 6.30 del mattino, soprattutto a operai e camionisti. La clientela è prevalentemente maschile: «Parlano di calcio, politica, donne; io cerco di essere gentile con tutti» dice Madiha, che se la prende anche con «l’omertà» dei vicini. Possibile non si siano accorti di nulla? «Io alle due ho sentito un botto, mi sono affacciato ma non ho visto nulla» spiega Eraldo Archetti, titolare del distributore Agip, che vive sopra il bar. Risposta fotocopia per l’altro vicino, Salvatore Criscuolo, titolare di una pizzeria. Le indagini si rivelano non semplici per i Carabinieri di Brescia: il piazzale non è videosorvegliato. La reazione del paesotto ieri è stata piuttosto tiepida: pochi i residenti arrivati sul posto per portare la loro solidarietà a Mahida. L’amministrazione comunale guidata dal sindaco leghista Giovanni Ventura, con un post su Facebook, le ha espresso solidarietà condannando «il gesto spregevole e miserabile». Molte le reazioni dei politici nazionali. Per Vito Crimi, reggente dei 5 Stelle, viceministro dell’Interno e bresciano d’adozione, «oggi più che mai è nostro dovere ricordare cosa fu l’orrore dell’Olocausto e combattere contro quanti seminano odio e ignoranza». Duro anche il deputato del Pd Alfredo Bazoli, che nel 1974 ha perso la madre nella strage di piazza Loggia: «Ancora una volta i fantasmi dei rigurgiti neofascisti colpiscono Brescia. Auspico la ferma reazione della comunità civile».
Sfondano vetrina e scrivono insulti razzisti con svastica in un bar gestito da una italo-marocchina nel Bresciano. A Rezzato. Qualcuno ha sfondato la vetrina scrivendo insulti sul pavimento, con una svastica e una celtica. "Ho paura, non so se riaprirò", spiega Madhia, la 36enne che gestisce il bar Casablanca. Oriana Liso il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Hanno sfondato la vetrina nella notte e poi sul pavimento hanno lasciato una scritta: 'negra' con una svastica disegnata al contrario e offese sessiste. È accaduto in un bar di Rezzato in provincia di Brescia gestito da una ragazza italiana ma di origini marocchine. Sulla vicenda indagano le forze dell'ordine. L'allarme del Bar Casablanca, che si trova all'interno di una stazione di benzina in via Garibaldi, è suonato alle due della scorsa notte: "Abito in un paese vicino, sono corsa al bar e l'ho trovato in quelle condizioni. Adesso ho paura, non so se riaprirò", racconta Madhia, 36 anni, genitori marocchini ma nata in Italia - "sono bresciana doc", spiega - che ha preso in gestione il bar poco più di un anno fa. Sulla pagina Facebook "Rezzato democratica" si legge: "Durante la scorsa notte ignoti si sono introdotti in un bar di Rezzato sfondando le vetrine e imbrattando i pavimenti con segni e scritte ingiuriose rivolte alla titolare. Segni che stridono con la giornata di oggi dedicata alla memoria delle vittime della Shoah e delle tremende conseguenze del razzismo innalzato a ideologia. Vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza alla titolare condannando con nettezza questo atto vile e razzista. Siamo convinti che le Forze dell’Ordine sapranno individuare al più presto i responsabili perché questo gesto violento non resti impunito". La Digos indaga sulle scritte e sui vandalismi: infatti nel bar sono stati anche spaccati i bicchieri, svuotate le bottiglie dei frigoriferi e tagliate le tende parasole.
"Troppe svastiche sui muri della Puglia", l'Anpi lancia l'allarme da Bari: "Esercitiamo la memoria". Il dato durante emerso durante la cerimonia. La 27enne Sara Acquaviva: "Ci sono alcuni quartieri di Bari, dove CasaPound prosegue i suoi vergognosi attacchinaggi". La Repubblica il 27 gennaio 2020. "Questo Paese ha conosciuto la vergogna terribile delle leggi razziali, l'esclusione dalla vita, la deportazione delle persone in campi di tortura e morte. Nonostante ciò, c'è chi ancora disegna svastiche in città. E' successo pochi giorni fa ad Andria, ma è all'ordine del giorno in città come Foggia o in alcuni quartieri di Bari, dove CasaPound prosegue i suoi vergognosi attacchinaggi, o l'altra notte a Mondovì, perché ormai si sono sdoganati anche i peggiori ricordi della storia del nostro mondo. Alla luce di questi campanelli d'allarme, dobbiamo essere ancora più efficaci nell'esercitare la memoria". E' un passaggio dell'intervento di Sara Acquaviva, Anpi Bari, alla cerimonia in occasione della Giornata della Memoria nel Comune di Bari, nel 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz, dedicata al deportato antifascista barese Filippo D'Agostino, morto nel campo di sterminio nazista di Mauthausen. "Oggi, - dice Acquaviva, 27enne attivista dell'Anpi - tutte le istituzioni e tutti i corpi intermedi sono chiamati a far capire che, come furono gli ebrei le vittime principali della Shoah, la follia potrebbe colpire qualsiasi altro gruppo etnico, politico o sociale, donne, migranti, omosessuali, poveri, attivisti politici, e ciò, in alcune parti del mondo è già in corso. Dobbiamo essere in grado di immaginare risposte concrete ai bisogni delle persone e mettere in pratica l'insegnamento della Shoah".
Stella di David sulla porta di un discendente di una famiglia sterminata nella Shoah. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. Un nuovo episodio di antisemitismo dopo quelli di Mondovì e Torino dei giorni scorsi. Presentata denuncia. Una stella di David sull’ingresso di casa con una freccia che indica il suo cognome sul campanello. A ritrovarla, a Bologna, è stato un uomo, discendente di una famiglia sterminata nella Shoah. Come raccontato al Tgr Rai dell’Emilia-Romagna, «verso le 10 sono andato a prendere il caffè al bar e sui campanelli ho visto questa scritta con il simbolo, la stella di David, con una freccia che va verso il mio nome nel campanello. Ho sentito il cuore battere forte, mi si è stretta la gola e mi sono chiesto “cosa devo fare?”». «Io sono agnostico — ha chiarito — quindi mi sembrava anche strano subire una discriminazione sulla base di una militanza religiosa. Ho perso nella Shoah tutta la famiglia di mio padre tranne lui». L’uomo ha sporto denuncia e annunciato che farà cancellare la scritta. Giovedì due adesivi con la scritta «Sieg Heil», il simbolo delle SS e una svastica, erano state trovate a Torino, nel quartiere Vanchiglia, sul campanello dell’appartamento di una donna iscritta all’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) e figlia di un partigiano, che ha sporto denuncia alla Digos. Solo pochi giorni fa sono stati registrati altri due episodi di antisemitismo: a Mondovì (Cuneo) sulla porta della casa di Lidia Rolfi, ex deportata morta il 17 gennaio 1996 a 71 anni, oggi abitata dal figlio, era apparsa la scritta «Juden hier», «gli ebrei sono qui». E a Torino la scritta «crepa sporca ebrea» era comparsa sui muri di un palazzo di corso Casale, dove vive una donna di origini ebraiche, figlia di una staffetta partigiana. «Una frase terribile, soprattutto nel Giorno della Memoria. Termini vecchi, passati, che però fanno ancora male», aveva chiarito Maria Bigliani, figlia dell’ex deportata, spiegando che non avrebbe fatto cancellare la scritta. Quella che emerge dall’ultimo rapporto Eurispes, diffuso giovedì 30 gennaio, è una fotografia allarmante: è — infatti — in aumento il numero degli italiani che pensa che la Shoah non sia mai avvenuta. Nel 2004 la percentuale era il 2,7%, oggi è il 15,6%. Risultano in crescita, sebbene in misura meno eclatante (dall’11,1% al 16,1%), anche coloro che ridimensionano la portata della Shoah. Inoltre, il 19,8% del campione ritiene che «Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio». Invece, l’affermazione secondo cui l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1%, mentre il disaccordo raggiunge l’83,8%. Aumenta invece il numero di cittadini secondo i quali lo sterminio degli ebrei per mano nazista non è mai avvenuto: dal 2,7% al 15,6%.
Bologna, stella di David sulla porta di un discendente di deportati. Tracciata vicino al campanello di casa. Una freccia indicava il nome dell’uomo. Scattata la denuncia. Valentina Dardari, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Un uomo, residente a Bologna, ha presentato denuncia alle forze dell'ordine dopo aver trovato, tracciata sulla porta di casa sua, una stella di David, con una freccia che indicava il suo cognome sul campanello. L’uomo in questione è un discendente di una famiglia ebrea sterminata nell'Olocausto. Dopo gli episodi di antisemitismo verificatisi a Mondovì e a Torino, avvenuti negli scorsi giorni, un altro triste evento.
Stella di David su una porta a Bologna. La sua testimonianza è stata raccolta dal Tg Rai dell'Emilia-Romagna. Ha così raccontato: “Verso le 10 vado a prendermi un caffè al bar e con mia grande sorpresa ho visto la stella con la freccia che va verso il mio cognome sul campanello. Ho sentito il cuore battere forte e mi si è stretta la gola. Ho pensato alla mia famiglia e mi sono chiesto, sinceramente, e ora cosa devo fare?”. Ha poi spiegato di essere agnostico e ha trovato strano “subire una discriminazione sulla base di una militanza religiosa”. Ha perso nella Shoah tutta la famiglia di suo padre tranne lui. Ha deciso di sporgere denuncia e di far cancellare la scritta, a differenza di altre persone che hanno trovato scritte simili alla sua in Piemonte.
Gli altri episodi. Pochi giorni prima di Bologna, altri tre episodi di antisemitismo: a Mondovì, in provincia di Cuneo, la scritta "Juden hier", che in tedesco significa "qui ci sono ebrei", apparsa sulla porta della casa di Lidia Rolfi, staffetta partigiana deportata nel 1944 nel campo di concentramento tedesco di Ravensbrück e testimone degli orrori dell'olocausto. Adesso in quella casa vive il figlio Aldo, dopo che la donna è morta nel 1996. Il secondo terribile episodio a Torino, dove sui muri di un palazzo di corso Casale è comparsa la scritta “crepa sporca ebrea”. In quella casa vive una donna di origini ebraiche, figlia di una staffetta partigiana. Maria Bigliani, figlia della ex deportata aveva spiegato che non avrebbe fatto cancellare la scritta, ormai vecchia, passata, ma che fa ancora male. L’ultimo è avvenuto giovedì scorso, nel quartiere Vanchiglia di Torino, dove sono stati trovati due adesivi con la scritta “Sieg Heil”, il simbolo delle SS e una svastica. Si trovavano sul campanello dell’appartamento di una donna iscritta all’Associazione nazionale partigiani d’Italia, figlia di un partigiano. La donna ha sporto denuncia alla Digos. La cosa che preoccupa maggiormente è che, come si legge nel 32esimo rapporto dell’Eurispes, per il 61,7% degli intervistati i recenti episodi di antisemitismo non indicherebbero un ritorno del fenomeno. Il 15,6% degli italiani nega la Shoah.
Bologna, stella di David sulla porta di un discendente di vittime della Shoah. L'uomo ha già fatto denuncia ai carabinieri: "La bravata di qualche idiota". Merola: "Bologna non merita questi scempi". Valerio Varesi il 31 gennaio 2020 su la Repubblica. Una stella di David disegnata sul citofono e un freccia a indicare il nome tra i campanelli. E’ l’ennesimo episodio di antisemitismo e questa volta è a Bologna, in un condominio di viale della Repubblica, prima periferia della città, con bersaglio un ex insegnante di origine ebreo-polacca. Si tratta del discendente di una famiglia sterminata nella Shoah. Il simbolo è l’equivalente del tremendo "juden hier" con il quale i nazisti indicavano le case in cui abitavano gli ebrei. L’ex professore ha sporto denuncia ai carabinieri che ora stanno indagando. "Credo si sia trattato di una bravata di qualche idiota per emulare altri episodi", ha commentato la vittima. "Mi rifiuto di pensare che una città inclusiva come Bologna possa aver prodotto una cosa del genere". "Bologna non merita questi scempi e non rinuncerà mai a far valere la forza della memoria, la comunità ebraica è una parte importante della nostra città". Lo ha detto il sindaco di Bologna Virginio Merola. In serata sono giunti gli attestati di solidarietà da parte della neo consigliera regionale Elly Schlein, del presidente del quartiere San Donato Simone Borsari e di numerosi parlamentari di destra e di sinistra.
Torino, scritte naziste sul campanello della figlia di un partigiano: terzo caso in una settimana in Piemonte. I bigliettini adesivi con le scritte e i simboli nazisti. Nuova intimidazione nel quartiere Vanchiglia contro un'attivista dell'Anpi: "Sieg heil", svastica e simbolo delle Ss su due bigliettini. Indaga la Digos. Cristina Palazzo e Jacopo Ricca il 30 gennaio 2020 su La Repubblica. Una nuova scritta nazista è comparsa ieri a Torino. Questa volta nel mirino è finita la figlia di un partigiano del quartiere Vanchiglia che si è trovata sul campanello due bigliettini con frasi ingiuriose in tedesco e una croce uncinata. La signora, attiva nel gruppo dell'Anpi di quartiere, si è rivolta alla Digos della questura di Torino che sta cercando di capire chi possa essere l'autore. Si tratta infatti di persone che conoscono la donna e la storia della sua famiglia. Il padre infatti è stato un partigiano conosciuto in città. Dopo le scritte "Juden hier" a Mondovì e "Crepa sporca ebrea" in via Monferrato a Torino si tratta del secondo episodio a Torino e del terzo in Piemonte in pochi giorni. "Ancora minacce e squadrismo - è il commento della presidente dell'Anpi provinciale di Torino, Maria Grazia Sestero - Il moltiplicarsi di aggressioni e minacce a cittadini antifascisti, presso le loro abitazioni, sta raggiungendo livelli socialmente intollerabili. Mentre aumentano quanti si riconoscono in Mussolini e nelle sue criminali politiche di oppressione e persecuzione degli oppositori politici, degli ebrei e di ogni persona ritenuta “diversa”, in questi giorni dobbiamo purtroppo denunciare un’altra vile minacciai a una donna, iscritta alla nostra associazione, figlia di un partigiano. Un biglietto recante slogan nazisti è stato trovato sul suo campanello del citofono di casa. La vittima ha prontamente denunciato l’accaduto; chiediamo alle autorità competenti di individuare gli autori dell’aggressione perché si interrompa questa catena di violenze". La presidente dell'Anpi sottolinea: "Forze neofasciste e neonaziste, la cui presenza a Torino abbiamo denunciato più volte, hanno portato questi richiami di orrore criminale in una città Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza. Troppa indifferenza si è instillata nell’opinione pubblica, troppo spesso riconoscendo libertà di espressione a chi evoca crimini del passato e introduce nella nostra democrazia germi di violenza che credevamo espulsi con la Liberazione dalla dittatura fascista. Le partigiane e i partigiani dell’Anpi, i tanti antifascisti che condividono nell’Associazione l’eredità della Resistenza chiedono che le forze sociali e politiche facciano dell’antifascismo la barriera a difesa della democrazia e della sicurezza nelle vie e nelle case della città". "L'ennesimo atto vigliacco, l'ennesima azione neonazista e neofascista a Torino. Gesti da non sottovalutare - dice il segretario metropolitano del Pd, Mimmo Carretta, vicepresidente della Commissione speciale del Comune per il contrasto ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza - "sono segnali preoccupanti a cui bisogna rispondere con la solidarietà e la fermezza antifascista. Gesti da non sottovalutare - afferma su Facebook - in un periodo in cui, come dimostra l'indagine Eurispes, si moltiplicano gli italiani che non credono più all'orrore dell'Olocausto e giustificano un dittatore come Mussolini". Carretta invita, "dalle scuole ai quartieri, dai posti di lavoro, alle strade e le piazze" a continuare "a tenere alta la guardia affinché il revisionismo, il neofascismo e il neonazismo non passino".
Il sondaggio di Alessandra Ghisleri, così l’Italia si scopre antisemita: “Gli ebrei hanno troppo potere”. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Secondo un sondaggio della Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, pubblicato sulla Stampa in edicola martedì 14 maggio, l' 1,3 per cento degli italiani pensa che la Shoah sia una leggenda inventata. L' 1,3 per cento potrebbe essere una percentuale fisiologica di imbecilli totali, scrive Mattia Feltri, e tuttavia corrisponde a circa 700 mila italiani maggiorenni - più o meno la popolazione di Palermo, quasi quella di Torino - convinti che Hitler non abbia torto un capello agli ebrei. Un altro dieci e mezzo per cento si limita a sostenere che il terribile consuntivo (sei milioni di ebrei ammazzati) sia stato fortemente esagerato dalla storiografia. Il 6,1 per cento si dichiara "poco favorevole" o "non favorevole" alla religione ebraica. Il 14 per cento degli intervistati ritiene che i palestinesi siano vittime di un genocidio da parte di Israele, l' 11,6 che gli ebrei dispongano di un soverchio potere economico-finanziario internazionale, il 10,7 che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, l' 8,4 che si ritengano superiori agli altri, il 5,8 che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. La sequela di pregiudizi dimostra che la percentuale di aperti antisemiti (6,1 per cento) è molto al di sotto degli antisemiti inconsapevoli, o malamente mascherati. E Alessandra Ghisleri invita a leggere bene i numeri. Intanto l' 1,3 per cento di negazionisti "non è alto, ma mi aspettavo lo 0,2 o lo 0,3, qualcosa del genere". Poi, aggiunge, è impressionante che fra i dichiaratamente antisemiti il 49 per cento abbondante accusi gli ebrei di strapotere finanziario e quasi il 47 di sentirsi una razza superiore, e cioè le pietre angolari su cui il nazismo costruì la sua propaganda.
Eurispes, il rapporto choc: per il 15% degli italiani la Shoah non è mai esistita. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. La Shoah? Per un italiano su sei non è mai esistita. È scritto nel rapporto Eurispes 2020, e a scorrere i suoi dati vengono i brividi, e non soltanto perché il 15,6 per cento degli italiani nega che la Shoah sia mai avvenuta ma anche perché poi c’è un altro 16,1 per cento di italiani che dice sì, la Shoah c’è stata ma non è stata un fenomeno così importante. Nel 2004 il negazionismo riguardava il 2,7 per cento degli italiani . «Sono dati allarmanti che non dobbiamo sottovalutare», dice Matteo Mauri, vice ministro dell’Interno, aggiungendo: «Il negazionismo continua ad infangare la memoria di questa tragedia». Il negazionismo degli italiani non guarda soltanto al passato. Secondo l’Eurispes c’è un fenomeno molto diffuso che riguarda i giorni nostri. Ben il 61,7 per cento, infatti, dichiara candidamente che i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non sono indice di un reale problema. Di più: il 37, 2 per cento la butta sull’ironia, sostenendo che quegli episodi di antisemitismo altro non sono che «bravate messe in atto per provocazione o per scherzo». Ma non è finita. Nelle pagine dell’Eurispes si legge che un italiano su cinque rivaluta Benito Mussolini. Per il 19,8 per cento, infatti «Mussolini è stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio», omettendo che fu proprio Benito Mussolini che nel 1938 emanò le leggi razziali, in linea con le altre affermazioni negazioniste contenute nel rapporto.
L’inchiesta choc: il 15% degli italiani non crede alla Shoah. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. I dati del “Rapporto Italia 2020” di Eurispes. Secondo il 24% gli ebrei controllerebbero il potere economico e politico mondiale. E l’antisemitismo si annida in tutti gli schieramenti politici. Una parte minoritaria, ma comunque significativa della popolazione italiana, coltiva anche oggi pregiudizi antisemiti, quando non un clamoroso oblio della storia:secondo quanto emerge dal “Rapporto Italia” 2020 dell’Eurispes, il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, il 15,6% la nega. L’affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, raccoglie il generale disaccordo degli italiani: il 76% (il 39,6% per niente d’accordo ed il 36,4% poco), non manca però chi concorda con questa idea: il 23,9% (18,9%«abbastanza» e 5% «molto» d’accordo). Gli ebrei controllerebbero i mezzi d’informazione a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%; il 4,3% molto, il 17,9% abbastanza), mentre i contrari arrivano al 77,7% (con un 46,4% del tutto in disaccordo). La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane, spiega il Rapporto Eurispes, incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari. Rispetto all’affermazione che l’Olocausto degli ebrei non è mai accaduto, la quota di accordo si attesta al 15,6% (con un 4,5% addirittura molto d’accordo ed un 11,1%abbastanza), a fronte dell’84,4% non concorde (il 67,3% per niente, il 17,1% poco). Invece l’affermazione secondo cui l’ Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1% (il 5,5% è molto d’accordo), mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% (con il 64,9%per niente d’accordo ed il 18,9% poco d’accordo). La credenza che la Shoah non abbia mai avuto luogo vede il picco di intervistati «molto» d’accordo tra chi si riconosce politicamente nel Movimento 5 Stelle (8,2%), concordi complessivamente nel 18,2% dei casi; la più alta percentuale di soggetti concordi (abbastanza o molto) si registra però tra gli elettori di centrosinistra (23,5%). I revisionisti risultano più numerosi della media a sinistra – per il23,3% l’ Olocausto degli ebrei è avvenuto realmente, ma ha prodotto meno vittime di quanto si afferma di solito – ed al centro (23%), meno a destra (8,8%).Secondo il Rapporto dell’Eurispes tra il 2004 e il 2020 è in aumento chi pensa che l’ Olocausto non sia mai avvenuto (dal 2,7% al 15,6%). A distanza di oltre 15 anni, nel confronto l’indagine condotta dall’Eurispes su questi stessi temi, la percentuale di italiani secondo i quali gli ebrei determinano le scelte politiche americane è oggi più bassa: dal 30,4% al 26,4%. Nel 2004 per oltre un terzo del campione (34,1%) gli ebrei controllavano in modo occulto il potere economico e finanziario, nonché i mezzi d’informazione, mentre oggi la percentuale risulta inferiore ad un quarto. Aumenta invece il numero di cittadini secondo i quali lo sterminio per mano nazista degli ebrei non è mai avvenuto: dal 2,7% al 15,6%. Risultano in aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche coloro che ne ridimensionano la portata (dall’11,1% al 16,1%).
Partito antisemita è il quarto d’Italia, secondo un sondaggio il 12% non crede alla Shoah. Emanuele Fiano il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Gli ebrei hanno troppo potere dicono in tanti che hanno risposto a un sondaggio. E l’antisemitismo si nutre sempre dello stesso cibo. Questa volta la ricerca sullo stato dell’arte dell’antisemitismo in Italia, è condotta da una ricercatrice, universalmente apprezzata, in genere dedita alla misurazione degli umori politici come Alessandra Ghisleri, e i risultati non sono affatto incoraggianti. Circa il 12% degli italiani crede sostanzialmente che la Shoah sia una bufala. Il 6,1% della popolazione si dichiara non favorevole alla religione ebraica, ma i valori che riguardano le motivazioni di questo plateale schieramento antisemita, sono ancora superiori (il 14% pensa che i palestinesi siano oggetto di un genocidio da parte degli ebrei, l’11,6 che gli ebrei dispongano di un potere economico troppo forte, il 10,7 che si occupino solo di se stessi etc etc ). Come al solito in questo tipo di ricerche, ancora più del valore assoluto sarebbe utile il valore comparativo, con gli anni precedenti. Nel caso della ricerca della Ghisleri non abbiano raffronti, ma tutte le ricerche che monitorano l’andamento storico degli atti e delle espressioni antisemite, anche sui social, misurano un cospicuo aumento. Quale giudizio dare dunque di questi dati?
Il primo: l’antisemitismo non è mai morto, e non morirà mai. La necessità dell’individuazione di un nemico, della circoscrizione del proprio territorio dove la diversità non è accettata, vale sempre. L’antisemitismo ha una sua peculiarità, una sua storicità, ma appartiene a una famiglia più grande, del razzismo e della discriminazione, che ha una persistenza storica formidabile e preoccupante.
Secondo: la concomitanza di fattori che inducono a un peggioramento della situazione, come le crisi economiche e (come dimostra anche per esempio il famoso post del senatore Lannutti), le crisi bancarie, aumentano l’intensità del fenomeno. Di fronte a un problema esistenziale così grande come la propria condizione materiale di vita, la precarietà della propria situazione, l’incertezza del futuro, l’impressione di essere impotenti contro un destino cinico e baro, scatta la ricerca di un nemico un po’ indecifrabile, un oscuro complotto, un popolo strano con strane usanze, qualcuno o qualcosa la cui alterità giustifica il sospetto di attività pericolose e nemiche.
Terzo: l’antisemitismo ha chiare e plurime matrici. Ai nostri giorni se ne ritrova uno classico di matrice neofascista o neonazista, i cui esiti ricorderemo tra poco nel Giorno della Memoria; ci sono le forme contemporanee, che usano lo Stato d’Israele come obiettivo, negandone il diritto all’esistenza e dunque attaccando un principio generale, sancito dal consesso internazionale e dall’Onu, che ovviamente è cosa ben diversa dal diritto di critica delle singole scelte dei governi che si succedono in Israele; ce n’è uno di matrice islamica, ovviamente in crescita nel mondo arabo e islamico, ma anche nei Paesi europei a forte presenza islamica; ci sono ancora presenti le matrici di origine cristiana, risalenti all’accusa di deicidio, anche se mi pare molto rarefatte. E credo si possa dire che la questione delle forme contemporanee dell’antisemitismo, delle sue matrici, non si distanzi molto da ciò che è stato osservato nel passato, e dalle sue radici storiche, anche se, sicuramente per l’Italia, oggi, la concomitanza di un’onda politica che fa della spinta identitaria, intesa come ricerca del proprio carattere originario come unico argine al globale, sta amplificando molto ogni sentimento discriminatorio.
Quarto: dobbiamo avere coscienza che Internet, e i social in particolare, hanno prodotto un’amplificazione esasperata dei peggiori sentimenti di odio, discriminazione e razzismo, magari nascosti dietro l’anonimato, come se la rete fosse una specie di terra di nessuno dove tutto è concesso. Dove io, anonimamente, posso finalmente togliermi il giogo delle norme, dei divieti, dell’etica pubblica. È la terribile questione dei discorsi di odio, che attraversano tutto il mondo della rete, e di cui l’antisemitismo è molta parte. Oggi dunque, questa è la mia impressione, i fattori contingenti si sommano all’eredità storica, nella stagione in cui peraltro sono destinati a scomparire gli ultimi testimoni della Shoah, con un connubio preoccupante. Serve un investimento complessivo. Non basteranno i divieti. Serve investire nella cultura, nella formazione e nel sociale. Ogni centimetro tolto al terreno dove sorge il pregiudizio è un centimetro guadagnato per il futuro.
Alberto Giannoni per “il Giornale” il 31 gennaio 2020. I negazionisti? Sono soprattutto a sinistra. Qualcuno sarà sorpreso o deluso, ma il dato è certificato nel Rapporto Italia 2020, lo studio Eurispes che è stato presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori. Contrariamente alla vulgata sull' allarme-fascismo infatti, dal rapporto emerge che la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. Certo, gli esiti del 32esimo rapporto Eurispes sono preoccupanti. Lo studio - un volume di 200 pagine - sviscera questioni molto diverse tra loro. E grande attenzione ha riscosso, giustamente, il «capitolo» dedicato alla Shoah, anche perché il tema è tornato sotto i riflettori: si teme un ritorno di sentimenti ostili agli ebrei, e purtroppo questo rigurgito sembra confermato come un pericolo concreto. Gli stereotipi sono sempre in agguato e in crescita. L' affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, in generale non trova consenzienti gli italiani, ma non manca una fetta consistente che condivide (23,9%). Quanto alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l' affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d' accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d' accordo), mentre i contrari raggiungono l' 84,4%. Il numero dei negazionisti oltretutto è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Eppure, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l' orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all' 8,8% a destra. È chiaro che dati del genere smontano una narrazione sempre più in voga a sinistra. Anche se non si vedono significative forme di movimentismo fascista, infatti, ha avuto notevole successo il «revival» della mobilitazione antifascista, che viene collegata immancabilmente all' allarme antisemitismo, a sua volta infilato nel calderone di un generico «razzismo». L' obiettivo è politico: vogliono far coincidere l' antisemitismo e il fascismo, e il fascismo col centrodestra, o con la Lega. Però questa «narrazione» è insincera: non solo non tiene conto dell' antisemitismo islamista, ma come si vede dai dati Eurispes tende a rimuovere il fenomeno dell' antisemitismo di sinistra, che c' è e si vede. E attenzione: qui non si parla di sionismo o di Israele, ma di stereotipi e pregiudizi anti-ebraici in senso stretto. Qualcuno dovrebbe forse guardare alla trave nel proprio occhio, anche perché l' antisemitismo a sinistra ha radici antiche e profonde, come documentato da un recente saggio della storica Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. E le radici sono marxiste e comuniste.
Negazionisti soprattutto a sinistra: ecco i numeri. Alberto Giannoni su Il Giornale il 31 gennaio 2020. I negazionisti si trovano soprattutto a sinistra. Al “Giornale” da tempo mettiamo in guardia contro una lettura parziale e strabica del tema-antisemitismo. Ora lo certifica il “Rapporto Italia 2020″, uno studio Eurispes presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori: contrariamente a quanto afferma la “vulgata” sull’allarme-fascismo, la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. In generale, limitandoci alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l’affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d’accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d’accordo), mentre i contrari raggiungono l’84,4%. Un dato preoccupante, anche perché il numero dei negazionisti è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Però, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l’orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all’8,8% a destra. Ed eccoli, i numeri di Eurispes. E analizzando i dati secondo la provenienza per macro area geografica, emerge che le opinioni totalmente negazioniste arrivano soprattutto dal Centro-Italia, come le risposte di chi si dichiara d’accordo con una lettura che minimizza la portata della Shoah.
Il Male DENTRO AUSCHWITZ. Fotografie e testo di Ivo Saglietti su Inside Over il 27 Gennaio 2020. «Quindi vennero la Seconda Guerra Mondiale, Hitler nelle nostre città e nelle nostre case. A ben guardare i fatti, le società europee, se non gli individui uno per uno, meritavano quel che stava loro capitando: il loro modo di vita valeva veramente troppo poco, basato com’era sull’egoismo da una parte e su ideali non più creduti dall’altra». -Albert Camus, febbraio 1946
L’Uomo infine esce dallo scompartimento: il caldo soffocante, la puzza e la cuccetta stretta erano troppo per lui. Il corridoio del treno era poco illuminato, mancavano due lampadine: treni tedeschi, pensa. Il treno era freddo e correva nella notte di un’Europa addormentata e indifferente. A volte attraversava paesi e città, e lo sguardo dell’Uomo allora si soffermava su lunghi convogli merci, vagoni carichi di carbone o altro. Andava a Cracovia alla ricerca di una tomba: un suo lontano zio, alpino della Cuneense era stato sepolto in quella città nel 1944, in una fossa comune con altri 2300 soldati tedeschi. Chissà perché, continua a chiedersi. È il suo terzo viaggio, sempre a gennaio, sempre in treno, ed è terminato, anche questa volta, ad Auschwitz/Birkenau. I convogli si arrestavano su questi binari, pensa. Da sotto la neve spuntano alcuni steli freddolosi e secchi: “È un simbolo di qualcosa che non capisco”, pensa l’Uomo. Osserva il binario arrugginito che finisce nel nulla e un vagone abbandonato e solitario di legno, nero e immobile nella neve. E s’incammina verso il campo.
Birkenau. Entra camminando sui binari che si allungano nell’immensità: entrarono in funzione nel maggio del 1944. Lo inquieta un pensiero: “In questo luogo e in quegli anni, io chi o cosa sarei stato?”. Poi li immagina scendere dal treno, incolonnati: uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Avranno osservato le torrette, le mitragliatrici, i grossi cani, i soldati, gli ufficiali delle SS, i teschi sulle uniformi e forse, pensa l’Uomo, avranno intuito. Eccolo il MALE. Ha il nome di Otto Adolf Eichmann e il grado di SS-Obersturmbannfũhrer. Fu il principale responsabile della così detta Soluzione Finale: lo sterminio degli Ebrei in Europa. L’Uomo osserva il ritratto: osserva il viso allungato della volpe sotto il cappello troppo grande, la bocca sottile, lo sguardo beffardo con un occhio semichiuso. Un uomo ordinario, banale in fondo. Soltanto un omicida. Catturato in Argentina e impiccato a Ramia, Israele, nel 1962. Aveva 56 anni. È questa fotografia a colpirlo, a commuoverlo: Michalina Petrenko, 13 anni numero E 27018, entrata a Auschwitz il 13 dicembre 1942, deceduta il 14 agosto 1944. Era domenica. Questo volto dolce di bambina, il foulard da contadina polacca, dalla destra della foto guarda lontano un po’ sorpresa. “Che peccati avrai mai commesso? – le chiede l’Uomo – Michalina, di quali colpe sei stata accusata? E come hai incontrato il Male e perché?” L’Uomo si sorprende dello stupefacente ordine del paesaggio: ogni albero, panchina, la scaletta per il trampolino, i pali che reggevano il filo spinato e sullo sfondo la torretta delle guardie hanno una disposizione precisa, troppo precisa. Solo una mente esteticamente perversa, portata all’estremo, poteva riuscire a mettere insieme un simile ordine. Cosa succedeva in questo ufficio, sotto gli occhi di Hitler? Chi stava dietro a quel tavolo, e chi davanti? Chi passava di qui e quali timori poteva avere? Cos’è quel cubo appoggiato sul tavolino? E quelle chiavi, quali porte aprivano o chiudevano? La luce di questo gabinetto medico lo impressiona: l’Uomo osserva il telo bianco sul tavolo e il bianco dei due camici poi intravede le siringhe, una boccetta nera sullo sfondo. Forse era l’ufficio del dottor Josef Mengele, immagina. L’Uomo prova ad immaginare i suoi esperimenti sui bambini. Lo chiamavano Zio. Mengele è morto immeritevolmente per cause naturali, meritava di essere impiccato, pensa. Milioni di scarpe, milioni di passi: l’Uomo non riesce ad immaginare quanti prati o campi di calcio ci si sarebbero potuti riempire. E poi milioni di occhiali, rasoi, spazzolini da denti e capelli. Ai deportati le scarpe venivano tolte e sostituite con zoccoli di legno, duri, a volte spaiati e come vestiti veniva dato loro una sorta di pigiama a righe. Tutto ciò serviva a mutarli da persone in un Nulla, che nulla valeva e nulla sarebbe mai più diventato. L’Uomo si sofferma a lungo a leggere i nomi, gli indirizzi sulle povere valigie da emigranti. E quante fotografie scatta malgrado sia proibito, ma tenta così di immaginarli, di conoscerli. Che cosa avranno mai infilato in quelle valigie, di corsa e sotto le grida delle SS? E dove pensavano di finire? Potevano mai immaginare il loro destino? L’Uomo attraversa un cancello di ferro aperto sul cammino verso la morte. La neve è stata tolta. In fondo a questo vialetto, tra due file di edifici sotto una betulla invernale, vede un muro nero e davanti uno più piccolo: è il muro delle esecuzioni. Qui i prigionieri condannati per chissà quale colpa venivano fucilati. Gli spari dovevano sentirsi per tutto il campo, pensa. Sotto gli edifici del campo della morte le cantine erano utilizzate come celle. Una parete gli sembra umida di sangue. L’Uomo ricorda di aver visto qualcosa di simile a Srebrenitza nei capannoni abbandonati dai soldati olandesi e occupati dagli assassini di Mladic. Poi lo sguardo gli cade su una targa. Commemora Padre Massimiliano Kolbe, prigioniero numero 16670: diede la vita al posto di un altro uomo, venne ucciso con un’iniezione di acido fenico. Il suo corpo venne cremato e le ceneri disperse. I fratelli Zelig e Sril Jacob hanno 9 e 11 anni. Nella foto originale sono insieme, appena scesi dal treno. Qui nel museo sono divisi. L’Uomo non ne capisce la ragione: sa che saranno stati riuniti nella morte. Zelig osserva l’SS che sta scattando la fotografia, Sril ha lo sguardo lontano: osserva il campo, inquieto, chiuso nel suo cappotto con la stella gialla a sei punte. Quante fotografie si possono osservare nel museo e nella storia di questo luogo inimmaginabile. L’Uomo si trova ora nel blocco della Francia. Su una parete, raccolta tra due finestre, numerosi i volti dei bambini che qui trovarono la morte. Furono quasi 80.000 gli Ebrei francesi trasferiti nei lager tedeschi, ne ritornarono 2665. Dei 230.000 bambini deportati ad Auschwitz, al momento della liberazione ne rimanevano 700. Si chiede, l’Uomo, come si possa posare sorridenti per una foto ricordo in un luogo così tragico. Sono orientali, pensa, e anche loro dovrebbero avere memoria di guerra, genocidi e di esecuzioni sommarie.
La Sauna. Qui avvenivano le procedure di ingresso nel campo: spogliazione, rasatura, doccia e disinfestazione. Su una grande parete l’Uomo vede, tra le tante che si sono salvate, una fotografia. Una festa, un matrimonio forse. La donna porta un cappello bianco con veletta, brinda sorridendo con l’uomo accanto a lei, lo stesso della foto di fianco. Sono entrambi molto belli e l’Uomo si sente soffocare dal pensiero che tanta gioia di vivere sia potuta terminare lì, tra quelle betulle. Una parte di Birkenau sembra abbandonata. Simbolo di questa desolazione sono i pali di sostegno dei reticolati caduti nella neve o rotti dal tempo. Il mantenimento dei campi è in effetti molto dispendioso e tecnicamente difficile. Birkenau potrebbe essere abbandonato alla polvere del tempo. Col calare della sera tutto diventa freddo, livido, del colore della morte. Gli entra nelle ossa, il freddo, e all’Uomo sembra di sentire sussurri salire dalle baracche annerite, nella cupezza della luce che svanisce. La neve gli scricchiola sotto i piedi. I sussurri che sente sono le voci delle vittime, sono il vento tra gli alberi che gli parla. Il sole che scende diventa una macchia grigia tra le rovine di quelle che furono le camere a gas, fatte saltare dai tedeschi in fuga nel gennaio del 1945. L’Uomo le osserva ripiegate sotto la neve: sono cupe, nere. Qualche cavo d‘acciaio spunta contorto dal cemento, ci sono impronte di coniglio o di lepre sulla neve, gli alberi sullo sfondo cercano di nascondersi nel cielo della notte. È tardi oramai, l’Uomo deve uscire dal campo. Il gelo lo avvolge. Mentre si avvia all’uscita, nel buio, improvvisamente si accendono i fari delle torrette. Per un istante l’Uomo si sente in pericolo, come se fosse sotto il tiro di armi automatiche. Gli sembra di udire grida in una lingua sconosciuta e si rende conto che le porte del campo sono chiuse. È un prigioniero ora e il panico lo assale. Poi, trova il modo di uscire, come un evaso.
«Il Male di cui sto parlando è qualcosa che ciascuno di noi si porta dentro. Si impadronisce del singolo individuo, nel privato, nella famiglia stessa, e poi sono proprio i bambini a farne di più le spese. E poi, quando vengono a crearsi le condizioni adatte, anche in tempi diversi, si scatena una crudeltà irrefrenabile che va contro la vita e l’uomo si sorprende della propria immensa capacità di odiare. È qualcosa che torna a nascondersi e aspetta. Ma ce l’abbiamo nel cuore». -Da “Cani Neri” di Ian McEwan
Giorno della Memoria, cinque libri da leggere per capire cos’è la Shoah. Libri per non dimenticare. Cinque frasi sulla Shoah tratte da opere diventate patrimonio dell'umanità. Da leggere e condividere. Amleto de Silva su ilmiolibro.kataweb.it. Storia, che passione: dieci grandi libri per conoscerla. Il bello di scrivere di libri è che hai a che fare, se sai scegliere, ovviamente, con le cose belle. E la cosa bella delle cose belle è che sono incontrovertibili: hai voglia a dire e hai voglia a fare, una cosa bella non la puoi spiattellare là urlando in un qualche talk show becero, non la puoi usare per argomentare qualsiasi fesseria ti venga in mente; non la puoi piegare a uso e consumo di una parte politica, perché contiene in sé qualcosa che non ha appartenenza se non umana. Per questo, in occasione del Giorno della Memoria, scrivo queste due righe e poi lascio parlare chi ha titolo e bravura per farlo. Cinque libri imprescindibili, punto e basta.
1) Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini. “Guardavo in giro ad uno ad uno zii e cugini, gran parte dei quali di lì a qualche anno sarebbero stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi, e certo non lo immaginavano che sarebbero finiti così, né io stesso lo immaginavo, ma ciò nondimeno già allora, quella sera, anche se li vedevo tanto insignificanti nei loro poveri visi sormontati dai cappellucci borghesi o incorniciati dalle borghesi permanenti, anche se li sapevo tanto ottusi di mente, tanto disadatti a valutare la reale portata dell’oggi e a leggere nel domani, già allora mi apparivano avvolti della stessa aura di misteriosa fatalità statuaria che li avvolge adesso, nella memoria”.
2) Fred Uhlman, L’amico ritrovato. “Mio padre detestava il sionismo, che giudicava pura follia. La pretesa di riprendersi la Palestina dopo duemila anni gli sembrava altrettanto insensata che se gli italiani avessero accampato dei diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai romani. Era un proposito che avrebbe provocato solo immani spargimenti di sangue, perché gli ebrei si sarebbero scontrati con tutto il mondo arabo. E comunque cosa c’entrava lui, che era nato e vissuto a Stoccarda, con Gerusalemme? Quando il sionista accennò ad Hitler, chiedendogli se il nazismo non gli facesse paura, mio padre rispose: «Per niente. Conosco la mia Germania. Non è che una malattia passeggera, qualcosa di simile al morbillo, che passerà non appena la situazione economica accennerà a migliorare. Lei crede sul serio che i compatrioti di Goethe e di Schiller, di Kant e di Beethoven si lasceranno abbindolare da queste sciocchezze? Come osa offendere la memoria dei dodicimila ebrei che hanno dato la vita per questo paese? Für unsere Heimat?”.
3) Hannah Arendt, La banalità del male. “Eichmann era convintissimo di non essere un “innerer Schweinchund”, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione. Queste affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato«normale,» e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: «Più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato,» mentre un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era «non solo normale, ma ideale»”.
4) Primo Levi, Se questo è un uomo. “La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è piú semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera”.
5) Anna Frank, Diario. “Una voce singhiozza entro di me: “Vedi a che ti sei ridotta: cattive opinioni, visi beffardi e costernati, gente che ti trova antipatica, e tutto perché non hai dato ascolto ai buoni consigli della tua buona metà”. Ahimè, vorrei ben ascoltarla, ma non va; se sto tranquilla e seria, tutti pensano che è una nuova commedia, e allora bisogna pur che mi salvi con uno scherzetto; per tacere della mia famiglia che subito pensa che io sia ammalata, mi fa ingoiare pillole per il mal di testa e tavolette per i nervi, mi tasta il collo e la fronte per sentire se ho febbre, si informa delle mie evacuazioni e critica il mio cattivo umore. Non lo sopporto; quando si occupano di me in questo modo, divento prima impertinente, poi triste e infine rovescio un’altra volta il mio cuore, volgendo in fuori il lato cattivo, in dentro il lato buono, e cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… se non ci fossero altri uomini al mondo. La tua Anna“. Ecco, mentre Anna Frank si preoccupava delle meravigliose quanto drammatiche inezie dell’adolescenza, gli altri uomini al mondo, in uniformi naziste, rastrellavano il quartiere. La troveranno tre giorni dopo. Anna scompare a Bergen Belsen pochi giorni prima della liberazione dell’Olanda.
Amleto de Silva è uno scrittore, blogger, vignettista satirico e autore teatrale.
I 13 sopravvissuti italiani che vissero l’Olocausto Custodi della Memoria: «Resisterà dopo di noi». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. Modiano, le sorelle Bucci, Edith Bruck, Liliana Segre. Le storie di chi è scampato alla Shoah. «Le nuove generazioni ci seguono. Sono i magnifici frutti della nostra testimonianza». «Ci dicono sempre: siete gli ultimi sopravvissuti. Sì, è vero, siamo gli ultimi. E so che quando nessuno di noi ci sarà più perché non possiamo vivere in eterno, anche se mi piacerebbe, sarà diverso. Forse più freddo, affidato ai musei e a Israele. La testimonianza diretta è essenziale: ma la Memoria resisterà, deve resistere. Però c’è ancora tempo per morire, noi andremo avanti, racconteremo nelle scuole, alle nuove generazioni. Loro capiscono, ci seguono. Dopo gli incontri mi scrivono lettere, una più bella dell’altra. Sono i magnifici frutti della mia testimonianza». Edith Bruck vive a Roma in via del Babuino, in uno spazio magico sottratto al caos del centro di Roma, pieno di luce e di piante. Edith (i capelli e lo sguardo di una ragazza appena invecchiata, ma a maggio compirà 88 anni) è la sovrana di un regno fatto di libri, di letteratura, di poesia e di ricordi. La sua vita accanto al poeta e regista Nelo Risi. Le tracce delle sue radici di ebrea ungherese, poi natura-lizzata italiana. Edith fa parte dei pochi ultimi sopravvissuti italiani alla Shoah. Secondo l’analisi congiunta dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane e dello scrittore e storico Marcello Pezzetti, da decenni impegnato sul fronte della Memoria, sono rimasti tredici sopravvissuti a vivere in Italia. Tra loro c’è Edith. Nella primavera del 1944 viene prelevata dai nazisti dal ghetto ungherese di Sàtoraljaùjhely accanto al confine con la Slovacchia, e deportata prima ad Auschwitz e poi in altri campi di sterminio: Dachau, Christianstadt, infine Bergen Belsen. Ha appena 13 anni ma riesce a sopravvivere con la sorella: nei campi di sterminio perde padre, madre, un fratello e altri familiari. Dal ’54, dopo un passaggio per Israele, vive in Italia e ha la cittadinanza del nostro Paese. La sua è una storia uguale e insieme diversa a quella degli altri, perché tutte sono uguali e diverse. La vicenda di Liliana Segre è forse troppo nota per essere ripetuta ancora, ormai è diventata un simbolo della Memoria collettiva italiana. Così come quella di Samuel Modiano, per tutti Sami, uno degli italiani di Rodi rimasti ancora vivi e che vivono qui in Italia, come Joseph Varon, Rosa Hanan, Virginia Gattegno. Da anni accetta inviti nelle scuole. Il suo volto è diventato familiare a milioni di italiani grazie al docu-film di Walter Veltroni «Tutto davanti a questi occhi», prodotto da Sky e Palomar e trasmesso sui principali broadcaster tv (Rai, Mediaset, La7, Sky) nella Giornata della Memoria 2018. Un indimenticabile racconto-monologo, guidato dalle domande di Veltroni. Deportato a 14 anni da Rodi a Birkenau il 16 agosto 1944, Modiano ha sul braccio la matricola B7456 che ora mostra sempre nei suoi incontri nelle scuole. Perse suo padre e sua sorella. Ai primi del gennaio 1945 gli aguzzini sgombrarono il campo di Birkenau perché l’esercito russo era vicino: costrinsero i prigionieri a camminare nel gelo fino ad Auschwitz. Lì vide l’arrivo dei soldati sovietici ritrovando il suo compagno romano di prigionia, Piero Terracina (scomparso l’8 dicembre scorso) e Primo Levi, il futuro autore di «Se questo è un uomo». Tante testimonianze dei sopravvissuti verranno consegnate al futuro grazie a proprio ai docu-film, come il recentissimo «Kinderblock: l’ultimo inganno», magnifico documentario firmato da Marcello Pezzetti come autore e da Ruggero Gabbai come regista, prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah in collaborazione con Rai Cinema e Goren Monti Ferrari Foundation. Racconta la straziante odissea delle sorelle Andra e Tatiana Bucci, entrambe di Fiume (ora si dividono tra l’Italia e le famiglie all’estero) e del cugino napoletano Sergio De Simone, finiti ad Auschwitz nelle mani del dottor Mengele, l’Angelo della Morte. Le cugine sopravvissute raccontano l’inganno per i bambini radunati davanti a Mengele, pronto per suoi atroci «esperimenti» («se volete vedere la mamma fate un passo avanti») e come il piccolo Sergio cadde nel tranello, finendo con altri 19 bambini nello scantinato della scuola-lager di Bullenhuser Damm ad Amburgo. È la agghiacciante storia del «blocco dei bambini», appunto il Kinderblock. Pezzetti ricostruisce l’indicibile crudeltà della loro fine. Quelli che non morirono con le iniezioni di morfina, dice nel film Pezzetti, «vennero impiccati, appesi al muro come quadri». Il documentario andrà in onda su Raiuno per Speciale Tg1 alle 23.20 del 2 febbraio. Tre ebrei italiani di Rodi sopravvissuti allo sterminio (lo stesso Modiano accanto a Stella Levi e Alberto Israel, che hanno poi scelto di vivere all’estero, lei a New York e lui a Bruxelles) sono protagonisti di un altro documentario, sempre firmato da Pezzetti e Gabbai, «Il viaggio più lungo»: da Rodi ad Auschwitz fu infatti uno spostamento geograficamente infinito. E poi ci sono le altre storie. Per esempio di Arianna Szörényi, nata a Fiume da padre ebreo ungherese ma di madre italiana e cattolica. Venne battezzata come i fratelli, crescendo come una cattolica. Però poi fu prelevata e deportata prima nella Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio nazifascista in Italia, poi ad Auschwitz e infine a Bergen Belsen. Ecco Diamantina Vivante, nata a Trieste nel 1928 e lì arrestata con i fratelli Giulia, Moisè ed Ester nel novembre 1944: sopravviverà solo lei dopo l’internamento a Ravensbrück. E poi, tutti gli altri. Sono gli ultimi. Ma, come dice Edith Bruck, la Memoria resisterà. Deve resistere. Lo dicono sempre, i sopravvissuti, con forza: l’orrore degli orrori non può, non deve ripetersi mai più.
Dall’orchestra di Auschwitz al rap Vita di Esther, salvata dalla musica. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 ‐ Corriere.iti Paolo Valentino , corrispondente da Berllino. Una fisarmonica cambiò il suo destino, canta ancora oggi. Kolinka, superstite della Shoah: non ci credevo ma sapevo. La musica è stata la sua vita. La musica le ha salvato la vita. La musica la tiene in vita. Esther Béjarano è una cantante di 95 anni. Esther Béjarano è sopravvissuta ad Auschwitz. Esther Béjarano fa ancora concerti. Quando vi racconta la sua storia straordinaria, l’infanzia felice in una famiglia ebraica nel Saarland, le persecuzioni razziali, la deportazione nei campi di sterminio, le «harte Wendungen», le svolte dure del suo destino che l’hanno sottratta alla morte, la sua missione in una rap band, Esther ripete spesso una frase che può suonare strana: «Ho avuto fortuna». «Perché le sembra strano? Mi considero fortunata per essere ancora qui e poter raccontare quello che è successo», dice accogliendomi nella sua casa di Amburgo. Un appartamento caldo come un abbraccio, pieno zeppo di cose, quadri, mobili, libri, spartiti, strumenti musicali, ninnoli, fotografie, tante fotografie. Esther Béjarano non aveva neppure 20 anni nell’aprile del 1943, quando dal campo di lavoro di Neuendorf, nel Brandeburgo, dov’era stata internata alla fine del 1941, venne messa dai nazisti con altre centinaia di persone su un carro bestiame diretto ad Auschwitz. Era già sola. I suoi genitori, entrambi musicisti, erano stati uccisi due anni prima insieme a mille ebrei di Breslavia, in un bosco vicino Riga dopo un rastrellamento. Anche Ruth, una delle due sorelle, era morta falciata dalle SS insieme al giovane ebreo ungherese che aveva sposato, mentre tentavano di attraversare il confine con la Svizzera. Ma Esther tutto questo lo avrebbe appreso a guerra finita. Solo il fratello e l’altra sorella si erano salvati: nel 1937 Gerdi era andato da una zia negli Stati Uniti, Tosca in Palestina in una scuola agraria. Nel lager di Birkenau, la fortuna prese le sembianze di una fisarmonica. «Ero quasi alla fine, il lavoro consisteva nello spostare enormi pietre, mentre le guardie ci bastonavano. Sarei morta di sicuro, ma un giorno venne Zofia Czajkowska, la direttrice dell’orchestrina del campo. Cercavano musiciste. La capo baracca propose me e altre due. Io sapevo suonare il pianoforte, ma non ne avevano uno. Czajkowska mi indicò una fisarmonica. Non ne avevo mai vista una. “La sai suonare?”, mi chiese. Dissi di si. Mi chiesero di provare Bel Ami, una canzonetta allora in voga. Conoscevo il motivo, trovai gli accordi. E mi presero con le altre due amiche. Fu un vero miracolo». Esther si trasferì nella baracca dove vivevano i musicisti. «C’erano letti veri e mi diedero perfino un maglione». Dopo tre settimane di prove le piazzarono all’ingresso del campo. Eseguivano marcette e pezzi popolari, al mattino quando le squadre uscivano per andare al lavoro e alla sera quanto tornavano. Oppure suonavano sulla rampa, quado arrivavano i treni. «Era una pressione terribile per noi: quando le persone ci passavano accanto, destinate direttamente alla camere a gas, sicuramente pensavano che in un posto dove veniva suonata della musica non doveva essere così orribile». Esther Béjarano ha raccontato con semplicità e precisione l’orrore in un bel libro scritto insieme ad Antonella Romeo, La ragazza con la fisarmonica, edito da SEB27. «Ogni giorno vedevamo cadaveri distesi per la strada. Molte donne per disperazione si gettavano contro la recinzione dove passava la corrente elettrica. Le vedevamo al mattino. Morte, ancora appese al filo spinato». Ricorda bene il medico capo, il dottor Mengele, impassibile sulla rampa, che come Minosse con la coda decideva il destino di ognuno con un semplice movimento della mano. La «fortuna» di Esther prese diverse sembianze. Perfino quella di Otto Moll, il famigerato capo del crematorio, uno che adorava far sbranare i prigionieri dai suoi cani: quando la giovane fisarmonicista si ammalò di tifo addominale, la fece ricoverare nell’infermeria dei cristiani e minacciò perfino una dottoressa che non le dava le medicine. «Non so perché lo fece, forse per l’orchestra di cui si sentiva responsabile. Però mi salvò la vita». Poi la «fortuna» assunse il volto di sua nonna paterna, un’ariana. «Un giorno annunciarono che tutte le donne che avevano un po’ di sangue ariano nelle vene dovevano presentarsi al capo baracca: sarebbero state trasferite in un altro campo, il campo di lavoro femminile di Ravensbrück. Io ero lacerata. Non volevo lasciare le mie compagne, ma furono loro a dirmi che dovevo farlo, dovevo uscire da Auschwitz e sopravvivere per poter un giorno raccontare quello che era successo». Accadde proprio così. Esther lasciò Birkenau per Ravensbrück. Il Dopoguerra non fu facile. L’emigrazione in Palestina, lo choc del campo col filo spinato creato dagli inglesi per gli ebrei che venivano dall’Europa, le incomprensioni con gli ebrei che costruivano il nuovo Stato di Israele e guardavano con sospetto i sopravvissuti: «Non ci volevano. Ci colpevolizzavano, perché non siamo stati inghiottiti dalla Shoah, l’accusa implicita era che se eravamo vivi dovevamo aver collaborato con i nazisti». Nel 1956 decise di tornare in Germania insieme a Nissim, che aveva conosciuto e sposato in Israele. «Scelsi di non vivere nella città dov’ero cresciuta, troppo grande era il dolore del ricordo». Ci ha messo decenni, Esther, per trovare la forza e la voce di raccontare l’indicibile. Ma quando venti anni fa ha iniziato, non ha più smesso. Alla sua maniera. In musica. Prima in una band con i suoi figli, Edna e Joram. Ora con i Microphone Mafia, due musicisti rap, uno di origine turca, l’altro italiana. «Dopo il 1945 la Germania non ha fatto alcuna de-nazificazione. Ci fu silenzio. Non fu fatta luce sui criminali, solo negli anni 70 si è cominciato a parlare di Olocausto, grazie a un film americano. E questa è la ragione per cui oggi ci sono tanti neonazisti in giro. L’antisemitismo è in aumento: attacchi, aggressioni. Per questo io faccio questo lavoro, canto e vado nelle scuole per raccontare cosa ho vissuto».
Da rai.it il 22 gennaio 2020. Il 27 gennaio 1945: la liberazione di Auschwitz. Per cancellare le tracce dei loro crimini, il 20 gennaio 1945 ad Auschwitz, i nazisti fanno saltare i forni crematori 2 e 3, dove erano stati bruciati i corpi di centinaia di migliaia di ebrei. La notte tra il 25 e il 26 fu la volta del crematorio 5. Il giorno dopo le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino, comandata dal maresciallo Koniev, entrano nel campo di sterminio: trovarono 7.000 prigionieri ancora in vita. Erano quelli abbandonati dai nazisti perché considerati malati. Quegli attimi terribili il mondo ancora oggi, dopo 75 anni, li ricorda come il Giorno della Memoria. In occasione del 75° anniversario dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945, divenuto una ricorrenza con il Giorno della memoria dedicato alla Shoah, vi proponiamo questo speciale che raccoglie le testimonianze di chi in quell'inferno ci è passato e, dopo tanti anni dalla prigionia, ha deciso di tornarci per raccontare gli orrori che ha visto (Piero Terracina e Shlomo Venezia); testimoni oculari che hanno fatto della propria memoria una missione affinché il mondo non dimentichi mai (primo fra tutti Primo Levi); figli o nipoti di deportati che raccontano le storie tramandate in famiglia. Infine, lo speciale realizzato nel 2019 ad Auschwitz da Rai Scuola che ha accompagnato un gruppo di studenti in visita.
Il nascondiglio, i delatori e il viaggio dal Binario 21. La famiglia Varon cancellata ad Auschwitz. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefania Chiale. Quel maledetto 7 giugno 1944 Hasday sta rientrando da scuola insieme al cugino con cui condivide casa e nome: Hasday Varon, come il nonno, morto nella battaglia dei Dardanelli nel 1915. Il cugino, vedendo portar via dai fascisti la madre, i due fratelli e la zia — sei mesi dopo l’arresto del padre Bohor — corre incontro ai familiari e viene catturato con loro. Hasday cerca di trattenerlo, senza riuscirci. Sarà il solo membro della famiglia a salvarsi dal rastrellamento insieme al padre, Nissim, sfuggito all’arresto perché impegnato fuori città per lavoro. Si nasconderanno in un fienile nella casa di amici a San Giuliano Milanese per due anni, attendendo la fine della guerra. Per tutta la vita, Nissim porterà regali a quei «giusti» per averli salvati. Venerdì alle 9.30 verranno poste cinque pietre d’inciampo davanti alla casa milanese dei Varon, cinque delle nuove 28 targhe d’ottone a memoria di altrettante vittime milanesi dei campi di concentramento annunciate ieri mattina a Palazzo Marino. Ricorderanno Bohor Nahman Varon, Sara Attias Varon e i loro tre figli: Hasday, Dora e Leone. Saranno poste al 19 di via dei Cinquecento, oggi una casa di riposo, allora una casa per sfollati. Come i Varon: ebrei turchi, originari di Gallipoli. Bohor, passaporto italiano, nasce in Turchia nel 1902. Trasferito prima a Istanbul, poi in Grecia, arriva a Milano, raggiungendo con la moglie Sara e il primogenito Hasday il fratello Nissim, emigrato in Italia perché la legge di Atatürk obbligava gli stranieri a diventare cittadini turchi. In caso contrario, bisognava lasciare il Paese. Ai due fratelli, il Comune di Milano assegna una casa in via dei Cinquecento 19, dove le due famiglie vivranno fino al giorno della loro deportazione. Anni in cui nascono gli altri due figli di Bohor e Sara: Dora e Leone. Ha solo un anno Leone quando il padre viene arrestato e condotto a San Vittore dopo una verifica di documenti sul tram da parte della polizia fascista. Col convoglio n. 6 dal Binario 21 — lo stesso convoglio con cui partì la senatrice a vita Liliana Segre — Bohor lascia per sempre Milano e viene deportato ad Auschwitz: è il 30 gennaio 1944. Al suo arrivo viene selezionato immediatamente per le camere a gas. Dopo una denuncia che fruttò ai delatori 5.000 lire, anche Sara, Hasday, Dora, Leone e Rachele, moglie di Nissim, vengono arrestati e il 16 giugno 1944 deportati ad Auschwitz. Saranno assassinati anche loro, mamma e tre figli (di un anno e mezzo, 9 e 12 anni), nelle camere della morte. Solo Rachele sopravviverà ad Auschwitz, dopo 18 mesi. Tornerà a Milano e riuscirà a raccontare l’orrore vissuto dalla sua famiglia, sterminata per la sola colpa di essere venuta al mondo.
Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2020. Elie Wiesel aveva quindici anni nel 1944, quando venne deportato ad Auschwitz assieme a suo padre, sua madre e le sorelle Hilda, Bea e Tzipora. Fu l' unico della sua famiglia che riuscì a sopravvivere. Dopo la liberazione, notò vent' anni fa Harald Weinrich in Lete (il Mulino), Wiesel subì la «tentazione dell' oblio». Nei primi tempi in cui fu restituito alla vita, «per circa dieci anni», sottolineò Weinrich, in lui «l' oblio si legò al silenzio, in un' alleanza problematica». Successivamente Wiesel iniziò a parlare e a scrivere per il pubblico, diventando, conformemente alla tradizione chassidica della sua famiglia, un «narratore di storie». E venne, anche per lui, il tempo di parlare di Auschwitz. Primo Levi iniziò molto prima. Fu liberato da Auschwitz il 27 gennaio del 1945. Aveva ventisei anni. Presto si mise a scrivere e nel 1947 diede alle stampe Se questo è un uomo , per la piccola casa editrice torinese De Silva. Il libro restò praticamente invenduto, la De Silva fallì e, fece notare Weinrich, anche «i ricordi di Levi caddero nell' oblio». O almeno così sembrò. Anche qui per una decina d' anni. Nel 1958 Einaudi ripubblicò quel testo di Primo Levi che, negli anni, divenne un successo mondiale. Per entrambi, forse per tutti, Auschwitz aveva evidentemente bisogno di bagnarsi nelle acque di Lete, il fiume dell' oblio, prima di assumere al cospetto del mondo intero il ruolo che la storia avrebbe assegnato al suo nome, indissolubilmente legato allo sterminio degli ebrei. E non solo degli ebrei. Il regno di Auschwitz , di cui si occupa lo straordinario libro del giornalista e storico statunitense Otto Friedrich, che esce domani per l' editrice Solferino, sarà il più grande. Il campo di Auschwitz fu creato dal nulla in diverse tappe, l' ultima tra il dicembre del 1941 e la metà dell' anno successivo, nella Polonia occupata, in una località sperduta nelle piane paludose della Vistola. E crebbe fino a diventare un «impero penitenziario di circa centocinquantamila abitanti», una città delle dimensioni di Tangeri o Aberdeen. Friedrich, per concentrarsi sul Regno di Auschwitz , ha ripreso in mano le carte del processo di Francoforte (dicembre 1963-agosto 1965), dal quale erano emersi particolari agghiaccianti. Particolari che però fuori dalla Germania occidentale non avevano avuto il risalto che avrebbero meritato. Perché? Il processo era stato voluto dal procuratore capo dell' Assia Fritz Bauer, il quale - non fidandosi dei suoi connazionali - aveva precedentemente collaborato con i servizi segreti israeliani per la cattura di Adolf Eichmann. Successivamente Bauer aveva delegato all' indagine su Auschwitz alcuni collaboratori (Joachim Kügler, Georg Friedrich Vogel e Gerhard Wiese) sufficientemente giovani da non essere stati coinvolti nelle vicende che si accingevano ad approfondire. Le indagini durarono quattro anni e furono spesso ostacolate, talvolta sabotate, dalle autorità della Repubblica federale tedesca. Dalle sue carte Friedrich capì che lo sterminio degli ebrei aveva avuto inizio assai prima che nella conferenza di Wannsee (convocata il 20 gennaio 1942 dall' alter ego di Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich) venisse decisa la «soluzione finale», cioè la totale eliminazione degli israeliti. L' idea di costruire Auschwitz era stata di Himmler, che aveva affidato l' impresa al maggiore delle SS Rudolf Höss, il quale al processo di Norimberga esagerò, persino, attribuendosi la responsabilità di aver eliminato due milioni e mezzo di individui (il conto lo avrebbe tenuto Adolf Eichmann) più «un altro mezzo milione morti per fame e malattie». In seguito Höss sostenne che tale cifra gli pareva «eccessiva» e la ridusse a 1.135.000. Il 14 giugno 1940 giunsero ad Auschwitz i primi 728 prigionieri politici polacchi che furono destinati alla costruzione del campo. A loro poi se ne aggiunsero altri che furono fatti lavorare come schiavi. Nel giugno del 1941, quando appresero che Hitler aveva invaso l' Urss, gli internati ritennero che l' allargamento del conflitto avrebbe portato alla loro liberazione. E festeggiarono. Presto però dovettero accorgersi che stava invece per iniziare una stagione ancora più infernale della precedente. Höss riferì (a Norimberga) che con l' arrivo dei prigionieri russi lui stesso aveva assistito a casi di cannibalismo: i nuovi prigionieri, disse, «non erano più esseri umani». Dei dodicimila russi internati nell' autunno del 1941, solo centocinquanta sopravvissero fino all' estate successiva. Höss raccontò di aver deciso - assieme ad Eichmann - l' uso del gas Zyklon B per «sveltire» l' eliminazione dei reclusi già nell' estate del 1941 e che la prima «sperimentazione» fu fatta, in sua assenza, dal vicecomandante Karl Fritzsch il 3 settembre 1941. Venne poi il turno degli ebrei. Il primo cosiddetto Transport Juden giunse alla stazione di Auschwitz il 26 marzo 1942: portava 999 donne provenienti dalla Slovacchia. La stazione - scrisse il poeta Tadeusz Borowski, sopravvissuto a tre anni di internamento - appariva «piccola e graziosa una piazzetta di ghiaia chiara incorniciata da alti castagni». Le deportate non fecero però in tempo a compiacersi di questo quadretto idilliaco: «Vennero spogliate», racconta Friedrich, «rapate a zero, tenute in piedi per un appello che durò ore intere, picchiate, spedite a lavorare in gruppi e di nuovo picchiate». Dopodiché i nuovi arrivati furono divisi in due gruppi: i più, a cominciare da vecchi e bambini, venivano mandati direttamente a morte; quelli che apparivano in grado di lavorare venivano invece «salvati» anche se molti di loro sarebbero poi deceduti per stenti e malattie. Come è possibile allora che quella stazioncina potesse apparire a coloro che arrivavano ad Auschwitz, quasi un miraggio. Wiesel nel libro La notte (Giuntina) ha provato a spiegare perché. La vita nei ghetti autoamministrati della Polonia occupata dai nazisti era parsa in qualche modo accettabile: gli ebrei pensavano perfino di trovarsi «in condizioni migliori che in passato completamente autonomi, in una piccola repubblica ebraica». Wiesel ricorda che la sera prima della deportazione «le donne continuavano a cucinare uova, arrostire carne, preparare torte; i bambini gironzolavano dappertutto». Il giorno successivo, nei treni, sarebbe invece iniziato l' incubo. I nazisti stipavano gli israeliti in vagoni dove non c' erano né cibo, né acqua, né servizi igienici, né aria. «Chi aveva portato con sé un panino o della frutta si trovava presto a dover lottare per difendere il suo piccolo tesoro e quando queste misere riserve erano finite non rimaneva più nulla». I bambini «piangevano in continuazione, i vecchi deperivano e morivano». I cadaveri «restavano dove erano, tra le sconquassate valigie tenute insieme con lo spago». A volte i treni venivano lasciati fermi su binari morti per giorni e notti intere: nei vagoni sigillati si continuava a piangere, urlare, a morire, a calpestare i morti e alla fine poteva capitare che il numero di cadaveri rimasti su quei convogli superasse quello di chi ne usciva vivo. Borowski ricevette l' incarico di pulire un vagone che aveva trasportato un centinaio di suoi correligionari: «Negli angoli», raccontò, «in mezzo a escrementi umani e orologi abbandonati giacevano i corpi senza vita di bambini schiacciati e calpestati, piccoli mostri nudi con teste enormi e pance gonfie». Talché per i deportati quando il treno finalmente si fermava in quella piccola cittadina sconosciuta, l'«arrivo» poteva apparire come «una sorta di liberazione». La fine di un incubo, appunto. E in qualche modo l' inganno poteva continuare. Auschwitz, ricostruisce Friedrich, era «una società di complessità straordinaria». Per questo nel titolo del libro compare la parola «regno». Aveva il proprio stadio di calcio, la propria biblioteca, un laboratorio fotografico, perfino un' orchestra sinfonica. Nascondeva organizzazioni clandestine polacche di ispirazione nazionalista e altre di matrice comunista («i cui membri combattevano e a volte si uccidevano tra loro»). C' erano poi gruppi della Resistenza austriaca, russa, slovacca e francese. Vi si tenevano clandestinamente funzioni religiose di ogni culto: cattolico, protestante, ebraico. Il campo di sterminio ospitava anche un bordello, al quale «potevano accedere coloro che, tra gli internati, godevano di maggiori privilegi», quelli che «ottenevano permessi per buona condotta». Le ragazze più belle erano invece costrette a diventare amanti di un qualche gerarca nazista. Anche Rudolf Höss ne ebbe una, Eleonora Hodys. A quelle giovani donne era consentito farsi ricrescere i capelli, il che però costituiva un marchio di infamia. Nel libro Cilka' s Journey , la scrittrice australiana Heather Morris ha ricostruito la vicenda di una di queste «fortunate», Cecilia Kovachova che, una volta libera, fu accusata dai russi di aver «collaborato» con il nemico e venne internata in un lager staliniano. La Hodys fu ancora più sfortunata: restò incinta di Höss e quando lui venne a saperlo ordinò che fosse gassata; fu salvata dal comandante del Blocco 11, Maximilian Grabner (anche lui sotto inchiesta per aver avuto una relazione con un' internata ebrea), e mandata - grazie al giudice Konrad Morgen - a Monaco, lontano da Auschwitz. Ma, prima che la guerra finisse, fu uccisa dalle SS. Sul caso dell' amante di Rudolf Höss indagò anche il Morgen di cui si è testé detto, un magistrato in forza alle SS mandato ad Auschwitz per investigare sui fenomeni di corruzione che infestavano il campo di concentramento. In particolare Morgen fece indagini sul cosiddetto «Canada», un agglomerato di trenta baracche dove finivano le proprietà dei reclusi che avevano un qualche valore. Proprietà che in teoria avrebbero dovuto essere spedite al comando delle SS di Berlino, ma furono invece «immagazzinate» in quello che, scrive Friedrich, presto divenne il «più grande mercato nero d' Europa». Allorché nel gennaio del 1945 il campo fu liberato dai russi, i nazisti provarono a incendiare il «Canada», ma riuscirono a distruggere solo ventiquattro baracche su trenta e i sovietici trovarono una quantità incredibile di oggetti appartenuti agli ebrei: 863.255 abiti da donna, 38.000 scarpe da uomo, persino 13.964 tappeti Ma Morgen aveva fatto in tempo a far arrestare e condannare Grabner, coinvolto nello scandalo, il quale dopo la guerra sarebbe stato riprocessato e condannato a morte in Polonia. I tentativi di fuga da Auschwitz furono più di seicento. Quando qualcuno mancava all' appello, suonava una sirena e i prigionieri venivano portati all' aperto, dove dovevano aspettare sull' attenti mentre un plotone di SS con i cani inseguiva i fuggitivi. Due terzi dei quali furono ripresi, torturati per scoprire se qualcuno li aveva aiutati. Poi venivano portati in giro con al collo un cartello in cui era scritto «Evviva! Sono tornato» e infine impiccati. Che cosa ne fu di quei pochi che riuscirono a darsi alla macchia? Possibile che nessuno abbia fatto giungere fuori dalla Germania notizie di quell' inferno? In realtà già nel novembre del 1940 un ufficiale polacco, Witold Pilecki, si era fatto internare ad Auschwitz per organizzare un movimento di resistenza e raccontare poi delle condizioni di vita del lager. Nell' estate del 1942 le notizie presero a circolare e a Londra il «Daily Telegraph» scrisse di un milione di ebrei uccisi nell' Europa orientale. Il 4 aprile del 1944 un aeroplano da ricognizione statunitense volò su Auschwitz e scattò foto assai nitide (rimaste inspiegabilmente sepolte negli archivi della Cia fino al 1979). Nell'estate del 1944 due fuggiaschi da Auschwitz, Rudolf Vrba e Alfred Weczler, confermarono e ampliarono le informazioni di cui già in molti sapevano. Ma anche coloro che si opponevano al nazismo decisero di non credere a quelle notizie. E il tutto rimase - come ha scritto Walter Laqueur in un libro edito in Italia da Giuntina - un «terribile segreto». Che fu poi svelato molto (troppo) per gradi finché, meritoriamente, Otto Friedrich ha descritto quell' inferno in ogni suo dettaglio. Il libro di Friedrich racconta tutto: una rivolta ben organizzata nell' ottobre del 1944, le dispute religiose sul senso di quell' incubo, i tentativi di Himmler di distruggere le prove dell' accaduto, le ultime impiccagioni del 6 gennaio 1945. Infine la bolgia conclusiva della «liberazione», nel corso della quale i sopravvissuti avrebbero ritrovato - pur senza la nota claustrofobica - il disorientamento che avevano conosciuto nei vagoni sigillati. Questa è stata Auschwitz.
La mia famiglia inghiottita da Auschwitz e riscoperta grazie a una pietra d'inciampo. La cuginetta sparita sul treno che portò nel campo di concentramento anche Liliana Segre. E uccisa insieme ai genitori. Grazie a una delle targhe che qualcuno bolla come "divisive", uno scrittore ritrova una pagina dimenticata della sua storia. E riflette sul presente di tutti noi. Fabrizio Rondolino il 17 gennaio 2020 su L'espresso. Non capisco che cosa ci sia di “divisivo” nelle pietre d’inciampo: chi dividono? I nazisti dagli ebrei? Le persone civili dagli assassini? L’ignoranza arrogante della storia mi sembra, forse perché sto invecchiando, il vero male oscuro dei tempi presenti, la radice del pericolo: perché è sempre stata l’ignoranza del popolo il grande serbatoio di benzina con cui i dittatori hanno dato il mondo alle fiamme. Inciampare nella memoria è necessario. Siamo abituati a serbare soltanto i ricordi più belli: è umano, ed è un efficace meccanismo evolutivo per tenerci vivi. Se il nostro cervello conservasse soltanto i ricordi brutti, alzarsi la mattina diventerebbe sempre più difficile: e questo vale per le persone come per i popoli, per la mia vita come per la nostra storia. Ma ogni tanto bisogna anche ricordare le cose brutte, le cose orribili. Un po’ per non farsi trovare impreparati se mai dovessero tornare (e oggi siamo a un’ora incerta), e un po’ perché è l’unica cosa che possiamo fare per le vittime: ricordarci di loro. Nessuna condanna ha mai potuto riportare in vita gli innocenti: invece le pietre d’inciampo ci riescono, perché la memoria riporta in vita i morti. Il 14 gennaio a Torino, in via Piazzi 3, verranno posate le pietre in ricordo di Alessandro Colombo, di sua moglie Wanda Debora Foa e della figlia Elena, deportati e assassinati ad Auschwitz. È stata una signora che abitava con i genitori in quel palazzo, e che al momento dell’arresto aveva tre anni, Piera Billotti Marinoni, a chiedere la posa delle pietre: e non saprei come ringraziarla per questo gesto insieme umile e straordinario. Alessandro Colombo era infatti il fratello di mia nonna. Fino a ora sapevo pochissimo di questo zio, se non la sua tragica fine. Per molti anni in quasi tutte le famiglie non si è mai parlato della guerra e neppure della Shoah, e la mia non faceva eccezione. Mio padre mi raccontava a volte di Elena, che aveva un anno meno di lui: insieme si esercitavano al pianoforte. Questa immagine, l’immagine di due bambini che suonano insieme, è stata ed è tuttora per me l’immagine definitiva, e forse la più angosciante, della Shoah: una bimba ebrea che sarà da lì a poco deportata su un carro bestiame e assassinata appena scesa dal treno, e un bimbo con una mamma ebrea che diventerà mio padre (fino alla fine della guerra vivranno nascosti in una cascina del Vercellese). Avrebbe potuto accadere l’inverso, e io non sarei mai nato: in questo, credo, sta l’impossibilità di farsi una ragione di ciò che è stato, dei motivi e delle cause. Dobbiamo impedire che si ripeta, ma non credo che ne capiremo mai il perché. In questi mesi ho provato a scoprire qualcosa di più su zio Sandro, grazie all’aiuto del Museo diffuso della Resistenza di Torino, dell’Istoreto, del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e di diversi studiosi e ricercatori, nonché di un cugino svizzero che ha ritrovato un intero album di fotografie: la vita di Sandro, per quel poco che ho potuto ricostruire, è stata una vita normale. Proprio come quella di quasi tutte le vittime. Il padre di Sandro era un agente di cambio, la madre era figlia di un altro agente di cambio: nato nel 1895, Sandro è cresciuto in una famiglia borghese agiata, bene inserita nel tessuto sociale e civile di Torino, liberale e laica. E fedele al Re: tutti gli ebrei piemontesi, da quando Carlo Alberto nel 1848 concesse loro i diritti civili, erano sinceri e ferventi monarchici. Non soltanto mia nonna, ma anche una sorella e un altro fratello avranno matrimoni cattolici: l’ebraismo, come in molte altre famiglie, era un tratto culturale e familiare assai più che religioso o “etnico”. Sandro studia in un istituto tecnico e a vent’anni va al fronte. Un fratello poco più grande, Arturo, sottotenente di fanteria, morirà in battaglia sull’Altipiano di Asiago. Quando ho trovato il suo nome nell’Albo d’oro dei caduti ho pensato a quanto possa essere beffardo il destino: un fratello cade nel fiore degli anni per salvare la Patria, l’altro verrà consegnato dalla Patria ai suoi assassini. Dopo la guerra Sandro avvia un’attività in proprio, ed è un lavoro che mi fa sorridere: imballaggi per dolciumi. Chissà come gli sarà venuto in mente, dove avrà imparato. Un giorno a Torino invitò a colazione il signor Motta in persona - così almeno si racconta in famiglia - e pagò senza indugio il conto, nonostante l’evidente differenza di fatturato fra i due. Non sappiamo se l’investimento si sia poi rivelato fruttuoso. Mi sono fatto di lui l’idea che fosse un uomo che amava la vita, sicuro di sé, generoso e forse anche un po’ sbruffone, sempre molto curato nell’aspetto, scapolo incallito e tombeur de femmes. E così me lo immagino in una Torino ancora gozzaniana, seduto in un caffè sotto i portici di via Po, mentre prende un vermouth con gli amici, oppure con la sua ultima conquista a passeggio per il Valentino o in una sala da ballo dove si suona il gez, come il regime l’aveva autarchicamente ribattezzato. Una foto lo mostra vestito in modo impeccabile con una sigaretta fra le labbra. Si è sposato soltanto a quarant’anni, e con una ragazza di appena diciotto, Wanda, figlia di un negoziante forse di tessuti e, a detta di tutti, incredibilmente bella. Esattamente nove mesi dopo nasce Elena, la loro unica figlia. Le foto ritrovate li mostrano a Cogne, a Bardonecchia, a Finale Ligure, come ogni famiglia torinese che si rispetti. La vita di Sandro, come quella di tutti gli ebrei italiani, si spezza nell’estate del 1938, quando il Re che lui aveva servito in guerra firma le leggi razziali di Mussolini. Elena, che ha cinque anni, non potrà più andare a scuola. Nell’Annuario industriale del ’39 la sua azienda c’è ancora: “C.S. - Fabbrica cartonaggi”, e può darsi che abbia potuto lavorare ancora per qualche anno. Ma dopo l’8 settembre del ’43 i repubblichini prendono il potere e i tedeschi arrivano a Torino. Sandro e Wanda fuggono a Forno Canavese, presumibilmente in un casolare della frazione Milani. Perché siano finiti lassù resta un mistero: ma il cappellano del piccolo santuario dei Milani, don Felice Pol, era legato alle bande partigiane della zona, e dunque potrebbe essere stato lui a organizzare la clandestinità di mio zio. Anche don Felice aveva fatto la guerra, e poi era stato vicecurato nella parrocchia dei santi Pietro e Paolo, a Torino, in largo Saluzzo: forse, chissà, si erano conosciuti al fronte e a Torino avevano continuato a frequentarsi. Ma il 7 dicembre 1943, dopo che un aereo di ricognizione aveva avvistato i “ribelli” per colpa della neve appena caduta, arriva a Forno una colonna tedesca di quasi duemila uomini, coadiuvata da forze della Guardia nazionale repubblicana, con l’obiettivo di annientare la banda partigiana “Monte Soglio”: 18 patrioti saranno catturati il 9, torturati per una notte intera e fucilati di fronte alla popolazione tenuta in ostaggio nel cortile della Casa Littoria. L’8 dicembre i tedeschi rastrellano il paese e scoprono così mio zio: «Verso mezzogiorno», racconta un testimone, «portarono nel cortile un uomo, forse un ebreo, che fu picchiato e schiaffeggiato in nostra presenza. Non so che fine abbia fatto, perché non l’abbiamo più visto». È questa l’ultima testimonianza esistente su mio zio, l’ultimo fotogramma che lo coglie nel momento esatto in cui passa dalla vita alla morte: e da quando l’ho scoperta continuo a rileggerla e a rileggerla, e non riesco a cancellare l’immagine di questo tranquillo borghese di quasi cinquant’anni, patriota, piccolo imprenditore, fedele al Re e alla patria che aveva servito al fronte, con una moglie giovane e bellissima e una figlia che suonava il pianoforte - ora trascinato fuori di casa e preso a schiaffi e a pugni e a spintoni, davanti a tutti, soltanto perché ebreo. Sandro e Wanda furono portati alle Nuove di Torino il 9 dicembre e successivamente trasferiti a Milano, nel carcere di San Vittore. Il 30 gennaio 1944 furono caricati sui carri piombati in partenza dalla Stazione centrale per Auschwitz, dove arrivarono il 6 febbraio. Su quel convoglio viaggiavano 605 ebrei, e soltanto venti tornarono a casa: fra questi, Liliana Segre. Così, ho riletto con un’emozione mai provata e piena di angoscia il racconto di quel viaggio nel libro scritto con Enrico Mentana: «Ci scaricarono davanti ai binari di manovra. Il passaggio fu rapidissimo. SS e repubblichini, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. […] Ora ci ritrovavamo nel buio del vagone, con un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni». All’arrivo, prosegue Liliana Segre, «subentrò il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, che aprirono i vagoni e ci buttarono dinanzi agli occhi assuefatti al buio la visione dell’inferno. Una spianata, uomini vestiti a righe, prigionieri con la testa rapata erano sferzati dai diavoli SS coi loro cani, per fare in fretta in fretta in fretta a radunare noi, sbalorditi, incretiniti dal viaggio, ubriachi». Wanda e Sandro, come tutte le coppie, furono separati all’arrivo: lei non superò la selezione e fu portata subito alla camera a gas, Sandro invece ebbe meno fortuna e riuscì a sopravvivere per dieci mesi nelle condizioni disumane che i sopravvissuti hanno avuto il coraggio di descriverci. La durata media della vita ad Auschwitz era di tre-quattro mesi, e mi chiedo che cosa abbia fatto o avuto Sandro di speciale: forse un qualche incarico particolare, una sana e robusta costituzione, o forse è stato soltanto il caso. Morì il 30 novembre, quando le camere a gas erano già state smantellate e l’Armata rossa avanzava rapidamente: morì dunque di dissenteria, o di tifo petecchiale, o di tubercolosi, o di sfinimento, o di botte, o con un colpo alla nuca, o chissà. Non ce l’ha fatta per meno di due mesi: i russi entreranno nel campo il 27 gennaio 1945. E la piccola Elena? Qui il mistero è più fitto, le poche testimonianze sembrano contraddire i ricordi di famiglia: ma con l’aiuto del Cdec ho potuto ricostruire una storia, se non certa, assai probabile. Prima di nascondersi a Forno, Sandro affida la figlia all’Istituto Charitas, la cui prima sede era a due portoni di distanza dal suo appartamento alla Crocetta. L’Istituto Charitas, che nel Dopoguerra passò sotto la gestione delle Suore Minime, era stano fondato nel 1909 “pel ricovero temporaneo, talora anche di poche ore, di fanciulli sani, non discoli, in stato di momentaneo abbandono”, come recita una guida di Torino del 1928. Dal ’42, quando l’Istituto già aveva traslocato in corso Quintino Sella, lo dirigevano Luigi e Rita Vinay, evidentemente valdesi. In Piemonte ebrei e valdesi sono sempre andati molto d’accordo, e dunque oltre al vicinato anche un’affinità più profonda potrebbe aver influito nella scelta di mio zio. Che dunque parte per Forno con il cuore sollevato, perché è certo che sua figlia sia al sicuro. Invece il 23 (o 25) marzo del ’44 le SS arrivano all’Istituto Charitas, che da un anno ospitava anche i bimbi e le suore di un asilo bombardato, e prendono Elena. Mia nonna disse sempre che era stata venduta, ma non so se ne avesse le prove. Col tempo si abituò alla morte del fratello, perché in fondo in guerra possono morire anche quelli che non c’entrano niente, ma non riuscì mai a farsi una ragione della delazione che portò all’assassinio della bimba. Un ebreo valeva allora 5000 lire, più o meno quanto guadagnava un operaio in quattro mesi. Elena non aveva ancora compiuto undici anni quando fu presa. Ma soprattutto - è questa l’immagine che più mi sconvolge - si ritrovò sola, completamente sola, ad affrontare l’inferno. Il 27 marzo fu trasportata a Fossoli, il campo di transito italiano vicino a Carpi, e il 5 aprile salì sui vagoni per Auschwitz. La composizione di quel convoglio è particolarmente disperante: con lei c’erano altri 32 bambini - e però ho anche pensato: almeno avrà fatto amicizia, forse avrà anche riso, e mi è venuta in mente La vita è bella - e 139 anziani arrestati alla Casa di riposo israelitica di Mantova. Perché non li hanno ammazzati tutti subito? Che senso ha trasportare vecchi e bambini attraverso mezza Europa, nel caos della guerra, per poi ucciderli all’arrivo? Elena, come tutti i bambini di quel convoglio e come quasi tutti i bambini arrivati ad Auschwitz (a meno che non fossero gemelli o non incuriosissero per qualche altra ragione il dottor Mengele), fu portata alla camera a gas appena scesa dal treno, il 10 aprile 1944. Nessuno dei due poteva saperlo, ma il suo papà era oltre i reticolati, a qualche centinaio di metri appena: così vicini, così ineluttabilmente lontani. Quando ho parlato di zio Sandro e della sua famiglia ai ragazzi di due terze medie di Torino, la III G dell’IISS Calamandrei e la III G della Calvino, che stanno facendo una ricerca su di loro con l’aiuto del Museo diffuso e dell’Istoreto (a riprova che la scuola italiana può essere magnifica), ho insistito su un punto soprattutto: gli sventurati erano persone normali, normalissime, direi persino banali. Non avevano fatto nulla di speciale, o per meglio dire nulla di diverso da quello che fa la stragrande maggioranza della gente. Siamo noi a rendere unica la nostra vita: vista da fuori, è quasi sempre come tutte le altre. Eppure dentro una vita così ovvia può all’improvviso spalancarsi, letteralmente, l’inferno. Senza motivo, senza preavviso, senza ragione. Non voglio dire che se hai la pelle di un altro colore o parli un’altra lingua - zio Sandro credo parlasse soltanto piemontese - meriti gli insulti o le botte: vorrei dire invece alle persone normali come lo era mio zio, che magari mostrano indifferenza di fronte alle discriminazioni e all’intolleranza perché, appunto, pensano sia un problema di chi ha la pelle di un altro colore, ebbene, proprio come a persone come loro, normali e benpensanti e tranquille, è capitato da un giorno all’altro di dover fuggire, nascondersi, essere presi e picchiati per strada, e poi chiusi in un carcere e poi fatti viaggiare per una settimana su un carro bestiame e poi denudati nel freddo implacato dell’inverno polacco e poi spinti col calcio del fucile in una camera a gas. Per questo non dovremmo mai essere indifferenti, ma al contrario ben svegli per saper cogliere ogni minimo segnale di discriminazione: per egoismo bisogna vigilare: perché l’intolleranza è un fuoco che divampa incontrollato persino da chi l’ha appiccato, e potrebbe bruciare chiunque di noi.
Le due sorelle che sfuggirono ai nazisti in uno chalet in Val-d’Isère. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. La storia di Huguette Müller e sua sorella Marion inizia nel dicembre del 1943. Quando le due giovani lasciano Lione, la città non era più sicura da tempo, poiché Klaus Barbie - il leader delle SS noto come il Macellaio di Lione - aveva iniziato a intensificare i rastrellamenti di ebrei. Le due giovani donne si mettono in cammino verso le Alpi, come meta hanno un villaggio della Val d’Isère, a pochi chilometri dal confine italiano. Nell’inverno del 1943 però quelle montagne non erano un luogo sicuro per due giovani ebree. I soldati tedeschi trasferiti dal fronte russo erano di stanza all’Hotel des Glaciers della Valle e all’epoca avevano già saccheggiato ristoranti e bruciarono gli chalet. Il motivo per cui le due giovani avevano scelto la valle come rifugio era forse che Marion fosse stata così consigliata da Pierre Haymann, un membro della resistenza francese, che sarebbe poi diventato suo marito. Una volta arrivate, Huguette però scivola e si rompe una gamba. Data la gravità della frattura la giovane avrebbe dovuto essere trasferito all’ospedale di Bourg St Maurice, nella valle. Spaventata dall’ipotesi che il ricovero potesse far saltare la loro copertura, Marion viene presa dal panico e dà un pugno in faccia al dottore. Né Huguette né Marion hanno mai parlato per molto tempo della loro vita sulle Alpi. «Marion agitava la mano con disprezzo ogni volta che le veniva chiesto. Rimane solo una fotografia di quel periodo», racconta per la Bbc, la storica britannica Rosie Whitehouse, nuora di Marion. Dopo la morte di Huguette, Whitehouse trova in una valigia una vecchia foto che la ritrae davanti ad uno chalet. Passa qualche altro anno e Whitehouse convince Marion a raccontare tutta la storia. Entrambe le sorelle erano nate a Berlino negli anni ‘20 ed erano fuggite in Francia dalla Germania con i loro genitori nel 1933, subito dopo la salita al potere di Hitler. Mentre Marion aveva documenti falsi, Huguette ne era sprovvista. «Quando il medico mi spiegò che Huguette rischiava di rimanere zoppa se non l’avessi portata in ospedale, risposti che era meglio zoppa che morta». Ed è a quel punto che il medico capisce di avere davanti due fuggiasche. E si offre di dare loro ospitalità e aiuto. A rischio della propria stessa vita. Frédéric Pétri — questo il nome dell’uomo — ospita le due ragazze nello chalet in cui vive con sua madre e sua sorella. E quando il tempo migliora permette alle ragazze di fare un rapido giro in giardino, ancora una volta rischiando in prima persona. Di questo atto eroico di Pétri però non si trova traccia nelle cronache locali. Ma l’ipotesi di Whitehouse è che facesse parte di un gruppo di giovani anti tedeschi. «Sperando di saperne di più sulle attività di resistenza in Val d’Isère, ho inviato una serie di e-mail e lasciato post sulla pagina Facebook del resort», racconta Whitehouse. A risponderle è Roby Joffo - il cui zio, Joseph Joffo, è autore di uno dei romanzi francesi più famosi sull’Olocausto, «Un sacchetto di biglie». Anche il padre di Roby, Henri, e suo zio Maurice (fratelli maggiori di Joseph Joffo) si erano rifugiati in Val d’Isère durante l’inverno del 1943-44, e avevano lavorato come parrucchieri sulla strada principale proprio di fronte al Lo chalet di Pétri. Roby è fermamente convinto che ci fossero altri ebrei nascosti nella valle. Ma nessuno ne parla. E ancora oggi le famiglie che vivono in Val d’Isère non ne fanno cenno. Una delle ipotesi di Whitehouse è che «l’unico modo per continuare a convivere con i vicini dopo la guerra sia stato di dimenticare quello che era successo», anche perché «la regione era cattolica, conservatrice e di destra». Huguette ora vuole che il coraggio e la gentilezza di Pétri siano riconosciuti e quindi ha chiesto a Whitehouse di scrivere a Yad Vashem, il Centro della memoria dell’Olocausto a Gerusalemme, per chiedere se prenderà in considerazione il riconoscimento di Pétri come uno dei Giusti tra le Nazioni - un elenco di persone non ebree che hanno rischiato le loro vite per aiutare gli ebrei durante l’Olocausto. Una richiesta che però richiederà altro tempo per essere vagliata.
Giorno della Memoria. Non lasciamo che Auschwitz anneghi nella retorica. Che senso ha dire “mai più” e poi vendere armi, portare la guerra nel mondo, negare i diritti ai rifugiati? In vista dei 75 anni della ricorrenza, una filosofa e uno scrittore riflettono sul senso vero del ricordare. Donatella Di Cesare e Wlodek Goldkorn il 26 gennaio 2020 su La Repubblica. Da quando, quindici anni fa, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva deciso di istituire il Giorno della memoria e fissarne la data il 27 gennaio, il giorno appunto in cui nel 1945 le truppe dell’Armata rossa aprirono i cancelli di Auschwitz, quel lager diventò qualcosa di più di un luogo di morte e di sofferenza, quasi indicibili. Auschwitz si trasformò in un sinonimo della Shoah. O se vogliamo in una metonimia o una sineddoche, figure retoriche dove una parte fa da simbolo alla totalità del fenomeno e che si prestano a svariate interpretazioni e usi. Intanto, quel campo in terra di Slesia non fu la prima fabbrica della morte scoperta dai sovietici: già nell’estate del 1944, i russi scoprirono le macerie di Treblinka (900 mila ebrei assassinati in pochi mesi). E poi, quando si parla della liberazione di Auschwitz occorre tener presente che da liberare c’era ben poco. Al momento nel campo si trovavano appena duemila prigionieri, gli altri 65 mila, ancora in vita, furono avviati dai tedeschi nella famigerata marcia della morte verso altri lager, più a ovest, marcia in cui perirono circa 15 mila persone. In totale ad Auschwitz morirono circa un milione 100 mila esseri umani. Cominciamo questa nostra conversazione con alcune domande e l’indicazione di alcuni problemi riguardanti i modi e le conseguenze del fatto che un luogo maledetto ma assai concreto si trasformò in un simbolo. Il primo. Dal momento che fu l’Onu, un’organizzazione di Stati nazione sovrani a istituire la ricorrenza del 27 gennaio, la memoria della Shoah è diventata anch’essa affare di Stato, vicenda da presidenti, primi ministri, Parlamenti. E così, nei prossimi giorni avremo almeno due momenti solenni. Ad Auschwitz arriveranno i monarchi di Olanda, Spagna, Svezia e presidenti e premier di svariati Paesi. Ma prima, il 23 gennaio, a Gerusalemme ci saranno oltre quaranta fra capi di Stato e di governo. A prendere la parola saranno i rappresentanti delle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, oltre a quelli di Germania e Israele. Il presidente polacco Andrzej Duda ha annunciato che non verrà alla cerimonia israeliana dato che vi parlerà Putin e non lui. Infatti fra i russi e i polacchi c’è un conflitto sulle cause di quella guerra. E non è una discussione fra storici, ma fra autorità politiche delle rispettive nazioni. Che senso ha tutto questo? Che senso ha che politici dicano «mai più» e poi vendano armi che uccidono, facciano guerre, neghino i diritti ai rifugiati?
Donatella Di Cesare. «Non mi sorprende che gli Stati vogliano occupare la memoria, prenderne quasi possesso, rivendicando Auschwitz, il luogo stesso e il simbolo. È un feticismo della memoria, che emerge nelle commemorazioni sempre più trite e banali. Si sbandiera la pietà della memoria, mentre viene meno il compito di ricordare. Il risultato paradossale è l’amnesia collettiva. Ne parleremo forse in seguito. Questa gara fra gli Stati avviene anche perché nella nostra cultura la figura del vinto è stata sostituita da quella della vittima. E la vittima è ormai la figura fondativa. Sono ovviamente gli Stati europei ad avanzare questa pretesa vittimaria. Oggi in particolare i polacchi. Ma perfino la Germania, nel passato, è stata tentata, più volte, dal ruolo della vittima».
Goldkorn. «Un chiarimento doveroso: i polacchi erano fra le principali vittime del nazismo. La discussione che oggi divide in due la società riguarda le complicità di molti cittadini nello sterminio dei vicini di casa ebrei. E un’osservazione sui tedeschi. Accanto al Parlamento di Berlino è stato edificato un gigantesco monumento alle vittime dello sterminio. È come se la memoria della Shoah fosse fondativa di una Germania riunificata. Un paradosso inquietante».
Di Cesare. «La penso diversamente. Quel monumento è molto controverso. Sin dall’inizio è stato contestato dalle comunità ebraiche tedesche perché appariva troppo neutro, senza nessun rinvio allo sterminio degli ebrei. Per questo in seguito è stato costruito a parte un museo. Sono convinta comunque che con questo monumento la Germania abbia tentato di chiudere in qualche modo, dopo la riunificazione, il terribile capitolo dello sterminio. Di certo non è un atto fondativo. Piuttosto è memoriale voluto fortemente dall’alto, dall’élite governativa. Per il resto, il rapporto che la Germania ha con lo sterminio è ben diverso da quello che ha l’Italia. Il paragone a mio avviso non sta in piedi».
Goldkorn. «In Italia ci fu una guerra civile. I conti con il fascismo li hanno fatti i partigiani. Poi ci sono elaborazioni (anche sulle contraddizioni della Resistenza) che spettano agli storici e intellettuali, ma è altra cosa. In Germania invece il nazismo finì per mano delle potenze che occuparono il Paese. Ma vorrei introdurre un altro tema: memoria condivisa e memoria divisiva. Un giorno chiesi a Marek Edelman, il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, se una memoria condivisa potesse esistere. Mi rispose con un’altra domanda: credi seriamente che la mia memoria da combattente possa avere qualcosa in comune con la memoria di un poliziotto (e sottolineò, ebreo) nel ghetto? La memoria per sua natura e statuto è divisiva».
Di Cesare. «Bisogna distinguere fra memoria individuale e ricordo collettivo. La memoria è la facoltà di ciascuno, che per giunta è selettiva. Altro è il ricordo, cardine dell’ebraismo. Si condivide insieme il ricordo di una narrazione. Prima fra tutte quella dell’esodo, il cammino verso la libertà. Condivisione non significa peraltro uniformità. Detto questo, la memoria di quel che è avvenuto non potrà mai essere la stessa, tanto meno per il protagonista della rivolta e per il poliziotto. Alla domanda se la memoria della Shoah sia condivisa, rispondo: assolutamente no. Le narrazioni dei popoli sono divergenti e divergenti sono gli usi che se ne fanno».
Goldkorn. «C’è una differenza fra chi è testimone diretto della Shoah e noi, la generazione nata dopo, che ne abbiamo solo sentito parlare o studiato sui libri. I testimoni stanno scomparendo. Ne restano pochi e preziosi. Ha parlato prima del compito della memoria. Come si fa a trasmettere il ricordo alle generazioni future? Non basta il comandamento, zakhòr, in ebraico: ricorda, di cui ha parlato».
Di Cesare. «Torno all’inizio, al feticismo della memoria, che ha finito per provocare una specie di amnesia collettiva. In Italia, e perfino in Germania, l’antisemitismo continua a esistere. Anzi aumenta! Come mai? Perché?
Goldkorn. La risposta?»
Di Cesare. «Poco studio, poca riflessione e un dibattito pubblico carente. Si pensa che l’antisemitismo sia una forma specifica del razzismo. Questo semplifica il fenomeno. Si trascura, ad esempio, che la mobilitazione antisemita attinge all’archivio dell’antiebraismo cristiano. Nuovi stigmi si intrecciano ai precedenti, accuse dimenticate riemergono con accenti inediti. Basti pensare a tutte le forme del complottismo. La Shoah non ha spinto a conoscere e studiare la storia e la tradizione ebraica. Un peccato! Ma il feticismo della memoria pone altri problemi. Ho l’impressione che molti pensino che il viaggio ad Auschwitz sia sufficiente».
Goldkorn. «L’anno scorso i visitatori italiani sono stati 130 mila, dei due milioni trecento mila in totale: la quarta nazione per quantità dei visitatori al Museo di Auschwitz. Moltissimi sono studenti delle medie superiori che arrivano in viaggi organizzati dalle scuole. Con tutte le critiche che si possono fare riguardo alla sistemazione di quel luogo, non è una cosa negativa che specie i giovani abbiano l’occasione di toccare con mano l’orrore».
Di Cesare. «Sono sempre stata scettica sui viaggi ad Auschwitz. Ci sono professori bravissimi, ottime scuole, dove gli studenti vengono preparati al viaggio con letture, conversazioni, percorsi di apprendimento. Per non parlare poi dell’incontro decisivo con i sopravvissuti. Esiste, però, il rischio che si punti solo sull’emozione, sull’effetto choc, mentre l’attenzione si concentra sulla ragionieristica del campo, o meglio, di quel poco che è rimasto del campo ad Auschwitz-Birkenau, il vero teatro dello sterminio».
Goldkorn. «Il luogo dove la vita del prigioniero durava poche ore, perché dai vagoni si passava direttamente alle camere a gas».
Di Cesare. «Ecco, di quella parte si è conservato pochissimo. Ripeto: va bene visitare quel luogo e ascoltare i testimoni. Il mio timore è che, finito il pellegrinaggio, affievolitasi l’emozione, tutto venga liquidato. Importante è studiare e riflettere. Vorrei aggiungere che una certa musealizzazione della Shoah può provocare grandi ipocrisie. È perfino possibile andare in pellegrinaggio ad Auschwitz, esprimendo lì per lì pietà per le vittime, e al ritorno condividere parole antisemite su Facebook o Twitter o rilanciare slogan razzisti».
Goldkorn. «Parliamo dell’uso politico della memoria. Ágnes Heller diceva che il nazionalismo era il peccato originale dell’Europa. Però, non tutti i nazionalismi portano al fascismo e perfino non tutti i fascismi finiscono con creare Auschwitz. Ammesso che esista, la lezione della Shoah è: non possiamo restare indifferenti, non possiamo permettere che migranti anneghino in mare, che bambini muoiano nei carrelli degli aerei».
Di Cesare. «Per quanto mi riguarda ho un concetto ben più negativo del nazionalismo, che ritengo un gravissimo pericolo. Di più: considero la «nazione» un’entità fantasmatica. E penso che sia venuto finalmente il tempo di denazionalizzare le menti. Da allora la cornice politica non è molto mutata. L’Europa resta un coacervo di Stati-nazione. Prendiamo, ad esempio, il tema della cittadinanza. Non è stato fatto molto. I passaporti europei sono un duplicato dei passaporti italiani, spagnoli, francesi.... Chi perde la nazionalità resta fuori dalla cittadinanza europea. Questo è grave. Soprattutto se si pensa al passato, quando, nel 1935, con le leggi di Norimberga, gli ebrei tedeschi diventarono apolidi. Non trovarono rifugio nel contesto europeo. Da lì all’internamento il passo fu breve. E oggi il problema resta, sia per gli europei, sia per i tanti profughi. Possiamo dire di vivere ancora all’ombra di Auschwitz perché per noi è sempre ovvio il campo di internamento – un’invenzione novecentesca - l’idea, cioè, che sia lecito internare o far internare (come in Libia) esseri umani. C’è un mondo di Stati e un mondo di campi. È una terribile eredità. Ha senso il confronto tra quel che è avvenuto decenni fa e quel che avviene oggi? Per me sì».
Goldkorn. «Potrei citare ancora una volta Edelman che paragonò la Sarajevo assediata dai serbi al ghetto di Varsavia, e così aveva fatto un uso radicale della propria memoria a difesa di chi era aggredito. Però dovrei obiettare: internamento non significa sterminio».
Di Cesare. «Il campo di internamento non è in nessun modo campo di sterminio. Ma ambedue fanno parte dell’universo concentrazionario. Il principio è internare ed escludere. Ci sono gradi e differenze, ma c’è anche, purtroppo, una continuità».
Goldkorn. «Finiamo in bellezza. Alla lettera. La memoria vive prima di tutto nelle opere d’arte, nella letteratura, nella poesia. E se pensiamo alla poesia come a una verità, a rappresentare la Shoah meglio di tutti è un poeta che non è mai stato ad Auschwitz, Paul Celan».
Di Cesare. «Sì, quest’anno ricorre il centenario della nascita e 50esimo della morte. Celan è stato forse il maggiore poeta di lingua tedesca nel Novecento. Non è possibile, però, etichettarlo solo come "poeta della Shoah". Ma certo è riuscito ad articolare il rantolo in cui minacciavano di soffocare per sempre le vittime e a incidere questa ferita nel tedesco, quella lingua madre che era divenuta purtroppo la lingua della morte».
Astronomi e filologi, quei cervelli in fuga dalle leggi razziali. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Di Stefano. Le storie in un portale web dell’Università di Firenze: intellettuali, letterati, scienziati e professionisti italiani che a causa della loro origine ebraica si rifugiarono all’estero. È vero che l’Italia è stata, ed è, terra di emigranti poveri e senza cultura. Ma oggi sappiamo che c’è un’altra emigrazione italiana: quella dei cosiddetti «cervelli in fuga». Tutt’altro che un fenomeno nuovo, che merita di essere studiato. A questo deve aver pensato Patrizia Guarnieri, docente di Storia contemporanea all’Università di Firenze, nel creare un portale sui cervelli in fuga dall’Italia fascista, che ricostruisce le biografie non solo dei docenti ebrei espulsi dalle Università ma in generale di quegli intellettuali, letterati, scienziati e professionisti italiani che trovarono rifugio all’estero, magari per restarvi anche dopo la caduta del regime. E sono centinaia di «vite in movimento», tanto più se si contano le famiglie al seguito, i figli studenti, i nipoti che verranno. I casi sono tanti e variegati. Noti e meno noti. Il filologo e ispanista mantovano Ezio Levi D’Ancona aveva 54 anni, era sposato con Flora e aveva cinque figli quando dovette lasciare la cattedra a Napoli: decise di trasferirsi negli Stati Uniti con la moglie, fu ospitato a New York da Enrico Fermi, suo parente, e non ebbe vita facile se solo nel 1940 ottenne un posto in un College femminile di Boston, un anno prima di morire. I figli, lasciati con il suocero, avrebbero trovato rifugio in Svizzera nel gennaio 1944: nel 1946 Mirella sarebbe sbarcata a New York con il fratello Viviano, raggiungendo la madre e un altro fratello, Vivaldo. Full professor di Storia dell’Arte all’Hunter College, Mirella sarebbe diventata una notevole studiosa di arte rinascimentale, mentre l’ingegnere e imprenditore Vivaldo si sarebbe trasferito in Brasile. Famiglie in movimento. Come quella del cardiologo Massimo Calabresi, già finito in carcere nel 1923 (era attivo in Giustizia e Libertà). Senza dimenticare le due sorelle: Renata, psicologa, e Cecilia, esperta di letteratura comparata, anche loro amiche dei fratelli Rosselli e di Salvemini. In fuga con le leggi razziali, i Calabresi partono Oltreoceano, dove si affermeranno lentamente nei rispettivi campi: nessuno rientrerà in Italia. Massimo morirà a New Haven nel 1988 (sua moglie Bianca Maria Finzi Contini nel 1982), mentre il figlio Paul, sarebbe diventato un importante oncologo americano e Guido un giudice e giurista. Per ricostruire le biografie perdute bisogna ricorrere spesso ad archivi stranieri: e quando si può sono schede dettagliate con tanto di segnalazione dei familiari emigrati, degli enti di soccorso e delle relazioni d’aiuto. Chi conosce l’italiano d’Egitto Vinicio Barocas? Classe 1914, arrivò a Firenze nel ’32 per laurearsi in Fisica e frequentare la prestigiosa scuola di Fermi e Persico, emigrò in Inghilterra nel 1939 per non rientrare mai più: morì a Preston più che centenario nel 2016 dopo mille vicissitudini (compreso un internamento in Canada) che lo portarono a diventare da assistente nell’osservatorio astronomico di Greenwich a direttore dell’osservatorio di Preston. Si potrebbe continuare con la vicenda del fiorentino Umberto Cassuto, rabbino di Firenze fino al ’25 ed eminente ebraista, emigrato in Palestina il 5 giugno 1939 con la moglie Bice e le due figlie. La lista dei familiari duramente colpiti dalle persecuzioni è quasi interminabile. Pochi dei sopravvissuti rientrarono in Italia. Ci sono poi i sopravvissuti che vengono rifiutati anche dopo la guerra: come Enzo Bonaventura, uno dei maestri della psicologia sociale, che rifugiato a Gerusalemme fece un tentativo per rientrare a Firenze ma venne bocciato ai concorsi. Cancellato dal suo Paese, morì nel 1948 vittima del massacro terroristico di Hadassah. L’università, nel Dopoguerra, stentò a reintegrare gli accademici cacciati. L’italianista Attilio Momigliano, condannato alla «morte civile» nel ‘38, rinunciò alla cattedra che gli venne offerta in Inghilterra: al suo posto nell’Università di Firenze, Bottai chiamò «per alta fama» Giuseppe De Robertis che accettò volentieri dopo il rifiuto di Massimo Bontempelli e di Luigi Russo (disgustato dalla «repugnanza della cosa»). Dopo la guerra la cattedra fu sdoppiata in modo che De Robertis non venisse scomodato.
Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 27 gennaio 2020. Nel suo importante saggio I volonterosi carnefici di Hitler, lo storico Daniel Goldhagen scrive: «Non v' è dubbio che nel 1939 la Germania fosse ormai riuscita a conseguire la morte civile degli ebrei». Per la morte effettiva, ci sarebbe voluto ancora qualche anno. Ma già dall' ascesa al potere di Hitler, nel 1933, la discriminazione degli ebrei venne avviata con la caratteristica energia del regime nazista. Tuttavia, come si sa, l' antisemitismo è fenomeno più antico di Hitler, che ne è stato l' esponente più fanatico e ferocemente organizzato. È interessante, per capire l' antisemitismo, spostare indietro le lancette della storia di una decina d' anni, e rileggere un curioso romanzo uscito a Vienna nel 1922, La città senza ebrei, firmato da un non meno curioso personaggio, Hugo Bettauer, e da poco ripubblicato da Chiarelettere (128 pagg., 14 euro). Sembra una favola, perché ha un tono leggero e quasi trasognato. Ma il contenuto è, alla luce di quanto riserverà il futuro, agghiacciante: si racconta che un giorno, a Vienna, sostenuto dalla maggioranza popolare, il cancelliere e ministro degli Esteri cristianosociale Schwertfeger proponga e faccia approvare dal parlamento alcune leggi che obbligano gli ebrei a sloggiare dall' Austria. La storia del romanzo, che si sviluppa in brevi capitoli somiglianti quasi a vignette (Bettauer fu prolifico giornalista e romanziere, aveva la penna facile per la prosa arguta e rapida, pur non essendo un Karl Kraus) o a scene cinematografiche (da un suo romanzo, La via senza gioia, un maestro dell' espressionismo tedesco, Georg W. Pabst, trasse un film con Greta Garbo) è tanto esile quanto chiara: dopo la forzata dipartita degli ebrei, le finanze austriache vanno prevedibilmente a picco, i negozi più eleganti si svuotano, le prostitute non possono più mantenere i loro giovani amanti ariani con i soldi dei protettori giudei, le raffinate e costose pasticcerie vengono sostituite da spacci di würstel e birra, agli eleganti capi parigini sfoggiati dalle dame israelitiche si sostituisce la triste moda indigena del loden e degli scarponi chiodati. Insomma, come dice a un certo punto l' avvocato dottor Haberfeld, ariano purosangue: «Vienna senza gli ebrei si sta trasformando in uno stagno!» Nemmeno l' operetta aiuta più (si ricordi che la famiglia Strauss, quella dei valzer di Capodanno e dell' operetta Il Pipistrello, era ebraica), al suo posto i compositori ariani non riescono a sfornare altro che "polpettoni". Per non parlare del disastro all' Opera di Vienna, falcidiata dei suoi migliori musicisti in quanto ebrei. Quest'ultimo particolare è uno dei tanti spunti del romanzo che, salito Hitler al potere, diverrà tragica realtà quando Furtwaengler, il direttore dei leggendari Filarmonici di Berlino, dovette fare i conti con un' orchestra privata di musicisti di prim'ordine, e con l'imposizione di non eseguire musiche di autori, come Mendelssohn, di origine israelitica. L'ipotesi che la cacciata degli ebrei avrebbe rappresentato un enorme danno non solo economico, ma anche culturale, è messa debitamente a fuoco nel romanzo. E non si avrebbe torto di dire che, se la Mitteleuropa è caduta politicamente alla fine della Prima guerra mondiale, il suo definitivo, corporale annichilimento, per via della capillare persecuzione nazista che ha svuotato i paesi dell' Europa centrale di scrittori, musicisti, scienziati non sostituibili (arricchendo economicamente e culturalmente altri paesi, come l' America), è avvenuto solo con la fine della Seconda guerra. Ma abbiamo detto che Bettauer, che pure si guadagnò le lodi di Robert Musil, non è Karl Kraus. Infatti la sua beffa, nonostante la mordacità con cui finge di piangere lacrime per «il vecchio austriaco purosangue che presto si sarebbe visto solo nei libri» minacciato dall' astuzia e dall' intraprendenza ebraica, conserva una leggerezza lontana dall' acida cattiveria di Kraus, e che lo avvicina, piuttosto, alle pallide speranze di convivenza con l' oppressore, nutrite, prima della fuga e del suicidio, da Stefan Zweig. Si ha la sensazione che Bettauer si augurasse che la minaccia antisemita, una volta messa in burla con tinte sarcastiche ma non particolarmente aggressive, sarebbe stata disinnescata. Così la storia della Citta senza ebrei si conclude con l' inevitabile ritorno dei perseguitati in un' atmosfera addirittura di apoteosi. Ma la tolleranza riconquistata che Bettauer si augurava, quell' accoglienza che avrebbe dovuto seguire al delirio antisemita, non doveva trovar posto nella storia, e il primo a farne le spese fu proprio lui, assassinato da un fanatico nazista, nel 1925, mentre si trovava nella redazione di uno dei tanti giornali cui collaborò o che fondò. L'assassino, difeso da avvocati vicini al nazionalsocialismo, scontò una breve pena e venne liberato. Si dimostrava così che, a Vienna, uccidere uno scrittore avendo come movente l' antisemitismo era legittimo. Privo di ogni resistenza interna, Hitler marciava a grandi passi verso la presa del potere che gli consentì di mettere in pratica quanto Bettauer aveva operettisticamente rappresentato con animo ancora ingannato dalla speranza.
Giornata della memoria, “i due amanti di Auschwitz” si incontrano dopo 72 anni. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Per combattere e non dimenticare gli orrori dei campi di concentramento nazista, nella giornata della memoria è utile ricordare un’incredibile storia d’amore. I protagonisti, David Wisnia e Helen Spitzer, si sono conosciuti e innamorati nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943. Entrambi ebrei, lui aveva 17 anni di origine polacca mentre lei ne aveva 25 ed era slovacca. I due “amanti di Auschwitz” sono entrambi sopravvissuti e si sono ritrovati dopo 72 anni a New York. La loro tenera ed incredibile storia è stata raccontata dal New York Times attraverso la testimonianza di David Wisnia, sopravvissuto di ormai 93 anni. LA STORIA – David ha raccontato di aver incontrato di nuovo la sua amata “Zippi”, così chiamava Helen, ben 72 anni dopo il loro allontanamento forzato. I due, quando ancora si trovavano ad Auschwitz, pianificarono di stare insieme e si erano giurati amore eterno. Pur sapendo che erano in pericolo, si promisero di rincontrarsi se sopravvissuti all’orrore del lager. La promessa era quella di rivedersi a Varsavia al termine della guerra, invece i due amanti sono diventati entrambi americani e si sono rincontrati a New York nel 2016. Entrambi riuscirono a salvarsi per il loro talento. David Wisnia, infatti, aveva una bellissima voce e fu ingaggiato per intrattenere i soldati tedeschi. Deportato nel campo di concentramento nazista di Auschwitz a soli 17 anni, riuscì a scampare alla morte grazie alla sua attitudine. Helen invece fu imprigionata nel 1943 a 25 anni, ma anche lei aveva una grande predisposizione grazie alla conoscenza del tedesco e della sua abilità nel disegno. Riuscirono ad avere una relazione segreta per diversi mesi, ma Wisnia fu trasferito nel campo di concentramento di Dachau nel 1944 lasciando così Auschwitz. La soprannominata Zippi, invece, fu una delle ultime donne a lasciare ancora viva Auschwitz e riuscì a raggiungere il primo campo che ospitava ebrei americani nella Germania occupata, dove incontrò e sposò il capo della polizia locale, Erwin Tichauer.
L’INCONTRO – Sia David che Helen si trasferirono negli Stati Uniti dove costruirono separatamente la propria famiglia e il proprio lavoro. David è stato il primo tra i due a venire a conoscenza del destino di Helen, infatti riuscì a sapere che il suo grande amore era sopravvissuta alla prigionia e che era emigrata nel Nord America. “Erano passati 72 anni dall’ultima volta che aveva visto la sua ex ragazza. Aveva sentito che era in cattive condizioni di salute, ma sapeva ben poco della sua vita”, riporta il New York Times. Solo dopo tutti quegli anni, quando ormai Helen era già debilitata, riuscirono ad incontrarsi a Manhattan nel 2016. L’anno scorso la donna è venuta a mancare a 100 anni, ma i due amanti sono riusciti a coronare il loro desiderio di ricongiungersi dopo la fine di Auschwitz.
La «neonata di Auschwitz» e altri 200 sopravvissuti: insieme per i 75 anni della liberazione. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Michele Farina. Il più vecchio ha 101 anni, la più giovane è nata ad Auschwitz, da prigioniera. E ci è tornata oggi, insieme con altri duecento sopravvissuti, forse per l’ultima volta, sempre per tenere viva la memoria. La neonata di Auschwitz ha 75 anni, l’età della liberazione: il 27 gennaio del 1945 i primi soldati russi entravano nel campo dove i nazisti avevano ucciso un milione e centomila persone, quasi tutti ebrei. Eva Szepesi, ungherese di Budapest, catturata nel 1944 con la mamma e il fratello, quel giorno era là sdraiata su un tavolaccio, moribonda. I nazisti che volevano svuotare il lager dai testimoni viventi non l’avevano nemmeno inserita tra i prigionieri destinati alle «marce della morte». Ma «qualcuno, non so chi, mi diede da bere la neve - ha raccontato al quotidiano The Guardian la signora Szepesi, che oggi vive a Francoforte in Germania - Mi ricordo la neve, il suo sapore: com’era buona. E mi ricordo un soldato con il cappello di pelliccia e la stella rossa che si china su di me e sorride». Eva ha 87 anni e oggi è ad Auschwitz con la figlia Anita. E’ il giorno dei sopravvissuti, che non sono soli. Sono arrivati con parenti, amici, molti giovani. C’è la consapevolezza che potrebbe essere l’ultima occasione per ritrovarsi nel luogo che ha segnato le loro vite. Nel pomeriggio, sotto una tenda, là dove arrivavano i treni piombati con il loro carico umano, c’è la cerimonia con le autorità e i leader politici. Parla il presidente polacco Andrzej Duda. E se non c’è Vladimir Putin, che accusa la Polonia di aver collaborato con Hitler all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ben più importante è la presenza di Ernest Ehemann, 91 anni, che viene dal Canada: «Questo è il mio tredicesimo ritorno. E ogni volta è come se un video terribile ripartisse nella mia mente. L’arrivo con i miei genitori, la nostra separazione. Loro a sinistra e io a destra. Soltanto alla liberazione ho scoperto che erano morti, mezz’ora dopo il nostro arrivo». A sinistra le camere a gas, a destra la vita e la morte nel lager. «E’ un dolore, ma voglio tornarci - racconta Ernest — E’ l’ultimo posto dove ho visti vivi il mio papà e la mia mamma». Con Ernest c’è la figlia sessantenne Audrey: «E’ la terza volta che vengo, e non lo sento come un peso. Sento che questa è una parte di me, come è una parte di me imparare a raccontare la storia dei mei genitori e di chi ha vissuto la loro esperienza». Eva Szepesi, il numero 26877 tatuato sul braccio sinistro, ha scoperto soltanto nel 2016 che la mamma e il fratello erano morti ad Auschwitz, due dei sei milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto. «E’ stata mia nipote a scoprire i nomi scritti in bianco e nero» nell’elenco delle vittime. Per decenni Eva ha preferito non indagare, non sapere. E’ una cosa naturale. Ed è bello che siano le nuove generazioni a cercare le tracce della memoria. Jona Laks ha 90 anni, viene da Israele. E’ una delle ospiti d’onore delle celebrazioni di oggi: «Sembra impossibile che sia passato tanto tempo — racconta alla Reuters sotto il cielo grigio di Auschwitz — Rivedo il forno, le scintille dal camino, l’odore della carne bruciata». Jona non doveva essere lì. Aveva 14 anni quando dal ghetto ebraico di Lodz, nella Polonia occupata dai nazisti, fu condotta al lager nel carro bestiame, con la gemella Miriam e la sorella più grande Chana. Jona all’arrivo del treno fu mandata a sinistra, verso i forni, le sorelle a destra. Era un dottore delle SS a fare la cernita: camere a gas o campo di lavoro. Il suo nome era Joseph Mengele, il famigerato «Angelo della Morte. «Arrivò con i cani e un bastone. Destra, sinistra, destra, sinistra. Non penso che neppure guardasse le persone, sembrava annoiato — ricorda la signora Laks — Quando ci separarono, mia sorella maggiore lo implorò: Non separi due gemelle». E Mengele, che era interessato per aberranti motivi pseudoscientifici agli esperimenti su fratelli e sorelle siamesi, mandò un ufficiale a recuperare Jona dalla fila di sinistra. «Fui fortunata - dice oggi lei - O forse sfortunata», prosegue dopo un istante di silenzio. «A volte penso che neppure gli animali potrebbero sopravvivere alle crudeltà a cui fummo sottoposti» racconta la nonna alla nipote Aldar che l’accompagna. Al Blocco 10 la signora Laks si ferma: lì c’era il laboratorio di Mengele. Fuori, un cortile con quello che viene chiamato «il muro della morte», dove i prigionieri a volte venivano allineati e uccisi, e dove oggi i sopravvissuti si ritrovano per accendere candele alla memoria. Altre scintille. «Dall’interno, sentivamo i lamenti di chi veniva assassinato», dice la novantenne sopravvissuta. Poi guarda Aldar, e ha come un sussulto. «Sono qui con mia nipote, posso dire che ce l’abbiamo fatta. Io ho vinto la guerra. Noi abbiamo un futuro».
Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 28 Gennaio 2020. Il più vecchio ha 101 anni, la più giovane è nata ad Auschwitz, da prigioniera. E ci è tornata ieri, insieme con altri duecento sopravvissuti che hanno varcato il cancello con la scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi) forse per l' ultima volta, sempre per tenere viva la memoria. Tra loro, dicono al Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), non c' era nessuno dei tredici italiani, ancora in vita, passati dal Lager simbolo del male assoluto. La neonata di Auschwitz ha 75 anni, l' età della liberazione: il 27 gennaio del 1945 i primi soldati russi entravano nel campo dove i nazisti avevano ucciso un milione e centomila persone, quasi tutti ebrei. Angela Orosz è nata settimina: la mamma, Vera Bein, della comunità ebraica ungherese (425 mila deportati da maggio a luglio 1944, 90% sterminati) era stata presa come cavia umana dai «dottori» nazisti. Il parto fu indotto con un' iniezione dolorosissima. Quando venne alla luce pesava un chilo: «Ero troppo debole per piangere - ha raccontato anni fa -. E questo probabilmente mi ha salvato». Cinque mesi dopo, il campo fu liberato. In una baracca quel giorno nacque un altro bambino, Gyorgy Faludi. «Sua madre era troppo debole, così la mia mamma allattò tutti e due». Eva Szepesi, anche lei ungherese di Budapest, anche lei catturata nel 1944 con la mamma e il fratello, il giorno della liberazione era sdraiata su un tavolaccio, moribonda. I nazisti che volevano svuotare il Lager dai testimoni viventi non l' avevano nemmeno inserita tra i prigionieri destinati alle «marce della morte». Ma «qualcuno, non so chi, mi diede da bere la neve - ha raccontato al Guardian la signora Szepesi, che oggi vive a Francoforte in Germania -. Sono sopravvissuta grazie alla neve. Mi ricordo il suo sapore: com' era buona. E mi ricordo un soldato con il cappello di pelliccia e la stella rossa che si china su di me e sorride». Eva ha 87 anni e ieri era ad Auschwitz con la figlia Anita. Il 27 gennaio è il giorno dei sopravvissuti, che non sono soli. Sono arrivati con parenti, amici, molti giovani. C' è la consapevolezza che potrebbe essere l' ultima occasione per ritrovarsi nel luogo che ha segnato le loro vite. Nel pomeriggio, sotto una tenda, là dove arrivavano i treni piombati con il loro carico umano, si è tenuta la cerimonia con le autorità e i leader politici. Ha parlato il presidente polacco Andrzej Duda. E se non c' è Vladimir Putin, che accusa la Polonia di aver collaborato con Hitler all' inizio della Seconda Guerra Mondiale, ben più importante è la presenza di Ernest Ehemann, 91 anni, che viene dal Canada: «Questo è il mio tredicesimo ritorno. E ogni volta è come se un video terribile ripartisse nella mia mente. L' arrivo con i miei genitori, la nostra separazione. Loro a sinistra e io a destra. Soltanto alla liberazione ho scoperto che erano morti mezz' ora dopo il nostro arrivo». A sinistra le camere a gas, a destra la vita e la morte nel Lager. «È un dolore, ma ci torno - racconta Ernest -. È l' ultimo posto dove ho visto vivi il mio papà e la mia mamma». Con Ernest c' è la figlia sessantenne Audrey: «È la terza volta che vengo, e non lo sento come un peso. Sento che questa è una parte di me, come è una parte di me imparare a raccontare la storia dei mei genitori e di chi ha vissuto la loro esperienza». Eva Szepesi, il numero 26877 tatuato sul braccio sinistro, ha scoperto soltanto nel 2016 che la mamma e il fratello erano morti ad Auschwitz, due dei sei milioni di ebrei uccisi nell' Olocausto. «È stata mia nipote a scoprire i nomi scritti in bianco e nero» nell' elenco delle vittime. Per decenni Eva ha preferito non indagare, non sapere. È una cosa naturale. Ed è bello che siano le nuove generazioni a cercare le tracce della memoria.
Jona Laks ha 90 anni, viene da Israele. È una delle ospiti d' onore delle celebrazioni di oggi: «Sembra impossibile che sia passato tanto tempo - racconta alla Reuters sotto il cielo grigio di Auschwitz -. Rivedo il forno, le scintille dal camino, l' odore della carne bruciata». Jona non doveva essere lì. Aveva 14 anni quando dal ghetto ebraico di Lodz, nella Polonia occupata dai nazisti, fu condotta al Lager nel carro bestiame, con la gemella Miriam e la sorella più grande Chana. Jona all' arrivo del treno fu mandata a sinistra, verso i forni, le sorelle a destra. Era un dottore delle SS a fare la selezione. Il suo nome era Joseph Mengele, il famigerato «Angelo della Morte». «Arrivò con i cani e un bastone. Destra, sinistra, destra, sinistra. Non penso che guardasse le persone, sembrava annoiato - ricorda la signora Laks -. Quando ci separarono, mia sorella maggiore lo implorò: "Non separi due gemelle"». E Mengele, che era interessato per aberranti motivi pseudoscientifici agli esperimenti su donne incinte e fratelli siamesi, mandò un ufficiale a recuperare Jona dalla fila di sinistra. «Fui fortunata - dice oggi lei -. O forse sfortunata», prosegue dopo un istante di silenzio. «A volte penso che neppure gli animali potrebbero sopravvivere alle crudeltà a cui fummo sottoposti», racconta la nonna alla nipote Aldar che l' accompagna. Al Blocco 10 la signora Laks si ferma: lì c' era il laboratorio di Mengele. Fuori, un cortile con quello che viene chiamato «il muro della morte», dove i prigionieri a volte venivano allineati e uccisi, e dove oggi i sopravvissuti si ritrovano per accendere candele alla memoria. Altre scintille. «Dall' interno, sentivamo i lamenti di chi veniva assassinato», dice la novantenne sopravvissuta. Poi guarda Aldar, e ha come un sussulto della memoria. «Sono qui con mia nipote, e posso dire che ce l' abbiamo fatta. Io ho vinto la guerra. Noi abbiamo un futuro».
“Così i nostri vicini di casa aiutarono i nazisti”. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. Il bellissimo e drammatico racconto di Liliana Segre al parlamento europeo. Il “razzismo” e “l’antisemitismo” ci sono “sempre” stati e ci sono tuttora, perché sono “insiti” dell’animo dei “poveri di spirito”. Lo sottolinea la senatrice a vita Liliana Segre, già deportata nel lager di Auschwitz, nell’attuale Polonia, intervenendo nella plenaria del Parlamento Europeo a Bruxelles. Il discorso della Segre si è concluso con un lunghissimo applauso dell’Aula e un minuto di silenzio.All’epoca della ‘marcia della morte’, che i carcerieri nazisti imposero ad una parte dei prigionieri nel lager, ricorda la senatrice, “la paura faceva sì che la scelta” di aiutare gli ebrei “fosse di pochissimi. Non fu solo il popolo tedesco, fu tutta l’Europa occupata dai nazisti, come in Francia e Italia”. In Italia, ha sottolineato, “i nostri vicini di casa furono aiuti straordinari per i nazisti: io parlo dell’Italia, dove abbiamo visto i nostri vicini di casa che ci denunciavano, che prendevano possesso del nostro appartamento, del nostro ufficio”. “Anche del cane, qualche volta – ha aggiunto – perché era un cane di razza. Il cane era di razza: questa parola ‘razza’, ancora la sentiamo dire, e per questo dobbiamo combattere questo razzismo strutturale, che c’è ancora”. “La gente mi chiede – prosegue – come mai ancora si parla di antisemitismo? Il razzismo e l’antisemitismo ci sono sempre stati. Non c’era il momento politico per tirare fuori il razzismo e l’antisemitismo, che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito“.”E poi – aggiunge – arrivano i momenti più adatti, in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile far finta di niente. E allora tutti questi che approfittano della situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti”, conclude.
Siate farfalle che volano sopra i fili spinati. Pubblichiamo un estratto del discorso che la senatrice a vita Liliana Segre ha tenuto al Parlamento europeo di Bruxelles. Liliana Segre su La Repubblica il 29 gennaio 2020. Comincio con il ringraziare l'amico David Sassoli che mi ha invitato qui oggi. Non posso nascondere l'emozione profonda nel vedere le bandiere colorate di tanti Stati affratellati in questo Parlamento dove si parla, si discute e ci si guarda negli occhi. Alla giornata del 27 gennaio a volte è stata data un'importanza che in fondo non c'è. Auschwitz non è stata liberata quel giorno. Quel giorno l'Armata Rossa vi è entrata ed è molto bello il discorso che fa Primo Levi ne La Tregua dei quattro soldati russi che non liberano il campo perché i nazisti erano già scappati, ma si trovano di fronte a questo spettacolo incredibile. Uno spettacolo più tardi incredibile per tutti coloro che lo vollero guardare, mentre qualcuno non lo vuole vedere nemmeno adesso e dice che non è vero. Si tratta dello stupore per il male altrui. Queste sono le parole straordinarie di Primo Levi e che nessun prigioniero di Auschwitz ha mai potuto dimenticare. Il 27 gennaio avevo 13 anni ed ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union. Di colpo arrivò il comando immediato di cominciare quella che venne chiamata "Marcia della morte". Io non fui liberata il 27 gennaio dall'Armata Rossa, facevo parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita obbligati a una marcia che durò mesi. Quando parlo nelle scuole dico che ognuno nella vita deve mettere una gamba davanti all'altra, che non si deve mai appoggiare a nessuno perché nella "Marcia della morte" non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava nella neve con i piedi piagati e che veniva finito dalla scorta se fosse caduto. Ucciso. La forza della vita è straordinaria, è questo che dobbiamo trasmettere ai giovani di oggi. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita qualunque essa fosse per cui proseguivamo una gamba davanti l'altra, buttandoci nei letamai, mangiando anche la neve che non era sporca di sangue. Prima attraversammo la Polonia e la Slesia, poi fu Germania. Dopo mesi e mesi arrivammo allo Jugendlager di Ravensbruck. Eravamo solo giovani, ma sembravamo vecchie, senza sesso, senza età, senza seno, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve avere paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna. Giorno dopo giorno, campo dopo campo, mi trovai alla fine del mese di aprile 1945. Quanto era lontano il 27 gennaio, quante compagne erano morte in quella marcia, mai soccorse perché nessuno aprì la finestra o ci buttò un pezzo di pane. Non fu solo il popolo tedesco, ma i popoli di tutta l'Europa occupata dai nazisti in cui abbiamo visto i nostri vicini di casa essere aiutanti straordinari dei nazisti. In Italia i nostri vicini ci denunciavano, prendevano possesso del nostro appartamento, anche del cane se era di razza. Questa parola, razza, la sentiamo ancora e allora dobbiamo combattere questo razzismo strutturale che resta. La gente mi chiede come mai si parli ancora di antisemitismo. Io rispondo che c'è sempre stato, ma non era il momento politico per tirare fuori il razzismo e l'antisemitismo insiti nell'animo dei poveri di spirito. E poi arrivano i momenti più adatti, corsi e ricorsi storici, in cui ci si volta dall'altra parte. E allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno più adatto per farsi avanti. Quando subito dopo la guerra per caso restai viva e tornai nella mia Milano con le macerie fumanti, ero una ragazza ferita, selvaggia, che non sapeva più mangiare con forchetta e coltello, ancora abituata a mangiare come le bestie. Ero criticata anche da coloro che mi volevano bene: volevano di nuovo la ragazza borghese dalla buona educazione. È difficile ricordare queste cose e devo dire che da 30 anni parlo nelle scuole e sento ormai come una difficoltà psichica a continuare, anche se il mio dovere sarebbe questo fino alla morte. Io ho visto quei colori, ho sentito quelle urla e quegli odori, ho incontrato delle persone in quella Babele di lingue che oggi non posso che ricordare qui, dove tante lingue si incontrano in pace. Nei campi era possibile comunicare con le compagne che venivano da tutta l'Europa occupata dai nazisti solo trovando parole comuni, altrimenti c'era solo la solitudine assoluta del silenzio. E le bandiere qui fuori di cui parlavo all'inizio mi hanno fatto ricordare quel desiderio di trovare con olandesi, francesi, polacche, tedesche e ungheresi una parola comune. In ungherese ho imparato una sola parola, "pane". È la parola principale che vuol dire fame, ma anche la sacralità di una cosa oggi sprecata senza nemmeno guardare cosa si butta via. Da almeno tre anni sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata non mi danno pace. Non mi danno pace perché da quando sono diventata nonna, trentadue anni fa, quella ragazzina che ha fatto la "Marcia della morte" è un'altra persona rispetto a me: io sono la nonna di me stessa. Ed è una sensazione che non mi abbandona. È mio dovere parlare nelle scuole, testimoniare. Ma non posso che parlare di me e delle mie compagne. Sono io che salto fuori. Quella ragazzina magra, scheletrita, disperata, sola. E non lo posso più sopportare perché sono la nonna di me stessa e sento che se non smetto di parlare, se non mi ritiro per il tempo che mi resta a ricordare da sola e a godere delle gioie della famiglia ritrovata, non lo potrò più fare. Perché non ce la farò più. Anche oggi fatico a ricordare, ma mi è sembrato un grande dovere accettare questo invito per ricordare il male altrui. Ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all'altra, essere come quella bambina di Terezin che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. Io non avevo le matite colorate e forse non avevo la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin. Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati.
Un allarme da Auschwitz: "I sopravvissuti stanno scomparendo". I testimoni diretti, in grado di raccontare la Shoah, sono sempre meno. Tonia Mastrobuoni il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Sadiq Khan la tiene per mano, si deve piegare su di lei: Renee Salt parla a bassissima voce. Classe 1929, polacca, deportata ad Auschwitz nel 1944, quando aveva 15 anni, è visibilmente stravolta. Ma i suoi sussurri sono grida. "Non so come abbiamo potuto sopravvivere". Khan si ferma un momento: il sindaco di Londra è venuto fin qui per mostrarle la lapide dei donatori della Fondazione Auschwitz. "Londra" è stata appena aggiunta alla lista: ha appena stanziato 300mila sterline. L'Italia, per dire, ha donato un milione. La Germania centoventi. Khan si piega di nuovo su di lei: "Ci sono i fatti e i numeri, ma sono astratti - le risponde -. Sono le storie che contano, che sono importanti. Quando voi parlate, la gente ascolta". Di nuovo un sussurro: "Really?", davvero? Renee Salt ha sposato un soldato inglese dopo la guerra e si è trasferita a Londra. Ha dedicato gli ultimi vent'anni a raccontare la sua storia nelle scuole. A 90 anni è ancora costretta a denunciare un "ritorno forte dell'antisemitismo", come ha fatto domenica, alla vigilia della cerimonia ad Auschwitz. Il messaggio più forte del 75esimo anniversario è proprio questo: i sopravvissuti stanno via via scomparendo, negli ultimi cinque anni ne sono morti la metà. E i duecento che sono venuti qui dovrebbero essere i protagonisti di quello che potrebbe essere uno degli ultimi o forse l'ultimo anniversario con le vittime dell'Olocausto. Invece la vigilia delle celebrazioni è stata macchiata dallo squallido duello tra il presidente russo Vladimir Putin e quello polacco Andrzej Duda. Quest'ultimo ha boicottato le celebrazioni allo Yed Vashem, giovedì scorso, perché Putin parlava (l'Urss fu una delle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale) e lui no. Putin, dal canto suo, ha disertato la cerimonia di oggi. E va ricordato appena che Auschwitz fu liberata dall'Armata rossa. La cerimonia è cominciata stamane con una camminata silenziosa di ottanta sopravvissuti polacchi al cosiddetto 'muro della morte', quello delle fucilazioni, accompagnati dal presidente polacco Duda. Nel pomeriggio sono previsti a Birkenau, a tre chilometri dal campo originario di Auschwitz, nella gigantesca area designata allo sterminio su scala industriale, i capi di Stato e di governo e i rappresentanti di circa 60 Paesi tra cui il presidente della Repubblica tedesco Steinmeier, il premier francese Philippe, il presidente israeliano Rivlin, i re di Spagna, Olanda, Belgio, i presidenti di Svizzera e Austria, Sommaruga e van del Berllen, il primo ministro greco Mitsotakis e il Segretario al Tesoro Mnuchin. L'Italia sarà rappresentata dalla viceministra Sereni. Il primo a parlare sarà il polacco Duda, poi sarà la volta di quattro sopravvissuti che racconteranno le loro storie. Per non dimenticare.
Giornata della Memoria, quando non ci saranno più i testimoni come faremo a ricordare? Eraldo Affinati su Il Riformista il 26 Gennaio 2020. In questo momento storico, quando i protagonisti della Shoah stanno per dirci addio, le ultime parole di ognuno di loro andrebbero ascoltate e conservate come doni preziosi. I ricordi dei deportati sopravvissuti, vegliardi segnati dal trauma, bambini o adolescenti negli anni terribili del Terzo Reich, dovrebbero essere incisi con l’inchiostro rosso nei registri novecenteschi per frantumare qualsiasi illusione che potremmo ancora nutrire sulla natura umana. I nostri simili, purtroppo dobbiamo ammetterlo, sono pericolosi: ciò che accadde nel cuore di tenebra dell’Europa nella prima metà del secolo scorso non possiede uguali per ferocia e dimensione tecnologica e potrebbe riproporsi, in forma nuova e diversa, anche oggi. È la ragione per cui la triste recente vicenda legata alla senatrice Liliana Segre, costretta ad avere la scorta per difendersi dalle minacce antisemite, rappresenta una pagina nera. Quando non ci saranno più quelli come lei, dovranno essere le generazioni venute dopo ad assumersi la responsabilità di rivolgersi ai più giovani. Con una differenza decisiva: mentre i testimoni diretti avevano la naturale legittimità per farlo, noi dovremo conquistare tale condizione. Come? In due modi, entrambi ineludibili: trasformando i luoghi del terrore hitleriano e fascista in musei a cielo aperto e studiando le fonti. In tale prospettiva dobbiamo interpretare il testamento spirituale che Ginette Kolinka, nata a Parigi nel 1925 e deportata ad Auschwitz a diciannove anni insieme al padre, al fratello e al nipote, ha consegnato a Marion Ruggieri, scrittrice sensibile e pronta a raccoglierlo con taglio stilistico avvincente e personale. Il titolo dell’opera, Ritorno a Birkenau. 78699 (Ponte alle Grazie, traduzione di Francesco Bruno, pp. 89, 12 euro), riprende il numero tatuato sul braccio della giovane donna pochi momenti dopo il suo arrivo sulla famigerata banchina dove gli sventurati venivano divisi fra donne e uomini, bambini e adulti, sani e malati. Chi saliva sul camion andava direttamente al gas e poi nei forni crematori: migliaia e migliaia di esecuzioni a ritmo forsennato. Gli altri venivano condotti nelle baracche dove potevano almeno sperare di continuare a respirare, anche se le famigerate e periodiche “selezioni” incombevano giornalmente: bastava una ferita non guarita o una semplice malattia per essere eliminati. Ginette, partita dal campo di Drancy come tanti ebrei, deve la vita a una serie di fortuite circostanze, fra le quali il fatto di essere stata deportata nella primavera del 1944, solo un anno prima della fine del conflitto.
Il suo resoconto possiede un’intensità a volte quasi insostenibile; anche chi, come il sottoscritto, è abituato a leggere questi documenti, resta colpito dal ritmo incandescente del dettato: le condizioni spaventose della reclusione coatta, le attività inutili a cui le povere donne venivano sottoposte, la crudeltà spesso arbitraria delle Kapò, le angherie e soprattutto la fame che divorava le viscere, l’egoismo impietoso delle persone trasformate in bestie ma anche, verso la fine, quando Ginette rievoca il suo trasferimento in una fabbrica, la generosità inaudita di certi operai pronti a lasciare pezzi di pane nascosti nei macchinari industriali a beneficio delle lavoratrici. Ginette ha molto atteso prima di aprire bocca. A convincerla sono stati i ragazzi che ormai da tempo accompagna ad Auschwitz. La stessa cosa accadde a Ruth Kluger, di sei anni più giovane, l’autrice di Vivere ancora (Einaudi), una delle più potenti riflessioni sullo sterminio nazista. Entrambe queste donne hanno avuto la forza di attraversare la retorica, scansandola d’istinto, insieme agli alibi interiori in agguato per tutti noi: “Io sono diverso, io sono migliore”. Nessuno può dirlo. Solo Ginette ha il diritto di indignarsi, come quando nei paraggi del campo di Birkenau, qualche anno fa, vide una ragazza fare jogging proprio lì. “Correva, tranquillamente. Mi è mancato il respiro. Ho avuto voglia di urlare, di gridarle: “Ma sei matta?”. Salvo andare a capo e chiedersi: “O la matta ero io?”.
Shoah, nei disegni di un bambino l’incubo del campo di sterminio. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Ferrari. Credo che tanti si saranno domandati per quale motivo i pochi sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti abbiano taciuto per anni, in qualche caso per oltre un quarto di secolo. Di sicuro alcuni «fortunati» per essere tornati alla vita, come numerose testimonianze ci hanno confermato, temevano di non essere creduti. Altri di essere accusati di aver gonfiato le loro sofferte storie e i loro ricordi per vittimismo, a caccia di solidarietà o di qualche immediato favore. Altri ancora, nonostante il desiderio di far conoscere «Il crudele viaggio nell’inferno dell’umanità», erano stati frenati dal disinteresse e dal cinismo di un mondo che voleva soltanto dimenticare, anzi cancellare, affidandosi all’abbraccio apparentemente consolatorio dell’indifferenza, quell’incubo che tantissimi avevano realmente vissuto. L’incubo della Shoah, eliminazione sistematica di milioni di ebrei, per troppo tempo infatti è rimasto un vergognoso segreto del passato. Al punto che in molti Paesi non vi erano editori disponibili a rischiare un modesto investimento con la possibilità, quasi la certezza, di vendere poco o niente. Il libro di Thomas Geve «Qui non ci sono bambini» realizzato in collaborazione con la casa editrice Einaudi è in edicola con il «Corriere della Sera» per un mese (pp. 183, euro 12,90 più il prezzo del quotidiano)Ho conosciuto personalmente una trentina di sopravvissuti, in Italia, in Francia, in Israele, in Grecia, nella Repubblica ceca e in quella slovacca. Ho raccolto, assieme alla collega del «Corriere della Sera» Alessia Rastelli, preziose testimonianze e indimenticabili racconti (anche con l’aiuto di audio e video per il nostro Corriere Tv) su quell’orrore, di cui non conosciamo e non impariamo mai abbastanza. Sono rimasto poi impietrito leggendo il libro di Thomas Geve Qui non ci sono bambini, in edicola domani con il «Corriere». Questo fanciullo ebreo di Stettino, deportato ad Auschwitz all’età di 13 anni e capace di sopravvivere, non ci ha regalato testimonianze orali o ricordi scritti, ma (da ragazzino curioso), quando lo hanno liberato, dopo 22 mesi di vita accanto alla morte e a quanto di più degradante possa compiere il genere umano, ha cercato carta e penna per donarci 79 disegni già nel 1945. Semplici tracce, che Thomas ha abbozzato, con tratto infantile ma con ricordi precisissimi, per raccontare a suo padre, che si trovava a Londra, quel che aveva visto, vissuto, patito e sofferto, e soprattutto le mostruosità a cui si era abituato. La storia, affidata alla grafica, racconta infatti le atroci esperienze di un bambino, fortunato perché dimostrava più dei suoi anni e che, invece dell’immediato invio alla camera a gas di Auschwitz-Birkenau, era stato assegnato ai lavori più massacranti. Una storia che ricorda quella di Liliana Segre, salvata dalla sua robusta costituzione fisica. Anche lei, ragazza milanese, oggi nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dimostrava più dei suoi 14 anni. Thomas Geve fa parlare la sua mente, già allora attratta dall’osservazione, allenata alla memorizzazione, e affascinata dalla tecnica. Da grande Thomas è diventato ingegnere civile. Il suo racconto disegnato è agghiacciante, e dimostra quanto l’umiliazione, la distruzione della propria identità siano il crimine più orrendo: molto più del dover convivere all’interno di un mondo criminale e folle, assetato di vendetta contro tutti i diversi. Da ragazzo, se le ferite della vita non ti hanno ancora raggiunto e colpito, vivi il gusto dell’esplorazione e ti interessano tutti gli esseri umani, il loro volto, la somma dei piccoli segnali che sei già in grado di decifrare. Ma quando «nulla intorno a te è degno di un uomo, come fai a diventare umano?», scrive Boris Cyrulnik nella postfazione del libro, riprendendo i preziosi ricordi del grande testimone Primo Levi, «Il peggio — scrive Cyrulnik — non è la morte, ma l’umiliazione, che rappresenta la disumanizzazione suprema». Thomas, con straordinaria autodisciplina e spregiudicatezza, impara in fretta le regole del campo di sterminio. Il «forno crematorio» diventa una normale presenza in quei luoghi infami, ma di notte, come tutti coloro che hanno conosciuto la fame, il ragazzo destinato alla morte sogna tavole imbandite, paté di fegato, salsicce, frutta, dolci, svegliandosi poi appagato con la mente ma ancor più ostaggio delle pulsioni dello stomaco vuoto. Pronto a qualsiasi bassezza, compreso il furto, per procurarsi una fetta di pane ammuffito, di cavolo marcio o di buccia di patate. L’autore del libro, con l’energia della giovane età e con il sostegno di un carattere coriaceo e proiettato sulla speranza di farcela, riesce a comprendere tutti i piccoli trucchi necessari per superare le prove più ardue, le torture e soprattutto per schiacciare la paura. Thomas, diventato amico dei detenuti più fragili, impara, con la dura esperienza quotidiana, a sottrarsi ai controlli dei kapò; prova grande simpatia per gli zingari, ritenuti da Hitler una sottospecie e invece traboccanti di umanità; solidarizza con le prostitute, arrestate perché vendevano il proprio corpo, ma costrette a offrire gli stessi servizi ai guardiani e agli aguzzini. In fondo, annota Thomas, «sono prigioniere, quindi vittime, anche loro». In sostanza, il piccolo autore cresce aiutando chi può aiutare e mentalmente annota tutto, con la meticolosa cura del ragazzino che già a 12 anni aveva stupito i genitori costruendo una radio rudimentale. Alla fine dell’inferno, dopo la liberazione e la scoperta del mondo e della pace, è pronto a disegnare il suo «viaggio intorno alla morte». Disegni che questo libro offre alla sensibilità di tutti coloro che hanno un cuore non impietrito dell’egoismo e da quel rivoltante «mi volto dall’altra parte», quasi sempre più feroce dell’odio. Libro che potrebbe far pensare persino i negazionisti, a patto che siano in buona fede.
Lunedì 27 gennaio, esce in edicola con il «Corriere della Sera», in occasione del Giorno della Memoria, il libro di Thomas Geve Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, al prezzo di e 12,90 più il costo del quotidiano. Il volume, realizzato in collaborazione con la casa editrice Einaudi, resterà in edicola per un mese. Tradotto da Margherita Botto, contiene i disegni che Thomas Geve, internato dai nazisti all’età di 13 anni, realizzò nel 1945 a Buchenwald, dopo essere stato liberato dagli americani, per descrivere la sua terribile esperienza ad Auschwitz e in altri Lager nazisti. Il libro contiene anche una postfazione di Boris Cyrulnik e contributi di Avner Shalev e Volkhard Knigge. Thomas Geve è lo pseudonimo di Stefan Cohn, nato nel 1929 a Stettino (oggi Polonia, allora parte della Germania): deportato ad Auschwitz, vi perse la madre ma riuscì a sopravvivere. Ingegnere, dal 1950 vive in Israele. Nel 1985 donò i suoi disegni al memoriale Yad Vashem.
Giornata della memoria: le parole del bambino sopravvissuto alla Shoah. Lavinia Nocelli il 27/01/2020 su Notizie.it. Per ricordare l'orrore dell'Olocausto, in tutto il mondo il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria. Parla Emanuele, il bambino sopravvissuto. Il 27 gennaio, in tutto il mondo, si celebra il Giorno della Memoria. Una data scelta dall’Onu nel 2005 e indicata per l’organizzazione di numerose iniziative affinché non si dimentichi. Parla il bambino scampato alla Shoah, Emanuele Di Porto, sopravvissuto per miracolo. Sono passati 75 anni dal giorno in cui le truppe sovietiche della 60^ armata del “Primo Fronte ucraino” abbatterono i cancelli di Auschwitz, rivelando al mondo intero la realtà dei campi di concentramento, un orrore della quali molti ignoravano l’esistenza e di cui molti, ancora oggi, negano l’esistenza. In una giornata densa di celebrazioni e iniziative per tener viva la memoria – che sembra negli ultimi anni tendente alla negazione – Sky propone una serie di contenuti tra protagonisti e ricostruzioni storiche, affinché non si dimentichi. “Sono venuti i tedeschi al ghetto, ho visto mia madre tornare, ma un tedesco in quel momento l’ha presa e l’ha messa su un camion. Io l’ho raggiunta, ma poi non lo so come ho fatto, sono sceso dal camion e sono andato a piazza Monte Savello. E lì sono salito su un tram. C’era il bigliettaro, e sono stato due giorni sul tram”, racconta attraverso i ricordi Emanuele Di Porto, bambino scampato alla Shoah per miracolo. Un reportage firmato Renato Coen, che ha raccolto insieme diverse testimonianze ne “Una luce nella notte”. Un lavoro, quello di Sky TG24, introdotto dal direttore Giuseppe De Bellis, che mette insieme le memorie del passato attraverso un’analisi del presente, attraverso le parole di scrittori, giovani studenti ed Emanuele. 75 anni dopo, però, la storia non è ancora finita. I lager nel mondo, e simili, si perdono nella conta. Tra guerre che infiammano Paesi poveri e divisioni interne in numerosi Stati, oggi milioni di persone sono ancora private delle loro libertà per motivi politici, etnici e religiosi. Dalla Corea del Nord ai laogai cinesi, alle colonie penali australiane fino all’inferno libico, per arrivare alle nostre carceri di detenzione in Italia. Sono migliaia le persone che ancora oggi sono rinchiuse in strutture “carcerarie” in cui non esistono o vengono presi in considerazione i diritti umani. Un orrore da tenere a mente mentre si commemora il Giorno della Memoria.
L’infanzia rubata dei figli della Shoah, l’abisso più profondo della barbarie nazista. Orlando Trinchi il 28 gennaio 2020 su Il Dubbio. La mostra alla casina dei Vallati. Oltre un milione e mezzo, tante furono le piccole vittime nei campi di sterminio del Reich, la ferocia dei persecutori non si allentò neanche quando la guerra era ormai persa. Scriveva nel 1942, dall’interno del Ghetto di Varsavia, lo storico Emanuel Ringelblum: «Anche nei tempi più barbari, una scintilla umana brillava persino nel cuore più crudele e i bambini furono risparmiati. Ma la bestia hitleriana è molto diversa. Essa divora i più cari a noi, quelli che suscitano la massima compassione, i nostri figli innocenti». Oltre un milione e mezzo, tante furono le piccole vittime della Shoah: a loro è dedicata la mostra Shoah. L’infanzia rubata, ospitata a Roma, dal 28 gennaio al 24 luglio, presso le sale della Casina dei Vallati, sede, dal luglio 2008, del Museo della Shoah. Ideata e prodotta dall’Associazione Figli della Shoah e organizzata dalla Fondazione Museo della Shoah in sinergia con la Comunità Ebraica di Roma, la rassegna, attraverso testimonianze e citazioni di diari, si appunta sulle difficili condizioni e le molteplici privazioni cui, durante gli anni della persecuzione nazifascista, furono sottoposti i bambini e i ragazzi di religione ebraica, deprivati di diritti essenziali come il gioco, l’istruzione, la libertà, la dignità e, in ultimo, la vita stessa. I bambini, a differenza degli adolescenti – che potevano essere impiegati come forza- lavoro e avevano quindi una possibilità lievemente maggiore di sopravvivenza – costituivano i soggetti più vulnerabili alle politiche persecutorie del nazismo, e, fra questi, i minori disabili furono le prime, tragiche vittime dell’Olocausto, avendo dovuto subire il programma di eutanasia del Terzo Reich volto a forgiare la cosiddetta “razza ariana”. Furono proprio i bambini a dover sottostare, fin dal 1933, alle prassi discriminatorie della Germania nazista, proseguite nel 1938 in Italia con le leggi razziali fasciste. La ferocia dei persecutori nei loro confronti non si allentò neanche quando era ormai chiaro che il secondo conflitto mondiale si stava risolvendo in una sconfitta manifesta per la Germania. Pur in anni così drammatici, tuttavia, piccole luci di speranza si levavano contro quell’oscuro fondale di barbarie e disumanità, come quella mantenuta viva dal pedagogo, medico e scrittore polacco di origini ebraiche Janusz Korczak, di cui la mostra traccia il percorso morale, educativo e umano, con uno speciale approfondimento delle sue fondamentali opere letterarie, come il sempre attuale Il diritto del bambino al rispetto ( 1929). Ispiratore dell’odierna Convenzione Internazionale dei Diritti dei Bambini, si profuse fino agli ultimi istanti nel tentativo di alleviare le sofferenze dei bambini del proprio orfanotrofio, situato nel Ghetto di Varsavia. Non li abbandonò neanche quando, ordinati e vestiti con cura, la mattina del 5 agosto 1942 vennero deportati verso il campo di sterminio di Treblinka, condividendone l’atroce sorte.
Antisemitismo, odio che non colpisce solo gli ebrei. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 26 Gennaio 2020. «Quante volte abbiamo ripetuto “mai più”, riferendoci alla tragedia della Shoah. Ma quel “mai più” rischia di diventare un’affermazione retorica se poi non c’è un sussulto d’indignazione di fronte a scritte vergognose come quella di Mondovì o all’antisemitismo imperante sui social. Juden hier non è solo uno sfregio alla memoria di quanti sono morti nei campi di sterminio e di chi, come Lidia Rolfi, ha combattuto il nazifascismo finendo deportata a Ravensbruck nel 1944; quella frase è uno sfregio per una intera comunità nazionale e per le sue istituzioni democratiche. L’antisemitismo, col carico di odio verso il “diverso”, non è un problema degli ebrei, è un virus che mina le fondamenta stesse di una società democratica». A sostenerlo in questa intervista a Il Riformista, è Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei). Juden hier, “qui ci sono gli ebrei”, è la scritta comparsa la notte scorsa sulla porta di casa di Aldo Rolfi, figlio di Lidia, partigiana deportata a Ravensbruck.
Quali sono i sentimenti che accompagnano questo sfregio?
«Indignazione, rabbia, dolore ma anche, e per certi versi soprattutto, la consapevolezza che l’antisemitismo non appartiene alla Storia ma è qualcosa che fa parte del nostro presente e che minaccia il nostro futuro. Il futuro di una comunità nazionale che si vuole democratica. Quella scritta ignobile, apparsa alla vigilia della Giornata della Memoria, dovrebbe servire da monito: tante volte, soprattutto nelle cerimonie istituzionali, si ripete il monito “mai più”. Ma quel “mai più” non può essere un esercizio retorico, non può essere solo il dovuto tributo alla memoria dei milioni di ebrei morti nei lager nazifascisti. Quel “mai più” deve essere un impegno che riguarda la nostra quotidianità, che deve investire le scuole, i mezzi di comunicazione. Contro questi seminatori di odio occorre condurre una grande battaglia culturale. Quel “mai più” non deve riguardare solo Auschwitz, perché i campi di sterminio sono il terminale di una campagna di odio che si nutre di atti quotidiani che ieri come oggi vengono sottovalutati. Quella scritta è l’evidenza dell’avvitamento che si registra su questi fatti, è un altro atto che genera quel senso di indecisione. Il nostro tormento oggi è proprio l’indecisione nel decifrare, da parte di tanti, questi gesti: quanto si sta prima o dopo quel filo rosso, quel confine, dell’allarme. Vede, in questi anni, abbiamo faticosamente lavorato con tante istituzioni, nazionali e locali, per far sì che il riconoscimento di un luogo dove era vissuto un ebreo che, come Lidia Rolfi, ha combattuto per la libertà, fosse un gesto positivo, un arricchimento per l’intera comunità. Ma gli autori di quella scritta ci dicono che la strada è ancora lunga… E che l’antisemitismo è un problema di tutta la società, e la Shoah, preceduta in Italia dalla vergogna delle leggi razziali, chiama in causa non solo i carnefici ma i tanti indifferenti. Dietro a quelle odiose leggi non c’era solo una idea di ‘“purezza” della razza che reclamava la emarginazione prima e la persecuzione subito dopo degli “impuri”. Dietro quelle leggi c’era anche l’idea di fondare una coesione nazionale additando negli Ebrei coloro che quella coesione minacciavano: stiamo parlando di una comunità che rappresentava l’1% della popolazione totale! Una minoranza additata come il Male assoluto, cancellato il quale, non importa con quali mezzi, l’Italia e gli italiani “perfetti” avrebbero ripreso la loro marcia trionfale».
I tempi son cambiati, certo, ma l’antisemitismo non è stato estirpato una volta per tutte. Come si manifesta oggi l’antisemitismo, e c’è una forma più pericolosa delle altre?
«Le forme sono molteplici e vanno conosciute e combattute con il medesimo impegno. C’è l’antisemitismo dell’estrema destra, ma c’è anche un antisemitismo che si cela dietro l’antisionismo e l’odio verso Israele al quale vengono attribuiti comportamenti nazisti».
Shoah, il dolore e la fatica del ricordo in questo mondo che non aiuta Israele. Fiamma Nirenstein, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. In che modo una bambina ebrea nata nel dopoguerra incontra la Shoah e impara a portarne memoria? Con fatica, con disgusto, con incredulità, ingenuamente. Si avvia verso un'indagine impervia: non c'è chi le insegnerà, le spiegherà, la consolerà. C'è il segreto della crudeltà umana che non si può, non si deve rivelare ai bambini, e il segreto della unicità della condizione ebraica. Nessuno vorrà rivelarle i due segreti, dovrà costruirsene da sola l'immagine. E ancora oggi la bambina di ieri è sola con queste due questioni, perché sia l'immensità dell'abisso che la sua indicibile unicità le sono proibiti. Questa proibizione è ciò che impedisce a colui che non ha questa duplice esperienza dentro di sé di essere un credibile alleato quando dichiarata never again. Mi dispiace, io non vi credo anche se vi apprezzo. La bambina è sola mentre si costruisce nella sua mente un mosaico inaspettato. L'ebreo è ancora solo mentre ricostruisce faticosamente la sua gioia di vivere. A Kishinev il 6 e il 7 aprile del 1903 i contadini russi attaccarono gli ebrei, li fecero a pezzi, donne e bambini; ci furono condanne ed esclamazioni. Due anni dopo un'altra orgia di mutilazioni e stupri investì la stessa cittadina della Bessarabia. Roosevelt era certo contrario alla strage degli ebrei: questo non gli impedì di trattare altezzosamente e respingere Jan Karsky, l'eroico cristiano polacco che andò a chiedergli in ginocchio, per averlo visitato personalmente, di bombardare il Ghetto di Varsavia e la ferrovia che portava ad Auschwitz. A casa nostra in Via Marconi a Firenze la Memoria, la Shoah e la persecuzione degli ebrei avevano due volti, anzi tre, e tutti misteriosi: il più quotidiano, quello di un ansioso riavvio del motore della vita fiorentina, della speranza domestica, del sorriso della mia nonna in cucina, della riabilitazione borghese della famiglia Lattes-Volterra, del lavoro caparbio e deciso della mia mamma ex partigiana e ora giornalista come fosse un proseguo della lotta. L'aspirazione a riprendere la vita dopo anni di fughe, di nascondigli, di Resistenza, di fame, paura, discriminazione, dopo la deportazione di tre giovani, bellissimi fratelli della mia nonna Rosina (due Gastone e Angiolino finiti a Buchenwald, e il terzo Beppino fucilato mentre tentava la fuga) rendeva indicibile l'orrore attraversato. La nonna infatti non lo diceva; ci narrava come in una fiaba a lieto fine di quando i fratelli e le sorelle coi coniugi e i figli e le figlie si erano nascosti tutti insieme, come pazzi, nella villa di Bellosguardo dello zio Gualtiero; e poi, fulminati dalla loro stessa temerarietà mista a terrore, si erano dispersi. Così tre di loro furono presi perché, nascosti in una soffitta il fumo di un'incauta sigaretta filtrò fra le travi, e i fascisti li trovarono così. Un biglietto affidato nelle mani di qualcuno alla stazione è stata l'ultima traccia. La nonna raccontava la fuga, la paura, la dispersione in episodi in cui c'erano case di preti buoni, il sarto del nonno che in piazza del Carmine aveva chiamato il cavalier Lattes dalla finestra perché si nascondesse a casa sua...Israele fu subito la stessa cosa, lo sfondo realistico della vita ritrovata. Lo era anche per il babbo, che aveva voluto toccare la Shoah che aveva scampato quando era giovane sionista in Israele: adesso era tornato da un infinito, misterioso viaggio in Polonia, in pellegrinaggio a Baranow da cui provenivano suo padre, la matrigna, il fratello Moshe, 4 piccole sorrellastre, tanti zii e cugini che seguitò a nominare e a chiamare specie negli ultimi anni della sua vita. Poi a Varsavia aveva raccolto i documenti per costruire i libri che al posto delle parole dette hanno costituito il suo pegno. Israele era la logica, evidente risposta alla Shoah e lui per amore in Italia, la praticava andando a trovare le due sorelle che nel primo sionismo socialista erano emigrate, finché lui era sbarcato in Italia con la Brigata e si era poi sposato a Firenze. Il suo messaggio sulla Shoah era un vento di tempesta, nero, striato di sangue, indicibile. Non era disposto a condividere il suo dolore, ma solo a chiedere coi libri che si capisse, finalmente, di cosa si stava parlando. Una volta, nella disapprovazione generale, a una conferenza stampa (era corrispondente del giornale israeliano Al Hamishmar) di papa Giovanni Paolo II, lo apostrofò in polacco: «Come ha potuto tacere quando quella tribù selvaggia e spietata dava la caccia i bimbi negli orfanatrofi, ai vecchi e ai malati negli ospedali e nelle case di cura, agli handicappati, agli uomini e alle donne, alla gioventù di interi Paesi, per bruciarli vivi, per annegarli nei fiumi, per avvelenarli col gas, per seppelirli vivi in enormi fosse comuni?». Dunque, sin da piccola ho imparato sulla Shoah un paio di cose: la prima è che il popolo ebraico ha subito un male che richiede uno sforzo di comprensione disumano, unico; e poi, che in virtù della sua speciale storia lunga tre millenni di resistenza, il suo senso di vita e di ribellione è rimasto intatto come uno dei calici di cristallo che mia nonna aveva miracolosamente salvato da casa Volterra. Questo senso di vita miracolosamente trovò la sua unica realizzazione nel sogno di Israele: se prima e dopo la Shoah non ci fosse stata Israele, il popolo ebraico sarebbe morto di ferite e di dolore. Invece è fiorito in maniera sorprendente. Il dolore e l'unicità chiedono risposte miracolose, sacrifici pieni tuttavia di gioia costruttiva: non tutti hanno voglia di capirli. Sin da ragazzina la lettura del testo più classico per la gioventù, Anna Frank, mi ha lasciato oltre che molto affezionata ad Anna, piena di interrogativi e perplessa. La manipolazione del testo anche nelle sue riproduzioni teatrali aveva portato a una proiezione universalistica e persino positiva della storia e dello spirito di Anna, che alla fine ne esce disegnata più come una fanciulla presa dall'ansia adolescenziale e anche amorosa che dal tormento della reclusione in attesa della deportazione. Ma Anna la intuisce e prevede, spaventata e consapevole che si tratta della condanna a morte disegnata dai nazisti per tutti gli ebrei, e lo dice; ma nell'interpretazione volgare, essa viene disegnata soprattutto fiduciosa nella bontà umana, nella redenzione prossima ventura. Ma ai giovani che leggono il diario si dovrebbe invece spiegare la sofferenza di Anna, come fu scoperta e deportata, lei, sua madre e sua sorella insieme a milioni di innocenti; sono state uccise secondo un programma che alla fine l'ha trasportata con 3.659 donne insieme a sua sorella Margot, morta prima di lei e accanto a lei, fino a Bergen Belsen, fra incredibili sofferenze, mangiata dai pidocchi e dal tifo dopo le torture di Auschwitz. Questa è la Shoah, chi vuole coltivarne la memoria non deve cercarne un'inutile redenzione collettiva nella bontà umana. Non esiste. Ricordo che mi colpi molto anche il fatto che Se questo è un uomo fu all'inizio rifiutato dalla casa editrice Einaudi, selezionato da Natalia Ginsburg, perché ritenuto troppo specificamente ebraico, mentre il nazismo era il male universale e le sue vittime dovevano quindi incarnare, come il comunismo, una speranza universale di redenzione. Su questa scia si è costruita una cultura universalistica che fa dell'ebraismo un rappresentante del bene universale e dell'antisemitismo l'apoteosi di ogni cosiddetta (e dipende da dove la si guarda) cultura dell'odio. Ma chi pensa di difendere gli ebrei propugnando un fronte intersezionale anti oppressione, rifiutando di capire che oggi quando si dice sionismo si dice ebraismo, sbaglia fino ad allearsi di nuovo con un fronte antisemita. La redenzione del popolo ebraico è stata solitaria e misteriosa, specifica e straordinaria come la sua storia di sopravvivenza per 2000 anni fino al ritorno a casa. Gli ebrei già dal 1895, quando un giornalista di nome Theodor Herzl vide degradare il capitano Dreyfus solo perché era ebreo, concepirono l'idea della salvezza dall'antisemitismo tramite il ritorno allo Stato degli Ebrei, Israele. Nel 1975 la maggiore comunità delle nazioni, l'Onu, nata proprio per proteggere il mondo dagli orrori nazisti, dichiarando che «sionimso era uguale a razzismo» compì un inutile gratuito atto razzista e antisemita. Dopo la Shoah i sopravvissuti hanno preso la strada del loro Paese, Israele, l'unica patria a cui tornare dato che l'Europa era il deserto del tradimento: quei ragazzi scheletriti e ridotti in solitudine dalla Shoah hanno dovuto subito impugnare un vecchio fucile e affrontare l'assalto dei Paesi circostanti. Nessuno si mosse in loro aiuto. Oggi quando si legge che l'Ayatollah Khameini giura di nuovo la distruzione del «cancro» Israele, nessuno protesta. I politici di tanti Stati diversi che sono venuti nei giorni scorsi in visita in Israele per promuovere una nuova grande battaglia contro l'antisemitismo, se vogliono proporre una politica mondiale in cui never again non sia una pura espressione di conformismo universalista, devono sollevare ogni volta il problema dell'antisemitismo istituzionale, permesso o addirittura promosso. Le espressioni di antisemitismo corrente sono concrete, visibili e Israele non ha l'Europa accanto quando vi si oppone. Never again? Solo se gli ebrei si difenderanno, come ormai sanno fare, da soli.
Antisemitismo, non solo stereotipi: si nutre anche dell’odio nei confronti di Israele. Barbara Pontecorvo e Emanuele Calò (Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni) su Il Fatto Quotidiano il 24 gennaio 2020. A partire dal 2016 il mondo è stato costretto ad adottare, Paese per Paese, la definizione di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). L’Italia, come prevedibile, è fanalino di coda. Questa iniziativa è destinata a proteggere chi, come noi, è nato dopo l’Olocausto, ma è figlio della generazione superstite alla demolizione morale delle leggi razziali e alla demolizione materiale della Repubblica Sociale (“sociale”?) e del Terzo Reich. Si è costretti ad approvare questo provvedimento come argine morale, per quanto non vincolante (nemmeno per il giudice), alle idiozie che costituiscono, al contempo la linfa e l’humus dove si abbevera l’odio verso gli ebrei. Qui, l’offesa s’interseca con l’oligofrenia, con una tale violenza che finisce per confluire in quest’ultima. Dal sondaggio sull’antisemitismo appena realizzato da Euromedia Reseach di Alessandra Ghisleri per Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni si apprende che l’antisemitismo non si nutre solo degli antichi stereotipi sugli ebrei, ma anche dell’odio trasposto nei confronti dello Stato d’Israele in quanto ebreo collettivo. A meno che non sia smaccato il pregiudizio di non voler riconoscere ad Israele il diritto ad esistere (contro ogni principio di autodeterminazione del suo popolo), che cosa dovrebbe essere l’antisionismo che genera antisemitismo in maniera cosi cospicua? Esistono ebrei che non amano il sionismo (esempi ne abbiamo anche in Italia), ai quali andrebbe forse riconosciuto il diritto di non voler andare in Israele, se non altro sulla base del principio della libera circolazione e del suo inevitabile corollario di poter restare legittimamente dove ci si trova. Ma ad un non ebreo cosa dovrebbe importare se un ebreo vuole o meno tornare in Israele? Potremmo, convintamente, essere contrari al diritto di un discendente di africani di voler tornare, per dire, in Nigeria, sulle orme del “Back to Africa movement”? Per il sionismo si fa un’eccezione, poiché il termine – non a caso mai definito dai cosiddetti antisionisti – viene inteso come una volontà imperiale di prevaricazione e conquista senza limiti. “Distinguiamo fra antisemitismo e antisionismo”, si sente spesso dire. È una frase vera nella misura in cui siano veri i pregiudizi di ogni natura e tuttavia è spesa a livello interclassista ed a prescindere dallo spessore culturale di chi ne fa scientemente uso. Anche per loro si approva la definizione IHRA di antisemitismo, perché certi getti di fango non saranno sanzionati, ma cambieranno colore. E quando un intellettuale farà ascoltare la voce di un anonimo che dice “le vittime di ieri sono diventate i carnefici di oggi”, non ci penserà due volte, perché ormai l’odio gli ha deformato l’eloquio e la mente, ma, vivaddio, gli si potrebbe finalmente rispondere con solidi argomenti. Si troverà sicuramente in buona compagnia con coloro che sostengono che gli ebrei controllano l’economia, lo sport, i media, la cultura, la salute, la filatelia, il sesso, le bocciofile, l’enigmistica, il teatro, la filosofia, l’aria, la terra, il sottosuolo e perfino gli scantinati. Forse è stato pensando a tutti costoro che Erich Fromm (ebreo, come Gesù, Marx, Freud, Einstein..) scrisse Paura della libertà. Eh sì, senza l’antisemitismo vi è il rischio, per gli ebrei e per i non ebrei, di sentirsi liberi, molto più liberi. E la libertà, in quanto comporta anche l’assunzione di responsabilità, mette paura.
Noemi Di Segni: «In Israele ho respirato cultura, mai odio». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. Presidente delle comunità ebraiche italiane: «In Italia non ho mai ricevuto offese, ma dialogare è difficile». Noemi Di Segni, 50 anni, doppia laurea in Economia e commercio e in Giurisprudenza, una specializzazione in Diritto ed economia della Comunità europea, guida dal luglio 2016 l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, ovvero il complesso, dialettico, articolato mondo israelitico del nostro Paese: 25.000 iscritti. Di fatto, rappresenta tutti gli ebrei italiani di fronte alle istituzioni del nostro Paese. Bionda, occhi azzurri, raffinata ed elegante, sorridente, sempre molto pacata, mai un tono di voce inutilmente alto. Ha una doppia nazionalità: italiana e israeliana (in Israele ha anche svolto il servizio militare) perché è nata a Gerusalemme il 24 febbraio 1969 da una famiglia ebrea di origine romana e torinese, ha tre figli, da poco è nonna. È sposata da 27 anni.
Il primo ricordo di Noemi Di Segni bambina a Gerusalemme.
«La fluidità con cui si passava da una parte all’altra della città, a bordo dell’autobus numero 4. Dai quartieri ultraortodossi a quelli di origine araba passando per il centro dove si svolgono mille attività. Ecco, mi viene in mente proprio il concetto di fluidità, in una città che è molto, molto più piccola della rappresentazione mediatica. Così come è diversa la realtà che si vive lì: c’è un racconto diffuso di luogo pericoloso, attraversato dalla paura, che non corrisponde minimamente alla verità».
Fluidità, convivenza. Un simbolo forte.
«Certo, lo sento anche oggi nel mio lavoro istituzionale. È possibile la coabitazione tra diverse famiglie e origini ebraiche accanto ad altre realtà. A Gerusalemme ci si sfiora, tutti diversi, in vicoli larghi mezzo metro... Un insegnamento importante, significativo: si può convivere mantenendo la propria identità nello stesso luogo, anche se molto stretto. Senza colpirsi. Senza aggredirsi».
La sua famiglia registra un continuo via-vai tra Italia e Israele dal 1945. Lei è nata a Gerusalemme. Si è sempre sentita italiana?
«Sempre. Al cento per cento. In casa era tutto italiano: lingua, cibo, libri, dischi. Insomma, cultura. Come è tipico in Israele: chi è figlio di immigrati, mantiene le proprie peculiarità. C’è una sommatoria di tante diversità, ed è la ricchezza di Israele. Alle Elementari ogni anno si organizzava una serata ispirata alla diversità delle nostre provenienze nelle musiche e nei cibi: francese, americana, marocchina, persiana. Ovviamente italiana».
Lei ha svolto anche il servizio militare per due anni.
«Sì, nel gruppo dell’Intelligence. Un insostituibile allenamento culturale. Non all’odio verso un nemico. Una parola che non ho mai, dico mai, sentito in due anni. C’era sempre il concetto di difesa, di tutela. Impressiona pensare che Israele affidi le sorti della propria difesa ai giovanissimi. Succede anche oggi. Quando vedo certi ragazzi in giro, più o meno sfaccendati, penso a quelli che in Israele oggi, a 18 anni, sono al mio posto di allora».
Ma dove si sente «a casa», Noemi Di Segni?
«Ho sempre vissuto, e vivo, una situazione di schizofrenia. Perché sono inevitabilmente attraversata dalle due dimensioni: Italia e Israele, dove ora sono i miei tre figli. Io vivo qui, ho un grande impegno personale nel lavoro e nell’Unione delle Comunità ebraiche. Ma non nascondo il senso di colpa di non essere in Israele. Per anni non mi sono iscritta a nessuna Comunità italiana proprio per la precarietà che avvertivo, perché pensavo “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Poi mi sono iscritta alla Comunità ebraica romana, per passione culturale ma anche per una scelta alla fine di rispetto, coerenza e senso di dover contribuire alla Comunità all’interno della quale vivevo».
Perché tornò in Italia alla fine del 1989?
«Per amore. Conobbi mio marito in un campeggio estivo in Italia organizzato per i giovani. E decisi di trasferirmi a Roma con lui».
In cosa si sente israeliana?
«In un certo stile di vita, nella facilità di aprire la casa, di ospitare. O di educare i figli. C’è una minore riservatezza complessiva rispetto al modello italiano. Per tornare al concetto iniziale, c’è più fluidità».
Una sua paura?
«Ho una sola angoscia. Se dovessi morire, ora o tra cinquant’anni, non sopporterei l’idea di essere sepolta qui per sempre, lontana da Gerusalemme».
Lei guida gli ebrei italiani. Una realtà complessa.
«Complessa, antichissima e vivissima di tradizioni e beni culturali. Girando per il nostro Paese ci si rende conto di quanto l’ebraismo italiano sia variegato rispetto ad altri ebraismi. E sia poco conosciuto. Un vero peccato. Io avverto l’orgoglio di rappresentare una catena di generazioni secolari che appartengono insieme all’ebraismo e all’Italia».
Antica domanda. Si è «ebrei italiani» o «italiani ebrei»?
«Secondo me ebrei italiani. La componente dell’identità ebraica può essere molto forte o anche blanda ma alla fine la fiammella interiore è quella ebraica. Poi per tutto il resto si è italiani, nel costume, nella lingua, nelle tradizioni di famiglia. Ed è per questo che gli ebrei del nostro Paese vedono nell’Italia la propria Patria, con orgoglio, un legame fortissimo».
Lei porta un nome biblico importante, Noemi. Una storia segnata dal dolore, dalla perdita dei figli, ma anche dalla capacità di legare le generazioni, con grande generosità. Le pesa?
«Non nascondo che quel nome può rappresentare un fardello importante riferito al racconto biblico e so di essere esigente e faticosa. Ma la radice di Noemi porta, in ebraico, anche al concetto di piacevolezza. Ecco, vorrei essere percepita nel mio modo di essere con questo significato».
È difficile essere un’ebrea italiana? Domanda diretta: ha mai avuto attacchi personali, o episodi di discriminazione legata all’antisemitismo?
«No, per la verità non ho ricevuto particolari offese personali, né ho dovuto accettare limitazioni di alcun genere. Ho avuto, questo sì, spesso difficoltà a confrontarmi con persone che in qualche modo non riescono a ragionare, ed esprimono pregiudizi o generalizzazioni. Un fenomeno molto frequente».
Parliamo di antisemitismo in Italia? Lasciamo da parte numeri, statistiche. Che percezione ha del fenomeno? È stabile, in crescita, sta diminuendo?
«Secondo me è in crescita. So che esiste una quota di antisemitismo legata alla crescita dell’estremismo e al terrorismo islamico, sempre più diffuso e pericoloso, e che individua come obiettivi di odio e morte non solo gli ebrei. Poi c’è un antisemitismo crescente di gruppi di destra strutturati e che si richiamano al fascismo, forse, al neonazismo, comunque all’estremismo. Li vediamo e li percepiamo sempre di più. Magari non abbiamo un contatto diretto con loro ma vivono nei nostri stessi spazi quotidiani, organizzano cerimonie e manifestazioni. Io non vado certo a Predappio ma le immagini che arrivano da lì impressionano e preoccupano. Soprattutto perché sono giovani. Si riferiscono a modelli fascisti di cui nemmeno conoscono bene le radici storiche e cosa riecheggiano. La rilevanza del fenomeno sta nel fatto che poi dilaga sulla Rete con una modalità fatta di rapidi slogan, semplificazioni. Inviti agli ebrei a sparire, andarsene, tornare nei forni. Sono forme che emergono e fanno del male. E che crescono appunto sul web. Poi c’è il tema dell’anti-israelianismo, che si traduce anche in un odio contro gli ebrei italiani, identificati come rappresentanti di Israele in Italia. Un antisemitismo che passa per Israele e torna in Italia. Lo si vede in tante forme di boicottaggi: all’università, nei supermercati, nei festival, nelle fiere dei libri...».
Tema attualissimo: la parità tra uomo e donna. Lei è presidente dell’Unione delle comunità ebraiche. Suo marito è impegnato nel commercio di preziosi. A casa vostra c’è mai stato un ordine di priorità?
«No, mai. Un problema che non è mai stato all’ordine del giorno. Mai una discussione. Forse il mio doppio impegno, professionale, personale e istituzionale, genera sacrifici nel tempo dedicato alla famiglia che produce una richiesta di infinita pazienza agli altri familiari...».
Domanda molto ebraica: l’anno prossimo a Gerusalemme?
«Forse sì. L’anno prossimo a Gerusalemme. Forse, finalmente».
Salvini e il no all’antisemitismo «Chi è contro Israele è contro la libertà». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. «Mi ritengo un amico di Israele. Chi è nemico di Israele è nemico della libertà e della pace. Viva l’Italia e viva Israele». Matteo Salvini raccoglie una congrua dose di applausi chiudendo nella sala Zuccari del Senato, a palazzo Giustiniani, il convegno che ha fortemente voluto e attentamente organizzato, «Le nuove forme di antisemitismo». La storia è nota, aveva invitato anche la senatrice Liliana Segre che ha declinato per i troppi impegni ricordando che «la lotta all’antisemitismo non deve e non può essere disgiunta dalla ripulsa del razzismo e del pregiudizio». Le risponde Matteo Salvini indirettamente e senza nominarla: «Mi dispiace che qualcuno non sia oggi qui perché avremmo dovuto parlare di tutto: è una classica metodologia italiana». I temi evocati da Liliana Segre, esplicitamente non sono all’ordine del giorno in questa mattinata incentrata sull’antisemitismo e le sue nuove forme, in particolare l’antisionismo e le diverse modalità con cui nel mondo (governo iraniano in testa) si teorizza la fine di Israele come Stato indipendente, o addirittura la sua distruzione. Al tavolo, coordinato dal direttore dell’Agenzia Italia Mario Sechi, i relatori: Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs ed ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti; Douglas Mourray, accademico britannico, noto scrittore e saggista, autore di best seller; Rami Aziz, ricercatore egiziano copto e analista politico del Middle Eastern Affairs. Il saluto iniziale è della presidente del Senato, Elisabetta Casellati: «A più di settant’anni dall’abrogazione delle leggi razziali, quello dell’avversione etnica verso gli ebrei è tornato ad essere un tema di forte attualità. Un tema estremamente ampio ed articolato, che si nutre anche di una forte campagna di disinformazione su Israele. A ciò occorre aggiungere la percezione, sempre più diffusa, di come questo rigurgito antisemita sia anche espressione di un più generale sentimento di intolleranza verso ogni diversità: di etnia, di genere, di fede religiosa o di opinione politica». In quanto all’immigrazione, il messaggio della presidente è molto forte: «Mi chiedo se rinunciare alle nostre tradizioni in nome di un’esasperata globalizzazione non sia stato un errore. Una strategia che anziché placare le tensioni del tessuto sociale abbia invece avuto l’effetto di accrescerle. Mi chiedo se difendere il nostro essere italiani e il nostro essere europei, difendere le nostre radici culturali, non sia invece la strada migliore per creare presupposti solidi per costruire relazioni fondate sul rispetto e sulla considerazione reciproca». In sala molti giornalisti e volti televisivi: Lucia Annunziata, Fiamma Nirenstein, Monica Maggioni, Maria Latella, Antonio Di Bella, Paolo Liguori, Giancarlo Loquenzi, Annalisa Chirico. E poi - dato molto interessante - numerosi comunicatori italiani del mondo ebraico: Daniel Rerichel (Unione Comunità israelitiche), Daniel Fuinaro (Comunità ebraica romana), Fabio Perugia (Ospedale Israelitico di Roma). Si apre col saluto emozionante dell’ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar : «I miei quattro figli rappresentano la quarta generazioni di sopravvissuti alla Shoah per parte di madre, se i nazisti avessero portato fino in fondo il loro progetto criminale, non sarebbero mai venuti al mondo. Oggi il vecchio antisemitismo assume la nuova maschera dell’antisionismo, dell’odio contro Israele che è l’unico Paese rappresentato nell’Onu di cui altri Paesi mettono in discussione l’esistenza. La lotta contro il vecchio e nuovo antisemitismo va a beneficio di tutto il Paese, della sua società». Dore Gold cita dati allarmanti: «Gli incidenti legati all’antisemitismo, in Gran Bretagna, sono stati 500 nel 2013 e nel 2018 ben 1600, una crescita del 300%. In Francia, nel 2018, sono cresciuti del 75%». Murray racconta come degli ebrei si possa dire «tutto e il contrario di tutto, che si isolano o che vogliono integrarsi, che sono troppo ricchi o troppo poveri, che non hanno uno Stato o che lo hanno e anche molto forte….». Aziz arriva al punto: «Non c’è alcuna differenza tra l’antisemitismo, l’antisionismo e l’essere anti-israeliani». Sotto accusa, come emerge anche in altri passaggi dei relatori, l’antisionismo della sinistra europea. Aziz mostra una foto del leader laburista britannico Jeremy Corbyn in una manifestazione pro-Palestina: «Tra i manifestanti c’è chi alza cartelli violentemente anti-israeliani e nessuna ha qualcosa da dire. L’antisionismo è un nuovo modo di attirare soprattutto i giovani verso l’antisemitismo». Sullo sfondo del dibattito, l’imminente discussione e votazione in Parlamento della definizione di antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto (IHRA), secondo cui ogni forma di odio contro Israele in quanto Stato legittimo è una forma di antisemitismo. Il testo è già stato votato dal Parlamento Europeo e da alcuni Paesi europei, tra cui la Francia (dicembre scorso) e l’Austria. Avverte Salvini: «Arriveremo in aula e così vedremo chi alzerà la mano e dirà di sì». Infine arriva una domanda su Carola Rackete: «Ritengo che Liliana Segre abbia tanto da insegnare a me e al resto del mondo, Carola Rackete no, e mi ritengo in diritto di sostenerlo liberamente».
Il disprezzo dell'Isis nei confronti delle vittime dell’Olocausto. Lo Stato islamico non voleva soltanto minacciare Israele, ma infangare anche il ricordo delle vittime dell’Olocausto. Franco Iacch, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. Lo Stato islamico ha diffuso il suo ultimo messaggio audio nel giorno in cui l'intera comunità internazionale commemorava le vittime dell'Olocausto. Non è stato certamente un caso. È stato un gesto di disprezzo. Tradotti in ebraico alcuni passaggi del messaggio di Abu Hamza al-Qurashi. Alle 19,45 di ieri sera, le principali piattaforme web dello Stato islamico hanno diffuso l’artwork che alleghiamo. È la traduzione in ebraico di alcuni passaggi del messaggio audio letto dal nuovo portavoce dello Stato islamico Abu Hamza al-Qurashi. Anche questa breve traduzione potremmo ritrovarla questa sera su al-Naba, il settimanale dello Stato islamico. La procedura adottata in questi specifici casi è nota. Quello di questa sera sarà un numero dedicato (dalle due alle quattro pagine) al messaggio audio تَمَرَ اللَّهُ عَليهم وللكافرين أمثالها diffuso lunedì scorso dalla Fondazione al-Furqan. Potrebbe anche essere un numero “speciale”. Oltre alle operazioni rivendicate ed impossibile da confermare in maniera indipendente, anche il Coronavirus (soltanto citato a pagina undici nel precedente numero) potrebbe trovare maggiore visibilità. Gli autori di al-Naba potrebbero utilizzare la medesima tecnica IW adottata nel febbraio dello scorso anno poco dopo la scoperta del super batterio blaNDM-1.
Il disprezzo nei confronti delle vittime dell’Olocausto. È certamente vero che lo Stato islamico ha citato nel suo messaggio audio il piano di pace degli Stati Uniti per il Medio Oriente. Tuttavia quello è solo un passaggio di un lungo testo volutamente diffuso nel giorno in cui l'intera comunità internazionale commemorava le vittime dell'Olocausto. Lo Stato islamico non voleva soltanto minacciare Israele, ma infangare anche il ricordo delle vittime dell’Olocausto. La scelta di pubblicare il messaggio audio il 27 gennaio scorso non è stato un caso. Un gesto di disprezzo. E sarebbe un grosso errore collegare il messaggio audio soltanto al piano di pace israelo-palestinese di Trump. La finestra di pubblicazione è stata scelta principalmente per disprezzare le vittime di quel genocidio sistematico ed industriale messo in atto dai nazisti. L’ultimo messaggio audio dello Stato islamico non è stato diffuso in un giorno qualunque. Non è stata certamente una coincidenza o un “fortuito” caso. Come direbbero i terroristi “il caso non esiste”.
Salvini: "L'antisemitismo in Italia? È colpa dei migranti islamici". Intervistato da un giornale israeliano, Salvini prende le distanze dai movimenti antisemiti. E rilancia: "Stop boicottaggio di Israele". Angelo Federici, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Matteo Salvini come Donald Trump. In un'intervista concessa oggi al quotidiano Israel HaYom, il leader della Lega ha affermato che è pronto a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele nel caso in cui dovesse diventare premier. Salvini, inoltre, riprendendo alcune affermazioni rilasciate questa settimana, ha assicurato che il suo partito non ha più alcun legame con organizzazioni - che Israel HaYom definisce antisemite - come CasaPound, Forza Nuova e Fiamma Tricolore. Nella sua intervista, Salvini parte con l'analizzare la situazione in Italia: "Tra i partiti seduti al governo c'è chi sostiene la Palestina, il Venezuela e l'Iran. La definizione di antisemitismo consentirà di chiarire le posizioni di queste persone, come nel caso del Bds (la campagna di boicotaggio di Israele, Ndr). C'è chi lotta per uno stato per i palestinesi, ma nega il diritto all'autodeterminazione per gli ebrei. Questa contraddizione si basa sull'ipocrisia. L'Italia è stata troppo lenta nell'adottare questa definizione internazionale (di antisemitismo, Ndr)". Poi, il leader della Lega si concentra su ciò che sta accandendo in Europa, dove si stanno registrando sempre più attacchi contro gli ebrei: "C'entra il fanatismo islamico", dice Salvini, che poi prosegue: "Ora la presenza massiccia in Europa di immigrati provenienti da Paesi musulmani, tra i quali ci sono molti fanatici che ricevono il pieno sostegno di alcuni intellettuali, sta diffondendo l'antisemitismo, anche in Italia".
Ci sarebbero, secondo il leader della Lega, due forme di antisemitismo in Occidente: quello dell'estrema destra e quello "istituzionalizzato dell'estrema sinistra. Pensa a Jeremy Corbyn o agli attivisti di sinistra in Germania che non vogliono essere come i nazisti ma si ritrovano a confiscare i prodotti israeliani". Salvini, inoltre, si è detto pronto, una volta al governo, a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. In questo modo, il leader leghista sposa, con ancora più forza, la linea dell'amministrazione Trump sul Medio Oriente. Era stato proprio il presidente Usa, il 6 dicembre del 2017, a riconoscere questa città come capitale dello Stato ebraico. Questa decisione è stata duramente contestata dalla comunità internazionale che ha visto nella mossa di Trump un possibile pericolo per l'area. Il leader di Hamas, invece, ha parlato di "una dichiarazione di guerra contro i palestinesi". Lo status di Gerusalemme è contestato. La città è stata occupata da Israele nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, e nel 1980 la Knesset, ovvero il parlamento israeliano, ha proclamato "Gerusalemme, unita e indivisa capitale di Israele". Come ricorda The Post Internazionale, però, "quella legge costituzionale fu definita però nulla e priva di validità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione 478. Fu considerata una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente". Per questo motivo, nessun Paese aveva mai spostato la propria ambasciata a Gerusalemme, preferendo Tel Aviv. Matteo Salvini è sempre stato un sostenitore di Israele e, in particolare, del premier Benjamin Netanyahu, che aveva incontrato il 13 dicembre del 2018. In quell'occasione, si era registrata una delle prime fratture all'interno del governo gialloverde. Il leader della Lega aveva infatti definito il Partito di Dio libanese un movimento terroristico: "Chi vuole la pace, sostiene il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele. Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione". Queste parole avevano provocato l'ira dell'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta: "Non vogliamo alzare nessuna polemica, ma tali dichiarazioni mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio a Sud nella missione Unifil, lungo la blue line. Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell'area". In seguito all'uccisione mirata del generale iraniano Qassem Soleimani, Salvini si è schierato al fianco del presidente americano Trump dicendo: "Donne e uomini liberi, alla faccia dei silenzi dei pavidi dell’Italia e dell’Unione europea, devono ringraziare Trump e la democrazia americana per aver eliminato Soleimani uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà". Solamente tre giorni fa, Salvini ha organizzato un incontro in Senato, intitolato "Le nuove forme dell'antisemitismo", in cui ha affermato che "chi vuole cancellare Israele ha in noi un avversario sempre" e ha chiesto che il Parlamento acceleri "l'approvazione del documento su come si identifica l'antisemitismo oggi". Come notava tempo fa Francesco Giubilei su IlGiornale, il leader della Lega è molto legato ai neoconservatori americani, in particolare alla galassia che ruota attorno a John Bolton, che rappresentano i più importanti sostenitori (e alleati) di Israele nel mondo: "I sostenitori di Salvini sono più al di fuori del governo piuttosto che al suo interno a partire dai leader tradizionali del movimento conservatore e dal gruppo di intellettuali legati all'area del national conservatism".
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Caro direttore, io credo che questo continuo parlare di «odio» e queste «manifestazioni contro l' odio» possano sortire l' effetto di crearlo, e siano perciò pericolose. Credo pure che ad averlo inteso sia proprio Liliana Segre, che l' altra sera ha tentato di dirlo: «Siamo qui per parlare di amore e non di odio». E sarebbe bello: se non fosse che una manifestazione «contro» presuppone sempre qualcosa o qualcuno da fronteggiare, un convitato di pietra, ed è quello che si stanno inventando. Sotto processo non finisce solo il mancato unanimismo per certe commissioni che è lecito trovare superflue, oppure lo scrivere per giornali che simpatizzano per il centrodestra: ci finisce anche la verità, quando non utile. L' altra sera, a margine della manifestazione milanese «contro l' odio» (dove tutto è filato liscio, a quanto so) l' enciclopedia online wikipedia ha cancellato la notizia che i «200 attacchi social al giorno» contro Liliana Segre, a suo tempo denunciati da Repubblica, in realtà erano riferiti al corso dell' intero anno 2018, dunque «non ad un singolo giorno, e indirizzati non esclusivamente alla senatrice». Questo ha detto il rapporto ufficiale dell' Osservatorio sull' antisemitismo: ma, su wikipedia, qualcuno ha cancellato, e ha sostituito con la seguente dicitura: «La notizia è stata rilanciata da altre testate». Ecco: è proprio su internet, a proposito degli «anonimi leoni da tastiera», citati anche da Liliana Segre, che ho notato qualche nervosismo di troppo. Mi spiego. Durante una pausa della Prima della Scala, sabato sera, in un corridoio di accesso alla platea, sono uscito dal bagno e mi sono ritrovato Liliana Segre di spalle, davanti a me, che camminava molto piano (essendo anziana) con tre uomini di scorta che ostruivano il corridoio nel circondarla; dopo un po', nella situazione di stallo, sono riuscito a superarli uno alla volta, sfiorando la senatrice, dopodiché mi sono chiesto però a che cosa servisse la scorta, visto che eluderla sembrava così semplice. Questo ho scritto in rete. Un dubbio, si badi, tecnico, non una contestazione circa l'esistenza della scorta: vicenda su cui non ho informazioni sufficienti per esprimermi. Bene: non sto a dire gli insulti che ho ricevuto, ma anche, attenzione, i plausi. Brutta faccenda. Gli insulti, non sto a ripetermi, erano di gente rimbecillita che ormai vede odio dappertutto e che, oltre ad associarmi spregevolmente a Libero, non poteva concepire che Liliana Segre non fosse oggetto di adorazione messianica punto e basta; gli altri, i plaudenti, non erano leoni da tastiera o anonimi «haters», ma un misto tra i tradizionali «anticasta» (insospettiti perché Liliana Segre, sino a poco tempo fa, non l' avevano mai sentita nominare) e altri che reagivano più che altro all' odio degli anti-odio. Dunque, direttore, questo è il quadro che mi sono fatto: da una parte, una consueta minoranza di presunti «migliori» che ti mettono sulla lista dei sospettati solo perché non partecipi alle manifestazioni, o non santifichi a prescindere chicchessia, o, ancora, esprimi idee scorrette anche senza volerlo, come l' adorabile ottantenne Giorgio Carbone, che è stato lapidato per aver scritto che la Nilde Iotti della fiction è «grande in cucina e grande a letto, il massimo che in Emilia si chiede a una donna»; dall'altra, poi, eccoti un' altra minoranza che non sa bene chi sia o fosse Liliana Segre, salvo apprendere che dai 14 ai 15 anni fu segregata dai nazisti in un campo di concentramento, e che poi, senza una precisa professione, dopo decenni di anonimato, è passata al ruolo ufficiale di testimone e quindi a incassare premi, lauree, scranni da senatrice e canonizzazioni imposte da Repubblica, o altri fabbricatori di santi e di mostri. Queste due minoranze messe insieme, temo, compongono una maggioranza di «società civile» vanamente corteggiata da noi giornalisti, con evidenti e meravigliosi risultati.
A Verona una via per Almirante, Segre: «Incompatibile con la mia cittadinanza». Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 da Corriere.it. Il consiglio comunale di Verona ha votato di intitolare una strada a Giorgio Almirante, lo storico leader del Msi e della destra nazionale, che dopo la caduta del regime fascista di Mussolini aderì alla repubblica di Salò alleata di Hitler. «Mi chiedo se sia lo stesso Comune, quello di Verona, a concedere a me la cittadinanza onoraria e poi a intitolare una via ad Almirante: si mettano d’accordo!» è stata la prima reazione della senatrice Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto. « Le due scelte sono di fatto incompatibili, per storia, per etica e per logica. La città di Verona, democraticamente, faccia una scelta e decida ciò che vuole, ma non può fare due scelte che sono antitetiche l’una all’altra. Questo no, non è possibile!» ha aggiunto la senatrice. Lo scorso 16 gennaio il consiglio comunale di Verona aveva deciso di conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. Ma il 20 novembre del 2019 la stessa assemblea aveva approvato l’intitolazione di una strada all’ex segretario del Msi. Dopo che il centrodestra aveva votato contro la presidenza della commissione sull’odio razziale a Segre, numerosi sindaci d’Italia aveva reagito conferendo la cittadinanza onoraria alla sopravvissuta ai lager. Anche comuni di centrodestra, per farsi perdonare lo «sgarbo», avevano aderito all’iniziativa; in altri casi invece erano nati casi paradossali: il comune di Biella, ad esempio, aveva nominato cittadino onorario Ezio Greggio, negando invece analogo titolo a Liliana Segre. Contemporaneamente il Viminale aveva dovuto assegnare una scorta alla senatrice divenuta bersaglio di decine di messaggi di odio antisemita al giorno.
Date un Tuttocittà alla Segre. Domenico Ferrara su Il Giornale il 21 gennaio 2020.
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Date un Tuttocittà dell’Italia alla Segre.
Odio e fake news: per bloccare via Almirante a Verona la sinistra tira in ballo pure Liliana Segre. Valeria Gelsi martedì 21 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Una lettera al prefetto di Verona per chiedergli di fermare l’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante, già deliberata dal Consiglio comunale. A scriverla è stata l’associazione La città che sale. Sostiene che nulla nella vita e nei valori del padre della destra italiana avrebbe dato la “testimonianza dello sviluppo materiale e civile” richiesta dal regolamento comunale per l’intitolazione. Per questa associazione, infatti, la decisione del consiglio comunale sarebbe giustificata solo da “atteggiamenti ideologici”. Insomma, la solita manfrina, questa sì, dettata da atteggiamenti ideologici di chi ha lo sguardo fermo a un secolo fa.
La lettera al prefetto di Verona. La città che sale mette in relazione “l’assegnazione quasi contemporanea della cittadinanza onoraria a Liliana Segre (tributata quattro giorni fa, ndr) e la proposta di intitolare la via ad Almirante”. Una scelta che esporrebbe la città “al ridicolo, oltre che all’indignazione, configurando una sorta di grottesca, anacronistica e strumentale compensazione ideologica”. “Come si può celebrare la vittima di uno dei più abominevoli regimi politici novecenteschi e intitolare una strada ad uno dei responsabili di quel regime? Che senso ha insistere con questi atteggiamenti ideologici a 75 anni dalla fondazione della Repubblica e a 30 dalla fine della guerra fredda?”, si chiede quindi il consiglio direttivo dell’associazione, che firma la lettera al prefetto Donato Cafagna. La lettera non è estemporanea, ma fa seguito alle polemiche già sollevate dalla sinistra in consiglio comunale. Riproponendone errori e falsità. “Da un lato si dà un riconoscimento a una donna coraggiosa impegnata contro i rigurgiti di fascismo, dall’altro si sdogana una figura come Almirante, che di questo razzismo omicida fu un accanito e mai pentito teorico”, ha sostenuto il capogruppo di Sinistra in Comune, Michele Bertucco, parlando con Repubblica. E qui c’è la prima fake news.
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 gennaio 2020. Caro Dago, ti confesso che se io fossi in un qualche consesso politico che dovesse decidere se votare sì o no l’intestazione di una strada cittadina al nome di Giorgio Almirante, voterei sì. E vengo a spiegarti il perché, che è semplicissimo. Almirante fa parte della storia italiana che è la nostra e in questa storia ha avuto un ruolo, il recupero alla vita pubblica dei “vinti” del 1945, di quelli che avevano fortemente parteggiato per i “vincitori” del 1922, quel fascismo storico che è impossibile ridurre a mera esperienza criminale. E’ un pezzo di storia del nostro Paese. Nel 1922 tutti menavano le mani. Più tardi, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti vennero uccisi per rappresaglia otto fascisti fra cui un parlamentare. Non erano rose e fiori gli anni Venti e Trenta, da nessuna parte in Europa: non lo furono in Germania, in Austria, in Spagna, dove la guerra civile durò tre anni con orrori a bizzeffe compiuti da una parte e dall’altra. Attenuare quegli orrori, quelle zuffe mortali, quelle guerre civili latenti o guerreggiate significa non capire nulla del secolo appena trascorso. In quel tempo e in quel periodo Almirante debuttò da giovane giornalista in un quotidiano diretto da Telesio Interlandi. Gli sedeva a fianco un coetaneo, Antonello Trombadori, futuro comandante militare dei gap comunisti durante la “Roma città aperta”. Più tardi Almirante divenne una sorta di redattore capo de “La difesa della razza”, la fetenzia antisemita voluta da Benito Mussolini e diretta dallo stesso Interlandi. Una colpa intellettuale morale non da poco, certamente. Alla mattina del 26 luglio, con il suo distintivo fascista all’occhiello Almirante stava recandosi alla tipografia de “La difesa della razza”. Un suo amico lo intercettò e gli disse che non era il caso e lo convinse a starsene alla larga. Le cose poi sono andate come sono andate. Com’è nel diritto di chiunque Almirante - e lo ha scritto impareggiabilmente Mattia Feltri nel suo “buongiorno” di oggi - Almirante ha mutato pelle e identità. L’antisemita degli anni Trenta in lui è morto, esattamente - e tanto per fare un esempio -come “il comunista” da anni Ottanta è morto nel mio carissimo amico Oliviero Diliberto, oggi tutt’altro personaggio e di tutt’altra caratura morale e intellettuale (anche se lui dice di no e sostiene anzi che io sono un “comunista” come lo era lui una volta). La storia ci tritura e ci seleziona, tutti noi raschiamo e raschiamo quello che eravamo ancora ieri e l’altro ieri. Almirante mi raccontò la volta che nell’immediato dopoguerra andò a fare un comizio missino in non ricordo più quale comune “rosso” del nord Italia. A un certo punto gli arrivarono addosso in molti e cominciarono a tempestarlo di cazzotti e pedate. Lui andò giù, ne uscì indenne, si accorse che gli mancava l’orologio. Si rivolse protestando a un dirigente comunista che si trovò innanzi. Dopo pochi minuti l’orologio gli fu restituito. Almirante è stato per 40 anni il testimone vivente di quella parte del Paese che nel fascismo ci aveva creduto. Uno di loro era mio padre, che mi ha pagato gli studi universitari e l’acquisto dei libri Einaudi dai quali ho imparato l’antifascismo. Una volta che avevo scritto delle “squadracce fasciste” mio padre mi chiese se sapevo che lui ne aveva fatto parte. Gli risposi di sì, pronto alla pugna. Papà non aggiunse altro. Per stile di vita e tutto, lui era l’opposto esatto del “fascismo” in cui aveva creduto, come lo era l’avvocato Battista padre del mio carissimo Pigi Battista che gli ha poi dedicato un libro quanto mai toccante. Il fascismo c’è stato nella storia d’Italia, e nessuno lo può cancellare. Nella storia successiva Almirante ha avuto un ruolo, e nessuno lo può cancellare. A dirla in una sola parola, il suo nome ci può stare sulla targa di una strada. La volta che lo intervistai a lungo nel suo studio in via della Scrofa, guardavo dietro di lui alla foto di Mussolini e al gagliardetto della Juventus. Una foto di Mussolini simile a quella che mio padre teneva dietro il suo tavolo da lavoro.
Lettera di Mirella Serri a Dagospia il 22 gennaio 2020. Gentile direttore, leggo con stupore la lettera in cui Mughini difende l’intestazione di una via a Giorgio Almirante. Mughini è un intellettuale colto che conosce tanti risvolti della storia. A suo parere Giorgio Almirante merita una targa in quanto rappresentativo degli ex fascisti che agirono e operarono nel dopoguerra in regime democratico ma con molte e ingiustificabili nostalgie. Mughini sa benissimo che vi furono parecchie ex camicie nere che riuscirono a cambiare pelle e altre che rimasero invece ancorate al vecchio credo. Almirante non fu nel dopoguerra un dannato della terra: ebbe anche la fortuna di avere un bel sostegno nella creazione di un partito neo fascista. Peraltro ci sono già molte strade in Italia a lui intestate, da Pomezia a Giarre in provincia di Catania e tante altre. Non aggiungiamone di nuove in memoria di un personaggio che, oltre a essere stato fascista come la maggior parte degli italiani ha avuto l’incancellabile colpa di avere sostenuto attivamente l’ideologia razzista. Lasciamo che Almirante riposi in pace con tutti i suoi errori ma evitiamo di rinverdirne il ricordo con nuove vie. Ci sono molti altri più o meno conosciuti eroi come Enzo Sereni morto a Dachau oppure Ada Ascarelli che riportò in Palestina circa 25 mila ebrei che si erano rifugiati in Italia che aspettano la loro targa. In generale lascerei perdere la guerra delle targhe o delle cittadinanze in cui si equipara la persecuzione razziale subita da Liliana Segre al destino di un ex fascista persecutore degli ebrei.
Antisemitismo, nel Msi non c’era. Anzi Israele era considerato un modello. Lo afferma il politologo Campi. Redazione de Il Secolo d'Italia il domenica 26 gennaio 2020. Antisemitismo, una piaga che non infettava il Msi. Lo sottolinea il politologo Alessandro Campi in un’intervista apparsa sul Giornale. Nella quale ricorda alcuni passaggi cruciali della storia del partito fondato da Romualdi e Almirante.
Antisemitismo e storia del Msi. Campi sottolinea che “il Msi ha conosciuto una complessa evoluzione, sulla quale hanno influito anche i cambiamenti di scenario geopolitico del secondo dopoguerra. Nasce filo-arabo e anti-colonialista (in funzione anti-britannica) per poi divenire occidentalista. Nemico di ogni terzomondismo. Al suo interno era una realtà molto variegata: una minoranza radicale ha certamente coltivato suggestioni antisemite (di matrice cattolico-tradizionaliste o nazi-paganeggianti). Ma i suoi vertici politici – Michelini, Almirante, Fini – non hanno mai alimentato sentimenti discriminatori o razzisti”. Ricorda poi, a proposito delle polemiche toponomastiche a Verona, che Giorgio Almirante fece in più occasioni autocritica sul suo passato. A cominciare dal 1967. “Almirante fece pubblica autocritica sul suo passato razzista e antisemita nel febbraio 1967. Durante una Tribuna politica (e per questo fu attaccato dagli ambienti della destra radicale, a partire dall’ideologo Julius Evola). Sempre in quell’anno, con la guerra dei “sei giorni”, si definì anche la posizione filo-sionista del partito, da allora mai più abbandonata. Israele era percepito come un bastione dell’Occidente anti-comunista. Piaceva alla destra la sua natura di nazione in armi. Così come veniva visto con simpatia ideologica il modello comunitario, patriottico e sociale dei kibbutz”. Infine Campi commenta la notizia della candidatura nel 1979 proprio con il Msi del marito di Liliana Segre: “La storia è complessa. Spesso la si racconta male, altrettanto spesso non la si conosce. Un valente storico e giornalista, Gianni Scipione Rossi, ha scritto nel 2003 un libro sul rapporto tra la destra italiana e gli ebrei che se letto con attenzione avrebbe evitato molto delle inutili polemiche di questi giorni. La verità è che la destra italiana ha fatto i conti con la responsabilità delle leggi razziali del ’38 ben prima del mea culpa di Fini”.
Felice Manti per il Giornale il 25 gennaio 2020. Il marito di Liliana Segre, senatrice a vita e testimone vivente dei guasti dell' antisemitismo e dei campi di concentramento nazisti, era un antifascista cattolico. Nulla di strano. Se non fosse che il suo cuore di uomo d' ordine, con una carriera militare, batteva a destra. E se non fosse che, come è stato possibile appurare spulciando negli archivi del Viminale, nel 1979 avesse deciso di candidarsi alla Camera con il Movimento sociale italiano ma come «indipendente». Neanche 700 voti. Già, l' Msi di Giorgio Almirante, il cui destino curiosamente si è intrecciato di recente con la stessa Segre per via del pasticciaccio della via intitolata (legittimamente) all' ex leader Msi dal Comune di Verona nel giorno della cittadinanza scaligera offerta (e rifiutata) dalla stessa Segre. Il perché Alfredo Belli Paci, morto nel 2008, avesse scelto di correre nel Movimento sociale «da posizioni antifasciste» l' ha spiegato al Giornale il figlio Luciano, che con il padre condivide la passionaccia per la politica, seppur da sponde opposte. «Ero il segretario provinciale dei giovani del Psdi, poi ho militato nel Psi, nei Ds, in Sd, Sel e infine Liberi e Uguali - dice al telefono con Il Giornale - non mi sono spostato io, che resto sulle posizioni di Saragat». Ma i tormenti politici del figlio sono poca cosa rispetto a quelli della madre alla notizia della candidatura: «Non le nascondo che fu un periodo difficile per lei e che la scelta di mio padre portò a delle lacerazioni nei nostri rapporti. Fin quando poi si decise a mollare tutto e a fare l' avvocato, da solo e poi insieme a me». Certo, c' è una Milano da raccontare e un clima irrespirabile che nessun libro di Storia potrà mai neanche lontanamente riuscire a far capire. «Siamo negli Anni '70, mio padre lavorò insieme ad altri - liberali, monarchici e antifascisti, lo scriva mi raccomando... - a quell' esperimento politico chiamato la Costituente di Destra», poi diventata Democrazia nazionale che trovò in Pietro Cerullo l' ispiratore insieme a Ernesto De Marzio, il generale Giulio Cesare Graziani, finanche Achille Lauro. Un tentativo di sfuggire al ghetto nel quale il fin troppo nostalgico Pino Rauti aveva confinato il Movimento sociale. L' esperimento fallì «ma papà ci credeva ancora, e per questo disse sì alla candidatura». Nonostante il no alla Repubblica di Salò gli fosse costato la permanenza in «sette campi di concentramento». Dalla storia della famiglia Segre arriva un' altra lezione a chi si ostina a dividere tutti in buoni e cattivi e a pretendere di avere la verità in tasca.
Ma il marito della senatrice Segre fu missino e almirantiano. Un documento del “Secolo”. Giovanni Pasero sabato 25 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Alfredo Belli Paci è stato più che un candidato del Msi. Il marito della senatrice Segre è stato convintamente almirantiano. Almeno così risulta a noi. Alle elezioni politiche del 3 e 4 giugno 1979 l’avvocato Belli Paci figura infatti nel cappello di lista dei candidati del Msi della Circoscrizione Milano-Pavia. In una competizione che, basta andare a guardare i giornali dell’epoca, vedeva il Msi su posizioni di destra radicale. In contrapposizione con gli “scissionisti” di Democrazia nazionale. Il servizio che documentiamo, si rende necessario dopo le quanto riportato da Il Giornale e La Verità. Con l’intervista al figlio del professionista milanese, che ha confermato la candidatura del padre, seppure sfumandone il significato. Tutto, ovviamente, comprensibile dal punto di vista del figlio. Ma il dato che a noi sembra importante è che quella dell’avvocato Belli Paci è stata una decisione convinta e non frutto di un momentaneo sbandamento.
Il marito della Segre non era un semplice candidato. Ecco la ricostruzione cronologica. A pagina 11 del Secolo d’Italia di giovedì 10 maggio 1979, vengono pubblicati i candidati della IV circoscrizione per la Camera e per il Senato. Alla Camera, il capolista è Franco Servello (storico esponente della destra italiana). Belli Paci è al numero 6, nel cappello di lista. Non proprio un Signor nessuno. Anzi, un candidato di prestigio, di assoluto prestigio per la Fiamma tricolore. È il 1979, siamo nel pieno degli “anni di piombo”. E a Milano, anche solo comprare il Secolo d’Italia all’edicola, è un rischio. Candidarsi, quindi, con il Msi-Dn è una scelta di campo coraggiosa. Né tiepida, né moderata.
Le parole di La Russa alla senatrice a vita. Nei giorni scorsi, Ignazio La Russa aveva lanciato un appello alla senatrice a vita Liliana Segre, per chiederle di non opporsi all’intitolazione di una via a Giorgio Almirante. Un appello che faceva una premessa. “Se la signora Segre lo avesse conosciuto, sicuramente avrebbe dato di quell’uomo un giudizio completamente diverso. Purtroppo Almirante è morto e un incontro con la Segre non è possibile. Un incontro tra i due, ne sono certo, avrebbe risolto la questione”. Il marito della signora Segre lo aveva conosciuto. E quindi si era candidato.
Con Alfredo una storia d’amore durata tutta la vita. Nell’intervista rilasciata a Sat 2000, la tv dei Vescovi, la senatrice Segre parlava del marito come di una persona fondamentale nella sua vita. “Liliana Segre attribuisce al marito la sua rinascita dopo l’orrore vissuto ad Auschwitz e lui le restò sempre vicino anche quando decise, compiuti i 60 anni, di diventare una testimone della Shoah”. Liliana e Alfredo si sono conosciuti nel 1948 e, fino alla morte di lui, nel 2007, non si sono mai lasciati.
Meloni: Almirante merita un omaggio, la sinistra ha perdonato il passato fascista di Scalfari e Bocca. Redazione de Il Secolo d'Italia mercoledì 22 gennaio 2020. “Non credo assolutamente che una via dedicata a Verona a Giorgio Almirante sia in contrasto con la concessione della cittadinanza onoraria a Liliana Segre”. Lo afferma all’Adnkronos la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, interpellata sulla polemica nata dalla decisione del Consiglio comunale di Verona di intitolare una strada all’ex segretario missino e le affermazioni di Liliana Segre che l’ha giudicata “incompatibile” con il conferimento a lei della cittadinanza onoraria. Per la leader della destra erede del Msi è anzi bello che Verona pensi in contemporanea all’omaggio a due figure come Liliana Segre e Giorgio Almirante. Il merito di quest’ultimo, sottolinea Meloni, fu di avere portato nell’alveo democratico un partito che nasceva dai reduci dell’esperienza della Rsi. Un merito che la storia gli deve riconoscere. “Appare oggi davvero bizzarro sostenere che un personaggio che per cinquant’anni ha fatto parte delle Istituzioni della Nazione sia un reietto, meritevole dell’oblio”. “L’approvazione delle leggi razziali – aggiunge – è una grave ferita nella storia del popolo italiano. Su questo non abbiamo alcun dubbio”. Anche il leader dell’Msi – ricorda Meloni – condannò “le leggi razziali” ed ebbe un ruolo importante nel traghettare la comunità politica che aveva il legame con l’esperienza fascista “nell’alveo del dibattito democratico”. La leader di FdI ricorda infine che anche altri personaggi, poi santificati dalla sinistra, come Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, scrivevano con entusiasmo sui giornali fascisti ma la loro “colpa” fu perdonata perché poi divennero bandiere della sinistra. Tale indulgenza invece non si è dimostrata verso altre figure, rimaste coerenti con la loro storia.
Segre spiazza i partigiani: "Sì a fiori sulle tombe dei fascisti". L'Anpi ha chiesto al sindaco di Rapallo (Genova) di non mettere più la corona d'alloro per i caduti della Rsi. Il commento della senatrice a vita Liliana Segre: "I morti sono tutti uguali. Non togliamo le corone a nessuno". Gianni Carotenuto, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. "I morti sono tutti uguali. Non togliamo le corone a nessuno". Queste le parole di Liliana Segre raccolte da una giornalista che le chiedeva conto dell'appello di Anpi al sindaco di Rapallo (Genova), Carlo Bagnasco, di non omaggiare più i militi della Rsi con una corona d'alloro. Lo riporta Libero. È successo il 2 gennaio. La senatrice a vita si era recata nella cittadina ligure, dopo alcune giornate trascorse nelle vicine Camogli e Portofino, per incontrare il primo cittadino e il deputato Roberto Bagnasco, entrambi di Forza Italia. Ultima tappa di una vacanza che Liliana Segre si è concessa in Liguria, regione a cui è molto affezionata. "Quello con Rapallo è un legame molto antico. Rapallo fa parte della mia vita", ha raccontato la senatrice. A Rapallo, infatti, risiede il figlio Alberto Belli Paci, che vive con la sua famiglia nella casa che il nonno della senatrice - come scrive Levante News - aveva acquistato nel 1937. È anche per questo motivo che, a fine dicembre, il Comune rapallese ha deciso all'unanimità di conferirle la cittadinanza onoraria. Riconoscimento di cui la senatrice si è detta molto lusingata. "Un grande onore, oggi, la visita della senatrice Liliana Segre a Rapallo. Un incontro semplice ed informale che ricorderò per sempre. Durante la visita abbiamo parlato di tanti argomenti che riguardano la storia del nostro paese e del mondo intero", ha scritto il sindaco Carlo Bagnasco, ricordando che la senatrice "ha speso la sua vita nella "lotta contro ogni forma di odio", promuovendo ultimamente, anche la creazione in Senato di una commissione permanente che si occupi di in maniera costane di questo, di cui, tra l’altro sarà la presidente". Nel suo post, il sindaco di Rapallo ha parlato della "lotta contro ogni forma di odio" che ha visto protagonista la senatrice. Ed è proprio l'odio a muovere, come accade (troppo) spesso, le truppe di Anpi. Lo scorso 29 dicembre, su Facebook, la sezione partigiana di Santa Margherita Ligure - Portofino aveva espresso soddisfazione per la cittadinanza onoraria concessa dal Comune di Rapallo alla senatrice a vita, definendola però "una decisione che si pone in controtendenza alla campagna d'odio di cui la signora Segre è stata ancora una volta vittima". Anpi, nell'occasione, lamentava "lo squallido gesto della giunta rapallese di omaggiare, ogni 4 novembre, coloro che ne furono i carnefici".
Gesto che i partigiani chiedevano di interrompere. Confidando magari nell'endorsement della senatrice. Che però non è arrivato. Anzi, Segre ha espresso un parere diametralmente opposto. Combattendo l'ennesima battaglia contro "ogni forma di odio". In nome di una pacificazione nazionale che purtroppo, a distanza di 75 anni, è ancora di là da venire.
Liliana Segre, Almirante e Salvini. Alberto Giannoni su Il Giornale il 23 gennaio 2020. Il fatto che l’intitolazione di una via a Giorgio Almirante, a Verona, abbia coinciso con la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, rende tutto più complicato, e certo non si possono mettere sullo stesso piano, storicamente, un torto e una ragione. Ciò premesso, si può forse provare a ragionare, andando oltre il corto-circuito della cronaca. Nessuno come la senatrice a vita Segre, oggi, ha l’autorevolezza e la forza per unire, e quindi per riconciliare l’Italia con se stessa. Certo, non è pensabile che Liliana Segre si riconcili col Fascismo o con le infami leggi razziali, o che riabiliti quell’oscuro redattore della “Difesa della razza” che è stato il giovane Almirante. Allo stesso modo non si possono e non si devono legittimare gli attuali, patetici nostalgici del Regime. Cosa ben diversa, però, sarebbe riconoscere un pezzo della destra che viene dal Msi e che da quella pagina orrenda del razzismo fascista ha preso chiaramente le distanze, fino a condannarla nettamente. Si tratta di valorizzare quella condanna, che c’è stata, riconoscendo quel percorso che dal post-fascismo, tenendosi alla larga dagli estremismi, ha condotto alla democrazia, al “gioco” delle istituzioni parlamentari, e oltretutto a posizioni apertamente filo israeliane. Non si può dimenticare che Marco Pannella, il radicale, il nonviolento, l’antifascista che metteva in guardia dal “fascismo degli antifascisti”, invitato al tredicesimo congresso del Msi-Dn, il 20 febbraio 1982 andò a dire a quella platea: “Il fascismo non è qui!”, suscitando nella sala un evidente imbarazzo che Almirante stesso dovette risolvere assicurando che invece no, il fascismo era lì. Era chiaramente un artificio retorico, propaganda, e in ogni caso già da molti anni, lì, di quell’antisemitismo non c’era più traccia, e questo potrebbe confermarlo e spiegarlo meglio chi conosce bene la storia di quella destra – a cui personalmente non sono legato, neanche come “lessico familiare”. Nel 1967 Almirante già spiegava che quell’antisemitismo era “completamente superato, per ragioni umane, per ragioni concettuali”. Lo disse con rigore e pudore, mentre altri, anche a sinistra, praticarono l’infingimento e il silenzio opportunista. Questa storia andrebbe riscoperta in pieno. Questa, andrebbe riconosciuta e rispettata. Meriterebbe un riconoscimento. Ignazio La Russa l’ha ricordata bene ieri. Nel Consiglio regionale della Lombardia, due giorni fa, Viviana Beccalossi ha detto ad alta voce: “Alle leggi razziali guardo con orrore”. In una recente intervista al Giornale, Riccardo De Corato ha spiegato: che “Almirante prese le distanze, fu una brutta pagina che mai né il Msi né An hanno mai condiviso, l’abbiamo denunciata come la peggiore della nostra storia e non abbiamo mai avuto problemi a dirlo nelle piazze, nei congressi, sempre”. A sinistra c’è (stata) un’onestà intellettuale paragonabile a questa, sugli orrori del Comunismo e le complicità della sinistra italiana? La questione è ovviamente delicata, da non affrontare con l’accetta, ma la riconciliazione – nella verità – alla fine rafforza tutti e rafforza la democrazia. Offrire una mano tesa, un gesto di dialogo, avrebbe un valore storico. Le contrarietà ci sono, anche comprensibili, ma il tema-antisemitismo non dovrebbe essere usato con l’intenzione di dividere ed escludere, e soprattutto non ha titolo per farlo chi, a sinistra, finge di non vedere il problema delle vie intestate a Stalin, che fu ferocemente antisemita, e ai suoi complici politici, anche italiani. L’antisemitismo è una piaga, e non si può accettare che venga maneggiato con strumentalità e disinvoltura da chi intende solo mettere in difficoltà la destra o la Lega, che peraltro oggi è il partito più filosionista d’Europa, ha fatto approvare una mozione sacrosanta contro il boicottaggio di Israele e da molti viene vista non come uno spauracchio ma come un argine nei confronti dei nuovi pericoli, che oggi in Europa e al di là delle Alpi, non vengono da destra ma dal fanatismo religioso islamista.
Segre: ''Mio marito aderì a destra in cui c’era Giorgio Almirante''. La senatrice a vita Liliana Segre ha ammesso di aver sofferto per la decisione tanto da chiedere al marito di scegliere tra lei e la politica. Gabriele Laganà, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. La senatrice a vita Liliana Segre negli studi di ''Che tempo che fa'' ritorna sulle polemiche in merito all’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante a Verona proposta quasi contemporaneamente alle decisione di dare a lei la cittadinanza onoraria raccontando un fatto della sua vita personale, quella cioè del marito che per alcuni anni ha militato nel Msi. ''Mio marito, che era stato uno che aveva scelto due anni di internamento pur di non stare nella Repubblica sociale, vedendo molto disordine, per un certo periodo aderì a una destra in cui c’era anche Almirante'', ha dichiarato la Segre ammettendo che questa decisione l’ha fatta soffrire molto tanto che la coppia ha vissuto ''una grande crisi''. La senatrice a vita ha ammesso di aver invitato il consorte a scegliere tra lei e la politica. In quest’ultimo caso, però, la conseguenza era la separazione. Dopo le tenebre della crisi, ecco la luce della serenità: ''Per fortuna lui rinunciò per amore nei miei confronti - ha continuato la Segre-a una eventuale carriera politica. E io aprì le braccia a un amore ritrovato e fummo insieme per altri 25 anni''. Alla vigilia del Giorno della memoria, la Segre ricorda: ''Quel 27 gennaio io non ero ad Auschwitz, non ho avuto la gioia di veder aperto quel cancello. C’erano solo morti o persone malate che non avevano potuto obbedire al comando della 'marcia della morte’”. I più giovani pensano che quel giorno la guerra sia finita, ma la senatrice a vita tiene a ricordare: “Non è così, il conflitto era ancora nel pieno''. La Segre nel corso della trasmissione ha anche ricordato il momento in cui ha scelto di esporsi e di raccontare l’orrore che aveva visto. ''Diventata nonna, decisi di uscire dal silenzio durato 45 anni e fare il mio dovere di testimone. Fino ad allora non avevo avuto il coraggio di farlo''. La senatrice a vita, poi, ha parlato anche della scorta assegnatale per le minacce ricevute proferendo parole dolci e cariche di affetto per gli agenti che la proteggono: ''Tra loro e i miei nipoti non c’è molta differenza per me. Mi sento la nonna della mia scorta''. La stessa Segre ha confessato di aver temuto di essere meno libera ma con il passare del tempo ha iniziato a considerare i poliziotti come ''un grande regalo, ho degli amici, con loro posso mangiare la pizza con i miei nipoti''.
Da “il Giornale” il 27 gennaio 2020. «Mio marito, che era stato uno che aveva scelto due anni di internamento pur di non aderire alla Repubblica sociale, vedendo molto disordine, per un certo periodo aderì a una destra in cui c'era anche Almirante. lo ho molto sofferto e ci fu una grande crisi. A un certo punto misi mio marito e me sullo stesso piano e dovevamo sceglierci di nuovo. O separarci». La senatrice Liliana Segre, ospite di Fabio Fazio a «Che tempo che fa», racconta commossa l'episodio della sua vita privata anticipato dal «Giornale». Dopo la crisi, ricorda, il ritrovarsi: «Lui rinunciò per amore nei miei confronti a una eventuale carriera politica. E io aprii le braccia a un amore ritrovato e fummo insieme per altri 25 anni». Quanto al razzismo e all'antisemitismo, la Segre ha osservato: «Ci sono sempre stati, adesso quei sentimenti si possono di nuovo esprimere. Sono stati sdoganati». E sulla scorta che le è stata assegnata dopo le minacce ricevute: «Fra quei meravigliosi ragazzi (gli agenti sempre con lei, ndr) e i miei nipoti c'è poca differenza per me Sono la nonna della mia scorta».
L'amore di Liliana Segre per un marito conservatore: parla il figlio Alberto. «Mio padre patriota e ribelle, anche lui visse la tragedia». Michele De Feudis il 26 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Sono molto felicemente il ragazzo di Liliana Segre». La storia di un italiano illustre inizia proprio così, con l’incipit di una lettera inviata al Corriere della Sera, pubblicata accanto alla «Stanza» di Indro Montanelli. È il racconto di un personaggio dal rigore civile e morale cristallino. La storia di Alfredo Belli Paci, marito della senatrice a vita, marchigiano, poi milanese d’adozione, avvocato pieno di stile ma soprattutto sorprendente e discreto Virgilio nel percorso che riportò l’amata Lilliana dall’orrore indelebile dei campi di concentramento e della persecuzione nazista alla vita e alla rinascita tra gli affetti familiari. Scomparso nel 2008, è descritto da Liliana come un gigante capace di donare silenzi, protezione, comprensione e temperanza. Il figlio maggiore Alberto - imprenditore e amante della cultura giapponese, liberale a tutto tondo - dal padre ha ereditato lo stile sobrio - apre alla «Gazzetta» un delicatissimo scrigno della memoria: «Mio padre è stato un esempio dal punto di vista del rigore, della serietà, dell’orgoglio militare: uomo tutto d’un pezzo. Aveva dieci anni più della mamma. Aveva sempre amato tutto quello che era collegato alla divisa, professava un amore profondo verso la patria». Come tanti italiani del tempo, aveva scelto giovanissimo la vita militare: «Aveva fatto il collegio Morosini, poi aveva frequentato l’accademia di Livorno che non era compatibile con le sue conoscenze matematiche. Infine era entrato nell’esercito, era di stanza in Grecia, come sottotenente di artiglieria. Aveva giurato fedeltà al Re, non aderì alla Repubblica sociale e - catturato da una compagnia di tedeschi - ventitreenne fu internato in sette campi di prigionia». Dopo il 1943 Alfredo divenne, come almeno altri 600mila italiani un «Imi», un internato militare italiano, patendo dolori infiniti, e scegliendo una certa idea di patria alla libertà che sarebbe stata conseguente all’adesione alla Repubblica nordista del crepuscolo fascista. Ecco l’idea dell’Italia di Alfredo: «Lui ha scelto di dire di no, di non fare patti: avrebbe potuto firmare e tornare in Italia. Mio padre fu profondamente eroico. È stato un patriota e ribelle. Soffrendo per le sue scelte. Difese il decoro degli ufficiali italiani in prigionia, scambiava fette di pane per un po’ di lucido, affinché le sue scarpe fossero pulite come si doveva ad un impeccabile ufficiale del Regio esercito. Della sua tenuta morale ci sono resoconti anche negli atti del Comando italiano dopo la guerra. Agli inviti ad aderire alla Rsi, aveva replicato a muso duro ad un comandante della Wehrmacht dichiarando che trovava inaudita questa proposta, perché un ufficiale aveva il dovere di resistere. Ed era stato punito», ricorda ancora commosso il figlio. L’incontro con Lilliana? «L’aveva conosciuto qualche anno dopo il ritorno della mamma. Al mare nelle Marche, a Pesaro, dove mia nonna Bianca - prosegue nel racconto Alberto - era andata in villeggiatura. Mia nonna si chiamava Foligno di cognome, e sfuggì alla persecuzione degli ebrei nascosta in conventi da suore a Roma». Dell’amore con Alfredo la senatrice Lilliana ne parla con poche parole, figlie di un pudore antico, ricordandone il senso di sicurezza che suo marito le trasmetteva. Senza mai fare domande. Nell’Italia del dopoguerra i dolori della prigionia (come della lotta partigiana e delle angherie subite dai fascisti nel Nord dopo il 1943) erano una memoria più o meno sussurrata, mai sbandierata pubblicamente per non riaprire ferite profonde. «Della tragedia di entrambi - spiega il figlio Alberto - della loro prigionia, non si parlava mai. Era un tabù assoluto. Sapevamo che qualcosa di tremendo era successo». I segni, quel numero tatuato di Liliana, erano lì a testimoniare l’orrore del Novecento. «La memoria - chiarisce Alberto - era una presenza. “Non parliamone, non facciamo soffrire la mamma”. Questo era il nostro pensiero». Alfredo, italiano e marito illustre aveva un contegno unico: «Mio padre teneva separati i mondi. Sapevamo che c’era stato qualcosa di terrificante. Nella mia infanzia non si parlava mai di niente di quel periodo. Si sentiva qualcosa di tremendo ma non si poteva identificare. Non c’erano tanti documenti, non esistevano la Rete o gli archivi digitali». Alfredo fu campione di garbo nell’accompagnare il percorso di vita con sua moglie: «Difendeva nostra madre, la portava in palma di mano, la incitava, le dava coraggio, era sempre di fianco. Sempre attento, tenero». Una roccia su cui appoggiarsi nei momenti in cui il peso del passato poteva creare smarrimento, una figura che richiamava lo stile del padre di Liliana, Alberto, ex ufficiale del ’99, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale, e dello zio Amedeo, decorato con la croce di guerra a capo retta («Un fascista della prima ora», ricorderà Liliana): «Aveva una postura militare e una eleganza innata. Un grande bell’uomo, spiritoso, ottimo relatore. Affascinante ed elegante», chiosa il figlio. Lo ricorda così anche Eugenio Pasquinucci, amico di famiglia: «Mio padre aveva combattuto contro i tedeschi la battaglia di Montelugo. Era legato ad Alfredo, anche mia madre era amica della signora Liliana. Da piccolo giocavo con i loro figli nei parchi cittadini. Mio padre e Alfredo condividevano una idea differente dell’Italia. Un certo patriottismo». Lo stile che lo contraddistingueva in famiglia, Alfredo lo aveva anche nell’avvocatura: legale di pregio nel settore delle assicurazioni, ha trasmesso la passione per il diritto al secondo erede, Luciano, che scelse l’impegno politico nel Psdi di estrazione saragattiana. Le idee di Alfredo furono sempre legate «ad un chiaro senso dell’onore. Dopo le schifezze che aveva visto, si collocava - chiarisce ancora Alberto - nell’alveo della cultura conservatrice. Era un conservatore. Con noi figli era impeccabile, ma anche esigente» Negli anni ‘70 Alfredo, legato all’ammiraglio Gino Birindelli, aderì alla Costituente di destra per la libertà, insieme all’ex deputato Dc Enzo Giacchero (che era stato un comandante partigiano bianco) e Agostino Greppi. Nel 1979 si candidò alla Camera con il Msi, come indipendente, in chiara posizione anticomunista. «Quella fu una campagna elettorale decisiva per il Msi, che doveva superare la scissione governativa di Democrazia nazionale», ricorda il professor Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice. «Alle politiche del 1979 - ricostruisce l’ex parlamentare e sottosegretario Alfredo Mantica, in quel periodo vicino all’eretico deputato Tomaso Staiti di Cuddia - la destra di Giorgio Almirante presentò liste forti, di credenti, identitarie si direbbe adesso». «Quella Milano - analizza Marco Valle, intellettuale e direttore di Destra.it - era una città straziata dall’estremismo politico rosso, dove la sinistra in consiglio comunale applaudì la morte del giovane studente di destra Sergio Ramelli (sprangato da un commando di assassini a cui partecipò anche un pugliese, ndr)». Di quella campagna elettorale restano anche le riflessioni di Benito Bollati, deputato missino milanese, 93enne, che ci racconta «di un avvocato pieno di stile, di educazione antica. Il filo rosso che ci univa? Era il patriottismo dell’Italia che amavamo». Quella scelta di impegno politico creò una grave crisi nella coppia, che si superò unicamente quando rinunciò alla militanza politica. Alberto nei mesi scorsi ha scritto una lettera al «Corsera» per difendere sua madre da critiche e polemiche scaturite dalle cronache politiche: «A voi che non vi alzate in piedi davanti a una donna di 89 anni, che non è venuta lì per ottenere privilegi o per farsi vedere più brava ma è venuta da sola (lei sì) per proporre un concetto libero dalla politica, un concetto morale, un invito che chiunque avrebbe dovuto accogliere in un mondo normale, senza sospettosamente invece cercare contenuti sovversivi che potevano avvantaggiare gli avversari politici. A voi dico: io credo che non vi meritiate Liliana Segre!». Il figlio maggiore come il padre, al fianco dell’amata mamma: «L’idea di protezione - conclude Alberto - verso mia madre l’abbiamo eredita da papà. Con i miei fratelli, abbiamo ereditato la visione di difendere nostra madre fino a che avremo vita». Alfredo Belli Paci fu un italiano illustre, declinò nell’Italia ferita dalla Seconda guerra mondiale e negli anni complessi del dopoguerra la luminosa figura del cavaliere medioevale Wilfred di Ivanhoe. Coraggioso e fedele alle sue idee, tutta la vita al fianco dell’amata Rowena. E quando Liliana tornava a casa, provata, da una conferenza o una testimonianza in una scuola, la riaffermazione della normalità era cadenzata da queste parole di Alfredo: «Amore mio, tutto bene?». E la risposta era un sorriso che consentiva, ancora una volta, di superare il dolore.
Quando l’antisemitismo proviene dagli afroamericani. Daniele Zaccaria il 28 gennaio 2020 su Il Dubbio. Escalation di atti ebraici negli Stati Uniti. E non solo da parte dei suprematisti bianchi. Il caso del New Jersey e dei Black Hebrew Israelites. L’ultimo attacco lo scorso 10 dicembre a Jersey city contro un supermercato casher, quattro le vittime: un poliziotto, due ebrei ortodossi e un cassiere ecuadoriano. Gli autori della strage, deceduti nella sparatoria con le forze dell’ordine, si chiamavano David Anderson e Francine Graham. Anderson era un membro dei Black Hebrew Israelites, una setta di suprematisti afroamericani che si crede l’unica discendente dalle sacre scritture, ritiene gli ebrei bianchi dei semplici usurpatori che hanno finanziato la schiavitù e che appartengono a una razza inferiore mentre la Shoah sarebbe poco più che una leggenda. Il gruppo è noto sia alle autorità che ad associazioni anti- razziste come il Southern Poverty Law Center che appena lo scorso anno non lo riteneva capace istigare alla violenza. E invece tra le migliaia di adepti che si nutrono della grottesca propaganda dei Black Hebrew Israelites si annidano pericolosi fanatici, Nell’auto della coppia è stato ritrovato dell’esplosivo, l’appartamento di Anderson invece era pieno di scritti antisemiti in cui gli «avidi ebrei» sono accusati di controllare il governo se non addirittura di dominare il mondo. Se, giustamente, i media americani evidenziano con forza l’escalation di atti razzisti e antisemiti da parte dei suprematisti bianchi legati all’alt- right, c’è molta più pigrizia e reticenza quando questi odiosi attentati provengono da membri della comunità afroamericana. In particolare commentatori progressisti sembrano incartarsi nel classico circolo vizioso della propaganda incrociata: poiché i neri sono le vittime più frequenti di razzismo, sottolineare gli atti di intolleranza commessi da questi ultimi potrebbe corroborare la retorica della destra radicale. Sulla stessa falsariga del presidente Trump, discreto ai limiti del minimalismo quando a finire in cronaca sono i suoi ammiratori fan dell’America ariana, furente fino all’inquisizione quando capita ai neri, meglio ancora se di religione musulmana. Come scriveva questa settimana sul New Yorker lo storico David Nirenberg. «Pensare che l’antisemitismo sia sempre colpa degli “altri”, che non possa per definizione appartenere al proprio gruppo politico è una cosa pericolosissima». Se la maggior parte di attacchi contro gli ebrei americani proviene da ambienti legati al suprematismo bianco, nell’ultimo anno, specialmente nella regione di New York si sono verificate decine di atti ostili da parte di afroamericani. Il vertiginoso aumento del mercato immobiliare a Manhattan e Brooklyn ha spinto migliaia di ebrei ultraortodossi a traslocare nella Huseon valley e nel New Jersey settentrionale dove ora convivono con una comunità nera molto radicata e una forte presenza dei Black Hebrew Israelites. Tra la costruzione di nuovi appartamenti plurifamiliari in quartieri di case monofamiliari e di nuove sinagoghe, le dispute sulle tasse e i budget scolastici, la tensione è aumentata. Ma l’ondata di odio antisemita nella regione non può essere spiegata da ragioni socio- economiche. La giornalista Jane Coaston è convinta che il conflitto comunitario non c’entri molto con la recrudescenza di giudeofobia, la quale sarebbe il frutto di una precisa ideologia: «Le teorie della cospirazione sono molto più diffuse di quanto si creda, gli autori degli attentati non sono mai dei normali cittadini esasperati, ma sempre delle persone imbevute di complottismo, che si tratti di suprematisti bianchi che di membri di gruppi antisemiti come i Black Hebrew Israelite».
Dacia Maraini per corriere.it il 24 dicembre 2019. Mi capita di scrivere queste poche righe proprio sotto Natale. Un giorno in cui si festeggia la nascita di un bambino straordinario che ha cambiato le sorti di una grande parte del mondo. Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. In nome di Cristo sono state fatte delle orribili nefandezze. La scissione fra etica e politica è accaduta nel momento in cui la Chiesa, da idealistica e innovativa forza rivoluzionaria si è trasformata in un impero che ha subito costruito il suo esercito, le sue prigioni, i suoi tribunali, la sua pena di morte. Ma molti, proprio dentro la Chiesa, hanno rifiutato i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l’intolleranza e la passione per la guerra. Oggi la novità del movimento delle Sardine ricorda alla lontana le parole di un pastore povero che a piedi nudi portava a pascolare le pecore. I movimenti che abbiamo conosciuto finora, perfino il grande Sessantotto, usavano le parole Lotta, Guerra, Appropriazione, Distruzione, Nemico da abbattere, ecc. Mentre le piccole sardine , (che spero tanto non si facciano trasformare dai media in tonni pronti per la mattanza), rifiutano l’insulto e l’aggressività. Non pretendono di cambiare il mondo, ma di introdurre in una società sfiduciata e cinica, una nuova voglia di idealismo. Non hanno sbagliato simbolo secondo me, perché la sardina da sola non esiste, ma in una massa di corpi volanti, aiuta il mare a compiere i suoi cicli vitali. Inoltre possiamo dire che la sardina è ormai il solo pesce che non provenga da allevamenti intensivi, non si nutre di farine sintetiche, e non viene rimpinzata di antibiotici. Il fatto che riescano a smuovere tante persone, soprattutto giovani, è segno di una richiesta di nuove idealità, ovvero fiducia nel futuro, progetti comuni, spirito di solidarietà e collaborazione. Certuni li ridicolizzano, ma non si accorgono che fanno del male prima di tutto a se stessi. Con il sarcasmo perpetuano il vizio tutto italiano di disprezzare tutto ciò che è comunitario, di sentirsi superiore a ogni manifestazione di indignazione civica, di criticare tutto e tutti in nome di una conoscenza del mondo più antica e superiore.
LA RISPOSTA DEL RABBINO DI SEGNI ALL’ARTICOLO DI DACIA MARAINI. Da shalom.it il 24 dicembre 2019. “Capisco che in questi giorni festivi si esaltino i buoni sentimenti e la non violenza. Capisco che si cerchi di sottolineare che il nuovo movimento politico che riempie le piazze porti una ventata di freschezza. Quello che mi riesce più difficile da capire è che si debba per forza trovare nelle complesse anime di questo movimento un afflato religioso natalizio. E ancora di meno capisco che si debba trovare in tutto questo una opposizione religiosa. Da una parte il vecchio testamento violento e misogino, dall'altra la rivoluzione cristiana pacifica e le sardine. Perché se è innegabile la presenza di violenza e di un atteggiamento maschilista nelle antiche pagine della Bibbia, è anche vero che le stesse pagine parlano di pace, perdòno e amore, esaltando ruoli femminili. E che tutto questo si trascina e cresce nella tradizione successiva. E che la rivoluzione cristiana è tutt'altra cosa. Oggi un cristiano informato sa evitare le banalità e le menzogne di questa antica opposizione (che ha un nome preciso: marcionismo), che è rimasta però in mente e in bocca ai laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti. Bisogna diffidare di chi predica una bontà stucchevole condita di false informazioni. È normale che un nuovo movimento politico cerchi di ispirarsi agli insegnamenti antichi, ma dovrebbe essere cauto nelle semplificazioni. Dopo il Gesù socialista, rivoluzionario più o meno armato, femminista ecc., oggi abbiamo anche, grazie a Dacia Maraini, il Gesù sardina. A me pare quasi una bestemmia, ma fate voi.” Lo scrive il rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, nella sua pagina di Facebook, in risposta all’articolo di Dacia Maraini.
Dacia Maraini per corriere.it il 25 dicembre 2019. Mi dispiace se senza volere ho offeso la sensibilità di qualcuno con il mio articolo di martedì 24 dicembre sul «Corriere della Sera». Non avevo nessuna intenzione di criticare o offendere la religione ebraica. Non ho scritto un saggio sulla Bibbia ma solo un breve articolo di venti righe, semplificando per forza di cose, sulla nascita di Gesù bambino e su come le sue parole siano state poi tradite da una Chiesa cattolica troppo preoccupata del potere e gelosa delle sue prerogative. Non intendevo affatto riferirmi alla religione ebraica o alla Torah, ma solo a una storia tutta italiana di scontri fra una Chiesa diventata impero e una Chiesa che nella sua base continuava a credere nelle parole di Cristo. Considero la Bibbia un meraviglioso testo, di grande profondità e di grande poeticità. Ma certamente non può essere presa alla lettera. Le religioni savie hanno sempre storicizzato. E credo che anche la religione ebraica lo abbia fatto con saggezza. Per quanto riguarda le Sardine e l’accostamento che qualcuno ha considerato blasfemo, vorrei ricordare che per molti secoli Cristo veniva raffigurato con un pesce. Come scrive il dizionario «il pesce, essendo un animale che vive sott’acqua senza annegare, simboleggia il Cristo che può entrare nella morte pur restando vivo». Fra l’altro chiederei un poco di rispetto per una persona che, seppur bambina, ha subito due anni di campo di concentramento in Giappone per antifascismo e antirazzismo. Sento da sempre il dolore per le incommensurabili sofferenze del popolo ebraico, che ho sempre difeso e di cui ho spesso parlato nei miei libri con partecipazione e affetto.
Lettera del dottor Massimo Finzi a Dagospia il 25 dicembre 2019. La merda più la tocchi più puzza: se Dacia Maraini avesse tratto tesoro da questo vecchio adagio avrebbe evitato di peggiorare la situazione nel tentativo di correggere i contenuti di un suo precedente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. Purtroppo per lei “verba volant, scripta manent”. Riferendosi a Gesù, Dacia Maraini aveva scritto testualmente: “ Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono.” Una frase che contiene un pregiudizio duro a morire (la religione ebraica improntata a giustizia severa e vendicativa) e un grave errore storico (Gesù avrebbe introdotto nella cultura monoteista il concetto del perdono). Nella tradizione ebraica giustizia e misericordia hanno eguale importanza (….senza misericordia il mondo non esisterebbe….) e sono in equilibrio tra loro come le due ali di un aereo il cui assetto di volo è garantito da entrambe le ali e mai da una sola. A proposito del perdono l’ebraismo ha sempre assegnato ad esso una importanza fondamentale tanto da dedicare un giorno intero del calendario al Kippur(il giorno dell’espiazione e del perdono). Una ricorrenza rispettata con il digiuno assoluto anche dagli ebrei meno osservanti e addirittura nei campi di sterminio dove un solo boccone di pane poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Durante i dieci giorni che separano il capodanno ebraico dal Kippur, gli ebrei operano una ricognizione profonda alla ricerca delle colpe o delle offese che possono essere state commesse nei riguardi della Divinità, o nei confronti dei propri simili o anche contro la natura. Questa accurata introspezione culmina nel giorno del kippur con il proposito a non ripetere gli errori, con il pentimento e soprattutto con l’invocazione del perdono. Dio, nella sua grande misericordia concederà il perdono per le offese rivolte a Lui se il pentimento è stato sincero. Il perdono per le colpe tra gli esseri umani deve essere diretto nel senso che la richiesta deve essere avviata da chi ha commesso la colpa e può essere concesso solo da colui che ha ricevuto l’offesa. La tradizione ebraica non contempla un perdono “conto terzi” e neppure permette di porgere la guancia di un altro; di conseguenza neppure i discendenti diretti possono concedere il perdono per le offese rivolte ad un loro parente. Vorrei consigliare a Dacia Maraini una breve visita alla libreria di Via Elio Toaff dove potrebbe trovare una ricca esposizione di libri di cultura ebraica: eviterebbe di scrivere “inesattezze” e imbarazzanti tentativi di correzione. Lo dico con il rispetto che debbo ad una persona come lei il cui padre fu rinchiuso, insieme alla sua famiglia, in un campo di concentramento giapponese per essersi rifiutato di servire nella repubblica sociale di Salò.
«Antisemitismo, Sala non si limiti a tagliare i nastri». Alberto Giannoni il 17 gennaio 2020 su Il Giornale.
Walker Meghnagi, past president della Comunità ebraica, che significa Memoria?
«Mi rifaccio al testamento di rav Laras, grande rabbino capo e grande uomo, che aprì con un altra grande figura come il cardinal Martini il dialogo fra cristiani ed ebrei. Laras spiega che la Shoah ha segnato per sempre la sua esistenza. Ma aggiunge che la Giornata della Memoria è anch’essa arrivata a una crisi di senso e di comunicazione».
Le pietre di inciampo sono un ricordo toccante e doveroso, non le pare?
«Sono belle, ma serviranno per le prossime generazioni. Sollecitano la memoria, devono essere fatte, perfetto, ma io dico: fermiamo gli antisemiti, quelli del passato e quelli del futuro! Io ho pagato sulla mia pelle, so cosa vuol dire antisemitismo dalla mia infanzia in Libia».
Che ricordo ne ha?
«Frequentavo la scuola italiana, che ci dava le aule di nascosto, per studiare ebraismo. Quando lo hanno scoperto, lì ci hanno ammazzato di botte. Ho tredici ferite, una volta usarono un vetro. Io non abbassavo la testa, ero già come mio padre, che era stato minacciato per questo, dagli islamisti. Aveva un’azienda e un giovedì sera, lui a un capotavola e mia madre all’altro, disse ai noi figli maggiori: Lunedì partiamo. Mia madre ci raggiunse in Italia dopo 45 giorni coi piccoli. Abbiamo dovuto lasciare tutto, le nostre radici, le scuole, le sinagoghe, i nostri cimiteri. L’odio che colpisce gli ebrei non arriva da una parte sola».
Cosa intende dire?
«Quando si dice razzismo uguale antisemitismo è un errore. Vedo Sala che marcia contro l’odio. L’antisemitismo esiste da sempre, milioni di ebrei sono stati uccisi, ma l’antisemitismo ha delle specificità e va combattuto per quello che è oggi. Non si può relegare a una sola espressione della destra, forse 70-80 anni fa era così, oggi non più».
Oggi cosa vede?
«Vedo il Bds, movimento antisemita mascherato da anti-sionismo. Vediamo legami documentati fra aree vicine a questo movimento e il terrorismo. Tutto ciò dietro una facciata di difesa dei diritti umani. Ci sono persone che alimentano l’odio per Israele e considerano gli ebrei italiani responsabili di ogni cosa faccia. Io da italiano esigo rispetto».
La rassicura la mozione del centrodestra in Regione?
«Mi rassicura tutto ciò che va in questa direzione, anche il convegno di Salvini. Sono disponibile a parlare con tutti. Sono antirazzista, potevo nascere nero e arrivare su un barcone dalla Libia. Dialogo con tutti, ma non si faccia un calderone parlando genericamente di odio. Ci sono valori che non si possono sacrificare».
La preoccupa l’islamismo?
«Io non ho paura dei musulmani, temo gli antisemiti e il terrorismo di matrice islamica. Certo se non si blocca e si cavalca la tigre corre. In Italia, al di là di quelle manifestazioni che nessuno ha condannato, non ce ne sono molte come in altri Paesi europei, vedi la Francia. In piazza San Babila, il 25 aprile, al 90% sono centri sociali ad aggredire la Brigata ebraica. E si sente dire: Dovevate restare nei lager. Mi sfugge il motivo per cui le autorità consentano certe manifestazioni come quelle del 2017 o quella recente che in stazione Centrale definiva terroristi gli Stati Uniti, sull’Iran».
Nel 2017 la condanna del sindaco arrivò, lenta e rituale.
«È raro che alcune forze politiche di sinistra dicano: Anche tra di noi esiste l’antisemitismo. Sono cerimonie, sindaci, conferenze, tagli di nastri. Io vorrei una presa di posizione per un fenomeno che non è più strisciante».
Il Pd parlò di matrice neofascista di quegli slogan.
«C’è difficoltà a difficoltà a riconoscere la realtà, che è sfaccettata. Erano musulmani, non c’entrava niente il fascismo. Il fascismo è stato una brutta bestia, terribile, ma questo non vuol dire che tutto sia fascismo. E oggi chi non è di sinistra è definito fascista. O accusato, tacciato di essere salviniano, o di Fdi. Bisogna uscire fuori da questi luoghi comuni».
Lei al convegno di Salvini sarebbe andato, a differenza di Liliana Segre che ha detto no.
«Assolutamente sì, se qualcuno mi chiama per dialogare io devo essere disponibile. Ci sono intellettuali divisivi, portatori di una cultura di intolleranza, che vedono la violenza da una parte sola. Una dipendente del Comune ha insultato Israele, non mi interessa parlare della persona, ma nessuno ha preso posizione».
Lei avrebbe voluto un provvedimento del sindaco?
«No, e ha ragione che non può e non deve controllare tutti, ma avrei voluto una presa di posizione ufficiale, non parlare con due tre persone della Comunità. Doveva dire che era contro quella violenza verbale. Invece niente. Se fosse stato qualcuno di destra sarebbe scoppiata l’Italia».
La sinistra antisemita a braccetto con l’islamismo. Alberto Giannoni su Il Giornale il 20 dicembre 2019. Si sa ormai che il Partito laburista di Jeremy Corbyn, per fortuna travolto alle ultime elezioni nel Regno Unito, è stato pesantemente infettato dall’antisemitismo. Il centro Wiesenthal lo inserito nelle liste dei peggiori antisemiti e a pochi giorni dal voto il rabbino capo inglese Ephraim Mirvis lo ha definito pubblicamente un pericolo per gli ebrei inglesi, lanciando un allarme che è stato condiviso anche dal capo della Chiesa anglicana, l’arcivescovo Justin Welby. Meno noto è il fatto che anche i Democratici americani stiano rischiando la stessa deriva, a causa di esponenti vicini all’islam politico. Adesso lo stesso virus ha attecchito in Francia, dove il comunista Mélenchon – proprio commentando la sconfitta di Corbyn, nel tentativo di difenderlo – si è scagliato contro la Comunità ebraica, con accuse strampalate e cospirativiste che in Francia qualcuno ha iscritto direttamente nel solco dei collaborazionismo filo nazista del regime di Vichy. Mélenchon è un riferimento per i gilet gialli, in cui si trova un inquietante impasto di islamismo ed estremismo politico, rosso e nero. E fra le vergogne dei gilet gialli c’è l’aggressione ad Alain Finkielkraut, il filosofo ebreo parigino. Questa situazione non trova riscontro nei grandi partiti italiani, ma alcuni segnali di convergenze inquietanti ci sono da tempo, basti pensare ai vessilli di Hezbollah che sventolavano in piazza San Babila durante l’infame aggressione alla Brigata ebraica nel giorno (teoricamente consacrato a celebrare la Liberazione). Ma, poco notate dai più, c’erano anche bandiere con la falce e il martello, a Milano, nella piazza Cavour delle grida jihadiste, a dicembre 2017. E questo incontro fra islam politico e sinistra estrema, che da anni aleggia, a Milano e non solo, trova una ambiente naturalmente propiziatorio nel bds, il movimento per il boicottaggio di Israele che si dice antisionista e fa – neanche proseliti fra vecchi arnesi della sinistra estrema e i nuovi militanti dell’islam politico che inneggiano all’Intifada (“un sasso qua e un sasso lì) e manifestano per la Palestina invocando Allah (come nel noto corteo che nel gennaio 2009 si concluse con la preghiera sul sagrato del Duomo).
Dall’antisemitismo di Corbyn a quello nostrano “di maniera” pieno di ambiguità. Secondo il rabbino della Rocca dalla persecuzione degli ebrei è derivato un senso di colpa che è una chiave per comprendere le spinte antisemite di oggi. PIetro Di Muccio De Quattro il 21 Dicembre 2019. Con due editoriali, documentati e argomentati, Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli hanno affrontato sul Corriere della Sera il tema dell’antisemitismo in Italia e Gran Bretagna. Mieli dimostra che il leader del partito laburista Jeremy Corbyn che ha perso rovinosamente le elezioni anche per ambiguità su questo tema – merita appieno le accuse e le censure di antisemitismo che svariate parti, anche autorevolissime, della società britannica gli muovono da tempo. E si stupisce che «la sinistra politica e culturale del nostro Paese ( con alcune, purtroppo poche, lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell’arcivescovo di Canterbury». Mieli dunque stigmatizza non solo “l’ambigua sinistra inglese” ma anche la sinistra italiana che evidentemente, Mieli non lo dice ma lo lascia supporre, fa prevalere a riguardo la scelta dell’affinità politica sul dovere della condanna morale. E qui soccorre Galli della Loggia, che investigando “la realtà profonda dell’antisemitismo” ne pone in luce la peculiarità italiana, definita una sorta di antisemitismo “indiretto” o “di risulta”. Sicché la variante italiana della peste antisemita ( espressione nostra, questa) sarebbe alimentata anche “da un ultimo fattore: l’uso politico dell’Ebraismo da parte dei non ebrei, cioè l’uso che gli esponenti politici non ebrei – solo loro, solo e sempre esponenti della politica e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell’opinione pubblica largamente screditati – fanno spesso e volentieri dell’Ebraismo. ” Antisemitismo “di rivalsa” e “d’invidia”, “vale a dire l’effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo”, come si esprime Galli della Loggia, il quale pare considerarlo anche il risvolto dell’attestazione di un preteso “impeccabile status etico- ideologico”, non proprio “la manifestazione di un’effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei” ma una forma strumentale, occasionale ed enfatica, di adesione (“vicinanza/ solidarietà/ amicizia/ stima ecc. ecc.”) all’Ebraismo. Il rabbino Roberto Della Rocca ha scritto sulla stessa testata che Galli della Loggia “ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell’odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l’antisemitismo contemporaneo.” A nostro modo di vedere, esiste un’altra linea di demarcazione che si diparte dalle considerazioni di Galli della Loggia. Troppi ambigui personaggi, anche non screditati, affollano la rumorosa categoria degli anti- antisemiti, come vorremmo definirla a nostra volta. Costoro sfoggiano un anti-antisemitismo cerimoniale, di maniera, ad uso e consumo di telecamere, talk show, “social” e consigli comunali. Nelle aporie dell’esibita contrarietà all’antisemitismo, tipica di un certo strato politico- culturale della società italiana, è riscontrabile invece un latente cripto antisemitismo. Gl’Italiani anti- antisemiti, infatti, non sempre sono filo- israeliti, per non dire filo- israeliani. Dell’antisemitismo avversano il mallo anziché il gheriglio.
La vita impossibile degli ebrei in Francia. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 gennaio 2020. Islamismo fa rima con antisemitismo. Lo sanno bene gli ebrei francesi, che ogni giorno devono fare i conti con l’avanzata dell’islam radicale, soprattutto nelle periferie e nei sobborghi cittadini, interamente dominati dagli islamisti, com’è è emerso da un documento riservato inviato dal Ministro dell’Interno transalpino, Cristophe Castaner, ai vari prefetti, con la richiesta di convocare al più presto i gruppi di valutazione dei vari dipartimenti. Come già spiegato da Inside Over, il Dgsi, l’intelligence interna francese, ha mappato almeno 150 banlieue che sarebbero attualmente in mano all’islam radicale. No-go zone dove lo stato è totalmente assente e dove la vita per gli ebrei è diventata impossibile. È solo l’ultima conferma di una situazione che si fa davvero allarmante. Come riporta lo Spectator, gli attacchi antisemiti nel 2018 sono aumentati del 74% rispetto all’anno precedente e le cifre per l’inizio del 2019 hanno rivelato un aumento del 78% rispetto allo stesso periodo del 2018. “Gli ebrei, che rappresentano meno dell’uno per cento della popolazione, sono soggetti a più della metà degli atti razzisti commessi in Francia”, ha dichiarato Francis Kalifat la scorsa settimana. Kalifat, che è presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia (Crif), ritiene inoltre che il numero di vittime sia più elevato. “Molte persone non sporgono denuncia”, ha osservato. “O perché non serve a niente o perché temono rappresaglie”.
55.000 ebrei hanno già lasciato la Francia. I numeri dell’antisemitismo in Francia fanno davvero impressione. Dodici ebrei sono stati uccisi specificamente a causa della loro religione dal 2003 ad oggi. La vittima più recente è Sarah Halimi nel 2017, picchiata a morte dal suo vicino musulmano, Kobili Traoré. Secondo quanto riferito, Traoré e la sua famiglia avevano insultato l’anziana donna ebrea in numerose occasioni e l’assassino ha ammesso che vedere un candelabro ebraico e un libro di preghiere ebraiche nell’appartamento di Halimi aveva scatenato l’aggressione mortale. Peccato che poi, nonostante l’efferatezza dell’omicidio, i giudici del tribunale lo abbiano in parte graziato, poiché non era a conoscenza “degli effetti negativi” dell’abuso di cannabis. La verità è che, come racconta lo Spectator, gli ebrei in Francia si sentono abbandonato a loro stessi. Negli ultimi anni circa 55.000 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, soprattutto da Parigi e Marsiglia. Ad Aulnay-sous-Bois, un quartiere vicino a Saint-Denis nel nord di Parigi, il numero di famiglie ebree è sceso da 600 a 100 negli ultimi anni. Rimangono appena 460.000 ebrei in Francia, che con l’avanzare dell’islamismo nel Paese, rischiano di essere sempre meno.
L’allarme di Finkielkraut: “L’antisemitismo è di sinistra”. Alain Finkielkraut, uno dei più importanti filosofi e intellettuali francesi, è intervenuto di recente per lanciare l’allarme sull’avanzata dell’antisemitismo e dell’islamismo nel Paese. “In Francia l’antisemitismo fa parte dell’estrema sinistra e di una parte crescente della popolazione con un background migratorio”, ha dichiarato alla rivista tedesca Der Spiegel. “È particolarmente preoccupante che l’estrema sinistra difenda l’Islam radicale e antisemita per due ragioni: ideologicamente, perché per loro i musulmani sono i nuovi ebrei; ma anche per ragioni tattiche, perché oggi ci sono molti più musulmani che ebrei in Francia. Quindi, anche l’islamismo di sinistra ha un futuro, e ne ho timore”. “L’antisemitismo non è una cosa del passato, ha anche un futuro”, ha detto Finkielkraut. È evidente che la sinistra che parla di antisemitismo senza condannare con fermezza l’islam radicale non può essere credibile. Il caso francese è emblematico.
· Paragonare le foibe alla Shoah?
Quel canto rock per le vittime delle Foibe. Angela Lonardo il 18/01/2020 su Il Giornale Off. Il nuovo singolo degli Exempla ci racconta una crudele pagina di Storia. S’intitola You Can’t Go Back il nuovo singolo degli Exempla, la band formata da Marta Melis (voce), Carlo Piernovelli (batteria), Marco Damu (chitarra), Luciano D’Ortenzio (tastiere) e Daniele Baldani (basso). Un pezzo su cui si dipana un racconto triste e immaginario della violenza che subirono molti militari e civili durante i regimi totalitari. Ad accompagnarlo un video che è un vero e proprio corto, interpretato da Carlotta Graverini e Michele Ferlito, che esprime il dolore delle vittime deportate, torturate, uccise e gettate nelle Foibe.
Marta, come si inserisce questo singolo nel vostro repertorio?
«Solitamente, quando componiamo, puntiamo agli spazi atmosferici della psichedelica pink-floydiana, questa volta no. You Can’t Go Back è un pezzo di immediato impatto emotivo. Un brano carico di sonorità molto ruvide del basso e vigorose della chitarra. Replica la formula sonora del rock progressive, dalle linee semplici della batteria e melodiche della voce. Il finale è mutuato da un motivo insistente delle tastiere».
Relativamente ai contenuti, su cosa volete porre l’attenzione?
«Per quanto riguarda il testo, abbiamo voluto esprimere l’ardire dell’amore quando, liberandosi dalle prigioni mentali, s’innalza verso la luce. Il ritornello dice: “Sento che puoi volare verso il sole e non tornare indietro. Il mondo ha bisogno di te, adesso. La verità ha bisogno di te, qui“. Senz’altro, se c’è l’amore, il mondo può reggersi in piedi anche con scarsi mezzi economici. Il miglioramento economico e sociale è un dovere, oltre che un diritto. Ma occorre assegnargli un limite, occorre subordinarlo al progresso spirituale. A volte, mi pongo questa domanda: quanta gente vive una vita autenticamente umana? Purtroppo, nella storia dell’uomo, tante cose si ripetono, ma nessuna squallidamente come la malvagità».
Al brano avete legato un video che racconta la drammatica vicenda delle Foibe.
«Non c’è niente di più vecchio di questa tragedia umana. E’ un fatto. Le riprese, durante la produzione del video, sono state una rilettura emozionante di fatti che, seppur immaginati, ti toccavano dentro, profondamente. Le uccisioni avvenivano in modo terribilmente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro. Aprivano il fuoco a raffica di mitra e li precipitavano sui fondali delle voragini. Soltanto nella zona triestina tremila persone furono uccise e gettate nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso. Pensiamo che verità e libertà equivalgano a raccontare anche la storia. E noi lo abbiamo fatto in questo video».
Vi aspetta un live importante il 1° febbraio al teatro Greco di Roma: qualche anticipazione?
«Canteremo tutti i brani del nostro album, a cui si aggiungeranno delle chicche, ovvero dei pezzi in lavorazione e che presto incideremo. Quindi chi verrà avrà un’anteprima. Abbiamo in programma anche altri concerti, come quello in primavera ad Arezzo. Tutte le date sono sui nostri canali social».
In quale punto del loro percorso si sentono oggi gli Exempla e dove vogliono arrivare?
«Siamo riusciti a realizzare gran parte di quello a cui aspiravamo, ma non si è mai arrivati. La nostra meta è da sempre la buona musica, in grado di elevare la mente e l’anima».
"Paragonare le foibe alla Shoah? Un'aberrazione", esuli contro la Rai. La Federazione degli esuli giuliano-dalmati denuncia ai vertici Rai la ricostruzione "giustificazionista" della trasmissione Agorà. Elena Barlozzari, Sabato 21/12/2019, su Il Giornale. Il servizio pubblico torna a occuparsi di foibe, su Rai3. Potrebbe sembrare una conquista. Non capita di frequente (per non dire mai) che il tema venga toccato in giorni che non siano quelli "comandati" dal nostro legislatore, ossia a cavallo del Giorno del ricordo. Quasi fosse una cartellino da timbrare, una specie di cambiale. Purtroppo però il dibattito intavolato giovedì scorso durante la trasmissione Agorà si è trasformato in un’occasione persa. Al centro non c’era il dramma degli italiani del confine orientale, non un riferimento a quanti lasciarono le proprie case per scampare alle persecuzioni titine, ma la sterile contrapposizione tra orrori del Novecento. Un’assurda gara tra catastrofi della malvagità umana. L’epilogo era già scritto nelle premesse. Il “pretesto” per parlare della persecuzione degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia è stata una polemica locale. Quella che ha visto protagonista la giunta di centrodestra di Civita Castellana, rea d’aver bloccato i viaggi della memoria ad Auschwitz. L’amministrazione non manderà più gli alunni a visitare il campo di concentramento simbolo dell’Olocausto, bensì il museo della Shoah e le Fosse Ardeatine a Roma. Il governatore Zingaretti, indignato dalla decisione, è intervenuto a gamba tesa facendo sapere che sarà lui a finanziare il progetto. Dal Viterbese lo hanno ringraziato della premura chiedendo però se avesse intenzione di conferire fondi anche per i viaggi alla foiba di Basovizza. Ecco qui la spinosa questione che l’illustre professore Mario Canali, ordinario di storia contemporanea all’università di Camerino e allievo di Renzo De Felice, è stato chiamato a dirimere. Da un punto di vista storico è corretto equiparare gli eccidi delle foibe alla Shoah? L’accademico non ha dubbi: paragonare le due tragedie è un’aberrazione. “Ritengo aberrante - dice - avvicinare i due fenomeni”. “Mettere insieme le due cose - continua il docente - è una forzatura terribile”. “La Shoah - spiega - è stato un genocidio, il tentativo di liquidare un popolo con l’uccisione di 6milioni di persone, un’uccisione organizzata da parte di uno Stato nei confronti di una popolazione che non aveva fatto nulla”. E le foibe? Le foibe sono diverse? Non c’era forse uno Stato, quello jugoslavo, che ha attuato delle vere e proprie purghe anti-italiane? In questo caso, pur non “giustificando” il massacro, lo storico contestualizza. “Lì ci sono stati venti anni di regime fascista, un’italianizzazione coatta con espropri dei beni da parte delle nuove autorità italiane, sono state abolite le scuole in lingua slava e imposti nomi italiani”. “Questo - precisa - non giustifica, ma fa capire il substrato su cui si innesta la reazione”. Quindi: “La Shoah nasce dal razzismo, le foibe da conflitti storici precisi limitati a quell’area”. La lettura dello storico ha diviso gli ospiti in studio. “Il professore ha detto delle cose aberranti - ha commentato la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli - non si fa una classifica dei morti, non ci sono morti di serie A e di serie B, alle vittime va riconosciuta la stessa dignità”. Stefano Fassina di Liberi e Uguali ha replicato accusando la Montaruli di negare l’Olocasuto. “Mi metti in bocca parole che non ho mai detto”, si è difesa lei minacciando di querelarlo. I toni incandescenti del dibattito sono stati smorzati dalla conduttrice, Serena Bortone, che ha introdotto l’argomento successivo. Ma la querelle è continuata fuori dagli studi televisivi. La Federazione delle associazioni degli esuli fiumani, istriani e dalmati, infatti, ha scritto ai vertici Rai. “Durante la trasmissione - si legge della missiva - è stata perpetrata un’ulteriore umiliazione del popolo della Venezia Giulia, dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia”. “Gli interventi dei presenti in studio - denuncia FederEsuli - lasciavano trasparire la parola tanto cara a chi giustifica: contestualizzare”. “Quale nesso dovrebbero avere eventi accaduti in tempo di pace con la guerra? È giusto ammazzare l’amico/parente/conoscente di un fascista (se poi fascista era), in quanto amico/parente/conoscente di un fascista?”. “Per questo - si legge nelle ultime righe della missiva - vi chiediamo di considerare con maggior attenzione la nostra storia, di invitare nei programmi che raccontano di noi persone delle nostre associazioni, come giustamente avviene trattando drammi altrettanto importanti per il nostro Paese”.
· Il Giorno del Ricordo.
19 misure cautelari contro i collettivi rossi che negano le foibe. Stamani la Digos di Torino ha notificato 19 misure cautelari nei confronti degli estremisti di sinistra che hanno messo a ferro e fuoco l'università di Torino lo scorso 13 febbraio per opporsi ad un volantinaggio sulle foibe. FdI: "Via le borse di studio". Elena Barlozzari, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. Il più giovane ha appena vent’anni, il più grande quarantuno. Sono diciannove le misure cautelari notificate questa mattina dalla Digos di Torino al gruppo di antagonisti che lo scorso 13 febbraio ha trasformato l’università in un campo di battaglia. Il Campus Einaudi dovrebbe essere il tempio della condivisione e della libertà di espressione, eppure da anni è ostaggio di una frangia di estremisti di sinistra, riconducibile al centro sociale Askatasuna, uno dei più turbolenti della città. Lo stesso al quale appartengono i cinque No Tav identificati lo scorso lunedì durante l’assalto incendiario al cantiere di Chiomonte. Gente, insomma, che non va per il sottile e si impone con la violenza. E infatti quel 13 febbraio i disordini sono partiti dal tentativo di silenziare i ragazzi del gruppo universitario Fuan, vicino a Fratelli d’Italia. Non è andato giù ai facinorosi dei collettivi universitari che gli attivisti di destra stessero distribuendo dei volantini sulle foibe all’esterno del Campus Einaudi. E così hanno cercato di forzare il cordone di agenti dispiegati a presidio dell’iniziativa. I disordini sono proseguiti anche il giorno successivo, e si sono conclusi con la devastazione dell’aula universitaria intitolata a Paolo Borsellino, assegnata ai ragazzi del Fuan, e il ferimento di otto poliziotti e due guardie giurate. Di quei due giorni di passione, adesso, gli indagati dovranno rispondere a vario titolo per i reati di rapina, resistenza a pubblico ufficiale, minaccia ad incaricato di pubblico servizio, violenza privata e danneggiamento. Inoltre, dopo l’esecuzione delle misure cautelari è stata sequestrata l’aula storicamente occupata dai collettivi universitari. Uno spazio arbitrariamente sottratto agli studenti, che la dice lunga sull’impunità di cui gode il gruppo. Non a caso, Andrea Montalbano, presidente del Fuan, li definisce “mafiosetti rossi”. “All’università di Torino i centri sociali controllano il territorio con minacce, violenze e atti vandalici, per questo motivo - ci spiega il rappresentante studentesco - non ci stupisce che abbiano messo nel mirino la nostra auletta dedicata a Paolo Borsellino”. “Basta tutele e premi nei confronti di chi devasta le nostre università”, è l’appello dell’assessore regionale Maurizio Marrone, che chiede al rettorato “una posizione chiara e sanzioni disciplinari certe per arrivare alla revoca della borsa di studio agli eventuali beneficiari coinvolti”. “Non è accettabile - prosegue Marrone - anche solo l’idea di poter assegnare una borsa di studio a chi si è macchiato di condotte gravissime dal punto di vista disciplinare, incompatibili con un beneficio economico finanziato dalla Regione e riservato a studenti meritevoli, invece che ai figli di papà che trattano l’ateneo come un parco giochi dell’antagonismo”.
Trieste, la più alta onorificenza italiana allo scrittore che nega le foibe. Fanno discutere le dichiarazioni rese all'emittente triestina Tele4 dallo scrittore slavo Boris Pahor, nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana: "Le foibe? È tutta una balla". Elena Barlozzari, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. “Vorrei vivere almeno fino al 13 luglio. Spero che mi invitino a dire la mia”. Sono le parole affidate lo scorso aprile a Il Corriere della Sera da Boris Pahor, scrittore triestino della minoranza slovena, che il 26 agosto taglierà il traguardo dei 107 anni. L’anziano si augurava di poter assistere alla restituzione dell’hotel Balkan, ex sede del giornale sloveno “Narodni Dom”, alla sua comunità. Lo stesso che all’età di sette anni vide bruciare. Un gesto attribuito agli squadristi triestini, in risposta alle violenze anti-italiane che si erano registrate a Spalato. Erano gli anni in cui lungo il confine orientale infuriavano le tensioni nazionaliste. Sono passati cento anni da allora. I tempi sono cambiati. Lo dimostrano gli scatti che ritraggono il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e l’omologo sloveno, Borut Pahor, mentre rendono omaggio agli infoibati di Basovizza e ai quattro fucilati del Tigr. Ed oggi i due capi di Stato hanno anche siglato l’atto che sancisce il ritorno dell’edificio di via Fabio Filzi alla comunità slovena. La cerimonia è proseguita con la consegna a Boris Pahor di due onorificenze. Mattarella lo ha nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, Borut Pahor gli ha conferito la “Red za izredne zasluge”, l’Ordine al merito straordinario della Repubblica slovena. “Dedico le onorificenze a tutti i morti che ho conosciuto nel campo di concentramento, e alle vittime del nazifascismo e della dittatura comunista”, è stato il commento del centenario. Dichiarazioni opposte a quelle rese dall’anziano ai microfoni dell’emittente locale Tele4, che lo ha intercettato poco prima della cerimonia. “Professor Pahor è contento di questo omaggio?”. “Molto”, risponde l’anziano, facendo riferimento ad una lettera di protesta inviata a Mattarella qualche mese fa. Non erano piaciute a Pahor le parole pronunciate dal capo dello Stato in occasione del Giorno del Ricordo. Perché? “Ha fatto un attacco all’armata jugoslava che ha gettato nelle foibe non so quanti italiani”, ricorda lo scrittore. Poi l’inaspettato scivolone: “È tutta una balla questa, non era vero niente”. Un commento che Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani, definisce “bruttissimo”. “Bel modo - annota polemico - di dire grazie al nostro Paese per averlo insignito della più alta onorificenza, non vi pare?”. “In passato - ricorda Lacota - Pahor denunciò attraverso un libro i crimini partigiani commessi a guerra finita, e lo apprezzai molto, ora queste frasi pronunciate poco prima di essere ricevuto da Mattarella sono uno sgarbo che non possiamo comprendere nè accettare”.
Mattarella e Pahor a Trieste: anche la memoria può trasformarsi in condanna. Toni Capuozzo su Notizie.it il 13/07/2020. L'incontro tra i due presidenti è una carezza a ferite della Storia ancora aperte, ma anche i bei gesti rischiano di produrre il loro contrario. Inevitabile: l’immagine del presidente della Repubblica italiana e del premier sloveno Borut Pahor mano nella mano davanti ai monumenti che sul Carso triestino ricordano le cicatrici di due comunità confinanti ma finalmente in pace, riporta alla mente quella del presidente Francois Mitterrand e del cancelliere Helmut Kohl, nella stessa posa, davanti al monumento che a Verdun ricorda le stragi che i due paesi si inflissero a vicenda nella prima guerra mondiale. Ma allora era il 1984, e l’Europa era un sogno in lenta ma certa costruzione, resa più rapida e turbinosa, cinque anni dopo, dal crollo del muro di Berlino, dalla riunificazione tedesca, dalla fine dell’URSS, dalla dissoluzione sanguinosa della Yugoslavia. Quasi cinquant’anni dopo quella foto simbolo dell’unità europea, il presidente Mattarella e il premier Pahor ripropongono lo stesso gesto, una carezza a ferite della Storia più modeste, quanto a numeri, ma più profonde, cicatrici che ancora fanno male. Il fine è nobile: cercare di guadagnare a una memoria condivisa gli errori e le sofferenze consumate al confine orientale d’Italia: l’incendio della Narodni Dom, la Casa del popolo della comunità slovena a Trieste, la condanna a morte di irredentisti slavi da parte di Tribunale speciale fascista, l’orrore di foibe come quella di Basovizza, in cui furono gettati, a volte ancora solamente feriti, centinaia di persone senza colpa alcuna se non di essere un ostacolo alle mire titine su Trieste, a guerra finita. Troppa roba, viene da dire: un’indigestione di storia per un angolo d’Europa che è una specie di soffitta del ‘900, dove sopravvivono tensioni identitarie, residui di ideologie ferocemente contrapposte e tra i confini aperti si affaccia ogni tanto lo spettro dei nazionalismi. Ma anche eredità ingombranti, quando le comunità che in passato sono state contrapposte affrontano, se non agende, problemi comuni: la dialettica tra interessi nazionali e unità europea, le pressioni migratorie, la crisi del coronavirus. Forse sarebbe meglio spendere più energie sul futuro comune, piuttosto che su un passato divisivo. La memoria – che è un patrimonio importante, per non ripetere gli errori – può essere una specie di condanna, un aiuto a restare inchiodati sulle proprie posizioni. Forse solo il tempo guarisce, e i bei gesti rischiano di produrre il loro contrario. Per dirla tutta: mai distanziamento sociale fu più grato e benedetto, sul Carso e attorno al Nardoni Dom, nel cuore di Trieste. Avremmo avuto più minoranze contestatrici, ma anche il silenzio della maggioranza non avrebbe avuto un alibi.
"Foiba delle menzogne". Ecco la maglietta choc al presidio antifascista. "Basovizza la foiba delle menzogne" è lo slogan che campeggia sulla maglietta di uno dei partecipanti alla manifestazione indetta dagli antifascisti triestini. I promotori: "È solo un feticcio nazionalista". Elena Barlozzari, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. “Basovizza la foiba delle menzogne”. È lo slogan che campeggia sulla maglietta di uno dei partecipanti alla manifestazione indetta venerdì scorso dal Comitato Pace Convivenza e Solidarietà Danilo Dolci in piazza Oberdan a Trieste. Un evento per festeggiare la discussa riconsegna del “Narodni Dom”, che tornerà alla comunità slovena cento anni dopo il suo incendio, avvenuto il 13 luglio 1920. Non è il solo motivo per cui hanno deciso di manifestare. È stata anche l’occasione “per dire un deciso no ai nazionalismi, ai razzismi e ai fascismi di ieri, oggi e domani”. Ma quella maglietta dal sapore negazionista non è sfuggita a chi ha seguito l’edizione serale del telegiornale dell’emittente locale Tele4, che ha mostrato alcune immagini della manifestazione. E ne è nata subito una polemica. Emanuele Merlino, presidente del Comitato 10 Febbraio, parla di “uno slogan inqualificabile e inaccettabile che dimostra solo una cosa: l’odio contro l’Italia non passa mai di moda”. Roba da “nostalgici della stella rossa”. Mentre il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Claudio Giacomelli, punta il dito contro la logica dei due pesi e delle due misure: “Se una cosa del genere fosse stata detta di altre terribili tragedie del Novecento sarebbe giustamente scoppiato un putiferio nazionale, invece, in questo caso tutto tace”. È arrivato il momento, secondo Giacomelli, “di discutere le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia per far sì che il reato di negazionismo delle foibe e dell’esodo sia punito per legge”. “Fatti come questi - ragiona il consigliere - dimostrano che è necessario proteggere con ogni mezzo il ricordo dei nostri martiri da quelle frange della sinistra radicale che agiscono indisturbate in tutto il Paese”. Nessun imbarazzo, invece, per Luciano Ferluga, presidente dell’associazione promotrice della manifestazione. Raggiunto telefonicamente da Il Giornale, l’attivista ribadisce il concetto: “La foiba di Basovizza? È solo un feticcio nazionalista”. “Un mito - continua - creato ad uso e consumo di chi soffia sul fuoco dell’odio interetnico”. Gente che “ha manipolato la storia e strumentalizzato le vittime, costruendo sulle menzogne la propria fortuna politica”. Ovvero? “I partiti di destra, che sono gli eredi del regime fascista”. Il presidente del comitato Danilo Dolci non crede che nella foiba di Basovizza si sia consumato un eccidio così vasto come viene raccontato. “Adesso che i mezzi tecnologici ce lo permettono, bisognerebbe riaprire la foiba e vedere effettivamente quante furono le vittime per dare alle nuove generazioni la possibilità di capire cosa sia veramente accaduto sul confine orientale”, propone Ferluga. Per lui la tesi della pulizia etnica ai danni degli italiani è “una grande bugia”. “Violenza e giustizia sommaria - mette le mani avanti - vanno sempre condannate, però chi è finito lì dentro qualche colpa ce l’avrà pur avuta”.
La foiba di Basovizza e quella visita storica che sa di fregatura. Per la prima volta un leader sloveno omaggia le vittime italiane di Tito. Ma è una riconciliazione-bidone che ci costerà una trentina di milioni. Fausto Biloslavo, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. La prima volta di un presidente sloveno sulla foiba di Basovizza, che domani renderà omaggio con il capo dello Stato italiano al luogo simbolo delle vittime italiane di Tito. Il 13 luglio era partita come una giornata storica, ma rischia di trasformarsi in «bidone» storico e non certo riconciliazione grazie alle imposizioni di Lubiana e all'arrendevolezza italiana. Non solo la richiesta slovena di commemorare quattro fucilati durante il fascismo, ma anche medaglie non previste allo scrittore ultracentenario Boris Pahor, che si ricorda di azioni squadristiche quando aveva 6 anni. Tutto è partito dalla riconsegna alla minoranza slovena dell'ex hotel Balkan, il 13 luglio, esattamente 100 anni dopo l'incendio che distrusse l'allora Narodni Dom, la casa del popolo degli slavi di Trieste all'interno dell'albergo. Per la storiografia ufficiale fu un vile attacco fascista, ma dati, fotografie e testimonianze dimostrerebbero il contrario. E la riconsegna avviene non solo con Mattarella, ma una passerella di ministri, Di Maio, Lamorgese e Manfredi oltre a Patuanelli solo perché originario di Trieste. Una «riconciliazione» senza popolo, per evitare contestazioni e giornalisti. Gli esuli sulla foiba saranno ridotti a un sparuto gruppetto di una quindicina di persone grazie alla scusa delle norme anti virus, nonostante ci siano spazi chilometrici per il distanziamento. E con la stessa scusa, per evitare domande scomode, l'accesso alla stampa è vietato, a parte Rai Quirinale e forse il quotidiano locale, allineato e coperto, con diffusione in streaming in puro stile sovietico. Domani il presidente sloveno Borut Pahor e il capo dello Stato, Sergio Mattarella si incontreranno alla foiba di Basovizza, monumento nazionale. La prima volta di un presidente sloveno sul luogo simbolo delle violenze dei partigiani di Tito contro gli italiani, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Non potevano mancare le reazioni dei negazionisti come Claudia Cernigoi e l'ex senatore del Pci, Stojan Spetic, di fatto appoggiati da uno stuolo di intellettuali e politici locali. Spetic è convinto che si tratti «di un'improvvisazione politica e una gratuita concessione al revisionismo storico delle destre». Dopo la foiba, Pahor, con un «ricatto», ha preteso in cambio di trascinare Mattarella davanti al cippo, sempre a Basovizza, dedicato a quattro membri dell'Organizzazione Rivoluzionaria della Venezia Giulia (Tigr), ultranazionalista slava, fucilati nel 1930 con una sentenza del tribunale speciale per la difesa dello Stato. «Secondo le attuali leggi italiane queste vittime sono considerate come terroristi - ha dichiarato Pahor alla tv slovena - Il gesto deve essere inteso come un atto silenzioso di riabilitazione politica dei membri del Tigr e di quei combattenti antifascisti attivi anche prima dell'inizio della seconda guerra mondiale». L'organizzazione clandestina si era macchiata di attentati, omicidi e sabotaggi, costati la vita a civili italiani e sloveni. Per Mattarella dovrebbe suonare almeno imbarazzante l'atto di fede dei «martiri» di Basovizza. «Giuro davanti a Dio, sull'onore mio e della mia famiglia, che farò tutto il possibile per la liberazione del Litorale (Venezia Giulia nda), che deve essere unito alla Jugoslavia» ripetevano gli irredentisti slavi. Lo stesso tentativo annessionistico che riuscì a Tito dopo il 1945, a parte Trieste, dove ci ha lasciato come ricordo della sua occupazione di quaranta giorni la foiba di Basovizza. Le mosse slovene e italiane hanno spaccato gli esuli istriani sull'intera giornata del 13 luglio. Federesuli, a cominciare dall'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, difendono l'evento. Il presidente, Renzo Codarin «comprende che i presidenti, in nome della pacificazione, devono fare anche questo passaggio» al monumento dei fucilati di Basovizza. Massimiliano Lacota, leader dell'Unione degli istriani non ci sta: «A queste condizioni non vado alla foiba. Se lo facessi, sarei obbligato a usare un mezzo della Prefettura, che poi si reca anche al monumento dei fucilati, perché tutta la zona sarà blindata. I morti si rivoltano nelle tombe. Il 13 luglio è diventato un atto politico, tutto fuorché un omaggio sincero agli infoibati». In prefettura i capi di Stato firmeranno la cessione del palazzo dell'allora hotel Balkan alla comunità slovena, ma anche croati e serbi rivendicano il loro spazio. Secondo la storiografia ufficiale l'incendio del Balkan, sede del Narodni Dom, un insieme di circoli economici, culturali e ultra nazionalisti delle comunità slave, è il primo atto del fascismo triestino. La Lega nazionale e la fondazione Rustia Traine presieduta dall'ex parlamentare, Renzo de' Vidovich, sostengono che la storia è completamente diversa. Nella notte fra l'11 e 12 luglio di 100 anni fa vengono uccisi a Spalato il comandante della nave «Puglia» Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi in tafferugli con gli slavi. Il giorno dopo, a Trieste, si organizza una manifestazione italiana di protesta e muore il patriota Giovanni Nini, 17 anni, per mano degli slavi. Secondo de' Vidovich «gli jugoslavisti armati (come venivano chiamati allora i nazionalisti slavi nda) si rifugiano nell'hotel Balkan rincorsi da una folla, che voleva vendicare la morte di Nini». Il secondo piano dell'albergo si sospetta fosse una specie di arsenale e proprio da una di quelle finestre vengono esplosi colpi di arma da fuoco e lanciata la granata che uccide Luigi Casciana, tenente del Regio Esercito in servizio di ordine pubblico. Poco dopo divampano le fiamme, proprio dal secondo piano, che in breve distruggono il palazzo. Per la storiografia ufficiale è opera dei fascisti, ma secondo la pista alternativa l'origine sarebbe uno scoppio nella santabarbara slavista o l'incendio scaturito dalla distruzione di documenti compromettenti.
La Slovenia ha sempre chiesto la restituzione dell'edificio per la sua comunità a Trieste, oggi sede della «Scuola per Interpreti e Traduttori». Nel 2017 il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, a caccia di voti per la sede dell'Agenzia europea per i medicinali a Milano (Ema) ottiene l'appoggio sloveno in cambio dell'ex Balkan. L'Italia perde l'Ema, ma Lubiana passa comunque all'incasso. Il risultato è che la riconsegna della Casa del popolo agli sloveni ci costerà 10 milioni di euro oltre al valore attuale del palazzo di 13 milioni. Peccato che per la vicenda del Balkan avevamo già costruito per la comunità, nel 1964, il teatro sloveno e speso altri soldi. In tutto la «riconciliazione-bidone» e blindata ci costerà una trentina di milioni.
Quelle colpe dell'Italia che offende Trieste e gli esuli. Per più di venti secoli Trieste ha combattuto per mantenere la sua identità. Oggi però l'Italia sembra essersene dimenticata. Alma Cosulich Gabrielli, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. Per più di venti secoli Trieste, Tergeste romana con i suoi monumenti, i numerosi Martiri cristiani e chiese a loro dedicate, resiste alle invasioni barbariche, diviene Libero Comune e sa difendersi dalla lunga dominazione austriaca e da quella, seppur brevissima, francese, mantenendo sempre la propria identità e la propria lingua, quella di Dante.
Dal 1815 al 1918 Trieste è nuovamente sotto dominazione austriaca. Numerosi sono i triestini che anche nel 1800 operano per rendere la città, conscia delle proprie origini, più grande e più funzionale. Cito Domenico Rossetti (1774 - 1842) che abbellisce la città e crea le assicurazioni sociali, l’Istituto dei Poveri, l’ospedale, circoli di cultura come La Società Minerva, il Lapidario, a testimonianza dell’antica civiltà, l’acquedotto. Elenco solo alcuni altri nominativi di scrittori, storici, editori e giornalisti, tutti patrioti quali Giovanni Orlandini fondatore nel 1836 assieme a Pasquale Besenghi (1797-1849) e ad Antonio Madonizza (1806 -1870) del giornale “la Favilla”, chiuso dall’ Austria dieci anni dopo. Pietro Kandler (1804-1872), Francesco Hermet (1811 -1880), Giuseppe Caprin (1843 -1904), Riccardo Pitteri (1853 -1915), Attilio Hortis (1850 - 1926), Felice Venezian (1851 - 1908), Attilio Tamaro (1884 – 1956). Della loro attività molto sarebbe da citare.
Dal 1831 al 1842 sono fondate le Assicurazioni Generali, la Riunione Adriatica di Sicurtà, e la Cassa di Risparmio. Triestini, nel 1848, nel 1859 e nel 1866 partono per andare a combattere nelle schiere d’Italia e manifestazioni a Trieste vengono stroncate dalla Polizia austriaca. Dopo la perdita della Lombardia (1859) e del Veneto (1866), l’Austria decreta che bisogna: “Contrapporsi energicamente all’influsso preponderante dell’elemento italiano in questi territori nominando persone di fiducia nei pubblici impieghi nel tentativo di germanizzare o slavizzare con ogni sforzo questi paesi.” Nel 1868 punta sull’elemento slavo. A questo scopo infiltra slavi in tutti i dicasteri del Governo austriaco. Questi infatti vuole con le immigrazioni, oltreché ridurre l’italianità della città, creare il terzo stato (trialismo) dell’Impero, quello slavo ed incorporarvi la città. E incominciano, con l’illusione di costituirlo, artificiosi insediamenti continuati massicciamente, nel primo decennio del 1900, come risulta dai censimenti austriaci del 1900 e 1910.
Nel 1868 una manifestazione di protesta si conclude con l’uccisione di Rodolfo Parisi e il ferimento di quattordici persone da parte delle guardie austriache. Nel 1881 viene fondato il giornale Il Piccolo.Gli associati delle tante società, fra cui cito Ginnastica, Filarmonica, Minerva, Propatria, sono desiderosi di congiungersi alla Madre Patria. Dopo la chiusura di queste società da parte dell’Austria, sono rifondate con altro nome. Sorge la Lega Nazionale (1891).
Il giovane Guglielmo Oberdan nel 1882 viene impiccato perché reo di intenzione. Al “Circolo artistico” viene affidata l’organizzazione di concorsi annuali di canzoni anche dialettali che, dal 1890, avendo trovato sempre maggior consenso, si svolgeranno al teatro Rossetti. Ricordo l’ “Inno della Lega”, “Lassè pur. che i canti e subi”, l’ “Inno a S.Giusto”, “Cari Stornei”, “La campana di S.Giusto”.
L’Edinost, giornale sloveno favorito dall’Austria, scrive il 7 gennaio 1911: “Non abbandoneremo la nostra lotta fino a quando non avremo sotto i piedi, ridotta in polvere, l’italianità di Trieste. Fino ad ora la nostra lotta era per l’uguaglianza, domani diremo agli Italiani che la nostra lotta è per il dominio. Non cesseremo finché non comanderemo noi. L’italianità di Trieste, che si trova agli sgoccioli, festeggia la sua ultima orgia prima della morte. Noi, sloveni, inviteremo domani questi votati alla morte, a recitare il confiteor.” Se non altro, erano parole chiare.
Nel 1913 una manifestazione per ottenere l’istituzione dell’Università italiana viene soffocata con molti arresti. Sarà nel 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, che vengono distrutte, ed alcune incendiate, varie sedi fra cui quella del Piccolo, della società Ginnastica ed anche il caffè S.Marco. Più di mille triestini e istriani si arruolano nelle file dell’esercito italiano rischiando la forca (si veda Nazario Sauro) ed alcuni meriteranno la medaglia d’oro al valor militare. Il 3 novembre 1918 migliaia di triestini, dopo tre giorni di attesa sulle rive, accolgono festosi l’arrivo del cacciatorpediniere Audace: l’Italia, tanto desiderata, è arrivata!
L’11 luglio 1920: a Spalato vengono colpiti a morte Tommaso Gulli e Aldo Rossi, rispettivamente Capitano di Corvetta e fuochista della nave Puglia, che moriranno il giorno dopo. Il giorno 13 luglio 1920 segue una manifestazione italiana in piazza dell’Unità contro le uccisioni di Spalato e per mano serba viene ucciso il giovane Giovanni Nini. I manifestanti allora si recano verso l’Hotel Balcan (grande albergo con ristoranti e sale di ritrovo e vari appartamenti) sede di Iugoslavisti e presenti, in alcune stanze, gli sloveni. In una sparatoria, partita dal secondo piano, viene ferito mortalmente il tenente Luigi Casciana, che morirà poche ore dopo. Ci sono anche numerosi feriti. L’incendio è partito dall’alto, dall’interno dell’edificio. La propagazione del fuoco è facilitata dagli esplosivi quivi depositati, infatti, per la durata di tre ore, si sentono scoppi di bombe a mano e di munizioni, come da testimonianze ufficiali.
Nel 1930 autori di vari atti di terrorismo, quali attentati ad asili, a scuole, a caserme ed al Faro della Vittoria, accusati della morte del redattore Guido Neri, vengono processati e condannati alla pena capitale. Erano appartenenti al TIGR (volevano che diventassero slave Trieste, l’Istria, Gorizia e Fiume- oggi Rijeka). Questa condanna era, anche a giudizio di osservatori stranieri, legittima e conforme a leggi vigenti in Paesi europei come ad esempio l’Inghilterra.
Trieste, alla fine della seconda guerra mondiale, dal primo maggio 1945, subisce 40 giorni di terrore da parte dell’occupatore jugoslavo: deportazioni di migliaia di persone, in gran parte infoibate altre avviate a durissimi campi di concentramento, massacri, rapine… Da ricordare, il 5 maggio, giorno in cui una marea di persone si avvia lungo il corso Italia verso la piazza Goldoni, cantando inni italiani, quando la raffica di una mitragliatrice lascia sul terreno cinque morti e dieci feriti. Gli Alleati, giunti il 2 maggio, assistono impotenti e, probabilmente, in seguito ad interventi del maresciallo Alexander presso lo stato Maggiore Interalleato, riescono il 12 giugno a far lasciare la città agli occupatori. Nei mesi di luglio ed agosto gli Alleati estraggono dalla foiba di Basovizza 450 metri cubi di resti umani; per le gravi cause igieniche, sono costretti a chiuderla. Esperti stabiliscono che essa contiene ancora circa 300 metri cubi di salme. Tante altre foibe esistono nel circondario.
Il 3 ed il 4 novembre del 1953 vedono altri morti. Durante una manifestazione vengono uccise dalla Polizia Civile due persone: il quindicenne Piero Addobbati ed Antonio Zavadlil e nella manifestazione successiva altre quattro: Erminio Bassa, Nardino Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia.
Nel 1954, con il Memorandum di Londra, solamente a Trieste, fra un tripudio di folla, ritorna l’Italia. In questo atto l’Italia si impegna a “mettere a disposizione i fondi per la costruzione e l’arredamento di una nuova sede culturale in via Petronio” ed il ministro jugoslavo A. Bebler sottolinea che “questo gesto dovrebbe sostituire il Narodni Dom incendiato dai fascisti nell’anno 1920. Con questo si pone rimedio ad una delle gravi conseguenze delle violenze fasciste in un recente passato”.
Nel 1975, la Slovenia, allora regione jugoslava, con il Trattato di Osimo, ha incorporato cittadine italianissime come Capodistria, Isola, Pirano, assicurandosi lo sbocco al mare e non restituendo, a chi era stato costretto a fuggire, “né una casa né un mattone”. Dal 1971 la comunità slovena, che risultava essere del 5,72% a Trieste e dell’8,23% in provincia, non si fa censire. Da notare che questo è ritenuto indispensabile dalla Convenzione Quadro per la protezione delle minoranze del 1995, firmata anche dalla Slovenia.
I triestini, sotto il giogo straniero, anche se perseguitati, sono riusciti a difendersi e a mantenere la propria identità cristiana e italiana. La caratteristica di questa città è proprio la capacità di accogliere chiunque vi venga a vivere, per qualunque ragione (Ebrei, Austriaci, Greci, Tedeschi, Armeni, Serbi) condividendo la lingua e la cultura italiana, pur nella libertà ed il rispetto delle origini e della storia di tutti. Si vedano per esempio la Sinagoga, la Chiesa armena, le Chiese greco-ortodossa e serbo-ortodossa. Oggi costituisce un ulteriore oltraggio alla verità storica ed alla giustizia concedere la sede di una facoltà dell’Università degli Studi di Trieste, in presunta riparazione di gravissimi fatti accaduti 100 anni fa, di cui non sono chiari tutti gli aspetti quali la reale proprietà, la destinazione d’uso, l’origine dell’incendio, le esplosioni succedute per tre ore; e questo avviene dopo che già si era provveduto ad un oneroso risarcimento con la costruzione di un edificio. È improponibile inoltre che gli Italiani si trovino a rendere omaggio ai fucilati di Basovizza. La mancanza di dignità di fronte a chi non nasconde che vuole anche Trieste, dopo aver avuto l’Istria, reca un profondo dolore. Non è questa l’Italia tanto sognata, desiderata, amata dai Triestini. La Pace e la Fratellanza hanno il loro fondamento nella Giustizia.
Quattro ragioni per cui l'incendio fascista di Trieste divide ancora dopo un secolo. David Bidussa il 09 luglio 2020 su L'Espresso. L'Hotel Balkan in piazza Oberdan a Trieste (Archivi Alinari) Quattro ragioni per cui l'incendio fascista di Trieste divide ancora dopo un secolo. Il 13 luglio del 1920 le fiamme devastarono il Narodni Dom. Oggi il presidente Mattarella riconsegna l’edificio alla comunità slovena. Ma quei fatti parlano ancora al nostro presente ben più di quanto crediamo. Intorno all’incendio del Narodni dom si sono raccontate molte storie. Una cronaca di parte fascista (Michele Risolo, “Il fascismo nelle Venezia Giulia dalle origini alla marcia su Roma”, 1932) lo descrive come l’ultimo atto di un assedio all’inizio non violento. Francesco Giunta - il ras del movimento fascista triestino - incita la folla all’assedio del palazzo. Sono le 17.30 di martedì 13 luglio 1920. «Per due ore non accade niente», scrive Michele Risolo: «Poi da una finestra spunta una figura con la pistola, mentre dal tetto alcuni assedianti lanciano delle bombe a mano». E poi prosegue: «Allora i fascisti che circondavano l’edifizio dalla parte di terra, irruppero contro gli ingressi, ne scardinarono i cancelli e le saracinesche, lo invasero e, lasciato che alcuni passeggeri si mettessero in salvo, consegnarono agli agenti e ai soldati il gruppo dei forsennati che s’era asserragliato in una delle stanze più interne. Piazza Oberdan, la grande via Carducci, tutte le vie adiacenti mareggiavano di folla urlante e imprecante. Frattanto, dietro ordine di Giunta che cercava di contenere il tumulto per evitare inutili sacrifìci di vite umane, un gruppo di squadristi, guidati da Carlo Lupetina, era riuscito a requisire, nei dintorni, alcune latte di combustibile. Constatato che nessun essere vivente era più nell’interno dell’edifizio, richiamati gli squadristi che avevano invaso il tetto. La prima squadra fascista, agli ordini diretti di Giunta, coadiuvato dal Lupetina, diede mano alle latte di benzina e il fuoco divampò». Consideriamo ora una cronaca di parte avversa. Ai primi di luglio, racconta Claudio Silvestri (“Dalla redenzione al fascismo. Trieste 1918-1922”, 1959), si verificano scontri a Spalato tra popolazione slava e ufficiali italiani. La notizia degli scontri giunge a Trieste e il Fascio locale promuove una manifestazione antislava. Durante la manifestazione si hanno incidenti e tafferugli e un giovane dalmata muore senza che sia chiaro chi lo uccide. Francesco Giunta, leader locale del Fascio di combattimento, scrive Silvestri, «intuì che era il momento dell’azione. “Al Balkan! Al Balkan” è il grido dei manifestanti. Tre colonne si formarono: una precipitò per Via Roma; un’altra per via San Spiridione; la terza colonna, attraversato celermente il Corso, piegò per via Dante. Poco dopo, sboccando da più parti, la massa fascista, seguita dall’immensa fiumana di popolo, bloccava da tutti i lati l’imponente mole del Balkan e lo assediava, al comando di Giunta…scardinate le porte, che erano sbarrate… i fascisti gettarono all’interno dell’edificio delle latte di benzina e vi appiccarono il fuoco che durò per un’intera settimana, in quanto i vigili del fuoco, subito accorsi sul posto al primo allarme, erano stati impediti dai fascisti ad intervenire per domare l’incendio». I fatti del 13 luglio 1920 a Trieste bruciano ancora cento anni dopo e parlano al e del nostro presente più di quanto non crediamo. Quattro questioni ci riguardano ancora oggi.
Prima questione. A lungo la data del 13 luglio 1920 ha dormito nella coscienza pubblica, fuori da Trieste. Ma anche a Trieste ci ha messo del tempo per proporsi come data nel calendario civile della città. In altre parole, gli avvenimenti del 13 luglio 1920, come tutto ciò che riguarda la storia, sono una memoria costruita, più che un passaggio che si fissa subito nella memoria. I fascisti triestini la ricordano nel 1921 (nel primo anniversario) come l’atto di fondazione del movimento. Poi non ne parleranno più per dieci anni, fino al 1930. Nel 1932, alla Mostra che il regime dedica al decennale della Marcia su Roma quell’episodio non c’è. Negli anni del regime l’attenzione si sposta sulla memoria di Guglielmo Oberdan, di Nazario Sauro. Lentamente il “Balkan” scompare dalla memoria fascista. Quella scena, invece, rimane nella memoria della popolazione slovena (come ha ricordato Boris Pahor, su “Il Sole 24 Ore”).
Seconda questione. L’incendio del “Balkan” avviene con una folla che applaude. Primo segno della “zona grigia” di chi assiste ai fatti della storia, e si adegua. Scena che da allora si ripeterà molte altre volte, non solo a Trieste, ma che quel giorno ha un primo atto pubblico. Ma, soprattutto, il “Balkan” non è l’unico luogo che prende fuoco quel giorno. Ci sono almeno altri venti luoghi che segnano le tappe di devastazione che illuminano Trieste fino a notte inoltrata. Anche per questo tutta la discussione “tecnica” su chi appicca il fuoco al “Balkan” è di scarso interesse. Perché il tema è la violenza che si scatena in tutta la città e non solo chi dà fuoco a un luogo.
Terza questione. Trieste è stato spesso il segno di storie opposte e in conflitto che non hanno sopportato la presenza di “altri”. Un luogo dove segnare la propria presenza significa mettere una bandiera, espellere o silenziare le culture altre. Una scelta che non riguarda solo gli italiani, riguarda egualmente tutte le altre presenze nazionali in quel vasto territorio che è segnato da molti luoghi di memoria intrisi di sangue. Tanto per citarne alcuni: Basovizza, l’isola di Arbe, Fiume, la Risiera di San Sabba. Quattro luoghi molto vicini tra loro che, tutti insieme, raccontano il Novecento e con cui, molti, hanno difficoltà a misurarsi prendendoli in carico tutti insieme.
Quarta questione. A Trieste, quel giorno, e poi molte altre volte, nasce una nuova idea di “Italia”. Quel giorno a Trieste si afferma un’idea di nazione che ha come suo pilastro la messa al bando delle culture altre. Quella convinzione ha il suo precipitato, tre anni dopo, nel profilo culturale della riforma scolastica Gentile, un pilastro essenziale nell’«educazione dell’italiano». Cento anni dopo siamo ancora lì, non solo a Trieste, a fare i conti con la riforma fascista di più lunga durata.
Foibe, vergogna Rai: gli strafalcioni sulla visita di Mattarella e tutte le verità che hanno nascosto. Roberto Menia martedì 14 luglio 2020 su Il Secolo D'Italia. «La mia Patria mi fa male». Vien voglia di dirlo, come Brasillach, «per i giuramenti non mantenuti, per il suo abbandono e per il destino, per i suoi doppi giochi». È appena passato il giorno, dipinto come storico, dell’incontro tra i presidenti della repubbliche d’Italia e Slovenia, Mattarella e Pahor. Il Gr1 Rai apre così l’edizione del mattino. «Visita in Slovenia del presidente Mattarella: mano nella mano davanti alla foiba di Basovizza, è lo storico gesto che ha compiuto il capo dello stato con l’omologo sloveno, Pahor a Trieste dove hanno poi firmato un protocollo d’intesa per restituire alla comunità slava dopo 100 anni il Narodni dom, la casa di cultura bruciata nel 1920 dai fascisti, un gesto simbolico ricco di significato».
Per la Rai Trieste sta in Slovenia. Apprendiamo dunque dalla Rai, Radiotelevisione Italiana, che Trieste sta in Slovenia e così la Foiba di Basovizza. Chi paga e assume questi ignoranti? È possibile ascoltare roba simile? E poi, come mai non si spiega agli ascoltatori che cos’è la Foiba di Basovizza? Perché non si dice che fu riempita di 500 metri cubi di cadaveri di italiani di Trieste nei giorni funesti dell’occupazione jugoslava e comunista del maggio 1945? Meglio dire invece dell’incendio fascista del Narodni dom del… 1920, quando in Italia c’era il governo Giolitti e la Marcia su Roma sarebbe venuta due anni dopo.
Le parole di Abdon Pamich. Un grande italiano, Abdon Pamich, campione olimpionico a Tokio nel 1964 nella 50 km di marcia, ma soprattutto esule da Fiume, ha commentato con tristezza profonda la giornata: «Una corona di fiori in cambio di un palazzo. E noi ancora aspettiamo la restituzione delle case e delle nostre terre. Vincono sempre loro…». E rivolto al Presidente Mattarella ha chiuso: «Non sarete mai lasciati soli, ci avevano promesso, ecco qua. Meglio lasciar perdere». Parole sacrosante e amare.
La pacificazione? Non è così. Da decenni gli esuli istriani, fiumani e dalmati attendevamo un atto di scuse e di contrizione da parte di un presidente dei paesi eredi della ex Jugoslavia, ma ciò che è avvenuto ci ha lasciato l’amaro in bocca. La foto di Mattarella e Pahor che si tengono per mano a Basovizza dovrebbe essere il simbolo di una vera pacificazione. Ma non è così. Dietro ci sono troppe falsità, omissioni, baratti di bassa lega. E infatti il popolo non c’era, tutte cerimonie blindate e inaccessibili, meglio evitare…
Quelle tre piccole aste con le bandiere dell’Italia. Circola in rete un imbarazzante video dei preparativi alla foiba di Basovizza per l’arrivo dei presidenti: vengono issate tre piccole aste con le bandiere di Italia, Slovenia ed Unione Europea e viene ammainato il tricolore che alto svetta sempre sopra la foiba. Poteva dare fastidio.
L’incendio all’hotel Balkan. L’omaggio alla foiba di Basovizza avviene il 13 luglio, data che gli sloveni assumono essere simbolo delle violenze italiane e fasciste ai loro danni. 100 anni fa, quel giorno, fu incendiato a Trieste l’hotel Balkan (una parte era il “Narodni dom”, cioè casa del popolo) al termine di una manifestazione italiana. Si dimenticano di raccontare che la manifestazione era nata a seguito dell’eccidio di Spalato di due giorni prima – in cui i croati uccisero il comandante Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi – sulla nave Puglia (quella che d’Annunzio volle poi al Vittoriale, simbolo dell’italianità assassinata in Dalmazia).
La Rai dimentica di raccontare che…Si dimenticano di raccontare che ai margine della manifestazione triestina fu ucciso a coltellate da un gruppo di slavi un ragazzo di 17 anni, Giovanni Nini, e gli assassini si rifugiarono al Balkan, centrale degli “yugoslavisti” di allora. Si dimenticano di dire che quando la folla esasperata si lanciò tumultuosamente al Balkan, da lì iniziarono a sparare uccidendo un ufficiale italiano, Luigi Casciana. Poi ci fu l’incendio: il Balkan continuò a bruciare ed esplodere perché all’interno vi era una vera e propria santabarbara.
Nessuna parola da Pahor sulle foibe. Il presidente Pahor nel suo discorso ha detto: “Dopo 100 anni giustizia è fatta, ci viene restituito il Narodni dom, ora il torto è riparato”. Nessuna parola sulle foibe. Ed infatti l’Italia regala alla comunità slovena l’edificio di Via Filzi, nel pieno centro di Trieste, ricostruito con fondi pubblici e che fino ad ora era sede universitaria (che viene sfrattata) come s’era impegnato a fare l’ex ministro degli esteri Angelino Alfano il 9 novembre 2017 in cambio del voto sloveno per avere l’Agenzia Europea del Farmaco a Milano (cosa ovviamente perduta).
Quegli eroi erano terroristi. Ma non basta. Pahor, per venire alla foiba di Basovizza, oltre alla consegna dell’ex Balkan pretende dall’Italia l’omaggio ai quattro fucilati del 1930, quelli che loro chiamano eroi. Ma erano terroristi responsabili di attentati dinamitardi e incendiari, dal Faro della Vittoria alle scuole e agli asili della Lega Nazionale e dell’Italia Redenta, a istituzioni e giornali come il Popolo di Trieste dove fu ucciso il giornalista Guido Neri e furono gravemente ferite altre tre persone. Appartenevano un’organizzazione clandestina, denominata TIGR (acronimo di Trst, Istra, Gorica, Rjeka, cioè Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) che operava per annettere queste terre al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi diventato Jugoslavia. Precursori di Tito, in pratica.
Un paragone inaccettabile. Anche a questa richiesta Mattarella si è piegato ed il presidente della Repubblica Italiana ha reso omaggio ai terroristi anti italiani tenendosi per mano con Pahor: una parificazione inaccettabile tra i martiri innocenti della foiba di Basovizza, simbolo delle migliaia di italiani assassinati dai comunisti slavi, e i terroristi rei confessi del Tigr.
Assurdo quel che è accaduto a margine della consegna. Verrebbe infine da ridere, se non facesse piangere e disgustasse, quanto accaduto a margine della consegna, alla prefettura di Trieste, delle massime onorificenze di Italia e Slovenia allo scrittore Boris Pahor. L’ultracentenario sloveno ha pubblicamente rivendicato di avere scritto una lettera di contestazione a Mattarella il 10 febbraio scorso, giorno del ricordo “per l’attacco all’armata yugoslava dicendo che ha fatto gettare nelle foibe non so quanti italiani”. “E’ tutta una balla – ha detto Pahor – non è vero niente”.
Il negazionismo militante. Negazionismo militante che mal si concilia con l’onorificenza appena concessagli: il Quirinale non ha nulla da dire? D’altra parte, tuttora, dal colle più alto si fa orecchie da mercante sulla richiesta degli esuli di cancellare l’onorificenza (concessa allora da Saragat) a Tito, il maresciallo assassino, che risulta ancora Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana decorato di Gran Cordone.
Chi chiederà giustizia? Questo dunque il risultato della “giornata storica”. Ha ragione Abdon Pamich nella sua triste considerazione. Ecco perché questa patria ci fa male: non ne possiamo più di vederla così, prona, dimentica, ignorante, bugiarda. E intanto aspettiamo una giustizia che non arriva. Cinquanta, sessanta, settant’anni fa cacciarono 350.000 italiani dall’Istria, da Fiume, da Zara e rapinarono ai nostri nonni, padri e madri, decine di migliaia di case, di beni, oltre che di vite e di ricordi. Nessuno ci ha restituito neppure un mattone. Chi chiederà giustizia per noi?
Il 10 febbraio è “Il Giorno del Ricordo”: le foibe, l’esodo, ma cosa sanno gli italiani? 350 mila italiani fuggirono dall'Istria, Fiume e Dalmazia per scampare all'orrore delle foibe dei soldati di Tito. In Italia si ricorda, ma con "dopotutto erano fascisti..." Elisabetta de Dominis su lavocedinewyork.com il 9 Febbraio 2020. Siamo stati alla presentazione a Trieste del libro “10 FEBBRAIO. Dalle foibe all’esodo”, sulle 50 testimonianze raccolte da Roberto Menia
Lunedì è il 10 febbraio, “Il Giorno del Ricordo”, e molti italiani ancora non sanno che cosa si DEVE ricordare, perché non sanno cosa hanno patito, nel dopoguerra per dieci anni, gli italiani che abitavano le regioni dell’Istria e della Dalmazia, lungo la costa orientale d’Italia, che ora appartengono a Slovenia e Croazia. Non sanno ancora cosa significhino le parole ESODO e FOIBA. Devo dire che mi si rivoltano le budella quando l’estate ritorno nell’isola della mia famiglia, Arbe nel Quarnero, e sento dei turisti italiani, ignari della storia, chiamarla con il suo nuovo nome Rab. Sì, penso: Rabbiosamente Rab. Ma che cavolo di nome è Rab? E’ stata Arba dai tempi degli antichi Romani, che la fondarono, per secoli. Lussinpiccolo è diventata Mali Lusinj e bene non gli fa… Ragusa, la sesta repubblica marinara italiana, è oggi Dubrovnik. Assonanza con Diabolik… Ma ci sono tanti altri nomi cacofonici: basta guardare la carta geografica. Per esempio Goli Otok, ossia l’Isola Calva, il gulag dell’Adriatico dove i deportati denutriti erano costretti dai loro guardiani titini a spostare pietre tutto il giorno mentre venivano picchiati da altri deportati sotto il sole cocente fino a che si ammazzavano tra di loro. Quando mi appare, percorrendo la costiera, questa terra di sole pietre, penso sempre che esse siano le ossa pietrificate di quei disgraziati. I quali nella maggior parte erano comunisti: italiani che da diverse regioni della penisola si erano trasferiti per vivere il sogno comunista oppure jugoslavi d’ideologia stalinista, che Tito aveva deciso dovessero scomparire, non prima però di averli fatti soffrire in modi indicibili (ho scritto una minima parte delle efferatezze perpetrate). L’immane tragedia dell’esodo di 350 mila italiani è stata la conseguenza della PAURA, alimentata dalle continue “sparizioni” di connazionali da parte dei comunisti jugoslavi, tra le quali le più “riuscite” erano quelle di gettarli vivi nelle foibe (voragini naturali del terreno carsico) dell’Istria o mutilarli e annegarli con una pietra al collo nel mare della Dalmazia. In questi giorni fervono in diverse regioni italiane incontri “culturali” organizzati da sedicenti storici di etnia slovena, nati a Trieste o in Istria, che sostengono che le foibe siano un falso storico. E qui mi viene da vomitare. E mi chiedo come il nostro Stato permetta quest’ultima umiliazione nei confronti di suoi connazionali. A meno che non ci sia ancora un po’, molta, malafede nel convincimento di certe amministrazioni comunali: “Dopotutto erano fascisti…” Oltre undicimila abitanti inermi, donne, bambini ammazzati, tutti fascisti??? “I nostri genitori, anche qui in Italia, continuavano a parlare sottovoce: era opportuno non farsi sentire, se non si voleva esser tacciati da fascisti. Se oggi abbiamo la possibilità di parlare a testa alta, senza paura di farci sentire, lo dobbiamo all’onorevole Roberto Menia che nel 2004 ha istituito il Giorno del Ricordo” ha detto Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani giovedì scorso, a Trieste, alla presentazione delle 50 testimonianze raccolte da Menia in “10 FEBBRAIO. Dalle foibe all’esodo”. Seduta vicino a me la signora Gigliola di Cherso (chiamata così dagli antichi Greci, che i croati hanno pensato bene di modificare in Cres) ha commentato: “Quando uno ha un grande dolore, non parla”. Piero Del Bello, direttore del Museo degli Istriani, Fiumani e Dalmati ha spiegato che “esule lo sei per obbligo, migrante per scelta, anche se terribile”, aggiungendo che “a casa mia non si parlava proprio, per quel senso di pudore che si era trasformato in vergogna perché non avevi più niente: famiglia, casa, terra. Come puoi ricordare, costruire una memoria se non hai più quel terreno fertile che aveva fatto stare in piedi la tua storia da generazioni? La vergogna si è trasformata in paura, che non ha mai più abbandonato le nostre genti. Bisogna scrivere la propria storia, altrimenti finisce nel silenzio. E Roberto invece ha avuto la fortuna che sua mamma gli ha raccontato.” Lo scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco ha commentato che ha trovato volgare che in Senato si accostasse la parola dramma alla foiba, quando questa “è l’apice della tragedia”. E ha sottolineato che la malafede è sempre accompagnata dall’ignoranza, poiché qui “il vinto è stato trasfigurato nella condizione di imputato”. Un discorso poetico e toccante, ma le lacrime mi sono scese quando ha infine parlato Roberto Menia, perché ha espresso il mio sentire. “Con l’andare degli anni sento sempre più profondo questo legame tutto interiore. Mi fa male guardare dalla riva di Trieste il mare e vedere in lontananza quelle terre che non ho mai abitato. Questi sono ormai luoghi dell’anima per noi: non esistono più. Il nostro cammino non ha senso se non lascia qualcosa. Perché quest’Italia, che è un mosaico meraviglioso, deve perdere i tasselli di questa sua storia? La grande storia di un Paese è fatta di tante piccole storie. E quando toccano il cuore, ti trasmettono qualcosa. Abbiamo il diritto e il dovere di raccogliere tutte le testimonianze e tramandarle ai nostri figli. Simone Cristicchi, che ha scritto il “Magazzino 18”, era venuto a Trieste per scrivere del manicomio e ha scoperto che era pieno di ESULI IMPAZZITI: guardavano l’orizzonte senza parlare…”.
Diodato Pirone per il Messaggero il 10 febbraio 2020. «Una sciagura nazionale che non va negata». Così il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha definito la tragedia delle foibe, ovvero l'assassinio di migliaia di italiani gettati in profonde fosse naturali (le foibe, appunto) in Istria alla fine della seconda guerra mondiale da parte di formazioni partigiane yugoslave. Il presidente della Repubblica ha aperto così le cerimonie del Giorno del Ricordo, istituito il 10 febbraio in onore delle vittime delle foibe. Il Capo dello Stato ha usato parole forti, invitando a coltivare la memoria per contrastare «piccole sacche di deprecabile negazionismo militante» ancora presenti in Italia. Mattarella è stato chiarissimo: «Oggi il vero avversario da battere è l'indifferenza che si nutre spesso della mancata conoscenza». Il presidente ha partecipato al Quirinale a un concerto in memoria delle vittime delle foibe, alla presenza di esponenti delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati che rappresentano i circa 300.000 italiani che alla fine della guerra abbandonarono le città e le terre sulla sponda orientale dell'Adriatico cedute dall'Italia alla Yugoslavia di Tito e oggi territori della Slovenia e della Croazia. Cade inoltre in questa domenica di febbraio l'anniversario dell'eccidio di Porzus, dove tra il 7 e il 18 febbraio 1945 vennero uccisi 17 partigiani verdi della Brigata Osoppo Friuli da parte di un gruppo di partigiani gappisti comunisti. È una pagina di storia poco conosciuta al di fuori del Friuli Venezia Giulia e che il governatore Massimiliano Fedriga, nel giorno delle celebrazioni a Faedis e Canebola, ha invitato a «far conoscere al Paese e all'Europa per non cadere nel qualunquismo quotidiano.
GLI ECCIDI. Le foibe, ha ricordato Mattarella, sono un evento del passato cui «i contemporanei non attribuirono, per superficialità o calcolo, il dovuto rilievo». Quegli episodi tragici «ci insegnano che l'odio, la vendetta, la discriminazione, germinano solo altro odio e violenza». «L'angoscia e le sofferenze» delle vittime «restano un monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali. E ci rafforzano nei nostri propositi di difendere e rafforzare gli istituti della democrazia e promuovere pace e collaborazione internazionale», con Paesi come Slovenia e Croazia che oggi fanno parte dell'Unione Europea. A testimoniare l'attualità del monito del capo dello Stato giunge da Marina di Carrara la notizia del danneggiamento di due targhe dedicate alle foibe. «Manterremo viva la memoria», ha sottolineato il ministro Federico D'Incà che rappresenterà oggi il governo alle celebrazioni a Basovizza. «La ricerca storica è l'arma più potente contro ogni strumentalizzazione», concorda dal Pd Luigi Zanda, che plaude a Mattarella. Come fa a più voci il centrodestra che, da Antonio Tajani a Giorgia Meloni, ringrazia il presidente per le frasi sul «negazionismo militante». Maurizio Gasparri denuncia però «tentazioni negazioniste» della Rai e chiama a intervenire la commissione di Vigilanza. Oggi, infine, sarà inaugurata a Roma la mostra Foibe ed esodo.
Mario Ajello per il Messaggero il 10 febbraio 2020. Raoul Pupo è uno dei massimi conoscitori delle questioni del confine orientale. Insegna storia contemporanea all'università di Trieste, ed è autore di numerosi saggi: «Da «La violenza del dopoguerra al confine tra due mondi (Il Mulino) a «Fiume città di passione» (Laterza).
Professore, basta a considerare le foibe una tragedia di serie B?
«Per un certo periodo, negli anni 60,'70,80, è stata una sciagura dimenticata. Prima di quel periodo, invece, le foibe e l'esodo sono stati temi di lotta politica e di contrasti internazionali al centro dell'attenzione».
E' la sinistra che ha cercato di negare o di minimizzare la questione?
«La sinistra non amava parlarne perché aveva il mito della resistenza jugoslava. E perché i comunisti avevano un'ambiguità non solo sulle foibe ma su tutta la tematica del confine orientale. Fino al 48, il Pci era in parte succube dei comunisti jugoslavi e doveva destreggiarsi tra due spinte. Da partito nazionale e anche di governo doveva respingere le rivendicazioni jugoslave sulla Venezia Giulia e su Trieste; ma in quanto partito comunista aveva grandi difficoltà a respingerle pubblicamente».
Ma il problema è stato solo la sinistra?
«C'è anche una ragione più generale, una ragion di Stato che è questa: la Jugoslavia era una pedina strategica fondamentale dell'Occidente e anche dell'Italia. Non la si poteva provocare. E sentir parlare di foibe e di esodo per Belgrado era una provocazione fascista. La Jugoslavia neutrale consentiva all'Italia di non essere sulla prima linea della Guerra Fredda. Il che significava che i carri armati sovietici stavano sul Danubio in Ungheria e non dalle parti di Gorizia».
I motivi politici sono chiari. Però perché la storiografia italiana ha sottovalutato e minimizzato le foibe, negando il posto centrale che avrebbero dovuto avere nella memoria nazionale?
«La storiografia italiana s'è occupata d'altro. Da una parte la sinistra aveva imbarazzi evidenti con questo argomento. Dall'altra parte la cultura cattolica non era assolutamente nazionalista. Questi due elementi hanno pesato negativamente».
La destra invece s'è battuta per la memoria delle foibe?
«Sì, ma sempre in ambienti molto circoscritti. E in più, la destra non ha mai avuto una storiografia. Basti pensare che, agli occhi della sinistra, il massimo storico di destra in Italia era Renzo De Felice. Il che è assurdo, perché non fu affatto di destra».
La sinistra ha fatto i suoi giochi, la destra ha fatto ciò che poteva, ma allora la memoria delle foibe chi l'ha tenuta veramente viva?
«A livello localizzato e territoriale, l'hanno tenuta viva tutti i partiti tranne i comunisti. A livello nazionale, si sono impegnate con grande determinazione le associazioni dei profughi. Quanto alla riscoperta sul piano degli studi, l'ha fatta con varie sfumature la storiografia democratica».
Il Giorno del Ricordo che cosa può creare, una memoria condivisa?
«La sua finalità è quella di conservare la memoria della catastrofe dell'italianità adriatica, sciagura che non ha riguardato soltanto le vittime delle foibe e e dell'esodo, ma tutta la comunità nazionale. Negli anni dopo il 2004, a questa finalità se n'è aggiunta un'altra: favorire la conoscenza della storia delle terre adriatiche. Bisogna allargare lo sguardo su tutta la grande storia della civiltà italiana sull'Adriatico orientale. Basti ricordare che Niccolò Tommaseo, uno dei padri della patria, era dalmata».
Mariolina Iossa per il “Corriere della Sera”l'11 febbraio 2020. Commemorazioni ufficiali ma anche polemiche. Discorsi istituzionali ma anche striscioni provocatori. Il Giorno del Ricordo per il massacro delle Foibe, 16 anni dopo la sua istituzione, non vede ancora superate le divisioni e pacificati gli animi con il giudizio della Storia, come nelle intenzioni del legislatore. Anche ieri, mentre al Senato si ricordava l' eccidio, e si lanciavano moniti «per non dimenticare» e contro «ogni negazionismo», e tutte le alte cariche dello Stato, da Elisabetta Casellati a Roberto Fico a Giuseppe Conte, trovavano l' intesa sulla necessità di «risanare» ferite ancora aperte combattendo ogni forma di «oblio», a Basovizza, quartiere triestino dove già lo scorso anno Matteo Salvini infuocò gli animi, si è consumato uno strappo. I parlamentari dem, Debora Serracchiani, Luigi Zanda e Tatjana Rojic hanno lasciato la foiba in segno di protesta quando ha preso la parola il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Le Foibe sono diventate «un palcoscenico per la destra sovranista», ha twittato Serracchiani. Zanda ha stigmatizzato l'«eccesso di toni da propaganda». Prima di Gasparri, aveva tenuto il suo discorso il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, della Lega. Entrambi sono stati giudicati poco «canonici» dal Pd. «Ho ripreso il discorso di Mattarella, anche quello era propaganda?», ha ribattuto Gasparri, che ha poi esaltato la grande partecipazione di giovani ed esuli. Il sacrario giuliano, infatti, è stato invaso da cittadini ma si sono visti pure, come non accadeva in passato, molti volti della politica nazionale, tra cui il ministro per i rapporti con il Parlamento del M5S Federico D' Incà, la leader di FdI Giorgia Meloni e lo stesso Salvini, questi ultimi anche a Monrupino. Prima della cerimonia, a Trieste e in altri paesi della Regione sono comparsi striscioni di CasaPound con la scritta: «Partigiani titini infami e assassini», a cui ha reagito l' Anpi con una nota: «Alle tradizionali miserie dei neofascisti rispondono la storia e la loro irrilevanza. L' Anpi continuerà a fare il suo dovere di memoria in particolare verso le nuove generazioni». Polemiche anche per le dure frasi di Vauro. Il vignettista ha criticato l'«uso strumentale» della Giornata del Ricordo, diventata un «trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista». Nell' aula del Senato, il premier Conte aveva sottolineato l' importanza di «non sottovalutare mai il rischio di nuovi nazionalismi, odi, divisioni, oblii». Il presidente della Camera Fico aveva chiesto «ancora una volta scusa» per «la ferita inferta a quelle genti e ai loro discendenti», e la presidente del Senato Casellati aveva rimarcato il «silenzio assordante» di troppi anni, che ha dato vita ad un «negazionismo antistorico, anti-italiano e anti-umano». Il Parlamento europeo ha ricordato «le vittime italiane di tutti i massacri delle foibe» e a Roma David Sassoli, con la sindaca Virginia Raggi, ha deposto una corona all' Altare della Patria. «Una tragedia nazionale che per troppo tempo si è tentato di negare», ha poi twittato il presidente del Parlamento Ue.
Michele Serra per “la Repubblica”l'11 febbraio 2020. Le uccisioni, la persecuzione e il conseguente esodo degli italiani di Istria e Dalmazia, che nel Dopoguerra dovettero abbandonare senza colpa le loro case, i loro luoghi, le loro radici, sono una tragedia umana e un crimine politico che solo l' idiozia di qualche ultrà può negare o ridicolizzare. Ma raccontare i fatti, imputabili allo spirito di vendetta del comunismo titino, tacendo l' antefatto, come è accaduto in molte delle faziose, rozze commemorazioni di queste ore, significa fare torto grave alla verità e alla storia. L' antefatto è la scellerata opera di "nazionalizzazione" fascista di quelle terre di confine. È la riforma Gentile che vieta di insegnare lo sloveno nelle scuole (con bambini in maggioranza sloveni). È Mussolini che a Pola, nel 1920, definisce gli slavi «una popolazione primitiva, senza storia, senza cultura e senza lingua». È il razzismo esplicito (proclamato, scritto, urlato) del fascismo, che pretese di "ripulire" quei luoghi, da sempre di confine e da sempre multietnici, dalla loro componente cosiddetta "allogena": gli slavi, la loro lingua, la loro identità. Erano padroni a casa loro, fino a che arrivarono le camicie nere a "italianizzarli": proprio come tentarono, senza riuscirci, in Alto Adige. Libri, memoria, fonti storiche abbondano. Non serve brandirle come un' arma politica in favore di questa o quella tesi: basterebbe leggerle per capire che la tragedia delle foibe è l' esito orribile di una altrettanto orribile storia di sopraffazioni "etniche" e nazionalismi criminali. Un Paese sereno non avrebbe alcun problema a celebrare a bassa voce, e unito, quel lutto. Non siamo un Paese sereno.
Foibe, il racconto di Benvenuti: "Ci chiamavano esuli, noi eravamo solo italiani". Il pugile Nino Benvenuti, medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1960, si racconta: "Quella paura non l'ho sconfitta". Elena Barlozzari, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. Nino Benvenuti si appende alle corde del ring, le scavalca. È solo, al centro quadrato. "Ni-no, Ni-no", lo acclamano dalla platea. Lui si guarda attorno e allarga le braccia in segno di trionfo. Non è più il 1960, ma il ring è rimasto lo stesso, conservato come una reliquia nella palestra Audace Boxe di via Frangipane, a Roma. È il ring della XVII Olimpiade, il ring dei grandi pugili: Josselin, Mitzev, Lloyd, Radionyak. Benvenuti li scarta uno dopo l'altro, e conquista l'oro. "I-ta-lia, I-ta-lia". La folla è incontenibile. E pensare che chi come lui arrivava dalle terre dell'Adriatico orientale non veniva neppure considerato italiano. "Ci chiamavano esuli, come se venissimo da chissà dove, ma noi eravamo italiani, io - dice - sono stato un privilegiato perché la boxe mi ha salvato". L'attimo dopo s'inginocchia, come in preghiera, e bacia il tappeto con devozione. Quel quadrato non è solo il ricordo di una stagione fortunata, ma è anche una patria. È tutto ciò che gli è stato strappato e negato. La famiglia Benvenuti, padre, madre e cinque figli, è dovuta scappare da Isola d'Istria (oggi Slovenia) nel 1947. A guerra finita, perché non si poteva continuare a vivere nel terrore. Erano gente benestante i Benvenuti, avevano una bella villa, campi e vigne. Un giorno un graduato vide quegli averi e li desiderò per sé. Così ordinò che venissero requisiti. "Vennero a dirci che dovevamo fare i bagagli e andarcene perché un alto ufficiale aveva messo gli occhi sulla nostra casa e ci si voleva trasferire". I Benvenuti non osano protestare e salutano l'Istria per sempre, direzione Trieste. "Non ci ribellammo - ricorda - per timore delle conseguenze, voi non immaginate cosa significasse mettersi contro quella gente". I Benvenuti non vogliono più guai. Hanno già trascorso sette mesi di pene per il rapimento del figlio maggiore, Eliano, di 17 anni, claudicante per via della poliomielite. "Non si è mai capito perché lo portarono via, io ancora me lo domando, di noi fratelli era il più buono, il più diligente e il più fragile", dice Benvenuti. "Le guardie dell'Ozna, la polizia politica di Tito, lo prelevarono senza darci spiegazioni". Per i Benvenuti, quel giorno segna l'inizio di un incubo che non si è ancora interrotto. "I ricordi ogni tanto riaffiorano, durante la notte, in un momento particolare della giornata", ci confida Nino sprofondando la testa tra le mani. È come se gli stesse passando la vita davanti. Rivede quelle scene. Le racconta con la voce incerta, commossa. "Quando fecero irruzione in casa ci si gelò il sangue, era come se la nostra abitazione fosse diventata l'epicentro di un ciclone, mamma Dora non si riprese più da quello choc". Nino all'epoca non sapeva dell'esistenza delle foibe, non poteva certo immaginare che i titini avessero un'indole tanto crudele. Però aveva visto gli amici sparire e in cuor suo temeva che al fratello sarebbe toccata la stessa sorte. "Abbiamo pregato tanto - ricorda - per scacciare i cattivi pensieri che ci assillavano". Per Eliano, fortunatamente, le cose vanno diversamente. "Quando è tornato a casa non era più lo stesso, la prigionia gli aveva ingrigito i capelli, sembrava un vecchio". "A noi fratelli non raccontò mai nulla, forse confidò qualcosa ai nostri genitori, ma loro non tradirono il suo segreto". Benvenuti si interrompe. Ha gli occhi chiusi e sembra riuscire a vederla per intero: la paura. Una presenza oscura, che riaffiora dalle pieghe del tempo. È la stessa che ha costretto Eliano a portare le verità della sua prigionia nella tomba. La stessa che spezzò il cuore a mamma Dora, morta di crepacuore all'età di 46 anni. "È una paura endemica, irrazionale e non finisce mai al tappeto", racconta Benvenuti. "So perfettamente che i tempi sono cambiati e che l'Ozna non esiste più, eppure - confessa - c'è una parte di me che mi dice che devo stare zitto, che ho parlato più del dovuto, e che qualcuno potrebbe venire a prendermi". Ci guarda. Si rende conto che no, noi non lo possiamo capire. Non si stupisce. "Il vostro mondo non è il mio, viviamo nello stesso mondo - ragiona - ma siamo passati da un percorso diverso".
La bambina con la valigia simbolo dell'esodo istriano. Suo padre fu prelevato dai partigiani di Tito, lei scappò con la mamma da Pola. Ora un docufilm racconta la sua storia. Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. La bambina con la valigia è l’immagine simbolo dell’esodo istriano. Egea aveva 5 anni e nel luglio del 1946 si stava preparando con la mamma a lasciare Pola assieme ad altri 30mila italiani. Il papà, prelevato dai partigiani di Tito, era sparito nel nulla. Lo zio Alfonso, pochi giorni prima della forzata partenza dall’Istria aveva chiesto ad un fotografo di scattare l’immagine simbolo per non dimenticare mai il dramma dell’esodo. Egea, con i boccoli da bambina e un vestitino estivo, teneva con tutte e due la manine mani un borsone. Lo zio aveva aggiunto un cartello con la scritta “esule giuliana” e il numero dei polesani costretti ad andarsene dalle violenze di Tito e per non vivere sotto il comunismo. La foto è diventata il simbolo dell’esodo di almeno 250mila italiani dall’Istria, Fiume e la Dalmazia. Egea Haffner, con il nome come il mare, oggi è una signora di 78 anni che vive a Rovereto, in provincia di Trento. Questa sera a Verona sarà presente alla proiezione in anteprima del docufilm “Egea, la bambina con la valigia…. dal cuore esule”, la sua storia adottata per ricordare il dramma delle foibe. Un documentario realizzato con le parole e i ricordi di Egea grazie all’associazione culturale Storia Viva e alla regia di Mauro Vittorio Quattrina. All’anteprima porterà il saluto del Veneto, il vice presidente del Consiglio regionale, Massimo Giorgetti. I ricordi della seconda guerra mondiale di Egea sono ancora drammatici: “Il fischio delle sirene, per gli allarmi aerei, le fughe nei rifugi sotterranei”. E la ferita del padre prelevato dai partigiani di Tito a conflitto finito non si è mai rimarginata, anche se allora era solo una bambina. “Suonarono al campanello di casa nostra due titini - racconta al Giornale.it - Mia madre andò ad aprire. Dissero che papà doveva venire via con loro per un semplice controllo. Lui si tranquilizzò” seguendo i suoi carnefici. Kurt Haffner aveva fatto da interprete ai tedeschi perché conosceva la lingua. Figlio di un ungherese di Budapest, che a Pola aveva una gioielleria e di una viennese che faceva la pasticciera. Era il primo maggio 1945 e non riapparve mai più. A 26 anni venne probabilmente infoibato nei dintorni di Pisino, forse la notte stessa. La mamma di Egea, Ersilia Camenaro, era invece figlia di un croato e di un’italiana nel miscuglio etnico dell’Istria. Proprio lei il giorno dopo l’arresto ha visto la sciarpa del marito attorno al collo di un partigiano. Nel giro di un anno la giovane donna fu costretta a scegliere la via dell’esodo assieme alla piccola Egea. La nonna paterna, l’ultima a partire da Pola, si imbarcò sul piroscafo Toscana, che ha segnato il destino degli esuli. I profughi in patria trovarono prima ospitalità in Sardegna, da una zia a Cagliari e poi si trasferirono nella zona di Bolzano. Egea è cresciuta con i nonni nelle difficoltà quotidiane degli esuli additati come fascisti, anche se non avevano fatto nulla di male. La bambina con la valigia si tuffò nella scuola e “terminati gli studi – racconta - la vita mi sorrise un po’”. Grazie ad un bando dell’Enpas, l’ente nazionale di previdenza per i dipendenti pubblici, ottenne un lavoro come profuga e orfana di guerra. Egea si è ricostruita una vita sposandosi e mettendo al mondo due figlie. A Pola, dove c’è ancora la casa abbandonata dei nonni, torna spesso per vedere il bellissimo mare, ma resterà per sempre la bambina con la valigia, simbolo dell’esodo, con il ricordo strappato via del padre vittima delle foibe.
"Noi italiani in fuga da Tito. Quella fu una pulizia entica". La storia di Sergio Siberna, 91 anni: «Quella dei partigiani slavi fu pulizia etnica». Alberto Giannoni, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. "Norma finalmente dorme in pace». È un'immagine di dolcezza che chiude la poesia di Sergio Siberna dedicata alla martire delle foibe. Norma Cossetto, studentessa padovana, l'ultima a cadere in quel baratro che «sembra l'antro dell'Inferno», la foiba in cui fu gettata - ancora viva - dai «partigiani slavi. Insieme a lei tanti altri, «inghiottiti dalla voragine giù nel profondo». Furono migliaia, e centinaia di migliaia furono gli italiani costretti alla fuga dall'Istria e dalla Dalmazia. «Norma è la nostra martire - dice - è stata violentata, e non da una sola persona, oltraggiata oltre ogni dire, umiliata e gettata in una foiba». Sergio Siberna ha 91 anni, e ieri proprio a Cinisello Balsamo ha partecipato alla inaugurazione di un giardino dedicato a Norma, assurta a simbolo di quella schiera di infoibati e di quegli esuli italiani, i «migliori fra gli italiani» secondo la celebre definizione montanelliana, che furono cacciati dai comunisti slavi e male accolti anche dai comunisti italiani. (...) Quando parla di Norma si fa toccante. Ma quando racconta di sé Sergio ormai sorride. «Sono stato fortunato, abbiamo perso solo beni, altri no, hanno perso tutto e alcuni non hanno neanche avuto il risarcimento dovuto». Lui era fra quegli italiani e tanti ne ha conosciuti. «Sergio Endrigo fu mio compagno al collegio». Cita Ottavio Missoni e Nino Benvenuti che proprio ieri al Giornale ha raccontato la sua storia. «Grandi figure, campioni», dice con orgoglio. E ricorda Enzo Bettiza, firma storica di questo quotidiano, che frequentava il suo liceo. Ricorda con dolcezza, Sergio, che a suo modo è diventato un campione: di pallanuoto nel '57, e poi ha appena festeggiato 64 anni di matrimonio e si dedica ai nipoti. Non prova rancori e non li alimenta. Ripercorre la sua «storia anomala» partendo dall'8 settembre. Aveva 15 anni. «Abitavamo a Ragusa, l'attuale Dubrovnik, città bellissima, di nome e di fatto italiana, la quinta repubblica marinara, mio padre insegnava in una scuola di italiani. Quel giorno fu «lo sfacelo del nostro esercito. Avevo dei compagni, mi vergognai». Ragusa era sede di un corpo d'armata. «Prima di arrendersi, il comando italiano convocò mio papà, unica persona importante rimasto lì, e lui fedele al suo dovere aspettava un ordine del ministero da cui dipendeva. Gli offrirono di diventare il custode della cassa perché non cadesse nelle mani dei tedeschi, ma mio padre rifiutò, eppure dal 25 luglio non riceveva lo stipendio e avevamo speso i nostri pochi risparmi, e mia mamma insisteva perché tornassimo in Patria e tutto intorno c'erano i partigiani slavi, sapevamo che noi italiani eravamo a rischio». Arrivavano da Trieste e lì volevano tornare. A febbraio chiusero casa e partirono verso Mostar. «Dopo 20 chilometri eravamo già fermi per un allarme aereo in posto chiamato Hum. Trovammo rifugio in quella stazioncina». I cacciabombardieri colpivano e la contraerea tedesca rispondeva: sette incursioni da mattina a sera. «Il nostro treno era in fiamme. Mia madre andrò a recuperare le quattro valigie che avevamo e le trovò sforacchiate dai colpi. Un soldato fu ferito al collo». Finita l'incursione, la notizia che la linea era saltata. «Il treno tornò a Ragusa a marcia indietro, ma il nostro appartamento era stato occupato, gli alberghi requisiti dai tedeschi, mio padre disperato ci lasciò all'aperto andando a cercare una sistemazione e miracolosamente la trovò: essendo un tipo gioviale incontrò un amico croato, comandante di marina mercantile che proprio quella notte partiva, e ci lasciò la casa, fidandosi anche se noi eravamo tecnicamente il nemico». Passati pochi giorni, nuovo viaggio verso Mostar, che era sotto attacco. Finirono a Zagabria, in un centro raccolta profughi. Poi un nuovo viaggio verso Klagenfurt. «La stazione era stata bombardata, il treno si fermò prima, mio fratello aveva due anni e mezzo, c'era la neve. Attraverso Tarvisio arrivammo in Italia. Ricordo il gesto di mia sorella che baciava la terra, arrivammo infine a Trieste dopo otto giorni di Odissea. Fortunati, rispetto ad altri, che hanno avuto i loro cari infoibati, hanno perso fortune, tutto, soprattutto nelle città italiane, sulla costa, nelle zone ambite. Noi eravamo già Jugoslavia, ma Istria e Dalmazia erano italiane. Quella dei partigiani slavi è stata una pulizia etnica. Tito era un idolo per loro, con noi fu tremendo. E i profughi sono stati trattati molto male dai comunisti italiani. L'equazione era: sei scappato dal comunismo? Allora sei fascista. Ma lei pensa che 350mila persone fossero criminali fascisti? Mio padre non era fascista, era repubblicano. Certo, io ho indossato la divisa da Balilla, come tutti, ero un ragazzino, ma era solo un apparato scenico, non significava nulla per me. Non avrei avuto neanche il tempo di esserlo. Ci sentivamo solo italiani e fieri di esserlo, forse non eravamo critici, ma chi lo era? Chi distingueva l'Italia dal regime?». Sergio era solo un ragazzo che si era slogato una caviglia giocando con compagno, e non aveva grilli per la testa. «Partecipo sempre a queste cerimonie - dice pensando ai giardini Norma Cossetto, dove ieri ha incontrato il sindaco Giacomo Ghilardi e l'assessore Riccardo Visentin. Ripensa a quegli anni. «Avevamo fame, si mangiava pasta e ceci, e poi ceci e pasta». Ha ascoltato le parole del presidente, Sergio Mattarella. «È stato equanime». E ripensa a quegli italiani. «Sergio Endrigo e io fummo compagno di collegio a Brindisi, lo ricordo. Il collegio era stato intitolato a Niccolò Tommaseo, grande dalmata. Tanti di noi ancora si trovano, dopo anni, cantiamo, stiamo insieme». «Ormai - dice - è passato tanti tempo, e l'esperienza ci ha insegnato quali sono le cose su cui soprassedere, e ci ha insegnato anche a girare pagina. Non dimenticare, no. Ricordare ma senza astio». Alberto Giannoni
"Tito voleva eliminare tutti: contro di noi solo terrore". Unico nel suo genere, il quartiere Giuliano-Dalmata di Roma è diventato la "patria" degli esuli in fuga dal confine orientale: "All'inizio non c'era nulla qui, ma era sempre meglio del campo profughi". Elena Barlozzari, Lunedì 10/02/2020 su Il Giornale. Quello di Giovanna Martinuzzi, quasi 90 anni, è un sogno ricorrente. Si rivede ragazzina mentre cammina per i vicoli di Albona (oggi Croazia). Il paesaggio è rimasto lo stesso della sua infanzia, eppure non riesce più a riconoscere nulla di familiare. Si sente a disagio, le manca persino l'aria. Passo dopo passo la strada diventa sempre più stretta, quasi la volesse inghiottire. Si risveglia di botto, con il senso di claustrofobia addosso. "Sono settant'anni che faccio lo stesso incubo", racconta. Giovanna è un'esule, aveva appena 13 anni quando la sua famiglia è stata costretta la lasciare l'Istria per scampare alle persecuzioni titine. "Non potevamo più continuare a vivere lì, non sapevamo nulla delle foibe ma vedevamo la gente sparire". La lunga stagione di terrore, iniziata con il dilagare dei partigiani jugoslavi nelle terre che si affacciano sull'Adriatico orientale, mieterà tra le 7 e le 12mila vittime. "Abbiamo passato un anno nel campo profughi di Serviliano, nelle Marche, e poi siamo venuti qui", dice indicando ciò che la circonda. Un crocicchio di strade che portano il nome della sua gente. Siamo nel quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, in zona Laurentina, il più grande "monumento" dell'esodo che esista in Italia. Quando Giovanna è arrivata nel quartiere, non c'erano case né strade, solo dei vecchi padiglioni diroccati. Erano quelli degli operai che lavoravano alla costruzione dell'Eur, abbandonati con lo scoppio della guerra. Li occuparono un pungo di profughi verso la fine del 1948, già l'anno successivo le presenze salirono a mille unità. "Era un luogo isolato, senza infrastrutture né servizi, ma era sempre meglio dei campi profughi", ragiona l'anziana, che non si è mai allontanata dal quartiere. "Ormai - spiega - è la mia patria". In quegli anni difficili, in cui gli italiani del confine orientale venivano guardati con diffidenza ed etichettati come "fascisti", l'ex villaggio operaio si è trasformato in un'isola felice. Una specie di enclave dove ritrovare parenti, amici, vicini di casa. Dove ricostruire la comunità che l'esodo aveva diviso. "Certo, - riflette Maria Ballarin, esule di seconda generazione - con il senno del poi mi rendo conto di aver avuto un'infanzia povera, però c'era un forte senso di fratellanza". Si viveva tutti assieme, come una grande famiglia, e si parlava la stessa lingua: il dialetto veneto. "Era il regno di noi bambini, trascorrevamo intere giornate a giocare a nascondino". La realtà, quella dei "grandi", però, era ben diversa. "I miei - prosegue - non mi hanno mai fatto pesare nulla, solo anni dopo ho scoperto quanto sia stato duro per loro rialzarsi". "Economicamente eravamo a terra". All'epoca lo Stato italiano faceva grande pressione perché i profughi dichiarassero l'abbandono delle loro proprietà. "Tanto ve le requisiscono gli jugoslavi", dicevano. Con quei beni poi l'Italia ha pagato il suo debito di guerra, e agli esuli? A loro cosa è rimasto? "Solo briciole, dilazionate nell'arco di cinquant'anni", denuncia Maria, mostrandoci le foto in bianco e nero della casa paterna. Una villa di due piani sull'Isola di Lussino, oggi meta di turismo da tutto il mondo. Lei, che sarebbe dovuta nascere lì, invece, è venuta al mondo in un appartamentino di 55 mq. "Era una delle prime case costruite nel quartiere, per chi veniva dall'esperienza dei padiglioni erano delle regge", ricorda. Nel corso degli anni e con l'Istituzione dell'Opera Profughi, l'ex villaggio cresce e si trasforma. E nel 1962 entra ufficialmente nella rosa dei quartieri di Roma. "Un vero miracolo", ci spiega Marino Micich, esule di seconda generazione e direttore dell'Archivio Museo storico di Fiume. "In tutta Italia sono diverse le zone in cui si è radicata la comunità giuliano-dalmata, ma nessuna è stata istituzionalizzata come è accaduto nella Capitale". L'assembramento dei profughi, per il governo di allora era una minaccia. Bisognava disperdere e annacquare, cancellare le prove delle barbarie dei vincitori. "Questo - riflette - è stato un modo per sopravvivere nella memoria, una testimonianza incancellabile del dramma della nostra gente". Soprattutto adesso che i protagonisti di quell'epoca se ne stanno andando. Gente come Romano Sablich, ex ufficiale di Marina classe 1924, uno dei pionieri del villaggio. È scomparso quest'estate, in punta di piedi. Proprio come era arrivato, stanco sporco e affamato dopo un periodo trascorso da invisibile alla stazione Termini. E ha portato via con sé i ricordi, i racconti e le tante fotografie che ci aveva mostrato un pomeriggio di due anni fa.
Le Foibe e l’Esodo. Giorgio Perlasca, Giusto tra le Nazioni. Parliamo dell’Istria, penisola tra i golfi di Trieste e del Quarnaro, della Dalmazia, la fascia costiera che dal golfo del Quarnaro scende sino all’Albania, e della Venezia Giulia (Trieste, Gorizia). La loro storia è italiana, prima romana poi dopo varie vicissitudini veneziana: l’Istria nel 177 a.c entrò nell’orbita romana e nel 27 a.c. Augusto le concesse la cittadinanza romana (ricordiamo l’Arena di Pola). Anche la Dalmazia entrò nell’orbita romana, nel 117 a.c. e fu la terra di quattro imperatori, il più rilevante Diocleziano. Ambedue, dopo le complesse vicende delle invasioni barbariche, impero bizantino, Sacro Romano Impero evidenziarono un rapporto sempre più stretto con Venezia finché dopo il 1400 le città costiere si unificarono sotto l’insegna del leone di S. Marco. E le città delle coste istriane e dalmate sotto l’ala del leone di San Marco si svilupparono sul piano commerciale e fiorirono sul piano artistico e culturale. Si parlava il dialetto veneto. Nel 1797 con il trattato di Campoformio Napoleone cedette la Serenissima all’Austria. Durante i 121 anni della dominazione austriaca le città della costa orientale erano popolate in prevalenza dall’etnia italiana, le campagne dagli slavi. Il governo asburgico, timoroso delle spinte irredentistiche e risorgimentali, favorì lo spostamento degli slavi, sudditi fedeli, verso la costa, chiudendo anche scuole italiane. Il clero, in maggioranza di etnia slava, fomentava l’avversione verso l’Italia, ritenuta laica e miscredente, in quanto colpevole di aver strappato Roma al papato. E le tre etnie balcaniche, sloveni, croati e serbi, divise tra di loro erano accomunate dal disegno di impadronirsi delle terre italiane. Durante la prima guerra mondiale molti irredentisti furono alla testa della campagna per l’intervento dell’Italia nel conflitto contro l’Austria. Basta ricordare Cesare Battisti e Fabio Filzi, impiccati a Trento, Nazario Sauro a Pola e Guglielmo Oberdan a Trieste. Dopo la prima guerra mondiale il trattato di Rapallo nel 1920 assegnò all’Italia, l’Istria, Zara (unica enclave in Dalmazia), le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e dichiarò Fiume Città libera. Nel 1924 Fiume tornò definitivamente all’Italia con la parentesi dell’impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio. Nel periodo fascista gli scontri tra nazionalismo italiano e slavo si acuirono. Indubbiamente sin dall’inizio abbiamo varie leggi tese alla italianizzazione forzata: nel 1923 la legge Gentile stabilisce che nelle scuole non vi sia spazio per le lingue minoritarie, nel 1925 si proibisce l’uso delle lingue diverse dall’italiano nell’amministrazione pubblica, nel 1927 vengono soppresse le organizzazioni culturali, ricreative e culturali slovene e croate. Con Regio decreto del 1927 venne imposta l’italianizzazione dei cognomi anche se non trovò mai piena applicazione. Provvedimenti illiberali certo ma inseriti in un contesto di un mondo che non rispettava le minoranze (dalla Francia, alla Germania, alla Romania, Ungheria e alla stessa Jugoslavia), a parte la parentesi felice dell’impero austro-ungarico. E venne il dramma delle Foibe: cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria che fra il 1943 e il 1947 sono gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.
La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. La vicenda di Norma Cossetto è emblematica e diventerà un simbolo di quel periodo terribile.
La seconda nel novembre del 1944 a Zara. Dopo l’8 di settembre del 1943 la città venne occupata dai tedeschi. Tito chiese agli anglo americani di bombardarla per una presunta rilevanza militare del piccolo porto commerciale, che in effetti non aveva, e in un anno fu sottoposta a 54 bombardamenti con oltre 4000 morti. Il 1 novembre 1944 quando già i tedeschi abbandonarono la città, i partigiani di Tito entrarono in una città distrutta ed inerme. Subito iniziarono le esecuzioni degli italiani, fucilati o affogati, perché lì foibe non ce ne sono… ma vi è il mare. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando le truppe di Tito occupano Trieste, Gorizia e l’Istria e si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le Foibe e ad andare nei campi di concentramento ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti e gli italiani. Anche 39 sacerdoti vennero uccisi. E si leva la forte voce del Vescovo di Trieste e Capodistria, Monsignor Antonio Santin. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Il 10 febbraio del 1947 l’Italia ratifica il trattato di pace e la fascia costiera dell’Istria (Capodistria, Pirano, Umago e Cittanova ) passa sotto amministrazione jugoslava (zona B); il resto dell’Istria, Fiume e Zara passano in maniera definitiva sotto sovranità jugoslava. La fascia costiera da Monfalcone a Muggia va sotto amministrazione alleata (zona A) mentre Gorizia e il resto della Venezia Giulia tornano sotto la sovranità italiana. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi “cittadini di serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. Il 5 ottobre 1954 con il “Memorandum d’intesa” la parte amministrata dagli Alleati (la cosiddetta zona A) viene restituita all’amministrazione dell’Italia. E’ l’atto che permetterà, il 26 ottobre dello stesso anno, il ritorno definitivo di Trieste alla madrepatria. Il 10 novembre 1975 con il trattato di Osimo, nelle Marche, il’allora Ministro degli Esteri Rumor firmò la cessione in via definitiva della zona B alla Jugoslavia. Per quasi cinquant’anni il silenzio della storiografia e della classe politica avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. È una ferita ancora aperta perché ignorata per molto, troppo tempo. Solo dopo sessant’anni l’Italia con la legge 30 marzo 2004 n° 92 ha riconosciuto ufficialmente questa tragedia istituendo il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo”.
FOIBE: E COME POTEVAMO NOI CANTARE...Cristofaro Sola il 10 febbraio 2020 su L’Opinione. No, presidente Mattarella. Non abbiamo dimenticato le Foibe. E neppure in noi alberga indifferenza per il dramma dell’esodo istriano-giuliano-dalmata. Sono occorsi 57 anni dalla firma dei Trattati di Pace di Parigi, un Governo di centrodestra e un presidente della Repubblica giusto e coraggioso quale fu Carlo Azeglio Ciampi per restituire l’onore della memoria al popolo degli estremi confini orientali d’Italia, perseguitato e scacciato dai propri luoghi di vita dai partigiani comunisti del macellaio jugoslavo Josip Broz Tito. C’è voluta una legge dello Stato, la n. 92 del 30 marzo 2004, che consacrasse il 10 di febbraio a “Giorno del ricordo” per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (articolo 1), perché si portasse alla luce del sole un brandello di storia italiana nascosto per troppo tempo sotto una coltre di insopportabili silenzi, ignobili negazioni, vili imbarazzi. Come potremmo, presidente Mattarella, dimenticare le foibe? Sepolcri immondi e camere di morte d’innocenti vittime della ferocia comunista. Gli eccidi degli istriani-dalmati-giuliani non furono assassinii maturati nei torbidi climi della guerra. Fu pulizia etnica, pianificazione consapevole per la rimozione coatta della presenza italiana da terre da sempre italiche ma che per effetto delle sorti del conflitto mondiale non lo sarebbero più state. E come pensa, signor presidente, che si possa risanare quella ferita suppurata da anni di colpevole pavidità dei governi italiani? E quand’anche avessimo per un attimo un vuoto di memoria ci sarebbero le scriteriate dichiarazioni dei “partigiani” da bollino blu dell’Anpi a farci sobbalzare dalla sedia, a indignarci. Non sono illazioni. Per annusare l’aria che tira dalle parti dei custodi della verità resistenziale è sufficiente leggere l’intervento conclusivo del vicepresidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, al seminario organizzato dall’Anpi nazionale e dal Coordinamento regionale Anpi Friuli-Venezia Giulia in vista del Giorno del ricordo presso la Biblioteca del Senato a Roma lo scorso 4 febbraio, dall’illuminante titolo “Il fascismo di confine e il dramma delle foibe”. Il nesso causale fascismo-foibe non cambia: è sempre uguale nel tempo ed ugualmente irricevibile. Scrive Pagliarulo: “...in questi anni nelle iniziative legate al Giorno del Ricordo è stata sovente rimossa la memoria di tre circostanze essenziali, gravide di conseguenze catastrofiche per quelle terre, in successione cronologica: il fascismo di confine; l'invasione italiana della Jugoslavia; la costituzione della Zona d'operazione del Litorale adriatico (Adriatisches Kustnland). La vicenda storica causata dall'intreccio di questi eventi col totalitarismo dello Stato fascista e dello stato nazista portò in quei territori alla esasperazione della guerra totale ed anche della guerra ai civili, ove cioè i già labili confini fra militari e civili, fra operazioni di guerra e crimini di guerra, fra relativamente lecito ed assolutamente illecito si dissolvono in un clima di parossismo della violenza...”. Se ne ricava che se barbarie fu, va giustificata come reazione parossistica all’essere fascisti degli istriani-dalmati-giuliani. E le foibe sarebbero state la risposta slava, probabilmente illecita ma giustificabile in un contesto di relatività del valore della vita umana, all’assolutezza del male del “fascismo di confine”? Ma come la si vuole riconciliare la memoria di questo Paese, signor presidente Mattarella, se ancora oggi si partoriscono simili nefandezze? La domanda andrebbe girata a Norma Cossetto. Peccato che lei non possa rispondere. Già, perché la giovanetta, studentessa presso l’Università di Padova, nell’estate del 1943 era tornata a casa in Istria, dove la colse il fatidico 8 settembre, l’armistizio. Norma fu intercettata da una pattuglia mista di partigiani italiani e jugoslavi mentre era in bicicletta. Arrestata, portata nella scuola elementare di Antignana e separata dal resto dei prigionieri. Fu torturata e stuprata. Poi, incatenata ad altri sventurati, fu condotta a piedi in località Villa Surani e gettata ancora viva in una foiba. Norma, italiana, era nata a Santa Domenica di Visinada, che oggi è un comune della Croazia. Risponda alla domanda signor Pagliarulo: la giovane Norma Cossetto fu violentata, torturata e trucidata barbaramente perché era fascista o perché era italiana? Si chiede che sulla tragedia delle foibe vi sia un rigoroso approfondimento storico. Benissimo. Si passino al setaccio archivi tenuti dolosamente chiusi per decenni. Si chiariscano le responsabilità di tutti i protagonisti di quegli anni turbolenti. Si vada fino in fondo nella ricerca della verità. A patto, però, che non si commettano omissioni o si facciano sconti ai responsabili. Alle bande titine ma anche ai partigiani comunisti nostrani che collaborarono con i titini alla pulizia etnica. Si potranno cercare quante giustificazioni si vorranno per distorcere la realtà dei fatti accaduti, ma una cosa non si potrà mai fare: negare che quei territori, italici per “diritto storico”, oggi sono località inglobate in altri Stati. Le autorità croate e slovene non perdono occasione per ribadirlo. La circostanza più recente risale a pochi mesi orsono. Il 12 settembre 2019 la giunta comunale di Trieste, per celebrare il centenario dall’impresa di Fiume, ha dedicato una statua a Gabriele D’Annunzio, il poeta-soldato guida e ispiratore dell’impresa fiumana. La cosa non è andata a genio all’”europea” Croazia. Il ministero degli Esteri croato, ignorando platealmente il diritto di uno Stato sovrano di onorare in patria i propri illustri cittadini, con una nota di protesta ha fatto sapere che il gesto “contribuisce a turbare i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due Paesi”. E la ex presidente della Croazia, Kolinda Grabar-Kitarović (in carica all’epoca dell’”incidente” diplomatico), del tutto indifferente ai tentativi giustificazionisti dell’Anpi volti a dare una parvenza di legittimità all’espropriazione post-bellica della penisola istriana e dintorni, intervenendo attraverso il suo account Twitter contro l’iniziativa del Comune di Trieste, ha ribadito l’unica verità che interessa ai suoi connazionali: “Fiume era ed è tuttora parte orgogliosa della patria croata”. Fessi noi che abbiamo consentito che i due Stati nostri confinanti, Slovenia e Croazia, entrassero indisturbati nell’Unione europea senza chiedere loro conto della pulizia etnica operata in danno degli italiani. E ancora più fessi noi che, con i nostri soldi, abbiamo aiutato due regioni della ex-Jugoslavia, ridotte alla miseria da anni di comunismo titino, a rimettersi in piedi e a darsi una ripulita. La verità è che la ricorrenza del 10 febbraio ci fa male tre volte. Per il ricordo di quello che è accaduto settanta anni orsono ai nostri compatrioti; per ciò che continua ad accadere di umiliante e d’inaccettabile per la dignità della nostra Patria. E per l’amara constatazione di quanto sia viva e vegeta una certa sinistra nostalgica del comunismo che ha odiato altri italiani al punto di arrampicarsi sugli specchi del giustificazionismo pur di assolvere gli assassini, torturatori che a quei nostri fratelli dimenticati hanno inflitto dolore, perdita d’identità, morte e sradicamento territoriale. Signor Presidente Sergio Mattarella, le foibe sono la piaga che non smette di sanguinare; sono l’angoscia che arriva al cielo da “l’urlo” di Edvard Munch; sono lo struggente lamento del poeta (Salvatore Quasimodo) scolpito sulla pagina immortale di “Alle fronde dei salici”. E come potevamo noi cantare/Con il piede straniero sopra il cuore...
Il giorno del ricordo è arrivato troppo tardi e, forse, è meglio così. Toni Capuozzo il 10/02/2020 su Notizie.it. Il giorno del ricordo è arrivato troppo tardi e, forse, è meglio così. Il giorno del ricordo è arrivato quando i sopravvissuti erano ormai anziani o non c'erano più. E forse è meglio così, altrimenti gli sarebbero toccati gli insulti che sono arrivati a Liliana Segre. Non ho mai nascosto di diffidare, in un certo senso, delle giornate dedicate alla memoria e al ricordo, delle vittime del nazismo o di quelle del socialismo jugoslavo. Perché l’istituzionalizzazione della memoria rischia di renderle un rito, una scadenza obbligata, come un nodo al fazzoletto. L’olocausto non dovrebbe aver bisogno di date per essere iscritto nella coscienza collettiva dell’Europa, è qualcosa che dovrebbe assomigliare al ricordo di un nostro caro che non c’è più: non abbiamo bisogno del giorno dei morti per farcelo tornare in mente. E per quanto riguarda il ricordo delle foibe e dell’esodo di migliaia di italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, è anche peggio. Suscita negazionismi o parole di circostanza, come un obolo al dolore altrui. Va detto: il giorno del ricordo è arrivato troppo tardi. Quando i sopravvissuti erano ormai anziani, o non c’erano più, e il riconoscimento tardivo alimentava per contrasto il senso di solitudine vissuto per tanti anni dagli istriani e dai dalmati. Si fatica a ricordare – e se capitate alla stazione di Bologna andate a leggervi l’ipocrita lapide che è un capolavoro del non detto – che gli esuli furono accolti a muso duro, in Italia. Furono trattati da fascisti, solo perché fuggivano il socialismo slavo. Non lo erano, e lo erano stati piuttosto milioni di italiani plaudenti alle avventure del duce, e ora pronti a essere partigiani del 26 aprile, seduti sul carro del vincitore a schernire gli altri, che pagavano gli errori e i crimini del fascismo, come fascisti. Non fu solo la sinistra, per ragioni ideologiche, a comportarsi così: l’Italia pagò i debiti di guerra alla Jugoslavia con i beni che gli esuli si erano lasciati alle spalle. Forse bisognerebbe cambiare vocabolario: dire che le foibe furono fosse comuni, dire che l’esodo fu il frutto di una pulizia etnica, dire che non fu solo nazionalismo perché vennero uccisi migliaia di sloveni e croati indocili, ricordare che l’Italia non seppe accogliere profughi che parlavano la sua stessa lingua. Ma temo che non si arriverebbe comunque a una memoria condivisa, come se anche il Male avesse una bandiera, e il Male dei nostri fosse sempre meno grave del Male degli altri. La signora che venne fotografata, bambina, con in mano una valigia, la scritta “esule giuliana” e un numero, non viene invitata nelle scuole. Meglio così, altrimenti le toccherebbero gli insulti che sono arrivati a Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Forse anche di più, e con meno scandalo.
"Tutto iniziò fuggendo dai fucili partigiani". L'Istria, l'esodo e le corse. Da Indy 500 alla F1. HMario Andretti h vinto tutto. Oggi, a 80 anni, ricorda: "Uccisero mio cugino e scappammo. Ci sentimmo traditi dall'Italia". Umberto Zapelloni, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. «Stando in Italia non sarei mai diventato Mario Andretti. Gli Stati Uniti mi hanno dato la possibilità di realizzare la mia vita, di esaudire i miei sogni, di andare addirittura oltre, ma io mi sento italiano anche se non ho più quel passaporto. Il sangue non si può cambiare». Domani Mario Andretti compie 80 anni. E apre l'album dei ricordi. La sua è una storia da film hollywoodiano, quella del bambino fuggito dall'Istria e dagli orrori delle foibe per diventare prima profugo, poi emigrato e, alla fine del sogno, campione del mondo di F1, oltre che di Formula Indy. Vincitore alla 500 Miglia di Indianapolis a Daytona a Sebring a Monza alla Pikes Peak. Il libro dei record conta 111 vittorie e 109 pole in 897 gare. Un campione a 360 gradi. Un personaggio unico che riesce ancora ad arrabbiarsi su twitter se qualcuno considera Ascari e non lui l'ultimo italiano campione del mondo. «Sono contento di essere arrivato a 80 anni, ma per me è solo un numero. Non cambia niente». La voce di Mario Andretti arriva chiara e vivace dall'altra parte dell'oceano dove, oltre alle corse, ha business nel petrolio e nel vino. Torniamo alla fine degli anni Quaranta, quelli della grande fuga dall'Istria diventata comunista sotto Tito. «Io non avevo provato una grande paura perché il nostro paese non era stato bombardato durante la guerra, ma quello che successe dopo fu straziante. I nostri genitori non ridevano più e noi bambini capivamo che qualcosa stava cambiando. I partigiani locali fucilarono un nostro cugino vicino a casa. Un altro cugino scappò in Indocina. Anche noi ce ne andammo, non si poteva restare a Montona. E fu terribile perché un po' ci sentimmo traditi dal nostro paese».
La fuga della sua famiglia dall'Istria è del 1948. Che ricordi ha di quel periodo vissuto da profughi?
«Dopo qualche tempo in una caserma a Udine ci mandarono in un campo profughi a Lucca. La gente ci trattava come zingari, ma mamma e papà cercavano di non farci mancare nulla. Ci vestivano bene, ci mandavano a scuola. Feci tre anni all'Istituto Industriale Carlo Del Prete che c'è ancora oggi. Imparai un po' d'inglese, soprattutto la grammatica e fu utile quando poi a papà arrivò il visto per andare in America».
Ricorda ancora quel viaggio?
«Noi bambini eravamo allegri sul Conte Biancamano, papà diceva andiamo là 5 anni poi torniamo. Non siamo più tornati anche se io continuo a sentirmi italiano. Erano le 5 del mattino del 16 giugno 1955, era una bella mattina limpida, lo ricordo bene perché era il 21° compleanno di mia sorella. Passammo sotto la Statua della Libertà e pensai se un paese costruisce delle statue così grandi qui tutto potrà accadere».
E a Nazareth in Pennsylvania avete trovato l'America.
«Papà che lavorava in una fabbrica di acciaio dopo qualche anno tornò in Italia. Io gli dissi che preferivo restare. Dopo due settimane era già ritornato anche lui dicendo semplicemente la nostra casa ora è qui in America».
Negli anni però è tornato a Montona e poi anche a Lucca.
«A Montona mi hanno nominato sindaco in esilio, a Lucca cittadino onorario. È stato strano quando tornai per la prima volta in Istria vedere altra gente in quella che era la nostra casa, pensare che mai ci avevano compensato per quello che ci portarono via Ma è stato giusto fare pace col passato e oggi là ho ancora degli amici».
Intanto era già stato contagiato dalla passione per le corse. Una passione cominciata in Italia.
«A Monza. Andammo nel 1954 con mio fratello Aldo, dopo che avevamo visto la Mille Miglia sull'Abetone. Il nostro idolo era Alberto Ascari e il nostro sogno era di diventare piloti. A Nazareth dove andammo a vivere c'era una pista. Ricordo che ce ne accorgemmo una delle prime sere, vedevamo le luci in lontananza, sentivamo i motori Fu una passione bruciante. Non mi ha più lasciato. Per me è sempre stato un sogno essere in una macchina da corsa. Una voglia che non è ancora passata».
Che cosa ha avuto in più di suo fratello gemello Aldo. Avete cominciato insieme, ma è lei ad aver vinto tutto.
«Solo più fortuna. Aldo ha avuto un brutto incidente già alla prima stagione, in coma per tre settimane. Io invece ho saltato solo due gare per infortunio».
Sulle 111 vittorie, può sceglierne una o è impossibile?
«La vittoria a Monza nel 1977 la tengo nel cuore perché proprio lì avevo visto la mia prima gara importante a 14 anni e lì era cominciato il sogno. E poi lì ho vinto anche il Mondiale in un giorno triste, quello dell'incidente al mio compagno Peterson. E ripensando a quanti amici ho perso in pista, non posso che dire di essere stato fortunatissimo, non solo fortunato».
Monza significa anche una pole straordinaria con la Ferrari. Chapman, Haas, Ferrari ha lavorato con dei geni del motorismo.
«Erano dei maghi, ma Ferrari non lo puoi paragonare a nessun'altro. Con la Ferrari non ho vinto il mondiale, ma ho vinto la mia prima gara e poi corso la mia ultima in F1. Quello a cui tengo tanto è il fatto che con il Commendatore ho avuto sempre un rapporto diretto. Decidevamo tutto io e lui a quattr'occhi. Ogni ingaggio lo abbiamo fatto io e lui direttamente».
Sarebbe stato bello avere una biposto a quei tempi per portare Ferrari Invece ha portato Trump, come lo giudica come presidente?
«Ci sarebbe qualcosa da dire su certi comportamenti, ma si intende di economia e ha lavorato per il benessere dell'America e non solo dell'America, ma di tutto il mondo, anche con la Cina alla fine ha ottenuto dei risultati. Per me la sua è stata una presidenza positiva».
Buon compleanno super Mario.
Cristicchi: «Vi racconto la fuga degli italiani d’Istria. Una tragedia vera e dimenticata». Eugenio Murrali de Il Dubbio il 3 marzo 2020. Il cantautore presenta “Esodo” al teatro Vittoria di Roma, monologo accompagnato dalle sue canzoni e quelle di Sergio Endrigo. Simone Cristicchi sarà in scena fino a domenica al Teatro Vittoria di Roma con il suo Esodo, uno spettacolo commovente che racconta le tribolazioni degli italiani spinti a lasciare le loro terre d’origine in Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e oggetto di torture da parte del regime comunista di Tito. Lo sguardo di Simone Cristicchi segue il dolore di questi esuli silenziosi, miti, la cui memoria è spesso messa da parte, offesa, se non addirittura calunniata. L’artista, con le idee rese ben chiare dalle sue ricerche, senza alcun cedimento a ideologie di qualsivoglia colore, dà voce alle piccole storie di donne, di uomini, di bambini, di terre di confine, “terre fragili”, contese, scenario di sofferenza. Solo sul palco, con l’ausilio della parola, delle immagini, delle sue canzoni intense e di quelle di Sergio Endrigo, Cristicchi evoca e restituisce istantanee di vita, con sobrietà e amore, senza retoriche, e offre un quadro chiaro di quel tragico momento passato alla storia come esodo giuliano- dalmata. Lo spettacolo, al cui testo ha collaborato Jan Bernas, trova forte ispirazione dal Magazzino n. 18 nel Porto Vecchio di Trieste, luogo in cui molti italiani — e furono circa 300 mila a prendere parte all’esodo — lasciarono sedie, armadi, materassi, letti, stoviglie, fotografie, giocattoli, diari che si erano portati dietro dalle loro case dopo il Trattato di Parigi del 1947, sperando di trovare spazi per una nuova fase della loro vita.
Esodo nasce da un percorso di alcuni anni. Come mai un romano è arrivato a parlare della storia degli italiani d’Istria?
«Tra il 2012 e il 2013 stavo facendo una ricerca sulle memorie della Seconda Guerra Mondiale. A Trieste ho saputo dell’esistenza del magazzino 18, nel Porto Vecchio, ho voluto visitarlo, sono rimasto molto colpito, e ho voluto approfondire questa storia. L’ho fatto per curiosità personale, per colmare una lacuna e anche per una forma di restituzione. Non ho nessun legame familiare con il mondo istriano».
Però sulla sua strada c’è stato Sergio Endrigo, uno degli italiani d’Istria che hanno potuto realizzare un sogno nonostante le difficoltà. Cosa la unisce a lui come artista e come uomo?
«Fin da piccolo ero abituato ad ascoltare le canzoni di Sergio Endrigo con il giradischi di mia madre, e anche quelle di Gino Paoli, Edoardo Vianello, Luigi Tenco. Poi ho avuto l’opportunità, la grande opportunità di fare un duetto con lui, che mi ha regalato un brano bellissimo, Questo è amore, presente nel mio album di esordio, Fabbricante di canzoni. Tanti anni dopo ho realizzato una serie di concerti dedicati a lui con l’orchestra sinfonica, il più eclatante è stato quello a Piazza Unità d’Italia a Trieste».
Ha avuto difficoltà nelle ricerche per il suo spettacolo?
«No, anzi, gli storici mi hanno supportato. Ho chiesto consiglio a persone che ne sapevano più di me, soprattutto per avere una patente di credibilità una volta salito sul palco. È chiaro che lo spettacolo non può essere una lezione di storia vera e propria, però con l’aiuto di alcuni esperti sono stato più tranquillo. Quando ha raccontato questa storia ha avuto contestazioni… Accettai l’idea di realizzare questo spettacolo, incoraggiato dal figlio di un profugo istriano secondo cui, venendo da fuori, avrei potuto raccontare questa storia non intrisa di ideologia e di politica. Lascio ad altri, infatti, questo tipo di scontro ideologico. Quello che faccio è evocare una pagina di storia e far sì che sia uno strumento per comprendere il pregiudizio, lo sradicamento di un’intera popolazione, e anche per parlare metaforicamente dei grandi esodi che stanno avvenendo oggi nel mondo. Con Jan Bernas abbiamo cercato di volare alto, su temi molto importanti a nostro avviso, evitando gli scontri che non hanno niente a che vedere con la storia che racconto».
Uno degli strumenti che lei utilizza nel racconto è la canzone. Come interviene?
«È stato Antonio Calenda, il regista di Magazzino 18, che mi ha spinto a scrivere dei brani, a trasformare quello che inizialmente doveva essere soltanto un monologo, in una sorta di musical. È stata sua l’idea, devo dire geniale, di utilizzare la forma canzone per riassumere in quattro minuti un’emozione».
Che trasformazione c’è stata in Esodo rispetto al precedente spettacolo Magazzino 18 a cui ha fatto riferimento?
«Il testo è più o meno rimasto identico, abbiamo soltanto svuotato. Siamo andati a togliere quello che era l’impianto scenografico, che prima era molto imponente, a favore di un’evocazione della parola. Rimane al centro il racconto, che diventa come una lezione di storia fatta a teatro con gli strumenti che mi sono congeniali. Non è una prosecuzione di Magazzino 18, è un altro impianto drammaturgico, probabilmente più scarno, ma comunque efficace».
Come reagisce il pubblico?
«In tutta l’Italia alla stessa maniera: c’è una grande commozione, a volte anche un senso di colpa per non aver conosciuto prima questa storia e un sentimento di gratitudine per questo racconto».
Per lei è importante dare voce ai vinti? Si considera un artista civile?
«Io sono un rigattiere, un cercatore di tesori nascosti. Quest’attitudine l’avevo fin da bambino, passavo interi pomeriggi a cercare dentro i garage oppure nei mercatini dell’usato. La stessa cosa faccio a teatro: l’attitudine è quella del ricercatore. Mi innamoro di una storia e cerco di approfondirla e restituirla, come una sorta di restauratore, a chi può apprezzarla. Il teatro è diventato per me un’isola di grande libertà, dove posso sperimentare».
C’è un sentimento, una caratteristica comune di questi italiani d’Istria che l’ha colpita?
«La malinconia. Quando parlano della loro terra, della loro vita precedente, lo fanno con un senso di nostalgia per un qualcosa che non potrà esistere più. Mi colpisce sempre emotivamente questo attaccamento alla terra natia, questo patriottismo. Ecco non bisogna mai scambiare il patriottismo con il nazionalismo: il patriottismo ha a che vedere con il cuore, con il sentimento, mentre il nazionalismo è pericoloso, è stato il male del Novecento. Loro invece dimostrano un grandissimo amore per i colori della bandiera, per la propria appartenenza a un popolo, cosa oggi svanita completamente».
Il registro della sobrietà e il raccontare storie di persone, sono state queste le chiavi che le hanno permesso di volare alto?
«Le piccole storie diventano tessere di un mosaico di una storia più grande, è come se fossero tante istantanee, tante fotografie, che poi alla fine rendono completo questo album di ricordi. È chiaro che bisogna contestualizzare storicamente, perché sono passati settant’anni, quindi è cambiato tutto. Parto sempre dalle piccole storie, perché sono come una lente d’ingrandimento, aiutano a mettere a fuoco meglio le cose».
Molte storie saranno rimaste fuori, ce n’è una che rimpiange particolarmente?
«In realtà no, a un certo punto ho sentito che la storia poteva funzionare così. Però ho tolto una parte presente in Magazzino 18, parlava di Goli otok, l’Isola Calva, un lager del comunismo jugoslavo. Questa è una storia che meriterebbe uno spettacolo intero e racconta di quest’unico lager presente in Europa fino al boom economico, un luogo dove venivano imprigionati i comunisti dissidenti. È una storia interessante perché ci restituisce la realtà di chi si opponeva al regime e descrive in toni molto drammatici il trattamento che gli veniva riservato. Per tanti anni le persone che sono vissute a Goli otok non ne hanno voluto parlare».
· Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.
La “Sera di giugno” in cui l’odio comunista spense una vita. Cristiano Puglisi l' 01/02/2020 su Il Giornale Off. Francesco Cecchin era solo un ragazzo. E non era neppure maggiorenne. Ma aveva una passione: il Fronte della Gioventù. Una causa per la quale perse tragicamente la vita, il 16 giugno del 1979, dopo diversi giorni di coma e in seguito a un’aggressione avvenuta per le strade di Roma, in una serata che era iniziata in maniera tranquilla: un’uscita come tante, per una cena fuori con la sorella e un amico, che non poterono salvarlo. Un omicidio, il suo, rimasto senza colpevoli, perché quello che incredibilmente era l’unico imputato, un militante comunista, fu assolto. Una vicenda, quella di Cecchin, cui è stato dedicato uno spettacolo teatrale, ideato per ricordare uno dei tanti e sanguinosi episodi degli Anni di Piombo. Episodi spesso sepolti sotto una coltre di ideologica omertà. Soprattutto quando la vittima si trovava dalla parte “sbagliata”. Si chiama Sera di giugno ed è stato portato in scena ieri sera al teatro Rosetum, di via Pisanello 1 a Milano. Una rappresentazione accolta tra gli applausi, che ha scaldato il pubblico, rinnovando il ricordo del periodo più buio della recente storia italiana. Un periodo in cui molti furono i giovani morti per un’idea considerata sconveniente. E che, per questo, per anni non hanno goduto neanche del minimo conforto. Quello della memoria.
Sergio Rame per il Giornale l'11 febbraio 2020. Anche quando si pensa che il fondo sia già stato toccato, Vauro arriva a fare di peggio. E al peggio ormai non c'è più limite. Nel Giorno del Ricordo, in cui si commemorano gli italiani massacrati nelle foibe durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato secondo dopoguerra, da parte dei partigiani jugoslavi e del Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, il vignettista rosso ha infangato la memoria delle vittime e ferito i famigliari di queste con parole cariche di odio e di una violenza inaudita. "Il Giorno del Ricordo è un trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista", ha tuonato ai microfoni dell'agenzia Adnkronos attaccando, poi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per aver parlato di "crimini di guerra" e non delle "angherie fasciste". Insulti senza precedenti che fanno male a tutto il Paese. "La Giornata del Ricordo non può essere trasformata in quella della dimenticanza. Purtroppo quando la pietà umana diventa un alibi, per il modo in cui è stato istituito il Giorno del Ricordo diventa un volgare e trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista". Ancora una volta il nemico numero uno di Vauro resta Matteo Salvini che oggi, come tutto il centrodestra, è tornato a denunciare i crimini del comunismo. "Trovo ripugnante l'uso strumentale di questa ricorrenza", ha tuonato il vignettista che, intervistato dall'Adnkronos, finisce per prendersela anche con il capo dello Stato. "Mattarella finalmente ha dichiarato che le responsabilità fasciste nella Shoah sono equiparabili a quelle naziste. Ed ha smantellato il mito degli italiani 'brava gente' - ha attaccato - non capisco perché sulla Giornata del Ricordo non abbia applicato lo stesso rigido criterio, parlando di 'angheriè fasciste invece che di crimini di guerra". Dopo aver premesso di condividere "la pietà umana per le vittime e gli orrori" della seconda Guerra Mondiale, ha concordato con quanto detto dalla piddì Debora Serracchiani: "La giornata del Ricordo è il palcoscenico della destra sovranista". Per Vauro, in Jugoslavia, ci sono stati prima di tutto i "crimini di guerra fascisti" e i "campi di concentramento". "Perché il progetto fascista era un progetto di sostituzione etnica, quello che si perpetrò fu un genocidio. E noi - ha, quindi, continuato - eravamo il paese aggressore". Nella ex Jugoslavia, secondo Vauro, l'Italia ha avuto "il ruolo del carnefice". Per questo, a suo dire, "l'uso strumentale di questa ricorrenza è dunque disgustoso". "Perché non c'è un momento in cui si ricordano le vittime jugoslave? O i molti militari dell'esercito italiano che nel Montenegro si unirono ai partigiani jugoslavi, in quanto consapevoli della violenza a cui si era arrivati?", si è quindi domandato. Per poi sentenziare alla fine delle intervista che "la pietà per le vittime non può diventare uno strumento auto-assolutorio o di propaganda becera". L'intervista di Vauro ha suscitato un'ovvia indignazione. "Se la verità è quella che raccontano lui e l'Anpi negazionista mi chiedo perché per decenni non ne hanno mai parlato e anzi hanno cercato in tutti i modi di cancellare dalla memoria nazionale foibe e dramma degli esuli", ha commentato Ignazio La Russa ricordando che, "per fortuna", presidenti della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi, che conferì la medaglia d'oro a Norma Cossetto, e oggi Mattarella hanno fatto "opera di verità rispedendo al mittente ogni tentativo negazionista tanto caro a Vauro". "Anche loro sono pericolosi nazi-fascisti?", ha quindi chiesto. "Anche loro in errore come chi come me, nel 2004 (ero capogruppo di Alleanza Nazionale e secondo firmatario della legge) istituì in Parlamento il Giorno del ricordo?".
Giampiero Mughini per Dagospia l'11 febbraio 2020. Caro Dago, sono reduce da una puntata di “Quarta Repubblica” abilmente condotta da Nicola Porro dov’era al centro la questione (in Italia dimenticatissima) delle “foibe” dove gli italiani vennero massacrati a migliaia “a dove coglio coglio” da furenti partigiani comunisti jugoslavi. In studio c’erano dei civilissimi congiunti di italiani che un giorno erano stati prelevati dai titini e di cui loro non seppero mai più niente. Uno di quei congiunti era stato un capostazione, un altro un poliziotto. Leggo oggi le puttanate pronunciate in materia da Vauro, non sono né le prime né saranno le ultime della sua vita. Vedo che innanzi alla fossa di Basovizza, alcuni esponenti del Pd si sono tirati indietro mentre parlava Maurizio Gasparri perché reputavano che stesse facendo della propaganda politica e non un’asciutta commemorazione. Ieri a “Quarta repubblica” la stessa Giorgia Meloni (che pure è persona civile) ha fatto piuttosto un comizio che una commemorazione. Mi sono ricordato di me giovane apprendista giornalista nella redazione del quotidiano comunista romano “Paese Sera” dove c’era un giornalista di una ventina d’anni più grande di me che era stato un partigiano italiano dalle parti di Trieste. Lui teneva in casa una foto del maresciallo Tito a modo di cimelio. La lacerò quando Tito (e fu una delle sue mosse più geniali, aggiungo io) ruppe con Mosca. Ricordo fra le mie letture più commoventi la lettera che il partigiano liberale Guido Pasolini manda al fratello maggiore Pier Paolo dicendogli quanto lui sia distante dai partigiani comunisti che gli sono attigui, e che se fosse per loro darebbero Trieste e tutto quello che c’è intorno ai “compagni” jugoslavi. Lui e altri partigiani della Osoppo verranno poi massacrati da una gang di delinquenti comunisti capeggiati da “Giacca”, uno di cui non so perché Sandro Pertini lo avesse graziato e fatto destinatario di una pensione pagata dalla Repubblica italiana (“Giacca” viveva in Jugoslavia). Quanto al massacro di quelli della Osoppo, fra cui lo zio del mio fraterno amico Francesco De Gregori, Francesco mi ha raccontato che andò suo padre a fare il riconoscimento del cadavere straziato del fratello. Un bel groppo di questioni. Ovviamente su una tale tragedia io mi auguro piuttosto che di ascoltare dei comizi, di leggere bei libri ricchi di fatti accertati, di nomi e cognomi, di spiegazioni esaurienti del prima e del dopo. E’ verissimo che lo strazio delle foibe è anch’esso una eredità di come il fascismo trattò la minoranza slovena. E’ verissimo che sono infiniti i casi di sopraffazione di quella minoranza durante un ventennio; nel mio libro su Italo Svevo avevo ricordato il caso di quella ragazzina che a scuola era stata appesa per le trecce perché aveva pronunziato alcune parole in lingua slovena. Di certo quando il nostro esercito operò nei territori sloveni si comportò né più né meno da esercito invasore, bruciando e fucilando. I nostri padri (i padri della mia generazione, il mio come quello di Pigi Battista) qualcosa in proposito ci sussurravano. E dunque studiare studiare studiare. Detto questo la tragedia dell’italianità in quelle terre è stata immane. Sono stati girati dei film sulle “quattro giornate di Napoli”, che in tutto e per tutto consistettero in qualche sparatoria sui tedeschi che stavano battendo in ritirata. Mai un cenno sul fatto che a Trieste, dove da un lato stavano arrivando gli inglesi e dall’altro stavano entrando i partigiani titini i quali lo gridavano forte e alto che volevano papparsi Trieste, il genero di Italo Stevo guidò un’insurrezione disperata di patrioti italiani che volevano parare la prepotenza dei titini. In quelle tre giornate di lotta cadde l’ultimo dei tre nipoti di Svevo, gli altri due erano morti durante la sciagurata campagna di Russia. C’è un’abbondante letteratura triestina et similia che racconta quelle giornate in cui i titini spadroneggiarono a Trieste. Trieste tornò ad essere nostra ben nove anni dopo, nel 1954. Perdemmo però l’Istria, la Dalmazia, terre in cui il segno dell’italianità era dominante, assolutamente dominante, imparagonabilmente dominante, e lo dico con tutto il rispetto per gli sloveni di ieri e di oggi. Circa 350 mila nostri connazionali salirono sui treni e sulle navi della fuga forti di una valigia e basta, un esodo biblico, e mentre i giornali ufficiali del comunismo nostrano li trattavano da fascisti. I sindacati delle ferrovie scioperavano contro i loro convogli e a Bologna, è raccontato in uno dei migliori libri su quella tregenda, impedirono ai padri di scendere dal treno e raccogliere dell’acqua per i loro figli assetati. La voce di quei 350mila e dei loro figli purtroppo è ancora fievole nel sentimento comune dell’Italia odierna.
Sylos Labini:”La Patria è un valore che non piace a sinistra”. Il Giornale Off il 10/02/2020. Acceso confronto fra Edoardo Sylos Labini e Paolo Berizzi nella puntata di sabato 8 febbraio a Otto e Mezzo su La7: ospite di Lilli Gruber, Labini ha parlato di Patria, Cultura e Identità con la professoressa Alessandra Tarquini e il già citato Paolo Berizzi. Ci hanno provato, a farlo cadere nel solito tranello che consiste nel rovesciare le tue affermazioni per farti dire quello che vogliono loro, ma il fondatore di CulturaIdentità non ci è cascato e ha replicato alle provocazioni, soprattutto di Berizzi, sullo spauracchio dei “fascisti”: la parola “Patria” nasce con Dante, il padre della lingua italiana e per questo dovrebbe accomunare tutti e non essere un elemento divisivo come vorrebbe certa sinistra. C’entra niente il fascismo. Ed è solo rispettando la nostra identità che si può interagire con gli altri rispettandone le tradizioni, altro che razzismo e xenofobia. “Prima gli italiani” è solo uno slogan, il vero pericolo è il terrorismo islamico, basti pensare alla fuga di cittadini ebrei dalla Francia a causa dei continui episodi di intimidazione razziale. Antisemitismo, con cui certa sinistra ha un problema, vedi la Brigata Ebraica che a ogni 25 aprile deve essere scortata. Negazionismo? E che dire dell’ANPI, che al Senato ha organizzato una giornata di studio sulle Foibe senza contraddittorio?
L’orrore comunista e lo sterminio silenzioso di cittadini italiani. in Approfondimento Di Giovanni Donzelli culturaidentita.it il 10 febbraio 2020. Niente spiega l’orrore delle foibe meglio dei racconti dei sopravvissuti. Pochissimi uscirono vivi da quella barbarie. “Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentì uno dei nostri aguzzini dire agli altri: ‘Facciamo presto, perché si parte subito’. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un fil di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il fil di ferro che teneva legata la pietra, cosicché quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole – Un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo – pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutivi, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese per timore di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo”, raccontò uno di loro. Di ignobile non ci sono solo i fatti, ma la volontà di tenerli taciuti. Le vicende dell’esodo giuliano-dalmata sono un pezzo di storia censurata per decenni. Un vizio anti-italiano che ha umiliato i nostri concittadini discriminati dall’Italia stessa e svenduti dalla cecità antifascista alla prepotenza Titina. Con i partigiani vicini al Pci che collaboravano con gli infoibatori perché volevano che un pezzo di Italia fosse annesso alla Jugoslavia. Un fatto che ebbe un macabro culmine nell’eccidio di Porzus, in cui i partigiani bianchi (fra i quali il fratello di Pasolini) furono trucidati da quelli rossi. “Bisogna che si sappia come un italiano è stato trattato. […],nel 1945 il Tribunale di Trieste, che era sotto il Governo alleato, mi ha bollato come collaborazionista e sono finito in galera per due anni. Non hanno guardato se avevo combattuto per salvare i miei connazionali e le nostre famiglie. Sono stato umiliato”, ha raccontato in un’intervista a “Famiglia Cristiana” Graziano Udovisi, ultimo superstite delle foibe scomparso nel 2010. E poi “quella ragazza sequestrata dai partigiani”, della quale “per tutta la notte si erano sentite le urla mentre la seviziavano e la stupravano in branco”, prima di gettarla viva in una foiba. Era Norma Cossetto, studentessa universitaria figura simbolo del martirio degli infoibati. Uno sterminio che ha provocato decine di migliaia di morti ed oltre 200 mila deportati. Con questa verità ancora oggi la sinistra fa fatica a fare i conti. Oggi invocano l’arrivo dei profughi stranieri, ma quando nel ’47 i profughi italiani furono privati di tutto e costretti ad abbandonare i loro paesi e le loro abitazioni in Istria, Quarnaro e Dalmazia, deportati in treno in condizioni indegne furono accolti a sassate, sputi e lancio di pomodori alla stazione di Bologna dai giovani che sventolavano la bandiera rossa. In Toscana da consigliere regionale feci approvare un viaggio studio rivolto agli studenti presso il Monumento nazionale della Foiba di Basovizza (Trieste): oltre al viaggio del Treno della Memoria, che ogni anno accompagna centinaia di studenti in visita nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau, grazie alla mia mozione la Regione ne organizza uno anche per far conoscere ai giovani il dramma delle foibe. Peccato che il Pd che vi governa da sempre abbia affidato l’organizzazione dell’iniziativa all’Anpi e non alle associazioni di riferimento delle vittime. Grottesco, come se facessero raccontare la storia di Berlinguer a un ex dirigente del MSI, o quella di Almirante a un comunista. La memoria condivisa purtroppo è ancora lontana.
Foibe, quel disprezzo di Togliatti verso gli esuli italiani. Massimo Fochi, professore Storia e Filosofia il 1o febbraio 2020 su Nicolaporro.it. Ho ricevuto questa bella riflessione sul massacro delle foibe e l’ipocrisia di una certa sinistra nei confronti degli esuli italiani da un professore di Storia e Filosofia che con piacere pubblico. Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dall’Istria e dalla Dalmazia. Fuggivano per non morire, fuggivano per non essere infoibati, per non essere perseguitati e torturati. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone. Fuggivano disperati e speranzosi verso la madre patria che invece, per anni, non li riconobbe, non li soccorse e li tenne in centri profughi quasi come vergogne da nascondere! Ma d’altra parte come si dovevano considerare uomini sconsiderati che scappano via dalla “libertà titina” e dal futuro radioso del socialismo? Ma è ovvio: non potevano essere che rigurgiti del fascismo, dei fascisti e dei mascalzoni in fuga! Leggiamo cosa disse Palmiro Togliatti (le cui posizioni sulla questione giuliano-dalmata sono certamente assai controverse), su quei poveri profughi italiani: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.” (Da Profughi di Piero Montagnani su L’Unità – Organo del Partito Comunista Italiano – Edizione dell’Italia Settentrionale, Anno XXIII, N. 284, Sabato 30 novembre 1946). Si avete letto bene. Sono quelli che ora fanno la morale sull’accoglienza! Da non credere. Farebbe quasi ridere se non ci fosse da piangere e da commuoversi per quei poveri fratelli nostri, offesi e vilipesi da una ideologia non meno folle del fascismo. Massimo Fochi, professore Storia e Filosofia.
Foibe, l'Anpi choc sui morti: "Numeri della destra gonfiati". L'Anpi di Bologna chiarisce la posizione sulle foibe: se da una parte non viene negata la drammaticità di quei fatti, dall'altra vengono riletti i numeri, che per la rappresentante bolognese dell'Associazione sono "gonfiati" dalla "destra". Giuseppe Aloisi, Martedì 04/02/2020 su Il Giornale. L'Anpi di Bologna non ci sta a passare per negazionista. Attenzione però ai numeri della tragedia degli istriano-dalmati. Cifre che l'ente associativo sembra voler rileggere al ribasso. L'Associazione nazionale partigiani italiani - com'è spesso accaduto nel corso di questi ultimi anni - ha organizzato più di qualche conferenza per la ricorrenza del Giorno del Ricordo, che è dedicato ai martiri delle foibe. Il 10 febbraio di ogni anno, per via di un provvedimento approvato durante il mandato di un governo presieduto da Silvio Berlusconi, è dedicato ad alcune pagine di storia che, fino al 2004, avevano di rado ottenuto piena legittimazione ufficiale nei libri. Uno di questi convegni - quello previsto per oggi presso la biblioteca del Senato - ha sollevato particolare scalpore. Più di qualche esponente politico della coalizione di centrodestra ha accusato l'Anpi di aver messo in campo una conferenza negazionista e volta alla redistribuzione delle responsabilità di un dramma nazionale che, stando alla storiografia ufficiale, ha ormai ben poco di oscuro. Anche qualche figlio di esuli istriano-dalmati si è detto perplesso sulle argomentazioni che potrebbero essere presentate nel corso della riunione convegnistica. L'Anpi ha centrato la sua manifestazione principale sul "fascismo di confine". La sensazione, che è diffusa, è che si voglia provare a reinterpretare quelle fasi, magari alimentando una narrativa in grado di ridimensionare i crimini commessi dai partigiani di Tito. Ma sarà bene attendere qualche notizia in più sui contenuti del convegno, che tuttavia risulta essere a porte chiuse. Anna Cocchi, il vertice bolognese dell'Anpi, ha chiarito in queste ore la posizione assunta dall'associazione che rappresenta. Stando a quanto riportato dall'Adnkronos, la Cocchi ha voluto sottolineare come l'Anpi non abbia alcuna intenzione di negare la drammaticità delle foibe, aggiungendo però qualche specificazione: "Noi non neghiamo assolutamente le foibe - ha dichiarato - ma la verità va detta per quello che è, non si possono usare strumentalmente e politicamente le foibe come è stato fatto con Bibbiano". L'accento, poi, viene posto proprio sulla natura delle statistiche effettive, che per la Cocchi differiscono da quelle presentate dalla "parte politica di destra". L'esponente emiliana-romagnola ha infatti continuato, spiegando come l'obiettivo dell'Associazione nazionale partigiani italiani sia stato quello di fare "una ricostruzione politica e storica, cosa che l'Anpi ha fatto con una ricerca approfondita sulla storia del confine orientale". E quali sono, secondo la Cocchi, le risultanze di quella indagine? "Purtroppo - ha fatto presente abbiamo potuto constatare, attraverso questo studio, fatto raccogliendo testimonianze da storici, studiosi ed esperti e non da politici, che i dati raccolti - che appartengono alla storia - sconfessano i numeri dei morti sostenuti dalla parte politica di destra che risultano gonfiati". Sarebbe la destra, insomma, a distorcere la realtà storiografica. Nel frattempo, il centrodestra continua ad insorgere: il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha detto che l'Anpi dovrebbe provare vergogna, così come ripercorso dall'agenzia sopracitata. La senatrice Isabella Rauti di Fdi, invece, ha chiesto d'introdurre il reato di "negazionismo delle foibe".
Foibe, Meloni: ''Convegno Anpi revisionista, vogliono minimizzare crimini contro italiani''. Polemiche sul convegno organizzato oggi al Senato della Repubblica dall'Anpi dal "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe". Duro attacco anche dalle associazioni degli esuli. Gabriele Laganà, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. Non si spengono le polemiche in merito al convegno organizzato oggi al Senato della Repubblica dall'Anpi dal "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe" per celebrare il Giorno del Ricordo. Il punto di scontro è che molti, dai partiti del centro-destra fino all’Associazione Nazionale Dalmata e al Comitato 10 Febbraio, sostengono che in realtà l’appuntamento sia un modo per minimizzare o giustificare le orribili violenze contro gli italiani compiute dai partigiani comunisti di Tito. Di questo ne è certa la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che all’Adnkronos ha lanciato un duro attacco agli organizzatori dell’evento: "Il convegno organizzato al Senato della Repubblica dall'Anpi "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe" rappresenta senza dubbio l'ennesima occasione, dal chiaro intento revisionista, di voler minimizzare o provare a giustificare la violenza contro gli italiani. E' un vero e proprio oltraggio agli esuli istriani e dalmati infoibati vittime dell'odio comunista e, ancor più grave, che il tutto avvenga all'interno di un'Istituzione","Non è accettabile - ha continuato la Meloni - che ancora ci sia bisogno di rimarcare che le foibe non sono state un dramma ma un crimine i cui colpevoli troppo spesso non hanno pagato. Anpi senza vergogna”. Le foibe sono profonde cavità carsiche che caratterizzano il territorio giuliano. Al loro interno, anche a guerra finita, gli spietati partigiani jugoslavi e gli uomini della Ozna gettarono, anche vivi, civili italiani di Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, carabinieri, partigiani “bianchi” (cioè non comunisti) e in generale di tutti coloro che si opponevano al Maresciallo Tito. Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, il Parlamento italiano ha ufficialmente riconosciuto il 10 febbraio come "Giorno del Ricordo". L’obiettivo è quello di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati. Eppure oggi c’è ancora chi nega o minimizza gli eccidi compiuti dagli uomini della “stella rossa”. C’è il sospetto che il convegno organizzato oggi al Senato sia indirizzato per portare avanti tesi negazioniste. "Esprimiamo preoccupazione, senza pregiudizio, per l'iniziativa organizzata dall'Anpi domani (oggi, ndr) in Senato in ricordo delle Foibe. Dalla locandina, dai relatori che saranno presenti sembra che l'Anpi si sia fatta promotrice di iniziative che sembrano avere un sapore riduzionista e giustificazionista e se ciò, domani, fosse confermato sarebbe l'ennesima presa in giro proprio alla vigilia della cerimonia ufficiale del Giorno del Ricordo". Lo ha detto all'Adnkronos Carla Cace, rappresentante dell'Associazione Nazionale Dalmata e Comitato 10 Febbraio in merito all'iniziativa organizzata dall'Anpi domani in Senato. Secondo la stessa Cace dalla locandina ''si evince una certa contraddizione dato che si dice da una parte che l'incontro è aperto al pubblico ma allo stesso tempo è scritto che potrà entrare solo chi ha l'invito. Una situazione che preoccupa e che monitoreremo''. Ma vi è anche un altro elemento sospetto che fa ipotizzare che il convegno sia “di parte”: “Rappresentati di varie associazioni- ha aggiunto la Cace- hanno cercato di partecipare all'iniziativa rispondendo alla mail presente nella locandina, ma non hanno ricevuto alcuna risposta. In questo modo non c'è contraddittorio, i partecipanti sono tutti docenti, professori di una chiara matrice politica, non ci sono rappresentanti di associazioni diverse, per così dire opposte". La rappresentante dell'associazione Nazionale Dalmata e Comitato 10 Febbraio ha anche sottolineato che ''l’accostamento di fascismo come causa delle Foibe è quanto di più storicamente sbagliato e quanto di più strumentale ed è una suggestione capziosa che certe realtà utilizzano facendo finta di ignorare che la componente italiana in Venezia Giulia e Dalmazia era una componente secolare e non certo collegata al ventennio e finche si cercherà di analizzare in questi termini la storia del confine Orientale, si cadrà nel giustificazionismo e non ci sarà una vera pacificazione nazionale". Maria Antonietta Marocchi, figlia di esuli istriani, all’Adnkronos ha lanciato un duro attacco per la decisione di affidare all'Anpi la rievocazione ufficiale delle Foibe: "E' gravissimo che l'Anpi organizzi al Senato il seminario sulle Foibe. Cercano di contraddire i fatti, non bastava il silenzio da 50 anni, continuano a nascondere la verità, rimandando l'aggiornamento dei libri di storia". “Trecentocinquantamila persone hanno lasciato la loro terra- ha continuato la Marocchi- perché hanno scelto di restare italiani. Lo hanno fatto per amore della patria, hanno subito terribili sofferenze, ed è ora che questi negazionisti la finiscano, usano le Foibe come se fosse una vendetta per quello che ha fatto il fascismo".
L'Anpi prende il Senato per raccontare le foibe "Offesa inaccettabile". Al convegno sugli eccidi titini neppure un rappresentante degli esuli. Fdi e Fi protestano. Fausto Biloslavo, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. L'Associazione nazionale partigiani tiene oggi un convegno in una sala del Senato giocando d'anticipo sulla giornata del Ricordo delle foibe e dell'esodo del 10 febbraio. E scoppia la polemica. A parte l'impostazione «giustificazionista» fin dal titolo, «Il fascismo di confine e il dramma delle foibe» non c'è neppure un rappresentante degli esuli a fare da contraltare. E l'aspetto più discutibile riguarda proprio il relatore dell'unico intervento, sul «dramma delle foibe», rispetto agli altri tre dedicati al periodo fascista. Franco Cecotti viene presentato come «già presidente dell'Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia». Il relatore, però, è stato eletto nel 2016 segretario del comitato provinciale dal XIII congresso dell'Anpi di Trieste. A fianco, sul sito dell'Associazione partigiani con il suo nome, spiccano due foto dei sostenitori. Anziani veterani con tanto di copricapo filo titino, la «bustina» con la stella rossa. Una foto in primo piano ritrae Drago Slavec, recentemente scomparso, che ha combattuto con Josip Broz Tito in Bosnia. Poi fu catturato dai tedeschi e internato, ma riuscì sfuggire e si unì ai partigiani in Valtellina. Il presidente dell'Anpi di Trieste, Fabio Vallon, eletto con Cecotti, il 12 maggio scorso postava sulla sua pagina Facebook un selfie con la gigantografia del maresciallo Tito a Brioni e la frase «dame el cinque!». L'impostazione del convegno strettamente su invito, presso la Biblioteca del Senato, è chiara. La prima relazione è sulla «nascita del fascismo», poi verrà trattato «il fascismo di confine» e alla fine «i crimini fascisti» con Marta Verginella, storica dell'Università di Lubiana. «Il dramma delle foibe» sarà esposto solo da Cecotti eletto nell'Anpi da chi ha combattuto al fianco di Tito, il carnefice degli italiani. Per Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione degli Istriani, associazione degli esuli con sede a Trieste, «è gravissimo che i partigiani tengano un seminario monco in un'aula del Senato con nessun rappresentante della nostra tragedia». Marcello Veneziani ha lanciato un tweet al vetriolo: «È un'infamia storica e un oltraggio ai caduti nelle foibe (...). La dittatura sulla Memoria sta diventando insopportabile». Fratelli d'Italia con Luca Ciriani ricorda che «le foibe non sono un dramma, ma un crimine. Anche quest'anno l'Anpi cerca di avvelenare la memoria degli infoibati» con un convegno «che sembra proseguire sulla strada del giustificazionismo». Maurizio Gasparri, di Forza Italia, sostiene «che in una sala istituzionale una manifestazione dal sapore equivoco» a ridosso del 10 febbraio «è un'offesa». L'ala dei negazionisti che vorrebbero abolire il giorno del Ricordo rivela: «L'Anpi nazionale quest'anno ha dato disposizione che le sue sezioni non partecipino ad altra iniziativa se non quella, centrale» nella biblioteca del Senato. Sandi Volk, che fa parte dei duri e puri, parlerà a Parma il 10 febbraio sulla foiba «di Basovizza falso storico» anche se è un monumento nazionale. Gli stessi partigiani perdono il pelo, ma non il vizio. L'Anpi di Lecce, pochi giorni fa, ha contestato la decisione del Consiglio comunale di intitolare una via a Norma Cossetto, medaglia d'oro alla memoria bollandola come «una presunta martire delle foibe». A Gorizia, l'Anpi organizza per «il Giorno del ricordo 2020» la proiezione delle «Memorie degli incendi» sui 200 villaggi dati alle fiamme durante l'occupazione tedesca fra Slovenia, Croazia e Italia. Neanche un cenno alle foibe nel documentario finanziato dall'Unione europea.
L'Anpi e il convegno sulle foibe. Scoppia la polemica al Senato. L'Anpi organizza un convegno sul fascismo e le foibe al Senato, ma la politica e le associazioni accusano: "Negazionismo". Giuseppe Aloisi lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. commentaedìL'Anpi, per Donatella Schürzel, ha mosso un "attacco subdolo e negazionista" sul tema delle foibe. Il convegno organizzato dall'Associazione nazionale partigiani italiani presso la biblioteca del Senato, anche per il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, ha un "chiaro obiettivo negazionista". Polemiche simili erano state sollevate anche lo scorso anno, con la stessa sigla organizzatrice protagonista. Ma non in relazione ad una conferenza come quella prevista per domani. La stessa che sembra avere tutti i crismi della ufficialità istituzionale. L'evento rischia di essere travolto da una vera e propria bufera mediatico-politica. La coalizione di centrodestra, che nel 2004 ha istituito per legge il Giorno del Ricordo, sta insorgendo. Ma anche la Schürzel, che è la presidente dell'Anvgd di Roma, si è fatta sentire con chiarezza. Stando a quanto riportato dall'Adnkronos, l'esponente del comitato romano dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha parlato di una "cosa ignobile", riferendosi appunto al convegno che si terrà tra qualche ora. Ma a preoccupare non sono soltanto le tematiche che verranno esposte: la presidente ha rimarcato come non tutti gli interessati possano accedere all'iniziativa, che è dunque riservata agli invitati. Le domande provenienti dal comitato sono dirette e precise: "Forse perché ha paura di qualcuno che possa creare un contraddittorio? O teme di avere rappresentanti di esuli o parenti e amici di persone finite nelle foibe che possano testimoniare che questa è storia e verità e non ipotesi e illazioni?". Ci si chiede dunque quali siano le ragioni dietro le porte chiuse. Nonostante la ricerca storiografica, quindi, sembrano persistere tentavi volti a dubitare della veridicità del dramma degli infoibati o quasi. Vale la pena sottolineare come, dal punto di vista contenutistico, la linea perseguita dall'iniziativa dell'Anpi debba ancora essere verificata. Se non altro perché l'evento non si è ancora tenuto. Ma qualcosa nell'aria c'è. E la Schürzel lo ha fatto notare, concludendo in questa maniera: "Certo è che l'Anpi, forse presa da sconforto per il fatto che il giorno 10 febbraio il Senato insieme alla Camera celebrerà il giorno del ricordo a palazzo Madama, ha pensato di passare sottotraccia e fare, in un luogo attinente allo stesso Senato, un convegno dai toni quantomeno ambigui e oscuri". Si tratterebbe di una contromossa, insomma. Sul manifesto dell'iniziativa sono stati riportati gli interventi. Tra questi, è previsto quello della storica Anna Maria Vinci, che parlerà di fascismo di confine. Lo stesso titolo della conferenza può essere indicativo: "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe". Il sentore insomma è che l'Anpi possa provare a ridistribuire le responsabilità di quei fatti, che sono ormai invece storicizzati. Il senatore di Fratelli d'Italia Luca Ciriani è poi intervenuto nel corso della serata, invitando tutti a tenere presente le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla tragedia vissuta dagli istriano-dalmati. Ciriani, secondo quanto ripercorso anche dall'Agi, ha voluto rammentare come le foibe siano state un "crimine". E l'Anpi, per l'esponente del partito guidato da Giorgia Meloni, "cerca di avvelenare la memoria degli infoibati". Toni simili a quelli utilizzati da Emanuele Merlino, che è il presidente del Comitato 10 Febbraio: "La storia delle foibe e dell'esodo merita rispetto", ha esordito. Poi la stoccata: "Strumentalizzarla ai fini ideologici come sembra fare l'Anpi non solo è scorretto ma è anche un'ulteriore ingiustizia a chi ha tanto sofferto". Vedremo se nel corso delle ore ci saranno altri sviluppi sul caso, che per Merlino rappresenta una vera e propria "ennesima vergogna".
Il Pd via da Basovizza per protesta. Ignorano le foibe per anni e ora s’infuriano se ci va la destra. Redazione de Il Secolo D'Italia lunedì 10 febbraio 2020. Il Pd se ne va dalla foiba di Basovizza per protesta. Motivo? Gli interventi del presidente della Regione Friuli Massimiliano Fedriga e del senatore di FI Maurizio Gasparri, che si trovava lì in rappresentanza del Senato. In pratica non hanno perso occasione per fare una sterile polemica in un giorno che dovrebbe unire nel ricordo tutti gli italiani. I parlamentari dem – la deputata Debora Serracchiani e i senatori Luigi Zanda e Tatjana Rojc – hanno preferito andarsene. “La Foiba di Basovizza ormai è palcoscenico della destra sovranista”, ha detto un’inviperita Serracchiani. “Il nostro impegno è sempre maggiore affinché questo giorno sia una solennità in cui si condivide pietà e giustizia e non un’occasione per spingersi in prima fila alla ricerca delle telecamere”, ha specificato. Parole che non convincono a fronte di una vergognosa defezione da una cerimonia molto partecipata. Erano presenti in migliaia, con numerose rappresentanze delle scuole, nonostante la pioggia. La cerimonia ha avuto il via con il rituale ingresso sulla spianata dei medaglieri delle associazioni d’Arma, dei gonfaloni dei Comuni, con in testa quelli di Trieste e Muggia, seguito dall’alzabandiera sulle note dell’Inno di Mameli. C’erano anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Inca, il prefetto di Trieste, Valerio Valenti e il sindaco del Comune di Trieste, Roberto Dipiazza. E ancora il presidente del Comitato per i Martiri delle Foibe, Paolo Sardos Albertini, i vertici delle associazioni dell’Esodo istriano-giuliano-dalmata. Tantissimi i pullman da tutta la regione, dal Nordest e dalla vicina Slovenia, i gruppi e le associazioni combattentistiche e d’arma presenti, con i propri labari. Alla Santa Messa officiata dal vescovo di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi, la lettura della Preghiera per gli Infoibati, scritta dall’allora Arcivescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, e una serie di poesie e riflessioni lette dagli studenti.
Basovizza, l’intervento di Gasparri. ”Noi sapevamo: tanti, troppi, negavano. – ha detto nel suo intervento Maurizio Gasparri – Venivamo giovani, 40 anni fa, col tricolore sull’altipiano. Noi sapevamo: tanti, troppi, negavano. Ci vollero 35 anni perché Basovizza fosse dichiarato Monumento di interesse nazionale nel 1980. Ci vollero 46 anni perché un presidente della Repubblica si inchinasse davanti ai morti di Basovizza nel 1991. Ci vollero 47 anni perché Basovizza nel 1992 fosse dichiarato Monumento Nazionale. Ci vollero 59 anni perché nel 2004 fosse istituito con legge dello Stato il Giorno del Ricordo dedicato ai martiri delle foibe ed al popolo di Istria, Fiume, Dalmazia, costretto all’esodo. Quanto ci vorrà perché scompaiano quelle sacche di deprecabile negazionismo militante biasimate ieri dal presidente Mattarella?”. Gasparri ha anche commentato le parole di Debora Serracchiani: “Basovizza per la Serracchiani è palcoscenico della destra sovranista? Si inchini al ricordo dei martiri e rispetti le Istituzioni. A Basovizza hanno parlato i rappresentanti istituzionali accolti non da proteste ma da boati di applausi”. E ha aggiunto: “Il dramma che questa ricorrenza evoca mi spinge ad evitare di rispondere alla Serracchiani come meriterebbe, perché reputo sia intelligente non alimentare questa polemica. Purtroppo la sinistra su questo versante ha difficoltà che non riesce a superare: invece di rendere omaggio ai caduti alimenta polemiche. Io no, perché convivo con fenomeni legati alla scarsa capacità di comprendere i fatti e sopporto”.
Lollobrigida, il Pd non riesce ad ascoltare la verità sulle foibe. Anche Francesco Lollobrigida, capogruppo FdI alla Camera, ”I parlamentari del Pd abbandonano la cerimonia presso la Foiba di Basovizza perché, dicono, il luogo è diventato un palcoscenico della destra sovranista? Evidentemente per loro è insopportabile ascoltare la verità sui crimini del comunismo. Tratto comune di tutti gli interventi, dalle istituzioni, agli studenti, alle associazioni fino ai prelati, è stata proprio la condanna del silenzio sulle Foibe durato troppo tempo. Il comunismo, almeno quanto il nazismo, è stato protagonista di eccidi di una ferocia diabolica.
Mattarella: «Le foibe una sciagura nazionale». Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Il presidente della Repubblica usa parole decise: «Le foibe furono una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono — per superficialità o per calcolo — il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi». Ieri, alla vigilia del «Giorno del Ricordo», il capo dello Stato Sergio Mattarella ha partecipato al Quirinale a un concerto in memoria degli italiani torturati uccisi nelle foibe, alla presenza di esponenti delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Il capo dello Stato ha invitato a coltivare la memoria «per combattere piccole sacche di deprecabile negazionismo militante», nella consapevolezza che «oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è l’indifferenza che si nutre spesso della mancata conoscenza». «L’angoscia e le sofferenze delle vittime restano un monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali », rilancia il presidente Mattarella, mentre da Marina di Carrara arriva la notizia del danneggiamento di due targhe di marmo per ricordare le vittime delle foibe. «Questi atti vandalici confermano la necessità di mantenere viva la memoria», è il commento di Federico D’Incà, il ministro dei Rapporti con il Parlamento del Movimento Cinque Stelle che stamattina rappresenterà il governo alle celebrazioni che a Basovizza vedranno riuniti un nutrito gruppo di parlamentari bipartisan. Fra questi, oltre al leghista presidente della Regione Massimiliano Fedriga, ci saranno il leader della Lega, Matteo Salvini, la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e gli esponenti dem, Luigi Zanda, Debora Serracchiani e Tatjana Rojc. Prevista anche la presenza del senatore azzurro Maurizio Gasparri. Le celebrazioni cominceranno alle nove e mezza con la deposizione di corone di alloro al monumento della Foiba di Monrupino (Trieste), per poi proseguire alle ore dieci e trenta circa, con la cerimonia solenne al Sacrario della Foiba di Basovizza, monumento nazionale. «La ricerca storica è l’arma più potente contro ogni strumentalizzazione», ha detto Luigi Zanda membro del Senato della Repubblica, dove oggi pomeriggio ci sarà una commemorazione in ricordo delle vittime delle foibe. Alle quattro anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte arriverà a Palazzo Madama per la cerimonia insieme al presidente della Camera Roberto Fico e a quella del Senato Maria Elisabetta Casellati.
Mattarella: "Le foibe una sciagura nazionale. Negazionismo deprecabile, il problema è l'indifferenza". Il presidente della Repubblica interviene in occasione della celebrazione del Giorno della memoria. "Disinteresse e noncuranza si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi". La Repubblica il 09 febbraio 2020. Le foibe furono una sciagura nazionale sottovalutata, ma oggi bisOgna stare attenti, otre, al negazionismo all'indifferenza. Sergio Mattarella parla della tragedia che si consumò nel dopoguerra al confine fra Italia e Jugoslavia nel giorno della Giornata del Ricordo in memoria delle vitTime delle foibe. "Una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono - per superficialità o per calcolo - il dovuto rilievo", dice il presidente della Repubblica. Secondo il capo dello Stato "esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante", ma "oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell'indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi". "La persecuzione, gli eccidi efferati di massa - culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe - l'esodo forzato degli italiani dell'Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell'Europa". "Si trattò di una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono - per superficialità o per calcolo - il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità". "Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti se oggi, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle Foibe e dell'esodo è uscito dal cono d'ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa. Conquistando, doverosamente, la dignità della memoria".
Foibe, Mattarella: “Sciagura nazionale che non ebbe il dovuto rilievo, negazionismo deprecabile”. Redazione de Il Riformista il 9 Febbraio 2020. Il 10 febbraio si commemora il giorno del ricordo, per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Una sciagura sciagura nazionale sottovalutata e poco ricordata ma che con le ventate di negazionismo degli ultimi tempi è necessario ricordare. Per questo motivo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella parla della tragedia che si consumò nel dopoguerra al confine fra Italia e Jugoslavia. “Una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo”, dice il presidente della Repubblica. Secondo il capo dello Stato “esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante”, ma “oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi”. “La persecuzione, gli eccidi efferati di massa – culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe – l’esodo forzato degli italiani dell’Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell’Europa”. “Si trattò di una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità”. “Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti se oggi, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle Foibe e dell’esodo è uscito dal cono d’ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa. Conquistando, doverosamente, la dignità della memoria”.
Mattarella parla delle foibe e da sinistra piovono insulti: “Sei più bravo quando taci”. Redazione de Il Secolo D'Italia lunedì 10 febbraio 2020. Mattarella parla delle foibe come “sciagura nazionale”. E lancia un monito contro il negazionismo ormai non più strisciante che macchia il ricordo collettivo di quella tragedia. E cosa accade? A sinistra scoprono che l’odio alberga anche dalle loro parti. Nel blog “La camicia rossa” di Leonardo Cecchi sull’Espresso si può leggere una raccolta degli insulti e delle critiche becere che sono state rivolte al presidente della Repubblica. “Sei più bravo quando taci”, “Democristiano, stai zitto”, “Ti mancano le basi”, “Vai a dormire”, “Vaffan**o, i problemi sono altri”. Si tratta certamente di rigurgiti rancorosi di una minoranza, che però non trovano adeguato spazio. Quasi si trattasse di una parentesi da far passare sotto silenzio. Con onestà intellettuale il blogger dell’Espresso li sottolinea invece. E li stigmatizza. Prendendo atto che l’odio è trasversale, è un umor nero che contagia tutte le parti politiche e che trova spazio soprattutto sui social. Scrive Cecchi: “E quindi chi ieri, proprio ieri, si spellava le mani per i suoi bellissimi discorsi contro l’odio, chi si è alzato in piedi sentendolo parlare di dialogo e non di scontro, oggi prende quello stesso odio e lo riversa su di lui. Con una cattiveria inaudita. Facendosi uscire dalla bocca parole oscene. Fa dunque davvero riflettere notare che la virulenza dell’aggressione verbale sui social sta divenendo, in Italia, un male diffuso”. Un male che impedisce una memoria serena e condivisa. E abbatte ogni barriera ideologica giungendo ad avvelenare ogni parte del Paese. Conclude Cecchi: “Ma a chi, anche adesso, sta insultando Sergio Mattarella, un ammonimento. A voi, voi che ne acclamavate la figura fino a quando vi ha fatto comodo, diciamo solo una cosa: vergognatevi. Siete, senza dubbio alcuno, addirittura peggiori di quelli che l’odio lo hanno sistematizzato. Perché vi dimostrate ipocriti comportandovi peggio di loro”. C’è chi non tollera quindi che la figura del presidente della Repubblica sia super partes. Bene la presa d’atto dell’Espresso. Si attende ora analoga illuminazione anche in tutta quell’area di sinistra che della lotta all’odio ha fatto un cardine della propria azione politica.
Il Pd censura le vignette sulle Foibe «Offendono il nostro partito e l'Anpi». I responsabili dem a Firenze negano l'autorizzazione per la mostra di Krancic. «Vogliono negare il ricordo della tragedia». Fabrizio Boschi, Sabato 08/02/2020 su Il Giornale. Perché la sinistra è così. Quando si tratta dei suoi va bene tutto. Quando, invece, a fare satira sono gli altri, allora non passa nulla. Come ogni ricorrenza delle Foibe che si rispetti, anche quest'anno, un po' prima del 10 febbraio, è buriana. Al centro del tirassegno questa volta c'è il volto di Alfio Krancic, 71 anni, 40 dei quali trascorsi a disegnare vignette (e da 26 per il Giornale). Lui è particolarmente sensibile al tema delle Foibe in quanto, insieme alla sua famiglia, è stato esule da Fiume nel 1949, quando aveva appena un anno, fuggendo in un campo profughi a Firenze, dove poi si è stabilito. Ebbene, in questi anni Krancic ha disegnato tante vignette sulle Foibe. E al responsabile giovani di Forza Italia di Firenze, Davide Loiero, è venuta l'idea di allestirne una mostra itinerante con una ventina di vignette tra i vari quartieri di Firenze. Missione impossibile. Nella liberal democratica Firenze, i presidenti dei quartieri eletti dal Pd hanno negato l'autorizzazione ad ospitare l'esposizione. «Il tutto seguendo il solito grottesco protocollo - spiega il capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale Jacopo Cellai . Al Q1 ci hanno detto che la decisione spettava al sindaco Nardella; al Q4 che se ne parlava l'anno prossimo, ma che sarebbero dovute essere esposte anche le vignette di altri disegnatori. La risposta più goffa è quella della presidente Perini del Q3 che su Whatsapp ci ha scritto che quelle vignette erano offensive per presidenti della Repubblica, Anpi e Pd. Se non è censura questa Il fatto è che per la sinistra fiorentina meno si parla di Foibe, meglio è». E la Perini mette una toppa che è peggio del buco: «Non è una questione di censura è una questione di educazione e di buon senso». A questo punto Krancic non ce la fa più a stare zitto: «Nella mia satira cerco sempre di colpire di fioretto e mai col bastone. Mi si accusa di attaccare i presidenti della Repubblica? Non è vero: solo Napolitano che non andò a Basovizza. Sull'Anpi poi cosa posso dire? Ogni anno ne inventano unaproprio loro parlano di satira volgare». Ma da quando in qua la satira ha bisogno di giustificarsi? Abbiamo mai sentito Vauro Senesi o Sergio Staino scusarsi per le loro vignette d'odio? Esempi. Staino, 2010. Bobo dice alla figlia: «Novantasei membri del governo polacco spariti di colpo». E lei: «La solita storia, a chi tutto e a chi niente». Riferendosi al governo Berlusconi e alla tragedia aerea che decimò l'esecutivo della Polonia. Vauro, 2016: disegna un piatto di sterco con sopra le candeline, il numero 80 e sotto la scritta «Habby Birthday Silvio». «Sarebbero queste le vignette educate e di buon senso? continua Krancic -. La verità è solo una: nel 2004 quando ci fu un'apertura, la sinistra ha inghiottito a forza il boccone amaro delle Foibe. Ma quel pasto pesante crea ogni anno reflussi gastrici dolorosi. Abbiano allora il coraggio di dirlo: eliminiamo il ricordo delle Foibe e basta. Tanto ogni anno è la solita musica».
Foibe, posta la foto di Tito con il «cuore»: bufera su esponente Pd. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Giulia Ricci. «Oggi così» e un cuoricino rosso, la didascalia della fotografia in bianco e nero del maresciallo Tito. Non molto tempo dopo, la richiesta di scuse da parte del suo partito, il Pd. Ma lui ribatte: «La memoria in questo paese viene distorta». È il segretario del circolo Pd di Bruino, Stefano Marengo, il protagonista dell’ennesima polemica che parte dai social, per una celebrazione che arriva durante il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe». Il primo a esprimere il suo biasimo è proprio Andrea Appiano, l’ex consigliere regionale di cui Marengo è stato portaborse nella scorsa legislatura: «Permettimi di dire che lo trovo davvero di cattivo gusto. Prova a pensarci seriamente un po’ su. Sulle ricostruzioni storiche ci possono essere punti di vista diversi, ma ironizzare su una tragedia è proprio inaccettabile». Il secondo è l’uomo fidato di Sergio Chiamparino, Carlo Bongiovanni: «Oggi hai pisciato fuori dal vaso. Non è fine ma è molto chiaro...». Ma se il presidente del Pd di Torino, Domenico Cerabona, lo difende: «Mio nonno dopo l’8 settembre ha fatto il partigiano con i “titini”, una delle ragioni per cui vado più fiero di portare il suo nome», il segretario metropolitano Mimmo Carretta punta il dito: «è un post sciocco e superficiale, che non corrisponde ai valori del Pd e della sua comunità. La memoria e la storia non si prestano a facili ironie, chieda scusa». Di tutta risposta, Marengo scrive un lungo post di spiegazione del proprio punto di vista: «Come ho ripetutamente scritto nei giorni scorsi – si legge sulla pagina Fb di Marengo - le foibe furono un crimine. Il punto non è questo, ma come la memoria, in questo paese, viene organizzata e distorta. I gravi regolamenti di conti del periodo bellico operati da alcuni dei militanti della resistenza o da loro gruppi - e tra questi regolamenti di conti sono evidentemente comprese le foibe - non possono – continua - in alcun caso compromettere l'onore del movimento partigiano nella sua interezza. Né dall'evidenza dei crimini si può dedurre la responsabilità diretta dell'alto comando partigiano: a quanto mi consta, infatti, manca qualsiasi prova del diretto coinvolgimento di Tito in quelle azioni criminali. Ora, mi chiedo se davvero tutto questo aiuti la costruzione di una memoria collettiva virtuosa, capace cioè di essere indicazione e monito per il presente. La risposta, evidentemente, è no. Il crimine senza appello delle foibe non meriterebbe qualcosa di meglio? Non meriterebbe un'indagine storica seria sulle sue cause e sulle responsabilità di chi si macchiò di quelle azioni turpi? Rinunciare alle semplificazioni e agli slogan e conoscere davvero la storia è l'unico modo che abbiamo, oggi, per rendere giustizia ai morti». Niente scuse, quindi? «Se qualcuno ha mal compreso le mie affermazioni – spiega Marengo - chiedo scusa e me ne assumo la responsabilità. La mia esigenza, tuttavia, è spiegare una posizione che non può essere ridotta a slogan di comodo».Ad attaccare anche il capogruppo della Lega in Sala Rossa, Fabrizio Ricca: «E questi sono quelli che ci fanno la morale? Che chiedono le patenti da democratici? Postando la foto di un dittatore che ha ucciso migliaia di nostri connazionali! Che schifo!»
Un parco per Norma Cossetto? Per i partigiani è "bullismo politico". L'Anpi Pescara contro la decisione del Comune di intitolare i giardini alla giovane uccisa nelle Foibe: "Iniziative culturali tese a riabilitare un passato di cui c'è poco da gloriarsi". Luca Sablone, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. La sinistra riesce nell'impresa di continuare a criticare l'intitolazione di un giardino in memoria di Norma Cossetto, medaglia d'oro al valor civile attribuita dal presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi. L'ultimo episodio si è verificato a Pescara: il Comune si è visto scagliarsi contro l'Anpi, andata su tutte le furie per l'iniziativa nel parco di piazza Italia. L'Associazione nazionale partigiani d'Italia ha definito l'azione un "atto di bullismo politico" il quale non fa altro che aggiungersi alle altre "discutibili 'iniziative culturali' tese a riabilitare un passato di cui c’è poco da gloriarsi". Ovviamente la reazione dell'Amministrazione non si è fatta attendere: è stato sottolineato che in effetti è sorprendente che l'Anpi locale abbia nuovamente colto l'occasione per sposare quello "spirito di polemica e di visione politicizzata della storia". Pazzesco che si debba "artatamente speculare" sulla vicenda di una giovane inizialmente incarcerata senza alcuna colpa dai partigiani comunisti titini, poi stuprata per una notte da 17 aguzzini sul tavolaccio di una scuola e infine seviziata e gettata viva in una foiba per odio etnico, politico e ideologico. "Se non si comprende questo non si comprende nulla su un crimine, purtroppo non il solo, commesso non in una terra occupata, come si tenta di far credere, ma in Italia e su un’italiana", ha tuonato il Comune. Probabilmente per partito preso è stato deciso ancora una volta di cercare uno scontro lì dove invece occorrono "in primo luogo conoscenza ed equilibrio, e poi un doveroso e commosso ricordo nel segno della concordia".
"Partigiani del negazionismo". L'Anpi ha comunque voluto precisare: l'omicidio di Norma Cossetto non è in discussione visto che rappresenta un crimine "e che come tale va condannato". Ci mancherebbe. Ma ecco che arriva la lezioncina storica su quella che è stata l'occupazione nazista e fascista, contestualizzando il tutto solo per mera convenienza: "Libertà e democrazia non fanno parte del bagaglio culturale e ideologico del fascismo e dell’Italia fascista che scatenarono la guerra e si macchiarono di una infinità di nefandezze". Sulla questione si è espresso duramente Roberto Menia, responsabile dei dipartimenti italiani all'estero di Fratelli d'Italia: "Per l’Anpi intitolare un parco alla Medaglia d’Oro Norma Cossetto, violentata e infoibata dai partigiani di Tito perché italiana, è bullismo. Vergogna eterna ai partigiani del negazionismo e dell’infamia!". Una polemica di questo genere sul territorio abruzzese si era già verificata lo scorso anno, precisamente a Chieti l'8 novembre, quando alcuni consiglieri di minoranza erano rientrati in aula senza però partecipare alla votazione dell'ordine del giorno proposta dal consigliere leghista Marco Di Paolo relativa all'apposizione in città di una targa commemorante la 23enne. "Vergogna", aveva gridato il sindaco Umberto Di Primio. Alla fine l'ordine del giorno è stato approvato con i voti dei consiglieri della maggioranza di centrodestra.
Foibe, il giustificazionismo che uccide i martiri due volte. Nel mondo del giornalismo, dell’intellighenzia e degli storici blasonati, gratta gratta, resta sempre la discriminazione fra morti di serie A dalla parte giusta della storia e di serie B da quella sbagliata dei vinti. Fausto Biloslavo, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. La Repubblica di Torino bolla la martire istriana, Norma Cossetto, come “fascista”, il Corrierone descrive pudicamente le parole oltraggiose di Vauro sulla commemorazione delle foibe con il termine “gaffe” nel sotto titolo sul giorno del Ricordo. Michele Serra dedica le prime righe alla tragedia degli eccidi e dell’esodo, che non si possono “negare o ridicolizzare” e poi via con il resto dell’Amaca sulle solite colpe del fascismo che, di fatto, hanno provocato la reazione anti italiana. La Rai viene bacchettata perché relega il 10 febbraio in tarda serata o al mattino presto con una programmazione minima. Quasi tutti i media si sono occupati del ricordo delle foibe perchè devono, ma seppellendo la notizia fra le varie ed eventuali. Un atteggiamento editoriale che fa male e stride rispetto alla più che ampia copertura della giornata della Memoria per l’Olocausto. Una chiara dimostrazione che nel mondo del giornalismo, dell’intellighenzia e degli storici blasonati, gratta gratta, resta sempre la discriminazione fra morti di serie A dalla parte giusta della storia e di serie B da quella sbagliata dei vinti. Il negazionismo, per fortuna, è residuale, ma gran parte della sinistra guidata dal faro tutelare dell’Anpi continua a sostenere il “giustificazionismo”. Il fascismo, l’esercito italiano, le divisioni tedesche hanno compiuto errori e nefandezze, ma ci si ostina a non voler capire che un crimine non può giustificarne un altro. Due violenze solo si sommano, non si elidono e questo continuo richiamo al prima per fare capire il dopo nasconde la solita vecchia accusa che in fondo gli infoibati erano tutti fascisti e ben li sta. Non solo è legge della giungla, ma cozza con la realtà storica dei civili, donne innocenti e pure antifascisti invisi al comunismo di Tito che furono scaraventati nelle foibe. Non è un caso che un grande quotidiano nazionale bolli in un titolo come “fascista” Norma Cossetto specificando, nelle prime righe dell’articolo, che era iscritta ai gruppi universitari del regime. Pure l’astrofisica Margherita Hack partecipava alle gare sportive degli stessi gruppi, ma nessuno le ha mai rinfacciato un passato fascista. Per non parlare dei tanti personaggi che si innamorarono da giovani del Duce per poi cambiare idea e dedicarsi tutta la vita a condannare il fascismo. Il giustificazionismo, anche se sotto traccia e non impugnato esplicitamente, provoca un altro effetto perverso: gli oltraggi di serie A e di serie B. Se spuntano spettri anti semiti con scritte o simboli ingiuriose per le vittime dell’Olocausto diventa, giustamente, un caso nazionale. Se in occasione del 10 febbraio ci sono decine di oltraggi alle vittime del foibe passa in secondo piano. A Trieste è comparsa una scritta ingiuriosa contro Norma Cossetto e i militanti di Casa Pound hanno affisso, in riposta, uno striscione con la scritta “partigiani titini, infami e assassini”. Il giornaletto locale, che fa sempre parte del gruppo Repubblica, dedica una paginata con grande foto alla provocazione dell’estrema destra. Neppure una fotina sulle bandiere jugoslave con la stella rossa di Tito, carnefice degli italiani, che sventolavano al presidio antifascista il giorno del Ricordo nel centro del capoluogo giuliano con tanto di striscione che incitava alla “resistenza” in nome del negazionismo. Due pesi e due misure che alla fine fanno gettare la maschera agli ultimi panda comunisti, come Paolo Ferrero ospite del programma Quarta repubblica. Dopo la solita litania sui crimini fascisti, che hanno provocato le foibe, alla domanda se fosse d’accordo a revocare la più alta onorificenza italiana al maresciallo Tito ha risposto di no spiegando che era un grande leader. E il boia di migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia oltre che di un quarto di milione di sloveni, croati, montenegrini, serbi, compresi i partigiani monarchici anticomunisti che combatterono pure contro i nazisti. Tutti prigionieri di guerra, in gran parte vergognosamente consegnati dagli inglesi ai titini e massacrati a conflitto finito assieme a donne, bambini, suore e preti. Giustifichiamo anche crimini di guerra di questa entità solo perchè si tratta del sangue dei vinti?
I soliti odiatori. Andrea Indini l'11 febbraio 2020 su Il Giornale. Ci risiamo. Come da copione. Mentre l’Italia si stringeva attorno ai sopravvissuti dei rastrellamenti titini, ricordando il terribile martirio delle foibe, la sinistra vomitava il solito odio. Ancora una volta hanno cercato di sbraitare per coprire le preghiere che si alzavano nel Giorno del Ricordo. Si sono preparati con una buona settimana di anticipo. Giorni segnati da ogni sorta di negazionismo. Il tutto nel tentativo di mettere a tacere, come hanno sempre fatto, le barbarie del regime comunista in Jugoslavia. Il culmine, poi, si è toccato ieri con il Partito democratico che al sacrario di Basovizza, monumento nazionale sul Carso triestino, se ne è andato via in blocco quando ha attaccato a parlare Maurizio Gasparri in rappresentanza del Senato (quindi con delega istituzionale). Con la piddì Debora Serracchiani che si è addirittura fiondata a twittare che il Giorno del Ricordo è diventato “un palcoscenico per la destra sovranista”. A rincarare la dose ci ha pensato il vignettista Vauro che sempre più spesso intinge la sua matita nell’odio feroce contro la destra. Ha detto: “È un trucido strumento di propaganda sovranista”. E si è pure lamentato con il capo dello Stato Sergio Mattarella di non aver denunciato le “angherie fasciste” perché, a suo dire, in Jugoslavia fu l’Italia “il Paese aggressore”. Ma non solo. C’è chi, come il Partito comunista di Marco Rizzo, si è spinto più in là, affermando: “Come ogni anno si aggiunge qualche elemento per la falsificazione storica degli avvenimenti del confine orientale. Vent’anni di revisionismo hanno prodotto il totale capovolgimento della realtà storica, grazie allo sconvolgimento e alla decontestualizzazione dei fatti, a una lievitazione dei numeri del tutto arbitraria e priva di criteri scientifici”. In pratica, secondo i nipotini dell’Unione sovietica, gli oltre 10mila italiani infoibati sarebbero solamente un errore di contesto, in quanto “la ricerca storica ha ceduto il passo alle strumentali logiche politiche e ai sentimenti di rivalsa della destra“. Frasi che pesano come macigni sui resti dei nostri connazionali massacrati ed infoibati. Questi, però, sono solo alcuni esempi di una lista (rossa) d’orrore. Ancora oggi le vittime e gli esuli vengono infatti schiacciati dall’odio da chi vuole minimizzare o, peggio, negare questa tragedia. Ci sono voluti 35 anni perché Basovizza diventasse un monumento nazionale. Eppure, ancora oggi, il Pd si permette di censurare la mostra delle vignette del nostro Alfio Krancic per “non offendere l’Anpi”. E ancora: ci sono voluti ben 59 anni perché fosse istituito con una legge dello Stato il Giorno del ricordo. Eppure, come si chiede giustamente Gasparri,”quanto ci vorrà perché scompaiano” tutte queste “sacche deprecabili di negazionismo militante biasimate?”. Probabilmente non andranno mai via. Perché l’odio è rosso, per antonomasia.
· Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.
Le armi dell'esteta D'Annunzio erano anche quelle politiche. Patriottismo, passione adriatica e spirito conservatore sono le idee cardine del Vate. Anche nei giorni di Fiume. Francesco Perfetti, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Un grande scrittore e drammaturgo francese, Romain Rolland - quasi suo coetaneo ma da lui tanto diverso al punto che, pur avendolo frequentato per qualche tempo, non riuscì mai ad amarlo né ad apprezzarlo - disse che in Gabriele D'Annunzio non v'era «nulla di un poeta, nulla di un artista» e aggiunse, con una punta di velenosa malizia, che gli «sembrava un addetto d'ambasciata molto snob». Al di là della cattiveria, tuttavia, la battuta di Rolland, depurata dalla sua carica dispregiativa, coglieva, almeno in un punto, nel segno. Che D'Annunzio, infatti - in realtà grandissimo poeta e animo d'artista, contrariamente al giudizio velenoso e semplificatorio di Rolland - fosse uno snob è fuor di dubbio. Ma era, egli, uno snob sui generis, capace di ironia, anzi di quell'autoironia che lo spinse ad adottare, per firmare certe sue celebri cronache mondane, lo pseudonimo «Duca Minimo», quasi certamente con allusivo riferimento alla sua bassa statura. Che, però - val la pena di rammentarlo - lo accomunava ad altri «grandi», a cominciare dal suo amato Napoleone. Lo snobismo di D'Annunzio era, in un certo senso, insito nella sua stessa natura, era, per così dire, una manifestazione plastica del suo narcisismo e del suo egocentrismo. Era uno snobismo che traduceva, quasi in una ideale autorappresentazione, quel culto per la bellezza al quale egli fu sempre devoto, da giovane e da anziano, da viveur e donnaiolo a letterato e uomo d'azione. La categoria di «esteta armato», introdotta alcuni anni or sono da Maurizio Serra in un saggio dedicato ad alcuni spiriti eterodossi dell'intellettualità europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo, coglie assai bene l'essenza della personalità dannunziana. E, al tempo stesso, spiega la difficoltà di por mano alla stesura di un lavoro biografico esaustivo di una figura e di una personalità tanto sfaccettate e poliformi. Occorrono, per un'operazione del genere, equilibrio storiografico e sensibilità artistica, competenza letteraria e attitudine psicologica, oltre che, naturalmente, capacità ed eleganza di scrittura. La più recente (e, allo stato, la migliore e più suggestiva) ricostruzione biografica del poeta-soldato è stata scritta proprio dall'ambasciatore Maurizio Serra, il quale al suo «esteta armato» ha dedicato un corposo volume dal titolo L'Imaginifico. Vita di Gabriele D'Annunzio (Neri Pozza, pagg. 720, euro 25) che in Francia, dov'è stato originariamente pubblicato, ha ottenuto due prestigiosi riconoscimenti, il Prix Chateaubriand e il Prix dell'Académie des Littératures. Il pregio di questa biografia, frutto di anni di ricerche, sta nel tentativo, a mio parere ben riuscito, di non isolare, ovvero far prevaricare, all'interno della narrazione la figura del letterato o dell'artista rispetto a quella dell'eroe o del politico o, infine, anche del crepuscolare esiliato nella dorata e quasi rinascimentale residenza del Vittoriale. D'Annunzio, l'«esteta armato» D'Annunzio, è un caso unico nella cultura italiana del primo Novecento, non solo e non tanto per la poliedricità della sua persona - per quell'essere, insomma, al tempo stesso, poeta e artista, dandy e seduttore, condottiero e visionario politico - quanto per aver inscritto tutte queste sfaccettature della sua personalità, la personalità di un «poeta in azione», sotto l'insegna di una avventura continua e senza fine. Per Maurizio Serra, tuttavia, D'Annunzio non è affatto un avventuriero, bensì un «vero principe dell'avventura, precursore e fratello maggiore dei Lawrence d'Arabia, Saint-Exupéry, Malraux e Roman Gary». È un termometro, si potrebbe aggiungere, che registra gli stati febbrili di tutta un'epoca attraversata in tutti i campi culturali e politici da pulsioni rivoluzionarie, al di là del bene e del male, di ogni tipo e di ogni colore. Leggere D'Annunzio, e ricostruirne le vicende umane, alla luce di una ideologia politica o anche soltanto di una passione politica sarebbe del tutto fuorviante. Egli non fu mai un politico nel senso proprio del termine. Fu, semmai, un letterato che pensava alla politica, in tutte le sue possibili manifestazioni, con l'aristocratica supponenza di chi in essa vedeva uno strumento per soddisfare o, in qualche misura, esaltare il proprio narcisismo e la propria volontà di azione. Il cimentarsi, lui letterato e poeta, con le schermaglie politiche, prima, e con la guerra guerreggiata, poi, non era che un modo di mostrare, a se stesso prima che agli altri, di saper «osare l'inosabile». Era, ancora una volta, una manifestazione di quello snobismo aristocratico proprio dell'«esteta armato». Tuttavia, D'Annunzio passioni politiche ne ebbe. Il suo patriottismo, molto risorgimentale invero, era un sentimento sincero. Come sincera era la sua passione adriatica. In lui ci fu quello che Serra chiama «l'accecamento nazionalista degli intellettuali», proprio degli albori di un secolo battezzato dalla Grande Guerra, ma il suo nazionalismo non aveva nulla a che fare con quello delle organizzazioni politiche nazionaliste propriamente dette. Si trattava, piuttosto, di un nazionalismo che esprimeva un sentimento generalizzato all'epoca in diversi Paesi europei e in diversi strati sociali e che comunque, nel suo caso, non perdeva di vista il contesto internazionale. Assai più discusso e controverso è il rapporto di D'Annunzio con Mussolini e con il fascismo. L'immagine del poeta-soldato come «Giovanni Battista del fascismo» per troppo tempo e con troppa leggerezza è stata accreditata sia da una letteratura fascista o filofascista in cerca di quarti di nobiltà culturale, sia da una letteratura antifascista e anti-dannunziana appiattita sull'ideologismo democratico e pacifista e tutta tesa a creare una linea di continuità fra i rituali del fascismo-regime e quelli che si svilupparono a Fiume durante il periodo dell'impresa dannunziana. Che tra il poeta e il duce non corresse buon sangue, malgrado gli apprezzamenti reciproci e di circostanza che i due si scambiarono, è un dato di fatto. Come, pure, è un dato di fatto che il «politico» Mussolini cercasse di neutralizzare la paventata concorrenza politica del «poeta dell'azione», ovvero dell'«esteta armato». Quale fosse il reale sentimento del duce nei confronti del suo amico-nemico lo fa ben intendere una sua riflessione sui costi che il regime sopportava per onorare e tenersi buono il poeta: «D'Annunzio è un dente cariato che bisogna riempire d'oro». Sul rapporto fra D'Annunzio e il fascismo, il giudizio di Maurizio Serra è corretto ed equilibrato, oltre che pienamente condivisibile: «D'Annunzio alla fine si è schierato con il fascismo, obtorto collo, dopo averlo contrastato. Ma se ha accettato il regime in mancanza di meglio, è altrettanto vero che non è mai stato fascista, né con il cuore né con la ragione, e il suo rivale Mussolini seppe metterlo in condizioni di non nuocere, ricoprendolo di onori con l'intento manifesto di soffocarlo». Il capitolo che Serra dedica ai «cinquecento giorni» di Fiume, quelli che vanno dal pomeriggio del 12 settembre 1919 al Natale di sangue del 1920, è uno dei più coinvolgenti del suo volume, non solo per la ricchezza delle informazioni (a cominciare da quelle relative ai finanziamenti dell'impresa) e per la ricostruzione del «clima» della «città di passione», ma anche, e soprattutto, perché consente di rivedere alcuni giudizi largamente diffusi. Come, per esempio, quello relativo alla perfetta sintonia che ci sarebbe stata fra D'Annunzio e De Ambris sia sulla Carta del Carnaro, «il più originale e insieme il più equivoco dei documenti usciti dall'esperienza dei cinquecento giorni», sia sulla loro visione politica. Se l'ideologia dannunziana oscillava, secondo Serra, «tra l'internazionalismo dei principi e il nazionalismo delle azioni» era evidente che «D'Annunzio non condivideva le concezioni più radicali di De Ambris e ancor meno la prospettiva di trasformare, prima o poi, la Repubblica in Soviet», perché «nonostante le provocazioni, il gusto per la rivolta, il desiderio di apparire come protagonista di una nuova Europa, egli restava molto più un conservatore che un rivoluzionario». Anche se, potremmo aggiungere, il suo conservatorismo era proiettato verso il futuro.
«1919, Fiume città di vita», ottimo racconto della Storia in tv. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. «La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno», scriveva D’Annunzio il 25 dicembre 1920, «voi volete dare alla storia atroce d’Italia il Natale di sangue…». Il Vate concludeva la sua personale avventura nello stesso tono magniloquente con cui l’aveva iniziata, invocando il sacrificio dei martiri, la strage fratricida e una resistenza disperata e nobile: «Nessuno passerà, se non sopra i nostri corpi». Il 12 agosto 1920 D’Annunzio, Vate e Comandante, decise di trasformare il territorio fiumano in Stato indipendente, proclamandovi la Reggenza Italiana del Carnaro. Fra i primi atti, la promulgazione della Carta del Carnaro, una Costituzione di stampo libertario e socialisteggiante ispirata dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. In essa era prevista la parità dei sessi, il voto alle donne, la facoltà di divorziare e la libertà di culto, l’uso di droghe. Nella città fiumana giunsero personalità del mondo politico e culturale, tra cui Arturo Toscanini e Guglielmo Marconi. Lo Stato Libero del Carnaro fu il primo a riconoscere la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. «1919, Fiume città di vita» è un ottimo programma di Fabrizio Marini e Nicola Maranesi realizzato da Rai Storia in occasione dei 100 anni trascorsi da quell’impresa (ora su Rai Play). Ripercorre gli episodi epici di quei giorni grazie alla ricostruzione storica, alle interviste agli esperti, ai documenti d’archivio, alle fonti autobiografiche e a un viaggio che si snoda attraverso i luoghi simbolo della vicenda dannunziana: da Venezia a Monfalcone, da Ronchi a Cantrida, lambendo il Carso e Trieste, fino ai siti che ancora oggi a Fiume/Rijeka rievocano gli avvenimenti di allora. L’Impresa di Fiume, terminata con le «cinque giornate di Sangue del Natale 1920» e le cannonate della nave «Andrea Doria», indusse molti partecipanti ad entrare successivamente nel partito fascista e a simpatizzare per Mussolini.
UN FIUME DI POLEMICHE SUL “VATE”. Da Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2019. Per inaugurarla il Comune di Trieste guidato dal sindaco di centrodestra Roberto Dipiazza ha scelto una data simbolica: il 12 settembre, nel centenario dell’occupazione di Fiume, l’attuale Rijeka. E così la statua di Gabriele D’Annunzio, che guidò la spedizione, diventa un caso diplomatico. Perché il ministero degli Esteri della Croazia ha consegnato una nota di protesta verbale all’ambasciatore italiano Adriano Chiodi Cianfarani. Anche la presidente croata, Kolinda Grabar Kitarovic, condanna lo svelamento della statua definendolo su Twitter “inaccettabile” perché celebra “irridentismo e occupazione”. Per Kitarovic il monumento è “scandaloso”: la cooperazione croato-italiana “oggi è basata su valori che sono completamente contrari”, scrive. “Mina le relazioni amichevoli” – Nelle comunicazioni al diplomatico, il governo croato ha spiegato che “sebbene si sia trattato di una decisione delle autorità locali e non nazionali”, l’inaugurazione della statua, realizzata dallo scultore e medaglista Alessandro Verdi, come “il ricordo dell’anniversario dell’occupazione di Rijeka in alcune altre città italiane, non solo mina le relazioni amichevoli e di buon vicinato tra i due Paesi, ma è anche il riconoscimento di un’ideologia e di azioni che sono in profondo contrasto con i valori europei”. Nella nota, dunque, si fa anche riferimento ai 150mila euro stanziati dalla Regione Abruzzo per le celebrazioni del centenario della “Impresa di Fiume” decise dalla maggioranza guidata da Massimo Marsilio di Fratelli d’Italia.
Dipiazza: “Fu un grande italiano” – “Come sindaco di Trieste – è stata la reazione di Dipiazza su Facebook – ho sentito il dovere di omaggiare un grande italiano, un grande poeta, un grande letterato come Gabriele d’Annunzio, che ha vie, piazze e scuole che lo ricordano in tutto il Paese. Ricordiamo un grande italiano in una città che viene scoperta ogni giorno da tanti turisti che arrivano dall’Italia e da tutto il mondo. Continuiamo così perché siamo sulla strada giusta”. Una scelta quella della giunta di centrodestra guidata che nei mesi scorsi aveva provocato molte polemiche anche in città, sfociando in una raccolta firme online.
Contro la statua si è espresso anche il sindaco di Rijeka, Vojko Obersnel, che ha definito il poeta “un precursore dell’ideologia fascista” e condannato “fermamente” il monumento, la cui inaugurazione “non può essere intesa in altro modo che come una glorificazione dell’occupazione violenta di una città”. Per Obersnel l’amministrazione di D’Annunzio, durata sedici mesi, fu “un’epoca sanguinosa e difficile per Fiume che vide la rovina della propria economia e una degenerazione generale”. I legionari guidati dal poeta, entrati in una città libera e prosperosa, ha detto Obersnel, “imposero con la violenza il loro potere per terrorizzare la popolazione croata e non-italiana“.
E a Rijeka compare bandiera italiana. La stampa di Zagabria, tra l’altro, riferisce che nella notte sconosciuti anno innalzato la bandiera italiana sul Palazzo del Governatore, che durante l’occupazione della città contesa dall’Italia e dall’allora Jugoslavia venne usato da D’Annunzio come sua residenza. Sul posto è intervenuta la polizia, che ha rimosso la bandiera e ha spiegato che si trattava di quella del Regno d’Italia, non di quella attuale della Repubblica italiana. Sul posto sono stati rinvenuti anche dei volantini ma non ne è stato precisato il contenuto. Due giovani italiani, di 19 e 20 anni, sono stati intanto fermati questa mattina davanti allo stesso Palazzo, con delle bandiere italiane.
I manifesti del Veneto fronte skinheads. Alcuni manifesti inneggianti all’annessione di Fiume all’Italia sono invece stati affissi a Trieste, Verona, Padova e Bolzano dai neonazisti del Veneto fronte skinheads. A Trieste, in particolare, l’affissione è avvenuta sulla sede del consolato croato in piazza Goldoni. Le foto sono state pubblicate sul sito del quotidiano della minoranza slovena Primorski dnevnik. I manifesti, oltre alla foto di Gabriele D’Annunzio e la bandiera italiana, citano la frase che il poeta pronunciò entrando a Fiume alla guida di circa 2mila legionari: “Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, sento di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d’Italia proclamando l’annessione di Fiume alla Patria. Quis contra nos?”.
UN FIUME DI POLEMICHE SUL "VATE". Giordano Bruno Guerri per il Giornale il 13 settembre 2019. Gli anniversari, in Italia, finiscono spesso per risultare più divisivi che unificanti, un'occasione per ripescare e ravvivare antiche fratture. Fu così per i 150 anni dell'Unità, quando si dovette ricordare ai celebranti in quale modo violentissimo fu imposta al Sud, con la sanguinosa repressione del cosiddetto «brigantaggio». Non è colpa degli italiani, piuttosto del modo in cui da noi viene bistrattata la storia. Si stenta e si tarda - di decenni, a volte di secoli - a fare i conti con il passato, rifugiandosi nei miti rassicuranti delle nozioni (poche) ricevute. Così, per esempio, la Controriforma passa senza dubbi per buona cosa, perché riportò la Chiesa di Roma un passetto più vicino a quel cristianesimo che doveva difendere e pose le premesse per un clero meno corrotto; ma in genere si trascura di informare che l'istituzione dell'Indice dei libri proibiti e l'occhiuta vigilanza controriformista su ogni attività culturale recise per sempre quell'arteria giugulare che nel Rinascimento aveva fatto dell'Italia il paese più colto e avanzato del mondo. Allo stesso modo, se ancora siamo qui a paventare un ritorno al fascismo per ogni ragazzotto ignorantello a braccio destro levato, è anche perché per decenni, dopo il 1945, chi deteneva le leve del potere politico e culturale ha preferito ignorarne le cause e gli sviluppi, limitandosi e sostenere la vulgata parzialissima di una borghesia che difendeva i propri interessi con la forza. Come dire, per descrivere l'universo, che è tanto grande. Non mi aspettavo dunque che il centenario dell'Impresa di Fiume passasse senza contrasti, quando ho pubblicato un libro sull'argomento e mentre preparavo varie manifestazioni per conoscere e capire meglio cosa accadde davvero nella «Città Olocausta», divenuta «Città di Vita» con un artificio retorico di Gabriele d'Annunzio. C'era da sciogliere soprattutto un nodo, già noto agli storici come fasullo ma ancora ben stretto nella vulgata: la convinzione che l'Impresa sia stata una prima prova, se non la genesi, del fascismo. Tutto ciò benché la Carta del Carnaro, scritta da d'Annunzio e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, sia una delle costituzioni più avanzate e democratiche del Novecento. Hanno abbattuto la tesi dell'impresa fascista, decennio dopo decennio, Nino Valeri, Renzo De Felice, Emilio Gentile, George Mosse, Michael Arthur Ledeen, Francesco Perfetti, Claudia Salaris, in questi giorni Maurizio Serra con il suo L'imaginifico (Neri Pozza). Il convegno che si è tenuto al Vittoriale dal 5 al 7 settembre (quasi trenta storici, per la prima volta anche croati) ha confermato in abbondanza questa direzione degli studi, rafforzandola. Certo, la vulgata, ovvero l'opinione popolare, è difficile da cambiare, si tratta di un'operazione lenta e faticosa, ma le decine di conferenze, commemorazioni, convegni che si sono svolti ovunque in questi mesi, andavano tutti in quella direzione; la Festa della Rivoluzione - così si è chiamata la settimana dannunziana a Pescara - ha avuto un enorme successo di pubblico, proprio in quella città natale di d'Annunzio che una giunta grossolana aveva voluto platealmente «dedannunzizzare»; e se il Vittoriale degli Italiani aumenta i visitatori ogni anno è anche per questo motivo. Qualche problema c'è stato a Trieste, ma non per la grande mostra «Disobbedisco», quanto perché qualche esponente della sinistra, ancora preda della propaganda mussoliniana, ha lanciato con scarso esito appelli e sottoscrizioni contro il progetto di onorare il Vate con una pacifica scultura meditativa nella bella piazza della Borsa. La statua verrà inaugurata oggi, omaggio a un grande poeta, irredentista per Trento e Trieste. Anche se molti si sono dimenticati che per quelle due città gli italiani fecero, nel 1915-18, la «Quarta guerra d'Indipendenza». Per il resto, convulsioni di fronte all'affermazione di un d'Annunzio non fascista si sono avute solo all'estrema sinistra (un articolo sul manifesto in puro stile anni Cinquanta) e soprattutto da parte di più o meno colti velleitari di estrema destra, rabbiosi di vedere togliere dalla storia del fascismo un pezzo tanto pregiato come d'Annunzio. Se ne faranno una ragione, se e quando arriveranno a capire la differenza tra patriottismo e fascismo. È più comprensibile, infine, la presa di posizione del sindaco di Fiume, che addirittura vede nell'impresa la genesi del nazifascismo: lì sono ancora vittime della vulgata titina, più recente di quella di Mussolini. La storia a volte procede a salti improvvisi, ma le revisioni sono sempre lente.
Aurora Vigne per il Giornale il 13 settembre 2019. Dopo le polemiche del Pd, ora anche la Croazia ha condannato la decisione della città di Trieste di erigere un monumento a Gabriele D'Annunzio. Nella nota consegnato oggi all'ambasciatore italiano a Zagabria, Adriano Chiodi, si legge che si tratta di una "decisione di autorità locali" e non dello Stato. Inoltre, sempre nella nota del Ministero degli Esteri croato si legge che "questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell'anniversario dell'occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due paesi e onora un'ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Si tratta di una scultura del bergamasco Alessandro Verdi e rappresenta il Vate seduto su una panchina che legge melanconico un libro. Una scelta quella della Giunta di centrodestra guidata da Roberto Dipiazza di dedicare al Vate un monumento nel cuore della città che ha provocato molte polemiche, sfociando anche in una raccolta firme online tra detrattori e sostenitori dell'idea del Vate. In prima linea, naturalmente, i paladini del politicamente corretto che definiscono "offensiva" la statua. Anche il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, aveva sentenziato affermando: "Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?". "Tutta l'Italia è piena di viali e scuole dedicate a D'Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili" ha detto nel suo intervento il sindaco Dipiazza, aggiungendo che " con questa statua ricordiamo un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui". Inoltre, c'è da ricordare che proprio quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. "Passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio" aveva spiegato Guerri a il Giornale.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 settembre 2019. Caro Dago, mi ero immaginato - Dio quanto sono stupido! - che qualcuno del nostro neonato governo rispondesse garbatamente ma nettamente al governo croato che ci sta squassando le balle perché a Trieste è comparsa una statua di Gabriele d’Annunzio che sta leggendo un libro con un gomito appoggiato a una pila di libri, una statua che bissa quelle già esistenti per le strade di Trieste e dedicate rispettivamente a James Joyce e a Italo Svevo. Il custode per antonomasia della memoria di D’Annunzio in Italia, ossia il mio amico Giordano Bruno Guerri, ha già detto che in quella statua non c’è la benché minima allusione aggressiva nei confronti della Croazia o comunque degli slavi che hanno vissuto al confine con l’Italia. Gli esponenti del governo croato dicono che è intimidatorio nei loro confronti l’avere piazzato la statua di D’Annunzio a Trieste nel giorno centenario della cosiddetta “Impresa di Fiume”, quando D’Annunzio e molti italiani al suo seguito (alcuni dei quali fra i migliori italiani di quel tempo) si scaraventarono in armi su Fiume e come se qualcuno da noi oggi apprestasse il bis di una tale impresa e di una tale conquista. Era quella un’epoca in cui la maggioranza degli abitanti di Fiume era italiana, semplice semplice. Da qui comincia il ragionamento, se vuole essere un ragionamento che onori la verità. Le cose sono poi andate, quanto al nostro rapporto con gli slavi di confine, nel modo che finalmente sappiamo dopo tre o quattro decenni di oblio: che nel secondo dopoguerra 300-400mila italiani vennero espulsi da quelle terre da cui si portarono una via solo una o due valige, non più che questo, e in Italia i ferrovieri comunisti scioperavano contro di loro da quanto erano “fascisti”. E a non dire il conto macabro degli infoibati, qualcuno di loro sì che era stato fascista ma la più parte - uomini e donne e ragazze - solo perché erano italiani. Mica sto dicendo tutto questo perché invoco una rivincita, ci mancherebbe altro. Il regime fascista fece delle porcherie durante il ventennio e il nostro esercito (di cui faceva parte mio padre) fece delle porcherie quando entrò nelle terre jugoslave. Quel che è stato è stato, ciascuno con le sue colpe, i suoi lutti e le sue memorie. E beninteso siano mille le occasioni di un confronto, di un dibattito, dove ciascuno esporrà la sua parte di verità. Di certo, noi non dobbiamo forzatamente chiedere scusa a qualcuno, o meglio sì: caso per caso. Non ci rompano però i coglioni se mettiamo un simil-D’Annunzio per le strade di Trieste. Quello è pienamente nel nostro diritto, nel diritto della nostra gente, nella memoria alta della nostra cultura. E se non fossero analfabeti, quelli che oggi proclamano una parola sì l’altra pure i diritti degli “italiani” avrebbero dovuto ricordarlo ai nostri amici croati. Garbatamente, ma nettamente.
Fiume e il silenzio della Farnesina. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 14/09/2019, su Il Giornale. Può la commemorazione del centenario di un evento storico trasformarsi in un caso diplomatico internazionale? Se di mezzo ci sono l'Italia, la Croazia, Fiume e d'Annunzio e pure Di Maio sì. Specialmente se tutto il complicato contesto storico viene ridotto al sistema binario di fascismo e antifascismo. Sempre comodo per bagattelle elettorali e rigurgiti nazionalistici. Il centenario dell'Impresa fiumana, celebrato il 12 settembre, è stato, in un certo senso, più dannunziano del previsto. E, a renderlo tale, involontariamente, sono state sia le autorità croate che quelle italiane. Mentre Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, inaugurava una statua del Vate a Trieste il capo di stato croato Kolinda Grabar-Kitar - da Zagabria - twitta inferocita: «Fiume era e rimane una parte fiera della Patria croata e il monumento scoperto oggi a Trieste che glorifica l'irredentismo e l'occupazione, è inaccettabile». Il presidente di uno Stato straniero che pontifica sulla statua di un poeta italiano in Italia. Una follia. Le vanno dietro altri esponenti politici croati e la celebrazione - della statua a Trieste e di una mostra sull'impresa a Fiume - diventa un caso. Il governo recapita persino una nota verbale all'ambasciatore italiano: «L'inaugurazione, come il ricordo dell'anniversario dell'occupazione di Rijeka in alcune altre città italiane non solo mina le relazioni amichevoli e di buon vicinato tra i due Paesi, ma è anche il riconoscimento di un'ideologia e di azioni che sono in profondo contrasto con i valori europei». Un ragazzino viene fermato e portato in questura per aver esposto un tricolore di fronte al palazzo del governo nella cittadina croata, un tempo sede delle truppe del Vate. A una pattuglia privata di aviatori abruzzesi che voleva commemorare l'impresa, viene impedito l'atterraggio in terra croata: «Ci hanno detto di tornare indietro e anzi gli italiani ci avevano detto che ci avrebbero intercettato, in pratica che saremmo stati avvicinati da due caccia militari croati e che in caso di mancato assolvimento all'ordine di tornare in Italia addirittura avrebbero potuto sparare». Tutto surreale. Tutto stupendo. Se non avessimo trascorso parte della giornata insieme a Giordano Bruno Guerri, avremmo giurato che era tutta una sua invenzione, una strategia di marketing - assolutamente dannunziana - per pubblicizzare il Vittoriale, il Vate e le sue opere. Una grande beffa postuma nel nome dell'orbo veggente. Invece, purtroppo, è tutto vero. Ma a stupire non è tanto la canea scatenata dalle autorità croate, quanto il silenzio di quelle italiane. Troppo impegnate ad accaparrarsi le poltrone dei sottosegretari per respingere al mittente una inaccettabile invasione di campo straniera. Se l'era sovranista è tramontata - ammesso che sia mai sorta - lo si vede anche dal punto di vista culturale. La Croazia attacca e l'Italia tace. Luigi Di Maio, neo ministro degli Esteri e dunque titolare del dicastero di competenza, non balbetta neppure un tweet. Troppo impegnato a giocare al risiko degli incarichi giallorossi. La Farnesina pare «abbia preso in mano la situazione». Noi abbiamo il dubbio che Di Maio stia ancora googlando «Fiume» per capire qualcosa di questa strana querelle fluviale. Ma poi dei corsi d'acqua non si occupa il ministero dell'Ambiente? Bocche cucite anche al ministero della Cultura. Franceschini è troppo impegnato a difendere la passerella di Zerocalcare e Saviano all'Aquila per accorgersi di ciò che sta succedendo e rilascia una dichiarazione ai limiti del surreale: «Non accettiamo interferenze, non si censura la cultura». Ottimo. Ma lo dica alla presidente croata, non al sindaco abruzzese. Intanto sotto il sole tiepido di Fiume, tra i cigolii delle gru di un porto arrugginito e l'odore di vecchie cime, l'Italia porta a casa un'altra figuraccia. Da qualche parte, nel frattempo, d'Annunzio se la ride: è rivoluzionario anche cento anni dopo. Riesce a far casino anche da morto.
Calcio, Gabriele D’Annunzio ideò anche lo scudetto: su, fate polemica pure su questo! Tano Canino venerdì 13 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Anche lo scudetto si deve a Gabriele D’Annunzio. Il simbolo del trionfo calcistico, quel riconoscimento che Eupalla, dio del pallone sgorgato dal pennino di Gianni Brera, cuce ogni anno sul petto dei nostri eroi della pedata, ha nel Vate il suo più che illustre ideatore. Ed è persino ovvio che ci sarà qualche imbecille pronto a fare polemica e gridare allo scandalo. Il centenario dell’impresa di Fiume, della Carta del Carnaro, di quel mix indistinto di libertà, strafottenze, indulgenze e intelligenze che portò qualche migliaio di giovanissimi a rispondere all’appello del Poeta-soldato e, quindi, a condividere tutti insieme l’antico ratafià che divenne “il liquore cupo che alla mensa di Fiume chiamavo “Sangue Morlacco”, ha quest’altra chicca da celebrare. E non di poco conto. Da onorare, infatti, c’è il simbolo dello sport italiano più amato. Perché è vero che anche D’Annunzio amava il calcio. Gioco che praticò sin da giovane e per tanto tempo. Almeno fino a quando in un contrasto non finì per rimetterci un dente. E, insomma, a Fiume, durante l’occupazione della terra irredenta che sarebbe infine sfociata nel fratricida Natale di sangue del 1920, l’instancabile poeta organizzò anche una partita tra militari italiani e civili. Proprio in quell’occasione, gli venne in mente di far cucire sulle maglie azzurre indossate dai militari non lo scudo sabaudo, ma quello scudetto tricolore. Non è chiaro come sia terminato quell’incontro. Ma è sicuro che le foto delle squadre in campo fecero il giro. Cosicché, pochi anni dopo, qualcuno degli organizzatori del campionato di calcio ebbe a ricordarsene e la decisione fu presa: la squadra che avesse vinto il campionato si sarebbe fregiata per l’anno successivo dello scudetto cucito sulla maglia. Lo scudetto di Gabriele D’Annunzio.
Trieste, inaugurata la statua di D’Annunzio nel centenario di Fiume. La Croazia: «Scandalosa». Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. Nemmeno il tempo di inaugurarla, che è già stata ribattezzata «la statua della discordia». A cento anni esatti dall’Impresa di Fiume, la figura di Gabriele D’Annunzio non smette di far discutere. Al centro delle polemiche, la decisione del Consiglio comunale di Trieste di dedicare al Vate un bronzo a grandezza naturale nella centralissima piazza della Borsa, presentato giovedì mattina. Realizzato dallo scultore bergamasco Alessandro Verdi, raffigura il poeta seduto a gambe accavallate, assorto nella lettura di un libro. L’iniziativa non ha mancato di suscitare il disappunto del governo croato, rinfocolando i mai sopiti contrasti legati all’eredità dell’esperienza legionaria nell’attuale Rijeka. L’ambasciatore italiano a Zagabria Adriano Chiodi Cianfarani si è quindi visto recapitare una nota ufficiale con cui il locale Ministero degli Esteri ha reso noto che «questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell’anniversario dell’occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due Paesi e onora un’ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei». Dura anche la presidente Kolinda Grabar-Kitarovic, secondo cui la statua - definita «scandalosa» - mira a «celebrare l’irredentismo e l’occupazione» della città di Fiume, che «è stata e resterà una parte fiera della sua patria croata». Non ultimo, il sindaco della stessa Rijeka, Vojko Obersnel, ha definito D'Annunzio «un precursore dell'ideologia fascista», colpevole di aver «imposto con un'occupazione l'autorità italiana a Fiume». Un'epoca «sanguinosa e difficile per la città» a causa di legionari che «imposero con la violenza il loro potere per terrorizzare la popolazione croata e non italiana di Fiume». In difesa del Vate si è subito schierato il principale promotore della statua incriminata, il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza: «Ho sentito il dovere di omaggiare un grande italiano, un grande poeta, un grande letterato - ha dichiarato. Non vedo perché si facciano polemiche per la statua di D'Annunzio che era uno scrittore italiano straordinario. Il Novecento ormai è storia e dobbiamo essere liberi di parlarne e ricordarne gli autori senza farci problemi. Poi da sindaco non credo di dover chiedere il permesso a nessuno». Sulla stessa linea Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani e curatore della mostra «Disobbedisco. La rivoluzione di D’Annunzio a Fiume 191-1920», aperta fino al 3 novembre nel capoluogo giuliano: «Serve una memoria condivisa sull'impresa di Fiume fra italiani e croati - ha detto a margine dell'inaugurazione -. Occorre riflettere insieme su quell'evento. Il fascismo si impossessò a posteriori dell'impresa di Fiume, iscrivendola nel mito della "vittoria mutilata", ma il fascismo non ebbe nulla a che fare con l'impresa di D'Annunzio. Ciononostante, la versione del duce è stata accettata in seguito anche dall'Italia repubblicana e democratica. Così come la versione di Tito dell'occupazione fascista viene accettata dalle autorità croate anche ora che il regime comunista è caduto. Una cosa è certa: la maggioranza dei fiumani come degli istriani era italofona e chiedeva esplicitamente l'annessione all'Italia».
Inaugurata statua di D'Annunzio. La Croazia: "L'Italia offende valori Ue". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Il Pd aveva cercato di bloccare la decisione del sindaco con una petizione. Ora arriva la condanna della Croazia. Aurora Vigne, Giovedì 12/09/2019, su Il Giornale. Dopo le polemiche del Pd, ora anche la Croazia ha condannato la decisione della città di Trieste di erigere un monumento a Gabriele D'Annunzio. Nella nota consegnato oggi all'ambasciatore italiano a Zagabria, Adriano Chiodi, si legge che si tratta di una "decisione di autorità locali" e non dello Stato. Inoltre, sempe nella nota del Ministero degli Esteri croato si legge che "questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell'anniversario dell'occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due paesi e onora un'ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Si tratta di una scultura del bergamasco Alessandro Verdi e rappresenta il Vate seduto su una panchina che legge melanconico un libro. Una scelta quella della Giunta di centrodestra guidata da Roberto Dipiazza di dedicare al Vate un monumento nel cuore della città che ha provocato molte polemiche, sfociando anche in una raccolta firme online tra detrattori e sostenitori dell'idea del Vate. In prima linea, naturalmente, i paladini del politicamente corretto che definiscono "offensiva" la statua. Anche il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, aveva sentenziato affermando: "Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?". "Tutta l'Italia è piena di viali e scuole dedicate a D'Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili" ha detto nel suo intervento il sindaco Dipiazza, aggiungendo che " con questa statua ricordiamo un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui". Inoltre, c'è da ricordare che proprio quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. "Passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio" aveva spiegato Guerri a il Giornale.
"Era estraneo a Trieste". Una raccolta firme contro la statua del Vate. Dopo le polemiche del Pd, una petizione per bloccare il monumento a D'Annunzio. Fausto Biloslavo, Mercoledì 12/06/2019, su Il Giornale. Le statue di Svevo, Saba e Joyce sì, ma quella di Gabriele d'Annunzio, il poeta guerriero, politicamente scorretto, assolutamente no. La chiamata alle armi per bloccare il Vate in forma bronzea a Trieste è una raccolta firme in rete con change.org. La miccia era stata accesa dal Pd locale e alimentata dalla solita schiera dell'intellighenzia politicamente corretta, compresi attori più o meno comici. Solo Claudio Magris ha osato non opporsi a spada tratta alla statua di D'Annunzio nel capoluogo giuliano. «La biografia letteraria e politica di D'Annunzio rasenta il ridicolo ed espone il buon nome dell'Italia al ludibrio mondiale, ma non è il questo il motivo principale della nostra contestazione: D'Annunzio era un aloglotto e totalmente estraneo alla città» sostiene Alessandro De Vecchi, promotore della petizione. E oltre un migliaio di persone gli vanno dietro nello sputtanamento del poeta guerriero, che nasconde una chiara discriminazione ideologica. La scultura rappresenta il Vate seduto su una panchina, in borghese, che legge melanconico un libro. L'opera è dello scultore bergamasco Alessandro Verdi. La statua troverà spazio nella centralissima piazza della Borsa. I detrattori di D'Annunzio sostengono che «la collocazione di fronte al palazzo della Camera di Commercio è offensiva». Alla vigilia della petizione, il Piccolo, quotidiano di Trieste, ha raccolto le voci dei soliti intellettuali, che alimentano il «niet» a D'Annunzio accusandolo, soprattutto, di essere stato un mangia slavi. Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, ha addirittura sostenuto che gli irredentisti come «Nazario Sauro e Cesare Battisti a cui abbiamo dedicato scuole e vie, si rigireranno nella tomba di fronte alla presenza di quella statua». Peccato che Luigi, figlio del martire Battisti impiccato dagli austriaci, partecipò come legionario, al fianco di D'Annunzio, all'impresa di Fiume. Un altro intellettuale politicamente corretto, il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, sentenzia bocciando la statua: «Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?». Forse come tedesco non ha ben presente che quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume partita da Ronchi dei Legionari, ma che aveva uno snodo importante proprio a Trieste. Per questo motivo la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, che verrà inaugurata in luglio. Intitolata Disobbedisco è curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. La statua costa 20mila euro ed è nata «passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio» ha spiegato Guerri a il Giornale. Per ora l'unico intellettuale triestino a non sparare a zero sul Vate in bronzo è Magris. «In questo caso il problema non è la statua, ma avere un giudizio chiaro e onesto su D'Annunzio che, pur avendo scritto tantissime cose anche illeggibili, è autore di alcuni capolavori riconosciuti da tutti e destinati a restare come pochi» ha dichiarato al Piccolo. Il Pd per bocca del capogruppo in comune, Giovanni Barbo, si oppone e propone, al posto del Vate, il pachistano Abdus Salam, premio Nobel per la fisica, che a Trieste ha già il Centro internazionale di Miramare intitolato a suo nome.
Fiume 1919-2019. Diari dalla Città di Vita. Andrea Scarabelli il il 20 settembre 2019 su Il Giornale.
12 settembre 1919. Esattamente un secolo fa, Gabriele d’Annunzio entrava in Fiume d’Italia, “disobbedendo” ai diktat di Società delle Nazioni e compagnia bella, inaugurando quella che Claudia Salaris ha definito, usando un’espressione che ha avuto molta fortuna, «festa della Rivoluzione». Il Vate aveva compiuto la Marcia di Ronchi febbricitante, e sempre febbricitante era entrato nella Città, realizzando un’Impresa annunciata giorni prima da parole irrevocabili, vergate a mano su carta intestata Ardisco non ordisco, quasi in un interiore conto alla rovescia: «Giovedì, nel pomeriggio sarò a Ronchi per partire verso il gran destino». Ancora ignaro del fatto che quella febbre, quel fuoco sacro, sarebbero rimasti accesi per cinquecento giorni, dando vita a un evento sacro e metastorico senza pari, in vista del Carnaro recitò la sua celebre “orazion picciola”. Così Edoardo Susmel ricorderà le atmosfere di quel discorso e il volto del Comandante, illuminato dal sole: «Era di un pallore mortale. La fronte, i radi baffetti, il mento erano incrostati di polvere; ma il suo occhio era vivo e la sua voce, dapprima lenta e fioca, diventò metallica, acuta, penetrante». Innanzi ai convenuti, quella voce proruppe: «Ufficiali di tutte le armi, vi guardo in faccia. La mia volontà usa porre dietro di sé l’irreparabile. Io scrissi ieri, sul punto di partire, a un compagno di fede e di violenza: “Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi”. Ora bisogna – m’intendete? – bisogna che io prenda la città. Sì, è vero, ho la febbre alta. Non so se il mio volto sia pallido o acceso. Ma certo in me arde un demone, il mio demone. E dal male non menomato mi sento, ma aumentato. La sbarra di Contrida è guardata dai moschetti e dalle mitragliatrici di tre Potenze. Spezzeremo quella sbarra. Io sarò innanzi: primo». Tra i narratori di quelle ore, concitate come poche altre, troviamo un giovanissimo cronista, che a onor del vero giunse nella Città Olocausta solo due giorni dopo, il 14 febbraio. Il suo diario, con il titolo Fiume, una grande avventura, è stato appena ripubblicato da Bietti, in una nuova edizione a cura di Daniele Orzati e con una densa postfazione di Anita Ginella dedicata all’autore, Carlo Otto Guglielmino, allora corrispondente del «Corriere Mercantile» di Genova – benché molti dei suoi reportage spediti al giornale fossero epurati, per via della censura intrapresa da Nitti (Cagoia, nell’indimenticabile definizione di d’Annunzio), nel timore che un’eccessiva informazione sui fatti fiumani potesse infiammare troppi animi… Cosa che, puntualmente, accadde.
Nel 1919 Guglielmino aveva diciotto anni, ma aveva già fatto in tempo a fondare il fascio futurista di Genova e tra l’altro – come ricorda Ginella – aveva provato a entrare in Fiume un mese prima della Santa Entrada, anticipando quell’autentico pellegrinaggio (Kochnitzky) che un pugno di mesi dopo avrebbe visto confluire nella Città di Vita artisti e rivoluzionari, letterati e sindacalisti, Arditi ed esteti. Come che sia, l’esito dell’operazione è documentato da una nota sul «Caffaro», pubblicata il 30 agosto: «I Futuristi genovesi – dinamicissima avanguardia di Genova industriale – pronti a qualunque sacrificio contro le sottili arti, le losche insidie e le aperte violenze di un governo che non rappresenta il forte popolo italiano, protestano per l’indegno trattamento usato dalla Questura Italiana al compagno Carlo Otto Guglielmino, arrestato perché diretto a Fiume e ricondotto a Genova alla stregua di un delinquente». Riuscirà a entrare nella Città di Vita, in modo piuttosto rocambolesco, nel settembre di quello stesso anno e nel corso della sua permanenza redigerà un diario, poi ripreso e rielaborato negli anni Cinquanta, una delle testimonianze più asciutte e antiretoriche dedicate all’Impresa. Lavorando nella Segreteria particolare del Comandante, ha modo di registrarne in presa diretta le sensazioni e i cambi d’umore, assistendo altresì a incontri epocali. Davanti a suoi occhi sfilano i grandi protagonisti del Novecento, da Marinetti e Mussolini a Toscanini e Marconi… Un piccolo aneddoto: quando il fondatore del Futurismo giunge a Fiume, vorrebbe arringare gli Arditi, ma d’Annunzio lo ferma. A meno che non reciti a lui – e solo a lui – La battaglia di Adrianopoli, meglio che taccia. «Parlo già troppo io» aggiunge il Vate, sarcastico.
Dalle pagine di Guglielmino emerge anche l’intensa e febbrile attività svolta dal Poeta, che lavora giorno e notte, tenendo discorsi, scrivendo proclami e occupandosi incessantemente di diplomazia. Così ad esempio annota, poco più di un mese dopo la Marcia di Ronchi: «Non so come d’Annunzio regga a tanto sforzo. Non va mai a letto prima di mezzanotte e si alza prestissimo. Scrive, riceve, visita i reparti, tiene discorsi. Mangia di regola nella camera da letto, facendosi portare un pasto leggerissimo. Non beve vino – se non in determinate occasioni – e poca acqua. Dopo ogni pasto si concede una tazza di caffè ed una sola sigaretta, che fuma a metà. Quando è costretto ad accettare l’invito dei reparti ed a mangiare alle loro mense, deve controllarsi: sa che basta un bicchiere di champagne a renderlo vivacissimo. Quando lavora nella sua camera indossa una vestaglia oppure, se fa freddo, il maglione grigio da aviatore». Collaboratore de «La Testa di Ferro. Libera voce dei Legionarii di Fiume», diretta da Mario Carli, Guglielmino ha anche modo di partecipare in prima persona a uno dei colpi di mano organizzati dal futurista Federico Pinna Berchet (il cui resoconto integrale è contenuto nel prossimo numero della rivista «Antarès – prospettive antimoderne», di prossima pubblicazione, tutto dedicato all’Impresa…), annotandone altri, dal furto di autocarri e mezzi militari al dirottamento di vari piroscafi, ovviamente senza colpo ferire, fino all’indimenticabile episodio dei “Cavalli dell’Apocalisse”. Ovvero quaranta cavalli sottratti dall’Ufficio Colpi di Mano e portati nella Città Olocausta. All’impresa segue un ultimatum: o verranno restituiti oppure il blocco della città verrà inasprito. D’Annunzio obbedisce, sennonché al posto dei quaranta purosangue sottratti, giovani e forti, ne rispedisce al mittente altrettanti vecchi e malconci – non prima di averli dipinti di bianco, rosso e verde.
Non mancano nemmeno piccoli aneddoti ed episodi riguardanti il Comandante, vero e indiscusso protagonista di Fiume, una grande avventura. Come una serata del 24 marzo, quando d’Annunzio entra nella Segreteria. In quell’immenso salone, affacciato sulla città e su un mare crepuscolare e sanguigno, quattro genovesi – Guglielmino, Mario Maria Martini, Giuseppe Canzini e Furio Drago – parlano della loro città. Quand’ecco che, improvvisamente, entra il Vate, straordinariamente euforico. Canzini si mette sull’attenti, ma gli viene fatto cenno di sedersi. D’Annunzio chiede notizie di Genova, dopodiché racconta di quando una sera, dopo l’inaugurazione del Monumento di Quarto, era riuscito a sgattaiolare lontano dagli ammiratori per compiere un giro notturno della città vecchia, verso il porto. «Non dimenticherò» mormora, leggermente commosso, «Porta Soprana immersa nel chiaro di luna. Le vecchie pietre sembravano fosforescenti. Il cielo che si vedeva al di là dell’arco era come uno specchio volto verso il mare, che quella sera doveva essere d’argento…». Dopodiché parla di Portofino, di quella piccola cresta sopra il faro, affacciata su due mari, da cui s’intravede da un lato la costa che da Camogli si estende sino a Genova e, dall’altro, il Golfo del Tigullio. Non c’è luogo, in Liguria, che lui ami di più. L’atmosfera è quasi sospesa, descritta da Guglielmino con toni lirici: «Il salone era pieno d’ombra e nessuno pensava ad accendere le luci per non rompere l’incanto di quel momento. Le mani di d’Annunzio tracciavano brevi parabole nell’aria, bianchissime. Fuori il tramonto si spegneva in toni sommessi. Il mare, dopo essere stato di porpora, ora era di un colore indefinibile, come una vecchia seta cangiante». Dopo una breve pausa, assorto in chissà quali meditazioni, d’Annunzio mormora: «Dovete difendere la vostra città da ogni contaminazione, dal troppo frettoloso piccone che non rispetta nessuna memoria del passato e dal cemento armato con il quale l’uomo costruisce in fretta ma dimenticando ciò che è bellezza, ignorando le armonie che si ottengono posando una pietra su l’altra, un marmo su un altro…». Il giovane protagonista di questa storia non sa ancora come quelle parole ispireranno molte delle battaglie giornalistiche che intraprenderà decenni dopo sulle colonne del «Corriere Mercantile» e de «La Gazzetta del Lunedì», finalizzate a difendere la sua Liguria dalla rapace e scellerata distruzione paesaggistica messa in atto nel secondo dopoguerra… Oppure il 2 aprile, quando il suo diario registra una passeggiata primaverile insieme al Comandante, vestito da Ardito e con il cappello all’alpina: «Disse che bisognava andare incontro alla primavera per farle festa; che ogni tanto occorre infiorare le armi perché se no diventano vecchie». Composta da Guglielmino e da altri genovesi, quel primo pomeriggio inondato dal Sole la colonna parte, al canto degli Arditi:
Se non ci conoscete
guardateci dall’alto,
siam fatti per la guerra
siam fatti per l’assalto…
Ad aprire la fila è d’Annunzio, descritto dal diciottenne con toni quasi metafisici: «A vederlo di dietro, con la giubba attillata, i calzoni ampi sugli stivali lucidi, procedere agile su per il sentiero pietroso, sembrava un ventenne. Quando la cima apparve vicina, si voltò a segnarcela e la sua figura, in quel punto, non aveva dietro a sé che il cielo; così incorniciato d’azzurro, stilizzato, con quel volto macerato, a qualcuno di noi parve un Santo guerriero che additasse un Paradiso». Un Paradiso annegato una manciata di mesi dopo nel sangue fraterno, per decreto dei “poteri forti” di allora. Un esito che, tuttavia, non basta a cancellare l’aura sacra di quell’esperienza, unica nel suo genere, apertasi un secolo fa, quando la colonna capitanata da d’Annunzio giunse nella Città liberata. Quando, come scrive Guglielmino meno di settantadue ore dopo quel fatidico 12 settembre, abbrivio di una vera e propria Quinta Stagione sul mondo, «ad un tratto, quasi una marea, si vide la gente avanzare, come impazzita. E nel silenzio esplose il rombo di tutte le campane che suonavano a martello, come quando il fuoco rugge e divora. Ed era veramente un incendio: stava avvampando il cuore della città».
D’Annunzio a Fiume, azione ambigua Libertaria, ma anche intollerante. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. L’impresa di Fiume si colloca in maniera ambigua nella storia del nostro Paese. Cento anni fa, il 12 settembre 1919, Gabriele d’Annunzio si mise alla testa di alcuni reparti militari ammutinati (i suoi «legionari») e occupò quella città della costa adriatica (oggi parte della Croazia con il nome di Rijeka), rivendicandone l’annessione all’Italia per via del fatto che la maggioranza degli abitanti nel centro urbano parlava la nostra lingua, anche se gli accordi del 1915 non prevedevano il suo passaggio sotto la sovranità del Regno sabaudo dopo la fine della Prima guerra mondiale. La conclusione del conflitto aveva visto infatti la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, inizialmente non preventivata, e la nascita della Jugoslavia. Di conseguenza si era aperto un contenzioso tra Roma e Belgrado sul nostro confine orientale, in particolare su Fiume e sulla Dalmazia, che la conferenza internazionale di pace non aveva risolto. D’Annunzio cercò di sciogliere il nodo con la spada: in questo senso la sua azione ebbe un indubbio indirizzo nazionalista e imperialista, oltre che eversivo nei riguardi del governo in carica, guidato dal liberale di sinistra Francesco Saverio Nitti, e più in generale delle istituzioni parlamentari italiane e dell’ordine postbellico definito con il trattato di Versailles. Anche se all’epoca Benito Mussolini appoggiò l’impresa di Fiume soprattutto a parole e non mosse un dito quanto il successivo governo di Giovanni Giolitti, conclusa un’intesa con la Jugoslavia, sgombrò d’Annunzio dalla città con la forza nel dicembre 1920, oggi la destra di ascendenza neofascista rivendica l’avventura fiumana come parte della propria storia: la festa Atreju di Fratelli d’Italia le dedica una mostra che sarà inaugurata il 20 settembre, l’editrice Ferrogallico ha pubblicato il libro a fumetti Fiume o morte, a cura di Federico Goglio, mentre Eclettica propone il Poema di Fiume del padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Sul versante antifascista, in particolare da parte dell’Associazione partigiani (Anpi), forti critiche vengono invece rivolte alle celebrazioni di un’impresa letta come una premessa della dittatura. Sul piano storico il dibattito è più sfumato. Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale dannunziano e autore del recente libro su Fiume Disobbedisco (Mondadori), tende a valorizzare l’aspetto trasgressivo, libertario, movimentista e carnevalesco dell’impresa. Quindi a collegarla non tanto al fascismo, che pure da d’Annunzio mutuò riti e slogan, ma al Sessantotto, come una sorta di «festa della rivoluzione» (la definizione è della storica Claudia Salaris), lontanissima dal rigido culto della gerarchia e della disciplina vigente sotto il regime mussoliniano e anche dall’approccio compromissorio di Mussolini verso il potere costituito. C’è però anche chi, come Enrico Serventi Longhi nel libro Il faro del mondo nuovo (Gaspari editore), evidenzia un forte nesso di continuità fra legionari e camicie nere: a suo avviso lo squadrismo fu «per gran parte il frutto diretto della rielaborazione dell’esperienza fiumana», tanto che la «quasi totalità» di coloro che avevano seguito d’Annunzio «accettò di buon grado il processo di dissolvimento» dell’eredità di quell’avventura «dentro il processo storico di affermazione del fascismo». Tale giudizio può apparire esagerato, visto che legionari fiumani di rilievo, come Alceste De Ambris, si schierarono sul versante antifascista. Ma forse il punto più significativo è un altro. La componente antiautoritaria presente nel fiumanesimo, su cui insiste giustamente Guerri, non è di per sé incompatibile con uno sbocco totalitario. Anche lo squadrismo aveva componenti goliardiche (si pensi all’uso di far ingurgitare alle vittime il purgante olio di ricino). E comunque il vero nodo è la sacralizzazione della propria causa, un radicalismo che squalifica ogni dissenso. A tal proposito la stessa analogia con il Sessantotto, evocata da Guerri, è assai significativa. Proprio dalla contestazione giovanile nacquero infatti gruppi estremisti caratterizzati, oltre che dall’esaltazione della violenza, da una visione manichea e settaria della politica, che in gran parte contraddiceva lo spirito libertario delle origini. Anche il terrorismo delle Brigate rosse e di Prima linea si nutrì in parte dei fermenti sessantottini, proprio come lo squadrismo si era alimentato di quelli fiumani. Lo stesso mito della «Resistenza tradita», così popolare nell’ultrasinistra sorta dalla contestazione, assomiglia parecchio a quello dannunziano della «vittoria mutilata». Anche quando assume una forma trasgressiva, festosa e poetica, l’oltranzismo che attribuisce alla politica una dimensione di scontro tra il bene e il male sfocia generalmente nella delegittimazione dell’avversario, che si esprime magari attraverso la sua messa in ridicolo (si pensi al soprannome «Cagoia» che d’Annunzio usava per ingiuriare Nitti), e quindi nell’intolleranza. A quel punto il passo verso un atteggiamento liberticida non è poi così lungo.
D’Annunzio non fu mai fascista. Molti suoi «legionari» contro il Duce. In un libro edito da Mondadori lo storico Giordano Bruno Guerri ricostruisce le vicende dell’impresa di Fiume: uno spirito libertario che anticipa la rivolta del Sessantotto, scrive Paolo Mieli il 18 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Gabriele d’Annunzio con la sua levriera Crissa in visita a uno dei reparti di «legionari» con cui aveva occupato Fiume il 12 settembre del 1919. Le forze regolari italiane estromisero d’Annunzio dalla città durante le feste natalizie del 1920. L’impresa di Fiume fu una delle avventure più straordinarie del primo dopoguerra. Per sedici mesi (dal settembre 1919 al dicembre 1920) i «legionari» di Gabriele d’Annunzio occuparono la città adriatica dando vita ad una sorta di anticipazione del Sessantotto. Finché il capo del governo italiano, Giovanni Giolitti, pose fine con la forza a quell’esperienza nel cosiddetto «Natale di sangue». L’avventura fiumana suggestionò i contemporanei. Benito Mussolini ne trasse ispirazione per la successiva marcia su Roma, ma ebbe, nei confronti del «Vate» e dei suoi seguaci, un atteggiamento ambiguo. Lenin notò il carattere «rivoluzionario» dell’impresa dannunziana. Antonio Gramsci, evacuata Fiume, provò (inutilmente) a coinvolgere il poeta e i suoi reduci per contrastare le camicie nere che si accingevano alla presa del potere (nell’ottobre del 1922). Esce in libreria il 26 marzo il saggio di Giordano Bruno Guerri «Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920» (Mondadori, pagine 564, euro 28). Mussolini ebbe l’abilità di far dimenticare la propria doppiezza nel corso di quei «sedici mesi», di evidenziare la linea di continuità tra l’impresa dannunziana e la sua. E, nel delicatissimo triennio successivo alla conquista del governo, riuscì a tenere legato a sé d’Annunzio, vellicandone la vanità. In particolare nel momento più delicato: nelle settimane che seguirono il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti (estate del 1924), d’Annunzio divenne quasi un incubo per i fascisti. Quattordici anni dopo, il giorno successivo alla sua morte (1° marzo 1938), il Duce confidò a Galeazzo Ciano la convinzione che se d’Annunzio all’epoca dell’assassinio di Matteotti e della crisi che ne seguì «si fosse schierato contro», sarebbe stato «un pericoloso avversario perché aveva molto seguito nella gioventù». Ma in quella occasione d’Annunzio rassicurò personalmente Mussolini che non avrebbe mosso un dito contro di lui, raccomandandogli di «aver fede intiera» nella sua «lealtà e carità di patria». Per poi aggiungere: «Il mio silenzio e il mio lavoro sono oggi un esempio a tutti gli italiani; non l’uno sarà interrotto e non l’altro». Dopodiché, però, quando a fine luglio del 1924 le cose per il Duce sembrarono volgere al peggio, l’onorevole Tito Zaniboni dichiarò su «Il Mondo» che d’Annunzio aveva scritto in una lettera a un legionario di essere «molto triste di questa fetida ruina». E il poeta non smentì. Non voleva deludere Mussolini, ma neanche i suoi ammiratori che in quei giorni prendevano le distanze dal fascismo. Nato a Monticiano (Siena) nel 1950, lo storico Giordano Bruno Guerri, autore di molti libri importanti, è presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. In effetti a seguito dell’impresa fiumana il prestigio del poeta era altissimo, fa notare Giordano Bruno Guerri nello straordinario Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, che sta per essere dato alle stampe da Mondadori. Molti erano convinti che l’autore de Il piacere potesse costituire un pericolo per il fascismo. Ernest Hemingway, in una corrispondenza dalla Svizzera per un giornale americano, scrisse: «In Italia sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Gabriele d’Annunzio». Condivideva (a modo suo) questa opinione il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma e ora capo della polizia, che nel dicembre 1922 invitò i prefetti a «controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari». Nell’aprile 1923 la Federazione, i sindacati di ispirazione dannunziana e l’Associazione arditi d’Italia si misero assieme nell’Unione spirituale dannunziana, con l’obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata a quella costituzione utopistica che aveva preso il nome di Carta del Carnaro. In seguito, fa notare Guerri, fra l’estate e l’autunno una raffica di perquisizioni e di arresti fece naufragare il progetto. Fu del resto lo stesso d’Annunzio a mettere le cose in chiaro con Mussolini scrivendogli (il 15 maggio 1923): «Io non voglio essere aggettivato… Il nome dannunziano mi era già odioso nella letteratura, odiosissimo m’è nella politica». Un modo quasi esplicito per dirgli che, pur non mettendosi di traverso, non voleva essere strumentalizzato. L’unico intervento del poeta nella vita pubblica fu nello stesso 1923 la difesa della Federazione italiana dei lavoratori del mare (del suo vecchio sodale Giuseppe Giulietti) ad impedire che fosse inclusa nei sindacati fascisti. Nel 1924 l’Unione spirituale dannunziana assunse un atteggiamento sempre più apertamente antifascista: nel corso della crisi successiva all’uccisione di Matteotti, si unì all’opposizione dell’Aventino e tra l’8 e il 10 settembre convocò a Milano un Consiglio nazionale. Qui i reduci dell’impresa fiumana non confluiti nel fascismo presero quella che Guerri considera una «decisione estrema»: vista la volontà del Comandante di appartarsi dalla politica, dichiararono di ispirarsi al pensiero e non alla persona di d’Annunzio, «per il raggiungimento», dissero, «di quegli ideali, consacrati nella sua multiforme attività», di cui avevano fatto il loro «credo». Recuperando le «vecchie consuetudini dell’Ufficio colpi di mano», in pochi giorni, scrive Guerri, «i legionari trasformarono l’Unione spirituale in un’associazione clandestina, con depositi segreti, tessere anonime e una rete di cellule incaricate di sostenere le lotte operaie e tutte le forme di opposizione al regime». Ma era tardi. Troppo tardi. Le «leggi fascistissime» del 1925 «si abbatterono inesorabilmente anche sulla debole coalizione legionaria, di cui», ammette Guerri, «non abbiamo notizie certe se non nelle relazioni della polizia e nei rari opuscoli sequestrati durante la perquisizione delle sedi». Tra novembre e dicembre 1925 l’Unione — «ultima custode militante del fiumanesimo indipendente» — fu travolta dalla repressione. Nel frattempo d’Annunzio non si era ribellato alla svolta autoritaria di Mussolini. Anzi. Tra aprile e maggio del 1925 Mussolini promosse la trasformazione del Vittoriale in monumento nazionale. La generosità del Duce ebbe, secondo Guerri, un secondo fine: «Pagare per il Vittoriale era come ipotecarne l’abitante, che sarebbe divenuto “suo”… e per i più sprovveduti e i faziosi non ha mai smesso di esserlo». In realtà Mussolini «non coprì d’oro d’Annunzio che avrebbe potuto vivere più che bene con i diritti d’autore», bensì «spese per tenerlo occupato e — soprattutto — per cambiarne l’immagine pubblica legandolo al fascismo più di quanto non fosse». In questo clima di «circospetta vicinanza» maturò «una delle decisioni più controverse del Vate» che accettò di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile (a cui si contrappose quello di Benedetto Croce, voluto da Giovanni Amendola) sottoscritto — tra gli altri — da Filippo Tommaso Marinetti, Curzio Malaparte, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti. In realtà, scrive Guerri, d’Annunzio non fu mai fascista. Ne è riprova il fatto che «fra gli oltre ventimila oggetti della sua casa non si trova un solo fascio o elemento che richiami il regime, se non relegato tra i doni che riponeva nel solaio». Parlava, il Vate, di «camicie sordide», mai di camicie nere; non celebrava le date sacre del regime e aveva quasi sempre parole di disprezzo per i gerarchi. Rispettava in Mussolini il demiurgo capace di realizzare «quel che a lui non era riuscito, una rivoluzione», ma sempre considerandolo «un uomo di gran lunga inferiore, umanamente e intellettualmente». Un uomo «tenuto a rendergli omaggio». Le sue lettere al Duce, «spesso citate a riprova di ammirazione e devozione», sono in realtà «un gioco di lusinghe e di minacce che più volte l’interlocutore non afferra» (come ha messo in luce una decina di anni fa Giampiera Arrigoni). D’altra parte l’impresa di Fiume era stata, certo, «un episodio del nazionalismo più consueto», ma aveva rappresentato soprattutto «una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni». In questo fu, come si è detto all’inizio, un’anticipazione del Sessantotto. Dopo l’epilogo sanguinoso, però, la vicenda fiumana venne a tal punto inquinata dalla mitologia fascista da essere in seguito, dopo la caduta di Mussolini, «trascinata nell’oblio». Quasi per ritorsione. La rivoluzione fiumana, sostiene Guerri, è stata bollata come «precorritrice del regime», perché così aveva voluto Mussolini. Da Fiume Mussolini prese «la liturgia della politica di massa, sperimentata la prima volta dal Vate» che fu «il primo e ultimo poeta al comando nella storia dell’umanità»: «i discorsi dal balcone, il dialogo con i seguaci-fedeli, il culto per i caduti e le bandiere, il “me ne frego”, l’“a noi!”, le camicie nere e i fez degli arditi, Giovinezza, le marce, le cerimonie di giuramento, riti e miti». In realtà, ribadisce Guerri, ai tempi dell’impresa fiumana Mussolini aveva ingannato d’Annunzio, facendogli credere di essere dalla sua parte mentre tesseva trame con Giolitti. Poi, giunto al potere, il fascismo lasciò in soffitta l’essenza della rivoluzione fiumana, che era libertaria, e imboccò una strada tutta sua. Portando sulle spalle «l’indebito peso di una dittatura vicina solo per contiguità», chiarisce l’autore, il fiumanesimo verrà in seguito giudicato «in base a ciò che è avvenuto dopo e che sarebbe accaduto comunque»: i Fasci di combattimento erano stati fondati oltre sei mesi prima dell’ingresso del «Poeta guerriero» a Fiume; e avrebbero avuto la stessa evoluzione «anche senza l’esempio di d’Annunzio», il quale aveva dimostrato soltanto che «lo Stato liberale poteva essere sfidato — e vinto — con la forza». Mussolini fece proprio il saluto «eia eia alalà» — peraltro inventato da d’Annunzio molto prima del 1919, ma, secondo Guerri, non avrebbe mai accompagnato quell’esplosione di gioia con la frase che vi aggiunse il Comandante: «Viva l’amore!». E se molti legionari aderirono al fascismo, altri furono antifascisti, persino martiri dell’antifascismo o morti in esilio come l’altro uomo più importante della rivoluzione fiumana, Alceste De Ambris. «Si dimentica dunque», prosegue l’autore di Disobbedisco, «che Fiume fu anzitutto una “controsocietà” sperimentale in contrasto sia con le idee e i valori dell’epoca sia — e tanto più — con quelli del fascismo». Semmai da Fiume emersero caratteristiche che avrebbero dominato la scena un secolo dopo: la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano Paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione. Dopo il 1945 Fiume venne assegnata alla Jugoslavia di Tito. A difendere l’italianità di Fiume presso le potenze alleate, rimasero solo pochi politici locali, tra cui Riccardo Zanella. Tolto «il bavaglio» cui l’Italia fascista l’aveva costretto per vent’anni, l’autonomista Zanella cercò di presentare lo Stato libero come una «vittima del fascismo» alla stregua dell’Etiopia e dell’Albania. I rapporti con Tito, però, «erano troppo importanti per gli Alleati che gli avevano già negato Trieste». Era necessario offrirgli una contropartita e il leader comunista, che aveva unificato i partigiani serbi, croati e sloveni, poté presentarsi come il vendicatore delle violenze sopportate in guerra dagli slavi durante l’occupazione italiana. Dopodiché i «liberatori comunisti», scrive Guerri, «non furono meno feroci degli sconfitti nazifascisti» e quando entrarono a Fiume, il 3 maggio del 1945, diedero immediatamente inizio alla pulizia etnica. La repressione del dittatore Tito costò la morte di oltre seicento fiumani e l’esilio di altri trentottomila. Poi la Jugoslavia si adoperò a «cancellare metodicamente ogni traccia dell’identità italiana». Contemporaneamente l’Italia repubblicana escluse l’impresa di Fiume dalla galleria della storia nazionale. A commemorarla, al Vittoriale, restarono solo alcuni legionari «appesantiti e ingrigiti, con la medaglia di Ronchi appuntata sulla giacca». E man mano che morivano, quei raduni si fecero sempre più striminziti.
Bibliografia. All’impresa dannunziana del 1919-20 Pier Luigi Vercesi ha dedicato il saggio Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017). Una visione complessiva delle vicende riguardanti la città adriatica si trova nel libro di Raoul Pupo Fiume città di passione (Laterza, 2018). Giordano Bruno Guerri ha pubblicato sul poeta i volumi D’Annunzio. L’amante guerriero (Mondadori, 2008) e La mia vita carnale (Mondadori, 2013). Importante anche la biografia di Lucy Hughes-Hallett Gabriele d’Annunzio (traduzione di Roberta Zuppet, Rizzoli, 2014). Da segnalare inoltre: Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile (Mondadori, 2000); Piero Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio (Mondadori, 1978).
FIUME IN PIENA. Giovanni De Luna per “la Stampa” l'11 settembre 2019. Il 1919 è il primo anno di pace dopo una guerra enormemente distruttiva. Troppe ferite impossibili da archiviare, troppi veleni ancora a intossicare un dopoguerra inquieto e tumultuoso. La situazione economica era allarmante. Lo sforzo bellico era costato un forte incremento del debito pubblico (nel 1913-1914 il deficit del bilancio dello Stato era di 214 milioni; nel 1918-1919 era arrivato alla cifra record di 23.345 milioni!); l' aumento dei prezzi e il reinserimento dei reduci - centinaia di migliaia di giovani che tornavano a casa con scarse prospettive di trovare un lavoro - alimentavano una rabbia sociale che sembrava incontenibile. Gli scioperi contro il carovita, nel giugno-luglio di quell' anno, con tumulti di piazza e saccheggi dei negozi, diedero la sensazione che la protesta potesse sfociare in una insurrezione generalizzata, alimentando la «grande paura» che il bolscevismo potesse avere successo anche in Italia. Gli avvenimenti russi del 1917 avevano infatti suscitato un' attesa «messianica» di rivolgimenti sociali. Di contro, tra i ceti medi, gli ufficiali inferiori di complemento, dopo aver assaporato l' ebbrezza dell' autorità e del comando, lasciavano a malincuore le trincee per ritornare a una vita quotidiana fatta di precarietà e incertezza. Erano convulsioni che rimbalzavano direttamente sulla politica. Le formule che avevano segnato l' età giolittiana erano tramontate e non c' era più una coalizione di partiti in grado di dare stabilità al governo, di gestire con lucidità la difficile transizione verso la pace. L' esecutivo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, che pure godeva del prestigio derivante dalla vittoria sugli austriaci, cadde a causa delle difficoltà incontrate dalla delegazione italiana alla Conferenza di Parigi. Gli successe Francesco Saverio Nitti. Dopo l'approvazione di una legge elettorale che introduceva il sistema proporzionale, le Camere furono sciolte e si tennero le elezioni (16 novembre 1919): il vecchio blocco liberaldemocratico risultò ancora la forza politica più votata (con il 38,9% dei voti), conquistando però appena 179 deputati, quando in precedenza ne aveva 310. Si trattava di una perdita secca, che sanciva l' impossibilità di costituire una maggioranza restando all'interno del quadro politico, imperniato sui liberali, che aveva guidato il Paese per più di sessant'anni. La guerra aveva stabilito un nesso strettissimo tra la violenza e i comportamenti collettivi. Sembrava che tutti i nodi politici fossero da sciogliere affidandosi alle armi e all' uso della forza; si guardava con insofferenza alle formule della democrazia, al vecchio progetto giolittiano di «controllare» il conflitto politico, sradicandolo dalle piazze per riportarlo fisiologicamente nelle aule parlamentari. La stessa sfiducia circondava la possibilità che si potessero ristabilire normali relazioni diplomatiche tra Stati. Si cominciò a parlare di «vittoria mutilata», proprio in relazione all' insoddisfazione per come l' Italia veniva trattata alla Conferenza di pace di Parigi. La nostra delegazione si era impegnata nel tentativo di aggiungere alle conquiste territoriali già promesse dagli Alleati con il trattato di Londra anche la città di Fiume, in Dalmazia, abitata in prevalenza da italiani. La ferma opposizione delle altre potenze vincitrici indusse i nostri rappresentanti diplomatici addirittura a disertare per un breve periodo il tavolo dei colloqui. Per forzare la mano agli Alleati mettendoli di fronte a un fatto compiuto, il 12 settembre 1919 circa duemila tra «legionari» e volontari, guidati da Gabriele D' Annunzio occuparono Fiume. Lo stesso D' Annunzio assunse il comando della città, proclamandone l'annessione all' Italia. Era un gesto rivoluzionario, un' iniziativa militare illegale che lasciava presagire quello che sarebbe accaduto tre anni dopo, nel 1922: la rivoluzione che tutti si aspettavano dai comunisti e dai socialisti sarebbe venuta da destra, dai nazionalisti e dai fascisti. In quella fase, le istanze rivoluzionarie erano ancora magmatiche e confuse e intrecciavano motivi di entrambi gli schieramenti. A Fiume D' Annunzio varò una sorta di Carta costituzionale in cui si affermava, ad esempio, che «lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali». L' avventura fiumana durò 15 mesi, provocò la caduta del governo Nitti che non era stato capace né di evitarla, né di reprimerla, e si concluse soltanto con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, che assegnò alla città lo status di «città libera» (diventerà pienamente italiana nel 1924). D' Annunzio rifiutò di accettare quella soluzione; per costringerlo ad abbandonare la città fu necessario far intervenire l' esercito. Fiume fu bombardata e 18 gennaio 1921 D' Annunzio si arrese.
E LE LEGIONARIE ANTICIPARONO IL SESSANTOTTO. Mirella Serri per “la Stampa” l'11 settembre 2019. «Fiume è diventata un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high life», sosteneva indignato il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti alla fine del 1919. Gli arditi, gli anarco-sindacalisti, i socialisti, i nazionalisti che avevano invaso Fiume, denunciava Nitti, ne avevano fatto un teatro di orge e festini a base di sesso e di cocaina. E responsabili erano soprattutto le donne di facili costumi. Il 12 settembre 1919, al seguito legionari di D' Annunzio arrivarono anche centinaia di signore e signorine la cui avventura fiumana non è mai stata raccontata: adesso viene ricostruita da Claudia Salaris nel volume Donne d' avanguardia (uscirà dal Mulino, che ora manda in libreria una nuova edizione ampliata di Alla festa della rivoluzione dedicato dalla Salaris all' impresa di Fiume). Le fanciulle che occuparono la città adriatica insieme con le milizie capeggiate da Guido Keller riflettevano le aspirazioni delle ultime generazioni femminili. Durante il conflitto mondiale le donne avevano sostituito in molti lavori gli uomini che si trovavano al fronte. E adesso si rifiutavano di rientrare tra le pareti domestiche. A Fiume arrivò un esercito di maestre, di crocerossine, di giornaliste, di scrittrici che crearono una «Città di vita», come la chiamò D' Annunzio , una «controsocietà» alimentata da progetti di ugualitarismo e di libertà.
Ma chi erano le legionarie? Erano donne spinte dal desiderio di indipendenza e di riconoscimenti, come la tredicenne Nada Bosich che lavorava alacremente per confezionare mostrine e indumenti per l' inverno, come la giornalista Bianca Flury Nencini che si occupava dei bambini fiumani, come Ebe Romano, autrice dell' Inno a Fiume, che preparava agli esami i giovanissimi soldati, o come la pianista Luisa Baccara che teneva concerti in piazza e che sviluppò con D' Annunzio la dipendenza dalle piste di «neve». O come la marchesa Margherita Incisa di Camerana che militava nei reparti di assalto. Le sostenitrici dell' impresa fiumana erano disseminate in tutta la Penisola, come la geniale Enif Robert, autrice con Filippo Tommaso Marinetti di Un ventre di donna in cui racconta la sua (immaginaria?) relazione saffica con Eleonora Duse. A Rapallo, dove il 12 novembre 1920 venne firmato il trattato internazionale che pose termine in modo drammatico alla vicenda fiumana, la Robert gettava volantini e compiva azioni provocatorie. La legionarie volevano varcare nuovi confini anche nell' ambito più intimo e privato. L' aristocratica Margherita Keller Besozzi, con lo pseudonimo di Fiammetta, fu la portabandiera delle richieste femminili in ambito erotico. «Avere il coraggio della propria sessualità e del proprio desiderio / Saper trovare l' UOMO», predicava, «prenderselo, avvincerlo, stordirlo, tenerselo / La donna di Fiume è la MADRE della donna moderna». Da vera provocatrice aggiungeva: «Sono giovane. / Fumo molte sigarette. / Me ne frego della crociata contro il lusso e porto sottovesti di seta. / Sono stata di molti uomini. / Lo confesso senza arrossire». Anche nell' abbigliamento le legionarie volevano eguagliare i maschi: indossavano casacche militari e portavano spadini sotto la giubba dove avevano ricamato: «O Fiume o morte». Le truppe del Comandante furono il laboratorio politico del Ventennio nero. Sperimentarono la politica di massa, il mito della romanità, il braccio teso e i saluti come «Eia, eia alalà», la canzone Giovinezza, il legame mistico tra la folla e il Capo. Lo spirito femminile, desideroso di libertà e di nuove regole, si rifletteva nella Carta del Carnaro, la costituzione dello Stato indipendente proclamato in attesa del ricongiungimento alla madrepatria, in cui era sancito il diritto di voto delle donne e il suffragio universale. Le legionarie pagarono anche con la vita la loro baldanza. Nel dicembre 1920, quando Fiume fu espugnata dall' esercito regolare italiano, pure le giacchette femminili si intrisero di sangue e tra le fanciulle vi furono vittime e mutilate. Ma della vicenda si perse la memoria. Non quella del gran circo fiumano che, secondo la Salaris, con la rivolta giovanile, le droghe, gli amori omo ed etero, e soprattutto con la richiesta femminile di emancipazione, anticipò la fantasmagoria ribelle degli anni Settanta.
D'Annunzio intendeva realizzare un ordine nuovo e non solo in Italia. Lo storico Gentile «liquida» la Carta del Carnaro e altre riforme. Ma il fiumanesimo era cosa seria. Giordano Bruno Guerri, martedì 20/08/2019, su Il Giornale. Non a caso derivante dalla parola volgo, per vulgata si intende la versione più diffusa di un'idea, di una concezione, di una teoria. E sradicare una vulgata erronea è uno dei compiti più difficili della storiografia e della comunicazione. La novità storiografica più rilevante del 2019, dunque, è che storici autorevolissimi stiano, giorno dopo giorno, abbattendo la vulgata di un d'Annunzio, e di un'impresa di Fiume, fascista. Per citarne solo alcuni, lo ha fatto Paolo Mieli recensendo sul Corriere della Sera il mio Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione a Fiume. L'ha scritto di recente anche Raoul Pupo in una articolo sul Piccolo di Trieste, dopo averlo detto in un'altra conferenza al MuSa di Salò. In un'intervista al Giornale di Brescia e ancora al MuSa di Salò, nel ciclo di incontri organizzati da Roberto Chiarini, Emilio Gentile ha spiegato quanto di straordinario avvenne a Fiume nel 1920, e che d'Annunzio non fu mai fascista. Domenica scorsa, dunque, leggevo con piacere crescente l'articolo pubblicato da Gentile sul Sole 24 Ore. Il titolo, riferito a Gabriele d'Annunzio e certamente non dell'autore, era invitante quanto approssimativo: L'eroe disoccupato a caccia di emozioni. Il testo, invece, è ineccepibile quando spiega che «L'unico atto rivoluzionario compiuto in Italia nel 1919 fu l'impresa di Fiume». All'inizio, precisa Gentile, l'impresa non aveva scopi rivoluzionari, era una protesta contro la debolezza dimostrata dal governo nelle trattative di pace, che non assegnavano Fiume all'Italia. Il poeta-vate, «divenuto leggendario per le gesta compiute durante la guerra», voleva provocare la caduta del governo Nitti. Presto, però, «affiancato da una schiera di esaltati giovani legionari», creò un movimento che intendeva realizzare un «ordine nuovo» in Italia e poi nel mondo. Sarebbe stato detto «fiumanesimo». A questo punto ci si aspetterebbe che l'illustre storico racconti e spieghi qualcosa di quell'«ordine nuovo», i tentativi rivoluzionari con ambizioni mondiali non sono poi così frequenti, nella storia d'Italia. Invece Gentile conclude sibillino: «Fiume divenne luogo di straordinarie o strampalate velleità palingenetiche». La mia stima per lui non mi permette di credere che davvero abbia liquidato in quattro parole tutto quello che accadde a Fiume nel 1920: la Carta del Carnaro (rivoluzionaria in senso democratico), la Lega dei popoli oppressi (che anticipa di decenni il terzomondismo), il Nuovo ordinamento militare (che precedette di mezzo secolo un esperimento analogo di Mao Tse-tung). Voglio dunque credere che un caporedattore pazzo (ce n'è, ce n'è) per fare stare l'articolo nella pagina abbia tagliato qualche migliaio di battute nella quali l'autore dava un altro scossone alla vulgata, magari ricordando come ha fatto Paolo Mieli che i reduci fiumani dell'«Unione spirituale dannunziana» vennero perseguitati dal regime fascista, alla stregua di socialisti e comunisti. Purtroppo abbattere una vulgata è tanto più difficile quanto più è antica. Quella di d'Annunzio e di Fiume fascisti è quasi secolare, perché fu imposta da Mussolini per oltre un ventennio: la revisione storica è iniziata troppo tardi, e l'Italia democratica ha creduto e in questo caso - crede ancora al duce. È una vulgata che, per esempio, ha suggerito a (pochi) bravi cittadini di Trieste di sottoscrivere una petizione contro una statua pacificissima di d'Annunzio nella loro città. Pazienza, la statua verrà collocata, la mostra triestina dedicata all'impresa continuerà fino a novembre, un'altra se ne inaugurerà a Pescara l'8 settembre, nell'ambito di una settimana intitolata non a caso «La festa della rivoluzione». Libri sereni e seri escono uno dietro l'altro sull'impresa, e presto anche un'intera collana dell'editore Giubilei. C'è da credere, soprattutto, che darà un contributo decisivo il grande convegno internazionale «Fiume 1919-2019. Un centenario europeo tra identità, memorie e prospettive di ricerca». Si svolgerà al Vittoriale dal 5 al 7 settembre, per la prima volta anche con la partecipazione di numerosi storici croati. Ci vorrà ancora del tempo, ma la vulgata è destinata a scomparire. Del resto, c'è ancora molta gente assolutamente certa che l'incendio di Roma sia stato appiccato da Nerone.
Quell'impresa con cui d'Annunzio sognò un mondo libero e giusto. Alessandro Gnocchi, Sabato 13/07/2019, su Il giornale. Proprio all'ingresso di Disobbedisco. La rivoluzione di d'Annunzio a Fiume 1919-1920, la splendida mostra in corso a Trieste (Salone degli incanti, fino al 3 novembre) si viene inghiottiti da un treno metallico in stile futurista. Fuori, bulloni e acciaio. Dentro, velluto rosso e legno. Curata da Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, l'esposizione è la più completa mai realizzata sulla Impresa di Fiume. L'avventura comincia nella prima sala dove è esposta la T4, la mitica automobile sulla quale il poeta guerriero giunse a Fiume per rivendicarne l'italianità e porre rimedio all'offesa della vittoria mutilata. Gli Alleati erano stati amici nella guerra e nemici nella pace, impedendo all'Italia di arrivare fino ai suoi confini storici e naturali. Duemila disertori, ai quali si uniscono volontari e avventurieri, trovano in Gabriele d'Annunzio il leader che cercano per impadronirsi di Fiume, all'epoca porto strategico nell'Adriatico. La città aveva cinquantamila abitanti, trentamila dei quali italiani. D'Annunzio, nella sua casetta rossa di Venezia, riceve i congiurati e accetta di guidare l'invasione. A bordo della T4, senza sparare un colpo, il 12 settembre 1919 il Vate entra a Fiume. Inizia così una vicenda entusiasmante ma ancora da capire, nonostante gli studi importanti di Renzo De Felice, Francesco Perfetti, Claudia Salaris e Guerri stesso (il suo Disobbedisco, che ha ispirato la mostra, è appena uscito per Mondadori). La vulgata infatti legge l'Impresa alla luce di ciò che accadrà in seguito e la cataloga alla voce fascismo o protofascismo. In realtà, ha spiegato Guerri nella affollata lectio magistralis di giovedì sera al Museo Revoltella, molti legionari confluirono nel fascismo. E molti altri furono perseguitati dal fascismo. La differenza tra fiumanesimo e fascismo è tutta nella Carta del Carnaro, la Costituzione scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e dallo stesso d'Annunzio. Guerri ha esposto a Trieste le prime pagine manoscritte con correzioni autografe. Nonostante siano poco scenografiche, hanno la stessa potenza delle uniformi di d'Annunzio, delle bandiere, dei gonfaloni o della testa dell'aquila bicipite, stemma municipale, decapitata dai legionari il 4 novembre 1919 e ritrovata nel 2017 da Federico Simonelli al Vittoriale. È nella Carta del Carnaro che la rivoluzione di d'Annunzio perde i connotati del nazionalismo puro e semplice, diventa globale e trasforma in legge l'aspirazione a una società più libera e giusta. Della Carta del Carnaro si conosce tutto. Eppure il manoscritto in mostra offre una correzione autografa illuminante. D'Annunzio pare incerto tra due definizioni del Carnaro: Repubblica, quella vincente, è scritta sopra a Confederazione. Il modello del poeta sono la Serenissima e la Svizzera dei Cantoni. Siamo lontani mille chilometri dal nazionalismo «romano e imperiale» degli anni Trenta. Nella rivista Yoga, voce dell'avanguardia più radicale del fiumanesimo, la questione è spiegata benissimo da Guido Keller e Giovanni Comisso: giusto riprendersi Fiume e possibilmente la Dalmazia ma lo spirito italico non conosce confini. Il nazionalismo, come il capitalismo, è una dottrina imposta dalle «razze del Nord» per soffocare la magnifica varietà delle città-stato italiane. Anche il Risorgimento finisce sotto accusa. Non perché fosse sbagliato in sé. Ma perché ha preteso di centralizzare tutto e di cancellare le antiche autonomie. Il fiumanesimo invece vuole preservarle e incoraggia la formazione di una società multietnica e multiculturalista. Questa minuscola correzione, da sola, vale il viaggio per vedere l'esposizione. Questa minuscola correzione, da sola, copre di ridicolo chi ha sollevato polemiche da analfabeti sulla opportunità di fare una mostra su Fiume e dedicare una statua a Gabriele d'Annunzio (che va ad aggiungersi a quelle di Saba, Svevo e Joyce). Gli analfabeti si tengano pronti. Guerri ha infatti annunciato in conferenza stampa che il prossimo progetto sarà un museo del fascismo a Salò. Significa colmare un vuoto inspiegabile o meglio spiegabile con la cappa di conformismo che ha quasi ucciso la cultura italiana. Di recente il Vittoriale ha restaurato migliaia di lastre fotografiche. Sono quindi inedite e documentano la vita di tutti i giorni di una città sotto assedio ma entusiasta. I discorsi in piazza, gli arditi, d'Annunzio che brinda con il famigerato cherry ribattezzato «Sangue Morlacco», la squadra di calcio in maglia azzurra con scudetto tricolore sul petto (sì, la maglia della nazionale italiana nasce a Fiume), lo Stato maggiore al completo con belle signore e d'Annunzio che fa le linguacce, tantissime donne, che avevano un posto d'onore non solo nel cuore di d'Annunzio. La Carta del Carnaro, infatti, concedeva loro non solo il suffragio ma anche la eleggibilità a qualsiasi carica. Quando si esce dal treno futurista alla luce abbagliante di una Trieste bella da straziare il cuore, ci si imbatte nella gigantesca bandiera donata a d'Annunzio nel 1916 dalla triestina Olga Levi Brunner. Il poeta le promise che, dopo la liberazione della città, avrebbe issato il vessillo sul campanile di San Giusto. Nel 1917 fu stesa sul corpo e sul feretro del maggiore Giovanni Randaccio. La bandiera insanguinata divenne un simbolo. Nel maggio 1919, d'Annunzio la dispiegò al Campidoglio come testimonianza dei caduti per annettere le terre adriatiche. A Fiume fu esposta più volte durante i discorsi pubblici del poeta. Infine, al termine dell'impresa, dopo il Natale di sangue del 1920, quando Giovanni Giolitti ordinò all'esercito di attaccare d'Annunzio, la bandiera fu srotolata per coprire i cadaveri dei legionari italiani uccisi dall'esercito regolare italiano. Ora, finalmente, la bandiera è tornata a casa.
Macchè fascista!, il "federalismo" lo inventò lui. Quell’utopia sociale chiamata Fiume. Niccolo Lucarelli il 25/07/2019 su Il Giornale Off. Su Gabriele D’Annunzio, poeta, soldato, pensatore, dandy, uomo politico a tempo perso, aleggia ancora oggi un’aura di leggenda, così come di controversa interpretazione letteraria e ideologica. Un dibattito mai sopito, che torna alla ribalta con l’occasione del centenario dell’Impresa di Fiume; Enrico Serventi Longhi – professore di Storia Contemporanea alla Sapienza di Roma -, ne propone una lettura inedita inquadrata nel contesto sociale e politico dell’Europa dell’epoca, sottolineandone gli elementi di novità, anche grazie allo studio di documenti mai esaminati prima, e chiarendone le distanze e le differenze con il Fascismo. Il faro del mondo nuovo (Gaspari Edizioni, 192 pagine, 18 Euro) è la sua ultima fatica letteraria che, lontana da ogni trionfalismo retorico, affidandosi al rigore storico, confuta pregiudizi e cattive interpretazioni del pensiero del Vate e, nel bene e nel male. Restituisce al lettore contemporaneo il significato di quei cinquecento giorni, anche analizzando le voci dei tanti militari che vi presero volontariamente parte. Il volume è anche un approfondito studio sull’organizzazione delle truppe e le motivazioni che le spinsero a fare causa comune con D’Annunzio. Alla base dell’esperienza fiumana, non c’era soltanto l’istintuale prevalere di sensazioni e apparenze sui concetti, la ragione e la morale, che Benedetto Croce rimproverava al Vate già nel 1904. L’importanza del lavoro di Serventi Longhi sta appunto nell’inquadrare l’impresa dannunziana a Fiume all’interno di un pensiero socio-politico innovatore, con l’accortezza storica di chiarire l’equivoco delle relazioni fra questa e il Fascismo: fu quest’ultimo che si appropriò di rituali, motti e concetti ideati da D’Annunzio, per accreditarsi agli occhi degli italiani con una base anche intellettuale e rafforzare il culto dell’italianità guerriera. Fu questa appropriazione che, nel corso dei decenni, ha avvalorata la tesi di D’Annunzio fascista, e a relegare l’Impresa di Fiume fra gli atti anticipatori del regime. Un’ottica errata e fuorviante, che oltretutto limita il più ampio punto di vista del Vate. A Fiume, D’Annunzio immaginò di costruire una società nuova, dando all’impresa non soltanto un carattere nazionalista, ma anche sociale, con l’obiettivo di ampio respiro di “rigenerare le istituzioni e la società italiana al di fuori dei partiti”, utilizzando Fiume come una sorta di laboratorio da cui far partire una vera rivoluzione. Di particolare interesse la rilettura che Serventi Longhi fornisce della Carta del Carnaro, la costituzione fiumana stesa da De Ambris ma corretta dallo stesso Vate, il cui intervento non fu puramente legato allo stile e alla grammatica, ma ebbe carattere sostanziale, perché lasciava da parte i riferimenti alla democrazia diretta e stemperava il concetto di autonomia locale con la vaga formula della “libertà comunale”, importante tassello della comunità nazionale, all’interno della quale l’istruzione doveva essere pubblica e gratuita per tutti, e che avrebbe dovuto fondere “l’insegnamento umanistico, artistico e tecnico entro i confini del culto della Nazione”; si ha quindi la compenetrazione fra istruzione scolastica e addestramento militare, già teorizzata prima della guerra, ma da nessuno tradotta in formula politica. Inoltre, grazie al ruolo riconosciuto alle corporazioni, le categorie produttive assumevano un ruolo importante all’interno dello Stato, una novità assoluta nell’Europa moderna, che poi il Fascismo tenterà senza molto successo di fare propria. Il bel volume di Serventi Longhi – accuratamente documentato e scritto con quell’asciuttezza di linguaggio che dovrebbe essere propria di qualsiasi storico -, contribuisce a fare chiarezza su una questione che ancora oggi divide l’Italia.
Niccolo Lucarelli. laureato in Studi Internazionali, è critico d’arte e di teatro per varie testate di settore, e saggista di storia militare per lo Stato Maggiore dell’Esercito. Svolge anche attività di curatore indipendente in Italia e all’estero.
Adriano Scianca per “la Verità” il 2 agosto 2019. Il centenario dell'impresa fiumana con cui, nel 1919, Gabriele D'Annunzio cercò di annettere all' Italia la città dalmata che, al termine della grande guerra, era stata assegnata al neocostituito Regno dei serbi, croati e sloveni, ha un non secondario effetto positivo: far riscoprire tutta una serie di eccezionali storie nella storia. Sono tantissimi, infatti, i libri sulla Reggenza del Carnaro - così si chiamava il mini Stato instaurato dal Vate - ultimamente ristampati da grandi e piccole case editrici, molto spesso scritti dai protagonisti di quell'epopea. E, fra di loro, si trovano fior di personaggi incredibili, con vite originalissime e percorsi umani e intellettuali che non sfigurerebbero in un film. Un caso tipico è quello di Giovanni Host-Venturi, di cui la casa editrice Aspis ha appena ripubblicato L' impresa fiumana. Già ideatore della Legione volontari fiumani, lui, che nella città dalmata ci era nato, fu tra i principali ideatori e organizzatori della marcia di Ronchi che portò all'occupazione di Fiume da parte del Vate. Ma la parentesi fiumana è solo una parte della avventurosa vita di Host-Venturi, che qualche anno dopo si ritroverà in Argentina a fare da consigliere a Juan Domingo Peron e a vivere in famiglia il dramma dei desaparecidos. Un uomo, quindi, che ha attraversato tutto il Novecento, vivendone sulla propria pelle tutti gli entusiasmi, gli eroismi, le tragedie e i dolori. Ma andiamo con ordine. Host-Venturi nasce a Fiume, il 24 giugno 1892. Il cognome originale è Host-Ivessich, cambiato durante la prima guerra mondiale perché gli austriaci fucilavano immediatamente i loro sudditi che combattevano per l' Italia, rifacendosi anche sulle famiglie. Alla grande guerra partecipa da volontario, con il grado di capitano degli alpini e poi degli arditi, guadagnandosi tre medaglie d' argento al valore. Dopo il conflitto sembra quasi naturale per lui, fiumano di nascita, partecipare all' avventura di D' Annunzio. Durante la reggenza dannunziana, l' ex combattente auspica un colpo di mano che si estenda a tutta l' Italia, fino a coinvolgere il re in persona. Ma il piano è nebuloso e velleitario: il poeta soldato preferisce seguire i consigli del più assennato Giovanni Giurati e lascia cadere le tesi radicali di Host-Venturi. Dopo il conflitto, aderisce al fascismo, prima con qualche intemperanza, poi, dopo la marcia su Roma, allineandosi alle direttive di Benito Mussolini, che chiedeva una Fiume pacificata e che non creasse problemi diplomatici con gli iugoslavi. Nel gennaio 1923 divenne capo della Milizia nazionale fiumana, dal 1925 al 1928 diresse la segreteria della Federazione fascista di Fiume e fu commissario straordinario di quella di Pola. Fu consigliere nazionale del Partito nazionale fascista e, dal 1934 al 1935, membro della Corporazione della previdenza e del credito; dal gennaio 1935 all' ottobre 1939, fu sottosegretario alla Marina mercantile presso il ministero delle Comunicazioni, di cui poi divenne ministro. Ostile all' ordine del giorno Grandi, aderì alla Repubblica sociale italiana, pur non ricoprendo cariche né posti di rilievo. Alla fine della guerra preferì abbandonare l' Italia. Come molti ex fascisti, sceglie il Sudamerica per rifarsi una vita. Argentina, nel suo caso. Ma non abbandona la passione per la politica. Così, nel 2013, il giornalista Giorgio Ballario, sul sito Barbadillo.it, ricostruiva questo nuovo capitolo della vita di Host-Venturi: «In una recente intervista a un quotidiano argentino, l' avvocato Leonardo Gigli, che durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto agli ordini di Host -Venturi, racconta che l' ex capitano degli arditi e comandante della Legione fiumana si era incontrato più volte con il presidente Peron, suggerendogli di creare delle zone franche industriali a Bahia Blanca e Rosario per favorire lo sviluppo economico del Paese. Un progetto che incontrò un certo gradimento nel governo peronista, anche se non venne mai concretamente realizzato». L' ex combattente - che nel 1976 aveva pubblicato presso Giovanni Volpe le sue memorie fiumane, ora ristampate da Aspis - morirà suicida a Buenos Aires, il 29 aprile 1980. Dietro il gesto estremo, probabilmente, il dolore per la sorte del figlio Franco. Nato a Roma nel 1937, Franco Host-Venturi era emigrato in Argentina col padre a soli undici anni. Secondo Ballario, Franco, conosciuto anche come Nino, «fin da ragazzo aveva militato nella Juventud Peronista e successivamente era confluito nelle Fap (Fuerzas Armadas Peronistas), una frazione guerrigliera attiva nei primi anni Settanta a Buenos Aires e nelle principali città argentine». Era un artista, pittore e vignettista, entrato a far parte del «Grupo Espartaco» (1959-1968), un movimento artistico argentino dalle forti connotazioni sociali. Franco Host-Venturi partecipò a mostre contro la guerra in Vietnam e per Ernesto Che Guevara. La sua ultima mostra fu un omaggio al Cordobazo, una insurrezione popolare avvenuta nel Paese nel 1969. Poi il primo arresto, nel 1972. Grazie all' amnistia del 1973 tornò in libertà, ma nel 1976, a Mar del Plata, fu sequestrato da una banda paramilitare. Dopodiché non se ne seppe più nulla. Fu il primo artista desaparecido in Argentina. «Anche io fui arrestata», ha ricordato qualche anno fa a Repubblica la moglie Mabel Greemberg, «ero incinta del secondo figlio che nacque in carcere, e non ha mai conosciuto suo padre». Per poi aggiungere, con tragico presentimento: «Forse me l' hanno buttato a mare da un aereo, ancora vivo». Nel 2004, l' allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, promise di inaugurare una scuola alla memoria di Franco Host-Venturi. Non sappiamo che fine abbia poi fatto quel progetto.
D’Annunzio cento anni dopo Fiume. Influenzò Malraux, Mann, Pasolini. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Pier Luigi Vercesi su Corriere.it. Stenderne i difetti al sole e attendere che con il tempo evaporino lasciando un’essenza feconda sul fondo, come accade per molti scrittori, filosofi e politici, con Gabriele d’Annunzio non funziona. Innanzitutto occorrerebbe una piazza d’armi per contenerli tutti, i difetti. In secondo luogo, operò per tutta la sua lunga esistenza per mostrarsi umanamente peggiore di quanto in realtà fosse. Era un intento dichiarato. Non voleva forse essere l’inimitabile? Il superuomo che lascia traccia di sé scandalizzando la borghesia provinciale che l’ha generato, prosperando sui grandi spazi, le speculazioni e gli intrallazzi inaugurati dalla freschissima Unità d’Italia? In un progetto di vita simile, o diventava (cinicamente) un novello San Francesco, ma i lombi che l’avevano generato gli avevano trasmesso altre impellenti necessità, o si modellava in proprio. Creava, appunto, Gabriele d’Annunzio. Ci riuscì forzando sempre il destino, come un Alfieri legato alla sedia che si costringe a non demordere, come una personalità disturbata che trae dai propri stati depressivi la forza inumana di dispiegare allo zenit la capacità creativa di cui era indubbiamente superdotato. Esce in libreria giovedì 5 settembre il libro di Maurizio Serra, «L’Imaginifico. Una vita di Gabriele d’Annunzio» (Neri Pozza, pagine 720, euro 25)Ma l’Imaginifico (con una «m» sola) è infinite altre cose, è un tassello ineludibile del mosaico novecentesco, anche se la prima metà della sua vita, quella più da rotocalco, l’ha vissuta nel secolo precedente. L’Imaginifico è il titolo della biografia, anzi, di Una vita di Gabriele d’Annunzio, come recita il sottotitolo, in libreria il 5 settembre per i tipi di Neri Pozza nel centenario dell’impresa di Fiume. L’autore è Maurizio Serra, diplomatico di carriera, raro esempio di intellettuale italiano di respiro internazionale incapace di farsi imbrigliare nelle combriccole provinciali. Nato a Londra nel 1955, Maurizio Serra è diplomatico e scrittore, autore di diverse opere di storia e di letteratura. Per anni ha studiato senza preconcetti il modello umano di «esteta armato» che ha infiammato l’immaginario europeo nei primi quarant’anni del secolo scorso. Il suo D’Annunzio sfugge così agli schemi rigidi di chi, di volta in volta, ne ha estrapolato l’esistenza di letterato, di esteta, di politico, di principe rinascimentale, di esiliato in riva a un lago dorato. L’Imaginifico di Serra è un fenomeno sociale, un modello antropologico, un fermento rivoluzionario paludato in epiteti medievaleggianti, una sedimentazione di Goethe e di Nietzsche. Senza di lui è impossibile comprendere i Lawrence d’Arabia, gli André Malraux, gli Antoine de Saint-Exupéry, la guerra di Spagna, il fascismo e l’antifascismo, il nichilismo in salsa occidentale. Persino, azzarda Serra, Thomas Mann o Pier Paolo Pasolini. D’Annunzio è il latino che si è posto al di là del bene e del male, pensiero calato dalle brume nordiche, reinventato però a modo suo. Nella mente di D’Annunzio, «il passato non val più nulla, né vale il presente. Il presente non è se non lievito». Il poeta fregia la bandiera del XIII reparto d’assalto della medaglia di Ronchi il 29 maggio 1920Quando smembrarono la Capponcina, la villa dove abitava presso Firenze, per saldare i suoi debiti, si rammaricò di non aver avuto l’opportunità di far avvampare nel fuoco, con le proprie mani, quel mondo già andato, su cui non avrebbe più calcato un passo. Fu dunque un immanente adolescente. La sua fu una vita vissuta perennemente allo stato nascente, ciò che si sperimenta nell’innamoramento, ma che poi, fortunatamente, si consolida in altro. Ciò che d’Annunzio non comprese fu la deriva in cui sarebbe stato trascinato dal fascismo e dal nazismo. La sopraffazione, il razzismo, l’abominio, la depravazione, che è un gioco da ragazzi estrapolare dalla sua opera, anche se simili comportamenti umani (al di là della propaganda facinorosa cui si lasciò andare nei confronti dei nemici politici) non gli corrispondevano. Ne I sette Pilastri della saggezza, il colonnello Lawrence ammonisce: «Tutti gli uomini sognano ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei polverosi recessi delle loro menti, scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini. Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi per sé e per gli altri, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti per attuarlo». Pensava a sé e svelava d’Annunzio, la cui opera è stata ufficialmente riposta nella soffitta del bric-a-brac, insieme alle imprese amorose e agli oggetti accatastati al Vittoriale, salvando nelle antologie scolastiche solo Alcyone (non se ne poteva fare a meno) e La figlia di Jorio (sfugge agli schemi dannunziani). Poi, come accade in Italia, chi ha tanti detrattori, per contrappasso accumula ciechi sostenitori. D’Annunzio, però, non è Fausto Coppi e Serra, stendendo i panni sporchi dell’Imaginifico, lo riporta alla luce del Sole.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Immigrazione ed emigrazione.
Pure l'Onu smentisce la sinistra: "I migranti non sono profughi". Il dossier: «La metà di loro aveva un lavoro in Africa, partono per cercare fortuna e mandare soldi ai parenti». Paolo Bracalini, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. L'immigrazione illegale come «investimento» per il futuro. Così scrive l'Undp (United Nations Development Programme) presentando la ricerca The Scaling Fences: Voices of Irregular African Migrants to Europes, realizzata intervistando più di 3mila immigrati provenienti da 43 diversi paesi africani e stabilitisi in 13 paesi europei (ma quasi la metà degli intervistati vive in Spagna e Italia, cioè i due porti di arrivo per il 90% di loro). Il dossier, anche se realizzato da un'organizzazione fortemente terzomondista e immigrazionista come le Nazioni unite, conferma in realtà le tesi opposte. Perché sfata la propaganda secondo cui gli immigrati scapperebbero da guerre, carestia e povertà in cerca di asilo politico, e quindi ci sarebbe il dovere morale di spalancargli le frontiere. La realtà che raccontano i diretti interessati, arrivati quasi tutti con i barconi attraverso le rotte gestite dalla criminalità organizzata, è completamente diversa. Non solo non scappano dalla fame nè dalle persecuzioni politiche, ma anzi la metà di loro stava discretamente bene nel paese di origine, il 49% aveva un lavoro, in molti casi uno stipendio maggiore e un livello di istruzione più alto della media dei connazionali. Il 50% degli immigrati che lavorava, alla domanda se guadagnasse a sufficienza per farcela in Africa, risponde positivamente, addirittura il 12% dice che era in grado anche di mettere via risparmi. «In Gambia avevo una vita confortevole, non eravamo ricchi ma i nostri genitori si sono assicurati che fossimo istruiti e curati» racconta Mahmadou. E allora perché pagano cifre elevate per mettersi in viaggio, rischiando anche la pelle? Risponde Aziz, dal Senegal: «Alla fine tutti vogliamo le stesse cose nella vita: buona salute, lavori dignitosi, opportunità per le nostre famiglie e per noi stessi. E poiché molte persone non sentono di averle in Africa, vengono in Europa». Insomma migranti economici, puri e semplici. «La ricerca dimostra che quelli che sono partiti stavano relativamente meglio rispetto ai loro coetanei» si legge nel rapporto. Quali sono le più importanti motivazioni che ti hanno spinto a partire per l'Europa? chiedono ai migranti intervistati. Il 60% risponde «lavoro/mandare soldi a casa», il 18% «famiglia, amici», l'8% «istruzione», ma nessuno accenna a situazioni di pericolo in patria o di essere stato costretto. Il loro è appunto un «investimento», anche consistente, mediamente di 2700 dollari, finanziati spesso dai parenti, per farsi portare illegalmente in Europa e poi, una volta lì, cercare un lavoro, una fonte di reddito, e quindi mandare soldi alle famiglie in Africa, gli «investitori» nel viaggio che quindi si attendono degli utili, un «return on investment» (Roi) scrive l'Onu utilizzando una espressione finanziaria. Il valore delle «rimesse» che il parente immigrato in Europa riesce a mandare a casa (lo fa il 78%) richiederebbe «40 anni per generare un'equivalente posizione economica in patria», scrive l'Onu. Quindi il ritorno dell'investimento, per quanto rischioso, è estremamente allettante. La migrazione clandestina può rappresentare «un salto di una generazione in termini di mobilità sociale». La ricercatrice Anna Bono, esperta di Africa, è stata la prima in Italia a spiegare che è la classe media africana, urbanizzata e tutto sommato benestante, a partire per l'Europa. «I risultati della indagine dell'Undp parlano chiaro - commenta su La Bussola Quotidiana -. Confermano che centinaia di migliaia di africani hanno raggiunto l'Europa illegalmente e per non essere respinti hanno mentito sostenendo di essere profughi in fuga da guerre e persecuzioni».
Lampedusa, incendiati i barchini dei migranti. Il sindaco: "Attentato all'immagine dell'isola". Lamorgese: "Individueremo i responsabili". Dopo l'oltraggio di due giorni fa alla Porta della Vita, ieri sera incendiate in due zone differenti le imbarcazioni con cui arrivano gli immigrati. Oltre 600 gli sbarchi nell'ultima settimana. Bartolo: "Qualcuno alimenta clima d'odio". Alessandro Ziniti il 06 giugno 2020 su La Repubblica. Fiamme alte in due punti diversi dell'isola. Bruciano le barche dei migranti incendiate in due punti diversi di Lampedusa da mani che - accusa il sindaco Totò Martello - "vogliono attentare all'immagine di Lampedusa". Per diverse ore questa notte i vigili del fuoco di Lampedusa hanno lottato contro il fuoco alimentato dallo scirocco e la Procura di Agrigento ha aperto un'inchiesta. "Lampedusa non può diventare territorio di guerriglia", dice il procuratore aggiunto Salvatore Vella. Interviene il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese: "Ferma condanna degli atti incendiari della scorsa notte a Lampedusa che fanno seguito ad altri gravissimi episodi dei giorni scorsi. Il Viminale sta profondendo ogni sforzo per affrontare la difficile situazione dell'isola a seguito della pressione migratoria nel Mediterraneo. Lo Stato c'è. Dobbiamo individuare i responsabili che tentano di alimentare tensioni e offendono la solidarietà e la generosità della comunità lampedusana". E l'europarlamentare Pietro Bartolo lancia l'allarme: "Quanto accaduto questa notte a Lampedusa è una ferita per gli abitanti dell'isola. Perchè è vero che da anni i lampedusani, che vivono e vogliono continuarea vivere di turismo, aspettavano che quelle barche venissero rimosse. Ma è altrettanto evidente che si tratta di un grave gesto alimentato da qualcuno che ha interesse a destabilizzare il clima politico e di convivenza civile sull'isola". Quattro giorni fa l’oltraggio alla Porta della vita, il monumento simbolo dell’accoglienza ai migranti, adesso l’incendio di alcuni degli ultimi barchini arrivati direttamente in porto. C’è grande tensione a Lampedusa dove nell’ultima settimana sono arrivati, tutti con sbarchi autonomi, 600 migranti. Un numero considerevole che preoccupa non poco l’isola che teme una stagione turistica estremamente magra a causa dell’emergenza Covid. L’hot spot di Contrada Imbriacola si svuota e si riempie a ripetizione di migranti in quarantena, una nave per tenere in isolamento chi arriva staziona tra l’isola e la costa agrigentina e l’isola si sente abbandonata dal governo. Proprio poche ore fa il sindaco Salvatore Martello aveva denunciato l’inadeguatezza dei mezzi di trasporto che garantiscono i collegamenti con la terraferma, pochi voli con aerei malconci in cui oggi pioveva dentro, che viaggiano a capienza ridotta per le misure di distanziamento. Una situazione estremamente critica che oggi verrà rappresentata al ministro per il Mezzogiorno Giuseppe Provenzano atteso in visita a Lampedusa.
Tre sbarchi in poche ore, Lampedusa di nuovo in emergenza. Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 da La Repubblica.it. Una barca dietro l'altra, fin dentro il porto di Lampedusa. Altri 185 migranti che sbarcano sull'isola arrivando a poche ore di distanza su tre barche in legno, la prima sicuramente proveniente dalla Libia dove, nelle stesse ore, le motovedette della guardia costiera di Tripoli riportano indietro altre 200 persone. Un'altra giornata di partenze dalla sponda africana dove l'Oim segnala, con grande preoccupazione, un massacro in un centro di detenzione non ufficiale dove 30 migranti sono stati uccisi dai trafficanti e altri 11 sono rimasti gravemente feriti per motivi non ancora chiari. A Lampedusa, dunque, e' di nuovo emergenza. L'hotspot con oltre 200 persone è già ben oltre la capienza e la nave per la quarantena che staziona tra l'isola e le coste dell'argentino sta già ospitando altri migranti in isolamento. Il primo barcone e' arrivato nel pomeriggio con 85 persone a bordo proveniente da Zwara mentre altre due imbarcazioni, una di 52 l'altra di 48 erano date in avvicinamento all'isola dove sono approdate in serata. Dopo gli arrivi a raffica dalla Tunisia dei giorni scorsi ora sembrano riprese le partenze anche dalla Libia dove l' Organizzazione internazionale per le migrazioni ha dato notizia esprimendo forte condanna dell'uccisione di 30 migranti a Mezda, a sud ovest di Tripoli. "Questo crimine insensato ci ricorda ancora una volta quali siano gli orrori che i migranti subiscono per mano dei trafficanti in Libia - dice il capomissione dell'Oim in Libia Federico Soda - questi gruppi criminali approfittano dell'instabilità e della situazione di insicurezza nel Paese per dare la caccia a persone disperate e approfittare della loro vulnerabilità". L'Oim denuncia che migranti soccorsi in mare e riportati indietro sono scomparsi e non si riesce a sapere quali sono le condizioni delle oltre 4.000 persone riportate indietro dalla guardia costiera dall'inizio dell'anno.
L'intervento. La rotta della violenza, la via pericolosa dei profughi che sognano un posto sicuro in Europa. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 28 Giugno 2020. I Balcani sono vicini ma la rotta balcanica è lontana. I Balcani sono quello straordinario crogiolo di storie complesse, lingue, religioni e culture che gli italiani conoscono per le loro ferie; la rotta balcanica è invece quella lunga via di fuga che dai confini greco-turchi arriva fino a Trieste. Una rotta lungo la quale transita parte rilevante dei richiedenti asilo che fuggono da conflitti e persecuzioni del medio oriente e cercano di arrivare in Europa: innanzitutto Siria, Afghanistan, Iraq, Iran. La rotta dei rifugiati per eccellenza. Ben lontano da quanto molti potrebbero pensare, si tratta di una via di fuga estremamente pericolosa, fatta da attraversamenti di molti paesi, sia dell’Unione Europea che esterni all’Unione, di respingimenti collettivi, di violenze, anche efferate, da parte delle diverse polizie, di campi di accoglienza inesistenti o, ove esistenti, degradati nonostante siano gestiti con fondi europei. Tutti i rapporti internazionali, da Amnesty International agli altri enti meno noti, e tutte le inchieste giornalistiche sono concordi: la rotta balcanica è la rotta della violenza; una violenza del tutto diversa, per modalità e attori, rispetto alla via del mare, ma che avvolge i migranti da ogni lato e in ogni momento. Una violenza che non avviene in un “altrove” lontano ed esotico nel quale riporre il nostro sdegno, ma dentro l’Europa e persino dentro l’Unione Europea nella quale dovrebbero vigere i regolamenti e le direttive sull’accesso al diritto all’asilo, sulle condizioni di accoglienza, sui diritti socio-sanitari etc. E dove la polizia dovrebbe agire nella legalità. Sullo stato della democrazia illiberale dell’Ungheria, sul suo muro che corre lungo tutto il confine della Serbia e sui suoi centri di detenzione per migranti poco ancora ci sarebbe da dire se non che, dopo essersi un po’ scomposta (ma non troppo) in dichiarazioni di condanna, l’Unione Europea ha lasciato fare i magiari. I rapporti sui “push-back”, ovvero sui respingimenti attuati in Grecia e in Bulgaria non sono mai stati smentiti al netto di qualche inconsistente dichiarazione ufficiale di circostanza, così come sono ormai migliaia le pagine che documentano le efferate violenze e le torture perpetrate dalla polizia croata (polizia dell’Unione) e dalle forze speciali lungo il confine con la Bosnia, cantone di Bihac: persone picchiate selvaggiamente, derubate di tutto, lasciate nude nella neve d’inverno e costrette a rientrare come possono in Bosnia dove li attende il nulla se non cercare, appena possibile, di rifare il “game” ovvero il crudele gioco del viaggio verso l’Europa (secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati gli ingressi registrati in Bosnia sarebbero stati 24.067 nel 2018 e 29.196 nel 2019). I migranti ci proveranno cinque, dieci, venti volte ad attraversare la rotta per arrivare in Europa, ignari del fatto che in Europa, in teoria, ci sono già. Non si vedono, in questa brutale storia, provvedimenti di respingimento alla frontiera esterna dell’Unione adottati, notificati ed attuati in conformità alle procedure del Codice frontiere Schengen. Al contrario, tutto deve avvenire fuori dalla legalità per non lasciare traccia. «Perché siamo sottoposti a trattamenti così disumani?», è il grido di un profugo afgano riportato nel dossier che la nuova rete “Rivolti ai Balcani” presenterà oggi, 27 giugno, a Milano (ore 11, chiostro della parrocchia S.Maria del Carmine). La rete comprende almeno 36 associazioni italiane (con adesioni in crescita) tra cui Amnesty International, ASGI, ACLI-IPSIA, ICS e molti gruppi di volontari che percorrono le strade dei Balcani con aiuti umanitari. Il dossier, che è anticipazione di un’ampia prossima pubblicazione, è un’analisi ragionata delle principali fonti internazionali, spesso non disponibili in italiano, e vuole di richiamare l’attenzione dell’Italia e delle sue istituzioni su ciò che sta avvenendo non dall’altra parte del mondo ma alle porte di casa nostra, a tre ore di viaggio in automobile da Trieste. Trieste, dunque: per anni linea di approdo e “porto sicuro” per i rifugiati della rotta balcanica. Un luogo dove avere accoglienza e toccare finalmente l’esistenza dello stato di diritto; sia per chi vi restava sia per chi vi si transitava soltanto. Dalla metà di maggio dell’anno della pandemia si verifica un brusco cambio di scenario: iniziano, placidamente annunciate, le cosiddette “riammissioni informali” dei migranti in Slovenia, giustificate, si afferma, sulla base della rinascenza di un accordo risalente addirittura all’anno 1997, altra epoca storica ma fa niente; in politica non si butta via niente. Si usano però ora nuove parole, leggere: riammissione invece di respingimento, ritorni “informali” invece di nessun provvedimento di respingimento. Ma i richiedenti asilo non c’entrano, vero? Non si applicano solo le direttive UE? E che fine ha fatto il famoso Regolamento Dublino? In una lettera aperta inviata da ASGI il 5 giugno al Governo italiano, che finora tace, si chiedono chiarimenti su ciò che appaiono a tutti gli effetti respingimenti collettivi proibiti dal diritto interno ed internazionale. E soprattutto respingimenti a catena: dall’Italia si viene consegnati alla polizia slovena che, parimenti senza notificare alcun provvedimento, corre il più veloce possibile lungo il piccolo paese e arriva al confine croato; nuovo veloce passaggio di polizia, nuova assenza di ogni documento. Da lì, nuova ultima corsa al confine bosniaco ovvero nelle sue vicinanze nei boschi e nei sentieri di campagna. Nessuna consegna stavolta alla polizia bosniaca: il confine verrà ora attraversato a piedi dai migranti a suon di botte. I migranti saranno dunque finalmente di nuovo fuori dall’Unione Europa dove, almeno per un po’. La rotta della violenza funziona così; e ora in questo gioco ci siamo anche noi.
La rotta balcanica scoppia. Immigrati incontenibili. In maggio quintuplicati gli ingressi clandestini Trieste sta diventando la Lampedusa del Nord. Fausto Biloslavo, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. «Non conosci qualche strada buona per arrivare a Trieste? O qualcuno con l'auto, un camion che ci porti fino in Italia», chiede via messaggio vocale dalla Bosnia un marocchino, che parla italiano. Nel cantone di Bihac vive in un campo improvvisato e vorrebbe arrivare clandestinamente da noi. Trieste è la porta d'ingresso dei migranti dalla rotta balcanica, che attraversano a piedi Croazia e Slovenia per spuntare in Italia. «Polterra 22 abbiamo ricevuto segnalazione di otto migranti in via Flavia», gracchia la radio a bordo del fuoristrada della polizia di frontiera di Trieste. «Quasi ogni giorno è così», sospira Lorena, assistente capo, soprannome «Calamita». Quando è di turno scova sempre gruppetti di immigrati illegali. Simpatica e innamorata della sua divisa, arriva in due minuti alla fermata dell'autobus dove i migranti sono piantonati dai militari del Piemonte cavalleria dell'Operazione Strade sicure. Tutti giovani provenienti dal Nepal, un'anomalia rispetto al flusso principale di afghani, pachistani e pure marocchini. Gli agenti controllano gli zaini e scoprono un passaporto con un visto croato. Le scarpe dei migranti non sono infangate e non sembrano provati da una lunga marcia. «Potrebbero essere stati scaricati vicino al confine da un passeur, che li ha nascosti in un furgone», ipotizza uno dei poliziotti. Giuseppe Colasanto, dirigente della polizia di frontiera di Trieste, ammette che «dopo il lockdown per il virus sono ripresi gli arrivi dalla rotta balcanica. In queste ultime settimane i rintracci si sono susseguiti in maniera piuttosto corposa». I numeri sono un tabù, ma dall'inizio dell'anno si era già registrata un'impennata del 23% rispetto al 2019, nonostante la pandemia. In maggio sono cinque volte tanto. Da aprile a oggi sarebbero stati rintracciati un migliaio in tutto il Friuli-Venezia Giulia. Solo nei primi giorni di giugno a Trieste sono arrivati oltre 200 migranti. Numeri ancora bassi rispetto la massa umana pronta a partire dalla Bosnia. Almeno 7.500 persone, ma fonti della polizia slovena parlano di almeno 10mila, che rischiano di trasformare Trieste nella Lampedusa del Nord Est. Shamran Nawaz è appena arrivato dopo «sei giorni e sei notti di marcia in Croazia e Slovenia». Il giovane afghano è accoccolato a terra assieme a una ventina di connazionali con alle spalle le grandi cisterne dell'oleodotto alle porte del capoluogo giuliano. Un automobilista segnala un altro gruppetto di afghani, che spunta dalla strada asfaltata dopo la ripida discesa dalla collina che segna il confine con l'Italia. «Ci avevano chiuso nei campi per la quarantena in Bosnia e Serbia. Finita l'emergenza virus hanno aperto le porte dicendoci: Andate», rivela l'afgano parlando in inglese. Poco più in là c'è un bambino di 12 anni con lo sguardo già da uomo. «Li abbiamo trovati anche nascosti in un vano creato ad arte all'interno di un Tir - racconta Lorena -. È chiaro che sono aiutati da organizzazioni criminali lungo tutta la rotta balcanica». Gli sloveni, dopo le accuse di lasciare passare il flusso migratorio, hanno mobilitato questa settimana 1.000 uomini al confine con la Croazia utilizzando droni, camere termiche, radar terrestri ed elicotteri. Oltre 200 migranti vengono fermati ogni settimana dopo aver passato il confine croato. Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, calcola che i migranti in Turchia desiderosi di arrivare in Europa, quelli spostati dalle isole greche sulla terraferma e gli altri lungo la rotta balcanica sono in totale 100mila. La polizia di frontiera di Trieste è a ranghi ridotti nonostante 40 uomini di rinforzo in arrivo. Il paradosso è che la Slovenia dal 10 marzo ha bloccato tutti i valichi alzando barricate di terra anche sulle stradine del Carso per fermare gli italiani a causa del virus. I migranti, però, passano e trovano sui vecchi cartelli che indicano il confine di Stato italiano scritte in rosso «no border», no confini e «welcome refugees», benvenuti rifugiati, lasciate da qualche talebano dell'accoglienza locale. Anche le riammissioni dei migranti in Slovenia intercettati alla polizia di frontiera si erano inceppate: solo due dal 15 aprile al 12 maggio. Poi sono un po' riprese, ma sempre facendo melina su orari di riconsegna, certificati sanitari e numeri, con l'obiettivo di riprendersi meno clandestini possibile. Il Cocusso, sul Carso triestino, è la collina dei vestiti. Zaini, maglioni, canottiere, scarpe, coperte, ma pure lamette da barba e bottiglie d'acqua erano disseminate nel bosco, come un campo di battaglia. Adesso le guardie forestali hanno raccolto quasi tutto in decine di sacchi neri dell'immondizia, ma nuovi indumenti abbandonati rendono l'idea del capolinea della rotta balcanica. «Siamo a 3 chilometri da Trieste e circa 200 metri dalla Slovenia - spiega il vicequestore Colasanto -. Su questa collina i migranti si cambiano su indicazione dei trafficanti, gli scafisti di terra, per meglio confondersi con la popolazione e non farsi intercettare dalla polizia». A quelli rintracciati vengono subito distribuite le mascherine e trasferiti sotto un grande tendone montato dall'Esercito dove sono visitati dal personale medico del 118. Poi devono fare la quarantena. I centri di accoglienza scoppiano e per questo il ministero dell'Interno ha montato una tendopoli azzurra sul Carso triestino. Dietro la rete con un evidente buco, da dove diversi escono o si dileguano alla faccia dell'isolamento, un gruppo giunto dal Marocco, che non è un paese in guerra, spiega il tragitto durato un anno. «Abbiamo preso l'aereo per arrivare in Turchia - racconta Omar -. Poi a piedi in Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia e infine nove giorni a piedi per attraversare la Croazia e la Slovenia fino a Trieste». Il giovane marocchino tifoso della Juve vuole trovare «lavoro e una vita migliore perché amo l'Italia».
Tutte le frontiere "assediate": l'assalto dei migranti all'Italia. Aumentano le partenze dei migranti dalla Libia, continuano gli ingressi alla frontiera italo-slovena e riprendono i respingimenti a Ventimiglia. Con la fine del lockdown la situazione ai confini italiani rischia di diventare esplosiva. Alessandra Benignetti, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. Aumentano le partenze dalla Libia, non si fermano gli attraversamenti sul Carso triestino, tornano i respingimenti a Ventimiglia. Negli ultimi giorni le frontiere italiane sono state prese d’assalto. Sono 285 i migranti sbarcati tra sabato e domenica, stando ai dati diffusi dal Viminale. Ma con la fine del lockdown e l’estate ormai alle porte i numeri potrebbero salire ulteriormente già a partire dalle prossime settimane. Soltanto negli ultimi due giorni almeno 400 migranti sono stati intercettati dalla Guardia Costiera libica mentre tentavano di raggiungere le coste italiane. A riferirlo è Safa Msehli, portavoce dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). I richiedenti asilo sono stati poi trasferiti in un centro di detenzione a Zawya, cittadina ad ovest di Tripoli.
Non si fermano gli sbarchi in Sicilia. In settanta, invece, ce l’hanno fatta. Sono quelli che domenica mattina, a bordo di un peschereccio di dieci metri, hanno raggiunto la marina di Palma di Montechiaro, nell’Agrigentino. Alcuni testimoni all’inizio avevano parlato di 400 rifugiati. "Sono state viste tantissime persone che scappavano per le campagne circostanti", aveva riferito il sindaco, Stefano Castellino. Una versione poi smentita dalle autorità, che oggi hanno disposto il trasferimento dei migranti, quasi tutti tunisini, a Taranto. Quello di Palma di Montechiaro è l’ennesimo sbarco fantasma. Domenica altri 52 sono approdati sugli scogli di Linosa a bordo di una imbarcazione di medie dimensioni. Il giorno prima a Lampedusa erano sbarcati 47 tunisini. È di questa mattina, invece, la segnalazione di un barcone in pericolo con a bordo 91 persone. I migranti si trovavano a 35 miglia da Malta quando si sono messi in contatto con la linea della Ong Alarm Phone per richiedere un "salvataggio immediato". Anche a maggio i numeri del Viminale fotografano un aumento degli arrivi rispetto allo stesso periodo del 2019. Dall’inizio dell’anno sono 4.737 le persone giunte in Italia, contro le 1.490 dell’anno precedente. Di quelli approdati sulle coste siciliane nel finesettimana nove sono pure finiti in manette per aver fatto rientro nel nostro Paese dopo essere stati espulsi o respinti. Alcuni di loro dovevano scontare condanne per reati commessi all'interno dei confini italiani.
Altri 70 migranti intercettati sul Carso triestino. Continuano gli ingressi anche al confine italo-sloveno. Qui i migranti arrivano a piedi, zaino in spalla, dopo aver attraversato i Balcani, oppure stipati all’interno di auto o tir. I passaggi sono ripresi dalla fine di aprile, con l’inizio della fase due dell’emergenza sanitaria. In 70 sono stati bloccati alle porte di Trieste tra domenica e lunedì. In maggioranza afghani e pakistani, anche loro come gli altri verranno messi in quarantena nella tendopoli allestita al Campo Sacro, un ex campo scout sul Carso. Il Sap, Sindacato autonomo di Polizia, parla di "rintracci quotidiani". "L’ennesimo, dopo quello di ieri e dei giorni scorsi: una situazione che obbliga oggi una maggiore attenzione da parte del governo centrale", denuncia in una nota il segretario provinciale di Trieste, Lorenzo Tamaro. Per il rappresentante di categoria "è fondamentale che si agevolino ed incrementino le pratiche di riammissione in Slovenia degli immigrati che entrano clandestinamente sul nostro territorio nazionale". Ma secondo il prefetto, Valerio Valenti, i numeri non sarebbero "eccessivamente preoccupanti". "È chiaro poi che possono anche intervenire fattori scatenanti: se ad esempio ne arrivano 200 in una sola giornata e non riusciamo ad attivare i meccanismi per accoglierli, allora il problema diventa serio", ha aggiunto. Finora però, assicura, "il governo è molto attento". Non è d’accordo il vice sindaco di Trieste, Paolo Polidori. "La rete cittadina dell’accoglienza è messa a dura prova, soltanto i minori non accompagnati che il comune ha l’obbligo di prendere in carico nelle strutture della città sono 400, e ci costano un milione di euro al mese", ci dice al telefono. "Da Roma – attacca – non arrivano indicazioni precise, la quarantena rende tutto più difficile e il sistema rischia di collassare da un momento all’altro perché i flussi non si fermeranno". "In Bosnia – continua Polidori - i campi profughi sono stracolmi, si parla di almeno 10mila persone, so per certo che da lì si sono messi in marcia almeno in 500". L’arrivo dell'estate rischia di peggiorare le cose. "La Croazia fa il possibile per controllare le proprie frontiere, ma appena inizieranno a sbarcare i primi turisti la maggior parte degli agenti di polizia verrà spostata nelle zone di villeggiatura e il confine resterà sguarnito – aggiunge il vicesindaco – sono tutti fattori che non fanno prevedere miglioramenti da questo punto di vista". La soluzione per lui sono i respingimenti. "Al confine con la Slovenia però non vengono fatti – denuncia Polidori – il governo ha paura, i militari sono pochi e i migranti una volta passato il confine si cambiano e buttano tutti gli oggetti riconducibili al Paese di provenienza".
Tornano i respingimenti a Ventimiglia. A Ventimiglia, invece, i respingimenti da parte dei poliziotti francesi sono ricominciati. A denunciarlo qualche giorno fa, è stata la Caritas Intemelia, che parla di una ripresa del transito dei migranti, "soprattutto afghani". Per ora i numeri sono esigui. Si parla di una decina di persone al giorno. Cifre che però potrebbero salire nelle prossime settimane. "Se continueranno gli sbarchi in Sicilia di conseguenza aumenteranno anche gli arrivi qui al confine, e poi non dimentichiamoci che ci sono anche gli ingressi dalla rotta balcanica, quelli non si sono mai fermati", ci spiegano dagli uffici della Polizia di frontiera. Il prefetto di Imperia, Alberto Intini, per ora è tranquillo. "Non mi sembra una situazione preoccupante, forse può esserlo in prospettiva", dice raggiunto al telefono da ilGiornale.it. "Siamo sull’ordine dei 10 respingimenti al giorno da parte dei francesi, sabato sono arrivati una ventina di migranti alla stazione di Ventimiglia – fa sapere - dati che sono certamente in aumento rispetto all’ultima settimana". "Ma - sottolinea - veniamo da un periodo di lockdown in cui gli arrivi sono stati zero". "Come hanno fatto ad attraversare l’Italia se gli spostamenti tra le regioni sono ancora vietati", attacca invece il deputato leghista Flavio Di Muro. "Se continueranno a mancare i controlli e una gestione degli sbarchi - avverte - è inevitabile che presto assisteremo di nuovo alle scene che abbiamo vissuto in passato qui a Ventimiglia". "L’annuncio della sanatoria voluta dalla ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova e l’inserimento nel decreto rilancio della possibilità di accogliere i richiedenti asilo nella rete SIPROIMI, quella degli ex Sprar, sicuramente stanno contribuendo a far aumentare il numero delle partenze", ragiona il deputato della Lega. Non è l’unico a pensarla così. "L'assalto fuori controllo all'Italia di migliaia di clandestini è un fatto gravissimo, conseguenza delle scellerate politiche sull'immigrazione del governo", tuona il senatore di Forza Italia, Enrico Aimi. "I confini dell'Italia, che sono anche quelli dell'Europa, vanno presidiati e protetti – incalza - la situazione nazionale complessiva rischia di diventare irrimediabilmente esplosiva".
Da repubblica.it il 28 febbraio 2020. Altro che invasione di migranti, ora con il coronavirus è fuga di braccianti stranieri e problemi ulteriori in vista per l'agricoltura italiana. Col timore di non poter più tornare alle loro case, viste le iniziative e le loro restrizioni dei loro governi, dalla Romania alla Polonia fino alla Bulgaria, nei confronti dei loro lavoratori impegnati nelle regioni del nord Italia più direttamente colpite, molti hanno fatto le valige. E' l'allarme lanciato dalla Coldiretti nel sottolineare che più di un quarto del made in italy a tavola viene ottenuto da mani straniere con 370mila lavoratori regolari dall'estero impegnati ogni anno in italia. La Romania, sottolinea la Coldiretti, impone la quarantena ai suoi cittadini provenienti da Lombardia e Veneto dove rappresentano la comunità straniera più numerosa nei campi con oltre centomila lavoratori a livello nazionale ma misure restrittive sono state previste anche dalle autorità sanitarie polacche che raccomandano di adottare l'auto-monitoraggio mentre la Bulgaria chiede a tutti i passeggeri provenienti da tutte le regioni italiane (sintomatici ed asintomatici) di compilare al rientro un questionario, in presenza di un ispettore sanitario con l'invito ad osservare una quarantena al proprio domicilio nel paese. Si tratta di decisioni che stanno provocato le disdette degli impegni di lavoro da parte di molti lavoratori stranieri in italia che trovano regolarmente occupazione stagionale in agricoltura fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore, secondo l'analisi della coldiretti. La comunità di lavoratori agricoli più presente in italia, spiega Coldiretti, è proprio quella rumena con 107.591 Occupati, davanti a marocchini con 35.013 E indiani con 34.043, Che precedono albanesi (32.264), Senegalesi (14.165), Polacchi (13134), tunisini (13.106), Bulgari (11.261), Macedoni (10.428) E pakistani (10.272).
Puglia, più meridionali vanno al Nord che migranti al Sud. Rielaborati dati sul benessere sostenibile dalla Cgil Puglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Gennaio 2020. La ripresa dei flussi migratori è la «vera emergenza meridionale» perché «sono più i meridionali che vanno al Nord che i cittadini stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali«: è quanto emerge dall’analisi che ha fatto la Cgil Puglia sui dati del «Benessere equo e sostenibile» dell’Istat 2019 affidando il focus su lavoro, istruzione e innovazione ai ricercatori Elisa Mariano e a Giuseppe Lollo della Fondazione «Rita Maierotti». «Nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017 - ha precisato Mariano in un incontro con i giornalisti a Bari - gli emigrati dal Mezzogiorno sono stati oltre 2 milioni, di cui oltre 132mila solo nel 2017, di questi ultimi oltre 66mila sono giovani di cui il 33% laureati (pari ad oltre 21 mila persone)». «Il rischio dello spopolamento delle aree del Mezzogiorno tra 50 anni - ha aggiunto - sarà una certezza: nel 2065 si prevede che al Sud ci saranno 4 milioni di residenti in meno con un terzo di popolazione di oltre 65 anni». Negli anni di crisi economica - emerge dal rapporto - si è ampliato lo storico divario tra Nord e Sud, non solo in termini di reddito ma anche per molteplici aspetti della vita sociale ed economica. La Puglia, pur vantando indicatori migliori delle altre regioni del Mezzogiorno, ha fatto i conti con un peggioramento della qualità del lavoro e il rischio di un declino demografico legato sia al calo delle nascite, sia ad una emigrazione verso il Settentrione che riguarda soprattutto i giovani più istruiti. Il sistema produttivo è ancora costituito da imprese piccole e piccolissime con scarsa propensione all’innovazione e bassa domanda di lavoro qualificato. «Continuiamo a registrare dati che non ci lasciano tranquilli - ha detto il segretario generale della CGIL Puglia, Pino Gesmundo - c'è sempre un divario tra Nord e Sud sulla occupazione di giovani lavoratori che hanno titoli di studio superiori al lavoro che svolgono. Bisogna insistere su politiche di sviluppo del governo nazionale per il Mezzogiorno, utilizzare meglio i fondi strutturali che ci consentiranno di superare il divario, se consideriamo che utilizziamo solo il 27% dei Fondi Fesr. Quindi, dialogo e collaborazione sono indispensabili per lo sviluppo». «A fonte di un tasso occupazionale negli ultimi dieci anni in lieve aumento - ha aggiunto Elisa Mariano - il benessere non passa solo attraverso il Pil, ma attraverso indicatori che già dal 2016 le istituzioni italiane hanno preso a riferimento per interventi efficaci. Ma emerge una consistente sacca di lavoro che non riesce a fare il salto di qualità dal punto di vista stabilità, la retribuzione e la sicurezza e la conciliazione tra vita e lavoro. Bisogna continuare ad investire nella formazione ed in ricerca, ma in maniera mirata». «Le donne al Sud devono essere maggiormente garantite - ha concluso Mariano - sia per la qualità del lavoro sia per i servizi di supporto alla famiglie e sarà necessario urgentemente anche a livello locale intraprendere un percorso di sviluppo duraturo e stabile capace di produrre buona occupazione, stabile e soddisfacente».
Da ilmessaggero.it il 16 dicembre 2019. Meno immigrazioni, più italiani all'estero, questi i dati Istat 2019. Aumentano i connazionali che si trasferiscono all'estero, diminuiscono invece gli immigrati dall'Africa verso l'Italia. A rivelarlo sono i dati dell'Istat Nel 2018 le cancellazioni anagrafiche per l'estero (emigrazioni) sono 157 mila (+1,2% sul 2017). Di queste, quasi tre su quattro riguardano emigrati italiani (117 mila, +1,9%). Le iscrizioni anagrafiche dall'estero (immigrazioni) sono circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all'anno precedente (-3,2%). In tutto sono 816mila gli italiani trasferiti all'estero negli ultimi 10 anni. Flusso Nord-Sud. Si continua a spostarsi per i lavoro dal Sud verso il Settentrione e il Centro Italia e il fenomeno è in lieve aumento. Secondo il rapporto Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente nel 2018, sono oltre 117 mila i movimenti da Sud e Isole che hanno come destinazione le regioni del Centro e del Nord (+7% rispetto al 2017). A soffrire sono soprattutto Sicilia e Campania, che nel 2018 perdono oltre 8.500 residenti italiani laureati di 25 anni e più per trasferimenti verso altre regioni.
Cristiana Mangani per il Messaggero il 17 dicembre 2019. Il Sud continua a perdere le sue migliori energie, per via degli italiani che scelgono di trasferirsi all'estero alla ricerca di un lavoro (+1,9%). Mentre, per la prima volta, gli immigrati sono in calo (-17% l'anno scorso quelli provenienti dall'Africa). L'Istat traccia un quadro del nostro paese per certi aspetti sorprendente. I dati emergono dal report sulle iscrizioni e le cancellazioni anagrafiche della popolazione residente, relativo al 2018. Si continua ad andare via dall'Italia, dunque: 117 mila nello scorso anno, cifra che fa lievitare a 816 mila gli espatriati nell'ultimo decennio. Un esercito fatto soprattutto di giovani (l'età media è sui 30 anni, 2 su 3 hanno tra i 20 e i 49 anni) e qualificati: quasi 3 su 4 hanno un livello di istruzione medio-alto e, in cifre, è pari a circa 182 mila il numero dei laureati che negli ultimi 10 anni hanno fatto le valigie. La destinazione preferita è il Regno Unito e la regione in assoluto con più partenze è la Lombardia.
LAUREATI IN FUGA DAL SUD. RISORSE PREZIOSE. Ma è soprattutto il Sud a essere depauperato di risorse umane preziose, anche a vantaggio delle regioni del Centro-Nord: solo l'anno scorso ha perso oltre 16 mila laureati, più della metà (8500) provenivano da Sicilia e Campania. Il flusso degli italiani che decidono di trasferirsi all'estero determina dunque una perdita per il Paese di figure qualificate: circa 33 mila i diplomati e 29 mila i laureati. Rispetto all'anno precedente diplomati e laureati emigrati sono in aumento (rispettivamente +1% e +6%) e l'incremento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto a cinque anni prima, gli emigrati con titolo di studio medio-alto sono aumentati del 45%. Quasi tre cittadini italiani su quattro (73%) che si sono trasferiti all'estero ha 25 anni o più: sono poco più di 84 mila (72% del totale degli espatriati); di essi 27 mila (32%) sono in possesso di almeno la laurea. In questa fascia d'età si riscontra una lieve differenza di genere: nel 2018 le italiane emigrate sono circa il 42% e di esse oltre il 35% è in possesso di almeno la laurea, mentre, tra gli italiani che espatriano (58%), la quota di laureati è pari al 30%.
LAUREATI IN FUGA DAL SUD. L'INCREMENTO. Rispetto al 2009, l'aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10 punti percentuali) che tra gli uomini (+7%). Tale incremento risente in parte dell'aumento contestuale dell'incidenza di donne laureate nella popolazione (dal 5,3% del 2008 al 7,5% del 2018). Dato nuovo è quello che riguarda le iscrizioni anagrafiche dall'estero (immigrazioni) che sono state circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all'anno precedente (-3,2%) dopo i costanti incrementi registrati tra 2014 e 2017. Più di cinque su sei riguardano cittadini stranieri (286 mila, -5,2%). In particolare sono in netta diminuzione, anche se restano consistenti le immigrazioni dal continente africano. E la Lombardia è la meta di un immigrato su 5. Per quanto riguarda invece il fenomeno inverso, cioè le cancellazioni anagrafiche dovute al trasferimento all'estero, nel 2018 sono state 157 mila (+1,25 nel 2017) e quasi 3 su 4 hanno riguardato emigrati italiani. A spiegare la ripresa dell'emigrazione sono le difficoltà del mercato del lavoro in Italia, ma anche il mutato atteggiamento nei confronti del vivere in un altro Paese, proprio delle generazioni cresciute nell'epoca della globalizzazione. E se è il Regno Unito ad accogliere la maggioranza degli italiani all'estero (21 mila), fanno la loro parte anche Germania (18 mila) e Francia (14 mila).
· Espatriati. In Fuga dall’Italia.
Adattabili, globalizzati e versatili: il successo degli studenti con la valigia. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Emanuela Di Pasqua. Gli studenti che studiano all’estero si adattano meglio al mercato del lavoro. Non solo: lo scambio studentesco rende meno diffidenti verso gli altri e alla lunga agevola la costruzione della pace. L’apprendimento di una nuova lingua diventa alla fine una sola tra le tante ragioni per andare a studiare lontano da casa e fuori dal proprio Paese. Lo dice uno studio targato University of California-Merced che sottolinea come dai dati statistici che emergono gli studenti che studiano all’estero sono anche quelli che si sono inseriti meglio e più velocemente nella realtà lavorativa. Grazie a queste esperienze migliorano quelle che sono chiamate le «soft skill», cioè la capacità adattiva e la versatilità, la consapevolezza, l’emancipazione e molto altro. Si tratta di competenze trasversali tanto (e giustamente) richieste dalle aziende perché migliorano la capacità di lavorare in gruppo, la gestione dello stress, la fiducia in se stessi, l’autonomia, la capacità di adattamento, la capacità di comunicare e l’intraprendenza che vengono nutrite con particolare vigore dalle esperienze di mobilità (oltre a essere il risultato del background socio-culturale). In particolare negli Usa il 97 per cento dei ragazzi che vivono un’esperienza di studio oltre i confini del proprio Paese trova lavoro entro 12 mesi, rispetto al 49 per cento della popolazione complessiva. Persino i profili professionali sono più elevati e il guadagno risulta essere mediamente maggiore di 6000 dollari se comparato a chi si forma nel proprio Paese. C’è un’ulteriore riflessione da fare: chi viaggia e si inserisce in altre abitudini e contesti di vita diventa più facilmente tollerante verso usi e costumi differenti. Insomma, la partnership tra scuole del mondo contribuisce al processo di pace e avvicina le persone. In un mondo in cui gli studenti si spostano senza timori è probabile che la diffidenza verso l’altro smetta di esistere. I dati sono tutti americani, ma anche in Europa queste riflessioni trovano conferma. Proprio nei giorni in cui la Gran Bretagna dell’era Brexit fa la sua prima vittima e dice addio all’Erasmus, questi numeri fanno pensare. L’Italia (persino l’Italia) continua a registrare cifre da record nello studio fuori dai confini. Ultimamente il flusso della mobilità studentesca è aumentato sensibilmente. sia per lo sdoganamento di una cultura di carattere globale, favorita dai nuovi media e dai mezzi di interazione sociale, sia per una facilitazione del movimento sbloccata dai trattati e dai numerosi programmi di scambio culturale previsti per gli studenti europei. Negli ultimi dieci anni gli studenti italiani di scuole superiori impegnati in attività formative all’estero è triplicato e per quanto riguarda l’istruzione universitaria risulta che di tutti i laureati italiani una percentuale vicina al 10 per cento ha svolto un periodo di studi all'estero. Nonostante tutto l’America è avanti e in particolar modo queste conclusioni riguardano il rapporto con alcune nazioni, come la Cina, nei confronti delle quali la mobilità studentesca si sta trasformando anche in un potente strumento di dialogo (in tempi in cui se ne avverte un gran bisogno). Durante l’appuntamento di Washington dedicato all’education si sono distinte alcune realtà, come quella della Carlson School of Management at the University of Minnesota, che vanta un 100 per cento di iscritti che si forma fuori. «Vogliamo studenti adattabili, flessibili, felici di spostarsi in altri posti e curiosi di altre culture» ha dichiarato Sri Zaheer, della Carlson School. A proposito di soft skill.
Valigia di cartone sostituita dal trolley, ma pugliesi e lucani restano emigranti. Fuga delle giovani menti di Puglia e Basilicata: in dieci anni 500mila italiani hanno abbandonato la propria terra natia. Gaetano Campione il 27 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In quasi 10 anni circa 500 mila italiani, di cui la metà tra i 15 e i 34 anni, sono andati via dal nostro Paese. E di questi, 14mila sono i pugliesi, 1.500 i lucani. La stima è che l’esodo complessivo dei nuovi migranti tricolori sia costato 16 miliardi di euro, oltre un punto percentuale di Pil: è questo infatti il valore aggiunto che i giovani emigrati potrebbero realizzare se occupati nel nostro Paese. Sono i dati che emergono dal «Rapporto 2019 sull'economia dell'immigrazione» della fondazione Leone Moressa. Tra le cause dell'esodo dei giovani dall'Italia ci sono le «scarse opportunità occupazionali». Il Bel Paese, infatti, registra «il tasso di occupazione più basso d'Europa nella fascia 25-29 anni: il 54,6% contro una media Ue del 75%. Nella stessa fascia d'età anche il tasso Neet (chi non studia e non lavora) è il più alto d'Europa: 30,9% a fronte di una media Ue del 17,1%». Inoltre il livello di istruzione dei nostri giovani è definito «molto basso»: tra i 25 e i 29 anni «solo il 27,6% è laureato, quasi 12 punti in meno rispetto alla media europea». Per Domenico De Masi, sociologo: «L’origine di questo grande flusso in uscita - ha scritto su Formiche.net - che considero a tutti gli effetti un’emergenza, ha un nome ben preciso: prospettiva. In Italia a tre anni dalla laurea solo il 53 per cento dei giovani trova un lavoro stabile. Vuol dire che uno su due rimane a casa con la laurea in tasca. In Germania andiamo ben oltre il 70 per cento. Non c’è da stupirsi se più di qualcuno decide di andarsene da qui». Necessità, non scelta Ma dove si va? La meta più ambita rimane Londra, scelta dal 20,5 per cento da chi è partito nel 2017 e dal 19,3 per cento da chi è partito negli ultimi dieci anni. Al secondo posto, la Germania, dove non solo ti assumono full time a tempo indeterminato ma ti danno pure un tutor per aprire il conto corrente e registrarti all’anagrafe. Molti scelgono anche la Svizzera e la Francia. Se poi si vuole arrivare più lontano, nella top ten delle destinazioni oltre Oceano spiccano Stati Uniti, Brasile, Australia, Canada e Emirati Arabi. Dunque, Italia, addio Ad oggi i nostri connazionali residenti all’estero sono 5,5 milioni, il 9 per cento dell’intera popolazione. La prima regione per espatriati è la Lombardia, seguita da Emilia, Veneto, Sicilia e Puglia dove, su una popolazione di 4milioni29mila53 abitanti all’1 gennaio 2019, ben 351mila527 sono iscritti all’Aire (Anagrafe italiana residenti all’estero), ci ricorda la fondazione Migrantes. Nel dettaglio, la provincia di Bari conta 101mila392 iscritti; Bat 23mila243; Foggia 68mila591; Lecce 102mila679; Taranto 29mila644; Brindisi 35mila958. I pugliesi emigrati in Paesi europei Ue e non Ue sono 282mila682; 2mila834 in Africa; 1.771 in Asia; 24mila349 in America Settentrionale; 44mila646 in America centro-meridionale; 5mila245 in Oceania. La valigia di cartone È stata sostituita dal trolley. Ieri come oggi, però, ci sono all’interno la nostalgia e il senso di perdita, con l’amara consapevolezza di lasciare le radici, gli amici, la famiglia. Perché anche quando torni, per brevi periodi, finisci per sentirti straniero in quella che una volta era casa tua. Ad Andria, a pochi metri dalla stazione di partenza delle compagnie di autobus, Daniele Geniale ha realizzato un murale. L’opera di street art rappresenta un giovane, volutamente disegnato senza testa, seduto su un trolley, con in mano un telefonino, mentre attende il pullman che lo porterà via. Il titolo? «Ritornerai». Ha spiegato l’autore del murale, finanziato dalla Regione Puglia col bando Open call: «È un pugno allo stomaco per tutti quelli che sono rimasti qui. Ma spero che possa essere anche un motivo di riflessione per tutti. Ritornerai diventa la domanda da fare da soli al proprio cervello e quella che ogni andriese si farà guardando l’opera, ogni qualvolta salirà su un mezzo di trasporto in partenza dalla propria terra». La mappa dell’espatrio La Svimez ci racconta come tra le prime 50 città italiane, 13 sono pugliesi se si analizzano i dati in percentuali: Molfetta, Modugno, San Severo, Martina Franca, Brindisi, Foggia e Manfredonia perdono dal 14 al 10 per cento della loro popolazione under 30. In termini assoluti Taranto è terza con 3.643 giovani andati via, Bari sesta con 2.971 e Foggia nona con 2.599. A Volturara ci sono 408 abitanti e 589 iscritti all’Aire. San Marco la Catola, Roseto Valfortore, Faeto, Anzano, Panni e Celle di San Vito hanno più cittadini all’estero che nei Comuni di appartenenza. Quelli che se ne vanno, non tornano più. C’è chi parla di tsunami demografico: ogni 100 giovani pugliesi fino a 14 anni, ci sono 168 anziani over 65. E l’età media della popolazione cresce. Abbiamo superato i 44 anni. Gli italiani sono i più vecchi d’Europa Le stime di Eurostat annunciano ripercussioni sociali ed economiche epocali: fino al 2050 l’Italia potrebbe perdere tra i 2 e i 10 milioni di abitanti, mentre gli anziani aumenterebbero di 6 milioni, quasi un terzo dell’intera popolazione.
Laureati in fuga dall'Italia: tutti i numeri di un'emergenza nazionale. L'analisi di due studenti italiani ad Harvard che mette insieme le statistiche su chi fugge dal nostro Paese. E smentisce molti luoghi comuni. Gaia Van Der Esch e Tommaso Cariati il 23 dicembre 2019 su L'Espresso. Avere un figlio all'estero, con il quale si comunica via Skype, via Whatsapp. È ormai una consuetudine per molte famiglie italiane che prendono atto dell'assenza di opportunità di carriera in Italia e accettano la dipartita, con grande sofferenza, al punto che molti italiani sono più preoccupati per i propri ragazzi che emigrano, anziché dell’arrivo di migranti. Conferma l'osservatorio European Council on Foreign Relations, il primo think tank paneuropeo per la ricerca e promozione di un dibattito informato a favore dello sviluppo dei valori europei, che più della metà degli italiani sarebbe a favore di misure di controllo sull’emigrazione. Allora perché i nostri politici, giornalisti ed esperti si preoccupano di chi arriva anziché invece porre un argine all'esodo di massa dei giovani? Ad andarsene sono tantissimi giovani ad alto potenziale, con qualifiche accademiche elevate, per nulla valorizzati in patria, ma apprezzati all’estero. Sono specializzati in tutti i settori, provengono da tutta Italia, poco più della metà trova casa in Europa, gli altri migrano negli Stati Uniti e in Australia. Difficile stabilire con esattezza quanti siano. I dati Istat dicono che nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Ma in base all'analisi da noi effettuata il volume degli espatri potrebbe essere addirittura doppio. Infatti l’Istat, che utilizza i dati Aire, cioè l'anagrafe degli italiani all'estero, sottostima almeno della metà i numeri di chi parte. Prova ne è il fatto che nel 2017, per i 36 paesi Ocse, l’Aire ha registrato 76mila partenze, mentre i paesi di arrivo hanno registrato 146mila italiani. Quindi, seguendo questa logica, i giovani laureati partiti nel 2018 sono almeno 60mila, e quelli partiti negli ultimi 5 anni (tra il 2013-2018) sono 200mila al netto degli arrivi. Se uniamo i dati del report sui cittadini mobili, con i dati dell’Ocse sul contingente di italiani lavoratori nelle 36 economie più grandi, scopriamo che ci sono più di 600 mila laureati attualmente vivono e lavorano in questi 36 paesi. Sono circa il sei per cento di tutti i laureati italiani: una percentuale altissima se paragonata alla Francia (quattro per cento) o alla Spagna (due per cento). Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes riporta, utilizzando principalmente dati Istat, che il 40 per cento di chi è partito nel 2018 ha fra i 18 e i 34 anni. Ma anche che questo dato sta peggiorando con un aumento di 8,1 punti percentuali delle partenze 18-34, mentre nello stesso periodo tutte le categorie di età over 35 sono diminuite. Questi fattori contribuiscono al generale invecchiamento della popolazione italiana. Il problema diventa ancora più grave ci si concentra sui laureati. Dice l'Eurostat, l'agenzia statistica dell'Unione Europea, che in Italia solo il 17 per cento della popolazione ha una laurea, percentuale di gran lungo inferiore alla media Ue, che si aggira attorno al 30 per cento. Significa che mancano all'appello almeno sette milioni di laureati rispetto agli altri paesi europei. E come se non bastasse, molti di coloro che conseguono il titolo di studio lasciano l'Italia. Infatti il report sui cittadini Europei in movimento dentro l’Unione, racconta che il 30 per cento degli italiani all’estero ha una laurea. Stiamo quindi perdendo una grande fascia di chi può far crescere il nostro paese, di chi sa innovare, di chi può contribuire, con le proprie energie e competenze, a tirare fuori l’Italia dalla spirale di crisi - economica, demografica, educativa e occupazionale – in cui si è avviluppata. Le competenze italiane vengono invece sfruttate dai paesi in cui i giovani emigrano.
Siamo partiti in cerca di opportunità e responsabilità. Gli expat sono partiti per tanti motivi. Oltre allo studio, c'è chi parte per trovare lavoro (62 per cento), per avventura (13 per cento), per amore o motivi personali (6 per cento). I dati parlano chiaro: l'Italia è un Paese dove i giovani non si sentono valorizzati come risorsa, e si organizzano per fare (spesso a malincuore) le valigie alla ricerca di un futuro migliore. Quello che spinge all'emigrazione non è la ricerca di un lavoro qualunque, perché qualcosa (anche se non quello che vogliamo) si trova a casa, bensì un'occupazione degna. Con un guadagno, delle prospettive e delle responsabilità in linea con il valore e l’investimento in formazione da parte delle famiglie e dei giovani. Chi se ne va non riesce a vedere futuro in un paese che accetta – secondo Eurostat - che oltre il 20 per cento dei suoi ragazzi fra i 15 e i 24 anni non faccia nulla: né studia né lavora. Un numero molto più alto rispetto agli altri paesi europei. Altri partono per curiosità e ambizione, in cerca di occasioni di sviluppo personale che l’Italia non offre. Chi termina gli studi, infatti, sente l'esigenza di sfruttare ciò che ha imparato e di apprendere qualcosa in più, di lavorare in un ambiente stimolante, con colleghi all'altezza e risorse che offrano una prospettiva di carriera. Il Paese delle università più antiche al mondo non ha neppure una propria università nella top 100 delle università mondiali, secondo i ranking di QS. Le opportunità di avere successo come imprenditore, nel paese delle piccole e medie imprese, sono praticamente nulle. Il famoso fondo di venture capital, Atomico, scrive nel suo report annuale sulle startup europee che ci sono 99 neonate società con un valore di più di un miliardo di dollari - le cosiddette “unicors” -, ma nessuna di queste si trova in Italia. Sono in Estonia, Ucraina, Romania, Repubblica Ceca, ben due in Spagna. Ma zero in Italia. L’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del proprio pil, il prodotto interno lordo, sorpassata da Repubblica Ceca e Slovenia. Il nostro paese ha tagliato la spesa per la ricerca del 21 per cento tra il 2006 e il 2016, secondo il Libro Bianco realizzato dal Gruppo 2003.
Siamo partiti per vivere in società giuste e per giovani. Appena arrivati all’estero molti expat hanno trovato una società dove essere giovani è un valore aggiunto. Per capirlo, basta guardare gli investimenti che i paesi fanno in educazione e in pensioni: secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione, l’Italia ne spende 3,5 in pensioni, il secondo numero più alto d’Europa (questa volta il primato ce l’ha la Grecia). E per ogni euro in università, ne spende 44 in pensioni, di gran lunga il numero più alto. I cugini francesi ne spendono 22. I nonni, senza volerlo o saperlo, stanno facendo la guerra ai nipoti. Il mondo del lavoro è altrettanto colpevole. L’Ocse stima che in Italia i laureati fra i 25-34 anni guadagno solo il 10 per cento in più dei loro coetanei senza una laurea. Per capirci, in Inghilterra il valore economico di una laurea è del 35 per cento e in Francia quasi il 45 per cento. Questo dato diventa molto preoccupante quando si scopre che, al contrario, i laureati italiani fra i 55-64 anni in Italia, hanno un “bonus” sui guadagni fra i più alti d’Europa, quasi al 65 per cento, mentre in Inghilterra non si va oltre il 45 per cento. Quindi il mercato del lavoro italiano penalizza i giovani e valorizza gli anziani, anche a parità di titolo di studio. Gli expat hanno anche trovato una qualità di vita più alta all’estero – con grande stupore vista la convinzione degli italiani che l’Italia sia il miglior posto dove vivere al mondo. Eurostat conferma che la qualità di vita nel Bel Paese è tra le più basse in Europa: manchiamo di dinamismo culturale e sociale. Gli aneddoti si sprecano, dalla decadenza dei parchi pubblici a quella dei nostri teatri e centri storici. All’estero si investe e si rispetta la cosa pubblica. Non i giovani emigranti hanno trovato una qualità di vita elevata, ma anche un contratto sociale più giusto. Società eque, con poca corruzione e nepotismo. Dove tutti pagano le tasse, che sono alte come o più che in Italia. Inutile dire che l’Italia è tra i peggiori paesi in termine di corruzione percepita, misurata da Transparency International. All’estero la meritocrazia funziona, e chi espatria ne beneficia. Anche nell’evasione resta capione, con un tax gap del 13,5 per cento e più di 150 miliardi l’anno secondo gli economisti Raczkowski e Mroz. Considerando che il nostro deficit è di 40-50 miliardi di euro l’anno, in Italia sembra esserci un gruppo di furbetti che vive a spese di tutti gli altri, tagliando le gambe ai giovani di oggi e alle future generazioni.
La soluzione alla crisi: perché siamo necessari all’Italia. Nonostante la nostalgia per la terra, la preoccupazione delle famiglie e i dati sconcertanti, la fuga dei cervelli non è certo l’unico problema a cui fa fronte l’Italia. Anzi, ne è una conseguenza. Basta pensare agli ultimi 25 anni. Negli anni ‘90, l’Italia aveva un pil procapite più alto dell’Inghilterra e si ritrova nel 2019 superata dalla Spagna. Siamo cresciuti del 7,5 per cento in 25 anni. Addirittura la Grecia è cresciuta più di noi (18 per cento). Questa crisi infatti presenta un’opportunità unica: l'Italia ha un contingente enorme di giovani formati, che parlano lingue, con esperienze lavorative internazionali, che hanno imparato lavorando al fianco di leader mondiali nei vari settori, e che potrebbero risolvere – tornando – tanti problemi del bel paese. Crisi economica: Un laureato che parte è una perdita pesante per l’Italia. Confindustria stima che una famiglia spende 165mila euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni. Mentre lo stato ne spende 100mila in scuola e università. Se prendiamo i dati ISTAT e li raddoppiamo (vista la discrepanza di dati) questo rappresenta una perdita di investimenti attorno ai €25-30 miliardi annui. Investimenti di cui beneficiano i nostri vicini tedeschi, francesi e inglesi, con tasse, innovazione e crescita. Parlando appunto di tasse si calcola, partendo da dati Ocse ed Eurostat, che le casse del tesoro perdono 49 miliardi die uro l’anno di gettito fiscale, di cui più di 25 miliardi di euro dai laureati all’estero. Denaro che potrebbe coprire il nostro deficit annuale. Questo volume non considera tutto l’indotto dell’attività economica che sarebbe generato se i nostri giovani tornassero dall'estero.
Crisi lavorativa: Secondo Eurostat gli italiani hanno una vita lavorativa di circa 31 anni, in Inghilterra è di quasi 40. La nostra età pensionabile, però, è in linea con gli altri paesi europei, il che ci dice che il problema è all'ingresso: in Italia si comincia a lavorare troppo tardi, in media a più di 30 anni. Solo il 70 per cento degli italiani fra i 25-34 anni in Italia lavora, contro più dell’80 per cento dei paesi del Nord. Gli expat quindi hanno esperienze di lavoro spesso più alte rispetto ai coetanei rimasti in Italia, e un loro ritorno rappresenterebbe una leva importante per innovare e importare nuove idee.
Crisi educativa e produttiva: Le competenze di giovani all’estero permetterebbero, nell’ipotesi di un ritorno in massa, di migliorare il gap di educazione che l'Italia ha nei confronti degli altri paesi europei. Secondo l’Ocse, l'Italia ha il più alto gap educativo tra emigrazione e immigrazione. In altre parole, esportiamo gli italiani più educati e importiamo gli stranieri che hanno studiato meno. Questo è estremamente dannoso per il futuro economico del paese dove invece di innovare in tecnologia, ingegneria, scienza e attività economiche “complicate”, ci si concentra su attività più semplici come ristorazione, turismo ed edilizia. Anche su questo i numeri parlano chiaro. La produttività dell’Italia, nona di 32 paesi Ocse nel 1995, è cresciuta in 25 anni del 6,8 per cento, il numero più basso di tutti e si ritrova oggi diciottesima.
Crisi demografica: Il rimpatrio, a giuste condizioni (stabilità e sostegno socio-economico), contribuirà a risolvere il preoccupante gap demografico, diminuendo il tasso di dipendenza ormai alle stelle. Secondo Eurostat, per ogni persona in età pensionistica, in Italia ce ne sono 2,8 in età lavorativa (16-65). La Francia e la Spagna ne hanno 3,3 e 3,4. È inutile chiedersi per l’ennesima volta “chi pagherà le pensioni nel futuro”. Però è importante ricordare che la ricchezza di tutti è creata da “pochi”, ossia da chi è in età lavorativa. Se continuiamo a spingere all’emigrazione i più produttivi fra gli italiani, non ci saranno speranze per mantenere il tenore di vita a cui siamo abituati.
Senza di noi non ce la possiamo fare: un appello al nostro paese e ai giovani all’estero. Un paese senza i suoi giovani è un paese senza futuro. Allora, come far rientrare gli expat? Il sondaggio del centro studi di PWC ci dice che l’85 per cento dei giovani all’estero pensa che il paese in cui vivono offra migliori opportunità lavorative che l’Italia. Nonostante ciò, il 74 per cento considererebbe un ritorno a parità di condizioni. L’opportunità è chiara ed esiste. L’Italia lo sa, e si sta muovendo per farci tornare: le città, le regioni e il governo stanno unendo le forze con imprese, associazioni ed università. Gli esempi non mancano: Milano ha lanciato “Talents in motion”, la regione Sardegna ‘Master and Back’, e al livello nazionale il decreto-legge sul rientro dei cervelli viene rinforzato continuamente per incentivarci a tornare, di cui la più recente modifica si trova nell’articolo 5 del decreto crescita del 28/5/2019. Ma la verità è che queste agevolazioni fiscali sono poco conosciute dagli italiani che potrebbero usufruirne. Secondo il sondaggio del Gruppo Controesodo, il 21,43 per cento degli Italiani all’estero non la conosce e il 40,95 per cento la conosce solo vagamente. Viste le discrepanze di dati sugli italiani all’estero, sarebbe il minimo che le istituzioni cominciassero a raccogliere dati affidabili e ad assicurarsi che i loro giovani siano al corrente dei loro diritti. Inoltre, dei pochi italiani che sono al corrente di queste agevolazioni, il 75 per cento non le considera sufficienti per rientrare. I dati lo dimostrano: dei 14.000 italiani rientrati tra il 2011 e il 2017 grazie alle agevolazioni, il 50 per cento è già ripartito. Perché? Troppi ostacoli nell’accedere alle agevolazioni, che in più sono di corta durata. Allungare la durata dei benefici fiscali, oltre ai 5 anni, ed espandere i nuovi benefici a chi è tornato usufruendo di leggi antecedenti potrebbe raddoppiare il numero dei giovani pronti a tornare, secondo il Gruppo Controesodo. Questo sarebbe un punto di partenza per il Governo. Ma sono ripartiti anche per le poche opportunità di crescita in Italia. La cultura lavorativa e l’attitudine del sistema verso i giovani sono i veri elementi che ci trattengono dal tornare a casa, o che ci spingono a ripartire. Investire fondi per l’impresa, la scienza, l’educazione è un inizio ed è necessario. Ma quello che serve è un cambiamento radicale di cultura lavorativa ed educativa, difficile da raggiungere ma che può succedere - se ognuno di noi se ne fa carico. Quindi torniamo a noi, e usiamo una metafora: nelle comunità macrobiotiche, il 20 per cento della popolazione guida l’80 per cento dei flussi. Se torniamo sparpagliati, ci disperderemo, non troveremo chi ha avuto le stesse esperienze e ha quindi la stessa visione del futuro. Dobbiamo tornare insieme, in massa critica, ed aiutarci a vicenda con i tanti giovani che sono rimasti e già lottano. Sta a noi combattere le ingiustizie e le inefficienze dell’Italia, salvare il Bel Paese cambiando quello che non va. Sta a noi ora tornare per consentire alla prossima generazione di immaginare un futuro, fin da subito, nel paese più bello del mondo. Quindi iniziamo da qua, dandovi degli spunti di riflessione ed invitandovi ad un dialogo che possa generare soluzioni e riportarci a casa.
CARA ITALIA, CIAO. CERVELLI IN FUGA. La grande diaspora. Le vere ragioni per cui i giovani stanno fuggendo dall'Italia. Ogni giorno vanno a vivere all’estero 400 ragazzi, molti dei quali laureati. Ma non sono arrabbiati o egoisti come li dipinge una certa retorica. E se vanno via non è solo per una questione di soldi. Gloria Riva il 23 dicembre 2019 su L'Espresso. Laura ha 31 anni, lavora a Parigi, ha una relazione complicata con l’Italia: «Uno di quegli amori non corrisposti che ti strazia il cuore». Alberto vive a Londra e ci insegna perché gli expat, cioè i giovani in cerca di fortuna all’estero, detestano la definizione di “cervelli in fuga”: «Si fugge da una guerra, non da un paese bello come l’Italia». Sergio, 35enne e professore negli Stati Uniti, spiega che il sistema educativo italiano è migliore di quello americano. Giulia sta in Cina e dice: «Il sistema sanitario italiano, gratuito per tutti, è cosa di cui andar fieri». Laura, Alberto, Sergio, Giulia fanno parte di una generazione di italiani under trentacinque, per lo più laureati e diplomati, che nell’ultimo decennio ha lasciato in massa l’Italia, ma che è pronta a tornare. Lo raccontano le loro cartoline all’Italia, pubblicate da l’Espresso e tante altre ancora sul nostro sito, e lo confermano con maggior forza due studenti italiani della Kennedy School di Harvard che dalle colonne dell’Espresso lanciano un appello politico a chi, come loro, si trova all’estero e sente forte il desiderio di rientrare, per contribuire a far risorgere il proprio paese. Sono Gaia van der Esch, 32 anni di Anguillara Sabazia (Roma), selezionata nel 2017 da Forbes fra i trenta giovani europei più talentuosi, e Tommaso Cariati, 26 anni, fiorentino, ex consulente McKinsey, che oggi si divide fra un mba a Stanford e un master ad Harvard. Dicono: «Torniamo a casa. Siamo partiti, abbiamo imparato, ci siamo divertiti. Ci siamo sentiti anche lontani da casa, soli. L’Italia è in crisi, economica e culturale: sta a noi fare qualcosa per il paese che ci ha cresciuto e ci ha insegnato tanto. Tocca a tutti noi, è il nostro turno. Torniamo a un lavoro che paga meno, con l’obiettivo di cambiare le regole dall’interno, torniamo per fare fronte comune alla corruzione e alla politica da spiaggia. Lanciamo questo appello a tutti coloro che come noi sono partiti: abbiamo un’opportunità e una responsabilità unica per partecipare alla rinascita dell’Italia. Usiamo le nostre idee ed energie per fare dell’Italia un esempio per il mondo. Torniamo e portiamo con noi i nostri colleghi e compagni di università, invitiamoli a lavorare nel Bel Paese, invertiamo la rotta, assicuriamoci che i giovani di oggi e di domani siano valorizzati, come noi lo siamo stati all’estero. Dobbiamo provarci. Tutti insieme». L’appello di Gaia e Tommaso giunge nel momento in cui il fenomeno dell’espatrio sta assumendo una dimensione preoccupante. Lo conferma il rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes: «In dieci anni il numero di expat è triplicato, passando da 39 mila nel 2008 a117 mila nel 2018». Nell’ultimo anno le partenze hanno interessato soprattutto i giovani - il 40 per cento sono ragazzi fra 18 e 34 anni - provocando «la dispersione del grande patrimonio umano giovanile. Capacità e competenze che, invece di essere impegnate al progresso e all’innovazione dell’Italia, vengono disperse a favore di altre nazioni più lungimiranti, che le attirano a sé, investono su di esse trasformandole in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento».
"Cara Italia, ora ascolta noi espatriati": le storie di chi è dovuto fuggire per realizzarsi. Dieci cartoline da parte di altrettanti cervelli in fuga, andati via per trovare lavoro o fare carriera fuori dai nostri confini. Con racconti di eccellenze e incomprensioni. E i suggerimenti su cosa fare per convincerli a tornare. Gloria Riva il 23 dicembre 2019 su L'Espresso.
IO SULLA VIA DEL RISO. Giulia Ziggiotti.. Cara Italia, aspettami. Tornerò da te fra qualche anno con dei chicchi di riso, per portare a termine il progetto iniziato da papà. E non temere, non mi dimentico di te: riempi la mia giornata. A Pechino dirigo la Scuola Italiana Paritaria d'Ambasciata e gli allievi sono per lo più figli di famiglie italiane residenti in Cina, approdate qui per motivi di lavoro. Come me, del resto. Sono arrivata in Cina otto anni e mezzo fa, affascinata dalla velocità di cambiamento di questa incredibile nazione. Basta starci lontana pochi mesi, per stupirsi - al proprio ritorno - di quanto tutto sia già rapidamente mutato, teso al futuro. Gli italiani di Cina iscrivono i loro bambini alla scuola paritaria perché sentono forte il desiderio di mantenere viva l'identità e la lingua, intatte le origini e la cultura. Qui insegniamo la tua storia, la tua civiltà, la passione per il bello: caratteristiche che ti rendono un luogo unico al mondo. È una grande opportunità per raccontarti e sento di amare questo lavoro. Ma ho in mente di tornare, se non altro per restituirti il privilegio concessomi di laurearmi in Lingua e letteratura Cinese all'Università di Venezia. C'è quella piccola risaia comprata da papà, che oggi garantisce un piccolo raccolto, sufficiente solo per pagarci le spese. Ma in futuro, attorno al riso (che mi ricorderebbe la Cina) vorrei creare un progetto di produzione agricola, per dare a una trentina di persone con fragilità l'opportunità di essere felici. Di godere di quella gioia data ogni giorno dall'appagamento di un lavoro amabile. Nel frattempo, ti chiedo un dono: fai dialogare il mondo imprenditoriale con quello della formazione, dell'università, degli istituti tecnici e professionali, perché hai istruito giovani con delle idee eccezionali, che purtroppo - troppo spesso - restano inascoltate: mettiti in loro ascolto, potresti accoglierle quelle idee e farle decollare! Altrimenti rischi di perdere quei potenziali, che tanto ti è costato formare, e qualche altro stato potrebbe raccoglierne i frutti.
Giulia Ziggiotti. Trentacinque anni, dal Veneto si trasferisce a Pechino. È head manager della Scuola Italiana Paritaria d'Ambasciata a Pechino.
A CASA TROVAVO SOLO LAVORI IN NERO. Alberto Campagnoli. Cara Italia, sabato scorso ero in piazza per te! Qui a Parliament Square si stava stretti come sardine. Già, non ero solo, c'erano un sacco di sardine londinesi accanto a me. Ci siamo ritrovati in migliaia, un po' in ansia per il voto e la Brexit e altrettanto per il populismo dilagante lì in Italia. Il movimento oltre Manica l'abbiamo creato insieme, perché davvero non ne possiamo più di sentire tutti questi discorsi d'odio. Del resto a te questa rabbia non s'addice. Tu ci hai insegnato a essere fraterni, gentili, dialoganti: così ci riconoscono gli amici e i colleghi qui a Londra. Gli italiani sono conciliatori nati, sono l'anima dei gruppi internazionali, sono il collante delle relazioni umane. Le sardine londinesi difenderanno la tua civiltà! Il prossimo potrebbe essere l'anno del mio ritorno, perché vorrei metter su famiglia! Sto cercando lavoro, come architetto, fra Milano e Torino, dove ci sono gli studi professionali internazionali, come quello in cui lavoro qui a Londra, la multinazionale Gustafson Porter + Bowman, dove sto progettando i nuovi spazi verdi della futura Ville Lumiere. Come vedi, lavorare tanto non mi spaventa: tu offrimi la dignità di un contratto, che abbia in sé il diritto alla paternità e le tutele che si addicono a un mestiere dignitoso. Sai, l'ultima volta non è andata proprio bene. Ti ricordi? Stavo a Venezia, avevo appena finito l'Università e mi si era presentata l'occasione di un lavoro bellissimo: coordinare gli eventi collaterali della Biennale di Venezia. Allestivo contesti artistici nei palazzi della città. Un sogno. Lo stipendio non era un problema: mille euro al mese, che per un ventiseienne era niente male. Ma mi pagavano in nero: quindi niente contratti e certezze! E io mi sono un po' spaventato: non c'era alcuna prospettiva di carriera. A malincuore ho lasciato Venezia e gli amici d'infanzia di Modena per un tirocinio a Berlino. Poi la tristezza è scomparsa quando sono stato assunto con un contratto qui a Londra: è stato commuovente trovare lavoro inviando un semplice curriculum. Nel frattempo, a Venezia, gli ex compagni di università hanno iniziato a sistemare le cose, faticosamente sono riusciti ad ottenere contratti regolari, ci stanno riuscendo. Mentre altri mi dicono che a Milano, per lavorare, serva essere freelance, quindi zero sicurezza! Facciamo un patto: tu riconosci i miei diritti e io prendo un aereo e torno da te. È come se fossi già lì!
Alberto Campagnoli, 31 anni, dall'Emilia a Londra: professione architetto.
SOGNANDO FRONTEX. Raffaele Gradini. Cara Italia, ho girato il mondo. Sono andato a Mosca per studiare allo Skolkovo Institute of Technology. Poi in Francia, alla Airbus di Tolosa. Mi sono trasferito in California, alla Nasa. Adesso sto ad Atlanta, cuore della Georgia,per progettare flotte militari per la Nato e la Marina Italiana. Ma credimi, mi sento a casa solo quando scorgo l'Etna. Mi manca la sua roccia, la sua sabbia nera fra le dita dei piedi: mi trasmette un senso di pace e mi ricorda come la nostra terra sia viva. Ed è così viva nel mare e nelle nostre piazze. E allora ecco che quando torno passo da un tuffo dagli scogli ad un’immersione nella cultura classica di Catania e di Roma, nei musei e nella bellezza degli edifici. M'informo tutti i giorni su quello che ti succede e mi rattrista la tua situazione politica, mi spiace vederti sommersa dal malcostume e dalla sfacciataggine politica. Non sopporto tutti questi attacchi gratuiti alle tue istituzioni, solo per prendere il pubblico di pancia e guadagnare qualche voto. Stiamo scrivendo un capitolo triste della nostra storia, alla fine degli anni '70 andammo con la nostra Marina a salvare dal mare i Boat People che scappavano dalla guerra del Vietnam. Adesso c’è chi festeggia quando i nostri militari non arrivano in tempo per salvare i migranti nel Mediterraneo. Qui ad Atlanta lavoro per rendere le nuove navi resistenti a minacce future e in parte ancora sconosciute. Studio e lavoro grazie a due borse di studio: la Fulbright e la Ermenegildo Zegna Founder's Scholarship. Quest'ultima mi lega a doppio filo con il nostro territorio e prevede che, finito il progetto di ricerca, io torni in Italia per almeno due anni. Ho stretto volentieri questo patto, perché ho tanti sogni da realizzare per te e con te! Vorrei lavorare al progetto Pesco, Permanent Structured Cooperation, dove l'Italia ha un peso consistente e con gli altri paesi vuole ottenere l'integrazione strutturale delle forze armate. Oppure andrei all'Eda, European Defence Agency per continuare a fare ricerca e servirti al meglio. C'è anche il piano Frontex per la difesa delle frontiere e dei mari, dove l'Italia ha un ruolo centrale. Mi piacerebbe far parte di una di queste agenzie per contribuire a costruire un’Europa unita. Vista da lontano l'Italia può sembrare piccola, ma non lo è, siamo la quarta economia d'Europa e proprio grazie ai nostri vicini ad alleati possiamo moltiplicare le nostre capacità: insieme siamo più forti! Vorrei vedere un Europa più solida anche grazie a te, mia Italia. Del resto, io sono europeo, siciliano e romano, ma soprattutto sono italiano, e come direbbe Gaber “per fortuna lo sono”.
Raffaele Gradini, 27 anni, ingegnere aerospaziale all'Aerospace System Design Laboratory di Georgia Tech ad Atlanta. Da Catania a Roma, fino ad Atlanta.
A CHICAGO FACCIO RICERCA. E IN ITALIA? Emanuele Colonnelli. Cara Italia, suvvia non tenermi il broncio. È vero, manco all'appello da qualche annetto, ma te l'ho già spiegato, ho una missione da compiere qui a Chicago: devo diffondere il verbo dell'arrosticino! E poi non ti tradisco, mai: faccio la spesa da Eataly e sfreccio per le strade della Windy City a bordo di una Giulia. Lo sai bene anche tu: torno sempre quando lanci progetti interessanti. Ad esempio, sarò a Roma tutto il mese di giugno. A fare che? Vado in visiting position al prestigioso Einaudi Institute for Economics and Finance. Lì ci lavora un gruppo di ricercatori d'eccellenza e fra noi economisti (italiani e non) si fa a gara per partecipare ai programmi dell'Istituto Einaudi, che accoglie le migliori menti economiche provenienti da tutto il mondo. Parteciparvi è un'ottima occasione di crescita professionale. Forse potresti impegnarti di più in progetti analoghi. Pensaci bene: a quel punto non attireresti soltanto i cervelli italiani in fuga, ma ti corteggerebbero le personalità più brillanti provenienti da tutti i paesi del mondo, non solo gli italiani. Forse non te ne sei resa conto, ma chi se ne va dall'Italia, lo fa anche perché sei priva di contesti internazionali al top. Prendiamo il mio caso. Mi sono laureato in Economia a Siena e la specialistica l'ho terminata in Bocconi. Volevo fare il professore e lo sanno tutti che per fare carriera ad alti livelli è importante ottenere un assegno di ricerca in una delle dieci università più prestigiose del mondo: però nessuna di queste si trova in Italia. Quindi, eccomi qui, alla Booth, fra i più importanti centri di ricerca economica al mondo, dove lavoro spalla a spalla con due premi Nobel, Eugene Fama e Richard Thaler. A questa cosa devi assolutamente porre rimedio: non hai capito che la tua carenza è l'assenza di un contesto dinamico e internazionale? Devi riuscire ad offrire interessanti opportunità di lavoro per i ricercatori - in tutti i settori - e allora tutti vorranno venire a lavorare da te. Io stesso vivrei benissimo a Milano o a Roma. Sono città con un approccio sano alla vita, tutt'altra cosa rispetto alla frenesia degli Stati Uniti. Come sai, non faccio programmi a lungo termine, quindi non escludo di poter tornare in Italia, sempre che mi venga offerta la possibilità di continuare la mia carriera universitaria con il giusto supporto della ricerca. Del resto l'Italia potrebbe essere un campo di ricerca scientifica interessante per me, che mi occupo soprattutto di corruzione dei sistemi economici, mercati emergenti e soluzioni di sviluppo per start up. Già, sono proprio le competenze che ti servirebbero per tornare a crescere!
Emanuele Colonnelli, 32 anni, di Ascoli Piceno, è professore di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business.
NON RICONOSCEVO PIÙ IL PAESE IN CUI SONO NATO. Sergio Imparato. Cara Italia, mi vergogno un po’ a scriverti. Forse perché quando sono partito l’ho fatto senza troppi rimorsi. Ora, dopo otto anni all’estero, inizio a sentire la tua mancanza. Una mancanza di affetti, amicizie e cene interminabili, che piano piano apparecchia una fondamentale mancanza di sé. Perché sei partito, mi chiederai. Penso che chi parte lo fa soprattutto perché può, per opportunità. Qualcuno anche perché un po’ smarrito e non si riconosce più nel posto che chiama casa. Quando sono partito, ho sentito forte questo senso di smarrimento. La partenza è servita a ritrovarmi. Ed è stato facile ritrovarsi nell’Università Americana, che con le sue cerimonie, onori ed eccellenze, quasi ti impone un senso di appartenenza. Qui in America ho “messo su” famiglia e una piccola comunità di amici, tra cui tanti italiani. Qui ho trovato un lavoro che mi emoziona e un mondo tutto proiettato al futuro. E con sorpresa, qui ho trovato anche un grande desiderio di Italia. Mia moglie, che è haitiana/newyorchese, si è innamorata dell’Italia e vorrebbe viverci perché ormai la sente già casa, anche più di me. In America non ci vedono solamente come depositari di straordinaria bellezza, ma soprattutto come promotori di un buon modo di vivere. Un modo di vivere improntato alla condivisione del bello, del buono e al destino dello stare insieme. É stato proprio attraverso gli occhi di mia moglie e di chi non è cresciuto in Italia che ho iniziato a ritrovare il senso di casa e un certo orgoglio di essere italiano. Per me, essere italiano significa la genovese di mamma, che la odorano in centinaia e mangiano in dozzine, significa la domenica allo stadio con papà e il solito “gruppetto” che occupa un intero settore, significa le notti al bar della piazza con gli amici, dove si offre un bicchiere anche ai vicini di tavolo. Solo quando sei lontano ti accorgi che questi modi di stare insieme sono più di quello che fai, sono quello che sei. Torno? Quando mi fanno questa domanda mi viene in mente Michele in “Ecce Bombo”: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” Se è vero che quando sono partito non ho pensato troppo a quello che lasciavo. Se e quando torno, devo aspirare a dare un piccolo contributo. Nella speranza che, un giorno, un altro come me, invece di partire, decida di restare. Forse torno. E “mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce…”
Sergio Imparato, 35 anni, napoletano, laureato in Filosofia, insegna Teoria Politica ad Harvard, dove è Faculty Advisor dell’Harvard College Italian Society.
ASPETTATEMI PERO'. Chiara De Lazzari. Cara Italia, ti scrivo dalla caldissima Melbourne, la mia casa dal 2013, dove sono ricercatrice. Vivere dall’altra parte del mondo ha molti di aspetti positivi e qualche difetto: l'Australia ti espone a moltissime culture differenti e ti permettere di imparare i nomi di animali improbabili capaci di uccidere un uomo in pochi minuti. Lo sapete che qui c’è il più alto numero di animali mortali al mondo, senza contare squali e coccodrilli? Vivere così lontano dall’Italia ti fa rivalutare il nostro Paese, tanto spesso viene criticato. Da quando sono qui voglio molto più bene al mio paese e ogni volta che torno apprezzo sempre più le sue peculiarità. Soprattutto adoro poter parlare ad alta voce senza attrarre gli sguardi indignati degli anglosassoni. La nostalgia è innegabile, ma rientrare non è facile. Bisogna farsi almeno 24 ore di viaggio per soddisfare quella strana voglia di stracchino (prodotto introvabile in Australia). Sebbene la comunità italiana sia molto grande, non esiste un volo diretto sull'Italia, a differenza degli altri paesi europei. Sono all’estero da quasi sette anni e mai come oggi mi sento italiana. Anzi, la mia italianità si rafforza nel tempo. Il legame si è consolidato negli anni e, sebbene io sia ben integrata nel contesto lavorativo e sociale australiano, continuo a vivere all’italiana. Parlo italiano tutti i giorni, cucino cibo italiano e sono attiva all’interno della comunità italiana qui a Melbourne. I primi anni ho fatto di tutto per integrarmi nella società australiana, ma poi il richiamo alle origini si è fatto sentire e oggi non potrei fare a meno di quella componente nostrana che rende la vita all’estero ancora più piacevole. Mi trovo onestamente molto bene dall'altra parte del mondo, ma spero un giorno di poter rientrare in Italia, per contribuire al mio Paese, magari potrei tornare a insegnare e fare ricerca in università, così da rendere i nostri centri di ricerca più internazionali e competitivi a livello mondiale. Per natura sono inevitabilmente positiva: sono sicura che l’Italia capirà il reale potenziale di tutti i giovani emigrati all’estero per fare esperienze lavorative. A quel punto darà la possibilità a chi si è formato in altri paesi di tornare. Per ora resto in Australia, cerco di non farmi ammazzare da ragni e meduse, con la consapevolezza che l’Italia mi sta aspettando.
Chiara De Lazzari, 32 anni, da Treviso all'Australia, dove insegna Scienze Politiche all'Università di Melbourne.
Sì, SIAMO DON CHISCIOTTE. Laura Surace. Cara Italia, io vivo a Parigi ma vengo da Reggio Calabria. Un posto che ti da e toglie tantissimo, nello stesso tempo. A 17 anni ho lasciato la Calabria per studiare genetica molecolare e biochimica a Pavia, che per i “terroni” è praticamente uno spostamento all’estero. Segue un dottorato all’università di Zurigo sull'immunologia tumorale, concluso con la scoperta del meccanismo che controlla la risposta immunitaria antitumorale nei pazienti trattati con radioterapia. Il progetto ha vinto vari premi e sono stata candidata come miglior giovane ricercatrice in Svizzera (ovvio, mica in Italia). Eppure è l'Italia che ringrazio, sono sopravvissuta agli anni del dottorato grazie alla passione per il calcetto e i pacchi stracolmi di peperoncino e Amaro del Capo spediti da mamma e papa. Ora sto all’Istituto Pasteur di Parigi per il PostDoc. Ho scritto un progetto su sistema immunitario e malattie metaboliche finanziato dalla prestigiosa borsa di studio europea Marie Curie. Negli ultimi due anni, ispirata dal crescente numero di stupidaggini pubblicate sui social, ho avviato una start up che si occupa di comunicazione scientifica. La mia creatura si chiama Naós Communication ed è il mio progetto per l'Italia. Formerà scienziati nell'arte oratoria e nel coinvolgimento del pubblico, perché spesso chi fa ricerca e scopre qualcosa di nuovo, non sa spiegarlo. Nonostante il progetto non sia stato ben accolto nel bel paese (la proposta è stata bocciata due volte), a breve riuscirò a spostare la sede a Roma, per poi avviare corsi di formazione internazionale nelle scuole e nelle università italiane. Ma tornare stabilmente è difficile. Prima di tutto perché tornerei solo se potessi traslare quello che faccio qui al Sud Italia. Perché se devo stare a Milano e pagare 400 euro per volare in Calabria – grazie comunque, Alitalia! - tanto vale restare in Francia. Nutro profondo rispetto per chi resta e lotta, ma mi sembrano tanti Don Chisciotte. Serve più consapevolezza, formazione e informazione. E bisogna capire se si sta lottando contro giganti o mulini a vento. Serve anche tanta voglia di cambiare, serve tempo e io resto in attesa. Nel mentre, mantengo il mio legame con l’Italia valorizzando i ricercatori all’estero, insieme all’associazione dei ricercatori italiani in Francia e porto Naós a Roma. Non vedo l'ora di inaugurarla: sarà una soddisfazione personale riuscire a realizzare parte della mia vita in Italia!
Laura Surace, 31 anni, da Reggio Calabria a Parigi, ricercatrice nel campo dell’immunologia e metabolismo.
GODT NYTT AR A TUTTI. Rosa Manzo. Cara Italia, Godt Nytt År! in norvegese significa Buon Natale! Sì, lo so, la lingua è piuttosto ostica. E infatti ciò che mi manca più dell'Italia è proprio l'italiano, la vocalità, i colori della nostra bella parlata. Ma vi assicuro che ci sono problemi ben peggiori: avete idea del freddo che fa quassù? Vivo a Oslo e sono una ricercatrice al Centro di Eccellenza PluriCourts, dove mi occupo di diritto internazionale in materia ambientale e cambiamenti climatici. Cerco nuove forme di cooperazione per fronteggiare l’urgente danno umano e ambientale provocato dal cambiamento climatico. Probabilmente ho scelto questa strada perché ho trascorso gran parte della mia vita a Taranto, all'ombra dell'Ilva, e so bene cosa significhi scegliere tra lavoro e salute. Come la penso? L’ambiente va protetto non solo come valore in sé, ma anche per l’importanza che svolge nel processo di formazione della identità personale. Per esperienza personale, posso affermare che al degrado ambientale segue necessariamente un degrado sociale e morale. Sono proprio le mie origini ad avermi dato la tenacia di continuare questo percorso lavorativo, che mi ha spinta lontana da casa. La speranza di tornare c'è sempre. Nei miei sogni c'è il progetto di potermi occupare di politiche ambientali e climatiche per rendere il nostro Paese sempre più verde e pulito e mostrare al mondo che siamo in gamba. Nel mio piccolo e stando a centinaia di chilometri di distanza, sono diventata responsabile di un progetto per i giovani italiani in Norvegia, che è appena partito. È il nodo di una più vasta rete mondiale che intende mettere in connessione le competenze degli italiani nel mondo. Il mio sogno, poi, sarebbe portare la mia esperienza accademica in Italia, anche solo come visiting lecturer, cioè frequentare le università italiane per raccontare agli studenti quello che sto sviluppando qui in Norvegia, lavorare con loro potrebbe aiutarli a comprendere il mondo della politica internazionale. Realisticamente, però, resto a Oslo, perché ci sono evidenti difficoltà di svolgere dignitosamente attività di ricerca accademica in Italia. Sono partita nel 2013 e ho viaggiato parecchio, fra la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti. E nonostante siano passati molti anni, essere così lontana da casa mi costa moltissima sofferenza, perché spesso si dimentica che noi giovani all’estero siamo costretti ad allontanarci dai nostri genitori proprio quando loro avvertono maggiormente la solitudine e si palesano i primi acciacchi. Cerco di affrontare tutto questo con fiducia nel futuro, perché chi è ottimista contribuisce positivamente all'ambiente circostante.
Rosa Manzo, 32 anni, da Taranto a Oslo, per occuparsi di diritti ambientali e cambiamenti climatici.
UNA MENTALITA' CHIUSA E ARRETRATA. Nicola Tamanini. Cara Italia, sono dieci anni esatti che ti ho lasciato, ma non potevo fare altrimenti. Faccio ricerca su onde gravitazionali - che può sembrare un po' astratto, ma questa è la frontiera che ci consentirà di comprendere meglio l'universo – e in Italia non avrei potuto farlo. Non parlo dell'assenza di incentivi economici: io, come penso gran parte di chi fa ricerca di base, non sono spinto a lavorare dal dio denaro, bensì dalla passione per la scienza e la consapevolezza di contribuire all'avanzamento della conoscenza collettiva dell'umanità. Quello che manca in Italia è la capacità di attirare giovani professionisti da tutto il mondo, compresi tutti quelli che ogni anno sforniamo dalle nostre eccellenti università, ma che poi non sappiamo trattenere. La ricerca scientifica nel ventunesimo secolo non è più fatta da singoli individui, ma da team di piccoli gruppi ed enormi collaborazioni a livello internazionale, con centinaia se non migliaia di persone. In Italia purtroppo mancano le opportunità e i mezzi persino per costruire piccoli team scientifici per competere o collaborare a livello internazionale. Se io volessi tornare per fare ricerca di base, so bene che non troverei le stesse opportunità che avrei in altri paesi europei. Eppure sono convinto che le esperienze professionali e multi-culturali maturate dai giovani italiani all'estero possano costituire la chiave per aprire una mentalità italiana a volte chiusa e arretrata e per rendere la società più al passo coi tempi e favorevole alle nuove generazioni. Sta qui la chiave di volta!
Nicola Tamanini, 33 anni, da Trento al Max Planck Institute di Potsdam, Berlino, dove fa ricerca sulle onde gravitazionali.
DATECI VOCE, PER FAVORE. Lucrezia Scarapicchia. Cara Italia, sono partita da Roma a 17 anni per fare l’Università in Inghilterra. Ho studiato relazioni internazionali a Exeter, in Inghilterra, e passato un anno in scambio a Shanghai. Dopo la laurea nel 2016, e una breve esperienza a Londra in una start-up, mi sono ritrovata a Pechino per uno stage di sei mesi alla delegazione dell’Unione Europea. Quell’esperienza mi ha aperto le porte al mondo della politica europea, quindi finito il tirocinio a Pechino, ne ho iniziato subito un altro a Bruxelles, al Parlamento Europeo. Lì ho seguito per due anni i negoziati Brexit. Sempre a Bruxelles, lavoro per Euractiv, una rete mediatica europea di riferimento per le politiche del vecchio continente. Mi occupo di creare nuove collaborazioni con i vari attori di Bruxelles, per lo più con associazioni di industria e ong. Dopo otto anni di lontananza sento un bisogno incolmabile di fare almeno un’esperienza di studio o lavoro in Italia. Parlo cinque lingue, sono vissuta a Londra, Pechino e Bruxelles, credo che potrei essere un profilo interessante per attrarre investimenti stranieri in Italia, sviluppare partnership internazionali per un’azienda o potrei mettermi in proprio, le possibilità sono molteplici. Ma tornerei a condizione di poter essere considerata un patrimonio, un asset per il mio paese. Vorrei tornare sapendo di poter offrire e applicare il bagaglio culturale e professionale accumulato in questi anni all’estero. Il problema è che uno all'estero crea legami e adesso c'è il mio ragazzo che vive a Parigi ed è più comodo frequentarsi sapendo che la distanza è colmabile in un'ora e venti di treno. Mentre Milano è un po' più lontana. Nel frattempo gestisco il profilo Instagram @giovanitalianinelmondo , per dare voce a chi è lontano da casa e qui a Bruxelles ho fondato la rete di giovani italiani in Belgio, Re.Gi.B, per per sostenere il ‘sistema paese’. È proprio questo che vorrei fare per l’Italia, per i giovani italiani nello specifico, e quindi anche per me stessa: ridare (o riprendere, dipende dai punti di vista) una voce ai giovani, per avvicinarsi alla partecipazione civica e politica, e perché no, contribuire un giorno alla creazione della futura classe politica italiana.
Lucrezia Scarapicchia, 24 anni, da Roma a Bruxelles, passando per Pechino. Si è occupata di Brexit per la Commissione Europea e ora il suo focus sono industria e organizzazioni non governative.
"Torniamo per combattere". "No, l'Italia è incurabile": le storie che ci avete raccontato. Centinaia di lettere dopo la nostra copertina "Italia Ciao". Con il racconto di giovani andati via o tornati nel nostro Paese. Tra sogni, speranze, gioie e frustrazioni ecco alcune delle esperienze che avete condiviso con noi. L'Espresso il 20 gennaio 2020. Dove far crescere mio figlio? A Dublino o a Catania? Sono stato da sempre appassionato di informatica, grazie ad una famiglia che mi ha sempre incoraggiato e fin da tenerissima età mi ha fornito gli stimoli ed i mezzi per coltivare questa passione. Ho un dottorato in ingegneria informatica conseguito nel 2012 a Catania, mia città natale. Durante il dottorato ho fatto uno stage presso Google a Dublino, che mi ha successivamente assunto a tempo indeterminato come Site Reliability Engineer e dove ho fatto carriera fino a diventare engineering manager. Adesso, dopo 7 anni in Google, dall'anno scorso sono Principal Software Engineer nella divisione Cloud di Microsoft, Azure. Mia moglie è ingegnere informatico, anch'essa laureata a Catania ed ingegnere a Dublino, dove viviamo assieme dal 2014.
Nostro figlio è nato a Dublino. Dove crescerà? A Catania con i nonni ed il resto della famiglia, o a Dublino, dove abbiamo opportunità lavorative che in Sicilia ci scordiamo? Dopo il dottorato ho pensato di rimanere in università, ma mi era chiaro che avrei dovuto fare una lunghissima gavetta ed il risultato finale sarebbe stato molto incerto. Dopo il dottorato feci diversi colloqui in Italia prima di partire. A Firenze mi offrirono 1.000 euro netti. Come ingegnere informatico, con dottorato e stage presso Google. A quel punto mi era chiaro che dovevo partire. Abbiamo comprato casa a Dublino, pensiamo di prenderne una più grande presto, ma il nostro cuore è sempre diviso tra Catania e Dublino. Andrea
Tornata carica di idee, ho trovato un Paese provinciale. Dopo 13 anni all’estero, sei mesi fa sono rientrata in Italia lasciando un indeterminato per un contratto di un anno in università. Sono rientrata carica di idee e voglia di fare, ho trovato un contesto pettegolo, provinciale, asfissiante, pieno di capini, capetti e caponi che bocciano e umiliano ogni nuova idea per portare avanti i soliti progetti, che funzionino o no. Non saremo noi expat a cambiare dinamiche tipiche del nostro paese. Simona
Perché la prassi è abbassare la testa a tutto? Ho 31 anni e sono un'italiana che dopo 3 anni di lavoro all'estero ha deciso di tornare nel bel paese. Lasciatemi dire che non è affatto bello e il problema non è uno stipendio più basso o una casa fatiscente passata per nuova, il problema sono gli italiani. Ho trovato lavoro nella PA e fin da subito è cominciata ad andar male con straordinari non pagati e ogni giorno nuove mansioni senza alcuna indicazione. Ho visto l'omofobia e la transfobia non venire nemmeno celate e ho visto tanta omertà, dipendenti col posto fisso abbassare la testa e incitarti a fare lo stesso perché quella è la prassi, rifiuti gettati in mezzo alle strade senza che i passanti dicessero nulla perché quella è la prassi, figlie e figli insultati a tavola e spinti a conformarsi, perché quella è la prassi. I nostri coetanei sono morti dentro, i nostri genitori sono mostri con dentro tanta rabbia e frustrazione per non aver raggiunto dei risultati. Tornare in Italia è stato inutile, sto cercando di andare a pulire i cessi per prendere le distanze da questo Paese malato. E non abbiate timore della destra, di Giorgia o di Salvini: governeranno un popolo di morti e frustrati. Andrea
In Italia neanche si accorgono quanto sia grave la situazione. Ho studiato comunicazione due anni in Svezia ma la mia passione è sempre stata la cucina. Da quando ho finito gli studi lavoro in un ristorante meraviglioso dove mi hanno assunto senza che avessi esperienze precedenti in cucina. Non vedo un motivo per tornare in Italia. Amo il mio paese ma siamo in pochi a renderci effettivamente conto di quanto grave sia la situazione, e non voglio mettere a repentaglio il futuro mio e della mia possibile famiglia nella remota speranza che le cose migliorino. In Italia c'è soprattutto un problema di mentalità, di pigrizia e di ostilità al cambiamento, e questo (forse) cambierà col tempo, non con noi giovani che cerchiamo di convincere una popolazione perlopiù anziana e tradizionalista a cambiare. Mi dispiace essere così disfattista, apprezzo la mentalità quelli come voi che ancora vedono qualche speranza per il nostro paese. Luca
Voglio mettermi alla prova, ma sono dovuta scappare. Sono una ragazza di 21 anni e sto studiando ingegneria elettronica nel Regno Unito con delle modalità che non esistono in Italia. Ho voglia di imparare e mettermi alla prova e, dopo aver provato a farlo in Italia, me ne sono dovuta andare per la mentalità e l'atteggiamento che trovavo in molte persone con cui avevo a che fare e che mi stava impedendo di seguire i miei sogni. Ora sono contenta ma mi manca l'Italia. Appena sentirò di aver acquisito le competenze e i valori necessari per essere a mio agio con me stessa voglio tornare e fare del mio meglio per aiutare il paese che mia ha insegnato ad amare la musica e l'arte senza le quali non sarei chi sono oggi. Sofia
Sono emigrato in Svizzera da pochi mesi. La situazione mi appariva paradossale: prima era un continuo dover scegliere se volevo aiutare i miei, vivere la mia vita, o mettere da parte qualcosa per il futuro, ora sono in grado di mandare a casa l'equivalente del mio precedente stipendio italiano, guidare un'auto sportiva, vivere in una bella casa, e mettere da parte in un mese quanto in Italia avrei messo da parte in un anno. Pensavo di essere un privilegiato, che avesse ricevuto un trattamento di favore o un gran colpo di fortuna, ma qui, questa situazione è la norma. I giovani sono valorizzati, le professioni sono riconosciute. La mia storia qui si stempera nelle storie di tutti gli altri giovani professionisti, che hanno tutti la medesima esperienza. Noi giovani professionisti qui non siamo ricchi, neanche lontanamente, ma stiamo bene, siamo spensierati, e qui si innesca un meccanismo che è la vera fonte di benessere, che non avevo finora considerato: quando non si deve più occupare gran parte dei propri pensieri con preoccupazioni, disillusione e sconforto, si può iniziare a guardare oltre, a impegnarsi per fare vera innovazione, coltivare la propria ambizione, lavorare divertendosi e vivere senza sentirsi una piccola ruota dentata di un grande ingranaggio. Da quando vivo in questo paese e per la prima volta ho in mano qualcosa per fare un confronto, ho iniziato a vedere dove realmente l'Italia ammazza le prospettive di crescita, l'ambizione e la voglia di fare. Qui si possono aprire startup e dar valore alle proprie idee con pochi costi, meno rischi, nessun marasma burocratico assassino dell'avanzamento tecnologico, e soprattutto senza quel clima da ""ma chi te lo fa fare?"", ""vai a lavorare che è meglio"", ""e se poi fallisci?"" che contraddistingue, purtroppo, il mio paese di origine. Qui ho un fondo pensione con il mio nome sopra, non verso i soldi sperando che tra qualche decade sia rimasto qualcosa per me. Qui pago tante tasse, ma le pago subito, pago tutto, e le pagano tutti. E qui i servizi sono impeccabili. Qui si ha un mente l'efficienza, qui non farete mai code chilometriche agli sportelli di qualche ufficio semisconosciuto per qualche operazione burocratica inutile, costosa e perditempo. Qui non c'è inutile ridondanza di uffici ed enti (come succede ad esempio in Italia con ACI e Motorizzazione) e qui nessuno alza il ciglio se voglio pagare col PoS. Potrei andare avanti, ma credo di aver dato l'idea della mentalità diversa e vincente che mi mancava in Italia. La Svizzera non è ovviamente un paese perfetto. Ci sono tante cose che non funzionano e se ne potrebbe fare una lista ugualmente lunga (pensiamo ad esempio al salary gap tra uomini e donne, che non stupisce, se pensiamo che qui il diritto di voto alle donne è stato esteso in ogni cantone solo nel 1990), ho amici che hanno preferito viaggiare in Inghilterra, Francia, Spagna e Australia. Dovunque siano andati, a prescindere dai pro e dai contro, tutti mi hanno parlato dello stesso guadagno in ""spensieratezza"" che permette loro di guadare oltre. E forse è da qui che l'Italia potrebbe puntare a ripartire." Alex
Tornare è difficile, ma non è impossibile. Noi siamo tornati. Dopo 4 anni in Inghilterra e 3 a Berlino a fare ricerca, abbiamo deciso che era il momento di ricominciare da casa nostra, dalle nostre radici. È faticoso, ma non impossibile, e mai come in questo momento questo paese ha bisogno di persone che abbiamo fatto esperienze diverse, con una mentalità aperta ed internazionale, perché si ricominci a guardare le cose da una prospettiva che vuole costruire e non solo demolire o criticare. È difficile, ma si può fare. Aiutateci a farlo! Valentina
"Torniamo per combattere". "No,..."La vera emergenza nazionale non sono i rifugiati, ma gli italiani che vanno via". L'intervento dell'associazione di italiani all'estero sulla generazione in diaspora raccontata dall'Espresso in queste settimane. «È urgente un dibattito pubblico sulle implicazioni economiche, sociali, culturali e politiche di questo fenomeno». Il Manifesto di Londra il 21 gennaio 2020 su L'Espresso. Il Manifesto di Londra è un gruppo di cittadini italiani che vivono in Gran Bretagna e Irlanda nato nel giugno del 2017 e impegnato in politica. Pubblichiamo la lettera che il gruppo ci ha inviato dopo il nostro servizio sugli expat.
Caro Espresso, Ti scriviamo per ringraziarti del numero in cui avete messo in copertina la “generazione in diaspora” , raccontando come l’Italia sia tornata ad essere un Paese di emigranti, come mai dal secondo dopoguerra. Da qualche anno l’associazione Manifesto di Londra cerca di portare al centro del dibattito pubblico il tema dell’emigrazione italiana. Siamo un’associazione composta da emigrati, nata per offrire uno spazio di attivismo culturale e politico per la comunità degli italiani a Londra e in Gran Bretagna e mantenere vivo un legame con l’Italia progressista. Guardando l’Italia da fuori, ci preoccupa che pochi si stiano accorgendo che la vera emergenza nazionale non sono le navi cariche di rifugiati, ma il mezzo milione di persone che in dieci anni ha lasciato il Paese. Pensiamo sia urgente un dibattito pubblico sulle implicazioni economiche, sociali, culturali e politiche di questo fenomeno, frutto della crisi di un Paese che ha smesso di offrire opportunità e speranza.
Caro Espresso, vorremmo che tu aprissi questo dibattito pubblico, continuando a scrivere del tema oltre gli stereotipi e i preconcetti. Ad esempio, scrivendo che la migrazione è fatta di storie individuali molto diverse tra loro. Ci sono i giovani cervelli in fuga, ma c’è anche chi è emigrato 40 anni fa, chi è emigrato a 45 anni perché ha perso il lavoro, e i camerieri e i rider che non hanno l’arroganza di pensare che tornando in Italia potrebbero salvare il Paese. Ci sono quelli che vivendo all’estero hanno trovato il giusto equilibrio e si sentono davvero cittadini del mondo o almeno dell’Unione europea. E ci sono i tantissimi che lasciano l’Italia per sfuggire alla disoccupazione e alla precarietà, spesso ritrovandosi a fare lavori sottopagati. È necessario raccontare tutte queste storie per evitare di creare false divisioni tra i “bravi o fortunati ma vigliacchi” che partono e i “coraggiosi ma frustrati” che restano, tra i “cervelli che disprezzano l’Italia” e le “gambe e le braccia che nessuno vuole”. La migrazione non può essere ridotta a una questione di scelte dicotomiche sul Paese in cui si vive meglio e in cui il proprio “capitale umano” è più valorizzato. La nostra, come tutte le vite, è una costante fluidità di condizioni di vita, di lavoro, di luogo di residenza, di affetti, di amicizie, di lotte. Le lotte con cui ci confrontiamo tutti i giorni sono anche quelle legate alla nostra identità e al senso di appartenenza: qual è il nostro posto nel Paese in cui viviamo e quello da cui veniamo, che responsabilità abbiamo di restare o di tornare.
Prese tutte insieme, queste storie ci ricordano che l’emigrazione è un fenomeno collettivo che sta scrivendo e scriverà il futuro dell’Italia, dell’Europa e del mondo. È necessario riflettere su un nuovo modello di società e cittadinanza transnazionale, equo, aperto e solidale, in cui si emigra per scelta e non per necessità. Nel 2020, il Manifesto di Londra continuerà a parlare di questi temi con Italians of London, un progetto video-fotografico per raccontare sui social media la quotidianità e la diversità della vita all’estero. Avvieremo anche un gemellaggio con Grande Come Una Città, il programma di cittadinanza attiva del Municipio III di Roma animato da Christian Raimo. A marzo saremo insieme a Roma per un evento in cui useremo tante storie di emigrazione per parlare delle sue cause e implicazioni.
Caro Espresso, aiutaci a raccontare l’emigrazione italiana all’estero ai tuoi lettori in un modo nuovo. Venite a trovarci a Londra e a discutere con noi all’evento di Roma. Soprattutto, continuate a raccontare le nostre, molte storie.
Quella svolta culturale che serve per convincere gli italiani espatriati a tornare. Aziende, università, politica e singole persone devono agire per arginare la vera emergenza del nostro Paese. Perché chi va via non lo fa solo per questioni economiche. Tommaso Cariati e Gaia Van Der Esch il 21 gennaio 2020, su L'Espresso. Quando abbiamo lanciato un appello agli expat per tornare e cambiare il nostro Paese , lo abbiamo fatto affiancandolo a una ricerca che non lascia spazio a dubbi . L’Italia non pensa al suo futuro e non investe nella sua unica speranza per uscire dalle molteplici crisi: i giovani. Che quindi partono ogni anno a centinaia di migliaia e non tornano. «Ma siete pazzi?» «Tornare in Italia per fare cosa?» «Tanto non cambia nulla, vi rovinate solo la vita», hanno scritto in tanti. Chi è ancora all’estero si aggrappa a ricordi, nostalgie e sogni, a volte ingenui. Chi è rimasto o tornato, si aggrappa al caffè buono e alla famiglia a due passi da casa. Ma anche alla felicità di sentirsi parte della svolta di cui ha bisogno il Paese e ai vari piccoli o grandi successi di chi è riuscito a migliorare le cose. Successi che hanno bisogno di essere amplificati e moltiplicati. Tanti hanno scritto che loro ci stanno, vogliono affrontare questa sfida insieme e tornare in Italia, e sono anche pronti ad accettare uno stipendio più basso e le difficoltà iniziali. I problemi, spiegano, non sono questi, ma gli italiani stessi. La cultura di nepotismo e intrallazzi. La chiusura mentale e il degrado della mala gestione della cosa pubblica. Quello che chiedono è un cambiamento culturale, a cominciare dal mondo del lavoro. Un aspetto a cui è difficile fare giustizia tramite i numeri della nostra ricerca, ma che emerge come centrale nelle lettere ricevute. Una cultura “vecchia” che sta frustrando chi è già tornato e spaventa chi vorrebbe tornare. Tuttavia nessuno può generare un cambiamento culturale da solo: per farlo ci deve essere movimento. Un ritorno coordinato e in massa: l’insegnante mai partito, la cuoca già rientrata, l’ingegnere pronto a fare le valigie al contrario. Insieme. Iniziando da chi è rimasto o ritornato in Italia, senza dimenticare i tanti expat. Serve smetterla di aspettare che le cose cambino, perché da sole non cambieranno mai, che si parli di corruzione, nepotismo o inefficacia della classe politica. È necessario che anche il sistema Italia lavori in questa direzione. Le università devono integrarsi con il mondo del lavoro, dare cattedre a chi le merita davvero, con concorsi trasparenti e aperti, non con i vincitori decisi a tavolino. Le tante aziende che non trovano manager devono dare spazio ai “giovani” e ce ne sono tantissimi che hanno avuto esperienze ai vertici all’estero e sono pronti a gestire team e strategie in Italia. Ma è anche ora di attrarre i talenti stranieri. Di diventare la meta preferita dei “turisti del lavoro” e non solo di quelli del selfie e del gelato. Creando un ciclo di virtuoso della migrazione, con italiani che partono alla ricerca di nuove esperienze e stranieri che vengono nel nostro Paese portando con loro un cambiamento culturale che fa bene a tutti e che farà sentire a casa gli italiani che torneranno.
C’è poi la politica: da dove iniziare? Semplificare la burocrazia e l’accesso agli incentivi che esistono, investire nelle nuove imprese, non solo con sgravi fiscali ma con la semplificazione delle licenze, della contabilità, delle mille inconvenienze che fanno dell’Italia uno dei luoghi meno attraenti per chi investe in innovazione. Spendere in scuole e ricerca. Nei giovani e nei bambini. Ambire ad avere le scuole e i servizi migliori del mondo, invece che accontentarsi della mediocrità cronica alla quale ci siamo abituati. Speranze che rischiano di rimanere tali. Tanti, troppi, hanno scritto che è da folli tornare perché è meglio godersi la vita all’estero. Li capiamo bene: è un po’ da folli rientrare e lo abbiamo pensato infinite volte anche noi. E lo penseremo ancora spesso in un futuro. Tornare sarà dura, ci saranno delusioni e difficoltà, come raccontano le lettere di chi l’ha già fatto. Ci si scontra con troppi muri, raccomandati incompetenti, amministratori attaccati alla poltrona. E per questo c’è bisogno dell’aiuto di tutti, anche a distanza. Chi è all’estero può creare partenariati con l’Italia, continuare a mettere il cuore nel promuovere l’eccellenza italiana all’estero. Lo stesso cuore di cui parla Andrea nella sua lettera in cui racconta la paura di comprare una casa più grande a Dublino, anche se i bambini ne hanno bisogno. Perché rappresenterebbe l’addio definitivo alla sua Sicilia, quella che considera ancora la sua vera casa. La speranza di vivere o tornare un giorno in un Paese diverso, civile e accogliente, tiene uniti gli italiani emigrati ovunque. Ora, tutti insieme, mettiamoci al lavoro per trasformarla in realtà.
Gaia van der Esch e Tommaso Cariati sono studenti italiani della Harvard Kennedy School of Government
Lavoro, dignità e futuro: cosa ci raccontano le storie degli italiani andati all'estero. Sono centinaia di lettere arrivate in redazione dopo la nostra copertina sui giovani in fuga all’estero. E spiegano i motivi di un fenomeno che non riguarda soltanto loro. Gloria Riva il 21 gennaio 2020 su L'Espresso. «Sono un giovane professionista, laureato ed emigrato in Svizzera. Qui ci sono tante altre persone espatriate, come me. Non siamo ricchi, neanche lontanamente, ma stiamo bene, siamo spensierati. Che è la vera fonte di benessere: quando gran parte dei propri pensieri non sono più occupati da preoccupazioni, disillusione e sconforto, allora si può iniziare a guardare oltre, a impegnarsi per fare vera innovazione, coltivare la propria ambizione, lavorare divertendosi e vivere senza sentirsi una piccola ruota dentata di un grande ingranaggio. In Svizzera ho iniziato a vedere dove realmente l’Italia ammazza le prospettive di crescita, l’ambizione, la voglia di fare». Sono centinaia le lettere che gli expat, coloro che sono andati a cercare fortuna all’estero, hanno scritto all’Espresso per raccontare la propria storia di emigrati, rispondendo all’appello lanciato dal nostro settimanale. Molte sono lunghe lettere di denuncia per un tradimento subìto: l’Italia ha offerto loro un’educazione eccellente, una laurea prestigiosa che tuttavia non è spendibile entro i confini nazionali. Tocca andare all’estero. È proprio la dignità del lavoro la prima causa di abbandono: la scorsa settimana l’Istat ha certificato che a novembre c’è stata un’impennata occupazionale, ma non c’è nulla di cui rallegrarsi, perché le nuove assunzioni sono soprattutto part-time involontari, offerti per lo più a donne che avrebbero gradito il tempo pieno. Il lavoro in Italia è malpagato, precario e spesso sessista: eccola qui la ragione che spinge molti a lasciare uno stage da cinquecento euro al mese a Roma per un contratto a tempo indeterminato a Parigi. Questo divario fra Italia e resto d’Europa ha aperto una vera e propria emergenza, a cui L’Espresso ha dedicato la copertina dello scorso 22 dicembre, “Italia Ciao” , dando la possibilità a decine di expat di scrivere una cartolina al Paese per spiegare i motivi dell’addio e dire a quali condizioni sarebbero disposti a tornare. E la condizione è sempre la stessa: un lavoro dignitoso. I dati sono drammatici, paragonabili a quelli di una grave crisi economica: l’Istat racconta che nel 2018 il numero degli expat è aumentato dell’1,9 per cento, in un solo anno se ne sono andati 117 mila connazionali. Nell’ultimo decennio gli emigranti sono triplicati: tre su quattro hanno in tasca una laurea, l’età media si aggira attorno ai trent’anni e le destinazioni principali sono Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia e Stati Uniti. Uno stillicidio di capacità, competenze, energie che, invece di essere impiegate a favore del progresso e dell’innovazione di cui l’Italia avrebbe bisogno, vanno a favore di altri Paesi che le attirano, investono e le trasformano in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento. Il problema è che, al di là delle periodiche pubblicazioni statistiche, non esiste un corpo intermedio che dia loro voce, non c’è un sindacato degli expat che batta i pugni sul tavolo del ministero del Lavoro, dove tra l’altro quattro anni fa era stata istituita una cabina di regia per affrontare la questione. Ma per ora non è servita a granché. L’Espresso ha deciso di aprire l’iniziativa a tutti gli expat, dando loro la possibilità di condividere on line la propria storia, i dubbi e le prospettive per un Paese migliore, creando così il primo contenitore digitale di dialogo fra chi è rimasto in patria e chi è andato all’estero. In meno di due settimane sono arrivate oltre 150 lettere. Molti raccontano di averci provato a costruire il proprio futuro qui, ma di aver trovato un sistema vecchio, corrotto, stanco, maschilista, intollerante e clientelare, che ha impedito loro di intravvedere una prospettiva di carriera all’altezza delle proprie aspettative. Qualcuno invece è già tornato: c’è chi ha conquistato una cattedra all’università, chi ha accettato un’offerta da un’azienda privata, chi è rientrato portandosi l’intera famiglia «dopo sette anni fra Inghilterra e Berlino. È faticoso ma non impossibile. Mai come oggi questo Paese ha bisogno di persone che abbiano fatto esperienze diverse, con una mentalità aperta e internazionale, perché si ricominci a guardare le cose da una prospettiva che vuole costruire e non solo demolire o criticare. Aiutateci a farlo». La mano tesa viene dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato un’ampia parte del messaggio di fine anno a quella fiducia che va trasmessa ai giovani, «ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità. Le nuove generazioni avvertono meglio degli adulti che soltanto con una capacità di osservazione più ampia si possono comprendere e affrontare la dimensione globale e la realtà di un mondo sempre più interdipendente». E ancora: «Occorre investire molto sui giovani. Diamo loro fiducia, anche per evitare l’esodo verso l’estero. Diamo loro occasioni di lavoro correttamente retribuito. Favoriamo il formarsi di nuove famiglie». L’attenzione mediatica sul tema ha almeno smosso l’interesse politico e istituzionale. Il dipartimento per le Politiche di Coesione della Presidenza del Consiglio ha avviato una serie di analisi per fare in modo che nei prossimi sei anni lo Stato e le amministrazioni locali abbiano ben chiaro che uno dei più importanti obiettivi da raggiungere è non solo la riduzione della fuga dei cervelli, ma anche la brain circulation, cioè la capacità di attirare talenti internazionali. A marzo di quest’anno sarà più chiaro il livello di interesse che lo Stato ha intenzione di porre sul tema, essendo quello il momento in cui verranno stanziati i fondi strutturali di programmazione per il periodo 2021-2027 e sarà quindi possibile capire quanto il Paese investirà e quali saranno in concreto le iniziative e le risorse per rendere l’Italia un luogo più attraente. Si parlerà invece di Rimesse 2.0 il prossimo 25 febbraio alla Maison de l’Italie di Parigi, dove Maria Chiara Prodi, presidente della commissione Nuove Migrazioni e Generazioni Nuove del Consiglio Generale degli italiani all’estero, organizzerà il primo evento sul tema, insieme al gruppo di deputati multipartisan dell’iniziativa 5x5 - Alessandro Fusacchia (Gruppo Misto), Paolo Lattanzio (M5S), Rossella Muroni (Leu), Erasmo Palazzotto (Sinistra Italiana) e Lia Quartapelle (Pd) - che, dopo l’inchiesta dell’Espresso, hanno deciso di farsi carico del problema degli expat. Così, se da un lato l’iniziativa del governo punta a creare le basi per un rilancio dall’interno, la commissione Nuove Migrazioni ha avviato un progetto per favorire rimesse di valore e competenze: «Oggi non esistono le condizioni sociali, culturali, politiche ed economiche per un rientro immediato di molti expat e le rimesse 2.0 servono proprio a favorire la creazione di un network che dia all’Italia quel contributo concreto in termini di competenze e innovazione, per rendere il Paese nuovamente attrattivo, favorendo quindi un ritorno di massa dei tanti millennial che se ne sono andati. Detto altrimenti, così come la prima generazione di migranti ridava all’Italia rimesse economiche, l’attuale seconda ondata migratoria può ridare all’Italia il contributo intellettuale che le è venuto a mancare con l’esodo di moltissime persone qualificate», spiega Maria Chiara Prodi, che nota come il fenomeno di chi se ne va sia complesso persino nella definizione: «Chi sta all’estero rifiuta spesso l’espressione “cervello in fuga”, ma anche “expat” o “emigrato”, polarizzando nettamente la percezione di sé e il fenomeno in generale. Penso sia necessario e urgente viversi semplicemente come cittadini italiani ed europei nel mondo portatori, come tutti, di diritti e di doveri, nonché di un potenziale unico, quello di poter tenere per mano italodiscendenti e nuovi italiani, di poter costruire un’Europa coraggiosa, di sentirsi al proprio posto all’interno di una comunità composita e vasta. Questo potenziale va attivato». C’è anche un risvolto politico ed elettorale finora sottovalutato. Alle Europee del 2019 l’affluenza alle urne da parte di cittadini italiani residenti in altri Paesi è stata del 7,7 per cento, contro una media nazionale del 54 per cento. E fuori dai confini nazionali il primo partito è il Pd, con il 32,7 per cento delle preferenze, mentre la Lega è al 17,9 per cento. Al contrario in Italia ha stravinto la Lega, 34,3 per cento, staccando di oltre undici punti il secondo partito, il Pd. Se gli expat italiani fossero andati alle urne tanto quanto i residenti in Italia, i partiti europeisti di centrosinistra avrebbero ridotto significativamente il divario dai sovranisti. Funziona così in Italia, ma anche negli altri Paesi, perché in Europa ci sono 17 milioni di cittadini risiedenti in uno Stato europeo diverso da quello di nascita, che godono di diritti solo a metà. Per l’ennesima volta il progetto di un’Europa unita resta incompiuto: le merci si muovono senza confini, i cittadini pure, ma non i loro diritti (e doveri). Anche per far presa sulle istituzioni continentali, tra il 9 e il 13 marzo, si svolgerà la conferenza Stato-Regioni-Province Autonome con il Consiglio generale degli italiani all’estero, il Cgie. Non si tratta solo di un’occasione per fare sintesi, ma anche un modo per mettere la politica di fronte all’evidenza di un problema non più rinviabile: l’esigenza di interrompere l’esodo degli italiani.
· Il trattato di Dublino, spiegato.
Il trattato di Dublino, spiegato. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 19 settembre 2020. Il superamento del Trattato di Dublino è uno degli argomenti che da sempre tiene banco all’interno dell’Unione Europea. Nel 2020 più volte il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato delle novità che andranno ad incidere sul sistema di accoglienza dei migranti da parte degli Stati membri. Ci sarà, secondo le indicazioni date dallo stesso numero uno dell’esecutivo europeo, una “nuova governance europea delle migrazioni” che si baserà su una struttura comune per quanto concerne asili e rimpatri con modalità più incisive e potrà contare su una maggiore solidarietà in tutta l’Unione nell’affrontare il problema dell’immigrazione. Almeno queste sono le prospettive, anche se a giudicare dall’andamento politico degli ultimi anni appare molto difficile poter vedere a breve delle vere modifiche al trattato.
Cos'è il trattato di Dublino. Il trattato di Dublino è stato firmato nel 1990 appunto a Dublino (Irlanda) per disciplinare la materia relativa al sistema dell’accoglienza e delle richieste d’asilo all’interno dell’Unione europea. Oltre ai Paesi comunitari, nel documento rientrano anche Norvegia, Svizzera e Islanda. Il trattato è entrato in vigore sette anni dopo, nel mese di settembre del 1997. Uno dei principi cardine che lo costituisce è quello secondo cui è lo Stato di primo approdo del migrante che deve far fronte al “sistema” accoglienza, domanda d’asilo inclusa, impedendo quindi che i richiedenti tale diritto facciano richiesta in più Stati membri. Altro punto fondamentale del trattato è quello di evitare il più possibile che vi siano richiedenti asilo detti “in orbita” e cioè che siano trasportati da uno Stato membro ad un altro. Da questi principi si evince come il trattato penalizzi i Paesi meridionali dell’Europa, Italia compresa, che registrano ogni anno l’arrivo di diverse migliaia di migranti su tutto il territorio nazionale. Adesso, stando a quanto detto dal presidente dell’esecutivo europeo, le modifiche del trattato dovrebbero proprio puntare su una maggiore solidarietà europea verso gli Stati più esposti ai flussi migratori.
Le modifiche del 2003 e del 2013. Quella annunciata dal presidente della Commissione Europea non è la prima modifica alla quale sottoporre il trattato di Dublino. Il documento ha subito già delle modifiche: nel 2003 con il regolamento “Dublino II” e nel 2013 con il regolamento “Dublino III”. La modifica del 2003 non è stata di tipo sostanziale ma più che altro formale dal momento che alcuni Paesi, Danimarca in primis, avevano rinunciato ad adottare alcune regole previste nel documento. Nel 2013 altre modifiche hanno incluso tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca. Il principio cardine però è rimasto lo stesso, ovvero che lo Stato di primo approdo del migrante è quello che si occuperà dell’accoglienza e della relativa richiesta d’asilo. Ma mentre nel 1990 lo stesso principio si basava sul buon senso in quanto la percentuale delle migrazioni era contenuta, nel 2013, la situazione ha assunto prospettive diverse a causa dell’afflusso imponente di migranti. Sono state quindi sollevate numerose polemiche sulla possibilità di rivedere il trattato con modifiche innovative basate sul mutato conteso socio politico.
Le controversie legate a Dublino. Se negli anni della firma del primo trattato di Dublino il fenomeno era ridimensionato, con l’aumento del numero degli sbarchi soprattutto lungo le rotte del Mediterraneo i principi cardine previsti dal regolamento hanno creato più di un grattacapo ai Paesi del sud del vecchio continente. In particolare, la circostanza secondo cui i migranti devono chiedere asilo soltanto nello Stato di primo approdo, ha rappresentato per Italia e Grecia un onere gravoso che ha avuto conseguenze importanti anche sul piano interno. Infatti sono proprio Roma e Atene che ogni anno ricevono lungo le proprie coste il maggior numero di migranti salpati dal nord Africa e dalla Turchia. Una circostanza che ha comportato situazioni difficili nella gestione dell’accoglienza. Migliaia di migranti infatti sono dovuti rimanere nei Paesi di approdo in attesa dell’esito della domanda di asilo. Per tal motivo, specialmente dopo le primavere arabe del 2011, sono stati riscontrati gravi problemi nel sistema di accoglienza italiano e greco, con i due rispettivi governi spesso impossibilitati a far fronte da soli al problema. Inoltre il divieto di movimenti secondari interni all’Ue da parte dei richiedenti asilo, ha comportato il respingimento di migranti da parte di altri Paesi, a partire soprattutto da Germania, Francia e Austria, verso gli Stati di primo approdo. In Italia, ad esempio, nel 2019 sono stati di più i richiedenti asilo riportati all’interno del nostro territorio da altri Stati dell’Ue che i migranti sbarcati lungo le nostre coste. Secondo le statistiche delle autorità di Berlino, nel solo 2018 sono emersi 35.375 casi conclamati di movimenti secondari che hanno riguardato la Germania. Ogni mese dal territorio tedesco partono diversi aerei che rispediscono indietro, soprattutto in Italia, le persone protagoniste dei movimenti secondari.
Le proposte di modifica. In poche parole, l’applicazione del trattato di Dublino negli ultimi anni soprattutto ha mostrato non poche lacune che hanno portato i Paesi più coinvolti nel fenomeno migratorio a chiedere importanti modifiche. Sotto accusa è soprattutto il principio dell’onere esclusivo nell’accoglienza e nell’esame delle domande di asilo da parte dello Stato di primo approdo. Per superare questi limiti, sono state diverse le proposte di modifica presentate soprattutto negli ultimi anni in sede comunitaria, oltre alle due modifiche già ratificate nel 2003 e nel 2013. Complessivamente sono state avanzate sia proposte più “soft” che invece di radicale riforma del trattato di Dublino. Tra quelle del primo gruppo ci sono i regolamenti, chiesti soprattutto dai Paesi del sud Europa, per introdurre meccanismi automatici di ricollocamento dei migranti arrivati in territorio comunitario. Dunque, i principi sanciti da Dublino con queste eventuali modifiche non sarebbero stati toccati, ma al contempo l’obiettivo si sarebbe arrivati a una gestione solidale dell’accoglienza e delle domande di asilo. Il 23 settembre 2019 a Malta cinque governi dell’Ue, tra cui quello italiano, hanno avanzato una proposta sui ricollocamenti automatici dei migranti la quale però non ha avuto seguito in ambito comunitario. Tra le proposte di riforma più radicale invece, vanno annoverate quelle della commissione europea del 2015 quando a capo dell’esecutivo Ue vi era Jean Claude Juncker. Tuttavia su quel documento non si è poi trovata alcuna intesa. Nel novembre 2017 il parlamento europeo ha approvato una modifica sostanziale del regolamento di Dublino e dei meccanismi di asilo e protezione in ambito comunitario, ma anche in quel caso sul testo non si è trovato alcun accordo tra i vari Stati membri e quindi la riforma è naufragata. Più di recente, nel settembre del 2020 il presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha parlato di una prossima riforma sull’immigrazione da presentare in parlamento, in cui i principi di Dublino dovrebbero essere superati.
· La Sanatoria dell’Invasione.
Chiara Giannini per “il Giornale” il 3 dicembre 2020. Usavano il reddito di cittadinanza per finanziare il terrorismo internazionale: si tratta di due tunisini di 50 e 33 anni che sono stati denunciati dalla Guardia di Finanza di Bologna in quanto, fino allo scorso aprile, avvalendosi di un money transfer in provincia di Ferrara, versavano soldi a un pericoloso foreign fighter islamico, ex combattente dell' Isis iscritto nelle liste dell' antiterrorismo del Belgio e localizzato in Tunisia. Da quanto risulta, il cinquantenne, che è cittadino italiano e sul territorio nazionale da metà anni Novanta, aveva lavorato stabilmente nel nostro Paese fino al 2015. L' anno successivo si era trasferito in Francia, dove tuttora ha un impiego, subaffittando una casa Ater al 33enne, arrivato una quindicina di anni fa. Entrambi percepivano illegalmente il reddito di cittadinanza, attestando il falso all' Inps. In particolare il secondo aveva dichiarato un nucleo familiare inesistente. La somma percepita si attesta intorno ai 12mila euro, che ora dovranno essere restituiti. Sulla vicenda si è aperto un ampio dibattito. «Nelle ore in cui la Camera lavora per smantellare i Decreti sicurezza - ha dichiarato il leader della Lega, Matteo Salvini - , umiliando l' Italia che attende risposte su emergenza sanitaria ed economica, due tunisini vengono accusati di usare il reddito di cittadinanza per finanziare il terrorismo internazionale. Questo governo mette in pericolo l' Italia e - come dimostra anche il caso del killer di Nizza - tutta Europa. Il Paese merita di più e di meglio». A fargli eco la senatrice del partito del Carroccio, Lucia Borgonzoni: «Ci aspettiamo un' immediata presa di posizione da parte del ministro Lamorgese mentre porgiamo i ringraziamenti alla Guardia di Finanza di Bologna». Per l'onorevole Fabio Rampelli (Fdi): «Dell' improduttivo reddito di cittadinanza, dopo essere stato erogato a pregiudicati e mafiosi scopriamo che hanno beneficiato anche i terroristi islamici. Caro premier Conte, lo aboliamo il Rdc oppure lo estendiamo anche ai nuovi clandestini che arriveranno in Italia grazie a questo Dl sicurezza che favorisce l' immigrazione irregolare?». Il senatore Maurizio Gasparri (Fi) non le manda a dire: «Oggi si è veramente raschiato il fondo del barile per uno dei peggiori provvedimenti della storia della Repubblica italiana, figlio della politica qualunquista e assistenzialista di un errore democratico del quale pagheremo il prezzo per molti anni ancora, i grillini». La presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini, specifica: «Forza Italia ha denunciato più volte le gravi anomalie con cui è stato erogato il reddito di cittadinanza, chiedendo criteri più rigidi perché il sussidio arrivasse solo a chi ne ha effettivamente bisogno. Ringrazio la Guardia di Finanza di Bologna per l' operazione con cui ha smascherato questa truffa, ma mi chiedo cosa aspetti il governo a rivedere una misura che in troppi casi è stata oggetto di facili quanto incredibili abusi». Il deputato Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d' Italia alla Camera spiega che «questa è l' ennesima dimostrazione di come il cavallo di battaglia dei Cinquestelle si sia trasformato in una vera e propria manna per delinquenti e potenziali terroristi». Persino Debora Serracchiani (Pd) tiene a dire: «Bene che si apra una discussione: così il Reddito di Cittadinanza non funziona perché una cosa è la lotta sacrosanta alla povertà e al disagio, altra cosa sono le politiche attive del lavoro».
Chiara Giannini per “il Giornale” il 22 novembre 2020. Vengono in Italia come clandestini e poi girano video in cui simulano di mozzare la testa a qualcuno, come fanno i tagliagole radicalizzati. Succede nel centro di prima accoglienza di Monastir, in Sardegna, dove il rapper Daniel Rouge, algerino arrivato ad agosto su un barcone dalle coste del Nord Africa, ha girato un filmato, assieme ad altri suoi connazionali, in cui si vede chiaramente la struttura e in cui i messaggi e le allusioni appaiono più che chiare. Nel testo della canzone rap l' aspirante artista racconta la condizione di vita disagiata di chi arriva in Italia, usando termini tipici delle Banlieu e dei quartieri degradati di certe città a maggioranza araba. In una scena si simula anche lo spaccio di droga. Un filmato all' attenzione della questura di Cagliari, che sta indagando riguardo a possibili illeciti amministrativi o a reati di tipo giudiziario, soprattutto dopo gli ultimi episodi nel centro di Monastir, dove 8 persone sono state arrestate in seguito a risse e aggressioni. Il deputato della Lega Eugenio Zoffili, coordinatore per la Sardegna, chiarisce: «Mentre noi cittadini perbene rispettiamo le regole e siamo costretti a stare chiusi in casa, i clandestini del centro accoglienza di Monastir se ne fregano e oltre ad evadere, rubare, molestare minorenni, fare risse, occupazioni, attaccare le forze dell' ordine, ubriacarsi e altro ancora girano pure questo video rap». «Al ministro dell' Interno Lamorgese e al Prefetto di Cagliari, anche a fronte delle reiterate denunce del Sindacato Autonomo di Polizia Sap - conclude - nel rispetto dei cittadini italiani e sardi che non ne possono più di vergogne simili e in particolare nel rispetto della dignità di ogni agente delle forze dell' ordine che giorno e notte lavora senza sosta e sotto organico rischiando anche la propria salute per tenere a bada questi delinquenti, attraverso l' ennesima interrogazione parlamentare urgente, chiedo la chiusura del centro e il rimpatrio immediato di tutti gli algerini e degli altri clandestini». Il rapper, nonostante abbia un decreto di espulsione, in questo momento risulta essere a Roma, come risulta dal suo profilo Facebook, insieme alla sorella minorenne, anche lei ripresa nel video. «È un tipo di atteggiamento sconfortante- chiarisce il deputato leghista Gianni Tonelli -. Gli algerini non scappano dalla persecuzione. Infastidisce l' atteggiamento di superbia che hanno. È un problema di etica di comportamento nelle relazioni sociali. Quando si arriva, si deve entrare in punta di piedi. Questa è prevaricazione, la sfida è superiorità. Ci disprezzano ed è inaccettabile. Chi ha bisogno non usa comportamenti così». Il segretario del Sap di Cagliari, Luca Agati, tiene a dire: «È tanto tempo che denunciamo l' inadeguatezza di quella struttura che ci vede esposti in prima linea agli atteggiamenti anche aggressivi degli ospiti. Sarebbe il caso di chiuderlo in virtù della pericolosità a cui vengono esposti gli agenti di polizia ogni giorni».
Quei migranti fantasma impossibili da identificare. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 10 ottobre 2020. Nell’immaginario collettivo quando si parla di migranti africani l’idea è associata a quelle imbarcazioni precarie che, cariche di persone, dal continente attraversano il Mediterraneo per arrivare in Europa. Il più delle volte si trascura però che il fenomeno migratorio fa registrare dei movimenti anche all’interno dell’Africa con un trend dai connotati assolutamente rilevanti. Il fenomeno ha i suoi effetti nei Paesi europei nel momento in cui gli africani decidono poi di spostarsi verso l’Europa. Il motivo è legato alla fase di approdo nella nuova nazione: qui i migranti o dichiarano di essere cittadini del loro Paese africano d’origine o del Paese africano in cui hanno vissuto in un secondo momento prima di lasciare il Continente. La conseguenza è il rischio di ritrovarsi di fronte a delle persone la cui origine rimane sconosciuta.
Le migrazioni dentro l’Africa. Sono numeri importanti quelli che descrivono i movimenti migratori che avvengono all’interno dell’Africa. In un report diffuso dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), è emerso che sono stati 36 milioni gli africani che nel 2017 hanno intrapreso i viaggi migratori alla ricerca di un nuovo modo di vivere. Di questi, 19 milioni si sono spostati all’interno dello stesso continente, mentre 17 milioni sono emigrati fuori. Ai dati presi in considerazione bisogna aggiungere anche quelli relativi ai movimenti di chi si sposta all’interno della stessa nazione senza uscire fuori dai confini statali. Si tratta di spostamenti che avvengono per cercare un lavoro con condizioni di vita più dignitose. Fra questi, negli ultimi anni, stanno aumentando anche i trasferimenti dovuti agli effetti del cambiamento climatico che causa disastri ambientali. I Paesi destinati ad accogliere i migranti sono spesso quelli aventi un’economia diversificata come ad esempio il Sudafrica, la Costa D’Avorio e la Nigeria. Ma ci sono poi altre nazioni che, per la loro posizione geografica, sono meta di chi scappa da guerre. In tal senso gli spostamenti avvengono verso l’Uganda, l’Etiopia e il Kenya. I flussi migratori che dal continente africano seguono la rotta del Mediterraneo, sono invece quelli che hanno come base di partenza il nord Africa. Ma spesso accade che, dopo diversi movimenti migratori all’interno del continente africano, si arrivi proprio all’estremo Nord e da qui si parte per l’Europa con una cittadinanza che può rimanere sconosciuta a chi ospita i nuovi arrivati.
L’identificazione impossibile: il caso emblematico della Costa d’Avorio. Un contesto piuttosto emblematico di questa situazione è quello riguardante la Costa d’Avorio. Da qui si parte sempre di più, a settembre erano già più di mille i migranti ivoriani sbarcati in Italia in questo 2020: “Ma non è detto che provengano tutti da lì – ha fatto sapere una fonte diplomatica a Insideover – Anzi, il governo locale spesso fa presente che sono molto pochi gli ivoriani a partire”. Il perché di questa discrepanza tra i dati è da ricercare nel fatto che la Costa d’Avorio è storicamente uno dei Paesi in cui emigrano gli africani che rimangono nel continente: “Questo è un fatto che ha sempre contraddistinto la Costa d’Avorio – ha proseguito la fonte diplomatica – Già negli anni ’60 il presidente Félix Houphouet-Boigny, avendo molte terre libere e poca manodopera, ha aperto i confini agli stranieri”. Dunque verso il Paese africano si è sempre emigrato. E oggi che da qui partono importanti flussi migratori verso l’Europa e l’Italia, potrebbero verificarsi due situazioni: che lungo le nostre coste arrivino ivoriani di seconda o terza generazione oppure cittadini di altri Paesi africani da anni residenti in Costa d’Avorio. In entrambi i casi, mentre i migranti dichiarano di essere ivoriani a tutti gli effetti, il governo locale più volte ha ribadito l’opposto. E cioè che non bisogna considerare questi due gruppi di immigrati come cittadini provenienti dalla Costa d’Avorio.
I problemi per i Paesi di primo approdo. L’accertamento della nazionalità di un migrante non è un problema soltanto di ordine burocratico, bensì anche politico. Il governo ivoriano ad esempio potrebbe trarre vantaggio dal ridimensionare la portata del flusso migratorio originato dal proprio Paese, sia perché avrebbe meno responsabilità e sia perché potrebbe essere interessato da un minor numero di rimpatri. Il caso della Costa d’Avorio è solo un esempio, forse quello più emblematico, ma sono diverse le realtà simili da cui una precisa identificazione del migrante appare molto difficile. E questa circostanza porta a non pochi problemi per i Paesi di primo approdo, a partire dall’Italia. Se un migrante dichiara di essere cittadino di una determinata nazione e il governo interessato nega tale circostanza, in caso di espatrio oppure di altri provvedimenti, quali tra tutti l’esame della domanda di asilo, potrebbero subentrare numerose problematiche. Anche perché l’identificazione di chi arriva sta alla base della gestione del fenomeno migratorio. Non avere chiarezza su questo dato vorrebbe dire avere difficoltà anche nell’amministrazione dell’accoglienza.
Il mercato nero dei contratti e degli indirizzi falsi creato dalla sanatoria migranti. La norma che avrebbe dovuto regolarizzare migliaia di stranieri sul nostro territorio si è trasformata in un affare per i caporali diventati intermediari. E molti migranti pagano migliaia di euro per un pezzo di carta fasullo ad aguzzini e imprenditori senza scrupoli così da ottenere il permesso di soggiorno. Collettivo Lorem Ipsum il 21 agosto 2020 su L'Espresso. Ficou guarda davanti a sé con lo sguardo fisso, la voce bassa che incespica sull’italiano a ripetere come una preghiera vergognosa quello che è successo. «Ho dato a Massimo mille euro e lui è sparito». Viene dal Senegal, ha 24 anni e da quattro è arrivato in Italia. «Sulla barca, dalla Libia». Poi un anno in Francia, a cercare una fortuna che qua in Italia non aveva trovato e che nemmeno lì troverà. A Roma, però, si apriva la prospettiva, per un irregolare come lui, di potersi finalmente mettere a posto. Uno spiraglio chiamato sanatoria, figlia della pandemia e di un apparente moto di giustizia sociale per i migranti, che è diventata per Ficou e per altri 600 mila uno dei pochissimi accessi al permesso di soggiorno. Il problema, però, è che per attivare la procedura - introdotta con il decreto Rilancio e accessibile dal 1 giugno al 15 agosto 2020 - bisognava lavorare in uno di questi tre settori: agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona. Chi si guadagnava da vivere in altri campi, come l’edilizia e la ristorazione, è rimasto escluso. E così si è creato un mercato di contratti falsi, venduti da datori di lavoro italiani a cifre che arrivano fino a 8 mila euro, grazie all’aiuto di intermediari stranieri che hanno approfittato delle difficoltà dei connazionali per raggirarli. Una vera e propria “compravendita delle indulgenze”, in cui si è promesso il paradiso a costi altissimi per centinaia di migliaia di lavoratori. Le lacrime commosse della ministra del Lavoro Teresa Bellanova sembrano lontanissime da quello che è successo in strada e online, dove si sono moltiplicati i datori di lavoro disposti a spacciare contratti falsi a prezzi esorbitanti.
“PERCHE’ VENIAMO IN ITALIA? AVETE LEGGI MENO RESTRITTIVE DELLE NOSTRE”. Chiara Giannini per ilgiornale.it il 19 luglio 2020. La San Savino della Siremar, il traghetto che fa la spola tra Lampedusa e Porto Empedocle, attracca in banchina che sono già le 20.30. Sul molto diversi blindati della polizia e cinque autobus pronti a caricare quei 240 migranti traportati dall'isola invasa dai clandestini fino alla Sicilia, in quello stesso tratto di mare in cui è ancorata la Moby Zazà, la nave per la quarantena approntata dal governo che solo per i rifornimenti entra in porto. La gente è esasperata. «Abbiamo viaggiato sullo stesso traghetto - racconta un agrigentino -, sebbene distanziati. Ma quasi ogni giorno è così e nonostante ci sia chi fa la santificazione a bordo, il rischio di contrarre il Covid-19 è sempre alto. Abbiamo paura? Sì. Ormai parlano della nostra terra solo per i migranti, ma la Sicilia è altro. È turismo e cultura. Siamo stanchi». Umberto Prestia, responsabile della Lega a Porto Empedocle è sceso al porto per vedere l'ennesimo arrivo degli immigrati. «La nostra città - spiega - seppur martoriata dai ripetuti sbarchi, è una zona CovidFree. Nonostante il danno di immagine che stiamo subendo da parte della scellerata gestione del governo riguardo al fenomeno dell'immigrazione clandestina, Porto Empedocle è sicura per tutti i turisti. I postumi del lockdown - prosegue - sono ancora evidenti, soprattutto per quel che riguarda i commercianti e i loro dipendenti. Ma noi siamo felici di accogliere i turisti che intenderanno far tappa qui». Gli sbarcati, quasi tutti tunisini, con qualche eccezione per alcuni soggetti che arrivano dal Bangladesh, salgono sui pullman. Per ogni mezzo 55 persone, senza distanziamento sociale. Circa 190 di loro sono destinati a un centro di accoglienza di Caltanisetta, i restanti a Villa Sikania. «Guardate - ci dice un residente -, dicono che scappano dalla guerra, ma sono abbigliati come noi, sorridono e scherzano tra loro. Non ci risulta che in Tunisia ci sia la guerra». Dalla rete di protezione riusciamo ad avvicinarci e a chiedere in francese a un migrante: «Perché sei qui?». Ci risponde senza esitare: «Avete leggi meno restrittive delle nostre». Eh sì, perché il controsenso sta tutto nelle non decisioni del governo. Chi arriva in aereo viene rimandato indietro, chi giunge sulle coste siciliane da clandestino viene accolto tra tutti gli onori, visitato, rifocillato, mantenuto. E finito il periodo di quarantena, se non scappa prima dagli hotspot o dai centri di prima accoglienza, se proviene da un Paese come la Tunisia viene munito di un foglio di via, che gli imporrebbe il ritorno in Patria, visto che i rimpatri sono fermi a causa dell'emergenza Covid. Una bella fregatura, perché poi rimangono tutti qui. «Il grande bluff - tiene a dire una signora appena scesa dal traghetto - perché li dobbiamo mantenere noi. Poi ce li ritroviamo per le strade, a bivaccare, a chiedere le elemosina, a delinquere. Ma il premier Conte perché non viene a vedere con i propri occhi». Un poliziotto le fa eco: «Il ministro Lamorgese idem, non l'abbiamo mai vista a Lampedusa, neanche sa in che condizioni dobbiamo lavorare, con turni massacranti, rischiando di ammalarci perché i dispositivi di sicurezza non sono sufficienti». Sulla nave della Siremar, che in alcune occasioni per portare i migranti ha lasciato a piedi turisti e residenti, solo 20 agenti a fare da contorno a 240 clandestini. I due pesi e le due misure che ci sono tra l'essere italiano e l'essere clandestino. «Uno schiaffo ai morti del periodo di lockdown e alle loro famiglie - ci dice qualcuno - che per evitare il contagio non hanno più potuto vedere i loro cari, mentre questa gente è libera di circolare rischiando di portarci altri clandestini».
ANACONDE A SPASSO – VIDEO! A TARQUINIA UNO STRANIERO SI È SPOGLIATO COMPLETAMENTE E HA INIZIATO A BALLARE CON IL RETTILE IN BELLA VISTA – L’ALTRO GIORNO A SIRACUSA PASSANTI IN TILT PER L’EXTRACOMUNITARIO COMPLETAMENTE NUDO A PASSEGGIO CON L’ARNESONE ALL'ARIA.
Da tusciaweb.eu il 19 luglio 2020. Attimi di imbarazzo, e anche qualche risata, stamani all’alba. Un uomo di origine straniera si è spogliato completamente e ha iniziato a ballare lungo via delle Rose, a ridosso del centro storico di Tarquinia. Incurante delle auto di passaggio e vestito solamente con un paio di cuffie collegate a uno smartphone, l’uomo ha ballato per alcuni minuti al centro della strada prima di liberare il passaggio. Il tutto mentre alcuni passanti e residenti hanno immortalato la danza con i propri cellulari.
Pd e M5s lanciano il festival Ong: cancellate le multe milionarie. Pronta la riforma dei dl Salvini. In caso di violazione, si applica il Codice dalla navigazione: sanzioni alle Ong di 560 euro. E torna la protezione umanitaria. Bartolo Dall'Orto, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Cambia tutto, o meglio tutto torna come prima. La maggioranza gialloverde è pronta a dire addio ai decreti sicurezza che hanno caratterizzato l’esperienza di governo targata Lega e M5s. Esulta il Pd, che trova una mediazione sbilanciata a suo favore. E arrossisce il Movimento, che quei dl Salvini aveva contribuito ad approvare. Il fulcro della bozza di riforma, redatta dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ruota attorno alla riduzione delle multe milionarie contro le Ong che violano i divieti di ingresso nelle acque territoriali. Se la nave umanitaria effettua una operazione di Ricerca e soccorso, comunicandolo sia al Centro di coordinamento competente che allo Stato di Bandiera, allora non incorrerà in alcun divieto. In caso contrario, scrive però Repubblica, la violazione non verrà sanzionata con la multa emessa dalla prefettura contro l’armatore, ma sarà il giudice a decidere. L’Ong, infatti, all’ingresso in acque territoriali rischia di incorrere nella violazione del Codice della navigazione, punito con 2 anni di carcere e una sanzioe modestissima: solo 560 euro contro la forbice che va da 250mila euro a un milione che il prefetto era autorizzato a comminare grazie ai dl Salvini. E niente arresto per il comandante o sequestro immediato dell'imbarcazione, come previsto dalla normativa vigente. M5s e Pd si sono visti ieri insieme alla Lamorgese. Entro dieci giorni dovrebbero incontrarsi di nuovo per limare gli ultimi dettagli del testo. Poi la proposta verrà portata da Lamorgese in Consiglio dei ministri. Resta per ora sul piatto la possibilità di lasciare le multe da 10mila a 50mila euro, come previsto nel primo decreto Sicurezza. Ma il nodo deve ancora essere sciolto. Le altre novità targate M5s-Pd riguardano i permessi di soggiorno e lo Sprar. Torna la protezione umanitaria, anche se non si chiamerà così e forse non sarà di maglie così larghe come lo era prima dell’intervento della Lega. I permessi speciali verranno estesi a chi rischia di subire nel suo Paese "trattamenti inumani e degradanti", a chi necessita di cure mediche e a chi proviene da Stati dove siano in corso "gravi calamità". Inoltre, dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il divieto di iscrivere all’anagrafe i richiedenti asilo, l’idea ora è quella di assegnargli anche una sorta di carta di identità della validità di tre anni. Si dimezzano anche i tempi di permanenza nei Centri per il rimpatrio, che scendono da 180 a 90 giorni. L’ultima novità riguarda lo Sprar: potranno accedervi, di nuovo, anche i richiedenti asilo. Ma saranno i Comuni, che già assicurano il servizio a titolari di protezione umanitaria e minori non accompagnati, a decidere se accoglierli e fornire loro servizi per l’inclusione.
Migranti, la maxi-sanatoria diventa un maxi-autogol. Non c'è nulla di strano nel flop della sanatoria per gli immigrati voluta dalla ministra Teresa Bellanova. Non è colpa della burocrazia né dei padroni delle aziende agricole. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 11/06/2020 su Il Giornale. Non c'è nulla di strano nel flop della sanatoria per gli immigrati voluta dalla ministra Teresa Bellanova. Non è colpa della burocrazia né dei padroni delle aziende agricole. Era tutto ampiamente prevedibile e non c'era bisogno di rivolgersi a un aruspice per capirlo. Sarebbe stato sufficiente ascoltare le parole dei rappresentanti di categoria e degli addetti ai lavori. Ricapitoliamo: nel mese di maggio la ministra per le politiche agricole annuncia, in lacrime, una maxi sanatoria per centinaia di migliaia di migranti. Lo scopo? Regolarizzare un esercito di agricoltori, badanti e colf. Un bisogno impellente che sui giornali di sinistra diviene un vero e proprio allarme: senza i migranti in primavera rischiamo di rimanere senza frutta e verdura. A parte l'ambiguità di una posizione che, se fosse partita da destra sarebbe stata bollata come in odore di schiavismo, la decisione della ministra si scontra subito con la realtà. Le aziende agricole italiane non hanno bisogno di tutte quelle persone e, soprattutto, hanno bisogno di personale qualificato. «Temo che pochi dei 600mila immigrati che si intende regolarizzare saranno impiegati in agricoltura - dice al Sole24Ore Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, lo scorso 7 maggio -. È ora di finirla con l'idea dell'attività agricola che può essere svolta da chiunque. Non si può potare un vigneto, operare in una serra o guidare macchine agricole senza alcuna competenza. Anzi, quanto più un operaio è specializzato, maggiori sono le probabilità che venga stabilizzato». Chiarissimo, no? A tutti, ma non alla Bellanova. «Temo che ci siamo focalizzati troppo sulla sanatoria degli irregolari. Mentre era fondamentale riaprire quanto prima i corridoi verdi che avrebbero riportato in Italia manodopera specializzata», gli fa eco Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. Insomma, la ricetta è semplice: aprire i «corridoi verdi», come avevano già fatto molti Paesi europei, per fare tornare gli esperti del settore. Ma la Bellanova ai corridoi verdi preferisce le scorciatoie rosse. Anche se poi si dimostrano dei vicoli ciechi. Un'occasione troppo ghiotta per «fare qualcosa di sinistra» a favore di telecamera. Così arriviamo al risultato di questi giorni: alla fine su 600mila migranti (secondo i 5 Stelle 220mila) solo 9.500 hanno chiesto di aderire alla sanatoria. La maxi sanatoria in realtà era solo un maxi spot elettorale che si è tramutato in un maxi flop, anche se la ministra, dalle colonne di Repubblica, rivendica la sua scelta e scarica le colpe su misteriosi boicottatori. Ancora una volta l'ideologia ha prevalso sul pragmatismo e, alla fine, non ci ha guadagnato nessuno. Nemmeno i migranti. Forse solo la Bellanova che, per qualche settimana, ha potuto sfoggiare la coccarda buonista di una sanatoria inesistente.
Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 16 giugno 2020. Arrivano da mare ma anche da terra. Dalla Libia e dalla Tunisia, su gommoni e barchini, ma anche dalla rotta Balcanica. Il 40 per cento in più di sbarchi nel Mediterraneo solo a maggio, dieci volte di più dal confine sloveno. E l'Italia è solo la porta d'ingresso di un flusso migratorio la cui pressione sui confini preoccupa l'Europa dove è ancora lontano l'accordo sul pacchetto di proposte a cui sta lavorando la commissione europea, dalla riforma del regolamento di Dublino alla ricollocazione obbligatoria di chi arriva. I numeri diffusi ieri dall'Agenzia europea Frontex raccontano di una forte ripresa dei viaggi dopo il lockdown con un consistente aumento rispetto ad aprile mese in cui, naturalmente, la pandemia aveva fortemente condizionato i flussi. Soprattutto sulla rotta terrestre, con il sospetto che la Turchia abbia ripreso a far partire le migliaia di migranti ammassati al confine con la Grecia. «Ci sono stati più di 900 ingressi illegali su questa rotta a maggio - scrive Frontex - dieci volte di più rispetto al mese precedente. Nei primi cinque mesi del 2020, il numero degli arrivi è aumentato del 50 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, circa 6900». Già da prima del lockdown il Viminale aveva posto particolare attenzione agli arrivi dal confine del Friuli-Venezia Giulia disponendo l'invio di contingenti delle forze dell'ordine e dell'esercito per i pattugliamenti. E molte associazioni, tra cui l'Asgi, denuncia decine di riammissioni in Slovenia di afghani, pachistani, siriani, iracheni che si traducono in respingimenti verso la Croazia e la Bosnia. Anche i trafficanti libici e tunisini hanno ripreso a far partire i barconi: sono 5.638 gli sbarchi in Italia nel 2020, quasi il triplo rispetto all'anno scorso. Due Ong sono tornate in missione ma nell'ultima settimana non hanno soccorso nessuno. Ma non è la rotta del Mediterraneo centrale la più battuta, bensì quella orientale verso la Grecia dove nei primi cinque mesi dell'anno sono transitati in 12.700, soprattutto afghani. Quadruplicati anche gli arrivi dal Mediterraneo occidentale, circa 3700 dal Marocco o dall'Algeria. Complessivamente, sono 31.600 gli immigrati che nel 2020 sono entrati illegalmente in Europa, il 6 per cento in più dell'anno scorso.
Massimo Calandri per “la Repubblica” il 16 giugno 2020. Anche ieri sono arrivati almeno in 30, comprese due famiglie siriane con 6 bambini. E al confine, come tutte le mattine dall'inizio di giugno, la gendarmerie ne ha ricacciati indietro altri 45, a spintoni e male parole. Migranti. Con la riapertura delle regioni, i controlli meno severi alla frontiera slovena, hanno cominciato a raggiungere Ventimiglia. L'ultima città italiana prima della Francia. Dove ci sono come minimo 6 valichi per provare ad espatriare e continuare così un viaggio che dalla rotta balcanica porta - forse - a un mondo migliore: il Nord Europa. «È stato come aprire una diga», dicono le organizzazioni umanitarie. Sì, ma oggi quel flusso di vite e speranze si ferma lì. In una città che il sindaco, Gaetano Scullino, suo malgrado, definisce «un imbuto ». «Perché coi poliziotti francesi non si passa. Neppure le mamme, i piccoli in braccio. Quelli se ne fregano: ci rimandano anche qualcuno che magari è entrato da loro attraverso altri Paesi». Il centro della Croce Rossa è chiuso per ragioni di sicurezza, dopo un caso di Covid. «Agli stranieri non rimane che dormire sulla spiaggia. Si arrangiano sull'erba dei giardini pubblici o s' accampano sul greto del fiume Roja. In attesa di riprovare ad andare dall'altra parte. Oggi sono 500. Tanti minorenni. Nel giro di una decina di giorni, la situazione rischia di essere fuori controllo». Cinque anni fa, la barriera italo-francese - con la chiesa trasformata in dormitorio e poi la tendopoli, gli sgomberi - finì sotto i riflettori del mondo. «Allora nella mia gente c'era più comprensione, disponibilità. Oggi, non so. Qui si vive di turismo. E siamo reduci da mesi impossibili». Marsha Cuccuvé è la responsabile del Campo Roja, centro di transito gestito dalla Croce Rossa. Ha 28 anni, e ha appena trascorso un mese e mezzo di quarantena con 240 ospiti. Era stato segnalato un caso di Coronavirus: un pachistano, ricoverato in ospedale e guarito. Poi un bimbo nigeriano è risultato "debolmente positivo". «E insomma, abbiamo riaperto i cancelli il 20 maggio scorso. Tutti sono stati disciplinati, l'Asl ci ha monitorato ogni giorno: stiamo bene, benissimo». Però la Prefettura non permette di accogliere altri ospiti, per il momento. «È un delitto, perché avremmo molti spazi disponibili. In passato siamo arrivati ad ospitare oltre 600 persone». In un meno di un mese, il numero di presenze si è ridotto ad un centinaio, 7 donne. «È un centro di transito». Che fine hanno fatto, quelli hanno lasciato il Campo? Hanno provato ad andare in Francia, prima o poi ci riusciranno. Succede sempre così. «Non ci sono muri che possano fermare il diritto e la voglia di vivere ». Ma nel frattempo? C'è un ferroviere francese che è in malattia da più di un anno. Da quando col suo treno ha travolto e ucciso un migrante in galleria. La storia la racconta Christian Papini, direttore del centro Caritas che sta proprio accanto alla stazione. C'è chi si arrampica sui tetti dei convogli diretti in Francia, ma non sa che dopo la frontiera il voltaggio elettrico raddoppia e finisce folgorato. O asfissiato nelle sale macchine, dove prova a nascondersi durante il viaggio. I dipendenti delle Ferrovie francesi a Ventimiglia distribuiscono volantini, per scoraggiare chi tenta di entrare in quel modo. «Intanto i migranti guardano i treni passare, la Francia è giusto la fermata dopo. Come se ad uomo che muore di fame gli si mette sotto il naso un banchetto: voi riuscireste a resistere?», chiede Papini, insieme alla collega Serena Regazzoni. Sono tornati a lavorare i passeurs , che garantiscono il passaggio oltre frontiera. «Prima costava 150-200 euro, adesso ne chiedono anche a 500», racconta Jacopo Colombo, di Weworld. Ma poi arriva la gendarmerie. La polizia di frontiera italiana conferma: «Ogni giorno, rimandano indietro una media di 40-50 persone». Gli agenti italiani fanno lo stesso con gli irregolari che dalla Francia provano a venire in Italia scommettendo sulla recente sanatoria. «Quattro o 5 al massimo». «Dopo il passato, gli hanno tolto il futuro. La fame, e la sete di vita»: sono le parole di una targa che accompagna il monumento al cane randagio, eretto vicino alla foce del fiume Roja, all'inizio della passeggiata di Ventimiglia. Ieri sera un gruppo di ragazzi africani ha dormito lì, nascosto tra le siepi. Come cani. «Il ministero dell'Interno deve ripristinare quel servizio di pullman che alla frontiera recupera i migranti cacciati dalla Francia, e li porta direttamente nei centri di accoglienza», dice Scullino, che nella sua città non li vuole. Era sindaco anche dieci anni fa. «Mi ritrovai a gestire l'arrivo di 25.000 tunisini, dopo la primavera araba. Vi giuro, oggi è più difficile. Serve che qualcuno lo dica ben chiaro e forte a tutta questa gente: non venite a Ventimiglia, perché i francesi non vi faranno passare». Non ora, almeno.
Quel paesino di 84 abitanti dove il governo vuole mandare 100 immigrati. Ira dei cittadini: "Perché vogliono distruggere e sostituire la nostra comunità?". Salvini va all'attacco: "Pd e 5 Stelle sono veloci a mandare a casa i boss e a spalancare i porti ai clandestini". Luca Sablone, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Sembra una notizia assurda, impossibile, incredibile e fantascientifica ma rappresenta una cruda realtà: un Comune italiano rischia di essere quasi completamente "sostituito" dall'arrivo di 100 immigrati. Stiamo parlando di Carapelle Calvisio, un paesino della provincia de L'Aquila di appena 84 abitanti. I migranti starebbero per essere ospitati in una struttura messa a disposizione dalla "Caritas dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne Onlus" per il periodo di sorveglianza sanitaria. Arroccato su una delle propaggini meridionali del Gran Sasso d'Italia, il borgo è stato gravemente danneggiato dal terremoto de L'Aquila del 2009, con una significativa percentuale delle abitazioni crollate o dichiarate inagibili dopo i sopralluoghi del caso condotti dalla protezione civile, rientrando così nel cosiddetto "cratere sismico". ll sisma del 6 aprile non lo ha risparmiato: il 40% delle case è andato distrutto, ma gli abitanti si sono rimboccati subito le maniche e hanno provato a risollevarsi da una drastica situazione. La denuncia è arrivata da Matteo Salvini: "Il governo non manda aiuti e risposte ai cittadini, ma in compenso è pronto a spedire un centinaio di immigrati in un paese di circa 80 anime come Carapelle Calvisio, in provincia de L'Aquila". Il leader della Lega la giudica una vera e propria follia e perciò ha rivolto un duro attacco nei confronti del governo giallorosso: "Conte, Pd, 5 Stelle sono veloci a mandare a casa i boss e a spalancare i porti ai clandestini". Un primo esperimento italiano di "eliminazione identitaria": l'ha definito così Luigi D'Eramo. Nel paesino oggi vivono appena 84 abitanti, con un'età media di circa 60 anni, ovvero una categoria per definizione debole: "Il piccolo Comune oggi ha i fondi sufficienti appena per garantire i servizi essenziali, mentre non ha risorse per garantire i servizi di sicurezza urbana visto che ha in organico appena un dipendente e un ragioniere che appartiene a un altro Comune". Addirittura non ha a disposizione neanche un'unità di polizia municipale. Si verrebbe a creare un aumento di popolazione di oltre il 110%: "Un caso unico a livello italiano che determinerebbe una situazione insostenibile sotto ogni punto di vista".
"Vogliono distruggerci". Il deputato aquilano del Carroccio ha evidenziato i rischi di tale assurdità: non solo si cancellerebbe l'identità di un'intera comunità, ma da una parte si rischierebbe di stravolgere "una quotidianità secolare" e dall'altra si minerebbero tranquillità e sicurezza "con possibili, quasi certe, gravi ripercussioni". La vicenda conferma la linea politica dell'esecutivo giallorosso, che ha contribuito all'aumento degli sbarchi ad aprile e che sta inseguendo il folle progetto di regolarizzazione di 600mila immigrati. "Uno dei più piccoli e tranquilli comuni d’Italia sta per essere letteralmente invaso dall’arrivo di migranti, peraltro in piena emergenza Covid-19. È una circostanza intollerabile che la Lega combatterà con tutte le sue forze, in ogni sede", ha concluso D'Eramo. Ma come l'avranno presa i cittadini? Non proprio bene. Una abitante si è sfogata a ilGiornale.it e ha espresso tutta la sua rabbia dopo aver ricevuto la notizia: "Ma perché vogliono distruggere un paesino di vecchietti? E poi quelli che arriveranno dove dormiranno? Lavoreranno? Dove mangeranno? Carapelle Calvisio non è cambiata in tantissimi anni. Tutto va bene e quando le cose vanno bene non si cambia nulla". Ma anche chi è nativo del posto e al momento si trova in Canada si definisce deluso e sconcertato per l'arrivo dei migranti: "L'anno prossimo mi metterò in viaggio e tornerò. Avevo intenzione di tornare il 15 aprile ma l'emergenza Coronavirus non me l'ha permesso. Spero che per quando tornerò il governo si sarà dato una svegliata".
"Un paesino sostituito dagli immigrati". Ecco tutto quello che c'è dietro. Ora spuntano le carte. Cittadini furiosi: "È una cosa vergognosa". La Lega promette battaglia e attacca: "Le azioni politiche del Pd sono false e dannose". Luca Sablone, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Accuse incrociate, chiarimenti, caos, dubbi e proteste: il possibile arrivo di 100 immigrati a Carapelle Calvisio ha movimentato in maniera notevole la politica abruzzese e nazionale. Ieri vi abbiamo parlato del paesino in provincia de L'Aquila che conta circa 84 abitanti e che rischia di essere "sostituito" dai migranti che starebbero per essere ospitati in una struttura messa a disposizione dalla "Caritas dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne Onlus" per il periodo di sorveglianza sanitaria. L'accusa della Lega nei confronti del governo è stata tanto chiara quanto dura: "Sono veloci a mandare a casa i boss e a spalancare i porti ai clandestini. Non permetteremo questa sostituzione identitaria". Ma nelle scorse ore è arrivata la presa di posizione del Partito democratico, che ha puntato il dito contro la Regione Abruzzo: "La struttura di Carapelle Calvisio è stata individuata dal Dipartimento Lavoro e Sociale della Regione Abruzzo, che fa capo all’assessore della Lega Piero Fioretti". Ma è proprio così? Il leghista, contattato in esclusiva da ilGiornale.it, ha provato a fare chiarezza su quanto sta accadendo. Tutto è partito da mercoledì 22 aprile, quando la Prefettura de L'Aquila - su richiesta del soggetto attuatore nominato dal Capo Dipartimento nazionale di protezione civile - ha diramato una nota per sollecitare ad adoperarsi per trovare idonei alloggi volti all'accoglienza nel corso dell'epidemia. E poi sono iniziati a sorgere diversi interrogativi. "La Prefettura ha scritto alla presidenza e alla sola Asl de L'Aquila. Mi sembra strano perché se chiami in causa la presidenza della Regione per un'azione di livello regionale devi coinvolgere tutte e 4 le Asl", fa notare Fioretti. Effettivamente ci sono anche l'Asl 2 Lanciano-Vasto-Chieti, l'Asl 3 Pescara e l'Asl 4 Teramo.
Quella risposta della Caritas. Vi era già stata qualche azione di interlocuzione con qualche ente o associazione che aveva strutture sull'aquilano? "Guarda caso è uscita fuori l'unica che ha risposto a quell'informativa", fa notare l'assessore del Carroccio. Si tratta di un'associazione che ha sede a Pescara e che ha messo a disposizione la struttura su L'Aquila: "Pochi giorni dopo un funzionario, un dirigente della Caritas ha risposto mettendo per conoscenza anche il direttore della Caritas diocesana Pescara-Penne, don Marco Pagniello". Nella risposta infatti si legge che viene comunicata l'intenzione da parte della Fondazione Caritas dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne Onlus di rendere disponibile una struttura di accoglienza di proprietà sita nel Comune di Carapelle Calvisio. "La struttura è provvista di camere con bagno e spazi interni ed esterni. Per capire meglio l'idoneità degli alloggi a garantire le previste misure di sorveglianza in considerazione della particolare tipologia di accoglienza chiediamo di poter conoscere le condizioni dell'accoglienza", viene specificato. Infine è stato richiesto anche di conoscere le condizioni economiche previste. Fioretti punta il dito contro il governo giallorosso, facendo sempre riferimento al fatto che il Capo Dipartimento della protezione civile ("che risponde sia al presidente del Consiglio Giuseppe Conte sia al Ministero dell'Interno") ha nominato un soggetto attuatore. Nella nota della Prefettura viene menzionato il decreto n. 1287 in data 12 aprile 2020, chiedendo di individuare - per gli immigrati che giungono sul territorio nazionale in modo autonomo - aree o strutture da adibire ad alloggi per il periodo di sorveglianza sanitaria previsto dalle vigenti disposizioni.
L'ira dei cittadini. Lo stesso Fioretti ha risposto alle accuse ricevute dal Pd abruzzese: "Il teatrino mediatico messo in campo da questi fantomatici rappresentanti politici ormai non stupisce, anzi rende più agevole smascherare la palese falsità e dannosità delle azioni politiche del Partito democratico". Il sindaco Domenico Di Cesare non ci sta e va all'attacco: "Sono deluso, nessuno mi aveva informato di una simile eventualità: in un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, in piena emergenza sanitaria, quando si dovrebbe bandire ogni forma di contatto, a Carapelle potrebbero arrivare 100 migranti". Il primo cittadino si è detto soddisfatto dal comportamento tenuto fino ad ora dai suoi cittadini, che hanno rispettato le rigide norme previste dal governo, ma allo stesso tempo è preoccupato: "Ora, però, potremo presto ritrovarci con molte persone in quarantena. Chi ci assicura che queste persone saranno controllate? Chi mi dà la garanzia che gli abitanti di Carapelle non andranno incontro a maggiori rischi in questo modo? Chi li controllerà? Chi vigilerà sul loro rispetto delle regole?". Anche i cittadini hanno espresso la loro rabbia per la notizia. "È una cosa vergognosa. Qui passiamo la vita in pace, ci conosciamo tutti e nonostante questo portiamo la mascherina come norma anche se sappiamo che qui non c'è nulla. Se arrivano sicuramente porteranno il Covid-19. Un numero che raddoppia il numero di abitanti è impossibile che non contenga contagi", ci confessa un abitante. Il malcontento è notevole: "Perché vogliono sostituirci con questi immigrati?". In molti sperano che l'arrivo venga scongiurato, ma l'ira nei confronti del governo è chiara: "Incoscienti, va impedito assolutamente, c'è a rischio la nostra vita. È un'idea criminale".
Bellanova: “Senza le regolarizzazioni, rifletto sulle mie dimissioni”. Lisa Pendezza il 06/05/2020 su Notizie.it. Senza il via libera alle regolarizzazioni, la ministra Bellanova potrebbe rassegnare le dimissioni: "Non sono qui a fare tappezzeria". Quello della regolarizzazione dei migranti irregolari, per far fronte all’emergenza sanitaria e alla crisi economica in atto, è uno dei tanti nodi ancora da sciogliere all’interno della maggioranza per la stesura del decreto maggio e la ripartenza del Paese. A farsene portavoce è, in modo particolare, la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, la quale ha ribadito che non si tratta di una “battaglia strumentale per il consenso” quanto, piuttosto, una necessità da cui dipende la sua stessa permanenza al governo: in caso di nulla di fatto, non esclude la possibilità di presentare al presidente del Consiglio le proprie dimissioni.
Bellanova minaccia le dimissioni. Ai microfoni di Radio Anch’io, la ministra Bellanova ha ribadito che la regolarizzazione non ha a che fare con il gioco politico, dal momento che i lavoratori interessati dalla manovra non possono accedere alle urne: “In questo Paese, anche in questa fase di crisi, tanti guardano al consenso, a fare misure per dire "ti ho dato, ora votatemi". Noi stiamo facendo una battaglia per quelli che non voteranno o che almeno non voteranno nei prossimi anni”. “Se la misura non passa, questo, per me, è motivo di riflessione sulla mia permanenza nel governo” ha continuato la ministra. “Non sono qui per fare tappezzeria. Ci sono delle questioni che non si sono volute affrontare o che sono state affrontate in maniera sbagliata”. L’obiettivo è “concedere un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei, per le aziende e le famiglie che vogliono regolarizzare. Ci sarà anche un contributo per lo Stato, anche se non bisogna esagerare: si tratta di persone sfruttate per 3 euro l’ora facendo concorrenza sleale alle imprese che rispettano le regole”. A sostegno delle misure chieste dalla ministra dell’Agricoltura interviene Luciana Lamorgese, che parla di una “condivisione di fondo. Ieri abbiamo avuto degli incontri. Riguarderà anche tanti italiani oltre che gli stranieri. C’è la necessità di far emergere questi lavoratori non solo per garantire i diritti delle persone, ma anche per esigenze di sicurezza sanitaria che in questo momento sono necessarie. Stiamo lavorando e spero che nelle prossime ore si riesca ad arrivare ad un testo definito”.
Regolarizzazione migranti, Teresa Bellanova si commuove durante la conferenza stampa. “Voglio sottolineare un punto per me fondamentale, l’emersione dei rapporti di lavoro. Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili”. Lo dice la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova in conferenza stampa a Palazzo Chigi. “Da oggi possiamo dire che lo Stato è più forte del caporalato”, aggiunge. Redazione de Il Riformista il 13 Maggio 2020.
Da adnkronos.com il 14 maggio 2020. "Voglio sottolineare un punto per me fondamentale, l'emersione dei rapporti di lavoro. Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili". E' con voce rotta dalla commozione che la ministra delle Politiche Agricole Teresa Bellanova alla fine del suo intervento in conferenza stampa si sofferma su "un punto per me fondamentale, l'emersione dei rapporti di lavoro" prevista dal dl rilancio. "Da oggi possiamo dire che lo Stato è più forte del caporalato", scandisce. "Quelli che sono stati sfruttati nelle campagne o nelle false cooperative non saranno invisibili, potranno accedere ad un permesso di soggiorno per lavoro e noi le aiuteremo ad essere persone che riconquistano la loro identità e la loro dignità. Abbiamo fatto una scelta chiara, possiamo dire che da oggi vince lo stato, perché è più forte della criminalità e del caporalato", dice. Con il dl Rilancio "il settore agroalimentare ha una dotazione specifica: abbiamo destinato 1 miliardo e 150 milioni di euro per sostenere la filiera agricola", spiega Bellanova. "Gli interventi saranno finalizzati ai settori che hanno più sofferto, il florovivaismo, gli agriturismi, la filiera del vino".
Bellanova in lacrime: “Lo Stato è più forte del caporalato”. Debora Faravelli il 13/05/2020 su Notizie.it. Lacrime per il ministro Bellanova durante la conferenza stampa istituita per illustrare il Decreto Rilancio. Durante la conferenza stampa per la presentazione del Decreto Rilancio il ministro Bellanova è scoppiata in lacrime mentre stava illustrando uno dei provvedimenti a lei competenti. Si tratta dell’articolo 110 bis relativo all’emersione dei rapporti di lavoro, un tema che per la sua storia le sta particolarmente a cuore.
Bellanova in lacrime in conferenza stampa. Dopo essere intervenuta sulle misure riguardanti il mondo dell’Agricoltura e poco prima di chiudere la sua presentazione, l’esponente di Italia Viva ha voluto concentrarsi su quelli che ha chiamato “invisibili“. Senza riuscire a trattenere la commozione, che l’ha costretta a fermarsi prima di continuare il discorso, si è infatti detta orgogliosa di quanto stabilito dal governo per “quelli che sono stati brutalmente sfruttati nei campi o nelle false cooperative dove le persone venivano date in prestito per lavorare come badanti e colf”. Secondo quanto contenuto nel Decreto queste categorie potranno infatti accedere ad un permesso di soggiorno per lavoro in modo da riacquistare la loro dignità. E infine una frase che riassume il senso di quanto affermato: “Lo Stato è più forte della criminalità e del caporalato“. Anche il Premier Conte, che ha preso la parola subito dopo, non ha potuto fare a meno che ringraziare la titolare del dicastero dell’Agricoltura per la passione e il coinvolgimento con cui ha illustrato il provvedimento. A tal proposito anch’egli ha definito le regolarizzazioni un risultato importante e una battaglia di civiltà.
Le reazioni. Immediate le reazioni della politica su Twitter alla commozione del ministro. Prima fra tutte quella del suo leader Matteo Renzi che si è complimentato con lei esprimendosi “fiero e orgoglioso delle battaglie di Teresa Bellanova”. Anche Matteo Salvini non ha mancato di commentare le sue lacrime in chiosa alla sua opinione, nettamente negativa, delle misure economiche varate dal governo. “Le lacrime del ministro Bellanova (Fornero 2) per i poveri immigrati, con tanti saluti ai milioni di italiani disoccupati, non commuovono nessuno“. Anche Giorgia Meloni è intervenuta sull’argomento dicendosi basita della commozione di un ministro per la regolarizzazione degli immigranti quando “migliaia di italiani hanno pianto schiacciati dalla disperazione di aver perso tutto. Aspettando un aiuto che non è arrivato mai“. Dello stesso tenore anche le parole di Mariastella Gelmini, preoccupata delle lacrime degli italiani.
Il paragone con Elsa Fornero. C’è stato poi chi ha paragonato il ministro ad Elsa Fornero, anch’essa scoppiata in lacrime durante la presentazione della manovra finanziaria del 2011. L’allora ministro si era commossa non riuscendo a pronunciare la parola “sacrifici” riferendosi a quanto chiesto ai cittadini a causa dello stop all’adeguamento annuale delle pensioni in base all’inflazione.
Teresa Bellanova in lacrime, Giorgia Meloni "basita": "Lei piange per i migranti, gli italiani per un aiuto mai arrivato". Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. "Sono basita". Giorgia Meloni commenta così, laconica, le lacrime di Teresa Bellanova per l'accordo raggiunto nel governo sulla sanatoria per i migranti irregolari che lavorano nei campi. "Centinaia, forse migliaia di italiani in queste settimane hanno pianto, magari di notte, di nascosto dai loro figli, schiacciati dalla disperazione per aver perso tutto, o per timore di perdere tutto - le ricorda la leader di Fratelli d'Italia alla ministra dell'Agricoltura renziana -. Aspettando un aiuto che non è arrivato mai. Stasera il Ministro Bellanova si è commossa. Ma per la regolarizzazione degli immigrati. Io sinceramente sono basita", conclude su Facebook la Meloni.
Teresa Bellanova su Facebook il 14 maggio 2020. È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere - sì, la forza - perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi. Però una cosa la voglio dire, a chi sta con me e a chi sta contro di me: le lacrime non le giudicate perché appartengono non a me sola, ma a chi ha ogni giorno il coraggio di sfidare per cambiare, sapendo che si può perdere o vincere. Sono cose che hanno a che fare con la vita, con l’impeto e la forza delle idee. Le lacrime sono il segno costitutivo, generativo della nostra specie. Chi le teme, o chi non ne comprende il senso e la forza, ha perso di vista il carattere più importante dell’umano: la coscienza delle cose, quant’è prezioso mostrarsi vulnerabili. Se abbiamo perso di vista questo, se non sappiamo più riconoscere cosa significa il pianto di chi crede in quello che fa, è preoccupante. Più di ogni battaglia, vinta o persa che sia. La forza delle donne, ed anche di molti uomini, è proprio saper piangere: non esiste un “pianto di genere“, perché l’unico genere capace di pianto è quello umano. Le donne qui non c’entrano nulla: c’entrano coloro che ogni giorno portano avanti le battaglie in cui credono, magari impopolari ma giuste. Quelli che avanzano il cuore senza bisogno di calcolare le distanze. Spostano la notte più in là. E credono nella politica che guarda in faccia i problemi che attendono risposte.
Dagospia il 14 maggio 2020. Da “24Mattino – Radio 24”. Il confronto con le lacrime della Fornero, "Mi avrebbe imbarazzato molto di più un paragone con Salvini che non con una professoressa come la Fornero". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Se mi avessero confrontato a Salvini, questo mi avrebbe fatto molto male. La professoressa Fornero è persona di grande competenza e professionalità che io rispetto anche se su alcune cose la pensiamo in modo differente". A proposito delle sua commozione specifica "ci sono dei momenti in cui i sentimenti non si riesce a governarli noi siamo il frutto della nostra vita e della nostra storia, chi non sente questo evidentemente le cose che fa le fa da mestierante". "Io ho avuto la fortuna, nella mia vita, di avere momenti difficili, complicati - ha spiegato a Radio 24 - ma di fare le cose che ho voluto fare con grande passione e ieri tutto questo mi si è palesato in un momento in cui ero nella condizione di poter dire che si migliorava la vita degli altri" ha concluso commuovendosi ancora. "Noi andiamo incontro alle grandi campagne di raccolta dove c’è bisogno di manodopera, io stessa ho detto rendiamo compatibile il Reddito di Cittadinanza con il lavoro stagionale per un certo numero di giornate, è un lavoro che si sta facendo. Agli italiani non è mai stato impedito di andare a lavorare in agricoltura ma non possiamo obbligare le persone a fare un lavoro o un altro quindi dobbiamo agire su tutti gli strumenti e dare alle persone il diritto di fare questo lavoro in modo legale” Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Come hanno fatto Regno Unito e Germania si può fare e ho rivendicato in più occasioni con la commissione la possibilità di avere i corridoi per le persone. Ma in Germania i viaggi sono stati organizzati dalle stesse imprese e in un numero non alto di persone. I corridoi verdi ci sono però bisogna avere le persone disponibili a salire su quei voli, bisogna sapere che queste persone vengono da zone rosse e devono fare la quarantena per 15 giorni. Non dico che non è possibile ma questo strumento da solo non è esaustivo". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Da mesi sto combattendo per dire che il caporalato non è frutto delle imprese e di non tutte le imprese. Ci sono delle imprese che si rivolgono al caporale perché vogliono competere nell'irregolarità, e ci sono delle imprese che sono costrette perché non trovano persone con permessi di soggiorno regolari per fare fronte al bisogno di raccolta". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. Nel governo “c’è stato molto confronto e io avrei voluto dare misure più dirette come sostegno alle imprese ma mi rendo conto che in un momento in cui fai la scelta di bloccare i licenziamenti, devi investire parte delle risorse per sostenere i lavoratori e garantire la cassa integrazione. Dobbiamo permettere alle imprese di competere e garantire la sicurezza ai lavoratori". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Il governo va avanti se risolve i problemi". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24.
Ritratto di Teresa Bellanova, la ministra che ha reso visibili gli invisibili. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Maggio 2020. Lacrime della forza, quelle versate da Teresa Bellanova in diretta, parlando della regolarizzazione dei migranti. Lacrime di gioia e di dolore per una battaglia – “rendere visibili gli invisibili”, che ha segnato la vita del Ministro delle Politiche agricole. Segno prorotto e prorompente della soddisfazione politica e umana di chi ha vinto la sua battaglia dentro e fuori il governo, dentro e fuori la politica. «Se noi facciamo emergere questo lavoro di regolarizzazione dei permessi di soggiorno non saranno costi per l’Italia, saranno entrate: perché i rapporti di lavoro irregolare privano lo Stato anche della contribuzione, oltre che togliere alle persone i loro diritti e la loro dignità. Quindi io non mi spaventerei dei numeri: se saranno 500-600 mila saranno i benvenuti, perché saranno persone che noi avremo tirato fuori dai ghetti e li avremo portati a vivere nella condizione della legalità e del riconoscimento della loro identità», dice a coronamento del decreto. E a chi la prende in giro perché ha pianto, risponde a muso duro: «È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere – sì, la forza – perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi…». Bellanova quei ghetti di campagna, in cui il caporalato dà vita al nuovo schiavismo dei braccianti, lo conosce molto da vicino: a 14 anni usciva di casa all’alba per andare a raccogliere l’uva nelle campagne del brindisino. Dall’incassettamento dell’uva da tavola alle prime riunioni sindacali, il passo è stato breve. Già adolescente divorava tutti i libri e i giornali che le capitavano a tiro. Le sue coetanee si innamoravano delle celebrities di Hollywood, lei guardava a Giuseppe Di Vittorio. Va a scuola fino alla terza media. “Non ne sono orgogliosa”, dirà alla Gruber. La disciplina l’ha imparata prima nei campi, dove la fatica per le donne raddoppia, poi alla Camera del Lavoro di Brindisi. Lì trovava sempre una copia de L’Unità, che a fine riunione portava a casa. Un modo per imparare a leggere non solo il testo ma il contesto. A trent’anni diventa segretaria provinciale della Federazione Lavoratori Agroindustria (Cgil) di Brindisi. Prima donna, per giunta giovane, a capo di un sindacato tutto al maschile, nel Mezzogiorno. Oggi si presenta alle porte del Ministero alle 7.30 del mattino, spesso prima che siano arrivati gli uscieri. La sveglia a casa suona alle 5.30, la colazione si riduce a un caffè. E si immerge nelle rassegne stampa, poi nella lettura avida, assetata dei quotidiani. «Ne legge almeno dieci ogni mattino», ci racconta la sua Capo segreteria, Alessia Fragassi, che la accompagna da anni. Mette un’energia assoluta in tutto quel che fa, credendoci tanto da coinvolgere chi la circonda. «Non si rimanda mai a domani quello che si può fare oggi», ripete sempre. È una stakanovista. Al Ministero non erano preparati ai suoi ritmi. Negli ultimi giorni sono rimasti tutti convocati fino alle due di notte. Raramente si torna a casa prima delle 23. Un foglio bianco, pronto a essere firmato con le dimissioni, è rimasto sulla sua scrivania tutta l’ultima settimana. Al suo staff ha detto «Siamo in una partita esiziale, vinciamo o andiamo a casa». Fa sempre sul serio. Come quando ha deciso di lasciare il Pd – lei che colleziona tutte le sue vecchie tessere Pci – per seguire Matteo Renzi. Un incontro di affinità incredibile tra due anime dalla storia molto diversa. Mai avuto un ripensamento. «Ascolta Renzi, ma decide da sola e non cambia idea», dicono di lei. L’uomo con cui si confida è un altro. Si chiama Abdellah El Motassime, marocchino di Casablanca. È stato il suo interprete durante un viaggio nel 1988 con la Flai Cgil in tema agroalimentare, ed è stato subito colpo di fulmine. Convolati a nozze nel marzo ’89 e da allora profondamente uniti. «Vivono in connessione profonda», dice chi li conosce più da vicino. «È un punto di forza: lei sa di essere sostenuta in qualsiasi momento da un uomo umanamente esemplare, che ha una cura e un accudimento fortissimo nei suoi confronti». Il loro unico figlio, Alessandro, studia medicina e non vuole saperne di fare politica: «È un modo diverso per dedicarsi agli altri». Era lui ad accompagnarla al Quirinale per il giuramento da ministro, quello con l’abito blu costato indecenti polemiche. «Che non la feriscono», ci raccontano i suoi. «Ne ha viste e sentite tante, nella vita. Sa come rispondere a tono». E a proposito di risposte, ne ha per tutti. Il cerimoniale del Ministero le ha contestato i biglietti da visita. «Ministro, lei non può far stampare il suo numero di cellulare personale, altrimenti la chiamerà chiunque», le hanno fatto notare. Lei non ha fatto una piega. «Chi vuole chiamarmi, mi chiami». E ha messo il suo numero, senza schermi. Eletta deputata, trasferitasi da Lecce a Roma, si è trovata una casa vicino alla fermata del tram. E per andare a Montecitorio lo ha preso tutti i giorni. Sale sul tram con la mazzetta dei giornali e qualche libro. Ha finito da poco di leggere la trilogia di Elena Ferrante. Storie di miseria e di riscatto, di ragazze del Sud. Storie che le ricordano le cicatrici che ha addosso. Con il tram che prende passa accanto al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, di cui conosce i film a memoria, come quelli di Ken Loach. L’altra sera è tornata a casa, dopo la conferenza stampa di Palazzo Chigi, senza festeggiamenti. Ha abbracciato il figlio e il marito. Lo staff che ha lavorato dietro le quinte conosce la cifra della sobrietà: «Ci ha detto di riposare per tornare l’indomani pronti, il lavoro non è ancora finito». I Cinque Stelle masticano amaro e sembra che Di Maio sia pronto, a partire dagli Stati Generali, a sfidare lo stesso Conte pur di rovesciare l’intesa sulla regolarizzazione. Ma ieri il cellulare di Teresa Bellanova non ha mai smesso di squillare. L’hanno chiamata in tanti, per congratularsi, da Beppe Sala alla ministra Lamorgese, con cui questo successo è condiviso. E Emma Bonino l’ha voluta con sé per una diretta Facebook, entrambe emozionate. Una marea di messaggi le è arrivata dai vertici del Pd: «Brava, non hai mollato». Quello che le ha detto anche Giuseppe Conte, come lei pugliese, nato a mezz’ora di strada dalla Cerignola di Giuseppe Di Vittorio. Nel suo segno, è nata una nuova leader.
Regolarizzazione no!! ecco perchè…Antonio Angelini detto Antonello l'8 maggio 2020 su Il Giornale. Ospito anche oggi il mio anonimo amico. Uno che ha lavorato per lo Stato sull’ immigrazione e sui reati commessi da immigrati. Procediamo con i nostri ragionamenti, basati solo su fatti e non su analisi svolte o dati elaborati da altri, per cercare di dare al cittadino comune un metodo per poter districarsi nella molteplicità di informazioni, anche spesso provenienti da fonti autorevoli, ma che esprimono in ogni caso opinioni molto differenti tra loro. Sulla base di eventi storici abbiamo dedotto, con un semplice ragionamento logico, che gli “italiani” non sono un popolo razzista, certamente non lo sono più della media di tutti gli altri popoli. Se questa è la conclusione delle nostre considerazioni logiche, il cittadino comune non può fare a meno di domandarsi come mai allora, ogni volta che si affrontano argomenti sociali di un certo tipo, il pericolo del razzismo venga continuamente tirato fuori con il fine di indirizzare l’opinione pubblica (ovvero appunto il comune cittadino) verso scelte specifiche. Come detto il concetto di “razzismo” nel nostro paese sta indirizzando scelte politiche e sociali di rilevanza storica, non solo in termini di immigrazione ed appartenenza alla Unione Europea, ma anche in ambiti scientifici e sanitari ed economici. Pertanto l’argomento “razzismo” è un argomento decisamente attuale anche per come è stata affrontata, ad esempio, l’emergenza pandemia. Su quest’ultimo argomento, la pandemia, ne parleremo nei prossimi incontri, per una questione appunto di conseguenze logiche nei ragionamenti. Procedendo per passi logici, affrontiamo il problema dell’immigrazione “globale”, ovvero la possibilità per chiunque di poter decidere di spostarsi e vivere in qualunque posto del nostro pianeta. Partiamo proprio da questo principio, ovvero il diritto per chiunque di poter decidere dove vivere ed anche di come vivere. Un principio certamente astrattamente valido. Per aiutare nel ragionamento logico partiamo da presupposti ideali, ovvero, immaginiamo effettivamente il pianeta come un unico sistema politico e sociale in cui ciascun essere umano ha il sacrosanto diritto di poter vivere la propria vita nel modo che egli ritenga il più dignitoso possibile. Di fronte a questo principio e a questa prospettiva ideale, nessuno ritengo potrebbe mai opporre una valida risposta contraria. Questo diritto è sacrosanto. Restiamo nel mondo ideale, ovvero unica società globale uniformata in tutto, regole, leggi, economie etc. Appare immediatamente evidente che, tolte alcune fluttuazioni statistiche, potendo scegliere, la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta preferirebbe vivere in luoghi del pianeta dove il clima sia più mite, dove le città siano più belle, certo nessuno preferirebbe vivere in zone aride, desertiche, oppure impervie (tolte come detto alcune fluttuazioni di popolazione). Diciamo che su 7 miliardi dell’intera popolazione mondiale, attuale, più della metà sceglierebbe gli stessi luoghi, le stesse aree del pianeta. In parte è già cosi, ma dobbiamo immaginare una distribuzione senza limiti di distanza, costi di viaggio, infrastrutture etc. Supponiamo che le risorse locali, ambientali, economiche e nutrizionali in quei luoghi siano in grado di soddisfare questa distribuzione non uniforme della popolazione mondiale. L’incremento della popolazione stessa (perché anche il diritto alla nascita è inalienabile, pertanto non si può pensare, in questo contesto ideale, di limitare le nascite e l’aumento della popolazione mondiale) determinerebbe ad un certo punto una perdita di equilibrio tra le scelte di ciascuno e l’effettiva sostenibilità ambientale, economica, sociale. Questi sono ragionamenti semplici, che valgono in effetti a prescindere da quale sia la distribuzione delle scelte della popolazione globale su dove vivere. Esisterà sempre un limite, qualunque esso sia, oltre il quale non si potrà andare. Quindi in un mondo ideale, considerando solo uno dei due parametri di scelta, il “dove” vivere, concettualmente si arriva facilmente ad un paradosso, logico, ovvero: non è possibile che “tutti” possano vivere in uno stesso posto. A questo dobbiamo aggiungere l’altro parametro di scelta, ovvero “come” vivere. Diciamo che in un mondo ideale deve certamente restare un principio indissolubile, ovvero quello che la libertà personale è limitata dalle libertà altrui, ovvero qualunque sia la scelta di un singolo essere umano, essa non potrà mai prevaricare i diritti di un altro essere umano. Quindi il “come” vivere deve essere comunque limitato al concetto semplice, purché non leda i diritti altrui, quindi ovviamente non vivere svolgendo attività illegali ad esempio. Se si presuppone che in un mondo idealmente globalizzato, ognuno possa svolgere una attività lavorativa legale e dignitosa utile alla società, anche in questo caso, escluse le attività illegali, arriviamo ad un paradosso in cui non tutti possono fare quello che realmente vorrebbero ma devono potersi adeguare alle esigenze del sistema società. Allora ecco che assumendo per sacrosanto un diritto ideale in cui ogni essere umano possa scegliere dove vivere e come vivere, anche in un mondo ideale, raggiungeremmo dei paradossi in cui questo non sarebbe effettivamente possibile. A questo punto potremmo iniziare a porre le infinità di paletti dovute alle regole di mercato, alla sicurezza, alla sostenibilità economica di ciascun paese (Nazione), alle differenti leggi dove quegli stessi principii ideali, che perdono di coerenza anche in un mondo ideale, ancor di più vengono messi in discussione. Ma restiamo al nostro paese e proviamo ad abbracciare le ragioni di chi ritiene sia giusto aprire a chiunque l’accesso al nostro sistema, senza fare alcuna considerazioni sulle modalità di arrivo, ne tantomeno alcun tipo di selezione sulle persone che decidessero di voler venire a vivere nel nostro territorio. Perciò idealmente accettiamo l’idea di una immigrazione libera verso il nostro Stato. Chiediamo, a chi perora questa causa, quale è il limite di persone che ritenga di poter accettare in ingresso, in quanto, come detto, non è pensabile che 7 miliardi di persone possano venire a vivere tutte in Italia. Ovviamente questo è un estremo ragionamento ma che, senza arrivare al numero dell’intera popolazione mondiale, effettivamente crea un limite, qualunque esso sia; ovvero, domani si dichiara che chiunque voglia venire nel nostro paese lo possa fare, garantendogli il viaggio ed una vita dignitosa. Esisterà comunque un limite oltre il quale non si potrà andare e, raggiunto quel limite, questo principio perde di validità perché a quel punto anche chi oggi si dichiara per l’apertura totale dovrà dire “adesso basta”. Se si è stabilito che il nostro paese possa ospitare dignitosamente, ad esempio, dieci milioni di persone, arrivati a dieci milioni più “uno” quell’uno in eccesso vedrà irrimediabilmente limitato il suo diritto.
Senza aver preso alcun dato, senza aver fatto alcun ragionamento politico o sociale, ma semplicemente ragionando su dei concetti molto semplici, ecco che comunque si osservi la questione dell’immigrazione, dei “limiti” ci saranno e ci dovranno essere. Il punto è “quali limiti”? Allora viene immediato chiedersi perché nelle due posizioni attuali pro e contro immigrazione (in realtà un “certo” tipo di immigrazione) chi si pone nella posizione del “contro” viene immediatamente tacciato di razzismo? Proprio in un paese in cui, con ragionamenti precedenti abbiamo stabilito che il popolo italiano non è storicamente più razzista di qualunque altro popolo sulla terra? In un paese in cui l’immigrazione c’è da decenni senza che ciò abbia comportato, fino a pochi anni fa, qualche forte squilibrio sociale? Il comune cittadino ha, o dovrebbe avere, a questo punto tutti gli strumenti per iniziare una analisi più approfondita e comprendere che chi perora la causa dell’immigrazione libera, o non ha chiaro il problema, oppure nasconde un fine diverso. Nello specifico, quel che accade da alcuni anni è un ingresso di persone attraverso vie non legalmente riconosciute e che determina un rischio della vita per quelle stesse persone, per poter raggiungere il continente europeo. Anche qui volendo abbracciare il pensiero di chi pone, giustamente, la salvaguardia della vita di queste persone sopra ogni altra considerazione, non possiamo non porci il problema, concettuale, che questo traffico se mantenuto, se incentivato, non avrà fine, o potrebbe non avere una fine nei limiti che in ogni caso si potrebbe decidere di stabilire; tanto per intenderci i 600 mila, attualmente considerati indispensabili per motivi umanitari ed economici, da regolarizzare sul nostro territorio. Supponiamo di dare ragione al Ministro che ha fatto questa proposta, cosa accadrà con i prossimi 600 mila? E con i 600 mila dopo? Si arriverà ad un punto, come detto, in cui delle misure dovrebbero necessariamente essere prese anche da chi “oggi” perora questa causa, perché è una conseguenza naturale. Allora perché parlare di “razzismo” quando questa locuzione non ha assolutamente nulla a che vedere con ciò che sta avvenendo? In questo incontro volutamente non si è fatto riferimento a dati, anche ufficiali, sulla criminalità da parte di cittadini stranieri, sul degrado, sullo spaccio, sulle mafie straniere, sullo sfruttamento da parte di chi organizza i viaggi illegali, sulle mancanze di controlli, di selezione, sull’impatto sociale di migliaia di persone senza alcuna tutela, o con tutele non eque, sul nostro territorio, sull’effettivo aiuto a certe popolazioni, sul terrorismo islamico e soprattutto al senso morale di aiutare solo chi riesce a raggiungere certe “reti” illegali e non altri, ne si propongono politiche sociali o soluzioni. Come detto questi incontri hanno lo scopo di fornire al comune cittadino dei mezzi di logica deduzione, per potersi poi successivamente fare una idea propria della situazione. Di certo quel che si può affermare è che oggi il problema dell’immigrazione nel nostro paese nulla ha a che vedere con il razzismo, ma ben altre sono le ragioni che muovono le parti sociali.
Antonio Angelini detto Antonello. Sono nato nel 1968, segno Toro . Euroscettico della prima ora non avrei potuto essere sposato che con una meravigliosa donna inglese. Laureato in Economia e Commercio nel 92 alla Università “La Sapienza” di Roma, iscritto all’ albo degli Agenti di Assicurazione, a quello dei Promotori Finanziari e all’ Albo dei Giornalisti Pubblicisti di Roma. Appassionato da giovane di Diritto Pubblico , ho fatto volontariato nel movimento fondato da Mario Segni per i referendum sul maggioritario ed elezione diretta dei sindaci. Ho lavorato in banca un anno , poi un anno e mezzo (93-94) in Forza Italia. Dal '95 mi sono dedicato alle Assicurazioni ed altro. Ho sempre scritto di calcio, divertentissima arma di distrazione personale ma anche di massa. Data la situazione del mio Paese , sento di dover fare informazione su altro. Mi considero un vero Patriota . Guai a parlar male dell’ Italia in mia presenza. Inizi anni 90 incontrai un anziano signore inglese, membro della House of Lord ed euroscettico. Mi raccontò con 10 anni di anticipo tutte le pecche della nostra UE, monetarie e non. Da allora sono stato un Euroscettico di fondo ma senza motivazioni scientifiche. Molti anni dopo incontrai Alberto Bagnai e le motivazioni iniziarono ad poggiare su basi scientifiche.
PANDEMIA E AGRICOLTURA. Ieri i braccianti immigrati erano “gli invisibili”. Adesso tutti li cercano disperatamente. Gli stagionali dall’Africa non arrivano più. Quelli rimasti in Italia sono costretti nei ghetti. Tonnellate di frutta e ortaggi potrebbero marcire. Ma il governo ha paura di fare una sanatoria. E chiede aiuto all’Est Europa. Alessia Candito il 09 aprile 2020 su L'Espresso. Frutta, verdura e ortaggi grazie alle loro braccia sono sempre arrivati nei mercati e sugli scaffali, ma loro per decenni sono stati invisibili. Nell’Italia spaventata dall’epidemia di Covid, per decreto sono diventati sulla carta i “lavoratori essenziali” di quei settori che non si possono fermare. Ma senza contratti né diritti, l’esercito dei braccianti migranti è rimasto bloccato nei ghetti e nelle tendopoli e il motore della filiera agroalimentare si è fermato. È bastato imporre uno straccio di lavoro regolare per giustificare gli spostamenti e un’intera filiera è andata in crisi. Prodotti bandiera del made in Italy marciscono sugli alberi, nei campi, nelle serre. Piccoli e grandi produttori gridano al disastro, Il governo studia soluzioni. Chi con la sua fatica ha sempre trainato il settore, oggi rischia la fame. «Il nostro sudore è uno degli ingredienti della vostra dieta giornaliera. Siamo degli esseri umani, con uno stomaco quasi sempre vuoto e non solo braccia da sfruttare», recita il testo che accompagna la raccolta fondi promossa da alcuni dei braccianti di Foggia sulla piattaforma GoFundMe, rilanciata a livello nazionale da Aboubakar Soumahoro. Il ricavato verrà diviso fra i vari coordinamenti territoriali e usato per comprare cibo. Perché la fame non conosce confini. E in ghetti, tendopoli e casolari oggi si convive con la paura di non potersi difendere dalla pandemia. Mani rotte dal lavoro nei campi, Mbaye ha occhi più anziani dei suoi 26 anni. Il lockdown lo ha sorpreso in Calabria, alla tendopoli di San Ferdinando, da anni istituzionale “soluzione temporanea” all’ormai stabile presenza di migliaia di braccianti stranieri che arrivano per la stagione degli agrumi. Oggi, una potenziale bomba sanitaria. Un solo caso di Covid trasformerebbe quella massa di tende blu in un focolaio. Associazioni come Medici per i Diritti Umani, Mediterranean Hope, SOS Rosarno, Sanità di Frontiera, Csc Nuvola Rossa, Co.S.Mi. da settimane dicono che l’unica soluzione è svuotare tendopoli e ghetti. I loro appelli sono rimasti inascoltati, piani e programmi presentati a Regione e prefettura per risolvere in fretta la situazione, ignorati. Chi vive in un recinto con altre 500 persone è cosciente del rischio. E sa che a poco servono quel pugno di mascherine e l’igienizzante che il comune di San Ferdinando ha distribuito. Costretti a vivere anche in otto sotto stracci di plastica blu e a dividere tutti non più di una decina di bagni, i braccianti migranti della Piana sono bloccati in un assembramento di fatto. Pochissimi hanno contratti fissi e in regola, pochissimi riescono a lavorare. Chi ha sempre contato solo su impieghi a giornata, adesso deve stare fermo. «Ma se non lavoriamo, non mangiamo. Qui nella Piana di Gioia Tauro la stagione delle arance sta finendo, ma non posso spostarmi per cercare lavoro», dice Mbaye. Da quando ha lasciato il suo Gambia, ha sempre o quasi fatto il bracciante. Ha imparato a muoversi in Italia secondo il ciclo dei raccolti, seguendo il passaparola dei connazionali, la rete di chi diventa famiglia a schiena curva nei campi. Aveva una protezione umanitaria, cancellata dal decreto Salvini, ma convertirla in permesso di lavoro non è stato semplice. È uno dei fortunati, qualche contratto lo ha strappato, sebbene le ore lavorate su carta siano assai meno di quelle effettive. Forse basteranno, gli hanno detto al sindacato. Il problema potrebbe essere la casa. La legge prevede che il lavoratore presenti anche un regolare contratto di affitto, nonostante la maggior parte dei braccianti si sposti per tutta l’Italia secondo il ciclo dei raccolti. La pratica era in itinere quando tutto è stato congelato fino a giugno, in attesa o nella speranza che l’epidemia passi. «In Basilicata mi aspettano per pomodori e zucchine», freme Mbaye , «lì un lavoro lo avrei». Ma senza un contratto è impossibile spostarsi. Anche i vicini Comuni del vibonese che vivono delle coltivazioni di cipolle e fragole sono una meta irraggiungibile. Ci lavorava spesso Mamahdou, arrivato in Italia ragazzino e cresciuto sperimentando tutti i gironi infernali della burocrazia dell’accoglienza. Mente sveglia, un talento per le lingue, allo Sprar che lo ha accolto hanno fatto di tutto per convincerlo a studiare da mediatore. Ma a casa, in Mali, avevano bisogno di soldi e il lavoro nei campi era il modo più rapido per aiutarli. La sua vita è diventata un periplo. Dalla Calabria a Foggia, fino in Spagna, dove un contratto da magazziniere gli ha assicurato per anni una vita decente. Poi è arrivato il decreto sicurezza, la sua protezione umanitaria è divenuta carta straccia ed è stato costretto a buttare tutto all’aria per tornare in Italia e convertire il permesso. È finito a lavorare in nero, a ore, a giornata o a cassetta e a vivere nel ghetto di Contrada Russo, non luogo nascosto nelle campagne fra Rosarno e Taurianova, dove la corrente è quella fornita da un vecchio generatore e per lavarsi tocca andare al pozzo distante quasi un chilometro. Anche Mamahdou aspetta. Che arrivi un contratto vero o che la commissione territoriale consideri la regione dilaniata dai conflitti da cui proviene, meritevole di protezione internazionale. Ma prima la pandemia deve passare e gli uffici devono riaprire. Nel frattempo a scandire il tempo è la fame, i piccoli lavoretti informali rimediati schivando i controlli, l’arrivo al ghetto delle associazioni che forniscono assistenza legale, medica, sindacale e oggi portano cibo, mascherine, igienizzante, informazioni. «In questi anni sono stati creati dei veri e propri percorsi a ostacoli nella regolarizzazione per costringere i braccianti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro», spiega Ruggero Marra dello sportello Soumaila Sacko. «Più è complicato avere documenti in regola, più i lavoratori saranno disponibili a piegarsi ad ogni sorta di ricatto». E nella Piana e non solo, di Mbaye e Mamahdou ce ne sono dieci, cento, mille, un esercito costretto a rimanere immobile. Solo pochi di loro possono contare sui sussidi congegnati dal governo per i lavoratori agricoli. I sindacalisti di Cgil e Usb da giorni battono ghetti e campi, fanno i conti con ore e giornate lavorate, compilano moduli, inoltrano richieste. Ma sanno che quegli aiuti sono un’arma monca, che i potenziali beneficiari sono pochi e i cosiddetti “insediamenti informali” rimangono una bomba sanitaria a orologeria. «La cosa più semplice e immediata sarebbe una sanatoria. E converrebbe a tutti», spiega Peppe Marra, dirigente sindacale dell’Usb calabrese, «perché permetterebbe di svuotare i ghetti dunque risolvere un problema sanitario che in tempi di pandemia è di tutti, non solo dei migranti. In più, darebbe a questi braccianti la possibilità di lavorare e vivere in condizioni dignitose, senza obbligarli ad essere irregolari o a vivere in situazioni di marginalità». Al momento, sono stati solo congelati i termini per i permessi fino al 15 giugno. «Ma è l’ennesima soluzione d’emergenza ad un problema strutturale», fa notare Marra », e la crisi della filiera agricola dimostra quanto il lavoro dei braccianti migranti sia essenziale per il settore». Che adesso è in crisi. La prima a lanciare l’allarme è stata Coldiretti: «Con il blocco delle frontiere, nei campi mancano 370 mila lavoratori». Anche il governo Conte da settimane studia come affrontare il problema, forse con lena maggiore da quando a Palermo c’è stato il primo assalto ai supermercati. È meccanismo economico banale. A scarsità di prodotti equivale un rincaro dei prezzi, che eroderebbe rapidamente qualsiasi sussidio economico. «Nessun governo oggi può permettersi di far pagare una lattuga dieci euro», commenta un esponente politico di lungo corso. Al ministero dell’Agricoltura il dossier è aperto. La sua titolare Teresa Bellanova sta tentando un accordo la Romania per far arrivare braccianti dall’Est. Anche la Germania sta studiando una soluzione simile con tanto di voli charter dedicati, c’è chi in Europa pensa ad un “treno verde” che permetta ai braccianti di muoversi. Solo comunitari per non avere grane di permessi, sebbene in Italia, dicono i dati ufficiali forniti dalle associazioni di categoria, la maggior parte degli stagionali regolari arrivi da Marocco (35.013), India (34.043), Albania (32.264), Senegal (14.165), Tunisia (13.106), Bulgaria (11.261), Macedonia (10.428) e Pakistan (10.272). In ogni caso l’idea di far venire decine di migliaia di persone dall’Est Europa è complicata da gestire. Non è chiaro ad esempio chi si farebbe carico del loro sostentamento nei 15 giorni di quarantena obbligatoria all’ingresso in Italia. Fra i diversi paesi dell’Europa “ricca” che hanno bisogno di braccia poi, le disparità salariali sono notevoli e l’Italia è una meta poco competitiva, con le sue retribuzioni più basse. Senza dire che nel nostro Paese le strutture abitative per mantenere il distanziamento sociale quando il lavoro finisce sono per lo più inesistenti. Fattore che relega al rango di propaganda la proposta di mandare nei campi i percettori di reddito di cittadinanza o sussidi di disoccupazione. Ma in realtà, braccianti in Italia già ci sono. La ministra Bellanova lo sa, nella Piana di Gioia Tauro ci è stata mesi fa, ma solo ora sembra ricordare chi è obbligato al lavoro nero e confinato in quei ghetti «dove sta montando la rabbia e la disperazione. Il rischio», afferma, «è che tra poco ne escano e non certo con un sorriso. Bisogna mettere anche loro in condizioni di lavorare in modo regolare». Una timida apertura a una regolarizzazione? C’è chi ci crede, chi no. Ma a Roma sembrano aver preso coscienza anche di un altro aspetto fondamentale della partita. «Se certi processi non li governa lo Stato», dice Bellanova , «ci pensa la mafia». Che da tempo ha investito sull’agroalimentare e in tempi di crisi si troverebbe in mano l’ennesima arma.
Non siamo solo braccia da usare e gettare. Ma anche anima e mente, con dignità di persona. Il dibattito sulla regolarizzazione per l'agricoltura ha fatto riemergere una cultura coloniale, strumentale e mercantile nel rapporto tra l'Italia e gli africani. E una feroce resistenza al cambiamento culturale. Leila El Houssi e Igiaba Scego l'8 maggio 2020 su L'Espresso. Leila El Houssi è docente di Storia del Medio Oriente presso l'Università di Firenze; Igiaba Scego è scrittrice di saggi e romanzi, ultimo dei quali "La linea del colore", Bompiani, 2020. In questi giorni in cui infuria la polemica sulle regolarizzazioni, noi, due donne afroitaliane, siamo invase da una grande frustrazione. Quello che però ci crea dolore è proprio il dibattito che si è formato intorno alla possibilità di regolarizzare i migranti. Abbiamo subito avuto la sensazione di vivere un déja vu, qualcosa che ha già attraversato il nostro corpo considerato, a torto, alieno. Ormai è dagli anni '70 che migranti e figli di migranti, padri, madri, figli, si sentono considerati corpi alieni, estranei alla nazione. E se il corpo dell'alieno entra nel dibattito deve, per il mainstream nazionale, avere qualcosa di utile da portare in cambio. E questo, ahi noi, si è visto molto bene nel discorso sulle regolarizzazioni. Si è parlato di migranti come braccia per l'agricoltura, utili per raccogliere pomodori e zucchine. Abbiamo visto anche gente che stimiamo scrivere tweet con questo tono “se non regolarizzi il migrante ora, te ne accorgerai al banco del mercato questo giugno, vedendo quanto costano gli ortaggi”. Migrante braccia, migrante ridotto ad essere bestia da soma. Ma, il corpo migrante è corpo umano, dotato di anima, sentimento, cervello, sogni. Il migrante è persona, è mente, intelletto, ragione ed è terribile vedere quanto invece viene considerato alla stregua di un automa visto in mera funzione mercantile, quindi legato al bisogno “carnale” della nazione. Siamo consapevoli che la regolarizzazione non deve essere portata avanti per settore, ma si deve cogliere il vento della storia e accettare finalmente di essere una società transculturale, in cui convivono individui di ogni colore, appartenenza, religione. Ma tutto questo, con nostro profondo rammarico, non sta emergendo. Il discorso sulle regolarizzazioni ha solo mostrato quello che abbiamo sempre visto, ovvero l'uso strumentale del corpo migrante e/o di origine migrante. Un déja vudove i partiti politici si schierano da una parte all'altra della barricata, e dove anche tra i “buoni” si nascondono ancora troppe insidie. Abbiamo visto tutto ciò con la mancata legge sulla cittadinanza italiana (anche lì a ben pensarci una regolarizzazione, rendere italiano chi già lo era di fatto) che dopo tante parole e promesse non è arrivata mai. Questo atteggiamento nasconde di fatto un discorso profondo di cittadinanza negata a tutti i livelli sia legale sia culturale. L'Italia si è costruita, fin dal suo sorgere come nazione, in opposizione a un diverso. Non è un caso che l'Italia postunitaria abbia abbracciato repentinamente la cosiddetta “avventura” coloniale. E nonostante le cocenti sconfitte militari ottocentesche (Dogali, Adua) non si è fermata in questo folle disegno di superiorità verso l'altro che poi sappiamo aver portato al fascismo, agli eccidi in Etiopia e alle leggi razziali che hanno colpito colonizzati e cittadini italiani di religione ebraica. E quel sentirsi superiori all'altro, quella percezione insita di dominatore che ci ha condotto allo stato attuale delle cose. Il migrante, come prima il colonizzato o i cittadini italiani di religione ebraica, viene visto come qualcosa che la nazione deve usare e poi gettare. Corpo senza dignità, da descrivere solo con stereotipi negativi e discriminare senza pietà. E se il razzismo conclamato è una delle manifestazioni di questo disprezzo, va detto che ci sono anche modi sottili per non far partecipare al banchetto della nazione i corpi considerati non a norma. Infatti, in Italia è raro vedere un guidatore di bus afrodiscendente, una docente nelle scuole e nelle università di origine araba, o un giornalista di altra origine all’interno delle redazioni delle testate. Chi riesce a ritagliarsi un piccolo spazio, spesso, non riceve riconoscimenti e la visibilità è strappata con le unghie e con i denti. I luoghi della cultura e della formazione spesso sono interdetti, perché il corpo altro e la mente altra sono accettati solo come corpo e mente subalterni. Al corpo altro e alla mente altra non è concesso che abbiano pretese di parità. Noi stesse, noi donne afrodiscendenti, lo viviamo sulla nostra pelle. Ed è questo che ci ha rattristato nuovamente nel dibattito in corso. É l'ennesima volta che siamo messi davanti al fatto che non siamo corpi graditi. Non siamo menti volute. Siamo considerati (a torto!) un’eccentricità. E, di fatto, così si nega l'essenza di quello che è diventata l'Italia nel 2020. La crisi del Covid 19 avrebbe dovuto riavvicinarci. Il Covid 19 non ci guarda in faccia, noi siamo per lui semplicemente entità da attaccare e annientare. Siamo esseri umani, al virus non importa se siamo bianchi o neri, se siamo cristiani, ebrei, musulmani. Al virus interessano i nostri polmoni, i nostri vasi sanguigni. Ma anziché unirci in un abbraccio collettivo, anche se a distanza, parte della società ha deciso di tracciare i confini di sempre, quelli tra noi e loro, tra corpi utili e corpi di scarto, corpi che raccolgono pomodori e corpi che non li raccolgono. E le parole sono sempre quelle già sentite (purtroppo!) troppe volte. Chi, oggi si oppone alle regolarizzazioni, ieri si opponeva alla cittadinanza. Le parole sono le stesse: “è troppo presto”, “non è una priorità”! Ma, noi che amiamo e viviamo in questo paese, ci chiediamo: quando diventeremo la priorità? In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo in cui si è palesata la vulnerabilità sociale, in cui mai come adesso abbiamo sotto gli occhi che il benessere di tutti tutela il benessere del singolo, dove regolarizzare significa anche dotare l'intero paese di una tutela sanitaria, non regolarizzare la posizione dei migranti è anacronistico e in un certo senso inumano. Regolarizzare la posizione dei migranti caduti in stato di illegalità (spesso a causa dei meccanismi di una legge ingiusta come la Bossi-Fini) significa portare avanti lo stato di diritto. È una tutela per la persona che viene regolarizzata, ma una tutela maggiore per tutta la cittadinanza, perché i diritti del prossimo salvaguardano anche tutti noi. Dobbiamo ricordarci che un cittadino, straniero e non, ha bisogno prima di tutto di essere riconosciuto nella sua dignità di persona. L'Italia deve accettare di essere cambiata. La sua trasformazione è emersa già da decenni e non da adesso. L’Italia e soprattutto le istituzioni italiane non devono temere e soprattutto non possono continuare a resistere al cambiamento. Diceva Hanif Kureishi, scrittore anglo-pakistano, parlando della sua Inghilterra che essere inglesi oggi è molto diverso dall'esserlo stati cinquanta anni prima. Anche l'Italia, come la Gran Bretagna, è cambiata in questi ultimi cinquant'anni. Ora ci siamo anche noi in questa nazione, noi a torto considerati alieni dalle istituzioni. La nostra continua ad essere una cittadinanza negata.
Michelangelo Borrillo per il ''Corriere della Sera'' il 10 maggio 2020. Giovanni, a un certo punto, ha dovuto scegliere. Tra le fragole e i legumi, ha preferito le prime. Perché sono un prodotto simbolo della Basilicata e, in particolare, della zona di Policoro, in provincia di Matera, dove ha sede «Fruttazero», la sua azienda. Che sul mercato non poteva presentarsi senza fragole. Come Giovanni, tanti altri agricoltori, negli ultimi due mesi, hanno dovuto scegliere cosa raccogliere: per mancanza di manodopera c' è ci ha lasciato il basilico nei campi in Sicilia, le fave in Basilicata, la rucola nel Lazio. E nei prossimi mesi potrebbe essere costretto a fare scelte simili per pesche e albicocche, peperoni e zucchine, susine e uva. Giovanni, di cognome, fa Lippo. E a causa del coronavirus - che non ha permesso ai braccianti stagionali stranieri di venire in Italia a causa del blocco della circolazione - si è ritrovato con la manodopera dimezzata. «L' anno scorso, ad aprile, potevo contare su 15 operai. Quest' anno, senza il rientro dei rumeni, eravamo in 7. Per questo ho dovuto scegliere tra fragole e legumi, e ho scelto le prime perché sono di maggior pregio. Ma fra qualche settimana potrei trovarmi a doverle sacrificare per pesche e albicocche: la coda della raccolta delle fragole si accavallerà, infatti, con quelle primizie». A determinare la scelta sarà l' andamento del mercato: la richiesta dei prodotti e i prezzi. Giovanni, comunque, si ritiene fortunato: «Almeno il clima ci ha aiutato: senza particolari picchi di caldo, la produzione delle fragole è stata "a scalare" e così le abbiamo potute raccogliere tutte. Altrimenti, con i legumi le avremmo dovuto lasciare in parte nei campi». Se a Giovanni sono mancati i rumeni, Luca e la sua azienda «I ragazzi della verdura» hanno sofferto per la mancanza di indiani. Che lo aiutavano a raccogliere ortaggi a Sant' Angelo Romano, in provincia di Roma. «Ci siamo ritrovati, da una stagione all' altra - spiega Luca, che di cognome fa Fiorentino - da 12 a 5. E così addio a insalate, spinaci e rucola». Sulla scia di questa esperienza, Luca ha deciso di ridurre i prossimi raccolti: «Per zucchine, melanzane e peperoni abbiamo seminato di meno, così la produzione sarà inferiore del 30% e dovremmo farcela a raccoglierla. Certo, risparmio in manodopera, ma i costi fissi restano gli stessi. E così quando verrà il supermercato a chiedermi uno sconto, non sarò in grado di concederlo». Questi problemi andranno avanti anche nei prossimi mesi e in ogni parte d' Italia, se non sarà trovata una soluzione - come hanno più volte chiesto al governo Cia, Coldiretti e Confagricoltura - alla mancanza di manodopera (a marzo sono state perse 500 mila giornate di lavoro in agricoltura rispetto a marzo 2019, pari al 10% del totale). Nel ciclo delle raccolte, infatti, siamo ancora all' inizio, sebbene sia questa la fase più delicata perché si programmano anche le grandi produzioni estive, dai pomodori al grano, e si preparano le vigne e le potature degli ulivi, che in autunno daranno olio e vino. Per fortuna, però, gran parte della raccolta di grano e pomodori è meccanizzata, per cui i problemi saranno superabili. Lo conferma Gianmarco Laviola, amministratore delegato di Princes Industrie Alimentari di Foggia, la più grande azienda di trasformazione dei pomodori nel Mezzogiorno: «Ma sebbene oggi la necessità di forza lavoro per la raccolta dei pomodori sia minore grazie alla raccolta ormai meccanizzata al 100%, da sempre Princes ha preteso dai propri partner agricoli il pieno rispetto dei diritti dei lavoratori». Perché il caporalato, quando si parla di campi, è sempre dietro l' angolo.
Luciano Ferraro per cucina.corriere.it il 20 maggio 2020. Martin Foradori Hofstätter, vignaiolo alla guida di una delle più importanti cantine dell’Alto Adige, ha cercato per settimane di far arrivare in Italia le sue storiche lavoratrici stagionali rumene, specializzate nella potatura nelle vigne. Otto donne capaci di tagliare in modo impeccabile le piante, senza danneggiarle e garantendo così la qualità dell’uva (e del vino). Quando ha capito che la burocrazia avrebbe impedito l’ingaggio delle otto lavoratrici, ha noleggiato un jet privato che è atterrato nei giorni scorsi a Bolzano. Per Foradori Hofstätter questa è una storia di straordinaria burocrazia: «Ho visto tanta ignoranza, ma mai come durante questa pandemia», commenta. La storia inizia al confine con l’Ungheria. L’Unione europea aveva dato il via libera ai corridoi verdi per far arrivare manodopera dall’Est. Viticoltori tedeschi e austriaci ne avevano già usufruito, iniziando subito a far lavorare gli esperti potatori. Ma nel caso del produttore di Tramin-Termeno, al confine ungherese le otto donne sono state fermate. «Abbiamo cercato di risolvere il problema in ogni modo - racconta -. Così dopo due settimane di telefonate, contatti con politici locali, di Roma e dell’Unione Europea, rappresentanti delle ambasciate, nonché intensi confronti con responsabili di associazioni di categoria, ci siamo visti costretti ad organizzare, in extremis, un jet privato dall’aeroporto di Bolzano a Cluj per portarle in Italia. Per questo periodo economico una spesa non indifferente e forse anche folle ma senza questo il futuro delle mie vigne sarebbe stato segnato. Non avevo alternative. Devo dire, tuttavia, che visti i prezzi, oserei dire da strozzini, dei pulmini a noleggio in questo periodo, il costo dell’aeromobile ha inciso poco di più sul trasporto». Non c’era manodopera italiana disponibile? «Qualcuno potrebbe obiettare che mi sarei potuto rivolgere ai numerosi disoccupati presenti nel territorio — risponde il vignaiolo — ma non è così. Ci abbiamo anche provato ma chi abbiamo ingaggiato per fare una prova dopo due ore se ne è andato “perché il lavoro era troppo faticoso”!». Per il produttore «l’assenza di queste professioniste, che da oltre dieci anni lavorano per l’azienda, si sarebbe tradotta in un danno rilevante: come se in un concerto alla Scala mancassero i violini». L’imprenditore ha anche un’azienda in Germania, nella Mosella. «All’estero — spiega — le associazioni di categoria sono riuscite ad attivare un ponte aereo senza tante chiacchere, ai collaboratori stagionali è stata concessa anche la possibilità di attuare la cosiddetta “quarantena attiva” lavorando in piccoli gruppi in vigna, isolati da altri collaboratori locali, nel rispetto delle misure di sicurezza. In Germania le procedure sono molto più chiare e snelle. In Italia non siamo stati capaci nemmeno di copiare le misure intelligenti messe in atto da altri Paesi della Comunità Europea».
Francesca Ronchin per termometropolitico.it il 13 maggio 2020. Uno dei motivi che ispirano la sanatoria dei migranti, è l’emersione del lavoro nero. Per capire però quanto sia davvero efficace, può essere utile dare un’occhiata agli effetti dell’ultima sanatoria. Era il 2012 ma la congiuntura economica piuttosto simile. Allora c’era la crisi dei subprime, con l’Italia nella top ten dei paesi UE più colpiti, oggi abbiamo la recessione alle porte e una disoccupazione destinata a salire oltre l’11,8%. Il Governo Monti allora la intese come un necessario “ravvedimento operoso” che a fronte di un pagamento di 1000 euro permetteva ai datori di lavoro più indisciplinati di mettersi in regola. Anche oggi il meccanismo sul tavolo è lo stesso. E non è una buona cosa.
Sanatoria migranti: nel 2012, 100mila dipendenti sfuggono al Fondo Inps. Con la sanatoria del 2012 vengono regolarizzati 134.747 migranti extra UE, finalmente hanno permesso di soggiorno e regolare contratto di lavoro subordinato. La cosa strana però è che per le casse dell’INPS l’entusiasmo dura poco, il tempo necessario a finalizzare l’istruttoria presso gli sportelli immigrazione delle Prefetture e il pagamento della prima rata contributiva con cui avviare la regolarizzazione dei dipendenti. Se infatti andiamo a guardare i dati dell’Osservatorio sui Lavori Domestici dell’INPS, dopo un iniziale boom di nuovi lavoratori regolari che fa salire il totale di colf e badanti da 897.558 a 1.008.540, nel giro di un anno il numero scende a 956.043 e poi a 906.643. In pratica ci sono quasi 100.000 nuovi iscritti che dopo un anno spariscono insieme alle rate di pagamento dei contributi arretrati che confluiscono dritti dritti nei crediti inesigibili dell’INPS con buona pace dello Stato e dei contribuenti destinati a ripianare il danno.
Dove sono finiti i lavoratori domestici appena regolarizzati? Che l’impatto della sanatoria sul lavoro dipendente sia praticamente nullo lo confermano anche i dati complessivi sui lavoratori dipendenti. Tra il 2012 e il 2014 non si nota nessun aumento, anzi, scartabellando i rapporti del Ministero del Lavoro, il numero addirittura diminuisce passando da 1.772.493 a 1.743.499.
Potrebbero essersi trasformati in lavoratori autonomi? Ora, l’eventualità che un lavoratore finalmente regolarizzato diventi imprenditore da un giorno all’altro, appare piuttosto remota a meno che non lo fosse già prima e in tal caso si dovrebbe dedurre che non era un vero lavoratore sfruttato. Poiché però in quegli anni il numero dei lavoratori autonomi (299.706 nel 2012) aumenta di 20 mila unità nel 2013 e di altre 20.000 nel 2014, ammettiamo per assurdo che 4 su 10 abbiano cambiato abito.
Ma gli altri 60.000, dove sono andati? Un’altra possibilità ma anche questa piuttosto difficile è che una volta regolarizzati i migranti si siano improvvisamente resi contro che il lavoro subordinato non faceva per loro e siano emigrati all’estero. Anche qui però i numeri sembrano confermare la scarsa veridicità dell’ipotesi: nel 2013 gli emigrati dall’Italia sono 126mila ma 2 su 3 sono italiani e gli extra comunitari solo 24.696 (Quinto Rapporto Annuale. I migranti nel mercato del Lavoro, 2015). In quegli anni la popolazione straniera è in continua espansione e con un tasso medio del 7,8% in soli 8 anni, tra il 2007 e il 2014 cresce di ben 2 milioni di unità. Nello stesso periodo aumenta anche la disoccupazione che raggiunge un tasso del 14% nel 2012 e del 17% due anni dopo. In questo scenario, si potrebbe immaginare che i dipendenti nuovi di zecca abbiano perso il lavoro. Oppure c’è un’ultima possibilità che forse è anche quella drammaticamente più realistica. I lavoratori dipendenti si sono di nuovo immersi tra quelle file del nero da cui erano finalmente riemersi e hanno utilizzato la sanatoria unicamente al fine di portare a casa il permesso di soggiorno. Com’era peraltro già successo nel 2009, si scopre che il 32% dei presunti datori di lavoro non erano italiani, ma extracomunitari della nazionalità dei lavoratori. Non solo, dietro all’offerta di permessi di soggiorno si attiva un mercato di compravendite i cui oneri di intermediazione e di regolarizzazione vengono posti a carico degli immigrati richiedenti costretti a pagare dai 3 agli 8mila euro e finiti poi a vivere chissà come.
In campagna solo il 10% sono migranti irregolari. Anche a fronte delle migliori intenzioni, il permesso di soggiorno non è di per sé garanzia di un contratto regolare tantomeno in campagna visto che il 90% dei lavoratori detiene già un permesso di soggiorno. Lo raccontano i dati dell’Ispettorato del Lavoro. Nel 2019, su 5340 lavoratori oggetto di violazioni e lavoro nero, i migranti senza documenti sono solo il 4%. Ammettiamo pure, com’è del tutto realistico immaginare, che il doppio o anche il triplo sia scappato a fronte dei controlli. In ogni caso non si arriva di certo ad un’inversione delle percentuali. Nessuno sa esattamente quanti siano i migranti irregolari “clandestini” che gravitano attorno alle campagne ma anche chi conosce il territorio come l’Osservatorio Migranti Basilicata li quantifica in un 10% sul totale dei migranti. In ghetti come quello di Boreano il mercato è saturo e il grosso dei braccianti non lavora nei campi per più di 10 giorni al mese e gli irregolari che lavorano nei campi sono pochi. I più si arrangiano come possono con lavori di fortuna, dalla pulizia delle strade ad attività di supporto alla spesa degli anziani.
Il lavoro dei migranti “utile” perché sfruttato. Oggi la sanatoria viene riproposta citando “la tutela della salute individuale e collettiva” nonché “l’emersione di rapporti di lavoro irregolari”. Molti fautori del provvedimento fanno leva anche sulle esigenze del mercato del lavoro spiegando che imprese e famiglie non riescono a trovare italiani disponibili a fare certi lavori che la nostra filiera alimentare proprio in questo periodo di pandemia “si è retto grazie al lavoro costante e continuo delle categorie più svantaggiate e sottopagate”. Se ci sono intere categorie di lavoratori sfruttati e sottopagati non è certo perché manca il permesso di soggiorno altrimenti non ci sarebbero due stranieri regolari su tre poveri e di questi 1 milione e mezzo in condizioni di povertà assoluta. L’offerta di manodopera regolare, soprattutto per i lavori meno qualificati, non manca. In questi anni, anche per effetto dei ricongiungimenti familiari che ormai rappresentano il 40% degli ingressi, l’incremento della popolazione straniera è stato costante e soprattutto per le persone in età di lavoro. In parallelo all’aumento dell’offerta di manodopera però, negli ultimi 10 anni abbiamo assistito anche ad una contrazione dei salari reali calati addirittura del 4,3%. Con 399 mila stranieri regolari disoccupati e 1milione e mezzo di inattivi, il problema sembra essere piuttosto la sempre maggiore difficoltà di trovare salari sufficienti a vivere. Ne sanno qualcosa forse anche i 2,5 milioni di italiani in cerca di lavoro già in tempi pre crisi, e forse anche quei 2,1 milioni di under 29 che né studiano né lavorano, specialmente al Sud che danno all’Italia il primato europeo di Neet. È peraltro curioso notare che alcuni flebili segni di inversione delle tendenze negative sul reddito e sulla povertà degli immigrati, così come sulla disoccupazione di stranieri e italiani, si stavano registrando proprio in concomitanza dello stop del decreto flussi nel 2012 poi consolidato dal 2015. Forse una coincidenza ma è sicuramente un fatto conosciuto anche dagli esperti del settore che le quote previste per i lavoratori stagionali abbiano importato negli anni centinaia di migliaia di migranti che a fine stagione sono poi rimasti irregolarmente sul territorio italiano, senza lavoro e in diretta concorrenza con la popolazione straniera regolarmente presente.
In che modo, di fronte alle attuali condizioni economiche, con una disoccupazione destinata ad aumentare nel 2020, un’ulteriore offerta di manodopera non finirà per rappresentare un’eccedenza che penalizza ulteriormente i salari? In che modo, un aumento dell’offerta di nuovi lavoratori regolari potrebbe mai combattere il lavoro nero? Non potrebbe piuttosto offrire ulteriore carburante al lavoro sommerso precarizzando ancora di più i migranti regolari che si trovano già costretti a convivere con lavori a breve termine proprio in quei in settori dove il lavoro sommerso è molto elevato? Contratti di 3 mesi in agricoltura se va bene, 25 ore settimanali nei lavori domestici dove è piuttosto irrealistico che una badante venga assunta per assistere un anziano solo 3 ore al giorno. Se il nero è legato all’insostenibilità dei costi da parte delle famiglie o degli agricoltori a loro volta vessati dall’industria di trasformazione, la risposta non è certo la sanatoria. Il sindacato, FLAI CGIL in testa, si dice a favore della regolarizzazione. Ma se oggi mettiamo in regola 600mila migranti, siamo sicuri che domani saranno ancora visibili all’INPS? Il caso del 2012, con 100mila dipendenti confluiti nel giro di un anno tra le fila di disoccupati e/o lavoratori in nero, suggerisce dire di no. Sicuramente i migranti irregolari meritano risposte ma non facciamo finta di credere che questo tipo di sanatorie non finisca per avvalorare una realtà che, per gli stranieri in primis, continua ad essere di precarietà e sfruttamento. Ma forse è proprio così che lo vogliamo il lavoro dei migranti, altrimenti non servirebbe.
Permessi di soggiorno temporanei per salvare l'agricoltura? Ecco i braccianti di Borgo Mezzanone. Le Iene News il 19 maggio 2020. Una città di tende e baracche dove vivono oltre 2mila braccianti che in queste settimane di lockdown non ha mai smesso di lavorare per pochi euro all’ora. Gaetano Pecoraro ci porta a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, a scoprire questo ghetto. “Se noi siamo puliti è meglio anche per voi. E se siamo puliti, anche voi mangiate cose pulite, se noi siamo sporchi anche voi mangiate cose sporche”. Lo dice Alaj, uno dei 2mila braccianti di Borgomezzanone, in provincia di Foggia. Gaetano Pecoraro ci porta lungo una vecchia pista aeroportuale, dove è sorta una vera e propria città di baracche, tende e container. Un ghetto dove vivono più di 2mila braccianti che alla mattina si alzano per andare nei campi e raccolgono la frutta e la verdura che troviamo nei nostri supermercati. Lui vive qui da 11 anni, inizia a lavorare alle 6 di mattina e finisce 12 ore dopo attorno alle 18, questo per più di 300 giorni all’anno. Viene pagato appena 3 euro e 50 all’ora. “Nei campi non ci sono italiani, non lo vogliono più fare questo lavoro. E se noi non andiamo più a lavorare, voi non potete più mangiare”.
Ecco l'effetto della sanatoria: assembramenti al consolato Senegal. Il consolato senegalese di viale Certosa è stato preso d’assalto: centinaia di persone ammassate sul marciapiede per il permesso di soggiorno e di lavoro. Alberto Giorgi, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Altro che divieto di assembramenti. Per due giorni, a Milano, il consolato della Repubblica del Senegal alese di viale Certosa è stato preso d’assalto da decine e decine di persone, che si sono accalcate sul marciapiede per fare la fila. Nel nome del caos e senza rispettare la distanza minima di sicurezza intrapersonale di almeno un metro. Forse anche in centinaia hanno raggiunto in massa il consolato per sbrigare pratiche congelate nel lockdow oppure per avviare le pratiche di regolarizzazione, in seguito alla sanatoria degli immigrati e dei lavoratori irregolari varata dal governo giallorosso e fortissimamente voluta dalla ministra renziana dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Una sanatoria che di fatto regolarizza i clandestini per un periodo di tempo pari a sei mesi, permettendo loro di ottenere appunto il permesso di soggiorno e di lavoro, per andare a lavorare come braccianti regolari nei campi agricoli della Penisola, dove c’è bisogno di manodopera. Si poteva immaginare che come conseguenza della sanatoria i consolati di molti Paesi stranieri potesse essere chiamati agli straordinari, ma quello che è successo alla periferia nord-ovest di Milano non va certo bene in ottica di sicurezza anti-covid: il marciapiede si è trasformato in fiumana e anche la strada non è stata risparmiata. Ovvie e tante le segnalazioni dei residenti, dal momento che tra i senegalesi in coda (dalle foto però indossano le mascherine), non era rispettata la distanza, anzi. Non a caso, su segnalazione degli abitanti, sono intervenute le forze dell’ordine meneghine, che hanno cercato di disperdere la folla, invitando al rispetto della distanza di sicurezza. Per qualche minuto, dunque, le cose sono state sistemate e la fila di senegalesi è stata allungata per creare spazio. Ecco, peccato però che il giorno seguente fuori dal consolato senegalese ci fosse ancor più gente e nessun poliziotto o "ghisa" a monitorare l’afflusso. E senza controlli sul marciapiede e su una fetta di strada di viale Certosa 187 si è creato, per ore (o meglio giorni), un vero e proprio assembramento. "Non credevo ai miei occhi, c’era il caos, in barba alle regole anti contagio", il commento-denuncia di una residente riportato da Il Giorno. Ma quel caos, purtroppo, non si è registrato solamente in via Certosa davanti al consolato del Senegal: scene simili, infatti, si sono viste anche in via Martignoni, in zona Melchiorre Gioia, davanti alla sede del consolato del Marocco.
Da lavoratore stagionale a bracciante: “Ecco perché noi italiani non vogliamo fare questo lavoro". Le Iene News il 28 maggio 2020. “Il problema non sono solo gli orari massacranti e le paghe misere, ma anche lo stigma sociale che in altri Paesi non c’è”. Noi di Iene.it abbiamo parlato con una ragazza che si è trovata costretta dalla situazione ad accettare un lavoro nei campi, e ci racconta la sua opinione sul perché gli italiani non vogliono fare i braccianti. Il coronavirus purtroppo non ha portato solo un’emergenza sanitaria a cui abbiamo pagato un salatissimo conto in vite umane, ma anche una crisi economica profonda e fulminea. Alla fine di quest’anno l’Italia rischia di perdere oltre il 10% del proprio prodotto interno lordo, una contrazione che non si vedeva dai tempi della seconda guerra mondiale. E non solo: secondo l’Istat a fine maggio saranno quasi 400mila le persone che avranno perso il lavoro. Tra i più colpiti da questa crisi ci sono i lavoratori stagionali, che a causa del lockdown prima e delle nuove regole poi, rischiano di saltare un intero anno di lavoro. Alcuni si sono rivolti a un settore dove frequentemente trovano impiego le persone arrivate da poco in Italia: il lavoro nei campi. Un lavoro che, si sente spesso dire, “gli italiani non vogliono fare”. Noi di Iene.it abbiamo parlato con Giulia (il nome è di fantasia), una ragazza italiana che è diventata bracciante per necessità e che ci spiega quali sono i motivi per cui gli italiani - almeno quelli che possono permetterselo - si guardano bene da quel tipo di impiego. “Durante la quarantena stavo cercando lavoro”, ci racconta Giulia. “Ho trovato un annuncio online per raccogliere la frutta nei campi. È un impiego che ho già svolto in altri Paesi del mondo, quindi mi sono detta: perché no?”. Giulia quindi accetta le condizioni proposte: “Un contratto da 39 ore, 5 euro e mezzo netti all’ora. Mi hanno detto che avrebbero potuto esserci ore extra. Poco prima di cominciare però mi dicono che sarebbero state 9 ore al giorno, sette giorni su sette. In pratica 55 ore alla settimana”. Per coprire le ore in esubero “prolungano il contratto oltre la scadenza reale, così non ci pagano gli straordinari”. Insomma, non esattamente un lavoro da sogno. “Era un escamotage per pagarci di meno”, ci dice Giulia. “È un lavoro molto pesante, nove ore al giorno sotto il sole per quei soldi”, racconta. “In queste settimane ho conosciuto altri italiani che si sono trovati a far questo lavoro perché gli impieghi stagionali sono o saltati o comunque rimandati”. A Giulia, che tra poco dovrebbe finire, è stato proposto di continuare: “Ma io non me la sento di arrivare a fine stagione, preferisco fermarmi ora e cercare altro. Spero di trovare un impiego stagionale adesso”. Ma com’è stato in questo periodo il lavoro di bracciante? “Passi tanto tempo da solo. Fisicamente è molto duro, il corpo dopo un po’ si abitua alla fatica ma a volte fa proprio male”. Sono queste le ragioni che allontanano gli italiani dal lavoro di bracciante? “Prima di tutto c’è la paga: io sono anche disposta a lavorare in condizioni fisiche dure, non mi dispiace nemmeno come impiego. Con un orario decente e una paga decente lo farei anche volentieri”, ci dice Giulia. “Però dopo pensi che lavori tutte quelle ore al giorno, sette giorni su sette, per al massimo 1.100 euro al mese…”. C’è anche un’altra cosa però che, secondo Giulia, frena gli italiani dal diventare braccianti: “Io ho fatto questo lavoro anche all’estero, in Australia per esempio ti danno più di venti dollari all’ora. Qui però faccio quasi fatica a dire che lavoro faccio, mentre fuori non l’ho mai avuto: c’è un po’ di stigma sociale sui braccianti. All’estero sono molto più tranquilli, non accadrebbe mai”. Insomma, non solo la paga misera e la fatica: ci sarebbe anche della vergogna sociale per chi si trova a fare questo lavoro in assenza di alternative: “Delle persone che lavorano con me, quasi nessuna vuole rimanere. Se fosse un anno normale, senza la pandemia, forse nessuno di noi si sarebbe messo a fare questo lavoro”. “Se le condizioni fossero un pochino più dignitose, forse avrei potuto continuare il lavoro fino a fine estate”, ci confessa Giulia. “Tra poco me ne andrò, non sono il tipo di persona che lascia un lavoro a metà ma così è un po’ troppo”.
Braccianti e lavoro in nero: i permessi di soggiorno salveranno l'agricoltura? Le Iene News il 19 maggio 2020. Gaetano Pecoraro ci mostra che cosa c’è dietro parte dell’agricoltura partendo da Borgo Mezzanone, un ghetto di duemila braccianti in provincia di Foggia. Non solo lavoratori stranieri sfruttati, ma anche italiani e aziende. Il consumo di frutta e verdura nel periodo di lockdown è aumentato quasi del 10%, ma anche i loro prezzi. Tanto che l’Antitrust ha avviato un’indagine per fare luce sulle scelte di alcune catene di supermercati. Perché, vi chiederete, aumentano i prezzi dell’ortofrutta? Per alcune speculazioni dei distributori, ma anche perché migliaia di braccianti stranieri non sono potuti arrivare in Italia per la raccolta a causa della chiusura delle frontiere. Frutta e verdura rimangono a marcire nei campi e i prezzi salgono (come ci ha raccontato Gaetano Pecoraro nel suo primo servizio: clicca qui per vederlo). E allora chi ci pensa a fare il “lavoro sporco”? “Lavoriamo ogni giorno tutti i giorni. Abbiamo la stagione del pomodoro, dei broccoletti, delle olive… Durante il coronavirus abbiamo lavorato duro per far mangiare l’Italia perché durante il lockdown erano tutti chiusi in casa e comunque dovevano mangiare”, ci racconta un bracciante. “Noi abbiamo lavorato per aiutare l’Italia”. Lui ha fatto richiesta per avere il permesso di soggiorno e ci spiega che cosa comporta non averlo: “Un sacco di braccianti dormono fuori dalle baracche: senza documenti come puoi affittare una stanza?”. Il governo ha appena deciso di concedere un permesso di soggiorno temporaneo a migliaia di lavoratori irregolari. “Da 18 anni sono in Italia, prendo 4 euro all’ora, in totale 30 al giorno”, ci dice un altro bracciante. “Lavoriamo come schiavi. Noi siamo venuti qua per migliorare la vita, ma è peggio”. Gaetano Pecoraro ci porta nella provincia di Foggia. Qui, in un casolare abbandonato, vive Philip. All’interno non c’è luce, le finestre cadono a pezzi e il bagno non c’è. Se si fermano questi schiavi moderni, niente arriverà più sulle nostre tavole. “Se noi siamo puliti è meglio anche per voi. E se siamo puliti, anche voi mangiate cose pulite, se noi siamo sporchi anche voi mangiate cose sporche”, dice Alaj, uno dei duemila braccianti di Borgomezzanone, una vera e propria città di baracche, tende e container. Un ghetto dove vivono più di duemila braccianti che alla mattina si alzano per andare nei campi e raccolgono la frutta e la verdura che troviamo nei nostri supermercati. Lui vive qui da 11 anni, inizia a lavorare alle 6 di mattina e finisce 12 ore dopo, attorno alle 18, questo per più di 300 giorni all’anno. Viene pagato 3 euro e 50 all’ora: “Nei campi non ci sono italiani, non lo vogliono più fare questo lavoro. E se noi non andiamo più a lavorare, voi non potete più mangiare”. Un altro bracciante ci racconta che cosa ha vissuto: “Quando è iniziata questa emergenza ho avuto paura. Ho dovuto rischiare, altrimenti come avrei potuto sopravvivere? Ci dicono di stare a casa, ma se non metti niente nello stomaco?!”. John, un ragazzo della Sierra Leone, dopo anni di sfruttamento ha avuto il coraggio di dire basta. “Quando ho verificato all’Inps che, su un anno e sei mesi che ho lavorato, risultavano solo 69 giorni”. Lui non era irregolare, aveva un contratto agricolo: “Io lo chiamo lavoro nero. Sono andato alla Polizia e ho raccontato tutto. Adesso sto aspettando il processo, voglio essere uno straniero per bene”. In questo sistema a essere sfruttati non sono solo i lavoratori stranieri, ma anche quelli italiani. “Ho lavorato da gennaio a dicembre, ma per l’Inps ho lavorato solo 79 giornate. Invece erano più del doppio”, dice Giovanni. In questa situazione il datore di lavoro truffa l’Inps e lo Stato dichiarando la metà dei giorni lavorativi, quindi versando la metà dei contributi. Ma c’è anche un altro problema. Ci sarebbero aziende che verserebbero contributi a persone che non hanno mai lavorato. “Gli versano quelle giornate giuste per coprire l’anno e percepire la disoccupazione”, sostiene Giovanni. “Lo fanno a persone che hanno più bambini perché si può prendere anche 10mila euro all’anno senza mai aver fatto una giornata di lavoro. Così percepiscono disoccupazione e maternità. C’è chi combatte questo modo opaco di lavorare. Come Francesco, un imprenditore che produce da 20 anni pomodori. Ci parla anche delle aste a doppio ribasso, dove si abbassano i prezzi per non farli alzare. Si fanno una volta all’anno per volumi grandissimi e chi la vince vende i suoi prodotti alle principali catene della grande distribuzione. “Dopo un esposto nel 2017, c’è una legge che è passata alla Camera ma è ferma in Senato con cui si vieta questa pratica che va a fare pressione sull’industria che poi deve fare pressione sul produttore agricolo che scarica tutto sul bracciante”, spiega Francesco. Per questo abbiamo chiesto un impegno concreto alla ministra delle politiche agricole Teresa Bellanova: “Siamo favorevoli ad approvare questa norma. Ho chiesto alla grande distribuzione di non assecondare queste campagne di sconti continui”.
Migranti, non è vero che lavorano solo loro nei campi: quanti italiani fanno la fila per un posto da bracciante. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 19 maggio 2020. Con le mani nella terra. Senza paura di sporcarsi. Anzi, con il timore di non farne abbastanza. A raccoglier pomodori, asparagi, zucchine. Inizia a far caldo, le campagne si riempiono. È il momento dei braccianti, lavoratori stagionali mai precari come quest'anno. Si fa la fila davanti a quasi tutte le aziende agricole del Paese. A quelle che hanno riaperto, almeno. E però, al contrario di quel che molti pensano, sono gli italiani, oggi, che vanno a zappare. Per disperazione, per bisogno. Perché altrimenti è peggio: chiusi lì, tra gli scampoli della quarantena e la ripartenza che va a sbuffi. Un po' ovunque. Meglio rimboccarsi le maniche. Tanto che i portali on-line (anche l'agricoltura vive di internet) delle principali associazioni di categoria faticano a star dietro a tutte le domande. Coldiretti, Cia (Confederazione italiana degli agricoltori), Confagricoltura: sono sulla stessa barca. Ricevono email su email di richieste che suonano come preghiere. Per favore, fateci lavorare. «Non è così semplice trovare spazio per tutti», ammette Antenore Cervi, della Cia di Reggio Emilia. «Negli ultimi decenni l'agricoltura si è molto meccanizzata. Spesso, oggi, c'è bisogno di manodopera un minimo specializzata». Come a dire, non ci si improvvisa braccianti. Neanche dopo l'onda d'urto del coronavirus. E poi c'è il mercato. Saturo. «In media, per ogni offerta di lavoro di un'azienda ci sono circa dieci domande». Capito l'antifona? Appena sotto il Po va in scena la corsa alla vanga. C'è Paola (racconta l'edizione locale de Il Resto del Carlino) che lascia l'ufficio per l'aria aperta. Ma c'è anche Marco, ex barman. O Gianni, ex impiegato. O Adriana, ex guida turistica. L'impiego della fatica e delle mani callose. Lo scelgono in tanti. In (almeno) 24mila: e solo a contare gli italiani. Le liste messe assieme sul web fanno impressione. Agrijob (il sito di Confagricoltura) ne conta 12mila. Jobbing Country (Coldiretti) 9.500. Altri 2mila la Cia. Humus Jobs arriva a 700, la metà netta dei suoi. Sarà la crisi nera, sarà la pandemia, sarà (in alcuni casi) la voglia di mettersi in gioco e sarà anche che c'è gente che il lavoro l'ha perso prima del patatrac sanitario: ma erano decenni che gli italiani non rispondevano così alla chiamata delle campagne. Intendiamoci, la stragrande maggioranza dei braccianti stipati nei nostri campi è composta da immigrati. Rumeni, marocchini, indiani, senegalesi. La loro quota sfiora le 370mila persone, un numero molto maggiore rispetto a quello tricolore. Però, alla fine, chi l'avrebbe mai detto. Ché il cameriere si reinventava contadino e il designer pure. Una cooperativa che della frutta, a Cuneo, sostiene di aver vagliato diverse richieste di ragazzi liguri tra i 30 e i 40 anni, tutti (o quasi) con un impiego saltato nel turismo. E c'è la difficoltà a reperire manodopera oltre confine, visto che i confini sono sigillati. In Emilia Romagna ci sono aziende agricole che dicono d'esser state contattate solo ed esclusivamente da (aspiranti) lavoratori italiani. La regolarizzazione voluta dal ministro Bellanova ha aperto una breccia sugli extra-Ue (parentesi: i sindacati non son comunque contenti, la sigla Usb Lavoro Agricolo proclama sciopero per giovedì prossimo). Gli italiani, intanto, si candidano a colpi di click. «Ci hanno scritto studenti e laureati. Molti vengono dalla ristorazione o dal settore alberghiero e sono disposti a spostarsi», preannunciava un mesetto fa Romani Magrini, responsabile Lavoro di Coldiretti. Si torna alle origini. Gli italiani, adesso, vogliono fare quei lavori che gli italiani non volevano più fare prima di Covid-19. Gioco di parole a parte, è la realtà. Imprese ridimensionate e serre strapiene di personale. Nella campagna piemontese, una decina di giorni fa, per settanta posti come braccianti si sono presentati in mille. Di questi, appena il 15% era straniero: tutti gli altri avevano un curriculum con su scritto "disoccupato" o "cassaintegrato" o "assegnatario di reddito di cittadinanza". Per dire.
Simona Pletto per ''Libero Quotidiano'' il 10 maggio 2020. «Gli italiani non vogliono lavorare nei campi e gli stranieri invece sì? Questo è un mito da sfatare perché non è più vero. Io ho raccolto 400 richieste nel giro di un paio di giorni e l' 80% di questi curricula appartengono a italiani». Michele Ponso, titolare di un' azienda agricola a Lagnasco, nel Saluzzese, è ancora incredulo. Sul tavolo del suo ufficio amministrativo sono stampate decine e decine di richieste di lavoro, spedite anche di notte via mail. «Fino a l' altro giorno cercavo braccianti invano», spiega l' imprenditore. «Poi mi hanno fatto un servizio alla trasmissione televisiva Le Iene, dove lamentavo la difficoltà a reperire manovalanza straniera da mandare nei frutteti dopo il coronavirus, e apriti cielo! Sono stato letteralmente sommerso dalle domande». «Anche adesso - aggiunge l' agricoltore - che è sabato, ricevo una mail di richiesta ogni cinque minuti. La cosa che addolora, è che molte di queste persone fino a ieri avevano una occupazione e ora sono disperate perché non hanno più un lavoro né soldi. Alcuni di loro li conosco personalmente, sa com' è, viviamo in un paese di appena 1500 abitanti. C' è un tabaccaio che ha chiuso per esempio, una parrucchiera. Ma anche molti universitari, gente che lavorava negli alberghi e che è rimasto disoccupato».
LA RACCOMANDAZIONE. Tra le richieste arrivate da tutta Italia nell' azienda del signor Ponso, c' è una coppia che si è fatta "raccomandare" dal parroco del paese perché rimasta senza lavoro e con figli piccoli da sfamare, c' è un tecnico del suono, camerieri, due ragazze giovanissime che abitano al Sud e che pur di lavorare nei campi per l' azienda di Lagnasco hanno cercato di sistemarsi nel più vicino camping. Un' altra coppia, marito e moglie, addirittura si è attrezzata col camper. «Sono pronti a tutto, anche se vivono a distanza, pur di non perdere questa occasione», rimarca Ponso. «Sinceramente una cosa così non me l' aspettavo. Sa qual è la cosa che più colpisce? È che nessuno di questi, dico nessuno, ha chiesto quante ore si lavora, se sono impegnati anche il fine settimana o a Ferragosto. Nulla. La frase che ricorre in ogni curricula è "disponibilità totale". Mai successo prima». La tariffa oraria per questi mesi caldi di raccolta frutta (ora mirtilli, poi lamponi, pesche nettarine, susine e kiwi), è di sei euro. «Non è tanto, lo capisco, ma con queste annate cattive il settore non prospera e i guadagni sono sempre meno», ammette l' agricoltore.
IL CONFRONTO. E sottolinea: «L' anno scorso avevamo l' 80% di manovalanza straniera. Poi a causa del virus sono tornati nella loro terra alcuni nostri operai, tra cui cinesi, africani, polacchi. Ci siamo ritrovati senza personale. Ora ne abbiamo già selezionati e assunti 17, quasi tutti italiani. Ne servirebbero 25 ma abbiamo deciso di tenere il posto ai nostri stranieri perché dovrebbero riuscire a tornare nel nostro Paese per fare la stagione da noi». Potrebbero esserci problemi al rientro, ma anche sull' aspetto sanitario evidenzia l' agricoltore siamo pronti a fare la nostra parte. «Faranno la loro quarantena ovviamente. Intanto però, la nostra azienda non ha più problemi nel reperire risorse umane. Una cosa è certa: se si continua a dire che gli italiani non vogliono lavorare nei campi anche in tempi di coronavirus, è solo perché c' è un evidente problema di comunicazione. Se la gente viene informata, io ne sono un esempio, alza la mano e corre».
Michelangelo Borrillo per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. C' è chi lavorava al bar. Che non ha riaperto. Chi studiava. Ma adesso è senza lezioni. Chi, semplicemente, era già disoccupato prima del Covid-19. Hanno saputo che, volendo lavorare, nei campi c' è spazio, perché quest' anno mancano 200 mila braccianti, in gran parte stranieri, impossibilitati a tornare in Italia a causa delle restrizioni nella mobilità dovute al coronavirus. E così più di 20 mila italiani, braccia più braccia meno, si sono registrati sulle banche dati delle principali organizzazioni agricole. Che proprio per fronteggiare la carenza di manodopera, ad aprile hanno creato delle piattaforme per incrociare l' offerta di lavoro delle aziende e la domanda degli aspiranti operai agricoli. La prima, il 7 aprile, è stata Confagricoltura: in poco più di un mese alla piattaforma Agrijob sono arrivate 17 mila domande, 12 mila circa di italiani. Il 18 aprile anche Coldiretti ha lanciato la sua banca dati: a Jobincountry si sono iscritti in 10 mila circa, quasi 9 mila italiani. Il 24 aprile è partita anche la Cia con la piattaforma Lavora con agricoltori italiani (inteso come aziende agricole): in due settimane sono arrivate 2.500 domande, 2 mila circa di italiani. In poco più di un mese, quindi, oltre 20 mila italiani (un terzo donne), hanno provato ad avvicinarsi ai campi. Qualcuno aspetta risposte, altri dopo due giorni hanno cambiato idea, ma in tanti ora raccolgono frutta e verdura. Tra i neofiti delle pratiche agricole ci sono anche cinque camerieri, salentini, dell' agriturismo Tenuta Monacelli, alle porte di Lecce: «Fino a tre anni fa - spiega il titolare Giuseppe Piccinni - l' attività agricola, con i nostri 340 ettari, era prevalente. Poi con il boom del turismo c' è stato il sorpasso. Adesso stiamo tornando alle origini: fino a luglio, almeno, staremo fermi sul fronte turistico e allora ho chiesto ai miei collaboratori più stabili di preparare i terreni per impiantare nuovi ulivi al posto di quelli colpiti dalla Xylella: hanno accettato, ben felici di poter lavorare». Dal Sud al Nord la situazione non cambia. «Ci arrivano diverse richieste dalla costa ligure - spiega Domenico Paschetta, della cooperativa cuneese Agrifrutta - da 30-40enni che lavoravano nel turismo. Abbiamo bisogno, tra raccolta e confezionamento, di 500 persone. Negli scorsi anni erano al 90% stranieri. Ma adesso, con la difficoltà a muoversi da Albania, Romania e Polonia, stiamo cercando gente locale senza problemi di alloggio: in passato i Comuni si erano organizzati con strutture di accoglienza, quest' anno con il distanziamento sarà più difficile». Gli italiani che cercano lavoro nei campi, quindi, non mancano. E considerata la carenza di manodopera, anche il governo si sta organizzando per utilizzare la piattaforma dell' Anpal, l' Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, in sinergia con quelle delle organizzazioni agricole. L' agriturismo sarà, almeno nei prossimi mesi, più agri che turismo.
Coronavirus, Brusaferro (Iss): "Curva decresce, RT minore di 1 in tutta Italia. Stessa tendenza tra immigrati e italiani". La Repubblica il 30 aprile 2020. La curva cala, il tasso di contagio è inferiore a 1, si riducono le zone rosse. Sono tutti fattori positivi quelli elencati il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss), Silvio Brusaferro, nella conferenza stampa organizzata dall'istituto sull'andamento dell'epidemia da SarCov2. Brusaferro ha specificato inoltre, anche in risposta alle fake news circolate nei primi giorni dell'epidemia sul fatto che gli immigrati non venissero contagiati, che la curva dell'epidemia di Covid-19 è analoga negli italiani e negli individui di nazionalità straniera, tra i quali sono stati rilevati 6.395 casi. "Ma i casi sono partiti con uno sfalzamento di 2-3 settimane", ha detto Brusaferro.
"Ecco perché gli stranieri vengono risparmiati", secondo Galli. Il direttore del reparto malattie infettive del “Sacco” di Milano avanza un’ipotesi sulla diffusione della malattia: la popolazione immigrata in Italia è mediamente più giovane e sana, ma il loro organismo sembra anche più difeso del nostro. Agi 25 marzo 2020. E gli immigrati? Quanti sono i contagiati e quanti i ricoverati, ad esempio al Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano? “Nessuno mi pare”, risponde in un’intervista a Libero Quotidiano il professor Massimo Galli che del Sacco di Milano è il primario. E il direttore sanitario osserva anche che “in ogni caso la percentuale è praticamente nulla”. Quanto alla spiegazione, il medico dice che “l’ipotesi, ma è ancora tutta da dimostrare anche se è verosimile, è che in alcune etnie di discendenza africana ci siano diverse caratteristiche e disponibilità per il virus”. Ovvero, uscendo dai tecnicismi, Galli dice che ciò significa che “queste persone potrebbero avere un fattore protettivo maggiore”, cioè è possibile “che abbiano le porte chiuse, o meglio, semichiuse nei confronti del Covid-19” mentre “le porte degli italiani sono invece spalancate”. Anche per il fatto che come italiani “siamo una popolazione molto vecchia, e questo ci espone più facilmente alle malattie” mentre “gli immigrati che risiedono in Italia sono per lo più giovani e in forze” e pertanto “hanno molti meno problemi di salute rispetto a noi”. “Il fattore anagrafico e la sana costituzione – osserva Galli – spiegherebbero anche il motivo per cui gli adolescenti e i bambini reagiscono molto meglio al Covid-19”.
Migranti: 400 sbarcano in spiaggia nell'Agrigentino. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 da La Repubblica.it. PALMA DI MONTECHIARO - Circa 400 migranti sono sbarcati sulla battigia di Palma di Montechiaro, nell'Agrigentino. Una nave madre li avrebbe lasciati a pochi metri dall'arenile, prima di riprendere il largo. Polizia e carabinieri stanno rastrellando l'area e un elicottero si è levato in volo. Ieri tre imbarcazioni con 27 migranti sono state intercettate al largo delle coste Trapanesi. Le operazioni sono state eseguite ieri dal reparto operativo aeronavale della Finanza di Palermo e del comando operativo di Pratica di Mare, intervenuti mentre i tre natanti erano in precarie condizioni di navigabilità. Il primo intervento è avvenuto in mattinata, con il Pattugliatore P02 Monte Cimone del Gruppo Aeronavale di Messina, precedentemente schierato in zona a supporto del dispositivo regionale, che aveva individuato, al limite delle acque territoriali, un primo gommone con sette migranti diretto inequivocabilmente verso le coste di Mazara del Vallo. Dopo aver imbarcato i migranti, l'unità si era diretta verso il porto di Trapani.
La "nave madre" dei migranti: ecco cosa c'è dietro gli sbarchi. Sono circa 400 i tunisini arrivati nelle coste agrigentine attraverso una nave madre. Altri migranti sono giunti a Lampedusa e Linosa. Adesso l'allerta sbarchi è alta. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Ad Agrigento è invasione migranti. Sarebbero secondo alcuni testimoni ben 400 gli extra comunitari di origine tunisina giunti nella spiaggia di Palma di Montechiaro nel primo pomeriggio di oggi. Nel corso della giornata però dalla questura hanno specificato che forse le persone sbarcate non sono più di 70. Un vero e proprio caos che ha fatto scattare l’allarme in men che non si dica. Uno sbarco imponente che lascia spazio a tutti i presupposti di un arrivo con una “nave madre”. Infatti, a pochi metri dalla battigia è stato ritrovato un barcone di circa 10 metri che, in base alle testimonianze, corrisponderebbe a quello usato per lo sbarco dei migranti. Della seconda imbarcazione, avvistata dai testimoni, nessuna traccia. Sul posto immediatamente le forze dell’ordine per fermare ed identificare gli arrivati nel rispetto di tutte le misure di sicurezza.
In mare le motovedette della Capitaneria di Licata e di Porto Empedocle e anche il pattugliatore della guardia di finanza. Nei cieli invece l’elicottero della polizia per rintracciare la seconda imbarcazione e anche i migranti che sono riusciti a scappare una volta approdati sulla terra ferma. Un vero e proprio caos che sta tenendo impegnati gli uomini in divisa ma che sta anche generando allerta nella Città del Gattopardo e nel territorio provinciale. Infatti sono stati già segnalati diversi extracomunitari sulla strada statale che porta ad Agrigento. Uno sbarco di questa entità non lo si vedeva dal 2017, anno caratterizzato dall’arrivo imponente di sbarchi fantasma nelle coste dell’agrigentino. È un fine settimana bollente per la Sicilia se si considera che quella di Palma di Montechiaro non è l’unica costa ad essere stata interessata dagli sbarchi. Sempre questo pomeriggio infatti è arrivato a Linosa un altro barcone con a bordo 52 migranti, un altro mezzo è stato intercettato al largo di Lampedusa e altri arrivi sono stati registrati a Trapani. In quest’ultimo caso si parla di tre barchini. Ma anche ieri sera sono stati registrati nuovi arrivi sull’isola di Lampedusa con due barche diverse. La prima, con a bordo cinque tunisini, è arrivata direttamente sul molo Favarolo. La seconda, con a bordo altri 40 tunisini, è stata intercettata a largo dalla guardia di finanza e scortata fino al molo. Si tratta di una vera e propria invasione che sta generando allarme tra le popolazioni interessate ma anche tra gli amministratori locali. Una situazione ai limiti della gestibilità visto e considerato sia il numero eccessivo di migranti sia l’emergenza sanitaria che richiede il distanziamento sociale e il rispetto della quarantena. Dove verranno trasferiti adesso i nuovi arrivati? La nave quarantena situata in rada, a Porto Empedocle, non basta più e adesso il problema relativo alla gestione degli arrivi è diventato realtà. Ed in merito a questa nuova e massiccia ondata di arrivi sono intervenuti i parlamentari della Lega Stefano Candiani e Nicola Molteni, sottosegretari all'Interno col ministro Salvini attribuendo al governo la responsabilità di quanto è accaduto. " Record di sbarchi in una giornata, con più di 400 arrivi. Colpa del Governo e della scellerata maxi sanatoria della Bellanova e dei 5Stelle-si legge in una nota dei leghisti che prosegue- L’Italia torna a essere il campo profughi d’Europa: nel 2020 si contano 4.445 sbarchi dal primo gennaio al 22 maggio, contro i 1.361 dello stesso periodo del 2019. Porti e porte aperte ai clandestini da chi vuole smantellare i decreti Sicurezza”. Il maxi sbarco verificatosi a Palma di Montechiaro, ha rilanciato ancora una volta la questione relativa al possibile uso di navi madri da parte dei trafficanti di esseri umani. Una tecnica quest’ultima che, nel corso degli anni, è stata spesso al centro dei riflettori da parte soprattutto degli inquirenti. Ma in cosa consiste la nave madre? Si tratta un’imbarcazione alla quale solitamente sono attaccati altri mezzi di dimensioni minori, i quali vengono poi sganciati e dirottati verso le coste siciliane ed i vari punti di approdo. Si tratta il più delle volte di pescherecci che, partendo dall’altra parte del Mediterraneo, percorrono poi buona parte del tragitto assieme ai gommoni ed ai barchini con a bordo i migranti. Una volta poi fatte partire le piccole imbarcazioni sganciate, gli scafisti a bordo della nave madre fanno retromarcia e tornano verso la Tunisia o la Libia. Da quando all’inizio degli anni 2000 il fenomeno migratorio si è fatto più intenso, si è sempre avuto il forte sospetto dell’uso delle navi madri da parte delle organizzazioni criminali. Ma è soltanto dopo l’anno nero del 2017, quello cioè dove in estate in provincia di Agrigento si contavano almeno due sbarchi al giorno, che su questa modalità usata dai trafficanti di esseri umani si sono accesi i riflettori. Una prova lampante dell’impiego di navi madri, si è avuta ad esempio nel novembre del 2018. In quell’occasione, un aereo della missione Frontex ha avvistato un peschereccio sospetto non lontano da Lampedusa. Sembrava un’imbarcazione come tante, a bordo infatti non si avvistano assembramenti di migranti. Tuttavia, una fune legava questa imbarcazione con un barchino, anch’esso apparentemente vuoto. Il mezzo di Frontex ha quindi notato che, proprio in prossimità di Lampedusa, il peschereccio ha lasciato alla deriva il barchino ad esso attaccato. Scattati i controlli, si è scoperto che all’interno di quel piccolo mezzo lasciato alla deriva c’erano 68 persone. Erano tutte stipate nella stiva, per questo dall’alto nessuno aveva avvistato la loro presenza. Il peschereccio, che fungeva quindi da nave madre, è invece scappato verso la Tunisia. Ne è nato un inseguimento che il 22 novembre 2018 ha coinvolto anche mezzi della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. Alla fine, i sei scafisti a bordo di quel peschereccio sono stati arrestati a poche miglia dalle acque tunisine. La Procura di Agrigento, che ha coordinato quelle indagini, ha parlato delle prime vere prove tangibili dell’uso di una nave madre da parte dei criminali che lucrano con i viaggi della speranza. Nel mese di giugno del 2019, sempre da Agrigento è partita un’altra analoga operazione: anche in quel caso, una nave madre è stata avvistata non lontana dalle acque italiane e gli scafisti a bordo sono stati arrestati. L’uso di navi madri da parte delle organizzazioni criminali è quindi oramai un dato consolidato. E soprattutto, appare una tecnica sempre più in voga tra i trafficanti. Del resto, i vantaggi per questi ultimi sono notevoli. In primis, gli scafisti hanno la possibilità di trovare più facilmente una via di fuga nelle acque internazionali, tornando quindi quasi subito nel porto di partenza in Libia od in Tunisia. In secondo luogo, la nave madre diventa un mezzo utilizzabile anche per più traversate: in questa maniera, le varie associazioni criminali possono sacrificare soltanto piccole imbarcazioni di legno. Altro aspetto importante riguarda il fatto che gli scafisti, grazie all’uso di una nave madre, evitano di scendere assieme ai migranti e di essere quindi poi in un secondo momento identificati. Ecco quindi perché c’è da scommettere su un uso, da parte dei trafficanti, sempre più importante di navi madri per far giungere i migranti sulle nostre coste. Il miglioramento delle condizioni meteo, l’avvicinamento ai mesi estivi e l’uso di imbarcazioni più grandi da cui far partire i barchini diretti verso la Sicilia, sono tutti elementi che fanno temere settimane roventi sul fronte migratorio.
Lampedusa, un barcone con oltre 60 migranti approda nell'isola. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su La Repubblica.it da Giorgio Ruta. "Che senso ha la nave quarantena se è lontana dall'isola?". È la domanda che pone, dopo l'ultimo sbarco di migranti, il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello. Oggi pomeriggio, intorno alle 15, un'imbarcazione con una sessantina di migranti è arrivata direttamente sugli scogli di Cala Madonna. "Come era prevedibile - dice il sindaco Totò Martello - le buone condizioni del mare favoriscono gli sbarchi. È indispensabile che la nave Moby Zazà destinata alla quarantena dei migranti, che attualmente è ancora a Porto Empedocle in attesa di alcune verifiche tecniche, venga al più presto fatta arrivare a Lampedusa". I migranti, adesso, sono al molo Favaloro, in attesa di un trasferimento. "Chiedo al governo - aggiunge il primo cittadino - un intervento urgente e determinato in questo senso altrimenti non si comprende, anche gli occhi dell'opinione pubblica, a cosa serve aver fatto un bando per una nave per la quarantena se poi viene lasciata a Porto Empedocle e non a Lampedusa, dove i migranti arrivano". Chi sbarca adesso sull'isola fa tanti passaggi prima di arrivare sulla nave quarantena. Prendiamo i 53 arrivati tra martedì e mercoledì: sono stati al molo, prima di andare in una struttura messa a disposizione della chiesa. Da lì con i mezzi della guardia costiera fino a Porto Empedocle, poi un breve passaggio in pullman per arrivare, finalmente, sulla nave. "L'utilità della Moby Zazà - aggiunge Martello - dovrebbe essere quella di far trascorrere la quarantena dei migranti a bordo evitando spostamenti verso altre località su motovedette della Guardia Costiera o sulla nave di linea, dal momento che a Lampedusa il Centro di accoglienza è pieno. Ma se la nave è lontana dall'isola, i migranti continueranno a sostare sul Molo Favaloro in attesa del trasferimento, e in pratica non avremmo risolto nulla. Bisogna predisporre il dislocamento della Moby Zazà di fronte l'isola, e bisogna farlo al più presto".
Da repubblica.it il 28 aprile 2020. La nave-quarantena promessa non è mai arrivata ma a Lampedusa gli sbarchi autonomi continuano e il sindaco Martello non sa come mettere in sicurezza i migranti e la sua popolazione visto che l'hotspot è già pieno di altre persone ancora in isolamento. L'ultimo sbarco questa mattina e anche consistente. Un'imbarcazione con 80 persone giunta fin dentro il porto dell'isola di fronte alla sede della Capitaneria di porto. "Gli sbarchi continuano - dice il sindaco di Lampedusa - e in questo caso oltretutto c'è un pericoloso rimpallo di responsabilità: nessun mezzo militare infatti fino ad ora è disposto ad accompagnare i migranti dalla banchina fino al molo Favaloro da dove dovranno essere trasferiti dal momento che l'hotspot è già pieno e non può ospitare altri migranti per la necessaria quarantena sanitaria". Martello si rivolge al ministro dell'Interno, della Difesa, al presidente della Regione: "Da sindaco non ho potere di intervento diretto. Cosa dobbiamo fare? Ho chiesto di trainare l'imbarcazione fino al molo ma non è possibile andare avanti così. Siamo in piena emergenza coronavirus, i cittadini dell'isola hanno il diritto di vedere tutelata la loro salute e comprendo anche che le stesse esigenze valgano per gli uomini delle forze dell'ordine. Ma questa situazione è inaccettabile. Le istituzioni che hanno il dovere di intervenire non possono scaricare il peso dell'accoglienza interamente sulle nostre spalle".
Ogni migrante sulla nave-quarantena ci costerà oltre 4mila euro al mese. Costi ritenuti eccessivi per la nave destinata ad ospitare i migranti in quarantena, la Lega alza gli scudi sul caso della Moby Zaza. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Da sabato notte la nave Moby Zaza si trova ormeggiata nella banchina di Porto Empedocle in attesa di essere funzionante. Obiettivo? Consentire ai migranti di svolgervi al suo interno la quarantena. La nave è arrivata dopo un mese di appelli incessanti da parte del sindaco di Lampedusa, Salvatore Martello e dei colleghi di Pozzallo e Porto Empedocle, nei confronti del governo. Al loro appello si è unito anche quello dei sindaci di tutta la provincia di Agrigento e del governatore della Regione siciliana. Il mese di aprile e la prima decade di maggio sono stati caratterizzati da diverse centinaia di sbarchi tanto da mettere in difficoltà gli amministratori locali che si sono trovati a dover far fronte a situazioni difficili da gestire. Da una parte il problema su dove ospitare i migranti e dall’altra la difficoltà su come metterli in condizione di rispettare la quarantena in angusti spazi in piena emergenza sanitaria dovuta al coronavirus. La Moby Zaza, con i suoi circa 250 posti, ospiterà i migranti che approderanno nelle coste di Lampedusa e in quelle agrigentine in generale. Al suo interno vi sarà anche un’area per il confinamento di migranti con sintomi da Covid-19, mentre 35 posti saranno destinati al personale sanitario. Prima di essere utilizzata, la nave verrà sottoposta ad una verifica da parte della commissione di visita ex art. 25 della legge 616/62. Se tutto si concluderà positivamente, la Moby Zaza si posizionerà nella rada di Porto Empedocle a circa 2/3 miglia fuori, in area Bravo. Prima però occorrerà aspettare la verifica di un’apposita commissione, la quale potrebbe impiegare, come segnalato da fonti della Capitaneria di porto di Porto Empedocle, diversi giorni. Forse la Moby Zaza potrà realmente espletare la sua funzione a partire da lunedì prossimo. Ed intanto non mancano le polemiche. Il costo di quest’operazione nei giorni scorsi è apparso eccessivo ad esempio al vice capogruppo della Lega alla Camera, Alessandro Pagano: “Per il noleggio della nave traghetto 'Moby Zaza', messa stavolta a disposizione per la quarantena di questi immigrati irregolari provenienti da Libia e Tunisia e per il loro successivo approdo sulle nostre coste – ha sottolineato il deputato – la compagnia Moby Line riceverà tra i 900mila e 1 milione e 200mila euro: la bellezza di 4.210 euro al mese per clandestino imbarcato”. Costi ritenuti eccessivi dall’esponente della Lega, il quale nei prossimi giorni dovrebbe presentare anche un’interrogazione: “Non parliamo di un gommone di terza mano, ma – ha proseguito Pagano – di una nave dotata di ristorante self-service, pizzeria, gelateria, admiral pub con speciale assortimento vini, area giochi e sala video, cabine doppie o quadruple con servizi e perfino suite di lusso. Tutto questo mentre famiglie e imprese italiane sono in ginocchio per la gravissima crisi economica causata dalla pandemia da Covid-19”. “Il gruppo Onorato, proprietario dell'imbarcazione – ha concluso Pagano – si dice che abbia un contenzioso debitorio di 180 milioni di euro nei confronti del Mit. Com’è possibile che abbia potuto partecipare, e soprattutto vincere, questa gara pubblica indetta dallo stesso Ministero?” Nel frattempo, dalla maggioranza si difende la scelta. Alcuni deputati locali del Movimento Cinque Stelle, plaudono all’arrivo della nave: “Quello che abbiamo raggiunto è un risultato fondamentale per la salvaguardia del nostro territorio e di tutta la costa sud orientale siciliana in un momento particolare e delicato – ha dichiarato Rosalba Cimino, deputata grillina – un obiettivo raggiunto con determinazione insieme ai colleghi siciliani, dopo varie interlocuzioni e confronti con amministratori locali”. Da parte sua, anche il sindaco di Porto Empedocle, Ida Carmina, si è detta soddisfatta per l’arrivo della nave. Ma tra ritardi, costi su cui verranno presentate interrogazioni e varie altre polemiche, la vicenda relativa alla gestione del fenomeno migratorio in piena emergenza Covid sembra essere solo all’inizio. Nel frattempo la nave, come detto in precedenza, è ancora in porto: in caso di nuovi sbarchi, per il momento, il mezzo non sarebbe utilizzabile.
Tra barchini e carrette del mare: l'invasione di sbarchi fantasma. In base agli ultimi dati degli sbarchi autonomi da parte dei migranti, per l'estate si preannunciano numeri allarmanti. A destare maggiori preoccupazioni gli arrivi "fantasma" nell'agrigentino e nel trapanese. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Venerdì, 15/05/2020 su Il Giornale. È stato un mese di aprile intenso quello che hanno vissuto Lampedusa e la Sicilia in genere se si analizza il contesto degli sbarchi autonomi da parte dei migranti. Questi ultimi infatti sono arrivati in diverse centinaia. Non da meno il mese di maggio, seppur ancora nel pieno dello scorrere dei suoi giorni. Se poi si entra nei dettagli, da marzo ad ora, sono circa mille gli extracomunitari giunti sulle coste dell’isola maggiore delle Pelagie cui si sono aggiunti anche gli oltre 50, arrivati nell’agrigentino, attraverso lo sbarco fantasma a Torre Salsa. In base a quanto registrato nelle ultime settimane, quella che si preannuncia potrebbe essere un’estate molto calda e questo non solo per le alte temperature ma anche con riferimento al flusso degli sbarchi. Da qui al breve periodo, i numeri potrebbero essere allarmanti. A destare maggiore preoccupazione sono soprattutto quegli arrivi che, almeno in un primo momento, sfuggono dal controllo delle forze dell’ordine. Stiamo parlando proprio degli sbarchi fantasma. Si tratta di quei fenomeni attraverso i quali gli stranieri arrivano attraverso dei barconi e, una volta approdati in spiaggia, abbandonano il mezzo per scappare tra le campagne e le zone più vicine sottraendosi alla caccia all’uomo attuato dalle forze dell’ordine. Da qui, alcuni riescono a farla franca rimanendo come fantasmi nel vero senso del termine, altri invece intercettati ed identificati. Dalle verifiche effettuate nei confronti delle persone identificate è emerso sempre un elemento comune: tutti sono partiti dalla Tunisia, nello specifico da Biserta, Sfax e Sousse. L’ultimo fenomeno di “massa” di questo tipo è avvenuto non poco tempo fa, ovvero nell’estate del 2017, con numeri preoccupanti. Da Cattolica Eraclea a Siculiana, fino a Realmonte, le coste dell’agrigentino in quel periodo sono state le protagoniste di numerosi arrivi fantasma che hanno creato problemi e anche preoccupazioni fra la cittadinanza. Sono stati in molti gli agrigentini che si sono trovati ad assistere a questi eventi durante momenti di relax al mare o direttamente dalle loro abitazioni di campagna lanciando l’allarme. Gli stessi fenomeni si sono verificati anche nei territori di Palma di Montechiaro e Licata, sempre nell’agrigentino. Dopo la fuga tra le zone di campagna, il “piano 2” dei migranti è stato quello dell’attraversamento, durante la notte, della SS 115, ovvero l’arteria che unisce tutte le città della provincia. Proprio in questa fase molti di loro sono stati intercettati dai carabinieri, dalla polizia o dalla guardia di finanza e sottoposti poi all’identificazione. Sempre in quel periodo è accaduto anche un fatto che ha destato non poche perplessità su questo tipo di fenomeno. In una foto scattata nella spiaggia ricadente nel territorio di Siculiana è stata notata una maglietta con la scritta “Haters Paris”. Quella frase avrebbe potuto significare tutto ma anche niente. O un indumento indossato casualmente prima di affrontare il viaggio verso la Sicilia o la presenza dei terroristi tra i barconi di quegli sbarchi. Per far chiarezza sulla situazione che lasciava pensare a delle infiltrazioni jihadiste, il procuratore di Agrigento ha aperto subito dopo un’inchiesta. Nel trapanese la situazione spesso in passato è apparsa anche più pericolosa. Qui infatti ad approdare non sono i barchini ed i gommoni spesso notati tra Lampedusa e l’agrigentino, bensì vere e propri mezzi di lusso. Degli yacht in grado di coprire in poche ore la distanza tra la provincia tunisina di Biserta e le coste trapanesi. Mazara Del Vallo e Marsala i territori in cui, anche nel recente passato, è stata notata la più elevata concentrazione di questa tipologia di sbarchi. Ed è chiaro che in un contesto del genere, ad emergere è soprattutto il rischio di infiltrazioni terroristiche. Chi affronta le traversate con gommoni veloci e con mezzi più costosi, spende molto di più rispetto ai migranti che invece arrivano in Sicilia con mezzi di fortuna. Il sospetto, mai del tutto domato in seno a molte procure siciliane, è che a pagare questi viaggi potrebbero essere anche le organizzazioni criminali e terroristiche. Lo si è potuto vedere ad esempio nell’operazione Abiad, condotta dai Carabinieri del Ros di Palermo, Trapani, Caltanissetta e Brescia il 9 gennaio 2019. In quest’occasione sono state arrestate 15 persone: per loro l’accusa è stata anche quella di aver condotto irregolarmente in Italia decine di persone ma, ad inquietare maggiormente, tra le altre cose, è stato anche il ruolo di un soggetto tunisino che sui social inneggiava alla Jihad. E non è un caso che, come si legge tra le carte di quell’operazione, il blitz in Sicilia è scattato grazie alle rivelazioni di un “pentito” precedentemente vicino all’organizzazione criminale smantellata: “Vi sto raccontando quello che so perché voglio evitare che vi troviate un esercito di kamikaze in Italia”, ha dichiarato agli inquirenti il collaboratore. Ed infatti, i pm allora hanno ben evidenziato i pericoli per la sicurezza nazionale: “Sussistono significativi ed univoci elementi – si legge tra le carte dell’operazione – per ritenere che l'organizzazione in esame costituisca un'attuale e concreta minaccia alla sicurezza nazionale poiché in grado di fornire a diversi clandestini un passaggio marittimo occulto, sicuro e celere che, proprio per queste caratteristiche, risulta particolarmente appetibile anche per quei soggetti ricercati dalle forze di sicurezza tunisine, in quanto gravati da precedenti penali o di polizia ovvero sospettati di connessioni con formazioni terroristiche di matrice confessionale”. Pochi giorni dopo, sempre con i riflettori puntati sul trapanese, è scattata l’operazione Barbanera. Il nome del blitz lo si è dovuto in quel caso al soprannome del principale indiziato: Moncer Fadhel, di origine tunisina, veniva chiamato così per via del suo aspetto e della sua lunga e folta barba nera. Era lui, secondo gli inquirenti, a gestire il traffico di esseri umani nel trapanese: i migranti, hanno spiegato all’epoca i militari della Guardia di Finanza impegnati nell’operazione, venivano portati in spiagge predefinite dove l’organizzazione criminale guidata da Barbanera riusciva poi a smistarli nel territorio facendo perdere le loro tracce. Ciò che ha maggiormente stupito nelle due operazioni del gennaio del 2019, è stata la ramificazione territoriale delle organizzazioni che gestiscono il traffico di migranti. Fadhel ad esempio, a Mazara Del Vallo era proprietario di tre attività commerciali, tra cui un ristorante. Era riuscito a farsi strada all’interno del mondo criminale locale, contrassegnato storicamente da alcuni dei clan più importanti di cosa nostra. E la mafia siciliana con la criminalità impegnata negli affari derivanti dall’arrivo di migranti sembra convivere pacificamente. Anche perché a bordo dei gommoni e dei mezzi che arrivano nel trapanese, non ci sono soltanto extracomunitari: gli inquirenti più volte hanno rintracciato la presenza di ingenti dosi di sostanze stupefacenti ed anche di sigarette. Tutta merce che poi, una volta fatta arrivare in Sicilia, viene in seguito smistata nelle piazze di spaccio e contrabbando dell’isola. Le operazioni Abiad e Barbanera sono state, sotto questo profilo, le più importanti capaci di portare a galla il fenomeno degli sbarchi fantasma che contraddistingue il trapanese. Ma non le uniche: sempre tra Trapani ed Agrigento, nel marzo del 2018 un blitz dal nome evocativo di “Caronte”, ha smantellato un’altra organizzazione dedita a far arrivare in Sicilia migranti con gli sbarchi fantasma. Un fenomeno quest’ultimo che fa gola alla criminalità presente in entrambe le sponde del Mediterraneo, che negli anni ha creato non poco allarme sociale, soprattutto nell’agrigentino, e che potrebbe rappresentare un pericolo per le possibili infiltrazioni terroristiche. Da qui il timore di una possibile nuova ondata di sbarchi in questa estate 2020. Anche perché, come raccontato nei giorni scorsi su IlGiornale.it, dalla Tunisia e dalla Libia scafisti e criminali sono pronti a mettere in navigazione decine di barchini. E l’aumento del numero degli sbarchi riscontrato in questa prima decade di maggio appare significativo. Per la Sicilia e per l’Italia dunque, la bella stagione alle porte potrebbe rappresentare un ritorno alle fasi più calde dell’emergenza migratoria.
Ecco l'invasione dei migranti: "Trieste peggio di Lampedusa". Altri 160 migranti provenienti dalla rotta balcanica fermati al confine italo-sloveno. Il vice-sindaco di Trieste, Paolo Polidori, lancia l'allarme: "Gli arrivi non si fermano e i centri sono al collasso, qui è peggio che a Lampedusa". Alessandra Benignetti, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. "Qui è peggio che a Lampedusa, siamo al collasso". Il vice sindaco di Trieste, Paolo Polidori, non usa mezzi termini per descrivere la situazione che sta vivendo il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia nelle ultime ore. Gli ingressi dei migranti dalla rotta balcanica, qui, non si sono mai fermati. Anzi, con l’arrivo della primavera sempre più richiedenti asilo hanno scelto di attraversare la frontiera con la Slovenia per rifugiarsi in Italia. Non li spaventa l’emergenza sanitaria e neppure i militari dell’esercito schierati a guardia dei valichi. In 160 oggi sono stati intercettati sul Carso triestino. Quasi tutti afghani e pakistani individuati alla periferia della città e nei pressi di Basovizza mentre camminavano in gruppo in direzione del centro. Si aggiungono ai 250 arrivati la scorsa settimana. Si parla di almeno mille persone giunte qui dall’inizio dell’anno. Numeri che hanno spinto il presidente della Regione, Massimiliano Fedriga, a chiedere aiuto a Roma. "Qui lo Stato però non si è visto, questo governo è inesistente", denuncia Polidori, che è anche assessore alla Polizia Locale, Sicurezza e Protezione civile nel capoluogo del Friuli-Venezia Giulia. "Il comune di Trieste – ci dice al telefono - non ha più la possibilità di accogliere nessuno". Il punto, sottolinea il numero due di Roberto Dipiazza, è che "gli arrivi continueranno mentre qui non ci sono più posti disponibili nei centri di accoglienza". "So per certo che in Bosnia si stanno muovendo molte persone, la rotta balcanica ormai viene privilegiata anche rispetto a quella del Mediterraneo centrale, perché è più sicura", continua Polidori. La prova, secondo l’assessore, è che tra i migranti "molti sono di nazionalità tunisina e algerina". "I minori non accompagnati, prevalentemente kosovari o albanesi, dobbiamo tenerli qui per legge, ma non abbiamo più posti dove sistemarli per fare osservare loro il periodo di quarantena obbligatorio", ci spiega. Tra le soluzioni al vaglio della giunta c’è quello di sistemare delle tende per ospitarli. Ma il costo di un’operazione del genere, denuncia Polidori, sarebbe insostenibile in questo momento per le casse del Comune. "I militari inviati da Roma si limitano ad intercettare i migranti, ma non possono respingerli alle frontiere – incalza – il governo dovrebbe almeno farsi carico di chi arriva nel nostro Paese e non lasciare tutto sulle spalle dei sindaci". "Se gli ingressi continuano a questo ritmo potremmo non essere più in grado di gestire la situazione con le nostre risorse", avverte Polidori. Il rischio, secondo l’assessore, è che tra qualche settimana decine di profughi possano trovarsi a "girare per la città senza nessun controllo, mettendo a repentaglio gli sforzi fatti nei mesi scorsi per contenere il virus, visto che transitano da Paesi in cui si sta diffondendo l’epidemia". L’allarme arriva anche dai principali sindacati di polizia. Ieri il Sap denunciava un organico "fortemente inadeguato alla situazione attuale". "Così non si può reggere a lungo", mette in guardia Domenico Pianese, segretario del Coisp, che denuncia la mancanza di "veicoli dedicati al trasporto dei migranti" e di "strutture idonee in cui collocarli". Da settimane gli agenti sono chiamati ad "un continuo contatto con persone provenienti da altre nazioni, per le quali sarebbero previste due settimane di quarantena". Senza contare la "difficoltà di reperimento di mascherine FFP2/FFP3 e di occhiali protettivi" per i poliziotti impegnati nel contrasto all'immigrazione illegale. "Se non verranno adottate delle misure di contrasto urgenti ed efficaci, in termini di uomini e mezzi, a Triste la stagione migratoria sarà lunga, faticosa e non priva di rischi", prevede il segretario dell’organizzazione.
Guai grossi a Verona: 100 immigrati su 140 positivi. Ma il governo ne vuol far entrare ancora. Giovanni Trotta mercoledì 15 aprile 2020 su Il Secolo d'Italia. Era ovvio che il business dell’accoglienza agli immigrati avrebbe finito col creare dei guai. Adesso la bomba sanitaria è scoppiata anche a Verona. Come riferisce la rivista Il Primato nazionale, i centri di accoglienza e similari sono delle vere e proprie bombe a orologeria per lo svilupparsi del contagio da coronavirus, ma anche da altre malattie di cui i clandestini sono portatori. Non bastavano i casi di Milano, di Gorizia, del Selam Palce e di Torre Maura di Roma, adesso scoppia un caso anche a Verona. Solo che questo è di dimensioni colossali.
Gli immigrati non vogliono rispettare la quarantena. E’ successo al centro d’accoglienza per richiedenti protezione internazionale e minori in Zai a Verona, situato nell’edificio dell’hotel Monaco, in via Torricelli. A quanto si apprende, sono 100 su 140 “ospiti” gli stranieri positivi al coronavirus. La prefettura ha ordinato il presidio permanente della struttura a opera della Polizia. All’inizio del mese un pakistano era stato portato all’ospedale con forte febbre. Al tampone era risultato positivo, seguito subito dopo da tutti gli altri. Tra l’altro, come succede in tutti questi centri di accoglienza, gli immigrati vogliono uscire e rientrare liberamente, non capendo che esistono delle leggi e delle disposizioni. A quanto si apprende, non solo il personale della struttura, ma anche tutti gli immigrati sono stati dotati di dispositivi di protezione, mascherine, guanti, etc. Il problema principale sembra ancora una volta essere quello di convincere gli immigrati, che sono tutti giovani, a non uscire e a rispettare le disposizioni, ma non ne vogliono sapere. Ora si sta valutando di spostare i negativi, ossia i sani, in un’altra struttura, prima che si contagino. Ma rimpatriarli tutti?
Ma il governo continua a voler “salvare” tutti…La responsabilità di quella che potrebbe essere una catastrofe sanitaria ricade ancora una volta sul governo, che continua a voler accogliere a tutti costi clandestini che arrivano le navi delle ong. Gli immigrati infatti in queste strutture, siano alberghi, ostelli o cantainer, vivono e dormono a ridosso l’uno dell’altro, e il contagio è inevitabile. Come si è visto. Queste strutture di accoglienza non hanno mai badato troppo a igiene e sicurezza, preoccupate come sono di stipare più gente possibile. Più ospiti, più contributi. Insomma, un brodo di coltura ideale per il Covid-19. Diciamo anche che molti di questi immigrati fanno i rider, ossia consegnano merce a domicilio…
Antonio Massari per il “Fatto quotidiano” il 14 aprile 2020. L'Italia controlla la sua zona di ricerca e soccorso. Malta fa altrettanto. Il tutto sul presupposto che la pseudo guardia costiera libica stia controllando la sua. Nell' ultima settimana dalle coste libiche sarebbero partite un migliaio di persone. Una cifra impossibile da verificare. Di certo, invece, c' è che almeno quattro barconi sono finiti in avaria nelle ultime 72 ore. E che da 5 giorni l' Italia non è più un porto sicuro, a causa della pandemia, e quindi è vietato lo sbarco di qualsiasi Ong che non sia coordinato dalle autorità italiane. E' il caso della Alan Kurdi, del quale ci occuperemo più avanti. Restiamo ai barconi in avaria. Due sono sbarcati nelle ultime 48 ore in Sicilia: 101 migranti a Pozzallo e 77 a Portopalo. Il terzo (47 persone a bordo) è stato soccorso dalla nave Aita Mari che ieri ha avuto l' ok allo sbarco da Malta. All' appello manca il quarto, con 55 persone, che mentre scriviamo potrebbe essere in acque Sar maltesi. Potrebbe. Nessuno sa dirlo. Ogni stato pattuglia il suo cortile e, come nel caso di Portopalo e Pozzallo, accade che i barconi approdino da soli, se ci riescono, altrimenti affondano senza che nessuno li abbia individuati e soccorsi prima. Una vera e propria roulette. Va precisato che per i barconi sono previste regole diverse da quelle che operano in questo momento per le navi delle Ong. Se Guardia Costiera o Guardia di Finanza li intercettano nelle nostre acque, devono soccorrerle e far sbarcare i migranti, i quali saranno poi sottoposti alla quarantena e alle procedure previste per la salute pubblica. Che approdino da soli, o vengano soccorsi, sotto questo aspetto non cambia nulla. L' unica vera differenza è che se nessuno li intercetta rischiano di morire in mare. Ed è il rischio segnalato dalla Ong Alarm Phone nelle ultime 48 ore: ieri ha dichiarato di aver perso il contatto con uno dei barconi in avaria. Scongiurato invece il naufragio segnalato dalla ong Sea Watch. Secondo la Guardia Costiera italiana e l' agenzia internazionale Frontex, il barcone rovesciato, individuato dalla Sea Watch, era il relitto di un salvataggio andato a buon fine nei giorni scorsi. Resta quindi il dramma di un gommone tuttora alla deriva nel Mediterraneo. I pattugliamenti delle autorità italiane non l' hanno individuato nella nostra area Sar. In teoria potrebbe essere ovunque. "Il tempo sta peggiorando, abbiamo chiamato ancora una volta Malta ma non abbiamo ricevuto risposte. Restiamo in attesa di istruzioni": è uno degli ultimi messaggi lanciati dalla nave che chiedeva anche supporto medico. Ecco un atro messaggio raccolto da Alarm Phone: "Aiutateci, per favore, stiamo affondando - dice disperatamente una donna -. Sono incinta e non sto bene. Mia figlia di 7 anni è molto malata. Non abbiamo cibo né acqua, non abbiamo nulla". Sembra invece a una svolta lo stallo della Alan Kurdi, la nave della Ong tedesca Sea Eye, ferma da sei giorni, con 156 persone a bordo, in acque internazionali a poche miglia da quelle italiane. Il viceministro dell' Interno, Matteo Mauri, ieri ha spiegato: "La possibilità di prevedere la quarantena a bordo di navi attrezzate e con supporto medico per chi arriva garantisce il pieno rispetto dei diritti umani, così come permette di gestire in maniera adeguata l' emergenza sanitaria nell' interesse di tutti". Il capo della Protezione Civile Angelo Borelli ha già firmato il provvedimento di quarantena in mare, su richiesta della ministra delle infrastrutture Paola De Micheli. E mentre scriviamo sembra ormai accertato che i 156 migranti a bordo saranno trasferiti sulla nave "Azzurra" della compagnia Gnv individuata dal governatore siciliano Nello Musumeci. Sul fronte della polemica politica non perde l' attimo Matteo Salvini: "Appello urgente di sinistra e 5 Stelle per porti aperti: foto ricordo" scrive su Facebook, postando un collage con le foto di esponenti del Pd, LeU e M5S . "Capisci che Salvini è in difficoltà - commenta Erasmo Palazzotto (LeU) - quando, dopo mesi di propaganda fallimentare sul coronavirus, torna con la solita lagna sui migranti. E non perché preoccupato per le loro sorti, no. Ma perché deve raccattare consenso sulla loro pelle".
La rabbia di Casarini: “Con i porti chiusi piangeremo nuovi morti in mare”. Angela Stella de il Riformista l'11 Aprile 2020. Mentre scriviamo la nave Alan Kurdi, della Ong tedesca Sea-Eye, è bloccata nel Mediterraneo con 150 persone a bordo salvate in diverse operazioni. I governi italiano e maltese hanno negato l’autorizzazione allo sbarco. I porti italiani, infatti, fino alla fine dell’emergenza Covid-19 non hanno più il requisito di Place of Safety (Luogo sicuro), necessario per lo sbarco dei migranti soccorsi. Lo ha stabilito, ricordiamo, un decreto del 7 aprile scorso dei ministeri Infrastrutture e Affari Esteri, di concerto con i dicasteri Sanità e Interno. Per commentare quanto disposto abbiamo raccolto il parere di Luca Casarini, Capo Missione di Mediterranea Saving Humans».
L’emergenza sanitaria giustifica questo decreto?
«Se da un lato, nella premessa, c’è una grande prolusione di motivazioni che richiamano le convenzioni internazionali sul soccorso in mare, dall’altro lato poi vengono smentite da quello che è stato deciso nel solo articolo 1. Ciò rappresenta un primo punto di fragilità giuridica del decreto: nessuna emergenza può limitare alcuni principi delle convenzioni internazionali sottoscritte peraltro dall’Italia perché hanno valore costituzionale. È come dire che l’emergenza sanitaria sta giustificando la non applicazione della Costituzione. Per non essere così ci vorrebbe una decisione presa in Parlamento e non un decreto».
Proprio l’articolo 1 prevede che i nostri porti non sono luoghi sicuri “per i casi di soccorso effettuati da unità navali battenti bandiera straniera”. Può spiegare?
«Chiedo retoricamente: siamo un Place of Safety a intermittenza? Qual è la discriminante? L’emergenza sanitaria o è la bandiera che batte la nave? È evidente che è la seconda! Ciò è illegale, illegittimo, incostituzionale; è come se dicessimo che una ambulanza targata Milano non può entrare in ospedale, quella targata Torino sì. Io credo che quando si salvano le persone non si guarda a chi le ha salvate».
Quindi è una decisione più politica che dettata dalla contingenza.
«Sì, si usa la pandemia per scoraggiare il salvataggio in mare. Stiamo poi parlando di numeri assolutamente gestibili, non di un esodo biblico. Sono poche centinaia che riescono con il mare buono a scappare dai lager della Libia. Sull’Alan Kurdi ci sono moltissimi bambini: spero che la nave venga verso le nostre coste perché esiste uno stato di necessità che richiede lo sbarco. Perciò questo decreto è un atto politicamente e culturalmente gravissimo. Nessuno si è ad ora spinto tra gli Stati costieri a dire che a causa del Covid-19 chiudeva i porti a chi veniva salvato. E a breve ci sarà effetto domino: gli altri Paesi faranno come l’Italia. Si tratta di un decreto Minniti 2».
In che senso?
«Lui ha aperto la strada a una egemonia politica e culturale della destra con un accordo stipulato con i trafficanti e le tribù libiche, come comprovato dalla Nazione Unite, dall’Unhcr, da tutte le agenzie internazionali. Noi abbiamo riempito di soldi quei criminali perché tenessero nei loro lager i migranti».
Esattamente due giorni fa anche la Libia ha dichiarato che i suoi porti non sicuri per lo sbarco dei migranti a causa dei bombardamenti e ha rifiutato persino una sua motovedetta con all’interno stipati molti migranti.
«E allora adesso mi chiedo e lo chiedo al Governo: quale sarà il destino delle persone salvate? Devono suicidarsi? A queste persone i civilissimi governi europei stanno dicendo “dovete sparire”».
Quale sarebbe stata una maniera alternativa per gestire la situazione?
«Prevedere la quarantena in tende da campo, per esempio, o a bordo con la dovuta assistenza. Non è possibile pensare che una emergenza finisca perché ce n’è una più grande. Mi rivolgo soprattutto all’opinione pubblica cristiana, visto che siamo alla vigilia di Pasqua: se adesso 200 persone muoiono affogate in mezzo al mare tutti piangeranno, pure i Ministri che hanno firmato il decreto. Ma un Paese che vuole mettere in campo la più grande precauzione, accanto ad un decreto di questo tipo, ne fa un altro in cui prevede che le nostre navi militari vadano fuori per impedire che le persone muoiano in mare».
Francesco Borgonovo per ''la Verità'' il 12 aprile 2020. Pensavamo di cavarcela con poco, ma ci siamo sbagliati. Sapevamo di doverci aspettare, pur in periodo di pandemia, uno spottone pasquale a favore dell' accoglienza. Ma credevamo che l' intervento del cardinale Konrad Krajewski e la sua donazione di 20.000 euro al centro migranti di Vicofaro gestito da don Massimo Biancalani avessero (almeno per un po') risolto il problema. Invece il meglio doveva ancora arrivare. E questa volta si è mosso addirittura papa Francesco in persona. Il pontefice venerdì ha spedito una letterina scritta di suo pugno a un signore che di nome fa Luca Casarini. Sì, l' ex leader delle tute bianche al G8 di Genova, un professionista della protesta che da una ventina d' anni tenta in ogni modo di riciclarsi per non uscire dal cono d' ombra. Da qualche tempo, il nostro rivoluzionario riveste la qualifica di capomissione della nave Mare Jonio, gestita da Mediterranea Saving Humans. Si tratta della Ong fondata da alcuni esponenti di Sinistra italiana (tra cui Nicola Fratoianni ed Erasmo Palazzotto) e inizialmente finanziata grazie a un prestito da 400.000 euro ricevuto da Banca Etica. Tra gli sponsor ci sono personalità come Nichi Vendola, Luigi De Magistris e Leoluca Orlando, associazioni come l' Arci, poi la Cgil e varie altre realtà più o meno antagoniste. In effetti, Mediterranea ha ottimi rapporti con le gerarchie ecclesiastiche, e non da oggi. Sulla Mare Jonio c' è pure un cappellano, il pretino don Mattia Ferrari, che ha ottenuto l' incarico grazie al benestare di due vescovi (quello di Modena Erio Castellucci e quello di Palermo, Corrado Lorefice). Ferrari, già in grande confidenza con gli esponenti di Ya Basta (area centri sociali bolognesi), nei mesi scorsi ha ottenuto grande pubblicità, e ha pure scritto un libro in cui sembrava fare un po' di confusione tra Gesù Cristo e Carola Rackete. A ben guardare, anche il resto dell' equipaggio della Mare Jonio non ha le idee chiarissime sulla questione. Luca Casarini, qualche giorno fa, ha scritto una lettera a papa Francesco in cui spiegava: «Stiamo soffrendo pensando ai nostri fratelli e sorelle che si mettono in mare dalla Libia, anche in questi giorni [...]. Altri 150 sono a bordo di una piccola nave cui i governi d' Europa stanno negando un porto d' approdo. In questa situazione noi vogliamo tornare in mare il prima possibile, perché il nostro Gesù ha bisogno di aiuto». Certo, è Cristo ad aver bisogno dell' aiuto di Casarini, e non - semmai - viceversa. Per altro, quelli di Mediterranea avrebbero potuto prima scrivere al governo, visto che il loro partito di riferimento (Sinistra italiana) lo sostiene e ne fa parte. Comunque sia, Francesco ha deciso di rispondere alla lettera degli attivisti con un biglietto manoscritto: «Luca, caro fratello, grazie tante per la tua lettera», dice il Pontefice. «Grazie per la pietà umana che hai davanti a tanti dolori. Grazie per la tua testimonianza, che a me fa tanto bene. Sono vicino a te a ai tuoi compagni. Grazie per tutto quello che fate. Vorrei dirvi che sono a disposizione per dare una mano sempre. Contate su di me». Così, dopo don Biancalani ci tocca pure Casarini, già indagato nel 2019 per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina poi prosciolto. Ci chiediamo chi sarà il prossimo, ma abbiamo un po' di timore di scoprirlo. Che Bergoglio nutrisse simpatia verso Mediterranea era noto. Non molto tempo fa ha esposto in Vaticano una croce trasparente con un giubbotto di salvataggio donatagli proprio dalla Ong («Quella Croce è del nostro Gesù, quello che viene con noi in ogni missione in mare, quello che ha paura con noi quando il mare è grosso, quello che scruta l' orizzonte cercando chi è solo », ha scritto Casarini). Il punto è che la letterina del Papa ai taxisti del mare ha anche un peso politico, e non secondario. Come noto, da alcuni giorni la nave Alan Kurdi con 150 persone a bordo è bloccata in mare. Il ministro dell' Interno, Luciana Lamorgese, e alcuni suoi colleghi hanno firmato un decreto che «chiude i porti» (e vedremo se saranno indagati per questo). Ma la pressione del Papa di certo non rende agevole proseguire sulla linea dura. E l' idea che, sull' onda dell' emozione, l' Ong ritorni a solcare il Mediterraneo è inquietante. Di caos, dalle nostre parti ce n' è già fin troppo. Gli sbarchi clandestini continuano, Lampedusa e Porto Empedocle sono in enorme difficoltà. A Pozzallo è arrivato un primo migrante infetto. Nei centri di accoglienza, specie al Nord, sono stati individuati altri contagiati. A Roma, nel Selam Palace che ospita circa 600 occupanti irregolari, sono stati trovati 16 positivi, e ieri due bimbi sono stati trasferiti con le madri al Covid Center dell' ospedale Bambin Gesù. Insomma, considerato il quadro, l' idea di far entrare altri stranieri non è esattamente elettrizzante. Diciamo che - se le gerarchie ecclesiastiche avessero chiesto di far ripartire le messe con la stessa convinzione con cui chiedono di accogliere i migranti - a Luca Casarini, per trovare «il suo Gesù», basterebbe andare in Chiesa, invece che in mezzo al mare. Ma forse ai sacerdoti che confondono Carola con Cristo la messa interessa poco.
Lampedusa è al collasso, fermate due ong. Allarme del sindaco per gli sbarchi continui. La Guardia Costiera: irregolari Alan Kurdi e Aita Mari. Fausto Biloslavo, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale. Nuovi sbarchi a Lampedusa e nell'agrigentino, che portano i migranti arrivati dal primo maggio a 604. Oramai sono 4.069 dall'inizio dell'anno rispetto agli 842 dello stesso periodo nel 2019. Ed i costi aumentano a causa della quarantena a bordo di navi ad hoc pagate dallo stato quasi 1 milione e 200mila euro al mese. A Lampedusa sono sbarcati nella notte fra martedì e mercoledì altri 156 migranti. Il sindaco Salvatore Martello ammette che «siamo costretti a lasciarli sul molo Favaloro perché non abbiamo una struttura libera. Ho chiesto di piazzare una nave di fronte al porto». Non sarebbe il caso che una volta al largo vengano trasferiti direttamente sulla terraferma?. Martello spiega che «l'isola è in ginocchio. Come si fa a parlare di ripartenza?». Uno sbarco fantasma è avvenuto ieri sulla spiaggia di Torre Salsa in provincia di Agrigento. Circa cinquanta migranti si sono dileguati e le forze dell'ordine ne hanno intercettati una trentina. Una nuova per la quarantena arriverà di fonte a Pozzallo. La seconda dopo il traghetto Rubattino che ha ospitato 182 clandestini raccolti in mare dalle Ong in aprile. Per i primi 15 giorni sarebbe costata un milione di euro, oltre 350 euro al giorno a persona. Il senatore di Fratelli d'Italia, Patrizio La Pietra, ha presentato un'interrogazione al governo sulle spese. Il bando che scadeva il 24 aprile prevedeva un «importo complessivo stimato pari ad euro 1 milione 199mila 250 euro oltre Iva» stabilendo «una durata di trenta giorni dalla data di avvio dell'esecuzione del contratto, salvo proroghe». E fra i vari servizi erano richiesti «cabine singole con bagno, pasti etnici, connessione wi-fi, regolamenti tradotti in almeno dieci lingue». Al largo di Lampedusa è sempre in attesa il mercantile Marina con 78 migranti a bordo. L'Ong tedesca Sea Watch coinvolge pure noi con la solita tattica pietista: «L'armatore ci racconta che le persone soccorse dormono sul ponte, il cibo scarseggia e l'equipaggio è allo stremo. Malta, porto di destinazione, e Italia, più vicina, continuano a non cooperare, negando l'approdo». E da ieri un altro natante è alla deriva con 46 migranti partiti dalla Libia comprese donne in gravidanza e tre bambini. Alarm phone, il centralino dei migranti, intima il soccorso. Un aereo della missione europea di Frontex ha sorvolato i naufraghi e ieri sera era in zona una motovedetta maltese. Nella speranza di tamponare l'ondata di arrivi per l'estate, la Guardia costiera ha sottoposto a «fermo amministrativo» l'Alan Kurdi, che aveva portato in Italia 149 migranti poi trasbordati sul traghetto Rubattino per la costosa quarantena. «L'ispezione ha evidenziato diverse irregolarità di natura tecnica e operativa tali da compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi ma anche delle persone che sono state e che potrebbero essere recuperate a bordo», ovvero i migranti, si legge in una nota della Guardia costiera. Un'altra ispezione, con conseguente «fermo amministrativo», ha riguardato l'Aita Mari della Ong basca «Salvamento Maritimo Umanitario», che in aprile ci aveva portato altri migranti. Insomma, tutte le navi delle Ong verranno ispezionate e i talebani dell'accoglienza protestano, come ha fatto Sea Eye, per le «molestie» e gli «abusi di autorità» messi in atto dalla Guardia costiera italiana su input del governo di Roma. Ma, sempre i talebani dell'accoglienza, stanno rafforzando la flotta. I tedeschi di Sea Watch hanno raccolto 1 milione mezzo di euro. A Burriana, in Spagna, stanno ultimando i lavori di Poseidon, ribattezzata Sea Watch 4 e definita «la nave più attrezzata del Mediterraneo». La nuova ammiraglia dei «talebani» potrebbe salpare a breve.
Nuovo sbarco di migranti in Sicilia, in 100 sono approdati a Pozzallo. Al momento appare molto difficile capire dove poter mandare i migranti, visto che il locale hotspot è stato chiuso dopo il primo caso di positività riscontrato nei giorni scorsi. Mauro Indelicato, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Sono 100 i migranti sbarcati in questo giorno di Pasqua a Pozzallo, nel ragusano. Si tratta di un ennesimo approdo autonomo avvenuto in Sicilia negli ultimi giorni, che ha messo ulteriormente in allarme cittadini ed autorità. Il mare calmo sta favorendo una ripresa dei flussi migratori, con numeri che, seppur ancora modesti, ad ogni modo non possono non preoccupare in relazione all’attuale emergenza coronavirus. Infatti, anche un singolo sbarco rischia di mettere in seria difficoltà, sotto il profilo logistico e della sicurezza, forze dell’ordine e soccorritori. I migranti sarebbero arrivati in modo autonomo a Pozzallo, anche se alcune fonti locali non hanno escluso la presenza di una nave madre da cui il barcone con 100 persone a bordo si è poi staccato. Inizialmente si era diffusa la notizia che i migranti fossero una quarantina, in realtà poi è stato confermato che all’interno del piccolo mezzo navale erano presenti almeno 100 persone. Nessuno è stato al momento fatto sbarcare. Questo perché proprio a Pozzallo nei giorni scorsi si è verificato il primo caso di migrante trovato positivo al Covid-19. Si trattava di un egiziano arrivato a Lampedusa nei giorni precedenti e, in seguito, portato nell’hotspost cittadina ragusana. A seguito di questo episodio, la struttura è stata chiusa e dunque attualmente non si sa dove poter traferire i cento appena arrivati. Una situazione che sta creando non pochi grattacapi, anche perché andare ad individuare strutture idonee in Sicilia appare molto difficile visto che tutte devono poter far mantenere il distanziamento sociale. Il nuovo sbarco di Pozzallo dunque, sta ponendo drammaticamente in primo piano ancora una volta l’emergenza relativa all’immigrazione, che potrebbe creare ulteriori problemi alla più grave emergenza sanitaria in atto in Sicilia, così come in tutto il nostro territorio nazionale. Soltanto nelle prossime ore sarà possibile sapere quale soluzione verrà trovata per i cento appena sbarcati, ma più in generale adesso l’allarme potrebbe riguardare anche quanto accadrà nelle prossime settimane. Intanto sull’ultimo episodio registrato in Sicilia, si è registrato l’intervento anche del leader della Lega, Matteo Salvini: “Italiani chiusi in casa, immigrati già arrivati in Sicilia col virus – ha dichiarato l’ex ministro dell’interno – e, anche oggi, clandestini liberi di sbarcare. Basta!”. Le parole del segretario del carroccio sono state pronunciate sui social a margine proprio delle notizie arrivate, in questa mattinata della domenica di Pasqua, da Pozzallo. Quando avvenuto nel ragusano non mancherà di accendere ancora una volta dibattiti e polemiche sull’immigrazione.
Il virus ora corre negli hotspot. E in Sicilia si teme l'invasione. Cresce la preoccupazione sui possibili contagi dopo il caso del migrante positivo al Covid-19 nell'hotspot di Pozzallo. La Procura di Ragusa nel frattempo ha aperto un'inchiesta contro ignoti, mentre il governatore siciliano Nello Musumeci ha chiesto al governo centrale una nave ormeggiata in rada per la quarantena dei migranti. In isolamento fiduciario diversi poliziotti venuti in contatto con i migranti durante le operazioni di identificazione. Mauro Indelicato e Sofia Dinolfo, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Diviene sempre più imminente il rischio di contagi da coronavirus in Sicilia a causa dell’arrivo dei migranti provenienti dalle coste Nord africane. È stata Pozzallo venerdì mattina la prima città a trovarsi di fronte a questo incubo. Un migrante egiziano di 15 anni, arrivato ieri dentro la struttura dell’hotspot è risultato positivo al Covid-19. Durante i controlli sanitari è emerso che il giovane aveva la febbre a 38, motivo per il quale il personale sanitario operante dentro il centro di accoglienza ha chiesto che venisse sottoposto al tampone. Stamane è arrivata la notizia che annunciava la positività al virus. Inutile a dirsi non sono mancate le preoccupazioni di fronte al primo caso di emergenza sanitaria all’interno di un hotspot. Una situazione molto delicata e allo stesso tempo complicata da gestire per garantire la sicurezza e l’incolumità di tutti. I migranti sono stati tutti assieme durante questi giorni e, nel frattempo, il rischio che il giovane possa aver contagiato gli altri, rimane abbastanza elevato. Il gruppo di migranti di cui fa parte il 15enne sarebbe arrivato tre giorni fa a Lampedusa, poi mercoledì sera, il trasferimento a Porto Empedocle, nell’agrigentino, ed infine a Pozzallo. Dunque sono tre i porti che in queste ore si sono trovati a gestire l’accoglienza degli extra comunitari. Questo vuol dire che il virus avrebbe viaggiato assieme al ragazzo in queste tre tappe con il rischio di contagio non solo nei confronti degli altri migranti, ma anche nei confronti delle forze dell’ordine e del personale sanitario che in queste fasi hanno assistito ed identificato ogni arrivato (in totale cinquanta persone). Da Lampedusa, prima di arrivare a Pozzallo, i migranti sono stati identificati dalle forze dell’ordine a Porto Empedocle. Dunque l’esito positivo al test sul coronavirus, arrivato nelle prime ore di questa mattina, ha gelato tutti gli operatori di polizia che mercoledì sera hanno lavorato per l’identificazione e il trasferimento di questi soggetti nell’hotspot ragusano. Gli agenti di polizia, secondo alcune fonti, sono al momento in isolamento domiciliare fiduciario in attesa di sapere quando verranno sottoposti al test. Fra loro l’apprensione è tanta dal momento che in molti vivono in casa con la propria famiglia. Nel frattempo il primo cittadino di Pozzallo non si è sottratto dal reclamare le attenzioni che un caso del genere necessita, allo scopo di garantire l’incolumità alla propria cittadinanza ma anche a tutte le persone che si trovano coinvolte in questa situazione. Stamattina il sindaco Ammatuna aveva annunciato che avrebbe chiesto una relazione sanitaria da parte dei responsabili dal centro di provenienza del migrante, senza escludere un eventuale esposto alla procura della Repubblica per accertare possibili responsabilità. Ora è arrivata la notizia che la procura di Ragusa ha aperto un’inchiesta contro ignoti. Le ipotesi di reato sono quelle di epidemia colposa e omissione di atti d’ufficio. A seguire le indagini i carabinieri della stazione di Pozzallo. L’episodio di Pozzallo sta ancora una volta ricordando alla Sicilia cosa vuol dire essere al centro del Mediterraneo. Alcune volte è un vanto, altre volte una vera e propria sciagura. L’isola si è riscoperta vulnerabile quando è esplosa l’epidemia di coronavirus nel nostro Paese, i suoi cittadini hanno iniziato a temere l’esodo delle persone provenienti dalle regioni settentrionali. Ed ora che il Covid-19 appare meno pericoloso che altrove ed i collegamenti con il nord fortemente ridimensionati, i siciliani potrebbero guardarsi da sud. Un paradosso che il caso di positività all’interno dell’hotspot di Pozzallo ha fatto ben emergere in tutta la sua drammaticità. E lo ha sottolineato lo stesso presidente della Regione, Nello Musumeci: “C'è il fondato timore che nelle prossime settimane, favoriti dal bel tempo, possano registrarsi sulle coste siciliane consistenti sbarchi autonomi di migranti – ha dichiarato nelle scorse ore il capo della giunta regionale – Chiedo perciò al governo nazionale di intervenire con tempestività per evitare che la incontrollata gestione del triste fenomeno possa determinare tra la popolazione dell'Isola l'acuirsi di un clima di tensione già abbastanza alto”. A Lampedusa nei giorni scorsi la popolazione ha manifestato tutta la sua insofferenza dopo lo sbarco dei migranti avvenuto martedì: diversi cittadini sono scesi in strada, chiedendo interventi urgenti dopo che alcuni ospiti del locali hotspot sono stati notati in giro per il centro urbano. Una situazione che ha rischiato di animare ulteriormente gli animi: “Noi siamo in quarantena e i migranti passeggiano”, hanno sottolineato diversi cittadini esasperati. Ed il pensiero dei lampedusani, potrebbe essere presto anche quello di molti siciliani se gli sbarchi dovessero nuovamente intensificarsi. La sensazione latente è quella di essere prossimi ad una vera e propria beffa: dopo aver bloccato gli arrivi dal nord ed in alcuni casi anche denunciato persone scese in Sicilia dal nord Italia, adesso il virus potrebbe entrare sull’isola tramite chi viene dalle sponde opposte del Mediterraneo. I sindaci hanno iniziato a levare la voce: lo ha fatto ad esempio Totò Martello, primo cittadino di Lampedusa, che ha chiesto una nave dell’accoglienza all’interno del porto. Questo pomeriggio invece il sindaco di Porto Empedocle, Ida Carmina, ha firmato un’ordinanza con la quale ha sancito il divieto di sbarco e di transito ai migranti, per tutta la durata dell'emergenza sanitaria Covid-19 nel territorio. L’ordinanza è stata trasmessa al ministro dell'Interno, al prefetto e al questore di Agrigento, al governatore siciliano e alle forze dell'ordine. "Per l'intero periodo di durata dell'emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus Covid-19- si legge nel documento-il porto di questa Città di Porto Empedocle non assicura i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (luogo sicuro), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, sulla ricerca e il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell'area Sar italiana". E' vietato pertanto-prosegue l’ordinanza- lo sbarco ed il transito di qualsivoglia migrante, attesa l'impossibilità di individuare la possibile insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, con particolare riferimento al Covid-19". E lo stesso Musumeci, ha chiesto un rapido intervento al governo nazionale: “Gli hotspot di Lampedusa e Pozzallo e la struttura di Porto Empedocle appaiono chiaramente insufficienti ad assorbire la nuova ondata di arrivi – ha scritto il presidente della Regione in una lettera inviata a Giuseppe Conte – dando vita, peraltro, ad una promiscuità,sul piano sanitario, assai pericolosa per gli stessi ospiti e per gli operatori”. Ed anche Musumeci, come il sindaco di Lampedusa, ha auspicato una nave ormeggiata in rada “in cui trattenere i migranti per la necessaria quarantena, prima di essere ricollocati nei Paesi membri dell'Ue”. C’è poi un altro aspetto del paradosso siciliano di queste ore, che rispecchia forse quella che è la paura maggiore non solo sull’isola ma anche nelle altre regioni per quanto riguarda l’immigrazione. Ossia il forte timore di dover disperdere forze ed energie da impiegare nel contrasto al coronavirus per concentrarsi sugli sbarchi. Ogni singolo approdo, implica l’uso di forze di soccorso e di sicurezza da distrarre all’emergenza Covid. Con il rischio per giunta di rimanere infetti o di entrare a contatto con migranti contagiati. È questo uno dei motivi che ha spinto nei giorni scorsi il governo a dichiarare “non sicuri” i porti italiani, chiudendo di fatto all’accoglienza di navi con a bordo migranti. Ma se in questa maniera si sono blindati i porti soprattutto alle Ong, il problema relativo agli sbarchi autonomi non appare affatto risolto. Ed anzi, barconi e gommoni sono continuati ad arrivare negli ultimi giorni, con tutti i rischi sanitari e logistici connessi. Una pessima notizia per una Sicilia ed un’Italia ancora ben lontane dalla vittoria definitiva contro il coronavirus.
Coronavirus, positivo uno dei migranti arrivati con uno sbarco autonomo a Lampedusa. Aperta inchiesta per epidemia colposa. Il ragazzo, quindicenne, nel frattempo è stato trasferito nell'hotspot di Pozzallo insieme ad altre 50 persone. Il governatore Musumeci a Conte: "Subito una nave per la quarantena davanti l'isola". Alessandro Ziniti il 10 aprile 2020 su La Repubblica. E' risultato positivo uno dei 50 migranti arrivati tre giorni fa a Lampedusa con uno sbarco autonomo e poi trasferito, prima in nave e poi in autobus, nell'hotspot di Pozzallo. E' un ragazzo di 15 anni egiziano. E ora l'allarme è alto. Con i sindaci di Lampedusa e Pozzallo e adesso anche il presidente della Regione Musumeci che chiedono al governo di approntare immediatamente una nave per la quarantena che stazioni davanti Lampedusa per ospitare gli eventuali migranti che dovessero arrivare in autonomia, senza farli scendere. Cosa abbastanza plausibile visto il bel tempo previsto e la ripresa delle partenze testimoniata anche dai due salvataggi operati dalla nave Alan Kurdi della ong tedesca Sea eye che vaga ancora chiedendo un porto di sbarco che nè l'Italia ( che ha dichiarato i suoi porti non sicuri per l'epidemia) nè Malta intendono concedere. "Nella notte - dice il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna - sono stato informato che uno dei 50 migranti presenti nell'hotspot è risultato positivo al coronavirus. Il tampone era stato eseguito prontamente dal medico responsabile dell'hotspot perchè ai controlli sanitari si evidenziava una temperatura di 38 gradi circa. Ho chiesto un incontro in prefettura per stabilire il da farsi". Il sindaco di Pozzallo chiede urgentemente una relazione sanitaria e non esclude un eventuale esposto in procura "per accertare eventuali responsabilità". Ammatuna chiede anche una ispezione da parte dell'assessorato regionale alla salute. "Bisogna capire bene se il migrante in questione sia stato visitato in modo approfondito prima della partenza - dice il primo cittadino -. È questa una vicenda oscura che richiede una precisa ed inevitabile chiarezza. La comunità pozzallese, che da sempre ha svolto un compito umanitario che è riconosciuto da tutti, non può essere tradita in questo modo. Difenderemo gli interessi della città in tutte le sedi e con tutti gli strumenti che la legge ci consente. In ogni caso, l'hotspot deve essere completamente blindato e isolato e nessun rapporto deve esserci con la città". E la Procura non ha atteso l'esposto del sindaco e ha già aperto un fascicolo di inchiesta contro ignoti delegando le indagini ai carabinieri della stazione di Pozzallo. Oggetto dell'inchiesta è ricostruire la vicenda che riguarda le operazioni di trasferimento del giovane che sarebbe arrivato a Lampedusa tre giorni fa con uno sbarco autonomo e che ieri mattina sarebbe stato trasferito assieme ad una cinquantina di altri migranti, all'hotspot di Pozzallo con un pullman da Porto Empedocle. Le ipotesi di reato contemplate sono quelle di epidemia colposa e omissione d'atti d'ufficio.
Fabio Albanese per ''la Stampa'' l'11 aprile 2020. Alle 8 di ieri mattina, il timore di tanti sindaci siciliani in prima linea nell' accoglienza ai migranti è diventato realtà: un profugo egiziano di 15 anni, arrivato nella notte tra mercoledì e giovedì nell' hotspot di Pozzallo assieme ad altre 49 persone, è risultato positivo al Covid-19. Già al suo arrivo nella struttura, il ragazzo era stato isolato e alloggiato in ambienti separati. Ieri però è scattato l' allarme in tutto l' hotspot, ma anche a Porto Empedocle e a Lampedusa, e pure sul traghetto che collega la principale isola delle Egadi con la Sicilia, e sono partite inchieste, sanificazioni, quarantene. Perché, prima di entrare nella struttura di Pozzallo, il giovane migrante e i suoi compagni hanno viaggiato per ore. Il quindicenne faceva parte di un gruppo di 67 migranti arrivato con una barca autonomamente a Lampedusa martedì sera. Non si poteva trasferirli nell' hotspot di contrada Imbriacola dove c' erano già da un paio di giorni 37 migranti in quarantena. Così, finiti i controlli sanitari, sono rimasti sul molo Favaloro fino all' indomani quando in cinquanta, e tra loro il ragazzo, sono stati imbarcati sul traghetto per Porto Empedocle. Allo sbarco ci sarebbe stato un secondo controllo sanitario prima che i cinquanta, divisi in due gruppi da 25, salissero su due pullman con destinazione Pozzallo, nel Ragusano. Sarebbe stato lungo quel tragitto che il ragazzo ha accusato alcuni sintomi tipici del Covid-19: febbre alta e una forte congiuntivite. Per questo, al suo arrivo è stato subito isolato, una stanza e un bagno in una zona separata, e gli è stato fatto il tampone. Tutti sono stati posti in quarantena, un' ordinanza del Comune ha isolato l' hotspot. Il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, che è anche un medico, è però perplesso: «Questo tipo di patologia non si sviluppa certo in tre ore, quante ce ne vogliono per fare il tragitto da Porto Empedocle», osserva. E, per questo, ha scritto subito alle procure di Ragusa e Agrigento e anche all' assessore regionale alla Salute: «È un problema sanitario, però, non di burocrazia». Un altro sindaco, quello di Lampedusa Totò Martello, è invece convinto che sulla sua isola il giovane egiziano non avesse alcun sintomo, come affermato anche dal medico del poliambulatorio che ha diretto i controlli al molo Favaloro: «Qui quel ragazzo è stato si e no 12 ore - precisa Martello - non ha avuto contatti con nessuno, se non con i suoi compagni di viaggio e con coloro che li hanno accompagnati, peraltro ben protetti». Mercoledì scorso sotto le finestre del Comune si erano presentate alcune decine di lampedusani arrabbiati perché in paese erano stati notati tre migranti di un precedente sbarco che invece avrebbero dovuto trovarsi in quarantena nell' hotspot. Sull' isola non ci sono casi di contagio e la paura, sommata alla forte preoccupazione per il futuro economico fosco in un' isola che vive di turismo, ha esacerbato gli animi. Martello vorrebbe che davanti a Lampedusa venisse ancorata una nave su cui far fare la quarantena ai migranti in arrivo che, si teme, viste le avvisaglie aumenteranno nelle prossime settimane. Proposta sposata anche dal governatore della Sicilia Musumeci che ha scritto al premier Conte. Per ora, c' è l' inchiesta contro ignoti aperta dalla procura di Ragusa per verificare eventuali omissioni o errori nelle procedure, e quella amministrativa della prefettura di Agrigento per identificare tutti coloro che sono potuti entrare in contatto con il ragazzo e metterli in isolamento fiduciario: poliziotti, sanitari, volontari, autista del pullman e chissà chi altro.
Ora è rischio focolaio nel palazzo "bomba" dei migranti: sedici positivi al coronavirus. Il palazzo occupato alla periferia Est della Capitale, dove vivono circa 600 migranti, è presidiato da Esercito e Protezione civile. Salgono a sedici i casi di positività al coronavirus tra gli stranieri che vivono all'interno dell'edificio. Cristina Verdi, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. La più grande occupazione romana di richiedenti asilo da giorni è presidiata dall’Esercito. Davanti al palazzo di via Attilio Cavaglieri, alla Romanina, che ospita oltre 600 richiedenti asilo ieri la Protezione civile ha montato una tenda per il triage dove fino a qualche giorno fa erano ammassate montagne di rifiuti. L’ex sede della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Tor Vergata, occupata dal 2006, da due giorni è sorvegliata speciale dopo che una coppia di sudanesi, poi risultati entrambi negativi, aveva mostrato i sintomi del coronavirus. Sugli occupanti sono stati fatti tamponi a tappeto. E poco fa la Regione Lazio ha comunicato che sedici persone sono risultate positive ai test. I contagiati sono stati allontanati dal plesso e sono stati posti in regime di isolamento in strutture dedicate. L’obiettivo delle autorità è quello di evitare che la cittadella dei migranti, dove vivono anche decine di bambini ed anziani, si trasformi in un pericoloso focolaio. Ma ora il rischio si fa davvero concreto, considerando il sovraffollamento della struttura e i servizi igienici in comune, che vengono utilizzati da decine di persone. Osservare le regole di distanziamento sociale che servono a contenere il contagio, insomma, è praticamente impossibile.
Il Selam palace isolato dall'esercito: screening a tappeto sui migranti. La zona è stata prontamente isolata, con il blocco degli accessi e delle uscite. Una misura che sembra essere stata accolta di buon grado, finora, dagli stessi occupanti. Ad assicurare la sicurezza ci sono i militari, mentre la Regione e la Asl competente si stanno occupando di indagare per capire come abbia fatto il virus ad entrare nel palazzo dei "dublinanti". Per ora, secondo il Corriere della Sera, sembra che gli spostamenti dei migranti siano stati limitati. Nella zona della Romanina, infatti, non si registrano altri casi, oltre quelli circoscritti nell’occupazione. Il Comune di Roma ieri ha consegnato oltre 150 pacchi alimentari alle persone in isolamento. A consegnare i pasti ci sono anche i volontari di diverse associazioni. La scorsa settimana anche l’elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewsky, aveva visitato il palazzo occupato per distribuire disinfettanti, guanti, mascherine, gel igienizzanti, candeggina, saponi e asciugamani agli ospiti. A garantire assistenza ora c’è anche un presidio h24 degli uomini della protezione civile e i volontari dell'associazione Cittadini del Mondo, anche se le condizioni igieniche all’interno della struttura restano preoccupanti. Al momento, però, nessuno vuole sentir parlare di sgombero. Un’opzione, questa, che viene presa in considerazione soltanto come estrema ratio, nel caso in cui il numero di contagiati e dei ricoverati dovesse aumentare nelle prossime ore, man mano che arriveranno i risultati dei test. L’eventualità di liberare l’edificio, che già figurava nella lista di quelli che dovevano essere sgomberati a partire da questa primavera, per ora non è contemplata, quindi, per "motivi di sicurezza sanitaria".
Chiara Giannini per “il Giornale” il 9 aprile 2020. Il governo non farà più sbarcare migranti, almeno sulla carta, visto che i ministri Paola De Micheli (Infrastrutture e trasporti), Luigi Di Maio (Esteri) e Luciana Lamorgese (Interno) hanno firmato un decreto che non rende più l' Italia un porto sicuro per la durata dell' emergenza Covid-19. Ma è un controsenso, visto che i barconi continuano a sbarcare a Lampedusa, dove sale la protesta dei cittadini, esasperati perché così si potrebbero mettere a rischio le loro vite. Nel documento firmato dai tre ministri si legge che «i porti italiani non assicurano» più «i necessari requisiti per la dichiarazione e definizione di place of safety». Ecco perché le «attività assistenziali possono essere assicurate dal Paese di cui le unità navali battono bandiera laddove abbiano condotto le operazioni al di fuori dell' area Sar italiana». È il caso della tedesca Alan Kurdi, della Ong Sea Eye, che ha chiesto nelle scorse ore sia al nostro Paese che a Malta un porto di sbarco. Ma le autorità nazionali hanno intimato alla Germania di accollarsi la responsabilità. Nonostante i divieti, però, a Lampedusa gli sbarchi autonomi non si fermano. In due giorni sono arrivati quasi 200 immigrati, di cui 124 nelle ultime 24 ore. Di questi 150 ieri sono stati portati ad Agrigento, ma l' isola non riesce più a contenere l' emergenza. Già altri tre barconi sono stati segnalati alla Guardia di finanza, che sta monitorando il loro tragitto. Ma Medici senza Frontiere e le Ong Sea Watch, Open arms e Mediterranea contestano la chiusura dei porti: «Il decreto di fatto strumentalizza l' emergenza sanitaria» per bloccare gli sbarchi. Il sindaco di Lampedusa e Linosa, Totò Martello, ha chiarito: «Serve una nave dell' accoglienza ormeggiata di fronte al porto dell' isola: in questo momento credo sia l' unica soluzione possibile per evitare che altri migranti stazionino sull' isola dove non c' è più spazio per la loro permanenza». Per lui «non è possibile ospitare altri migranti poiché sull' isola non ci sono strutture adeguate, ma non è neppure possibile pensare di lasciare questa gente a tempo indeterminato sul molo Favaloro in attesa del trasferimento. Se ci fosse una nave qui di fronte - aggiunge - i migranti potrebbero essere intercettati già prima di arrivare sull' isola». Ieri i cittadini di Lampedusa si sono riuniti di fronte al Municipio per protestare. Alcuni degli sbarcati erano infatti in giro per l' isola. Il sindaco ha però assicurato che non usciranno dal «molo Favaloro» e che le persone sono state assistite «e visitate dai medici». Alcune fonti riferiscono, invece, che a Lampedusa non ci sarebbero associazioni di volontariato che controllano i migranti. Sulla questione è intervenuta anche la leader di Fratelli d' Italia Giorgia Meloni: «Mentre all' Eurogruppo la Germania cerca di mettere il cappio al collo all' Italia con il Mes, la nave Alan Kurdi, con a bordo una organizzazione non governativa tedesca, la Sea Eye, continua a pretendere di sbarcare immigrati clandestini a casa nostra. Li va a prendere in acque territoriali libiche e punta verso Lampedusa - ha scritto -, dove la situazione è critica perché non c' è più spazio per tenere in quarantena gli immigrati che sbarcano sul territorio nazionale. Per cui in piena emergenza coronavirus, mentre noi teniamo segregati in casa gli italiani, qualcuno pretende che apriamo le porte a gente che arriva da territori nei quali non c' è alcun tipo di controllo. La misura della nostra pazienza è colma: caro governo tedesco ridacci i soldi che abbiamo messo nel fondo salva-Stati con i quali pretendi di salvare le banche tedesche e riprenditi gli immigrati clandestini che le tue organizzazioni non governative pretendono di sbarcare».
Il 40 per cento dei buoni pasto finirà in tasca agli immigrati. Antonella Aldrighetti, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. La solidarietà del governo giallorosso ancora una volta strizza l'occhio ai cittadini extracomunitari iscritti nelle anagrafi comunali. Infatti stando agli ultimi dati diffusi dai Caf (Centri di assistenza fiscale) la popolazione più in linea con i requisiti per incassare il voucher per la spesa alimentare è proprio quella straniera, che secondo stime prudenti è tra il 30 e il 40% di tutti gli aventi diritto, scremando chi percepisce reddito o pensione di cittadinanza senza essere italiano. Per semplificare le procedure per richiedere il voucher le grandi città (Milano, Bologna, Torino, Roma, Bari, Napoli, e Reggio Calabria), si sono affidate a uno strumento tanto semplice quanto facile da usare in modo fraudolento: l'autocertificazione. Ciascun iscritto all'anagrafe, compresi i richiedenti asilo, potrà compilare a partire da questa mattina un modulo e inviarlo via posta elettronica o fax, specificare le proprie credenziali al numero di telefono dedicato e precisare se vorrà ricevere il voucher su un conto corrente bancario o postale riportando l'Iban oppure la stessa cifra in buoni spesa indirizzati al proprio domicilio. Ogni Comune che accetterà l'autocertificazione ha promesso controlli a campione. Ma per coloro che sceglieranno i buoni spesa sarà facile aggirare eventuali controlli: chi vorrà barare sui requisiti sociali e incassare il bonus non rischierà prelievi forzosi sul conto bancario. Quanto ai controlli a campione, saranno possibili solo se l'Inps consentirà verifiche veloci e capillari su tutti i percettori di voucher. Lunedì il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha voluto anticipare di un giorno la procedura per richiedere i buoni spesa. E il sito del Comune è stato preso d'assalto: 11 mila le richieste di aiuto, pari a 4 al minuto. E per uscire dall'impasse è stato deciso di bloccare le iscrizioni fino a lunedì 6 aprile. In questi giorni che restano si avvierà la verifica. «Evitiamo che qualche sciacallo provi a intrufolarsi» la chiosa di Orlando. E tra le strade possibili per l'erogazione dei soldi: buoni pasto, carta prepagata, convenzione con catene di supermercati. Già perché in ultima istanza se i primi voucher saranno erogati a metà aprile ce ne potrebbe essere un'altra ondata alla fine del prossimo mese e di uguale entità.
I Rom i più esposti al Covid: lasciati soli e senza informazioni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 aprile 2020. In nessuna baraccopoli rom è stata segnalata la presenza di operatori sanitari disponibili a distribuire dispositivi di prevenzione. Sei giorni fa è morto il primo rom per Coronavirus allo Spallanzani di Roma. Si chiamava Stanije Jovanovic e aveva 33 anni. Viveva in una casa popolare con la moglie e quattro figli, inoltre aveva una famiglia numerosa nel campo di via Salviati e ogni giorno andava a trovarli. Eppure, dopo la sua morte – come ha denunciato l’associazione “Cittadinanza e minoranze” – non ci sono stati tamponi per loro o nel campo, ma solo l’obbligo di quarantena. Ma si sa, nei campi rom, alla quarantena, ci sono già abituati. Sorge infatti il problema dei campi dove le condizioni sanitarie sono da tempo sottovalutate. Ma c’è anche il problema della loro sopravvivenza. Come sottolinea sempre l’associazione “Cittadinanza e minoranze” ( se si va sul suo sito c’è una raccolta donazioni), i rom vivono di piccoli commerci, della raccolta di materiali, di elemosina: ora, ovviamente, con le restrizioni non lo possono più fare. In quasi tutti gli insediamenti sono stati segnalati casi di fami. L’associazione romana “21 Luglio” denuncia l’altro grande problema dei campi rom ai tempi del coronavirus. In nessuna baraccopoli è stata segnalata la presenza di operatori sanitari disponibili a distribuire dispositivi di prevenzione o ad illustrare le misure atte a prevenire il contagio. Restano quindi le azioni raccomandate attraverso la tv e che sono praticabili, però, laddove le condizioni igieniche lo permettono o dove almeno c’è disponibilità di acqua corrente ( scarseggia nel campo rom di via di Salone e utilizzata solo con autobotte a Castel Romano). Nelle interviste fatte dall’associazione “21 Luglio” emerge scarsa consapevolezza da parte degli abitanti delle baraccopoli dell’impatto che le misure attualmente imposte dal decreto potrebbero avere sull’infanzia. La sospensione dell’attività scolastica e l’impossibilità di utilizzare strumenti tecnologici indispensabili a seguire un’eventuale didattica a distanza pone i minori in età scolare in uno stato di grave isolamento in rapporto ai coetanei e agli insegnanti. Senza dimenticare il discorso della promiscuità nella baraccopoli, con un evidente sovraffollamento interno ed esterno alle abitazioni: se venisse riscontrata una positività, le baraccopoli sono tali da poter isolare solo il paziente e la sua famiglia? L’associazione “21 Luglio” ha lanciato l’allarme e ci si augura che venga raccolto il prima possibile. Bisogna, prima di tutto, predisporre per tempo, in caso di riscontro di una o più positività al Covid- 19 all’interno degli insediamenti formali, un adeguato e tempestivo piano di intervento sanitario, al fine di evitare che la capitale arrivi impreparata a tale evento.
Regolarizzare gli immigrati contro virus e caporalato. Teresa Bellanova su Il Riformista il 1 Aprile 2020. Avviare immediatamente la mappatura dei fabbisogni di lavoro agricolo. È l’azione, già contemplata nel Piano triennale di prevenzione e contrasto al caporalato condiviso con Luciana Lamorgese e Nunzia Catalfo, che dobbiamo mettere in campo per due irrinunciabili priorità: fronteggiare l’assenza di manodopera che rischia di mandare in enorme sofferenza le nostre aziende agricole, incrociando in modo trasparente e legale domanda e offerta di lavoro; prevenire l’emergenza umanitaria che può determinarsi negli insediamenti informali affollati di persone che in questo momento non lavorano o lo fanno nella più totale invisibilità, sono a rischio fame, abbandonati a sé stessi e in balia della minaccia da virus. Oggi possiamo dire: non si contano vittime nella trentina di alloggi distrutti a Borgo Mezzanone venerdì notte per un incendio di forti dimensioni. Ma dobbiamo essere consapevoli: la prossima volta potrebbe non andare così; nel nostro Paese non sono più tollerabili ghetti o baraccopoli. Lo scrivo a chiare lettere e per tre ordini di ragioni. Una legata proprio a Borgo Mezzanone e alle baraccopoli. In quell’insediamento, dove al momento le cronache contano circa millecinquecento persone, non è andata così né il 4 febbraio scorso, quando una donna è morta gravemente ustionata in un rogo, né nell’aprile dello scorso anno, quando un incendio aveva provocato la morte di un ventiseienne gambiano. A ciò si aggiunge, e lo sottolineo, che in Italia non esistono filiere sporche: la nostra agricoltura è fatta di migliaia di aziende sane. Quelle che agiscono nell’illegalità vanno perseguite e noi ci siamo dotati di una legge contro il caporalato considerata tra le migliori a livello internazionale. Inoltre, l’agricoltura italiana è per un terzo caratterizzata dalla presenza di lavoratrici e lavoratori stranieri. A dirlo non sono io ma i numeri. I lavoratori stranieri occupati nei nostri campi sono circa 370 mila; se l’agricoltura incide sull’occupazione totale nel nostro Paese per una media del 4%, il dato sale oltre il 6% tra gli stranieri. L’agricoltura è un grande laboratorio di integrazione a cielo aperto. E questo a dispetto di chi considera “l’altro”, il “migrante” sempre e solo un nemico sociale su cui scaricare rabbia e rancore, e che sulla paura degli immigrati ha fatto vivere a questo paese 18 mesi di campagna elettorale permanente. C’è qualcosa di molto importante, anche sul piano simbolico, che va pienamente raccolto nella richiesta pressante di aziende e associazioni agricole. Che paradossalmente travalica sia il fabbisogno di manodopera stagionale che il rischio di raccolti lasciati a marcire nelle campagne, il che non può assolutamente accadere. È il bisogno di legalità che le aziende esprimono. Di piattaforme dove in modo trasparente e legale si incrocino domanda e offerta di lavoro. Lasciarlo inevaso sarebbe imperdonabile. Regolarizzare, sia pure temporaneamente, i lavoratori migranti degli insediamenti informali o meno è una risposta praticabile e dovuta. Per molte ragioni, umanità e giustizia soprattutto, tra cui il dato che quei lavoratori sono già nel nostro Paese, forse già nelle nostre campagne o ci potrebbero essere tra poco. Sono necessari uno sforzo e un coraggio all’altezza della sfida. Per impedire che negli insediamenti, è la spinta su cui si è mosso il Portogallo, si determini una gravissima emergenza sanitaria. Per fare i conti con l’assenza di manodopera nei campi, tema che nelle prossime settimane assumerà dimensioni ancora maggiori, quando molti prodotti ortofrutticoli andranno a maturazione. Per mantenere vivo, sicuro, stabile, il tessuto delle nostre filiere. Quelle che stanno garantendo in queste settimane il bene cibo al Paese, e non possiamo assolutamente permettere che vadano in sofferenza. C’è infine, ma non ultima, una ragione che detta tutte le altre: sconfiggere il caporalato. Per me, che l’ho conosciuto e sofferto sulla mia pelle e su quella delle mie amiche e compagne di lavoro, è quasi una ragione di vita. La norma contro il caporalato corre lungo due binari, non a caso, fortemente intrecciati: repressione e prevenzione. La repressione ha finora funzionato. La prevenzione è l’obiettivo che orienta e fonda il Piano triennale, definito di concerto con tutti gli attori istituzionali, economici, sociali coinvolti. Per la prima volta, con questo Piano, lo Stato si è dato un metodo preciso per la prevenzione e il contrasto del fenomeno. È un punto di svolta fondamentale. Nei giorni scorsi mi è stato chiesto se temessi che, a causa del coronavirus, la clandestinità sarebbe aumentata. Io non voglio temerlo, voglio evitarlo. Per me significa sottrarre in tutti i modi terreno alla criminalità e a quella zona grigia dove le mafie si insinuano offrendo servizi che invece deve essere lo Stato, il pubblico, a garantire dettandone le condizioni. Per questo vanno assolutamente smantellati gli insediamenti illegali, portando quei cittadini, quei lavoratori, nella legalità e nel lavoro regolare, offrendo loro i servizi adeguati e integrati, dai trasporti agli alloggi. Si può e si deve fare. Sconfiggere il caporalato. Impedire che negli insediamenti informali si determinino emergenze sanitarie o bisogno assoluto di cibo. Garantire alle imprese manodopera sottraendole, soprattutto quelle piccole e piccolissime, al giogo ricattatorio e micidiale dei caporali e della criminalità. È il terreno su cui ci misuriamo. Alla qualità delle risposte, al nostro saper essere adeguati, si lega, adesso più che mai, anche il futuro del Paese.
La sinistra ora sfrutta il virus: vuole regolarizzare i migranti. L'appello del ministro Bellanova e del sindago di Bergamo Gori. La Lega non ci sta: "Pensino agli italiani". Claudio Cartaldo, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Prima Teresa Bellanova, poi Giorgio Gori. Si fa strada a sinistra l'idea di sfruttare l'emergenza coronavirus per approvare un decreto flussi e regolarizzare centinaia di migliaia di immigrati irregolari. "Ci vuole un provvedimento urgente", ha detto quattro giorni fa il ministro dell'Agricoltura. "Servono almeno 200 mila lavoratori extracomunitari", le fa eco Giorgio Gori. Scatenando l'ira della Lega. "A tutti questi nostri amministratori vorrei far presente che siamo di fronte a una tragedia umanitaria le cui dimensioni ancora non sono note, anche in termini di durata, che tutta Italia è chiusa in casa, che il nostro sistema produttivo è paralizzato, che stiamo per affrontare una crisi economica di dimensioni mai viste, che molte azionde non riapriranno e che questi sono i presupposti di una fortissima impennata degli indici di disoccupazione a livello nazionale", attacca il senatore della Lega Roberto Calderoli. Per il vice presidente del Senato il motto "prima gli italiani" deve valere soprattutto in tempi di Covid-19. "Nei campi ci mandiamo i disoccupati italiani - dice - che verranno regolarmente pagati per questo lavoro oppure ci mandiamo quei cittadini italiani che percepiscono il reddito di cittadinanza e in questo caso li mandiamo gratis per non fare cumulo". Che la chiusura delle attività e le restrizioni all'ingresso possano diventare un problema per le imprese agricole è cosa nota. A segnalare un possibile calo dei lavoratori è anche Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, in una intervista al Corriere della Sera. "Nell'agricoltura italiana lavorano 400 mila lavoratori stranieri regolari, il 36% del totale, la maggior parte dei quali rumeni. Quest'anno non arriveranno. Chi raccoglierà gli ortaggi e la frutta?", si chiede Gori. L'idea di regolarizzare i migranti, peraltro, era stata abbozzata ieri anche da Roberto Saviano nel suo lungo (e noioso) articolo da New York. "Se il resto d'Europa - scriveva l'autore di Gomorra - seguendo l'esempio del Portogallo, regolarizzerà la posizione di tutti gli immigrati in attesa di permesso di soggiorno consentendo alle fasce più disagiate di avere accesso al welfare, potremo dire che la società avrà usato la tragedia per migliorarsi. Se questo non accadrà, quando tutto ci sembrerà finito avremo giusto un'ora d' aria prima che arrivi la prossima catastrofe". A lanciare l'allarme sociale per migranti e rifugiati è stato anche padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: "Emergono difficoltà concrete - ha detto all'Adnkronos - la ricerca di alloggio e di lavoro per chi ha terminato il periodo di accoglienza, la possibilità di mantenere uno stipendio per chi fa lavori ora sospesi, come i tanti migranti impegnati nel settore alberghiero o della ristorazione, gli affitti da pagare senza uno stipendio regolare". Problemi reali, ma sulla possibilità di aprire le porte ai migranti si è subito sollevato un coro di polemiche. "Per Gori la priorità in questo momento è aprire le porte a 200mila extracomunitari per fronteggiare l'arrivo dei raccolti in agricoltura - attacca il deputato bergamasco della Lega Alberto Ribolla - Chiedo a Gori: non ci sono italiani in difficoltà? E tutti i nostri concittadini senza lavoro, quelli ad esempio che percepiscono il reddito di cittadinanza? Non vorrei che Gori scelga di far arrivare 200mila extracomunitari perché pagare 2/3 euro l'ora gli stranieri è più conveniente". Intanto la nave Alan Kurdi della ong Sea Eye ha lasciato il porto di Burriana, in Spagna, e dopo settimane di riparazioni tecniche punterà diritta alla zona Sar libica. "La nostra nave ha lasciato il porto spagnolo. Ci stiamo dirigendo verso il Mediterraneo Centrale - ha scritto in un tweet l'Ong - Salvare vite umane e tutelare i diritti umani è una priorità senza tempo". Si tratta al momento dell'unica nave presente nel Mediterraneo in zona sar libica. "Nonostante tutte le difficoltà, siamo pronti all'azione. D'altronde come potremmo rimanere fermi in porto quando al momento non è presente una sola nave in mare?", ha detto all'Adnkronos il capitano di Bärbel Beuse. Molti si chiedono cosa accadrà nel caso in cui riescano a recuperare centinaia di migranti. Ai naufraghi, come per le navi da crociera, verrà imposta la quarantena? Intanto, la Sea Eye fa sapere che ha preso tutte le misure di sicurezza e sostiene di aver messo a punto un "piano di gestione" in caso di epidemia a bordo. Resta da capire verso quali porto si dirigeranno, una volta soccorsi i migranti. Verso l'Italia martoriata da Covid-19?
Teresa Bellanova, l'effetto sanatoria: i migranti dalla Francia all'Italia per il permesso di soggiorno. Carlo Nicolato su Libero Quotidiano il 14 giugno 2020. Sarà contenta la ministra Teresa Bellanova, la sua sanatoria ha sortito ben pochi effetti in Italia tanto che al momento solo 9.500 immigrati irregolari sui 220mila preventivati hanno chiesto la regolarizzazione, ma in compenso sta sortendo un effetto inaspettato, quasi miracoloso, ovvero far tornare dalla Francia, o attraverso la Francia, quegli immigrati che da noi erano scappati presumibilmente per mancanza di prospettive. Ora le prospettive ci sono, e sono quelle di ottenere in qualche modo un permesso di soggiorno dimostrando di far parte di quella schiera di irregolari per i quali la Bellanova ha versato le sue lacrime. Il risultato è che i nostri clandestini sono perlopiù rimasti tali mentre dalla Francia ne sono in arrivo altri il cui scopo è quello di ottenere un foglio di carta e darsi alla macchia, non certo quello di lavorare regolarmente per aiutare tra le altre cose anche la nostra agricoltura. Gli immigrati leggono, si informano e sono perfettamente al corrente delle questioni politiche europee che li riguardano, Paese per Paese. Qualche giorno fa alcuni siti di informazione francesi in lingua araba, come yabiladi.com ad esempio, hanno dato la notizia che in Italia hanno iniziato a regolarizzare con una certa facilità gli irregolari, specie quelli reclutati in nero e pagati pochi euro come raccoglitori nei campi. La notizia si è diffusa rapidamente e altrettanto rapidamente il flusso si è invertito. La notte tra martedì e mercoledì nei pressi della galleria del Frejus sono stati bloccati alcuni stranieri che tentavano di attraversare il confine dalla Francia all'Italia camminando lungo i binari della linea Tgv. Solo uno di loro è stato preso, un marocchino, ed è stato rispedito in Francia. Gli altri sono riusciti a scappare. Sempre martedì un gruppo di 22 immigrati senza permesso di soggiorno è stato intercettato sul treno Parigi-Lione diretto nel nostro Paese. Ma gli arrivi erano già iniziati da qualche giorno tanto che lunedì scorso le autorità italiane e quelle francesi si sono incontrate a Modane per fare il punto della situazione.
Provvedimento inutile - La correlazione tra sanatoria firmata Bellanova e gli improvvisi arrivi dalla Francia in controtendenza storica è evidente. Il deputato leghista Eugenio Zoffili, presidente del Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen, Europol e Immigrazione, ha commentato che di questa sanatoria si vede solo «il pull factor, che ha incentivato le partenze attraverso un effetto calamita sull'immigrazione clandestina, generando una vera e propria invasione». La sanatoria dunque non è solo un fallimento ma anche un danno, e se la ministra può comunque vantarsi di aver strappato «anche solo una persona all'invisibilità e alle condizioni di lavoro oscene», dal punto di vista dell'agricoltura non è servita assolutamente nulla. Lo conferma anche Romano Magrini di Coldiretti che ha dichiarato che «a livello nazionale i numeri sull'agricoltura sono veramente esigui. Parliamo di un centinaio di domande o poco più in tutta Italia». Il problema dei nostri campi dunque non lo potranno risolvere né i pochi braccianti regolarizzati, né tantomeno gli speranzosi che arrivano clandestinamente dalla Francia. E allora alla stessa Coldiretti non rimane che risolverli andandosi a prendere i braccianti, specie quelli specializzati. È quello che ha fatto recentemente la Coldiretti Abruzzo ad esempio, che ha organizzato e pagato di tasca propria un volo charter per 124 cittadini marocchini, operai stagionali qualificati ed esperti impegnati da anni sul territorio nazionale. La Coldiretti sostiene che tali lavoratori, insieme ai romeni, per capacità ed esperienza sono diventati insostituibili.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 31 marzo 2020. Due settimane fa i primi casi: nel centro milanese di via Fantoli e in un' altra struttura in provincia di Monza e Brianza. Ora il nuovo focolaio: otto ospiti del centro di accoglienza di via Aquila, a Milano, sono stati contagiati dal coronavirus assieme al direttore della struttura, che è organizzata dalla multinazionale francese Gepsa (un colosso che si occupa di carceri e gestione dei migranti anche Oltralpe). Come riporta Il Giorno, su otto migranti infettati «quattro sono stati posti in regime di sorveglianza sanitaria, mentre altri quattro sono stati spostati in un' altra struttura per la quarantena». I locali sono stati sanificati, e altre 17 persone sono state spostate in centri diversi, al fine di ridurre la concentrazione all' interno dei locali di via Aquila (che possono ospitare fino a 270 stranieri). Il punto, d' altra parte, è proprio questo: nei centri di accoglienza sparsi per la penisola sono presenti spesso centinaia di persone, far rispettare le distanze e le norme di sicurezza è estremamente difficile, e se i contagi dovessero diffondersi ulteriormente si tratterebbe di un disastro annunciato. Il ministro dell' Interno, Luciana Lamorgese, in un' intervista a Sky si è mostrata molto sicura di sé stessa. Giorni fa aveva annunciato, a Repubblica, una sorta di piano nazionale sull' immigrazione, ma a quanto pare ha cambiato idea. Per ora tutto rimane così com' è, nel senso che di iniziative particolari da parte del Viminale non ce ne sono, né sugli sbarchi né sull' organizzazione dell' accoglienza. «Tutti i pochi migranti, circa 240, arrivati a marzo sono stati posti in quarantena per 14 giorni», ha detto la Lamorgese. Il punto è che, per ora, gli approdi sulle coste italiane si sono ridotti, ma non è affatto detto che la situazione rimanga placida, anzi. La stessa Lamorgese, giustamente, nota che «oggi i numeri sono ridottissimi ma dobbiamo preoccuparci per i periodi futuri. L' accordo di Malta, che aveva avuto un grande effetto, in questo momento è ovviamente fermo come sono fermi gli arrivi ma dobbiamo pensare anche al futuro e su quello dobbiamo lavorare in modo da avere sempre davanti il principio di solidarietà europea». È la seconda parte del discorso a preoccupare. L' accordo di Malta (di fatto inesistente) non ha funzionato affatto nei mesi passati, e sulle nostre coste gli sbarchi sono aumentati di circa il 700%. Aspettarsi una «solidarietà europea» nei prossimi mesi è per lo meno ingenuo. Ma non sembra che il governo abbia grandi idee sull' argomento, nonostante gli appelli di Luigi Di Maio per la chiusura dei porti. Ad oggi, però, la principale preoccupazione riguarda la gestione dei migranti che sono già presenti sul nostro territorio. Secondo la Lamorgese «vengono fatti controlli regolari nei Cara in cui c' è la larga parte dei migranti in accoglienza e abbiamo dato istruzioni agli enti gestori di osservare le regole stabilite dal ministero della Salute». Ma, nella realtà, sembra proprio che il quadro sia decisamente più complicato. Qualche giorno fa, nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d' Isonzo è stato trovato un positivo al Covid-19 (un nigeriano trasferito da Cremona). Il sindaco di Gradisca, Linda Tomasinsig, ha espresso forti preoccupazioni: «I Centri per i rimpatri sono frequentati quotidianamente da persone che vivono all' esterno come personale delle forze di polizia, degli enti gestori, mediatori, giudici e avvocati», ha scritto su Facebook. «Da qui il conseguente pericolo per loro e i loro familiari di diffusione del contagio. Prendo atto delle rassicurazioni del prefetto in merito alle precauzioni adottate, all' isolamento del detenuto fin dal suo arrivo nel Cpr di Gradisca, ma non ho potuto che esprimergli tutta la mia preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare, per i pericoli nei confronti dei detenuti e dei lavoratori». Secondo Il Piccolo, le presenze all' interno del Cpr di Gradisca sono aumentate di un terzo nelle ultime settimane e gli operatori del centro sono «in stato di agitazione». Il 26 marzo, il Viminale ha diramato una circolare intitolata «Interventi di prevenzione della diffusione del virus Covid-19 nell' ambito dei centri di permanenza per il rimpatrio». Leggendola si capisce che i migranti ospitati dai centri potranno continuare a incontrare persone provenienti dall' esterno, anche se a distanza di due metri. La circolare, inoltre, fornisce una preziosa informazione: «Ai maggiori oneri dovuti all' incremento dell' erogazione dei servizi di accoglienza si potrà provvedere con la stipula di appositi atti aggiuntivi alle convenzioni attualmente in corso». Tradotto significa che non esiste un piano nazionale per la sicurezza dei centri di accoglienza, se si escludono indicazioni sommarie che è comunque molto difficile (se non impossibile) far rispettare. Il rischio di contagio è alto sia per i migranti sia per gli esterni che frequentano i centri. Infine, i costi dell' accoglienza aumenteranno, anche perché in alcuni casi si dovranno utilizzare nuove strutture al fine di decongestionare i centri troppo pieni. Da tutta Italia gli operatori delle strutture che accolgono gli stranieri continuano a lanciare allarmi: mancano mascherine, è impossibile mantenere le distanze, non ci sono presidi di sicurezza adeguati. Poi, ovviamente, ci sono le situazioni di totale illegalità, come la baraccopoli abusiva di Borgo Mezzanone, sorta accanto al Cara della provincia di Foggia. Nella notte tra sabato e domenica sono andate a fuoco 30 baracche. Insomma, il caos totale è dietro l' angolo. Ma finora il Viminale ha pensato soltanto a rinnovare di un mese la durata dei permessi di soggiorno e a far sapere che i costi aggiuntivi dell' accoglienza saranno coperti da nuovi accordi. Più che alla «solidarietà europea», sembra che tocchi affidarsi alla sorte, e sperare che Dio ce la mandi buona.
Coronavirus, il materiale sulla pandemia tradotto in 34 lingue per aiutare migranti e richiedenti asilo. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Federica De Cesco. Immaginate di trovarvi, durante una situazione di emergenza (che sia una guerra, un terremoto o una pandemia), in un Paese straniero dove nessuno parla o capisce la vostra lingua e senza la possibilità di informarvi. Cosa provereste? Preoccupazione, ansia, persino terrore, probabilmente. Ecco, adesso potete provare a mettervi nei panni delle migliaia di immigrati e richiedenti asilo presenti in Italia che a un certo punto si sono resi conto del pericolo rappresentato dalla circolazione di un virus letale tra la popolazione. «Alcuni erano nel panico. Vedevano in giro persone con le mascherine e non capivano cosa stesse succedendo». A parlare è Pier Cesare Notaro, formatore e insegnante di italiano per stranieri, attivista per i diritti delle minoranze sessuali, etniche e culturali e presidente dell'associazione Lgbt interculturale Il Grande Colibrì. «Alcuni dei nostri utenti hanno cominciato a contattarci in modo allarmato. Sui loro gruppi WhatsApp giravano informazioni storpiate ed estremizzate e audio con notizie false». E così dal 23 febbraio, quando sono emersi i primi casi di coronavirus nel nostro Paese, l’associazione ha iniziato a realizzare e pubblicare materiale informativo sia in formato scritto sia in formato video in diverse lingue, con lo scopo di raggiungere individui analfabeti o poco scolarizzati, che avendo scarsa dimestichezza con il linguaggio burocratico necessitavano di testi semplificati. «Quando siamo partiti anche nei centri di accoglienza erano disponibili soltanto testi in italiano, inglese e cinese, ma comunque inaccessibili a chi non sa leggere e scrivere e spesso troppo complessi per chi ha una scolarizzazione molto bassa», prosegue Notaro. «Finora abbiamo prodotto materiale in 34 lingue, con testi chiari ma semplici, scritti in maiuscolo. Per ogni lingua ci sono da uno a tre video e da uno a cinque pdf: dipende dalla disponibilità dei volontari che si occupano delle traduzioni». Il progetto, a cui partecipano anche l’associazione Naga di Milano, Les Cultures di Lecco e Certi Diritti di Roma, è infatti reso possibile dallo spirito di solidarietà di decine di persone. «Le traduzioni sono state realizzate da membri de Il Grande Colibrì, composta per la metà da persone immigrate o rifugiate, e da quelli di altre associazioni. Per il resto ci siamo affidati ad appelli su Facebook e al passaparola. Perfetti sconosciuti ci hanno scritto per offrirci una mano, sia dall’Italia sia dall’estero. Siamo stati contattati anche da volontari che lavorano nei campi profughi in Giordania». Come spiega Notaro il materiale si divide in tre categorie: norme igieniche e disposizioni generali (per esempio, informazioni riguardo alla chiusura dei negozi, al divieto di assembramenti e alle raccomandazioni sul lavarsi le mani); informazioni sulle restrizioni relative agli spostamenti (con riferimenti alle deroghe per fare la spesa e andare al lavoro e alla necessità di avere con sé l’autocertificazione); e materiale specifico per i richiedenti asilo, con spiegazioni sulle modifiche apportate alla normativa dopo la chiusura di questure e commissioni territoriali e indicazioni sulla possibilità di posticipare il ricorso in caso di diniego della richiesta di asilo. «Non pensavamo di poter fare una cosa così ampia. Il nostro lavoro è esploso, oltre qualsiasi aspettativa. Ci hanno chiesto di riutilizzarlo all’estero, per i profughi sulle isole greche e per i migranti negli Stati Uniti», aggiunge il fondatore de Il Grande Colibrì, associazione che normalmente segue progetti sul territorio riguardanti l’accoglienza, la formazione e l’accompagnamento di persone perseguitate in patria per il loro orientamento sessuale e per la loro identità di genere. «Il materiale sta girando davvero parecchio, evidentemente ce n’era bisogno. Lo abbiamo pubblicato sul nostro sito e sui nostri social e i diretti interessati lo diffondono via WhatsApp nelle loro reti di conoscenza. Al momento rimandano alla nostra pagina l’Istituto Superiore di Sanità, il Portale Integrazione Migranti del Governo, il sito della Commissione Europea sull’integrazione, diversi siti di Regioni e Comuni e quelli di numerose scuole e biblioteche». Da anni le varie organizzazioni che si occupano di migranti e richiedenti asilo mettono in guardia dai pericoli derivanti da una precarizzazione delle condizioni di salute di questi ultimi. «È importante tenere presente che lo stato di salute dei migranti ha ripercussioni su quello del resto della popolazione», osserva Notaro. «Proviamo a immaginarci cosa potrebbe succedere se si ammalasse uno degli individui ospiti dei centri di accoglienza, dove le persone in genere vivono ammassate. Il rischio di una rapida propagazione del virus sarebbe altissimo». È proprio l’informazione, in casi del genere, a fare la differenza.
Coronavirus, le Ong fermano le missioni di salvataggio in mare. Migranti senza più soccorsi. Mediterranea: " La pandemia ci impone di congelare l'attività operativa. Scelta obbligata anche se le partenze sono ricominciate". Bloccate in porto anche Ocean Viking, Sea watch e Open Arms. Alessandra Ziniti il 18 marzo 2020 su La Repubblica. Le partenze dei migranti dalle coste africane sono riprese ma il Mediterraneo è destinato a rimanere senza soccorsi per chissà quanto tempo. Il coronavirus ferma anche le navi umanitarie e, una dietro l'altra, le Ong comunicano a malincuore la sospensione delle missioni. "Una comunicazione inevitabile e difficile - dice Mediterranea, che pure nelle scorse settimane si era vista finalmente restituire le due navi, Mare Jonio e Alex, sequestrate per mesi dal decreto sicurezza - Eravamo pronti a ripartire con la tenacia e la determinazione di sempre: pronte le navi, pronti gli equipaggi. Ma lo svilupparsi della pandemia e le sacrosante misure adottate per tentare il contenimento del contagio e per tentare di salvare le persone più fragili ed esposte, ci impone oggi di congelare l'attività operativa in mare. Gli effetti di questa scelta obbligata ci fanno soffrire perchè in mare c'è chi rischia la morte ogni giorno". Mediterranea confida nella disponibilità, per i soccorsi in mare delle navi civili che continuano ad operare. " Daremo loro ogni supporto possibile". Restano al momento in porto anche le navi della Sea Watch e di Sos Mediterranée e Medici senza frontiere che hanno finito il periodo di quarantena dopo gli ultimi due sbarchi di migranti a Pozzallo e a Messina. E ferma è anche da una ventina di giorni per riparazione, la spagnola Open Arms. "Stiamo cercando di capire in che modo poter tornare in mare in sicurezza per tutti. Purtroppo in mare c'è bisogno di noi nonostante il coronavirus", dice la portavoce Veronica Alfonsi. Le partenze dall'Africa comunque non si fermano. Il centralino Alarm phone negli ultimi giorni ha segnalato diverse imbarcazioni in difficoltà in zona Sar libica e maltese. E preoccupano gli sbarchi autonomi sull'isola di Lampedusa dove nell'ultima settimana sono arrivate 150 persone. Il sindaco Salvatore Martello ne ha disposto subito la messa in quarantena nell'hot spot ma ha chiesto al ministro dell'Interno Lamorgese un protocollo per il loro immediato trasferimento sulla terraferma per la mancanza delle necessarie misure a salvaguardia della popolazione. Anche in Africa ormai sono centinaia i casi di coronavirus registrati nei Paesi di origine dei migranti e anche la Libia ha dichiarato lo stato di emergenza per l'epidemia. Al momento le Ong che hanno volontari impiegati nei servizi di assistenza medica e paramedica nelle aree più colpite dal territorio sono Medici senza frontiere, la cui presidente Claudia Lodesani da giorni sta lavorando a Codogno. Ma anche la piattaforma di terra di Mediterranea ha messo a disposizione le sue forze.
Coronavirus, i radicali chiedono più posti per accogliere i migranti. L'appello indirizzato al governo italiano è stato fatto da Iervolino e Crivellini, rispettivamente segretario e tesoriera dei radicali che, all’indomani del primo caso di contagio registrato in un centro di accoglienza di Milano, chiedono che la salute degli stranieri sia garantita. Salvatore Di Stefano, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. "Più posti per accogliere i migranti". Questo, in estrema sintesi, il pensiero dei Radicali italiani, i quali all'indomani del primo caso di contagio da coronavirus registrato in un centro d'accoglienza di Milano fanno appello al governo guidato dal premier Giuseppe Conte. La richiesta, pubblicata sul sito ufficiale del partito, porta le firme di Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, rispettivamente responsabile politico e tesoriera del movimento. Nella nota gli onorevoli Iervolino e Crivellini sostengono convintamente che "La salute di rifugiati e migranti e operatori deve essere garantita, le loro strutture non sono preparate per la gestione di un’emergenza sanitaria". I radicali attirano anche l'attenzione della ministra dell'Interno, l'onorevole Luciana Lamorgese, affinchè il ministero da lei presieduto "si attivi, attraverso le Prefetture, per non fare uscire dai centri quanti hanno concluso il loro progetto di accoglienza e acceleri il trasferimento nelle strutture per quanti ne hanno diritto e sono in attesa di accedervi". Dulcis in fundo la richiesta di avere più posti per accogliere i migranti: "sarebbe opportuno, d’intesa con i Comuni, ricavare ulteriori posti nei circuiti di accoglienza per quei titolari di protezione internazionale o umanitaria che, avendone già beneficiato in passato ne sono ora usciti e si trovano a fronteggiare una temporanea situazione di emergenza abitativa”. Appena una manciata di giorni fa la senatrice Emma Bonino era letteralmente finita nell'occhio del ciclone per via di alcune sue dichiarazioni nelle quali invitava ancora la ministra dell'Interno a tutelare la salute dei migranti. L'attuale esponente di + Europa, sulla propria pagina Facebook chiedeva a gran voce all'onorevole Lamorgese "se fossero state prese misure adeguate a garantire la salute dei richiedenti asilo ospitati nei centri di accoglienza e delle persone trattenute all'interno dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in tutta Italia. In particolare ho chiesto al ministro se vi fossero nei Cpr - da cui non è permesso allontanarsi - presidi idonei ad affrontare la situazione con la stessa cura con cui si dovrebbe agire nell'ambito carcerario, dove ancora troppo poco si sta facendo, non escludendo l'ipotesi di non procedere a nuovi ingressi nelle prossime settimane". Mentre i Radicali italiani si concentrano sui migranti situati nei vari centri d'accoglienza il nostro Paese, diventato già da diversi giorni zona protetta, potrebbe prolungare oltre la data del 3 aprile prossimo la chiusura delle scuole e tutti i divieti per le attività non essenziali.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 17 marzo 2020. Non c'è davvero alcuna soddisfazione nel rimarcare che lo avevamo previsto, perché la situazione è già drammatica senza bisogno di aggiungere ulteriori elementi di preoccupazione. Eppure sapevamo che era soltanto questione di giorni: la bomba immigrazione, alla fine, sta esplodendo. A Milano è stato ufficializzato il primo caso di contagio da coronavirus in un centro di accoglienza, per la precisione quello situato in via Fantoli, in zona Mecenate. Per suo fortuna, il giovane straniero non ha avuto bisogno di essere ricoverato, ma immediatamente la struttura è stata sanificata e i compagni di stanza del ragazzo sono stati messi in quarantena. Il centro di via Fantoli conta circa 160 ospiti, e per una parte di costoro è stato previsto il trasferimento in una palazzina nelle vicinanze. Un altro caso di contagio è stato certificato nel centro di accoglienza straordinaria (Cas) del Comune di Camparada, provincia di Monza e Brianza. In questo caso il migrante è stato ricoverato in ospedale e 12 persone (9 esterne e 3 interne al centro) sono state messe in quarantena. Il Cas ospita in tutto 120 persone e l' aria si è subito surriscaldata. Il sindaco Mariangela Beretta ha fatto sapere che fra gli ospiti si è scatenata pure una rissa. Il punto è che i vari centri di accoglienza sparsi per l' Italia non sono assolutamente in grado di fronteggiare l' emergenza sanitaria. Pochi giorni fa - come riportato dal nostro giornale - sono stati gli stessi rappresentanti degli stranieri a lanciare l' allarme. In particolare il Coordinamento migranti bolognese ha descritto una situazione spaventosa: «Molti di noi», hanno scritto i portavoce dei richiedenti asilo in una lettera, «lavorano uno accanto all' altro, notte e giorno, all' Interporto, dove in alcuni magazzini il lavoro è raddoppiato per star dietro alla grande richiesta di merci causata dal panico dell' epidemia. Quando dobbiamo riposare ritorniamo all' affollamento dei centri di accoglienza. In via Mattei viviamo in più di 200 e dormiamo in camerate che ospitano cinque o più persone, spesso anche dieci, con letti vicini, uno sopra l' altro. Molte di queste stanze non hanno nemmeno le finestre per cambiare l' aria. Alcuni dormono in container, anch'essi sovraffollati, anch'essi senza finestre. La situazione non è molto diversa in altri centri della città, come lo Zaccarelli e Villa Aldini». Questa era la situazione di Bologna, ma pare di capire che anche nel resto d' Italia il quadro non sia molto diverso: edifici sovraffollati, difficoltà a far rispettare le norme igieniche necessarie a combattere l' infezione, tensione alle stelle. A Vicofaro, nella struttura gestita da don Biancalani, due giorni fa c' è stata una rissa. Alla residenza Fersina di Trento un tunisino di vent' anni ha accoltellato un nigeriano di 22. Altre aggressioni sono avvenute in Sicilia. È evidente che far rispettare il divieto di circolazione in situazioni del genere è pressoché impossibile, e gli operatori dell' accoglienza se ne sono resi conto da tempo. Dalle due baraccopoli pugliesi di Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci sono giunti allarmi del tutto identici a quelli lanciati a Bologna. «Il nostro timore», ha detto di recente a Repubblica Alessandro Verona, referente medico dell' unità migrazione di Intersos, «è che il contagio possa arrivare anche fra queste persone più fragili e vulnerabili». Analoghe preoccupazioni sorgono fra chi si occupa dei senza tetto. In vari dormitori milanesi sono stati riscontrati casi di positività e la fondazione Progetto Arca (responsabile della gestione di molte strutture) non usa mezzi termini: «Rischiamo di non farcela». Dunque il contagio è arrivato. E adesso bisogna correre ai ripari, anche se ovviamente non è facile. A Milano, l' europarlamentare ed ex assessore del Pd Piefrancesco Majorino suggerisce di usare il grande centro di via Corelli come «luogo di gestione dei casi positivi provenienti da situazioni di accoglienza». Ed è lo stesso Majorino - non certo un pericoloso sovranista, anzi - a sollecitare un piano nazionale di intervento. «Attenzione a non sottovalutare la cosa, è indispensabile controllare al massimo», ha detto. Majorino conferma un' altra preoccupazione: «Molti migranti fanno i rider. Si deve intervenire subito con serietà». Già: è stato proprio il nostro giornale, mesi fa, a raccontare come tanti stranieri che lavorano nel servizio di consegna alla sera tornino a dormire nei centri di accoglienza milanesi (e così funziona anche in altre città). Basta alzare gli occhi per rendersi conto che tantissimi rider, in questi giorni, hanno continuato a circolare e a lavorare anche senza le necessarie precauzioni: niente mascherine, niente guanti... E per chi sta tutta la giornata a bordo di una bicicletta lavarsi frequentemente le mani non è certo semplicissimo. A questo punto è inutile farsi prendere dalla rabbia verso chi ha consentito l' ingresso di così tanti migranti negli anni passati. È necessario però che il governo prenda immediati provvedimenti almeno per quanto riguarda i nuovi ingressi. Gli ultimi arrivi a Lampedusa hanno già messo in crisi l' isola. Se altre persone dovessero entrare nelle prossime ore si arriverebbe al collasso. Gli allarmi arrivano da destra, da sinistra e persino dagli stessi migranti: forse è ora che qualcuno li stia a sentire.
La Rai "predica" i porti aperti: un altro film pro immigrazione. Pronto un altro film che sposa la causa pro migranti del centro - sinistra: il 10 marzo su Raiuno andrà in onda il lungometraggio dedicato ad Agnese Ciulla, ex assessore della giunta di Leoluca Orlando a Palermo. Mauro Indelicato, Domenica 08/03/2020 su Il Giornale. Soprattutto nell’ultimo anno sono spesso piombate, da più parti sia del mondo della politica che di quello della cultura, molte accuse di “sovranismo” alla Rai per via della scelta della programmazione. Per fare un esempio, come riportato da Francesco Borgonovo su La Verità, nei giorni scorsi l’autorità delle telecomunicazioni ha richiamato il Tg2 per un servizio sugli Stati Uniti. Ed il motivo appare quanto meno surreale, per non dire bizzarro: nel telegiornale diretto da Gennaro Sangiuliano, era stato definito “abile” Donald Trump. Un semplice aggettivo che ha espresso un giudizio del giornalista in questione, che però secondo l’authority avrebbe forse minato l’imparzialità del servizio. E tanto è bastato a far nuovamente gridare al presunto sovranismo presente in Rai, rea di pendere dalla parte destra del quadro politico da quando i vertici sono stati rinnovati dal precedente governo. E dunque da quell’esecutivo a trazione gialloverde, dove le nomine sono state fatte da una maggioranza composta da Lega e Movimento Cinque Stelle. Ma la situazione appare un po’ diversa. A farlo notare è stato proprio Francesco Borgonovo, il quale ha preso in esame la programmazione delle ultime fiction andate in onda nell’azienda del servizio pubblico. Ad esempio il prossimo 10 marzo su Raiuno andrà in scena il lungometraggio “Tutto il giorno davanti”: si tratta di uno sceneggiato di Luciano Manuzzi e prodotto da Rai Fiction in collaborazione con Regione Siciliana, Sicilia Film Commission e Comune di Palermo. Il lungometraggio parlerà di immigrazione e focalizzerà l’attenzione su Agnese Ciulla, ex assessore della giunta di Leoluca Orlando nel comune di Palermo. Nella scheda di presentazione, si legge che il film ha come oggetto “la storia di Agnese Ciulla, ex assessore alle attività sociali del comune di Palermo [...] che nel maggio 2016 diventò "la grande madre dei migranti", raggiungendo la ribalta mediatica nazionale per la tutela di tutti i bambini che arrivavano in città senza i genitori o un parente, i cosiddetti minori stranieri non accompagnati”. In poche parole, si tratta dell’ultima pellicola dove si parla di migranti e dove ad essere vista in chiave positiva è la visione politica di persone legate al centro – sinistra. Come sottolineato dallo stesso Borgonovo, sembra quasi che il lungometraggio su Agnese Ciulla sia stato ideato dopo lo stop alla fiction su Mimmo Lucano, il sindaco di Riace finito poi in alcuni guai giudiziari che doveva essere interpretato da Beppe Fiorello. Lucano, come ben si sa, è una delle bandiere della linea dell’accoglienza, il film che andrà in onda il 10 marzo potrebbe far assurgere a questo ruolo anche l’ex assessore Agnese Ciulla. Il lungometraggio previsto poi, fa il paio con la fiction Lampedusa, dove il protagonista era interpretato da Claudio Amendola e dove il principale argomento era quello dell’immigrazione, così come con il film Nour, prodotto da Rai Fiction, in cui Sergio Castellitto ha interpretato Pietro Bartolo, ex medico di Lampedusa ed oggi europarlamentare del Partito Democratico. Già solo sul tema immigrazione dunque, certamente la Rai non sembra aver sposato la causa della parte sovranista. Al contrario, la prospettiva con la quale viene trattato questo argomento appare decisamente più in linea con le prese di posizione dell’ambiente politico e culturale di centro – sinistra. E quelle accuse di “sovranismo” appaiono tanto infondate quanto a volte intimidatorie: quasi come ad avvertire che, se per davvero un giorno dovesse essere dato spazio ad una prospettiva vicina ad altre parti politiche, allora non mancheranno levate di scudi e pesanti prese di posizione.
Fabio Fazio: "Il coronavirus? Mi insegna che i porti devono essere sempre aperti, per tutti". Libero Quotidiano il 16 marzo 2020. "Sono giorni durissimi in cui abbiamo tutti modo di riflettere sul significato delle parole e su tutti quei gesti quotidiani piccoli e preziosi che ci mancano", esordisce Fabio Fazio in un commento pubblicato su Repubblica di lunedì 16 marzo, dal titolo "le cose che sto imparando". Ovviamente, mister Che tempo che fa si riferisce alle cose che sta imparando nei giorni dell'emergenza coronavirus. Dunque una serie di punti, di belle parole, tipo: "Devo rimettere in ordine la mia scala di valori; "Mi sono persuaso che il significato delle parole è sacro"; "Ho imparato il valore di una stretta di mano" e "ho imparato la necessità di tendere la mano". Ed eccoci poi arrivare alla conclusione, alle ultime due cose che Fabio Fazio ha imparato. Punto 14: "Mi sono reso conto che i confini non esistono e che siamo tutti sulla stessa barca". Segue il punto 15, quello conclusivo: "E dal momento che siamo tutti sulla stessa barca, è meglio che i porti, tutti i porti, siano sempre aperti. Per tutti". No, Fabio Fazio non cambierà mai. Una sola domanda: quando dice "sempre aperti", intende anche nei giorni del coronavirus?
Gustavo Bialetti per “la Verità” il 17 marzo 2020. «La condizione umana è piena di oscena spaventosa sofferenza umana e si può sopravvivere a quasi tutto». David Foster Wallace (Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi) però non sopravvisse a sé stesso e s' impiccò nel 2008, a soli 46 anni. Lui l'avrebbe raccontata benissimo, la reclusione ai tempi di Covid-19, come ha fatto per le crociere, i concorsi canori, le sagre delle armi e altre calamità autoprodotte. Ma lo scrittore dell' Illinois almeno si è risparmiato di dover leggere certi compitini che rendono questo isolamento casalingo una meravigliosa occasione persa. Per esempio, sulla prima pagina di Repubblica ti imbatti in «Tutte le cose che sto imparando dall' isolamento», scritto da Fabio Fazio. Confessiamo di averlo letto con qualche speranza, perché a volte stare a casa fa bene a questi personaggi televisivi, abituati all' autopromozione costante, che tengono buone relazioni con qualunque tipo di potente. Nati, cresciuti e «fatturati» servendo una sola religione, quella della maggioranza. Ma a Fazio, i domiciliari non hanno ancora regalato l' occasione di una lettura ruvida come Petrolio di Pier Paolo Pasolini, o Ex captivitate salus di Carl Schmitt, e invece lo hanno sprofondato in una marea di ovvietà glassate dalla quale non lo salverebbe vedersi a nastro tutti i Griffin e tutti i Simpson. Così il presentatore di Savona ci comunica quello che ha imparato: la cosa che più conta è «stare vicino alle persone cui vogliamo bene», a cominciare dai figli, che «vanno abbracciati». Poi dobbiamo «riconnetterci con la Terra», che se no poi quella si vendica, e giù giù pontificando fino al fatto che «i confini non esistono» ed «è meglio che tutti i porti siano sempre aperti per tutti». Peccato, poteva riscoprire Dio, Marx o Confucio. Invece si è arenato su Carola Rakete.
Papa Francesco elogia Fabio Fazio: "Ha ragione quando dice che i nostri comportamenti influiscono sugli altri". Libero Quotidiano il 18 marzo 2020. Papa Francesco elogia Fabio Fazio. "Ringrazio chi si spende in questo modo per gli altri. Sono un esempio di questa concretezza. E chiedo che tutti siano vicini a coloro che hanno perso i propri cari, cercando di accompagnarli in tutti i modi possibili. La consolazione - esordisce in un'intervista a Repubblica - adesso deve essere impegno di tutti. In questo senso mi ha molto colpito l'articolo scritto su Repubblica da Fabio Fazio sulle cose che sta imparando da questi giorni". Il Pontefice afferma di essersi soffermato su tante cose di quel commento, "ma in generale il fatto che i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri. Ha ragione ad esempio quando dice: "È diventato evidente che chi non paga le tasse non commette solo un reato ma un delitto: se mancano posti letto e respiratori è anche colpa sua". Questa cosa mi ha molto colpito". Una dichiarazione però che in molti hanno fatto, ancor prima del conduttore di Che Tempo Che Fa. Dopo la camminata fino a Santa Maria Maggiore per le strade di una Roma deserta, Bergoglio si rivolge ai cittadini affinché si riscopra quello che per lungo tempo si è perso. "Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c'è il nostro tesoro". La direttiva del governo impone agli italiani di rimanere in casa, un modo per il Papa per riscoprire "i gesti minimi, che a volte si perdono nell'anonimato della quotidianità".
Dagospia il 18 marzo 2020. TWEET DI FABIO FAZIO: Sono travolto dall’emozione. Dovrò cercare di meritarmi questo onore e questa responsabilità. Al di là delle parole che mi riguardano, Papa Francesco ha invitato tutti noi a non sprecare questo tempo difficile ma ad adoperarlo per guardare in noi stessi e rinnovarci.
Da adnkronos.com il 18 marzo 2020. "Ho chiesto al Signore di fermare l’epidemia: Signore, fermala con la tua mano. Ho pregato per questo". Lo afferma, in un'intervista a 'la Repubblica', Papa Francesco riferendosi a quando, due giorni fa, è andato a Santa Maria Maggiore e nella chiesa di San Marcello al Corso per pregare. Rispondendo a una domanda su come chi non crede può avere speranza di fronte a questi giorni, il Pontefice sottolinea: "Tutti sono figli di Dio e sono guardati da Lui. Anche chi non ha ancora incontrato Dio, chi non ha il dono della fede, può trovare lì la strada, nelle cose buone in cui crede: può trovare la forza nell’amore per i propri figli, per la famiglia, per i fratelli. Uno può dire: "Non posso pregare perché non credo". Ma nello stesso tempo, tuttavia, può credere nell’amore delle persone che ha intorno e lì trovare speranza". "Mi ha molto colpito l’articolo scritto su Repubblica da Fabio Fazio sulle cose che sta imparando da questi giorni. Tanti passaggi, ma in generale il fatto che i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri", aggiunge. Ha ragione ad esempio quando dice: "È diventato evidente che chi non paga le tasse non commette solo un reato ma un delitto: se mancano posti letto e respiratori è anche colpa sua" - spiega il Pontefice - Questa cosa mi ha molto colpito".
Da cavevisioni.it – il blog di Maurizio Caverzan il 18 marzo 2020. Apro il Tg1 delle 13.30 e trovo come prima notizia l’intervista di Francesco a Repubblica. In bella evidenza copia del quotidiano e il sorprendente endorsement papale di Fabio Fazio. In fondo, è pur sempre un conduttore di Mamma Rai. Cambio canale, perplesso. Ma il tg di La7, di proprietà di Urbano Cairo, editore del Corriere della Sera, la ignora. Sarà mica che Bergoglio è finito dentro il gioco dei media e dei poteri forti? Un Papa nonno non me l’aspettavo. Soprattutto, mi aspettavo di più da un Papa. Da papa Francesco. Lo dico con dolore. Con rammarico e delusione, purtroppo. In mezzo a tanti guru da quarantena che imperversano ovunque, sui giornaloni, sui social e in tv, da Bergoglio mi aspettavo parole ultime. Parole che vanno all’essenziale. Siamo messi faccia a faccia con la morte. Con il destino. Non alla rinuncia all’apericena sui Navigli. Siamo a confronto con il pericolo massimo che si fa prossimo, in modo imprendibile come raramente capitato dalla fine della Seconda guerra mondiale. C’è una pandemia, uno scenario dai risvolti drammatici che coinvolge l’intero pianeta. Ci era andato vicino domenica scorsa Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, scrivendo che «torna la voglia di parole vere». E, non a caso, aveva citato proprio Bergoglio che, sempre domenica, con un gesto commovente era andato a piedi a pregare nella chiesa di Santa Maria Maggiore davanti all’icona della Vergine «Salus populi romani». Un pellegrinaggio, meglio di tante parole. Per questo, in mezzo alla selva di consigli, decaloghi e omelie di tanti telepredicatori, da Francesco ci aspettavamo qualcosa più di un paterno buffetto sulla guancia. «Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro». Fin dalle prime righe sembrava di sentir parlare Fabio Fazio. Lui. Possibile? Ma di fronte a questa situazione un Papa non dovrebbe parlarci del Salvatore? Di un Tizio che è morto in croce per riscattarci dalla fragilità, dalla provvisorietà? Antonio Scurati agli albori dell’epidemia ha scritto che dobbiamo ricostruire «una coscienza collettiva della nostra finitudine». Se non è questo il cristianesimo che cosa lo è? Se non lo dice la massima autorità mondiale, il Vicario di Cristo, chi lo fa? Avete presente, qui ci vorrebbe l’emoticon con il faccino interrogativo e il pollice e l’indice attorno al mento. Immerso nelle perplessità ho proseguito la lettura fino all’epifania. «Mi ha molto colpito l’articolo scritto su Repubblica da Fabio Fazio…». Ma dai? «Che cosa in particolare?» gli ha chiesto il giornalista. «Tanti passaggi, ma in generale il fatto che i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri». E poi, «quando dice: “È diventato evidente che chi non paga le tasse non commette solo un reato ma un delitto: se mancano posti letto e respiratori è anche colpa sua”. Questo passaggio mi ha molto colpito». Papale. Ora questa faccenda si presta ad alcune considerazioni. La prima è una domanda. Davvero Francesco aveva letto Fabio Fazio del giorno prima? O qualcuno gliel’ha segnalato? E davvero il Papa ha confessato questa impressione senza che magari il suo confidente abituale a Repubblica incoraggiasse, diciamo così, la conversazione di ieri? E se così fosse, a che situazione saremmo di fronte? Sono solo domande, eh. Il secondo quesito è nel merito. Stiamo sempre parlando del custode della cristianità o di un ministro del Tesoro italiano che stigmatizza le conseguenze, pur nefaste, dei comportamenti degli evasori? La terza è una considerazione. Gli psichiatri e gli intellettuali laici in questo momento tanto drammatico citano Le confessioni di Sant’Agostino, per dire, e il pontefice eleva Fazio a nouveau philosophe. ’Namo bene, direbbero a Roma.
Mario Giordano per “la Verità” il 19 marzo 2020. In nome del Padre, del Figlio e dello spirito Fazio. Dopo l’Angelus in streaming, il Papa sperimenta una nuova frontiera della fede: la preghiera al profeta Fabio, Santo Conduttore di Rai 2 e Patrono della Beata Melassa. Nel pieno dell' apocalisse coronavirus, con il mondo atterrito dall' epidemia, il popolo disorientato e angosciato, con la maggior parte delle persone che si pongono di fronte alle domande essenziali dell' esistenza, Francesco decide di scendere in campo con tutta la forza millenaria della Chiesa. E di lanciare finalmente un messaggio profondo: convertitevi e seguite il Vangelo. Di Dio? No, di Fabio Fazio. E poi ricordatevi di rispettare i precetti. Della fede? No dell' Agenzia delle entrate. Dai profeti ai televip, dai Martiri della Chiesa al martire della Littizzetto, dalla speranza di vita eterna alla speranza di gettito tributario: il nuovo credo di Francesco è tutto qui. Nemmeno l' ombra del paradiso, a parte quello fiscale. Nemmeno una citazione per Gesù Cristo. Il quale, evidentemente, in questi momenti bui conta meno dell' ex conduttore del Rischiatutto. L' intervista è comparsa ovviamente su Repubblica, che ormai è l' organo ufficiale del Vaticano bergoglizzato. A firmarla non è nemmeno il fondatore, Eugenio Scalfari, cui Francesco si era già concesso con una certa generosità, in colloqui alla pari, da Papa a Papa. E nemmeno il direttore, Carlo Verdelli. E nemmeno uno dei vicedirettori. Macché: l' intervista è realizzata dal vaticanista ordinario, Paolo Rodari, come fosse una questione di routine. Immagino le riunioni di redazioni: tu chi intervisti? Un virologo. Tu? Il capogruppo del Pd. E tu? Io il Papa. A va beh, attento però che non sbrodoli troppo. Infatti ne viene fuori un papellino smoscio, allungato su due pagine per dovere, con più sommari che testo. Il cui senso è tutto nell' occhiello che giganteggia in testa pagina: «Quanto ha scritto Fabio Fazio su Repubblica è vero. I nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri». Parola del signore (di Rai 2). Ora: a parte il fatto che non siamo proprio sicuri che il concetto «i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri» sia proprio un' esclusiva del santo Fazio da Savona (può essere anche, non vorremmo sbagliarci, che una frase simile l' abbia già detta qualcun altro); e a parte il fatto che, in ogni caso, anche fosse autenticamente sua e solo sua, come rivelazione non ci sembra un granché (il Santo Padre dovrebbe essere a conoscenza di qualcosa di meglio, in materia di rivelazioni); a parte tutto questo, io dico: ma come? Sei il Papa. No, dico: il Papa. Già il fatto che parli con un' intervista a un quotidiano e non con un messaggio apostolico, in un momento così, ci suona un po' strano; già il fatto che quest' intervista sia sempre a Repubblica che da sempre sostiene i valori più contrari alla cristianità (dall' aborto all' eutanasia) è ancora più strano; ma poi, se tutto questo deve proprio accadere, volete per lo meno fare un' intervista vera? Con domande e risposte profonde? Meditate? Ragionate? Citando, che ne so?, Sant' Agostino o San Tommaso, oltre che Fabietto Fazio, sempre che i due Padri della Chiesa siano considerati all' altezza di Che Tempo Che Fa? Può il Papa liquidare la più grande tragedia del mondo contemporaneo con un' intervistina volante di poche battute, affogate nel tritacarne mediatico, così come se fosse un Fabrizio Pregliasco o una Maria Rita Gismondo qualunque? Tutto nasce dall' intervento di Fabio Fazio su Repubblica, due giorni fa. Aveva scritto un articolo in pieno stile fazista sulle «cose che sto imparando dall' isolamento». Roba tipo: «rimettere in ordine la mia scala di valori», «attenersi alla scala di valori», «riconnettersi con l' ecosistema» (e te pareva), «non accettare il cinismo», «il valore della stretta di mano», «la necessità del tenere la mano», «bisogna aprire i porti» (e te pareva) e «siamo tutti sulla stessa barca». Ovviamente siamo tutti sulla stessa barca finché la barca va. Ci mancavano «chi fa da sé fa per tre» e «chi fa la spia non è figlio di Maria» e poi l' elenco fazista avrebbe fatto l' en plein. Roba da risollevare i dubbi sul passaggio del conduttore su Rai 2: che ci fa lui sul secondo? È evidente che lui è da primo banale. A Repubblica, però, il compitino è piaciuto molto e così hanno deciso di dargli un seguito. L' altro giorno, per commentarlo, sono intervenuti Rosario Fiorello e lo scrittore Stefano Massini, noto per le sue apparizioni a Piazza Pulita. Dopo di che in redazione probabilmente si sono chiesti come andare avanti. Chi commenta dopo Fiorello? Carlo Verdone? Fiorella Mannoia? Michela Murgia? No, il Papa. Sì, è vero, nelle sue riflessioni è un po' meno filosofico di Fiorello, ma è pur sempre il Papa. E così l' intervistina è andata in pagina con tutti gli onori. Il contenuto? Semplice. Nel vero significato della parola. Francesco cita frettolosamente il Signore (ma mai Gesù Cristo), dice in due parole che ha pregato, e poi si dilunga sulla buona novella secondo Fazio: bisogna «ritrovare la concretezza delle piccole cose», come la «carezza ai nonni» (ne siamo sicuri?), il «bacio ai bimbi» (ma non erano sconsigliati baci e abbracci»?), il piatto caldo, la telefonata, e insomma queste cose. «Se viviamo così questi non saranno giorni sprecati», dice il Papa, che più che la svelare la verità cristiana sembra svelare le ricette di frate Indovino. O di Fabio Fazio, che poi tutto sommato non sono così diversi. Anche la descrizione che il Papa fa delle famiglie è piuttosto affrettata. Sono giorni di panico, angoscia, di relazioni che cambiano, che vengono rivoluzionate. Francesco invece descrive l' interno casa come quello di sempre con l' incapacità di ascolto, i «genitori che guardano la tv» (che strano eh) e i figli «sul telefonino» (ma toh). Pensa un po': queste famiglie di oggi. Le rinchiudi in casa e loro si attaccano ai social e guardano la tv, screanzati. «Siamo tanti monaci isolati uno dall' altro», dice il Papa. In realtà non siamo mai stati così vicini. E così angosciati. E così bisognosi di consolazione di fronte a morti assurde, a familiari che non possono nemmeno abbracciare e seppellire i loro cari, ai bagliori dell' apocalisse. Infatti l' intervistatore cita proprio questa parola «consolazione». E allora il Santo Padre che fa? Tira fuori i Padri della Chiesa? I Profeti? Gli Apostoli? Nostro Signore Gesù Cristo? La Pasqua di Resurrezione? L' eucaristia? La Vergine Madre? No: si aggrappa al decalogo di Fabio Fazio. E alla necessità di pagare le tasse, che in effetti è salvifica. Ma solo per l' erario. Così finirà che a messa ci andranno soltanto gli agenti del fisco. Credo nell' Irpef, dio onnipotente, creatore del cielo e della terra.
Coronavirus, il Papa: "Non dimenticare poveri e migranti". Nel corso dell'omelia mattutina, Papa Francesco ha invitato i fedeli a non dimenticare migranti e poveri. Anche ai tempi del Covid-19. Francesco Boezi, Giovedì 12/03/2020 su Il Giornale. Il coronavirus, con tutto quello che ne consegue in termini di dinamiche emergenziali, non può e non deve coadiuvare la "globalizzazione dell'indifferenza", che coinvolge tanto i poveri quanto i migranti. Papa Francesco ne è sicuro. Il pontefice argentino, per via delle misure restrittive imposte anche in Vaticano, deve rinunciare agli appuntamenti pubblici. Sono saltate pure le udienze. Jorge Mario Bergoglio sta continuando a celebrare una Messa presso Santa Marta. Una celebrazione mattutina che viene trasmessa in diretta a partire dalle 07.00. Le esigenze pastorali dei fedeli vengono così soddisfatte, mentre l'Italia ed il resto del mondo stanno affrontando quella che l'Organizzazione mondiale della sanità ieri ha considerato formalmente alla stregua di una pandemia. La pastorale del Santo Padre, però, presenta delle specifiche irrinunciabili. Tra queste, come abbiamo imparato in questi quasi otto anni di pontificato, c'è la prossimità alle periferie economico-esistenziali, che non vanno dimenticate. Anche ai tempi del Covid-19. Del resto attraverso l'omelia pronunciata ieri il Papa aveva già posto un accento sulle condizioni dei profughi siriani. Il Vaticano è stato chiuso ai turisti, ma la voce del Papa continuerà a risuonare. La tecnologia fornisce ausilio alla Santa Sede in questa fase, che è di sicuro sperimentale. Un Papa in streaming non si era ancora visto. Ma non ci sono molte alternative. La riflessione odierna interessa l'estensione globale di un atteggiamento che Bergoglio usa criticare: ""Quando per la prima volta sono andato a Lampedusa, mi è venuta questa parola: la globalizzazione dell'indifferenza", ha detto durante l'omelia il vescovo di Roma, così come riportato pure dall'Adnkronos. Poi arriva la disamina sullo stato delle cose odierno: "Forse noi oggi qui, a Roma, siamo preoccupati perché 'sembra che i negozi siano chiusi, io devo andare a comprare quello; sembra che non posso fare la passeggiata tutti i giorni; sembra questo...". Il direttore della Sala Stampa Matteo Bruni, due giorni fa, ha annunciato come la Santa Sede abbia predisposto tutta una serie di misure restrittive, che impongono più di qualche serrata all'interno delle mura leonine. Tra gli esercizi rimasti aperti, ma con "ingresso contingentato", la farmacia e il supermercato. Non si possono non prendere contromisure. Ora bisogna stroncare i contagi. Ma guardare a quello che è stato chiuso può essere limitante. L'ex arcivescovo di Buenos Aires, tenendo in considerazione le novità apportate dai decreti di questi giorni, ha posto l'accento su tutt'altro aspetto: "Preoccupati per le nostre cose, dimentichiamo i bambini affamati, dimentichiamo quella povera gente che ai confini dei Paesi cerca la libertà, questi migranti forzati che fuggono dalla fame e dalla guerra e trovano soltanto un muro: un muro fatto di ferro, un muro di filo spinato, un muro che non li lascia passare". Il coronavirus, insomma, non può essere una scusante per alimentare quello che Francesco in altre circostanze ha chiamato "egoismo". E i migranti, e le loro esigenze, non possono finire in un dimenticatoio. Altrimenti si rischia di finire nell' "abisso dell'indifferenza". Un ruolo decisivo lo gioca l'informazione, che dovrebbe essere capace di "scendere al cuore". Il Santo Padre ha rimarcato questo concetto. Bergoglio, concludendo la sua predica, ha invitato i fedeli a domandare una grazia circoscritta. Quella che serve per evitare il baratro dell'indifferenza.
Bonino sollecita Lamorgese: "Garantire salute migranti". La senatrice della Repubblica Italiana ha rivelato di aver attenzionato il ministro dell'Interno sul problema salute degli stranieri ospitati nei centri d'accoglienza e nei Cpr: le rassicurazioni della Lamorgese non soddisfano tuttavia la Bonino, che chiede uno "sforzo ulteriore". Federico Garau, Domenica 08/03/2020 su Il Giornale. Mentre il Paese è sempre più in ginocchio per le pesanti ripercussioni sanitarie ed economiche seguite alla diffusione del Coronavirus, un nuovo appello arriva sulla presumibilmente già affollata scrivania del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Vale a dire l'accorato appello della senatrice di + Europa Emma Bonino, allarmata dalle eventuali conseguenze che potrebbero esservi per gli extracomunitari ospitati presso centri d'accoglienza o centri di permanenza e rimpatrio, nonchè per il personale impiegato all'interno di suddette strutture. È lo stesso ex ministro della politiche Europee (ai tempi del governo Prodi) a riferire in prima persona sulla sua pagina personale Facebook di aver attenzionato l'onorevole Lamorgese sul problema Coronavirus e salute per gli stranieri presenti all'interno dei numerosi centri di accoglienza e rimpatrio, diffusi in modo capillare su tutto il territorio nazionale. "In seguito agli interventi previsti dal governo nei giorni scorsi per l'emergenza coronavirus, ho ritenuto necessario rivolgermi al ministro Luciana Lamorgese per chiederle se fossero state prese misure adeguate a garantire la salute dei richiedenti asilo ospitati nei centri di accoglienza e delle persone trattenute all'interno dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in tutta Italia. In particolare ho chiesto al ministro se vi fossero nei Cpr - da cui non è permesso allontanarsi - presidi idonei ad affrontare la situazione con la stessa cura con cui si dovrebbe agire nell'ambito carcerario, dove ancora troppo poco si sta facendo, non escludendo l'ipotesi di non procedere a nuovi ingressi nelle prossime settimane", si legge nella prima parte del comunicato. Una raccomandazione, tuttavia, che ha trovato le rassicurazioni della Lamorgese stessa, evidentemente non sufficienti, però, a far dormire sonni tranquilli alla senatrice della Repubblica Italiana, che chiede passi in avanti in più in tal senso. "Il ministro ha confermato di aver predisposto e comunicato agli uffici territoriali una serie di interventi sull'intero sistema di accoglienza di sua competenza. Ma sono certa che uno sforzo ulteriore di comunicazione e prevenzione vada fatto per proteggere la salute degli operatori e dei rifugiati. Sono convinta che occorra in questo momento la massima attenzione verso le condizioni di vita all'interno dei centri presenti nel nostro Paese, affinché venga fornito a chi vi è ospitato e a chi vi opera tutto il sostegno necessario ad affrontare le prossime settimane". Come non è mancata la rapida replica della Lamorgese sull'emergenza Coronavirus, così non sono mancati neppure i messaggi in risposta al post dell'ex rappresentante del partito Radicale. "Ringrazio tutti quelli come Lei che dicono apertamente ciò che pensano, in questo modo sono rispettati i diritti costituzionali di tutti. Compresi quelli di chi, andando a votare, saprà quali simboli evitare come la peste. Grazie per essere così chiara. Siete razzisti nei confronti degli Italiani. Ce ne ricorderemo quando avremo la matita in mano. Non pensate di riuscire a tenerci lontano da quella matita ancora a lungo. O la matita o le piazze. Virus o non virus. Non ne uscirete, stavolta. Faremo a pezzi questa Europa con una matita. Con tante matite" , attacca una internauta. "Ah, quindi riuscite a controllare gli ingressi? Ma non sono disperati che fuggono da guerre e pestilenze senza controllo? Con che autorità vi permettete di "disciplinare" gli ingressi?", replica un altro utente. "Ma vergognati . Pensa all’Italia che ti ha mantenuto una vita senza che tu abbia mai lavorato. Pensa ai tuoi connazionali non ai richiedenti asilo", attacca un altro.
PIÙ DI SALVINI POTÉ IL VIRUS. Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 marzo 2020. Il virus che dilaga in Italia fa molta paura anche dall' altra sponda del Mediterraneo. E così, dati alla mano, da due settimane si sono azzerate le partenze di migranti clandestini in partenza da Libia, Tunisia e Algeria. Zero. Non prendono più il mare gli scafisti libici, che notoriamente si tengono molto informati di quel che accade da noi e dosano sapientemente quanto cinicamente il rubinetto delle partenze. Sono scomparsi anche i barchini veloci che portano gente sulle coste della Sicilia o della Sardegna. Al ministero dell' Interno, dove in questi giorni hanno ben altre preoccupazioni, non è sfuggita la tregua del mare. L' ultimo sbarco ingente è del 27 febbraio scorso, quando fu concesso l' arrivo a Messina di 194 persone, tra cui 19 donne e 31 minori. Erano a bordo della nave umanitaria «Sea Watch 3». Si era già in emergenza da coronavirus, tant' è che il governatore siciliano Nello Musumeci protestò vivamente. E per misura di profilassi fu decisa a livello di governo, con scambio di lettere tra Roberto Speranza (Salute) e Luciana Lamorgese (Interno), la quarantena per tutti: i naufraghi in una caserma, l' equipaggio a bordo della nave. Precedentemente, il 23 febbraio, ventiquattro ore dopo che era stata annunciata la zona rossa attorno a Codogno e agli altri comuni del Lodigiano, c' era stato un altro maxi-sbarco: 276 persone a bordo della «Ocean Viking», fatti sbarcare a Pozzallo, e in quel caso si era applicato un protocollo già più rigido, con il controllo della temperatura. Finirono in quarantena anche questi. Da allora, con il moltiplicarsi delle cattive notizie di contagi, ricoveri e morti in Italia, il flusso di clandestini è magicamente cessato. Le navi umanitarie stesse hanno preso a girare al largo dall' Italia. Comprensibile che non faccia piacere la decisione della ministra Luciana Lamorgese, che ha ordinato una quarantena di 14 giorni con i volontari confinati in porto. Nell' occasione, la presidente della Ong «Mediterranea Saving Human», Alessandra Sciurba, protestò che imporre la quarantena soltanto alle navi delle Ong e non a quelle commerciali era «una discriminazione, solo un pregiudizio che si fa prassi approfittando di un momento di shock collettivo». Eppure è chiaro il ragionamento del Viminale: tirando a bordo persone che sono state esposte a un possibile contagio, perché certo non si può presumere che in Libia o in Tunisia gli scafisti adottino misure igienico-sanitarie per il povero carico di merce umana su cui speculano, il rischio si estende automaticamente anche agli equipaggi che hanno uno stretto contatto con i naufraghi. Sono a rischio tutti. Di qui la necessità della quarantena prima di entrare in contatto con altre persone in Italia. La cautela serve a proteggere innanzitutto chi lavora e vive nei centri di accoglienza, dove i nuovi arrivati finiscono con la richiesta di asilo internazionale. Giusto ieri i radicali hanno chiesto a Lamorgese per quanto riguarda i Centri di accoglienza straordinaria e i Siproimi (ex Sprar) «di garantire presidi adeguati a tutela di chi vive e di chi lavora in quelle strutture, a cominciare dalla fornitura di guanti, mascherine e quanto possa servire nella gestione quotidiana».
In Italia c’è il coronavirus, migranti “razzisti”: zero sbarchi a marzo. Le Ong incredule…Leo Malaspina mercoledì 11 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Zero sbarchi a marzo. Incredibile ma vero. Il coronavirus ha ottenuto risultati migliori perfino del più feroce dei ministri degli Interni, al punto da sollevare una domanda ironica. I migranti, quelli che scappavano dalla guerra per disperazione, sono diventati “razzisti”? Temono gli italiani contagiati? Ci emarginano, non si lasciano più accogliere? “Altro che paura del Coronavirus che frena gli sbarchi, nel Mediterraneo centrale in queste ore non c’è nessuna nave Ong, nessuno che possa testimoniare e raccontare cosa succede lì”. E’ questa la motivazione che espone all’Adnkronos Riccardo Gatti, capo missione della ong spagnola Proactiva Open Arms e direttore di Open Arms Italia sul fatto che sono stati registrati, secondo i dati del Viminale, zero sbarchi sulle nostre coste da inizio marzo. Open Arms insieme alle navi Sea Watch 4 (ex Poseidon) e Alan Kurdi sono attualmente ferme a Burriana (Valencia) per lavori; mentre dopo l’ultimo sbarco la Ocean Viking (la quarantena per il personale di bordo è terminata domenica scorsa) è ancora al porto di Pozzallo per questioni tecniche (cambio di equipaggio ed altro) ma “ripartirà il primo possibile”, conferma la Ong. La Sea Watch 3 è ferma a largo di Messina per ultimare la quarantena, non senza proteste. “Creare o credere nell’ipotesi che le persone non fuggono dalla Libia per paura del Coronavirus è tanto irreale quanto ridicolo“, sottolinea Gatti. “Ormai è documentato da diverse fonti accreditate: stupri, violenze, torture, è questo quanto subiscono le persone che cercano una via di scampo attraversando il mare. Lasciano la Libia per motivi ben più gravi del Coronavirus”. Al di là “della variabile tempo, che potrebbe essere un fattore deterrente, se sono partiti e intercettati dalla guardia costiera libica, i migranti sono stati riportati indietro. Noi non lo sappiamo, perché in assenza di Ong, non c’è testimonianza. Ecco anche spiegata la criminalizzazione contro le organizzazioni che salvano vite umane”, continua Gatti. “Per interessi politici dietro, si continua a portare avanti una falsa rappresentazione della realtà che spinge anche ipotesi assurde come quella della paura del coronavirus che blocca gli sbarchi in Italia. Ripeto senza Ong non ci sono soccorsi. Il resto sono solo solo respingimenti”, evidenzia Gatti. Coronavirus, il virologo Pregliasco: “Tasso di mortalità oltre il 4% è sovrastimato perché i casi identificati sono meno di quelli reali”
Franco Bechis per iltempo.it l'11 marzo 2020. Nel bollettino tragico di queste ore, con il numero di contagiati e di morti di coronavirus che sta salendo in modo esponenziale mettendo alla corda la capacità del sistema sanitario di ogni Regione, c'è un contatore numerico che sembra portare una buona notizia: da undici giorni non sbarca sulle coste italiane nemmeno un migrante. Dal 28 febbraio in poi ogni giorno il conteggio registrato dall'Unhcr è zero migranti arrivati in Italia, e un arco di tempo così largo senza sbarchi non si era mai avuto nell'ultimo anno. Ne partono di meno in genere dalle coste africane, però in quegli stessi dieci giorni ne sono arrivati 858 sulle coste spagnole e 788 su quelle greche, e qualche spicciolata anche a Malta dove ne arrivano pochi, ma comunque in media una quindicina ogni giorno. Perché nessuno viene in Italia visto che partono dall'altra sponda del Mediterraneo? La risposta è semplice: hanno paura del coronavirus. Probabilmente i diretti trasportati, ma sicuramente i trasportatori che proprio sulle coste italiane sembrano non volere mettere piede. Se anche c'è qualche nave di Ong in attesa evidentemente prende altre rotte da quando in Italia sono esplosi i contagi. E' una prova in più che quel traffico è organizzato, ed è fatto da persone magari anche spregevoli ma che certamente sanno ragionare, e indirizzano i barconi dove pensano sia più opportuno. Adesso evidentemente non siamo più la terra promessa e anzi siamo diventati la meta da fuggire. Si è ben capito ieri quando hanno chiuso i voli da e per l'Italia anche quegli albanesi che ben ricordiamo come primi protagonisti di un esodo quasi biblico verso le nostre coste. Lo zero sbarchi di questi giorni -con una durata record rispetto perfino all'anno di Matteo Salvini ministro dell'Interno- indica una volta di più che nulla di davvero spontaneo è mai accaduto nel Mediterraneo, e che qualcuno ha certamente la regia di ogni viaggio. E punta i barconi verso le coste che potrebbero essere meno respingenti per vari motivi. L'altro anno la meta principale di quei viaggi è stata la Spagna, poi il governo lì ha iniziato a fare la faccia feroce e i barconi hanno iniziato a puntare sulle coste dell'Egeo. Da inizio anno la tendenza è quella: 8.432 sbarchi in Grecia, quasi la metà in Spagna, 2.553 in Italia e un migliaio a Malta. Da quando è esploso in Italia a fin e febbraio dunque il coronavirus ha azzerato le partenze in queste direzione, e forse è la sola notizia non negativa che arriva dal tragico bollettino quotidiano di questa emergenza unica. Meglio in questo momento non dovere occupare energie, risorse e soprattutto anche spezzoni del sistema sanitario nazionale nell'accoglienza dei migranti. Basta e avanza la nuova peste per cui stiamo chiudendo l'intero paese in una morsa che si fa sempre più stretta (e terribilmente necessaria a salvare la pelle).
Occupazioni e selfie con il Papa: chi è il sindacalista che vuole regolarizzare tutti i migranti. Idolo degli intellettuali di sinistra da anni guida la lotta dei migranti con manifestazioni e gesti eclatanti: ecco chi è Aboubakar Soumahoro, il sindacalista che ha chiesto a Conte permessi di soggiorno per tutti. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Nel giro di appena otto ore, tante ce ne sono volute per ottenere un incontro con il premier Giuseppe Conte, l’hahstag #iostoconaboubakar ha già scalato le classifiche. È la declinazione italica del più celebre #blacklivesmatter.
Ma chi è Aboubakar Soumahoro, l’uomo che ieri si è incatenato a Villa Pamphili, finendo per dettare l’agenda della kermesse più blindata d’Italia?
"Attivista sociale e sindacale", è la definizione che dà di sé in uno dei tanti blog che cura online. Quarantenne italo-ivoriano, arrivato in Italia alla fine degli anni Novanta, lavora come bracciante e muratore e si laurea in Sociologia con una tesi sulla condizione dei lavoratori immigrati. Da quel momento la difesa dei diritti degli "invisibili" diventa la sua ragione di vita. Un impegno portato avanti nelle file dell’Asia Usb, sindacato di estrema sinistra, legato ai movimenti di lotta per la casa. Leader dei "Sans Papiers", nel 2015 guida la manifestazione dei centri sociali a sostegno dei profughi che cercano di attraversare illegalmente il confine italo-francese. Esalta il modello Riace e nel dicembre 2018 è alla testa del corteo dei migranti per chiedere la cancellazione del primo decreto sicurezza. Quella di ieri è solo l’ultima di una serie di azioni eclatanti. Un anno fa ha occupato la Basilica di San Nicola a Bari con un gruppo di circa 60 braccianti di Foggia e Borgo Mezzanone per protestare contro le condizioni di lavoro degli immigrati nei campi. Pochi mesi prima anche un selfie con Papa Francesco, nel giorno della festa dei lavoratori. "Vai avanti, non fermarti", gli avrebbe detto il Pontefice, a cui ha pure donato una copia del suo ultimo libro, "Umanità in rivolta". Sono questi i mesi della ribalta mediatica. "La sinistra ha bisogno di tanti Soumahoro", dice di lui Gad Lerner. Sul profilo Instagram da 72mila follower ci sono le foto con il giornalista Diego Bianchi ed Elly Schlein, punto di riferimento politico delle sardine. E poi l’abbraccio affettuoso con Roberto Saviano e Marco Damilano, con cui Soumahoro vuole "continuare a costruire processi collettivi per una rivoluzione spirituale". Al programma Che Tempo che Fa, di Fabio Fazio, diventa ospite fisso. Il suo bersaglio preferito è Matteo Salvini, l’ex ministro dell’Interno e leader leghista contro cui si scaglia alla prima occasione utile. "Un Salvini nero non può esistere, noi siamo buoni", ha dichiarato l'icona dell'anti-razzismo neppure una settimana fa al giornalista Antonello Caporale del Fatto Quotidiano. Soltanto qualche giorno prima tra i due c’era stato un duro botta e risposta nello studio di Mezz’ora in più, il programma condotto da Lucia Annunziata, sul tema della sanatoria degli immigrati clandestini. "Salvini? Venisse a lavorare nei campi", è la sintesi della posizione dell’attivista che ad aprile, dalle colonne dell’Huffington Post, chiedeva al governo un atto di "coraggio" per "regolarizzare tutti gli invisibili, indipendentemente da utilità economica, emergenza coronavirus o paura". "È una questione di civiltà e dovere di Stato", scriveva. Oggi quello stesso provvedimento non gli basta più. Al premier Conte, che con i ministri Nunzia Catalfo e Roberto Gualtieri gli ha aperto le porte della Casina del Bel Respiro ha chiesto "fatti concreti". Tradotto, l’abolizione dei decreti sicurezza e la concessione del permesso di soggiorno a tutti gli stranieri irregolari. Richieste che l’esecutivo sembra pronto ad accogliere a partire dalla modifica dei decreti sicurezza. "Fa parte del programma di governo ed è all’ordine del giorno", assicura l'attivista dopo l’incontro con il premier. Sul secondo punto Conte gli avrebbe inoltre garantito che "interesserà il governo per la regolarizzazione di tutti gli invisibili, concedendo il permesso di soggiorno per emergenza sanitaria convertito per attività lavorativa". L’obiettivo del sindacalista appoggiato da intellettuali di sinistra e Ong è quello di "stracciare gli accordi con la Libia" e tornare ad aprire i porti alle navi cariche di rifugiati. Una prospettiva che, archiviata l’era Salvini, non sembra più tanto lontana.
· Quelli che…lo Ius Soli.
E adesso l'estrema sinistra vuol far votare gli immigrati. Dopo la cancellazione dei dl Salvini ora si punta alla cittadinanza. La Boldrini: legge in tre anni. Gian Micalessin, Domenica 20/12/2020 su Il Giornale. Il futuro meticcio dell'Italia in un tweet. Il cinguettio è, manco a dirlo, di Laura Boldrini la «pasionaria» dei migranti. Con quel tweet l'ex presidente della Camera non esprime soltanto la sua gioia per la cancellazione dei decreti sicurezza di Matteo Salvini. Laura è molto più avanti. E spiega con sintesi perfetta come per lei, per gran parte della sinistra e per gli amichetti delle Ong, il voto di venerdì al Senato sia solo il primo passo verso un'Italia etnicamente riconfigurata. Un'Italia dove l'abolizione dei decreti sicurezza è solo l'indispensabile transizione verso una nuova legge sulla cittadinanza capace di trasformare i circa 700mila clandestini approdati dal 2013 in poi in cittadini a tutti gli effetti. Cittadini su cui sinistra e Pd potranno contare per rinverdire le proprie fortune elettorali. Un sogno? Mica tanto. Per capirlo basta seguire il cinguettante pensiero della parlamentare. A partire da quando saluta le nuove norme sull'immigrazione definendole il «miglior modo di celebrare la giornata Onu dei migranti». Un modo come un altro per far capire che l'Italia torna ad essere un porto aperto e accogliente. E tornerà a concedere ospitalità non solo a chi fugge da guerre o carestie, come da Convenzione di Ginevra, ma a chiunque bussi alle nostre porte spinto dal semplice desiderio di cercar fortuna. Nel tweet, sintetico, ma preciso nello sviluppo consequenziale la Boldrini non distingue tra migranti regolari e irregolari. Non è una novità. Per lei come per tutti i fondamentalisti dell'accoglienza la differenza non esiste. Al migrante è infatti riconosciuto il diritto di violare qualsiasi confine pur di raggiungere la meta che più l'aggrada. Ma questo già lo sapevamo. Meno esplicito era invece il proposito di Boldrini e compagnia d'inaugurare una «nuova stagione dei diritti» aperta da una nuova «legge sulla cittadinanza». Ma qui non siamo nel mondo dei sogni bensì in quello più concreto della realtà legislativa. A fianco delle proposte di legge sullo «ius soli» e sullo «ius culturae» destinate ai minori figli di migranti giace in Parlamento un progetto di modifica della legge sulla cittadinanza per gli adulti firmato da Laura Boldrini. Quel progetto garantisce la cittadinanza ad ogni straniero «soggiornante nel territorio della Repubblica da almeno tre anni» compresi quelli a cui non è stata riconosciuta la qualifica di rifugiato a tutti gli effetti. E qui siamo al punto. Tra le più significative restrizioni all'accoglienza indiscriminata introdotte dai «decreti sicurezza» c'era l'abolizione della «protezione umanitaria». Quel cavillo garantiva la permanenza in Italia di molti più migranti rispetto ai pochi in grado di ottenere lo status di rifugiati o la protezione sussidiaria stabiliti dalla Convenzione di Ginevra. Per fare un esempio, su 47.885 permessi di soggiorno concessi nel 2018 solo 7mila315, ovvero il 15%, garantivano lo status di rifugiato. Ottomila 570, pari al 18%, si basavano sulla protezione sussidiaria (18%). Il 67% per cento dei permessi, pari a ben 31mila 995 migranti, era invece garantito dalle ben più labili motivazioni previste dalla protezione umanitaria. Ma la «protezione umanitaria» è stata appena reintrodotta surrettiziamente con il nome di «protezione speciale« proprio grazie alla cancellazione dei «decreti sicurezza» tanto cara alla Boldrini. Che ora punta sul suo progetto di legge sulla cittadinanza per garantire alla sinistra quasi un milione di nuovi elettori in poco più di tre anni.
Lo dicono pure i dati dell'Istat: ecco perché lo ius soli non serve. Nonostante la sinistra insista per cambiare la legge sulla cittadinanza, crescono i nuovi italiani. "Le norme attuali bastano". Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Martedì 10/11/2020 su Il Giornale. Diminuiscono i permessi di soggiorno, ma aumenta la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. Sono questi i dati che emergono dal report redatto dall’Istat dai quali si evince che il maggior numero delle concessioni ha avuto come destinatari persone di origine non comunitaria.
La cittadinanza italiana agli extracomunitari. Nel 2019 c’è stato il 10,1% in più del riconoscimento della cittadinanza italiana ai non comunitari rispetto al 2018. Su un totale di 127mila cittadinanze rilasciate nel 2019, quelle agli extracomunitari sono state 113.979, mentre l’anno precedente erano state poco più di 103mila. Numeri importanti che mettono in evidenza come i non comunitari siano sempre più interessati a divenire italiani a tutti gli effetti. A fare richiesta sono maggiormente macedoni, pakistani, ecuadoriani. Mentre i sudamericani acquisiscono la cittadinanza prevalentemente per ius sanguinis e rappresentano la maggioranza dei casi totali. Un altro dato rilevante è quello dal quale emerge come l'aumento di domande sia aumentato prevalentemente tra le persone di sesso maschile: nel 2019 sono il 14,2% in più le richieste presentate dagli uomini a fronte del 6,7% di quelle avanzate dalle donne. I minori divenuti italiani sono il 30% , mentre quelli che lo sono divenuti a seguito di matrimoni sono il 13%. Un quadro chiaro dal quale si evince come lo ius sanguinis sia la modalità che prevale nell’acquisizione della cittadinanza.
Lo ius sanguinis. Lo ius sanguinis è la modalità di acquisizione della cittadinanza che si basa su un requisito fondamentale: uno dei genitori deve essere di nazionalità italiana. Lo ius sanguinis, attualmente vigente nell’ordinamento giuridico italiano, con la legge 91/92, si contrappone allo ius soli che invece prevede l’acquisizione della cittadinanza italiana per il fatto di nascere sul territorio statale, a prescindere dalla cittadinanza dei genitori. La norma italiana su questo argomento è chiara e rigida: non è il territorio ad essere l’elemento rilevante ma la cittadinanza dei genitori. Tuttavia lo ius sanguinis non è l’unica modalità: è possibile divenire italiani dopo due anni dal matrimonio con un italiano o dopo almeno 10 anni di residenza sul territorio nazionale per gli extracomunitari, mentre di almeno 4 anni per i cittadini europei.
Il pallino della sinistra: lo ius Soli. "Lo ius soli complica soltanto": la verità sulla legge pro migranti. Da anni si parla di attuare modifiche alla legge attuale. A essere messo in discussione è il principio stesso dello ius sanguinis, privilegiando invece il cosiddetto ius soli. Concedere cioè la cittadinanza a chi nasce nel territorio italiano, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Un'istanza, quella dello ius soli, che sta a cuore soprattutto a sinistra. Tanto è vero che durante il governo Gentiloni era già stato presentato un apposito disegno di legge. Tutto è tramontato per la fine di quella legislatura e perché all'interno del Pd si era intuita l'impopolarità della riforma. Con l'avvento della maggioranza giallorossa sono stati tirati fuori dal cassetto altri disegni di legge. Uno in particolare è a firma dell'ex presidente della Camera, Laura Boldrini. Il termine ius soli è accantonato a favore della denominazione di ius culturae, ma la sostanza è la stessa. C'è fretta, da parte del centro – sinistra, di archiviare lo ius sanguinis. Lo si intuisce non solo dalle proposte portate in parlamento, ma anche dalla pressione mediatica più volte messa in atto e in cui la norma attuale viene vista come “passata”, non in linea con la legislazione di altri Paesi europei. Eppure i numeri dicono il contrario: la legge in vigore non crea un abbassamento del numero di concessioni della cittadinanza, né tanto meno pone l'Italia indietro rispetto ad altri contesti.
“L'attuale legge risponde ai bisogni di cittadinanza”. In quasi trent'anni la norma ispirata al principio dello ius sanguinis ha dato prova di funzionare. È di questo parere il professor Marco Lombardi, docente dell'Università Cattolica e direttore del centro di ricerca Itstime: “L'attuale legge può rispondere molto bene ai bisogni di cittadinanza – ha dichiarato a IlGiornale.it – Non ci sono dubbi da questo punto di vista”. La domanda sorge quindi spontanea: perché si ha fretta di introdurre lo ius soli? I motivi secondo Lombardi sono almeno tre: “In primis c'è una componente ideologica legata alle novità di un secolo, come quello attuale, contraddistinto da sempre più movimenti. Si vuole premiare e dare maggior rilevanza alla destinazione e non all'origine e dunque all'identità di una persona”. C'è poi una questione di natura politica: “Si sono formati su questo tema diversi schieramenti – ha proseguito il professore della Cattolica – E c'è quindi una parte che più di altre porta avanti la propria posizione”. Infine non è da sottovalutare una questione più “pratica”: “Lo ius soli genererebbe degli automatismi che in ambito burocratico faciliterebbero la vita a chi amministra – conclude Lombardi – Oppure al futuro nuovo cittadino”. A ogni modo, appare chiaro come l'attacco all'attuale legge proseguirà anche in futuro. E questo nonostante anche gli ultimi dati ne abbiano confermato la validità.
Ius soli e ius culturae sono un rischio per la sicurezza nazionale. Il caso della decapitazione del docente parigino Samuel Paty mostra un problema molto serio che riguarda adolescenti che all'integrazione prediligono l'islamismo. Giovanni Giacalone, Sabato 24/10/2020 su Il Giornale. L'omicidio con tanto di decapitazione del docente di educazione civica, Samuel Paty, che lo scorso 16 ottobre ha sconvolto la Francia, oltre a far riemergere per l'ennesima volta il problema del terrorismo di stampo islamista in Europa, è anche un indicatore più che evidente la mancanza di integrazione sociale e culturale, con tutti gli eventuali rischi per eventuale ius soli o ius culturae in Italia. Ernesto Galli della Loggia ha ragione quando afferma dalle colonne del Corriere della Sera di valutare attentamente l'ipotesi ius culturae, ovvero di "dare la cittadinanza a tutti i giovani stranieri esclusivamente sulla base della frequenza di un ciclo scolastico" visto che il caso Paty fa emergere il ruolo fondamentale di studenti che almeno in teoria dovevano essere integrati ma che hanno invece avuto un ruolo sia nel denunciare il docente alle proprie famiglie in quanto ritenuto colpevole di aver mostrato le vignette satiriche su Maometto ripubblicate da Charlie Hebdo e sia nell'indicare al killer il docente poi aggredito e decapitato. Lo storico ed accademico fa inoltre notare che forse a un ragazzo immerso in un ambiente inquinato dal fanatismo religioso non basta aver frequentato un ciclo scolastico per essere immune da influenze perverse, così come è giusto controllare adeguatamente le famiglie prima di concedere cittadinanze. Del resto nemmeno lo ius soli può essere garanzia di integrazione visto che il nascere in un Paese non implica necessariamente il condividerne valori e leggi; lo si è del resto visto con le migliaia di foreign fighters nati e cresciuti in Europa che sono partiti per unirsi all'Isis, così come lo si è visto in numerosi attentati che hanno negli anni preso di mira Francia e Gran Bretagna. Non bisogna dimenticare che anche l'Italia ha avuto i suoi "naturalizzati" che hanno abbracciato l'ideologia islamista radicale e il jihadismo, come ad esempio Halili El Mahdi, origini marocchine, finito nel mirino dell'antiterrorismo per ben due volte in poco più di tre anni con l'accusa di propaganda a favore dell'Isis e per aver pianificato un attentato con un camion-bomba, così come Anass El Abboubi, anch'egli di origini marocchine e arruolatosi nell'Isis dopo aver lasciato la provincia di Brescia. Giusto per citarne un paio. Senza dover poi arrivare ad abbracciare il jihad, sono numerosi i casi di personaggi in Italia da decenni, alcuni con cittadinanza ed altri no, alcuni anche attivi in ambiti islamici organizzati italiani (che troppo spesso sfociano in islamismo) e che hanno mostrato simpatia e sostegno per quell'islamismo radicale filo-Hamas e filo-Fratellanza che guarda caso è lo stesso supportato da Abdelhakim Sefrioui, fondatore di un collettivo islamista francese denominato "Shaikh Yasin" in onore del fondatore di Hamas. Sefrioui è stato arrestato assieme a Brahim Chnina (il padre della studentessa che avrebbe segnalato il docente ai propri familiari) con l'accusa di aver istigato il 18enne killer ceceno che ha poi decapitato Samuel Paty. In Italia abbiamo visto personaggi noti e familiari di personaggi noti agli ambienti islamici che hanno pubblicato post e immagini a favore dei gruppi armati di Hamas, dei Fratelli Musulmani, a favore del jihad; altri che hanno invocato la cancellazione dalla mappa di certi Paesi a loro non graditi. Altri ancora che hanno pubblicamente lodato improponibili predicatori radicali. L'ideologia islamista radicale è ampiamente presente in tutta Europa e la concessione di una cittadinanza facile rischia di provocare danni enormi. In Italia fin'ora si è riusciti a contenere il problema anche grazie al fatto che non c'è lo ius soli e questo permette l'espulsione immediata di soggetti radicalizzati e impedisce dunque il radicamento di cellule e reti jihadiste, come già illustrato già a suo tempo dal generale Mario Mori, ex comandante del Ros dei Carabinieri ed ex direttore del Sisde: "lo ius soli, che non fa altro che rendere ancor più difficile la gestione del terrorismo islamico. In Italia ci sono 250mila musulmani con cittadinanza italiana - dice Mori - Si pensi che la Francia, dove i musulmani sono tra il 10 e il 12% della popolazione, ha 12 mila neocittadini considerati potenziali terroristi e 4000 di questi sarebbero pronti a compiere subito azioni criminali. Del resto lo ius soli non ha risolto nulla. Nel Regno Unito, dove si è cercata la via del multiculturalismo, il 55% dei musulmani inglesi non si considerano britannici; in Francia, dove si è provata la via dell'integrazionismo, il 50% dei musulmani residenti preferisce il corano alla Costituzione". Francia e Gran Bretagna sono di fatto i due Paesi europei che hanno fornito il maggior numero di jihadisti a Isis ed al-Qaeda e dove interi quartieri-ghetto sono in mano all'islamismo. E' dunque palese come il multiculturalismo e la cittadinanza facile non siano garanzia di integrazione. Sulla questione interviene anche l'ufficiale degli Spetsnaz in pensione, Andrej Payusov, che conosce bene il problema del terrorismo di stampo islamista nella Federazione Russa e che critica le politiche migratorie europee in quanto incapaci di scremare tra i diversi tipi di immigrazione; una miopia politico-ideologica che porta l'Ue a cercare di assimilare soggetti pericolosi e terroristi che non hanno però alcuna intenzione di integrarsi ed anzi, sono pronti a colpire alla prima occasione utile. Insomma, l'attentato dello scorso 16 ottobre a Parigi mostra chiaramente e per l'ennesima volta come ius soli e ius culturae non siano affatto garanzia di integrazione ma anzi, possono svolgere il ruolo di "cavallo di troia" per il terrorismo e per quell'islamismo radicale che va invece combattuto e debellato. Nei confronti di ambiguità, relativismo e doppio linguaggio serve tolleranza zero, perchè il carburante del terrorismo è l'ideologia, come insegna il caso di Parigi, ed è lì che bisogna incidere.
Mattarella nomina il primo rom commendatore della Repubblica: è il padre di una sardina. Si tratta di Santino "Alexian" Spinelli, musicista e ambasciatore della cultura romanì nel mondo: il figlio è un promotore delle sardine abruzzesi. Luca Sablone, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. È Santino Spinelli, in arte Alexian, il primo commendatore rom della Repubblica: il musicista ha conseguito questo titolo dopo la nomina da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L'ambasciatore della cultura romanì nel mondo inoltre può vantare la cittadinanza onoraria del Comune di Laterza (Taranto) e la carica di ambasciatore dell'arte e della cultura romanì nel mondo che gli è stata conferita dall'International Romani Union. Il 56enne ha così commentato l'importante conferimento: "Un sentito ringraziamento al presidente della Repubblica per la nomina a commendatore, dedico questo prestigioso riconoscimento a tutto il mio popolo, soprattutto ai giovani rom e sinti". Suo figlio è Gennaro Spinelli, promotore delle sardine abruzzesi e coordinatore della relativa pagina Facebook. Il 27enne ha tenuto circa 1.500 concerti in tutto il mondo. Il ragazzo a fine gennaio è stato invitato dal capo dello Stato al Palazzo del Quirinale, in occasione della celebrazione del Giorno della Memoria. "Con immenso orgoglio vi annuncio che il mio papà è stato nominato commendatore dell Repubblica Italiana dal presidente Mattarella ed il presidente Conte!", ha commentato entusiasta il rappresentante della comunità rom, sinti e camminanti. Il fondatore e presidente dell'associazione culturale Thèm Romanò (mondo romanò) è residente a Lanciano, in provincia di Chieti, ha due lauree e una grande passione per la musica trasmessa ai suoi 3 figli. Rappresenta l'Italia al Parlamento dell'Unione internazionale romanì ed è presidente di FederArteRom. Sotto la poesia Auschwitz sul monumento alle spalle del Bundestag, a Berlino, c'è la sua firma.
"Motivo di orgoglio". Sulla questione si è espresso Mario Pupillo, il sindaco di Lanciano: "Il prestigioso riconoscimento che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inteso conferire al nostro concittadino Santino Spinelli con il titolo di Commendatore fa onore alla Città di Lanciano". Secondo il primo cittadino questo rappresenta una "testimonianza viva del valore della cultura ed in particolare della musica quale linguaggio universale di pace e di uguaglianza tra i popoli". A suo giudizio, per quella che definisce la "città dell’accoglienza", è un motivo "di grande orgoglio e soddisfazione" avere un concittadino come Santino. A lui sono andati i meriti e i ringraziamenti per "l'elevato contributo artistico e culturale, che ha fatto conoscere al mondo la storia e la cultura romanì e generato il percorso condiviso che ha portato la città di Lanciano, prima in Italia e seconda in Europa dopo Berlino, ad erigere un monumento al Samudaripen in memoria degli oltre 500.000 Rom e Sinti uccisi nel campo di sterminio di Auschwitz".
Foggia, tirocinio migranti in procura e polemiche: "Sono risorse". Il procuratore della Repubblica difende con orgoglio il progetto nato tramite una convenzione attivata con la cooperativa sociale Medtraining. Un'operazione a costo zero che non graverà sulle casse del Ministero: "Probabilmente estenderemo convenzione al Tribunale". Federico Garau, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Accoglienza ed integrazione a Foggia, sono quattro gli stranieri ad essere inseriti come tirocinanti e quindi distribuiti in alcuni uffici della procura della Repubblica. Un periodo formativo della durata di tre mesi, estendibile complessivamente fino a sei, durante il quale i protagonisti svolgeranno dei compiti solitamente legati alle figure dei commessi od a quelle degli ausiliari. Ad essere incluso tra i primi nel progetto, come riportato da "Foggia Today", è il libico di 32 anni Haytem, che già da un mese svolge delle mansioni presso l'Ufficio dibattimento. Dalla Costa D'Avorio proviene Kouyate, 34 anni, che gestisce la movimentazione fascicoli, mentre dal Marocco arriva Abdel, affidato all'Ufficio di trattamento informatico degli atti processuali ed all'Archivio. "Mi piace questo lavoro. Grazie alla Repubblica Italiana, grazie a tutti", riferisce il 38enne alla stampa locale. L'ultimo arrivato nel gruppo di tirocinanti, con mansioni relative allo smistamento degli atti, è il 59enne Achab. Un progetto di integrazione, questo, attivato dalla stessa procura della Repubblica tramite una convenzione con la cooperativa Medtraining, che gestisce alcuni Sprar nella provincia foggiana. "Il migrante, grazie ad una sapiente opera di integrazione, è una risorsa per lo Stato. Colmano un vuoto di organico dei nostri uffici. Contiamo di poter estendere il numero di partecipanti. I tirocinanti sono stati formati, informati dei rischi e sono state stipulate le assicurazioni", sostiene con entusiasmo il procuratore della Repubblica di Foggia Ludovico Vaccaro, a cui fa eco il dirigente amministrativo Antonio Toziani. "Probabilmente estenderemo questa convenzione anche al Tribunale", annuncia. "Perché l'iniziativa adottata dal Procuratore è importante per il messaggio culturale ma anche per il contributo che i tirocinanti possono fornire alle cancellerie. Abbiamo delle forti scoperture di organico". Un'operazione importante anche per contenere i costi, dato che si parla di tirocini formativi che non peseranno sulle casse dell'ente, trattandosi di una possibilità concessa tramite i percorsi di integrazione del progetto Sprar. Percorsi di formazione, dunque, gratuiti che già la cooperativa Medtraining ha proposto in altre aziende, come ribadisce il presidente Carmine Spagnuolo, che precisa: "Fare un tirocinio in procura introduce un elemento di rottura e di cambiamento, perché ha un impatto fortissimo in relazione alla rappresentazione sociale degli immigrati soprattutto in questo territorio. Mette in discussione gli stereotipi. Noi siamo abituati a vedere le persone che raggiungono il nostro territorio, migranti e rifugiati, soltanto a certi livelli della scala sociale. Per noi è strano vedere un infermiere di colore. A meno che non sia un calciatore, tutto il resto provoca una dissonanza cognitiva. Questa è la sfida più interessante. È un'operazione di rottura e di coraggio". Il tutor di riferimento Roberto Ginese punzecchia invece chi ha avanzato delle critiche: "Forse non si capisce il senso di quello che si fa. Da oggi in questa squadra Stato entrano anche i migranti, anche loro fanno parte dello Stato, sebbene a qualcuno forse dia fastidio. Ci aiutano nelle funzioni di base".
Ius soli, dl Sicurezza e sbarchi: Pd avanti a tutta immigrazione. All'indomani del voto, il governo riapre i porti e fa entrare altri 400 irregolari. E i dem preparano l'offensiva sui decreti Sicurezza e sullo ius soli. Andrea Indini, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Galvanizzato dal risultato in Emilia Romagna e soprattutto dall'ennesimo flop elettorale del Movimento 5 Stelle, il Partito democratico ha messo l'acceleratore sulle politiche buoniste a favore degli immigrati. Che fosse questa la direzione che avrebbe preso la macchina giallorossa, era chiaro già da alcune settimane. Su certi temi fortemente divisivi, tuttavia, hanno preferito starsene più schisci in campagna elettorale in modo da perdere i voti degli indecisi. Adesso che il risultato è stato portato a casa (e che il fortino rosso è stato difeso) possono comodamente sbracare sapendo bene che i grillini, troppo presi a cercare di sistemare le proprie beghe interne, non gli faranno alcuna opposizione interna. Le parole d'ordine sono arrivate già all'indomani della sbornia elettorale. Mentre il reggente Vito Crimi e compagni erano ancora intontiti dalla sberle degli elettori, i vertici del Pd hanno messo subito sul tavolo i dossier da infilare immediatamente nell'agenda di governo. E, manco a dirlo, uno di questi è appunto la revisione immediata dei decreti Sicurezza fatti digerire ai Cinque Stelle da Matteo Salvini quando sedevano al governo insieme. A lanciare l'assalto alla diligenza è stato, ieri mattina, il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, a La7. Dopo di lui tutti i big piddì si sono accodati senza ricevere alcun veto da parte degli alleati pentastellati. Per il momento non sappiamo in che modo intendano cambiarli. Si parla, tuttavia, di "revisione integrale". E per il presidente dei senatori dem Andrea Marcucci deve essere uno dei punti cardine di un governo, come il loro, che si prefigge di "frenare l'arroganza di Salvini". Purtrotto la revisione dei decreti Sicurezza non è la sola idea balzana che i democratici si sono fissati in testa. Da giorni sembra essere tornata in auge la crociata per svendere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati. A Casalecchio, nel corso di una conferenza stampa indetta nel suo comitato elettorale all'indomani della vittoria sulla leghista Lucia Borgonzoni, Stefano Bonaccini ha ritirato fuori una delle riforme più divisive (e più invise). "Penso che lo ius soli sia un provvedimento giusto per un Paese civile", si è limitato a dire rilanciando, tuttavia, la patata bollente nell'agone politico. Una boutade? Mica tanto. Una decina di giorni fa, incalzata dal radicale Riccardo Magi durante un question time alla Camera, il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese aveva già anticipato che il governo sta studiando una maxi sanatoria per regalare il permesso di soggiorno a buona parte degli irregolari che già si trovano sul nostro territorio. Non solo. Al vaglio del parlamento c'è poi la proposta di legge "Ero straniero" che, se approvata, porterebbe alla totale abrogazione del decreto flussi attraverso l'introduzione di quote di ingresso annuali e l'adozione di nuovi e più facili canali di ingresso. Misure che, abbinate allo ius soli, porterebbe alla riforma più buonista che il nostro Paese abbia mai visto nella sua storia. Come se non bastasse, poi, non una sola nave carica di clandestini trova più la strada sbarrata. Ormai attraccano tutte (indisturbate) nei nostri porti. Certo, gli vengono fatti fare alcuni giorni di anticamera per salvare la faccia, ma poi Conte compagni danno sempre il via libera senza alcuni problemi. L'ultima (in ordine temporale) è stata la Ocean Viking a cui è stato dato il porto di Taranto per far scendere gli oltre 400 immigrati che ha a bordo da quattro giorni. Il disco verde alla nave dell'ong Sos Mediterranée è stato dato oggi. Ovviamente, subito dopo il voto di domenica.
"Niente cittadinanza a chi non sa l'italiano". L'appello ai colleghi del sindaco di Asti. Il primo cittadino scrive all'Anci: "Come fanno a rispettare le nostre leggi?" Nadia Muratore, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. «Essere cittadini italiani e non conoscere la lingua italiana, credo sia un'assurdità. Per questo mi chiedo come sia possibile conferire la nazionalità a stranieri che non hanno saputo neppure leggere il giuramento previsto dalla cerimonia di conferimento della cittadinanza. Più che integrazione, questa mi pare una presa in giro». Il sindaco di Asti, Maurizio Rasero, non ci sta a fare il semplice passacarte e dopo l'ennesimo episodio di cittadini stranieri che diventano italiani ma non sanno pronunciare una parola nella nostra lingua, si è rivolto all'Anci - l'Associazione nazionale dei Comuni italiani - affinché diventi portavoce in Parlamento, perché chi deve verificare il possesso dei requisiti previsti dalla legge lo faccia, chiedendo a tutti un certificato che attesti il livello di conoscenza dell'italiano.
«Credo fermamente nella solennità di questa cerimonia - prosegue il primo cittadino nella lettera spedita all'Anci - e non mi sono mai sottratto a questo dovere. In un anno e mezzo di mandato, ho sempre conferito in prima persona la cittadinanza, ricordando che per Asti questi nuovi cittadini sono una grande risorsa. Però mi chiedo come si fa a giurare di onorare e rispettare le nostre leggi se poi non si sanno neppure leggere né capire. Ho ricevuto il giuramento di stranieri che non sono riusciti a leggere la formula di rito e sapevano solo pronunciare tre parole: sì, capito, va bene».
Una norma per certificare questo importante requisito, però c'è, ma evidentemente almeno in certi casi non viene rispettata.
«Nel 2016 - precisa Rasero - l'allora ministro dell'Interno Alfano, affermò che il decreto di riconoscimento della cittadinanza italiana deve essere adottato in esito a una complessa attività istruttoria, durante la quale si dovrebbe anche accertare il grado di conoscenza linguistica. Ma una volta concluso l'iter, l'ufficiale di stato civile non ha alcun potere di effettuare controlli sul reale grado di conoscenza della lingua italiana da parte del richiedente. Noi sindaci, che accogliamo il giuramento non possiamo più intervenire, ma così si rendono cittadini italiani persone che non sanno parlare né leggere la nostra lingua».
Soprattutto per le persone adulte, apprendere una nuova lingua non è facile. «In questo caso - propone il sindaco - si può aspettare e concedere la cittadinanza più avanti, quando sono in grado di capire cosa dice la Costituzione sulla quale stanno giurando».
Anche il decreto Salvini ha recentemente modificato gli articoli 5 e 9 della legge 91 prevedendo, all'atto di presentazione dell'istanza, l'obbligo di dimostrare il possesso di un'adeguata conoscenza della lingua italiana. «Evidentemente c'è qualche cosa che non funziona. Dal giugno 2017 come ufficiale di stato civile ho celebrato 287 giuramenti per il riconoscimento della cittadinanza italiana ma a molti di loro mancava il presupposto prioritario per l'integrazione», conclude Rasero.
Ius soli, la sinistra all'attacco: "Norma per non emarginare i rom". Il testo voluto da Laura Boldrini è allo studio della commissione Affari costituzionali della Camera. Tra le modifiche, la norma "per non emarginare i rom". Giorgia Baroncini, Giovedì 09/01/2020 su Il Giornale. Gli occhi di tutti sono puntati all'estero, alla crisi tra Stati Uniti e Iran e al caos libico. E in Italia c'è qualcuno che sta approfittando della situazione e lavorando senza dare troppo nell'occhio. Si tratta del Pd che sta rivedendo lo ius soli e pensando ad una versione che potrebbe rendere l'acquisizione della cittadinanza italiana molto più facile. Come rivela La Verità, la proposta di legge, che ha come primo firmatario Laura Boldrini, già ieri era allo studio della commissione Affari costituzionali della Camera. Il Pd infatti ha intenzione di tornare a puntare sul tema immigrati "quale elemento di primaria importanza nello Stato democratico", come dice la premessa all'articolato. Diversi gli obiettivi del nuovo ius soli. Si parla di incrementare l'acquisizione della cittadinanza e trasformarla nel "naturale coronamento della legittima aspirazione del richiedente" a seguito di un soggiorno legale di durata "ragionevole sul territorio". E dalla cittadinanza non trae vantaggio solo la persona, ma anche lo Stato, si legge. Così il Pd torna a dare vita al suo cavallo di battaglia, rendendolo ancora più ideologico. Sono previste modifiche che riguardano coloro che nascono sul territorio italiano. Si stabilisce inoltre che chi nasce in Italia da un genitore a sua volta nato sul territorio nazionale debba essere soggetto allo ius soli "senza alcun requisito aggiuntivo". "Questo provvedimento è un inganno - ha tuonato Giovanni Donzelli di Fratelli d'Italia a La Verità -. I bambini vengono usati come scudo umano come pretesto per regalare la cittadinanza a tutti". Ma non è finita qui. Nel testo si legge anche che "si potrebbero finalmente risolvere casi di intollerabile emarginazione subita da molti soggetti (ad esempio di etnia rom), di seconda o addirittura terza generazione, da sempre presenti sul territorio e privi di qualsiasi titolo di soggiorno". E così è facile prevedere che lo ius soli, da sempre terreno di scontro tra le forze politiche, torni a creare tensioni tra centrodestra e centrosinistra. Mentre l'attenzione è puntata tutti verso il Medio Oriente e si parla di politica interna solo per evidenziare il caos che sta spaccando il Movimento 5 Stelle, ecco che il Pd agisce in silenzio. Lo ius soli è destinato a creare nuove frizioni non solo con l'opposizione, ma anche all'interno dell'esecutivo giallorosso. Ma i dem hanno un unico obiettivo: far approvare lo ius soli e così allargare il loro bacino elettorale.
· La Cittadinanza col Trucco.
"C'è qualche pecora?". Così i migranti definivano le donne italiane da sposare. La Guardia di Finanza ha smantellato una rete criminale che organizzava finti matrimoni allo scopo di ottenere permessi di soggiorno. Le donne italiane definite "pecore" dagli arrestati. Francesca Galici, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. La Guardia di Finanza di Messina ha smantellato due organizzazioni criminali dedite al favoreggiamento dell'immigrazione verso il nostro Paese. Sedici persone sono state raggiunte da un'ordinanza di custodia cautelare tra Messina, Catania, Bergamo, Torino e Francoforte sul Meno: organizzavano matrimoni di facciata per ottenere permessi di soggiorno per i migranti irregolari. L'organizzazione, gestita da stranieri, viene definita dagli investigatori come "una spirale infinita dell'illecito, sicuramente in essere dal 2016 e tuttora attivo". Le operazioni si svolgevano tra il Marocco e l'Italia, dove venivano reclutate principalmente le donne da dare in sposa agli stranieri per un matrimonio fittizio. Le indagini sono scattate in seguito a controlli approfonditi sui documenti anagrafici, dove erano sempre più frequenti i matrimoni misti. A insospettire sono state anche la ripetitività dei testimoni di nozze e degli interpreti stranieri, nonché le reiterate parentele tra testimoni e sposi. Il sospetto di una rete criminale dietro queste anomalie si è concretizzato con la scoperta delle organizzazioni da tempo attive a Messina e fortemente ramificate in Marocco, a capo delle quali operavano E.A.A. detto Samir, 36 anni e C.A. detto Abramocl, 51 anni. Erano loro la mente dietro i matrimoni finti ed erano loro che organizzavano i viaggi in Marocco degli sposi fittizi, oltre che occuparsi di tutte le pratiche burocratiche necessarie per la formalizzazione delle nozze. Era una pratica ormai consolidata: si trovavano le spose in Italia nei quartieri più difficili, si procedeva con le pubblicazioni e il rito nuziale. Una volta ottenuta la carta di soggiorno per motivi di famiglia si procedeva alla separazione e al divorzio. Gli sposi erano marocchini, algerini e tunisini, le spose erano italiane. La carta di soggiorno per motivi di famiglia è il pass per entrare regolarmente in Italia ma è anche una delle poche strade percorribili per sanare la posizione dei migranti irregolari e di quelli destinatari di decreti di espulsione, già emanati dalla Prefettura e resi esecutivi dalla Questura. Per adempiere a tutti gli obblighi burocratici, le organizzazioni si servivano di alcune basi anche in Marocco, dove operavano dei complici che si occupavano di reperire i documenti necessari alla celebrazione delle nozze presso il Consolato Generale d'Italia a Casablanca. L'organizzazione era multilivello e agiva con ingranaggi ben collaudati. Gli italiani coinvolti erano soprattutto donne che versavano in condizioni economiche svantaggiate, definite pecore. "C'è un signore che mi ha chiesto se c'è qualche pecora… Un signore qui a Messina, c'è un suo amico che vuole venire…", si sente in una delle intercettazioni. E ancora: "Il lupo quando ha fame esce dalla tana…". Le donne venivano convinte ad accettare dietro promessa di ricompensa, allettante per chi vive sul bordo del precipizio della povertà, e anche oltre. Nulla veniva lasciato al caso. Prima del matrimonio veniva individuata l'abitazione fittizia degli sposi, dove risultava che questi convivevano. Veniva qui portata la residenza anagrafica e tutto risultava in regola agli occhi dei vigili urbani di Messina adibiti ai controlli. I due stranieri a capo dell'organizzazione davano istruzioni precise per non dar nell'occhio agli agenti e avvalorare le tesi esposte. Si procedeva poi al matrimonio, svolto il più delle volte in modo morigerato e poi si procedeva con la richiesta del permesso di soggiorno da parte del migrante alla Questura di Messina, che svolgeva gli accertamenti di rito. Per il pacchetto completo del matrimonio fittizo e i documenti, lo straniero doveva versare 10mila euro, che potevano essere corrisposti in contanti ma anche tramite i più comodi money transfer. Alla sposa spettavano tra i 2 e i 3 mila euro e un corrispettivo era riconosciuto anche agli altri protagonisti, come i testimoni e gli intermediari. Il giro d'affari documentato era di circa 160mila euro.
Finti matrimoni per ottenere i permessi di soggiorno: si pagavano tra i 6mila e gli 8mila euro. Orlando Sacchelli su larno.ilgiornale.it il 24 luglio 2020. Quindici uomini e nove donne di Livorno sono finiti nei guai per colpa di un matrimonio. Farlocco. Le indagini della Guardia di Finanza, infatti, hanno appurato che si trattava di matrimoni di facciata celebrati con il solo scopo di far ottenere i permessi di soggiorno agli extracomunitari (sudamericani e nordafricani) che per il “servizio” ricevuto pagavano tra i 6mila e gli 8mila euro. Le nozze di comodo scoperte dagli inquirenti sono avvenute tra il 2014 e il 2019. Emesse cinque misure cautelari ed eseguite 55 perquisizioni nelle province di Livorno, Siena, La Spezia, Torino e Padova per mettere fine ai falsi matrimoni. Le ipotesi di reato formulate dalla procura di Livorno - nell’ambito dell’operazione Stranamore - sono favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e induzione in falso in atto pubblico coinvolgenti. In manette un 55enne della Repubblica Domenicana, mentre 4 livornesi (3 uomini e una donna) sono stati sottoposti all’obbligo di dimora e presentazione alla polizia giudiziaria. Sarebbero loro gli organizzatori dei falsi matrimoni. Ignari i pubblici ufficiali che avevano celebrato i matrimoni (in 23 casi presso il Comune di Livorno e in un’occasione presso quello di Rosignano Marittimo) e operato per il rilascio dei permessi di soggiorno nei confronti di 24 stranieri (16 provenienti dalla Repubblica Dominicana, 2 dal Perù, 1 da Cuba, 2 dalla Nigeria, 1 dal Marocco, 1 dalla Tunisia e 1 dal Senegal). Gli italiani che si prestavano a sposarsi con gli stranieri, dietro pagamento di denaro, erano persone gravitanti nelle aree limitrofe a Piazza della Repubblica e via Garibaldi, generalmente bisognose di liquidità per acquistare stupefacenti. Accettavano l’offerta di sposarsi con sconosciuti, per la maggior parte dei casi incontrati solo in occasione della cerimonia. Al centro del sistema c’era un dominicano da molti anni residente a Livorno: era lui che trovava gli italiani da far sposare ai latino-americani o ai nordafricani per poter regolarizzare la propria posizione di ingresso e soggiorno in Italia. Spesso la differenza di età tra i coniugi era considerevole. In due casi le spose dominicane erano rimaste vedove dopo poco tempo, avendo mariti più anziani anche di trent’anni. A carico di una di queste donne è stato contestato anche l’abbandono di persona incapace di provvedere a se stessa in ragione delle patologie sofferte e dell’età avanzata (ultra settantenne). Appresa la notizia del decesso del coniuge la donna, che si trovava in Spagna, rientrò in Italia e, come erede, subentrò quale locataria di una casa popolare. In un altro caso uno sposo italiano, dopo alcuni anni dalle finte nozze celebrate, decise di chiedere il divorzio ma, non ricordando quale fosse il nome della moglie, si era rivolto al dominicano che lo aveva reclutato. Era lui, infatti, a garantire quel minimo di comunicazioni indispensabili tra i finti coniugi, che nulla sapevano l’uno dell’altro, in questo caso addirittura neanche il nome. Tenuto conto dei 24 finti matrimoni celebrati si inquirenti stimano un volume d’affari di circa 150-200 mila euro. A spartirsi il gruzzoletto erano i finti sposi italiani, il “wedding planner” dominicano ed altre persone che collaboravano per l’organizzazione della truffa.
Truffa brasiliana sulla cittadinanza italiana. In migliaia arrivano dal Brasile grazie a corsie "preferenziali" ma anche inventando antenati italiani inesistenti. La prima parte dell'inchiesta. Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi il 7 gennaio 2020 su Panorama. San Paolo, capitale del Brasile, 12 milioni di abitanti. Qui ogni anno decine di migliaia di persone guardano al vicino oceano sognando l’Italia e l’Europa. Per fuggire da fame, disoccupazione, violenza o malasanità. Solo quest’anno sono state oltre 70 mila le richieste per ottenere la nazionalità italiana. E poiché nel nostro Paese vige lo ius sanguinis - cioè diventa cittadino per nascita «il figlio di padre o di madre cittadini» senza un limite di generazione - in molti scavano nel proprio albero genealogico, sperando di scoprire parenti italiani emigrati in Sudamerica. Però poi spesso i parenti non esistono, oppure la trafila è così lunga che i sogni si arenano ben presto e subentra la saudade. Ma c’è chi a questa malinconia di speranze tradite oggi ha trovato un rimedio molto efficace, e soprattutto remunerativo. Sì, perché con poche migliaia di euro anche chi non ne avrebbe diritto può diventare italiano a tutti gli effetti. Addirittura, in certi casi, basta meno di un mese. È il sogno che si realizza, insomma. Peccato soltanto che sia completamente illegale. Succede, infatti, che decine di falsi consulenti, attraverso un’organizzazione ramificata tra Brasile e Italia - senza sedi fisiche, ma molto attiva online - riescano a garantire la cittadinanza italiana e a trasformare qualsiasi extracomunitario in un «italiano doc», con tanto di carte bollate, semplicemente corrompendo dei funzionari pubblici nelle nostre amministrazioni locali. Una truffa ben organizzata, che coinvolge centinaia di piccoli e medi comuni italiani. L’elenco è lunghissimo: Padova, Verbania, Novara, Modena, Mantova, Portici, Savona, Omegna, Roseto degli Abruzzi, Castello di Cisterna, Teramo, Augusta, Floridia, Crocetta del Montello, Maddaloni, sono solo quelli scoperti nel 2019. Panorama ricostruisce ora la vicenda, arricchendola di inediti e inquietanti particolari. Secondo «l’advogado» italo-brasiliano Luiz Scarpelli, che ha denunciato per primo la mafia della cittadinanza italiana in Brasile e che ora, a Roma, difende le vittime di questi raggiri, le cifre sono sorprendenti: «Su un totale di oltre 50 mila richieste poco trasparenti, dal 2014 a 2019 sono 6 mila quelle già annullate e altre 34 mila sono sotto indagini della polizia e delle procure. Almeno 40 mila cittadini brasiliani, con e soprattutto senza discendenza italiana, hanno approfittato di questo sistema di corruttela amministrativa, per un giro di affari che supera il miliardo e 250 milioni di reais (circa 250 milioni di euro, ndr)».
A caccia di antenati (anche nei cimiteri). Poiché secondo lo ius sanguinis la discendenza va dimostrata per mezzo degli atti di stato civile (nascita, matrimonio e morte), e siccome di solito i richiedenti la cittadinanza non parlano una parola d’italiano, i truffatori si offrono di accompagnarli fisicamente agli sportelli anagrafe del Comune di riferimento, muniti di una documentazione che attesti la discendenza italiana e la residenza nel nostro Paese. Un servizio completo a prezzi modici, insomma. Poco importa che quelle carte siano fraudolente.
Per ottenere i documenti necessari, i consulenti «di solito vanno nelle parrocchie» spiega a Panorama Camillo De Pellegrin, sindaco di Val di Zoldo (Belluno), uno dei Comuni più colpiti dai falsari «dove cercano di recuperare i dati degli antenati italiani, veri o presunti, la maggior parte dei quali è immigrata in Brasile a fine Ottocento». Solo nel bellunese sono decine i casi nei quali la documentazione è risultata completamente contraffatta: uno ha riguardato anche la diocesi di Padova, dove i falsari avevano potuto contare sulla connivenza di un parroco, che aveva prodotto ex novo un certificato di battesimo falso, in cambio di denaro. Neanche i morti vengono lasciati in pace. Aggiunge De Pellegrin: «A volte entrano nei cimiteri e cercano tra le tombe dei defunti dei cognomi adatti, poi costruiscono la documentazione e una storia che si possa sostenere senza timore di smentite. Vanno anche negli Archivi di Stato a caccia di antenati, specie tra le Forze armate italiane». A smascherare questo sistema è stata l’operazione «Super Santos» del marzo 2019, quando la polizia di Stato ha demolito un sodalizio criminale tra Verbania e Novara che in soli tre giorni aveva trasformato 800 brasiliani in cittadini italiani, al prezzo modico di 7 mila euro cadauno e con una macchina per contraffare i certificati. Secondo dichiarazioni della stessa polizia, le società farlocche dietro ai falsari «sono gestite in nero dai brasiliani, come fossero vere e proprie agenzie turistiche».
Consulenti on line. All’assistenza nelle pratiche per il rilascio della cittadinanza, i consulenti aggiungono spesso pacchetti «all inclusive» e, oltre ad affittare loro comodi appartamenti di proprietà terze o comunque in subaffitto, propongono escursioni sul lago Maggiore e degustazione di prodotti locali, per ingolosire i potenziali acquirenti che da anni sognano l’Europa dalle spiagge di Bahia o di Rio de Janeiro. Già, perché con il passaporto italiano non solo è possibile per i brasiliani raggiungere mete ancora più ambite, come il ricco nord Europa, ma in questo modo riescono più agevolmente a entrare negli Stati Uniti e ottenere là un permesso di lavoro del tipo E2: ossia un visto di commercio per chi vuole intraprendere un’impresa per cui a un italiano servono circa 70 mila dollari, mentre a un brasiliano ne occorrono dieci volte tanto. Ecco spiegate le ragioni di questo fenomeno di massa. Come funziona il sistema? Anzitutto, i falsi consulenti operano un monitoraggio online dei possibili «clienti» cui sottoporre i propri servizi, entrando in gruppi Facebook e chat di WhatsApp. Uno dei più influenti si chiama Cidadania Italiana Area Livre, e conta ben 150 mila iscritti (quasi tutti i falsi consulenti finora arrestati in Italia operavano lì dentro). I consulenti rimandano poi gli aspiranti italiani a siti-vetrina, dove si fa leva sui vantaggi che comporta ottenere il nostro passaporto: utilizzare il nostro sistema sanitario nazionale; la possibilità di viaggiare, studiare e lavorare in Europa con grande facilità; poter entrare negli Stati Uniti in maniera più agevole, come detto prima. Per garantirsi la cittadinanza occorrono in genere tra uno e sei mesi, come descritto nel gettonatissimo sito Jafezasmalas.com. Ma ce ne sono tanti altri: per esempio, Pesquisaitaliana.com.br, che offre addirittura sconti periodici, come in occasione del «Black Friday»; e ancora Minhasaga.org, creato e gestito da Fabio Barbiero, italo-brasiliano, attualmente indagato per crimini finanziari, frodi economiche contro i consumatori e truffa, e oggetto di più esposti alla procura della Repubblica di Roma. Agganciata la vittima, si passa alla produzione e all’inoltro della documentazione falsa, che molti Comuni accettano grazie a una rete di connivenze interne alle nostre amministrazioni, dove alcuni dipendenti infedeli si prendono una «stecca» pari al 20 per cento sul compenso dei consulenti, in cambio di timbri e firme. Il tutto, chiaramente, avviene in nero.
Seicento persone registrate in una sola residenza. È un tranquillo paesino di 1.300 anime della provincia di Lodi, Ospedaletto Lodigiano. Il 9 febbraio 2018 questo Comune ha disposto a seguito di un’inchiesta giudiziaria «il ritiro di tutti i provvedimenti d’iscrizione anagrafica e di riconoscimento della cittadinanza italiana per i soggetti di cui agli uniti elenchi». È stato l’inizio di un terremoto. In quegli elenchi, infatti, figuravano 899 cittadini di origine brasiliana iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), che chiedevano la cittadinanza italiana iure sanguinis. Di questi, 232 figuravano come residenti a Ospedaletto, pur non avendovi mai messo piede. Come sia stato possibile, è presto detto: tale M.D., falso consulente che aveva 20 appartamenti in paese, era riuscito a far accreditare come residenti nel medesimo appartamento oltre 600 persone contemporaneamente. Magia resa possibile dalla connivenza di un ufficiale giudiziario corrotto, che certificava (anche senza averlo mai visto) che il tale o talaltro italo-brasiliano abitava effettivamente là, quando invece aveva dormito non più di due notti in hotel, giusto il tempo di presentarsi allo sportello comunale per il riconoscimento di rito. In altri casi, venivano indicati indirizzi inesistenti sullo stradario, grazie alle mazzette ai Vigili urbani. La vicenda era iniziata nel 2015, quando all’epoca era sindaco Lucia Mizzi: aveva rilevato un’anomalia nell’incredibile numero di richieste d’iscrizione anagrafica arrivate presso il suo Comune e nel rilascio di altrettanti codici fiscali per cittadini brasiliani. Il 27 luglio 2017 la Guardia di Finanza di Lodi ha così potuto accertare che dietro quell’anomalia si nascondeva un giro di corruzione, il cui epicentro era un’agenzia monzese di «disbrigo pratiche». Wellington Girotto e la moglie Mariane Baroni, una coppia di italo-brasiliani, è stata arrestata insieme al comandante dei Vigili Urbani, Mariano Pozzoli, e al responsabile dell’Ufficio anagrafe, Roberto Capra. Gli affari del sodalizio criminale avevano funzionato fin troppo bene: nel perquisire le loro proprietà, infatti, le fiamme gialle hanno scoperto mezzo milione di euro nascosti nel giardino di Roberto Capra, soldi messi sotto terra in mazzette da 80 mila euro. Mentre i due consulenti brasiliani intascavano tra i 5 e i 7 mila euro per concludere la pratica, i funzionari comunali ricevevano dalla coppia almeno 1.200 euro a testa, in cambio di controlli «addomesticati». Così, già nel 2016 risultavano oltre 500 nuovi residenti fasulli a Ospedaletto. Un sacco di soldi sottratti al fisco. E di conseguenza, a tutti gli italiani.
E i sindaci restano in bolletta. È così che il Comune di Ospedaletto Lodigiano è andato quasi in bancarotta. Dice, afflitto, l’attuale sindaco Eugenio Ferioli: «Finora abbiamo speso 140 mila euro di avvocati, che naturalmente gravano sul bilancio del Comune. Non abbiamo ricevuto un euro da nessuno, e il fatto che molti abbiano patteggiato ci ha tagliato fuori da ogni possibilità di recuperare almeno le spese legali». Senza contare i macchinari che il Municipio ha dovuto ricomprare, dopo che i vecchi sono ancora sotto sequestro. Tra i sindaci che si battono contro questa invasione di italo-brasiliani «fantasma» c’è il già citato Camillo De Pellegrin, primo cittadino di Val di Zoldo: qui su 4.047 abitanti 1.673 sono iscritti all’Aire e, tra questi, 1.011 sono brasiliani. In comuni vicini si registra lo stesso fenomeno: a Soverzene, appena 386 abitanti, vi sono mille iscritti all’Aire mentre a Longarone, su 6.777 abitanti sono 2.508 gli iscritti al registro dei residenti all’estero. «Premetto che sarebbe bello se questi cittadini venissero davvero a vivere nel nostro comune» ha spiegato sconsolato De Pellegrin. «Invece, dopo essersi iscritti all’Aire spariscono immediatamente, salvo per notifiche relative a matrimoni, divorzi, nascite e altri atti amministrativi». Non è tutto. Le indagini in corso stanno puntando su altre irregolarità nei Consolati italiani in Brasile e su gruppi di avvocati italiani, o presunti tali, che si offrono quali intermediari per facilitare il lavoro dei consulenti in Italia. Ma questa è un’altra (brutta) storia, ancora tutta da raccontare.
· Il Soggiorno col trucco.
Ecco tutti i trucchi dei migranti per rimanere in Italia. Chi non ottiene lo status di rifugiato si ingegna per convincere i giudici a evitare il rimpatrio: ecco tutti gli stratagemmi usati. Alessandra Benignetti, Lunedì 28/09/2020 su Il Giornale. Quanti sono i migranti che hanno diritto a rimanere nel nostro Paese? A giudicare dalle decisioni delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale incaricate di valutare le domande, pochissimi. Lo scorso luglio, secondo i dati della Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo, su 2.270 richieste presentate ne sono state dichiarate inammissibili 2.111: il 73 per cento. A giugno scorso la percentuale arrivava addirittura all’81. Eppure quasi nessuno viene rimpatriato, mentre la maggior parte continua a circolare sul nostro territorio. Il motivo sta nell’iter per l’ottenimento dello status di rifugiato. Quando uno straniero arriva in Italia presenta domanda di protezione internazionale alla polizia di Frontiera o alla Questura. Sarà poi la Commissione territoriale di competenza ad esprimersi sulla legittimità o meno della richiesta. Per ottenere la risposta possono passare anche sei mesi o addirittura un anno. Un periodo, questo, in cui il richiedente può vivere e lavorare nel nostro Paese. Nel frattempo la Commissione può decidere di riconoscere lo status di rifugiato, concedere la protezione sussidiaria o un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, rigetta la domanda. In questo caso lo Stato italiano mette a disposizione dei migranti l’assistenza legale gratuita per fare ricorso contro la decisione della Commissione di competenza. Non solo. In caso il ricorso venga bocciato anche in Cassazione si può presentare la cosiddetta domanda reiterata, ricominciando tutto da zero. "In due o tre anni, tanto può arrivare a durare il percorso giudiziario, le condizioni nel Paese d’origine possono essere cambiate e il giudice può ravvisare elementi di criticità", ci spiega Giorgio Mori, avvocato esperto di immigrazione e responsabile immigrazione di Fratelli d’Italia a Roma. È emblematico, in questo senso, il caso di un cittadino pakistano che nel giugno scorso ha fatto ricorso al Tribunale civile di Napoli contro la decisione della Commissione territoriale che nel 2018 aveva rigettato la sua domanda d’asilo. I giudici, nella motivazione della sentenza, ammettono che all’epoca della presentazione della richiesta effettivamente non c’era "alcun credibile e fondato rischio di persecuzione". Ma oppongono che il migrante, che ormai si è integrato "attraverso numerosi contratti di lavoro", vista la situazione di "insicurezza derivante dalla pandemia di Covid 19 nel Paese d'origine", oggi ha diritto alla protezione nel nostro Paese. I procedimenti giudiziari possono durare anni. E anche il semplice fatto di aver trovato un regolare impiego in attesa del pronunciamento dei giudici può contribuire a ribaltare la decisione delle commissioni territoriali. Nel 2018, ad esempio, un cittadino ivoriano che aveva già perso il ricorso in tutti e tre i gradi di giudizio, dopo aver presentato la domanda reiterata si è visto riconoscere la protezione dai giudici del tribunale di Bari, perché titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e di un contratto di affitto. "La valutazione comparativa tra la situazione di integrazione raggiunta dal ricorrente in Italia e la sua situazione soggettiva e oggettiva con riferimento al paese di origine porta a ritenere integrati i presupposti per l’accoglimento della protezione umanitaria – scrivono i giudici nelle motivazioni - perché il rimpatrio forzoso esporrebbe il ricorrente ad una situazione di particolare vulnerabilità incidendo sulla sua dignità personale, tenuto conto che nel suo Paese d’origine incontrerebbe gravi ed insormontabili difficoltà nel tentativo di ricostruirsi una vita". Insomma, anche se per il riconoscimento dello status di rifugiato le difficoltà economiche "anche se reali e in alcuni casi molto gravi", non contano, di fatto la corte di Cassazione tende a considerare "l’integrazione sociale" come "motivo rilevante" ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, anche con riferimento alle condizioni di estrema povertà nel Paese d’origine. Sempre nel 2018 i giudici del tribunale di Roma riconoscono il permesso di soggiorno ad un egiziano che "ha lasciato il proprio paese per cercare di porre rimedio ad una situazione di estrema povertà e per cercare di sostenere le spese mediche necessarie per curare i familiari rimasti in patria" in virtù del "radicamento sul territorio" raggiunto negli anni. "Se è vero che ci sono meno rifugiati politici, è anche vero che per contro si sono allargate le maglie per la concessione della protezione umanitaria e sussidiaria – commenta Mori - tra l’altro questo tipo di protezioni sono più ambite dai migranti perché gli consentono di andare e tornare liberamente dal Paese d’origine". Per quanto riguarda la protezione umanitaria i giudici tendono a concederla se sussistono due requisiti: fragilità e integrazione del soggetto. "Lo straniero deve provare uno stato di difficoltà (economica o di salute) sua o del suo nucleo familiare e di avere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato", chiarisce l’avvocato. "Inutile dire – aggiunge – che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di contratti fittizi e buste paga tarocche". Sul web, tuttavia, si trovano decine di sentenze di questo tipo. Le motivazioni prese in considerazione per capovolgere il verdetto della commissione territoriale sono le più disparate. Anche perché secondo gli orientamenti della Cassazione "il dubbio circa la credibilità deve essere risolto a favore del dichiarante". Così in molti giocano pure la carta dell’omosessualità. A luglio i giudici del tribunale di Perugia hanno concesso la sospensiva del provvedimento di espulsione di un nigeriano che, a suo dire, era stato condannato in patria per colpa del suo orientamento sessuale. Pur non essendoci prove certe, l’istanza è stata accolta proprio in virtù del "beneficio del dubbio". Poi c’è il caso di un cittadino maliano, disoccupato in Italia, al quale, dopo l’entrata in vigore del decreto Salvini, non era stato rinnovato il permesso di soggiorno. Il tribunale civile di Roma ha deciso invece di concederlo, annullando la decisione della Commissione, per le condizioni di sicurezza nel Paese d’origine. Eppure nel Paese saheliano grande più di quattro volte l’Italia, i caschi blu dell’Onu combattono i terroristi nelle regioni desertiche del nord, mentre al sud non c’è nessun conflitto armato in corso. Particolare questo, evidentemente, irrilevante per i giudici, che hanno deciso di far rimanere in Italia lo straniero, con buona pace della direttiva Ue sulla protezione sussidiaria che permette agli Stati di chiedere il trasferimento nelle zone del Paese d’origine considerate sicure. A complicare il quadro, per gli addetti ai lavori, ci sarebbe anche il decreto Minniti. "Togliendo la possibilità di ricorrere in appello riduce i diritti del richiedente e la automaticità della sospensione dell’esecuzione – precisa Mori – il risultato è che la Corte di Cassazione è ingolfata dai ricorsi dei migranti con buona pace della certezza dei tempi dei procedimenti ordinari". Con la sanatoria voluta dalla ministra dell’agricoltura, Teresa Bellanova, infine, gli stranieri hanno un strumento ulteriore per ottenere il permesso di soggiorno. "Almeno l’80% di chi ha in piedi un ricorso ha fatto domanda per tentare anche questa procedura, visto che non c’è incompatibilità", assicura l'avvocato.
Al punto che essere espulsi è praticamente impossibile. "L’integrazione - conclude il legale - oggi non è reale ma è totalmente fittizia come la gran parte dei contratti di lavoro esibiti dagli stranieri, lo strumento della protezione è divenuto una vera e propria sanatoria a tempo indeterminato sfuggendo l’originario significato della tutela delle fragilità, inducendo gli stessi migranti a preferire gli ingressi clandestini ai canali legali, arricchendo i trafficanti".
Migrazioni. Per i ragazzi africani giocare a calcio è un sogno. Ma i trafficanti lo rendono un incubo. Partono da Senegal, Ghana, Nigeria e Camerun. Pagano due o tremila euro per l’illusione di diventare professionisti in Europa. Pochissimi ce la fanno, quasi tutti finiscono soli e sfruttati. Ma ora c’è chi si occupa di loro. Cristoforo Spinella l'8 gennaio 2020 su L'Espresso. «Prendono soldi, molti soldi. Alcuni pagano tremila dollari a testa per il visto e il biglietto aereo, e poi ancora per l’alloggio. È una sorta di pacchetto tutto incluso. Questi ragazzi partono dall’Africa convinti di diventare calciatori professionisti e si ritrovano soli, in un Paese straniero di cui non conoscono la lingua, senza più denaro e senza un permesso legale per restare. È come essere in trappola». Mentre a pochi metri il Camerun assedia la metà campo della Sierra Leone, Julius Kugor parla con lo sguardo amaro di quelli che chiama “i suoi figli”. Ex giocatore cresciuto con Michael Essien nelle giovanili del Ghana, un metro e ottantacinque di muscoli che prima usava per presidiare la difesa come stopper e ora per dedicarsi anima e corpo alla comunità africana in Turchia, di cui è presidente, Julius è l’uomo che nei roventi pomeriggi dell’estate di Istanbul porta a sfidarsi decine di giovani - età compresa tra 18 e 25 anni, ma i fuori quota non mancano - in cerca di un’occasione e di un futuro. Nata nel 2005, questa “Coppa d’Africa” che mette in palio l’uscita dalla miseria è cresciuta anno dopo anno in modo informale, parallelamente all’ondata di ragazzi con più o meno talento che da Nigeria, Senegal, Ghana, Camerun e tanti altri Paesi sbarcano alle porte dell’Europa con una promessa di gloria che quasi sempre è un inganno. «Anche mentre parliamo ne stanno arrivando, è impossibile dire quanti sono. Ogni giorno ne incontro di nuovi», racconta dalle tribunette dello stadio Hasbahçe di Kagithane, all’estremità del Corno d’Oro, mentre controlla un’ultima volta le figurine dei giocatori iscritti alla partita successiva. Tra poco scenderà in campo il Senegal, tra le favorite per la vittoria finale di una coppa simbolica: chi vince davvero è chi riesce a trovare un ingaggio. Nella prima fase del torneo si giocano anche tre match al giorno, con orari piuttosto flessibili: quello delle due del pomeriggio, con la temperatura che sfiora i 35 gradi, slitta di più di un’ora. E così gli altri, a catena. Fare bella figura è troppo importante. In ballo c’è il futuro di tanti aspiranti calciatori e di quelli che si sono lasciati alle spalle, che per loro hanno investito tutto, credendo di comprare una via d’uscita. «Il mio sogno è poter giocare ad alto livello, avere un contratto da professionista e tirare fuori la mia famiglia e i miei amici dalla miseria», racconta il congolese Yves Kibendo, di ruolo ala destra, arrivato a Istanbul con una sola certezza: indietro non ci torna. In Africa era già un immigrato del pallone. A casa sua di calcio non riusciva a vivere, e nemmeno di altro, a dire il vero. Così se n’è andato, con una promessa: «Ce la farò». Ha firmato un contratto biennale nella serie A angolana, ma dopo otto mesi hanno smesso di pagarlo. Allora alcuni amici gli hanno parlato di Istanbul. «Mi dicevano che era facile arrivare qui con un visto turistico, e che poi non avrei avuto difficoltà a trovare una squadra». Sul Bosforo è sbarcato senza problemi, ma le cose non sono andate come si aspettava. Nessuno gli ha offerto un provino. E per sopravvivere è stato costretto a lavorare per mesi dodici ore al giorno in una fabbrica tessile, in nero e sottopagato. «Alcuni giorni non mi pagavano proprio. Qui non fanno contratti di lavoro legali ai migranti come me. È così che funziona. Poi un giorno - ricorda - ho capito che non poteva continuare. Se sono in Turchia, mi sono detto, è per diventare un giocatore professionista. La mia famiglia e i miei amici in Congo contano su di me. E se non ci riuscirò qui, c’è sempre il piano B». Interrompe il racconto per dare un’occhiata in giro. Poi dice: «Sai qual è il piano B, no? Cercare uno scafista che mi porti in Grecia. È rischioso, lo so, ma in qualche modo devo farcela: ho fatto una promessa». La tratta dei sogni funziona così: i giovani calciatori pagano migliaia di dollari per ottenere un provino da presunti intermediari. Gli assicurano che i video delle loro partite sono stati apprezzati da dirigenti turchi, promettendo ingaggi nelle giovanili dei grandi club conosciuti in Africa: Galatasaray, Besiktas, Fenerbahçe. Quasi mai va bene al primo colpo, quando un provino c’è veramente: o i giocatori non sono abbastanza bravi, o metterli sotto contratto costa troppo tra tasse e burocrazia per i permessi di lavoro, o magari è stato solo un inganno, hanno detto che avrebbero avuto la loro occasione, ma ad attenderli a Istanbul non trovano nessuno. Tutto è già scritto, anche quello che succede dopo. Il visto turistico legale scade nel giro di poche settimane e questi ragazzi, giunti con l’idea di segnare gol a raffica e diventare idoli delle folle locali - e poi d’Europa e poi chissà -, vanno a ingrossare le fila degli “irregolari”, finendo a vendere orologi falsi e profumi contraffatti ai turisti ai piedi della torre di Galata o a cucire scarpe e magliette nei sottoscala di Tarlabasi e Aksaray, cuore dell’immigrazione di Istanbul. Condividono abitazioni fatiscenti e sovraffollate di pochi metri quadrati, contando spesso solo sulla solidarietà delle loro comunità. E i sogni di gloria finiscono nel cassetto. «Una volta arrivati si trovano senza via d’uscita. Lavorano nel settore informale, senza assicurazione sanitaria né diritti, a volte non gli affittano neppure le case legalmente. E nel frattempo le loro famiglie continuano a mandare soldi, indebitandosi per mantenerli», spiega Yasir Bodur, ricercatore dell’Università della Città di Istanbul che è tra i pochi a essersi occupato a fondo della questione. In Turchia i migranti africani sono circa un milione e mezzo, molti di più se si considerano i tanti non registrati. Almeno uno su quattro vive a Istanbul. Ma di fronte all’esodo biblico dei rifugiati siriani - più di tre milioni e mezzo quelli ancora oggi in Turchia - e alle decine di migliaia di afghani e pachistani che arrivano ogni anno, il fenomeno è uscito dall’agenda politica. E nel silenzio, le reti di sfruttatori e trafficanti proliferano. «Per i turchi e gli africani il calcio è una passione comune, un terreno su cui incontrarsi e dialogare oltre le barriere del razzismo e dell’indifferenza. Ma nella vita quotidiana, per questi ragazzi è davvero dura», dice Bodur, che da mesi li segue dentro e fuori dal campo, facendo spesso anche da mediatore culturale. La Coppa d’Africa di Istanbul diventa così la grande occasione per mettersi in mostra. Probabilmente l’unica. Arrivano talent scout dalle serie minori e dai Paesi vicini, dove il livello tecnico dei campionati professionistici è più basso: Georgia, Armenia, Bulgaria, Azerbaigian, la parte nord di Cipro sotto il controllo turco. Non sono contratti che cambiano la vita, ma quando va bene una decina di ragazzi - sui quasi 300 che scendono in campo in tutto il torneo - trova un ingaggio che apre spiragli di speranza. Per quelli bravi, con un po’ di fortuna, è l’inizio di un percorso. A ricordarlo a tutti è un uomo di 29 anni dallo sguardo calmo e la barba folta che siede sulla panchina della Nigeria, ad allenare e motivare i suoi connazionali più giovani. Sani Gideon, che è arrivato a giocare nella Süperlig, la serie A turca, è un fascio di muscoli e determinazione. Anche lui è partito da qui, dai sobborghi di Istanbul e da un provino fallito. «Prima giocavo in Nigeria. Sono arrivato in Turchia nel 2009. Un falso agente ha organizzato tutto, il visto, il biglietto, portando quattro calciatori. Uno ero io. Mi sono allenato per un po’ con il Kocaelispor, una squadra a sud di Istanbul, ma poi la società ha detto che non poteva farmi un contratto perché aveva problemi con la Federcalcio, che le impediva di comprare stranieri. Nel frattempo l’agente è sparito, ha smesso si rispondere alle nostre telefonate, ai messaggi. Ci ha totalmente abbandonati», racconta nel residence con piscina dove oggi vive in una tranquilla periferia della città. Dal baratro, Sani è riemerso col talento e la fiducia in se stesso. Che spirasse il Poyraz, il vento che sferza il Bosforo da nord-est, o battesse il sole d’agosto, la mattina presto si ritrovava con gli altri rimasti incastrati in questo limbo nel campo di Feriköy, vicino allo storico cimitero cattolico di Istanbul. «A volte non avevo i soldi per comprare da mangiare. Guadagnavo 10 o 20 lire turche al giorno facendo le pulizie negli internet cafè. Ma non ho mai smesso di allenarmi, e alla fine ce l’ho fatta», ricorda ora orgoglioso. La sua occasione è arrivata con l’Izmirspor: 3 partite, 3 gol. Subito dopo l’ha adocchiato l’Akhisarspor, allora in serie B. La svolta che sognava. Quell’anno gioca spesso da titolare in un campionato trionfale e con le sue discese sulla fascia sinistra contribuisce alla promozione del club. Così è arrivato in serie A: il suo sogno, quello che migliaia di altri non realizzeranno mai. Ma lui che c’è riuscito è per tutti la prova vivente che si può. Da dieci anni ormai gioca da professionista, ma non ha mai dimenticato come ci è arrivato. E prima di cominciare un’altra stagione, passa una parte delle vacanze ad allenare i connazionali e convincerli che anche loro possono sfondare. «Non dovete sperare di essere come me, perché potete essere migliori», dice a fine partita, guardandoli negli occhi. Di rado però basta il talento. Julius Kugor, l’organizzatore del torneo, lo sa bene. «Sento una grande responsabilità verso di loro, molti mi vedono come un padre. Noi che viviamo qui da tempo e abbiamo esperienza non possiamo girarci dall’altra parte. Li accompagno in ospedale quando ne hanno bisogno, perché sono senza assicurazione. Li aiuto a trovare una casa. Ma molti purtroppo finiscono lo stesso per strada». A tutti prova a dare l’opportunità che cercano. «Abbiamo iniziato questa competizione con 6 Paesi, ora ne abbiamo 16. Perché i ragazzi sono sempre di più. I falsi procuratori li illudono, si fanno pagare, ma quando arrivano qui non c’è nulla di quello che gli hanno promesso, e vengono abbandonati. Io faccio del mio meglio per fermare questo sfruttamento. Abbiamo mandato decine di messaggi all’ambasciata turca in Ghana. Ma intanto continuano a venire». Cappello a tesa larga e piana, gessato impeccabile e fazzoletto bianco che si affaccia elegante dal taschino della giacca, Jean Claude Effa’Aessi sembra il personaggio di un film gangster degli anni Trenta. In mezzo ai giocatori sudati in calzoncini e ai tamburi dei tifosi avvolti negli abiti tradizionali africani, si fa notare. A bordo campo, osserva le partite e fa insieme da ‘garante’ del torneo, forte di quella che chiama “esperienza” come delegato della Federazione del Camerun e procuratore sportivo. «Cerco solo di dare consigli e aiutarli a trovare un ingaggio. Ci sono tanti bravi calciatori, ma non è facile. Io li mette in contatto con gli osservatori delle squadre», spiega. Poi prende in mano il pallone e lo porta all’arbitro per il calcio d’inizio. Ora tocca al Senegal, “uno squadrone”. Compare anche qualche striscione di incitamento. Almeno per 90 minuti, sarà come essere in serie A.
· L’Africa pignorata.
(ANSA il 20 gennaio 2020) - Isabel dos Santos, la donna più ricca dell'Africa con un patrimonio di oltre due miliardi di dollari, avrebbe ammucchiato le sue fortune sfruttando le ricchezze e la gente del suo Paese, l'Angola, e usando l'arma della corruzione, in un Paese dove la maggior parte della popolazione vive con due dollari al giorno. A sostenerlo è la Bbc, giunta in possesso di nuovi documenti che confermerebbero il sospetto della illiceità dei suoi affari aprendo la strada a nuove azioni giudiziarie nei suoi confronti. Indagata per corruzione nel 2018 in Angola, dove il governo ha congelato i suoi beni, Isabel dos Santos è poi finita sotto inchiesta anche in Portogallo e ha deciso di prendere la residenza ufficiale negli Emirati Arabi Uniti, ma vive di fatto a Londra, dove si è laureata al King's college e dove conta diverse proprietà. Figlia dell'ex presidente dell'Angola Jose Eduardo dos Santos che ha governato il Paese per 38 anni, dal 1979 al 2017, e della sua prima moglie, Tatiana Kukanova, originaria dell'Azerbaigian, Isabel ha incontrato a Londra anche suo marito, Sindika Dokolo, un collezionista congolese figlio di una danese e di un milionario di Kinshasa. Si sono sposati nel 2002 a Luanda, con una festa per mille invitati costata 4 milioni di dollari. Tutti ricchi di famiglia, ma la fortuna maggiore per Isabel, e per suo marito, giunge con una serie di accordi di favore ottenuti, con l'aiuto del padre presidente, su terre, petrolio, diamanti e telecomunicazioni. Lei nega, affermando che le accuse contro di lei sono del tutto false e che esiste una caccia alle streghe a scopi politici portata avanti dal governo angolano. Ora, però, la stampa ha avuto accesso a oltre 700 mila documenti relativi al suo impero, ottenuti in gran parte dalla piattaforma per la protezione degli informatori in Africa e condivisa con il consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) che ha dato al dossier il nome di "Luanda leaks". Una delle operazioni più sospette è stata gestita da Londra attraverso una consociata britannica della compagnia petrolifera statale angolana Sonangol, 'affidata' dall'allora presidente nel 2016 alle 'cure' della figlia. Nonostante il successore fosse un suo delfino, Isabel fu licenziata due mesi dopo. La Bbc pubblica, fra l'altro, le foto di alcuni rendiconti in cui risulta che, mentre lasciava Sonangol, Dos Santos ha approvato 58 milioni di dollari per pagamenti sospetti a una società di consulenza di Dubai chiamata Matter Business Solutions, intestata a diretta da persone a lei vicine. Altri documenti gettano seri sospetti su un'altra serie di operazioni. I suoi difensori negano che le complesse operazioni finanziarie della 'regina d'Africa' fossero illecite. Ma intanto le inchieste vanno avanti e si estendono a macchia d'olio.
Isabel dos Santos, così la donna più ricca d’Africa ha spolpato l’Angola. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 da Corriere.it. Isabel dos Santos, la donna più ricca dell’Africa con un patrimonio di oltre due miliardi di dollari, avrebbe ammucchiato le sue fortune sfruttando le ricchezze e la gente del suo Paese, l’Angola, e usando l’arma della corruzione, in un Paese dove la maggior parte della popolazione vive con due dollari al giorno. A sostenerlo è la Bbc, giunta in possesso di nuovi documenti che confermerebbero il sospetto della illiceità dei suoi affari aprendo la strada a nuove azioni giudiziarie nei suoi confronti. Indagata per corruzione nel 2018 in Angola, dove il governo ha congelato i suoi beni, Isabel dos Santos è poi finita sotto inchiesta anche in Portogallo e ha deciso di prendere la residenza ufficiale negli Emirati Arabi Uniti, ma vive di fatto a Londra, dove si è laureata al King’s college e dove conta diverse proprietà. Ingegnere nata a Baku, figlia dell’ex presidente dell’Angola Jose Eduardo dos Santos che ha governato il Paese per 38 anni, dal 1979 al 2017, e della sua prima moglie, Tatiana Kukanova, originaria dell’Azerbaigian, Isabel ha incontrato a Londra anche suo marito, Sindika Dokolo, un collezionista congolese figlio di una danese e di un milionario di Kinshasa. Si sono sposati nel 2002 a Luanda, con una festa per mille invitati costata 4 milioni di dollari. Tutti ricchi di famiglia, ma la fortuna maggiore per Isabel, e per suo marito, giunge con una serie di accordi di favore ottenuti, con l’aiuto del padre presidente, su terre, petrolio, diamanti e telecomunicazioni. Lei nega, affermando che le accuse contro di lei sono del tutto false e che esiste una caccia alle streghe a scopi politici portata avanti dal governo angolano. E sta attenta a non uscire dal profilo di donna d’affari, anche se viene avvistata spesso a sfilate, party e occasioni mondane. La sua prima impresa di walkie-talkie, che racconta di aver avviato con i soldi ottenuti dalla vendita della sua automobile, è diventata un impero di telecomunicazioni e banche (con rami fino in Portogallo). E bisogna dire che, da quando lei guida Sonangol, la compagnia petrolifera statale angolana il debito dell’azienda è calato da 13,6 miliardi di dollari a 9,8. Ora, però, la stampa ha avuto accesso a oltre 700 mila documenti relativi al suo impero, ottenuti in gran parte dalla piattaforma per la protezione degli informatori in Africa e condivisa con il consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) che ha dato al dossier il nome di «Luanda leaks». Una delle operazioni più sospette è stata gestita da Londra attraverso una consociata britannica della Sonangol, «affidata» dall’allora presidente nel 2016 alle «cure» della figlia. Nonostante il successore fosse un suo delfino, Isabel fu licenziata due mesi dopo. La Bbc pubblica, fra l’altro, le foto di alcuni rendiconti in cui risulta che, mentre lasciava Sonangol, Dos Santos ha approvato 58 milioni di dollari per pagamenti sospetti a una società di consulenza di Dubai chiamata Matter Business Solutions, intestata a diretta da persone a lei vicine. Altri documenti gettano seri sospetti su un’altra serie di operazioni. I suoi difensori negano che le complesse operazioni finanziarie della «regina d’Africa» fossero illecite. Ma intanto le inchieste vanno avanti e si estendono a macchia d’olio.
Luanda Leaks. Così la figlia del dittatore dell'Angola ha fatto miliardi saccheggiando il suo Paese. I gioielli De Grisogono. I telefoni Unitel. Gas e petrolio con l’Eni. E poi tv, supermercati, ville e appalti pubblici. Un’inchiesta giornalistica internazionale svela i tesori di Isabel Dos Santos, figlia dell’ex ras dello stato africano. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 20 gennaio 2020 su L'Espresso. I turisti in bermuda s’avvicinano con deferenza alle luccicanti vetrine di Porto Cervo. Si stringono nelle spalle, smorzano le parole e sgranano gli occhi di fronte a una borsetta in pelle di coccodrillo da cinquemila euro, a un orologio da 130 mila. Non vola una mosca, nel più suggestivo angolo del borgo marino: i vacanzieri di terra sembrano aver timore di turbare, con il proprio vociare, lo shopping celestiale dei ricchi. I budelli di Porto Cervo, quasi irreali nella loro perfetta pulizia, confluiscono tutti nella piazzetta delle Due Chiacchiere, un anfiteatro di bar e locali di lusso che s’affaccia sul porticciolo d’attracco dei super yacht da nababbi. Il quadro è un gigantesco schiaffo alla povertà. Doppio schiaffo, se si volge lo sguardo verso il negozio più scintillante. È la gioielleria De Grisogono. Sulla soglia, una guardia armata tiene lontani curiosi e malintenzionati; all’ingresso, una teca illuminata fa brillare un collare tempestato di diamanti neri, viola, verdi, sfarzosi all’eccesso. Dalle pareti blu e dal salotto nero emergono, come sospesi nel nulla, altri sfavillanti gioielli, sfacciati nella loro imponenza. Tre commesse giovani e belle s’annoiano: è un negozio per pochi, quello. I clienti vip attraccano al porto, inforcano gli occhiali da sole e puntano dritti sul santuario dei diamanti. Società private inondate di soldi pubblici. E licenze statali firmate dal papà presidente. L’inchiesta internazionale di 120 giornalisti sull’origine delle fortune di Isabel Dos Santos. E sui banchieri complici. Ad attenderli c’è l’abbraccio del fondatore, Fawaz Gruosi, da oltre quarant’anni cerimoniere di feste esclusive, uomo-simbolo della Costa Smeralda: «Benvenuti nella terra d’esilio, divenuta rifugio di ricchi e famosi», è il suo messaggio di saluto. Fawaz è cittadino italo-svizzero, anche se è nato in Siria, l’otto agosto del 1952. La sua data di nascita è nota a tutti gli invitati alle memorabili feste di compleanno che il gioielliere organizza puntuale, ogni 12 mesi, in locali come il Billionaire dell’amico Flavio Briatore o l’hotel Cala Volpe, teatro di party con 500 ospiti, fuochi d’artificio e cantanti internazionali. Un miracolo economico che si è dissolto con un cambio di regime in un lontano paese africano. E con una tempesta di accuse: il conto della bella vita di Fawaz, e soprattutto gli immensi tesori dei suoi patron e partner d’affari, infatti, sarebbero stati pagati dalle casse pubbliche dell’Angola, dove un terzo della popolazione deve sopravvivere con un euro e mezzo al giorno. Ancora l’estate scorsa Fawaz, anche se dal 2019 ha lasciato qualsiasi carica nell’azienda di gioielli, è tornato nella sua villa di Stintino e nella piazzetta di Porto Cervo, con la figlia Violetta e qualche amico fidato. Il suo cliente più misterioso è tuttora protetto da un nome in codice: «Mister B». Fawaz chiamava così un personaggio che «spendeva tutte le estati da 40 a 80 mila euro, poi è salito a 3-4 milioni e nel 2017 è arrivato a otto». Peccato che i rendiconti interni del gruppo De Grisogono, che ha la casa madre in Svizzera, descrivano Mister B, già dal 2015, come un pessimo pagatore, che ha saldato solo un terzo dei suoi debiti. Lo stesso Fawaz, secondo i bilanci aziendali, caricava alla voce “spese di marketing” i costi della sua casa in Sardegna, della barca, delle feste, arrivando a pesare per più di due milioni all’anno sulle casse della società. Oltre a chiedere ricchi prestiti personali, sempre approvati dai vertici del gruppo. Forse perché, come spiegano oggi gli atti d’accusa, a pagare il conto era lo Stato dell’Angola. Il cordone segreto che legava i padroni dei diamanti alla misera nazione africana è stato spezzato solo in queste settimane. Il 23 dicembre scorso il tribunale della capitale, Luanda, ha ordinato il sequestro dei conti bancari e degli attivi di tutte le società conosciute di Isabel Dos Santos, la figlia maggiore dell’ex presidente rimasto al potere per 38 anni. I giudici hanno bloccato anche i beni del marito, Sindika Dokolo, e del loro tesoriere, il manager portoghese Mario Leite Da Silva. Il padre di Isabel, José Eduardo Dos Santos, ha dominato l’Angola dal 1979 al 2017, tra crescenti accuse di dittatura e corruzione. Il marito Sindika, figlio del banchiere Augustin Dokolo, è un uomo d’affari d’origine congolese ed è un famoso collezionista d’arte. I giudici ora accusano la coppia di aver sottratto alle casse statali «almeno un miliardo di dollari». Tramite decine di società private finanziate con fiumi di soldi pubblici. O beneficiate da licenze firmate dal papà presidente. In Italia Fawaz si dichiara all’oscuro di queste immense ruberie: «Mi sono limitato a vendere De Grisogono a Isabel e Sindika perché hanno fatto l’offerta migliore», è la sua risposta. «Non ho mai avuto idea che i soldi provenissero dallo Stato angolano». L’ex colonia portoghese è diventata indipendente, dopo dodici anni di conflitto armato, nel 1975, quando è iniziata la guerra civile tra due forze rivali, Mpla e Unita, appoggiate da potenze straniere, che è finita solo nel 2002. La nazione è ricca di petrolio, gas, oro e diamanti, ma queste fortune sono concentrate nelle mani di pochi privilegiati. Dopo la caduta di Dos Santos, alla fine del 2017 il nuovo presidente, João Lourenço, ha lanciato una campagna contro la corruzione creando un’apposita agenzia statale. Negli stessi mesi l’organizzazione indipendente Platform to protect whistleblowers in Africa, nata per proteggere chi denuncia reati, ha ottenuto una montagna di carte sull’impero di Isabel e Sindika: 715 mila documenti riservati, analizzati dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij) , lo stesso network dei Panama Papers , LuxLeaks e Implant Files , rappresentato in Italia da L’Espresso. Più di 120 giornalisti di 37 testate di tutto il mondo hanno lavorato per sei mesi, insieme, sulle società ufficiali e sulle offshore segrete dei Dos Santos. Il maxi-sequestro giudiziario di fine anno riguarda solo la parte dichiarata delle ricchezze, molto più ampie, scoperte dall’inchiesta giornalistica, denominata Luanda Leaks, sui segreti di una delle donne più ricche del mondo. Isabel Dos Santos, 46 anni, nata in Azerbaijan da madre russa, cresciuta a Londra dove si è laureata, è tornata in Angola alla fine degli anni ’90. Mentre il padre era presidente, ha fondato la compagnia telefonica Unitel, catene di supermercati, aziende televisive ed è diventata socia e manager di banche, imprese di costruzioni e colossi petroliferi tra Angola e Portogallo. Attentissima al suo profilo pubblico, ha usato i media e Internet per presentarsi come «una donna che si è fatta da sola», «una vera imprenditrice» e grande benefattrice, che ha creato «migliaia di posti di lavoro». Dice di sostenere «il capitalismo sociale» e giura che «i soldi non danno la felicità». Nel 2016 ha parlato di innovazione al forum di Cernobbio in qualità di «leader del futuro». Finora la rivista economica Forbes le attribuiva una fortuna di 2,2 miliardi di dollari. Secondo i dati dell’inchiesta Luanda Leaks, però, i tesori accumulati da Isabel e dal marito, comprese le casseforti offshore mai dichiarate, valgono molto di più: un dossier di un’agenzia investigativa li quantifica addirittura in 12,7 miliardi. Di certo la coppia possiede una rete di oltre 400 società e consociate, ufficiali e non, sparse in 41 paesi del mondo. In Angola, dove il reddito pro capite è di 250 euro lordi al mese, Isabel è chiamata «la principessa». Un titolo adeguato al tenore di vita: nel 2015 la «signora ingegnera», ad esempio, liquida una fattura da 431.935 euro a Dolce&Gabbana per una sua società. L’elenco degli ordini è dettagliato e comprende 5 magliette da 202 euro l’una; tre giacchini da 1.890; 37 mila euro per Moschino e per altre case di moda italiane, da Roberto Cavalli (47 mila) a Etro (28 mila). Isabel ha proprietà immobiliari in mezzo mondo: solo a Montecarlo, con il marito, ha un appartamento di 700 metri quadrati, pagato 53 milioni di euro.Sindika Dokolo, di nazionalità danese e congolese, predilige l’arte contemporanea: ha creato una fondazione intitolata a se stesso e ha pure presentato la sua collezione al padiglione africano della Biennale di Venezia del 2007. La sua galleria, solo a Luanda, comprende più di cinquemila opere. Dopo settimane di silenzio, Isabel Dos Santos ha risposto pochi giorni fa alle domande della Bbc, partner del consorzio, per respingere le accuse e contestare il sequestro dei beni, definendolo «un attacco politico, una caccia alle streghe». Nel merito, ha negato di possedere il colosso dei gioielli De Grisogono, senza però smentire che appartenga al marito. I Luanda Leaks confermano che dal 2012 la casa madre svizzera è controllata da una holding lussemburghese, che a sua volta fa capo a una società di Malta, Victoria Holding Limited. Questa appartiene per metà a una capogruppo svizzera, Exem Holding, che risulta intestata proprio a Sindika Dokolo. L’altra metà è della società Sodiam, posseduta dall’impresa statale Endiama, che controlla le miniere di diamanti dell’Angola. Secondo le carte societarie, gli incassi di De Grisogono sono stati azzerati da spese folli in alberghi di lusso e feste esclusive, da Cannes a Porto Cervo, autorizzate dai consiglieri personali della coppia. Il gruppo ha chiuso per anni i bilanci in perdita, indebitandosi soprattutto con la banca Bic, di cui Isabel è socia. Mentre lo Stato angolano non avrebbe guadagnato nulla dai gioielli, anzi ci avrebbe perso: secondo atti interni del ministero del Tesoro, la Sodiam già nel 2013 aveva investito oltre 50 milioni di dollari nell’operazione De Grisogono, ma non avrebbe mai incassato utili. Anzi, la società statale avrebbe addirittura prestato soldi a Sindika per fargli acquistare la sua quota privata. A collegare l’Angola all’Italia, oltre ai gioielli e alle miniere di diamanti, sono i giacimenti di gas e petrolio, che forniscono il 90 per cento del totale delle esportazioni. Qui non poteva mancare l’Eni. Il colosso petrolifero italiano, presente in Angola fin dal 1980, ha acquistato per 964 milioni di euro, nel 2000, un terzo della Galp, una società portoghese con forti interessi nell’ex colonia. L’Eni l’ha gestita per anni insieme al gruppo Amorim, fondato da un magnate portoghese. Il 45 per cento di Amorim Energia, però, fa capo a una società olandese, Esperaza Holding. Che appartiene ad altri: il 60 per cento è della Sonangol, la società petrolifera statale angolana; il restante 40 della Exem Holding. Proprio la cassaforte di Sindika. Che risulta legata da prestiti incrociati con le società personali di sua moglie Isabel, come la Vidatel, un’offshore delle Isole Vergini Britanniche. Lei e il marito sono registrati insieme anche come beneficiari di conti bancari della Exem. Fonti dell’Eni hanno chiarito all’Espresso che il gruppo italiano, tra il 20 luglio 2012 e il 20 novembre 2015, ha venduto in più riprese tutte le sue partecipazioni in Galp, incassando in totale 3 miliardi e 283 milioni. I documenti interni mostrano che l’attuale vertice dell’Eni, dopo la nomina di Descalzi nel 2014, ha accelerato l’uscita totale da Galp per contrasti con altri soci, che proponevano investimenti miliardari in Brasile. Alla domanda più spinosa – a chi appartiene Exem Holding? - le fonti aziendali rispondono così: «Francamente non lo sappiamo». L’Eni peraltro risulta tuttora socia, con il 10 per cento, di un impianto angolano di gas liquefatto, chiamato Sonangol Lng Project, perché il primo azionista con il 40 per cento è l’omonimo gruppo statale di Luanda. E tra gli altri soci spicca, con un altro 10 per cento, l’azienda olandese Exem Oil & Gas, interamente controllata dalla solita Exem svizzera del marito di Isabel. La principessa, sul colosso italiano, si è limitata a dire che «tra i miei più grandi successi ci sono state le negoziazioni con la Total e con l’Eni di Descalzi»: parole che non si riferiscono però ai suoi affari privati, ma ai diciotto mesi, tra il 2016 e 2017, in cui Isabel Dos Santos era diventata l’amministratore delegato della Sonangol. Insediata con decreto firmato dall’allora presidente: una nomina di papà. Nell’intervista chiesta dal consorzio Icij, Isabel Dos Santos respinge ogni accusa di nepotismo e corruzione: «Sono solo un’imprenditrice, non ho mai fatto politica, il sequestro è un attacco orchestrato dall’attuale governo ed è totalmente infondato». La signora ammette di aver fondato la compagnia telefonica Unitel, che le ha fatto incassare profitti per almeno due miliardi, grazie a una licenza firmata dal padre, senza gara pubblica, e si difende così: «Era un atto del governo, che per legge andava siglato dal presidente. E la prima licenza statale era andata a un’altra società». Sulla sua passione per i paradisi fiscali, ora comprovata dagli atti di decine di società non ufficiali collocate nei più rinomati centri offshore, da Dubai alle Isole Vergini, Isabel Dos Santos risponde indirettamente: «Ho lavorato per più di vent’anni e ho pagato oltre 200 milioni di dollari di tasse in Angola e altri 50 milioni in Portogallo, quindi sono una grandissima contribuente». Ovviamente si riferisce a tutte le sue attività dichiarate, che comprendono anche la grande catena di supermercati Candando e il gruppo televisivo Zap. «La gente non va in questo o quel negozio, non guarda questo o quel programma per motivi politici», spiega: «È il mercato ad aver premiato le mie imprese». Tra i suoi affari rientrano però anche colossali appalti pubblici, come un maxi-progetto immobiliare a Luanda: una città-satellite in cantiere tra la capitale e l’aeroporto. Isabel non nega che lo Stato angolano, quando il padre era presidente, avesse stanziato 600 milioni di dollari per quel piano edilizio, ma sostiene che «si tratta di un normale investimento immobiliare che coinvolge anche società olandesi». Il tutto è stato bloccato dal nuovo presidente Lourenço con accuse di corruzione «inventate per vendetta», assicura la principessa. Luanda Leaks rivela decenni di contratti riservati che hanno fatto di Isabel dos Santos la donna più ricca d’Africa. Una massa di più di 715.000 documenti fa luce su una vasta rete di società schermo usate da dos Santos e da suo marito Sindika Dokolo per gestire fondi, acquistare proprietà immobiliari e partecipazioni in banche, società telefoniche, compagnie petrolifere e altro. I giornalisti di Luanda Leaks hanno anche scoperto che la società statale Sonangol, nel 2017, ha pagato almeno 57 milioni di dollari a una ditta di consulenza di Dubai, che oggi risulta controllata dai suoi tesorieri. Un contratto firmato da Isabel in persona, poco prima di doversi dimettere. L’ultimo colpo prima dell’addio? «No», è la sua risposta: «Era solo la continuazione del piano di ristrutturazione aziendale che avevo avviato come amministratrice di Sonangol». E così altri soldi pubblici sono spariti a Dubai.
Francesco Radicioni per “la Stampa” il 17 gennaio 2020. Mentre Washington e Pechino firmano l'accordo sui dazi, disinnescando di fatto - almeno per ora - il conflitto commerciale e politico tra i due Paesi, in un' altra fetta del pianeta l' influenza cinese non fa che aumentare. Era l' autunno del 2017 quando, durante il Congresso del Partito Comunista, Xi Jinping offrì al mondo il modello della crescita cinese «per quei Paesi che vogliono accelerare lo sviluppo senza perdere la propria indipendenza». Anche se tra gli analisti si discuteva da tempo se la Repubblica Popolare stesse cercando di esportare all' estero il proprio modello di «capitalismo autoritario», è stato quell' intervento a segnare un cambio di paradigma nella retorica di Pechino: dopo aver negato per decenni di voler fare «ingerenze nella politica interna degli altri Paesi», le autorità cinesi vedevano ora nel loro sistema di governo «un grande contributo alla civilizzazione politica dell' umanità».
La trappola dei prestiti. Se nell'ultima manciata di anni la diplomazia cinese si è fatta più assertiva - dall' approccio dei propri diplomatici nelle capitali europee fino al potere di lobby alle Nazioni Unite - è stato soprattutto grazie agli investimenti in infrastrutture lungo le rotte della Belt and Road che la Repubblica Popolare è riuscita a legare a sé molti Paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo. «La Cina usa la cosiddetta trappola del debito per espandere la sua influenza», ammonì nel 2018 il vice-presidente Usa, Mike Pence. Insomma, per Washington la Repubblica Popolare usa la scarsa sostenibilità economica di questi prestiti in strade, porti e ferrovie per estorcere concessioni e ottenere sostegno alla propria agenda politica. Mentre una pioggia d' investimenti è arrivata dalla Cina in Laos e Cambogia, le autorità di questi due piccoli e poveri Paesi del Sudest asiatico hanno sempre bloccato ogni critica durante i vertici dell' Asean all' approccio di Pechino nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale. Durante un summit internazionale ospitato nel 2018 in Papua Nuova Guinea - altro Paese con cui la Cina ha rafforzato le relazioni economiche - funzionari cinesi tentarono di far pressioni sulle autorità di Port Moresby sul linguaggio scelto nel comunicato finale del vertice. Mentre cresce il peso della Repubblica Popolare in Asia centrale e Medioriente, la scorsa estate sono state decine gli ambasciatori alle Nazioni Unite - compresi quelli di Pakistan e Arabia Saudita - a firmare una lettera in cui si difendevano le politiche contro la minoranza uigura.
Dalla diplomazia all' hi-tech. «Gran parte dell' esportazione del modello avviene attraverso la formazione di personale straniero», sostiene Elizabeth C. Economy, analista del Council of Foreign Relations. In questi anni la Cina ha infatti anche formato centinaia di funzionari di diversi Paesi dell' Africa e del Sudest asiatico per aiutarli a «comprendere il sistema di governance e il modello di sviluppo economico della Cina», oltre che investito in programmi per prevenire «rivoluzioni colorate» e combattere il dissenso in giro per il mondo. Seguendo l' ambizione di Xi di trasformare la Repubblica Popolare in una super-potenza tecnologica, i colossi hi-tech cinesi - Huawei, ZTE, Alibaba, Tencent, così come le start-up cinesi specializzate nell' applicazione della ricerca sull' intelligenza artificiale e sulla sorveglianza - stanno vendendo tecnologia un po' ovunque: dallo Zimbabwe al Venezuela, dall' Egitto all' Asia meridionale. In Paesi che sono agli ultimi posti delle classifiche per le libertà politiche, Pechino non esporta solo tecnologie e algoritmi, ma anche la filosofia politica dell'«autoritarismo digitale»: dalla draconiana legge contro le fake-news approvata da Singapore fino alla normativa sulla cyber-security del Vietnam che impone ai giganti di Internet di conservare i dati all' interno del Paese e collaborare con le autorità per rimuovere contenuti «illegali». Mentre Xi Jinping teorizza la «cyber-sovranità» - «il diritto dei singoli Paesi di scegliere indipendentemente il proprio modello di sviluppo e di regolamentazione del cyber spazio» - la Cina si è anche messa alla testa di un gruppo di Paesi per spingere l' Onu a ridisegnare le norme internazionali sul cyber-spazio e far passare un' idea di governance di Internet che pone al centro gli interessi degli Stati. Non è però solo nei paesi autoritari che il peso economico della Cina si trasforma in influenza politica: nel 2017 la Grecia - dove la Repubblica Popolare ha fatto massicci investimenti nel porto del Pireo - bloccò un intervento dell' Unione Europea critico verso la situazione dei diritti umani in Cina. «Critiche non costruttive», le liquidò Atene.
Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 28 Gennaio 2020. Lo «Snowden portoghese» contro la «principessa» dell' Angola, la donna più ricca dell' Africa. Sembra Davide contro Golia. Perché a mettere nei guai la potente Isabel dos Santos, figlia di José Eduardo, l' ex padre-padrone dell' Angola per oltre 30 anni (dall' indipendenza dal Portogallo al 2017) è uno squattrinato hacker portoghese di 31 anni: Rui Pinto, fisico minuto e capelli a spazzola, appassionato di calcio oltre che di web. Ieri ha fatto sapere di essere stato lui a divulgare oltre 700mila file che rivelano come la ricca Isabel, che vive tra Londra e Dubai, abbia costruito il suo impero: oltre due miliardi di dollari, accumulati per lo più «in modo fraudolento», grazie all' accesso a redditizi affari legati a terre, petrolio, diamanti e telecomunicazioni quando suo padre da presidente la nominò a capo della compagnia petrolifera statale Sonangol, principale fonte delle entrate dell' Angola. Grazie ai file di questo giovane smanettone, il procuratore generale del Paese l' ha accusata di frode, appropriazione indebita e riciclaggio. Un altro colpaccio per il nerd che aveva già fatto processare Cristiano Ronaldo con le sue «soffiate» sugli ingaggi e i compensi sottratti al fisco e nascosti nei paradisi fiscali. Rinchiuso in attesa di processo nel carcere di Lisbona per i «football leaks», Pinto ha fatto sapere di aver consegnato nel 2018 i file contro la «principessa», come viene soprannominata Isabel dos Santos, alla piattaforma africana Pplaa che sostiene i whistleblower - gli informatori - africani, a capo della quale c' è il suo legale, il francese William Bourton. I documenti sono poi stati passati al Consorzio internazionale per il giornalismo investigativo (Icij) che ha lavorato sui file e pubblicato i risultati dell' inchiesta. Isabel ha negato qualsiasi illecito, si è difesa dicendo che i documenti trapelati fanno parte di una «campagna motivata politicamente» da parte del governo del successore di suo padre, Joao Lourenço, che ha messo la lotta alla corruzione al primo punto della sua agenda politica. «Un attacco politico orchestrato in vista delle elezioni in Angola del prossimo anno» lo ha definito la donna, che intende candidarsi. La principessa è passata al contrattacco: ieri ha reso noto di aver avviato azioni legali per far causa al governo. Il fatto che Pinto sia la fonte dei file mostra però che «il leak non è motivato politicamente» sottolinea William Bourdon. Ad animare le azioni dell' hacker è la «lotta alle pratiche illecite», come aveva spiegato lui stesso nel caso dei «football leaks». I beni di Isabel sono stati congelati nell' Angola lacerata tra il nuovo corso di Joao Lourenço e quello vecchio dell' entourage dei dos Santos che ancora occupa posti strategici. In Portogallo invece il «nemico» numero uno pare essere l'«informatore» Rui Pinto, rinchiuso in cella in attesa di sapere quale sarà la sua sorte. Del resto le fortune accumulate con il petrolio dalle élite angolane vicine alla famiglia dos Santos hanno contribuito all' economia portoghese. Tra il 2002 e il 2015 - calcola il centro studi e ricerche dell' Universidade Católica de Angola - dal Paese africano sarebbero usciti 189 miliardi di dollari, per lo più finiti in Portogallo sotto forma di investimenti immobiliari, azioni di banche e squadre di calcio. Come ben spiega Celso Felipe in The angolan power in Portugal : «Pensavamo che l' Angola fosse un Paese povero e bisognoso di aiuto, poi ci siamo accorti che erano gli angolani ad aiutarci... è stato come se i domestici si comprassero casa tua».
Le miniere di diamanti africane in mano a Cosa Nostra. Gli interessi in Angola del tesoriere della mafia Vito Roberto Palazzolo. Che si definiva consigliere finanziario dello Stato. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti il 23 gennaio 2020 su L'Espresso. Gema Dourada. Diagema. Kupolu. Somicoa. Questi esotici nomi corrispondono ad altrettante società detentrici dei diritti di sfruttamento delle miniere di diamanti angolane, manovrate negli anni ’90 da Vito Roberto Palazzolo, all’ombra dell’allora presidente José Eduardo Dos Santos. Sì, proprio lui, il tesoriere di Cosa nostra, condannato in Italia e tornato da pochi mesi nel Paese d’adozione, il Sudafrica. Dove è conosciuto come Robert von Palace Kolbatschenko, cittadino sudafricano, e ora vaga libero con la moglie Tirtza Grunfeld, figlia di Eugene Grunfeld, mercante israeliano di diamanti. Arrestato in Thailandia nel 2012 dopo più di vent’anni di latitanza, Palazzolo era stato estradato in Italia nel 2013, per scontare una condanna definitiva a nove anni per associazione mafiosa. Dal 2019 è uscito dal carcere, con un solo problema. A Palermo continua la caccia al patrimonio nascosto dal grande tesoriere di Cosa nostra, affiliato dal boss Bernardo Provenzano che lo considerava «un pupillo, dotato di grandi capacità nel mondo dell’economia», spiega la sentenza. La procura siciliana cerca in Angola, Sudafrica e Namibia investimenti per almeno 41 milioni di dollari. D’altra parte, nella sua carriera, Von Palace ne ha riciclati tantissimi: almeno 80 milioni di dollari, dagli Stati Uniti alla Sicilia, «provento del traffico di droga». E reinvestiti da questo «uomo d’onore della famiglia di Terrasini» soprattutto «in diamanti». L’idea dell’Angola come terra di conquista, a “Roberto l’Africano”, altro suo nomignolo, viene nei primi anni ’90, quando da tempo vive in Sudafrica, dove gode di appoggi politici e amicizie nella polizia nazionale. Con il suo nuovo nome tedesco, però, continua a tessere relazioni e contatti con politici italiani come Marcello Dell’Utri cui offre la propria amicizia e propone affari in Sudafrica e anche in Angola, come documenta la sentenza di Palermo. Nel Paese dei Dos Santos, infatti, Palazzolo ha «un enorme potere e un sostegno politico ai massimi livelli», aggiungono i giudici antimafia. Lui stesso, intercettato, si definisce «il consigliere finanziario dello Stato angolano». Per lanciarsi nel business dei diamanti, l’uomo d’onore ha creato tre offshore alle British Virgin Islands, attive già dal 1995: Ayres International, Cape International e Peregrine Finance. Nello stesso periodo Von Palace si attiva per ottenere i permessi di esplorazione mineraria in Angola. Ma non sa, il banchiere di Cosa nostra, che le sue telefonate sono intercettate dalla polizia italiana. Che registra ogni sua mossa: l’11 e 12 agosto 1996, in particolare, Palazzolo è «a Luanda per ottenere concessioni del governo angolano per l’estrazione di pietre preziose». Con «denaro di sospetta provenienza». E il contorno di un omicidio in una miniera di diamanti «intestata a von Palace». La sua marcia nel continente nero si scontra però con il presidente del Sudafrica, Nelson Mandela, che ha creato una speciale unità d’indagine anti-crimine, diretta da André Lincoln, la sua guardia del corpo. Lincoln si trasforma in agente sotto copertura e avvicina Palazzolo, cercando di strappargli informazioni. E ci riesce: nel 1997 firma due dossier (nome in codice, Operation Intrigue) che rivelano le società minerarie angolane entrate nel mirino di Von Palace. Sono proprio Gema Dourada, Diagema, Kupolu, Somicoa. E hanno una caratteristica in comune: tra i loro partner compaiono politici ed ex generali angolani. Palazzolo negozia le licenze per i diamanti con Endiama, la società di Stato. Già nel 1995 ottiene il 50 per cento di Gema Dourada, attraverso la offshore Peregrine. All’atto formale partecipa come testimone Roberto Mattei Santarelli, un italiano con precedenti: due arresti. Il primo in Namibia, per ricettazione. Il secondo a Roma, per «possesso di pietre preziose» per mezzo milione di euro. Palazzolo ha usato la sua «influenza sulle autorità governative» per salvarlo da un altro arresto in Angola. Anche le miniere di Kupolu, Sumicoa e Diagema poi finiscono dentro le società dei Caraibi. A quel punto Palazzolo monetizza. E trova un compratore: un gruppo estero che acquista le sue quote nelle offshore dei diamanti. Come testimoniano altri documenti scoperti dal centro giornalistico Irpi, però, è sempre il boss italiano ad assicurare «permessi firmati e approvati da Endiama», garantendo che «il ministro delle Miniere ha approvato il nostro progetto di Gema Dourada». A Luanda intanto si apre un giallo. Nell’ottobre 1997 l’agente Lincoln denuncia che «l’Fbi vuole reclutare Palazzolo in Sudafrica e in Angola»: un’operazione che sarebbe stata avallata «dal direttore Louis Freeh». Il poliziotto infiltrato comincia a sentirsi isolato. Sottolinea che alcuni colleghi sudafricani cercano di screditarlo. Una faida che diventa per lui un incubo: Lincoln viene processato e condannato in primo grado, nel 2002, con l’accusa-choc di essere stato corrotto proprio da Palazzolo. in appello però viene assolto da tutte le accuse. E nel 2010 è reintegrato nella polizia sudafricana. Oggi ha in corso una causa di risarcimento dei danni. Ma nessuno ha più continuato le sue indagini sui diamanti che univano la mafia italiana agli uomini del regime angolano. L’Espresso ha chiesto un commento a Palazzolo, attraverso il suo avvocato Baldassare Lauria, ma la risposta è stata negativa. Silenzio assoluto. Forse per timore delle nuove indagini patrimoniali italiane. Ma in Sudafrica ha ancora protezioni? Non si può affermarlo con certezza. Però nel 2018 l’archivio storico del Sudafrica, in base a una legge ad hoc, ha chiesto alla banca centrale di avere accesso agli atti finanziari riservati che riguardano tre persone, tra cui Palazzolo. Niente da fare. Una decisione avallata anche da un tribunale. Ma che ha sorpreso gli esperti. Di fatto, Palazzolo è ancora intoccabile.
· La Tratta dei Profughi.
I profughi valgono 10 Shoah, 80 milioni in fuga da guerre e povertà. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Giugno 2020. Ottanta milioni. Più dell’uno percento rispetto alla popolazione mondiale. È il numero dei rifugiati registrato dall’Unhcr alla fine dello scorso anno. Ottanta milioni di esseri umani – un terzo dei quali bambini, spesso “non accompagnati”, che è un modo polverosamente burocratico per dire orfani o abbandonati – fuggono dalla discriminazione etnica, dalla guerra, dalla tortura, dalla minaccia di morte per fame che incombe sulle regioni dalle quali proviene l’ottanta per cento dei profughi. Una manciata di Paesi produce i due terzi di quell’umanità in fuga: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Queste cifre, in sé tragicamente significative, denunciano una verità rinnegata: e cioè che i migranti che provano ad accostarsi qui rappresentano una quota risibile di quell’immensa popolazione sradicata. Si tratta di poca gente che facciamo fatica ad accogliere e che perlopiù “integriamo” nelle piantagioni schiaviste del meridione d’Italia, giusto il tempo che serve alla raccolta, o nei lager nostrani ad aspettare che un burocrate decida se sono veri profughi o soltanto moribondi: e per il resto è roba buona nelle campagne elettorali in cui destra e sinistra competono per il primato nel non fare nulla. Una leggenda auto-assolutoria, e con pretese di saggezza politica, vuole che l’immigrazione dovrebbe essere gestita selezionando quella utile, cioè in buona sostanza dovremmo accogliere soltanto accademici e manager, possibilmente catechizzati: e gli altri no, perché non servono. Le distese di baracche arrugginite dove il caporalato negriero ammassa i raccoglitori dopo dodici ore sotto il sole dicono però una cosa diversa, e cioè che l’immigrazione prediletta è proprio quest’altra, in realtà assai benvoluta a patto che rimanga nei ranghi più bassi della società. E tutto questo senza considerare che, forse, davanti ai numeri spaventosi di quel disastro umanitario, un Paese civile dovrebbe assumere un atteggiamento un poco più responsabile: e domandarsi se non possa (se non debba?) contribuire in qualche modo a contenere lo scandalo di trentacinque milioni di bambini che cercano rifugio. Tra le tante provvidenze ignobili, destinate perlopiù a finanziare l’inefficienza e la rendita parassitaria (buone, se hanno la pelle bianca), una che si rivolgesse ad attenuare almeno un po’ la sofferenza di quei disperati sarebbe benedetta. E un pizzico di coraggio darebbe anche un nome a quell’impegno: prima chi affoga.
L’Africa orfana dei giovani delusi. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Goffredo Buccini. Laurent è l’ultimo di tanti. E lo ricorderemo per i suoi 14 anni e la sua fine atroce nel gelido vano carrello di un aereo in volo da Abidjan a Parigi. Ma, secondo l’Unhcr, tra il 2014 e il 2017, al culmine della grande crisi migratoria, su un milione e 800 mila profughi arrivati in Europa, 433 mila erano bambini o ragazzini. Stando al più recente rapporto dell’istituto Ismu, 40 mila minori non accompagnati sono approdati in Italia tra il 2016 e il 2017: e quasi 1.500 proprio dalla Costa d’Avorio, patria di Laurent, soltanto nel 2017, nota l’Ong italiana CeVI. Perché scappano i giovani africani? «Un 80% è mosso dalla speranza di migliori prospettive economiche o sociali», spiega l’ultima analisi dell’Ibrahim Forum Report. E, sì, sembra banale se non ci si approssima a guardare più da vicino quelle storie fuggiasche, sospese tra il respiro del mondo altrove, inalato nel web, e la morsa di società insieme immobili e terrificanti. Così, Laurent Ani Guybailly, che la sera del 6 gennaio non torna nella sua baracca da 15 metri quadri a Yopougon (il sovraffollato quartiere popolare di Abidjan dove viveva con padre, matrigna e fratellastri) e prova a saltare su un futuro diverso aggrappato al volo 703 dell’Air France, ci svela molto di questa realtà con la sua morte ma forse ce ne dice assai di più con la sua vita, «tanto breve da non avere visto nulla del 2020», ha sussurrato ai cronisti locali la sua compagna di classe Yasmine. Come il ragazzino del Mali annegato nel Mediterraneo con la pagella cucita nella giacca quale lasciapassare per il nostro mondo, anche Laurent era uno studente: timido, magrolino, quarta classe del liceo Simone Gbagbo di Yopougon, bravo in fisica e matematica, un’insufficienza in francese alla fine del primo trimestre. Dicono che qualche passatore gli abbia montato la testa al cybercaffé di fronte, dove trascorreva ormai troppo tempo bigiando la scuola: «Preparava la fuga da settimane». Basta un’occhiata alla foto scolastica per intuirne buone ragioni di inquietudine: 115 studenti per classe, fino a quattro o cinque per banco, in un istituto da 7.000 allievi divisi in due turni. Fuori da quella bolgia di aula, un Paese che torna pericolosamente in bilico, dopo gli anni delle guerre civili e degli scontri tra le 60 etnie, all’avvicinarsi delle elezioni di ottobre tra candidati e sponsor pronti a combattersi senza quartiere come dieci anni fa. Un Paese paradossale, con un Pil che cresce all’8%, materie prime contese tra le potenze del mondo, il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà: il quarto Paese per provenienza di migranti sbarcati sulle coste del Mediterraneo, 30 mila solo da noi in Italia. Laurent è un caso politico in patria, è un ceffone assestato alla narrazione ottimista del presidente Ouattara, economista del Fondo monetario internazionale e beniamino dei francesi. Ma è un fardello con cui dobbiamo confrontarci anche da questa parte del Mediterraneo. Dall’Africa si scappa per guerre e fame, certo, ma forse si scappa di più per amarezza e delusione. Il Dataroom di Milena Gabanelli racconta che negli ultimi sei anni il 60% dei migranti africani viene da Paesi a reddito pro-capite non bassissimo per gli standard del continente (tra i mille e i 4 mila dollari l’anno) e solo il 5% dai Paesi più poveri. Paradossalmente, per sognare una vita migliore bisogna averne già almeno una parvenza. Dunque, l’Ibrahim Forum Report si domanda se l’Africa sia «sul punto di perdere i propri giovani» (il 60% della popolazione ha meno di 25 anni): «Troppi si sentono privati di prospettive economiche e derubati del futuro». La crescita impetuosa dei Pil non ha quasi creato occupazione, «più i ragazzi sono istruiti e meno hanno probabilità di trovare lavoro nel loro continente», «la rabbia li porta a rischiare di morire nel Mediterraneo». Secondo la Gallup, 40 Paesi africani vivono pesanti perdite nella popolazione giovanile: Sierra Leone il 78%, Liberia il 70%, Nigeria il 57%. In Africa il terrorismo è ormai una routine che si misura in una crescita degli attacchi del 1000% in dieci anni. Ma è anche una prospettiva di lavoro, se è vero che il 27% di chi si è unito agli Al-Shabaab in Somalia afferma di averlo fatto per «ragioni economiche» e che una ricerca di Mercy Corps in Nigeria mostra che le medesime motivazioni hanno spinto molti ragazzi verso Boko Haram. La storia del ragazzino di Yopougon che, dicono i compagni, voleva «visitare la Tour Eiffel» e «si esercitava a parlare con l’accento dei Bianchi», apre infine grandi squarci sull’Africa: il modello ivoriano di un uomo forte che, benedetto dalla comunità internazionale, congeli diritti e democrazia in cambio di una parvenza di ordine è un archetipo della decolonizzazione malata del continente. Ma, finché l’Europa non avrà preso coscienza della questione africana, non si intravedono molte cure in atto, se non la paziente opera di prossimità praticata da Ong e volontariato (assai spesso cattolico). In Costa d’Avorio se ne trova un bell’esempio a Bouaké, dove l’italiana Avsi riempie esattamente lo spazio vuoto della grande delusione africana: con campagne per scoraggiare l’emigrazione irregolare basate su formazione professionale, sostegno a microimprese, una rete di 50 organizzazioni locali per sradicare le cause dei conflitti tra allevatori e agricoltori. Fatti, servono fatti concreti. Quando, alla commemorazione di Laurent, il preside del liceo ha ammonito i suoi studenti dicendo «non tentate queste avventure, la felicità non è altrove, si trova qui», quelli hanno guardato le pareti scrostate, i banchi marci, e hanno sorriso cupi «come no, proprio qui!». Poi hanno ricominciato a sognare un altro mondo.
«For Sama»: nascere, vivere e fuggire dalla Siria, con una profuga neonata. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. Waad al-Kateab con la piccola Sama - nata il 10 gennaio 2016 - in una delle strade di Aleppo distrutte dalla guerra. Sono riuscite a fuggire nella notte del 21 dicembre dello stesso anno. «Sama, ti ricordi di Aleppo? Mi biasimerai per non averti portato via subito? O mi darai la colpa per essere venuta via?». Sama sta giocando in cucina a Londra. A 4 mila chilometri da lei settimana scorsa sono morti 8 bambini in un raid ordinato dal presidente siriano Bashar Assad. Sama non si ricorda di Aleppo. È venuta via la notte del 21 dicembre 2016, in automobile, mentre faceva freddo ed aveva la febbre. E ora la casa, dove ha camminato e sorriso per la prima volta, non c’è più. «Ho iniziato a filmare e documentare proprio perché volevo che mia figlia un giorno avesse la possibilità di rivedere tutto questo». Quando scoppia la rivoluzione in Siria, nel 2012, Waad al-Kateab ha 18 anni. Studia marketing alla Aleppo University. Incontra un giovane medico di nome Hamza. Gioia, rabbia, amore, paura e odio. Manifestano insieme, si innamorano, fanno politica, anche quando il regime ricorre alla violenza per soffocare le rivolte, gettando la città nel baratro della guerra. Alcuni dei loro amici muoiono e loro stessi sfuggono per un soffio ai cecchini, agli attacchi aerei e alle bombe. Ma Waad non smette mai di riprendere. Con la macchina fotografica, con il cellulare. Poi, nel mezzo di tutto ciò, Hamza chiede a Waad di sposarlo. E mentre i barrrel bomb, i barili bomba imbottiti di chiodi ed esplosivo, cadono sulla città, il 1° gennaio 2016 nasce Sama. Avanti veloce di quattro anni, la storia di quei ragazzi e di quella bambina è diventata un documentario :— For Sama — distribuito da Wanted Cinema, già presentato a Cannes e proiettato alle Nazioni Unite. E che il 13 febbraio esce in Italia con il patrocinio di Amnesty International e la voce di Jasmine Trinca.
For Sama è la lettera di una madre a una figlia, una ninnananna, la stessa che canta alla piccola per distrarla dalle bombe. Perché ha deciso di renderla pubblica?
«Ho iniziato a raccontare la mia storia senza un piano, filmando le proteste in Siria sul mio cellulare, come facevano tanti altri attivisti. Fin dall’inizio ho capito che ero più affascinata dal catturare storie di vita e umanità, piuttosto che concentrarmi sulla morte e la distruzione. E da donna, pur vivendo in una parte molto conservatrice di Aleppo, sono stata in grado di accedere alle esperienze di donne e bambini, tradizionalmente vietate agli uomini. Questo mi ha permesso di mostrare la realtà invisibile dei siriani».
Quando è nata Sama aveva già iniziato a documentare gli orrori di Aleppo per Channel 4. I suoi reportage sul conflitto in Siria hanno ricevuto quasi mezzo miliardo di visualizzazioni e hanno vinto 24 premi - incluso l’Emmy Award nel 2016...
«Quando siamo riusciti a venire a Londra nel 2016, a Channel 4 mi hanno accolto come in una famiglia. Mi sono messa a lavorare con Edward (Watts, coregista del documentario, ndr) e guardando tutto quel materiale - erano più di 500 ore di girato - è nata l’idea del documentario. L’obiettivo, oltre a raccontare a Sama della sua infanzia, è di tenere accesa la luce sulla Siria».
In queste ore in Siria è in corso un’altra sanguinosa battaglia, quella di Idlib, l’ultimo bastione dell’opposizione, che Assad sta cercando di espugnare con il sostegno di Mosca. Perché ne parliamo così poco?
«Non riesco a capacitarmi di questo buio. Ma la speranza - proprio come accaduto per la guerra in Vietnam - è che le immagini possano fermare il sangue. For Sama vuole anche essere un appello all’impegno: conoscere è una forma di resistenza ai regimi. Non so se sia il termine giusto ma non mi sento solo una regista, ogni tanto penso a me come ad un’influencer delle ingiustizie».
Parte degli oppositori sono passati con le milizie jihadiste e hanno commesso crimini di guerra. Come vive questa contraddizione?
«Non condivo quella scelta ovviamente. Ma troppe persone in Siria hanno visto talmente tanto orrore da non poter sopportarlo. E allora hanno deciso di usare gli stessi metodi. Io sono stata fortunata. Ma chi può dire cosa avrei fatto se qualcuno avesse ammazzato Sama o Hamza... Inoltre ci sono tante persone che sono rimaste buone nonostante tutto. Ed è a loro che va il nostro supporto».
Lei e la sua famiglia avete ottenuto asilo politico in Gran Bretagna. Come ci siete riusciti?
«Grazie al mio lavoro per Channel 4, dopo un anno che eravamo in Turchia, ho ricevuto il visto. Così a maggio 2018 siamo arrivati all’aeroporto di Heathrow e abbiamo richiesto asilo lì. La mia seconda figlia Taima, che all’epoca aveva quasi un anno, non aveva documenti. Ho chiesto aiuto all’ambasciata siriana, ma non ci hanno aiutato perché Hamza era ricercato dal regime. Così ho lasciato Taima in Turchia per cinque mesi fino a quando non ci è stato concesso l’asilo e abbiamo potuto portarla in Gran Bretagna».
Sperate di tornare in Siria, un giorno?
«Ovviamente. Non solo perché significherebbe rivedere la casa dove sono nata. Mi piacerebbe portare le bambine nel mio giardino, far sentire loro il profumo delle rose».
Siete arrivati a Londra in un momento particolare, proprio in questi giorni la Gran Bretagna si sta organizzando per uscire dall’Europa. Com’è la vostra vita ora?
«Tutti sono stati molto gentili. Dopo che i miei vicini hanno visto il film, mi hanno lasciato una montagna di biglietti davanti alla porta. Ho ottenuto una borsa di studio universitaria per un master in comunicazione. Hamza sta lavorando per una società che fornisce servizi bancari nelle aree di conflitto e quest’anno inizia un master in medicina. Arrivati qui Sama ha avuto parecchi incubi, la guerra deve averla sicuramente traumatizzata. Ma ora sta molto meglio. Entrambe le bambine parlano l’inglese con l’accento britannico e vivono come due bambine inglesi. Ma non abbiamo mai smesso di rivolgerci a loro in arabo. Non vogliamo che dimentichi. Non vogliamo che nessuno di noi lo faccia».
Lettera di una profuga: “Schiave e vendute, siamo naufragate in mezzo al mare”. Tesfay Afrah Abrahem il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Salve prof. Mannino, oggi le vorrei raccontare la mia storia, perché mi ha sempre ispirato fiducia. Da quando sono diventata una sua alunna, lei non ha visto in me solo l’apparenza. Ha visto oltre e questo mi ha aiutato a crescere. Mi presento correttamente. Il mio nome è Afrah, ho 18 anni, sono nata in Sudan, originaria etiope, ma cresciuta in Italia. In Sudan mia madre era proprietaria di un B&B e mio padre lavorava in un ristorante, mia sorella frequentava le medie e io andavo all’asilo. Quando avevo quattro anni, la mia famiglia decise di trasferirsi in Libia, perché ci fu una guerra tra sudanesi: in seguito il Paese si divise in due parti. Non appena arrivati in Libia, ci accorgemmo subito che la situazione era molto pericolosa, perché i libici punivano le donne che non indossavano il velo. Mia madre era ortodossa e mio padre musulmano. Gli stranieri che vivevano da più tempo in Libia crearono un’area lavorativa a Tripoli per soli stranieri. E così i miei genitori aprirono un ristorante e iniziarono a lavorare diligentemente. Mia sorella li aiutava, io invece passavo il tempo a giocare con i bambini. Non frequentavo la scuola perché la mia famiglia aveva paura che potesse capitarmi qualcosa di brutto: un giorno venni quasi rapita, ma per fortuna quell’uomo fu fermato prima che potesse arrivare al cancello. In quel periodo sequestravano i bambini per poi ucciderli e vendere i loro organi. Col passare del tempo i miei genitori decisero di voler andare in Italia, ma i soldi per pagare lo scafista non bastavano e così ci tirammo indietro. Proprio allora un mio amico partì con la sua famiglia, ma un mese dopo sentimmo che la loro barca si era capovolta. Morirono tutti. Fu uno choc. Frattanto la Libia diventava ogni giorno sempre più pericolosa per gli stranieri. Mesi dopo i miei genitori decisero di voler partire e iniziarono a chiedere informazioni sulla barca. Così a un certo punto decidemmo di andar via. Partimmo a notte fonda, salimmo su un grande furgone e iniziammo il nostro lungo viaggio. Superato il deserto, fummo catturati quattro volte. I sudanesi ci vendettero ai libici e poi ancora i libici ad altri libici. Per due volte i miei genitori pagarono per essere liberati. La terza volta però restammo senza soldi. Così presero i miei genitori e li misero in una stanza con dei serpenti, minacciandoli che se non avessero pagato sarebbero morti lì. Io e mia sorella eravamo all’oscuro di tutto, ma la paura c’era nel non vedere i nostri genitori. Infine mia madre chiese un prestito a mia zia che stava in America. Fummo liberati tutti e continuammo il nostro viaggio. Arrivati in una villa ci chiesero di nasconderci. Ero nel cortile e mi stavo annoiando, quando uno di loro mi disse: «Sto uscendo, non aprire a nessuno». Io però capii male. Pensai che mi avesse detto di aprirgli non appena fosse stato di ritorno. Sentii qualcuno bussare, mi misi a correre per aprire, e aperto il portone vidi un fucile puntato sulla mia fronte. Per il terrore mi misi a correre verso mia madre. Fummo di nuovo presi, mia madre pagò di nuovo, ma i soldi non bastarono neanche allora. E così mio padre decise di rimanere indietro. Io, mia madre e mia sorella proseguimmo il viaggio da sole. Senza mio padre. Alle 21 cominciammo a correre per raggiungere la riva dove la barca ci stava attendendo. Cinque ore senza fermarci. Io ero sempre in braccio a mia madre o di qualche ragazzo che si offriva di aiutarla: avevo sei anni, ero piccola per sopportare quel percorso che per giunta era fatto di corsa. Arrivati a riva trovammo la barca e salimmo a bordo. Iniziammo il viaggio in mare. Ma a metà viaggio il motore si fermò. Tutti dal panico iniziarono a urlare dalla disperazione e a pregare, finché dopo qualche ora venne una barca molto più grande della nostra. Erano i libici. Ci chiesero se volessimo tornare in Libia o restare in mare. Tutti risposero di voler morire in mare piuttosto che tornare, mia madre urlando chiese di aiutarci, che aveva due bambine. I libici senza pietà se ne andarono come se non stesse accadendo nulla intorno a loro. Il mattino seguente incontrammo dei pescatori tunisini che ci aiutarono con il motore. Ci dissero che avevamo sbagliato rotta, che stavamo andando verso Malta. E così ci guidarono verso la Sicilia. Chiamarono la guardia costiera. Finalmente dopo tre notti e tre giorni arrivammo in Sicilia. Sono ormai dodici anni che vivo in Italia, parlo, scrivo e penso in italiano, l’unica cosa che mi manca per completarmi è un pezzo di carta, la cittadinanza italiana. Bacerò sempre questa terra come fece mia madre la prima volta che arrivammo, sono multietnica, Sudan, Etiopia, Italia. Tre terre diverse. Tre culture differenti, ma fanno parte di me e della mia storia. Cordiali saluti, la sua alunna, Tesfay Afrah Abrahem.
· Porti Aperti.
Sofia Dinolfo Mauro Indelicato per ilgiornale.it il 3 luglio 2020. Quando si parla di immigrazione, automaticamente spesso si pensa alle immagini di vecchi barconi in difficoltà lungo il Mediterraneo, così come a gommoni trascinati a fatica verso la costa con a bordo decine di persone. Nella stragrande maggioranza dei casi in cui si parla di partenze dal nord Africa del resto, si ha a che fare con mezzi di fortuna oppure poco adeguati all’attraversamento del Mediterraneo. Non sempre tuttavia è così: a volte, soprattutto nel trapanese e nell’agrigentino, è possibile riscontrare degli sbarchi attuati con modalità del tutto differenti, a volte anche con motoscafi di una certa cilindrata.
Quei viaggi solo per “pochi”. È un fenomeno in crescendo quello degli arrivi nel sud Italia attraverso mezzi di “lusso” e riservato solamente ai migranti “benestanti”. Non barchini o barconi, non gommoni ma potenti mezzi che consentono di affrontare lunghe traversate in condizioni di sicurezza. Si tratta di motoscafi , in ottimo stato, con posti riservati a non più di una decina di persone che possono usufruire non solo di un viaggio sicuro ma anche molto più veloce rispetto a quello garantito dalle altre imbarcazioni. Ma non solo, mezzi di questo genere consentono di attraversare il mar Mediterraneo in sordina eludendo spesso i controlli da parte delle autorità. Chi vi viaggia? Come detto prima si tratta di persone che hanno a disposizione del denaro e quindi possono permettersi traversate di questa portata. A dare conferma delle loro disponibilità economiche è anche il loro abbigliamento. Le persone che scendono dai motoscafi sono spesso curate e i loro indumenti sono contraddistinti da note griffe. Gli zaini al seguito contengono cambi la cui qualità non è da meno.
La “costosa” rotta tunisina. I viaggi di questo genere hanno sempre inizio dal nord della Tunisia e, precisamente, da Biserta. Qui, da un punto di vista logistico la rotta più vicina è quella che consente di arrivare direttamente nelle coste del trapanese e dell’agrigentino. Chi vi approda ha a propria disposizione una possibilità non indifferente, ovvero riuscire ad eludere i controlli subito dopo lo sbarco per raggiungere la strada e da lì i mezzi pubblici. La tipologia del “servizio” offerto dalle organizzazioni criminali spiega così il perché di costi eccessivi, alcune migliaia di euro, e il perché sono solo in pochi a potersi permettere viaggi di questo genere. Tutto al contrario quello che accade a sud della Tunisia: a Sfax. Qui, la rotta seguita è quella che, per motivi logistici, consente di arrivare con maggiore velocità a Lampedusa. Chi arriva nell’isola maggiore delle Pelagie non passa però inosservato. Qui si mette in moto sin da subito la macchina dei controlli e delle verifiche da parte delle Forze dell’ordine ai migranti. Finite le procedure di identificazione, i nuovi arrivati vengono trasferiti nei centri di accoglienza a disposizione.
Un fenomeno non nuovo. Lo sbarco avvenuto ad Agrigento mercoledì ha portato alla ribalta gli “sbarchi di lusso”, accendendo nuovamente i riflettori su questa tipologia di approdi lungo le nostre coste. Tuttavia, quello dell’arrivo di imbarcazioni costose con a bordo migranti ben vestiti non è un qualcosa riscontrabile soltanto in questo primo scorcio d’estate. Si badi bene: approdi del genere sono considerati atipici, perché rari e perché la stragrande maggioranza dei migranti viene fatta viaggiare dai trafficanti di esseri umani a bordo di gommoni e barconi malandati. Però di sbarchi avvenuti con mezzi più importanti e costosi se ne possono annotare diversi nel corso degli ultimi anni. Ne sanno qualcosa nel trapanese: è qui che generalmente è possibile verificare l’arrivo di migranti tramite motoscafi molto veloci oppure anche veri e propri yatch. A portare a galla il fenomeno sono state diverse operazioni delle forze dell’ordine compiute soprattutto dal 2017 in poi. In provincia di Trapani, così come nella parte occidentale di quella di Agrigento, sono state scoperte diverse organizzazioni criminali dedite a portare dalla Tunisia alla Sicilia diversi migranti tramite imbarcazioni di lusso. Una svolta nello studio di questo particolare tipo di fenomeno, si è avuta nel gennaio del 2019: in questo mese infatti, ben due operazioni hanno portato a galla una realtà criminale nel trapanese dove la principale fonte di guadagno era proprio quella dell’organizzazione di viaggi di lusso lungo la rotta tunisina. La prima, in particolare, è scattata il 9 gennaio 2019 ed è stata denominata “Abiad”: 15 persone sono state arrestate, una di queste mostrava anche simpatie jihadiste. L’organizzazione aveva basi soprattutto in provincia di Trapani. Pochi giorni dopo e sempre nel trapanese gli inquirenti hanno fatto scattare il blitz “Barbanera”, dal soprannome del principale indiziato delle indagini, ossia il tunisino Moncer Fadhel. Anche in questo caso, è stato accertato che il gruppo criminale riusciva a far arrivare tra Marsala e Mazara del Vallo diversi gruppi di migranti tramite imbarcazioni diverse dai soliti barchini.
Chi c’è dietro gli sbarchi di lusso. A volte, come nel caso del sopra citato episodio di Agrigento, approdi del genere appaiono “spontanei”: con un motoscafo rubato in Tunisia, gruppi di dieci persone dopo 10 o 12 ore di navigazione possono giungere in Sicilia senza incappare in controlli particolari lungo la rotta. Quando ad arrivare sono gruppi di modeste dimensioni allora è possibile pensare a piccole organizzazioni locali non ben strutturate che agevolano le partenze. Ma, come del resto riscontrato nelle operazioni sopra citate, spesso non è così: la mano delle organizzazioni in grado di cementificare sodalizi criminali su entrambe le sponde del Mediterraneo è ben evidente negli sbarchi di lusso. Chi può permettersi di organizzare viaggi del genere, ha dietro gruppi ben articolati ed in grado di gestire logisticamente e finanziariamente la tratta. Tanto è vero che i trafficanti di esseri umani che operano con imbarcazioni di lusso, gestiscono anche altri tipi di business illegali: dal contrabbando di sigarette a quello delle sostanze stupefacenti, che spesso viaggiano dentro le barche assieme ai migranti. E c’è poi un altro aspetto, non meno significativo, costituito dall’ombra dell’estremismo islamico. L’operazione Abiad ha svelato le trame di un gruppo criminale retto da persone con simpatie per le ideologie jihadiste. Nei giorni scorsi contro il trafficante Barbanera è scattato un sequestro di beni da 1.5 milioni di Euro: nel provvedimento emesso dagli inquirenti, si fanno riferimenti anche ad intercettazioni in cui Barbanera ed altri complici parlano di attentati contro caserme ed altri obiettivi sensibili. Dunque, dietro i viaggi di lusso si nascondono gli interessi di sodalizi ben collaudati e ramificati, in Tunisia come in Italia, operanti tra Trapani ed Agrigento ed in cui non è da escludere lo spettro del terrorismo.
Migranti, assalto a Lampedusa: dieci sbarchi in 24 ore. Arrivano in 570, l'hotspot pieno non può ospitarli per la quarantena. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Uno sbarco dietro l'altro, più di dieci in 24 ore, compreso l'arrivo del barcone avvistato ieri mattina dall'aereo Moonbird di Sea Watch con piu di 250 persone a bordo. E a Lampedusa è di nuovo emergenza con 570 migranti arrivati tra ieri pomeriggio e stamattina, l'hotspot che scoppia e soprattutto le procedure antiCovid da seguire. E per il Viminale un nuovo problema: dove tenere in quarantena i migranti arrivati dalla Tunisia ma anche dalla Libia. I primi 85 tra quelli arrivati ieri con piccoli barchini uno dietro l'altro dalla Tunisia sono già stati trasferiti sulla terraferma a Porto Empedocle. Ma gli altri, con l'hotspot che conta soli 95 posti, sono ancora tutti sul molo Favarolo in attesa che arrivino istruzioni sulla loro gestione. La Moby Zaza, la nave quarantena noleggiata dalla Protezione civile, è già piena dei 180 sbarcati qualche giorno fa dalla Ocean Viking a cui si aggiungono i 30 positivi ospitati sul ponte "zona rossa"., questa volta tutti con sbarchi autonomi. Due i grossi sbarchi avvenuti in serata prima e nella notte dopo. Un primo barcone con 95 persone e poi il piccolo peschereccio con 260 persone a bordo che era stato avvistato ieri mattina dal Moonbird che aveva lanciato una richiesta di soccorso visto che il Mediterraneo in questo momento è del tutto sprovvisto di navi umanitarie bloccate o dalla quarantena o dal fermo amministrativo della Guardia costiera come appunto la Sea Watch. La Ong tedesca che ha denunciato l'iniziativa come un modo surrettizio di bloccare i soccorsi in mare ha fatto sapere che tra le contestazioni nel verbale di ispezione condotto a bordo c'è un numero giudicato in eccesso di giubbotti di salvataggio. "Troppi giubbotti di salvataggio è una delle irregolarità contestate - scrive Sea Watch - i giubbotti non sono invece mai usati dalla cosiddetta guardia costiera libica che opera con navi italiane e che appena due giorni fa ha respinto in Libia 19 sopravvissuti in mare da dieci giorni".
Non serve smontare i decreti Salvini: 18 sbarchi in un giorno. Oltre 600 migranti a Lampedusa. E il governo vuole allentare le misure contro le Ong "taxi". Chiara Giannini, Sabato 11/07/2020 su Il Giornale. È di nuovo invasione, nonostante il governo cerchi di nascondere l'evidenza. Diciotto gli sbarchi, uno dietro l'altro, nelle ultime 24 ore. Tanto che Lampedusa è in emergenza con 618 migranti arrivati tra giovedì e ieri. L'aereo Moonbird di Sea Watch, la nave in fermo amministrativo per irregolarità rilevate dalla Guardia Costiera, aveva avvistato un barcone con a bordo 267 clandestini, poi tutti giunti sull'isola, il cui hotspot non ce la fa più a contenere gli immigrati, soprattutto a causa delle misure anti Covid da mettere in atto. I primi 85 sbarcati sono già a Porto Empedocle, ma con la Moby Zazà piena dei 180 migranti portati dalla Ocean Viking, non si sa più dove mettere la gente in quarantena. Ieri i nuovi arrivati sono stati messi sul molo Favarolo in attesa di «ordini dall'alto», ma la situazione è esplosiva, con i resistenti di Lampedusa allo stremo per una situazione che non accenna a migliorare, nonostante sia ancora in vigore il decreto governativo che rende i porti italiani non sicuri a causa della pandemia mondiale. Il «lavoro» delle Ong, le cui navi ormai sono diventate taxi del mare, sta solo facendo peggiorare la situazione. Si piazzano di fronte alle coste libiche, a 13 miglia dalla terraferma e aspettano l'arrivo dei barconi, che prendono il largo proprio perché sanno della loro presenza. E sono ormai inutili le lamentele della Guardia costiera di Tripoli, che ogni giorno sottolinea la situazione. Con i giornali di sinistra che in Italia continuano a parlare dei «poveri migranti che scappano dalla guerra», ignorando che non solo in Africa non ci sono più guerre, ma che la maggior parte delle persone arriva da Tunisia, Bangladesh o altri Paesi dove non ci sono emergenze particolari, se non quella del Covid, che ora rischia di tornare un incubo anche per l'Italia, con gli operatori delle forze dell'ordine sottoposti a turni massacranti e rischio contagio. E mentre c'è chi parla di altre morti in mare e del recupero di 26 cadaveri in acque libiche e 30 in acque tunisine da parte della Mezza Luna Rossa, i buonisti continuano a non capire che quelle vite perse non sono altro che responsabilità di un sistema che punta all'accoglienza indiscriminata. Tanto che più del doppio dei migranti dello scorso anno è arrivato quest'anno in Italia, nel silenzio più totale del Viminale e del ministro Lamorgese, scomparsa dalle cronache. Il tutto mentre un altro problema relativo all'immigrazione sorge al nord. È l'onorevole della Lega, Gianni Tonelli, a chiedere «al ministro della Salute e al governo come si devono comportare gli operatori che prestano servizio alle frontiere, esempio per tutte quelle ad est, con la Slovenia». Un'ordinanza del ministero della Salute ha infatti vietato l'ingresso e il transito in Italia alle persone che nelle ultime due settimane hanno soggiornato o transitato in una lista di 13 Paesi tra cui Macedonia del Nord e Bosnia Erzegovina. All'ingresso in Italia, ovvero all'atto dell'imbarco sul vettore aereo o marittimo, le persone provenienti da tutto il mondo dovranno autocertificare il non soggiorno o transito nei 13 Paesi inseriti nella black list. Diversamente si verrà respinti. «L'ordinanza certifica la totale incompetenza - prosegue - di questo governo. Ora però l'apparato della sicurezza come deve comportarsi? Mi piacerebbe conoscere il parere del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e del ministro dell'Interno Lamorgese».
Virus governo: in un anno triplicati gli sbarchi. Il governo continua a fare orecchie da mercante sulla questione migranti che torna a far discutere l'Italia. Chiara Giannini, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. Il governo continua a fare orecchie da mercante sulla questione migranti che torna a far discutere l'Italia. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando approdarono sulle coste siciliane 1.561 migranti (tra il 1 gennaio e il 29 maggio), in questo 2020 ne sono arrivati 5.024, ovvero tre volte e mezzo il numero del 2019. Nonostante il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, nel periodo di chiusura per Covid-19, avesse informato che i porti italiani non erano sicuri a causa della pandemia, gli immigrati hanno continuato a partire dalle coste del Nord Africa, non solo libiche, ma anche tunisine e algerine. D'altronde, la sanatoria di 200mila extracomunitari voluta dal ministro Teresa Bellanova e portata avanti dal governo, ha comportato che in alcuni Paesi si diffondesse la voce che in Italia chi arriva avrà un lavoro e sarà regolarizzato. Questo ha fatto sì che tutti i nuovi sbarcati, molti dei quali dovrebbero fare la quarantena obbligatoria negli hotspot o nei centri di accoglienza della Sicilia o ancora sulla Moby Zaza, la nave che ci costa un milione di euro al mese, se possono fuggono e girano liberamente per lo Stivale, rischiando di contagiare i cittadini. Lo ha annunciato anche l'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini, che nei giorni scorsi ha scritto: «Decine di immigrati in fuga dalla quarantena in provincia di Agrigento: il governo spalanca i porti a migliaia di clandestini e non è in grado di controllarli, mettendo a rischio la salute di tutti. Dal primo gennaio al 28 maggio 2019 si contavano 1.490 sbarchi, contro i 4.838 dello stesso periodo di quest'anno. Governo di complici o di incapaci?». Negli ultimi tre giorni, infatti, i migranti arrivati sono almeno 250. Il tutto mentre le Ong tornano alla carica e invocano nuovi «salvataggi», anziché disincentivare la gente a partire. Intanto, i media pro sbarchi raccontano di torture nelle carceri libiche e Sea Watch gioisce per la condanna a 20 anni dei tre torturatori libici fermati lo scorso anno. Senza ricordarsi di indicare, però, che furono traghettati in Italia proprio dalla loro nave, allora capitanata da Carola Rackete, la paladina dei buonisti che voleva cancellare i social di Salvini. La realtà è che l'Italia, in questa fase 2, si sta nuovamente riempendo di migranti, lasciati liberi di girare senza che nessuno imponga loro distanziamento o dispositivi di protezione personale.
"Sbarchi dimezzati nel 2019". Così il governo si prende i meriti di Salvini. Il Viminale diffonde una parte di dati. Ma la realtà è un'altra. Da settembre a oggi gli sbarchi nel nostro Paese sono aumentati. Serena Pizzi, Mercoledì 25/12/2019, su Il Giornale. Dopo aver varato una Manovra delle tasse e della manette, dopo aver litigato sui temi più disparati, il governo giallorosso si fa un regalo. Tutto confezionato su misura. L'anno sta finendo, è tempo di bilanci e di numeri. Bisogna cercare di recuperare il recuperabile e di ingannare anche gli italiani. Come? Andando a mirare alla pancia, ai temi caldi. Quindi all'immigrazione selvaggia e incontrollata. Così, nel primo pomeriggio del Santo Natale, il Viminale si è preso la briga di diffondere alcuni dati - che ufficialmente e completamente verranno mostrati solo a Capodanno - per augurare buone feste agli italiani. Stando, quindi, ai dati del Viminale gli sbarchi di migranti sono dimezzati, passando da 23.210 del 2018 a 11.439 nel 2019. A primo acchito verrebbe da dire "wow", anche perché il Viminale precisa che i dati illustrano la situazione relativa al numero dei migranti sbarcati a decorrere dal 1 gennaio 2019 al 24 dicembre 2019 comparati con i dati riferiti allo stesso periodo degli anni 2017 (-90,38%) e 2018 (-50,72%). Nel 2017 furono 119369. Numeri importanti, quindi. Ma le cose stanno veramente così? Non proprio. Il numero degli immigrati arrivati nel nostro Paese è sì inferiore rispetto al 2018, ma non per opera del lavoro del governo giallorosso. I numeri sono così importanti perché fino a giugno di questo anno, grazie alla politica di Matteo Salvini, gli sbarchi sono crollati drasticamente. Con l'arrivo di Luciana Lamorgese e con la sua idea di aprire i porti a tutti, invece, da settembre a oggi gli sbarchi sono aumentati a dismisura. Ma questo non è un mistero. Solo due giorni fa, Matteo Salvini ha svelato la magagna. "Anche a dicembre gli sbarchi aumentano rispetto allo stesso periodo di un anno fa - ha fatto notare il leader della Lega -. Da settembre a oggi, considerando gli immigrati in arrivo a Taranto, hanno raggiunto l’Italia 6.249 persone. Negli otto mesi precedenti, con la Lega al governo e condizioni meteo più favorevoli per le partenze, gli arrivi erano stati 4.976. È il governo sbarchi, tasse e manette, che però esulta per i circa 400 ricollocamenti all’estero. Complici o incapaci?". Come abbiamo scritto il 23 dicembre scorso, infatti, da settembre in poi, da quando cioè è entrato in carica il Conte II, il numero dei migranti approdati in Italia ha registrato un aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo implica due elementi da non trascurare in vista del 2020: da un lato che la diminuzione degli sbarchi nell’anno che si sta per concludere è dovuto al drastico ridimensionamento degli approdi da gennaio ad agosto, dall’altro in prospettiva si potrebbe prevedere un aumento degli sbarchi se l’attuale trend verrà confermato nei primi mesi del nuovo anno. Da giugno ad agosto, infatti, mesi considerati più caldi sul fronte migratorio per via delle condizioni meteo più favorevoli, sono stati registrati 3.574 migranti sbarcati, a fronte dei 6.647 approdati nello stesso periodo del 2018. Una diminuzione, su base annuale, che equivale quasi ad un vero e proprio dimezzamento. Da questo mese di settembre fino al 15 dicembre, invece, sono arrivati 5.962 migranti, a fronte dei 3.293 dello stesso periodo dell’anno scorso. Su base annuale, dunque, si ha un aumento non indifferente di persone arrivate irregolarmente nel nostro paese. E ora che i numeri vengono mostrati per intero, è chiaro a tutti che la Lamorgese e il governo giallorosso si stiano prendendo i meriti di altri. Ma stanno gongolando per nulla. Loro non hanno fatto niente. Anzi, hanno solo riportato indietro l'Italia, quando era il campo profughi d'Europa. Resta il fatto che i giallorossi hanno proprio una bella faccia tosta: si vantano del lavoro di altri. E non un altro qualunque. Proprio il loro peggior nemico.
Da ansa.it il 28 Gennaio 2020. I 403 migranti a bordo della Ocean Viking sbarcheranno a Taranto. Lo scrive Medici Senza Frontiere su Twitter sottolineando che l'annuncio dell'assegnazione del porto sicuro è già stato dato alle persone a bordo. "Costretti a rischiare la vita - scrive Msf - i 216 uomini, 38 donne e 149 bambini raggiungeranno presto la sicurezza". "A Taranto sbarcheranno 400 migranti a bordo di una nave delle Ong. Con i problemi di lavoro, inquinamento, agricoltura, l'unico modo che ha questo governo per ricordare la Puglia è far sbarcare migliaia di migranti. E ci hanno messo 4 giorni per concedere un porto sicuro, e allora denuncio per sequestro di persona il presidente del Consiglio Conte e il ministro dell'Interno Lamorgese. E' sequestro di persona solo quando sono coinvolto io? E allora ci vediamo in tribunale". Lo dice in diretta Fb il leader della Lega Matteo Salvini.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 31 gennaio 2020. I crudi numeri dicono che nel mese di gennaio sono ricominciate alla grande le partenze dalla Libia. In un mese sono sbarcate in Italia 1.273 persone; un anno fa, in piena era Salvini, erano stati 155. Un incremento del 1000 per cento che spaventa il ministero dell' Interno. Anche perché non finisce qui. C'è in navigazione la «Open Arms» con altri 282 naufraghi a bordo, che finora non ha chiesto all' Italia l' indicazione di un porto sicuro, ma domani chissà. E dopodomani? Al Viminale non si fanno illusioni, ma nemmeno pensano di essere alla vigilia di una nuova catastrofe, ossia di un nuovo 2015, quando arrivarono quasi 200mila migranti. E comunque il Viminale si sente rassicurato perché sta tenendo l' intesa con Francia e Germania, che sulla base della bozza di Malta si fanno carico realmente di una quota di ricollocamenti: il 21 gennaio, per dire, è partito da Roma un volo diretto a Parigi con a bordo 68 richiedenti asilo accettati dalla Francia. Sono stati 464 i migranti redistribuiti in Europa da settembre in poi. Ma al Viminale sanno anche che l' intesa potrebbe traballare se arrivassero a migliaia. Certo, la situazione in Libia è malmessa. La tregua regge a malapena e i due schieramenti stanno approfittando della pausa per rafforzarsi. La guerra continua con piccole scaramucce, con il blocco dei pozzi, e forse anche con qualche spregiudicata spintarella alle partenze. La Libia, insomma, è in cima alle preoccupazioni del governo italiano. La ministra Luciana Lamorgese ha raccontato ieri di essere in contatto con il ministero dell' Interno libico e lì «c' è una situazione di instabilità, e questo determina anche un aumento dei flussi». Dicono fonti del ministero che in effetti la settimana scorsa, subito dopo la Conferenza di Berlino, c' è stata una «falla» nel meccanismo che aveva retto negli ultimi due anni. Un eufemismo per dire che la Guardia costiera libica stavolta non ha fatto il suo dovere. Complice la guerra, ma non solo, i clan che dominano il mercato dei flussi illegali nelle cittadine di Zuara e Zawaya hanno subito approfittato del calo di tensione. Dalla Libia, però, si allude anche a un ostentato disinteresse del governo Sarraj per il problema migratorio. Una rappresaglia visto che il governo italiano ha cambiato linea e ora ostenta una totale equidistanza tra i due schieramenti? Potrebbe essere. Il ministro Luigi Di Maio, però, ieri in Parlamento ha spiegato che sono in corso «trattative». A dispetto di quanto vuole la vulgata dei social, infatti, non è vero che il 2 febbraio sarà rinnovato tacitamente il memorandum tra i due governi, stipulato ai tempi di Marco Minniti, che regola la cooperazione con Tripoli su molti piani, contrasto all' immigrazione clandestina compreso. Il nostro governo ha rispettato i tempi per presentare alla controparte le sue richieste. Lo stesso ha fatto Tripoli. E ora si discute. Lo si fa in segreto, perché non è materia da farci sopra i comunicati. Da quel poco che si sa, l' Italia ha chiesto di rivedere il trattamento dei migranti, gli standard dei centri di accoglienza, il controllo in mare. Il governo di Tripoli, a sua volta, chiede aiuti materiali, specialmente per le forze di sicurezza. Ma come è noto, ci si scontra con i termini dell' embargo imposto dall' Onu. Lunedì sarà a Roma il ministro libico Fathi Bishaga. Nelle more della trattativa, però, si è inserita la variabile turca. È Erdogan ora il gran protettore di Tripoli e di Misurata. Uno che non si fa scrupoli a schierare navi, batterie missilistiche, droni e anche mercenari. Potrebbe avere interesse a far naufragare questo riavvicinamento. A Roma si rendono conto che la situazione si è ulteriormente complicata.
Ormai siamo un porto franco: altra Ong sbarcherà a Messina. Sbarcheranno a Messina i 158 migranti a bordo della nave Aita Mari, dell'Ong spagnola Salvamento Maritimo Humanitario. Dal ministero dell'interno è arrivato un nuovo disco verde, il quale conferma il trend in rialzo del numero degli sbarchi. Mauro Indelicato, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. Sbarcheranno a Messina i 158 migranti a bordo della nave Aita Mari, il mezzo usato dall’Ong spagnola Salvamento Maritimo Humanitario per le sue missioni nel Mediterraneo centrale. A comunicarlo è stata la stessa organizzazione presso il proprio profilo Twitter: “Abbiamo un porto! Le autorità italiane ci hanno informato – si legge sul social – che la nave Aita Mari è autorizzata a sbarcare le persone che abbiamo a bordo nel porto siciliano di Messina. Data la posizione nel Mediterraneo in cui ci troviamo, prevediamo di arrivare domani mattina”. Il via libera allo sbarco della Aita Mari, è stato dato nelle scorse ore dal Viminale. La nave dell’Ong spagnola, era l’unica per il momento presente nello specchio d’acqua da dove in questi giorni sono transitati numerosi barchini partiti dalla Libia. La Aita Mari, nello specifico, ha svolto più di una missione: la prima nella giornata di domenica, in cui i membri della nave sono riusciti ad intercettare ed a far salire a bordo 80 migranti che si trovavano all’interno di un’imbarcazione in difficoltà.
La seconda invece, è avvenuta lunedì pomeriggio ed ha consentito di portare sul ponte della Aita Mari almeno 60 migranti. Considerando altri recuperi effettuati sempre nelle scorse ore, complessivamente sono 158 le persone che nella giornata di mercoledì approderanno nel porto della città siciliana. Qui la Prefettura di Messina ha già attivato la macchina dell'accoglienza, con i mezzi di soccorso e delle forze dell’ordine già mobilitati in attesa dell’arrivo dei migranti. Poche ore dopo l’ultimo salvataggio, la Salvamento Maritimo Humanitario aveva già iniziato a lanciare diverse richieste volte a trovare quanto prima un porto di approdo. In particolare, con un tweet delle ore 12:05 di questo martedì, dalla Aita Mari i membri dell’Ong spagnola hanno lanciato l’Sos relativa alla presenza a bordo dei 158 migranti in questione. L’organizzazione protagonista delle ultime missioni nel Mediterraneo centrale, così come scritto domenica su IlGiornale.it, è una sorta di vera e propria “new entry”: fondata nel 2015 nelle Province Basche, la Salvamento ha iniziato però ad operare nello specchio d’acqua antistante la Libia soltanto sul finire del 2019. Il primo approdo in Italia della Aita Mari risale al 26 novembre scorso, quando a Pozzallo dalla nave sono scesi 78 migranti. L’attivismo delle Ong negli ultimi giorni, costituisce ulteriore testimonianza di come la situazione sul fronte migratorio costituisca al momento una preoccupazione non di secondo piano. Il 2020 infatti è partito all’insegna dell’impennata di sbarchi, con mezzi provenienti soprattutto dalla Libia dove, a causa della guerra, l’attività delle forze di sicurezza locali appare ridimensionata. A partire dal 1 gennaio, complessivamente sono 1.771 le persone arrivate in Italia irregolarmente: nello stesso periodo del 2019, il dato era fermo a 215.
Salvini, su sbarco 400 migranti a Taranto: "denuncio Conte e Lamorgese". Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2020. “Ci troveremo in tribunale con il signor Conte e la signora Lamorgese. Così vediamo se la legge è uguale per tutti e il criminale è solo Salvini. Fatemi capire: se lo sbarco lo blocca Salvini, sono un criminale, se lo sbarco lo bloccano loro, fanno il loro lavoro…” ha proseguito l’ex-ministro dell’ Interno. Il governo giallorosso ha riaperto i porti ai migranti. E lo ha fatto guarda caso un minuto dopo il voto in Emilia Romagna e Calabria. Una conferma evidente con i porti spalancati alle ong a poche ore dalla tornata elettorale per le Regionali, c’era un certo timore di perdere consensi. A urne chiuse e con la vittoria del centrosinistra in Emilia Romagna, il Governo Conte a composizione “giallorossi” è stato aperto alla Ocean Viking il porto di Taranto dove sbarcheranno più di 400 migranti. E non finisce qui: infatti altri 200 migranti sarebbero già pronti per uno sbarco nei nostri porti dopo il pressing delle Ong sull’esecutivo. In una diretta Facebook il leader della Lega Matteo Salvini ha annunciato una denuncio per “sequestro di persona” nei confronti del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del ministro dell’Interno Lamorgese (nessuno dei due è deputato e quindi privi di immunità parlamentare). “A Taranto sbarcheranno 400 migranti a bordo di una nave delle Ong. Con i problemi di lavoro, inquinamento, agricoltura, l’unico modo che ha questo governo per ricordare la Puglia è far sbarcare migliaia di migranti. E ci hanno messo 4 giorni per concedere un porto sicuro, e allora denuncio per sequestro di persona il presidente del Consiglio Conte e il ministro dell’Interno Lamorgese. E’ sequestro di persona solo quando sono coinvolto io? “. ha detto il leader della Lega. “Ci troveremo in tribunale con il signor Conte e la signora Lamorgese. Così vediamo se la legge è uguale per tutti e il criminale è solo Salvini. Fatemi capire: se lo sbarco lo blocca Salvini, sono un criminale, se lo sbarco lo bloccano loro, fanno il loro lavoro…” ha proseguito l’ex-ministro dell’ Interno che rincara la dose: “Se sono criminale io, lo sono anche loro, se ho fatto il mio dovere io, lo hanno fatto anche loro. Con una piccola differenza che gli sbarchi sono quintuplicati“. ha osservato ancora Salvini. che ha annunciato la sua presenza a Taranto il prossimo 19 febbraio. Dall’ inizio anno sono stati 1.300 gli sbarchi . Il Viminale ha comunicato che sono quasi 1.300 i migranti sbarcati in Italia dall’inizio dell’anno. Fino a martedì mattina erano infatti arrivate 870 persone ma a queste vanno aggiunte le 407 a bordo della Ocean Viking, la nave di “Sos Mediterranee” e “Medici senza frontiere” in rotta verso Taranto dopo aver avuto l’autorizzazione allo sbarco. Nello stesso periodo dell’anno scorso erano state 155 le persone arrivate in Italia. Dai dati del ministero dell’Interno emerge inoltre che proviene dall’Algeria il maggior numero di coloro che sono arrivati nel nostro paese, 249 persone. Ci sono poi gli ivoriani (126 persone) e i bengalesi (91). I minori non accompagnati sbarcati sono 114, ma il dato e’ aggiornato al 27 gennaio.
Maurizio Belpietro per la Verità il 26 gennaio 2020. Ci sono 151 migranti sequestrati in mezzo al mare. Tranquilli, non è colpa di Salvini, che ormai non è più ministro dell' Interno da cinque mesi e di conseguenza non può chiudere i porti italiani agli extracomunitari. No, i cosiddetti profughi sono a bordo della Ocean viking, una delle navi delle Ong che battono il Mediterraneo alla ricerca di naufraghi, ma se non sbarcano è per volontà degli stessi soccorritori e di chi li spalleggia. L'altro ieri i volontari di Sos Méditerranée e di Medici senza frontiere hanno soccorso un centinaio di immigrati, ma invece di portarli al sicuro sulla terra ferma, come chiedevano con urgenza le Ong ai tempi del governo gialloblù, sono andati a recuperare altri disperati davanti alle coste libiche, per fare un carico completo. Infatti, dalla nave dell' organizzazione non governativa non è partito alcun appello per trovare in fretta un porto sicuro né, come in passato, si è puntata la prua verso le coste italiane a prescindere dalle disposizioni delle autorità preposte a vigilare sui salvataggi in mare. No, niente tweet dall'Ocean Viking, nessun messaggio postato dal Pd o da qualche politico sempre attento alle vicende dei profughi, nemmeno una nota su Avvenire. La nave dunque continua la sua missione nelle acque gelide del Mediterraneo, ma senza che nessuno si allarmi come in passato. Del resto non c' è notizia di epidemia a bordo, né segnalazioni di cattive condizioni marittime che rendano impossibile proseguire la navigazione e neppure un profugo che minacci di buttarsi in acqua perché impaziente di sbarcare. E dire che siamo in gennaio, ossia nel mese più freddo dell' anno. Nell' agosto scorso, quando su giornali e tv montò una cagnara per il ritardo nell' assegnazione di un porto sicuro per i profughi a bordo della Gregoretti, le temperature erano di certo meno rigide di quelle attuali e le condizioni del mare assai più tranquille. Eppure, per non aver fatto in fretta a far sbarcare i presunti naufraghi, Salvini oggi rischia una condanna a 15 anni di carcere. Secondo i giudici, non avendo ottemperato immediatamente alle richieste dei migranti e avendo atteso ben cinque giorni prima di farli approdare a Lampedusa, avrebbe commesso il reato di sequestro di persona plurimo. Ma se il ritardo dell' ex ministro è roba da codice penale, quello delle Ong è affare da premio Nobel, perché i soccorritori meritano di certo un encomio e non una punizione o una critica per non aver raggiunto il porto più vicino. Per di più c'è una ragione precisa e nobile se ci si è presi un po' di tempo prima di far arrivare in Italia altri 151 clandestini. Il motivo è che oggi si vota in Emilia Romagna e in Calabria, due regioni dove la sinistra rischia di perdere. Nonostante la propaganda a tappeto fatta nelle ultime settimane dai compagni e nonostante le mance elettorali distribuite a destra e a manca dal governo per convincere gli italiani a mettere la croce sui candidati della sinistra, sia il feudo rosso che le terre d' Aspromonte possono passare nelle mani di due governatrici di centrodestra. Per la sinistra si tratterebbe di una sconfitta storica, capace di tramortire perfino l' esecutivo, e dunque ai piani alti dev' essere partito l' ordine di ritardare tutto ciò che possa danneggiare Bonaccini e Callipo, ossia i candidati di Zingaretti & C. Rinviate le tasse, ritardata l' entrata in vigore dell' abolizione della prescrizione, lasciati a bagno maria pure i migranti. Almeno fino a domani, quando si conoscerà l' esito della consultazione, i profughi dovranno avere pazienza, poi si cercherà una sistemazione, nella speranza però che dalle elezioni Salvini sia uscito sconfitto, altrimenti per tutti - migranti compresi - saranno dolori. Ma se i 151 extracomunitari a bordo della Ocean viking sono ostaggio della situazione politica che si è venuta a creare dopo la nascita del governo giallorosso, a milioni di italiani è impedito di votare e dunque il diritto a scegliersi da chi farsi governare. A tutti è noto che l'attuale esecutivo non gode della simpatia della maggioranza dei connazionali. Secondo i sondaggi, se si andasse oggi alle urne per eleggere il nuovo Parlamento, la sinistra arriverebbe a poco più del 20 per cento e, sommando i 5 stelle che a Palazzo Chigi vanno a braccetto con i compagni, non si raggiungerebbe il 40 per cento. Al contrario, il centrodestra sfonderebbe il tetto del 50 per cento e sarebbe in grado di governare senza far ricorso a sotterfugi o a strane soluzioni come l' approvazione di leggi con annessa clausola per rimettere in discussione tutto. Sì, se oggi si votasse per decidere il governo, probabilmente ci sarebbero grosse novità. Purtroppo, quelle odierne, non sono elezioni nazionali e tuttavia una spintarella all' esecutivo giallorosso la si può dare. Mandare a casa i governatori della sinistra, battendo Zingaretti e i suoi a casa loro, sarebbe un messaggio che difficilmente lassù in alto potrebbero ignorare. C' è chi ha scritto che oggi si può citofonare a Giuseppe Conte, alludendo alla scampanellata di Salvini nei confronti di un presunto spacciatore in un quartiere di Bologna. Ma forse sarebbe più corretto dire che oggi gli elettori emiliano romagnoli, insieme con quelli calabresi, possono citofonare a Sergio Mattarella per chiedergli di sciogliere il Parlamento e ridare la parola agli italiani.
Il Viminale apre a Ocean Viking: adesso sbarcano tutte le ong. Assegnato il porto della cittadina siciliana per la nave Ocean Viking, dell'ong francese Sos Mediterranée. A bordo 39 migranti, di cui 19 minorenni. Mauro Indelicato, Martedì, 21/01/2020, su Il Giornale. Approderà nelle prossime ore a Pozzallo, nel ragusano, la nave Ocean Viking dell’Ong francese Sos Mediterranée. A comunicarlo è stato direttamente il Viminale, da cui è arrivato in tarda serata il definitivo via libera all’ingresso della nave nel nostro territorio. A bordo della Ocean Viking sono presenti al momento 39 migranti. Tra questi, secondo fonti della stessa organizzazione non governativa francese, ben 19 risultano minorenni. I migranti in questione sono stati recuperati nel Mediterraneo nel corso dell’ultima missione effettuata dalla Ocean Viking. Il luogo dell’intervento non dovrebbe essere molto lontano delle acque libiche. L’Ong, che opera con l’aiuto a bordo di Medici Senza Frontiere, ha captato un allarme rilanciato sui social da Alarm Phone intercettando poi il barcone in difficoltà in cui a bordo vi erano 39 persone. Fatte salire a bordo della Ocean Viking, la nave si è quindi diretta verso il nostro territorio entrando in acque italiane. Come detto, il porto assegnato dal ministero dell’interno è stato quello di Pozzallo. Si tratta dello scalo più attrezzato per questo tipo di emergenze nel sud della Sicilia. La cittadina ragusana più volte, sia di recente che negli anni passati, è stata scelta come sede in cui operare lo sbarco dei migranti intercettati da navi militari o da mezzi delle Ong. Lo sbarco della Ocean Viking è atteso nelle prossime ore. La nave è tra quelle più attive, con riferimento agli ultimi mesi, all’interno del panorama delle Ong. Lo stesso Viminale, in un comunicato diffuso nelle scorse ore, ha fatto sapere l’avvio delle operazioni di redistribuzione dei 20 migranti che possono raggiungere altri luoghi europei. Secondo quanto comunicato dal ministero dell’interno, sono stati in particolare tre i paesi che hanno accettato l’arrivo di migranti: Francia, Germania e Lussemburgo. La disponibilità, si è tenuto a sottolineare dal Viminale, è stata offerta sulla base dei principi espressi dal pre accordo di Malta (a differenza che in ambito mediatico, a livello ufficiale non si parla di accordo vero e proprio). In particolare, in questo documento si fa presente il principio di solidarietà tra i vari e paesi europei, così come un’immediata redistribuzione in Europa di coloro che sono destinati ad entrare in Europa. In realtà però, accordi del genere sono entrati in vigore anche in passato e nei periodi antecedenti l’attuale gestione del Viminale. Peraltro, come ricordato più volte, a Malta in realtà non si è mai giunti ad un vero e proprio accordo. La Ocean Viking dovrebbe arrivare a Pozzallo già nelle prossime ore. In questo momento si stanno predisponendo tutti gli atti propedeutici all’accoglienza dei migranti.
Migranti, lo strano caso della rotta Algeria-Sardegna. Sbarchi a raffica nei primi quindici giorni dell’anno, gli algerini i più numerosi ad arrivare in Italia. E lunedì apre a Macomer il primo centro regionale per i rimpatri. Alessandro Ziniti su La Repubblica il 17 gennaio 2020. È la sorpresa di questi primi quindici giorni dell'anno. La rotta migratoria Algeria-Sardegna ha ripreso vigore con sbarchi a raffica sulle coste del Sulcis. Barchini più o meno grandi che, dall'inizio dell'anno, hanno portato in Italia quasi 200 persone, circa un terzo di quelle complessivamente sbarcate in tutta Italia, poco più di 600. E infatti gli algerini sono balzati saldamente in testa tra le nazionalità dei migranti approdati nel 2020 davanti alla Costa d'Avorio. Negli ultimi due giorni sono arrivati in 91 e tra loro anche una donna, tutti rintracciati sulle coste sud-occidentali della Sardegna. Su questa rotta, abbastanza breve e certamente meno rischiosa di quella del Mediterraneo centrale, arrivano soltanto algerini. Il flusso è sempre stato costante negli ultimi anni ma adesso sembra in aumento a fronte di un deciso calo sia degli sbarchi autonomi a Lampedusa e sulle coste siciliane sia dei soccorsi con le navi umanitarie. Così come battuta resta anche la rotta orientale da Grecia e Turchia che nei primi giorni dell'anno, sui consueti velieri portati da scafisti ucraini, ha sbarcato in Italia un centinaio di cittadini iracheni e iraniani. E proprio lunedi nell'ex carcere di Macomer aprirà il primo centro per il rimpatrio dei migranti annunciato dal Viminale nei mesi scorsi per velocizzare il ritorno in patria dei non aventi diritto alla protezione. "Già da lunedì la struttura è operativa per ospitare una cinquantina di persone, ma appena verranno completati i lavori si arriverà a 100 posti disponibili - spiega la vicesindaca di Macomer Rossana Ledda -. Non sappiamo se già lunedì arriverà qualcuno o se ci vorrà ancora qualche giorno per vedere qui i primi migranti".
Protezione umanitaria, sono diventati quarantamila gli irregolari nel 2019. Damiano Aliprandi il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio. Rapporto “La sicurezza dell’esclusione”, realizzato da Action aid e Openpolis. Il nuovo funzionamento della macchina dell’accoglienza. «Snatura il senso e il ruolo del sistema trasformando i “Cas” in luoghi di desolazione». Esplosione dell’emergenza degli irregolari e difficoltà del nuovo schema di capitolato di gara per i centri di accoglienza, con bandi andati deserti e ricorsi presentati da alcuni candidati. È ciò che emerge dal rapporto “La sicurezza dell’esclusione – Centri d’Italia 2019”, realizzato da Action Aid e Openpolis che offre una prima valutazione dell’impatto delle politiche migratorie del primo governo Conte. Gran parte del lavoro di analisi, suddiviso in due parti, si sofferma sulle conseguenze che la legge sicurezza immigrazione sta producendo sul sistema d’accoglienza nel suo complesso, denunciando nel contempo quanto sia difficile raccogliere le informazioni necessarie per monitorare il sistema dell’accoglienza e le sue evoluzioni per un’assenza quasi totale di trasparenza. Indicazioni sul disfacimento complessivo di un sistema e delle tutele dei richiedenti asilo che già molti attivisti, enti del terzo settore e operatori coinvolti nel sistema d’accoglienza avevano ampiamente previsto e che i movimenti avevano cercato di contrastare con mobilitazioni territoriali e di carattere nazionale. Ma nonostante un ampio fermento sociale, la legge Salvini è ancora lì, e, a oggi, la sua abrogazione pare che non sia tra le priorità del governo 5stelle- PD. Secondo le stime del rapporto sono 40.000 le persone che si sono ritrovate irregolari nel 2019 a causa della soppressione della protezione umanitaria. E queste cifre sono inevitabilmente destinate ad aumentare nel 2020 poiché la legge ha generato una stretta anche nelle procedure e nei responsi delle Commissioni territoriali, sempre più restìe a concedere una forma di protezione. Del resto i rimpatri, che sembrerebbe un altro strumento di propaganda politica, sono stati nel 2018 circa 5.615. A questo ritmo si stima che per rimpatriare i 680mila cittadini stranieri irregolari servirebbero oltre 100 anni, senza contare il costo economico di una tale opinabile operazione. Il rapporto si sofferma ampiamente anche sulle conseguenze delle nuove regole delle gare di appalto per la gestione dei centri. Regole «volute per razionalizzare il sistema e tagliare i costi e i servizi di inclusione, si scontrano con la difficoltà, anche di natura politica, dei gestori di farvi fronte e delle prefetture di applicarle. Diversi i bandi deserti, quelli ripetuti o che non riescono a coprire il fabbisogno dei posti nei centri». Sempre secondo il rapporto è «un affare che attrae i gestori a carattere industriale, grandi soggetti privati anche esteri in grado di realizzare economie di scala, e allontana i piccoli con vocazione sociale e personale qualificato».
La seconda parte del rapporto, invece, approfondisce l’impatto del nuovo capitolato di gara ( collegato al decreto sicurezza) sul funzionamento della macchina dell’accoglienza. «Un provvedimento – si legge nel rapporto – che snatura il senso e il ruolo del sistema trasformando i Centri di accoglienza straordinaria ( Cas) in luoghi di desolata attesa e sospensione esistenziale piuttosto che di avvio all’integrazione».
Conte e Lamorgese a braghe calate: per Open Arms e Sea Watch spalancati porti e portoni a Messina e Taranto. Redazione martedì 14 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Ci risiamo. Le Ong scorrazzano per il Mediterraneo a caccia di migranti da soccorrere e abbordare e poi, timone a dritta verso il Belpaese, una o più imbarcazioni battenti le loro bandiere, arrivano in prossimità delle nostre coste. Si chiede cortesemente lo sbarco. E altrettanto gentilmente il Viminale risponde: spalancando porti e portoni. Come in quest’ultimo caso, quando, come recita una nota diffusa dal Viminale, «in seguito alle richieste avanzate, all’Open Arms e alla Sea Watch 3, sono stati assegnati, rispettivamente, i porti di Messina e Taranto». Ormai abbiamo perso il conto di quanti porti e portoni abbiamo spalancato negli ultimi anni. Di tutte le volte che il governo popolato da buonisti dem, devoti al rito dell’accoglienza coatta, ha ceduto a ogni richiesta di approdo. A qualunque dichiarato allarme strombazzato dalle Ong sulla piazza social e dall’alto di qualsivoglia pulpito mediatico. Certo, stavolta, in calce alla solita nota che mette in moto la macchina dell’accoglienza, il Viminale si affretta ad aggiungere che «Francia, Germania, Portogallo e Irlanda hanno già dato la loro disponibilità ad accogliere i richiedenti asilo a bordo». Ma sottolineare che «la disponibilità è stata offerta sulla base dell’apertura della procedura di ridistribuzione dei migranti a livello europeo avviata dalla Commissione Ue. Anche sulla scorta del pre-accordo di Malta», non resetta certo tutto il nutrito pregresso… Un pregresso fatto di accoglienza senza redistribuzione. E neppure risarcisce da tutti quei tanti “No”, sanciti e rivendicati con veemenza e fermezza da Malta e poi ricaduto sulle nostre spalle. Come nel caso della Alan Kurdi, sbarcata a Pozzallo il 29 dicembre scorso. O come nell’ultimissimo precedente: quello di appena 4 giorni fa quando Malta si è rifiutata di intervenire e la Sea Watch ha soccorso in «zona Sar maltese» un centinaio di migranti. Molti dei quali sbarcheranno a breve a Taranto…
· Gli affari dell’accoglienza.
Hotel e ostelli per stranieri positivi: nuovo step dell'accoglienza. Il bando di Ausl Centro Toscana si concluderà il prossimo venerdì: 10 euro più iva al giorno per ciascun extracomunitario accolto. Base di partenza 60 giorni, estendibili poi fino ad un anno di tempo. Federico Garau, Domenica 25/10/2020 su Il Giornale. Prima la proposta di trasformare hotel e alberghi in evidenti difficoltà economiche in veri e propri centri d'accoglienza, pronti a spalancare le porte a clandestini di varia provenienza, infine, in concomitanza col colpo di grazia inferto dalle misure anti Coronavirus, la possibilità concessa agli albergatori di mutare la destinazione d'uso delle proprie strutture in lazzaretto per cercare di far quadrare i conti. Il Partito democratico è sempre avanti in tal senso, specie nelle regioni in cui resta forte la sua ingerenza, come ad esempio la Toscana: il tentativo è quello di "sedurre" i proprietari di hotel, e nella fase successiva anche quelli di foresterie od ostelli, con facili guadagni, affinché concedano la disponibilità di accogliere stranieri in quarantena. Questo il tentativo avviato da Ausl Centro, come rivelato da "Libero". Tutto, tanto per cambiare, parte da Vicofaro, dove don Biancalani si trova ad avere a che fare con alcuni casi di positività tra gli extracomunitari accolti nella parrocchia. Dei 111 totali 15 i contagiati, che sono stati trasferiti e messi in quarantena all'interno di un hotel di Montecatini tra giovedì e venerdì scorsi. Dei rimanenti 96 sono in 76 ad aver accettato successivamente il trasferimento in un altro albergo della stessa località. Su Facebook don Biancalani ha mostrato le foto della sanificazione dei locali di Vicofaro, accompagnandole con un commento volutamente polemico: "Anticovid, antipregiudizio, antirazzismo, antifascismo". Eppure uno dei 20 restanti ospiti ha rifiutato di sottoporsi all'esame del tampone. Ovvio che una situazione del genere abbia comportato delle reazioni negative da parte dell'associazione degli albergatori, che vedono con preoccupazione la cattiva pubblicità derivante per le strutture coinvolte, specie in un momento così difficile. Ausl Centro chiuderà il bando il prossimo venerdì. E da allora ostelli e foresterie prenderanno il posto di hotel ed alberghi. Ma solo a determinate condizioni. Le nuove strutture, destinate a migranti positivi o in quarantena precauzionale, dovranno avere stanze in grado di accogliere una o più persone, una zona comune per i pasti ed il servizio di reception per gli ospiti. Da garantire, ovviamente, anche i servizi biancheria e pulizia di camere e bagni. Un bando, come si legge, limitato a ostelli e foresterie "in regola coi requisiti richiesti per l'esercizio di una struttura ricettivo-alberghiera", racconta ancora Libero. Requisiti che potranno mostrarsi rispettati anche con una semplice autocertificazione: base di partenza 60 giorni di accordo, estendibili per il massimo di un anno. Non solo le condizioni interne saranno valutate, ma anche i servizi "esterni" ed il contesto in cui ostelli e foresterie sono inseriti: "Le strutture saranno individuate tenendo conto delle esigenze e dei bisogni comunicati dal dipartimento di prevenzione dell'Ausl Toscana Centro. A parità di soddisfazione dei bisogni saranno preferite le strutture secondo questi criteri: localizzazione (distanza dalle zone residenziali, ad uso abitativo o a valenza turistica); caratteristiche delle camere in termini di comfort alberghiero, servizi aggiuntivi all'utenza". Solo il meglio per i migranti positivi e non. Il compenso? Al momento si parla di 10 euro + Iva al giorno per ciascuno straniero accolto. Duro il commento di Matteo Salvini: "Chiusure e limitazioni per gli italiani e poi il Pd cerca nuovi spazi (ostelli sanitari!) per accogliere gli immigrati clandestini".
Cancellato Salvini, altri 88 milioni per l'accoglienza. La cifra verrà destinata ai servizi per richiedenti asilo forniti da associazioni, coop e onlus. Antonella Aldrighetti, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. Depennati i decreti Sicurezza in fretta e furia il governo giallorosso (invero più rosso che giallo) auspica che l'accoglienza diffusa negli ex Sprar, ossia i servizi per i richiedenti asilo forniti da associazioni, cooperative e onlus nei comuni, venga incrementata. Già, e per favorire la prodigalità nei confronti degli stranieri mette a disposizione 88 milioni di euro da suddividere tra quelle municipalità con oltre 20 mila residenti che il prossimo dicembre 2020, avendo concluso la prima fase dei progetti per l'accoglienza diffusa, non solo potranno rinnovarli con ulteriori risorse a disposizione ma potranno scegliere anche di incrementare il numero di immigrati richiedenti asilo accedendo a questo nuovo surplus. Ma è soltanto il primo passo cui i cittadini dei piccoli comuni dovranno sottostare perché il programma si ripeterà anche per i progetti in scadenza a fine 2021 e 2022. E il perché è presto detto: si sta ricominciando a propinare la solita solfa degli immigrati che ingrassano il Pil finanche del 9 per cento al contempo però, ci si dispera perché nell'ultimo biennio (anche grazie all'anno in cui Matteo Salvini ha guidato il Viminale) sono arrivati in Italia meno stranieri e parecchi con i documenti in regola sono emigrati altrove. Vale a dire che da qui a breve ripartiranno le campagne pubblicitarie per incrementare l'accoglienza e si riapriranno gli accessi alla protezione speciale (leggasi umanitaria) per favorire la mera invasione. Con ulteriore dispendio di denari. Al momento i conteggi rivelano i primi incrementi: lo Sprar/ex Siproimi è costato allo stato italiano intorno a 500 milioni annui, con lo stralcio dei Dl Salvini, a meno di una settimana si è passati subito a 588. E da qui a fine anno ci passa ancora tempo.
Migranti, a Fuori dal coro il business dei clandestini falsi minorenni: "Con loro i centri di accoglienza guadagnano di più". Libero Quotidiano il 08 settembre 2020. Il business dei migranti minorenni. In Friuli Venezia Giulia è di nuovo allarme clandestini, con la rotta balcanica che porta in Italia centinaia di persone. Mario Giordano a Fuori dal coro accende i fari sulla stortura della Legge Zampa voluta dal Pd, che prevede l'impossibilità del respingimento dei minori e vieta accertamenti "invasivi" sanitari per accertare la reale età dell'individuo. "Agli immigrati dunque conviene dichiararsi minorenni, anche se non lo sono - sottolinea il servizio di Fuori dal coro -. E ai centri di accoglienza conviene ospitare i minorenni, anche falsi, perché rende di più: per ogni adulto si incassano dai 25 ai 30 euro al giorno, per ogni immigrato minorenne dagli 80 ai 140 euro". Tutto chiaro?
Ecco il porto franco delle ong: da qui parte l'assalto all'Italia. La base operativa delle principali Ong è a Burriana. Un permesso speciale permette loro di non pagare le commissioni. Da qui organizzano le missioni per portare i migranti in Italia. Martina Piumatti, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Svernano tutte a Burriana. Le quattro navi umanitarie Alan Kurdi, Open Arms, Sea Wacht 4 e Louise Michel hanno scelto come base operativa la cittadina a 60 chilometri di Valencia, ormai diventata il porto delle ong. Favorite dal permesso speciale concesso da Mónica Oltra, vicepresidente della Generalitat Valenciana, possono attraccare senza pagare le commissioni. Ma non senza problemi e lamentele da parte dei portuali, come riportato dal sito Castellón Information: "Non rispettano i protocolli di sicurezza, attracco e consumo. I membri degli equipaggi non indossano le mascherine, non mantengono le distanze di sicurezza, accumulano immondizia sul molo e consumano acqua ed elettricità". Di solito sono ormeggiate al molo di Nord Est, vicine al bacino di carenaggio della Varaderos Y Talleres del Mediterraneo, occupando una posizione strategica per le operazioni di manutenzione. Tutto gratis. E non sborserebbero un euro nemmeno per il consumo di acqua e luce. Secondo fonti dell'ambiente portuale, sentite dal sito di informazione spagnolo, sono legalmente collegati a un punto di raccolta dell'acqua, per il quale dovrebbero pagare la spesa e il più delle volte si agganciano anche alla luce del porto senza pagare. Non solo. Dato che il consumo di elettricità aumenta quando si effettuano lavori di riparazione di macchinari elettrici, spesso hanno causato interruzioni della fornitura di energia elettrica in tutto il resto del porto. Un altro problema, denunciato anche dagli utenti del porto, è il degrado in cui versa il molo dove sacchi di immondizia si alternano a barbecue, attrezzi, scarti di legno, taniche di vernice e solventi infiammabili. Con problemi di sicurezza non indifferenti data la presenza di macchinari in grado di farli deflagrare. Non mancano anche tavoli e sedie accumulati alla rinfusa e usati all'occorrenza nel tempo libero. Ma la permanenza delle navi delle ong nel porto di Burriana potrebbe causare anche altri problemi di sicurezza. Essendo barche di grandi dimensioni necessitano di competenze professionali specifiche per le manovre. Non sempre però, durante lo svernamento, hanno il loro equipaggio professionale fisso a bordo che spesso viene sosotituito da personale volontario privo di formazione. Con il rischio che in caso di incendio o forte tempesta non ci sarebbe nessuno in grado di spostarle o fissarle agli ormeggi.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 31 agosto 2020. Il livello è tale che ci sarebbe da coinvolgere Maurizio Crozza: «Fatti una Ong tutta tua». In effetti in questo 2020 la moda è cambiata: negli anni passati era imprescindibile la passeggiatina sul ponte delle imbarcazioni «umanitarie». Politici, giornalisti, stelle e stelline del cinema e dello sport facevano a gara nel salire sulle barche degli attivisti per la photo opportunity in mezzo ai migranti (ricordiamo persino Richard Gere, tra i tanti). Adesso, invece, lo scatto sorridente e terzomondista non basta: i più chic sono quelli che si fanno la nave e vanno a soccorrere i migranti in proprio. Banksy, l'artista «senza volto» britannico con un patrimonio di circa 50 milioni di sterline, ha comprato uno yacht, lo ha dipinto di rosa e l'ha battezzato Louise Michel, come la rivoluzionaria della Comune di Parigi. Solo che di rivoluzionario, in questo caso, il writer amato dai Vip non ha fatto proprio nulla. Al contrario, si è allineato al pensiero dominante, e ha spedito l'ennesimo gruppo di attivisti in mezzo al mare a raccattare gente, per altro mettendola in pericolo. Come noto, la nave di Banksy ha caricato 229 stranieri: troppi per le sue dimensioni. Così è dovuta intervenire la Guardia costiera italiana ad alleggerire il carico. Chiaro: il ricco artista paga, si fa pubblicità e si lava la coscienza. E a noi, al solito, tocca farci carico del lavoro duro, cioè dell'accoglienza. Ovviamente, però, tra gli snob dal cuore puro l'anonimo inglese ha subito fatto tendenza. Oliviero Toscani, per esempio, è molto invidioso: «La nave di Banksy? Mi piacerebbe avere abbastanza soldi per finanziarne una anche io, utilizzare una di queste navi qui della Costa Crociere e andare a prenderli», ha detto il fotografo. «Il nostro futuro sarà fatto dall'immigrazione, la nostra fortuna è questa, è la grande opportunità. L'artista deve essere il primo a capirlo». Beh, in realtà è più facile che - se si va avanti di questo passo - il futuro degli italiani sia l'emigrazione. Ma a Toscani e soci non importa nulla, tanto loro sono «cittadini del mondo». A dirla tutta, i primi a lanciare la moda della Ong privata sono stati proprio i nostri compatrioti. Politici e fiancheggiatori di Sinistra italiana hanno creato ormai da tempo Mediterranea saving humans, la prima organizzazione non governativa che in realtà è governativa, poiché sostenuta da un partito che appoggia l'attuale esecutivo. Poi è venuta Resq-People saving people, un'altra Ong fondata di recente da Gherardo Colombo e appoggiata da volti noti della sinistra come Gad Lerner, Cecilia Strada, Armando Spataro. A fornire fondi ci ha pensato pure la Open society foundations dell'immancabile George Soros. Chissà, magari Oliviero Toscani potrebbe chiedere al magnate ungherese un piccolo finanziamento, così da potersi mettere in proprio e non sfigurare tra gli amici chic. L'aspetto odioso della faccenda sta nel fatto che tutti questi illuminati benefattori trascurano un piccolo particolare: le condizioni dei cittadini italiani. Si comportano come se la nostra nazione fosse cinta da muri possenti, e non invece esposta a sbarchi quotidiani. Soltanto nella notte tra sabato e domenica a Lampedusa sono arrivati in 450. Giustamente, un folto gruppo di cittadini lampedusani si è presentato di fronte al Comune per chiedere che l'hotspot locale - al collasso ormai da settimane - venga chiuso, e che gli sbarchi siano fermati. Il sindaco Totò Martello sta addirittura pensando di allestire uno sciopero generale. Nel frattempo altri migranti sono arrivati in Calabria (dove un barcone ha preso fuoco in prossimità della costa) e in Sardegna (dove nel centro di accoglienza di Monastir un gruppo di aspiranti profughi ha imbastito una simpatica rivolta). Questa marea incontrollata di arrivi - quasi 18.000 dall'inizio dell'anno - sta provocando disagi ovunque, e costituisce un serio rischio per gli italiani sotto il profilo sanitario. Però a nessuno sembra importare. Anzi, un milionario britannico con la passione dei graffiti si permette di pagare una nave per portarci altra gente, fregandosene della nostra sovranità e dei nostri diritti. Altri intellettuali (veri o presunti) si comportano allo stesso modo, tanto loro con le storture dell'immigrazione di massa mica sono costretti a confrontarsi ogni giorno. Il governo giallorosso tace, Luciana Lamorgese sostiene addirittura che non ci sia alcuna emergenza. E se qualche politico o amministratore locale prova a ribellarsi, viene castigato persino dai tribunali, come accaduto a Nello Musumeci, governatore della Sicilia, la cui ordinanza anti invasione è stata bocciata dal Tar. Grazie a una sentenza del Tribunale di Roma del 2019, invece, cinque eritrei che erano stati riportati in Libia dalla Guardia costiera nel 2009 sono stati fatti rientrare in Italia. Avvenire ieri ha sparato la notizia in prima pagina con grande soddisfazione: «Reato respingere», ha titolato. Ovvio: l'Italia è nel caos e il giornale dei vescovi festeggia se anche i pochi respinti sono riammessi per sentenza. Non che stupisca: da qualche settimana i prelati - in Sicilia come a Genova - hanno ripreso a fare campagna a favore dei confini spalancati. La faccenda è suggestiva: durante la pandemia, la Chiesa ha sempre tifato per la chiusura, ha accettato perfino il blocco delle messe, tutto per garantire la tutela della salute. Ora che ci sono di mezzo i migranti, però, la chiusura non è più opportuna: le frontiere devono rimanere aperte, e la libertà di circolazione - negata ai fedeli nei mesi scorsi - va garantita ai migranti. Di nuovo: non sorprende. Fa solo un po' di tristezza vedere i vescovi italiani sostenere la stessa ideologia plastificata dei Banksy e dei Toscani.
La nave finanziata dallo street artist. Nel Mediterraneo la nave di Banksy per il soccorso dei migranti: già salvate 89 persone. Redazione su Il Riformista il 28 Agosto 2020. Banksy, lo street artist inglese la cui vera identità rimane ancora sconosciuta, ha finanziato una nuova nave per soccorrere i migranti nel Mediterraneo, già nell’area ‘calda’ tra Libia e Italia e che ha già salvato 89 persone. La nave prende il nome da Louise Michel, anarchico francese del XIX secolo, ed è decorata con i ‘graffiti’ dello street artist britannico. La nave acquistata nella massima segretezza è partita il 18 agosto dal porto spagnolo di Borriana, vicino Valencia, e secondo il quotidiano britannico Guardian “sta cercando un porto marittimo sicuro per sbarcare i passeggeri o trasferirli su una nave della Guardia Costiera europea”. A bordo dell’imbarcazione, dipinta in bianco e rosa e con graffiti che raffigurano una ragazza che brandisce una boa a forma di cuore mentre indossa un giubbotto di salvataggio, c’è un equipaggio composto da 10 persone, tutti attivisti europei con alle spalle una lunga esperienza nel recupero e salvataggio in mare. A capitanare la Louise Michel è invece Pia Klemp, attivista tedesca per i diritti umani nota per aver guidato diverse altre navi di soccorso, tra cui la Sea Watch 3. Come racconta il Guardian, la scelta di Banksy di finanziare l’imbarcazione è nata nel settembre 2019, quando l’artista inviò una mail a Pia Klemp. “Ciao Pia, ho letto la tua storia sui giornali. Sono un artista del Regno Unito e ho fatto alcune opere ispirate alla crisi dei migranti. Ovviamente non posso tenere per me i soldi. Potresti usarli tu per comprare una barca o qualcosa del genere? Fammi sapere per favore, buon lavoro, Banksy”, è stato il messaggio, molto diretto, dell’artista. Tutto è cominciato nel settembre 2019, racconta il Guardian di Londra, quando Banksy ha inviato una email a Pia Klemp, ex capitana di varie barche di ong che hanno salvato migliaia di migranti negli ultimi anni. “Ciao Pia, ho letto la tua storia sui giornali”, le ha scritto. “Sono un artista del Regno Unito e ho fatto alcune opere ispirate alla crisi dei migranti. Ovviamente non posso tenere per me i soldi. Potresti usarli tu per comprare una barca o qualcosa del genere? Fammi sapere per favore, buon lavoro, Banksy”. Inizialmente l’attivista tedesca pensava fosse uno scherzo, salvo poi capire che l’offerta fosse reale. La stessa Klemp ha potuto quindi utilizzare la cifra donata da Banksy, non rivelata, per acquistare l’imbarcazione di 31 metri in passato di proprietà delle autorità doganali francesi.
Carola Rackete vestita da pinguino su un albero, arrestata: la tragica fine di lady Sea Watch. Libero Quotidiano il 12 novembre 2020. Carola Rackete arrestata. Questa volta nulla ha a che fare con la sua battaglia in difesa dell'immigrazione. L'ex capitana della Sea Watch infatti ha da tempo abbracciato un'altra causa: quella degli alberi. La Rackete è accampata insieme ad un gruppo di compagni nella foresta di querce centenarie di Dannenröder (Germania centrale) affinché le piante non vengano rimosse per fare posto al progetto dell'autostrada numero 49. "Qui la società civile ora dice basta - denunciava in un video rilanciato sui social -. In Germania ci sono centinaia di progetti di costruzione di strade. È insensato nel contesto di crisi climatica". Una guerra, quella dell'attivista, durata ben poco. Secondo quanto riportato dalla stampa tedesca, dopo aver occupato una piattaforma area per la potatura degli alberi vestita da pinguino, Carola sarebbe stata scortata via dalla polizia. Come riferisce il Fuldaer Zeitung, le forze dell'ordine avrebbero arrestato i manifestanti che hanno fatto uso di fuochi d'artificio e fumogeni per allontanare gli agenti dalla foresta vicino a Homberg-Ohm, nel quartiere di Vogelsberg.
La "capitana" dell'Ong già indagata che torna a sfidare l’Italia in mare. Pia Klemp guida la Luoise Michel, nave finanziata dall'artista Banksy. Il suo passato con Iuventa, Sea Watch 3 e l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 31/08/2020 su Il Giornale. Il nome della nave è quello di un’anarchica femminista, Louise Michel. Il dipinto sul ponte porta la firma di Bansky, che la rende in pratica un’opera d’arte galleggiante. Il capitano, o la capitana vedete voi, si chiama invece Pia Klemp, meno famosa di Carola Rackete eppure non del tutto sconosciuta all’Italia. Già alla guida delle navi Iuventa e Sea Watch 3, la storia di Pia merita un po’ di attenzione a fronte del rinnovato attivismo delle Ong nel Mediterraneo. Già, perché mentre la Guarda Costiera italiana va in aiuto dalla Louise Michel e carica 49 migranti dei 219 a bordo, lei è sotto inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rischia “fino a 20 anni di reclusione”. La magistratura italiana indaga, lei torna in mare, il governo le tende una mano. Se non si può definire una situazione assurda, almeno un po' strana lo è. La storia tra le onde di Pia Klemp inizia con l’organizzazione Sea Sheperd che lotta contro “le attività illegali in alto mare”. Dopo anni di attività a bordo ottiene il brevetto da capitano. Biologa, 36 anni, è nata a Bonn ma quando non prende il largo vaga tra la sua città natale, Berlino, Amburgo e Bruxelles. Nel 2017 si imbarca nelle prime missioni umanitarie nel Mediterraneo: guida la nave Iuventa di Jugend Rettet; poi diventa la responsabile di una delle prime quattro missioni di Sea Watch 3, la stessa nave che comandava Carola Rackete quando scoppiò la polemica dello speronamento, l’arresto e tutto il resto. È proprio a causa della sua partecipazione alle attività della Iuventa che Pia finisce sotto la lente della procura di Trapani insieme ad altri nove membri dell’equipaggio e al personale di Medici Senza Frontiere e Save The Children. Era il 2 agosto del 2017 quando la Iuventa venne sequestrata al porto di Lampedusa insieme a telefoni cellulari, computer di bordo e altri dispositivi elettronici. L’indagine provocò un terremoto politico in Italia, primo atto di una serie di operazioni delle procure siciliane contro le navi Ong. L’accusa che ancora pende sul capo della capitana è quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: secondo i pm ci sarebbero stati contatti tra i membri dell’equipaggio e i trafficanti di esseri umani. I magistrati, che focalizzano l'attenzione su tre operazioni di salvataggio separate avvenute nel 2016 e nel 2017, ipotizzano inoltre che agli scafisti venissero anche riconsegnate le imbarcazioni per riutilizzarle in nuovi traffici di carne umana. Le organizzazioni invece negano tutto e giurano di aver svolto le operazioni nel rispetto della legge e del diritto internazionale. Tre anni dopo il procedimento è ancora appeso a un filo, come nel più classico dei casi giudiziari italiani. Ma nel frattempo Pia Klemp non si è fermata. Prima la Sea Watch 3, ora la Louise Michel. "Non vedo il salvataggio in mare come un'azione umanitaria, ma come parte di una lotta antifascista", ha detto Pia al Guardian. Per l’Italia il risultato è in sostanza lo stesso: centinaia di profughi raccolti di fronte alla Libia e portati se possibile sulle coste del Belpaese. Lunga 31 metri, già di proprietà dell'autorità doganale francese, la Louise è più veloce delle altre navi Ong ma meno capiente. L'obiettivo è quello di arrivare prima della Guardia costiera libica, finanziata e sostenuta anche dall'Italia, per impedirgli di riportare a Tripoli gli immigrati. Venerdì scorso i 10 attivisti dell'equipaggio avevano già a bordo 89 persone quando hanno assistito altri 130 profughi. Troppi, per quel ponte piccolo e stretto. Così la nave ha iniziato a lanciare appelli alle autorità maltesi e italiane, che alla fine hanno inviato una motovedetta per imbarcare 32 donne e 13 bambini. Gli altri verranno caricati dalle altre Ong attive in loco, la Sea Watch 4 e la Mare Jonio di Mediterranea. Insomma: neppure 15 giorni in mare e l'opera di Bansky già fa parlare di sé. La Louise è partita il 18 agosto dal porto di Burriana, in Spagna, non lontano da Valencia. Ma i lavori erano iniziati molto prima in gran segreto. La collaborazione tra Pia e Bansky è nata con una e-mail improvvisa. "Ciao Pia, ho letto della tua storia sui giornali - le scrive un giorno l'artista - Sembri una tosta. Sono un artista del Regno Unito e ho realizzato dei lavori sulla crisi dei migranti, ovviamente non posso tenere i soldi. Potresti usarli per acquistare una nuova barca o qualcosa del genere? Per favore fammi sapere. Ben fatto. Banksy". La Klemp pensa ad uno scherzo, poi deve ricredersi. I soldi arrivano, la nave anche. E così la "capitana" torna a solcare le onde e a "sfidare" l'Italia. Nonostante l'indagine a suo carico.
Da corriere.it il 29 agosto 2020. La Guardia costiera italiana è intervenuta per prestare assistenza alla Louise Michel, la nave battente bandiera tedesca finanziata da Banksy, che ha soccorso nelle ultime ore 130 migranti. Vista la pericolosità della situazione, la Guardia costiera ha inviato sul posto una motovedetta classe 300 di Lampedusa che ha imbarcato le 49 persone ritenute più vulnerabili, ovvero 32 donne, 13 bambini e 4 uomini a completamento dei nuclei familiari. Anche il cadavere dovrebbe essere portato sulla terraferma.
La nave di Banksy soccorre barcone alla deriva. La nave Louise Michel, finanziata dall’artista britannico Banksy, aveva soccorso stanotte un barcone alla deriva con 130 persone a bordo nel Mediterraneo. I membri dell'equipaggio avevano distribuito giubbotti di salvataggio ai migranti e avevano segnalato su Twitter che a bordo c'era una persona morta. La nave - che prende il nome da un’anarchica femminista francese del XIX secolo, Louise Michel, ed è decorata con i graffiti dell’artista britannico - è partita il 18 agosto dal porto spagnolo di Borriana, vicino a Valencia e prima dell’ultimo soccorso aveva già recuperato 89 persone nel Mediterraneo centrale, tra cui 14 donne e due bambini.
Gli appelli via Twitter. Prima dell'intervento della guardia costiere italiana, l'imbarcazione di Banksy ospitava 219 migranti e 10 membri dell’equipaggio e aveva lanciato un appello alla guardia costiera italiana e alle forze armate maltesi per un pronto intervento. La nave non è stata più in grado di andare avanti a causa del sovraffollamento. La Louise Michel aveva lanciato anche altri SOS via Twitter per denunciare la situazione insostenibile a bordo: « L’equipaggio è riuscito a mantenere stabile la Louise Michel per quasi 12 ore. I nostri nuovi amici ci hanno detto che hanno già perso 3 di loro nel loro viaggio. Con il cadavere nella nostra unica zattera di salvataggio, sono 4 le vite perse a causa di Fortress Europe... e stiamo ancora aspettando».
Sea Watch cambia rotta e prende di mira l’Unione Europea. La prima a muoversi in soccorso della nave di Bansky è stata la Sea Watch 4 che con un tweet ha preso di mira il silenzio dell’Unione Europea: « Poiché la Louise Michel non è in grado di manovrare mentre è alle prese con un altro disperato salvataggio, la Sea Watch 4 - (che si trova) ancora ad oltre 4 ore di distanza - ha cambiato rotta per assisterla. Il motivo? Perché le autorità europee negano l’assistenza ancora una volta.
Davide Bartoccini per il Giornale l'1 settembre 2020. Sono passate 96 ore da quando la "Luoise Micheal", motonave finanziata e dipinta di rosa shocking da Banksy, ha iniziato a fare notizia. E ha già "salvato" 400 migranti dalle onde del Mediterraneo, incrociando, per andare a colpo sicuro, sulle rotte calde battute dagli scafisti. L'imbarcazione è molto carina. È bello il nome, preso da una femminista anarchica e massona francese; è bello lo stencil che ricorda un murales e che si nota in prospettiva della murata - una bambina in classico stile Banksy che tende un salvagente a forma di cuore -; ed è bello che un'artista visionario e milionario come lui, fornisca un contributo concreto con una risonanza mediatica indubbia, ad una causa nella quale crede. Una causa, quella del salvare vite in mare, che nessuno ha mai messo in dubbio per nobiltà, legittimità e giustizia: questo finché le leggi del mare non sono state trasgredite per infrangere, a seguire, anche quelle in vigore sulla terraferma. È bello che tutte le anime belle abbiano potuto postare da tutte le parti le foto del natante colorato per riaccendere il dibattito politico sul problema sistemico dei flussi migratori - togliendo un po' di spazio alla comunque non tralasciabile prostatite di Briatore, che sommata al Covid-19 e alla "bella vita" della Costa Smeralda, ha comunque dato da parlare. È bello ogni tanto andare d'accordo. Solo su un punto però c'è da riflettere e andare controcorrente con tutti quelli che stanno osannando la brillante trovata che ha già incoronato una nuova capitana, la signorina Pia Klemp, nerboruta e teutonica femminista che posa come fosse il corsaro Barbanera di fronte al timone del suo vascello spiegando al mondo come il "salvataggio dei migranti" sia realtà "una lotta antifascista. Cosa che già di per sé rende tutto un po' meno bello, perché vede questi uomini devastati da prigionia e traversata trasformati in "crociati a loro insaputa". Dicevo, solo su un punto ci si trova in disaccordo, con Banksy. Poiché sarebbe fantastico se lui, attivista appassionato, si fosse concentrato, oltre a donare i suoi soldi e abbellire la coperta della Luoise Michel, su un altro ennesimo sforzo. Anche estremamente patriottico o democratico, se volessimo osare. Quello di salvare vite e distribuirle "democraticamente". Perché Banksy è cittadino britannico fino a prova contraria. Dunque sarebbe stato altrettanto commovente se questa motovedetta per l'individuazione di natanti alla deriva si fosse impegnata a traghettare i migranti verso i porti posti sotto la giurisdizione del Regno Unito, o di un qualsiasi territorio britannico d’oltremare, o di un qualsiasi stato membro del Commonwealth. Invece di abbandonarli sempre da noi in Italia come hanno sempre fanno tutti. Paese, il nostro, dove non vorrebbero nemmeno restare a vivere. Perché è un Paese povero e privo di opportunità, come sottolineano molti attivisti. Gibilterra, ad esempio, sarebbe perfetta. Ma anche la Francia, patria della femminista anarchica Louise Michel, non sarebbe male. Risparmierebbe quanto meno le manganellate che i malcapitati si prendono al confine tra Ventimiglia e Mentone quando decidono di "fuggire dal nostro paese".
Quegli ultrà dell'immigrazione che calpestano le leggi italiane. Dietro la maschera del buonismo, le ong nascondono la natura antifascista della propria crociata che mira a "cambiamenti politici radicali". Anche ribaltando le leggi nazionali. Andrea Indini, Lunedì 31/08/2020 su Il Giornale. Pia Klemp, la capitana della "Louise Michel", la nave dello street artist Banksy che ha lanciato un sos dopo aver preso a bordo 219 clandestini, ha subito gettato la maschera. "Il salvataggio in mare non è azione umanitaria - ha ammesso al Guardian - ma parte della lotta antifascista". A differenza di tanti suoi predecessori, anche loro ultrà dell'immigrazione senza controlli, ha avuto l'onestà intellettuale di dire le cose come stanno. E cioè che i disperati, che ogni giorno tentano la sorte salpando dalle coste libiche, non sono vite in pericolo da salvare dalle onde del Mar Mediterraneo o da strappare dalle grinfie di trafficanti senza scrupoli, ma uno strumento per raggiungere la propria battaglia ideologica contro la difesa dei confini. Anche a costo di calplestare le leggi del nostro Paese.
La "nuova" ultrà dei clandestini. La Klemp non è nuova a queste scorribande nel Mediterraneo centrale. Attivista per i diritti umani, è balzata agli onori delle cronache nazionali dopo essere finita in un'inchiesta per "favoreggiamento dell'immigrazione illegale". Una accusa, quella avanzata dalla magistratura italiana, che non deve aver fatto né caldo né freddo alla tedesca. Tanto che, non appena si è presentata l'occasione, eccola alla guida di un'altra nave in cerca di immigrati da portare in Europa. A questo giro si è messa al timone di una ex imbarcazione doganale francese lunga 31 metri, notevolmente più veloce delle solite navi delle organizzazioni non governative che operano nella zona. Un particolare non da poco quest'ultimo, che le permette di sfrecciare sulle onde e battere sul tempo la Guardia costiera libica. Al suo fianco, per portare avanti quella che per lei è in primis una "lotta antifascista", ci sono i dieci membri dell'equipaggio della "Louise Michel" che al Guardian hanno tenuto a definirsi tutti quanti "attivisti antirazzisti e antifascisti a favore di cambiamenti politici radicali". Altro che buonismo spicciolo, l'impianto ideologico di questi corsari terzomondisti mira a minare le fondamenta della società occidentale per indebolire i partiti di destra e piegare la legge al proprio volere. E, quando non ci riescono, la calpestano senza farsi troppi problemi.
I capitani che sfidano l'Italia. La Klemp non è certo la prima a voler sfidare la legge per portare avanti "cambiamenti politici radicali". In Italia abbiamo già avuto a che fare con un'altra "capitana" pronta a tutto, anche a speronare una motovedetta, pur di entrare a forza in un porto senza alcuna autorizzazione. È il caso di Carola Rackete che, la notte tra il 28 e il 29 giugno dell'anno scorso, compì una monovra pirata per forzare il blocco della Guardia di finanza (guarda il video) che le è costato un avviso di garanzia. Lo scorso 12 febbraio la procura di Agrigento ha chiesto una proroga di altri sei mesi delle indagini iniziate l'indomani dello speronamento della motovedetta. "Non ho sbagliato ad entrare nelle acque territoriali italiane", ha detto in più di un'occasione. "Rifarei tutto quello che ho fatto, perché era il mio dovere". Nessun pentimento, dunque. Eppure sembra destinata a farla franca. Infatti, in modo ufficioso, dalla procura hanno lasciato intendere più volte che, finito il supplemento di indagini, si dovrebbe andare verso la richiesta di archiviazione. Lo stesso destino a cui sono andati incontro Luca Casarini e il capitano della Mare Jonio, Pietro Marrone. "Non siamo noi che violiamo i diritti ma chi ha fatto gli accordi con la Libia, chi riporta i migranti in Libia, chi ha permesso che la Libia avesse una zona Sar (search and rescue, ndr) pur non essendo riconosciuta come un porto sicuro", aveva spiegato a suo tempo la portavoce Alessandra Sciurba confermando la natura ideologica dell'ong dei centri sociali. Prima della Rackete a sfidare le autorità italiane ci ha pensato un altro capitano della Sea Watch 3, Arturo Centore. Poi c'è il caso del capomissione del veliero "Alex" dell'ong Mediterranea, Erasmo Palazzotto, interrogato nel luglio dell'anno scorso ad Agrigento. "Dell'indagine non si è saputo più nulla - ci fa sapere una fonte - il fascicolo, però, dovrebbe essere formalmente ancora aperto".
L'obiettivo politico delle ong. La lista dei capitani che calpestano le nostre leggi è davvero lunga ma le indagini della procura di Agrigento sono sempre andate verso un punto morto. Non solo nessuno di loro è mai stato condannato, ma nemmeno rinviato a giudizio. Fa eccezione solo l'ex comandante della Open Arms, Marc Reig Creus, per il quale è stato chiesto, nel luglio del 2019, il rinvio a giudizio dopo che è spuntato un video in cui prometteva apertamente ai migranti che li avrebbe portati in Italia (guarda il video). Alla fine, però, questo è l'obiettivo della maggior parte delle ong attive nel Mar Mediterraneo: dietro la maschera del buonismo, gli ultrà degli sbarchi nascondono la natura "antifascista" della propria crociata che mira appunto a "cambiamenti politici radicali". Anche ribaltando le leggi nazionali. Per questo diventa pericoloso l'assist che Pd e Cinque Stelle si preparano a offrir loro smantellando i decreti Sicurezza voluti da Matteo Salvini quando sedeva al Viminale. Una presa di posizione ideologica che ha di fatto moltiplicato le partenze dalle coste del Nord Africa. L'unica soluzione ai continui arrivi avanzata dall'esecutivo è di distribuire i calndestini qua e là in tutto il Paese. "Ma così - ha sottolineato il leader della Lega - il problema non si risolve. Noi al governo abbiamo dimostrato come si fa: si arrestano gli scafisti e si chiudono i porti". Una linea che non piace ai giallorossi e tantomeno ai capitani che vogliono scaricare sulle nostre coste altri clandestini.
Banksy, i misteri dello street artist più famoso e anonimo del mondo. Pubblicato sabato, 29 agosto 2020 da Enrico Franceschini su La Repubblica.it. Ha finanziato e istoriato la motovedetta che ha soccorso più di duecenti migranti in mare. Da anni si discute sulla sua identità. Ecco le ipotesi su chi si nasconda dietro la sua firma. È uno degli artisti più famosi del mondo, in non piccola misura grazie al fatto che vuole restare anonimo. È anche uno degli artisti più ricchi del mondo, sebbene le sue opere appaiano su muri pubblici e lui non faccia nulla per venderle (ci pensa qualcun altro, però). Ed è uno dei più politicizzati: un ribelle che dice di lottare contro il sistema, in ogni sua manifestazione, anche se inevitabilmente lui stesso finisce per farne parte. Ma le contraddizioni sono il motivo del successo di Banksy, nome d’arte dello “street artist” inglese protagonista della sfida di queste ore nel Mediterraneo, intrapresa da una nave finanziata con i suoi soldi per soccorrere migranti in difficoltà. E poi costretta, contraddizione anche questa, a lanciare a sua volta un Sos perché ne ha salvati troppi e rischia di affondare. Su chi sia Banksy si discute da anni: si suppone da vari indizi che sia nato a Bristol, la città portuale nell’ovest dell’Inghilterra, qualcuno dice di sapere anche il suo anno di nascita, il 1947. Un’inchiesta del 2008 del Mail on Sunday afferma di averlo identificato: il suo vero nome sarebbe Robin Gunningham, ex-studente della Bristol Cathedral Choir School, una tesi confermata pure da uno studio della Queen Mary University. Altri ritengono che sia in realtà il musicista e graffitista Robert Del Naja della rock band Massive Attack. Ma circolano anche ipotesi secondo cui Banksy sarebbe una donna oppure un collettivo di sei artisti riuniti sotto il suo nome. Più facile dire quanto valga: una recente stima calcola un patrimonio di 50 milioni di sterline, che ne farebbe uno degli interpreti più ricchi della cosiddetta arte concettuale. I suoi murales e disegni, anche se su pareti di edifici pubblici, vengono venduti da case d’aste e galleristi: tocca poi al proprietario trovare il modo di rimuovere e portare a casa l’opera che ha acquistato. “Devolved Parliament”, un suo quadro satirico del 2009 che mostrava la camera dei Comuni popolata da scimpanzè, è stato venduto per 9 milioni e 900 mila sterline a un anonimo (come l’artista) compratore. Scimmie, topi e altri animali popolano spesso i suoi graffiti, così come bambine e cuoricini, come è il caso del disegno sulla fiancata della Louise Michel, la nave salva migranti impegnata in queste ore nel Mediterraneo. Chissà se un giorno verrà tagliato e venduto anche quello.
Migranti, la nave Ong Louise Michel verso Lampedusa con 219 clandestini a bordo. La capitana Pia Klemp: "Questa è lotta antifascista". Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. La Louise Michel fa rotta verso l'Italia con 219 migranti a bordo, gli ultimi 13o raccolti nella notte nel Mediterraneo. La nuova nave della Ong più amata dai radical chic di tutta Europa, finanziata e decorata addirittura da Banksy in persona, street-artist di culto, lancia la sfida e probabilmente il Viminale nient'altro farà se non lasciare i porti della Sicilia aperti, come accaduto in queste settimane di fuoco. E dopo Carola Rackete, impareremo a conoscere la capitana Pia Klemp, attivista "antirazzista e animalista" anche lei tedesca e pure lei, come l'ex capitana della Sea Watch, sotto processo in Italia per favoreggiamento della immigrazione clandestina. Con la Klemp, come ricorda anche il Giornale, spicca anche un'altra attivista, Marta Sarralde, che avvista i migranti da soccorrere e trasportare in Europa dall'aereo delle Ong di base a Lampedusa. Più o meno involontariamente, entrambe hanno svelato la vera natura delle loro missioni in mare aperto: "Non considero il salvataggio in mare come un'azione umanitaria, ma parte di una lotta antifascista". D'altronde, il nome scelto per la nuova nave è tutto un programma: Louise Michele, come la "gran dama francese dell'anarchia".
"Un morto a bordo, aprite i porti". E riparte l'assalto delle Ong. La Louise Michel fa scattare l'allarme: "Immigrati ustionati, abbiamo bisogno di assistenza immediata". Il pressing delle Ong: "Aprite i porti italiani". Luca Sablone, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. È partito nuovamente l'assalto delle Ong all'Italia. La Louise Michel ha dichiarato di essere bloccata e perciò ha lanciato una urgente richiesta di aiuto dopo aver prestato assistenza a una barca nel Mediterraneo: stando a quanto riferito dall'equipaggio, a bordo vi sarebbe un immigrato morto. La nave di soccorso per rifugiati finanziata dal celebre "street artist" britannico Banksy e battente bandiera tedesca ha fatto sapere che le condizioni sono di assoluto pericolo: sarebbe sovraffollata e perciò del tutto incapace di muoversi dopo aver incontrato un'altra barca che tentava di attraversare il braccio di mare che divide l'Europa e l'Africa con 219 persone a bordo. "Abbiamo un morto a bordo e altri hanno ustioni su tutto il corpo", scrivono. L'equipaggio della nave, composto da 10 persone, nella giornata di giovedì aveva salvato altri 89 profughi da un gommone in pericolo, sottolineando che le agenzie di soccorso europee avevano ignorato tutte le chiamate di soccorso. Stando a quanto si apprende dal sito web di monitoraggio delle navi Marine Traffic, questa mattina all'alba la barca si trovava a circa 90 chilometri a sud-est di Lampedusa. "Louise Michel non è in grado di muoversi, non è più padrona della sua manovra, a causa del suo ponte sovraffollato e di una zattera di salvataggio schierata al suo fianco, ma soprattutto perché l'Europa ignora le nostre chiamate di pronto soccorso. Le autorità responsabili continuano a non rispondere.", hanno scritto su Twitter i responsabili dell'imbarcazione lunga 31 metri. A ciò si aggiunge pure l'appello diramato da Mediterranea Saving Humanso al ministro Paola De Micheli e alla Guardia costiera: "La Louise Michel è in una situazione di emergenza e le istituzioni italiane ed europee devono intervenire per mettere in salvo le più di 200 persone a bordo e l'equipaggio. Salvatele, sono a due ore da Lampedusa". L'assalto delle Ong. Intanto la Sea-Watch 4 è in rotta di avvicinamento alle acque territoriali italiane: a bordo della nave - partita due settimane fa dal porto di Buriana (Spagna) con la certezza che prima o poi sarebbe arrivato l'ok dall'Italia - ci sono al momento oltre 200 migranti, recuperati nell'ambito della missione finanziata dalla chiesa evangelica tedesca. Nelle scorse ore l'Ong aveva fatto richiesta di un porto sicuro sia a Malta sia all'Italia: la Valletta ha prontamente respinto la richiesta, mentre dal nostro Paese ancora non è arrivata nessuna risposta. E adesso la Sea-Watch 4 sta navigando al largo delle coste siciliane, prospiciente Portopalo.
Malta chiude il porto alla Ong e Sea Watch fa rotta sull'Italia. Il tutto mentre Nello Musumeci sta tentendo di mettere al sicuro la propria Regione: il governatore si è visto respingere dal Tar l'ordinanza mediante cui aveva disposto la chiusura degli hotspot e dei porti dell'isola. Il presidente potrà fare ricorso all'articolo 31 dello Statuto regionale per far valere la sua ordinanza, ma appare evidente come il braccio di ferro voluto dal governo centrale vada contro la volontà dei siciliani. "Provo pena per chi continua a speculare, anche in queste ore, sulla battaglia civile e politica che stiamo conducendo. Guardino le 'stanze' dell'hotspot di Lampedusa. Nessun distanziamento, un vero assembramento di uomini, prima di essere svuotato", ha tuonato Musumeci.
Governo sotto accusa. Come se non bastasse, a Lampedusa continuano gli sbarchi autonomi: è di ieri il video pubblicato da Lucia Borgonzoni, parlamentare della Lega, in cui si vedono un paio di imbarcazioni raggiungere la banchina per attraccare e fare scendere i passeggeri, circa una decina per natante. E diverse ore fa si sono registrati altri 3 sbarchi: un'imbarcazione è arrivata in porto, una a Cala Creta, una a Cala Pisana, per un totale di circa 100 immigrati. Da qui nasce la dura accusa del sindaco Totò Martello: "Gli uomini delle forze dell'ordine e della Guardia costiera sono stremati, lavorano giorno e notte e non sono in numero sufficiente per fronteggiare questa emergenza. A Lampedusa in due giorni ci sono stati circa 40 sbarchi, il centro di accoglienza è di nuovo strapieno, e il silenzio del governo nazionale sta diventando insopportabile". Ma dall'esecutivo giallorosso arrivano parole di tranquillità: la situazione è sotto controllo. Non si direbbe, ma Luciana Lamorgese ha voluto specificare che non si tratta assolutamente di un'emergenza: "Mi preme chiarire che, sebbene ci sia una tendenza in aumento degli sbarchi autonomi rispetto al 2019, i numeri attuali non rappresentano un'emergenza". Il ministro dell'Interno, nell'intervista rilasciata a La Repubblica, ha dichiarato che le difficoltà "sono di carattere logistico legate alle misure di profilassi sanitaria stabilite per il Covid-19".
Lampedusa, gli immigrati fanno affari d'oro con la droga: così sfruttano l'accoglienza per spacciare. Salvatore Dama su Libero Quotidiano l'8 agosto 2020. Dacci oggi la nostra panetta quotidiana. Amen. Di notte, quando chiude la parrocchia di San Gerlando, succedono cose strane. Tutt' intorno. Movimenti. C'è un tizio, un tunisino. Ha una t-shirt nera. Gli shorts di cotone. E le ciabatte ai piedi. Nella destra stringe una busta bianca. Tipo della spesa. Ma dentro non c'è la spesa. Si siede sulle scale della chiesa. Quelle laterali. Poi si alza. Quattro passi per via Mazzini. Incontra un ragazzetto. Si stringono una mano rapida e poi cambiano entrambi direzione. Senza più considerarsi a vicenda. Dopo, mister Busta bianca si siede su un motorino. Prende il cellulare, lo sblocca, riceve una telefonata. Pochi secondi e mette giù. Ricomincia a passeggiare. Lento, circospetto. Svolta l'angolo e si ritrova su via Aristotele. Altro incontro fugace. Stretta di mano. E via. Giro dell'isolato e sbuca dall'altro lato della chiesa. Così, tutta la sera. C'è chi sostiene che il sagrato della parrocchia sia diventata la piazza di spaccio di Lampedusa. Lo dicono residenti e commercianti della zona. Hanno notato movimenti strani. Li hanno filmati. Quello che è certo è che San Gerlando è un punto di riferimento per gli ospiti dell'hotspot di Contrada Imbriacola. Don Carmelo La Magra ha un cuore grande. La sagrestia è munita di wifi con giga illimitati. La linea è "Wifi-Sangerlando", scritto tutto maiuscolo. La password se la tramandano, di mano in mano, i tunisini del centro di accoglienza. E solo loro la possono avere. I fedeli normali devono consumare il proprio traffico dati, invece. Succede spesso che il pulmino dell'hotspot parcheggi su via Mazzini e faccia scendere gruppetti di sette-otto migranti. Così possono stazionare sui gradini e collegarsi gratis. Le vie del Signore sono infinite. Quelle digitali, pure.
LE RISSE. Tutto questo per dire che la chiesa di Don Carmelo è un luogo di ritrovo. A volte di bivacco. Ogni tanto ci scappa pure qualche rissa. Una sera una discussione tra tunisini è finita male. Nel senso: un tizio con maglietta nera e cappellino Nike ha preso a spintoni due ragazzi. Connazionali. Erano in superiorità numerica e pure più grossi di lui. Ma hanno fatto pippa, alzato i tacchi e ripreso via Aristotele. Il piccoletto invece è rimasto sul posto. Continuando il suo commercio. Sull'isola girano prevalentemente hashish e marijuana. Ma è il fumo che va per la maggiore. Viola, blu, cioccolato. Dicono che arrivi con le navi, insieme ai migranti. Circostanza confermata indirettamente da Sami Ben Abdelaali, il deputato tunisino in vista a Lampedusa giovedì scorso. Controllare centinaia di chilometri di costa è impossibile, ha spiegato. Ma anche nei porti più grandi la corruzione dilaga. Due giorni fa sono saltate le teste dei direttori delle autorità portuali di Sfax e Madia. Le partenze illegali sono un business che fa gola a troppi. Ogni migrante paga tra i 1.000 e i 2.500 euro per sbarcare a Lampedusa. Ed è realistico che qualche natante arrivi farcito anche con un tot di chili di roba, oltre al suo carico di umanità in trasferta.
LA CROCIERA. I migranti in fuga dall'hotspot, quelli che riparano sul promontorio retrostante, all'ombra dei pini, fanno uso di hashish. Transitando da lì se ne sente l'odore acre nell'aria. La signora Rosy, proprietaria dell'azienda agricola che domina l'hotspot sul crinale Nord, conferma. Si è trovata un numero x di migranti sulla sua proprietà. E quelli, invece di levare il disturbo, le hanno provato a vendere delle cime di erba. Ieri intanto altri 350 migranti sono saliti sulla nave-quarantena che, dopo vari giorni di maestrale, è riuscita finalmente ad attraccare a Cala Pisana. Aria rilassata. Tutti con la mascherina, ma zero distanziamento sociale. Anche un po' di selfie per celebrare l'inizio della "crociera". Del primo gruppo, quello imbarcato lunedì, dodici sono risultati Covid-positivi. «Nessuna sorpresa», ha dichiarato l'assessore regionale siciliano alla Salute Ruggero Razza, «Roma non ha ancora definito un protocollo sanitario per la gestione dei migranti». Oggi Lega e Forza Italia saranno in piazza per un flash mob di protesta.
L'Arci dei tunisini scomparsi: milioni di euro con i migranti. A Gualdo Cattaneo ancora caccia a 21 stranieri. Non hanno fatto il tampone. Il sindaco: "Chi li ospitava doveva vigilare". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Il cancello in ferro battuto, il casale in mattoni di invidiabile bellezza. Le campagne umbre lì intorno. Molti avrebbero volentieri passato una vacanza nell’ex agriturismo “Il Rotolone” di Gualdo Cattaneo. Invece 23 dei 25 migranti tunisini spediti dal ministero hanno deciso di scappare, nonostante l’obbligo di rimanervi per il periodo della quarantena contro il Covid-19. Ventuno di loro sono ancora irreperibili, gli altri quattro saranno presto trasferiti e la struttura verrà chiusa fino a data da destinarsi. Ma mentre le forze dell’ordine continuano a dare la caccia ai fuggitivi, l’attenzione si sposta sul dilemma cui molti stanno cercando di dare risposta: chi avrebbe dovuto controllare? Chi avrebbe dovuto impedire che gli immigrati si allontanassero prima di aver effettuato il tampone? "Sulla quarantena doveva vigilare chi ospita", dice al Giornale.it il sindaco di Gualdo Cattaneo, Enrico Valentini, che ha rivolto la stessa domanda alle autorità competenti. "Chi ospita ha l’obbligo di mantenere lo standard di sicurezza - ripete il sindaco - Non possono accorgersene solo quando ormai sono fuggiti... ". L'ipotesi, come rivelato ieri dal Giornale.it, è che i migranti possano essere stati aiutati da qualcuno. Pare si siano mossi a piccoli gruppi, un cittadino sostiene di averne visti salire alcuni su un furgone. Il timore ora è che possano entrare in contatto con la folta comunità tunisina umbra: "Molti di loro - spiegava il sindaco - non vivono in maniera non regolare. Sono canali non proprio legali...". A gestire l’ex agriturismo è Arci Solidarietà Ora d’Aria, associazione “impegnata a difendere ed allargare la sfera dei diritti umani e civili di tutti i cittadini” e a evitare “l'insorgere e lo svilupparsi di qualsiasi forma di intolleranza e razzismo”. L’immobile è stato acquistato nel 2018 all’asta e da allora, dice il sindaco, il centro “è sempre stato aperto”. “L’Arci - spiega - ha aderito a un programma della prefettura per la manifestazione di interesse ad accogliere migranti di flussi programmata”. A settembre, per esempio, ne erano arrivati otto per un percorso di inserimento. E nessuno si era opposto. Ma stavolta è diverso. Di mezzo c’è la questione sanitaria. Certo la prefettura ha fatto sapere che tutti i 21 fuggitivi (due sono stati ritrovati) erano negativi al test sierologico, ma la sicurezza si ha solo con il tampone. E al momento nessuno di loro l’ha fatto. Era importante non farseli sfuggire. IlGiornale.it ha cercato tra i documenti della prefettura perugina le informazioni riguardo il bando del 2018 citato dal sindaco. Ora d’Aria risulta tra i partecipanti insieme ad altre associazioni ad una procedura aperta da 23,9 milioni di euro. Di questi, 22 milioni risultano liquidati ma non sono indicate le spese di dettaglio. Maggiori informazioni si trovano invece sul sito dell’Arci. Nel 2019 Ora d’Aria ha partecipato a numerosi programmi finanziati da Regione, prefettura e Comuni vari. Solo per gli Sprar tra Gubbio, Perugia, Panicale e Foligno ha incassato 1,4 milioni di euro, mentre per il progetto Free Life sulle vittime di tratta ha ottenuto 164mila euro dalla Regione. Soldi cui vanno aggiunti gli oltre 11,1 milioni di euro alla voce “convenzione” con la prefettura di Perugia. Visto il committente e la natura dell’associazione, probabilmente si tratta proprio dei fondi destinati all’accoglienza. Abbiamo provato a contattare due volte l’Arci per avere maggiori informazioni, sia sull'entità precisa dell’accordo prefettizio, sia sulle responsabilità di vigilanza ai migranti scappati da Gualdo Cattaneo. Ma alla promessa di essere richiamati, per ora, non è seguito alcuno squillo di telefono.
Parte la caccia all'accoglienza: 188mila euro per i migranti nel Lazio. Palazzo Valentini di Roma ha preparato un bando da 188mila euro per accogliere i migranti: 29 euro al giorno a testa, paghetta giornaliera da 2.50euro, scheda telefonica per ognuno e 150euro per il kit. Francesca Galici, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. L'opera di smistamento dei clandestini nel nostro Paese, molti dei quali positivi, procede a gonfie vele da parte del governo. In queste ore anche il Lazio, una delle regioni che sta avendo maggiori problemi con i focolai da coronavirus, si sta preparando ad accogliere i nuovi migranti arrivati sulle coste del sud Italia. Una prima tranche è arrivata nei giorni scorsi, quando 113 immigrati sono stati portati nella regione amministrata da Nicola Zingaretti. Sono stati momentaneamente smistati tra l'area ciociara e quella pontina ma adesso anche la zona romana si deve attrezzare in vista dell'arrivo di altri clandestini. Gli uffici della Città metropolitana di Roma Capitale sono già all'opera e hanno diffuso un avviso pubblico per "un'indagine esplorativa di mercato volta all'acquisizione di manifestazioni di interesse per individuare uno o più operatori economici in possesso dei requisiti che abbiano la disponibilità di idonea struttura ricettiva nel territorio della provincia di Roma". L'obiettivo di questo bando è molto chiaro: si cerca una struttura per "garantire il servizio di ospitalità di migranti, per i quali si rende ne cessano assicurare l'applicazione delle misure di isolamento sanitario o di quarantena con sorveglianza attiva". Questa struttura verrà impiegata finché perdura lo stato di emergenza, quindi almeno fino a ottobre. È interessante continuare a leggere il bando, perché ci sono ovviamente tutti i prezzi a base di gara, che prevedono "29 euro pro capite pro die per il servizio di gestione del centro di accoglienza messo a disposizione del concorrente e 150 euro per singolo kit ad esclusione della scheda telefonica". Il costo complessivo? 188mila euro. Chi intende partecipare dovrà inoltrare la sua domanda entro il prossimo 3 agosto, lunedì prossimo. Vengono prese in considerazione solo le strutture ricettive che possono garantire l'ospitalità per almeno 10 migranti, e Roma Capitale prevede di ospitarne sul suo territorio circa 50. Ma i termini del bando sono molto complessi, perché è necessario che le strutture che si propongono abbiano a loro disposizione almeno 10 camere singole, visto che i migranti "in osservanza delle misure governative di contenimento e contrasto alla diffusione di Covid -19, devono trascorrere il prescritto periodo di isolamento obbligatorio". Le strutture che vorranno cimentarsi in questa forma di accoglienza dovranno garantire il Pocket Money ai migranti, ossia 2.50euro al giorno a ogni migrante e una scheda telefonica del valore di 5euro. Il bando è aperto anche alle strutture turistiche e a quelle alberghiere, molte delle quali a causa del Covid non hanno mai riaperto quest'anno. Non sarebbe certo la prima volta che gli hotel, un tempo luogo di vacanza e di relax, vengano trasformati in centri di accoglienza stellati. Nel Lazio sono già stati convertiti a questo scopo l'Hotel Daniel's di Fiuggi e l'ex Rossi Sud di Latina. Tuttavia, il centro di accoglienza pontino presenta qualche falla di sicurezza, visto che alcuni migranti hanno tentato la fuga. "Non bastavano i 12 immigrati positivi al Coronavirus e trasportati all'ospedale S. Maria Goretti di Latina. Gli altri 43, anche loro giunti da Lampedusa e trasferiti a Latina, hanno tentato di scappare dopo essere stati spostati dall'Expo del capoluogo a Cori. Sembra persino che un appartenente alle forze dell'ordine sia dovuto ricorrere alle cure mediche, mentre un immigrato si sarebbe rotto una gamba per fuggire", hanno denunciato gli esponenti della Lega, Angelo Tripodi e Francesco Zicchieri.
Vacanze in Italia per i clandestini in quarantena: 4 milioni di euro per una super nave da mille posti. Robert Perdicchi venerdì 31 luglio 2020 su Il Secolo d'Italia. E’ stata assegnata la nave per la quarantena dei migranti destinata alla Sicilia: appartiene alla flotta di Grandi Navi Veloci. E’ quanto si apprende da fonti del Viminale. La nave, che potrebbe normalmente ospitare circa 1000 persone, sarà però utilizzabile per 600-700 migranti in base alle misure di distanziamento previste contro il covid 19. A bordo saranno attrezzati percorsi anti covid. Nel giro di qualche giorno l’imbarcazione sarà in servizio in Sicilia. Inoltre il Viminale sarebbe al lavoro per reperire una seconda nave da inviare in Calabria. Una nave che, in base all’avviso del ministero dei Trasporti del 13 luglio e in scadenza il 16 luglio prossimo, costerà circa 4.037.475 euro, oltre Iva, per i 101 giorni di esecuzione dell’appalto. Tale costo è costituito “da un corrispettivo a corpo ed uno a misura”. Il “corrispettivo a corpo tutto compreso” si riferisce al noleggio della nave, che “dovrà stazionare in rada e potrà essere chiamata a spostamenti sulla base di esigenze connaturate al servizio prestato”. La nave probabilmente sarà ormeggiata al largo di Lampedusa e ospiterà in primo luogo gli immigrati positivi che si trovano attualmente nell’hotspot sull’isola e nel Centro di Porto Empedocle. L’arrivo in Sicilia è previsto nei prossimi giorni. Nelle scorse ore il governatore della Sicilia, Nello Musumeci, aveva lanciato l’ennesimo allarme sull’invasione di immigrati, potenzialmente contagiosi, lungo le coste siciliane.
Migranti, il nuovo "business" è un'altra nave-quarantena. Proseguono senza sosta gli sbarchi a Lampedusa. A centinaia sono arrivati negli ultimi giorni portando di fatto al collasso l'hotspot dell'isola che ospita una media di 800 migranti su una capienza di 80. Il Governo, intanto, pensa ad una nuova nave quarantena. Roberto Chifari, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. In Sicilia è emergenza sbarchi di migranti. La denuncia arriva direttamente dallo stesso governatore siciliano, Nello Musumeci, che parla di business dell'accoglienza. La responsabile del Viminale, Luciana Lamorgese, ha deciso di portare in Sicilia un'altra nave quarantena per l'accoglienza dei migranti, una soluzione tampone per decongestionare l'hotspot di Lampedusa, ormai al collasso da settimane. Un business però, che lo stesso Musumeci ha indicato come il nuovo affare che ha spostato gli interessi dagli sbarchi alle navi quarantena che sostano al largo della coste siciliane. "Vorrei fosse chiaro che non si tratta solo di una emergenza sanitaria, per la quale la Regione sta facendo di tutto per assicurare la sicurezza dei cittadini siciliani e di chiunque arriva nell’Isola - dice il presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci -. C’è una emergenza politica senza precedenti: perché a parità di condizioni climatiche rispetto allo scorso anno gli arrivi aumentano in modo così sensibile? Io voglio dare atto degli sforzi di queste ultime ore. Ma adesso si tratta di gestire una emergenza e servono fatti". Preoccupano le condizioni igieniche al molo Favarolo con i resti delle traversate abbandonati sul molo, ma soprattutto in molti hanno notato che sull'isola arrivano barchini con piccoli motori da 10, 15 o al massimo 30 cavalli. Barchini che non possono fare una traversata e che con tutta evidenza sono portati quasi sulle coste da navi madre a poche miglia dalle acque italiane. Intanto nella struttura di contrada Imbriacola ci sono oltre un migliaio di ospiti a fronte di una capienza di un centinaio di persone. Tanto che lo stesso Musumeci ha chiesto un summit con il governo per fare il punto sugli sbarchi. "Nei mesi scorsi - prosegue il governatore - si sarebbe dovuto attivare un’azione politica i cui mancati effetti oggi li paga la Sicilia". L'accusa è rivolta all'Europa definita dallo stesso Musumeci zitta e silente. "Lo ribadirò mercoledì alla commissione Schengen che mi audirà con i colleghi Santelli e Solinas - prosegue Musumeci -. E ribadirò che intravedo occhi sgargianti in chi si sfrega le mani per gestire un nuovo business dell’accoglienza, che magari diventerà il business della quarantena. Così non si va lontano. Forse è il caso che un vertice in Sicilia lo convochi direttamente il premier Conte. Lo aspettiamo. Intanto oggi hotspot pieno a Lampedusa e migranti in arrivo a Pozzallo. A flotte e senza tregua". Sulla situazione a Lampedusa ad essere preoccupato è soprattutto il sindaco, Totò Martello, che ha denunciato la situazione dell'hotspot con oltre mille persone ospitate nella struttura di contrada Imbriacola. Nei giorni scorsi il primo cittadino si è scontrato proprio con Matteo Salvini accusandolo di non essere mai venuto a Lampedusa quando era in carica al Viminale. Un'accusa che lo stesso Salvini ha rimandato al mittente. Martello però, riprende proprio il pensiero di Salvini che chiede da tempo di bloccare gli sbarchi. "Non possiamo più far entrare nessuno all'interno del centro. Non si può andare avanti così - dice Martello -. C'è interlocuzione con il governo, ma i provvedimenti devono essere presi celermente. Qui si vive alla giornata. Non è che possiamo continuare ad aspettare: se lo svuotiamo bene, se non lo svuotiamo siamo in emergenza", conclude il primo cittadino.
Salvatore Dama per "Libero Quotidiano" il 20 agosto 2020. Martello, il sindaco di Lampedusa (e Linosa), ha un nome evocativo. Si chiama Totò. E infatti è il principe della risata. Martello fa ridere quando, sul Fatto Quotidiano, sostiene di essere stato intervistato da fantomatici inviati di Libero (due, cinque, dieci: quanti erano?), i quali gli avrebbero estorto un'intervista cambiando le risposte. È comico, Totò, quando sostiene che i tunisini che sbarcano sulla sua terra siano una ricchezza («Li ho visti comprare cento euro di frutta») e non un'emergenza. Ma fa meno ridere invece quando accusa una concittadina, che chiede il rispetto della sua proprietà privata, di essere una pallonara. Puntando il dito anche contro di noi, che abbiamo raccolto la sua testimonianza, supportata da foto e video. Totò non ha capito niente. O ha la memoria difettosa. Rinfreschiamogliela. A Lampedusa c'ero io. E basta. Per Libero. E non ho mai incontrato Martello. Men che meno per chiedergli un'intervista. Sono atterrato sull'isola il 5 agosto, nel primo pomeriggio. A Lampedusa c'erano già Chiara Giannini per Il Giornale e Francesca Totolo per Il Primato Nazionale. Loro hanno incontrato Martello. Qualificandosi. Era il 3 agosto. Le due colleghe hanno avuto la premura di registrare il colloquio, riportandolo fedelmente sulle rispettive testate. E, visto il personaggio, hanno fatto bene a premere il tasto Rec. Nella ricostruzione del "principe della risata", invece, egli sarebbe stato affrontato da un branco di inviati di Libero (Roarr!), che poi avrebbe travisato il suo pregevole pensiero pubblicando un'intervista fantasy. Dove? Boh. Fino a questo punto della storia, quindi, c'è un solo cazzaro. Ma andiamo appresso. Martello accusa Libero di essersi inventato la storia del "cane mangiato". Allora, cominciamo facile-facile, Totò. Partiamo dal significato delle parole. "Fake news", dall'inglese, vuol dire "notizia falsa". Se la storia del barbecue canino fosse stato frutto di una mia allucinazione onirica, stimolata da un abuso di pasta alla Norma, avrebbe ragione lui. Ma non è andata così.
LE TESTIMONIANZE. Appena arrivato a Lampedusa, con le colleghe ci siamo piazzati sull'altopiano che domina Contrada Imbriacola. Lì c'è un sentiero sterrato, tra fichi d'india e cumuli di monnezza, dove passano i migranti in fuga dall'hotspot. E già qui il sindaco dovrebbe spiegare com' è che nessuno ripara il buco da cui scappano i tunisini in quarantena. Ma vabbè. Fermo un po' di ragazzi e ci parlo. Mi spiegano che dentro le condizioni di vita sono disumane. Nello stesso metro quadrato mangiano, dormono, pisciano e cagano. Prendo nota e scrivo tutto. Faccio un video con la GoPro. Ma anche questo per Totò non è un problema. Poi mi imbatto nella storia di Rosy. Mi porta a vedere la sua terra, i cumuli di spazzatura che le lasciano i migranti, le bottiglie di birra, gli escrementi. Poi mi fa vedere i maiali. Sono le ultime bestie che le sono rimaste, «mi hanno mangiato capretti, galline e cani». Alt, fermati Rosy. Come i cani? La donna insiste, mi mostra il luogo del misfatto e le ossa canine. Prendo atto e riferisco la sua versione tra virgolette. Documentando il reperto con foto e video.
VERSIONI DISCORDANTI. Non va bene. Il Ministero della Verità mi processa in contumacia, professionisti del fact-checking, seduti in ufficio con l'aria condizionata, fanno a pezzi il mio lavoro. Fesso io che stavo lì, con i piedi nella merda, le mosche in faccia e l'ascella pezzata. Facebook mi censura il video: «Istigazione all'odio». Pure Martello parla di «bufala» e però, inconsapevolmente, conferma la versione della donna. Il veterinario inviato dal Comune dice che le ossa erano canine. Ma, precisa, l'animale non aveva il chip ed è impossibile ricostruire tutta la storia. Insomma: se la verità di Rosy non regge, anche chi la vuole confutare non ha argomenti sufficienti per farlo. A Lampedusa, d'altronde, si perdono le persone che sbarcano, figurarsi i cani. La cosa più bella dell'intervista però è quando Martello dice di aver visto dei tunisini (in quarantena) comprare 100 euro di frutta al market. Invece, nell'intervista (registrata) alle colleghe di Giornale e Primato Nazionale, accusava i magrebini di rubare il pesce ai lampedusiani. Totò, ma ci faccia il piacere
Ch.G. per “il Giornale” il 17 agosto 2020. Ormai non si nascondono neanche più e creano pagine Facebook in cui mettono a disposizione i loro servigi: i servizi di taxi verso l' Italia a bordo di lussuosi yacht da 22 metri per la modica cifra di 5.500 euro. Il viaggio dura dai 3 ai 4 giorni e garantisce lo sbarco nel Bel Paese. Sono i nuovi scafisti, quelli che sicuri del successo, visto che nessuno ormai blocca gli sbarchi sulle coste siciliane, organizzano vere e proprie crociere con partenza dalla Turchia. Forse ispirati dai quasi turisti tunisini approdati a Lampedusa con tanto di cappello di paglia, occhiali da sole e barboncino al guinzaglio, i criminali del mare, sulla pagina Facebook «La strada per l' Europa» commercializzano viaggi su yacht con la promessa di realizzare il sogno di arrivare nel nuovo continente. A fronte dei 5.500 euro pagati dagli adulti, il viaggio per i bambini fino a 3 anni è gratis, quello per i figli tra i 4 e i 10 a metà prezzo. Un affarone. Ma non è solo la rotta italiana quella trattata. «Partite adesso - si raccomandano gli scafisti del 2020 - perché poi la rotta potrebbe essere chiusa visti i problemi di Grecia e Turchia o a causa dell' arrivo della stagione invernale che renderà più difficoltosa la traversata». E propongono anche altre tratte, tra cui quella tra la Serbia e l' Austria, rigorosamente a piedi, al costo di 4mila euro, ma con campeggio garantito. Mentre il prezzo via mare per Rodi è di 2.100 euro a persona. Ma la cosa che colpisce di più è che i trafficanti di esseri umani garantiscono «un' assicurazione per il viaggio», gestita «da un' agenzia esterna». Insomma, se ti fai male, se qualcosa nel tragitto non soddisfa le tue aspettative o se lo yacht si ribalta e muori, c' è pure chi pagherà i tuoi familiari. E se vuoi entrare in Italia o in qualsiasi altro Paese europeo utilizzando l' aereo? Nessuno problema: la pagina «Passaporti e visti per tutti i Paesi» ti procura passaporti e visti falsificati al costo di 9mila euro per l' Europa e 11mila per la Gran Bretagna. Chi scrive garantisce che nessuno scoprirà l' inghippo. Anche perché ci sarebbero connivenze con alcuni funzionari delle ambasciate locali. Inoltre, possono essere forniti anche carte d' identità e patenti di guida a prezzi che vanno dai 500 agli 800 euro. «Come vi contattiamo?»: chiede qualcuno sulla pagina social. «Tranquillo - risponde lo scafista - ho già preso il tuo numero di telefono visibile dal tuo profilo, sarò io a contattarti». E c' è chi chiede se sia compreso il servizio di ristorazione a bordo. «Abbiamo cibo», è la risposta del trafficante crocerista. Insomma, mentre a Lampedusa continuano a sbarcare centinaia di persone provenienti dalla Tunisia, dalla Turchia yacht ben attrezzati caricano chissà quanti migranti a bordo e poi li trasbordano. Il fenomeno è già conosciuto da Guardia di Finanza e Guardia costiera che, a causa delle leggi internazionali e delle disposizioni governative sono costretti a «soccorrerli». La copertina della pagina Facebook la dice lunga: una freccia che collega l' Africa alle varie destinazioni europee. Tanto, ormai, le porte e i porti sono aperti.
Riparte il business migranti: ecco i messaggi dei trafficanti. Uno dei trafficanti è da anni noto come "Morad Zuwara" e continua a pubblicizzare le sue traversate verso l'Italia, senza che nessuno si preoccupi di oscurargli i profili e sempre con lo stesso numero. Giovanni Giacalone, Mercoledì 05/08/2020 su Il Giornale. I trafficanti di irregolari che salpano dalle coste di Libia e Tunisia carichi di immigrati impazienti di raggiungere i porti aperti italiani si pubblicizzano anche su Facebook, come delle vere e proprie agenzie di viaggi; è per esempio il caso di un trafficante che si fa chiamare "Morad Zuwara", con più profili e pagine sul social, dove lascia tranquillamente il proprio numero di cellulare e invita gli irregolari a contattarlo. Ma la beffa ancor più grossa è che il signor Morad era già stato colto in flagranza nel marzo del 2019 quando un reporter del programma di Rete4 "Stasera Italia" l'aveva contattato telefonicamente. Il trafficante di esseri umani aveva candidamente illustrato che la cifra da pagare era di 1300 euro e aveva anche spiegato in dettaglio le caratteristiche della barca utilizzata per il viaggio: "È di legno, ha una capienza di venticinque posti e un motore potente, Yamaha. Ora ho i profughi a casa e partiremo quando il tempo lo permetterà e se Allah vorrà". La cosa sconcertante non sta dunque soltanto nel fatto che nonostante le numerosissime segnalazioni alle autorità libiche e italiane, i suoi profili (con tanto di numero di telefono) non siano mai stati oscurati, ma che da più di un anno a questa parte il signor Morad sia ancora libero di pubblicizzare i suoi "viaggi" verso l'Italia senza che nessuno muova un dito. Un aspetto che la dice lunga sugli enormi interessi che si muovono dietro l'attività del traffico di irregolari. Il numero è tra l'altro sempre lo stesso e questa mattina risultava perfettamente funzionante.
I post del trafficante di irregolari Morad Zuwara. Un post dello scorso 24 luglio sul profilo in arabo del trafficante parla del resto molto chiaro: "A causa di pressioni e frequenti messaggi non siamo stati in grado di rispondere a tutti. Soltanto per persone serie che vogliono viaggiare con noi dalla Libia verso l'Italia, per richieste e coordinazione, chiamare direttamente il seguente numero 0021***********. Morad Zuwara (Derya). In un altro post si legge: "Presto il convoglio verrà fatto partire dalla Libia verso l'Italia...Il convoglio è di 35 persone e la barca di 14 metri, in legno. Disponibile anche materiale di salvataggio." E ancora "Il tour operator di contrabbando da il benvenuto a tutti". Insomma, una vera presa per i fondelli. Morad si era tra l'altro avviato per tempo, visto che già a febbraio pubblicizzava le sue imbarcazioni, in particolare un motoscafo da utilizzare in pochi per i ben noti "mini sbarchi". L'attività pubblicitaria via social dei trafficanti di irregolari va oramai avanti da anni e alla luce del sole, visto che già nel 2017 il Giornale online aveva esposto la faccenda e già all'epoca il signor Morad era in piena attività, assieme a un collega di Sabratha noto come Abdul El Aziz. Per quanto assurdo e ovvio possa essere, bisogna purtroppo ricordare che il traffico di irregolari è un reato ed anche un'attività che rende più della droga, come già detto da Salvatore Buzzi, finito al centro dell'inchiesta "Mafia Capitale". Immaginiamoci dei trafficanti internazionali di droga che pubblicizzano la propria attività alla luce del sole sui social. Ebbene si, nel caso del traffico di clandestini avviene veramente e da anni. Un aspetto che non può non far riflettere seriamente sugli enormi interessi che ci sono dietro e fino a quale livello.
Quegli influencer africani che spingono migliaia di giovani verso l’Europa. Mauro Indelicato il 29 luglio 2020 su Inside Over. Internet è un qualcosa a cui oramai si ha accesso a livello globale e l’informazione viaggia attraverso la rete. Pensare che questo principio valga solo per l’occidente è profondamente sbagliato, al contrario quei social e quei canali visionati soprattutto tra i giovani sono tra i preferiti anche nelle aree del pianeta ritenute erroneamente più lontane dalla rete. Anche il mondo arabo ad esempio ha i suoi “influencer“, i cui video risultano visualizzati da migliaia di coetanei. Canali e siti che hanno un successo maggiore rispetto ai mezzi di informazione più tradizionali, con migliaia di ragazze e ragazzi che dal nord Africa al medio oriente si fanno una propria idea sul mondo seguendo i propri idoli sulla rete. E questo vale anche per il fenomeno migratorio. Sono sempre di più infatti quegli influencer che presentano l’immigrazione come un’opportunità da cogliere e che contribuiscono a rendere l’abbandono del proprio Paese come una vera e propria moda. Fuggire verso la “ricca” Europa o verso le Americhe, i trucchi per farlo in sicurezza e per eludere i controlli: tutto questo è sempre più presentato come un gioco, una circostanza che sta contribuendo ad aumentare le velleità di migliaia di persone di partire per affrontare le traversate nel Mediterraneo.
L’immigrazione come un gioco. Nei loro video, si parla delle possibilità di fuggire verso nuovi territori alla stregua di come molti influencer in Europa pubblicizzino un videogioco. Zouhir Bounou è uno dei videoblogger che parla più frequentemente di immigrazione. Lui vive a Rio de Janeiro, ma è marocchino ed è molto seguito in patria dove è noto con lo pseudonimo che usa per il proprio canale YouTube: Zizou Vlogs. Ed è qui che è possibile vedere molti suoi video in cui l’immigrazione è trattata costantemente in primo piano. Nella home del canale a spiccare è un documentario di quasi 90 minuti, intitolato “Ecco come siamo sopravvissuti per cinque giorni nella giungla della morte“. Al suo interno ci sono immagini di un viaggio attraverso una foresta sudamericana avvenuto nel luglio 2019: assieme al ragazzo marocchino, ci sono altre persone di origine africana che hanno intrapreso la medesima traversata. Un’avventura che ha portato Zouhir dal Brasile agli Stati Uniti, attraversando illegalmente almeno dieci confini. Nei video però non c’è un clima teso od un’atmosfera data dalla consapevolezza di compiere viaggi pericolosi ed illegali. Al contrario, i toni a volte sono quelli di un campeggio, di un lungo viaggio come tanti altri. E non mancano consigli di ogni genere: come capire quando corrompere una guardia di confine, come eludere i controlli, come riuscire ad attraversare frontiere e linee di confine senza essere notato. In poche parole, i suoi video sono diventati tutorial per quei suoi connazionali e per quei ragazzi del mondo arabo che vogliono abbandonare le proprie zone di origine. Quasi come se un viaggio illegale tra svariati confini possa essere per l’appunto un gioco, una mera avventura da seguire per moda. Il video documentario di 90 minuti è stato visualizzato da più di un milione di persone, anche gli altri non sono da meno in termini di accessi. Secondo un recente report del The Economist, queste immagini potrebbero aver spinto molti giovani ad allontanarsi dalle proprie case, a spingersi verso nuove avventure non per la disperazione o per le guerre, ma solo per gioco. E Zouhir non è l’unico: c’è ad esempio un altro youtuber famoso in Marocco ma che vive in Italia, il suo nome è Murad Mzouri. Attivo su Instagram, così come su YouTube e sugli altri social, Mzouri ha più volte dichiarato che il suo obiettivo è quello di aiutare i giovani nordafricani a realizzare il sogno di entrare in Europa. E nei suoi video ad emergere sono anche in questo caso storie di viaggi, di spostamenti lungo il vecchio continente, presentato come il luogo dei propri sogni verso cui accorrere a tutti i costi, anche intraprendendo rischiose traversate nel Mediterraneo.
Migliaia di giovani inconsapevoli dei rischi. E sono proprio i rischi i grandi assenti di molti di questi video: non si parla di quanto potrebbe accadere in Libia, dei barconi che potrebbero rovesciarsi durante la fuga in mare, delle sevizie di cui spesso i migranti sono vittime durante le traversate. Al contrario, sui social degli influencer nordafricani in cui si parla di immigrazione tutto sembra molto più tranquillo, tutto più a portata, con viaggi della speranza trasformati in comuni avventure adolescenziali e nulla più. Ed è un po’ quello che già è stato possibile notare già tre anni fa, nell’estate del 2017: nel pieno dell’emergenza sbarchi nel Sulcis, si è scoperto come la pagina Facebook Haraga Dz, gestita da utenti algerini, non solo dispensava consigli ai connazionali su come muoversi verso l’Italia ma ospitava anche foto ed immagini dei viaggi. Il tutto come se si trattasse di una vera e propria agenzia di viaggi, con tanto di selfie di migranti appena sbarcati o video inviati dalle imbarcazioni ancora in rotta verso il sud della Sardegna. Anche in quel caso una situazione del genere potrebbe aver spinto migliaia di giovani nordafricani a concepire i viaggi della speranza come un vero e proprio divertimento, alla stregua di una gita fuori porta da compiere seguendo le indicazioni sui social. All’interno delle pagine dedicate all’immigrazione, è possibile trovare i numeri degli stessi scafisti o dei trafficanti che gestiscono le rotte del Mediterraneo centrale. Anche in questo caso nessun cenno ai rischi derivanti dalla pericolosità dei personaggi che organizzano i viaggi della speranza, a come vengono da loro trattati i migranti una volta arrivati nei campi, a quanto viene chiesto a ciascuna persona per potersi imbarcare verso l’Europa. In questo contesto, sono molto pochi coloro che, prima di intraprendere un viaggio, hanno reale cognizione di quello a cui si può andare incontro: “Alcuni di questi siti e blogger africani – si legge non a caso sul The Economist – potrebbero invogliare una nuova generazione a fare le valigie e andarsene”.
I giovani della classe media sempre più orientati a partire. Un esercito di ragazzi e ragazze quindi pronto a partire non per disperazione o per migliorare la propria condizione di vita, bensì perché spinto sui social a ritenere un mero gioco quello che invece poi per molti migranti si trasforma in un incubo che può anche portare alla morte. Ed è questo forse il dato realmente più significativo. Chi può guardare questi video e può entrare in contatto con le idee propagandate dagli influencer, può evidentemente permettersi uno smartphone ed una connessione. Possibilmente in patria conduce una vita apparentemente normale, senza reali esigenze di abbandonare la propria terra. Quindi, chi viene spinto a partire dai social potrebbe appartenere sempre più spesso alla classe media. Non quindi disperati in cerca di lavoro, ma giovani nordafricani influenzati dai video guardati sulla rete: ecco il vero possibile identikit di chi si sta mettendo sempre più alla ricerca di un posto su un barcone per approdare in Italia. E questo spiegherebbe alcuni elementi che è stato possibile osservare negli ultimi giorni lungo le nostre coste. Il 2 luglio scorso ad Agrigento sono arrivati almeno 10 migranti a bordo di un motoscafo costoso ed equipaggiato con attrezzatura nuova, ben lontana da quella carente che contraddistingue i barconi fatiscenti caratterizzanti buona parte degli sbarchi. Le persone sbarcate erano vestite molto bene, avevano con sé dei cellulari e degli zaini, non sembravano affatto provate dal viaggio. Non è un caso che per questa situazione è stato coniato il termine “sbarco di lusso”. A Lampedusa stesso scenario a fine mese, quando 11 migranti hanno portato con sé dalla Tunisia anche un cagnolino, con i soccorritori che si sono ritrovati davanti non persone in difficoltà ma giovani in gita. Scene del genere nel prossimo futuro forse saranno sempre meno rare.
CRISTIANA MANGANI per il Messaggero il 15 luglio 2020. Piattaforme Telegram o Digital, ma soprattutto pagine Facebook: non bisogna guardare solo il mare per monitorare gli sbarchi fantasma. Perché buona parte dei flussi migratori spontanei, ovvero effettuati su piccole imbarcazioni che sfuggono a radar e controlli, passa per i circuiti social. L'ultima nell'ordine è una pagina che sembra dare indicazioni turistiche e culturali sul nostro Paese, ma che invece viene tenuta sotto stretto controllo dalla forze dell'ordine, in considerazione del fatto che parecchi viaggi vengono gestiti attraverso le indicazioni offerte da quel canale: Italy immigration news, un gruppo che ha meno di settemila membri, perché ci entri per prendere accordi, ma esci non appena la trattativa è andata in porto.
LE INDICAZIONI. Ci sono numeri di telefono, luoghi di partenza, tragitti, costi e, in alcuni casi, anche dove effettuare i bonifici: da 2000 a 4000 euro, a seconda delle distanze da percorrere. Scorrendo i post ci si accorge che chi frequenta queste pagine usa soltanto l'arabo e il russo, a seconda della tratta, e se si arriva passando per la Grecia, la Turchia, oppure dai paesi africani. È stata la stessa ministra dell'Interno Luciana Lamorgese a lanciare l'allarme per questa migrazione fantasma che, in epoca di Covid preoccupa quasi più del terrorismo. E in effetti, a giudicare dai dati, su 9.372 migranti sbarcati in totale dall'inizio dell'anno, solo 2.372 sono stati soccorsi dalle Ong. Quindi, quasi l'80 per cento è arrivato per proprio conto, in alcuni casi passando del tutto inosservato. Bloccare partenze di questo tipo non è facile, visto che spesso i flussi seguono dinamiche diverse: spesso sono piccoli gruppi che acquistano un barchino e arrivano sulle nostre coste senza essere individuati. Il 10 luglio, a Lampedusa è approdato in pieno giorno un piccolissimo tender: a bordo un uomo di circa 50 anni e un giovane. Il più anziano parlava perfettamente italiano, perché è stato nel nostro paese per venti anni. Poi ha perso il lavoro ed è stato rimandato in Tunisia. Ora, davanti alla crisi economica che sta vivendo il suo paese, così come tantissimi altri suoi connazionali, ha riprovato a tornare in Italia, sperando di farla franca. Altro sistema è quello della cosiddetta nave madre. Qualche anno fa un sottomarino della Marina italiana ha individuato un grosso peschereccio che trasbordava i migranti su piccoli barchini e poi tornava indietro. E nel secondo report consegnato ieri dall'Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell'economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, presieduto dal vice capo della Polizia, Vittorio Rizzi, viene sottolineato proprio che «si potrebbe riaffermare il metodo della cd. nave madre o barca di appoggio, che permette di avvicinare alle coste un grosso numero di migranti senza essere scoperti e, soprattutto, senza essere sottoposti a controlli o alla prevista quarantena sanitaria».
IL BUSINESS. La maggior parte dei migranti parte dalla Tunisia, ma comprende anche gruppi di libici, il cui confine, in questo momento, è difficile da monitorare. Ma non è tutto, perché - viene ancora considerato dagli esperti - «la notevole capacità di adattamento delle organizzazioni criminali transnazionali attive in nord Africa, Grecia e Turchia, riesce a calibrare il business: dalle dimensioni dei natanti al quantitativo di generi alimentari imbarcati, in base all'arretramento o all'avanzamento dei dispositivi di intervento in mare italiani o comunitari». Inoltre, nei mesi di marzo-aprile-maggio si è verificato un aumento dell'utilizzo delle rotte terrestri piuttosto che di quelle marittime. Infatti, le reti di trafficanti hanno ripreso a utilizzare automezzi pesanti e treni merci per muovere migranti attraverso le frontiere, approfittando della libera circolazione delle merci.
Luci e ombre su alcune Ong italiane impegnate nei centri di detenzione in Libia. Il Dubbio il 17 luglio 2020. Il dossier dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione mette in discussione la logica stessa dell’intervento ideato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, mostrando come in larga misura le condizioni disumane nei centri dipendano da precise scelte del governo di Tripoli. Le organizzazioni umanitarie italiane (Ong) che operano nei centri libici per migranti non starebbero migliorando le condizioni dei reclusi, ma ne legittimerebbero la detenzione. Lo si evince dal rapporto pubblicato dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) proprio sugli interventi attuati da alcune Ong che portano avanti progetti finanziati con 6 milioni di euro dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo (Aics). Come spiega l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’iniziativa ha suscitato, sin dall’emanazione del primo bando a novembre 2017 molto scalpore nell’opinione pubblica, sia perché il sistema di detenzione per migranti in Libia è caratterizzato da gravissimi e sistematici abusi (“è troppo compromesso per essere aggiustato”, aveva detto il Commissario Onu per i diritti umani) sia per la vicinanza temporale con gli accordi Italia-Libia del febbraio 2017.I centri di detenzione libici, infatti, soprattutto quelli ubicati nei dintorni di Tripoli che sono destinatari della maggior parte degli interventi italiani, sono destinati a ospitare anche migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera Libica, a cui l’Italia ha fornito, e tuttora fornisce, un decisivo appoggio economico, politico e operativo. Il rapporto si interroga quindi sulle conseguenze giuridiche degli interventi attuati, a spese del contribuente italiano, nei centri di detenzione libici.Nel rapporto si apprende che i fondi stanziati dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo nel 2017 per interventi da parte di Ong italiane all’interno di centri di detenzione in Libia ammontano complessivamente a 6 milioni di euro. Tale somma è stata appaltata attraverso tre diversi bandi. Tutte le informazioni sono pubblicamente disponibili sul sito dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo. I bandi in esame prevedono che ciascuna Ong partecipante possa presentare una proposta di progetto come singola Organizzazione o in associazione temporanea di scopo (Ats) con altre Ong. Dalla scelta se partecipare come singoli o in Ats i bandi fanno anche dipendere l’importo massimo del finanziamento, inizialmente fissato a 666.550 euro, poi elevato nei bandi successivi a 1.000.000 di euro. I bandi inoltre stabiliscono che per l’attuazione dei progetti le Ong italiane debbano necessariamente avvalersi di partner locali sul campo, in quanto la situazione di sicurezza non consente la presenza di personale italiano in loco. La possibilità per personale italiano di recarsi nella zona d’intervento può essere valutata caso per caso con l’evolversi della situazione. Le Ong capofila dei progetti approvati sono le seguenti: Emergenza Sorrisi, Helpcode (già Ccs), Cefa, Cesvi e Terre des Hommes Italia. Le altre Ong coinvolte nell’attuazione dei progetti, come partner di quelle capofila, sono Fondation Suisse de Deminage, Gvc (già We World), Istituto di Cooperazione Universitaria, Consorzio Italiano Rifugiati (Cir) e Fondazione Albero della Vita. Al fine di comprendere in dettaglio la natura e la tipologia degli interventi svolti, alcuni soci dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione hanno presentato una serie di richieste di accesso civico per ottenere copia dei documenti più rilevanti relativamente ai progetti in questione, ed in particolare il testo dei progetti presentati ed approvati. Ma nulla da fare. L’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo ha negato il diritto di accesso a tutti i testi dei progetti approvati. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione ha messo in discussione la logica stessa dell’intervento ideato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, mostrando come in larga misura le condizioni disumane nei centri, che i bandi mirano in parte a migliorare, dipendano da precise scelte del governo di Tripoli (politiche oltremodo repressive dell’immigrazione clandestina, gestione affidata a milizie, assenza di controlli sugli abusi, ubicazione in strutture fatiscenti, mancata volontà di spesa, ecc.). I bandi non condizionano l’erogazione delle prestazioni ad alcun impegno da parte del governo libico a rimediare a tali criticità, rendendo così l’intervento italiano inefficace e non sostenibile nel tempo. Ma non solo. Le Ong svolgono un’attività esclusivamente strutturale. Ovvero, secondo il rapporto, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione si interroga anche sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati. L’assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie, indubbiamente ostacolerebbero un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione non esclude che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle sevizie ai danni dei detenuti.
Coronavirus, migranti contagiati in Calabria. Il Pd: "Niente bollettino, alimenta il razzismo". Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Al cittadino non far sapere quanti clandestini e aspiranti profughi ci portano il Covid 19. Lo scandalo denunciato dai deputati del Pd consiste nel fatto che «la Regione Calabria a guida Santelli decide di emanare un bollettino sull'andamento del Covid evidenziando il contagio dei migranti», mentre «la situazione imporrebbe alle istituzioni di non alimentare razzismo» e «le preoccupazioni delle persone non si usano politicamente!» Così il diritto di informare e di essere informati e perfino la salute pubblica passano in secondo piano rispetto all'esigenza di accogliere chiunque arrivi sulle coste italiane. A caro prezzo, fra l'altro, viste le imponenti misure di sicurezza e il dispiegamento di personale e di risorse necessario a far fronte ai continui sbarchi di persone malate. E con un alto costo anche per l'economia turistica della Calabria.
Valentina Raffa per il Giornale il 16 luglio 2020. Da Lampedusa è un viavai di migranti. Vengono intercettati in mare e scortati al molo, in attesa di una destinazione su terraferma o che venga fatto posto all'Hotspot garantendo il turnover. Anche ieri sono stati trasferiti almeno 200 migranti a Porto Empedocle per essere poi sistemati nelle strutture individuate, oggi si prevede il trasferimento di un centinaio di persone «e sulla base di una programmazione progressivamente aggiornata si provvederà allo svuotamento dell'hotspot» ha detto il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, anche se, visti gli arrivi del solo mese di luglio pari a 2.152 (dati del Viminale aggiornati a ieri), lo svuotamento appare un'utopia. Dopo le proteste di Amantea, a seguito della sistemazione in un centro di 13 pakistani positivi al Covid 19, che martedì sono stati trasferiti al Celio di Roma, la protesta di lunedì a Porto Empedocle, dove i cittadini lamentano prenotazioni disdette e temono per la salute per via del passaggio dei migranti provenienti da Lampedusa, e la fibrillazione nel Ragusano per lo sbarco di 11 migranti positivi al coronavirus che ieri sono stati trasferiti accogliendo da Roma la richiesta del sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, il numero uno del Viminale ha fatto sapere che scade oggi la gara per il noleggio di navi su cui fare espletare la quarantena ai migranti. Sempre che la gara non vada deserta, la nave che affiancherà la Moby Zazà nel suo compito costerà la bellezza di 4.037.475,00 più Iva per la permanenza a bordo di 285 persone, di cui 250 migranti per 101 giorni. Si tratta di 40mila euro al giorno, 160 euro a migrante, il quale costerà 4.800 euro al mese a spese dei cittadini. Per l'onorevole Annalisa Tardino della Lega, si tratta di una «scelta scellerata da parte di un governo incapace di chiedere all'Europa una gestione efficace del fenomeno migratorio». Il Viminale rassicura sul fatto che «a Lampedusa, particolarmente esposta, ai migranti viene effettuato il test sierologico», ma non sembra bastare alla gente, per cui il presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci, ha emanato un'ordinanza che obbliga la quarantena per almeno 14 giorni sulla nave di arrivo, ove possibile, o su navi-quarantena predisposte dal governo e istituisce «aree speciali all'interno dei porti interessati dagli sbarchi». «Nessuno può andare oltre quella fetta di territorio nel porto, nessun immigrato. Pretendiamo controlli e cordoni di polizia severissimi». Per Musumeci tra i migranti sbarcati vi sono «decine e decine di positivi». Sul piede di guerra il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, perché il porto «non può assolutamente essere un luogo di stazionamento di tutti gli immigrati contagiati». Sui migranti è guerra. Interviene pure l'assessore alla Salute Ruggero Razza e col sindaco di Pozzallo non se le mandano a dire in merito all'ordinanza. Musumeci ha infine un messaggio per le Ong: «Lo sappiano con chiarezza: in Sicilia la quarantena si fa solo a bordo delle navi, che lo Stato deve tenere ormeggiate in rada». Intanto continuano gli sbarchi autonomi. Ieri a Sant' Antioco in Sardegna sono arrivati 8 algerini, che sono stati individuati dai carabinieri mentre tentavano di dileguarsi.
Navi quarantena a peso d'oro. Per ogni migrante 4800 euro al mese. Il bando da oltre 4 milioni di euro. Le navi ospiteranno gli immigrati portati dalle Ong o sbarcati in autonomia. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Oltre quattro milioni di euro (più Iva) per 285 posti letto. Circa 40 mila euro al dì per i 101 giorni di contratto previsti dal bando. Cioè circa 160 euro al giorno a migrante, spicciolo più spicciolo meno, ovvero circa 4.800 euro di spesa mensile per ogni ospite a bordo. È il costo previsto dal governo per l’affitto di nuove navi per l’accoglienza dei migranti “soccorsi in mare o giunti sul territorio nazionale a seguito di sbarchi autonomi nell’ambito dell’emergenza” coronavirus. Il bando, pubblicato ieri dalla Protezione Civile, si concretizzerà in un contratto in pochi giorni. La procedura è di quelle abbreviate, tipica del periodo emergenziale. Poi entro 24 ore dalla stipula del noleggio l’armatore dovrà far arrivare le navi sulla costa meridionale della Sicilia, pronte ad ospitare i migranti appena sbarcati. I mezzi, in base all'allegato tecnico, tra le altre cose dovranno essere in grado di effettuare trasbordi, avere cabine sufficienti a ospitare 250 migranti (possibilmente a uso singolo), un'area controllata di confinamento per almeno dieci migranti con sintomi da Covid-19 e la disponibilità di dieci cabine singole (con bagno indipendente) per i 35 operatori responsabili dell’assistenza sanitaria. La scadenza del contratto è prevista per il 31 ottobre, salvo proroghe o cessazione anticipata dello stato di emergenza. Costo totale dell'operazione per 101 giorni: euro 4.037.475,00 oltre Iva. Di cui 3 milioni per il noleggio e 1 milione da versare in "in funzione del numero di migranti effettivamente ospitati". L’approdo di immigrati positivi è la nuova frontiera della lotta al virus. Nei giorni scorsi diversi casi sono stati registrati sia in Calabria che in Sicilia. I rispettivi governatori temono che il contagio di importazione possa vanificare gli sforzi fatti fino ad ora per debellare il morbo. Ma se i poliziotti chiedono a gran voce di “bloccare gli sbarchi” (a Siderno mezzo commissariato è in quarantena dopo essere stato a contatto con persone infette), per ora il governo si preoccupa di trovare una sistemazione a chi è già arrivato e chi presto arriverà. I centri dislocati sul territorio hanno evidenziato non pochi problemi, tra cui le diverse fughe di stranieri sottoposti a quarantena obbligatoria. Da qui l’idea di utilizzare le grosse imbarcazioni. La Moby Zaza da due mesi è ferma a Porto Empedocle, ha già svolto questo compito, ma tra pochi giorni - quando l’ultimo migrante finirà la quarantena - verrà riconsegnata all’armatore, che ha deciso di non prorogare il contratto con lo Stato. A rimpiazzarla saranno appunto le nuove navi da 4 milioni di euro in tre mesi. “I cittadini italiani, molti dei quali senza reddito, senza forme di sostegno, con le loro tasse sono costretti a spendere, per soli 250 immigrati, 40mila euro al giorno”, attacca l'on. Paolo Grimoldi, segretario della Lega Lombarda. “Ricordiamo che questi clandestini spacciati per profughi provengono principalmente da Tunisia e Bangladesh dove da oltre mezzo secolo non si combattono guerre: sono migranti economici che non hanno alcun requisito per ottenere una forma di protezione". Duro anche il commento di Matteo Salvini: “Da una parte, il governo abbassa le multe per le Ong che trasportano clandestini in Italia (rendendole meno salate di una sanzione in autostrada) - dice il leader - dall’altra mette 4 milioni più Iva per noleggiare navi per l’accoglienza. Anziché cancellare i Decreti sicurezza, Pd e 5Stelle dovrebbero applicarli per difendere i confini”. I dati intanto dicono che dall’inizio dell’anno sono approdate 9.706 persone, contro i 3.186 dello stesso periodo di un anno fa. “Per ora parliamo di 250 immigrati - conclude Grimoldi - ma ne sono arrivati quasi 10mila e da qui alla fine dell’estate questa cifra sarà destinata a quintuplicarsi a stare bassi. Provate a calcolare 160 euro al giorno per 70 o 80mila immigrati...”.
Fine emergenza Covid? Riparte la mangiatoia sulla pelle dei migranti. Ong e onlus fremono per tornare al business Assist del Fmi: il pil aumenta con gli stranieri. Antonella Aldrighetti, Domenica 21/06/2020 su Il Giornale. La corsa allo smantellamento dei Decreti sicurezza è ai blocchi di partenza. Ong, enti benefici e onlus fremono con l'avvicinarsi del 31 luglio prossimo quando, con la fine probabile dello stato di emergenza, riaprirà in piena regola la stagione degli sbarchi e altrettanto, quella delle ripartizioni nei diversi centri d'accoglienza in tutta la Penisola. Giusto ieri, a Pozzallo, è sbarcata una nave della Mediterranea Saving Humans, carica di 67 migranti. L'esercito dei cooperanti con il governo giallorosso è diventato sempre più forte fino a una posizione di netto rilievo. E oggi, grazie all'assist del Fondo monetario internazionale (Fmi) secondo il quale «i migranti aumentano la produzione e la produttività sia a breve che a medio termine. In particolare, l'aumento di 1 punto percentuale nell'afflusso di immigrati rispetto all'occupazione totale aumenta il Pil di quasi l'1% entro cinque anni dal loro ingresso», hanno una sponda in più per rivendicare la riapertura degli Sprar, i servizi per i richiedenti asilo chiusi con il primo capitolo dei decreti targati Salvini. Già, peccato però che la correlazione promossa dal Fmi tra incremento di immigrati e incremento indotto di Pil per l'Italia non valga: dal 2015 al 2019 il Pil reale è passato da percentuali di 0,93 a 0,3 con un picco, nel 2017 di 1,6 che poi è subito naufragato. Certo tra il 2016 e il 2017 è stato il periodo in cui le risorse dell'erario hanno ammortizzato esageratamente l'ingresso forsennato degli stranieri (oltre 280 mila i nuovi ingressi) con il risultato evidente dell'arricchimento delle realtà cooperative ai danni dell'impoverimento indubbio del Paese reale. È ovvio allora che i benefattori degli stranieri premano sul governo per riaprire i flussi consentendo ai richiedenti asilo inseriti nei programmi di integrazione sociale e lavorativa anche di essere regolarizzati e quindi accedere a permessi di soggiorno prolungati. Altrettanto ovvia la volontà del governo giallorosso di farsi carico di questo impegno per elargire laute mance ai comuni che ospiteranno i nuovi richiedenti asilo. Gli ultimi decreti per l'ospitalità localizzata firmati tra il 2017 e il 2018 dal ministro dell'Interno Marco Minniti stabilivano ben 700 euro a immigrato e qualche milioncino a comune per i progetti di integrazione. Un modo facile per accaparrarsi l'elettorato foraggiando piccole coop e consorzi di cooperazione su tutto il territorio. Senza contare che queste realtà stando alle valutazioni del Fmi saranno sempre più tirate in ballo, se permarrà il governo giallorosso, perché «la popolazione nei mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo dell'Africa sub-sahariana continuerà a crescere nei prossimi 30 anni, le pressioni migratorie verso le economie avanzate probabilmente aumenteranno, pur mantenendosi costanti intorno al 3% della popolazione globale». Il risultato ovviamente è legato al boom demografico nell'Africa centrale dove la popolazione dovrebbe crescere di 1 miliardo tra il 2020 e il 2050. E sempre sulla base delle considerazioni del Fmi la ripartizione produrrà l'ingresso in Europa di 31 milioni di nuovi immigrati. Numeri da capogiro, se pensiamo che l'Italia è sistematicamente uno dei primi approdi, ma che fanno gola alle realtà cooperativistiche sovvenzionate dai vigorosi aiuti dell'erario pubblico.
Migranti, il sistema delle coop: costi gonfiati e conti aggiustati. Ecco il sistema mediante cui si sarebbero fatti affari sull'accoglienza dei migranti: costi gonfiati, rendicontazioni "aggiustate" e vantaggi indebiti. Luca Sablone, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. Associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, alla turbativa d'asta, allo sfruttamento del lavoro e all'inadempimento di contratti di pubbliche forniture: sono queste le ipotesi formulate dalla Procura. L'inchiesta scattata recentemente ora rischia di far saltare quello che si teme essere un "sistema-truffa" a Bergamo nell'ambito dell'accoglienza dei migranti. Nell'indagine coordinata dal pm Fabrizio Gaverini sono coinvolte ben 38 persone, ma pare che vi sia l'intenzione di sfoltire gli implicati poiché alcune posizioni potrebbero essere così defilate da non mostrare profili di reato. E ora sono spuntate delle intercettazioni annotate dai carabinieri risalenti al 17 aprile 2018, precisamente alle ore 8.34, tra don Claudio Visconti e Luca Bassis. Il primo è stato per circa 20 anni il direttore della sede della Caritas della città di Bergamo; il secondo era tra i suoi più stretti collaboratori. "Ma infatti gliela voglio fare proprio difficile, cioè nel senso che già non riusciranno a guardarla ma gliela faccio difficile, che dovranno impazzire"; "Bravo e carica anche le ristrutturazioni che abbiamo fatto prima". Al centro della conversione c'è la serie di rendicontazioni da presentare in Prefettura al fine di ricevere il rimborso delle spese legate ai centri di accoglienza per richiedenti asilo. "Tanto non se ne accorge nessuno", sarebbero state le parole di Bassis. Eppure la realtà dei fatti sarebbe venuta a galla, come fa notare l'edizione odierna de La Verità: spese gonfiate, numeri falsi accreditati, checkout dei migranti modificati dalle associazioni per continuare a percepire il massimo delle quote e voce affitti aumentati di 50mila euro. Il tutto con il benestare del sacerdote: "Perché noi quei soldi qua li mettiamo via per quelli che voi cacciate fuori per sostenere i servizi degli altri (migranti, ndr)".
L'inchiesta. Stando a quanto emerso dal lavoro degli inquirenti, il suo consenso sarebbe stato sempre fondamentale per dare il via libera a ogni operazione: "Controllava le dinamiche dell'accoglienza migratoria e la successiva gestione, riuscendo a condizionare le istituzioni al fine di ottenere vantaggi indebiti". Nel periodo compreso tra il 2017 e il 2018 i richiedenti asilo nella Bergamasca erano quasi 3mila e la Prefettura stava per pubblicare un bando da 106 milioni per i 18 mesi seguenti. Oltre alle rendicontazioni "aggiustate", si vuole far luce sull'espediente per ottenere contributi. Due avvisi di garanzia sono stati consegnati a funzionarie dell'assessorato Servizi sociali. Nell'ordinanza si legge che "si adoperavano affinché la cooperativa Ruah e l'associazione Diakonia potessero aggiudicarsi i bandi pubblici comunali il cui contenuto veniva preventivamente concordato". Capi d'imputazione come associazione a delinquere finalizzata alla truffa, turbativa d'asta, sfruttamento del lavoro (episodi di caporalato), inadempimento di contratti di pubbliche forniture pesano. Intanto la Lega ha chiesto al sindaco Giorgio Gori di sospendere cautelativamente i contratti in essere con le associazioni coinvolte visto che "sono contestati i reati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato attraverso l’acquisizione di erogazioni pubbliche non spettanti, sfruttamento del lavoro, riciclaggio e altri reati".
Maddalena Berbenni per il “Corriere della Sera” il 19 giugno 2020. «Ma infatti gliela voglio fare proprio difficile, cioè nel senso che già non riusciranno a guardarla ma gliela faccio difficile, che dovranno impazzire». «Bravo e carica anche le ristrutturazioni che abbiamo fatto prima». Alle 8.34 del 17 aprile 2018 don Claudio Visconti parla al telefono con Luca Bassis, tra i suoi più stretti collaboratori. Per vent' anni direttore della Caritas di Bergamo, punto di riferimento anche a livello regionale nelle estati torride dell'emergenza sbarchi, don Visconti ha un piglio da manager in una Diocesi che gestisce milioni. Quella mattina al centro della conversazione ci sono le rendicontazioni da presentare in Prefettura per ricevere il rimborso delle spese legate proprio ai centri di accoglienza per richiedenti asilo. Si tratta di 1.350.000 euro che lo Stato pagherà a novembre 2018. È documentato. Il sacerdote, 56 anni, non può immaginare che i carabinieri del Nucleo investigativo lo stiano intercettando né che lo scambio finirà tra gli indizi raccolti a suo carico nell'inchiesta venuta a galla solo ora. Associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, alla turbativa d'asta, allo sfruttamento del lavoro e all'inadempimento di contratti di pubbliche forniture sono le ipotesi formulate dalla Procura e registrate in una parte dei 38 avvisi di garanzia inviati anche ad altri nomi noti del mondo dell'accoglienza bergamasca, oltre che a funzionari pubblici in Comune e Prefettura. Una precisazione va fatta. Risulta che il pm Fabrizio Gaverini sia pronto a sfoltire le contestazioni e gli 83 indagati in tutto, un numero che comprende anche il filone, indipendente, dei tre arrestati della cooperativa Rinnovamento, fra cui il fondatore padre Antonio Zanotti. Ma allo stato dell'arte le carte insinuano il dubbio di un giro di fondi pubblici gestiti in maniera quantomeno poco limpida, in particolare da parte dell'associazione Diakonia, di Caritas, e della cooperativa Ruah (entrambe assicurano piena collaborazione agli inquirenti). Come per le rendicontazioni di aprile 2018. Bassis, 49 anni, per i carabinieri «uomo di fiducia» di don Visconti, lo rassicura di avere «complicato» il resoconto per la Prefettura («gli porterò un cd pieno di roba»), come per fare in modo che alcuni passaggi sfuggano a chi dovrà controllare, sospettano gli inquirenti. E poi chiede il permesso di poter gonfiare di 50 mila euro la voce «affitti», calcolando 5 euro a ospite per i centri di Casazza, Botta di Sedrina e San Paolo d'Argon, tutti di proprietà della Diocesi. «Tanto non se ne accorge nessuno», insiste il collaboratore nelle intercettazioni annotate dai carabinieri. Il sacerdote dà il suo benestare e trova un'apparente giustificazione: «Perché noi quei soldi qua li mettiamo via per quelli che voi cacciate fuori per sostenere i servizi degli altri (migranti, ndr )». Poi però non sembra così sicuro: «Cinque euro non è troppo poco?». Alla fine, approva. Secondo gli inquirenti, nulla avveniva senza il suo consenso: «Controllava le dinamiche dell'accoglienza migratoria e la successiva gestione, riuscendo a condizionare le istituzioni al fine di ottenere vantaggi indebiti», recita il capo di incolpazione. Le indagini toccano il periodo tra il 2017 e settembre 2018, quando don Visconti è stato trasferito alla Pastorale italiana di Bruxelles. Nell'estate 2017 la Bergamasca ospitava 2.762 richiedenti asilo e la Prefettura si accingeva a pubblicare un bando da 106 milioni di euro per i 18 mesi seguenti. Oltre alle rendicontazioni «aggiustate», i carabinieri osservano quello che ritengono un altro espediente per ottenere contributi. È legato ai check-out dei migranti e ai 35 euro al giorno percepiti da Roma per mantenerli. Anche qui sono i telefoni a «parlare». In numerose conversazioni gli operatori delle strutture sul territorio si accordano con i responsabili sulle notti in più da segnare nel registro delle presenze e sulle firme dei migranti da scarabocchiare. Un meccanismo contestato anche alla «cerchia» di padre Zanotti. Sulla carta, i reati sono gli stessi per entrambi i filoni, ma nel caso del frate cappuccino, della presidente della coop Rinnovamento Anna Maria Preceruti e dell'economo Giovanni Trezzi il pm ha chiesto il carcere e ottenuto i domiciliari. Per l'ex direttore di Caritas, misure cautelari non sono state richieste. Se questo dipenda da una revisione del quadro accusatorio tracciato in origine, non è dato sapere. Di certo, nel caso di padre Zanotti, 73 anni, alle spalle una denuncia per molestie sessuali da un ragazzo ospite in uno dei suoi centri, il quadro appare alquanto indiziante. Tra cibo scaduto servito ai migranti e contanti spartiti negli uffici - per ora sono stati sequestrati preventivamente 126 mila euro, ma i carabinieri sono alla ricerca di molto altro -, l'arrestato Trezzi, durante uno sfogo telefonico, arriva a definire in questo modo la gestione di padre Zanotti: «Siamo in una situazione dei Casamonica, fischia qua!».
Le sardine con le Ong per aiutare gli scafisti. Francesco Maria Del Vigo, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Le sardine prendono il mare. Alla fine, dopo un lungo tramestio, una loro identità la hanno trovata. E, per uno scherzo del destino, la hanno trovata proprio nel loro elemento naturale: l'acqua. I vertici del noto movimento di opposizione all'opposizione, ieri, hanno annunciato la loro prossima missione: si imbarcheranno sulla nave di una Ong e aiuteranno i «salvataggi in mare». Quindi tradotto dall'italiano buonista all'italiano reale: aiuteranno gli irregolari a sbarcare sui nostri confini, faranno da «taxisti» agli scafisti che trafficano esseri umani nel cuore del Mediterraneo. Ah, se ne sentiva proprio il bisogno, specialmente in un momento così drammatico per il nostro Paese. La sinistra, d'altronde, ha sempre una spiccata sensibilità nell'intercettare le urgenze degli italiani e rovesciarne la scala delle priorità. Così Mattia Santori e soci, dopo mesi passati a nicchiare sulla propria appartenenza politica, ora hanno subìto la trasformazione genetica definitiva: da pesci ad aspiranti Carole Rackete, pronti a speronare la Guardia di Finanza per traghettare clandestini in Italia. Così le sardine saliranno a bordo della nave di Mediterranea Saving Humans nella prossima missione che prenderà il via a breve. Lo hanno annunciato con grande enfasi, e in puro stile sardiniano, Giulia Trappoloni, Lorenzo Donnoli e Jasmine Cristallo: «Equipaggi di terra ed equipaggi di mare che ogni giorno praticano modelli virtuosi di integrazione. Ci siamo sentiti a casa, ci siamo riconosciuti: nella condivisione del linguaggio, dei valori, nella battaglia per l'abolizione dei decreti sicurezza. Costruire un modello di società inclusivo e gentile è necessario». «Un modello di società gentile», perché ovviamente, loro sono gentili, educati e perbene, non come quei volgari cafoni di destra che non sanno neanche usare le posate. D'altronde hanno manifestato sin da principio, con il loro manifesto pubblicato su Facebook, quale era la loro idea di società gentile: «Grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare». Gentilissimi, galateo da Russia comunista. E poi, ancora: «In questi luoghi (Ballarò a Palermo, ndr) avvertiamo l'emergenza che ogni giorno sono costrette a vivere queste realtà che smentiscono con coraggio la narrazione portata avanti dai Decreti sicurezza». Perché, come è logico, il problema della sicurezza nelle nostre città è solo un'invenzione della propaganda salviniana. Arruolarsi con le Ong è l'esiziale scelta di campo di un movimento che, dopo la vittoria di Bonaccini in Emilia Romagna, non solo non sa più che pesci prendere ma non sa nemmeno che pesce è. Le comparsate da Maria De Filippi, le piazze sempre più vuote, un nemico (Salvini) un po' appannato e l'attenzione pubblica che, inevitabilmente, si è spostata su questioni più serie del «ritorno del fascismo», hanno contribuito a spegnere tutta l'emozione radical chic che si era condensata attorno ai ragazzi bolognesi. Impressione confermata anche dai sondaggi. Proprio ieri, Ilvo Diamanti su La Repubblica, numeri alla mano, descriveva così l'intiepidirsi dell'opinione pubblica nei confronti delle sardine: «Il peso di quanti affermano di aver partecipato o di essere d'accordo con le loro manifestazioni oggi è stimato attorno al 36 per cento. Dunque, nel complesso, sei punti in meno rispetto allo scorso dicembre». Ma i dati più significativi sono quelli che riguardano gli elettori che voterebbero «sicuramente» un'eventuale lista di Santori: il 4 per cento degli intervistati. Un po' poco, rispetto alle sesquipedali aspettative riposte sulle sardine da stampa e intellettuali di sinistra. Ora, finite tutte le cause sbagliate ancora in commercio, hanno deciso di recuperare visibilità puntando tutto sull'estremismo dell'accoglienza.
Adesso le Ong tuonano contro la quarantena imposta alle navi. Medici Senza Frontiere, organizzazione operante a bordo della nave Ocean Viking, ha chiesto la fine della quarantena imposta per l'emergenza coronavirus anche ai mezzi che portano i migranti in Italia: "Lasciateci partire". Mauro Indelicato, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Il coronavirus ha messo in fibrillazione anche le organizzazioni non governative: le misure di quarantena applicate di recente o le richieste, poi per la verità non ascoltate, di evitare gli sbarchi dei migranti in questo periodo hanno allarmato le Ong. E non è un caso se nelle scorse ore a lanciare un appello per evitare di fermare le navi umanitarie è stata l’organizzazione Medici Senza Frontiere. Quest’ultima opera assieme all’Ong Sos Mediterranée a bordo della nave Ocean Viking, la più attiva sul fronte degli interventi nel Mediterraneo centrale da settembre ad oggi. Il mezzo però è stato anche il primo ad essere messo in quarantena nella giornata di domenica, giornata in cui l’equipaggio ha avuto dal Viminale l’autorizzazione allo sbarco di 276 migranti a Pozzallo. Si è trattato, in quell’occasione, di fatto del primo approdo del genere da quando il nostro paese ha iniziato ad affrontare l’emergenza coronavirus. I migranti che erano a bordo sono stati accompagnati presso il locale hotspot ed è lì che trascorreranno l’intero periodo di quarantena. I 32 membri dell’equipaggio della Ocean Viking, compresi dunque anche i componenti dell’Ong Sos Mediterranée e di Medici Senza Frontiere, sono stati posti in quarantena a bordo della nave e rimarranno qui per i prossimi 14 giorni. Una misura che è stata adottata anche nel caso controverso della Sea Watch 3, giunta a Messina quando già in Sicilia si era registrato il primo caso di coronavirus. Per tal motivo, il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci aveva chiesto al governo che la quarantena per migranti e membri dell’equipaggio dell’Ong tedesca fosse svolta interamente a bordo della nave. Alla fine però, i migranti sono scesi mentre il mezzo è stato posto in quarantena. Non senza polemiche tra la giunta regionale siciliana ed il governo. Come detto prima, a seguito di questi due episodi Medici Senza Frontiere ha chiesto di non fermare le navi delle Ong. Il principio è quello secondo cui tali mezzi sono delle vere e proprie “ambulanze del mare” e dunque non possono essere fermate per la presenza in Italia del coronavirus: “Mettere in quarantena una nave di soccorso è come fermare un’ambulanza in mezzo a un’emergenza”, si legge in un tweet di Medici Senza Frontiere. “Chiediamo alle autorità di non fermare le ambulanze del mare – si legge ancora nel tweet – e permetterci di fare il nostro lavoro: salvare vite”. Secondo l’organizzazione, quella messa in atto dal governo italiano contro le navi Ong sarebbe solo una “giustificazione”: “Capiamo le legittime preoccupazioni per il coronavirus – ha scritto in un altro tweet Medici Senza Frontiere – ma non devono essere una giustificazione per impedire i soccorsi. A terra come in mare, la priorità è salvare vite”. Infine, sempre secondo l’organizzazione che opera assieme a Sos Mediterranée, non c’era alcuna ragione specifica per porre la propria nave in quarantena: “Quando l’epidemia di Covid19 ha colpito l’Italia – sostengono i membri di Medici Senza Frontiere – la Ocean Viking è stata messa in quarantena e ha rispettato tutte le misure indicate. Ma dopo 5 giorni di blocco, è ormai evidente che queste misure vengano applicate solo alle navi umanitarie”. Quest’ultima frase suona come un’esplicita accusa contro l’esecutivo Conte II, che pure ha usato rispetto al precedente governo una linea molto più morbida sulle Ong, permettendo a tutte le navi impegnate nel Mediterraneo di approdare in uno dei porti italiani. Sembra dunque che, a distanza di tempo, la fine dei 14 mesi di gestione del Viminale da parte dell’ex ministro Matteo Salvini non sia servita a far deporre l’ascia di guerra politica contro l'Italia alle organizzazioni. Le quali adesso potrebbero attuare una campagna di pressione mediatica per far evitare la quarantena alle navi nonostante l’emergenza coronavirus.
"Irresponsabile far sbarcare i migranti. È ora di finirla con il finto buonismo". Il governatore: «Condizioni inumane a terra per i 194 della Sea Watch». Gian Micalessin, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. «Questa favola del finto buonismo deve finire. L'hotspot di Messina è una struttura dichiarata inadeguata dalle autorità sanitarie perché incompatibile con la permanenza dei migranti. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con cui in precedenza avevo rapporti di collaborazione, ha scelto di non ascoltarmi, ma non ha certo fatto un regalo ai quei 200 disperati. Il suo non è un atto di responsabilità. Neppure nei confronti di gente che ha affrontato peripezie e sofferenze». «In questo momento - spiega al Giornale il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci - credo che il governo abbia l'interesse a minimizzare qualsiasi problema. Da anni si sa che l'hotspot di Messina è in una situazione assolutamente precaria».
I migranti intanto sono a terra come intende reagire?
«Nei prossimi giorni disporrò una visita tecnica per mettere fine alla favola di chi da una parte sostiene di stare con i migranti e dall'altra li costringe a vivere in strutture prive dei più elementari requisiti. Ho un certificato con la data di ieri delle autorità sanitarie di Messina che attestano l'inadeguatezza di quei locali».
Lei chiedeva di farli restare sulla nave. Era una soluzione migliore?
«Io non ho mai chiesto di lasciarli su una nave inadeguata. Le mie dichiarazioni del 25 febbraio sono chiare. L'eventuale quarantena o la cura di sospetti casi di Coronavirus dovevano, nel caso, avvenire a bordo di un'imbarcazione in grado di ospitarli per 14 giorni. Quindi se quella nave non era adeguata bisognava trovare un porto attrezzato. I diritti e la dignità umana vengono sempre per primi. La mia linea da presidente della Regione e da uomo di destra è sempre stata questa».
Ha sentito il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese?
«Abbiamo cose molto più importanti da fare che rincorrere dei fantasmi».
Se si fosse scelto un porto siciliano più adeguato non avrebbe avuto nulla da obbiettare?
«Scegliere o approntare porti per i migranti non è competenza mia, ma dello Stato. In passato, pur avendo più di un motivo per farlo, non ho mai preso posizione, ma in una condizione di emergenza sanitaria era indispensabile farlo. Mi lamento per i mancati controlli sui passeggeri in arrivo dalle zone cosiddette gialle e vuole che resti tranquillo davanti a persone provenienti da aree dove ritengo che i controlli siano di un livello più basso?»
Ma veramente non vuole neanche gli italiani provenienti dalle cosiddette zone gialle?
«Ho semplicemente detto, come stabilisce il decreto del presidente del Consiglio, che se vi sono comitive provenienti dalle zone a rischio è meglio rinviare il viaggio di qualche settimana in modo da far star più sereni noi e loro perché, a oggi, il governo centrale non ci consente di esercitare alcun serio controllo. Ogni giorno ricevo messaggi che denunciano il rientro in Sicilia di insegnanti, studenti e operai dalle zone gialle transitati senza il minimo accertamento da aeroporti e stazioni. Invitare alla prudenza e al rinvio dei viaggi significa confidare in un'attenuazione del processo infettivo e nel contempo sperare che da Roma arrivino disposizioni più precise e più severe».
C'è una latitanza del governo anche su questo?
«Certo. Da governatore non posso disporre i controlli. È una competenza della struttura sanitaria dello Stato esercitata fin qui a giorni alterni in maniera lacunosa. Io invece auspico - sia per noi, sia per i cittadini delle zone gialle - una situazione di reciproca tranquillità».
Pensa che la Sicilia venga trascurata?
«Nei nostri confronti c'è solo arroganza. Per molti la Sicilia è terra di frontiera. Fino a quando non modificheremo il Trattato di Dublino e fino a quando l'Europa cinica e ipocrita non si farà carico del fenomeno migranti saremo soltanto un lembo d'approdo per disperati. Vorrei sapere che fine hanno fatto le politiche di sviluppo e cooperazione europea che avrebbero dovuto consentire ai migranti di non lasciare i loro Paesi».
Solo 1 euro su 10 speso per i migranti. La falsa emergenza costa 4 miliardi. Roberto Scafuri l'11 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Lo spreco dei decreti sicurezza nelle cifre della corte dei Conti: il buco dei costi in deroga. Gestire I flussi significa guadagnare: con 320 mila regolari si avrebbero 10 miliardi netti di contributi per le pensioni Inps. Quella crisi strisciante e definitiva della terza Repubblica denominata “governo giallo- rosso” mostra un paio di punti di caduta che ne svelano lo stato catatonico. Uno di portata nazionale, la giustizia; l’altro più ampio e complesso, l’immigrazione. E sarebbe giunta anche l’ora che su quest’ultimo tema il Pd riuscisse a prendere il timone e sovvertire la devastante fake news che è stata ( è ancora, purtroppo) la narrazione salviniana. Perché dell’immigrazione andrebbero anzitutto chiarite alcune evidenze, prima delle quali che è inalienabile e non criminalizzabile il diritto dell’uomo a migrare, a cercare le migliori condizioni di vita o solo la sopravvivenza. Diritto valido a qualsiasi latitudine, in qualsiasi epoca e quale che sia la motivazione: guerra, carestia, clima. Seconda certezza: si tratta di un fenomeno ricorrente nella storia dell’umanità, è risibile ( o tragico) provare ad arginarlo con ricette infantili, tipo il respingimento. In tempi brevi – ebbe a dire Umberto Eco – l’Europa sarà un continente multirazziale o se preferite “colorito”. Se vi piace sarà così. Se non vi piace, sarà così lo stesso. Se ne deduce che si parla di un problema organizzativo, non di un’emergenza. Bisognerebbe imparare a gestirlo, soprattutto per questioni di sicurezza: dei migranti e di chi se li vede sulla porta di casa. Da dove partire, se non con la ragione dei fatti? Primo fatto: non è lecito parlare, anzi legiferare, sull’immigrazione cosiddetta “clandestina”, se non esiste una maniera legale di arrivare e lavorare in Italia. Secondo dato incontrovertibile: enormi sono le colpe e le ipocrisie della Ue. Dalla malafede dei paesi che rifiutano quote di migranti ai vertici nei quali si stabiliscono regole poi non rispettate; dai finanziamenti “irrisori” a Italia e Grecia ( è la stessa Corte dei Conti europea a definirli così) all’incapacità dei governanti che partecipano al Consiglio Europeo smentendo intese e maggioranze raggiunte nell’Europarlamento. Non è il caso qui di rammentare i circuiti perversi innescati dai Paesi occidentali all’origine di tanta disperazione, specie in area sub- sahariana ( primo fra tutti il cd. engraving, ovvero l’accaparramento di terreni agricoli che provoca l’inurbamento forzato nelle bidonville di gigantesche masse di diseredati). Ma può essere utile invece sottolineare i dati ufficiali che dimostrano come non si tratti di invasione: nell’anno di maggior numero di richieste d’asilo in Europa, si trattava infatti di circa lo 0,25 per cento della popolazione europea, ovvero dello stesso numero di profughi accolti dall’Uganda ( paese poverissimo). Se non si tratta di invasione – ma così fa comodo presentarla, non solo a Salvini -, il continuo allarme “emergenziale” con il quale viene trattata la materia migratoria fa venire più d’un sospetto. Si gestisce “in emergenza” per avere qualche “mancetta” in più da un’Europa che così si tacita la coscienza di “accordi” sempre disattesi, rinviati, ignorati. Ma l’“emergenza” continua poi in Italia, perché aiuta ad aggirare controlli e ad alimentare illegalità. La Corte dei conti ci fornisce il dimensionamento del fenomeno: dal 2011 all’anno scorso, i costi nel settore dell’accoglienza sono saliti da 840 milioni di euro a 4,4 miliardi, in un “disordine contabile” inutilmente denunciato dalla Corte. Molte strutture disseminate lungo il territorio italiano assumono, ormai regolarmente, costi “in deroga” ( c’è una legge del ’ 95, usata come grimaldello, che lo consente). Debiti “fuori bilancio” che finiscono nei documenti contabili di numerose amministrazioni locali e nei ministeri interessati, solo e sempre giustificati dall’emergenza. “Emergenza” che serve dunque a tutti, in questo valzer folle nel quale il coefficiente stimato di perdita, nella gestione dei costi- standard per immigrato, si aggira sul 90%: cioè solo il 1 euro su 10 viene realmente utilizzato per il migrante. Ecco perché, per sovvertire la narrazione salviniana, da subito e senza spese, sarebbe opportuno cancellare non solo i “decreti sicurezza” – dai quali traspare l’aberrante logica salvinian- dimaiesca delle Ong “taxi del mare” e di un’ignoranza brandita come arma -, ma anche e soprattutto la legge Bossi- Fini che di fatto non consente una gestione “ordinaria” dei flussi migratori. Cosa che consentirebbe di contrastare anche le deviazioni emergenziali, con i loro interessi occulti, nonché la cultura arretrata e pavida che non riesce a vedere la luna dietro il dito. Ovvero che, in un territorio idrogeologicamente dissestato e in molte parti disabitato, l’immissione di forza- lavoro giovane e motivata potrebbe far rispuntare fiori dalle pietre. E alimentare le future pensioni degli italiani: si è calcolato che ci servirebbero 320mila immigrati regolari l’anno per determinare un incremento di 10miliardi netti di contributi. Ma chi ha davvero voglia di smetterla di gridare “al lupo, al lupo Matteo” e metterlo a tacere, piuttosto, con una politica degna di questo nome?
La nave dei centri sociali batte cassa: "Torniamo in mare, ma servono soldi". Riparte l'assalto della Mare Jonio: "Dopo 5 mesi fermi, salviamo altri migranti". E subito battono cassa: "Servono soldi". Mauro Indelicato, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Libera di nuovo di intraprendere il largo, ma fino ad un certo punto. Sì, perché per far riprendere la navigazione alla nave Mare Jonio, adesso l’Ong Mediterranea Saving Humans cerca fondi. Il mezzo in questione è quello entrato nelle cronache per via del braccio di ferro che, nel marzo del 2019, si è innescato tra la stessa organizzazione non governativa italiana che possiede la nave ed il governo gialloverde allora in sella. Lo scorso anno, il “duello” a distanza tra l’Ong ed il governo Conte I ha rappresentato il “caso zero” di una stagione contrassegnata, fino a quando al Viminale è rimasto il segretario leghista Matteo Salvini, dagli scontri tra le organizzazioni e le autorità italiane. Tutto in particolare è partito il 19 marzo 2019, quando la Mare Jonio è entrata al porto di Lampedusa con alcuni migranti a bordo nonostante il divieto imposto dalla Guardia di Finanza. La procura di Agrigento in quell’occasione, dopo il tentativo di forzare il blocco da parte dell’equipaggio della nave di Mediterranea Saving Humans, ha sequestrato il mezzo ed ha disposto lo sbarco dei migranti. Contestualmente, i magistrati siciliani hanno aperto un fascicolo nei confronti di Luca Casarini, capo missione, e Pietro Marrone, capitano della Mare Jonio. Un’indagine che ha subito una svolta importante lo scorso 29 gennaio, quando la procura di Agrigento ha chiesto l’archiviazione per i due indagati. Nei giorni scorsi poi, la sezione civile del tribunale di Palermo ha decretato il dissequestro della stessa Mare Jonio: la nave infatti, dopo le vicende giudiziarie seguite a quel braccio di ferro del 2019, è rimasta per quattro mesi ancorata all’interno del porto di Licata. Su di essa, in particolare, pendeva un provvedimento di fermo amministrativo tolto dai magistrati del capoluogo siciliano lo scorso 5 febbraio. Da subito i vertici di Mediterranea Saving Humans, rappresentati da Alessandra Sciurba, hanno annunciato un repentino ritorno in mare del mezzo, paventando dunque l’attuazione di nuove missioni nel Mediterraneo centrale: “La nostra nave è libera, e adesso vogliamo tornare in mare al più presto, a salvare i profughi di una guerra terribile dall'annegamento e dalle catture delle milizie libiche – ha dichiarato Alessandra Sciurba in occasione del dissequestro del mezzo – a salvarci, insieme alle altre navi della società civile, da scelte criminali e velenose come quelle del rinnovo del memorandum con la Libia”. Tuttavia, come detto, l’organizzazione al momento non ha i soldi per far tornare la Mare Jonio a navigare. “Torniamo in mare ed ancora una volta dobbiamo e possiamo farlo solo tutti e tutte assieme – ha dichiarato l’armatore Alessandro Metz –. Quattro mesi di sequestro ci hanno costretto a spese e lavori ma soprattutto ci hanno tolto il bene più prezioso, il tempo. Quello che non ci hanno fatto perdere è la voglia e il bisogno di essere là dove è giusto stare, nel Mediterraneo Centrale”. Dunque, servirebbero contributi e fondi per realizzare nuove missioni ed accodarsi alle altre Ong che nelle ultime settimane hanno portato tra Italia e Malta più di 600 persone: “Dobbiamo riempire i serbatoi, rifornire cambuse, organizzare l'equipaggio e fornire nave Mare Jonio – ha proseguito Metz in una dichiarazione ripresa da LaPresse – di dotazioni indispensabili al salvataggio”. In totale, occorrerebbero circa 100mila euro. È questa, dunque, la somma che servirebbe per una nuova missione della Mare Jonio: “L'obiettivo è raccogliere 100mila euro per ripartire”, ha infatti concluso Alessandro Metz. Mediterranea Saving Humans è nata sul finire del 2018 ed è stata la prima Ong italiana a svolgere missioni in mare. Le sue attività sono partite grazie ad un prestito di Banca Etica, a cui hanno fatto da garanti alcuni personaggi di spicco della politica e, in particolare, della sinistra italiana. Tra questi, l’ex presidente della Puglia Nichi Vendola ed il parlamentare di LeU Erasmo Palazzotto. Non è la prima volta che l’Ong organizza una raccolta fondi: la stessa Mare Jonio, ad esempio, sarebbe stata acquistata a seguito di una campagna di crowdfunding. Oggi dunque la storia sembra ripetersi, con Mediterranea che vorrebbe anche sfruttare una posizione dell’attuale governo giallorosso più “morbida” nei confronti delle Ong.
''Io marocchino contro l'immigrazione: un business, porta al degrado". Il marocchino, in Italia da anni, critica l’accoglienza senza regole del nostro Paese e afferma che la possibile sanatoria per gli immigrati irregolari è un errore. Gabriele Laganà, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. ''Non se ne può più. Arrivano con i barconi, anche chi non ne ha diritto, e lo Stato li abbandona. Il problema poi è degli italiani e degli immigrati che rispettano le regole. Gli italiani non sono razzisti, sono esasperati' dagli irregolari che compiono reati'. A parlare non è qualche estremista di destra, un leghista, uno xenofobo o quant’altro bensì un cittadino marocchino perfettamente integrato nel nostro Paese. Lui è Banni, immigrato arrivato in Italia oltre 20 anni fa ed ora vive a Belluno. Mai un problema con nessuno. Anzi. Banni in quella tranquilla città del Veneto si sente a casa, ben accetto da tutti. Lui è orgoglioso anche del nomignolo che gli hanno dato in modo amichevole e affettuoso le persone del posto: il ''bellunese nero''. Del resto, sa che in questo appellativo non c’è nulla di offensivo. È semplicemente un modo simpatico di farlo sentire parte integrante della comunità. Lo stesso Banni ormai si sente italiano a tutti gli effetti tanto che, come lui stesso ha affermato, se fosse necessario sarebbe disposto a dare la sua vita per il bene del Paese. Il “bellunese nero” è una persona sincera, cordiale, buona d’animo e stanca di quanto sta accadendo in Italia per l’immigrazione senza regole che crea problemi da nord a sud. Banni, infatti, ci tiene a far sapere di non essere contro le persone che giungono qui in cerca di una vita migliore e che considera loro stesse vittime di un sistema più grande. Chiede solo a costoro il rispetto delle regole e della civile convivenza. Perché altrimenti i problemi si riversano sugli italiani e gli immigrati integrati. Il suo non è solo uno sfogo ma anche un messaggio allo Stato affinché corra ai ripari prima che sia troppo tardi. Il timore è che si crei un clima di sfiducia, sospetti e odio tra italiani e stranieri. ''A Belluno si vive bene, le persone sono riservate ma dal gran cuore. Purtroppo però negli ultimi anni la situazione sta cambiando. E in peggio''. Banni lo dice chiaramente. La colpa è di chi arriva in Italia anche se non ne ha diritto e per campare entra in giri fuorilegge. ''Ditemi che guerra c’è in Sudafrica, in Senegal o Camerun'', afferma il “bellunese nero” che poi si chiede del perché vengano tutti in Italia. Una risposta la trova lui stesso: ''In Francia e in Germania, ad esempio, le cose funzionano in modo differente. Ci sono regole dure. Bisogna studiare, imparare la lingua, fare esami. In Italia vengono e non sanno neanche scrivere''. Poi il ''bellunese nero'' lancia un attacco a quello che considera essere il business compiuto sulla pelle dei migranti. Questi ultimi raggiungono l’Italia perché credono che sia il Paradiso. L’Italia, a sua volta, non chiude i porti perché, in cambio, riceve milioni dalla Ue. A questo punto gli stranieri, secondo Banni, o lavora nei campi o, essendo irregolari, per sopravvivere è costretto a compiere reati. Ciò non fa altro che accrescere la tensione tra italiani e migranti. Il coraggioso marocchino ammette con amarezza che in questi ultimi tempi qualche frase contro gli stranieri viene proferita. Non solo. Anche qualche bimbo figlio di immigrati regolari e integrati sta avendo problemi a scuola. La colpa non è degli italiani o degli stranieri che vivono in Italia ma di chi sfrutta il business dei disperati. Banni sottolinea che a Belluno arrivano per spacciare anche stranieri da altre località e che ormai la droga si trova ovunque. In passato, sottolinea il ''bellunese nero'', la gente che voleva fumarsi le canne doveva andare fino Padova per comprarsele. ''Adesso c’è tutto qua, anche in stazione, dove si vendono tutti i tipi di droga. Ma come è possibile? Ma stiamo scherzando? Queste cose prima non accadevano''. Banni è consapevole che spacciatori stranieri, spesso irregolari, entrano in azione e sfruttano le ingenuità e le fragilità dei ragazzini. Sta male quando lo dice. La voce è rotta dall’emozione. Ma trova la forza di proseguire. ''Andate nei pressi della stazione: vedrete tantissimi stranieri aggirarsi lì''. Allo stesso tempo, Banni dichiara più volte con forza che non è colpa della polizia, dei carabinieri o dei militari della Guardia di Finanza per quanto succede. ''Loro sono eccezionali. Fanno un incredibile lavoro per garantire la sicurezza di tutti noi. Girano tra le strade giorno e notte. Sono disponibilissimi. Appena c’è necessità subito corrono. Ascoltano, ci aiutano. Ci sentiamo al sicuro con loro, io li posso solo ringraziare per quanto fanno''. Per il “bellunese nero” quello che non va sono le leggi che legano le mani agli uomini delle forze dell’ordine. ''Non è questione di essere razzisti, perché anch’io sono un nero di fatto – prosegue- Ma da quando sono entrati i migranti irregolari, a Belluno c’è di tutto''. La colpa, rimarca Banni, è soprattutto dello Stato: ''Li fai entrare e poi li abbandoni, magari gli dai 30 euro al giorno. Ai tg si vedono solo quando arrivati sui barconi. Ma non si vede quello che fanno dopo''. Questo secondo Banni crea situazioni poco piacevoli.''Loro magari lavorano, gli italiani no. Loro hanno la macchina, gli italiani no''. Per il “bellunese nero” ciò può provocare risentimento. ''Gli italiani non sono razzisti'', sottolinea Banni che suggerisce alla politica come muoversi. ''Limitare gli ingressi e fare controlli. Chi non ha diritto a stare qui deve essere prima curato e il giorno dopo condotto in aeroporto e rispedito nel suo Paese d’origine''. Se si fa così, si dice convinto Banni, ''girerebbero voci anche in Africa'' e così anche gli altri che voglio partire con i gommoni capirebbero che sarebbe inutile. In sostanza, si chiede l’onesto cittadino, perché in Francia e Germania sugli irregolari si agisce in una maniera e in Italia no? ''Quella Francia- continua- che ha impoverito l’Africa''. ''Cosa pensi che faccia uno che ha impiegato anni per arrivare in Europa, percorso 2mila chilometri per arrivare solo fin in Marocco e poi farne altri su un gommone dove ha visto le persone morire? Qui su 200 persone ne arrivano 30. Secondo voi se gli danno l’espulsione questo se ne va?'', si chiede Banni che racconta di aver saputo di un ragazzo che per pagarsi il viaggio ha venduto casa ed è morto in mare. Il ''bellunese nero'' considera un grave errore la possibile sanatoria per gli immigrati irregolari in Italia, soprattutto se poi non seguirà un preciso piano di integrazione. ''Ho paura che in futuro ci possano essere problemi causati da chi viene qui. Bene che si tuteli chi è già in Italia ma poi basta''. Banni tempo fa ha perso la mano dopo un incidente sul lavoro. Ma non si scoraggia. Chiede solo di poter vivere tranquillo insieme alla sua famiglia nel Paese che lo accolto senza pregiudizi. ''Dobbiamo fare qualcosa per gli immigrati onesti e che vogliono vivere secondo le regole- continua- e io voglio fare arrivare il mio messaggio allo Stato''.
"Multe più basse a ong e permessi": ecco il piano della Lamorgese. La Lamorgese spiega il suo piano per la gestione dei flussi migratori e di fatto spalanca le porte a nuovi arrivi dal Nord Africa. Angelo Scarano, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Porte aperte, meno multe alle ong e più permessi umanitari. Il piano sui migranti del ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, è perfettamente agli antipodi di quanto varato dalla precedente gestione a firma Salvini. In un'intervista a Otto e Mezzo, il titolare degli Interni ha parlato delle prossime mosse che intende fare sulla gestione di flussi migratori. E a quanto pare la strategia che intende adottare il Viminale potrebbe essere un "richiamo" per chi vuol tentare la traversata verso l'Italia dal Nord Africa. Nel mirino infatti finiscono i dl Sicurezza: "Nel rivedere i decreti ci saranno multe più basse per chi imbarca migranti senza il via libera delle autorità". Si pensa di tornare "alla versione originale del testo, dai 10mila a 50mila", ha detto. Inoltre, sui permessi umanitari, "penso che dobbiamo ampliare un po' la categoria, per evitare quello che stava succedendo a dicembre, con tutti quelli che non avevano permessi umanitari che venivano buttati fuori per strada", ha aggiunto. Insomma tutte mosse che potrebbero cambiare radicalmente i flussi migratori verso il nostro Paese e di fatto potrebbe far aumentare le partenze dal Nord Africa. L'idea del ministro di fatto era già stata anticipata in giornata da Graziano Delrio con parole piuttosto chiare che hanno lasciato aperta la porta ad una riapertura degli Sprar chiusi in precedenza da Salvini. Ma il ministro degli Interni comunque teme le tensioni libiche e di fatto segnala il rischio di un'ondata migratoria senza precedenti: "Un Paese così instabile può avere gravi ripercussioni sull'entità dei flussi migratori. E' questo il problema da risolvere, e la speranza è che si possa trovare maggiore stabilità per via politica, alla conferenza di Berlino". Intanto nelle ultime ore il Viminale ha assegnato due porti di sbarco ad altrettante navi con a bordo migranti: Messina per Open Arms e Taranto per Sea Watch. Un gesto che rende bene l'idea dell'orientamento di questo governo sulle politiche migratorie. Infine il ministro ha anche affrontato la vicenda Gregoretti che riguarda molto da vicino Matteo Salvini: "È la regola generale, non vale solo per Salvini. Non amo entrare su questo argomento e in certe dinamiche ma in quanto ministri nessuno di noi è sottratto o può sottrarsi alle leggi vigenti. Come ex ministro va davanti al Tribunale dei ministri e lì si decide se deve essere processato o meno".
E al Viminale si prepara (sottovoce) il piano: così riparte il carrozzone dell'accoglienza. La Lamorgese ha incontrato i vertici delle ong, comprese quelle sotto processo. Chiara Giannini, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. Nei corridoi del Viminale le bocche si storcono. «Questi vogliono far ripartire l'invasione per far lavorare le cooperative rosse come ai tempi del governo Renzi», dice qualcuno. Il piano è chiaro e davanti agli occhi di tutti. Il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, ha già ricevuto due volte i rappresentanti delle Ong che operano nel Mediterraneo, anche quelli delle organizzazioni indagate per favoreggiamento all'immigrazione clandestina, come la Sea Watch, la Open Arms che dovrà andare a processo su richiesta della Procura di Ragusa e Mediterranea, che ha due navi sotto sequestro. La scusa è quella di una collaborazione, ma la titolare del Viminale, forse intenerita dalle storie di conflitti in Libia, apre i porti in barba ai Decreti sicurezza di Salvini, facendo entrare migliaia di migranti in Italia e legittimando i taxi del mare. A breve anche il ministro dei Trasporti, Paola De Micheli, incontrerà le Ong. Gli ultimi immigrati arrivati, 237, non è dato di sapere se saranno ricollocati in Europa o meno. Tutto tace in un clima di segretezza che la dice lunga. In quattro giorni dalle coste libiche sono partite 1.611 persone. La guardia costiera di quel Paese ne ha intercettate 967. Ciò che è strano è che tutti i soccorsi sono arrivati dopo una chiamata di Alarm Phone, la piattaforma telefonica di salvataggio di padre Mussie Zerai, indagato anche lui per favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Quella del recupero dei migranti in mare sembra una macchina ben strutturata su cui il governo vergognosamente tace. Francesca Totolo, esperta di Ong e migrazioni, ha dimostrato in uno studio come i barconi partano solo quando le imbarcazioni dei soccorsi sono nella zona Sar libica. Il giochetto è chiaro: le navi si piazzano di fronte alla Libia, parte la chiamata di Alarm Phone, si soccorrono i migranti appena partiti che poi vengono dritti verso le coste italiane. Dove è finito il piano sulla rotazione dei porti che comprendeva anche Malta? E perché Ocean Viking, ad esempio, risulta sul sito dell'Imo (International maritime organization) come nave da piattaforma e non da soccorso quando invece recupera sistematicamente immigrati? Sono tutte domande che in molti al Viminale si pongono. Oltretutto, in una recente inchiesta del Guardian, si accusa l'Unhcr di aver spinto in mare donne e bambini perché i centri libici sarebbero sovraffollati. Il tutto ancora nel silenzio assoluto delle istituzioni italiane. La verità è che il piano del governo è quello di operare per far ripartire la macchina dell'accoglienza. Lo si è visto con la proposta che prevede il permesso di soggiorno illimitato e l'abolizione dei rimpatri per legge. Lo si nota per il silenzio mediatico calato sugli arrivi, con i giornali pro esecutivo che fanno finta di niente, mentre al Viminale sono tutti al lavoro per garantire che gli sbarchi vadano a buon fine. Per la Lamorgese l'aumento degli arrivi dipende da crisi internazionali, guerra libica, Tunisia senza governo e bisogna «contestualizzare». La verità è che in tutta Italia ci sono le strutture dell'accoglienza che già si sfregano le mani annusando la prospettiva di guadagnare ancora sulle spalle di chi è in cerca di un futuro migliore.
I 4mila «figli» di Dedalus, che a Napoli accoglie i minori soli. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Coppola. Viaggio nella cooperativa che da dieci anni lavora per l’integrazione. Il coordinatore Glauco Iermano è l’unico italiano ad aver vinto il premio «Child 10». E gli ex utenti rimangono per fare i mediatori. Dal Gambia al caos di piazza Garibaldi, il flusso delle auto aggrovigliato, la tettoia della nuova metropolitana, arrivi, partenze, un intreccio indecifrabile di nazionalità, lingue, commerci; cinque euro in tasca che in una rara cabina telefonica bastano appena a dire «pronto». «Ma sono stato fortunato», racconta adesso Sulayman. Perché tra i vicoli possibili a Napoli ha imboccato quello che porta al Centro Nanà, Cooperativa sociale Dedalus, «sono come un loro figlio». Venuto su bene, elegante, sorridente, ex minore non accompagnato che oggi, 21 anni da compiere a giorni, lavora a sua volta con i ragazzini migranti: «Tutto l’affetto che volevo l’ho trovato qui». Da utente a operatore. È una delle specialità del centro, che è valsa al coordinatore Glauco Iermano il prestigioso premio internazionale «Child 10» (unico italiano) «per aver sostenuto negli ultimi dieci anni più di 4000 minori non accompagnati. Sotto la sua guida i ragazzi sono condotti verso un cammino di legalità, inclusione e opportunità, e in questo modo protetti dal rischio di sfruttamento. Concentrandosi sull’integrazione dei giovani migranti Glauco costruisce una società dove gli “stranieri” sono considerati una risorsa e non una minaccia». Dilal, dal Bangladesh a Napoli, lo spiega con parole sue e in italiano perfetto: «Diamo il cento per cento, se troviamo qualcuno con un grande cuore». Però non basta recuperare dalla strada o dalla piazza della stazione un adolescente perso, spiega Iermano a Buone Notizie. La sfida è dotarlo di tutti gli strumenti. E il più velocemente possibile, perché le tutele che ha da minore si perdono in un giorno, al compimento dei 18 anni. Quindi trovare il modo (bandi del Comune, finanziamenti europei e ogni altra possibile fonte) di farsi carico anche dei neo-maggiorenni, abbandonati dalla burocrazia in un momento particolarmente fragile e rischioso. Il Centro Nanà con le pareti colorate e un allettante calcetto appena all’ingresso, conta su una decina di operatori, assistenti sociali, esperti legali, insegnanti di lingua, volontari. In più gestisce quattro appartamenti, due per minori, altri due per neo-maggiorenni, nell’idea di avviare gli «ospiti» all’autonomia. «I ragazzi di oltre 18 anni che non riusciamo a prendere in carico - continua Iermano - cerchiamo comunque di renderli più forti, dal punto di vista della burocrazia ma anche della consapevolezza. Escono di qui con un codice fiscale, ma anche con una discreta padronanza dell’italiano e con alcune competenze che possono aiutarli a trovare un lavoro». Laboratori, lezioni, computer. Tutto semplice ma lindo e colorato. Una partita di calcetto improvvisata. Un ragazzino del quartiere che s’affaccia e magari decide di partecipare. Al «Buvero», il vecchio Borgo Sant’Antonio Abate tra la Ferrovia e la lunga arteria di via Foria, è una presenza importante. Così come è significativo che la sede principale della Cooperativa Dedalus sia poco più in là, all’ex Lanificio di Porta Capuana: «ventre» napoletano di antica sofferenza dove nei decenni si è innestata un’immigrazione spesso irregolare che irradia dalla piazza della Stazione (Garibaldi) verso il Centro Storico o poi su in direzione della Sanità. In quest’area, in particolare al Vasto, si sono registrati scontri tra abitanti e nuovi arrivati, commistioni tra criminalità locale e africana, disagi che rischiano di accendere tensioni. La Cooperativa lavora anche su questo, aprendosi alle seconde generazioni, ai giovani migranti ma anche ai bambini del quartiere, dialogando e favorendo (con successo) la convivenza. L’esperienza è di lunga data e molto radicata, Dedalus è dagli anni Ottanta punto di riferimento per l’indagine sul fenomeno migratorio, ben oltre Napoli. «Dagli anni Novanta - spiega la presidente Elena de Filippo - alla ricerca scientifica affianchiamo la “ricerca-azione”. All’inizio per promuovere e sollecitare politiche pubbliche sull’immigrazione». Poi sono scesi sul campo, occupandosi concretamente di vittime di tratta, minori non accompagnati, violenza familiare, e così via. La linea di coinvolgere come mediatori gli ex utenti è una costante. Dietro una scrivania del Centro Nanà può testimoniarlo Edlir, sbarcato in Italia dall’Albania nel ‘91. «Avevo 16 anni e facevo il primo anno di liceo». Salì a bordo della nave come in una gita improvvisata: «Lasciai lo zaino a una compagna di classe» e partii. Si ritrovò in Salento senza mezzi né famiglia. «So che cosa significa dormire fuori, essere senza una rete di sostegno, sentire la solitudine e piangere. Se trovi le persone giuste, tutto diventa più facile». «Mi piace - dice Amadou, 22 anni - aiutare chi ha bisogno: a me i ragazzi raccontano storie che ad altri non raccontano, perché io posso capire». Perché ci è passato in prima persona. Partito pure lui adolescente dal Gambia, pescato nel Mediterraneo dalla Marina italiana attaccato a una bottiglia di plastica come boa, mentre attorno a lui la gente affogava bevendo acqua e benzina. Di Napoli conosceva solo la squadra di calcio, dice. E adesso eccolo qui, sul divano di pelle e lo sfondo verde, maturo e diplomato. L’orgoglio di Margherita, 34 anni, che insegna italiano per stranieri e che qualcuno addirittura riesce a portarlo con le scuole serali fino alla «maturità»: «Due ragazzi si sono anche iscritti all’università!». Sorride: «È il lavoro più bello che esista, è come avere il mondo in classe». Per Hawa, 54 anni, arrivata ragazzina dalla Somalia, è come avere «diecimila figli maschi», scherza, oltre alla figlia che ha mandato a studiare in Olanda. Babysitter, badante, «lavoravo giorno e notte», finché non ha risposto a un bando per un corso di mediatore culturale, e ha cambiato vita. «Voglio aiutare il prossimo ad avere quello che non ho avuto io, accogliere chi è venuto dopo di noi. Per i ragazzi sono come una mamma. È bello, ma ti fa male quando qualcuno non riesce a seguire il progetto, scappa, o siamo costretti a farlo uscire. In tanti casi, in compenso, è una grande soddisfazione».
Mimmo Lucano, anche il Consiglio di Stato riabilita il “Modello Riace”. Jacopo Bongini il 09/06/2020 su Notizie.it. Il Consiglio di Stato ha confermato l'annullamento del provvedimento che escludeva Riace dallo Sprar, accogliendo il ricorso della giunta Lucano. A un anno di distanza dall’analogo parere positivo del Tar della Calabria anche il Consiglio di Stato conferma l’annullamento del provvedimento che aveva escluso il comune di Riace dallo Sprar, il Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati, e che era stato emanato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini quando alla guida del piccolo paese del reggino c’era ancora Mimmo Lucano. La sentenza riabilita completamente dunque le politiche dell’ex primo cittadino, che avevano fatto balzare Riace agli onori delle cronache di tutto il mondo come modello per l’accoglienza dei migranti. Il ricorso contro il provvedimento dell’ex ministro Salvini era stato presentato il primo gennaio del 2019 dall’allora vice sindaco di Riace Vincenzo Gervasi, facente funzioni del sindaco Lucano dopo che lo stesso era stato sospeso dalla carica a seguito dell’inchiesta della procura di Locri sul modello di accoglienza che era stato istituito nel comune. Nel frattempo però, le elezioni amministrative del maggio 2019 avevano visto la vittoria del candidato leghista Antonio Trifoli, facendo così cadere nel dimenticatoio la disputa tra il comune e il Viminale. Nell’elaborare la sentenza, sia il Tar della Calabria che il Consiglio di Stato avevano riscontrato numerose criticità nel provvedimento emanato dal ministero dell’Interno, tra cui ad esempio la mancanza di un termine preciso entro cui il comune avrebbe dovuto provvedere a risolvere le anomalie evidenziate dalle autorità, nonché il fatto che l’ordinanza stessa del ministero si basasse su un atto risalente a due anni prima; troppo datato per poter essere preso seriamente in considerazione al fine di una revoca dei finanziamenti statali per l’accoglienza dei migranti. Finanziamenti statali che, come evidenzia sempre il Consiglio di Stato nella sua sentenza, erano stati appena rinnovati per un ulteriore triennio. Nel documento si legge infatti che l’atto: “Era stato adottato a distanza di un mese dall’adozione del provvedimento che aveva rifinanziato il sistema per il triennio successivo, nonostante i rilievi e le criticità manifestate dal ministero dell’Interno”. Il Consiglio di Stato ricorda inoltre come la collaborazione tra Riace e le autorità statali in merito all’accoglienza dei migranti risalisse al 1998 e che mai erano stati adottati provvedimenti lesivi a carico dell’amministrazione comunale. Riace rimarrà dunque all’interno dello Sprar, per la gioia di Mimmo Lucano e per il dispiacere del suo salviniano successore.
La folle ricetta sull'immigrazione è il modello Riace. Riaprire gli Sprar. Costo? 150 milioni, destinati a lievitare. Antonella Aldrighetti, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. Le Sardine sognano il modello Riace - quello di Mimmo Lucano per intenderci costoso e attualmente in contrasto con i decreti Sicurezza ancora in vigore. Però per attuare il progetto hanno bisogno di riaprire gli Sprar, i Servizi per i richiedenti asilo, chiusi da Matteo Salvini e convertiti all'accoglienza e tutela dei minori non accompagnati. La richiesta la stanno ripetendo come un mantra tant'è che l'idea la porteranno in piazza sabato 25 gennaio a Recco, in provincia di Genova, dove rivendicheranno la riapertura dello Sprar locale, chiuso a dicembre scorso. Oltre al debutto delle Sardine nel nordovest dopo la manifestazione di Torino, questa di Golfo Paradiso sarà l'occasione per parlare ancora una volta di immigrazione così come la interpretano loro. Un vero e proprio chiodo fisso per il quale il progetto da portare avanti è limpido: tutti gli stranieri presenti in Italia e senza permesso di soggiorno dovrebbero usufruire sì dei Centri di accoglienza, ma soltanto fino a un massimo di sei mesi dopodiché dovrebbero approdare, indistintamente, sul territorio usufruendo degli Sprar. Lo scopo è quello di mettere in piedi un percorso in continuità per distribuire facilmente gli immigrati nei territori senza dover ricorrere alle ripartizioni con gli altri Paesi dell'Ue che fino a oggi si sono dimostrate inefficaci. Questo sarebbe il piano suggerito da Lucano quando il 6 gennaio scorso le Sardine si sono riunite a Riace. Sarebbe lui infatti che cercando di rifarsi una sorta di verginità con il movimento emiliano dopo essere stato raggiunto da un nuovo avviso di garanzia per aver rilasciato documenti di identità a chi non aveva il permesso di soggiorno: promuovere un nuovo tipo di accoglienza portando nelle casse di onlus, cooperative ed enti benefici risorse fresche e con esse consensi elettorali a iosa. Almeno lo spera. Già, quei consensi che farebbero comodo anche a Jasmine Cristallo, la leader delle Sardine del Sud, che sarebbe stata individuata come candidato sindaco del comune di Riace per le prossime amministrative. Per riaprire gli Sprar ci vorrebbero da subito circa 150 milioni di euro. E soltanto per il primo step, poi le cifre inevitabilmente lieviterebbero tra alloggi in affitto, corsi di lingua, corsi di formazione, inserimento lavorativo e scolastico per i minori. Significherebbe dover riattivare tutti i servizi correlati con i 1.800 comuni facenti parte dell'elenco Sprar, in cui sono scaduti i progetti. Circa 500 al momento. Mentre solo 350 sono stati quello prolungati fino a giugno 2020. Insomma la proroga firmata dal ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, ai ragazzi di Mattia Santori & C. non basta: bisogna fare di più. L'idea complessiva è quella di riaprire i Servizi ai richiedenti asilo e trasformare i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) in Sprar fin da subito di modo da dislocare gli immigrati che presentano la domanda per ottenere il permesso di soggiorno su tutti quei territori che si dicono propensi ad ospitare usufruendo del bonus di 700 euro per ogni straniero accolto. Addio controllo allora. Gli stranieri passerebbero dalla gestione del ministero direttamente ai comuni perché sarebbero questi a gestire e rendicontare le risorse necessarie. E soprattutto nei piccoli comuni sarebbe facile ottenere il favore elettorale degli occupati nell'ambito dei progetti di accoglienza.
Torino, richiedenti asilo come schiavi: 150 euro al mese per impacchettare pennarelli. Dieci ore al giorno, pausa di pochi minuti per pranzo, sorvegliati a vista da sfruttatori cinesi. Chi non aveva nulla da mangiare beveva l'acqua del bagno. Federica Cravero su La Repubblica il 17 gennaio 2020. Impacchettavano pennarelli di marchi famosi in condizioni massacranti in un capannone senza riscaldamento di San Mauro Torinese. Dalle 8 alle 18 tutti i giorni, sette giorni su sette, una pausa di pochi minuti per pranzo, sorvegliati a vista. Chi non aveva nulla da mangiare beveva l'acqua del bagno e basta. Ogni giorno dovevano confezionare almeno mille scatole per prendere un compenso giornaliero di 18 euro. L'elenco delle buste paga è un pugno nello stomaco: 150 euro, 400 euro, 58 euro, 300euro. Quando in tre su 45 si sono lamentati, pretendendo che la paga salisse almeno a 25 euro, sono stati licenziati in tronco. Licenziati, non semplicemente lasciati a casa, perché l'unica cosa in regola era il contratto part time e la busta paga che a loro - tutti richiedenti asilo di origine africana - serviva come documento per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ma ricevere quel foglio stampato era un lusso che costava 50 euro ogni mese. Ieri mattina davanti al giudice del lavoro si sono presentati i tre migranti che avevano trovato il coraggio di ribellarsi, assistiti dall'avvocato Simone Bisacca. Non c'era invece il padrone cinese che, secondo quanto raccontato ai magistrati, li teneva come in schiavitù. "Ci aveva tolto la dignità" , hanno detto al presidio che la Cub, che li segue nella causa, ha organizzato davanti al palazzo di giustizia. "Quando usciva ci chiudeva dentro a chiave, avremmo potuto morire se fosse scoppiato un incendio" . A molti, poi, il rumore delle chiavi che giravano nella serratura del portone ricordava quello delle porte delle prigioni libiche in cui erano stati detenuti. Un trauma che si rinnovava ogni giorno. Oltre alla causa di lavoro per ottenere i documenti per le pratiche dell'immigrazione, l'avvocato Bisacca ha presentato in procura anche un esposto per sfruttamento del lavoro, che ha fatto partire un'indagine penale. "Occorre risalire la catena dei committenti per accertare eventuali responsabilità negli appalti", precisa il legale. Ma è possibile che si riescano a dimostrare anche forme di caporalato. "E la cosa che lascia perplessi è che la società per cui lavoravano è ancora operativa e continua a sfruttare altri migranti che hanno bisogno di lavorare", spiega la Cub. La condizione di difficoltà a ottenere i documenti di soggiorno era quello su cui facevano leva i titolari dell'azienda, che prendeva appalti da diversi produttori, anche molto noti, per tenere sotto ricatto la manovalanza. "In qualità di richiedenti asilo - si legge nell'esposto - si trovavano in evidente stato di soggezione rispetto al datore di lavoro, data l'importanza per loro di poter provare di avere un'attività lavorativa utile al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il datore di lavoro non perdeva occasione di ricordare loro che se volevano continuare a lavorare e sperare di ottenere il permesso di soggiorno, dovevano accettare le condizioni di lavoro da lui dettate".
Colleferro, reclutava bengalesi per farli lavorare 11 ore al giorno nei campi: arrestato caporale. I quattro connazionali guadagnavano meno di 20 euro al giorno e vivevano in una baracca fatiscente senza né acqua né luce, in condizioni igieniche disumane. La Repubblica il 16 gennaio 2019. Costretti a lavorare per 11 ore al giorno senza sosta e a vivere in condizioni igienico-sanitarie disumane. Un bengalese reclutava connazionali per poi sfruttarli nei campi dediti alla coltivazione di prodotti agricoli in provincia di Roma. I carabinieri di Colleferro, con la collaborazione dei colleghi del comando carabinieri per la tutela del lavoro di Roma, hanno notificato un'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un cittadino bengalese di 46 anni, in regola con il permesso di soggiorno e con precedenti, perchè accusato del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. I carabinieri hanno avviato una vasta attività indagine che ha permesso di scoprire come il caporale, dopo aver reclutato quattro suoi connazionali, dai 24 ai 51 anni e tutti in regola con il permesso di soggiorno e incensurati, li impiegasse su un terreno agricolo affidato in concessione alla società di cui era amministratore di fatto, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno in cui versavano. In un terreno di 25mila metri quadrati destinato alla coltura di ortaggi misti e di canapa indiana, i militari hanno sequestrato due manufatti fatiscenti, senza pavimentazione, dove i quattro braccianti bengalesi erano costretti ad alloggiare privi di acqua e luce e delle più basilari condizioni d'igiene e sicurezza. I braccianti venivano impiegati per undici ore consecutive al giorno e per sette giorni la settimana senza fruire del riposo settimanale con un corrispettivo di meno di venti euro giornaliere. Inoltre, non venivano sottoposti alla prevista visita medica preventiva di idoneità al lavoro e vivevano in una baracca fatiscente ub condizioni disumane. Nei confronti della società agricola che ometteva di adottare modelli di organizzazione e di gestione idonei e che ha indebitamente percepito innegabili vantaggi economici, i carabinieri hanno sequestrato conti correnti per il valore di euro 73.500. Per il caporale si sono aperte le porte del carcere di Velletri dove resta a disposizione dell'autorità giudiziaria.
La pacchia non finisce mai 3 milioni alla sinistra chic e più soldi a ogni migrante. La diaria aumenterà a 30-35 euro al giorno Lo studio sull'accoglienza a enti vicini ai dem. Antonella Aldrighetti, Lunedì 13/01/2020 su Il Giornale. Se smontare pezzo per pezzo i decreti Sicurezza è uno degli atti che accomuna, senza remore, tutte le fazioni del governo giallorosso, ce n'è un altro che riempirà di soddisfazione i suoi sostenitori: l'abrogazione del decreto Salvini sul capitolato d'appalto che, fino a oggi, rivedeva al ribasso le tariffe per l'accoglienza degli immigrati. Che invece così torneranno a lievitare facendo riapparire il sorriso sulla faccia degli amministratori di coop, enti benefici e onlus che gestiscono i diversi Cas della penisola. Infatti con lo smantellamento del decreto ministeriale del 20 novembre 2018 l'asticella della quota, pro capite e pro die, per ogni immigrato ospitato nei centri si alzerà di nuovo: passando dai limiti tra 21 e 25 euro ai 30 e 35. Esattamente come fissato dai ministri Alfano e Minniti. Ma prima di dare il via all'abrogazione delle «tariffe Salvini» quale miglior scelta se non quella di affidare una valutazione sul campo degli standard di accoglienza attuali? Ed ecco infatti pronto il mandato per uno studio scientificamente accurato sugli standard qualitativi e quantitativi dell'accoglienza. Si potrebbe supporre anche che, mentre gli standard fino al 2018 appariranno in linea con le direttive comunitarie sia in materia di gestione che di sicurezza quelli a tariffa ridotta, da fine 2018 a oggi, dovranno essere rimodulati. Ed ecco che il gioco sarà pronto per aumentare di nuovo le quote giornaliere. Intanto rimane da attendere il lavoro di osservazione. A guadagnarsi l'incarico un raggruppamento temporaneo di imprese (Rti) di rara eccellenza che per 3 milioni di euro (2.272.950,20 + Iva precisamente) si andrà ad occupare di analizzare la bontà delle forniture di beni e servizi per la gestione e il funzionamento dei centri di prima accoglienza, con tanto di stima sull'abbattimento di ogni sovraffollamento e la diminuzione del numero dei centri. Certo, non può passare inosservato che tra i fortunati aggiudicatari dell'appalto ci sia anche una consistente fetta chic-intellettuale che da anni si muove sul selciato del buonismo e dell'accoglienza a ogni costo: la società Cles srl guidata da Alessandro Ferdinando Leon, figlio del più celebrato Paolo, e ancora il Cespi di cui è presidente l'ormai solo dirigente del Pd Piero Fassino e che, all'interno, vanta come ricercatrice Veronica Padoan, figlia dell'ex ministro dell'Economia. Ma non è finita qui. Il gruppo è affiancato anche dal Codici, la cooperativa sociale milanese presieduta da Massimo Conte fautore della battaglia per l'integrazione di Rom e Sinti, il centro di ricerca Reflect e, non ultima, l'area sociologica del Cnr Incres di Torino. Tutti al lavoro per ridare smalto a quell'accoglienza che Matteo Salvini, con l'asserzione «la pacchia è finita» aveva iniziato a ridimensionare già con buoni risultati nei primi mesi di governo. La locuzione tuttavia non era rivolta esclusivamente agli stranieri perdigiorno ma anche agli speculatori dell'accoglienza che, all'epoca si lamentarono a gran voce su tutti i canali a loro disposizione dei tagli in itinere. Oggi i piddini al governo devono sbrigarsi a fare ammenda e mettere in campo questi nuovi provvedimenti per far recuperare ai loro elettori cooperazionisti almeno una parte degli euro persi. Occhio ai nuovi, prossimi bandi di gara per la gestione dei Cas allora: la pacchia è tornata. Ora sì che le coop, gli enti benefici, le onlus e le ong tornano a esultare.
Poliziotti costretti a liberare i clandestini: "I rimpatri? Dobbiamo pagarli noi". Libero Quotidiano il 12 Gennaio 2020. "Immigrazione: per la sicurezza dei cittadini livornesi o pagano i poliziotti o gli stranieri irregolari restano liberi di circolare sul territorio". È la denuncia pesantissima che arriva dal Sindacato italiano unitario lavoratori polizia, che fa chiarezza su due episodi avvenuti a Livorno negli ultimi giorni di dicembre 2019, quando il ministero degli Interni aveva già chiuso il bilancio. "Nel primo caso - racconta Angela Bona, segretario provinciale del sindacato, al Giorno - il clandestino è stato accompagnato al Cie di Trapani con volo di linea pagato dal ministero, ma i due agenti hanno dovuto anticipare le spese e il sostentamento dello straniero. Al rientro hanno avuto il rimborso". Il secondo, invece, è quello che ha sollevato la protesta: "Durante i controlli in piazza Garibaldi è stato individuato un clandestino. Abbiamo avvertito l'ufficio immigrazione che ha dato disposizioni affinché l'uomo venisse accompagnato in un centro di identificazione. I poliziotti hanno chiesto l'indennità di missione ma, di fronte alla risposta negativa, questa volta si sono rifiutati di anticipare i soldi". E così il clandestino è stato rilasciato libero di circolare sul territorio e invitato a ripresentarsi nei giorni successivi in questura, cosa che nessun disperato farebbe mai. "Non ne possiamo più - denuncia il sindacato - qualcuno si deve assumere le proprie responsabilità".
· Morire di Accoglienza.
Da liberoquotidiano.it il 7 ottobre 2020. Una storia tragica che ha visto la morte di un migrante 15enne a bordo della nave quarantena Allegra. Abou, questo era il suo nome, è rimasto sull'imbarcazione per dodici giorni, dal 18 al 30 settembre. Solo dopo le visite mediche del 28 e 29 settembre, è stato disposto il trasferimento in ospedale. Intubato - riporta Repubblica - il giorno dopo è entrato in coma per poi morire poco dopo, il 5 ottobre. Abou, spiega il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, era denutrito, aveva anche i segni delle torture sul corpo. "Solo il 28 un medico se n’è accorto, ma era già troppo tardi”, dice la sociologa Alessandra Puccio, che il tribunale dei minori ha nominato tutrice del ragazzo. Proprio lei assicura di "voler andare a fondo della questione, perché quello che è accaduto non si verifichi più. Mi hanno detto che per giorni c’è stato solo un medico per i 600 migranti della nave quarantena, oggi ne è arrivato un altro”. La notizia, che è a dir poco raccapricciante, non ha però destato alcuna indignazione. Il motivo? Matteo Salvini non è più ministro dell'Interno. Eppure la tragedia è avvenuta proprio con un governo, quello Pd e Movimento 5 Stelle, che si vanta di combattere per i diritti dei migranti, e a pochi giorni dalla richiesta di archiviazione per lo stesso Salvini, accusato di sequestro di persona per i migranti bloccati sulla nave Gregoretti nel luglio 2019. Sarà, ma quella dei giallorossi, arrivati a questo punto, non può che sembrare una barzelletta.
Aveva sconfitto mostri, lo ha ucciso l'egoismo. La tragedia di Abou: in fuga dalle torture dei libici, ucciso dall’egoismo degli italiani. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. I Berberi sono un popolo folle, convinti di rappresentare l’umanità archetipa, il primo popolo ad essere sorto sulla terra, planando dalle stelle. La loro follia più grande è la lotta senza sosta contro il deserto: affrontano con la spada la sabbia, convinti che arriverà il giorno della vittoria. Girano il Sahara dal fondo delle ere, e della loro follia hanno infettato tutti i popoli che si affacciano sul deserto, addirittura tutta l’Africa. Il loro male attacca chiunque abbia in mente di compiere una grande impresa. E l’impresa più grande degli africani è diventata una sola: l’Europa. Abou era già folle a 15 anni, forse ci era nato con la follia, sotto la coda a doppia punta della costellazione dell’aquila, l’augurio che rende immortali. E solo chi è convinto di essere immortale attraversa l’inferno di fuoco del Sahara, sopravvive all’inferno di botte della Libia, e affronta la distesa di sale verde del Mediterraneo. E Abou aveva affrontato tutto con serenità: la sete, la fame, le torture. Come tutti i disperati che arrivano da Sud si sentiva immortale. Aveva vinto il deserto, le offese, il mare. Era salito felice sulla Open Arms che l’aveva tolto dall’acqua, era trasbordato tranquillo sulla nave Quarantena Allegra. Senza fiato, con solo la pelle intorno alle ossa, si era lasciato portare in ospedale. E Abou ce l’aveva fatta contro tutte le battaglie più dure. Ma l’Occidente è un mare beffardo, costruisce abissi a due metri dalla riva. Abou ci è finito nell’abisso, perché la follia è solo un sogno, non è un documento valido in Europa. Un bambino può abbattere i mostri peggiori, quello che non riuscirà mai a sconfiggere è il cinismo. E Abou, con i suoi 15 anni, non lo poteva sapere che deserto, torture, mare, sono niente. Che il mostro dei mostri è l’egoismo umano. Il suo è stato fin dall’inizio, dalla Costa D’Avorio, un viaggio verso la morte, un’agonia dilatata che dal 18 settembre è salita con lui sulla nave della ONG, la Open Arms, che con lui ha trasbordato sulla nave quarantena italiana, e gli ha fatto compagnia sull’ambulanza che lo ha portato in ospedale. Abou è morto di stenti, di botte, lasciato nelle mani di una morte che gli era dipinta in faccia, nel corpo. Sarebbe bastato guardare. Non c’erano occhi per un mucchio d’ossa, talmente folle che si era messo in testa di compiere la grande impresa a 15 anni. Gli hanno mentito tutti: le leggende berbere, la costellazione dell’aquila, le stelle. Sarebbe bastato solo un po’ di cura, di umanità, per trasformare in realtà le favole di una speranza bambina. Abou è arrivato in Italia in un tempo sbagliato, il peggiore fra tutti i tempi passati per chi ha bisogno di un rifugio. I suoi fratelli, a migliaia, sono già in viaggio, in corsa per l’impresa; neppure loro lo sanno che il mostro peggiore lo incontreranno quando ormai si sentiranno in salvo.
La denuncia dell’Unhcr: “Ritardi inaccettabili”. Naufragio al largo della Libia, almeno 45 morti: arrestati i superstiti della strage. Redazione su Il Riformista il 19 Agosto 2020. Almeno 45 migranti sono morti a seguito di un naufragio a largo delle coste della Libia. Lo riferiscono l’organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, secondo le quali si tratta del “più grande naufragio registrato al largo delle coste libiche quest’anno”. L’episodio risale al 17 agosto. Le due organizzazioni “chiedono una revisione dell’approccio degli Stati alla situazione dopo questo ultimo tragico incidente nel Mediterraneo. È urgente rafforzare l’attuale capacità di ricerca e soccorso per rispondere alle richieste di soccorso”. A raccontare l’odissea sono stati i 37 sopravvissuti alla strage, principalmente da Senegal, Mali, Ciad e Ghana, soccorsi da pescatori locali e in seguito detenuti allo sbarco. Hanno riferito al personale dell’Oim che altri 45, tra cui cinque bambini, hanno perso la vita dopo che il motore della nave è esploso al largo della costa di Zwara. Almeno 302 migranti e rifugiati sono morti su questa rotta finora quest’anno. Secondo il Missing Migrants Project dell’Oim e l’Unhcr, l’attuale numero stimato di vittime è probabilmente molto più alto. Le Organizzazioni riconoscono “le continue sfide presentate dagli arrivi via mare e accolgono con favore gli sforzi degli Stati costieri del Mediterraneo per continuare ad accogliere rifugiati e migranti soccorsi. Nel contesto della pandemia COVID-19, due terzi dei paesi europei hanno trovato il modo per gestire i propri confini in modo efficace, consentendo al contempo l’accesso ai propri territori alle persone in cerca di asilo. Gli screening medici alle frontiere, la certificazione sanitaria o la quarantena temporanea all’arrivo sono alcune delle misure messe in atto da una serie di paesi europei e di altri paesi. La pandemia non dovrebbe essere usata come scusa per negare alle persone l’accesso a tutte le forme di protezione internazionale. Il 17 agosto 45 persone hanno perso la vita nel più tragico naufragio registrato al largo delle coste libiche quest’anno. Oltre 17mila persone sono arrivate in Italia e Malta quest’anno in nave dalla Libia e dalla Tunisia, un triplo rispetto al 2019. Tuttavia, il numero è drasticamente diminuito rispetto agli anni precedenti al 2019 ed è gestibile con volontà politica e solidarietà dell’Ue con le coste europee”.
Venezia, la confessione choc di un bimbo magrebino: "Mi farò esplodere". La rivelazione del ragazzo di 11 anni ha scatenato il panico. I carabinieri stanno indagando dopo la denuncia da parte di una madre. Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Andare in Siria per farsi esplodere in nome di Allah. Questo il piano rivelato da un bambino di origine magrebina ai suoi compagni di classe nel corso dell'intervallo: il piccolo avrebbe dunque confessato agli amici l'intenzione di farsi saltare in aria. Il fatto è avvenuto nel comune di Cavarzere, che conta appena 13mila abitanti in provincia di Venezia: qui è scattato l'allarme dopo la denuncia da parte di una madre. "Andrò in Siria a combattere, dove c’è anche mio zio e mi farò esplodere in nome di Allah". A pronunciare tali parole sarebbe stato un bimbo, non un fantomatico integralista islamico. Il caso è subito esploso sui social, dove una donna ha sollevato la questione: "Apprendo, senza troppo stupore, da mia figlia che frequenta l’ultimo anno della scuola primaria, di un suo compagno di classe di origine magrebina che, con orgoglio e convinzione, racconta ai suoi amichetti che si farà saltare in aria in nome di Allah e che vuole andare in Siria a combattere con suo zio". L'imprenditrice sul proprio profilo Facebook ha scritto: "Questo è un bimbo che mi auguro non capisca cosa dice ma che purtroppo cresce in un ambiente di odio verso chi li ospita. Benvenuta integrazione!". A rivelarlo è La Nuova Venezia.
Indagano i carabinieri. La versione dei fatti ora è al vaglio dei carabinieri che, di concerto con l'autorità giudiziaria, si stanno occupando del caso con grande discrezione. Si tratta di una confidenza segreta rivelata per togliersi un peso oppure una marachella per sentirsi importante e attirare le attenzioni? Le verifiche ora ruotano attorno a due questioni di estrema importanza: da una parte bisognerà appurare l'esistenza o meno, all'interno della famiglia, di un presunto combattente affiliato all'Isis che si troverebbe in Siria insieme ai tagliagole del nuovo Califfo; dall'altra bisognerà stabilire da chi e in quale occasione il giovane possa aver ascoltato un proposito del genere. Nel frattempo nella giornata di ieri la mamma del bimbo ha incontrato la dirigente scolastica e il corpo docente: in attesa di accertare i dettagli della vicenda, non è stato adottato alcun provvedimento nei confronti del ragazzino che ora può tornare tranquillamente tra i banchi di scuola. Come riportato dall'edizione odierna de La Verità, l'11enne vive nel paese veneto con la mamma e i cinque fratelli; il padre invece si sarebbe trasferito in Francia per motivi di lavoro e tornerebbe di rado nel paese veneto.
Naufragio in Tunisia, si aggrava il bilancio: 52 migranti morti. Francesco Ferrigno il 12/06/2020 su Notizie.it. Sono 52 le vittime del naufragio che ha coinvolto un barcone di migranti al largo della Tunisia. Le autorità sono ancora alla ricerca di un disperso. Tragedia in mare al largo della Tunisia: secondo fonti locali sarebbe salito a 52 il numero dei cadaveri recuperati per il naufragio di un barcone che trasportava 53 migranti. Rimane infatti ancora un disperso che i soccorritori stanno ancora cercando di fronte alle coste africane. Ed è una strage di donne e bambini quella che si stanno trovando di fronte le autorità intervenute. La maggioranza dei cadaveri finora recuperati sono appunto di bambini o donne, tra cui una in stato di gravidanza. Il naufragio è avvenuto in Tunisia nell’area del mare situata tra El Louza (Jebeniana) e Kraten al largo delle isole Kerkennah. Stando alle prime informazioni il barcone era partito da Sfax nella notte tra il 4 ed il 5 giugno ed era diretto verso le coste italiane e contava a bordo 53 migranti di origine subsahariana. Nel commentare il naufragio, il rappresentante dell’Unhcr in Tunisia Hanan Hamdan ha dichiarato: “Sono profondamente rattristato dall’aver sentito parlare di donne e bambini che hanno perso la vita in quei viaggi pericolosi e preoccupato per questa nuova tendenza nelle partenze. Dobbiamo fornire alle persone alternative significative che possano impedire scelte estreme nella ricerca di una vita migliore”.
Il barcone partito da Sfax. Durante le ricerche è stato recuperato anche il cadavere di un tunisino 48enne originario di Sfax, che sarebbe stato al timone del peschereccio affondato. Secondo un primo bilancio i corpi rinvenuti sarebbero appartenuti a 24 donne, 9 uomini, 3 bambini di vari Paesi dell’Africa sub-sahariana, ma con il proseguire delle ricerche il numero dei cadaveri è salito a 52. Al lavoro nel tratto di mare interessato dal naufragio alla ricerca di altri dispersi ci sono unità della Marina militare e della guardia costiera, con l’ausilio dei sommozzatori delle forze armate e della protezione civile.
Donne e bambini. Tra le donne naufragate ce n’era anche una a fine gravidanza mentre i bambini avevano età intorno ai 3 o 4 anni. Il lavoro delle autorità sta proseguendo e si tratta ancora di un bilancio quasi definitivo.
Come già accennato i 53 migranti erano partiti da Sfax in Tunisia prima del naufragio di cui non si conoscono ancora i motivi. Altissimo il numero di donne e bambini che si trovavano sull’imbarcazione e che hanno perso la vita in mare.
I morti nel Mediterraneo continuano, ma nessuno ne parla. 1319 i decessi secondo UNHCR, ma potrebbero essere 3000. Ma non fanno notizia da quando Salvini non è più al Viminale. Panorama il 4 gennaio 2020. A leggere la stampa da agosto ad oggi sembra che nel Mediterraneo tutto proceda a meraviglia per i migranti; i porti sono stati riaperti, le navi delle Ong fanno il loro onorevole lavoro, le persone vengono salvate e portate in Europa dove vengono redistribuite tra i veri paesi del continente. Questo quanto viene detto, così ci sentiamo tutti più umani e sereni. Guai però a scrivere che purtroppo nel Mediterraneo si continui in realtà a morire. I dati sono stati resi noti dalla UNHCR, l’organizzazione per i rifugiati ed i migranti delle Nazioni Unite. Nel 2019 sono morte 1319 persone, comprese donne e bambini. Il numero è in calo rispetto ai 2265 del 2018. La rotta dei migranti che deve piangere più vittime è purtroppo quella che porta dalla Libia all’Italia (750 decessi complessivi); più sicure le tratte verso Grecia e Spagna. I numeri potrebbero essere anche più alti. Difficile, anzi impossibile, conoscere la sorte di tutti i barconi e gommoni che si mettono in mare. Secondo alcune Ong i morti in realtà sarebbero più di 3000. Ma, ovviamente, non fanno notizia. Forse perché ancora una volta si è dimostrata una vecchia regola: con i porti chiusi dalla Libia partono meno navi. Con i porti aperti le partenze aumentano. E purtroppo più navi partono e più morti ci sono. E’ una triste, orribile, ma purtroppo certa equazione. Nessuno ne parla, oggi, semplicemente perché non c’è più Salvini al Viminale, perché al Governo ci sono quelli che #restiamoumani. Le morti però continuano, ogni settimana, troppe. Per salvarsi la coscienza quindi c’è solo un modo: far finta di non vedere, dire, raccontare.
Migrante pestato a morte da polizia, ucciso come Giulio Regeni ma nessuno se ne frega. Piero Sansonetti il 25 Gennaio 2020 su Il Riformista. Scusate se insistiamo. Chi ha ucciso Vakhtang Enukidze? Il capo della polizia, Gabrielli, non se la può cavare semplicemente mostrando indignazione per i paragoni che vengono fatti tra la sua uccisione e l’uccisione di Stefano Cucchi. Il capo della polizia deve spiegare cosa è successo nel Cpr, chi ha picchiato il ragazzo georgiano, perché lo ha fatto, quali sono le responsabilità della polizia di Stato, se e come si sta indagando per scoprire i colpevoli. Il fatto che la vittima non sia italiana non cambia di una virgola le cose. Se le forze dell’ordine hanno pestato con violenza Vakhtang, come sostengono alcuni testimoni, e se – oltretutto – è poi riuscita a far espellere in fretta e furia dall’Italia alcuni dei profughi che avevano assistito al pestaggio, beh, il capo della polizia non avrà difficoltà a capire che ci troviamo di fronte a uno scandalo. E se questo scandalo schiarisce un po’ in questo clima da “prima gli italiani” solo per il fatto che la vittima non è italiana, vuol dire che l’Italia sta scivolando in basso nel pozzo dell’inciviltà. Chi legge questo giornale sa cosa è successo. (Chi legge altri giornali, forse, non lo sa: molti giornali ne hanno parlato poco assai o niente). A metà della settimana scorsa un ragazzo georgiano, rinchiuso nel Cpr di Gradisca (Centro di permanenza per i respingimenti) è stato picchiato, poi portato in carcere e forse di nuovo picchiato, poi riportato al Cpr agonizzante, poi finalmente messo in una ambulanza per tentare un ricovero in ospedale in extremis, ma ormai era troppo tardi e l’ambulanza è diventata la camera mortuaria. Le autorità prima ha detto che il giovane era rimasto ferito in una rissa tra profughi, poi quando la cosa è stata smentita da tutti i presenti, non hanno detto più niente. I testimoni sono concordi nel racconto: c’è stata una scazzottata tra Vakhtang e un giovane del Marocco, Vakhtang stava avendo la meglio quando sono intervenuti una decina di agenti. Hanno preso Vakhtang, lo hanno gettato a terra, lo hanno pestato e poi lo hanno trascinato via per i piedi. Dove? In prigione. Da questo momento in poi i testimoni che erano al centro non hanno saputo più niente. Tre giorni dopo lo hanno rivisto, ma era già in fin di vita. Lo hanno messo sul lettino. Lui ha rantolato tutta la notte e poi è anche caduto dal letto. A quel punto, finalmente, è stata chiamata l’ambulanza. Questi sono i fatti nudi e crudi. Sul nostro giornale li ha raccontati due giorni fa Riccardo Magi, parlamentare radicale che domenica è andato in visita al Cpr di Gradisca e ha raccolto le testimonianze di alcuni reclusi. Oltre a questi fatti c’è la denuncia Gianfranco Schiavone dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e dello stesso Magi, secondo i quali sarebbero stati espulsi dall’Italia alcuni testimoni. Oggi in tutt’Italia si celebra, con rabbia – con giusta rabbia – il quarto anniversario del rapimento e poi dell’uccisione di Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano ammazzato dalle autorità egiziane. Giulio era un ragazzo straniero in Egitto. Non si sa perché l’hanno ucciso. Non vogliono dircelo. Né perché, né chi, né in che modo. In Italia si è creato un forte movimento di protesta contro le autorità egiziane. Anche le istituzioni hanno partecipato a questo movimento. Verità e giustizia: questo si chiede. Il caso di Vakhtang è uguale al caso Regeni. Verità e giustizia anche stavolta: niente di più. Per Giulio e per Vakhtang. Gabrielli si offende? Poco male. La ministra dell’Interno ha qualcosa da dire? Ha qualcosa da dire il premier Conte?
(ANSA il 23 gennaio 2020) - "Fare parallelismi a dir poco arditi di una vicenda che non è stata ancora definita con vicende per la quale sono stati impegnati anni e processi, lo trovo assolutamente offensivo". Lo ha detto il capo della Polizia Franco Gabrielli rispondendo a una domanda sul paragone tra la morte del cittadino georgiano Vakhtang Enukidze, detenuto nel Cpr di Gradisca (Gorizia), e il caso Cucchi, avanzato dal deputato radicale Riccardo Magi. Gabrielli è intervenuto a margine di un convegno sulla sicurezza. "In queste ore - ha proseguito Gabrielli - ci sono state delle affermazioni gravissime: dire che questa persona è morta per le percosse subite quando c'è un'indagine in corso e deve ancora essere effettuata l'autopsia è a dir poco ardito". Infine Gabrielli ha concluso: "Credo che in questo Paese ci voglia un po' più di rispetto".
Violetto Gorrasi per today.it il 23 gennaio 2020. Poche certezze, molti dubbi e tante zone d'ombra. Come è morto Vakhtang Enukidze? C'è da far chiarezza sul decesso dell'uomo, un 38enne georgiano rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d'Isonzo, in provincia di Gorizia, morto sabato 18 gennaio. La Procura di Gorizia ha aperto un fascicolo per omicidio volontario contro ignoti e lunedì prossimo si terrà l'autopsia: l'esame, previsto ieri, è stato rinviato perché la famiglia della vittima ha voluto nominare un consulente di parte. Sarà uno snodo fondamentale per indirizzare l'inchiesta. "Fino ad ora, su questo caso si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, ma per noi è decisivo procedere unicamente a fronte delle certezze che soltanto l’esame potrà fornire", ha detto il procuratore di Gorizia Massimo Lia. "Il governo di Tbilisi segue la vicenda con grande attenzione", ha spiegato l'ambasciatore della Georgia in Italia, Konstantine Surguladze. Da parte italiana, ha aggiunto il diplomatico, "ci è stata garantita l'imparzialità e la velocità delle indagini". Vakhtang Enukidze era rientrato nella struttura di Gradisca d'Isonzo dopo esser stato per circa 48 ore nel carcere di Gorizia: era stato portato lì in seguito ad uno scontro, forse una rissa, con un'altra persona presente nel Cpr. Sabato mattina si è sentito male, ha avuto un malore: trasferito in ambulanza in ospedale, è morto. Cos'è successo?
Migrante morto nel Cpr di Gradisca: le testimonianze raccolte da Riccardo Magi. Il deputato di Radicali +Europa Riccardo Magi ha riportato i racconti delle persone sentite all'interno del Centro per i rimpatri di Gradisca. Il 19 ed il 20 gennaio scorsi, Magi ha fatto due visite ispettive nella struttura ed ha parlato con otto-nove testimoni (ospiti del Centro, un operatore ed anche un poliziotto) che hanno dato una "versione concorde" su come sono andate le cose, spiega il parlamentare. Sono accuse pesantissime quelle raccolte dal deputato radicale. Vakhtang Enukidze sarebbe stato "picchiato ripetutamente da circa dieci agenti nel Cpr di Gradisca d'Isonzo (Gorizia), anche con un colpo d'avambraccio dietro la nuca ed una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane. Morto dopo essere stato riportato nel Centro, al termine di una notte d'agonia. Si rischia un nuovo caso Cucchi, una persona morta mentre si trovava in custodia dello Stato. Ora bisogna chiarire". Il deputato ha riferito ai magistrati quello che ha appreso. Il fatto preoccupante - ha aggiunto il parlamentare - è che "alcune delle persone con cui ho parlato, egiziani ospiti della struttura, sono stati nel frattempo espulsi". Su questo punto, il procuratore di Gorizia Massimo Lia ha precisato all'Ansa che "i testimoni citati dall'onorevole Riccardo Magi sono stati sentiti prima che venissero espulsi". "Appena il collega che segue l'inchiesta ha saputo della presenza di possibili ulteriori testimoni oculari e di compagni di detenzione della vittima - ha aggiunto Lia - si è immediatamente recato nel Centro per sentirli prima che venisse attuata la loro espulsione, cioè l'epilogo atteso per chi è ospitato in quelle strutture. Per questa ragione, la loro ricostruzione dei fatti, sui quali non entrerò per non violare il segreto istruttorio, è stata raccolta dettagliatamente. Si tratta di quattro persone per le quali c'era l'urgenza di verbalizzare le dichiarazioni proprio perché prossimi a un allontanamento dal territorio nazionale che era stato programmato ed era ormai imminente. Quanto hanno riferito è stato puntualmente acquisito agli atti".
"Dieci agenti hanno immobilizzato e colpito ripetutamente Enukidze". "Sono arrivato al Cpr - ha riferito Riccardo Magi in una conferenza stampa alla Camera - alle 22.30 di domenica scorsa. Appena sceso dalla macchina, ho sentito urla provenire dall'interno. Mi è stato chiesto di attendere e poi agenti in assetto antisommossa mi hanno fatto entrare. Ho avvertito un'impressione di tensione palpabile, un poliziotto ha detto ad un collega che c'era tanto sangue in giro. Mi è stato spiegato che quella sera c'era stata una "bonifica", erano stati sequestrati i telefonini a tutti gli ospiti della zona verde, il settore dove fino al giorno prima si trovava il georgiano". "Gli ospiti da me sentiti - ha proseguito il deputato - in maniera unanime mi hanno detto che il 14, nel cortile davanti alle stanze c'era stata una colluttazione tra Enukidze ed un altro ospite del Centro, un nordafricano. Tutti negano che lo scontro, il georgiano aveva peraltro avuto nettamente la meglio, possa aver causato lesioni gravi. A quel punto - ha aggiunto - sono intervenuti circa dieci agenti per separare i due litiganti; hanno immobilizzato e colpito ripetutamente Enukidze". Dopo aver passato circa 48 ore nel carcere di Gorizia, è ancora la ricostruzione del parlamentare, il 16 pomeriggio l'uomo viene riportato nel Cpr. "Tutti quelli che l'hanno visto - ha osservato - hanno detto che si trovava in condizioni critiche, non si reggeva in piedi. Ha chiesto un intervento medico, ma man mano che le condizioni si aggravavano, non ha potuto più farlo perché non riusciva a parlare. Nella notte, ha riferito il compagno di stanza, aveva la bava alla bocca ed è caduto dal letto. La mattina era in stato di incoscienza e di lì a poche ore sarebbe morto". Importanti, secondo Magi, "sarebbero ora le immagini delle telecamere interne e le testimonianze degli ospiti". Sul caso è intervenuto anche Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi (Associazione Studi giuridici sull'immigrazione): "Il Cpr di Gradisca deve essere chiuso immediatamente, abbiamo riscontrato una totale opacità di questa struttura". Il riferimento è al fatto che a Schiavone è stato negato l'accesso. Non solo. "Il Cpr - dice Schiavone - è privo di alcuni requisiti previsti dalla normativa, come la possibilità di consumare i pasti in una mensa, l'organizzazione di attività ricreative, l'accesso ad aree esterne".
La morte di Vekhtang Enukidze e lo stato preoccupante dei Cpr in Italia. La morte di Vekhtang Enukidze ha riacceso i riflettori sullo stato del sistema di accoglienza e detenzione dei migranti e richiedenti asilo in Italia. Noti in precedenza come Cpt (Centri di permanenza temporanea) e poi con la denominazione di Centri di identificazione ed espulsione (Cie), i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) fanno parte della rete di strutture usate per identificare ed espellere dal territorio italiano i "migranti irregolari", ovvero le persone straniere non dotate di un permesso di soggiorno valido. Nei primi sei mesi del 2019 sono stati trattenuti nel Cpr 2.267 persone, di cui 1.022 effettivamente rimpatriate, pari al 45% (dati aggiornati al 20 giugno 2019). Ne chiedono la chiusura diverse organizzazioni che lamentano la permanenza eccessivamente lunga dei migranti nelle strutture e le preoccupanti condizioni generali. Dopo la sua visita, Riccardo Magi ha definito quello dei Cpr come "un modello fallimentare che deve essere assolutamente superato". Sul caso di Gradisca, i sindacati delle forze dell'ordine difendono l'operato degli agenti. ''Nel Cpr - ha spiegato Valter Mazzetti, segretario generale Fsp Polizia di Stato - potenzialmente potrebbe accadere il peggio di continuo, perché si vive una situazione esplosiva, e per gli operatori in carenza di precisi protocolli, senza una standardizzazione degli interventi, in carenza di informazioni sul profilo igienico sanitario, con turni massacranti quando c'è da fronteggiare proteste, rivolte, fughe, risse, che sono continue". Il procuratore di Gorizia ha assicurato che le indagini sulla morte di Vakhtang Enukidze "stanno proseguendo a ritmo serrato". Lunedì prossimo, come detto, l'autopsia sul corpo del 38enne georgiano potrà aiutare a far luce su una vicenda ancora da ricostruire con esattezza.
Migrante muore nel centro rimpatrio: “È stato ucciso di botte dalle guardie”. Riccardo Magi, Deputato Radicali +Europa, su Il Riformista il 21 Gennaio 2020. Quando domenica notte, intorno alle 22.30, sono entrato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo mi ha accolto la polizia in tenuta antisommossa: casco in testa e manganello in pugno. Le urla di alcuni ospiti superavano l’alto muro di recinzione.
All’interno della struttura la tensione si poteva tagliare con il coltello, proprio come la nebbia all’esterno. Gli agenti parlavano tra loro di molto sangue in giro dovuto ai tagli che si era provocato qualcuno. Era terminata da poco un’operazione di “bonifica”, con gli agenti impegnati a sottrarre il cellulare agli ospiti della “zona verde”: la sezione dove era rinchiuso anche Vakhtang Enukidze, georgiano di 38 anni. Chi si trova in un Cpr non è un detenuto, pertanto ha il diritto di tenere con sé un telefonino, tuttavia la prassi – chissà perché – vuole che venga spaccata la fotocamera degli apparecchi per impedire alle persone di usarli per fare foto o video. Quando, dunque, dopo la morte dell’ospite georgiano si è diffusa la notizia dell’esistenza di un video girato all’interno del centro e poi trapelato all’esterno, si è resa necessaria una bonifica della sezione. Il sequestro dei telefoni, unico contatto con l’esterno per molti ha accresciuto la disperazione. Le circostanze che il 18 gennaio hanno portato alla morte di Enukidze, trasferito a Gradisca dal Cpr di Bari solo un mese prima, sono tutte da chiarire. In un primo momento le cronache l’hanno ricondotta alle conseguenze di una colluttazione con un altro giovanissimo ospite del centro avvenuta pochi giorni prima, il 14, poi sedata dall’intervento massiccio della polizia. Una versione che in tanti non hanno ritenuto convincente, puntando il dito proprio sull’operato degli agenti. Così ho accolto l’invito dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione a recarmi a Gradisca per effettuare una visita ispettiva al centro. Non solo gli ospiti della struttura con cui ho parlato domenica notte – quando a bonifica conclusa ho potuto incontrarli – ma anche dipendenti della cooperativa che la gestisce e uno dei poliziotti presenti, hanno escluso che la colluttazione con l’altro recluso potesse aver provocato lesioni tali da causare la morte dell’uomo. Una convinzione che mi è stata ribadita ieri mattina quando, durante una seconda visita, in diversi, nella “zona verde”, mi hanno descritto quell’episodio con dovizia di particolari, fornendo tutti la stessa versione.
Il 14 gennaio scorso – hanno raccontato – Vakhtang Enukidze, che in molti descrivono come una persona piuttosto agitata, aveva aggredito e malmenato un giovane uomo di origini marocchine. Ma nella rissa sarebbe stato lui ad avere la meglio sull’altro, fino a che non era intervenuta la polizia: «una decina di agenti» avrebbero placcato il georgiano, «immobilizzato e colpito ripetutamente e poi trascinato via per i piedi». «Magari morirò anch’io», mi ha detto uno di loro, «ma voglio dire la verità». Dopo un giorno e mezzo, che, secondo le ricostruzioni, avrebbe trascorso in carcere, Vakhtang Enukidze era stato ricondotto nel Cpr ma stavolta nella “zona rossa”. Qui, dalle testimonianze che ho potuto raccogliere, avrebbe vissuto la sua agonia. Piegato su se stesso con contusioni su tutto il corpo e sul viso. Così lo descrive chi ha trascorso in stanza con lui l’ultima notte: «non riusciva a stare in piedi, poi non riusciva più nemmeno a parlare, ha iniziato ad avere la bava alla bocca e durante la notte è caduto dal letto». La mattina, riferiscono i compagni di stanza, in stato di incoscienza è stato portato via in ambulanza, ma in ospedale è giunto già cadavere. Ovviamente questa ricostruzione, estremamente grave dei fatti, è tutta da verificare. Per questo appena uscito dal Cpr sono andato in Procura per riportare ai magistrati – che stanno indagando per omicidio volontario a carico di ignoti – le informazioni e le testimonianze che ho raccolto; inclusa la telefonata – che ho potuto ascoltare e che è stata registrata – di un kosovaro rimpatriato da Gradisca subito dopo la morte di Enukidze nella quale ha raccontato l’accaduto al suo avvocato. Da quanto ho potuto apprendere, nei prossimi giorni sarebbe previsto il rimpatrio anche di altri ospiti del centro. L’imponente apparato di sorveglianza del Cpr (inaugurato solo il 16 dicembre) con l’occhio di circa duecento telecamere puntate sui locali della struttura, potrà forse aiutare a fare luce su un episodio dai contorni oscuri. La permanenza di qualsiasi ombra di sospetto su questa morte non sarebbe tollerabile in uno Stato di diritto. A proposito, se c’è una cosa su cui non occorre fare chiarezza, perché emerge in maniera lampante a chiunque abbia l’occasione di mettervi piede, è che in questi centri per migranti lo straniero è proprio lo Stato di diritto. Una realtà a cui non sfugge neppure una struttura nuova come quella di Gradisca, dove una sessantina di persone vivono praticamente chiuse in gabbia, come in uno zoo, senza occasioni di socialità, storditi da calmanti e psicofarmaci: in stanze gelide prive di porta, che affacciano su corridoio delimitato da sbarre e da pannelli di plexiglass che dovrebbero essere infrangibili, e che invece i migranti riescono a rompere per ricavarne le schegge con cui si feriscono. Deliberatamente. Gli atti di autolesionismo non si contano, tutti i reclusi ne portano addosso segni. E come potrebbe essere altrimenti in un luogo senza tempo, senza orizzonte, dove il diritto è sospeso e si sconta una pena senza colpa di cui non si conosce il termine. C’è chi viene portato lì dopo essere stato in carcere; chi in carcere non c’è mai stato e aveva un lavoro, ma poi l’ha perso e con esso anche il diritto di stare sul territorio italiano e ora aspetta di essere rimpatriato. C’è chi nel nostro Paese ha trascorso molti anni e chi qui ha anche la famiglia. I Cpr non sono carceri. Sono peggio. E non dovrebbero esistere. Fino a pochi anni fa, tra le forze politiche, quasi tutti erano giunti alla conclusione che andassero chiusi. Abbiamo ascoltato prefetti e politici di primo piano sostenerlo. E invece. Invece siamo tornati indietro. Oggi a meno di due mesi dal Cpr di Gradisca ha aperto il nuovo Cpr di Macomer.
Al Cpr di Gradisca il Regeni georgiano: morto dopo pestaggio di 10 agenti. Giulio Cavalli il 24 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quattro anni senza Giulio Regeni. Quattro anni di mancate risposte da parte del capo del governo egiziano Al Sisi e quattro anni di insabbiamenti e depistaggi. I genitori di Regeni qualche giorno fa ospiti nella trasmissione di Fazio hanno parlato di fuffa per descrivere l’atteggiamento delle autorità egiziane e sono (fortunatamente) in molti a chiedere giustizia: ad oggi sappiamo che le forze di polizia egiziane hanno torturato Giulio fino a ucciderlo tentando (e non riuscendo) poi goffamente di fare passare tutto per un incidente. Italia, gennaio 2020: al Centro rimpatri di Gradisca Vakhtang Enukidze, 39enne georgiano, il 18 gennaio muore dopo essere stato portato d’urgenza in ospedale. Vakhtang Enukidze era rientrato nella struttura il 17 gennaio, dopo essere stato per un giorno e mezzo nel carcere di Gorizia: non riusciva già a parlare, camminava a fatica e la sera precedente aveva perso conoscenza, i suoi compagni di stanza hanno dovuto adagiarlo sul letto. Le zone d’ombra riguardano ciò che è successo a partire dal 14 gennaio: alcuni parlano di un coinvolgimento dell’uomo nella rissa ma altri testimoni raccontano di uno scontro con un altro migrante e di un successivo pestaggio di una decina di agenti di polizia intervenuti per sedare la lite. Riccardo Magi, deputato di +Europa, ha visitato la struttura il 18 e il 19 gennaio e racconta: «Appena sceso dalla macchina, ho sentito urla provenire dall’interno. Ho avvertito un’impressione di tensione palpabile, un poliziotto ha detto ad un collega che c’era tanto sangue in giro. Mi è stato spiegato che quella sera c’era stata una “bonifica”, erano stati sequestrati i telefonini a tutti gli ospiti della zona verde, il settore dove fino al giorno prima si trovava il georgiano». La “rissa” invocata dagli operatori del Cpr non ci sarebbe mai stata. Racconta Magi: «Le persone che ho ascoltato, ospiti, operatori e un poliziotto negano che ci sia stata una rissa. Parlano di una colluttazione tra Vakhtang e un cittadino nordafricano. Ma da questo scontro non sarebbero potute derivare lesioni gravi, né tantomeno mortali». Quindi le ferite di Vakhtang Enukidze potrebbero essere dovute al fatto che il giovane – racconta sempre Magi – «sarebbe stato picchiato ripetutamente da circa 10 agenti nel Cpr di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), anche con un colpo d’avambraccio dietro la nuca ed una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane. Morto dopo essere stato riportato nel Centro, al termine di una notte d’agonia». Finita qui? No. I testimoni che hanno assistito alla rissa che non era rissa e al pestaggio dei poliziotti che forse è stato davvero un pestaggio sono stati rimpatriati in fretta e furia. Il procuratore di Gorizia Massimo Lai assicura: «Abbiamo sentito quattro testimoni diretti prima del rimpatrio, solo un quinto era già stato espulso. Indaghiamo su tutte le fasi della vicenda, compresa la permanenza in carcere». Eppure sfugge il motivo per cui i testimoni proprio nel pieno delle indagini siano stati rispediti di fretta a casa quando potrebbero essere utili alla raccolta di informazioni. Il deputato Magi parla del rischio che si ripeta un altro caso Cucchi e i sindacati si preparano subito alle barricate parlando di «solite incaute accuse all’operato degli agenti di Polizia» (del resto furono considerate incaute anche le accuse della sorella di Stefano Cucchi, ricordate?) E puntano il dito sulla struttura che «a poco più di un mese dalla sua apertura ha già fatto registrare numerosi incidenti». L’assessore regionale leghista Pierpaolo Roberti invece sembra non avere dubbi sull’innocenza dei poliziotti e anzi annuncia una visita nel Cpr di Gradisca «non, come fanno altri, per valutare la situazione degli ospiti – ha affermato -, ma per accertarmi che i nostri ragazzi in divisa siano in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro» aggiungendo che «chi oggi fa vergognose illazioni non merita menzione piuttosto è utile ricordare lo sforzo di chi contiene una situazione difficile, dove decine e decine di persone, in gran parte già segnate da trascorsi con la giustizia, vivono con l’unico obiettivo di evadere per vivere in clandestinità e condurre una vita di espedienti». Insomma siamo alle solite: se è successo qualcosa significa che se l’è cercata. Ieri anche il capo della Polizia Gabrielli si è lasciato andare a un giudizio netto: «Resto sempre molto basito – ha dichiarato a margine di un convegno sulla sicurezza – quando leggo certe cose: come mi preoccupano i postulati per cui gli stranieri sono tutti spacciatori e tutti coloro che professano la religione islamica sono terroristi, stigmatizzo chi parte dal presupposto che i poliziotti siano tutti picchiatori». Solito balletto, solite comparse, solite parti in commedia: tutti su posizioni precostituite, tutti garantisti a parole e tutti già con le idee chiare e tutti in difesa dei propri pregiudizi. Però Vakhtang Enukidze è morto. Torniamo a Regeni, per un secondo: lasciando perdere il paragone con Cucchi che irrita così tanto Gabrielli viene da chiedersi se non sia preoccupantemente egiziana quest’Italia in cui muore un uomo nelle mani delle autorità, cosa ci sia di diverso in questo primo imbarazzato silenzio del governo e cosa ci sia di diverso sul cumulo di versioni che si accavallano fin dalle prime ore dopo il decesso. Per chiedere verità e giustizia bisogna praticare verità e giustizia, qualcuno lo ricordi al nostro governo.
Migrante morto in Cpr: la procura adesso indaga per omicidio. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Vakhtang Enukidze aveva 38 anni e un fisico da calciatore professionista. Sabato 18 gennaio è morto in un Centro per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo. Aveva passato le ultime quarantotto ore nel piccolo carcere di Gorizia da dove era tornato con «evidenti traumi, ferite al ventre e un’ematoma all’occhio sinistro», come si legge nel referto di riammissione scritto dello stesso Centro di Gradisca. La procura di Gorizia ha aperto un fascicolo per omicidio volontario. Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, ha nominato un avvocato come parte offesa: «E’ una storia non chiara e complessa. Ci troviamo di fronte ad una persona che è passata per varie istituzioni, bisognerà ricostruire con attenzione i diversi passaggi». Di certo in questa storia c’è che fino a domenica 12 gennaio Vakhtang Enukidze era in ottima salute . E’ morto dopo una settimana piena di ombre , interrogativi, lividi. «In patria Vakhatang lavorava come imbianchino e giocava a calcio nella squadra della nostra città, Chiatura», ha dichiarato la sorella Asmat Jokhadze, raccontando che suo fratello era arrivato in Italia nel 2017 per cercare fortuna, ma non aveva mai avuto i documenti. Per questo, trovato clandestino, era finito nel Centro per i rimpatri. Per questo il 13 gennaio avrebbe dovuto essere messo su un volo per tornare nel suo Paese. Ma domenica 12 gennaio Vakhtang è protagonista di una rivolta nel Centro di Gradisca che fa sospendere il suo rimpatrio - previsto senza accompagnamento - e da il via alla sua settimana di agonia. Rimasto nel Centro per i rimpatri, il georgiano ha attaccato brighe con un giovane ragazzo egiziano, Abdelhakam Issa, e lo ha aggredito con le percosse ed è in questa occasione che secondo Riccardo Magi di +Europa «Vakhatang viene picchiato ripetutamente da circa dieci agenti nel Centro, anche con un colpo d’avambraccio dietro la nuca ed una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane». L’uomo georgiano finisce perciò in carcere da dove ritorna venerdì sera, il 17, dolorante e intontito, e passa una notte di agonia, scivolando dal letto. Muore il giorno dopo in ospedale, appena il tempo di fargli una Tac. Il giovane Issa, il più diretto testimone degli eventi nel Centro, è stato subito rimpatriato. L’autopsia prevista per mercoledì 22 gennaio, è stata rinviata a lunedì 27 «per permettere alla famiglia di assistere», ha detto Konstantine Surguladze, ambasciatore di Georgia in Italia, aggiungendo: «Ci è stata garantita l’imparzialità e la velocità delle indagini. Io sono molto grato al lavoro che sta svolgendo il garante Mauro Palma che ci ha dimostrato il suo grande sostegno e supporto».
Morire come Stefano Cucchi, nelle mani dello Stato. Vakhtang Enikidze, georgiano, 38 anni, recluso nel Cpr di Gradisca, Gorizia. Era sotto la tutela delle nostre istituzioni. Ne è uscito cadavere. Roberto Saviano su L'Espresso il 27 gennaio 2020. Martedì 21 gennaio, la notizia di oggi, mentre scrivo, la dà il Riformista. Vakhtang Enikidze, un uomo georgiano di 38 anni, è morto sabato 18 gennaio nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, dove si trovava da un mese dopo essere stato trasferito lì da Bari. Il racconto lo fa Riccardo Magi, parlamentare di +Europa, che è riuscito a entrare nel centro e a parlare con i “reclusi” che non sono detenuti, ma ai quali, come racconta Magi, quando entrano nel Cpr viene spaccata la fotocamera del cellulare perché non possano fare foto a testimonianza di ciò che accade e delle condizioni in cui vivono. Però dopo la morte di Vakhtang Enikidze un video sembra sia uscito e, quando Magi è arrivato al Cpr, gli agenti avevano appena bonificato tutti i cellulari. Facciamo un passo indietro. Il 14 gennaio Vakhtang Enikidze aveva avuto una colluttazione con un altro ospite del centro, ma tutte le persone con cui Magi ha parlato, compreso il poliziotto presente durante la sua visita ispettiva, hanno negato che la morte di Vakhtang Enikidze fosse riconducibile a quell’episodio, sedato dall’arrivo della polizia. Dai racconti dei presenti emerge che, nella rissa con l’altro ospite del centro - un ragazzo marocchino più giovane e meno forte fisicamente - Vakhtang Enikidze stesse avendo la meglio quando sono arrivati i poliziotti che hanno posto fine alla rissa e portato via Enikidze. Questi pare abbia trascorso un giorno e mezzo in carcere e, quando viene ricondotto al Cpr di Gradisca, è in agonia, come riferiscono i testimoni sentiti da Magi. La mattina successiva viene portato in ospedale in ambulanza, ma vi arriverà già cadavere. Questa è la versione dei fatti che riporta Riccardo Magi sul Riformista. Magi è poi andato in Procura a Gorizia per riportare nella sede appropriata le conoscenze cui è giunto in seguito alla sua visita ispettiva. Nel Cpr ci sono telecamere installate da poco, pare a metà dicembre, mi auguro che fossero funzionanti e che possano fare chiarezza. Allo stesso modo mi auguro che tutti i possibili testimoni non siano prontamente rimpatriati, come è già accaduto a un kosovaro rimpatriato subito dopo la morte di Vakhtang Enikidze e che, però, avrebbe fatto in tempo a parlare dell’accaduto con il suo avvocato. Vi ho raccontato i fatti, vi risparmio le considerazioni finali di Riccardo Magi e non perché siano secondarie, accessorie o inutili. Vi risparmio il racconto di cosa siano i Cpr, di come vivano lì dentro persone che non hanno commesso alcun reato. Vi risparmio tutto questo perché è troppo doloroso. Troppo. Troppo doloroso sapere che ci sono esseri umani trattati peggio delle bestie. E mentre tutto questo accade, il Paese segue gli scioperi della fame di un politicante che, insieme a tanti altri della sua schiatta, ha ridotto la politica a qualcosa di molto peggio di una barzelletta. Il satyagraha è la disobbedienza civile di Gandhi, di Mandela, di Martin Luther King. Da noi Marco Pannella usava la pratica nonviolenta dello sciopero della fame e della sete, che lui chiamava appunto satyagraha, come risposta a un male collettivo. Nessuno ha mai osato invitare al digiuno la collettività per sottrarre al processo un solo piccolo e insignificante uomo che, nell’esercizio del suo potere e soprattutto abusando del suo potere, sostenuto da altri piccoli e insignificanti uomini come lui, ha danneggiato e non difeso la collettività. Lo sciopero della fame lo si può, invece, ragionevolmente invocare per chi è illegalmente detenuto - non ospitato, ma proprio detenuto - nei centri di Identificazione ed Espulsione, per chi - come hanno sempre fatto i Radicali e come continua a fare Rita Bernardini - vive nelle carceri italiane una detenzione che non è rieducazione ma tortura. Volgiamo lo sguardo verso chi, senza la nostra attenzione, viene privato della libertà e della vita e non verso chi usa la nostra attenzione per alimentare il proprio vuoto. Noi, per esistere, non abbiamo bisogno di contrapporci a loro. Noi esistiamo se raccontiamo ciò che è successo in Italia, in una democrazia, a Vakhtang Enikidze, morto mentre si trovata sotto la tutela dello Stato.
Migrante picchiato e morto nel Cpr di Gradisca: "Rischio di un nuovo caso Cucchi". La denuncia degli attivisti sulla vicenda di un georgiano di 38 anni deceduto lo scorso 18 gennaio nel centro vicino a Gorizia: "Testimoni espulsi". La Procura: "Ascoltati prima". La Repubblica il 22 gennaio 2020. "Picchiato ripetutamente da circa 10 agenti nel Cpr di Gradisca d'Isonzo (Gorizia), anche con un colpo d'avambraccio dietro la nuca ed una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane. Morto dopo essere stato riportato nel Centro, al termine di una notte d'agonia. Si rischia un nuovo caso Cucchi, una persona morta mentre si trovava in custodia dello Stato. Ora bisogna chiarire". Così il deputato Riccardo Magi (Radicali) che, in una conferenza stampa alla Camera, parla della vicenda di Vakhtang Enukidze, georgiano 38enne deceduto lo scorso 18 gennaio nel centro per il rimpatrio. Magi il 19 ed il 20 gennaio scorsi ha fatto due visite ispettive nella struttura ed ha parlato con 8-9 testimoni (ospiti del Centro, un operatore ed anche un poliziotto) che hanno dato una "versione concorde" su come sono andate le cose. "Il fatto preoccupante - ha aggiunto il parlamentare - è che alcune delle persone con cui ho parlato, egiziani ospiti della struttura, sono stati nel frattempo espulsi". La procura di Gorizia ha aperto un'inchiesta a carico di ignoti che al momento ipotizza, in via cautelativa l'omicidio volontario. Il deputato ha riferito ai magistrati quello che ha appreso. Il Procuratore di Gorizia, Massimo Lia, ha precisato all'Ansa che "i testimoni citati dall'onorevole Riccardo Magi sono stati sentiti prima che venissero espulsi". "Appena il collega che segue l'inchiesta ha saputo della presenza di possibili ulteriori testimoni oculari e di compagni di detenzione della vittima - ha aggiunto Lia - si è immediatamente recato nel Centro per sentirli prima che venisse attuata la loro espulsione, cioè l'epilogo atteso per chi è ospitato in quelle strutture. Per questa ragione, la loro ricostruzione dei fatti, sui quali non entrerò per non violare il segreto istruttorio, è stata raccolta dettagliatamente. Si tratta di quattro persone per le quali c'era l'urgenza di verbalizzare le dichiarazioni proprio perché prossimi a un allontanamento dal territorio nazionale che era stato programmato ed era ormai imminente. Quanto hanno riferito è stato puntualmente acquisito agli atti". "Sono arrivato al Cpr - ha riferito Magi - alle 22.30 di domenica scorsa. Appena sceso dalla macchina, ho sentito urla provenire dall'interno. Mi è stato chiesto di attendere e poi agenti in assetto antisommossa mi hanno fatto entrare. Ho avvertito un'impressione di tensione palpabile, un poliziotto ha detto ad un collega che c'era tanto sangue in giro. Mi è stato spiegato che quella sera c'era stata una 'bonifica', erano stati sequestrati i telefonini a tutti gli ospiti della zona verde, il settore dove fino al giorno prima si trovava il georgiano". "Gli ospiti da me sentiti - ha proseguito il deputato - in maniera unanime mi hanno detto che il 14, nel cortile davanti alle stanze c'era stata una colluttazione tra Enukidze ed un altro ospite del Centro, un nordafricano. Tutti negano che lo scontro, il georgiano aveva peraltro avuto nettamente la meglio, possa aver causato lesioni gravi. A quel punto - ha aggiunto - sono intervenuti circa dieci agenti per separare i due litiganti; hanno immobilizzato e colpito ripetutamente Enukidze. Dopo aver passato un paio di giorni nel carcere di Gorizia, è ancora la ricostruzione del parlamentare, l'uomo il 16 pomeriggio viene riportato nel Cpr. "Tutti quelli che l'hanno visto - ha osservato - hanno detto che si trovava in condizioni critiche, non si reggeva in piedi. Ha chiesto un intervento medico, ma, man mano che le condizioni si aggravavano, non ha potuto più farlo perchè non riusciva a parlare. Nella notte, ha riferito il compagno di stanza, aveva la bava alla bocca ed è caduto dal letto. La mattina era in stato di incoscienza e di lì poche ore sarebbe morto". Sul punto è intervenuto anche Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi (Associazione Studi giuridici sull'immigrazione): "Il Cpr di Gradisca deve essere chiuso immediatamente, abbiamo riscontrato una totale opacità di questa struttura". Il riferimento è al fatto che a Schiavone è stato negato l'accesso. Non solo. "Il Cpr - dice Schiavone - è privo di alcuni requisiti previsti dalla normativa, come la possibilità di consumare i pasti in una mensa, l'organizzazione di attività ricreative, l'accesso ad aree esterne". Importanti, a parere di Magi, "sarebbero ora le immagine delle telecamere interne e le testimonianze degli ospiti, ma due egiziani che avevano parlato con me sono stati espulsi nella notte tra lunedì e martedì. Anche un altro straniero, presente al momento dei fatti, è stato rimpatriato. Quello che mi ha detto al telefono l'ho registrato e l'ho messo a disposizione della procura". Magi proporrà alla commissione Affari costituzionali della Camera "di avviare un giro di ispezioni nei Cpt, dove c'è una situazione fuori controllo". "La vicenda del migrante georgiano Vakhtang Enukidze va chiarita al più presto - commenta Luigi Manconi, presidente dell'associazione A Buon Diritto - Registrazioni audio e racconti riportati dal deputato Riccardo Magi parlano di violenze subite dall'uomo a opera di appartenenti a forze di polizia. Tutto va verificato ma mi auguro che- come in casi assai noti- non si debbano aspettare 10 anni per ottenere verità e giustizia".
Gradisca, dal Cpr al carcere: il calvario che ha portato alla morte il migrante. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 gennaio 2020. Lunedì il Garante Mauro Palma ha visitato Cpr e carcere, ha parlato con testimoni e ha chiesto informazioni alla Procura in qualità di persona offesa. Ci sono diversi eventi e punti da chiarire che potrebbero aver provocato la morte di Vakhtang Enukidze, il 37enne georgiano recluso nel centro di permanenza e rimpatrio ( Cpr) di Gradisca D’Isonzo. Il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, nel pomeriggio di lunedì, si è recato presso la struttura e grazie alle testimonianze raccolte ha potuto ricostruire la cronologia degli eventi. Il primo dato oggettivo è che la struttura, seppur in condizioni meno fatiscenti rispetto agli altri centri, non è in grado di poter ospitare per lunghi periodi i migranti e inevitabilmente si creano tensioni. Infatti, come ha riferito il Garante, domenica 12 gennaio si era verificata una rivolta e tentativi, in parte riusciti, di fuga. Il georgiano doveva essere rimpatriato il giorno successivo e senza scorta, quindi significa che l’uomo aveva un atteggiamento non oppositivo. Nella mattina del lunedì però – così è stato riportato al garante Palma – Vakhtang ha mostrato agitazione, tant’è che il rimpatrio è stato annullato. Il giorno successivo, martedì, è accaduto che l’uomo ha avuto momenti di colluttazione con un altro migrante più giovane e su questa aggressione – secondo la versione del giovane aggredito – ci sarebbe stato un intervento forte da parte della polizia. Qui c’è il primo punto da chiarire, ovvero se l’intervento sia stato proporzionato o meno. È accaduto che, sulla base di questo episodio, l’uomo viene arrestato per violenza nei confronti dell’altro migrante e portato nel carcere di Gorizia. Ci è rimasto per due giorni, mercoledì è giovedì. Il garante nazione sottolinea che anche in quel carcere la permanenza è difficoltosa, una struttura piccola e celle in comune con più persone. Anche qui c’è un secondo punto da chiarire, perché potrebbero esserci stati altri interventi di forza per sedare una probabile agitazione del migrante. Ma è tutto ancora da verificare. Fatto sta che Vakhtang, dopo l’udienza di giovedì sera, ritorna nel Cpr di Gradisca. Tutti gli ospiti della struttura hanno riferito al Garante che l’uomo è rientrato molto agitato camminando a fatica e pieno di ematomi, particolari che l’autorità giudiziaria dovrà comunque capire se siano frutto o meno dell’intervento delle forze di polizia avvenuto al centro, oppure nel carcere. Il dato oggettivo è che il georgiano non comincia a stare bene nel pomeriggio di venerdì e nella notte peggiora. La mattina di sabato chiamano il 118 e l’ambulanza lo porta nell’ospedale di Gorizia. In tarda mattinata Vakhtang cessa di respirare e muore. Una vicenda complessa, in cui hanno agito più momenti, più settori e più situazioni. Il Garante nazionale in qualità di persona offesa dal reato ha chiesto informazioni alla Procura della Repubblica di Gorizia sull’indagine in corso relativa al decesso del cittadino georgiano. Nel frattempo, alla conferenza stampa di ieri indetta sul caso della morte misteriosa del migrante, il deputato di + Europa Riccardo Magi denuncia che potrebbe prospettarsi un nuovo caso Cucchi. «La Procura sta indagando per omicidio volontario contro ignoti, attraverso l’acquisizione di filmati, attraverso l’autopsia, ma è necessario – ha spiegato Magi – raccogliere testimonianze nel modo più adeguato possibile, mettendo queste persone in una condizione di spontaneità della testimonianza e di non rischio di intimidazione» . Intanto slitta l’autopsia. Si sarebbe dovuto svolgere ieri, ma l’ambasciatore della Georgia Konstantine Surguladze ha annunciato che si farà lunedì prossimo per consentirne la presenza di un consulente indicato dai famigliari della vittima.
Migrante morto di botte nel Cpr, testimoni a rischio rimpatrio. Paolo Comi il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Se si vuol fare piena luce sulla morte del 38enne georgiano Vakhtang Enukidze, avvenuta nel Centro per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo lo scorso 18 gennaio, bisogna fare presto. C’è il pericolo che spariscano testimoni importanti per l’inchiesta che la procura di Gorizia ha aperto contro ignoti per omicidio volontario. A lanciare l’allarme è Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi (l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) che da subito si è mobilitato per chiedere chiarezza sulla vicenda. La versione circolata nelle prime ore riconduceva la morte di Enukidze alle lesioni riportate pochi giorni prima, in una rissa con un altro ospite della struttura. Questa ricostruzione però sarebbe stata smentita dai reclusi che hanno assistito alla colluttazione e che avrebbero invece puntato il dito sull’operato degli agenti intervenuti per sedarla, come ha raccontato ieri sul Riformista il deputato radicale Riccardo Magi, che è potuto entrare nel centro per raccogliere voci e informazioni sull’accaduto. «Non possiamo nascondere che ci siano accuse alla polizia mosse da diversi migranti non collegati tra loro, all’interno del Cpr ma anche non più presenti nel centro e quindi senza alcun interesse a entrare nella vicenda. Queste testimonianze devono essere vagliate con la massima serietà, ma il presupposto è che le persone ci siano», spiega Schiavone al Riformista. «Parliamo di un centro per rimpatri dal quale le persone possono essere mandate via. Quindi può succedere per caso, o non per caso – in modo forzato – che nell’ambito di una regolare procedura di rimpatrio si verifichi una sparizione dei testimoni». Di un rimpatrio già avvenuto e di altri imminenti aveva parlato anche Magi nel resoconto della sua visita ispettiva. Secondo Gianfranco Schiavone, per la raccolta delle testimonianze «non ci si può affidare alla stesura del verbale di sommarie informazioni raccolte dalla polizia all’interno del Cpr», perché «ci sarebbe il rischio di intimidazioni o di pressioni fortissime» nei riguardi dei migranti. «La Procura dovrebbe valutare quali siano i testimoni più attendibili e solo per questi – dice Schiavone – si potrebbe considerare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, così da farli uscire dal Cpr. Se scappano vuol dire che la loro testimonianza non è attendibile», continua, «ma prolungare il trattenimento nel centro per raccogliere le testimonianze, magari in caso di una data per il rimpatrio già fissata, rischia di essere punitivo. Le condizioni di vita nel Cpr sono di forte disagio». E poi, osserva il vicepresidente dell’Asgi parlando con il Riformista, «il contesto non è neutrale. Nel Cpr sono presenti tutte le forze di polizia e qualsiasi operatore delle forze dell’ordine non sarebbe percepito dai reclusi come neutrale, anche se incaricato dalla Procura. Per questo le persone informate dei fatti dovrebbero essere ascoltate fuori dal Cpr e a loro dovrebbero essere assicurate le maggiori garanzie possibili perché non siano oggetto di ritorsioni. Quasi nessuno di loro conosce l’ordinamento giudiziario italiano e provengono da Paesi non democratici, dove la distinzione tra polizia e giudici è molto labile», sottolinea. Insomma, «siamo in un campo minato, la tempestività e l’accuratezza nelle raccolta delle testimonianze sono condizioni fondamentali», conclude Gianfranco Schiavone, che di tutto questo e degli ultimi sviluppi della vicenda parlerà oggi alla Camera insieme a Riccardo Magi in una conferenza stampa dal titolo emblematico: “Morte al Cpr di Gradisca: il rischio di un nuovo caso Cucchi”. Per il procuratore di Gorizia, Massimo Lia, sarà l’autopsia lo snodo fondamentale per indirizzare l’inchiesta sulla morte di Vakhtang Enukidze. «Fino a ora, su questo caso si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, ma per noi è decisivo procedere unicamente a fronte delle certezze che soltanto l’esame potrà fornire», ha dichiarato. L’incarico è stato affidato al dottor Carlo Moreschi e l’esame è stato fissato per questa mattina, ma, fa sapere il procuratore, potrebbe slittare di qualche giorno, perché i familiari di Enukidze vorrebbero nominare un proprio consulente tecnico che possa rappresentarli durante l’autopsia e gli altri accertamenti medico-legali. Una volta effettuato l’esame autoptico, i risultati saranno disponibili in un paio di mesi.
"Nel centro di Gradisca situazione fuori controllo. Verità sul migrante morto". Riccardo Magi, parlamentare di +Europa, parla del caso del georgiano Vakhtang Enukidze trovato privo di conoscenza nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca e poi morto in ospedale. Fabio Tonacci su La Repubblica il 27 gennaio 2020. Onorevole Riccardo Magi, a proposito del georgiano Vakhtang Enukidze trovato privo di conoscenza nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca e poi morto in ospedale, lei ha evocato lo spettro del caso Cucchi. Ci spiega?
"Quando una persona muore mentre è in custodia di una struttura dello Stato dobbiamo sentire l'urgenza che venga fatta chiarezza in tempi brevi. Sui media erano uscite versioni un po' sbrigative, che volevano il decesso di Enukidze frutto di una rissa tra reclusi nel Cpr. Ho parlato di rischio di un nuovo caso Cucchi rispetto a versioni liquidatorie, soprattutto a fronte di alcune testimonianze, tutte da verificare, che parlano di un pestaggio da parte degli agenti di polizia. Non volevo accusare nessuno".
Cosa ha visto durante le sue due visite al Cpr?
"Domenica notte, il giorno dopo il decesso, vado a Gradisca e mi apre un poliziotto in tenuta antisommossa, col casco in testa e il manganello in mano. Capisco che ci sono agitazioni e tensioni. In portineria sento gli agenti dire "c'è molto sangue in giro, perché uno si è tagliato". Durante la visita trovo migranti con profondi tagli autoinflitti sulle braccia e sull'addome. Alcuni sembrano in stato semi-confusionale, indice di un uso massiccio di calmanti e psicofarmaci".
Con chi ha parlato?
"Inizialmente con un egiziano di 27 anni, che era nella cella 1 della zona verde (il Cpr è diviso in zona rossa e zona verde, ndr), la stessa di Enukidze. Mi racconta che il 14 gennaio il georgiano è stato picchiato da otto-dieci agenti intervenuti per sedere una colluttazione".
Quante testimonianze le hanno confermato questa circostanza?
"Complessivamente otto. Il lunedì successivo torno e altri detenuti mi spiegano che Enukidze è stato pestato tre volte dalle forze di polizia interne al Centro. Uno dei più anziani mi descrive la dinamica dell'intervento del 14 gennaio, spiegandomi che gli agenti hanno colpito Enukidze alla nuca, poi alla schiena con una ginocchiata, infine l'hanno immobilizzato e trascinato via per i piedi".
Cosa ha scatenato la rissa?
"Stando a uno dei gestori del Cpr, Enukidze ha spaccato dei pannelli di plexiglass per ricavarne delle schegge appuntite, non so se le voleva usare come armi o per ferirsi. Gli agenti gli hanno ordinato di gettare le schegge, lui si è rifiutato ma a quel punto è stato il ragazzo egiziano a buttarle via. Da lì la rissa".
Schegge di plexiglass, risse, proteste, agenti in assetto antisommossa, materassi - è notizia di ieri - date alle fiamme. Ma che sta succedendo in quel Cpr?
"È una struttura fuori controllo, i reclusi sono in stato di abbandono. Non ci sono spazi di socialità, non c'è la mensa, tutti lamentano difficoltà a ottenere informazioni di tipo legale. È un Cpr nuovo, eppure i detenuti hanno a disposizione telefoni fissi che funzionano con le vecchie schede magnetiche della Telecom. Praticamente inservibili".
Non hanno i cellulari?
"Sì, però a volte glieli tolgono. La notte della mia visita i poliziotti mi hanno detto di aver sequestrato i telefonini, perché era uscito un video girato all'interno del Cpr. Per questo, se li vogliono tenere, sono obbligati a rompere la telecamera del telefonino con un cacciavite".
A Chios, nell'inferno dei profughi che l’Europa non vede. Bambini malnutriti, donne incinte che dormono per terra, violenze. Dentro il campo di Vial, su una delle isole più belle dell’Egeo, centinaia di persone stanno trascorrendo l’inverno in condizioni disumane. Francescapaola Iannaccone il 14 gennaio 2020 su L'espresso. «La fuga è spesso il solo modo di salvare barca ed equipaggio», scrive Laborit e quando si prende coscienza del pericolo, il meccanismo della salvezza parte da un unico pensiero: «scappare». Arrivano con i gommoni dalla Turchia, pagando un viaggio anche duemila euro, si imbarcano sapendo che forse moriranno, molti di loro non sanno neanche nuotare. Aggrappano la loro speranza a dei giubbotti di salvataggio - per chi riesce a procurarseli - o alle camere d’aria delle gomme di automobili che comprano per 15 euro prima di partire, augurandosi che in caso di naufragio non li lasci annegare. Provati dal freddo e dalla fame, sono uomini, donne e bambini - quest’ultimi spesse volte non accompagnati - che provano a mettersi in salvo dalla guerra e da tutte le devastanti sofferenze subite, decidendo di attraversare le linee del mare, quelle stesse linee che tracciano i confini di un senso d’appartenenza per chi, pur provenendo da conflitti diversi, sa di essere lì con un destino uguale. Portano con sé pochissimi averi, qualcuno parte senza niente se non con una flebile speranza di riscatto, di possibilità di vita, con il forte desiderio di ricollocarsi nei Paesi europei, molti non hanno neanche i documenti. Sono curdi, siriani, iracheni, afghani, yemeniti, somali, palestinesi e iraniani. Scelgono di sbarcare sulle isole greche, percorrendo un tratto di mare così breve che quasi lo si può toccare con un braccio da costa a costa, dopo aver attraversato la rotta balcanica, con l’idea di arrivare sulla terra promessa, ignari del dopo. Una volta soccorsi, vengono accompagnati nei campi profughi messi a disposizione, identificati dalla polizia, registrati attraverso un numero che li depaupera nelle radici d’identità e da quel momento, per tutti questi migranti, inizia un vero e proprio calvario. L’attesa estenuante in prigioni a cielo aperto, intrappolati sulle isole greche per un tempo infinito, sperando di veder accolta la domanda di asilo politico al più presto così da poter emigrare verso il Nord Europa. Un’ odissea che si ripete in tutti i campi di accoglienza delle isole egee e che non risparmia neanche l’hotspot di Vial , una ex fabbrica di alluminio posizionata a Sud dell’ isola di Chios. Per chi ci presta volontariato - ma non solo - viene definita un vero e proprio girone infernale. Per capire è necessario squarciare il velo d’indifferenza attorno a questa realtà di certo non estranea all’Europa. Ubicato lontano dal centro cittadino, a più di nove chilometri, come se si volesse isolare il problema, ritenendolo un’entità estranea a quella che rappresenta per bellezza incontaminata la perla del Mar Egeo, il centro profughi di Vial, controllato costantemente dalla polizia - l’unico che dal 2016 ancora resiste sull’isola - è riconoscibile dal filo spinato che lo circonda e da un grande cancello d’entrata che fisicamente separa questo spazio sterrato dalla realtà esterna ma che gioca un ruolo chiave a livello psicologico, piega la volontà dei rifugiati ed elimina qualsiasi velleità di futuro. L’impatto immediato è come un pugno nello stomaco: il sovraffollamento umano è la prima difficoltà che questo luogo registra. Stime ben precise, fornite dalla pagina ufficiale di “Aegean Boat Report” che cambiano di ora in ora, visto che il flusso degli sbarchi non accenna a diminuire - se ne registrano anche più di uno al giorno - parlano di migliaia di migranti, circa 5008 ammassati in un campo che ne può ospitare 1400. «Basti pensare che dall’aprile del 2018 a oggi, i rifugiati sono quadruplicati», dice Muesli Alievski fondatore e presidente della onlus “Stay Human Odv” , un’associazione impegnata a 360 gradi per aiutare i profughi. «La situazione è nettamente peggiorata», continua, «tutt’ora in questo campo del tutto isolato, posto sotto una montagna, le condizioni di vita dei rifugiati richiedenti asilo politico, denunciate più volte anche attraverso i media, non riescono a migliorare». Il suo stato di conservazione e la qualità della vita sono stati spesso definiti oltre i confini dell’umanità. Vivono in uno spazio ristretto fatto di container e tende che si espandono a macchia d’olio non adatte a fronteggiare le forti piogge o il freddo intenso, gli uni sugli altri, qualcuno si adatta a dormire anche per terra tra rifiuti, topi, scarafaggi e chissà quanta altra forma di sporcizia e con i nuovi arrivi che di certo non cesseranno a causa di una politica disastrata, piena di fallimenti nel saper gestire la condizione dei migranti, frutto dell’accordo tra Ue-Turchia firmato nel 2016 , neanche il poco basterà più. «Il prezzo da pagare è troppo alto per queste persone», sottolinea Alfredo Nazzaro, medico specialista in ginecologia, tornato da poco da una missione umanitaria, la sua prima missione coordinata con “Stay Human Odv” aggregato a sua volta con Smh (“Salvamento Marittimo Humanitario) una Ong spagnola, gli unici autorizzati come medici a operare all’interno del campo. Ha toccato con mano la situazione critica che si respira in quel luogo, guardando negli occhi la vera disperazione piena di tanta rassegnazione e abbandono. Ha potuto constatare l’enorme degrado sia sanitario sia in termini di qualità di vita dove la dignità non esiste più. Lampanti le scarsissime condizioni igieniche dovute alla poca disposizione di acqua - ogni profugo ha diritto a mezzo litro al giorno - in cui versano i rifugiati, pochi bagni (12 per la precisione divisi tra uomini e donne) a disposizione per un numero enorme di persone e la totale mancanza di strumentazioni utili a poter fare delle visite mediche. «L’hotspot di Vial è un vero e proprio campo militarizzato», racconta, «mostra delle condizioni di vita inumane. L’Europa ha il dovere di esercitare le funzioni ispettive e pretendere che vengano rispettati i diritti dei rifugiati». Un luogo dove si respira un clima di violenza che ogni giorno viene perpetrata su queste persone la cui unica colpa, se tale la si vuol definire, è quella di aver cercato aiuto. Subiscono vessazioni di ogni tipo, fisiche e morali, perdendo qualsiasi forma di diritto, incapaci a difenderli. «Quello che non arriva dall’altra parte dell’Egeo», continua Nazzaro, «è che questa gente vive al limite delle condizioni di sopravvivenza. Anch’io come medico ho prestato il mio servizio trovandomi a fronteggiare molte difficoltà. Basti pensare che ero l’unico specialista per più di 5000 persone all’interno del campo, tra cui molte donne in gravidanza che dormendo per terra - quando va bene su una brandina insieme ad altri familiari - avvertivano contrazioni e forti dolori e bambini affetti da evidente malnutrizione a causa della scarsità del cibo. Cibo che quando c’è non è nemmeno di buona qualità. Ero affiancato solo da due colleghe medico di Smh e da due infermiere. Esercitavo all’interno di un capannone che funge da ambulatorio con a disposizione solo un apparecchio della pressione e un lettino con pochissimi farmaci, quelli che ci sono vengono forniti da Smh che li compra a proprie spese. L’ecografo che avevo a disposizione me lo sono portato dall’Italia». Vial è sotto l’occhio attento della polizia che al suo interno ha presidi sparsi ovunque. «Anche i medici sono controllati a vista», spiega Nazzaro, «Se avessi voluto visitare una persona che non poteva venire in ambulatorio, dovevo essere accompagnato dall’esercito. Ogni giorno, davanti ad un poliziotto, ero tenuto a firmare un registro con il mio nome, cognome, organizzazione a cui appartenevo, orario di entrata ed uscita. Non potevo assolutamente utilizzare il telefonino, scattare foto, filmare. Tutti i medici che sono lì non sono autorizzati neanche a scrivere sui social network notizie riguardanti le attività del campo fino a che si ha l’autorizzazione a prestare servizio al suo interno, questo perché non bisogna diramare notizie sulle sue condizioni reali». È una situazione insostenibile dove sembra che il mondo, nella totale indifferenza, rimane impassibile davanti a questa deriva umana destinata all’oblio che però, nonostante il tentativo di piegarla nella volontà, conserva dignità personale. «Ho visitato una ragazza somala», racconta il dottor Nazzaro, «una sopravvissuta per quello che aveva subito nel suo Paese. Era arrivata da una settimana al campo di Vial, cinque mesi prima era stata stuprata da sette jihadisti, accoltellata 15 volte sull’addome, sul pube, sulla radice delle cosce e sui glutei durante lo stupro affinché non gridasse. Aveva delle ferite profonde cicatrizzate. Mi sorrideva mentre me le mostrava e mi ha stupito la sua profonda compostezza e dolcezza con la quale mi diceva don’t worry doctor». Questa dei campi profughi greci è una sfida per il governo ellenico, con l’evidente incapacità di fronteggiare questa situazione d’emergenza. Con la fine dell’esperienza di Alexis Tsipras e l’insediamento della destra di Kyriakos Mitsotakis, è palese la volontà di cambiare radicalmente l’approccio alla gestione d’emergenza costituita dall’afflusso dei migranti provenienti dalla Turchia. Infatti è stato annunciato il varo di manovre più restrittive dal governo greco. La Grecia ha deciso di chiudere i campi profughi, ormai al collasso e di costruire dei centri chiusi per «decongestionare le isole», come ha spiegato il viceministro greco della Difesa, Alkiaviadis Stefanis, considerando la chiusura di questi hotspot entro luglio 2020 come «priorità assoluta» per il nuovo esecutivo. «Se in linea di principio non si può non essere d’accordo sulla necessità di decongestionare i campi sbarco», dice Nazzaro, «questo, però, non può essere fatto trasformando gli stessi, che già sono militarizzati e gestiti dall’esercito e dalla polizia, in vere e proprie strutture di detenzione, decidendo, inoltre, di collocarle su delle isole disabitate, in violazione delle norme e dei trattati internazionali che regolamentano i diritti dei richiedenti asilo. Invece di aprire corridoi umanitari si rinchiudono persone che scappano dalla guerra in campi di concentramento. Contemporaneamente i greci vorrebbero operare una stretta sulle Ong per non avere testimoni scomodi, ma non riusciranno a fermarci. Noi continueremo ad andare in quei campi e portare il nostro aiuto».
Quei cattivi centri d'accoglienza per migranti. In provincia di Potenza le strutture che ospitano migranti per il rimpatrio sono al collasso come documenta il nostro cronista. Fabio Amendolara il 17 gennaio 2020 su Panorama. La terra arida da plaga nordafricana è in smaccata contraddizione con il clima freddo invernale che ha appena costretto gli ospiti a coprire di cellophane o coperte i finestroni senza vetri degli stanzoni in cui di solito vivono in quattro. Talvolta in cinque. Chiusi in «moduli abitativi» di pochi metri con porte senza maniglie e, come letto, un blocco di cemento coperto da un materasso. Fino a qualche mese fa la luce nelle stanze restava sempre accesa: giorno e notte. Alle tre docce comuni, esterne, si accede accompagnati da un carabiniere o da un agente della Celere. E l’acqua calda è un privilegio solo di chi arriva per primo. Anche la recinzione alta poco più di quattro metri e spessa alcuni millimetri, le case basse color ocra chiaro e l’imponente cancello di ferro evocano, sinistramente, i campi di detenzione libici. Ma siamo nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Palazzo San Gervasio, provincia di Potenza. Nonostante la struttura non sia più idonea a causa dei continui danneggiamenti causati dagli stessi immigrati, che attendono di essere espulsi o di ricevere lo status di rifugiato da parte della magistratura, pur di non chiuderlo in attesa di una ristrutturazione, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese costringe qui sia gli ospiti sia gli agenti delle forze dell’ordine che si occupano della sicurezza. Temporeggia il ministro. «Tanto una gara europea per rimettere in sesto il Cpr è stata bandita» ripetono a Panorama i funzionari del Viminale. Sperando che, proprio dall’Europa, non arrivi prima una multa per lo stato in cui versa la struttura. «Nonostante i circa 4 milioni e mezzo di euro già spesi, non c’è neanche una rete di recinzione a norma e le telecamere di sicurezza sono insufficienti» denuncia Antonio Tisci, leader lucano dei sovranisti di Gianni Alemanno di recente confluiti in Fratelli d’Italia, dopo aver incontrato gli agenti che fanno servizio nel centro. E mentre il questore di Potenza Isabella Fusiello annuncia che da cento detenuti si è scesi a 65 e presto si arriverà a 40 (ma solo per permettere l’inizio dei lavori, non per le espulsioni che, invece, vanno a rilento), spunta un carteggio tra la Engel Italia srl, società che ha in appalto il Cpr, il Viminale e la prefettura di Potenza, che testimonia come la situazione sia ormai insostenibile. Il 27 novembre scorso una nota, che dimostra che l’ufficio territoriale del governo sa bene come stiano le cose all’interno del Cpr, viene notificata alla Engel Italia: «Perdurante mancanza dell’erogazione del servizio di assistenza sociale; mancata raccolta delle nomine e delle revoche degli avvocati di fiducia; non sufficiente fornitura di vestiario; fornitura di coperte già sporche e non sigillate; scarsa pulizia rilevata all’interno dell’infermeria». E in virtù della convenzione firmata lo scorso anno, la Prefettura ha deciso di applicare una penalità: il taglio del 5 per cento sull’importo della fattura per il mese di ottobre. In più ha annunciato che «occorre valutare la sussistenza dei presupposti per procedere alla risoluzione del contratto». Solo pochi giorni prima l’amministratrice della Engel, Paola Cianciulli, aveva scritto al prefetto di Potenza per segnalare gli ennesimi atti vandalici, il lancio di oggetti pericolosi, i danneggiamenti dei moduli abitativi dai quali gli immigrati hanno ricavato oggetti contundenti e atti offendere usati per minacciare il personale in servizio. «Gli operatori» scrive Cianciulli «lavorano quotidianamente in un clima di tensione e di paura». Dalla Prefettura hanno anche chiesto spiegazioni sulla mancata vidimazione da parte del medico della struttura del registro dei farmaci consegnati agli ospiti ogni giorno. Un particolare che ha creato un bel po’ di chiacchiere intorno al Cpr. E che ha portato la Procura di Potenza ad aprire un fascicolo per verificare alcune segnalazioni sull’impiego di sedativi. D’altra parte, sono diversi gli ex detenuti che ne hanno parlato anche con i loro avvocati. E durante una perquisizione sono saltati fuori, oltre a flaconi di metadone, «anche medicinali la cui presenza», si legge in un documento delle aliquote di polizia giudiziaria di polizia a carabinieri, «non appariva giustificata da alcuna necessità terapeutica attuale». L’aria, insomma, si è fatta pesante. E le informazioni sono uscite fuori dal circuito bloccato tra Engel e Prefettura. Anche perché uno dei detenuti, sentito dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha riferito «di non aver incontrato il medico e la psicologa, di non essere stato informato sui tempi di trattenimento e di rimpatrio né sulla natura del Centro, di non aver visionato un elenco di avvocati ammessi al gratuito patrocino e di non aver ricevuto il kit vestiario». A ciò si aggiunga che al suo arrivo, come a molti altri detenuti, è stata bucata con un chiodo la fotocamera del telefono cellulare, per impedirgli di documentare lo stato dei luoghi. «Qui», ha messo nero su bianco l’ufficio del Garante dei detenuti «tutte le più plausibili sfumature dell’irregolarità sono costipate e interconnesse. Nessuna esclusa. Col risultato che le rinnovate espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non hanno fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità». E in quelle tre righe dattiloscritte non faceva riferimento solo al Cpr di Palazzo San Gervasio, ma anche a Bari, Brindisi Restinco e Torino. Il Garante mette nero su bianco le «scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture, l’assenza di attività, la non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone trattenute e delle diverse esigenze e vulnerabilità individuali, le difficoltà nell’accesso all’informazione e, ancora, l’assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti o rappresentare istanze». A conti fatti, dunque, non c’è poi tutta questa differenza tra un Cpr italiano e un luogo di detenzione libico, tante volte denunciate dalle cronache e dalle organizzazioni di aiuto internazionali. I continui sbarchi rendono il tutto ancor più complicato, anche perché le capienze effettive dei Cpr sono basse e i tempi di permanenza, invece, spesso si fanno lunghi. In totale, fra i vari Cpr (Torino, Trapani, Palazzo San Gervasio, Bari Palese, Caltanissetta, Roma Ponte Galeria e Brindisi Restinco), si contano 751posti. Nel 2018 sono transitati complessivamente nei Cpr 4.092 stranieri. Ma si tenga conto che i questori hanno emanato, tra il primo gennaio e il 31 ottobre 2019, 19.829 provvedimenti di espulsione e respingimento, di cui solo 5.925 effettivamente eseguiti con rimpatrio coattivo. La percentuale più alta è concentrata nei primi sei mesi dell’anno. E alcune delle criticità segnalate dal Garante, addirittura, appaiono persino più gravi rispetto al passato: «Il guasto, riscontrato in un Centro, di tutti i telefoni pubblici che, unito alla mancata disponibilità di telefoni cellulari da destinare agli ospiti, rischia di comprimere il diritto alla difesa e quello all’unità familiare». In alcuni Cpr «non esistono ambienti forniti di tavoli e gli ospiti si trovano costretti a consumare i pasti sul proprio letto». Al Viminale sperano che l’apertura di nuovi Cpr (Macomer, Gradisca d’Isonzo e Oppido Mamertina) possa fare da cuscinetto. Ma la bomba, ormai, è definitivamente innescata - ed è pronta a scoppiare - tra le mani del ministro Lamorgese.
Rosarno, ecco cosa (non) è cambiato a dieci anni dalla rivolta dei braccianti immigrati. Si sfrutta il lavoro lasciando che le persone vivano in condizioni sconcertanti. Ieri come oggi, le istituzioni locali sono spesso commissariate per infiltrazioni mafiose, incapaci di coraggio lungimirante. La Repubblica il 9 gennaio 2020. Sono passati dieci anni da quando Rosarno, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro, fino ad allora conosciuto solo per gli agrumeti e per la presenza capillare della ndrangheta, è divenuto noto per la cosiddetta “Rivolta di Rosarno” (Leggi anche il reportage dalla tendopoli-lager dei migranti del 13 dicembre 2008). Solo allora l’opinione pubblica scoprì che ogni anno, nei mesi di picco della raccolta agrumicola, oltre 2000 migranti raggiungono le campagne della Piana per lavorare come braccianti in condizioni di gravissimo sfruttamento, costretti a vivere in edifici abbandonati, casolari diroccati o baraccopoli improvvisate in condizioni drammatiche e umilianti.
Ancora condizioni di vita sconcertanti. Quell’anno erano circa 1500 i lavoratori stranieri, per lo più giovani uomini provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana occidentale e regolarmente soggiornanti, presenti nella Piana. Oggi, a dieci anni di distanza, il numero resta pressoché invariato – dopo aver raggiunto picchi di oltre 3000 presenze negli anni passati – e altrettanto sconcertanti restano le condizioni di vita e di lavoro. E d’altra parte, ieri come oggi, le istituzioni locali – spesso commissariate per infiltrazioni mafiose – e quelle nazionali appaiono incapaci di qualsivoglia pianificazione politica efficace, coraggiosa e lungimirante, limitandosi invece a riproporre il circolo vizioso sgombero-tendopoli-baraccopoli, che da dieci anni lascia invariate le piaghe dello sfruttamento lavorativo, del degrado abitativo e dell’abbandono dei territori.
Sovraffollamento e degrado. Se infatti nel 2010 i lavoratori impiegati nella raccolta trovavano rifugio in una ex fabbrica in disuso – una delle tante costruite con i finanziamenti della legge 488 del ‘92 e poi abbandonate – e in un’altra struttura abbandonata nella zona industriale di San Ferdinando, oltre che nei numerosi casolari diroccati sparsi nelle campagne dei Comuni limitrofi, in assenza di qualsivoglia servizio di base, oggi il sovraffollamento, l’assenza di servizi e l’estrema precarietà delle condizioni igienico-sanitarie restano invariati per le oltre mille persone che popolano i casali abbandonati. Poco è cambiato anche per le oltre 400 persone che affollano l’ennesima tendopoli ministeriale – sorta in seguito allo sgombero della baraccopoli abitata da circa 2500 migranti avvenuto a marzo 2019 – e che versa in condizioni di sovraffollamento e degrado. La carenza di soluzioni abitative adeguate rende i lavoratori sempre più invisibili, poiché costretti a disperdersi in abitazioni di fortuna nelle campagne, e sempre più esposti allo sfruttamento e al caporalato.
La clinica mobile di MEDU. La Dal 2014 MEDU (Medici per i Diritti Umani) opera nella Piana con una clinica mobile, per garantire la tutela della salute e dei diritti fondamentali e l’accesso alle cure e ai servizi socio-sanitari da parte della popolazione degli insediamenti precari del territorio. Da dicembre 2019 la clinica mobile è di nuovo attiva nella Piana di Gioia Tauro e fornisce assistenza sanitaria e socio-legale alla popolazione degli insediamenti precari, in particolare presso la tendopoli ufficiale sita nella zona industriale di San Ferdinando, il campo container di contrada Testa dell’Acqua e i casolari abbandonati nelle campagne di Drosi e Rizziconi. Nel 2014 il lavoro nero e il caporalato erano fenomeni pervasivi, rappresentando di fatto la normale modalità di organizzazione del lavoro: l’83% dei lavoratori visitati da Medu, nella quasi totalità dei casi regolarmente soggiornanti, non aveva un contratto e solo il 5% dei lavoratori non ricorreva ad un caporale.
Solo 1/3 riceve la busta paga. La paga giornaliera si attestava tra i 20 e i 25 euro per 8-9 ore di lavoro. Negli anni successivi, l’aumento dei controlli da parte dell’Ispettorato del lavoro ha determinato un aumento dei contratti, ma nella stagione agrumicola del 2019 i dati raccolti dal team della clinica mobile rivelano che nella maggior parte dei casi il “lavoro grigio”, caratterizzato da gravi irregolarità salariali e contributive e da violazioni delle norme sulle condizioni di lavoro, ha preso il posto del lavoro nero. Anche in presenza di un contratto di lavoro – il 60% dei 438 lavoratori visitati era in possesso di un contratto di breve durata – permane infatti una condizione di sfruttamento diffusa su larga scala, con una retribuzione che resta intorno ai 25-30 euro giornalieri e in assenza di tutele e diritti. Lo stesso dato si riscontra tra i pazienti visitati da Medu nel mese di dicembre 2019: su 74 pazienti, di cui l’83% regolarmente soggiornanti, solo il 35% aveva un contratto di lavoro, ma solo un terzo di questi ha dichiarato di ricevere una busta paga. Molto spesso, una parte della retribuzione viene corrisposta in nero dal datore di lavoro, il quale dichiara in busta paga meno giornate di quelle effettivamente svolte dal bracciante.
Le patologie più frequenti. Come nel 2014, le patologie riscontrate nella giovane popolazione degli insediamenti precari – principalmente infiammazioni delle vie respiratorie, patologie osteoarticolari e patologie dell’apparato digerente – sono attribuibili nella maggior parte dei casi alle pessime condizioni di vita e di lavoro. L’accesso alle cure d’altra parte era allora ed è ancora oggi ostacolato da numerosi fattori, tra i quali l’isolamento dei luoghi di vita in assenza di trasporti pubblici, la mancanza di informazioni sul diritto alla salute e le modalità di accesso ai servizi, le gravissime carenze strutturali dei servizi di salute pubblica locali, l’impossibilità di effettuare l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale in assenza di una residenza riconosciuta.
E', di fatto, un'altra emergenza umanitaria. Quella dei braccianti e dei ghetti sembra ancora oggi un’emergenza umanitaria, nonostante si ripeta vergognosamente ogni anno. In presenza di una filiera produttiva iniqua e di adeguate politiche di settore, il comparto agrumicolo continua a richiedere ogni anno braccianti a basso costo e senza diritti per poter sopravvivere. I migranti rappresentano la manodopera ideale, ancor più negli ultimi anni, in virtù delle recenti politiche che hanno determinato una crescente precarietà giuridica, sociale e lavorativa dei migranti e dei titolari di protezione internazionale e umanitaria, che costituiscono la quasi totalità della popolazione dei ghetti.
Gli odiosi episodi di violenze e aggressioni. Una terra ingiusta, è stata definita da Medu quella della Piana di Gioia Tauro, ma anche una terra bruciata, dove troppe persone hanno trovato la morte in evitabili incendi di baracche o in odiosi episodi di violenza criminale. Quattro sono state le persone morte carbonizzate in poco più di un anno, tra il 2018 e il 2019: Moussa Bà, nella baraccopoli, Sylla Naumè, nella tendopoli ministeriale e poi ancora Becky Moses e Suruwa Jaiteh. A queste si aggiungono Soumalia Sacko, ucciso da colpi di arma da fuoco di un civile mentre cercava delle lamiere per costruire una baracca e Sekine Traore, ucciso da un carabiniere durante un intervento delle forze dell’ordine presso la tendopoli.
Gli arresti recenti. E’ di ieri la notizia di diversi arresti, frutto di un’inchiesta della procura di Palmi nata dalla denuncia di un bracciante agricolo sfruttato, che ha portato all’arresto di una rete di caporali responsabili, d’accordo con aziende agricole della Piana, di intermediazione illecita di manodopera e sfruttamento lavorativo. A dieci anni dalla rivolta di Rosarno e dopo i numerosi protocolli istituzionali rimasti lettera morta, appare quanto mai urgente, necessaria e indifferibile una condanna decisa della piaga dello sfruttamento lavorativo e un impegno concreto e coordinato da parte della politica e di tutte le istituzioni competenti nella direzione del suo superamento e dell’affermazione dei diritti fondamentali – in particolare i diritti sul lavoro -, della legalità, della solidarietà sociale e dello sviluppo del territorio. Le richieste di MEDU:
– l’introduzione di efficaci meccanismi di incontro legale tra la domanda e l’offerta di lavoro e il potenziamento di quelli esistenti;
– l’adozione di un piano graduale e strutturato di inclusione socio-abitativa dei lavoratori agricoli nei Comuni in via di spopolamento della Piana, anche attraverso pratiche di intermediazione abitativa già dimostratesi efficaci nel territorio della Piana e in altri territori;
– il riconoscimento della residenza presso gli insediamenti informali, condizione imprescindibile per consentire l’accesso ai diritti fondamentali; la sensibilizzazione e il sostegno alle aziende che rispettino i diritti dei lavoratori:
– l’attivazione di politiche che favoriscano la regolarità del soggiorno dei migranti (quali il ripristino dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, la possibilità di conversione in permesso di lavoro per tutte le tipologie di protezione, la regolarizzazione del sommerso, etc.), requisito indispensabile per poter accedere ad un lavoro con diritti e dignità.
La vergogna dei Cpr, 20 anni di sangue tra morti, suicidi e soprusi. Stefano Galieni il 2 Gennaio 2020 su Il Riformista. Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim, sei nomi che oggi forse non dicono nulla. Erano i nomi di 6 ragazzi tunisini rinchiusi nel dicembre 1999 nell’allora Centro di Permanenza Temporanea ed Assistenza, (CPTA), “Serraino Vulpitta” a Trapani, un mini carcere ricavato da un’ala di un vecchio ospizio. Stavano per essere rimpatriati, tentarono la fuga il 28 dicembre, vennero presi e rinchiusi insieme ad altri due connazionali. Uno di loro diede fuoco a un materasso, non si rassegnavano alla sconfitta. Il risultato fu una morte orribile, resa possibile dal fatto che non si trovavano le chiavi per aprire la cella in cui erano rinchiusi, nessuno si volle assumere la responsabilità di farli uscire, gli estintori erano vuoti o non funzionanti. Nessuno ha pagato per le loro morti anche se i due superstiti hanno ottenuto un indennizzo che non potrà certo cancellare l’orrore. Non ricordiamo questo solo perché sono passati 20 anni da un plurimo omicidio, tante altre morti fra “malori”, suicidi, tentativi di evadere ci sono stati negli anni successivi nei diversi centri di detenzione in Italia che cambiavano denominazione e acronimo ma producendo gli stessi osceni disastri. E a dire il vero la prima vittima delle galere create da un governo di centro sinistra, c’era già stata a Roma, nel Cpta di Ponte Galeria. Era la notte di Natale del 1999, si chiamava Mohammed Ben Said, venne ritrovato all’alba con la mascella rotta ed ecchimosi in tutto il corpo. Un’altra morte impunita, pochi giorni prima della strage di Trapani. Venti anni dopo cosa è cambiato? I centri hanno cambiato, si diceva, più volte denominazione, prima Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) con il ministro Maroni, nel 2009 e ora Cpr, Centri Permanenti per il Rimpatrio, con il ministro Minniti. In 20 anni si è tentato in ogni modo di chiudere queste strutture, utilizzando dapprima una parte del mondo politico che conservava una idea di diritto, contemporaneamente grazie alle piazze che hanno visto grandi mobilitazioni per chiedere o la chiusura di un centro appena aperto o per impedirne l’apertura. E insieme si mossero giuristi, avvocati, giornalisti, uomini e donne che, cercando di creare un fronte ampio di consapevolezza, aspiravano a far comprendere i danni ed i costi umani, economici, culturali e politici che il rinchiudere e deportare persone per il solo fatto di esistere, avrebbero portato. Sono migliaia in tanti anni gli uomini, le donne e a volte anche i minorenni, che sono stati “ospiti”, fra queste gabbie di ferro e cemento sparse per l’Italia, spesso ex caserme, a volte strutture create ex novo, da Torino a Caltanissetta, da Gradisca D’Isonzo a Lamezia, a Palazzo S.Gervasio, Bari, Brindisi, Lecce, Crotone, Milano, Modena, Bologna ed ltri ancora. Nel periodo del loro massimo “successo” furono 14 i centri sparsi per la penisola. Dal 2007 numerose ragioni portarono lentamente a chiudere alcuni centri. In primis le rivolte che scoppiarono soprattutto quando aumentarono i tempi di trattenimento, rivolte che portarono spesso a rendere inagibili interi settori, denunce per malagestione, suicidi, difficoltà rendere effettivi i rimpatri. Per un breve periodo addirittura si auspicò il superamento dell’istituto della detenzione amministrativa e il numero dei centri operativi, lentamente, si ridusse. Nel 2011, all’inasprirsi delle tensioni nei centri rimasti operativi il Viminale reagì con una circolare che inibiva totalmente l’ingresso a operatori dell’informazione e ad associazioni di sostegno non riconosciute, la maggior parte. Nacque una campagna “LasciateCIEntrare” per provare a rompere la cappa di silenzio che era ormai caduta sui centri, a cui rimanevano ad opporsi pochi attivisti. Intervenne anche l’Fnsi, l’Ordine dei Giornalisti e, con la crisi del governo Berlusconi/Maroni si giunse a una sospensione della circolare. Di fatto l’accesso ai centri resta ancora oggi limitato ed a totale discrezione delle prefetture e quindi del competente ministero dell’Interno. Ma il vero peggioramento è iniziato nel 2015 ed è in fase di realizzazione. Prima, attraverso il Migration Compact, concordato con l’Unione Europea, vennero realizzate ulteriori strutture di identificazione, gli hotspot, destinate a separare i richiedenti asilo sbarcati che potevano aver diritto ad alcune forme di protezione o allo status di rifugiato da quelli da rimpatriare. In assenza di una loro definizione giuridica non sono mai state ufficialmente spazi di privazione delle libertà personali ma, la loro collocazione, la lentezza delle prime procedure di fotosegnalazione e identificazione, a volte il sovraffollamento hanno soventemente bloccato gli “ospiti” per tempi mai regolamentati, anche nell’ordine di settimane. E non è bastata una condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Klhaifia, per impedire queste prassi che violano le garanzie costituzionali ed internazionali in materia di libertà personale. L’aumento temporaneo degli arrivi del 2016, il Memorandum con la Libia del febbraio 2017, l’assenza di politiche di regolarizzazione di chi perdendo il lavoro, perdeva anche il diritto a restare in Italia, ha fatto rilanciare l’idea che nuovi centri di detenzione fossero “necessari”. Il “piano Minniti”, reiterazione di quanto già affermato da precedenti inquilini del Viminale, prevedeva l’apertura di Centri Permanenti per il Rimpatrio in ogni regione. Si è iniziato ripristinando la sezione maschile di Ponte Galeria (Roma), poi riaprendo Palazzo San Gervasio (Potenza). Da tempo era decisa l’apertura di almeno 4 o 5 Cpr ed erano già stati individuati i siti. Il primo ad aprire è stato quello di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia, nell’ex caserma Polonio. La classe politica sembra voler ignorare che i CPR, in cui si potrà restare rinchiusi anche per sei mesi rischiano di divenire vere e proprie bombe ad orologeria in cui potrebbero facilmente riaccadere tragedie come quella con cui abbiamo iniziato questo racconto e che per il mondo antirazzista resta indimenticabile e inaccettabile. In 20 anni è stata prodotta una ampia letteratura sull’argomento, dai rapporti realizzati prima da MSF e poi da MEDU, al Libro Bianco realizzato grazie al Comitato diritti Umani del Senato, a relazioni delle istituzioni e del Garante per i detenuti. Da ultimo un volume divulgativo edito dal settimanale Left di cui Adif è fra le forze che hanno contribuito a realizzarlo e dal titolo “Mai Più”. Una corretta comunicazione su queste strutture è determinante per svelarne il carattere nocivo, ma altrettanto importante è riprendere le mobilitazioni. L’11 gennaio, dopo un primo presidio a pochi giorni dall’apertura, si terrà una manifestazione a Gradisca D’Isonzo, il 18 una assemblea regionale a Milano per fermare l’apertura di Corelli. Ci auguriamo sia solo l’inizio.
"I fondi europei per la Libia vanno a trafficanti e miliziani". L'Associated Press denuncia il malaffare: grosse somme finiscono nelle tasche delle milizie e dei criminali libici. Coinvolto anche l'Onu. Alberto Giorgi, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. I fondi dell'Unione Europea e Onu per la Libia finiscono, in buona parte, nelle tasche delle milizie, dei trafficanti e degli scafisti. A denunciarlo, con un'esclusiva inchiesta di fine 2019, è l'Associated Press. Di fatto, la storica agenzia di stampa internazionale sostiene che mastodontiche cifre di denaro pubblico vanno a finanziare i loschi traffici di delinquenti e che la cosa si nota sia all'Ue che alle Nazioni Unite. Peraltro, l'AP già nel 2017 aveva puntato il dito contro alcune Ong umanitarie, scrivendo che parte dei fondi stanziati dall'Europa per rafforzare la Guardia costiera libica era andata persa, a vantaggio di alcune organizzazioni attive nel traffico di essere umani.
Per esempio, ci sarebbe stata una commessa da sette milioni di euro per la fornitura di cibo ai migranti è andato dritto-dritto a gonfiare il portafoglio di un capoccio di una milizia, senza che alcun funzionario dell’Onu denunciasse con vigore la cosa.
L'inchiesta dell’Associated Press spiega come negli ultimo dodici mesi la Commissione Europea abbia investito oltre trecento milioni di euro – 327,9 per la precisione – in Libia. Fresco, anzi freschissimo, l'ultimo bonifico da 41 milioni di dicembre. L'Italia, per esempio, negli utimi due anni, avrebbe investito nel sistema libico, circa mezzo miliardo di euro (475 per la precisione), di cui un centinaio arrivati da Bruxelles.Destinatari dei fondi europei sono (o meglio, dovrebbero essere…) tutte quelle agenzie dell'Onu impegnate sul campo come l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni-Iom, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati-Unhcr, come riportato da Euronews. Associated Press, dopo aver visionato alcuni documenti risalenti al 2017, rivela come l'Ue sarebbe stata assolutamente a conoscenza del più che concreto rischio che i soldi destinati all'assistenza sanitaria potessero invece finire paradossalmente a finanziare le truppe di miliziani e i trafficanti di migranti. Questo, infatti, è quello che scrive l'AP: "Quando l'Ue ha incominciato a versare incanalare milioni di euro verso Libia per rallentare la marea di migranti che attraversano il Mediterraneo, i soldi sono arrivati con la promessa di migliorare i centri di detenzione, noti per gli abusi, e combattere la tratta di esseri umani. Non è successo. Al contrario, la miseria dei migranti in Libia ha generato una rete fiorente e altamente redditizia di imprese finanziate in parte dall'Ue e rese possibili dalle Nazioni Unite".
· I famelici…
I migranti aggrediscono gli italiani? La sinistra difende solo gli stranieri. A Crema tre marocchini aggrediscono un italiano, ma fa più scalpore un atto di violenza contro un extracomunitario: "Doppiopesismo davvero inopportuno e atteggiamento ideologico". Luca Sablone, Martedì 06/10/2020 su Il Giornale. Non è una novità ma semplicemente una conferma: la sinistra tace sulla violenza ai danni degli italiani e condanna a gran voce solamente quelle contro gli stranieri. Un'ulteriore dimostrazione è arrivata verso fine settembre a Crema, dove si sono verificati due episodi simili a stretto giro: i buonisti locali non hanno ovviamente perso l'occasione per prendere le difese esclusivamente degli extracomunitari. Due aggressioni condite anche con una rapina da parte di tre migranti, che si sono resi protagonisti di una violenta vicenda nei pressi del luna park in via Battaglio, nel quartiere di Santa Maria in provincia di Crema: hanno attirato un 16enne, residente in un paese limitrofo alla città, in una zona appartata per poi compiere il gravissimo gesto. Come spiegato dal questore Bruno Pagani, "dopo averlo colpito con diversi pugni al volto si sono impossessati della collanina in oro che portava al collo". Al termine delle indagini basate su perquisizioni, sequestri, acquisizione di informazioni da parte di persone informate sui fatti e individuazioni fotografiche, per uno di loro è scattato l'arresto mentre gli altri due sono stati indagati in stato di libertà alla Procura presso il Tribunale dei minorenni di Brescia. L'accusa è di rapina e lesioni personali volontarie. Il giovane italiano, dopo essersi sottoposto alle cure del caso, è stato dimesso con una prognosi di 25 giorni.
Lo strabismo della sinistra. Pochi giorni dopo si è invece verificato un episodio che ha scatenato l'ira della sinistra: tre italiani sono stati assicurati alla giustizia per concorso nei reati di minacce gravi e lesioni personali aggravate ai danni di un extracomunitario, richiedente protezione internazionale e domiciliato in un centro accoglienza. Il 31enne nigeriano è stato colpito da una serie di pugni e minacciato con una pistola. L'avvenimento ha fatto immediatamente partire tutti gli approfondimenti per valutare l'applicazione dell'aggravante della discriminazione o odio etnico o razziale. Dalla "spedizione punitiva" ha preso subito le distanze Franco Bordo, uno dei pilastri del circolo Arci di San Bernardino e particolarmente attivo sui temi sociali: "Non ritengo ci siano i margini per una costituzione di parte civile da parte del Comune, ma l’Amministrazione dovrebbe far sentire la sua voce in qualche modo, di fronte ad un fatto tanto grave". Nelle ore successive Emanuele Coti Zelati, consigliere comunale de La Sinistra per Bonaldi sindaca, si era associato alla richiesta di costituzione di parte civile del Comune. "Trovo insopportabile che la sinistra politica, con il consueto strabismo, si sia mobilitata solo per la triste vicenda relativa all’aggressione subita dal nigeriano", tuona Antonio Agazzi. Il capogruppo di Forza Italia in Comune a Crema, contattato in esclusiva da ilGiornale.it, ha sottolineato come si sia sfoderato "un doppiopesismo davvero inopportuno": la sequenza ravvicinata dei fatti si era incaricata di dimostrare che "la logica manichea in base alla quale gli stranieri sono sempre buoni e vittime e gli italiani sempre cattivi e intolleranti non ha aderenza con la realtà, con il vissuto quotidiano delle nostre comunità". Si tratta di un "atteggiamento ideologico" di chi evidentemente non riesce a cogliere la problematicità dell'integrazione tra stili di vita differenti "e l'artificiosità di certe vagheggiate società multiculturali". La sinistra ha perso ancora una volta la possibilità di provare a capire il disagio che serpeggia nelle città, nei quartieri, nelle periferie, solamente per rimanere fedele alle proprie costruzioni teoriche a favore dei migranti, contro ogni evidenza. "Ma, in tal modo, la sinistra divorzia dal sentimento popolare, non lo interpreta più, un po' dispiace per loro, per la loro tradizione politica, che un tempo sapeva indubbiamente essere più vicina ai problemi della gente".
Lo sfogo shock sui migranti: "Hanno mangiato i miei cani". Una lampedusana racconta l'inferno vissuto sull'isola con gli sbarchi che non si fermano: "Ecco che cosa fanno qui...". Chiara Giannini, Venerdì 07/08/2020 su Il Giornale. “Mi hanno mangiato quattro cani, due caprette e diverse galline. Così non è più possibile andare avanti”: Rosy Matina è una lampedusana il cui terreno, acquistato dal padre nel 1967, confina con l’hotspot di Cala Imbriacola. Non ne può più. Gli immigrati la notte salgono fino alla sua proprietà e bivaccano, bevono alcol, si ubriacano. L’aria intorno alla casa diroccata, il cui tetto è stato buttato giù dalla stessa Rosy e dal compagno perché i migranti si appartavano con le donne e facevano sesso all’interno, è irrespirabile. C’è un’odore di urina ed escrementi, disseminati tutto intorno, simile a quella che si percepisce nelle vicinanze di un depuratore. Per terra coperte prese dall’hotspot, piatti, resti di cibo, materassi. “Una sera siamo venuti su - racconta - e abbiamo trovato gente accampata. Ci hanno offerto hashish. Un’altra volta sono venuta con mia figlia e in 14, ubriachi, ci hanno fatto molestie sessuali. Sono scivolata giù per il dirupo, verso l’hotspot. La mia bambina mi ha seguita di corsa. Abbiamo chiesto aiuto alla polizia. Ci hanno detto che i migranti sono intoccabili. Quelli fanno cosa vogliono”. La ragione? “C’è chi guadagna e molto dalla loro presenza”, ci spiega. Rosy è esasperata dalla situazione. Ha presentato numerose denunce ai carabinieri, ha fatto esposti, ma nessuno è mai intervenuto. “Hanno detto che sarebbero venuti a pulire - chiarisce -, ma niente, non si sono più fatti vivi. Il sindaco Totò Martello si deve vergognare. Quello dovrebbe solo lasciare la poltrona e sparire. Io ve lo dico: qualche volta se trovo un migrante ancora nella mia proprietà gli sparo. Ci fosse stato mio padre avrebbe usato la lupara”. Rosy viveva delle colture del suo terreno, di ciò che guadagnava dall’allevare pecore e galline. “Mi sono rimasti solo i maiali - prosegue -. Quelli non li mangiano perché per gli arabi è proibito. Però si sono mangiati quattro dei miei cani”. Lo dice mostrandoci i resti di un cagnolino. “Se lo sono spellato - racconta - e lo hanno fatto sulla brace. Vedete, proprio lì, dove ci sono le coperte”. Una situazione degna di un film dell’orrore, a poche centinaia di metri dal centro di Lampedusa, dove i migranti la sera escono anche per spacciare. Una commerciante racconta che “ogni tanto arriva il furgone dell’hotspot. Li scarica e loro si siedono sui gradini di fronte alla chiesa perché il parroco, don Carmelo La Magra, dà loro la password del wi-fi. Molto ragazzini - continua - si avvicinano loro per comprare gli stupefacenti. Più volte abbiamo chiamato le forze dell’ordine, ma niente, non vengono e se arrivano sembrano aver paura. Una donna carabiniere la sera che c’è stata una rissa si è chiusa in auto. Eppure era armata”. Perché anche qui, in una terra che ormai sembra di nessuno e dove i migranti la fanno da padrone, succede anche questo. In mezzo a una Lampedusa che potrebbe vivere solo di turismo, la mala gestione di un’amministrazione che se ne infischia dei problemi e di un governo nazionale che fa orecchie da mercante perché il guadagno di chi specula sull’accoglienza conta di più, sta portando a problemi inenarrabili. “Io ve lo dico - ripete Rosy -, prima o poi ne ammazzo qualcuno. Tanto non ho più niente da perdere”.
Salvatore Dama per "Libero Quotidiano" il 7 agosto 2020. Prima del porto nuovo c'è una strada sulla destra. La riconosci perché, all'angolo, c'è un tizio che affitta mute da sub. Sono vie che conoscono solo i lampedusani. Molti di loro abitano nell'entroterra. In fincas monopiano perimetrate da muretti di pietra viva. La loro altezza non supera il metro da terra. Facilmente scavalcabili. Ma prima, quando le hanno costruite, bastavano quelle. Nel senso, per delimitare la proprietà privata. A Lampedusa i residenti sono quattromila. D'inverno. Si conoscono tutti. O quasi. Si chiamano per nome, per soprannome o con un patronimico. Poi - ti spiegano - la pace è finita con gli sbarchi. Quando l'hotspot di Contrada Imbriacola è al collasso, per le troppe presenze, nelle aree circostanti è l'anarchia, vige la legge della giungla. La strada sulla destra, dicevamo. La si percorre per un tot, poi si gira a sinistra. Finisce l'asfalto e comincia lo sterrato. Poi termina lo sterro e partono i sassi. Alla seconda intersezione sei in mezzo al nulla. Ma sei vicino all'hotspot. Lo sai perché incroci gruppetti di tunisini. Camminano in due o tre, al massimo quattro. Sono reclusi nel centro di prima accoglienza. In quarantena, per via del coronavirus. Sì vabbè, reclusi Ciaone. La rete che delimita il lato Nord è bucata. Un bello sbreco. Basta tirare giù la testa e in un attimo si è fuori. Le autorità lo sanno e non fiatano. «Se chiudono il buco, dentro l'hotspot succede il finimondo. Come nel 2016», ricorda Attilio Lucia, vice coordinatore della Lega lampedusana, «quando i migranti diedero fuoco a un plesso». È una valvola di sfogo. Alcuni ragazzi escono per comprare frutta e farsi due passi sul lungomare. Altri sono meno educati. Si portano fuori i materassi in gommapiuma. Le coperte di pile. Le vaschette con i cibi precotti della mensa. Qualche birra comprata al market giù al porto. E si dirigono nelle campagne attigue.
IL DRAMMA DI ROSY... Una di queste appartiene a Rosy. Ed è disperata. Sono quattro anni che sporge denunce. Inutilmente. Il suo ettaro di terra è diventato una discarica. Negli anni ha raccolto centinaia di plaid, monnezza, cocci di bottiglie, escrementi. Ha dovuto fronteggiare un gruppo di dieci migranti ubriachi. Ma c'è di peggio. Le sono sparite galline, capretti e quattro cagnolini. «Se li sono mangiati», è la sua sentenza. Orripilante. Tuttavia è dura credere che i tunisini apprezzino il barbecue canino. Karin, per esempio, ha un palato gourmet. Ci incrociamo lungo il sentiero ciottoloso che porta al buco. Canotta Nike Jordan, shorts di jeans e borsello, si dirige verso il paese per fare acquisti. «Vado a comprare qualcosa da mangiare», annuncia, «oggi, a mensa, c'era un pezzetto di pane così» - fa un gesto con la mano per mimare l'esiguità del rancio - «e una salsiccia di tacchino. Poca roba». Parla abbastanza bene l'italiano. Ma non è qui da noi che sta pianificando il suo futuro. «Devo andare in Francia», precisa, «lì c'è mia moglie».
...E QUELLO DI KARIN. Karin rimpiange i tempi di Ben Alì: «Prima almeno rubava uno solo, ora rubano tutti». Il trasbordo in barca gli è costato «cinquemila dinari, mille e cinquecento euro, più o meno». È al quattordicesimo giorno di permanenza. Ha finito la quarantena. Tra qualche ora lo porteranno altrove. Ed è contento: «Qui fare la cacca è un problema», confessa, «devo uscire, portandomi dietro una bottiglia d'acqua, e farla sotto un albero». In effetti le frasche adiacenti al buco sono oltre il limite della tolleranza. Un ammasso di materassi, rifiuti e merda. Annunciato da nuvole di mosche e un tanfo nauseante. Ieri a Lampedusa è sbarcato Sami Ben Abdelaali, deputato tunisino. Voleva sincerarsi delle condizioni dei suoi connazionali presso l'hotspot. Ma è stato rimbalzato. Attraverso il prefetto, il ministro Luciana Lamorgese gli ha negato il permesso di visitare Contrada Imbriacola. Un mezzo caso diplomatico. Abdelaali è stato ricevuto dal sindaco Salvatore Martello. Occasione in cui si è lamentato dell'atteggiamento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il quale ha annunciato di voler tagliare i fondi della cooperazione destinati al suo paese. Poi il membro del Parlamento di Tunisi si è seduto a un tavolino di un bar del porto vecchio e ha incontrato una delegazione di tunisini ospitati presso l'hotspot. La situazione dentro è davvero drammatica, ha appreso il politico nordafricano. Ci sono ancora quasi settecento persone laddove ne dovrebbero essere ospitate 97. Condizioni inumane, hanno raccontato i migranti: «I servizi igienici sono insufficienti. Nello stesso metro quadrato, c'è chi mangia, chi piscia e chi si china per cagare». Data l'assenza di spazi, si dorme anche nei plessi resi inagibili dall'ultimo incendio. E lì oltre ai wc mancano pure le docce. C'è una pompa. Dove ci si lava a turno. Ma visto che era motivo di risse tra gli ospiti, è stata eliminata pure quella. In sostanza, non ci si lava proprio. In nottata dovrebbe calare il maestrale, consentendo alla nave-quarantena di fare un nuovo carico di migranti. Se non bastassero i guai, in fase di manovra la Azzurra ha tranciato dei cavi telefonici lasciando Lampedusa senza internet. O quasi.
Immigrato arrostisce un gatto. Il filmato shock da Campiglia Marittima. Il migrante uccide il gatto in stazione, poi urla: "Non ho soldi". Disgusto fra i pendolari. La Ceccardi: "Questa non è integrazione". Francesca Galici, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. Orrore e sgomento alla stazione di Campiglia Marittima, piccolo centro costiero della provincia di Livorno. Qui, davanti agli occhi di tutti, un migrante ha arrostito un gatto. A denunciare il fatto è stata Susanna Ceccardi, parlamentare europeo candidata da Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia per la presidenza della Regione Toscana, che sui suoi social ha condiviso il video agghiacciante. "Lo choc di una signora, le sue urla disperate per cercare di fermare un immigrato che arrostisce un povero gattino davanti a tutti. Ma come si può arrivare a tanta crudeltà?", scrive Susanna Ceccardi a corredo del video. "È questo il nuovo 'stile di vita' che dovremmo seguire? È questo il sistema di 'accoglienza' della Regione Toscana? Questa non è integrazione. P.S. È una scena quasi irreale per la sua mostruosità, si fa fatica a guardare, ma è importante che si conosca la verità", conclude l'europarlamentare. A ricostruire la vicenda è stato il quotidiano La Nazione, che ha raccontato nei dettagli l'orrore al quale hanno assistito i pendolari che questa mattina attorno alle 7 si trovavano alla stazione di Campiglia Marittima. Qui, un migrante con un barbecue improvvisato con quattro tavole di legno stava cuocendo qualcosa. Ci è voluto poco per capire che quello sul fuoco era un gatto che il migrante aveva ucciso poco prima e che si stava apprestando a mangiare. Una donna si è immediatamente scagliata contro di lui per filmare quell'abominio: "Ti faccio arrestare, da noi i gatti non si cucinano". "Non ho i soldi", le ha risposto l'uomo. Le urla della donna hanno richiamato l'attenzione di tutti i presenti in stazione, che hanno ripreso quanto stava accadendo, non prima di aver chiamato le forze dell'ordine. "I soldi ce li hai, vedo che hai le sigarette. I soldi per quelle ce li hai", ha continuato la donna. Il migrante ha continuato con il suo folle barbecue, mentre il povero gatto giaceva ormai carbonizzato sul fuoco e i presenti assistevano inermi a quell'orrore che si stava consumando davanti a loro. "Vergognosi, schifosi, pezzo di merda", urla la donna mentre riprende quella mostruosità, nell'indifferenza dell'uomo che continua imperterrito il suo "barbecue". La Nazione riferisce dell'arrivo dei carabinieri, che accertati i fatti hanno portato l'uomo in caserma. Qui è stata verificata la regolarità della sua permanenza in Italia ed è per lui scattata la denuncia per crudeltà e senza necessità, secondo quanto previsto dall'articolo 544 bis del codice penale in materia di maltrattamento degli animali. Forte lo sgomento di chi, purtroppo, ha dovuto assistere a quello scempio, inconcepibile per qualunque Paese civile. Inaccettabile che in Italia si possa perpetrare un simile atto di violenza.
Sardine, immigrato arrostisce un gatto in strada? "Sono vegetariana, ma lo capisco": una difesa scandalosa. Libero Quotidiano l'1 luglio 2020. Un gesto deplorevole quello dell'immigrato immortalato mentre si cucinava un gatto a Camiglia Marittima, alle porte di Livorno. Il video, diffuso dalla candidata leghista Susanna Ceccardi, ha alzato un vero e proprio polverone. L'unanimità ovviamente ha convenuto con l'europarlamentare anche se - a sorpresa - non tutti sono della stessa opinione. Una a caso? Meryem Ghannam, coordinatrice della pagina Facebook delle sardine di Pontedera, nonché già candidata col centrosinistra alle elezioni comunali, che sul web scrive: "Sono vegetariana da 16 anni e non condivido il gesto però lo capisco. Non mi scandalizzerei più di tanto. Questa emergenza ha gravato sulle entrate di molte famiglie. Non mi meraviglio se una persona presa dalla fame e all'esasperazione cucinasse il primo animale che si trova davanti. Si chiama istinto di sopravvivenza. Se avesse avuto scelta, sicuramente sarebbe andato in un supermercato e avrebbe comprato del cibo salutare come ogni altra persona anziché rischiare di essere infetto da chissà quali malattie l'animale si porta addosso". Peccato però che stando a quanto confermato dai passanti l'immigrato avesse a disposizione le sigarette. Un dettaglio che allontana l'ipotesi "dell'esasperazione da fame" tanto sostenuta dalla sardina. Non solo, perché bisogna anche ricordare a Meryem Ghannam che il nostro codice penale, nello specifico l'articolo 544 bis, punisce chi uccide animali "per crudeltà o senza necessità". Almeno questo in Italia.
Gatto arrostito, parla la donna: “Nessuno interveniva”. Le Iene News il 3 luglio 2020. È stata la prima a dare l’allarme chiamando i carabinieri. Parla a iene.it la donna che ha provato a fermare il migrante mentre fuori dalla stazione di Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, stava arrostendo un gatto. Graziella Cataldo ci mostra pure un video ancora più agghiacciante. Il 21enne della Costa D’Avorio, senza fissa dimora e forse con dei disturbi psichici, avrebbe detto più volte ai militari arrivati poi sul posto: “Ho fame”. “C’erano schizzi di sangue e ho urlato perché si fermasse ma l’animale era già cotto”. Inizia da queste le parole il racconto di Graziella Cataldo. Lei è la donna che si è ritrovata davanti il migrante che stava arrostendo un gatto a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno. Sono le sue urla che si sentono nel primo video diventato poi virale. Lei ne ha registrato un altro ancora più sconvolgente che potete vedere per la prima volta qui sopra. “Erano le 5.55, stavo accompagnando mio figlio a prendere il treno per Livorno”, racconta Graziella in esclusiva a Iene.it. “Proprio fuori dalla stazione ho notato il fumo e un uomo che stava arrostendo qualcosa”. A questo punto, gli chiede che cosa stesse facendo a quell’ora della mattina e la risposta è agghiacciante: “Mi ha detto che stava cucinando un gatto perché aveva fame”. Graziella è sconvolta, prende il telefono e chiama subito i carabinieri. “Poi ho fatto il video perché avevo paura che scappasse”, spiega la donna che inizia a registrare tutto. “Da noi i gatti non si mangiano! Si tengono in casa”, si sente che gli grida. “Guarda che cosa stai facendo. Ora ti mando io in galera”. Tutto questo è accaduto tra la stazione e il bar del paese alle 6 di mattina. A poca distanza ha assistito a questa scena un uomo che ha registrato tutto a sua volta con il telefono: è quel video che è finito per la prima volta sui social ed è diventato appunto virale in pochi minuti. “Nonostante ci fossero una decina di persone ad aspettare il treno, nessuno è intervenuto per fermare quell’orrore. Ho dovuto fare tutto da sola”, racconta Graziella. Dopo 10 minuti sono arrivati i carabinieri. “Hanno identificato me per prima perché stavo urlando”, sostiene la donna. “L’extracomunitario ha raccontato che il gatto l’ha trovato morto, forse investito. Così non è stato arrestato”. E quindi non gli hanno contestato il reato di maltrattamenti. “Ho fame”, avrebbe ripetuto più volte ai militari. Parliamo di un ragazzo di 21 anni proveniente dalla Costa d’Avorio. Dalle verifiche è emerso che è senza fissa dimora. Da qualche tempo mancava da un centro di accoglienza. “Hanno detto anche che ha problemi psichici. Ma può una persona fare un gesto simile?”, si chiede Graziella. Accanto a quel focolare di fortuna costruito con assi di legno e rami sono stati ritrovati anche un trolley e un pacchetto di sigarette: “Se uno ha fame veramente non spende 5 euro per comprarsele. E questo vale per chiunque. Ho avuto questa reazione non per razzismo, io sono arrivata 18 anni fa in Toscana dalla Sicilia. Anch’io sono immigrata…”.
"Ecco cosa c'è davvero dietro al gatto arrostito dall'immigrato". Continuano a far notizia le immagini dell'immigrato che a Livorno ha arrostito un gatto; chiara la denuncia di Fratelli d'Italia, che chiama in causa presunti riti della mafia nigeriana. Francesca Galici, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. L'assurda vicenda del migrante che nella mattina di ieri ha arrostito un gatto in provincia di Livorno ha scatenato la polemica nel nostro Paese. La condanna è stata unanime, o meglio dire quasi unanime, considerando che c'è chi si è sperticato per trovare giustificazioni a un atto di una simile barbarie, compiuto alle 7 del mattino nei pressi di una stazione ferroviaria. A destra l'indignazione è stata corale e vibrante, meno a sinistra. Quest'oggi a esporsi con una nota di ferma condanna è stato Giovanbattista Fazzolari, responsabile nazionale del programma di Fratelli d'Italia che ha provato a spiegare cosa possa esserci davvero dietro a quel gesto così orribile. "Ha destato grande sdegno il video del migrante che arrostisce un gatto a Livorno. Qualcuno ha provato a sostenere che fosse il gesto disperato di una persona affamata e senza altro modo di sopravvivere. Tesi difficile da credere", sostiene Fazzolari, che ha una sua tesi ben precisa sui motivi di quanto purtroppo è accaduto a Campiglia Marittima. "Fratelli d'Italia da tempo denuncia l'operato in Italia della Mafia Nigeriana, che ha tra i suoi riti anche sacrifici di animali (come galline e gatti) e purtroppo in alcuni casi anche umani, come dimostrato da numerosi esperti di culti nigeriani e dei loro riti vudù e juju", dichiara l'esponente di Fratelli d'Italia, la cui denuncia appare molto precisa nei suoi dettagli. Nella nota affidata alla stampa, Giovanbattista Fazzolari sostiene che l'uomo intento a cuocere il gatto, ormai carbonizzato come si evince dalle immagini, non ha l'aria di essere disperato, indigente o malnutrito. In ogni caso, stando alle sue parole, nessuna di queste condizioni giustificherebbe quell'atto che ha sconvolto l'Italia: "Non si capisce perché abbia dovuto fare quel terribile atto in bella vista, in una piazza davanti a una stazione. È opportuno quindi che gli investigatori accertino se dietro questo gesto non vi sia altro, come la pratica di un rito tipico della mafia nigeriana. Senza colpevoli omissioni e omertà". L'uomo, un 21enne immigrato originario della Costa d'Avorio è stato denunciato dai carabinieri ma non arrestato. Dai controlli è risultato che sarebbe attualmente irregolare, in attesa del risultato del ricorso presentato al Tribunale di Firenze dopo la negazione dello status di rifugiato. Intanto l'uomo, stando a quanto riportato da Il Tirreno, ha dichiarato che avrebbe trovato l'animale già morto e che lo avrebbe cucinato solo perché affamato, richiamando quindi lo status di necessità. Per questa ragione per lui non sarebbero scattate le manette ma solo una denuncia.
Gatto arrostito, una bufala? I carabinieri: “Tutto vero ed è partita la denuncia”. Le Iene News l'11 luglio 2020. Negli ultimi giorni alcuni sui social hanno additato come fake news il video del gatto arrostito fuori dalla stazione di Campiglia Marittima (Livorno). Dopo aver raccontato la versione della donna che ha dato l’allarme e ha registrato il video virale, qui su Iene.it ospitiamo la versione ufficiale dei carabinieri che hanno fatto scattare la denuncia per maltrattamento di animale. “Il gatto arrostito era un peluche, tutta una balla leghista”. È questo uno dei tanti messaggi che gira nelle ultime ore sui social. L’ultimo a rilanciare l’ipotesi della bufala è stato Samuele Vegna, attivista per i diritti Lgbtqi che sulla sua pagina pubblica conta quasi 30mila seguaci: “Emerge che il ragazzo di colore del video, sarebbe stato pagato per fare questo video e farsi riprendere. Giustamente, il dubbio era sorto anche a me: possibile che una leghista sfegatata avesse beccato casualmente un immigrato che arrostiva un gatto in pieno centro città, in Toscana?”, si chiede. “Possibile che poi questo ragazzo fosse così tranquillo e non sia scappato alla vista della signora arrabbiata da morire e che lo insultava e lo minacciava di chiamare la polizia? E difatti, pare che la signora abbia pagato 50 euro il ragazzo per questo video che ha favorito alla grande la propaganda leghista in Toscana”. Per qualcuno il barbecue improvvisato con legni e gatto da arrostire fuori dalla stazione di Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, è tutta una fake news. Quel video sconvolgente ha fatto il giro d’Italia in poche ore. Non solo, qui su Iene.it vi abbiamo mostrato anche un secondo filmato esclusivo registrato dalla donna che per prima si è imbattuta nel barbecue felino alle 6 di mattina, che potete vedere qui sopra. Proprio a noi, Graziella Cataldo ha deciso di raccontare quello che aveva visto: “C’erano schizzi di sangue e ho urlato perché si fermasse ma l’animale era già cotto”. Per prima ha contattato i carabinieri. Dopo le voci che quella potesse essere tutta una fake-news, con persone pagate per arrostire gatti e politici che così avrebbero avviato la loro campagna elettorale (in Toscana si voteranno le regionali a settembre), abbiamo deciso di fare un'ulteriore verifica sentendo anche i carabinieri che quella mattina sono arrivati a spegnere il barbecue. “Il gatto era vero, eccome. Siamo intervenuti per spegnere la brace”, spiegano dal comando provinciale di Livorno ricostruendo il lavoro dei colleghi della stazione di Piombino. Negli ultimi giorni si sono chiusi gli accertamenti da cui è scattata una denuncia per maltrattamento e uccisione di animale. A doverne rispondere è il 21enne della Costa d’Avorio che ha acceso la brace. Anche su di lui se ne sono dette tante in questi giorni: “È un soggetto problematico dal punto di vista relazionale”, spiegano i carabinieri. “Era ospite di un centro di accoglienza in zona e ha avuto problemi disciplinari, per questo è stato allontanato”. I militari hanno anche provato a ricostruire le circostanze in cui è morto l’animale. “Abbiamo documentato tracce di sangue dove è avvenuto il fatto, in più abbiamo acquisito testimonianze che confermano l’investimento dell’animale. Non risulta di un privato cittadino perché nessuno ha denunciato la scomparsa o il furto di gatti”, spiegano dal comando. Per questo i militari si sentono di ipotizzare che fosse randagio, ma ciò non rende meno raccapricciante quanto successo. “Se fosse stato un peluche ci sarebbe stato quell’odore di carne cotta? Anche il fumo avrebbe avuto un altro colore”, dice a Iene.it Franca Ciani. Lei è la veterinaria del paese alle porte di Piombino. “Stanno venendo fuori delle situazioni che non sono realistiche. Il ragazzo è stato fatto passare come persona in grandi difficoltà, ma qui siamo pieni di Caritas pronti ad aiutare. Anche il parroco ha condannato il gesto…”. La testimonianza della veterinaria assieme alla versione ufficiale dei carabinieri si aggiungono a quella di Graziella Cataldo. La donna che si sente urlare nel primo video diventato poi virale (lo trovate qui). “Proprio fuori dalla stazione ho notato il fumo e un uomo che stava arrostendo qualcosa”, dice a Iene.it. A questo punto, gli chiede che cosa stesse facendo a quell’ora della mattina e la risposta è agghiacciante: “Mi ha detto che stava cucinando un gatto perché aveva fame”. Graziella è sconvolta, prende il telefono e chiama subito i carabinieri. “Poi ho fatto il video perché avevo paura che scappasse”, spiega la donna che inizia a registrare tutto. “Da noi i gatti non si mangiano! Si tengono in casa”, si sente che gli grida. “Guarda che cosa stai facendo”. A poca distanza ha assistito a questa scena un uomo che ha registrato tutto a sua volta con il telefono: è quel video che è finito per la prima volta sui social ed è diventato appunto virale in pochi minuti. “Nonostante ci fossero una decina di persone ad aspettare il treno, nessuno è intervenuto per fermare quell’orrore. Ho dovuto fare tutto da sola”.
Beccato l'immigrato che ha lapidato il pappagallo di Enzo Salvi. I carabinieri hanno fermato il giovane africano che ha aggredito e preso a sassate Enzo Salvi e il suo Ara Araruna. Dopo essere stato fermato, il giovane africano è tornato a piede libero. Novella Toloni, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. È stato denunciato per maltrattamento di animali il 25enne originario del Mali, che nella mattinata di ieri ha preso a sassate il pappagallo di Enzo Salvi e poi aggredito l'attore romano in un campo alla periferia di Ostia. Il carabinieri del nucleo operativo di Ostia hanno rintracciato l'immigrato dopo la denuncia sporta da Enzo Salvi in seguito alla brutale aggressione, che è quasi costata la vita a Fly, il volatile di dell'attore. "Assistere a una lapidazione senza motivo è scioccante", così Enzo Salvi ha raccontato all'Adnkronos gli attimi di terrore vissuti lunedì 29 giugno in un terreno in zona Pianabella a Ostia Antica. Secondo il racconto dettagliato fornito prima ai carabinieri e poi all'Adnkronos, Enzo Salvi si trovava in una zona verde alla periferia della capitale con il suo pappagallo per farlo volare libero come ogni mattina. Dopo un breve volo, il volatile si è posato su un palo per riposare e qui sarebbe stato bersaglio di una sassaiola sotto gli occhi scioccati dell'attore. Uno dei sassi ha colpito al cranio il pappagallo facendolo cadere a terra tramortito: "Non trovo parole per descrivere il mio stato d'animo. Non dormo, sto malissimo, sono contro la violenza e ora il mio pappagallo lotta tra la vita e la morte con una frattura al cranio". Tutto senza un reale motivo, violenza gratuita e inaudita prima ai danni dell'animale e poi dell'attore: "Quando ho visto cadere Fly, gli ho gridato: "Che fai!!??". A quel punto ha aggredito anche me prima di scappare. Una scena di violenza da film di Tarantino. E poi per cosa? Aggredito con rabbia sconvolgente e senza senso. Almeno mi avesse rubato il cellulare". Il tutto fortunatamente ripreso e immortalato con foto e video, grazie alla presenza di un amico di Salvi che al momento dell'aggressione si trovava con lui. Il 25enne del Mali è stato denunciato ma al momento è di nuovo a piede libero. Una situazione che preoccupa l'attore: "Vanno prese posizioni, non si può andare avanti così. Questa persona domani potrebbe tirare sassi a qualsiasi altra persona, bambino o animale. Non voglio che il mio racconto venga strumentalizzato: non è questione di colore della pelle. Questo folle rappresenta solo sé stesso, icona di follia e c'è bisogno di tutela per tutti noi".
· Lo Scuolabus dell’integrazione.
Condannato a 24 anni l'autista dello scuolabus dirottato e incendiato: confermata l'ipotesi terrorismo. Pubblicato mercoledì, 15 luglio 2020 da La Repubblica.it. Condannato a 24 anni di carcere, come aveva chiesto la procura. Ousseynou Sy, il 47enne autista che nel marzo 2019 a San Donato Milanese ha dirottato e dato fuoco a uno scuolabus con 50 studenti delle medie di Crema, è stato condannato: era accusato di sequestro di persona, aggravato dalla finalità terroristica, strage aggravata, incendio, lesioni e resistenza, i pm Luca Poniz e Alberto Nobili avevano chiesto per lui 24 anni di carcere ipotizzando l'aggravante della finalità terroristica. La Corte d'Assise di Milano ha disposto quasi due milioni di euro di provvisionali. La maggior parte delle condanne sono in solido tra l'imputato, e il Ministero dell'Istruzione e la società Autoguidovie come responsabili civili. In particolare la Corte - salvo rinvio a tribunale civile per i veri e propri risarcimenti - ha deciso che ognuno dei 50 bambini presenti sul mezzo quel giorno avesse una provvisionale di 25mila euro, mentre è di 6mila euro quella prevista per ciascuna coppia di genitori. Inoltre il giudice ha disposto un risarcimento ad Autoguidovie per l'uso del mezzo di 150mila euro. I professori presenti quel giorno riceveranno una provvisionale di 35 e 25mila euro, mentre il Comune di Crema una di 10mila (in solido solo con Autoguidovie). Imputato e responsabili civili dovranno poi liquidare anche le spese legali delle parti civili. Oltre alla condanna a 24 anni la Corte d'Assise ha disposto l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, il mantenimento in carcere e la libertà vigilata di 3 anni dopo la fine della pena. Prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio Sy aveva fatto dichiarazioni spontanee: "Se volete condannarmi fate pure, ma ricordatevi che il mio gesto aveva solo lo scopo di salvare vite umane, perché non se ne poteva più. Tutti i giorni vedevo orrori", ha detto Sy in aula bunker, rinnovando "le accuse a Salvini" definendolo "piccolo Duce". L'uomo, rivolgendosi alla corte, ha chiesto "giustizia per tutte le famiglie che hanno visto i loro figli e i loro parenti lasciati morire davanti alle nostre coste". E se l'è presa anche con i magistrati. "Non hanno speso una parola - dice - sulla nave Gregoretti, quando ci furono "persone che sono rimaste per giorni in mare. Il decreto Salvini uccide deliberatamente. Il fatto che siano rimasti in silenzio li ha resi complici, perché il silenzio uccide". "Tutti noi siamo impressionati e condanniamo per le morti i mare, ma lui ha sequestrato dei bambini figli di immigrati e non ci crediamo che lo abbia fatto per protesta". La mamma di Adam, uno dei ragazzini che diede l'allarme ai carabinieri dall'autobus sequestrato da Sy, non crede a quello che l'uomo ha detto in aula sulle motivazioni dei suo gesto e, commentandola con l'Ansa, reputa "giusta" la condanna a 24 anni che "potevano anche essere di più per quello che ha fatto". Per rendere dichiarazioni spontanee, Sy si è calato dal volto la mascherina nera, con la scritta 'L'Africa non morirà mai' e la cartina del continente ricamate. Nei suoi confronti l'accusa aveva appunto chiesto 24 anni di carcere, "una condanna abnorme e ingiusta - sostiene -. Mi ha sorpreso davvero e mi sono domandato come sia possibile chiedere una simile pena in nome del popolo italiano". Quando i giudici si sono ritirati in camera di consiglio, Sy è stato portato nelle camere di sicurezza dell'aula bunker di Milano. La difesa aveva chiesto l'assoluzione per il reato di strage, definendo insussistente l'aggravante del terrorismo.
Bus dirottato sulla Paullese, Ousseynou Sy condannato: "Fu terrorismo". L'autista del bus dirottato sulla Paullese lo scorso marzo è stato condannato a 24 anni di carcere dalla Corte d'Assise di Milano: "Fu terrorismo". Rosa Scognamiglio, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Ventiquattro anni di carcere a Ousseynou Sy, il 47enne di origini senegalesi che, il 20 marzo del 2019, ha dirottato e dato fuoco ad un autobus con a bordo una scolaresca di 50 ragazzini lungo la strada provinciale Paullese, alle porte di San Donato Milanese.
Il dirottamento del bus. Il coltello, la benzina sulla tappezzeria e le fiamme tra i sedili dello scuolabus. Poi le urla disperate degli studenti e, infine, le volanti dei carabinieri che corrono a sirene spiegate verso il luogo della segnalazione. Accade tutto in una manciata di minuti al cardiopalma quella mattina del 20 marzo 2019. Basta poco a Ousseynou Sy, 47 anni del Senegal, per dare seguito alla sua delirante follia di "rivendicare i morti in mare". Così, se la prende con 51 giovanissimi studenti della scuola Vailati di Crema minacciando di dare fuoco al mezzo con a bordo anche due insegnanti e una bidella. Lo straniero, incaricato di condurre il veicolo per quella occasione, non ci pensa due volte: svuota una tanica di benzina lungo il corridoio tra le sedute poi, fa divampare l'incendio con un accendino. Ma il suo piano scellerato finisce presto in nulla, mandato in fumo dalla scaltrezza di un coraggioso ragazzino che riesce a chiamare il 112 assicurando la salvezza ai suoi compagni di scuola. Intercettato dalle Forze dell'Ordine, in prossimità dello svincolo di Peschiera Borromeo sulla strada provinciale Paullese, viene subito arrestato con l'imputazione di sequestro e tentata strage.
Condanna per terrorismo a 24 anni. Arriva nel primo pomeriggio di mercoledì 15 luglio 2020 la sentenza della Corte d'Assise di Milano che condanna a 24 anni di carcere l'autista senegalese. I giudici hanno accolto le tesi dei pm Luca Poniz e Alberto Nobili che, nelle udienze precedenti, avevano richiesto una riqualificazione del crimine ascritto al 47enne da ''sequestro'' a ''sequestro con finalità di terrorismo". Stando a quanto riferisce il Corriere della Sera, la Corte ha riconosciuto a Sy le attenuanti generiche e lo ha interdetto dai pubblici uffici. Riconosciuti risarcimenti a titolo provvisionale di 25mila euro per ciascuno dei ragazzi vittime dell'attentato costituiti, insieme con i rispettivi genitori, parte civile nel processo.
Rifiutata l'infermità mentale. La perizia psichiatrica richiesta dalla Corte d' Assise di Milano, ed eseguita dagli esperti forensi Renato Ariatti e Franco Martelli, ha escluso che Ousseynou Sy soffra di infermità mentale.
· Quelli che…Porti Aperti.
Migranti, passa il nuovo decreto, addio alle norme di Salvini. Ma in Senato si scatena un’altra rissa. Il Corriere della Sera il 19/12/2020. L’aula del Senato ha approvato il decreto sicurezza, su cui il governo ha posto la questione di fiducia: i decreti Salvini sono definitivamente archiviati. Con 153 voti a favore, 2 contrari e 4 astenuti, il provvedimento viene convertito in legge. Il centrodestra non ha partecipato al voto. È stato approvato in prima lettura alla Camera il 9 dicembre scorso. Come emerge dai tabulati del voto, i senatori presenti sono stati 161, 159 quelli votanti. A esprimersi per il «no» sono stati Massimo Berutti e Gaetano Quagliariello di Idea-Cambiamo, del gruppo Misto. Astenuti Emma Bonino di +Europa e il suo collega al Misto, Matteo Richetti oltre ai due senatori `autonomisti´, Meinhard Durnwalder e Dieter Steger. «Il voto definitivo del Senato sulla conversione in legge del decreto immigrazione- sottolinea il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese- conferma la solidità e l’equilibrio dell’impianto del testo concordato al Viminale dalle forze di maggioranza la scorsa estate». L’approvazione è stata a dir poco concitata, tra striscioni, cartelli, fischietti, urla, spintoni. La seduta venerdì pomeriggio è stata sospesa dopo che i senatori della Lega hanno esposto uno striscione in cui era riprodotto il programma elettorale dei 5s sulle politiche dell’immigrazione con tanto di logo, per sottolineare il cambiamento di posizione del Movimento. A quel punto sono scoppiate proteste e fischi, urla e cori :«Buffoni buffoni!» o « Fascisti ». Il senatore questore dell’ Udc, Antonio De Poli, è stato strattonato in aula durante il parapiglia ed è finito in infermeria insieme ad un commesso.Le proteste sono iniziate al termine delle dichiarazioni di voto. Durante la discussione, il presidente Elisabetta Casellati ha richiamato i senatori della Lega che a più riprese hanno usato fischietti per protestare contro la prossima approvazione del decreto. Casellati ha annunciato che ci sarà una istruttoria attraverso foto e video per stabilire le responsabilità sull’accaduto. Dure le reazioni di condanna dei parlamentari: «In aula al Senato la violenza della Lega continua: addirittura le mani addosso ai Commessi e ad un Questore. Salvini ovviamente non c’è: lascia i suoi a fare il lavoro sporco. E loro, privi di dignità, lo fanno a dovere. Non mi sono mai vergognata tanto», scrive su Twitter la senatrice del Pd Caterina Biti. Il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, uscendo dall’aula, ha parlato di «gesti di profonda maleducazione ed è una situazione molto simile a ieri. Una pagina vergognosa per le istituzioni e per il Paese», ha aggiunto. L’aula ha ripreso i lavori dopo le 18. Il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, al termine della conferenza dei presidenti di gruppo convocata dopo la bagarre, ha definito quanto avvenuto «di una gravità inaudita e secondo me senza precedenti dagli Anni ‘20 ad oggi». «Commessi spintonati, il Questore De Poli costretto ad andare in infermeria dopo essere stato buttato giù dai banchi, atteggiamenti molto violenti nei confronti dei colleghi e di chi cercava di rimettere ordine. Abbiamo chiesto a Casellati provvedimenti molto duri: l’atteggiamento della Lega - aggiunge - è intimidatorio e vuole a tutti i costi impedire l’esercizio democratico del voto. Questo non lo possiamo accettare», conclude Marcucci.
Cimitero Mediterraneo. Chi ha ucciso Joseph? I governi, l’Europa e la magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Novembre 2020. Farabutti. Non mi viene nessun’altra parola per definire i responsabili della morte di Joseph, sei mesi, e di altre cinque persone annegate nel Mediterraneo, l’altra sera, per assenza di sufficienti soccorsi. La uso senza rabbia, senza emozione, questa parola. Non è il risultato dell’indignazione, è il frutto di una analisi fredda: farabutti. Sei morti e tra loro Joseph. Più altri dieci morti il giorno prima e 11 sopravvissuti trasferiti in un lager libico. Poi altri 600 morti, circa, dall’inizio dell’anno. Potevamo salvarli, se avessimo voluto, anche con poca spesa. Bastava mettere da parte la nostra formidabile ideologia xenofoba. Oggi in Italia le ideologie sono tutte morte. Tranne quella: la xenofobia, che unisce il Paese. L’altra sera una nave di Open Arms, con equipaggio spagnolo, (Open Arms è l’unica organizzazione che seppur con grandi difficoltà è riuscita a sfuggire alla caccia ai soccorritori che negli ultimi due anni ha svuotato il Mediterraneo), è intervenuta per cercare di salvare circa 100 persone che erano finite in mare perché il loro gommone era affondato. Qualcuno dei naufraghi aveva il giubbotto, molti no. C’erano delle donne incinte, c’erano dei bambini piccoli. C’era pure Joseph, minuscola creaturina nata a giugno. È stata una operazione di soccorso eccezionale. Anche perché la barca di Open Arms era già piena zeppa di naufraghi raccolti qualche ora prima a qualche decina di miglia di distanza. È stato un aereo ad avvertire i soccorritori di questo secondo naufragio e loro sono riusciti ad arrivare in tempo, quando ancora decine di persone, da molte ore, si tenevano a galla allo stremo delle forze. Nuotavano come potevano. Cinque però erano già affogati. Joseph no, era ancora vivo, con la sua mamma. Vorrei chiedere ai farabutti se oggi possono trovare il coraggio per guardare negli occhi la sua mamma. Magari dirle: non abbiamo niente contro di te, però non sei italiana: prima gli italiani. Scusa, signora, ma noi dobbiamo difendere i confini…Joseph lo hanno portato a bordo della nave dei soccorritori, ma stava malissimo. Piangeva. Piangeva sempre più piano. Devastato probabilmente dal freddo gelido del mare, forse aveva anche acqua nei polmoni. Non può stare nel mare freddo di novembre, per ore, un bambino di sei mesi. È stato subito lanciato l’allarme. È stato chiesto alla Guardia Costiera di intervenire immediatamente per salvare Joseph e altre cinque persone in condizioni gravissime. Ma non c’era nessuna motovedetta nei paraggi. È proibito, devono stare alla larga, lasciare mano libera ai libici che ci sanno fare coi profughi. C’è voluto molto tempo prima che arrivasse una motovedetta coi medici e con l’attrezzatura giusta. Joseph era morto. La mamma gridava: l’ho perso, l’ho perso. Joseph è morto come tanti altri suoi fratellini, migliaia, che sono affogati in questi anni davanti alle coste italiane e dell’Europa. Un giorno nei libri di storia ce lo rinfacceranno. I ragazzi, alle medie, chiederanno al professore: ma che razza di gente abitava l’Italia e l’Europa nel 2020? Era un periodo di grande avanzamento tecnologico, risponderanno i professori, ma ci fu una crisi di civiltà e di cultura molto forte. C’erano dei governanti che dicevano che quelle bagnarole piene di disperati erano solo dei taxi del mare. Ma erano fascisti? Chiederanno i ragazzi. No, erano al governo con la sinistra, risponderanno i professori balbettando. Di Joseph sappiamo pochissimo. La sua età, il paese di provenienza, il paese di transito. Veniva dalla Guinea, insieme alla mamma che è incinta di un altro bimbo. Non sappiamo dove sia il papà. Sappiamo che Joseph e la mamma erano passati dalla Libia, erano sfuggiti alle guardie e ai lager, si erano imbarcati clandestinamente su un gommone. Clandestinamente, capito? E quindi dall’avverbio nasce il sostantivo: clandestini. Erano clandestini. Voi sapete bene che ormai nel linguaggio comune, qui da noi, clandestino è una parola che indica una condizione spregevole, da condannare, da biasimare. Biasimatela quella donna: non è italiana, voleva violare i nostri confini! La mamma di Joseph sapeva che se il suo gommone fosse stato intercettato dai militari libici sarebbe stata la rovina. Finivano nel lager, la loro fuga si sarebbe conclusa drammaticamente. Però aveva deciso di correre il rischio. La Guinea è uno dei paesi più poveri del mondo. È stata tartassata anche dall’Ebola. Il reddito procapite è di duemila euro all’anno, neanche 200 euro al mese. Il reddito, in Italia, è circa 20 volte più alto. In Germania 30 volte. Un miraggio, una grande speranza. E la mamma di Joseph sperava di farcela, di dare un futuro al suo bambino, ha sperato fino all’ultimo finché il gommone non è andato a fondo, e poi di nuovo quando sono arrivati gli spagnoli: purtroppo le autorità italiane non erano pronte per accorrere a salvare Joseph. È morto tra le braccia dei medici di Emergency che erano a bordo dell’Open Arms. Poi sono arrivati i soccorsi da terra. La mamma di Joseph, assieme ad un’altra decina di migranti in condizioni gravi, è stata portata a Lampedusa. Gli altri sono rimasti a bordo. Vedremo cosa succederà. Le autorità europee hanno avuto l’ardire di esprimere cordoglio. Neanche un giudizio, un accenno di scuse, un pentimento magari ipocrita. Solo costernazione. Il governo italiano si è scordato anche questo. Non s’è neppure costernato. Un bambino – avranno pensato – un solo bambino e per di più africano. Vabbé: torniamo a colorare di rosso e di giallo le Regioni. Sarà per le mie origini politiche, ma quello che mi lascia sempre senza parole è la sinistra. Ogni tanto sento dire che le distinzioni tra destra e sinistra sono finite. E quando si dice così, di solito, quelli di sinistra si arrabbiano. Dicono che non è vero. Ecco qui, c’è l’occasione per dimostrarlo che non è vero. La sinistra, in Italia, ha il coraggio di prendere posizioni simili a quelle – per dire – del papa? Niente di più, dico: del papa? Sostenere a voce alta – come hanno sostenuto ieri i responsabili di Open Arms – che soccorrere i profughi naufraghi nel nostro mare è un dovere. Tutto qui. Io queste parole non le ho sentite, non le sento. Non ho sentito grida del Pd. Dov’è il Pd? Mi pare che sia accucciato vicino ai 5 Stelle, quelli di Di Maio che parlava di taxi del mare, quelli di Travaglio che diceva che ci sono le prove degli accordi immondi tra soccorritori e scafisti. Non è così? La sinistra si sveglia solo se qualcuno gli propone di fare un bel processo ai suoi avversari, poi però, sui grandi temi, è sulle stesse identiche posizioni dei suoi avversari. Buon senso, ragionevolezza, patriottismo, frasi fatte. Non possiamo mica accogliere tutta l’Africa in giardino, no? E poi se proprio ti piacciono i negri, prenditeli a casa tua. Con più garbo le dice queste cose la sinistra, con più educazione rispetto a Di Maio o alla Lega. La sinistra ha letto più libri. Forse ha letto anche Dickens. Chissà se li abbia capiti. A chi penso quando scrivo farabutti?. Non posso dirvelo, sono già pieno di querele…
Meloni replica a Saviano: “Sciacallo e cinico, fa il business sui morti. Riesce a dormire la notte?” Carlo Marini venerdì 13 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. «Quello sciacallo di Saviano…». Nella frase di Giorgia Meloni c’è tutta la rabbia per un attacco ricevuto in queste ore, da madre e da donna. L’autore di Gomorra ha oggi sferrato un attacco infame contro i leader di FdI e Lega. Lo ha fatto ricorrendo a un video agghiacciante. Quello di naufragio di una barca di migranti. Roberto Saviano, che da tempo ha preso una deriva violenta e distruttiva, ha vomitato tutto il suo odio contro Giorgia Meloni e contro Matteo Salvini. Chiaramente, l’ennesimo pretesto per scatenare un odio strumentale. Ma stavolta ha oltrepassato ogni limite. Come uno dei personaggi della serie che gli ha regalato soldi e fama, Saviano ha vestito i panni del guappo Social. E lo ha fatto speculando sulla morte di un neonato. Ma, stavolta, la Meloni non ha lasciato correre. Da madre, non poteva consentire un’aggressione così barbara e incivile. «Ancora un terribile naufragio nel Mediterraneo con molti morti. Straziante la morte del piccolo Joseph di sei mesi e l’urlo di dolore di sua madre. Vittime della furia immigrazionista, di chi è disposto ad accettare migliaia di morti in mare in nome della sua visione ideologica, invece di fermare le partenze dei disperati e le continue morti in mare». Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni.
Il post di Meloni: “Quello sciacallo di Saviano…” «Oggi quello sciacallo di Roberto Saviano utilizza il video di questo naufragio per attaccare me e la destra. Un livello schifoso di propaganda politica, che non si ferma neppure davanti alla morte. Saviano sa benissimo che sono le persone come lui a incentivare le partenze su mezzi di fortuna pericolosissimi, a favorire il lavoro degli scafisti, che dicono ai disperati di stare tranquilli perché saranno salvati dalle navi ONG care a Saviano. Lo sa benissimo, ma evidentemente gli sta bene così: queste tragedie sono utilissime per il suo business e per la sua propaganda immigrazionista. Non so come persone così ciniche riescano a dormire la notte».
È esplosa la "bomba" migranti In 5 anni sbarcati in 659mila. La stagione autunnale si è aperta con un insolito trend in rialzo del numero dei barconi approdati a Lampedusa: sull'isola adesso è emergenza, mentre dalla Tunisia continuano a partire i barconi. Mauro Indelicato, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Una volta l'arrivo dell'autunno per Lampedusa significava la fine della principale stagione lavorativa. I turisti salutavano l'isola, molto abitanti dovevano quindi attendere diversi mesi prima di ritrovare il lavoro. Oggi è il contrario: quando il mare inizia ad agitarsi, i lampedusani tirano un sospiro di sollievo. E questo perché l'emergenza migratoria inizia a ridimensionarsi. Più le condizioni meteo non sono delle migliori, meno barconi si scorgono all'orizzonte. Era così almeno fino all'anno scorso. In questo 2020 sta andando diversamente. A inizio novembre, secondo i dati del Viminale, sono arrivati irregolarmente in Italia 3.577 migranti. Buona parte di essi sono passati da Lampedusa. Per dare l'idea, in tutto il mese di settembre sono approdati 4.386 migranti. Vuol dire che a novembre si potrebbero vedere, se l'attuale trend dovesse confermarsi, più ingressi rispetto all'ultimo mese della stagione estiva. Il confronto con gli ultimi anni è impietoso: nel novembre del 2019 sono arrivati in Italia 1.232 migranti, nel 2018 invece il dato si è fermato sotto i mille. Ma a rendere meglio l'idea dell'aria che si respira a Lampedusa, è il trend visto dal primo al 5 di novembre. In quattro giorni sull'isola sono approdate irregolarmente 2.462 persone. Una cifra che ha subito fatto scattare un'autentica emergenza. In un video postato su Facebook dall'ex ministro Matteo Salvini, si vede uno dei barconi arrivati sull'isola in cui alcuni migranti a bordo sembrano festeggiare l'arrivo in Italia.
Lampedusa ora è fuori controllo In pochi giorni sbarcati in 1500. Di punto in bianco il locale centro di accoglienza di contrada Imbriacola ha iniziato a non avere più posti a disposizione. È partita una corsa contro il tempo per trovare sistemazioni alternative, in primo luogo trasferendo diversi gruppi di migranti sulla nave Suprema, utilizzata dal Viminale per ospitare in quarantena gli ultimi arrivati. Altri sono stati indirizzati invece verso Porto Empedocle e, da qui, smistati in altre strutture d'accoglienza siciliane. L'emergenza è stata resa ancora più difficile in quanto ha colto di sorpresa tutti, anche gli stessi abitanti di Lampedusa. Nessuno si aspettava un'impennata così repentina del numero degli sbarchi, specialmente nel pieno della stagione autunnale. Quel sospiro di sollievo arrivato con il sopraggiungere del maltempo è durato molto poco. L'aumento degli approdi di questo inizio mese si ripercuote anche nei dati riguardanti il 2020: dal primo gennaio ad oggi sono arrivati 30.780 migranti irregolari. Cifra in grado di far gonfiare anche quella dell'ultimo quinquennio, dove dal 2014 al 2019 è stato registrato l'arrivo di 659.588 immigrati.
Quel trend che non diminuisce. Sorge spontanea la domanda: come mai, nonostante condizioni del mare non ottimali, si continua a sbarcare? Anche perché dopo il boom di inizio mese, la situazione non è cambiata: soltanto ieri il Viminale ha reso noto l'arrivo irregolare nel nostro territorio di altre 206 persone. Buona parte dei barconi arrivati proviene dalla Tunisia. Ed è qui che sorge il principale problema. Le autorità del Paese nordafricano non riescono (o non vogliono) a limitare le partenze. Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese nei giorni scorsi ha dato la colpa ad aspetti geopolitici che vedono la Tunisia alle prese con gravi crisi interne. Una verità solo parziale. Perché ad ogni modo a Tunisi è stanziato un governo regolarmente operativo con il quale peraltro, seppur in ritardo, l'esecutivo italiano ha provato a dialogare. Ad agosto sia la Lamorgese che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si sono recati nella capitale tunisina per provare a strappare accordi volti a limitare il flusso migratorio. Ma gli effetti non si sono visti. La stessa Lamorgese nei giorni scorsi ha parlato del possibile impiego di mezzi aerei e navali per provare ad invertire la situazione. Tuttavia al momento questa è rimasta solo una proposta. Gli sbarchi stanno continuando a un ritmo quasi estivo, circostanza non certo positiva specialmente nell'anno caratterizzato dalla pandemia da coronavirus. Quella migratoria è quindi un'emergenza nell'emergenza, a cui si aggiunge lo spettro dei problemi relativi alla sicurezza: Lampedusa, oltre che per gli insoliti sbarchi di novembre, è tornata sotto i riflettori perché è proprio qui che è arrivato il 27 settembre scorso Aouissaoui Brahim, il terrorista tunisino responsabile dell'attentato di Nizza del 29 ottobre.
Toghe scagionano Open Arms. E l'Ong torna subito in mare. Il tribunale di Ragusa ha disposto il non luogo a procedere per il capitano e il capo missione di Open Arms, accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina per fatti risalenti al 2018: "Adesso torniamo in mare". Mauro Indelicato, Giovedì 05/11/2020 su Il Giornale. Si dicono già pronti a partire i membri di Open Arms, l'Ong spagnola che opera da anni nel Mediterraneo centrale tramite l'omonima nave. L'annuncio di una nuova missione è arrivato subito dopo la decisione del tribunale di Ragusa, il quale ieri ha disposto il non luogo a procedere per Ana Isabel Montes Mier e Marc Reig Creus, capomissione e comandante di Open Arms.
I fatti del 15 marzo 2018. Una storia, quella riguardante l'Ong spagnola, che risaliva al 15 marzo del 2018. Quel giorno la nave Open Arms si trovava in prossimità delle acque libiche e gli attivisti hanno iniziato a soccorrere due gommoni partiti dalla Libia. Tutto questo nonostante le operazioni fossero già state prese in carico dalle autorità di Tripoli. E infatti, dopo che due natanti di salvataggi veloci erano stati calati dalla Open Arms, si ha un incontro ravvicinato tra i libici e gli attivisti spagnoli. Questi ultimi hanno sostenuto di aver ricevuto minacce dalla Guardia Costiera libica e che per tal motivo si erano quindi rifiutati di consegnare i migranti nelle loro mani. Un video, pubblicato su IlGiornale.it e ripreso dalle GoPro degli stessi attivisti di Open Arms, ha mostrato le fasi convulse di quelle ore. Nelle immagini non sono state riscontrate minacce violente da parte dei libici, bensì avvertimenti volti a lasciare nelle loro mani le operazioni di soccorso. Alla fine però i 218 migranti a bordo dei due gommoni vengono fatti salire sulla nave spagnola, la quale poco dopo arriverà a Pozzallo.
L'inchiesta di Ragusa. Pochi giorni dopo la procura di Ragusa ha aperto un'inchiesta per accertare eventuali responsabilità in capo all'Ong spagnola. Così come messo in evidenza da Fausto Biloslavo e Valentina Raffa, che in un articolo su IlGiornale del 28 luglio 2019 hanno ricostruito la vicenda, il procuratore Fabio D'Anna e il sostituto Santo Fornasier hanno rinviato a giudizio gli attivisti Ana Isabel Montes Mier e Marc Reig Creus. Si è trattato del primo rinvio a giudizio per membri di Ong umanitarie. Le accuse erano quelle di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di violenza (morale) per avere obbligato “le nostre autorità a concedere l'approdo in un porto del territorio italiano”. Sotto accusa soprattutto la frase “We go Italy” pronunciata da un attivista, e ben udibile nel video in possesso della procura siciliana, in cui si rassicuravano i migranti che alla fine delle operazioni tutti loro sarebbero approdati in Italia. “Gli eventi dimostrano – si legge nelle carte della Procura – come l'unico vero obiettivo dell'Ong non fosse quello umanitario di salvare i migranti, ma (...) di portarli ad ogni costo in Italia in spregio alle regole”. “Nessun concreto atteggiamento minaccioso è stato posto in essere dai libici – si legge ancora tra i documenti redatti dai magistrati ragusani – i quali si sono sempre tenuti a debita distanza dai gommoni dei soccorritori e di quello dei migranti fino all'arrivo della nave madre”. “È stata inoltre rappresentata una situazione altamente drammatica verosimilmente – proseguono gli inquirenti – al solo fine di giustificare la loro inosservanza (di Open arms, nda) alle indicazioni provenienti da Imrcc Roma (di collaborare con Tripoli nda) e costringere i libici a desistere dall'opera di soccorso”. Secondo il tribunale di Ragusa però non sono stati commessi reati da parte dell'Ong spagnola. Dunque, si è disposto il non luogo a procedere per i due indagati. E ora da parte di Open Arms, oltre all'esultanza per la decisione presa, sono arrivati annunci volti a far comprendere le future intenzioni degli arrivisti: “Parte ora la nostra Missione 78 – si legge infatti nel profilo Twitter dell'organizzazione – è bello che inizi oggi, nel giorno in cui la legge ci ha dato ragione. Chiunque affermi il contrario ha torto, i diritti umani sono inalienabili e vanno difesi sempre. È quello che continueremo a fare”.
Il caso e le conseguenze. Fallisce la crociata di Zuccaro contro le Ong (appoggiata da Travaglio e Di Maio): ora il PM andrà a processo? Giulio Cavalli su Il Riformista il 6 Novembre 2020. “Non lasciamo solo Zuccaro” intitolava il Blog Delle Stelle, sì, proprio lui, il magazine politico del Movimento 5 Stelle che si era schierato a testa bassa al fianco del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro nella sua ennesima battaglia contro le Ong. Furono i grillini e furono i salviniani a cadere nel solito giochetto infimo della politica quando si appoggia alla magistratura per annaspare e trovare conferma delle proprie tesi. Il pensiero politico breve e debole ha sempre bisogno di un’indagine, di un rinvio a giudizio, di qualche carta processuale per certificare la propria visione del mondo. Nel 2017 fu Zuccaro a denunciare il tentativo delle Ong di «destabilizzare l’economia italiana» attraverso il massiccio sbarco di migranti sulle nostre coste al fine di «trarne vantaggi». Zuccaro aveva anche aggiunto che, a suo avviso, «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti» perché, disse, «so di contatti» e inoltre si tratta di un «traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga». Si alzò un gran polverone e le parole del procuratore vennero agitate come una sciabola per affettare la discussione su diritti e immigrazione, le parole di Zuccaro vennero sventolate ai quattro venti, lui ebbe anche l’onore di essere audito dal Parlamento, i Zuccaro boys infestavano i social tutti fieri di avere scoperto che i “buoni erano cattivi” e quindi, per la proprietà inversa, i presunti “razzisti” sarebbero stati quelli che ci avrebbero salvato. Peccato che di quelle pesantissime affermazioni non rimase niente, non ci fu una controprova, non ci fu niente e tutto finì nel dimenticatoio per un anno, anche se ormai il rumore di fondo era stato generosamente sparpagliato e il governo Conte (il primo Conte, quello che non si era ancora travestito da “buono”) quando salì in carica nel 2018 con la sua formazione gialloverde poté ripetere le tesi di Zuccaro come condimento delle proprie decisioni politiche. Arriviamo quindi al 2018, marzo, quando Carmelo Zuccaro torna a occuparsi dell’emergenza migranti nel Mediterraneo e lo fa a modo suo: mette sotto indagine il comandante della nave Open Arms, Marc Reig Creus, il capo della missione della Ong, Ana Isabel Montes Mier, e il coordinatore Oscar Camps. L’accusa ovviamente è di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. La Ong Proactiva Open Arms, secondo il teorema Zuccaro, opera nel disprezzo più totale degli accordi internazionali e del codice di comportamento firmato con il governo italiano, cercando in tutti i modi di far sbarcare migranti sulle nostre coste. Open Arms aveva soccorso 218 migranti al largo delle coste della Libia rifiutandosi di consegnarli alla cosiddetta “Guardia costiera libica” per via delle violenze e dei maltrattamenti che avrebbero potuto subire in quello che tutta la comunità internazionale ritiene un porto “non sicuro”. I migranti vennero poi fatti sbarcare nel porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, dopo l’autorizzazione da parte del governo italiano. Cosa accadde poi? Il teorema di Zuccaro venne smontato dal Gip di Catania che nel confermare il sequestro aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere tenendo in piedi l’accusa di immigrazione clandestina e di violenza privata. Il fascicolo passa al Gip di Ragusa per competenza territoriale e viene disposto il dissequestro immediato della nave perché, scrive il Gip, l’Ong aveva agito «in uno stato di necessità» regolato dall’articolo 54 del codice penale (in cui si scrive di chi è «costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave»). Ben due anni dopo quei fatti ora arriva la decisione del Tribunale di Ragusa che ha deciso il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e perché non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento. L’ha deciso il Gup al termine dell’udienza preliminare. Open Arms, in una sua nota, scrive che «ancora una volta è stato dimostrato che il nostro agire è sempre stato dettato dal rispetto delle Convenzioni internazionali e dal Diritto del Mare, quello che ci muove è la difesa dei diritti umani e della vita, principi fondativi delle nostre Costituzioni democratiche». E quindi? Quindi per l’ennesima volta molto rumore per nulla. Per l’ennesima volta sulla pelle dei migranti (e degli elettori e della dignità della politica) si è consumata una battaglia che non aveva basi giuridiche eppure ha dato l’occasione di sentenziare giudizi che si sono rivelati infondati. Ancora una volta è andata male a chi cercava un appiglio per poter essere feroce con il supporto della legge fingendo di non sapere che il gancio non c’è, fingendo di non sapere (come accade tutt’ora) che la “Guardia costiera libica” è il viatico di sofferenze che non hanno nulla a che vedere con i diritti e fingendo di non sapere di avere appaltato proprio a loro quel pezzo di Mediterraneo. La polvere si è posata e non è rimasto niente, niente di più del vociare sconsiderato di cui nessuno pagherà pegno.
Accoglienza per tutti, compresi i terroristi che se la ridono. Andrea Soglio su Panorama il 30/10/2020. Numero 104. Sorride Brahim Aouissaoui, il terrorista islamico arrivato dalla Tunisia a Lampedusa che ieri ha decapitato due persone nella cattedrale di Nizza e ne ha uccisa una terza al grido di Allah Akbar. Sorride davanti all'agente della Polizia che lo sta identificando al Cie di Bari prima di sparire nel nulla prima di far ritrovare le sue tracce tra le pozze di sangue davanti all'altare della città francese. Di lui sappiamo poco. Di sicuro che è sbarcato a Lampedusa assieme ad altri migranti lo scorso 20 settembre e che il 9 ottobre gli è stata scattata quella foto dalla Polizia con l'inserimento nei database del Viminale per "ingresso illecito in territorio nazionale". Poi un foglio della Croce Rossa Italiana e nulla più. Doveva restare nel Cie di Bari in attesa del rimpatrio, è sparito come un fantasma, come molti, moltissimi altri arrivati assieme a lui. Decine di migliaia di persone sparite nel nulla. Ecco la nostra accoglienza. Un'accoglienza che termina però nel momento stesso in cui questi migranti mettono piede in Italia; magari accolti da qualche gruppo di persone, con gli striscioni, i canti, gli applausi, gli "evviva", qualche politico locale (di sinistra) e l'immancabile hashtag: #restiamoumani. Slogan che ormai è chiaro serve solo per mettersi un po' in pace con la coscienza. Perché è ovvio che non esiste un progetto vero di accoglienza. Certo, non sono tutti terroristi quelli che arrivano, ma molti finiscono a spacciare nelle piazze delle stazioni, altri a lavorare nei campi sfruttati come schiavi o, se sei donna, sulle strade a prostituirti. Quanti sono, chi sono, coloro che davvero arrivano e si fanno una nuova vita? Non lo sappiamo e forse nemmeno ci interessa dato che l'importante è averli accolti tra gli applausi a Lampedusa, poi vai con il fatidico hashtag sui social per lasciarci con l'animo in pace e la coscienza pulita. C'è poi il problema politico. Qualcuno ha chiesto le dimissioni del Ministro dell'Interno. A noi basterebbe avere dal Viminale risposte precise sulla sorte di queste persone. Dal 3 ottobre abbiamo mandato 5 diverse mail, una a settimana, all'ufficio stampa per sapere il destino dei migranti sbarcati dalla nave Gregoretti, quella per cui è a processo Salvini. Ad oggi non abbiamo avuto comunicazioni ufficiali (continueremo a mandare la richiesta, imperterriti, ogni settimana) ma la sensazione è che l'unica risposta da darci è quella che non ci possono dare: "Non lo sappiamo". Diversi agenti di Polizia, impegnati in prima persona nella gestione di chi sbarca, compresi i trasferimenti da un centro all'altro, ci hanno confermato come queste persone siano ingestibili, come i Cie siano dei colabrodo dove sparire nel nulla è facile come bere un bicchier d'acqua. Come inseguirli di notte, con l'aggravante del Covid, sia di fatto impossibile. Dal 1 gennaio al 29 ottobre sono sbarcate 27.190 persone, il triplo rispetto all'anno prima quando eravamo #menoumani ma forse un po' più sicuri. Perché quando Brahim Aouissaoui sorride alla fotocamera della Polizia sa già cosa deve fare, sa già che deve uccidere anzi, peggio, sgozzare come fossero degli animali, dei cristiani in una chiesa. E sa che il miglior modo per colpire era come prima cosa passare dall'Italia, da noi, dai #restiamoumani.
Nizza, il killer tunisino era indagato ad Agrigento: "Favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". Libero Quotidiano il 29 ottobre 2020. Altro che un immigrato clandestino disperato che ha poi compiuto un attentato terroristico a Nizza, dalle indiscrezioni che emergono sembra delinearsi un profilo criminale piuttosto preciso dell’uomo che con un coltello ha tolto la vita a due donne e al custode della chiesa di Notre-Dame. Stando alle ultime indiscrezioni dell’Adnkronos, il killer tunisino era stato indagato dalla procura di Agrigento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il suo sbarco a Lampedusa risale allo scorso 20 settembre: insieme a lui c’erano altri connazionali, molti dei quali iscritti al registro degli indagati. Continua ad infittirsi quindi il caso dell’attacco terroristico in Francia, con il killer che è sbarcato a Lampedusa (dove è finito sotto indagine), è stato trasferito al centro di identificazione a Bari, fotosegnalato dalla questura e inserito nei terminali per “illecito ingresso in territorio nazionale”. Eppure è riuscito comunque ad arrivare a Nizza, dove ha compiuto un atto terroristico che a questo punto inizia a sembrare sempre più partito da lontano e studiato nei minimi particolari.
Nizza, l'attentatore sbarcato in Italia. Ecco perché è stato lasciato libero. Brahin Aoussaoui era sulla nave quarantena Rhapsody. Ma i centri erano pieni: "A molti dato solo un foglio di via". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Si sta cercando di ricostruire il percorso di Brahin Aoussaoui, indicato come l'attentatore di Nizza che ha ucciso tre persone decapitandone una. Si sa, per ora, che il 9 ottobre era in Italia. Dopo essere sbarcato a Lampedusa, è stato portato in un centro di identificazione pugliese e fotosegnalato in questura. È un tunisino, nato il 29 marzo del 1999. Tutta la polizia e gli investigatori, fanno sapere fonti del Giornale.it, sono in allerta per capire dove e come si sia mosso prima di raggiungere la Francia. Ma è soprattutto una la domanda che viene fatta: per quale motivo un migrante, arrivato in piena pandemia in Italia, ha potuto tranquillamente raggiungere la Francia e commettere una mattanza? La risposta potrebbe essere semplice. Per quanto incredibile. L'8 ottobre, infatti, a Bari le autorità italiane hanno fatto sbarcre circa 805 migranti alla conclusione di un periodo di quarantena sulla nave Rhapsody. Come confermano diverse fonti di polizia del Giornale.it, la gestione è stata emergenziale: "Hanno fatto sbarcare i minorenni - ci raccontava in quei giorni un agente - poi quelli che dovevano andare nei centri a Gorizia, Roma e Milano e infine ad alcuni hanno solo dato l'invito a lasciare il territorio nazionale". Cosa significa? Spiega un altro investigatore: "A chi non è stato messo nei centri per l'identificazione, gli abbiamo consegnato l'allontanamento del questore con ordine di lasciare il territorio entro 7 giorni". Tradotto: all'immigrato viene notificato un "foglio di via" che in teoria lo costringerebbe a lasciare l'Italia entro una settimana, ma nessuno lo porta al confine. E se non segue le disposizioni? Scompare. Come tanti. Lo stesso potrebbe aver fatto Brahin Aoussaoui, libero così di raggiungere la Francia. Ci conferma un'altra fonte di polizia: "È sbarcato dalla nave come altri 800 stranieri. Senza precedenti in Italia per la prima volta. Gli è stato fatto il giorno 9 ottobre un respingimento del questore con relativo ordine a lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni. Motivo di questi provvedimenti è la mancanza di posti nei centri per i rimpatri d'Italia. Tutto disposto dal Ministero". E pensare che in una lettera a Luciana Lamorgese, datata 10 ottobre 2020, Andrea Cecchini, segretario generale di Italia Celere, aveva già avvertito il ministro dell'assurdità di questa procedura: alcuni migranti, scriveva, "come parte di quelli che stanno sbarcando a Bari dalla Rhapsody, sembra che verranno lasciati liberi di vagare nel Paese col solo invito a lasciare il territorio italiano entro 7 giorni... con tutto il rispetto, dovessimo trovarci di fronte a questi ragazzi, cosa dovremmo fare noi poliziotti?". La stessa denuncia era arrivata anche da Franco Maccari, presidente nazionale dell'Fsp, a metà ottobre. "A Siracusa - diceva - da ordinanza del questore 46 migranti appena sbarcati dalla nave quarantena sono stati accompagnati presso la stazione ferroviaria. Dovrebbero lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni ma sappiamo bene che diventeranno braccio armato della criminalità organizzata". Forse anche di peggio. Il fatto è che si tratta di una prassi consolidata: "È un buco amministrativo con cui dobbiamo fare i conti - conclude Maccari - perché consegnate agli immigrati di muoversi come vogliono". Anche se tra di loro si trova un killer islamista.
Brahim, il killer di Nizza venuto da Lampedusa. La nave quarantena, Bari e poi la fuga. Massimo Calandri e Alessandra Ziniti. Fonti del Viminale: "Non era mai stato segnalato dalle autorità tunisine e neanche segnalato sotto il profilo della sicurezza nei canali di intelligence". La Repubblica il 29 ottobre 2020. Ha il viso pulito di un ragazzo di 21 anni, una leggerissima barba, i capelli corti, gli occhi spalancati e vuoti della follia: Brahim Aouissaoui è ricoverato nel reparto rianimazione all'ospedale Pasteur di Nizza. Grave, ma non in pericolo di vita. Potrebbe parlare, però tutto quello che per ora ha detto è: "Allah u akbar", Allah è grande. Lo ha ripetuto mentre gli sparavano addosso, per fermarlo. I poliziotti intervenuti giurano che non aveva paura: "Sembrava quasi ci chiedesse di ucciderlo". Il jihadista venuto da Lampedusa (nello zaino un Corano, due telefoni e un coltello con la lama di 17 centimetri), rimasto in Italia solo 20 giorni in quarantena, prima di arrivare in Francia a mettere in atto il suo piano stragista, è un signor nessuno. Pulito, immacolato, assolutamente sconosciuto alle forze di polizia, all'intelligence, persino alle autorità tunisine. Un ragazzo come migliaia di altri ne sono arrivati negli ultimi dieci anni in cerca di fortuna in Europa, come Anis Amri, l'altro tunisino sbarcato minorenne a Lampedusa nel 2011 e finito 5 anni dopo alla guida di un Tir assassino al mercatino di Natale a Berlino prima di finire ucciso nella sua fuga in Italia. L'arrivo a Lampedusa il 20 settembre su un barchino partito da Sfax con una ventina di altri tunisini, la quarantena sulla nave Rhapsody inviata dal Viminale per decongestionare l'hotspot dell'isola, l'approdo a Bari l'8 ottobre, tampone negativo e solo un foglio di via - "Te ne devi andare entro 7 giorni", firmato dal questore di Bari - , perché il fotosegnalamento e le impronte raccontavano di un migrante come tanti. A Nizza era certamente almeno da quattro giorni. "L'uomo che ha assassinato tre persone a Nizza non era mai stato segnalato dalle autorità tunisine, al contrario di altri, e non era neanche segnalato sotto il profilo della sicurezza nei canali di intelligence", dicono fonti del Viminale. "Non è schedato come terrorista in Tunisia", conferma Mohsen Dali, sostituto procuratore a Tunisi, che non esclude che "organizzazioni siano all'origine dell'accaduto". La ricostruzione del suo percorso in Italia è presto fatta. Brahim Aoussaoui arriva a Lampedusa in una domenica di mare piatto come l'olio che manda in tilt il rodato sistema di accoglienza dell'isola: 26 barchini in 24 ore. Tutti con 15-20 persone a bordo, in gran parte giovani tunisini. L'hotspot non ha più posto neanche sotto gli alberi, ci sono 1300 persone e c'è il Covid. Non c'è neanche modo di fotosegnalarli tutti. Aoussaoui dà le sue generalità, lo Sdi, il sistema informatico investigativo, non rivela alcunché e come gli altri viene denunciato per ingresso illegale su territorio italiano. Il sindaco Totò Martello lancia un disperato grido d'aiuto, il Viminale manda una nave quarantena, la Rhapsody. È il 23 settembre quando, con 805 migranti a bordo, la nave - gestita dalla Croce Rossa - prende il largo. Quattordici giorni dopo, la nave riceve come porto di sbarco Bari. Brahim è tra i primi a scendere, tampone negativo, fotosegnalamento, impronte digitali. Al centro per il rimpatrio di Bari non c'è posto per tutti e, come sempre si fa in questi casi, chi ha precedenti o segnalazioni viene trattenuto e riportato indietro sotto scorta appena possibile, tutti gli altri vengono lasciati liberi. Così è anche per Aoussaoui: decreto di respingimento del prefetto di Bari, foglio di via del questore. Il 9 ottobre è libero, in tasca ancora il foglio identificativo che la Croce rossa ha distribuito a bordo della nave a tutti gli ospiti e che ancora aveva con sé ieri a Nizza. Come e quando Aoussaoui lascia Bari diretto al nord non si sa. Probabilmente in treno come tutti gli altri, a meno che non ci fosse qualcuno ad aspettarlo. Di lui si perdono le tracce. C'è un buco nero di 16 giorni da ricostruire, ma anche le due settimane sulla nave con il personale di bordo. Di sicuro era arrivato a Nizza da almeno quattro giorni, passando il confine a Ventimiglia: perché le forze dell'ordine francesi gonfiano il petto, sostenendo che ogni giorno ricacciano in Italia almeno 50 migranti che cercano di entrare illegalmente. Ma lì ci sono almeno 6 diversi valichi: Ponte San Ludovico, Ponte San Luigi, la ferrovia, l'autostrada, e più all'interno il Col di Tenda e Breil. Prima o poi vanno tutti dall'altra parte. E bastano 50 euro per farsi accompagnare fino a Montone da un passeur, che con 150 euro ti porta direttamente a Nizza. C'è persino una strada da fare a piedi, il vecchio cammino dei contrabbandieri da fare di notte, che negli anni Trenta aveva usato anche Sandro Petrini per espatriare. Chissà quale ha usato. Se le sue condizioni non peggiorano, gli investigatori sperano di interrogarlo stamani e sapere da lui chi è, se è un lupo solitario o un soldato della jihad. Subito dopo l'attentato si era sparsa la voce di un presunto complice in fuga ma è andata affievolendosi col passare delle ore, anche se è difficile credere che abbia fatto tutto da solo.
L’attentatore di Nizza sbarcato a Lampedusa in settembre dopo l’inutile foglio di via passò in Francia per uccidere. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. Sono migliaia i tunisini come Brhaim Assuad ,21 anni, che ieri nella Basilica di Notre Dame ha ucciso tre persone, che circolano indisturbati per tutta l’ Europa con in tasca il ridicolo “foglio di via” quel foglio rilasciato dalle questure che intimano ai migranti sbarcati di lasciare “entro 7 giorni” il posto in cui sono approdati. Ed anche Brhaim Assuad aveva quel “foglio” di via che gli era stato notificato dalla questura di Bari dov’era approdato l’8 ottobre scorso proveniente da Lampedusa. Ed è proprio nell’isola di Lampedusa che il 20 settembre scorso era sbarcato. L’assassino di Nizza era stato poi imbarcato sulla nave quarantena “Raphosdy” noleggiata dal nostro ministero dell’ interno insieme ad altri suoi conterranei che dopo alcuni giorni aveva lasciato l’ isola di Lampedusa diretta nel porto di Bari dove era attraccata l’ 8 ottobre scorso. Brhaim non l’unico terrorista che giunge in Italia senza essere nemmeno notato dalla nostra intelligence. Nigeriani, tunisini, libici. Killer spietati, confusi tra i disperati che sognano un futuro in Italia. Sbarcati a Lampedusa, accolti in hotspot al collasso, visitati, sfamati e pronti a muoversi dall’isola verso l’Europa per realizzare la propria missione da martire. A Lampedusa nel 2011 era sbarcato anche Anis Amri, il killer tunisino che cinque anni più tardi avrebbe macchiato di sangue il mercatino di Natale a Berlino. Arrivato in Italia, aveva detto di essere minorenne e fu trasferito in un centro di accoglienza di Belpasso, nel catanese, dove il 20 ottobre 2011 diede fuoco alla struttura. Arrestato per minaccia aggravata, lesioni personali e incendio doloso, dall’Ucciardone finì a Enna. Poi il viaggio in Germania, con un decreto di espulsione in tasca. E ancora Spin Ghul, nome di battaglia di Adam Harun, un 50enne nigeriano che ha combattuto in Afghanistan e in Africa ed è ritenuto responsabile della morte di decine di soldati della Coalizione, in particolare americani. Catturato in Libia nel 2005, fu rilasciato nel 2011 e imbarcato dai libici su un barcone di migranti diretto a Lampedusa. Una volta sbarcato sull’isola, il qaedista era stato smascherato dagli italiani, arrestato e processato in un primo tempo dal tribunale di Agrigento. Per Lampedusa passò anche nel 2015 un presunto jihadista con foto nel tablet di teste mozzate e Kalashnikov. Un libico ospite del centro di accoglienza dell’isola dove era sbarcato a giugno e da dove avrebbe poi fatto perdere le sue tracce. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, che sempre a Nizza, alla guida di un autocarro, il 14 luglio 2016, si lanciò a tutta velocità sulla folla nei pressi della promenade des Anglais, in Italia veniva regolarmente, invece, per portare del cibo ai migranti siriani. Almeno secondo quanto riferito agli inquirenti da uno dei suoi presunti complici.
Il killer di Nizza, le diverse schede Sim e i contatti in Sicilia: l’ipotesi di una rete esterna. Giovanni Bianconi e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2020. Brahim in Italia fino a sette giorni fa. Tunisia, Italia, Francia. L’indagine sull’attacco di Nizza si muove lungo questo asse, un sentiero sovrapposto al sentiero battuto dal tunisino Brahim Aoussaoui. E ovviamente gli inquirenti sono alla ricerca di possibili complici: una persona di 47 anni è stata fermata in città in quanto ha avuto rapporti con il killer. Gli inquirenti intanto guardano al paese d’origine del terrorista. Tunisi, con formula anodina, ha confermato l’apertura di un dossier e rivelato che nel 2016 Brahim è finito in prigione perché aveva usato un coltello durante una lite. Dunque un precedente nel profilo di un personaggio enigmatico. Che — aggiungono i media — ha partecipato in passato alle manifestazioni di «Ansar al Sharia», una fazione pericolosa e inserita dagli Usa nella lista del terrorismo. Tra i suoi dirigenti ci sono stati alcuni qaedisti finiti in indagini italiane. Su Internet è apparsa una rivendicazione di una sigla sconosciuta, «al Mahdi», un post senza riferimenti che possano confermare l’autenticità. I familiari di Aoussaoui, invece, intonano una cantilena già sentita. Nostro figlio era introverso, poco istruito, si arrangiava con piccoli lavori — aggiustava moto e trafficava in carburante —, per un certo periodo ha bevuto alcol e fatto uso di droghe. Un’esistenza sul filo abbandonata negli ultimi due anni, quando ha iniziato a pregare con regolarità. Scelta seguita dalla decisione di emigrare clandestinamente verso Lampedusa. Almeno è ciò che sostiene la madre, sorpresa quando le ha telefonato per rivelarle che era a Nizza da appena due giorni, quindi attorno al 28. «Mi ha detto che dormiva vicino alla chiesa, mi ha anche inviato una foto della basilica — ha aggiunto — Non parlando il francese cercava qualche connazionale che potesse aiutarlo». Nelle tasche di Brahim Aoussaoui, la polizia francese ha trovato gli indizi di una permanenza sul territorio italiano almeno fino alla scorsa settimana. Solo dopo ha attraversato il confine. Sceso a Bari, il 9 ottobre, dalla nave Rhapsody su cui aveva trascorso la quarantena anti-Covid, l’assassino si sarebbe spostato in Sicilia. Un particolare riferito sempre dai familiari alle autorità locali che hanno trasmesso le notizie in Italia e in Francia. Affermava di trovarsi ad Alcamo, in provincia di Trapani, dove aveva trovato un’occupazione nella raccolta delle olive, e i primi accertamenti avrebbero riscontrato questa versione. Solo dopo diversi giorni il ventunenne avrebbe risalito la penisola fino alla frontiera con la Francia. Verosimilmente con la decisione già presa di colpire, forse con l’obiettivo ancora da scegliere. Dalle prime testimonianze raccolte sembra che non avesse mai manifestato pubblicamente il suo radicalismo islamico, tantomeno intenzioni omicide. Tuttavia sarà importante l’analisi del telefonino italiano che aveva con sé, probabilmente una scheda acquistata a Bari. Forse sono le stesse persone con cui era parlava quando era sulla Rhapsody (presumibilmente con una scheda tunisina), forse altre. Gli investigatori dell’Antiterrorismo — le Digos di diverse città con il coordinamento della Polizia di prevenzione — hanno già rintracciato parte dei tunisini arrivati a Lampedusa il 28 settembre sullo stesso «barchino» di Brahim, per provare a saperne di più sul personaggio e sui suoi appoggi. A cominciare da quelli siciliani. L’inchiesta si basa in gran parte sull’individuazione dei contatti dell’assassino, per capire chi sono, se si tratta di semplici amici o di individui con responsabilità maggiori. Indiscrezioni francesi non escludono che il tagliagole possa essere stato «pilotato», ma siamo ancora a livello di ipotesi. Per questo la Procura di Bari, dove Brahim è sbarcato, ha avviato un’inchiesta ipotizzando l’esistenza di un’associazione con finalità di terrorismo internazionale. Anche la Procura di Palermo s’è mossa per indagare sui contatti siciliani. C’è poi un altro fascicolo, sempre a Bari ma senza ipotesi di reato, per verificare perché il clandestino, con un decreto di allontanamento, sia stato lasciato a piede libero (con altri 176 quel giorno) e non trasferito in un Centro per il rimpatrio. Normalmente circa un decimo degli irregolari espulsi finisce in quelle strutture, riservate a soggetti segnalati come pericolosi o sospettati per qualunque motivo. Su Brahim Aoussaoui non risultava nulla, nemmeno nelle comunicazioni tra servizi segreti. Perciò è stato messo in libertà. Accompagnato con un pullman alla stazione, da dove sarebbe subito ripartito per la Sicilia.
I misteri dell’attentatore di Nizza ad Alcamo, due settimane in Sicilia prima di andare in Francia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 31 ottobre 2020. Perquisizioni della Digos nella cittadina trapanese. Interrogato l’amico che l’ha ospitato: “Sembrava una persona tranquilla”. All’improvviso la partenza. Un commerciante: "La polizia ci ha mostrato la foto del giovane che avevo visto in Tv". I poliziotti delle Digos di Palermo e Trapani sono arrivati nel centro storico ieri pomeriggio, intorno alle 17, con alcuni mandati di perquisizione firmati dal Dipartimento antiterrorismo della procura di Palermo. Ad Alcamo è stato per due settimane l’attentatore di Nizza, Brahim Aoussaoui, a casa di un amico. Fino a sette giorni fa, prima di partire per la Franca. Quell’amico, un giovane tunisino di 30 anni, cercavano gli investigatori della polizia dopo la segnalazione dei servizi segreti, che ieri hanno scoperto il passaggio dell’attentatore nella provincia di Trapani. La prima perquisizione è scattata in un locale della centralissima via Mazzini, dove si vende Kebab, lì lavora l’amico del giovane di Nizza. «All’improvviso, ci siamo trovati davanti tanti poliziotti», racconta un commerciante: «Non capivamo cosa stesse succedendo. Poi un agente ci ha mostrato la foto dell’uomo che avevo notato ieri sera in televisione, è l’attentatore di Nizza, ma non l’ho mai visto qui». Eppure, Brahim Aoussaoui sarebbe andato qualche volta nel centro di Alcamo, così ha raccontato l’amico alla polizia: «Sembrava una persona tranquilla, non ho mai avuto sospetti». Ma restano tanti interrogativi sul soggiorno dell’attentatore in Sicilia. E' partito all'improvviso, probabilmente in treno. Forse, chiamato da qualcuno per compiere l’attentato? Intanto, anche la posizione dell’amico di Brahim è al vaglio degli inquirenti: non ha documenti, sembra che sia destinatario di un foglio di via. «Stiamo facendo tutti gli accertamenti necessari – conferma a Repubblica il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi – un’attività complessa per provare a ricostruire quale tipo di rapporti ci siano stati fra l’attentatore di Nizza e la persona ascoltata dalla polizia». Fa le ipotesi del pool antiterrorismo coordinato dal procuratore aggiunto Marzia Sabella c’è anche quella che Brahim sia stato aiutato da una delle organizzazioni che gestiscono i trasferimenti dei migranti in nord Europa. «Ma i nomi dell’attentatore e quello del suo amico sono del tutto sconosciuti ai nostri archivi», spiega ancora il procuratore Lo Voi. Sono state ore frenetiche dopo la segnalazione dei servizi segreti. Secondo una prima ricostruzione, Brahim Aoussaoui sarebbe arrivato in Sicilia il dieci ottobre, in treno, da Bari. La polizia è alla ricerca di riscontri. Controlli sono stati fatti anche nell’abitazione dell’amico portato in questura. Alcuni vicini di casa sono stati sentiti in serata, pure a loro è stata mostrata la foto dell’attentatore. In Sicilia, ci cercano pure gli altri tunisini arrivati a Lampedusa con Brahim Aoussaoui. C’erano ventidue persone su un barchino, due nuclei familiari sono stati già rintracciati. Le indagini si concentrano sull’amico di Aoussaoui, che è stato ascoltato per tutta la notte dagli investigatori della Digos, alla questura di Palermo. Ha ripetuto di non avere visto nulla di sospetto in Brahim durante il soggiorno in Sicilia: "Mi ha spiegato soltanto che era in cerca di un lavoro - ha messo a verbale - qualcosa aveva trovato, raccogliendo olive per qualche giorno". La polizia sta controllando il telefonino del giovane e un computer, per capire se sia rimasto in contatto con Brahim anche dopo la partenza da Alcamo. L’attentatore di Nizza era arrivato in Italia il 20 settembre, il 9 ottobre era stato trasferito in un centro per migranti a Bari, dopo la quarantena obbligatoria per tutti coloro che sbarcano. Il 10, l’ordine di espulsione dal territorio italiano, “con invito a rimpatrio”. Brahim aveva già un contatto in Sicilia. Intanto, era stato anche indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina dalla procura di Agrigento. E oggi tornano d'attualità le parole del procuratore Luigi Patronaggio. «Il pericolo maggiore alla sicurezza pubblica più che dai barconi che partono dalla Libia proviene dagli sbarchi fantasma che arrivano dalla Tunisia - aveva detto - Gli sbarchi fantasma sono un vero pericolo perché chi arriva così vuole sottrarsi all’identificazione» rappresentando «un potenziale rischio nella lotta al terrorismo». Era il 2 luglio del 2019, Patronaggio veniva sentito davanti alla Commissione Affari costituzionali sui decreti sicurezza. Una presa di posizione decisa contro la strage di Nizza arriva dall’associazione Fatima che oggi è formata da 90 donne di religione islamica. La prima associazione al femminile di questo tipo in Sicilia. Fra gli scopi principali del gruppo c’è proprio “combattere l’estremismo”. «Siamo ancora sotto shock – dice Manel Bousselmi – Quello che è successo a Nizza e che continua a ripetersi in Francia non ci appartiene. Eppure allo stesso tempo ci riguarda. Il nostro lavoro con le nuove generazioni, con i nostri figli a Palermo, è raccontare un altro Islam. Un’altra religione, quella che ci sta a cuore». La condanna per la strage di Nizza arriva anche dall’Imam della città, Mustafà Boulaalam, e dai rappresentanti delle altre comunità islamiche siciliane.
Marco Antonellis per affaritaliani.it il 30 ottobre 2020. Dalla traversata sul barcone con altri centinaia di tunisini fino a Lampedusa, l'identificazione e il tampone, 15 giorni a bordo della Rhapsody, una delle navi affittate dal ministero dell'Interno per la quarantena dei migranti, poi il trasferimento a Bari e l'ordine di lasciare l'Italia entro 7 giorni. Passa decisamente per l'Italia la storia di Brahim Aoussaoui, il 21enne arrivato nella chiesa di Notre-Dame a Nizza per uccidere tre persone nel nome di Allah. Matteo Salvini c'è andato giù pesante appena appresa la notizia: “Lasciatemi dire che vergogna e soprattutto fatemi chiedere scusa al popolo francese, ai figli dei morti e dei decapitati, a nome di Giuseppe Conte e Luciana Lamorgese”. “Il premier e il ministro dell’Interno italiani hanno la responsabilità morale di quanto successo in Francia”, ha attaccato il segretario della Lega. Uno sfogo durissimo quello di Matteo Salvini che non si spiega come sia stato possibile che un personaggio del genere sia riuscito indisturbato ad arrivare sino in Francia. “Signor Conte, signora Lamorgese - è stato il commento finale del segretario leghista - chiedete scusa”. A quanto pare, però, anche le eventuali scuse da parte di Roma non sarebbero bastate. A quanto si apprende, infatti, da Parigi hanno fatto arrivare, riservatamente ma fermamente, tutta la loro (forte) irritazione per quanto accaduto: "Quel terrorista non sarebbe dovuto passare, l'Italia avrebbe dovuto fare da filtro". Questi i ragionamenti fatti. Insomma, nelle ultime ore non sono mancate le fibrillazioni sull'asse Parigi-Roma. Non per niente ora in Francia si chiede a gran voce a Macron di bloccare la frontiera con l'Italia: stop a qualsiasi flusso migratorio e qualsiasi procedura di asilo. In poche parole stop ai migranti dall'Italia.
Giovanni Bianconi per il ”Corriere della Sera” il 30 ottobre 2020. Chi è stato con lui a bordo della nave Rhapsody , durante i giorni della quarantena sanitaria, racconta che Brahim Aoussaoui trascorreva gran parte del tempo al telefonino, e diceva di voler andare in Francia dove aveva dei parenti. Ma è ciò che intendevano fare - e probabilmente hanno fatto - la maggior parte delle centinaia di tunisini che il 9 ottobre scorso sono scesi dall' imbarcazione della flotta Gnv affittata dal governo italiano per raccogliere i migranti dagli hotspot di Agrigento e Lampedusa e portarli sul continente. Un piccolo esercito di circa 800 persone, approdate a Bari il giorno prima, giovedì 8 ottobre, raccolte in mare o arrivate in Sicilia con piccoli natanti che sfuggono ai controlli. Sono i cosiddetti «barchini», con dieci o al massimo venti passeggeri a bordo che continuano ad arrivare a migliaia ogni anno sulle coste meridionali, «porti chiusi» o «aperti» che siano. Il 20 settembre scorso, quando Aoussaoui è giunto a Lampedusa su uno di questi mezzi, ne sono arrivati ventotto. Che hanno scaricato almeno trecento migranti, quasi tutti tunisini partiti dal loro Paese. L' attentatore di Nizza era nascosto tra loro, quasi certamente già radicalizzato all' islamismo più estremo e violento, poiché è difficile immaginare che si sia convertito al punto di entrare in azione e uccidere tre persone in poco più di un mese; o addirittura in meno di tre settimane, nell' ipotesi che la conversione all' estremismo sia avvenuta in Francia. Ma nonostante l' altissima probabilità che abbia lasciato la Tunisia con le peggiori intenzioni, per le autorità locali e i canali di intelligence quel ragazzo di appena 21 anni era uno sconosciuto. Nessuna segnalazione a suo carico, e nessun avviso all' Italia sulla sua potenziale pericolosità. Anche per questo a Lampedusa le procedure di fotosegnalamento di Brahim Aoussaoui sono filate via lisce. Nome, cognome, nazionalità, data di nascita, impronte digitali, scatti di fronte e di profilo, denuncia penale per «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (un reato per il quale quasi mai si arriva alla condanna e all' esecuzione della pena: ammenda da 5.000 a 10.000 euro), iscrizione sul registro degli indagati della Procura di Agrigento. Terminate queste operazioni, Brahim è stato accompagnato nell' hotspot dell' isola, per essere poi trasferito - il 25 settembre insieme ad altri 50 migranti - sulla Rhapsody , che aveva già preso a bordo altre 330 persone a Porto Empedocle. Sulla motonave il tunisino ha trascorso le due settimane di quarantena imposte dall' emergenza Covid. Chi l' ha conosciuto in quei giorni ed è ancora reperibile, nei centri per i rimpatri o a qualche altro indirizzo noto, ha riferito ieri agli investigatori dell' anti-terrorismo che parlava spesso al telefono, ed era intenzionato a raggiungere la Francia. Se sia vero che lì avesse dei parenti, come dice, è da verificare. Così come è da chiarire con chi parlava: persone che si trovavano già Oltralpe, probabilmente, ma forse anche conoscenti o appoggi in Italia. Alla fine del «confinamento» a bordo, l' 8 ottobre, la Rhapsody è entrata nel porto di Bari, banchina 12, per le operazioni di sbarco. Ancora fotosegnalamenti e verifica dello status, tra aspiranti profughi richiedenti asilo e immigrati irregolari da rimpatriare. Ma gli accordi per la restituzione ai Paesi d' origine, Tunisia compresa, prevedono una procedura complessa, che in tempo di coronavirus è ancor più rallentata. Così il giorno dopo dalla nave sono scesi 405 migranti per i quali s' erano concluse queste operazioni: due arrestati finiti in carcere; 104 destinati a vari centri per il rimpatrio (quelli individuati come pericolosi, con precedenti o che destavano sospetti); 177 , di cui quasi la metà minorenni, nelle case di accoglienza; 122 con in tasca il decreto di respingimento dal territorio nazionale firmato dal questore. Da eseguire entro una settimana, ma nel frattempo in stato di libertà. Brahim Aoussaoui era tra questi. Oltre all' ordine di allontanamento aveva con sé un attestato della Croce Rossa per l' assistenza e i controlli ricevuti a bordo. Poi se ne sono perse le tracce. Indistinguibile nella diaspora degli espulsi rimessi in circolazione. È ricomparso ieri nella chiesa di Notre-Dame a Nizza, con un coltello in mano, al grido «Allah è grande». Le indagini già avviate tra Francia, Italia e Tunisia cercheranno di ricostruire - a partire dal telefonino - il percorso e la rete dei contatti. Com' è avvenuto per altri terroristi omicidi sbarcati sulle coste siciliane: da Anis Amri (Berlino, 16 novembre 2016, 12 morti) ai fratelli Hanachi (Marsiglia, 1 ottobre 2017, due morti).
Dall'articolo di Valentina Errante per “il Messaggero” il 30 ottobre 2020. (...) A Nizza Aoussaoui è un fantasma. Per quindici giorni in Francia non fa nessuna domanda di asilo, non risulta neppure schedato dalle associazioni che si occupano dei migranti. L' ingresso illecito «nel territorio nazionale» del killer di Nizza, come risulta dall' archivio della Questura di Bari, non è giustificato da una fuga o da una persecuzione. Ma a settembre dalla Tunisia sono arrivate 9.978 persone. Troppe per essere trattenute e rimpatriate tutte. Anche i centri per il rimpatrio sono al collasso. Per l' Italia il profilo Aossaoui non rientra tra quelli delle persone da allontanare con urgenza, né da trattenere. Come prevederebbe la legge. Non ha altri decreti di espulsione non rispettati, non ha precedenti penali nel nostro Paese e, ovviamente, non c' è un alert internazionale su quel nome. Sui voli bisettimanali che partono da Roma per Tunisi, 40 passeggeri ogni imbarco, quel ragazzo di 21 anni non salirà mai. Né verrà trattenuto a Bari per tre mesi. I tempi strettissimi ci dicono che non vengono chieste neppure informazioni sul suo conto a Tunisi.
Francesco De Remigis per “il Giornale” l'1 novembre 2020. Una rete chiamata «famiglia». Il puzzle dei contatti del killer di Nizza porta l'antiterrorismo francese a formare un primo «poker»: 4 persone in custodia in Francia. Mentre a sud, in Sicilia, si scava all'ombra dei kebab per chiudere il cerchio di «amicizie» che agli inquirenti italiani proprio non tornano. E lasciano pensare che l'attacco sia stato logisticamente concepito in Italia; con l'ipotesi ancor più agghiacciante che arriva dalla procura tunisina, di un attentato «ordinato» prima di partire col barchino. Ancora una volta la mitologia del lupo solitario vacilla. Le tracce nei cellulari e il lavoro certosino di analisi della videosorveglianza di Nizza hanno mostrato che il killer ha pianificato l'azione: arrivare alla stazione alle 6,47, cambiarsi d'abito e infine colpire dentro la basilica di Notre-Dame, raggiunta senza problemi. Conosceva benissimo la geografia di Nizza. Ma il «Grande Fratello» della «città degli angeli», 3.800 telecamere, lo ha visto per la prima volta in stazione. Non ci aveva quasi certamente mai messo piede. Tre coltelli, due telefoni cellulari. Un Corano nello zaino e un'organizzazione minuziosa alle spalle, con basi in Italia. Infatti il tunisino sbarcato a Lampedusa il 20 settembre, dopo esser passato da Bari e in treno via Palermo, sembra rimasto per almeno 12 giorni ad Alcamo da un amico: un altro tunisino 30enne che lavorava da una settimana in un ristorante di kebab. L'amico che l'ha ospitato era un «neo-assunto», «tramite amici». Aveva una raccomandazione per preparare kebab. Pochi giorni dopo si è palesato Brahim, 21 anni. E da lì la sosta nel Belpaese. Poi è sparito. Il quarto uomo, fermato ieri a Grasse (Alpi marittime), 29 anni, anche lui tunisino, è invece sospettato d'aver fiancheggiato il killer nella giornata precedente all'attentato. All'antiterrorismo italiana tocca ricostruire sul campo il percorso di Brahim Issaoui. Riuscita la traversata dalla Tunisia con un barchino, a Lampedusa il sistema di accoglienza italiano lo porta a Bari. Dove dei 405 migranti scesi dalla Rhapsody l'8 ottobre, due vengono arrestati e detenuti, 104 portati in centri di rimpatrio 177 nei centri: 22 hanno in tasca un decreto di espulsione e accompagnati alla stazione, liberi. È il caso di Brahim. Si dice che abbia confidato ad alcuni compagni di viaggio il desiderio di lasciare l'Italia per la Francia dove avrebbe «famiglia». Proprio da questo termine, «famiglia», l'antiterrorismo italiana si è attivata per ricostruire la rete che gli ha dato supporto, cibo, armi e soldi. Nella «lente», anche due famiglie di immigrati residenti in Sicilia; poi l'arrivo in Francia apparentemente 24-48 ore prima di compiere il gesto. Il trentenne tunisino che gli ha dato alloggio è stato solo interrogato: non è in stato di fermo. Una chiave tra il killer e il trentenne sembra però esserci. Ha detto «il minimo indispensabile». La Dda di Palermo indaga. Dossier dal respiro internazionale: Francia, Italia, Tunisia. Per la madre del killer, lui, un riparatore di motociclette, pregava solo da due anni e mezzo. «Non usciva e non comunicava con gli altri». Almeno non di persona. In Tunisia, aveva precedenti penali per violenza e droga. E frequenti scambi di messaggi. Tasselli italiani si uniscono ai francesi. Un mauritano di 47 anni arrestato giovedì sera, perché le telecamere lo avevano immortalato col killer poco prima che agisse: vicino alla stazione ferroviaria di Nizza. Riunione preparatoria per l'attacco o incontro accidentale? Un terzo uomo fermato e posto in custodia venerdì sera: 33 anni, era a casa del mauritano. Brahim è ancora in terapia intensiva. Prognosi critica. Per ora non può essere interrogato per rispondere dell'accusa di omicidio in associazione terroristica». La quadra sulla cellula è comunque vicina.
Grazia Longo per “la Stampa” l'1 novembre 2020. Sarebbe arrivato in Francia in pullman. A conferma di questa ipotesi ci sarebbe un biglietto Roma-Nizza. Questo l' ultimo viaggio di Brahim Aoussaoui, l' attentatore tunisino di 21 anni (sospettato di essere vicino all' organizzazione terroristica Ansar al Sharia) che giovedì scorso ha seminato il terrore uccidendo tre persone nella cattedrale Notre Dame di Nizza. Ha lasciato la Sicilia lunedì scorso. Una tranche del viaggio in treno, un' altra in pullman: i dettagli sono ancora al vaglio degli investigatori. Sicura la tappa nella capitale del nostro Paese e poi dritto verso la Costa azzurra. E ora si indaga su 11 tunisini sbarcati insieme a lui a Lampedusa il 20 settembre su un barchino di 10 cavalli lungo 6 metri. L' Antiterrorismo della polizia e la Dda, in collaborazione con la procura nazionale francese, sta concentrando l' attenzione sull' eventualità di una rete di complici. Brahim è un lupo solitario o poteva contare sull' aiuto di altri connazionali? Potenziali alleati si cercano anche tra coloro che hanno avuto contatti con Brahim ad Alcamo, in provincia di Trapani, dove il giovane ha vissuto una decina di giorni dopo essere stato a Bari. Il dipendente di un kebab ha ospitato Brahim a casa sua. Si tratta di un tunisino di 30 anni, interrogato per tutto il pomeriggio di ieri dalla Digos di Palermo. Su di lui pende un ordine di espulsione, ma si sta cercando un escamotage giuridico per poterlo trattenere in Italia in modo da verificare il reale legame con Brahim Aoussaoui. Non si riscontrano invece, almeno per il momento, particolari connessioni tra Brahim e il titolare del kebab, interrogato venerdì sera. L' uomo ha raccontato di aver visto il giovane mangiare nel suo locale 4-5 volte. L' ultima volta domenica scorsa. Martedì ha poi chiesto al cameriere dove fosse finito il ventunenne e si è sentito rispondere che era partito per la Francia dove aveva trovato lavoro. L' inchiesta di Palermo è coordinata dal Procuratore Francesco Lo Voi e dall' aggiunto Marzia Sabella, ma un altro fascicolo per terrorismo e favoreggiamento dell' immigrazione clandestina è stato aperto anche dalla procura di Bari guidata da Roberto Rossi. E poi c' è il coordinamento della Dda, diretta dal procuratore Federico Cafiero de Raho. Sul caso è, inoltre, impegnata anche la nostra intelligence che ribadisce l' esigenza di monitorare con maggiore incidenza gli sbarchi di migranti dalla Tunisia. Mentre quelli provenienti dalla Libia possono essere annoverati tra i migranti economici, quelli provenienti dalla Tunisia sono più a rischio terrorismo islamico. Per questa ragione si auspica un pattugliamento congiunto italo-tunisino delle coste della Tunisia, ma il governo di quest' ultima non sembra sensibile ad accogliere questa proposta.
Da Lampedusa fino in Francia: si poteva prevedere l'attacco di Nizza? Dopo l'attentato terroristico del 29 ottobre è tempo di fare i conti con il sistema di controllo. Il procuratore di Agrigento aveva lanciato l'allarme tre anni fa: "Tra chi arriva senza controllo, potrebbero esserci anche persone legate al terrorismo internazionale". Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Ancora una volta gli occhi del mondo sono puntati sulla Francia per l'ennesimo atto terroristico. Tre le vittime di Aouissaoui Brahim che, il 29 ottobre, al grido di “Allah Akbar”, ha sgozzato due persone ammazzandone una terza nella cattedrale Notre-Dame a Nizza. Un attentato terroristico che ha indignato l’opinione pubblica facendo sollevare polemiche sul modello di integrazione francese. Ma anche sui reali controlli che vengono effettuati in Italia su chi arriva.
Chi è Aouissaoui Brahim. Aouissaoui Brahim è un tunisino di 21 anni, arrivato a Lampedusa il 20 settembre scorso assieme ad altri migranti a bordo di uno dei tanti barchini che dalla Tunisia hanno seguito la rotta del Mediterraneo centrale. Una volta giunto sull’isola maggiore delle Pelagie, ha trascorso i 15 giorni previsti per la quarantena a bordo della nave Rhapsody, l'imbarcazione della compagnia di navigazione italiana "Grandi navi veloci" messa a disposizione dal governo per ospitare i migranti appena sbarcati in Italia. Finito il periodo previsto dal protocollo contro il coronavirus, il terrorista è stato portato in Puglia, a Bari, dove è stato identificato e fotosegnalato dalla questura. Il nome dell’attentatore risultava fra quelli inseriti nei terminali per “illecito ingresso nel territorio nazionale”. Ricevuto l’ordine di espulsione dal territorio italiano, con l’invito al rimpatrio, il tunisino è invece arrivato in modo clandestino in Francia.
Quei tunisini lasciati liberi con il foglio di via in tasca. Sul caso dell'attentatore di Nizza è intervenuta anche il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese: “Non c'è responsabilità da parte nostra – ha dichiarato – l'attentatore non era stato segnalato dalla Tunisia né risultava segnalato dall’intelligence”. Tuttavia sul controllo dei tunisini sbarcati negli ultimi mesi qualcosa è andato storto. Lo si è visto ad esempio il 21 settembre scorso. Dalla nave Rhapsody, la stessa che ha portato l'attentatore da Palermo a Bari, quella notte a Porto Empedocle, sono stati fatti scendere 750 migranti. Molti erano tunisini arrivati a Lampedusa pochi giorni prima. A 500 di loro è stato consegnato il foglio di via. In pratica gli è stato detto di lasciare autonomamente il territorio italiano. “È una certezza che questi 500 cittadini extracomunitari non daranno seguito al foglio di via”, aveva spiegato al Giornale.it il 2 ottobre Stefano Paoloni, segretario generale del Sindacato autonomo della Polizia di Stato. E infatti dei tunisini in quell'occasione non si è saputo più nulla. Anzi, Porto Empedocle e Agrigento poco dopo lo sbarco hanno visto decine di migranti riversarsi lungo le proprie strade in cerca di mezzi per raggiungere altre località del nostro Paese. Forse è stata la fretta a pesare su questa modalità di gestione. Serviva, a Porto Empedocle così come a Bari, liberare quanto prima le navi usate per la quarantena per fare spazio ad altri migranti. In tal modo si sono create falle che se in un primo momento hanno determinato allarme sotto il profilo sanitario, successivamente alla luce degli episodi di Nizza hanno mostrato problemi anche per la sicurezza.
Quegli allarmi ignorati. Poteva essere fatto qualcosa per evitare che il tunisino sbarcato a Lampedusa colpisse in Francia? La domanda sorge spontanea, ma è molto difficile giungere a una risposta. Certo è che anche in ambienti investigativi è noto come molti di coloro che fanno perdere le tracce in Italia aspirano ad arrivare all'estero: “I migranti resteranno nel nostro Paese oppure viaggeranno per raggiungere altre destinazioni come a volte accade. Francia e Germania in particolare –ha sottolineato nell'intervista a IlGiornale.it Stefano Paoloni – È chiaro che molti di questi non hanno nessun tipo di risorsa e pertanto sono particolarmente esposti a comportamenti poco leciti”. Quasi una profezia quella del sindacalista della Polizia. Ma già in passato allarmi relativi alla possibile infiltrazione di soggetti radicalizzati tramite gli sbarchi, soprattutto quelli autonomi, erano stati lanciati. Nell'estate del 2017, nel pieno di una delle stagioni caratterizzate dal record di approdi autonomi in Sicilia, a parlarne era stato il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio: “Tra chi arriva senza controllo – era il pensiero del magistrato – Potrebbero esserci anche persone legate al terrorismo internazionale. Per questo penso che siamo di fronte a un’immigrazione pericolosa”. Anche in questo caso si è dinnanzi a una tragica profezia, rimasta però per anni lettera morta.
Le polemiche sul sistema di integrazione francese. “L'attentato di Nizza, oltre alla sua drammatica e barbarica violenza da condannare a prescindere e con forza, - afferma su IlGiornale.it Marino D’amore docente dell’Università Niccolò Cusano- ancora una volta, ci rivela come si valorizzi la superficialità, la generalizzazione e il conflitto, anche verbale, nella sua interpretazione”. In poche parole, il problema non è legato solo alla sicurezza ma anche al modello di integrazione. Infatti il docente Marino D’Amore, punta il dito contro il modello francese: “Non è possibile-afferma- cercare di comprenderne l’origine dell’attentato nella sua estrema complessità, senza tener conto del sostanziale fallimento dell’integrazione assimilazionista francese, che favorisce l’esclusione, e il reclutamento terrorista, la collisione tra due mondi,uno profondamente laico (quello transalpino) e l'altro fanaticamente radicalizzato”. Ad oggi, il vero problema è legato al controllo delle periferie francesi e non soltanto a quello dei migranti che arrivano dall’Italia:“La violenza è sempre e solo barbarie, ma relegare un evento così drammatico a una visione semplicistica, che ne individua le cause solo ed esclusivamente nell’immigrazione o nella libertà di espressione, senza, ad esempio- conclude D’Amore- considerare il livore che si diffonde nelle periferie francesi tra chi non riesce a integrarsi, significa non comprendere la situazione e alimentare lo scontro.
Tunisi: "L'Italia importa la jihad dei poveri e minaccia l'Europa". Accuse al nostro Paese: caccia ai 21 tunisini sul barchino con Brahim. "Qui per uccidere". Francesco De Remigis, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Zone d'ombra, chiaroscuri e una certezza granitica: l'attentatore-killer di Nizza, il 21enne Brahim Issaoui, «è venuto chiaramente in Francia per uccidere». E non da solo. È il ministro dell'Interno Gérald Darmanin a spiegare che ha intrapreso una lunga traversata da clandestino, mescolato a profughi e migranti economici: dalla Tunisia in Italia, infine in Francia fino alla basilica di Nizza dove giovedì ha sgozzato due fedeli e il sacrestano. «Era sul territorio nazionale solo da poche ore - continua Darmanin - è venuto per uccidere. In quale altro modo spiegare perché si è armato di diversi coltelli appena è arrivato? Spetta al procuratore antiterrorismo definire quand'è stato costruito il piano omicida, ma certo non è venuto per ottenere i documenti». Non un lupo solitario e nemmeno un migrante economico come aveva detto alla Digos di Palermo l'amico tunisino che ha ospitato Brahim ad Alcamo, nel Trapanese, dove si pensa abbia pianificato la strage. Qui si concentra un primo tronco dell'indagine italiana in collaborazione con la procura transalpina. Inquietante ciò che è emerso ieri a Nizza: la polizia sta cercando di scoprire se altri jihadisti, come Brahim, siano riusciti a fingersi migranti. Per questo gli inquirenti italiani stanno cercando tutti i compagni di viaggio dell'assassino - erano 21 sulla barca arrivata a Lampedusa - per interrogarli. In particolare vengono utilizzate le telecamere di sorveglianza della stazione di Ventimiglia. Pochi dettagli a Sud, utili soprattutto a geolocalizzare Brahim in Sicilia fino a domenica-lunedì. Ma incrociando i tabulati dei due cellulari del killer, con quelli dell'amico che lavorava al «Punto kebab» di Alcamo (sarà espulso, ha un foglio di via datato 2019), e con altri migranti nel frattempo rintracciati, l'inchiesta italiana per terrorismo e favoreggiamento punta a individuare il passeur. Un uomo avrebbe quindi aiutato Brahim e gli altri nell'organizzazione della prima traversata, e in seconda battuta a farlo arrivare da Bari ad Alcamo da killer. Gli ultimi allarmi dei Servizi italiani individuano ormai nella Tunisia una terra che esporta potenziali terroristi, tanto da aver consigliato a più riprese di monitorare gli sbarchi che partono da lì, più di altre zone del Maghreb. Dopo la «rivoluzione» del 2011, le Primavere arabe hanno reso il Paese fertile per rabbia e propaganda. Passeur, vecchi leoni e giovani leve, hanno messo in piedi cellule «diffuse», spalmate tra il Sud e il Nord Italia, fino alla Francia. Non necessariamente terroriste. Di supporto. Vivono in chiaroscuro, mescolando lavori saltuari a contatti conservati in patria. Il killer di Nizza «venuto per uccidere» si sarebbe appoggiato proprio a una di queste. È un fatto, secondo fonti del ministero dell'Interno tunisino citate ieri da Le Parisien, che l'Italia importa «la jihad dei poveri». Per esportarla inconsapevolmente nel resto d'Europa. Così Brahim, dai sobborghi di Sfax, ha percorso 1.300 km in linea d'aria in un mese. Da un barchino di 21 persone è arrivato ai titoli di giornale. Proprio come Anis Amri, un altro tunisino passato dalla Sicilia nel 2011 prima di uccidere in nome dello Stato islamico al mercatino di Natale di Berlino nel 2016. Macron ha sentito il presidente tunisino Kais Saied: «Molti si nascondono dietro la religione islamica, ma vengono reclutati con il solo scopo di nuocere», si è sentito dire. L'Eliseo ha chiesto invece che «la questione dell'immigrazione clandestina», in evidente «peggioramento», sia affrontata con più efficacia da parte di Tunisi. Il motivo? Gli altri 2 arresti di ieri in Francia: 25 e 63 anni, sotto torchio; presi entrambi a casa del «fiancheggiatore» di Brahim già finito in manette. Tale Ahmed Ben Amor, tunisino. C'è quasi la certezza che ci fosse anche lui sulla stessa imbarcazione con cui il killer ha lasciato la Tunisia a settembre per Lampedusa. Rimasti insieme a singhiozzo nel Belpaese, prima di raggiungere le Alpi. La polizia italiana sta quindi cercando di rintracciare tutti i compagni di viaggio dell'assassino: i 21 sulla barca. Per interrogarli e ripercorrere il viaggio. Tutto sembra orchestrato da migranti o ex tali. Ragion per cui il ministro dell'Interno francese annuncia «centinaia di agenti di polizia in più inviati al confine con l'Italia». I primi tre fermati per aver parlato col killer sono stati invece rilasciati: al primo Brahim aveva chiesto un posto dove comprare un croissant. L'altro era stato visto in macchina mentre dava un oggetto al terrorista: era una bottiglia d'acqua.
Sbarchi fantasma di migranti: arrivare in Italia (e in Europa) sfuggendo ai controlli. Le Iene News il 3 novembre 2020. A Nizza un terrorista arrivato a Lampedusa ha compiuto un attentato uccidendo tre persone. Il nostro Cristiano Pasca ci racconta come funzionano i cosiddetti “sbarchi fantasma” nel nostro paese, che permettono ai migranti di arrivare in Europa senza essere identificati. A Nizza il 29 ottobre un terrorista ha ucciso tre persone nella cattedrale di Notre Dame. L’autore di questo attentato, Brahim Aoussaoui, era sbarcato a Lampedusa il 20 settembre e da lì a era passato Bari dopo due settimane di quarantena. Dalla Puglia è fuggito in Francia dove ha poi compiuto la strage. Il nostro Cristiano Pasca ci spiega come siano due i modi per arrivare in Italia dalle coste dell’Africa: Il primo è a bordo di grandi navi intercettate dalle ogn o dalla Guardia costiera italiana. Il secondo e più pericoloso è quello dei cosiddetti “barchini”, o sbarchi fantasma: piccole imbarcazioni che arrivano direttamente sulle spiagge e permettono ai migranti di non essere registrati dalle autorità ed entrare in clandestinità. La Iena è stato a Torre Salsa, dove ha assistito in diretta a uno di questi sbarchi, e poi si è rivolto agli abitanti del luogo per capire come funzionano. Per capire ancora meglio guardate tutto il servizio in alto.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 6 novembre 2020. Dopo gli attentati a Nizza e Vienna, il presidente francese Emmanuel Macron, blinda la frontiera con l'Italia per evitare l'arrivo dei migranti, che possono essere infiltratati da terroristi islamici. Noi, al contrario rimaniamo un colabrodo: dal giorno dell'attacco a Nizza di un jihadista tunisino sbarcato a Lampedusa sono arrivati via mare un migliaio di suoi compatrioti in più. Dall'inizio dell'anno risultano 12.049, la prima nazionalità. Macron ha annunciato il rafforzamento dei controlli al confine con l'Italia e la Spagna sulla frontiera iberica al valico del Perthus spiegando che le forze di polizia raddoppieranno da 2.400 a 4.800 uomini. «Vediamo chiaramente che le azioni terroristiche possono essere condotte da persone che usano i flussi migratori per minacciare il nostro territorio. Dobbiamo rafforzare i nostri controlli, per ragioni di sicurezza nazionale», ha dichiarato senza peli sulla lingua il presidente francese. In quest' ottica vuole chiedere controlli più efficienti alle frontiere esterne dell'Ue e «riformare in profondità» lo spazio di libera circolazione Schengen. «Gli attacchi in Francia e pochi giorni fa a Vienna ci mostrano che il rischio terrorismo è ovunque, che le reti terroriste sono globali», ha affermato Macron. A dicembre il governo francese presenterà una proposta in tal senso al vertice europeo. L'annuncio di Macron, soprattutto per il rafforzamento dei controlli sul confine con l'Italia, è un'indiretta risposta alle dichiarazioni del sindaco di Nizza, Christian Estrosi, sull'attentato alla cattedrale. Per il primo cittadino la città è stata colpita «a causa della sua vicinanza alla frontiera» e ha chiesto la «sospensione per un periodo degli accordi di Schengen». Estrosi vuole anche che le richieste di asilo vengano presentate nei paesi d'origine e che venga tolto lo status di rifugiato a chi compie reati. In Italia non solo gli sbarchi continuano con l'arrivo dall'attentato di Nizza di 2.453 migranti, ma la nave Open arms salpa di nuovo le ancore. Dopo il sorprendente non luogo a procedere del tribunale di Ragusa nei confronti di Ana Isabel Montes Mier e Marc Reig Creus, rispettivamente capo missione e capitano dell'unità durante lo sbarco di 218 migranti nel 2018. Il procuratore capo di Ragusa, Fabio D'Anna, che aveva ottenuto il rinvio a giudizio per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violenza privata sosteneva che «l'unico vero obiettivo della Ong non fosse quello umanitario di salvare i migranti, ma () di portarli ad ogni costo in Italia in spregio alle regole». Open arms ha annunciato salpando da Barcellona: «Parte la nostra Missione 78. È bello che inizi nel giorno in cui la legge ci ha dato ragione. Chiunque affermi il contrario ha torto, i diritti umani sono inalienabili e vanno difesi sempre. È quello che continueremo a fare». Ieri è stato espulso dall'Italia un egiziano: aveva confidato a un altro detenuto di progettare un attentato nel nostro Paese. Macron sarà lunedì a Vienna per incontrarsi con il cancelliere austriaco Sebastian Kurz. Il mini vertice si concentrerà sul «trattamento dei terroristi islamici, la protezione delle frontiere esterne Ue ed i rapporti con la Turchia». Nel frattempo sono stati arrestati due minorenni in Belgio, che avevano giurato fedeltà al Califfato e volevano attaccare la polizia. Il ministro tedesco dell'Interno, Horst Seehofer, ha rivelato che «riguardo al caso di Vienna, ci sono collegamenti con estremisti considerati pericolosi in Germania».
I terroristi arrivano (anche) con i barconi? Giovanni Giacalone su Inside Over il 31 ottobre 2020. Prima o poi doveva succedere nuovamente. Era inevitabile, perché vi erano già stati precedenti per quanto riguarda i terroristi arrivati via mare dal nord Africa utilizzando barche e gommoni. È un dato di fatto e un fenomeno noto da tempo. Il mondo politico era stato più volte avvisato dagli analisti che si occupano di terrorismo ma senza alcun risultato. La storia si ripete e così emerge che Brahim Aoussaoui, l’attentatore di Nizza che il 29 ottobre ha ucciso tre persone, decapitandone una, era arrivato a Lampedusa lo scorso settembre a bordo di un’imbarcazione proveniente dalla Tunisia per poi essere trasferito a Bari e lasciato libero di andarsene, con un semplice foglio di via. Tutto ciò in piena pandemia. Come già illustrato su ilGiornale.it, l’8 ottobre a Bari le autorità italiane avevano fatto sbarcare circa 805 migranti alla conclusione di un periodo di quarantena sulla nave “Rhapsody”. La gestione è stata emergenziale e Aoussaoui potrebbe plausibilmente essere stato tra quegli 800. Se così confermato, emergerebbero responsabilità enormi da parte del Viminale, tant’è che il Copasir ha immediatamente chiesto un’audizione al ministro degli Interni Luciana Lamorgese, mentre l’opposizione ne chiede le immediate dimissioni.
Una pericolosa ostinazione. Era il maggio del 2016 quando l’ex ministro della Difesa del governo Renzi e Gentiloni, Roberta Pinotti, dichiarava che l’arrivo di jihadisti con i gommoni le sembrava quasi impossibile in quanto “sono in grado di comprarsi dei biglietti aerei”, rilanciando invece il problema dei radicalizzati cresciuti in suolo europeo, come quelli che hanno colpito Francia, Belgio e Inghilterra. Una teoria, quella dei “jihadisti che non arrivano con i barconi”, sposata da esponenti politici e delle istituzioni come Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e anche dal magistrato Armando Spataro. Renzi a suo tempo lì definì “slogan”, affermando: “Arrivano coi barconi gli immigrati a fare gli attentati…Ma i terroristi non usano le zattere, i terroristi che vogliono entrare nel Paese non arrivano attraverso le zattere”. Spataro invece affermò: “Da anni sentiamo dire delle balle sui terroristi che arrivano con i barconi” aggiungendo che non vi erano prove. Del resto anche l’intelligence italiana e l’antiterrorismo avevano indicato tale eventualità come “propaganda”, accogliendola con molto scetticismo e ciò nonostante l’allarme lanciato nel maggio del 2015 dall’allora ministro dell’Informazione libico, Omar al-Gawari: “Le infiltrazioni verso "Malta e l’Italia", avverranno "attraverso i porti dominati da Fajr Libya", la coalizione di milizie filo-islamiche al potere a Tripoli e nella parte ovest della Libia, quella più vicina alla Sicilia”, come riportato all’epoca dal quotidiano Il Messaggero che oltre a pubblicare le dichiarazioni degli 007 secondo cui “se militanti dell’Isis volessero arrivare in Italia non lo farebbero certo usando barconi sottoposti ai controlli delle autorità italiane dopo il salvataggio”, pubblicava anche quelle dell’allora ministro degli Interni, Angelino Alfano, secondo cui “non vi erano prove che tra i migranti erano presenti dei terroristi”. Una posizione strana quella dell’intelligence, considerato che nel dicembre del 2014 era emersa la notizia che la procura di Palermo aveva aperto un’indagine dopo che i servizi segreti avevano segnalato la possibile presenza di terroristi tra gli immigrati sbarcati nei mesi precedenti in Sicilia. Sul caso aveva indagato anche la Procura di Milano, come riportato allora dal professor Marco Lombardi dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies/Università Cattolica di Milano. Bisogna tener presente che già nel 2013 il problema dell’arrivo di terroristi via mare dall’Africa era noto e veniva anche esposto dall’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino: “Ci sono sospetti che dalla Libia fra i vari disperati arrivino in Europa anche jihadisti o qaedisti”, la quale aggiungeva che si trattava di un metodo utilizzato spesso da costoro.
I terroristi arrivati via mare. La lista di terroristi arrivati via mare e che hanno colpito (o erano in procinto di farlo) l’Europa in questi anni inizia ad essere lunga e tra i più noti troviamo il tunisino Anis Amri, l’attentatore del mercatino di Natale di Berlino, ucciso nella notte del 23 dicembre 2016 a Sesto San Giovanni dopo uno scontro a fuoco con una pattuglia della Polizia di Stato. Amri era arrivato a Lampedusa a bordo di un barcone nel 2011 e in Sicilia, oltre ad essersi ulteriormente radicalizzato, si era anche distinto per una serie di aggressioni e atti vandalici in diversi istituti di pena dell’Isola, prima di raggiungere la Germania e colpire a Berlino. Tra aprile e giugno del 2018 venivano invece arrestati a Napoli i gambiani Sillah Ousman e Alagie Touray. I due avevano partecipato a un addestramento militare in un campo mobile in Libia dove si formano i futuri soldati o kamikaze dell’Isis ed erano pronti a compiere attentati in Europa. Nel dicembre del 2016 i due jihadisti erano saliti su un barcone diretto in Italia ed erano arrivati sulle coste siciliane, a Messina. Touray era stato trasferito a Napoli e Sillah in Puglia. C’è poi il caso del somalo Mohsin Omar Ibrahim, alias “Anass Khalil“, arrestato nel dicembre del 2018 a Bari mentre progettava di far saltare in aria le chiese durante il periodo natalizio. Arrivato nel 2016 in Sicilia a bordo di un barcone, il somalo aveva poi raggiunto Forlì e, dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno umanitario, era tornato in Puglia, sistemandosi in uno stabile abusivamente occupato da extracomunitari nei pressi della stazione di Bari. Il 7 gennaio 2018 Anass Khalil aveva colpito alla testa un passante con una bottiglia di vetro dopo aver visto un video dove si spronava i musulmani a far guerra ai cristiani nei loro Paesi. Il 13 agosto 2018 le autorità tunisine fermavano un gruppo composto da 9 jihadisti che si stava imbarcando su un gommone assieme a una decina di altri immigrati, tutti diretti verso le coste siciliane. Due mesi dopo, un tunisino di 25 anni arrivato a Lampedusa a luglio e ospite di un hotspot del posto, veniva riconosciuto da un suo connazionale che lo indicava alle autorità come ex combattente dell’Isis in Siria. Il soggetto in questione veniva dunque immediatamente rimpatriato dall’aeroporto di Palermo. Del resto anche Zaheer Hassan Mahmoud, il pakistano che lo scorso 25 settembre ha ferito quattro persone fuori dell’edificio della vecchia sede di Charlie Hebdo, era passato per l’Italia prima di raggiungere la Francia come “rifugiato”.
Il fiasco preventivo e la politica migratoria suicida. Il flop che ha permesso al terrorista tunisino di raggiungere indisturbato Nizza, arrivando a Lampedusa e passando per Bari dove è stato lasciato libero di proseguire il proprio viaggio con un semplice e inutile foglio di via, è l’esempio lampante di una politica migratoria suicida e di una totale carenza di screening preventivi che dovrebbero svolgere l’importante ruolo di filtro. È chiaro che per la legge dei grandi numeri, se arrivano migliaia di immigrati irregolari, diventa difficilissimo per gli addetti alla sicurezza implementare lo screening necessario per selezionare adeguatamente chi far rimanere e chi no. In Italia vige la regola del “dentro tutti e poi si vede”; in tali condizioni è ovvio che i terroristi hanno campo libero ed entrano come vogliono. Non si può dunque prendersela con chi ha il compito di vigilare, con risorse limitate e senza venir messo nelle condizioni ottimali per poter operare adeguatamente. Il problema è a monte e riguarda un’evidente mancanza di volontà nel voler fermare il forte e incontrollato flusso di clandestini provenienti dalle coste dell’Africa settentrionale che va oramai avanti da anni. I terroristi hanno dunque avuto tutto il tempo di infiltrarsi in Europa e per alcuni che passano all’azione, è plausibilissimo che ve ne siano molti altri pronti a farlo, aspettando soltanto il giusto input. Non si capisce in base a quali elementi si possa infatti pensare che in un contesto di estrema radicalizzazione islamista come la Libia e la Tunisia e la facilità con la quale si può raggiungere le coste italiane, i terroristi dovrebbero rinunciare a tale opportunità. Oltre alla ritrosia nel fermare i flussi all’origine vi è anche una totale carenza di politica europea comune nell’affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, con i tedeschi che lasciano le loro navi delle Ong libere di scorrazzare nel Mediterraneo per raccogliere immigrati e forzare i blocchi italiani; l’Italia dal canto suo, non potendo gestire tutti, lascia che proseguano il loro viaggio verso altri Paesi europei. I francesi dal canto loro li lasciano imbarcare sulla coste della Manica e li scortano addirittura fino alle acque territoriali britanniche, come documentato dal leader del Brexit Pary, Nigel Farage. È chiaro che senza una linea comune a livello europeo per quanto riguarda l’immigrazione, non si riuscirà a fermare gli arrivi e dunque non si potrà nemmeno salvaguardare la sicurezza nazionale e quella europea dal terrorismo islamista, perché sia chiaro, il fenomeno dei flussi incontrollati è un problema che riguarda tutti, non soltanto l’Italia.
Da repubblica.it il 30 ottobre 2020. Botta e risposta a suon di accuse fra Luciana Lamorgese e Matteo Salvini sui fatti di Nizza. Il leader leghista torna a chiedere le dimissioni della responsabile del Viminale, la quale attacca i decreti sicurezza salviniani: "Hanno creato insicurezza". Immediata la controreplica del segretario del Carroccio: "Colpa mia? Lamorgese è senza vergogna, si dimetta". Con la Lega che invita la ministra a "riferire in Parlamento". Dopo le critiche già rivolta ieri alla ministra dell'Interno, Salvini torna a chiedere su Twitter le dimissioni della ministra Luciana Lamorgese, ravvisando la responsabilità morale del Viminale e di Palazzo Chigi. "Questo è un attacco all'Europa, non c'è nessuna responsabilità da parte nostra", risponde la ministra. "Ho sentito parlare dei decreti sicurezza, che noi avremmo modificato. Ma voglio anche dire che i decreti sicurezza hanno creato insicurezza perché 20mila persone sono dovute uscire da un giorno all'altro dall'accoglienza, e noi abbiamo cercato di tenere presente l'esigenza di sicurezza del Paese, non disperdendo tutti nel territorio nazionale". La ministra poi aggiunge: "È il momento di fermare le polemiche. Il tunisino che ha assassinato tre persone a Nizza non era stato segnalato né dalle autorità tunisine né risultava segnalato dall'intelligence". E ricorda: "In passato devo dire che casi analoghi purtroppo si sono verificati e allora mi chiedo come mai le forze di opposizione, che oggi si sono scusate con la Francia, a cui io manifesto tutta la mia solidarietà, come mai non hanno ritenuto di scusarsi in altri casi gravi che si sono verificati. E parlo degli attentati alla metropolitana di Londra, London Bridge nel 2017 e l'attentato alla Rambla del 17 agosto 2017". Salvini allora contrattacca ancora su Twitter: "Senza parole! Con i porti aperti sbarca a lampedusa un terrorista islamico, identificato a bari ma lasciato libero di fuggire a nizza a sgozzare e decapitare e secondo il ministro dell'interno è colpa mia! siete senza vergogna. #Colpadisalvini ?!? #lamorgesedimettiti". A dare man forte al leader della Lega anche la presidente di FdI Giorgia Meloni: "Il ministro Lamorgese ha detto che il terrorista di nizza è entrato da Lampedusa perchè è la porta d'Europa. Il problema è che quella porta andrebbe chiusa e sorvegliata, non spalancata come fa la sinistra al governo". Dalla parte della ministra si schiera, invece, la deputata del Pd Laura Boldrini, che cita un post di Salvini: "Quando tutta Europa si stringe alla Francia colpita dal terrorismo islamista, lui coglie l'occasione per avviare la campagna di sciacallaggio politico interno. Il fondo si può sempre toccare. Lo insegna Salvini con questo post". Solidarietà alla ministra anche da parte di altri esponenti dem, dal deputato Carmelo Miceli al senatore Dario Parrini.
Immigrazione, i decreti sicurezza di Salvini hanno davvero bloccato gli sbarchi? Ecco i numeri. Dataroom. Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 20/10/2020 su Il Corriere della Sera. Quando il primo giugno 2018 Matteo Salvini diventa ministro dell’Interno gli sbarchi degli ultimi dodici mesi sono 52.194; quando dopo 15 mesi se ne va (5 settembre 2019) scendono a 8.428. Nei 13 mesi successivi con il ministro Luciana Lamorgese gli arrivi dei migranti triplicano fino a raggiungere i 27.775 in un anno. Solo negli ultimi tre mesi, da luglio a settembre, in Italia sbarcano 16.778 immigrati. Più che in tutto il 2019 quando sono stati 11.471. Due le domande: sono stati i decreti Sicurezza di Salvini a bloccare il flusso? E perché questa crescita se le norme dell’ex ministro dell’Interno sono state modificate solo due settimane fa? Ci aiuta a rispondere un’elaborazione dati dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) realizzata per Dataroom.
Il numero di sbarchi: che cosa lo influenza. Le «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», note come decreto Sicurezza bis, sono approvate dal Consiglio dei Ministri il 14 giugno 2019. La novità di maggior rilievo è l’attribuzione al ministro dell’Interno, del potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito, o la sosta di navi nel mare territoriale. Provvedimenti limitativi o impeditivi dovranno essere adottati di concerto con il ministro della Difesa e con il ministro dei Trasporti, e dovrà essere informato il presidente del Consiglio. Ma per capire quel che sta succedendo bisogna tornare indietro. Sull’andamento degli sbarchi i dati raccontano tre storie.
Primo: la riduzione degli sbarchi inizia già con il ministro Marco Minniti. Al 12 dicembre 2016, data del suo insediamento al Viminale, gli arrivi sono 181.436, alla fine del suo mandato 72.571. Determinante è l’accordo con la Libia del 2 febbraio 2017 per contrastare le partenze dalle sue coste. La durata del memorandum tra il governo Gentiloni e quello di Tripoli guidato da Al Serraj è triennale, ed è stato rinnovato lo scorso febbraio. In cambio il nostro Paese si impegna a fornire «supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina», che vuol dire addestrare la Guardia costiera libica e fornirle mezzi e fondi. Inoltre l’Italia fornisce aiuti economici ai sindaci delle tribù per chiudere il confine meridionale del Paese, quello con il Niger, da cui transita la maggior parte dei migranti che entrano dall’Africa subsahariana. Vengono anche finanziati, tra le proteste delle associazioni umanitarie, i centri di accoglienza libici, in realtà strutture detentive visto che in Libia l’immigrazione illegale è punita con la reclusione.
Secondo: dopo alcuni mesi dall’accordo con la Libia, da luglio 2017, gli arrivi iniziano a ridursi in modo costante. Questa riduzione continua con l’inizio del primo governo Conte fino a scendere al minimo storico, sotto i 300 mensili, tra gennaio e aprile 2019. Siamo a poco meno di un anno da quando, nel giugno 2018, Salvini annuncia «porti chiusi» e lascia decine di navi in mare per giorni prima di dar loro la possibilità di attraccare sulle coste italiane. Terzo: la possibilità di vietare l’ingresso in Italia alle imbarcazioni di soccorso su ordine del ministro dell’Interno scatta formalmente a giugno 2019, con l’approvazione del decreto Sicurezza bis. Ma paradossalmente proprio allora gli sbarchi iniziano a risalire intorno ai mille al mese.
Le crisi in mare: qual è il numero di morti. L’effetto deterrente, dunque, più che dal decreto Sicurezza bis, viene giocato momentaneamente dagli annunci sui porti chiusi e dalle navi lasciate in mare per settimane. Un risultato che si esaurisce nel giro di pochi mesi, anche perché nulla ferma la stagione estiva, quella in cui gli sbarchi possono riprendere con maggior vigore. Ma le conseguenze del decreto si misurano in termini di vite: nei 15 mesi di Salvini ci sono 29 crisi in mare che durano8 giorni ciascuna in media (richieste di attracco in Italia di navi che vengono lasciate a largo). Nei 13 mesi di Lamorgese le crisi in mare sono 31: anche se la ministra non ha mai usato il potere di divieto di attracco, prima di fare entrare le navi si cerca il modo di smistare gli immigrati in arrivo anche in altri Paesi europei. La durata delle crisi è inferiore ai 5 giorni.
Risultato: gli annegati in mare sotto Salvini sono 1.369, che scendono a 572 con Lamorgese, mentre il rischio di morte nel Mediterraneo centrale passa dal 6% al 2%. La durezza di quel decreto ha avuto una ricaduta politica, mettendo l’Europa di fronte alle proprie responsabilità e alla necessità di condividerle.
La protezione umanitaria eliminata: perché crescono gli irregolari. Dopo aver visto cosa succede in mare, guardiamo cosa avviene a terra. Il primo decreto Sicurezza di Salvini è dell’ottobre 2018, e di fatto abolisce la protezione umanitaria. Fino ad allora ne beneficiavano circa 20 mila immigrati l’anno, sui 34 mila che complessivamente ottengono una protezione internazionale in Italia (oltre all’umanitaria c’è lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria). In quel momento i dati certificano che il nostro Paese è il più accogliente rispetto al resto d’Europa, con una media del 50% in più di stranieri protetti. È, dunque, giusto e necessario dare una stretta? La risposta la fornisce l’effetto pratico del decreto: chi è in attesa di una protezione, e prima l’avrebbe ottenuta, con la scomparsa dell’umanitaria si vede opporre un diniego e diventa clandestino. Parliamo di 37 mila nuovi irregolari in due anni. A questi numeri si aggiungono tutti coloro che già godevano di una protezione umanitaria (39 mila) e ai quali probabilmente non è stata rinnovata, ma quanti esattamente siano non è dato sapere. Siccome i rimpatri nel frattempo non aumentano (ruotano intorno ai 600 al mese, come negli anni precedenti), si stima che in Italia il numero di chi è senza un permesso di soggiorno oggi sia complessivamente salito sopra i 600 mila, contro i 530 mila di quando si è insediato il governo Conte 1. Secondo le ultime ricerche disponibili, quando uno straniero passa da regolare a irregolare, il rischio che commetta un reato aumenta tra le 10 e le 20 volte. Inoltre i clandestini finiti all’ospedale perché malati di Covid, e che possono essere dimessi, ma devono ancora restare in isolamento, continuano ad occupare posti letto, perché le foresterie adibite a questo scopo non accolgono chi non è in possesso di un codice fiscale.
Il decreto Lamorgese: cosa cambia. Il 5 ottobre su proposta del ministro Lamorgese il governo Conte 2 modifica i due decreti Salvini. Il divieto o la limitazione del transito delle navi non potrà più applicarsi alle operazioni di salvataggio dei migranti (in caso di mancato rispetto delle norme di navigazione internazionali il potere di veto resta al ministro dell’Interno che dovrà coordinarsi con quelli delle Infrastrutture e della Difesa e informare il presidente del Consiglio). Per chi è esposto al rischio di «trattamenti inumani o degradanti» torna in vigore anche il meccanismo della protezione umanitaria. Però gli sbarchi erano ripartiti già dal mese di luglio. Non è un caso che gli arrivi siano al 70% dalla Tunisia (ben diverso dal 90% provenienti dalla Libia nel periodo di sbarchi record tra il 2014 e il 2016). È la conseguenza dell’effetto Covid: con il crollo del turismo, aumentano le partenze di chi è senza lavoro. È questa la ragione delle recenti missioni in Tunisia del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e di Lamorgese. La scommessa è sempre la stessa, e non è ancora stata vinta da nessuno: non farci travolgere dai nuovi arrivi, ma senza sacrificare vite in mare e creare nuove sacche di irregolari. Una partita più complessa di un decreto.
Nell’era Salvini 550 morti in più in mare all’anno, ne valeva la pena? Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Le cifre fornite da Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, ieri, a proposito di immigrazione irregolare, sono sconvolgenti. I casi sono due: o sono false, e allora si tratterebbe di un atto gravissimo, o sono vere, e allora è francamente assurdo che la politica e i palazzi del potere non si fermino un attimo a ragionare. È molto improbabile che non siano vere. Ecco qui la più cruda e scioccante di queste cifre. Il numero dei morti affogati in mare durante il periodo nel quale ministro degli Interni era Salvini e il numero dei morti nell’epoca Lamorgese (cioè, differenza tra il Conte 1 e il Conte 2). Nei quindici mesi di Salvini i morti sono stati 1369. Che vuol dire 1095 su base annua. Durante il periodo Lamorgese (13 mesi) i morti sono stati 572, cioè 528 su base annua. La differenza è mostruosa: 550 persone in più, ogni anno, seppellite in fondo al Mediterraneo. Ora io mi chiedo: basta una strage di 550 persone (quante furono le vittime del terrorismo bombarolo in Italia tra gli anni ‘60, ‘70 e ‘80) per aprire una riflessione politica, possibilmente pubblica, nei partiti, nel governo, negli organi di informazione, nelle Tv? Vi do quest’altra cifra, oggettiva, che è molto inquietante. Il rischio di morte per chi si imbarca sui gommoni nella coste dal Nord Africa, era del 2,01 per cento prima dell’arrivo di Marco Minniti al ministero dell’Interno (è stato Minuti a ottenere una clamorosa diminuzione degli sbarchi, prima ancora di Salvini); nel periodo del ministro Minniti (dalla fine del 2016 al 2018) la percentuale di rischio salì molto leggermente al 2,05 per cento. Queste percentuali, per capirci, significano che ogni cento migranti che si imbarcavano, mediamente ne morivano 2. Durante i 15 mesi di Salvini l’indice di rischio fece un balzo, anzi triplicò arrivando al 6,04. Da quando c’è la ministra Lamorgese è tornato a scendere e oggi è del 2,4 per cento. Naturalmente, dal punto di vista statistico, l’indice di rischio ci dice più cose di quelle che ci dicono le cifre assolute. Perché – lo si capisce facilmente – se i 1369 morti durante il periodo-Salvini sono raffrontati con soli 8428 sbarchi (questo è il numero degli sbarchi durante il Conte-Salvini) sono in proporzione molti, molti di più dei 572 morti raffrontati ai 27.700 sbarchi durante il Conte-Lamorgese. Traduco: rapporto tra morti e sbarchi. Con Salvini c’è un morto ogni 6 sbarchi, mentre con Lamorgese c’è un morto ogni 50 sbarchi. Dopodiché, anche sui numeri in percentuale, oltre che su quelli assoluti, bisogna ragionare bene. Prima che Minniti diventasse ministro e che firmasse gli accordi con la Libia (tra il 2016 e il 2017), delegando ai libici l’arresto e la detenzione dei profughi che cercavano di imbarcarsi, dicevamo che il rischio di morte era solo del 2,01, e con Minniti restò praticamente costante al 2,05. Però ai morti in mare, dopo l’accordo coi libici, bisogna aggiungere i morti nelle prigioni o durante gli arresti da parte dei libici. Quanti? Probabilmente migliaia. E se sono migliaia vuol dire che dal 2018 in poi bisogna almeno raddoppiare i dati dell’indice di rischio. Resta il fatto che, comunque, il governo Conte-Salvini produsse una vera e propria strage che evidentemente – lo dimostra Lamorgese – poteva essere evitata. Fino a oggi i sostenitori della linea Salvini avevano sempre detto che scoraggiando in vari modi gli sbarchi, Salvini aveva salvato moltissime vite umane. Era una informazione sbagliata. Noi non sappiamo esattamente di quanto siano aumentati i morti durante il ministero-Salvini, ma sappiamo che nel migliore dei casi sono aumentati di almeno 550 unità. Terrificante. È vero o no, però, che Salvini ha ridotto il numero degli sbarchi e che con la Lamorgese gli sbarchi hanno ripreso a salire? È certamente vero. Anche se va precisato che Salvini si è limitato a mantenere (e rafforzare) il trend di riduzione degli sbarchi avviato da Minniti, appunto con gli accordi con la Libia e l’annientamento della piccola flotta di volontari che negli anni precedenti aveva salvato migliaia di vite. Ecco i dati esatti. Prima dell’arrivo di Minniti i profughi che sbarcavano da noi erano circa 180mila all’anno. Con Minniti questo numero crollò in pochi mesi a 52mila. Con Salvini crollò ancora, addirittura a 8400. Con Lamorgese è tornato a salire fino a 27.700. Diciamo che è triplicato. Poi ciascuno può trovare moltissime cause diverse di queste oscillazioni. Però non mi pare che si possa discutere su due cose: la prima causa (fondamentale) della riduzione degli sbarchi è stato l’uso della repressione in Libia, e l’annientamento della flotta dei soccorsi, la seconda causa è stata la politica del terrore psicologico, attuata anche con il blocco delle navi in porto e con una forte e combattiva campagna di stampa. Salvini ha avuto o no il merito di ridurre drasticamente il numero degli sbarchi? Sì, sempre che si possa parlare di merito. Quale è stato il costo di questa operazione di Salvini? Circa 550 morti. È un costo socialmente e politicamente e umanamente accettabile? Ciascuno risponda secondo coscienza. La mia risposta, credo, la conoscete. Io mi chiedo. Ma se un ministro dell’Interno un giorno ci dicesse: abbiamo ridotto di oltre tre quarti i furti negli appartamenti, voi cosa gli direste? Bravo, bravissimo. E poi gli chiedereste: come hai fatto? Se lui vi rispondesse: “ho fatto uccidere 550 ladri di appartamento”, voi cosa pensereste? Oltretutto rubare negli appartamenti è un reato, cercare asilo politico fuggendo dal proprio Paese non è reato, e non è neppure riprovevole moralmente ed è anche un diritto sancito dall’articolo 10 della Costituzione, no? A proposito di reati, c’è la questione degli irregolari, che nel linguaggio spiccio del giornalismo e della politica vengono chiamati i clandestini. Bene, i decreti-Salvini, che hanno abolito la protezione umanitaria a un grande numero di profughi, ha prodotto la bellezza di 70mila nuovi irregolari. Che prima, in Italia, erano circa mezzo milione, ora sono quasi seicentomila. Cosa fai se sei profugo in Italia, non hai parenti né amici, non puoi avere un lavoro e perdi ogni protezione? Puoi chiedere l’elemosina, puoi cercare salvezza nella Caritas, puoi provare a cercare un lavoro in nero a prezzi di schiavitù, oppure puoi rubare, o darti al piccolo spaccio. Non esiste nessun’altra alternativa. I sociologi hanno stabilito che la possibilità di commettere reati, quando da regolare diventi irregolare, aumenta dalle due alle 10 volte. I decreti-Salvini, da questo punto di vista, hanno prodotto questo: aumento dei reati. Anche perché (lo diciamo tra parentesi) il numero delle espulsioni sotto Salvini è diminuito e poi è risalito con Lamorgese. Quindi inni e gloria a Lamorgese? No, perché 500 morti all’anno sono ancora una enormità e una vergogna indelebile per la nostra civiltà e per l’Italia. E perché ancora non si è deciso di restituire libertà d’azione (come è logico che sia) alle navi dei volontari bloccate prima dalla magistratura e poi dal Ministero. E perché i decreti-Salvini sono stati solo un po’ modificati. E perché gli accordi coi libici, orrendi, sono ancora in vigore. No, niente inni per tutte queste ragioni. Però un grazie per aver salvato almeno 550 persone dall’annegamento bisognerà pur dirglielo.
Senza immigrati? Saremmo tutti più poveri…Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Gli immigrati producono quasi il 10 per cento del Pil. E pagano quasi 18 miliardi di tasse. Cioè – secondo i calcoli degli esperti – pagano una quantità di tasse superiore ai costi ai quali si sottopone lo Stato per accoglierli e per finanziare il welfare che loro utilizzano. Insomma, per l’Italia sono un affare. Ci guadagna almeno mezzo miliardo all’anno. Il dato sulla partecipazione degli immigrati alla formazione del Pil è clamoroso. Bisogna esaminarlo bene. Il dato esatto della porzione di Pil prodotto dagli immigrati è 146,7 miliardi e corrisponde esattamente al 9,5 per cento del Pil nazionale. Bisogna tenere conto di due cose. La prima è che gli immigrati oggi sono l’8,7 per cento della popolazione italiana. Quindi, in proporzione, producono più dei cittadini italiani (e di conseguenze pagano più tasse). La seconda cosa da tener presente è che gli immigrati sono la parte più povera della popolazione che vive in Italia. Di solito svolgono mestieri poco retribuiti, di scarsissimo prestigio, cioè assolvono a tutti quei compiti gravosi, decisivi per il funzionamento di una società complessa come la nostra, ma assai poco graditi, e quindi rifiutati dalla parte meno povera della popolazione, che di solito è italiana. Le fasce più povere della popolazione producono, statisticamente, meno pil delle parti più ricche. Per capirci: la Lombardia ha un Pil pro capite che è circa il doppio di quello della Sicilia. È logico che sia così. Invece nel caso degli immigrati questo assioma si rovescia. Salta la logica. I dati dei quali sto parlando sono stati forniti dalla Fondazione Leone Moressa, che è un’organizzazione molto seria che da anni si occupa di problemi dell’immigrazione. E su questi dati sarebbe interessante se si aprisse una discussione seria, che eliminasse le componenti di propaganda che in genere travolgono tutte le discussioni che riguardano l’immigrazione. È chiaro che il problema dell’immigrazione irregolare è un problema molto serio, e non si può risolvere con battute ideologiche. Però sarebbe giusto riconoscere due cose, prima di iniziare a discutere: innanzitutto che l’arrivo in Italia di svariati milioni di immigrati (i residenti sono 5,26 milioni, cioè sono aumentati del 44 per cento in dieci anni) è forse più un’occasione che un problema per il nostro Paese e per la sua struttura produttiva. Visto che i demografi ci dicono che le nascite nelle famiglie italiane sono in calo netto e gli italiani che fuggono all’estero sono moltissimi, è chiaro – e indiscutibile – che se non avessimo avuto un massiccio fenomeno di immigrazione, oggi ci troveremmo con un pil di dieci punti inferiore all’attuale, e quindi, tra i paesi europei, saremmo forse il più debole. Con scarsissime probabilità di crescita. La seconda cosa da tener presente è che tutto lascia credere che la partecipazione degli stranieri alla crescita del pil italiano potrebbe aumentare molto se si risolvesse il problema dell’immigrazione irregolare. La regolarizzazione degli immigrati porterebbe a un ulteriore aumento del pil e a un fortissimo aumento delle entrate fiscali. Probabilmente (su questo il parere dei criminologi è abbastanza unanime) porterebbe anche a una riduzione drastica dei fenomeni di criminalità. Del resto la fondazione Moressa ci informa anche del fatto che gli immigrati hanno una fortissima capacità non solo di lavoro ma anche di iniziativa imprenditoriale. Pensate che in questi ultimi dieci anni, mentre gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti del 9,4 per cento, quelli nati all’estero sono aumentati addirittura del 32 per cento. Le imprese di proprietà degli stranieri producono ogni anno 125,9 miliardi cioè l’8 per cento del totale prodotto dalle imprese che funzionano in Italia. In settori come l’edilizia, addirittura arrivando a sfiorare il 20 per cento, cioè quasi una impresa edilizia su 5 è straniera, messa su da lavoratori immigrati. Tutte queste cifre possono sembrare un po’ complicate, ma in fondo non lo sono. Dicono tutte la stessa cosa. Non solo non c’è nessuna invasione di immigrati, non solo non c’è un salasso per i contribuenti italiani costretti a pagare milioni di euro per l’accoglienza, ma c’è un saldo largamente positivo tra benefici e costi dell’immigrazione. Ora naturalmente non è in questo modo che si possono affrontare i problemi e le scelte politiche che riguardano l’accoglienza. Se arriva un gommone pieno di profughi, o un peschereccio pieno di naufraghi, non è che il ragionamento che si può fare è: mi conviene o no accoglierli? Vanno accolti per ragioni di umanità e per rispettare la Costituzione italiana e la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il dato economico però è molto interessante. Perché smonta una campagna politica che ormai sta diventando travolgente. Non esistono né giornali né partiti politici di una certa consistenza, che non si adeguino al luogo comune secondo il quale gli immigrati sono un costo che non possiamo permetterci. Non sono un costo. E la discussione non può che partire da qui. Perché invece vince la propaganda xenofoba? Per una ragione semplice: si dice che con la Prima repubblica sia finita la politica delle ideologie e sia iniziata la politica della concretezza. Non è così. Nella Prima repubblica era abituale la battaglia delle idee, e certe volte questa battaglia si incancreniva su idee faziose e preconfezionate, cioè su quelle che noi chiamavamo ideologie. Oggi invece le idee sono sparite del tutto e la norma è l’ideologia, che però non gode più della pluralità, come era una volta, ma è quasi sempre unica. Con poche sfumature. Sui temi relativi all’immigrazione, bisogna dire che ormai esistono due soli campi. Il campo principale, nel quale si radunano quasi tutti i partiti di destra e di sinistra, che – seppur con toni diversi – si pone la questione di come respingere gli immigrati. Se con violenza o con gentilezza, se a voce alta o sottovoce, se apertamente o un po’ di nascosto. Comunque si pone l’obiettivo di respingerli e scacciarli e ridurne il numero. Stop. E poi c’è un piccolo campo dove si radunano i sostenitori dell’accoglienza, che però tra i protagonisti di una certa rilevanza ha solo la Chiesa cattolica. Ieri si è chiusa la campagna della Chiesa che aveva per titolo la frase “Liberi di partire, liberi di restare” – frase molto bella e molto liberale – e hanno parlato un paio dei massimi leader della cattolicità italiana. Gualtiero Bassetti, che è il capo dei vescovi, («Tra le opere di giustizia per le quali saremo giudicati – ha detto – vi è quella dell’accoglienza degli stranieri, come è scritto nel Vangelo di Matteo…»), e Matteo Zuppi, cardinale di Bologna («Dicono che questo dei migranti è un pallino di Francesco e che la Chiesa chiuderà, perché è diventata un ospedale da campo: sì, la Chiesa è un ospedale da campo perché è lì che si incontra Gesù. Non chiuderà. Gesù non si incontra nelle cliniche private». La contrapposizione è netta. Quel che dà da pensare è che, al contrario di quello che potresti aspettarti, la posizione dei partiti è piuttosto vecchia e del tutto ideologica, quella della Chiesa è moderna e molto laica. Succede.
E i salotti chic brindano ai porti riaperti: "Torna la democrazia, ora tocca allo ius soli". Dalla sinistra alle star tv, tutti in delirio per l'abolizione dei decreti Salvini. Ma i pasdaran dell'accoglienza non sono soddisfatti: "Cittadinanza a tutti". Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. Ve ne siete accorti anche voi? Dalla sera del 5 ottobre l'Italia è cambiata. In meglio. A sinistra lo hanno subito capito. Il sole brilla sulla penisola e i meteorologi dicono che probabilmente quest'anno l'inverno non si farà nemmeno vedere, gli uccellini cinguettano, la gente sorride per la strada, dagli alberi crescono banconote da 50 euro e Di Maio ha anche imparato ad usare i congiuntivi. Ma, soprattutto, i clandestini possono tornare a scorrazzare liberamente. Certo, perché è evidente, il problema dell'Italia non è l'impennata del Covid, il pil che sprofonda, le aziende che chiudono e la moltitudine di cittadini che non riesce ad arrivare alla fine del mese. Ma va là, poveri ignoranti, il problema dell'Italia, la nube nera che offuscava il nostro destino erano i decreti sicurezza. Cioè il tentativo di Matteo Salvini di regolamentare l'immigrazione clandestina. La sinistra tutta è esplosa in un giubilo scomposto. Nemmeno la sera di capodanno, manco se l'Italia avesse vinto i mondiali. Immaginiamo che nelle case radical chic abbiano improvvisato trenini strombazzando la loro gioia dentro variopinte lingue di Menelik. Festeggiano, logicamente, le Ong che ora sono libere di trasbordare chi gli pare e piace su e giù per il Mediterraneo e di trasformare l'Italia nel campo profughi d'Europa. Festeggia tutta una sinistra che non avendo nulla da festeggiare si eccita per la rimozione dell'opera altrui. Fallito il tentativo di mandare Salvini direttamente in galera, si accontentano di aver cancellato i suoi decreti. I toni sono quelli da 25 aprile, con la solita trita ed esasperata emotività radical: l'Italia è stata nuovamente liberata. Laura Boldrini non riesce a contenere l'entusiasmo: «Cala il sipario su leggi che hanno portato insicurezza, negazione dei diritti e irregolarità. Oggi è un bel giorno per la democrazia». L'Arci sciabola i mathusalem di champagne: «Cancellata una vergogna giuridica». Nicola Zingaretti segue a ruota e la prende larghissima, passando pure da Bruxelles: «I decreti propaganda di Salvini non ci sono più. Vogliamo un'Italia più umana e più sicura. Un'Europa più protagonista». Certo, la stessa Europa che ci molla tutti i migranti e non ne redistribuisce nemmeno uno. Resuscita anche Matteo Renzi, assolutamente irrilevante nella questione, ma pronto a twittare: «Cancellati i decreti sicurezza. Dedicato a tutti quelli che dicevano: ma che ci state a fare?». Ecco, appunto, se questo è il grande contributo di Italia Viva potevano anche risparmiarsi la fatica. L'ultrà dell'invasione Luigi De Magistris, invece, è contento solo a metà: «Bene, ma bisogna fare di più sulla concessione della cittadinanza». Scettico anche Leoluca Orlando: «Rimane l'approccio punitivo e intimidatorio nei confronti di chi opera il salvataggio in mare». Non si darà pace finché l'Italia non sarà trasformata in una casbah. Il sempre pacato Oliviero Toscani si abbandona alla gioia: «Finalmente un po' di civiltà e ora lo ius soli. Io non sono assolutamente un buonista. È un ragionamento da macho imbecille. Non è buonismo, è giustizia». Civilissimo. E poi arriva la maestra del pensiero rosso, Alba Parietti: «Bene, posso dire che il primo dovere di un buon cristiano è quello dell'accoglienza. Io credo che chi sosterrà nei prossimi anni le nostre spese saranno anche loro. Lei mi cerchi tra gli italiani chi vuole lavorare sotto il sole, con lavori di fatica, pagato due euro l'ora». Alba Parietti, notoriamente assurta all'onore delle cronache per aver fatto la mondina, curva sulle risaie del Piemonte. Se questa è la sinistra, a destra possono dormire sonni tranquilli.
"Presi di notte e messi sulle navi". Ma la sinistra ora tace sui migranti. Migranti regolari sarebbero stati "deportati" sulle navi quarantena. Ma senza Salvini al Viminale i rossi restano muti. Angelo Scarano, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. Al Viminale non c'è più Salvini. E adesso vale tutto. Dopo la morte di un ragazzo di 15 anni sbarcato in ritardo da una della navi quarantena messe in mare dal Viminale per isolare i migranti positivi, un altro episodio rischia di far discutere. A segnalarlo sono state diverse Ong. Di fatto diversi migranti regolari con permesso di soggiorno o protezione umanitaria, sarebbero stati prelevati di notte dalle strutture di accoglienza per essere trasferiti sulla nave "Allegra" per la quarantena. Si tratta di migranti non di primo approdo, ma che da tempo sono già in strutture sulla terra ferma. A parlare di questi episodi, come riporta l'Agi, sono alcune ong. Le prime segnalazioni relative a migranti regolari trasferiti sulle navi, spiega Open Migration, erano arrivate all’alba dell’8 ottobre: migranti "con regolare permesso di soggiorno, uomini e donne ospiti dei Cas di Roma e di altre città d’Italia risultate positive al Coronavirus stanno per essere trasferite sulle così dette 'navi quarantena'".
Le navi "bomba" dei migranti: focolai innescati dal governo. Il Viminale a quanto pare non ha nè confermato, nè smentito la notizia. L'avvocato Valentina Tortorella di Open Migration ha raccontato la storia di Farouk arrivato in Italia nel 2017 e accolto nel centro Porrino di Roma. Lui insieme ad altre 15 persone circa era risultato positivo e, privo di sintomi, sottoposto a isolamento fiduciario all’interno del centro. Farouk ha chiamato la legale la mattina dell’8 ottobre: "Mi ha detto che durante la notte, intorno all’una, era stato prelevato da un autobus della Croce Rossa insieme agli altri casi positivi accertati nel centro, per essere condotto su una ’nave quarantena, ma senza conoscerne realmente l’ubicazione, nè avere notizie sulle modalità e tempistiche del trasferimento. Solo alle 5 del pomeriggio di quello stesso giorno mi faceva sapere che si trovava al porto di Palermo", spiega il legale all'Agi.
Migrante denutrito e poi morto: l'orrore sulla nave quarantena. E altre segnalazioni di episodi simili sono arrivate anche all'Associazione per gli Studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi): "L’utilizzo navi come luoghi di isolamento fiduciario e quarantena per migranti è previsto dal decreto del Capo della Protezione civile del 12 aprile 2020 esclusivamente per gli stranieri soccorsi o arrivati autonomamente via mare. Non prevede tale ipotesi per stranieri già regolarmente soggiornanti e ospitati in centri di accoglienza", prosegue l’Asgi, che "chiede con urgenza al Ministero dell’Interno, al Ministero della Salute, al Dipartimento della protezione civile e alle altre autorità competenti di interrompere immediatamente tale prassi illegale e fortemente lesiva dei diritti fondamentali". La sinistra tace. Forse perché al Viminale non c'è più il leader della Lega?
Migranti, ok al nuovo Dl che archivia decreti Salvini: cosa cambia. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Una nuova svolta per l’immigrazione: lunedì 5 ottobre il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto su sicurezza e immigrazione che archivia quelli emanati da Matteo Salvini. Niente più multe milionarie alle ong, ampliato invece il sistema di accoglienza con il regime di protezione speciale. Sulla scia del caso dell’omicidio di Willy arriva il Daspo urbano per tenera violenti e spacciatori lontani dai luoghi della movida. Tra le novità le modifiche in materia di requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per esigenze di protezione del cittadino straniero, di limiti all’ingresso e transito di unità navali in acque territoriali italiane e di inapplicabilità della causa di non punibilità per “particolare tenuità del fatto” ad alcune fattispecie di reato. In materia di condizione giuridica dello straniero, il provvedimento affronta il tema della convertibilità dei permessi di soggiorno rilasciati per altre ragioni in permessi di lavoro. Alle categorie già previste, si aggiungono quelle di protezione speciale, calamità, residenza elettiva, acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide, attività sportiva, lavoro di tipo artistico, motivi religiosi e assistenza ai minori. Maggiori tutele anche per chi richiede protezione internazionale. La normativa vigente prescrive il divieto di espulsione e respingimento nel caso in cui il rimpatrio determini per l’interessato il rischio di tortura. Con il decreto, si aggiunge a questa ipotesi il rischio che lo straniero sia sottoposto a trattamenti inumani o degradanti e se ne vieta l’espulsione anche nei casi di rischio di violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare (in questi casi si prevede il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale). Il provvedimento riforma anche il sistema di accoglienza destinato ai richiedenti protezione internazionale e ai titolari di protezione, attraverso la creazione del nuovo “Sistema di accoglienza e integrazione” (simile a quelli che erano gli Sprar). Le attività di prima assistenza continueranno a essere svolte nei centri governativi ordinari e straordinari. Successivamente, il Sistema si articolerà in due livelli di prestazioni: il primo dedicato ai richiedenti protezione internazionale, il secondo a coloro che ne sono già titolari, con servizi aggiuntivi finalizzati all’integrazione. Per i soccorsi sono eliminate le salatissime multe previste dai decreti Salvini. In caso ricorrano i motivi di ordine e sicurezza pubblica o di violazione delle norme sul traffico di migranti via mare, si prevede che il provvedimento di divieto sia adottato, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture, previa informazione al Presidente del Consiglio. Per le operazioni di soccorso, la disciplina di divieto non si applicherà nell’ipotesi in cui vi sia stata la comunicazione al centro di coordinamento e allo Stato di bandiera e siano rispettate le indicazioni della competente autorità per la ricerca ed il soccorso in mare.
Quel "capriccio" della sinistra che rende l'Italia meno sicura. Colpo di spugna della maggioranza giallorossa che ha cancellato i decreti voluti da Salvini sull'immigrazione. Ecco come si è arrivati alle nuove norme. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. Un taglio netto col recente passato attraverso dei nuovi decreti sicurezza che nulla hanno a che vedere con quelli voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini nel precedente governo gialloverde. Così il governo Conte II ha avviato un nuovo capitolo sulla gestione del “sistema migranti” rispecchiando la volontà del Pd che, sin dal momento dell’insediamento, ha puntato sulla volontà di cancellare l’operato di Salvini. Accoglienza ad ampio raggio, protezione umanitaria, divieto di respingimenti con la cancellazione delle sanzioni per le Ong: è questo il fulcro delle nuove norme proposte dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e approvate in meno di un’ora e mezza dal consiglio dei ministri. Il colpo di spugna dato ai “vecchi” decreti sicurezza non poteva di certo essere ben accolto da colui che n’è stato l’artefice: “Questi passano il tempo a smontare invece che a costruire”, ha detto Matteo Salvini proseguendo: “A quello che ho letto, li chiamerei ‘decreti clandestini’. Si torna esattamente alla mangiatoia sull’immigrazione clandestina e ai permessi regalati a chiunque cammina per strada e agli sbarchi a migliaia. Non so che cosa abbiano da festeggiare”.
Il contesto politico in cui sono maturati i due decreti voluti da Salvini. Il leader della Lega, una volta insediatosi al Viminale nel giugno 2018 dopo l'accordo di governo con il M5S, ha voluto subito imprimere il proprio orientamento sulla gestione dell'immigrazione. È in questo contesto che la maggioranza gialloverde ha approvato il primo decreto sicurezza il 5 ottobre 2018. La nuova norma ha abbracciato anche altri ambiti oltre quello relativo all'immigrazione, tuttavia i punti divenuti oggetto di intenso e aspro dibattito tra le varie forze politiche riguardavano la gestione dell'accoglienza. Stesso scenario che si è poi ripetuto alcuni mesi più tardi, quando nel giugno del 2019 il consiglio dei ministri ha dato il via libera al “decreto sicurezza bis”, la cui approvazione definitiva è avvenuta il 5 agosto 2019. Dunque nel pieno del braccio di ferro tra il Viminale guidato da Salvini e le Ong, con queste ultime che in più occasioni hanno sfidato i divieti previsti dai decreti sicurezza. Non a caso, tra i detrattori del decreto sicurezza vi era anche Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3 che a Lampedusa nel giugno 2019 ha speronato a Lampedusa una motovedetta della Guardia di Finanza: “L'Italia ha approvato legge contro il diritto internazionale – ha dichiarato al parlamento europeo il 3 ottobre Rackete – Credo che sia stato delineato che le operazioni di ricerca e soccorso rientrano nel diritto internazionale. Non so come l’Italia abbia approvato una legge che non rispetta il diritto internazionale e del mare”. In occasione dell’approvazione del secondo decreto sicurezza, dal Quirinale sono arrivati alcuni rilievi riguardanti soprattutto presunte difformità con l’articolo 10 della Costituzione.
Com’è cambiato il decreto sicurezza. Con un colpo di spugna è stato riscritto praticamente un nuovo decreto sicurezza che non ha legami con quello precedente. Andiamo con ordine partendo dal trattamento malleabile nei confronti delle Ong. Se nei decreti di Salvini le multe nei confronti di queste organizzazioni potevano arrivare anche ad un milione di Euro, adesso il tetto massimo è di 50.000 Euro. La multa non verrà applicata in caso di notifica di azione di salvataggio da parte delle Ong. Cambia anche il sistema dei Siproimi: se prima qui si ospitavano solo le persone che avevano ottenuto il diritto di asilo, adesso in questi istituti potranno ritornare anche i richiedenti tale diritto. Per loro è prevista anche la possibilità di iscriversi all'ufficio anagrafe. Nei nuovi decreti si ripristina l’istituto di protezione umanitaria che nei decreti di Salvini era stata sostituita dalla protezione speciale. Si parla ancora di protezione speciale ma sono state ampliate le casistiche per le quali verrà concesso il diritto sulla stregua della protezione umanitaria appunto. Nessun diniego alla richiesta dei migranti che dichiarano di rischiare la tortura nel loro Paese, per cui è presumibile che arrivino richieste di massa. Altra novità è legata alla possibilità per il tribunale dei minori di autorizzare l'arrivo in Italia del genitore di un minore non accompagnato “per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore”. Ed ancora, non si potranno espellere migranti se l'azione “determini il rischio di una violazione del diritto alla vita privata e familiare”. Non mancano le novità per quanto concerne i centri di rimpatrio. Qui i migranti potranno essere trattenuti per un massimo di 90 giorni, a fronte dei 180 precedenti, estensibili di altri 30 se si attende la risposta di uno Stato che ha stipulato con l'Italia un accordo di riammissione.
Uno sgarbo a Salvini. Quando nel settembre del 2019 si è insediato il nuovo governo Conte, subito all'interno della nuova maggioranza giallorossa è emersa la spinta per cancellare i decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini. A premere maggiormente è stato il Pd: soprattutto dall'area più a sinistra del partito, si è iniziato a parlare di “discontinuità” sulle politiche migratorie, con il chiaro intento di ridimensionare la portata delle norme a firma del segretario della Lega. Una volontà quindi ben precisa: tagliare e tranciare di netto quei documenti che nei 18 mesi di governo con Lega e M5S hanno rappresentato il principale atto dell'ex titolare del Viminale. Un vero e proprio sgarbo personale rivolto a Salvini, inquadrabile nel contesto stesso della nascita del Conte II, la cui maggioranza giallorossa ha avuto nell'anti salvinismo uno dei pochi collanti. Se lo sgarbo si è potuto materializzare soltanto dodici mesi dopo l'insediamento del governo formato da Pd e M5S, è stato per via di diverse contingenze. A cominciare dai malumori grillini, i quali non gradivano una repentina discontinuità con i decreti sicurezza per non smentire sé stessi nel giro di poche settimane. Nell'agosto del 2019 era stato il M5S a votare positivamente con la Lega per l'approvazione dei decreti. A marzo invece è stato il coronavirus a rallentare i propositi del centro – sinistra. Superata la fase acuta della pandemia, alla prima occasione utile di ottobre il taglio di penna sulle norme di Salvini è diventato realtà. Lo sgarbo quindi è stato attuato e dal Pd si è iniziato a festeggiare.
Perché proprio adesso le modifiche ai decreti? Cambiare adesso le norme volute da Salvini avrà delle conseguenze sui flussi migratori? La domanda, al termine di un'estate che ha segnato numeri che sull'immigrazione non si vedevano da almeno due anni, sorge spontanea. Secondo Vittorio Emanuele Parsi, politologo e docente dell'Università Cattolica, per la verità le nuove norme non avranno un grande impatto sui flussi: “Non è certo con le grida manzoniane che si ferma l'immigrazione – ha dichiarato il professore a IlGiornale.it – Vecchi e nuovi decreti potrebbero avere un impatto limitato sui numeri”. Questo perché in realtà gli elementi determinanti per gli sbarchi sono da rintracciare altrove: “I decreti valgono per la gestione interna dell'immigrazione – ha continuato Parsi – Ma l'Italia per poter frenare il flusso migratorio deve agire su altri fronti, ad esempio cercando accordi con altri Paesi, in primis quelli dirimpettai, per fermare le partenze”. “Il punto – ha poi proseguito il docente della Cattolica – è che da un lato c'è la necessità di chi scappa e vuole raggiungere l'Europa, dall'altro c'è la necessità del controllo dei confini di chi riceve il flusso migratorio. Per governare questi fenomeni i decreti possono fare ben poco. Serve invece un approccio europeo, una condivisione dei problemi a livello comunitario”. A parte i rilievi su alcuni punti mossi dal Quirinale, per il resto non sono emersi elementi tali da giustificare fretta nell'approvazione dei nuovi decreti. Al contrario, forse occorreva concentrarsi più sugli accordi con i Paesi da cui si originano i flussi o sui dossier inerenti il nord Africa, a partire da quello libico. E allora a emergere è un'altra domanda: qual era la necessità di accelerare proprio in questa fase politica sulle modifiche ai decreti?
Immigrazione, Vittorio Feltri: il libro che svela tutti i danni realizzati dalla Ong. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2020. Sophia vuol dire sapienza. Operazione Sophia dovrebbe dunque significare qualcosa che applichi con saggezza la conoscenza per volgere la realtà al bene. La Sapienza deve per forza implicare onestà e verità, altrimenti non sarebbe Sophia nel senso di virtù ma sarebbe Sofia nel senso di capitale della Bulgaria, al tempo però del Patto di Varsavia e dei suoi servizi segreti truculenti: luogo di complotti e di inganni. Prepariamoci a questo secondo scenario, leggendo questo prezioso volumetto rivelatore. Per essere meno enigmatici e ravvivare la nostra memoria claudicante: Operazione Sophia è stato il nome con cui l'Unione Europea ha istituito una forza navale nel Mediterraneo per stroncare il traffico di migranti. Dopo gli spaventosi naufragi con migliaia di morti nei pressi di Lampedusa, i 28 Paesi che dovrebbero custodire allo stesso modo i confini meridionali dell'Europa aggregarono nel Mare Nostrum una flotta con l'incarico di pattugliare il mare, fermare e arrestare gli scafisti, distruggere le loro imbarcazioni, così da dissuadere i negrieri dall'intraprendere questo mercato di carne umana. Ufficialmente l'Operazione Sophia si è conclusa il 31 marzo scorso. (Dal 1º aprile è stata sostituita dalla missione Irini per l'attuazione dell'embargo Onu sulle forniture di armi alle fazioni libiche). Massimo Polledri, già valoroso parlamentare leghista, ha messo in fila documenti e testimonianze inoppugnabili. Ha potuto attingere ad audizioni parlamentari, soprattutto ha studiato le comunicazioni riservate, rese di dominio pubblico da WikiLeaks grazie ad atti di pirateria informatica e che di solito suscitano grande scalpore e proteste. Stavolta però, essendo scomode rispetto alle tesi progressiste, erano rimaste intonse. E così l'autore, che di professione è medico a tempo pieno, ha potuto esaminare l'Operazione Sophia quasi osservando le fotografie della Tac. Ha strappato il mantello alto e poetico del bel nome e degli eccellenti propositi. Sotto lo smalto lucente hanno cominciato a svelarsi misteri che hanno ben poco di affascinante. Il corposo sospetto, che meriterebbe approfondimenti in qualche palazzo di Giustizia, è che il marchingegno pensato per impedire lo schiavismo lo abbia reso addirittura più efficiente e con notevoli risparmi da parte dei "fornitori" di migranti, i quali hanno aggiustato le rotte, programmandole perché terminassero giusto nei pressi di natanti Ong, le quali poi le traslocavano su navi militari targate Sophia. Insomma, Polledri, sostenuto dalla testimonianza di un coraggioso imprenditore della sicurezza in mare, Christian Ricci, disegna la sagoma di una macchina portentosa pagata da noi per portarci in casa africani e asiatici che hanno a loro volta versato un prezzo salatissimo pur di approdare a far disperare noi e (spesso) loro stessi. Insomma, Sophia in minima parte ha obbedito ai dichiarati scopi anti-schiavismo, la sua funzione è in gran parte coincisa con la tratta finale di un servizio taxi. Prima parte orrida, con traversata del deserto e deposito in sordidi magazzini; poi trasbordo su gommoni acquistabili per duecento euro su siti cinesi; appuntamento preordinato con Ong che cercano di salvarne il più possibile; trasferimento su navi militari; sbarco quasi costante in Italia. Questo libro strappa via insomma la maschera all'ipocrisia, ma pochi desiderano la verità. Il dottor Polledri, neuropsichiatra infantile, è stato mosso nel suo lavoro di ricerca della verità proprio per impedire che minori abbandonati si trasformino in ingranaggi sfruttati a scopo di commozione e di propaganda per commerci ignobili. Non si tratta di essere contro qualsiasi forma di immigrazione - scrive Polledri - ma di essere noi a controllarla sul serio, in forme che rispettino le persone che chiedono di venire da noi o che sono davvero profughi, e chi deve esaminare se riceverli o meno. La mia posizione è più severa della sua. Specie dopo l'emergenza Covid è evidente che la massa di disoccupati italiani, procurati dall'alleanza tra il virus e l'incapacità del governo Conte, non lascia spazio neppure per un pulmino di migranti. Ma queste sono opinioni. Impossibile invece negare la realtà che Polledri ha fatto affiorare: 1) strutture della Marina italiana hanno addestrato gli equipaggi delle Ong quasi fossero una milizia civile riconosciuta rispetto alle nostre forze armate; 2) le Ong erano collegate con gli scafisti e con le navi Sophia; 3) le Ong non sono pie congregazioni di suore votate alla povertà, ma organizzazioni professionali: per esempio il direttore di Save the Children Usa ha uno stipendio annuo di 365.000 dollari, il doppio di un nostro ammiraglio. Insomma, stringi stringi, Sophia ci ha portato 46.000 migranti al costo di duecento milioni di euro. Era sepolta, ma stanno pensando di farla tornare. Questo volume serve da monito. Andrebbe distribuito in Parlamento e imposto come lettura obbligatoria alla crème degli attici milanesi. Un articolo di Saviano, un capitolo di questo libro di cui aggiusterei solo il titolo, I Misteri del Mediterraneo. Polledri si sottovaluta. Lui un paio di misteri li ha risolti. Correggerei allora così la copertina: I Misteri (svelati) del Mediterraneo. Oppure, con ironia incazzosa: I furbetti del Mediterraneo. Sarà magari per la seconda edizione.
Fausto Biloslavo per “Il Giornale” il 27 settembre 2020. Il governo Conte batte se stesso con un numero di sbarchi superiore non solo allo scorso anno, quando il ministro dell'Interno Salvini aveva chiuso i porti, ma al 2018, dopo avere ereditato migliaia di arrivi ai tempi dei governi di centro sinistra. I migranti illegali sbarcati fino al 25 settembre sono 23.373. In tutto il 2018 compresi i primi mesi del governo Gentiloni erano 21.024. Il paradosso è che ieri, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ribadito al festival dell'Economia di Trento che l'Italia ha il diritto di regolare il flusso dei migranti e di «non subirlo passivamente» altrimenti «non c'è accoglienza che tenga». Il disastro del contrasto all'immigrazione illegale del governo Conte 2 è altrettanto evidente rispetto ai numeri del 2019 quando non c'era l'emergenza covid. Lo scorso anno, con i porti chiusi, sono sbarcati in tutto 7.035 migranti, più di tre volte in meno rispetto al 2020. Le impennate si sono registrate a luglio con 7.067 arrivi rispetto ai 1088 dell'anno prima ed ai 1969 del 2018. Rispetto al 2019 stiamo parlando di sette volte tanto. In agosto gli sbarchi sono stati 5.323 e 4.033 in settembre. Un altro dato paradossale delle statistiche pubblicate sul sito del Viminale è che sono i tunisini la prima nazionalità negli sbarchi. Ben 9.792 migranti illegali, che rappresentano il 42 per cento degli arrivi totali. Al governo non è mai venuto in mente un blocco navale davanti alla Tunisia in accordo con le autorità locali come la Spagna e l'Europa avevano fatto con l'Africa occidentale ai tempi del boom degli arrivi alle Canarie. Dopo i tunisini seguono i clandestini dal Bangladesh (3.156) e 1.113 algerini. Tutte nazionalità che vengono in Italia per motivi economici e non hanno diritto all'asilo perché a casa loro non ci sono guerre. Per trovare i primi rifugiati in fuga da conflitti bisogna cercarli fra il numero esiguo dei 575 somali ed i 516 afghani sbarcati in Italia nel 2020. Ai numeri degli sbarchi vanno sommati gli arrivi via terra lungo la rotta balcanica. Dall'inizio dell'anno, secondo i dati forniti dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, sarebbero 3.396, ma 962 sono stati rimandati in Slovenia. In realtà i numeri in Friuli-Venezia Giulia, principale porta d'ingresso della rotta balcanica dalla Bosnia, sarebbero più alti fra i 4.500 ed i cinquemila. Ieri i carabinieri hanno arrestato due passeur in Friuli-Venezia Giulia. Il primo episodio è avvenuto a Palmanova dove un cittadino pakistano di 25 anni, residente nella bassa friulana, è stato pizzicato mentre si stava dirigendo verso la stazione ferroviaria con a bordo 6 cittadini bengalesi. Il secondo fermo è avvenuto a Remanzacco. Dopo un breve inseguimento, i militari dell'Arma sono riusciti a bloccare l'auto condotta da un cittadino indiano di 29 anni, residente nella provincia di Treviso. Il passeur aveva trasportato e lasciato poco prima sulla strada regionale 54 otto migranti illegali del Bangladesh. Sul fronte del mare (ieri Alarm Phone, ha dato notizia di un naufragio in cui hanno perso la vita 111 persone, avvenuto al largo delle coste libiche di Zuara, il 21 settembre scorso) non si placano le proteste dei talebani dell'accoglienza, che denunciano come tutte le navi delle ong siano bloccate dal governo italiano, dopo avere il loro carico umano a casa nostra. Luca Casarini, ex no global estremista pluri processato, che oggi fa il capo missione a bordo della nave italiana Mare Jonio va all'attacco. «Il governo ora deve decidere da che parte stare. Se vuole continuare nel lavoro sporco, folle, che caratterizzava il Governo Salvini o cambiare - pontifica Casarini - Ma se decide di farlo deve smetterla di boicottare chi salva vite in mare».
Via le sanzioni alle Ong e accoglienza diffusa. Porti aperti ai migranti. Passato il voto, il governo vuol smantellare i decreti Sicurezza. Sarà un'invasione. Fausto Biloslavo, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. Porti aperti alle navi delle ong, che resteranno impunite se sbarcano migranti in Italia. Maglia larga per la protezione internazionale e si ritorna all'accoglienza diffusa, cavallo di battaglia della sinistra. La definitiva bozza giallorossa, che affossa i decreti sicurezza dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è un'assurda retromarcia. Un «bidone» legislativo che è da un mese sul tavolo del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, ha fatto sottoscrivere la bozza dai capi delegazione delle forze di maggioranza. Peccato che il governo non abbia avuto il coraggio di approvarlo in Consiglio dei ministri, prima delle elezioni regionali. L'aspetto paradossale è che nel titolo del decreto sparisce la parola «sicurezza», come se fosse un tabù. E rimangono solo le «Disposizioni in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, nonché in materia di diritto penale». Un lavoro di cesello contenuto in 9 articoli, che va oltre le richieste del capo dello Stato, Sergio Mattarella, scaturite dal secondo decreto sicurezza di Salvini. Il primo «bidone» è non solo la scomparsa delle multe milionarie per le Ong. L'articolo 1 prevede di fatto l'apertura dei porti per le navi dei talebani dell'accoglienza. I blocchi, che possono ancora venire decisi dal Viminale, «non trovano comunque applicazione () nell'ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera». In pratica le navi «umanitarie» potranno continuare a imbarcare migranti partiti dalla Libia semplicemente avvisando via radio, come già fanno fra mille furbizie. Le multe, fino a 1 milione con Salvini, vengono riportate alla cifra iniziale da un minimo di 10mila a un massimo di 50mila euro, ma difficilmente verranno applicate essendo chiaro che il divieto di transito e sosta nelle acque territoriali italiane non può essere applicato a chi soccorre i migranti. E non c'è traccia delle «sanzioni che potrebbero diventare di carattere penale» annunciate solo 48 ore fa da Lamorgese scatenando la protesta delle Ong. Il secondo «bidone» è il riallargamento delle maglie strette volute da Salvini sulla protezione umanitaria e l'ampliamento della casistica dei permessi di soggiorno. Grazie all'articolo 5 bis i richiedenti asilo torneranno a venire regolarmente iscritti all'anagrafe con tanto di carta di identità valida per te anni. Non solo: viene dimezzato il tempo di trattenimento nei centri per il rimpatrio dei migranti in attesa di essere rimandati a casa, da 180 a 90 giorni «prorogabili per altri 30 qualora lo straniero sia cittadino di un Paese con cui l'Italia abbia sottoscritto accordi in materia di rimpatri». Il terzo «bidone» è il ritorno al «sistema di accoglienza e integrazione» diffusa sul territorio, che farà infuriare soprattutto i governatori leghisti delle Regioni. E verranno ristabiliti una serie di servizi in parte tagliati da Salvini. Nei centri «sono erogati, anche con modalità di organizzazione su base territoriale, oltre alle prestazioni di accoglienza materiale, l'assistenza sanitaria, l'assistenza sociale e psicologica, la mediazione linguistico-culturale, la somministrazione di corsi di lingua italiana e i servizi di orientamento legale e al territorio» si legge nel testo definitivo. Non è detto, però, che i grillini fatti a pezzi dalle urne e divisi approveranno in Parlamento, senza colpo ferire, il decreto «bidone» tanto caro alla sinistra.
I vescovi ora fanno festa per la fregatura sui migranti. I vescovi italiani esultano per le nuove disposizioni Ue in materia di migranti. Il segretario Russo è soddisfatto, ma il piano Ue è un pasticcio per l'Italia. Giuseppe Aloisi, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Le decisioni che arrivano da Bruxelles in materia di gestione dei fenomeni migratori producono reazioni diverse, ma i vescovi italiani sono certi della bontà delle novità derivanti dalle disposizioni dell' Ue. "Pare significativa l’iniziativa della Commissione europea sul fronte dei migranti" è il commento del segretario della Conferenza episcopale italiana, Stefano Russo. Gli alti ecclesiastici italiani si schierano ancora una volta al fianco delle istituzioni sovranazionali europee. La bozza del trattato, come spiegato da Gian Micalessin, prevede che le nazioni siano ancora in obbligo di garantire tutta una serie di diritti agli irregolari. Quelli riservati a coloro che giungono a ridosso delle nostre coste senza avere le carte in regola: stando a quanto appreso sino a questo momento, l'Italia non potrà ricollocare queste persone. Ma i vescovi, che sono per l'accoglienza erga omnes, ossia in favore di tutti, esultano. Gli accenti posti da monsignor Russo riguardano proprio il riconoscimento di un "diritto all'accoglienza", che l'Unione europea avrebbe, secondo l'interpretazione della Cei, finalmente recepito a pieno. Qualche "però" può rimanere sullo sfondo, in questo clima di concordia rinnovata: "Poi i modi in cui sono accolte saranno da approfondire: penso che sia molto importante prendersi i tempi giusti per valutare le diverse situazioni", ha aggiunto Russo, come ripercorso dall'Agi. Ci sarà spazio, insomma, per eventuali rimostranze. La sensazione è che l'Ue abbia finalmente recepito le indicazioni provenienti dalla Santa Sede, dunque pure dalla Chiesa cattolica italiana. Russo ha manifestato tutta la sua soddisfazione, quando ha sottolineato che "l’accordo che prevede il superamento di Dublino è interessante. Può essere migliorato, ma mi sembra importante che il percorso continui, che ci sia la volontà di arrivare a situazioni condivise", ha fatto presente. Il tema è dunque quello di andare passo passo in direzione di una gestione sempre più "aperturista" e sempre meno disposta ad assecondare quelle realtà nazionali che preferiscono una linea restrittiva. Poi c'è il piano della diplomazia, che com'è noto è molto apprezzato dal clero: "In generale è una buona cosa" che il problema della gestione dei fenomeni migratori sia stato "messo a tema e non solo in linea di principio, ma con qualcosa che si prospetta concretamente rispetto all’accoglienza e soprattutto che sia l’Europa intera a prendersi a cura di questo e che ci sia un accordo tra i Paesi". Viene garantito alla questione un primato gerarchico che per i vescovi italiani è necessario, mentre è meglio che le nazioni che possono intervenire procedano mediante la dialettica, piuttosto che decidere ognuna per sé. Questo sembra, in estrema sintesi, il senso di queste posizioni. E le Ong? La Chiesa cattolica viene spesso criticata da parte conservatrice e tradizionalista per via della presunta sovrapposizione delle sue istanze con quelle delle Organizzazioni non governative. Russo non ha evitato di commentare anche il nuovo ruolo che verrebbe assegnato alle Ong nel caso in cui la bozza divenisse qualcosa di più: "Anche le ong, le organizzazioni non governative, hanno un ruolo importante nel momento in cui partecipano in modo condiviso all’interno di un programma", ha continuato il segretario della Cei, che dunque riconosce alle Ong una certa rilevanza. E ancora: "È importante non lasciare isolate le persone, le associazioni e tutti coloro che sono disponibili ad assicurare una accoglienza responsabile. Alcune deviazioni che ci possono essere state e che probabilmente ci sono, legate a interessi - ha dichiarato a stretto giro il segretario Cei -, possono essere attenzionate e risolte soprattutto se ci si prende cura in modo condiviso e non scaricare il problema ai Paesi che sono più prossimi dal punto di vista geografico". Vigilare, dunque, ma neppure demonizzare. I vescovi italiani si schierano per l'ennesima circostanza con chi ritiene giusto che i porti vengano aperti e che anche gli irregolari dimorino nelle nazioni in cui arrivano.
Migranti, spunta il cavillo nel piano Ue: "Vietato criminalizzare le Ong". Il nuovo Patto sui migranti dell'Ue favorisce le Ong. Nessun codice di condotta. Ecco tutte le novità contenute nei documenti. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. L'assistenza umanitaria “non può e non deve essere criminalizzata”, quindi “la criminalizzazione delle Ong (...) non è consentita dal diritto dell'Ue”. Più chiari di così, si muore. Sono le parole contenute nei documenti pubblicati dalla Commissione europea e allegati al nuovo Patto sulle migrazioni. La bozza di accordo che, a detta di Ursula Von der Leyen, dovrebbe tradursi nel "nuovo inizio" per una gestione sana delle migrazioni. Ma che invece non solo non contiene alcuna restrizione alle scorribande delle Ong nel Mediterraneo, ma anzi rischia di trasformarsi in un vero e proprio tappeto rosso. I documenti insidiosi sono due. Da una parte una “raccomandazione” scritta con l’intento di favorire la cooperazione tra Stati di fronte all’attività delle navi umanitarie. Dall’altra invece una “guida” all’attuazione delle norme dell'Ue sul favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Partiamo dalla prima. Salta subito all’occhio l’invito rivolto agli Stati a fare in modo che i migranti recuperati vengano sbarcati “non appena possibile” nel porto “sicuro più vicino”. Cioè in Italia, a Malta o in Grecia. Non è una sorpresa, certo. Però è un fatto politico rilevante, visto che Roma da tempo chiede che le Ong portino altrove gli stranieri imbarcati. Di fatto l’Ue persevera sulla scia che negli ultimi anni ha riempito Lampedusa e il Belpaese di immigrati, con tanti saluti alle proteste italiane. Ed è difficile immaginare che il piano per i ricollocamenti o il sistema dei rimpatri sponsorizzati, se mai verrà accetato, possa alleviare il peso che grava sugli Stati di frontiera. Chi sperava infatti che la Commissione col nuovo Piano riuscisse a mettere ordine al caos umanitario nel Mediterraneo dovrà ricredersi: manca una proposta coerente e pratica. L’unica novità riguarda la costituzione di “un gruppo di esperti” col compito di studiare le normative, mettere in contatto tutti gli attori e provare a far collaborare gli Stati di frontiera con quelli di bandiera delle navi private (magari per stabilire le responsabilità dello sbarco). Per il resto, la raccomandazione contiene solo un generico invito ai Paesi a scambiarsi “informazioni sulle navi coinvolte” nelle operazioni Sar e “sui soggetti che le gestiscono e le possiedono”, così da verificarne “la conformità alle norme di sicurezza” e controllarne le attività. A parte questo, nient’altro: nessun codice di condotta per le Ong; nessuna limitazione alle operazioni. Solo il monito a “non criminalizzare”. Ed è qui che entra in scena la “Guida” contro il favoreggiamento all’immigrazione clandestina. La leggi comunitarie, come quelle nazionali, prevedono infatti condanne penali per i cosiddetti “facilitatori”, cioè chi favorisce l’ingresso irregolare di clandestini nel territorio europeo. Tra questi, a rigor di logica, potrebbero rientrare anche le Ong, che di fatto caricano i migranti di fronte alla Libia e li portano senza documenti in uno Stato membro. La normativa però ammette alcune eccezioni, tra cui proprio gli interventi Sar realizzati a scopi umanitari e di salvataggio. In sostanza: se salvi un naufrago irregolare perché sta affogando e lo porti in Europa, non sei passibile di denuncia. Norma sacrosanta, sia chiaro. Ma nella sua “Guida” l’Ue non si limita a riaffermare alcuni principi di diritto internazionale. Va oltre, affermando tout court che “la criminalizzazione di Ong o di altri attori che svolgono operazioni di ricerca e soccorso in mare” costituisce “una violazione del diritto internazionale”. Quindi guai a mettere i bastoni tra le ruote alla flotta di navi solidali che solcano il Mare nostrum. Negli ultimi tempi infatti le Ong non hanno fatto altro che lamentare una sorta di persecuzione nei loro confronti. Soprattutto in Italia e in particolare durante il governo gialloverde. Lo hanno comunicato a Bruxelles durante una serie di consultazioni avute negli ultimi mesi, esprimendo “crescenti preoccupazioni” e affermando di temere le “sanzioni da parte delle autorità”. L’Ue ci ha ragionato su e ovviamente gli ha dato subito ragione. Va detto che la Commissione negli atti riserva alcune strigliate alle Ong. Ad esempio intima loro di rispettare il “quadro giuridico” internazionale e nazionale (e non è poco, visto il caso di Carola Rakete). Ammette poi che i trafficanti potrebbero “approfittare” delle operazioni di salvataggio umanitarie per allargare il loro business (ipotesi sempre esclusa dalle Ong). E lancia una stoccata a chi utilizza carrette inadatte a soccorrere migranti: visto che i salvataggi riguardano “un gran numero di persone” e investono gli Stati costieri - ragiona la Commissione - è necessario almeno che le navi “siano adeguatamente registrate e attrezzate per soddisfare i requisiti di sicurezza”. Un passaggio importante, considerato che più di una volta le imbarcazioni (l’ultima: Sea Watch 2) sono state bloccate dalle autorità italiane a causa di diverse irregolarità a bordo. A parte questo, però, la “rivoluzione” tanto attesa non c’è. Se mai la proposta di Ursula Von der Leyen venisse approvata dal Consiglio, le Ong potranno perseverare indisturbate nelle loro attività. L’Italia continuerà ad accoglierle in porto. E intanto i buonisti potranno gioire per quel divieto alla “criminalizzazione” che suona come un vero e proprio “tana libera tutti”.
Open Arms si fa aprire il porto: il piano dei tuffi ha funzionato. Dopo che 148 migranti si sono tuffati in mare, l'Ong spagnola incassa l'autorizzazione a entrare a Palermo. Mauro Indelicato, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Come volevasi dimostrare: dopo i tuffi dalla nave delle scorse ore, adesso è ufficiale il via libera dato dalle autorità italiane alla nave dell'Ong spagnola Open Arms. A bordo dell'imbarcazione erano rimasti 140 migranti, gli altri recuperati nel Mediterraneo all'inizio di questa settimana invece si erano lanciati in mare in prossimità del porto di Palermo. Era successo ieri con 76 migranti gettatisi in acqua dalla nave battente bandiera spagnola, è accaduto di nuovo questa mattina con altre 48 persone lanciatesi in mare a pochi passi dallo scalo del capoluogo siciliano. Una volta fuori dalla nave con addosso i giubbotti di salvataggio, i migranti sono poi stati soccorsi dalla Guardia Costiera italiana che li ha tratti in salvo trasferendoli sul traghetto Allegra, a bordo del quale trascorreranno la quarantena. Il risultato è stato che 148 migranti sono di fatto entrati in Italia ancor prima della Open Arms. L'equipaggio spagnolo nel frattempo, sottolineando i tutti delle persone a bordo, ha avuto modo di fare pressione mediatica e politica affinché venisse autorizzato l'ingresso della nave a Palermo. Quanto accaduto potrebbe essere il primo di una serie di casi del genere, dove per via delle azioni dei migranti lanciatisi in mare è possibile far sbarcare in modo più rapido le persone nel nostro Paese. Tutto è iniziato dieci giorni fa, quando la Open Arms ha soccorso almeno 276 migranti nel Mediterraneo centrale. Si è trattato della prima missione dell'Ong spagnola dopo diversi mesi, a distanza di poco più di un anno di quella che poi nell'agosto 2019 ha portato all'indagine per la quale l'ex ministro Matteo Salvini andrà a processo. Una volta diretta verso Malta, la nave spagnola ha ricevuto da La Valletta il divieto di ingresso all'interno delle proprie acque territoriali. Un comportamento quello maltese che è continuato per diverse ore nonostante il maltempo e i temporali che imperversavano in zona. La Open Arms si è cosi diretta verso la Sicilia e dieci migranti si sono tuffati non lontano da Porto Empedocle. Si è trattato del primo sintomo della tensione a bordo denunciata da Open Arms sui social, che ha convinto le nostre autorità a dare via libera alla nave per avvicinarsi a Palermo rimanendo però in rada. Qui è andato in scena quanto prima descritto: in due occasioni 148 migranti si sono tuffati e sono stati soccorsi dalla Guardia Costiera. A questo punto le pressioni per lo sbarco definitivo sono state sempre più marcate, con l'obiettivo dell'Ong spagnola raggiunto nelle ultime ore grazie al disco verde all'ingresso della nave a Palermo. Quest'ultima novità è stata annunciata dagli stessi membri di Open Arms su Twitter: “10 giorni dopo aver soccorso 276 persone in acque internazionali – si legge – e dopo aver raggiunto una situazione limite a bordo, l'Italia autorizza sbarco dei 140 naufraghi, che trascorreranno quarantena su nave Allegra”. L'incognita in ottica futura è che quanto accaduto possa ripetersi in altri contesti e in altre simili occasioni: da ora in poi le Ong sanno che far gettare i migranti in mare velocizza l'ingresso in Italia delle persone soccorse nel Mediterraneo.
Le Iene ad Alessandro Gassman: "Ospiteresti un migrante a casa tua?". Tutto l'imbarazzo della sinistra in un video. Libero Quotidiano il 02 settembre 2020. "Tu, Alessandro Gassman, ospiteresti un profugo a casa tua?". La domanda impertinente de Le Iene all'attore romano rimbalza in queste ore sui social. Lo scontro sulle mascherine tra Gassman e Vittorio Sgarbi infuria. Il primo ha definito il sindaco di Sutri "cosetto nervosetto", chiedendo "a quale distanza devi stare per mandarlo a fanculo" per la sua ordinanza (proposta) per vietare l'uso delle mascherine in pubblico. Il critico gli ha risposto sprezzantemente: "Non ha niente di suo padre. E fatica a capire che portare la mascherina passeggiando da soli o con la propria moglie è una forma di demenza". Tutto questo è servito però a evidenziare quanto, a sinistra, sia dura a morire la tentazione di pontificare e dare giudizi morali sui "cattivoni" di destra. E il vecchio video delle Iene è imbarazzante proprio per questo: "Ospiteresti un profugo a casa tua?", chiede l'inviato a Gassman. "Sì, penso di sì", risposta politicamente corretta. E qui si ride: "Allora dimmi quando posso portarti un migrante con cui siamo in contatto...". L'attore è spiazzato e in evidente difficoltà: "Ehm, io faccio già molto. Magari portalo a chi non ha fatto un cazzo". E la Iena allora lo smaschera: "Non è che hai detto sì perché c'era la telecamera, vero?". E a Gassman non resta che scappare, letteralmente.
La "predica" del buonista Toscani: "I migranti? La nostra fortuna". Intervenuto sul caso "Louise Michel", il fotografo Oliviero Toscani ha espresso rammarico per non avere denaro sufficiente per finanziare a sua volta una nave: "Il futuro sarà fatto dall'immigrazione. La nostra fortuna è questa. È la grande opportunità". Federico Garau, Domenica 30/08/2020 su Il Giornale. Poco importa che l'Italia abbia subito una crisi sanitaria senza precedenti e che presto si troverà ad affrontarne una economica di medesime proporzioni; poco importa che le coste della penisola siano prese d'assalto quotidianamente da stranieri, spesso clandestini, che vanno a riempire i centri d'accoglienza oramai al collasso (basta ricordare quanto sta accandendo a Lampedusa e che cosa sia stato costretto a fare il governatore Nello Musumeci): la novella dei buonisti rimane sempre e comunque la stessa quando si tratta di accoglienza e di migranti. Ne è convinto il fotografo Oliviero Toscani che, intervistato da "Agenzia Vista" durante la presentazione del suo ultimo libro "Caro Avedon" al Passaggi Festival di Fano, ripete le parole "futuro" ed "opportunità" quasi fossero un mantra. Invitato a commentare l'attuale situazione nel Mar Mediterraneo, con la nuova nave Ong Louise Michel finanziata dal writer inglese Banksy bloccata in zona Sar maltese con 219 cittadini stranieri ed altre 33 persone a bordo di un gommone di salvataggio, Toscani non ha alcun dubbio nell'esprimere il suo giudizio. "Mi spiace non aver avuto abbastanza soldi per finanziarne una anche io", risponde senza esitazione al giornalista che gli chiede della motovedetta ora in difficoltà. Come molti altri con idee simili alle sue, per Toscani l'immigrazione non deve essere considerata un problema, neppure quando si parla di grandi numeri. Anzi. Il fotografo si rammarica di non avere sufficiente denaro per aggiungere anche una "sua" imbarcazione alla flotta delle navi Ong. Ma le soluzioni possono essere molteplici. "Mi piacerebbe, sì", aggiunge. "Utilizzare queste navi qui da Costa crociera per andare a prenderli". Del resto, come ribadisce Toscani, si tratta del nostro futuro. "Il futuro sarà fatto dall'immigrazione. La nostra fortuna è questa. È la grande opportunità". In cosa consiste questa opportunità? Per chi sarebbe un'opportunità? Il fotografo non lo spiega. Ma interrogato sul ruolo dell'artista, risponde: "L'artista serve per capire per primo che questo è il futuro. È logico, è logico. Sono i primi a capire che questo sarà la fortuna del futuro". La narrazione sui cosiddetti migranti, dunque, non cambia. Ed anche voci più autorevoli stanno spingendo verso la medesima direzione. Proprio ieri l'Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e l'Unhcr (Agenzia delle nazioni unite per i rifugiati) sono intervenute per parlare delle navi Ong cariche di migranti ancora in mare ed in attesa di un porto. "L'imperativo umanitario di salvare vite umane non dovrebbe essere penalizzato o stigmatizzato, specialmente in assenza di sforzi dedicati da parte degli Stati", hanno ammonito le due organizzazioni.
Sassoli "aizza" le Ong: "Buon vento in mare Ora salverete migranti". Il presidente del Parlamento europeo vuole tenere i porti aperti: "L'Europa ha il dovere di soccorrere chi rischia la vita nel Mediterraneo". Luca Sablone, Lunedì 17/08/2020 su Il Giornale. Un vero e proprio assist alle Organizzazioni non governative è arrivato da David Sassoli, il quale si è schierato convintamente al fianco delle navi che in mare cercano di prestare soccorso ai migranti. Il presidente del Parlamento europeo è intervenuto sul proprio profilo Twitter per esplicitare il sostegno alle Ong che continuano le loro attività in acqua: "Nessun uomo, donna o bambino dovrebbe morire in mare cercando di raggiungere l'Europa". Pertanto ha voluto omaggiare il contributo delle Ong come Sea Watch e il varo della nuova nave Sea Watch 4 in collaborazione con Medici senza frontiera Italia. "L'Ue ha il dovere di soccorrere chi rischia la vita nel Mediterraneo. Buon vento", ha concluso. Non è la prima volta che Sassoli esce allo scoperto sul tema dell'immigrazione. Già a luglio 2019, nel corso della conferenza stampa dopo la sua elezione come presidente del Parlamento europeo, aveva sostenuto che il dialogo con le Organizzazioni non governative deve essere "costante e normale" anche perché a suo giudizio le porte dell'Unione europea devono essere sempre aperte: "Le apriremo ancora di più. Il dialogo delle Ong sarà garantito e assicurato".
"L'Ue non vuole risolvere l'emergenza". Le parole arrivano proprio nel periodo in cui il nostro Paese è preso come terra di approdo da clandestini che sbarcano in maniera del tutto incontrollata e pericolosa: negli ultimi due giorni vi sono stati oltre 200 arrivi. Ecco perché la Lega ha risposto duramente al plauso per il varo della nuova nave della Ong Sea Watch 4, pronta a iniziare le sue attività nel Mediterraneo: "Non vanno incentivate le partenze di chi non ha diritto a entrare in Europa, mentre la presenza delle navi Ong nel Mediterraneo è proprio uno dei fattori che incentiva questi attraversamenti pericolosi". Ancora una volta il Partito democratico, con il placet dell'Europa, si dimostra testardo nell'intraprendere la strada dell'accoglienza a tutti i costi, senza però "proporre soluzioni concrete" a quello che rappresenta un problema ai danni dei cittadini italiani. Annalisa Tardino, europarlamentare del Carroccio e Coordinatrice della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni per il Gruppo Identità e Democrazia definisce giuste e lecite le premesse sollevate da Sassoli, ma non giustifica le scelte politiche errate "come il sostegno indiscriminato alle Ong".
Mercantili pieni di migranti, parte l'assalto ai nostri porti. Almeno 150 migranti pronti a sbarcare in Italia. Molti di loro sono stati soccorsi da alcune navi respinte da Malta. Mauro Indelicato, Lunedì 17/08/2020 su Il Giornale. Ferme molte delle navi Ong, con la sola Sea Watch 4 presente nel Mediterraneo centrale, l'assalto di migranti verso le coste italiane potrebbe arrivare però tramite alcune navi mercantili impegnate negli ultimi giorni in zone dove appare molto forte la pressione migratoria. E così, almeno in 150 potrebbero approdare tra il nostro Paese e Malta grazie all'ausilio di mezzi commerciali. A partire dalla nave Etienne che, come sottolineato dal network telefonico Alarm Phone sul proprio profilo Twitter, ha a bordo 27 migranti da almeno 12 giorni. Il mezzo si trova per il momento in acque Sar maltesi, ma non è escluso che a breve faccia rotta verso le nostre coste. Questo perché, come denunciato sempre da Alarm Phone, il governo di La Valletta per il momento non avrebbe alcuna intenzione di dare il via libera allo sbarco: “Non ci sono nuovi sviluppi e ancora nessuna informazione sul possibile sbarco – si legge sull'account del network telefonico – Malta sembra volere trasformare il caso in un modello per scoraggiare le navi mercantili a rispettare il loro dovere di soccorrere i migranti in mare”. C'è poi all'orizzonte un altro caso, quello inerente la nave Contship Ray. Quest'ultima ha individuato almeno 85 migranti in difficoltà stipati un barcone e a breve potrebbe trasferirli a bordo. A darne notizia ancora una volta è stato il network Alarm Phone, secondo cui il mezzo con le persone partite dalla Libia è stato rintracciato ma al momento non soccorso. Il fatto però che la Contship Ray sia nelle vicinanze farebbe propendere per un'immediata azione di salvataggio. A questi migranti occorre aggiungere anche quelli a bordo di un altro barcone partite dalla Libia: sarebbero almeno in 40 e si troverebbero in acque Sar maltesi, al momento però nessuna nave è nei paraggi. Anche in questo caso le autorità maltesi, come accaduto in altri frangenti, non avrebbero intenzione di intervenire lasciando l'onere dei soccorsi ad altre navi di passaggio oppure direttamente all'Italia.
Così Malta ignora i barconi. E i migranti arrivano in Italia. Dai tre episodi sopra raccontati, appare ben evidente che la rotta libica dell'immigrazione sia sempre più gettonata soprattutto in un mese di agosto dove le condizioni del mare stanno permettendo molte partenze. Allo stesso tempo ad aumentare sono anche le preoccupazioni per l'Italia: tra le negligenze maltesi e l'intervento di mercantili a cui La Valletta non assegna un porto per lo sbarco, molti migranti a breve potrebbero prendere la via verso le nostre coste. Una circostanza in grado di aumentare la pressione sul nostro Paese, già alle prese con un'ondata migratoria di difficile gestione. I dati sotto questo profilo parlano chiaro: ad oggi, dal primo gennaio, sono più di 15.000 i migranti sbarcati a fronte dei 4.261 dello stesso periodo dell'anno passato. Numeri allarmanti resi ancora più drammatici dalla contemporanea emergenza coronavirus in atto in Italia dallo scorso febbraio.
Fausto Biloslavo per ''il Giornale'' l'8 agosto 2020. «I trafficanti di uomini dicono ai migranti di bucare una parte del gommone quando li avvista un aereo così verranno sicuramente soccorsi» rivela una fonte del Giornale a Tripoli, in prima linea nella lotta all' immigrazione clandestina. Una nuova «tattica», decisamente pericolosa, che permette al gommone di rimanere a galla, ma allo stesso tempo costringe i soccorritori a intervenire il prima possibile. Un caso del genere è accaduto il 28 luglio con tanto di vergognoso rifiuto dei francesi di intervenire mollando come sempre la patata bollente alla Guardia costiera italiana. Il Giornale è in possesso di due fermi immagine di un video girato da un aereo di Frontex, l' agenzia per le frontiere esterne Ue, che mostra chiaramente il gommone sovraccarico, ma intatto al primo avvistamento e poi con un tubolare bucato per attirare e accellerare i soccorsi. «Non si tratta di un caso singolo. E' la nuova tattica utilizzata dai trafficanti di uomini con l' ondata estiva di partenze verso l' Italia. Un sistema molto pericoloso, ma efficace» spiega la fonte a Tripoli. Giorgia Linardi, portavoce di Sea watch, i talebani tedeschi dell' accoglienza, sostiene che «le persone vengono lasciate morire in mare o respinte nello stesso luogo da cui stanno cercando di fuggire, mentre gli aerei di pattugliamento europei osservano dall' alto, complici nel definire il loro destino». In realtà, nonostante le accuse delle Ong, spesso infondate, sia Frontex, che il centro di soccorso di Roma della Guardia costiera fanno molta attenzione quando i gommoni sono a rischio affondamento. Gli scafisti reclutati fra i migranti lo sanno e appena avvistano un aereo bucherebbero uno dei tubolari per farsi portare in salvo. Nel pomeriggio del 28 luglio «un velivolo di Frontex ha avvistato un gommone con decine di migranti a bordo, in area SAR (ricerca e soccorso nda) di responsabilità libica, privo di motore e semiaffondato, a causa di un tubolare sgonfio» si legge in un comunicato della Guardia costiera. In realtà, come dimostrano le immagini, al primo passaggio il gommone era integro e solo dopo si è sgonfiato il tubolare. Il concreto sospetto è che sia stato volutamente bucato dagli scafisti-migranti a bordo permettendo comunque al gommone di rimanere a galla. I libici non avevano mezzi navali a disposizione e la Centrale operativa della Guardia costiera italiana «si è attivata chiedendo alle unità mercantili presenti nella zona di dirigere verso il gommone in difficoltà». La nave più vicina, a sole 9 miglia, era la Vos Aphrodite, battente bandiera di Gibilterra, un' unità di appoggio «alla piattaforma petrolifera francese Total» poco distante. Nonostante i ripetuti allarmi la nave si rifiutava di prestare soccorso. A questo punto gli italiani informavano il Centro di soccorso francese, che respingeva la richiesta di intervento. Il motivo è stato spiegato così: «Nessuna nave di bandiera francese era coinvolta e l' area SAR dell' evento era di competenza libica». Il gommone, però, si trovava vicino alla piattaforma Total. Davanti al no francese e al silenzio maltese e di Gibilterra la Guardia costiera è stata costretta a inviare sul posto «l' unità navale Asso 29, battente bandiera italiana in servizio alle piattaforme Eni», una cinquantina di miglia al largo delle Libia. Alle 4 e 10 di notte sono stati imbarcati dal gommone con il tubolare sgonfio 84 persone comprese 6 donne e 2 bambini portati a Lampedusa.
Le Ong non fermano le stragi: il lato oscuro dei porti aperti. Il Mediterraneo continua a essere un cimitero. I naufragi non si fermano: le Ong provocano l'aumento delle partenze. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Non si arresta il fenomeno dei viaggi della speranza nel Mediterraneo. Sono in migliaia i migranti che in questa prima parte dell’anno sono riusciti ad arrivare sulla terraferma ma, allo stesso tempo, sono stati in numerosi coloro che non ce l’hanno fatta perdendo la vita in mare durante la traversata. Analizzando i dati che emergono sul sito di Iom emerge che sono 384 le persone morte a seguito di naufragi nel mar Mediterraneo. Ad assumere particolare rilevanza è il dato che riguarda l’area centrale del Mediterraneo: qui rispetto all’area occidentale che ne conta 51 e all’area orientale che ne conta 71, vi sono 262 morti, quasi il totale. Sono numeri che si contrappongono a quelli che registrano gli arrivi nelle rispettive aree. Nell’area occidentale si contano 8.453 arrivi, in quella orientale 10.408, mentre in quella centrale 6.943. Proprio in quest’ultima area, dove il dato relativo agli arrivi è stato minore seppur importante, emerge il maggior numero di morti a seguito di naufragi. Un’area, quella del Mediterraneo centrale, non nuova a simili tragedie: lo scorso anno ad esempio, si era aperto con uno dei più gravi naufragi degli ultimi tempi con 117 persone annegate a largo della Libia in un periodo, quale quello di gennaio, generalmente più tranquillo sul fronte migratorio. Un campanello d’allarme per il 2019, che ha comunque visto una diminuzione del numero delle vittime rispetto all’anno precedente di più di mille unità: in tutto il 2018 sono decedute nelle traversate infatti 2.299 persone, 1.885 nel 2019. A preoccupare è però adesso il 2020, per via di un primo parziale aumento nel trend delle vittime.
I naufragi più recenti. L’ultimo naufragio in ordine di tempo è quello avvenuto lo scorso 21 giugno al largo di Tripoli, in Libia. A denunciare quanto accaduto era stata Sea Watch attraverso Twitter. Un numero rimasto impreciso di vittime e una foto che, in modo forte, denunciava quanto avvenuto. Pochi giorni prima, ovvero il 13 giugno, vi era stato un altro naufragio, sempre in Libia. Come denunciava Alarm Phone su Twitter, qui 15 persone sarebbero morte a seguito del ribaltamento di un barcone. Il 10 giugno invece la “strage delle donne”. In questo caso è accaduto che un barcone con una cinquantina di migranti a bordo, partito dalla Tunisia, da Sfax per la precisione e diretto a Lampedusa, poco dopo la partenza, si è ribaltato. Dopo le prime segnalazioni arrivate alla Guardia Costiera tunisina, i soccorritori hanno raggiunto il luogo del naufragio recuperando 34 corpi: 22 erano di donne. A questi drammatici episodi si unisce anche quello denominato la “strage di pasquetta”. In quel caso, secondo le testimonianze raccolte dal team Medu ( Medici per i Diritti Umani) dai superstiti giunti a Pozzallo la mattina del 12 aprile, dei migranti erano partiti il 9 aprile dalla Libia arrivando nelle acque maltesi due giorni dopo. Lì sarebbe accaduto, sempre in base alle testimonianze, che due gommoni sarebbero stati dirottati su autorizzazione delle autorità maltesi verso le coste della Sicilia, mentre per un terzo barcone in difficoltà, vi sarebbe stata un’omissione di soccorso. Questo avrebbe causato la morte di 12 persone e il rientro di 51 superstiti nelle prigioni libiche. A fianco di questi numeri bisogna aggiungere poi quelli relativi alle vittime delle imbarcazioni fantasma delle quali non è rimasta alcuna traccia.
Il confronto con gli altri anni. Come detto, in questa prima parte del 2020 le vittime nel Mediterraneo centrale hanno superato abbondantemente quota 200. Questo era accaduto anche lo scorso anno, quando in un articolo de IlSole24Ore ad aprile si parlava di almeno 205 vittime fino a quel momento conteggiate nel tragico computo redatto dall’Unhcr. Ma c’è una differenza rispetto a 12 mesi fa: il 2020 è stato infatti contrassegnato dal lockdown per via dell’emergenza coronavirus. Tra marzo ed aprile lungo la rotta che dalla Libia e dalla Tunisia conduce verso le nostre coste, sono partite meno imbarcazioni rispetto ai mesi precedenti. Marzo specialmente è stato l’unico mese, da settembre 2019 in poi, in cui si è assistito ad un calo su base annuale degli sbarchi. Nonostante tutto questo, il numero delle vittime ha sforato la soglia dello scorso anno o forse addirittura è aumentato. In prospettiva, sul fronte delle vittime in mare anche questo 2020 rischia di essere decisamente negativo. Così come sottolineato su IlTempo nei giorni scorsi, in tutto il 2019 poi le vittime nel Mediterraneo centrale sono state 358: se già a giugno, quando ancora non è stata raggiunta la stagione decisiva sull’aumento dei flussi migratori, si è andati oltre quota 200 allora entro la fine dell’anno il dato potrebbe nascondere un ulteriore aumento degli episodi luttuosi.A confermare questo trend è anche una statistica resa nota dall’Iom relativa alle settimane di giugno: rispetto allo stesso mese del 2019, il numero di morti in mare sarebbe aumentato di almeno il 20%. In generale, andando a guardare anche i dati degli anni precedenti, si può percepire come ad un aumento dei flussi migratori corrisponda anche un maggior numero di morti. Non a caso, consultando le tabelle dell’Oim, l’Agenzia dell’Onu che si occupa dei migranti, l’unico anno in cui in tutto il Mediterraneo, comprendendo quindi non solo la rotta centrale bensì anche quella orientale ed occidentale, si è andati oltre la soglia delle cinquemila vittime è stato il 2016. L’annata cioè del numero record di approdi, soprattutto lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Subito dopo, di pari passo con una diminuzione degli sbarchi, sono diminuiti anche i morti: 3.139 nel 2017, 2.299 nel 2018 e 1.885 nel 2019, anno dove si è registrata la più importante contrazione dei dati relativi agli approdi.
Perché si continua a morire tra la Libia e l’Italia. È proprio nella rotta del Mediterraneo centrale che si registra il maggior numero di vittime. In poche parole, chi parte dalla Libia o dalla Tunisia ha molta più probabilità di morire rispetto a chi salpa dall’Algeria, dal Marocco o dall’Egeo: “Si tratta di un problema legato, in primo luogo, alla natura stessa della rotta – ci spiega un ammiraglio della nostra Guardia Costiera – La navigazione, specialmente dalla Libia, comprende molte miglia in più e l’attraversamento di tratti di mare molto pericolosi”. Dunque, quei trafficanti che dalla Tripolitania ogni settimana fanno imbarcare centinaia di migranti per spingerli verso l’Italia sanno bene di mettere a grave rischio la vita di chi paga loro migliaia di Dollari per partire. “Ma c’è anche un’altra variabile da considerare – ha proseguito l’ammiraglio – Dal 2017 in poi il contesto è variato. Da quando è entrato in vigore il memorandum con la Libia, i trafficanti sanno bene che devono mettere in mare mezzi in grado di spingersi più in profondità nel Mediterraneo. Dunque si usano imbarcazioni meno capienti, ma più in grado di andare oltre determinati perimetri, a volte riescono anche ad arrivare direttamente a Lampedusa. Alle organizzazioni criminali conviene che le imbarcazioni siano localizzabili, da soccorritori ufficiali e privati, quando la Guardia Costiera libica non può più agilmente intervenire”. Per soccorritori privati si intendono le navi delle Ong i cui equipaggi, come dimostrato da uno studio tedesco reso noto nei giorni scorsi, vengono contattati a volte direttamente da chi sta a bordo dei barconi sì meno capienti ma anche più pericolosamente esposti verso il cuore del Mediterraneo. “Le cause possono variare ma alcune di esse sono legate a cattive condizioni meteorologiche, ma anche all’uso di barche poco degne da parte dei trafficanti – ha dichiarato a ilGiornale.it Tarik Arkaz, dell’ufficio comunicazioni dell’Unhcr in Libia – nonché alla mancanza di sufficienti missioni di salvataggio o imbarcazioni di salvataggio che operano nel Mediterraneo centrale”. Quest’ultimo poi ha lanciato la preoccupazione relativa al fatto che l’emergenza coronavirus attualmente in Libia possa incidere sul numero delle partenze dalla Libia: “A causa delle limitate opportunità di lavoro nel paese – ha proseguito Tarik Arkaz – della mancanza di accesso ai servizi sanitari e di istruzione e delle attuali restrizioni alla circolazione dovute alla pandemia di COVID-19, migliaia di rifugiati e migranti stanno rischiando la vita in mare alla ricerca di sicurezza e un futuro migliore”. Dunque nuovi flussi migratori potrebbero interessare il tratto di mare tra la Libia e l’Italia, con il rischio di nuovi eventi luttuosi: “La stagione estiva è di solito il momento più trafficato per tentativi di attraversamento a causa del miglioramento del tempo – ha aggiunto Arkaz – Anche se nel frattempo la situazione in Libia è molto fluida. Il conflitto è diminuito di intensità, il che significa che rifugiati e migranti potrebbero essere in grado di ritrovare lavoro per sostenere le loro famiglie, ma questo è incerto. La reale portata del fenomeno migratorio nel 2020 non possiamo ancora prevederla”.
Una politica che non funziona. Dietro ogni numero c’è una vittima, dunque una vita che non c’è più, un affetto strappato ai propri cari. Ecco perché è impossibile soffermarsi soltanto sul lato “freddo” dei numeri. C’è anche un risvolto politico da evidenziare: apparire più accoglienti non diminuisce affatto la possibilità che tra la Libia e l’Italia un migrante vada incontro alla morte. Il governo giallorosso ha iniziato ad avere, già da settembre, un atteggiamento molto più conciliante con le Ong, le quali si sono sempre viste recapitare alla fine il via libera all’ingresso nei nostri porti. Questo nonostante l’emergenza sanitaria ed il lockdown. Eppure, come si è avuto modo di constatare, le morti non sono diminuite ed anzi si potrebbe andare verso un loro drammatico aumento. Le stragi nel Mediterraneo sono continuate e proseguono purtroppo ancora oggi. Il fatto che ventimila migranti, come riportato dagli ultimi report dei servizi segreti, siano pronti a salpare dalla Libia non è un buon segno: vuol dire che molte persone potrebbero essere esposte ai pericoli del mare e continuare a far accrescere la caselle relative alle vittime di questo 2020. Fin quando ci sarà anche un solo trafficante pronto a lucrare sulla pelle di altre persone, i rischi di nuove stragi e nuovi naufragi sono dietro l’angolo. L’unica vera politica è forse quella di evitare che altri barconi salpino dal nord Africa con la prospettiva di affondare durante una delle più pericolose traversate.
Incredibile ma vero: il Governo Conte elimina le multe milionarie alle Ong ed amplia i permessi speciali. Il Corriere del Giorno. Oltre alla cancellazione delle multe milionarie alle navi Ong, la ministra-prefetta vorrebbe introdurre l’allargamento della possibilità di accedere alla protezione umanitaria, la revisione del sistema di accoglienza Siproimi, la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale. Previsto anche l’intervento sulla “tenuità del fatto” chiesto da Mattarella riguardo le ipotesi di violenze a pubblico ufficiale. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e gli esponenti della maggioranza, nella serata del 30 luglio 2020, hanno trovato un accordo su un nuovo testo per annullare i precedenti Decreti sicurezza di Matteo Salvini emessi durante il 1° Governo Conte. Al quinto incontro al Viminale conclusosi nella tarda serata del 30 luglio si è trovata l’intesa tra il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e gli esponenti della maggioranza su un nuovo testo che supera i testi dell’ex ministro dell’Interno. Una notizia che arriva guarda caso nello stesso giorno in cui il Senato ha autorizzato il processo contro Salvini per il caso Open Arms.
Un lungo dialogo nella maggioranza. Quello che ha portato all’approvazione del testo non è stato un percorso facile. Inizialmente le posizioni tra le diverse forze della maggioranza erano divaricate. Pd, LeU e Iv spingevano per un forte segnale di discontinuità con i precedenti provvedimenti firmati da Salvini che avevano introdotto, tra l’altro, multe fino a un milione di euro per le navi umanitarie che entravano in acque italiane violando la legge e avevano praticamente cancellato la protezione umanitaria ed eliminato i richiedenti asilo dal Sistema si accoglienza promosso con i Comuni (l’ex Sprar, diventato Siproimi). Il Movimento5Stelle che all’epoca dei decreti Salvini governavano insieme alla Lega, volevano invece limitarsi ad accogliere i rilievi espressi dal capo dello Stato Sergio Mattarella.
Via le multe milionarie alle Ong. Oltre alla cancellazione delle multe milionarie alle navi Ong, la ministra-prefetta vorrebbe introdurre l’allargamento della possibilità di accedere alla protezione umanitaria, la revisione del sistema di accoglienza Siproimi, la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale. Il testo sarà sottoposto all’attenzione delle autonomie locali, ma per l’approvazione in Consiglio dei ministri se ne riparlerà a settembre.
Il M5S si è trasformato. Dopo il primo incontro, però, la posizione del Movimento 5 Stelle si è trasformata accettando le modifiche più sostanziali chieste dagli alleati. La ministra Lamorgese, con l’Ufficio legislativo del Viminale, ha messo a punto una bozza di decreto che è stata via via integrata cercando di trovare un punto di mediazione tra le richieste dei partiti . E l’altra sera si è acceso il semaforo verde ‘politico’. Per l’approvazione in Consiglio dei ministri e l’avvio dell’iter di conversione occorrerà in ogni caso attendere settembre, con la ripresa dei lavori parlamentari, confidando che il dossier immigrazione non diventi “bollente” come in queste settimane calde di luglio che ha visto un incremento del 600% di sbarchi di migranti clandestini.
Le novità del dl Lamorgese. Oltre all’ incredibile eliminazione delle multe milionarie per le navi Ong ed all’iscrizione all’anagrafe comunale per i richiedenti asilo, nel testo ispirato e fortemente voluto dalla sinistra governativa trovano spazio l’ampliamento dei permessi speciali a chi rischia di subire “trattamenti inumani e degradanti” nel proprio Paese, a chi necessita di cure mediche, a chi proviene da Paesi in cui sono avvenute “gravi calamità”; il dimezzamento dei tempi di trattenimento nei Cpr (da 180 a 90 giorni); la revisione del sistema di accoglienza Siproimi, che era stato limitato da Salvini e riservato ai soli rifugiati, prevedendo due livelli (uno di prima assistenza l’altro anche con l’integrazione) e strutture con piccoli numeri gestite da Comuni e allargate ai richiedenti asilo; la convertibilità dei permessi di soggiorno in permessi per motivi di lavoro; l’intervento sulla “tenuità del fatto” chiesto da Mattarella riguardo le ipotesi di violenze a pubblico ufficiale.
Immigrazione, l'ammiraglio Luigi Giardino: "Ong, gravi irregolarità. Perché sono un pericolo". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Le operazioni nel Mediterraneo delle Ong sono entrate, di nuovo, al centro del confronto politico, soprattutto ora che il governo ha in animo di smontare le sanzioni previste dai decreti sicurezza per chi non rispetta le disposizioni dell'autorità italiana. E però, su queste organizzazioni, si allunga una nuova ombra di illegalità. A spiegarlo è stato, in una circostanziata intervista all'Ansa, l'ammiraglio Luigi Giardino, capo del VI Reparto sicurezza della navigazione e marittima del comando generale della Guardia Costiera. Che ha messo in fila alcuni punti. Il primo è questo: le navi Ong nel Mediterraneo svolgono un'attività sistematica volta al salvataggio di migranti, che non può essere identificata come un impiego «improvviso e diverso». Tradotto: sono là per quello, e non come, per esempio, i pescherecci o navi commerciali che, navigando per altre finalità, poi si trovano ad eseguire dei salvataggi. Il problema è che, stante questa circostanza, secondo la convenzione Solas queste navi dovrebbero essere certificate dagli stati di bandiera per l'effettivo servizio che svolgono e devono rispondere a requisiti ben precisi. Questo ci richiama alla memoria, nella lunga antologia di polemiche sul tema, quel che accadde nel 2018 all'Aquarius, di Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere. La sua attività fu uno dei punti di scontro attorno alla linea del Matteo Salvini ministro, e batteva bandiera di Gibilterra. Poi, però, l'amministrazione marittima del territorio d'oltremare britannico decise di revocarne la registrazione, dove compariva come natante per svolgere ricerche e non salvataggio. Tuttavia, la posizione di Giardino si riferisce alle imbarcazioni sottoposte a fermo amministrativo negli ultimi tempi. Nomi come la Alan Kurdi, la Sea Watch 3 (assurta all'immaginario collettivo per la vicenda di Carola Rackete). E la Ocean Viking, della Sos Mediterranee. Quest' ultima, appena una decina di giorni fa, aveva definito «palesi molestie amministrative» l'ispezione - e successivo fermo - svolta dalla Guardia Costiera a Porto Empedocle. L'ammiraglio osserva che quei controlli rientrano nei contenuti di una direttiva comunitaria che coinvolge tutte le navi straniere che entrano nei porti italiani. Alcuni di questi controlli sono ordinari, vengono svolti in occasione di circostanze particolari. Quello che riguarda la nave in questione, dice Giardino, è l'aver portato a bordo «in maniera sistemica più persone di quelle che può trasportare». Questi controlli, peraltro, hanno nello specifico portato alla luce «29 non conformità», ravvisabili, ad esempio, nella «scarsa familiarità dell'equipaggio nell'affrontare un incendio a bordo; equipaggio che ha lavorato più delle ore delle consentite; sistemi per la rilevazione degli incendi fuori uso; bagni installati su ponti aperti con scarico diretto in mare». Insomma, fattori di rischio sia per le stesse persone salvate, sia per l'ambiente (circostanza non nuova neanche questa, qualche anno fa ancora l'Aquarius finì in un'inchiesta per smaltimento illecito di rifiuti). Comunque, la Ocean Viking è in (non) buona compagnia, visto che per le altre imbarcazioni le non conformità emerse dai controlli vanno dalle 18 ai 31. E poi c'è il paradosso finale. Sì, perché nonostante le polemiche e le accuse, Giardino osserva che intorno al provvedimento sulla Ocean Viking non risulta sia stato presentato alcun ricorso né dalla Ong, nè dallo stato di bandiera. Un quadro di irregolarità diffuse, questo, attorno cui si configura l'ennesima ipocrisia della sinistra, legalitaria solo con i nemici.
“L’allarme della Marina e dei medici: migranti allo stremo”. I tre documenti che accusano Salvini. Al via l’udienza. Pubblicato sabato, 03 ottobre 2020 da Salvo Palazzolo su La Repubblica.it. Nel pieno dell’emergenza, il 27 luglio dell’anno scorso, il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo della Guardia Costiera scriveva al ministero dell’Interno parole che più chiare non potevano essere: “Per caratteristiche tecnico-nautiche nave Gregoretti non è in grado di fornire un’adeguata sistemazione logistica ad un così elevato numero di persone. I migranti sono, di fatto ospitati sul ponte di coperta esposti agli agenti atmosferici con le problematiche che ben sono immaginabili (a titolo di esempio domani sono previsti 35 gradi)”. Un grido d’allarme, che è il cuore dell’atto d’accusa contro l’ex titolare del Viminale Matteo Salvini, oggi in una Catania blindata, davanti al giudice delle indagini preliminari Nunzio Sarpietro, per rispondere di sequestro di persona aggravato nei confronti di 131 migranti. La nota della Guardia Costiera è il primo di tre documenti che il tribunale dei ministri ha acquisito. Salvini si difende, come una memoria di 51 pagine: “I migranti sono rimasti a bordo della nave, senza pericoli e con la massima assistenza, solo il tempo necessario per concordare con altri Paesi europei il loro trasferimento”. Ma la lettera del centro di coordinamento di Roma lo smentisce: “Si aggiunga che la ridotta composizione dell’equipaggio di nave Gregoretti, solo 30 uomini, non consente la corretta gestione di un così elevato numero di persone”. Erano state salvate il giorno prima di quella nota urgente, in due diverse operazioni di soccorso, da una nave della Guardia di finanza e da un motovedetta della Guardia costiera. Dirà poi il comandante della Gregoretti, Carmine Berlano, sentito dal procuratore di Siracusa: “L’imbarcazione è destinata all’attività di vigilanza della pesca e non è attrezzata per eventi di questo tipo”. Il secondo documento che il tribunale dei ministri ha messo al centro dell’atto d’accusa contro l’ex ministro è quello firmato dalla dottoressa Agata Stefania Reale, del Corpo Italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, prima sulla “Monte Sperone” della Finanza, che aveva salvato 91 migranti, poi sulla Gregoretti. Il 29 luglio scriveva e inviava al comandante della nave: “Le condizioni igienico-sanitarie in cui si trovano i 131 migranti a bordo sono in atto scadenti, data la promiscuità nella condivisione degli spazi comuni, ed in graduale peggioramento data la loro continua permanenza a bordo. Esse hanno favorito la presenza e la diffusione di numerosi casi di scabbia per il prolungato contatto e non garantiscono il mantenimento in condizioni di un’adeguata e necessaria pulizia delle ferite medicate a bordo”. Allarme confermato dai tre medici inviati dal procuratore di Siracusa (Carmelo Sapia, Antonina Franco ed Elisa Cappello), per una ispezione. Ecco il terzo documento dell’atto d’accusa contro Salvini. Questo scrivevano i medici in una nota del 31 luglio: “Ventinove migranti riferiscono sintomi e presentano segno clinicamente evidenziabili di malattie infettive. Almeno 20 migranti sono certamente affetti da scabbia in forma più o meno severa (non potendosi escludere al momento altri infetti in forma iniziale o in fase di incubazione), 4 da micosi cutanee e dello scalpo, 3 da stafilococcie cutanee, un uomo presenta segni e sintomi di cellulite bollosa alla gamba sinistra, ed infine un ultimo migrante presenta un quadro clinico compatibile con un sospetto di tubercolosi polmonare”.
Le motivazioni. Questi tre documenti, per il tribunale dei ministri, attestano la “costrizione a bordo non voluta e subita, sì da potersi qualificare come apprezzabile e dunque penalmente rilevante l’arco temporale di privazione della libertà personale sofferto”. Condizioni “precarie dei migranti” che erano “assolutamente note al ministro, costantemente informato dalla catena di comando che faceva a lui riferimento”. E il tribunale aggiunge: per il reato di sequestro di persona “è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima la illegittima restrizione della sua libertà fisica, intesa come libertà di locomozione”. Non può esserci la “scriminante” che fu un atto politico. “La decisione del ministro – proseguono i giudici – ha costituito esplicita violazione delle convenzioni internazionali in ordine alla modalità di accoglienza dei migranti soccorsi in mare e, al contempo, non sussistevano profili di ordine pubblico di interesse preminente e tali che giustificassero la protratta permanenza dei migranti a bordo della Gregoretti”.
Processo Salvini, il giudice chiederà gli atti di altri sbarchi e le prove dell'attività del governo. L'udienza a porte chiuse in un tribunale blindato. Annullato per motivi di sicurezza il caffè delle 8.30 a Piazza Duomo tra i leader del centrodestra. La Procura torna a chiedere il non luogo a procedere. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 03 ottobre 2020. In questo strano processo senza accusa, al presidente Nunzio Sarpietro toccherà tornare a vestire i panni del vecchio giudice istruttore. Perché è così, con la richiesta di acquisizione di nuovo consistente materiale probatorio su diversi altri sbarchi in cui i migranti sono stati trattenuti e sulle eventuali responsabilità di governo e, se riterrà, ( solo dopo lo studio delle carte) con nuove testimonianze che, con tutta probabilità, si concluderà oggi l’udienza preliminare che vede l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini accusato di sequestro di persona aggravato per aver trattenuto per cinque giorni a bordo della nave della Guardia Costiera Gregoretti 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo a luglio 2019. «Viviamo un momento di sospensione della democrazia. Il mio processo è una violenza alla Costituzione. Non avrei mai pensato di finire in tribunale, ma non mi vergogno. Dormo tranquillo con la mia compagna e vado con il rosario in tasca. Ho piena fiducia nella magistratura e penso che il processo non ci sarà proprio». Così Salvini ieri sera ha scaldato alla vigilia la piazza dei suoi fan in un a Catania blindata dove il prefetto Claudio Sammartino ha dovuto far annullare l'improvvisato caffè delle 8.30 tra il leader della Lega, Meloni e Tajani a Piazza Duomo per evitare il contatto tra i manifestanti delle fazioni pro e contro Salvini che oggi daranno vita a ben quattro cortei. Il caffè è stato spostato, senza fans, al solo beneficio di fotografi e tv al Baia Verde. Ma non finisce qui, oggi, con un non luogo a procedere come spera Salvini e come torna a chiedere la Procura che questo processo non l’ha mai voluto. E non si arriverà neanche a un rinvio a giudizio tout court come indicato dal tribunale dei ministri che ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione a procedere. Che differenza c’è fra il caso Gregoretti e la Diciotti prima e la Open Arms dopo? E persino con la Ocean Viking sulla quale, quando al Viminale era già Luciana Lamorgese, altri migranti furono ugualmente trattenuti nell’attesa dell’impegno alla redistribuzione europea? Che ruolo hanno avuto il governo, il premier Conte, i ministri Di Maio e Toninelli nella scelta ora contestata al solo Salvini di bloccare lo sbarco della Gregoretti? E ancora: se era ravvisabile un sequestro di persona, perché la Procura non è intervenuta subito? E qual è il reale status giuridico di un migrante? Libero come un qualsiasi cittadino o in trattenimento amministrativo in attesa di verifica della sua posizione? Sono solo alcuni degli interrogativi (sottolineati anche dalla memoria dell’avvocato Giulia Bongiorno) ai quali il giudice Sarpietro intende trovare risposta prima di decidere la sorte di Salvini. In aula l’unica famiglia di migranti arrivata con la Gregoretti e rimasta in Sicilia (i nigeriani Jafra e Aishat Saha e i loro tre figli) si costituisce parte civile con l’avvocato Massimo Ferrante. Ci proveranno anche molte associazioni. A rappresentare l’accusa il sostituto Andrea Bonomo e non il procuratore Carmelo Zuccaro che, sulle scelte della Procura, dice a Repubblica: «Ogni valutazione è riservata al momento conclusivo dell’udienza preliminare, dopo che sarà espletata l’attività istruttoria ». Se il giudice Sarpietro deciderà l’acquisizione dei documenti relativi ad altri casi in cui i migranti sono rimasti per giorni a bordo delle navi, si profila un rinvio a dicembre. Solo dopo, eventualmente, il giudice potrebbe decidere di sentire altri protagonisti del caso, dal premier ai ministri ( vecchi e nuovi) e la difesa sceglierà tra il rito abbreviato e l’ordinario.
Dal terrorismo all'inchiesta sul palazzo del Pci a Catania, chi è il giudice del caso Salvini. Nunzio Sarpietro è il presidente dell'Ufficio Gip che oggi a Catania terrà l'udienza preliminare per l'ex ministro dell'Interno. Natale Bruno su La Repubblica il 03 ottobre 2020. Sessantotto anni, originario di Paternò, da quarant'anni in magistratura con un lunga carriera tra Catania e Trieste, Nunzio Sarpietro è chiamato a giudicare l'ex ministro dell'Interno che alla guida del Viminale impedì, tra luglio e agosto del 2019, lo sbarco dei migranti che si trovavano sulla nave della Guardia Costiera Gregoretti. Una "condotta" che per il tribunale dei ministri di Catania configura il reato di sequestro di persona. Presidente della Sezione dei giudici delle indagini preliminari del tribunale di Catania, iscritto alla corrente di "Magistratura Indipendente" Sarpietro, sposato con Caterina Aiello, attuale procuratore capo al tribunale dei minori di Catania, dopo aver frequentato il Liceo Classico Mario Rapisardi, ha studiato all’Università di Catania e si è laureato con lode in Giurisprudenza con una tesi sui “Diritti collettivi”. Nel 1978 entra in magistratura, e inizia la sua carriera prima al tribunale di Caltagirone, fino alla nomina di presidente dei gip di Catania, avvenuta nel 2013 con una lunga parentesi a Trieste durata 16 anni. In Friuli, presidente aggiunto dell'ufficio Gip e poi giudice dii sorveglianza, nei primi anni del 2000, fu al centro di una serie di intimidazioni (furti in casa e due inquietanti ritrovamenti sotto casa di un gatto morto con la testa fracassata e infine quattro lunghe candele rosse cerchiate da una mezzaluna) per un impegno giudiziario che va dalla strage di Udine, all'insediamento nel capoluogo friulano di una potentissima organizzazione mafiosa italo-albanse. Lontano da Catania si è occupato di inchieste sul terrorismo islamico e sugli “agenti in sonno” presenti in Friuli. Ma anche sui gruppi eversivi collegati agli anarchici. A Catania, ancora come Gip, si è occupato di alcuni casi giudiziari di particolare rilevanza come diversi casi di corruzione ed in particolare la "gettonopoli" al Comune di Catania e la cresta sui rimborsi della Marina militare con oltre 500 tra ufficiali e marinai indagati. Fu lui che disposte per tre volte indagini (contro la richiesta di archiviazione della Procura) sui vertici dell'allora Pci per la storica vendita della sede del partito. Fu lui a guidare, alla fine degli anni Ottanta, l'inchiesta (nelle vesti di giudice istruttore) per lo sbancamento sull'Etna quando sul vulcano fu decisa dalla protezione civile la deviazione della lava durante l'eruzione del 1983. Nel 1985, fu uno dei primi magistrati ad applicare l'articolo 416 bis (associazione mafiosa) della Rognoni La Torre: curò il primo procedimento a nove imputati, ,fra cui Pietro Rampulla, l'artificiere della strage di Capaci.
Parte l'assalto finale a Salvini Cosa non torna del processo. L'ex ministro dell'Interno alla sbarra a Catania per il caso Gregoretti. Tra dubbi e aspetti poco chiari sulle cause del processo ecco il quadro della situazione. Sofia Dinolfo e Mauro Indelicato, Sabato 03/10/2020 su Il Giornale. In questi ultimi dodici mesi si è andati avanti con richieste di processo, richieste di archiviazione, voti in Senato e voti in giunta per le immunità. Adesso però, ad un anno di distanza dal braccio di ferro tra l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini e le navi Ong, sembra arrivato il momento della verità. Il 3 ottobre scatta il processo a Catania in cui il segretario leghista è accusato di abuso di ufficio e sequestro di persona. Il caso per la verità non riguarda un mezzo Ong, bensì quello inerente la nave Gregoretti della Guardia Costiera. Ma è comunque figlio di una stagione politica di cui soltanto adesso si noteranno gli effetti, giudiziari e non.
Il caso Gregoretti. Il 26 luglio del 2019 dal suo studio del Viminale, l'allora ministro Matteo Salvini ha comunicato lo stop allo sbarco dei migranti a bordo della Gregoretti, in quel momento in rada vicino le coste orientali della Sicilia: “Ho dato disposizione – si leggeva nelle dichiarazioni di Salvini – che non venga assegnato nessun porto prima che ci sia sulla carta una redistribuzione in tutta Europa di tutti i 140 migranti a bordo”. La nave della Guardia Costiera aveva recuperato i migranti pochi giorni prima. La vicenda è sembrata da subito molto simile a quella dell'agosto 2018, che ha visto coinvolta la nave Diciotti: anch'essa era della Guardia Costiera e anch'essa ha ricevuto lo stop da parte di Salvini. Lo stallo però è durato pochi giorni: il 31 luglio dal ministero dell'Interno, dopo le rassicurazioni sul ricollocamento dei migranti in Europa, è arrivato il via libera allo sbarco avvenuto poi ad Augusta. Subito dopo l'approdo, la procura di Siracusa ha aperto un fascicolo nei confronti di Salvini per abuso di ufficio e sequestro di persona. L'indagine per competenza è passata a Catania, dove si è insediato il tribunale dei Ministri, così come previsto in caso di inchieste su componenti del governo in carica. Qui il caso giudiziario ha preso due binari differenti: la procura di Catania ha chiesto a settembre l'archiviazione per Salvini, il tribunale dei Ministri ha invece inviato al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere. Il 20 gennaio la giunta per le immunità del Senato ha dato il primo via libera al processo, il 12 febbraio invece palazzo Madama ha votato il definitivo disco verde.
Lo scambio di mail che fa sorgere i dubbi sulle responsabilità. Che l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini adesso dovrà sottoporsi al processo è un dato di fatto. Al contrario, poco chiara, è la sua posizione rispetto al governo nel momento in cui è stata assunta la decisione di non far sbarcare i migranti a bordo della Gregoretti. Un nodo da sciogliere e che ha creato non poche tensioni politiche e scontri di parere fra la Lega e l’attuale maggioranza giallorossa. Il leader del carroccio infatti ha sempre sostenuto di non aver agito da solo in quella vicenda ma con l’appoggio dell’allora governo gialloverde.
Così Salvini inchioda Conte: "Scelta collegiale, lo provano sette mail". A dare testimonianza alle sue parole ci sarebbero, secondo lo stesso Salvini, sette mail scambiate fra la Farnesina e i funzionari di Palazzo Chigi nelle quali appunto si parlava del caso Gregoretti (leggile qui). Ad opporsi a queste importanti e non secondarie affermazioni sono però i giudici dei tribunale dei ministri. Questi dichiarano che il governo Conte non era al corrente della decisione di Salvini il quale avrebbe quindi agito da solo. Non soltanto le divergenze sono in ambito giudiziario ma sono anche tra l’attuale maggioranza e l’attuale opposizione. Da queste “diverse vedute” è evidente che non ha rilevanza solamente l’aspetto meramente giuridico che, ovviamente, deve essere chiarito, ma anche un quadro politico particolare al momento della votazione in Senato. Se prendiamo infatti in considerazione il simile caso relativo alla nave Diciotti, in quell’occasione la maggioranza assumeva i colori gialloverdi e quindi si è espressa contraria all’avvio di un procedimento giudiziario. Nel caso relativo alla nave Gregoretti, la Lega non era più parte fondamentale dell’esecutivo ma era passata all’opposizione.
Tutti gli aspetti da chiarire. Nell’ambito delle cause che hanno portato l’ex ministro dell’Interno al processo ci sono alcuni aspetti da valutare. È apparso infatti un paradosso che da un lato la procura di Catania ha deciso di archiviare il caso ed invece, dall’altra parte, il Tribunale dei Ministri di Catania, si è mossa in direzione opposta chiedendo l’avvio di un processo. A chiarire questo aspetto è l’avvocato Elisabetta Aldrovandi raggiunta da ilGiornale.it: “Il tribunale dei ministri è una sezione specializzata del tribunale ordinario, competente per i reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni - ci ha spiegato - "Pertanto, un’eventuale indagine sull’operato del ministro dell’Interno è di sua competenza. Entro novanta giorni da quando riceve gli atti relativi a una notizia di reato il tribunale dei ministri, sentito il pubblico ministero, può decidere l’archiviazione oppure la trasmissione degli atti con una relazione motivata al procuratore della Repubblica, perché chieda l’autorizzazione a procedere alla Camera di appartenenza, nel caso di specie il Senato". Il legale ha poi chiarito che, una volta arrivata l'autorizzazione, "il processo sarà di competenza del tribunale ordinario, che potrebbe chiedere l’archiviazione". Cosa che potrebbe accadere, dal momento che il procuratore capo di Catania Zuccaro chiese proprio l’archiviazione giudicano la condotta di Salvini come una “scelta politica”, non sindacabile in sede penale. "Ovvio che la contrapposizione tra la decisione del tribunale dei ministri e quella della procura di Catania potrebbe rappresentare diversi modi di considerare la rilevanza penale della condotta dell’ex ministro", aggiunge Aldrovandi. E in merito a quelle “famose” sette mail che proverebbero un dialogo fra la Farnesina e Palazzo Chigi sul caso Gregoretti, l’avvocato ci spiega cosa potrebbe accadere adesso dal momento che Matteo Salvini le ha allegate nella sua memoria al giudice per le indagini preliminari: “Quando il giudice ravvisa, dagli elementi di prova acquisiti e dalle difese dell’imputato, che potrebbero sussistere elementi di condotte penalmente rilevanti a carico di terzi - afferma - può trasmettere gli atti in procura perché si effettuino le dovute indagini. Nel caso in cui dette indagini determinassero un rinvio a giudizio nei confronti di queste terze persone i processi penali potrebbero essere riuniti”.
Le memorie difensive di Salvini. Il 24 settembre Matteo Salvini ha depositato in vista della prima udienza del processo le sue memorie difensive. Nel documento di 51 pagine l'ex ministro ha ribadito la sua posizione, dichiarando di essere innocente e di non aver mai sequestrato nessun migrante. È stata in particolare posta molta evidenza alle mail scambiate sia con la Presidenza del consiglio, che con il ministero degli Esteri e la commissione europea, a testimonianza dell'esistenza di una trattativa politica per il ricollocamento dei migranti a bordo della Gregoretti. Salvini ha inoltre parlato della presenza all'interno della nave di almeno due scafisti e del ritrovamento di un dispositivo da loro utilizzato in uno zainetto. Ora saranno i giudici a decidere chi ha ragione con una sentenza che - in ogni caso - farà discutere anche per l'impatto che avrà sull'assetto politico del Paese.
La giostra dei pm vanitosi. Al via il processo farsa a Salvini, una passerella per i Pm vanitosi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Domani inizia il processo a Salvini. Ragionevolmente sarà solo una sceneggiata messa su da un pezzetto della magistratura (quella che fa riferimento al partito dei Pm) per far sfoggio del proprio potere. Il partito dei Pm vuole dimostrare la sua forza – specialmente in questo momento difficile e di perdita di credibilità per via del caso Palamara – e l’occasione è ghiotta: processare un parlamentare ed ex ministro, con accuse cervellotiche, sfidando il buon senso e l’evidenza, farlo in modo raffazzonato, irrazionale – come stanno facendo – serve a dire: “noi siamo superiori a tutto, siamo superiori agli altri poteri, siamo superiori allo stato di diritto, siamo superiori alla ragionevolezza; la democrazia e lo stato di diritto, se vogliono sopravvivere, devono sottomettersi e accettare di essere subordinate a noi”. Come mai la parte più aggressiva e sovversiva della magistratura è arrivata a disporre di così tanto potere da poter mettere non solo in soggezione ma persino alla berlina i leader della politica nazionale? Lo sanno tutti perché: perché la politica glielo ha permesso. In parte perché impaurita, in parte perché si è fatta trascinare dai partiti giustizialisti e populisti. Così si arriva al processo a Salvini che certamente avrà delle ripercussioni sulla politica italiana e sui rapporti tra magistratura e potere democratico. È stato il Parlamento, stavolta a dare il via libera, persino con il voto di quelli che spalleggiarono Salvini nel blocco dei porti e nel respingimento degli immigrati e dei naufraghi. La vicenda la conoscete tutti. Quella della nave Gregoretti, alla quale, nel luglio del 2019, per diversi giorni fu impedito di far sbarcare più di cento naufraghi. La scelta del governo Lega-5 Stelle, guidato da Conte, fu sicuramente una scelta sciagurata: usare la sofferenza e la disperazione di decine e decine di migranti – che avevano rischiato la vita in mare – per ottenere dei vantaggi elettorali o politici, a me sembra una cosa pessima. Del resto, tutti i partiti compiono le loro scelte sui temi dell’immigrazione calcolando i costi e i benefici. Ricordo che lo stesso governo di centrosinistra, quello di Gentiloni, rinunciò all’ultimo momento a votare lo Ius Soli (cioè una elementare legge che garantiva ai migranti diritti riconosciuti dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo ) per paura di perdere voti. E ancora in questi giorni – come scrive Angela Azzaro – il Pd traccheggia nell’assalto ai 5 Stelle perché non se la sente di modificare davvero i decreti-Salvini, quelli approvati dal Governo Conte 1 e ispirati a una idea repressiva e xenofoba. Perché il Pd esita? Non se la sente di sfidare la parte più plebea, ma anche più larga, dell’opinione pubblica che non ne vuole sapere di misure di accoglienza verso gli immigrati. Da diversi anni i politici subiscono l’opinione pubblica, su questi temi, e al tempo stesso sobillano l’opinione pubblica. Viene nostalgia per i bei tempi dei governi di pentapartito, quelli Dc-Psi del secolo scorso, nostalgia per il ministro Scotti, per il ministro Martelli. Erano partiti e leader politici che tenevano conto degli umori popolari, ma anche di alcuni principi che a loro parevano insormontabili. L’impressione è che oggi nessun principio sia considerato insormontabile. In questa situazione di debolezza estrema della politica si è inserita la magistratura. In modo assai disinvolto e spavaldo. Prima prendendo l’iniziativa di radere al suolo il sistema delle Ong e dei soccorsi ai naufraghi, mettendo fuorilegge i soccorsi, sequestrando le navi dei volontari, provocando enormi disastri nel Mediterraneo. E trascinando sulla linea del muro anti-naufraghi la Lega di Salvini e i 5 Stelle di Di Maio, ma anche una parte del Partito democratico, guidata dall’allora ministro dell’Interno Minniti. Fu la magistratura a guidare l’attacco -vincente- alle Ong. Poi, con una rapida virata, la magistratura è partita all’attacco di Salvini, che aveva seguito esattamente la linea indicata dalla magistratura siciliana. E lo ha incriminato accusandolo del folle reato di sequestro di persona. Come un gangster, un bandito, un rapitore. Certo, Salvini sarà assolto, perché il processo non sta in piedi. Ma quel che interessa al partito dei Pm è avviare i processi, vincerli è del tutto secondario. Il risultato politico è il processo, non è la sentenza. Guardate quel che è successo a Nicola Cosentino. Assolto e sconfitto. La magistratura ha perso il processo ma ha ottenuto la distruzione della vittima prescelta. E sarà così anche con Pittelli, l’ex parlamentare calabrese, sequestrato e messo al carcere duro senza indizi e senza reati. È del tutto evidente che l’accusa a Salvini non regge. La sua è stata una scelta politica chiarissima: usare la mano forte e il terrore mediatico per fermare gli sbarchi di migranti e di naufraghi. Dare alla lotta alla clandestinità il ruolo di bandiera politica della Lega. È una scelta terribile, secondo me. Ma è una scelta politica, non un reato. Io avrei fatto la scelta opposta: aprire tutti i porti all’accoglienza, e probabilmente Salvini e molti altri avrebbero considerato la mia scelta una scelta terribile. Ma non un reato. Che poi se davvero la magistratura avesse pensato che Salvini stava sequestrando più di cento persone, dal momento che sapeva perfettamente dove fosse il luogo del sequestro, perché non ha interrotto il reato mandando i Nocs o la forza pubblica a liberare i prigionieri? Sapeva: è stata complice? Dobbiamo incriminare per concorso in sequestro metà magistratura siciliana? Ieri, in un bellissimo articolo di fondo sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ha spiegato come sull’immigrazione tutti i partiti si sono comportati più o meno nello stesso modo. Contro Salvini si levarono molte voci autorevoli, soprattutto di intellettuali, artisti, attori. Che chiedevano umanità, diritti. Perché ora che la politica di Salvini è stata perfettamente clonata dal nuovo governo non si muove nessuno? Nel mese di settembre – osservava Mieli – in una sola settimana ci sono stati sei naufragi che hanno provocato la morte di 190 persone. Una cifra spaventosa. Perché 190 morti? Perché non ci sono più in mare le navi dei soccorsi, bloccate dalla magistratura e dal governo. Se Salvini dovrà rispondere in tribunale per le sofferenze di quei 131 naufraghi della Gregoretti, che però alla fine sono usciti incolumi dall’odissea, chi dovrà rispondere – per esempio – per questi 190 morti ? I magistrati? I politici? I governanti vecchi e nuovi? Quelli che, cinici o ignoranti, hanno definito i gommoni pencolanti “taxi del mare”? E qual è il reato ipotizzabile: strage?
Francesco Bellomo per “Libero quotidiano” il 2 ottobre 2020. Domani a Catania si apre l' udienza preliminare che vede Salvini imputato per il caso della nave Gregoretti. Ancorché da tutti ricondotto al tema dei rapporti tra politica e magistratura, questo processo presenta un significativo elemento di diversità. Per comprenderlo occorre muovere da una classificazione della tipologia di reati che il politico, come ogni persona, può commettere: reati tecnici (corruzione, abuso d' ufficio, falso, riciclaggio, ecc.) e reati naturalistici (omicidio, furto, rapina, violenza sessuale, ecc.). I primi sono di gran lunga i più diffusi tra i politici, poiché presuppongono la titolarità o il contatto con cariche pubbliche e sono mossi da finalità di arricchimento. Per loro natura sono figure di delitto abbastanza elastiche, quindi una certa sproporzione tra numero di processi e numero di condanne è fisiologica. I reati naturalistici, in cui la componente materiale è predominante, sono governati da leggi scientifiche, dunque meno esposti alla discrezionalità dell' interprete. Non sempre, però, la pratica corrisponde alla teoria, specialmente quando la materia è culturalmente sensibile: in tali casi accade di frequente che l' ipotesi accusatoria sia costruita convertendo un (personale) giudizio di disvalore etico o sociale in un reato. L' accusa mossa a Salvini è un singolare ibrido tra queste due categorie: un reato naturalistico (sequestro di persona) contestato sulla base dell' esercizio di un potere tecnico-giuridico (quello derivante dalla carica di Ministro dell' interno). In questa anomalia si compendia un problema che va ben al di là della dialettica tra politica e magistratura ed assume una valenza quasi epistemologica: possono le decisioni di un giudice (e, ancor prima, le indagini di un pubblico ministero) essere influenzate da fattori estranei alle leggi che è chiamato ad applicare? Per chi abbia sufficiente conoscenza della materia la risposta è pacifica: sì. Il tema dei condizionamenti al giudizio normativo - passioni, emozioni, pregiudizi, ideologie, interessi - è vasto come la letteratura che se ne occupa. Provo a spiegarlo citando nuovamente l' aneddoto raccontato da Corrado Carnevale, a lungo presidente della I sezione penale della Corte di cassazione e destinato a diventarne primo presidente, fino a quando fu travolto dall' ondata mediatico-giudiziaria, per la sua fama di "ammazzasentenze" nei processi di mafia: «Il pubblico ministero si era limitato a chiedere la condanna precisando l' importo della multa, la difesa non aveva affrontato nessun argomento. Quando fummo in camera di consiglio, i componenti del collegio s' impegnarono in una dotta dissertazione sul trattamento pensionistico dei magistrati europei. Dopo che furono arrivati alla conclusione che, naturalmente, il peggiore trattamento pensionistico era quello dei magistrati italiani, il presidente si rivolse al collega cui spettava di redigere la motivazione della sentenza e chiese: Quantu ci damu? (la discussione si svolgeva in dialetto siciliano, cosa che non mi dispiaceva affatto). Che pena gli diamo? Scusate un momento, obiettai io: la derubata non ha riconosciuto l' accusato, testimoni non ce ne sono, la somma sottratta non si è trovata nella sua disponibilità. In base a quali elementi questo signore dovrebbe essere condannato? La domanda mi pareva legittima. Ma il presidente mi rispose: "Tu sei un sofista". Sarò pure un sofista, ma almeno spiegatemi, perché vorrei capire. E lui: "Ma tu lo sai chi è l' imputato? È un barbiere. E lo sai quand' è avvenuto il furto? Era un lunedì". Allora capii dove volessero andare a parare. E soltanto perché era barbiere, quel poveretto si beccò sei mesi di reclusione. Da allora mi sono sempre trovato a disagio nell' ambiente». Quotidianamente, nelle aule di giustizia, vengono fatti ragionamenti di questo tipo (magari un po' più raffinati), che inevitabilmente conducono al più grave dei difetti possibili per una decisione giudiziaria: l' inversione logica. La decisione precede l' argomentazione. Fortunatamente, per quanto diffuso, questo modo di operare raramente porta a danni reali, perché i procedimenti intuitivi (che a volte sarebbe più corretto chiamare istintivi) spesso conducono allo stesso risultato che si sarebbe ottenuto ragionando in termini formali. E va pur detto che, tra tutti i corpi dello Stato, la magistratura è quello mediamente più preparato, aduso sin dai primi studi a sviluppare le doti della conoscenza e della tecnica. Ma la neutralità, l' immunità da pregiudizi morali, la capacità di orientarsi in base alla logica e non ai sentimenti, sono uno stato dell' intelletto difficile da raggiungere. Né giova a tale obiettivo l' incessante pressione mediatica sui casi giudiziari di maggiore rilievo, spesso alimentata proprio dalla politica, che, a sinistra come a destra, cavalca il desiderio di sangue della piazza, immolando lo Stato di diritto (e, prima di esso, la Ragione) sull' altare del consenso. L'uso della retorica e l'appello all'emotività sono il contrario della giustizia. Anche Salvini dovrebbe rammentarlo. Ma in questo caso, forse, gli si può concedere una giustificazione: legittima difesa.
Gregoretti, Matteo Salvini: “Da processare e condannare sempre”, ecco la giustizia secondo la sinistra. Libero Quotidiano il 03 ottobre 2020. “Io Matteo Salvini lo processerei e condannerei sempre”. Claudio Sabelli ha fatto indignare il centrodestra e tutti i suoi elettori con questa frase pronunciata a Stasera Italia, la trasmissione condotta da Barbara Palombelli su Rete 4. Il giornalista non è affatto passato inosservato: “A che titolo uno così stava là libero di produrre veleno?”, si è chiesta Maria Giovanna Maglie dopo aver seguito la diretta. La nota opinionista è incredula come tanti altri che qualcuno abbia il coraggio di esprimere concetti simili sul segretario della Lega, tra l’altro a poche ore dall’udienza preliminare del processo per il presunto sequestro di persona di 131 migranti bloccati a bordo della Gregoretti, la nave della Marina militare. Quello di Sabelli è solo l’ultimo dei tanti attacchi strumentali subiti da Salvini, che intanto a Catania ha dato una grande prova di forza in qualità di leader del centrodestra, essendo stato seguito da tutti gli alleati, Giorgia Meloni e Antonio Tajani in primis.
Gregoretti, Vauro: “Forza Etna”, la vignetta choc contro Matteo Salvini e i leghisti a Catania. Libero Quotidiano il 3 ottobre 2020. L’udienza preliminare del processo a Matteo Salvini per il presunto sequestro di persona di 131 migranti a bordo della nave Gregoretti è stata accolta in maniera particolare da Marco Travaglio. Nel suo editoriale il direttore del Fatto Quotidiano sostiene che il segretario della Lega sia riuscito a “buttarla in caciara”, facendo il martire e convocando a Catania i suoi parlamentari e alleati. La grande mobilitazione del centrodestra non è quindi una prova di forza della leadership di Salvini per il Fatto, che non nutre particolare simpatia nei suoi confronti (eufemismo): lo si evince anche dalla vignetta in prima pagina di Vauro, che commenta la presenza dei leghisti a Catania facendo pronunciare proprio all’ex ministro un “forza Etn… ops” che lascia pochi spazi all’interpretazione.
Storia della nave Gregoretti, del suo carico di migranti e dei cinque giorni in cui il leader della Lega sospese la legge del mare, le convenzioni e il diritto internazionale. E di un giudizio per sequestro di persona spacciato come "un martirio". Carlo Bonini, Fabio Tonacci, Alessandra Ziniti il 24 settembre 2020 su La Repubblica. I giorni della motonave della Guardia costiera "Bruno Gregoretti" resteranno una pagina indelebile nella storia del nostro Paese. Un'onta che, al netto di quello che sarà l'esito penale della vicenda, racconta la ferocia e il cinismo della Politica, l'ignavia degli apparati, l'ottusità delle burocrazie, di fronte alle vite di 131 migranti in fuga dalla guerra e colpevoli soltanto di chiedere asilo. Raccolti come naufraghi nel Mediterraneo centrale e te...
Sansonetti: "Salvini? A processo ci vadano i pm". Raimo: "Ha già perso con la sua retorica fascista". Sabato si terrà l'udienza preliminare del processo a Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per il caso riguardante la nave Gregoretti. Ecco l'opinione dello scrittore Christian Raimo e del giornalista Piero Sansonetti. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Giovedì 01/10/2020 su Il Giornale. Sabato si terrà l'udienza preliminare del processo a Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per il caso riguardante la nave Gregoretti che nel luglio 2019 era stata bloccata per vari giorni dalla Guardia Costiera per ordine del leader della Lega che, all'epoca, era vicepremier e ministro degli Interni del governo gialloverde. L'Italia, come sempre, si divide tra giustizialisti e garantisti e così ilGiornale.it ha deciso di raccogliere l'opinione dello scrittore Christian Raimo e del giornalista Piero Sansonetti su questo tema.
Matteo Salvini va condannato? E, se sì, perché?
Raimo: “Per me la questione non è giuridicamente interessante. Ma trovo risibile la difesa di Salvini della difesa del territorio italiano perché le persone che arrivano su dei gommoni e rischiano la vita in mare non ci vogliono fare una guerra. Hanno semplicemente desiderio di una vita migliore”.
Sansonetti: “Salvini non va condannato perché non ha commesso il reato per il quale è accusato e non andava neanche mandato a processo perché è un ministro che ha fatto delle scelte che io ritengo sciaguratissime. Ma tra un reato e una scelta sciaguratissima c’è una certa differenza. Non andava mandato a processo. La magistratura ha voluto fare un atto di forza, dimostrare che è molto più potente del Parlamento che si è inginocchiato ossequiosamente come spesso fa”.
Se Salvini è un sequestratore, perché il premier Conte e gli altri ministri non lo hanno bloccato quando erano al governo insieme?
Raimo: “Anche questa è una questione posta male. Ridurre a questa la difesa da parte di Salvini sembra quelle giustificazioni che davamo ai nostri genitori da bambini: ma l'ha fatto anche lui!”.
Sansonetti: “La domanda contiene già la risposta. È evidente che è così. O Salvini è un sequestratore (e, secondo me non lo è), allora, in questo caso, lo sono tutti i rappresentanti del governo oppure i rappresentanti del governo non dovevano votare la sua messa in stato d’accusa. E aggiungo: se la magistratura sapeva che era in corso un sequestro di persona doveva mandare i Nocs a liberare i sequestrati. Se non l’ha fatto, la magistratura, ossia tutti i magistrati competenti sono corresponsabili del sequestro di persona e vanno processati. Hanno il dovere di interrompere un reato in corso”.
Durante il governo gialloverde, a luglio 2019, la nave Gregoretti è rimasta bloccata in mare per 7 giorni. Un anno dopo, con i giallorossi al potere, è stata la Ocean Viking ad aspettare per ben dieci giorni prima di poter far sbarcare i migranti. Perché, allora, Salvini va a processo e la Lamorgese no?
Raimo: “Anche questa è una questione posta male. Benissimo se Salvini o chi per lui vuole difendersi in questo modo chieda l'incriminazione di Lamorgese”.
Sansonetti: “Sono contento che Lamorgese non vada a processo e che nessuno lo abbia richiesto. Sia chiaro, io penso che i naufraghi si debbano far sbarcare e che il senso di umanità debba essere superiore alla politica e alla propaganda. Purtroppo il comportamento di Salvini è un po’ più urlato di quello degli altri, ma è identico ai vari Di Maio, Lamorgese, Minniti. Anzi, Minniti era pure più cattivo perché se la magistratura vuole intervenire sugli accordi dell’Italia con i torturatori libici non so che reati riesce a tirar fuori…”.
Nel caso Gregoretti (come per la Diciotti) la Procura di Catania aveva chiesto l'archiviazione per Salvini, ma il tribunale dei ministri ha comunque deciso di portarlo a processo. Palamara diceva: "Salvini ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo". Non è che dietro si nasconde il desiderio di eliminare per via giudiziaria il leader del centrodestra Salvini così come è avvenuto con Berlusconi?
Raimo: “Salvini ha perso politicamente nell'estate 2019. Ha perso perché la sua strategia feroce sull'immigrazione ha incontrato una opposizione non dai partiti ma da piccole resistenze democratiche. Carola Rackete ha vinto da un punto di vista politico e simbolico. Una donna intelligente e coerente che cerca chiaramente di salvare delle persone, un politico che se ne frega. Quello è stato il punto di svolta che ha incrinato la sua narrazione, non il suicidio del Papeete”.
Sansonetti: “Non credo ai complotti, ma al fatto che i magistrati abbiano un potere mostruoso e sproporzionato in uno Stato di diritto e che, oltretutto, si rincorrono nella gara al più forcaiolo. Non basta che un procuratore dica: ‘qui non c’è nulla’ perché comunque arriva un tribunale dei ministri che respinge la richiesta di richiesta del procuratore e voglio che l’imputato sia processato ugualmente. Molto spesso mi si dice: ‘Ma come? L’hanno esaminato in nove magistrati. Perché hai ancora dubbi?’. Semplice, perché quei nove sono una garanzia per l’accusa e non per l’imputato. Di quei nove almeno uno sarà forcaiolo? Basta uno che ti perseguita, gli altri otto, che magari sono persone normali, non contano nulla. È il caso di Cosentino che "vanta" nove anni di persecuzioni, tre anni di prigione e 520 citazioni come mafioso da parte del Fatto Quotidiano e come lui ce ne sono tanti altri di innocenti. Salvini è solo il caso più eclatante. Credo che esista un meccanismo che consenta a un numero limitato di persone non particolarmente preparati, i magistrati d’assalto che possono disporre delle nostre vite come vogliono. Possono annientarci come i bounty-killer nel Far-West, ma almeno cercavano i criminali. Loro cercano chiunque …”
A tal proposito, la leadership di Salvini si è incrinata oppure no?
Raimo: “La sua narrazione è incrinata certo perché non ha saputo rinnovarsi di fronte a una realtà che mutava. Nel marzo 2019 ci sono 5 manifestazioni politiche portano in piazza una nuova generazione al di là dei partiti: 2 marzo People, 8 marzo sciopero femminista, 15 marzo sciopero globale per il clima, 23 marzo ambientalismo contro le grandi opere, 29 marzo contro ddl e convegno sulle famiglie. Con questa generazione politica Salvini non ha carisma. La risposta di Simone di Torre Maura, 15 anni, non tanto "Non me sta bene che no", ma "È che è colpa dei rom?" alla retorica salviniana o fascistoide sulla criminalizzazione dei migranti, degli stranieri, e sul tentativo di dividere poveri italiani e poveri stranieri, è perfetta”.
Sansonetti: “Sì, si è incrinata e non solo per i casi giudiziari. Salvini ha fatto degli errori molto gravi, come spesso fanno i leader politici che guadagnano troppi consensi in un tempo troppo breve. In politica non è prevedibile che un partito, in sei mesi, vada dal 12-13% al 35%. È difficilissimo gestirlo e Salvini non ci è riuscito. Il caso giudiziario gli ha portato solo popolarità perché l’opinione pubblica se deve esprimere un giudizio si esprime a favore di Salvini, diversamente da come farei io".
GREGORETTI,PM RISOLLECITA ARCHIVIAZIONE. Da RaiTelevideo il 3 ottobre 2020. La Procura di Catania ha nuovamente richiesto, come aveva fatto nella prima fase del procedimento, a settembre, l'archiviazione di Matteo Salvini dall'accusa di sequestro di persona per la gestione dello sbarco di 131 migranti dalla nave Gregoretti quando era ministro dell'Interno per governo Conte. In aula, per l'accusa, è presente il sostituto procuratore Andreas Bonomo. L'udienza davanti al gup Nunzio Sarpietro sta proseguendo con l'intervento dell'avvocato Giulia Bongiorno per la difesa.
Da corriere.it il 3 ottobre 2020. Il leader della Lega arriva al Tribunale di Catania, in piazza Verga, per l’udienza preliminare sulla vicenda della nave Gregoretti per la quale è accusato del sequestro aggravato dei 131 migranti a bordo. Il segretario leghista era accompagnato dal suo avvocato, l’ex ministro Giulia Bongiorno. Tutta la piazza è transennata e presidiata da carabinieri e polizia in vista della manifestazione organizzata nella vicina piazza Trento.
(LaPresse il 3 ottobre 2020) - Dista solo 500 metri dal tribunale di Catania la contro manifestazione organizzata da Rete Mai con Salvini. Mentre è in corso l'udienza preliminare per il caso Gregoretti, che vede indagato Matteo Salvini per sequestro di persona, quando era ministro dell'Interno, in piazza Trento è stato steso uno striscione con su scritto 'Abbiamo già la sentenza: Salvini merda". Distribuiti anche centinaia di rotoli di carta igienica con la foto del leader leghista. Oggi prenderà il via l'udienza preliminare sulla vicenda della nave Gregoretti per la quale Matteo Salvini è accusato del sequestro aggravato dei 131 migranti a bordo, punibile con una pena che può arrivare anche a 15 anni di carcere.
Luca Sablone per ilgiornale.it il 3 ottobre 2020. L'ex ministro dell'Interno impedì l'attracco in porto tra il 27 e il 31 luglio 2019, obbligando dunque l'intero equipaggio a rimanere a bordo. Il leader della Lega si presenterà alla prima tappa di un procedimento in cui si deciderà se archiviare o meno la richiesta di rinvio a giudizio. L'udienza si svolgerà a porte chiuse: nel palazzo di giustizia sarà consentito l'accesso solamente a 200 giornalisti accreditati; in aula i nigeriani Jafra e Aishat Saha e i loro tre figli (che fanno parte dell'unica famiglia di migranti arrivata con la Gregoretti e rimasta in Sicilia) si costituirà parte civile con l'avvocato Massimo Ferrante. "Ho fiducia, non ci permetteremmo mai di fare pressioni sul tribunale", dice sicuro il segretario federale del Carroccio. In realtà la situazione è piuttosto delicata e il nervosismo è umanamente comprensibile. Anche perché l'avvocato Giulia Bongiorno ha ricordato come si rischi davvero grosso con certe imputazioni. Nel corso della serata di ieri si è discussa della strategia da adottare: fonti della Lega avevano fatto sapere che solamente oggi Salvini avrebbe preso le decisioni sull'udienza preliminare. L'ex vicepremier ha comunque escluso la possibilità di chiedere il rito abbreviato; non è da escludere che i giudici sentano anche il premier Giuseppe Conte e il ministro Luigi Di Maio. Intanto il leader del partito di Via Bellerio è arrivato in auto in piazza Verga davanti al Palazzo di giustizia, accompagnato dal suo avvocato ed ex ministro Giulia Bongiorno. Tutta la piazza è transennata e presidiata da carabinieri e polizia in vista della manifestazione organizzata nella vicina piazza Trento. Il centrodestra si è mostrato nuovamente unito e compatto: Giorgia Meloni e Antonio Tajani hanno incontrato a Catania il segretario della Lega per dargli il proprio sostegno. Il vicepresidente di Forza Italia sul proprio profilo Twitter ha pubblicato una foto allegando una breve dichiarazione per spiegare il motivo della presenza al fianco di Salvini: "Per una giustizia giusta e non politicizzata, per difendere il diritto della politica di prendere decisioni". La solidarietà degli alleati rappresenta anche un'occasione per ribadire la necessità di un equilibrio tra poteri: "La politica ha il diritto di poter decidere senza interferenze da parte degli altri poteri". Tajani ha telefonato a Silvio Berlusconi per portargli il saluto dell'intera coalizione, per aggiornarlo sull'esito dell'incontro a tre e per fare il quadro della situazione politica in vista dei ballottaggi. Fonti azzurre riferiscono infine che il Cav ha inviato saluto ai dirigenti siciliani che oggi saranno coinvolti in diverse iniziative. Anche Giorgia Meloni è intervenuta a gamba tesa contro la sinistra. Il motivo più importante dell'iniziativa è chiaro: "Non comprendo come alcune forze politiche non si rendano conto della mostruosità che sta avvenendo oggi". A questo punto la domanda sorge spontanea: "Se nel sistema politico italiano un ministro non può più fare quello che la stragrande maggioranza dei cittadini gli ha chiesto, difendendo le leggi e i confini della nazione, i cittadini per cosa dovrebbero votare?". Effettivamente un avversario politico andrebbe battuto con le regole della democrazia e non provandolo a chiudere in galera: "Questo accade nei regimi e lo considero mostruoso". L'ex ministro della Gioventù ha infine fatto sapere di aver visto Salvini "sereno, tranquillo, molto reattivo e combattivo". "Penso che nessuno per aver fatto quel lavoro avrebbe potuto immaginare di finire in tribunale", ha concluso la Meloni.
Caso Gregoretti, la Procura chiede nuovamente il “non luogo a procedere” per Salvini. Il Corriere del Giorno il 3 Ottobre 2020. Il gup Nunzio Sarpietro, dopo due ore di camera di consiglio, ha letto in aula l’ordinanza con cui chiede il rinvio dell’udienza preliminare al 20 novembre nell’aula bunker del carcere di Bicocca per sentire Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli e il 4 dicembre Elisabetta Trenta, Luciana Lamorgese e l’ambasciatore italiano in Europa Maurizio Massari sul caso Gregoretti. Il pubblico ministero Andrea Bonomo della Procura di Catania ha chiesto al giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro l’archiviazione per il reato di sequestro di persona aggravato nei confronti di Matteo Salvini. Tutto come previsto, e come aveva fatto nella prima fase del procedimento, l’archiviazione di Matteo Salvini dall’accusa di sequestro di persona aggravato per aver trattenuto per cinque giorni a bordo della nave della Guardia Costiera “Gregoretti” 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo a luglio 2019. L’avvocato Giulia Bongiorno difensore di Matteo Salvini ha chiesto sentenza di “non luogo a procedere” perché il fatto non sussiste, ed inoltre ha richiesto un approfondimento probatorio da parte del giudice al fine di accertare se le procedure di sbarco indicate nel capo di imputazione sono tutt’ora seguite dal Governo Conte 2, procedendo anche all’audizione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. In questo assurdo processo peraltro senza accusa in aula, toccherà al presidente Nunzio Sarpietro tornare ad indossare le vesti del vecchio giudice istruttore. Si concluderà oggi con tutta probabilità l’udienza preliminare con la richiesta di acquisizione di nuovo consistente materiale probatorio su diversi altri sbarchi in cui i migranti sono stati trattenuti e sulle eventuali responsabilità di governo e, se riterrà, con nuove testimonianze dopo lo studio delle carte. L’ex ministro dell’Interno rischia fino a un massimo di 15 anni per sequestro di persona nei confronti dei 131 migranti che rimasero quatto giorni sulla nave militare italiana Gregoretti, prima di poter sbarcare il 31 luglio 2019. Ma rispetto all’ipotesi di chiedere il giudizio abbreviato, nega categoricamente e anzi, a margine del palco, dice: “Non ci sarà proprio un processo”. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania dovrà quindi decidere se prosciogliere o rinviare a giudizio l’ex vicepremier per un’accusa che la procura catanese ha chiesto di archiviare ma che il tribunale dei ministri ha sostenuto, fino al sigillo finale messo dal Senato il 12 febbraio scorso, chiedendo che il leader della Lega andasse a processo. Salvini sottolinea anche che la sua vicenda potrebbe essere un brutto precedente: “Non so se è la prima volta che in Europa che un ex ministro è processo non per reati economici, ma per un’azione di governo” aggiungendo “Stanotte dormirò sereno, c’è qui la mia compagna. Il rosario ce l’ho in tasca, ma lo tengo per me“. Il leader della Lega ammette che “questo 3 ottobre me lo ricorderò comunque vada”, ma insiste: “Sarei preoccupato se avessi la coscienza sporca, ma ho fatto solo il mio dovere”. Matteo Salvini denuncia la contromanifestazione a poca distanza dal tribunale, a cui ha aderito il Pd organizzata da centri sociali . E rivolgendosi ai giornalisti ricorda: “Domani la Lega non ha organizzato nessuna manifestazione davanti al tribunale, mai mi sarei permesso di andare a occupare il libero e legittimo lavoro della magistratura e mi spiace che lì ci sia un partito che di democratico ha solo il nome e va in piazza augurando galere“. “Grazie davvero a Giorgia Meloni e ad Antonio Tajani che questa mattina a Catania, prima dell’udienza in tribunale, mi hanno portato la loro solidarietà e il sostegno delle comunità politiche che rappresentano” ha scritto il leader della Lega Matteo Salvini in un tweet mostrando anche la foto dei tre insieme, stamattina per un caffè sul lungomare di Catania, un forte segnale dell’unità del centrodestra “Sono contenta che qualcuno lo dica – ha risposto ai cronisti Giorgia Meloni la leader di Fratelli d’Italia a margine di un flash mob a Catania – perché io leggo solo di presunte divaricazioni, competizioni, uno contro l’altro. Capisco che compatti facciamo paura, ma nelle questioni fondamentali abbiamo sempre dimostrato di esserci“. “E’ un nostro solido alleato – ribadisce la Meloni – Ma ci siamo anche e soprattutto per difendere un principio sacrosanto: un ministro che fa quello che la maggioranza degli italiani gli ha chiesto di fare, non può essere processato per questo“. In tribunale è arrivato anche il senatore Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia), accompagnato da alcuni carabinieri ma non è entrato nell’aula Fama’ dove è in corso l’udienza preliminare. “Sono qui per esprimere solidarietà a Matteo Salvini, sono molto fiducioso dell’azione della magistratura impegnata in questa udienza e confido in un esito positivo e rapido”, ha detto aggiungendo: “Non sono entrata in aula ma ho sbirciato – dice – il mio convincimento è che il giudizioso sarà positivo”. Il gup Nunzio Sarpietro, dopo due ore di camera di consiglio, ha letto in aula l’ordinanza con cui chiede il rinvio dell’udienza preliminare al 20 novembre nell’aula bunker del carcere di Bicocca per sentire Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli e il 4 dicembre Elisabetta Trenta, Luciana Lamorgese e l’ambasciatore italiano in Europa Maurizio Massari sul caso Gregoretti. L’ordinanza ha disposto inoltre l’acquisizione di tutto il nuovo consistente materiale probatorio su diversi altri sbarchi in cui i migranti sono stati trattenuti e sulle eventuali responsabilità di governo.
Da ilmessaggero.it il 3 ottobre 2020. Ferita da una lastra di marmo staccatasi da una parete, l'avvocato Bongiorno ha lascia il tribunale in sedia a rotelle. «Voglio raccontare una nota a margine davvero surreale: l'avvocato Bongiorno è entrata in Tribunale sulla sue gambe ed è uscita sulla sedia a rotelle perché in attesa che il giudice uscisse dalla camera di consiglio una lastra di marmo di 50 kg si è staccata dalla parete piombando sulla caviglia di Giulia Bongiorno, arrivata a metà tra la caviglia e il tendine. Ditemi voi se è normale». Lo ha detto Matteo Salvini durante la conferenza stampa a Catania. «Ovviamente la responsabilità non la do al Presidente del Tribunale - dice - chiedo al ministro Bonafede se è normale che in un tribunale si stacchino lastre di marmo sulle gambe degli avvocati presenti. Penso che si chiuderà un processo e se ne aprirà un altro». «L'immagine che diamo dell'Italia nel mondo è quantomeno particolare», ha detto.
Gregoretti, il giudice: "Molte contraddizioni nelle accuse contro Matteo Salvini". Le spiegazioni arriveranno da Giuseppe Conte? Libero Quotidiano il 04 ottobre 2020. Il primo round lo ha stravinto Matteo Salvini. Si parla del processo Gregoretti a Catania, la cui udienza preliminare è stata aggiornata al prossimo 20 novembre. Il leader della Lega era pronto a fare dichiarazioni spontanee, ma dopo che il giudice Nunzio Sarpietro è entrato in camera di consiglio e ne è uscito comunicando lo slittamento e la convocazione di sei testimoni - tra cui Giuseppe Conte, Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta - Salvini è rimasto in silenzio, ad ascoltare, "pregustandosi" il momento in cui la farsa di chi lo ha spedito a processo crollerà anche nel tribunale di Catania. Certo, ancora non vi è una decisione sul suo rinvio a giudizio, ma queste convocazioni sembrano deporre a suo favore. In attesa del 20 novembre, il giudice ha ordinato alla Polizia Giudiziaria, spiega il Corriere della Sera, di "accertare quanti e quali episodi simili a quello della nave Gregoretti si sono verificati nel periodo in cui l'inquisito rivestiva la carica di ministro dell'Interno, estendendo l'accertamento anche agli sbarchi avvenuti successivamente, quando è cambiata la compagine di governo", il presupposto in base al quale tra i testimoni è stata convocata anche Luciana Lamorgese. Mossa inconsueta, quella del giudice, dettata dal fatto - paradossale - che all'udienza non vi erano rappresentanti dell'accusa. Tanto che Sarpietro scrive nell'ordinanza che "la vicenda processuale appare del tutto singolare giacché ci si trova di fronte a un manifesto contrasto tra la Procura e il Tribunale-Sezioni reati ministeriali". E ancora, "il fascicolo fornisce elementi anche di carattere contraddittorio ai fini della prospettazione accusatoria". Insomma, molti dubbi. Molte "contraddizioni". Che ora Conte, Toninelli e compagnia cantante dovranno spiegare davanti al giudice. Magari pentendosi di aver spedito goffamente Salvini a processo.
Ad accusare l'ex ministro sono rimasti 2 nigeriani e associazioni di sinistra. Legambiente e Arci parti civili: "È ecologia umana". Un ex Pci guida gli ambientalisti. Fausto Biloslavo, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. Ma chi vuole veramente la condanna dell'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini per il caso Gregoretti? Un ex comunista a capo di Legambiente Sicilia, una coppia di migranti nigeriani «sequestrati» per meno di un giorno, l'ultrasinistra dell'Arci, «sempre attiva e resistente» oltre che un'onlus di Siracusa per i minori non accompagnati. Si sono costituiti tutti parte civile a Catania contro il leader della Lega, dove la Procura rimane convinta «dell'infondatezza del reato». «L'accusa in questo processo è stata rappresentata solo dalle parti civili» ha dichiarato con orgoglio l'avvocato Daniela Ciancimino, che rappresenta Legambiente. In teoria dovrebbe trattarsi solo di un'associazione ecologista, ma in realtà è stata propio la costola siciliana a dare vita al processo Salvini presentando un esposto alla procura di Siracusa il 31 luglio 2019 sul «sequestro» dei migranti a bordo di nave Gregoretti della Guardia costiera. Non è un caso: il presidente di Legambiente Sicilia, Gianfranco Zanna, come si legge sul sito dell'associazione «ha un passato di politico, cresciuto tra i giovani comunisti () È stato dirigente del Pci e poi del Pds, facendo, tra l'altro, anche il parlamentare regionale dal 1996 al 2001». «La costituzione di parte civile - dichiarano i vertici di Legambiente - è un fatto importante perché viene riconosciuto il nostro impegno contro ogni ingiustizia promuovendo un'ecologia umana legata alla centralità delle persone. Non si possono alzare muri e barricate né chiudere i porti contro il dramma dell'immigrazione». Quando si presentano in tv per le Golette verdi, però, non spiegano che sono ecologisti ideologizzati: «Quanto accaduto sulla Gregoretti un anno fa è un fatto grave e inammissibile frutto di scelte politiche inconcepibili». Subito dopo aver presentato l'esposto scrivevano: «Perché ci occupiamo di migranti? Ci siamo sempre occupati di ambiente ma anche di essere umani a prescindere dal loro passaporto, perché pratichiamo da 39 anni l'ecologia umana di cui parla anche Papa Francesco». Al loro fianco come parte civile per chiedere una condanna esemplare c'è l'Arci, l'organizzazione delle case del popolo e dei circoli ricreativi di sinistra. Il 5 per mille lo hanno donato a Mediterranea, il cartello degli estremisti come Luca Casarini, che ha comprato nave Mare Jonio, più volte sequestrata, dopo avere fatto sbarcare i migranti illegali in Italia. L'Arci è stata aiutata anche dal discusso miliardario George Soros, come ha confermato al Giornale il rappresentante in Europa della Open society foundation. Oltre ai big si è fatta avanti come parte civile l'onlus di Siracusa AccoglieRete. «I minori a bordo della Gregoretti sono stati fatti scendere solo su disposizione del Tribunale dei minori e non perché lo ha deciso l'allora ministro Salvini. Li ha lasciati a bordo per giorni sotto 37 gradi e con un solo bagno. Tenuti in ostaggio per ottenere dall'Europa la redistribuzione dei migranti. Merita il rinvio a giudizio», ha sentenziato ieri Carla Frenguelli, a capo dell'associazione che si occupa di minori non accompagnati. Sulla sua pagina Facebook ha postato le foto della nave «anarchica» Louise Michel finanziata dal misterioso Bansky, artista e furbone di strada, per recuperare migranti partiti dalla Libia e portarli da noi. Inevitabile che fra i partner della onlus ci siano la solita Arci, l'Asgi, associazione di avvocati che difendono le Ong, Emergency, l'Unhcr, costola dell'Onu per i rifugiati e alcune università come quella di Catania. E i migranti? Come parte civile, si sono presentati solo due, una coppia di nigeriani, Jafra e Aishat Saha con i loro figli, sui 116 che erano a bordo di nave Gregoretti. La signora, che era incinta, ha raccontato che «neanche gli animali vengono trattati così male», come se l'Italia fosse peggio dei trafficanti libici. Peccato che Aishat, proprio per la gravidanza all'ottavo mese, il marito ed i due figli di 10 e 6 anni siano stati sbarcati dal Gregoretti appena dopo 20 ore di attesa in rada. Il «sequestro» più breve della storia anche rispetto al pugno di giorni contestati a Salvini per gli altri migranti.
Paolo Bracalini per “il Giornale” il 5 ottobre 2020. Il fronte antileghista è rimasto parecchio deluso dall'esito dell'udienza preliminare a Catania. L' accusa si sgretola (il pm ha chiesto l' archiviazione), il giudice rileva molte contraddizioni e per giunta tira in mezzo Conte, Di Maio e altri ministri, nessuno di loro leghista. La grande «rosicata» di chi sognava un processo per sequestro di persona per Salvini si consuma perlopiù in silenzio, ma in altri casi si manifesta in modo evidente. Qualcuno non trattiene la delusione, come Roberto Saviano, che la fa esondare sui social. «Salvini organizza uno show a Catania per rivendicare il diritto a privare migranti della loro libertà senza alcun motivo, se non quello di salvare una carriera politica già finita» sentenzia lo scrittore napoletano. Leggendo i giornali di area opposta alla Lega, poi, bisogna impegnarsi per capire cosa sia successo nell' aula del Tribunale di Catania. Su Repubblica il fatto che il pm abbia chiesto di archiviare è nascosta tra le righe del pezzo, completamente assente nella titolazione. Sul Manifesto Salvini, vincitore (insieme al suo avvocato Giulia Bongiorno) del primo round sulla Gregoretti, resta comunque «un leader sotto assedio». Ancora più acrobatica la scelta del Fatto Quotidiano, giornale solitamente molto scrupoloso nel riportare le vicende giudiziarie. Stavolta che è andata bene a Salvini, però, l'udienza preliminare diventa una questione secondaria. Il direttore Travaglio sceglie infatti di titolare sui pochi fan leghisti all' esterno del Tribunale di Catania (la Lega non aveva organizzato volutamente alcuna manifestazione fuori dal Tribunale) e il flop di chi lo voleva al gabbio per sequestro di persona, diventa invece il flop di Salvini che «sognava una piazza anti-giudici ma dopo l' udienza niente folla né martirio». Molto deluso anche l' inviato di Piazza Pulita, che in conferenza stampa ha chiesto a Salvini se almeno «a livello umano», visto che da quello giudiziario si mette male per i colpevolisti, non si sentisse «in imbarazzo per aver lasciato delle persone che scappavano dalla guerra per cinque giorni in mare in acque italiane». Sicuramente affrante anche le Sardine, che non commentano direttamente l' esito dell' udienza ma, in contemporanea, twittano un «Restiamo umani» a proposito degli sbarchi a Lampedusa. Non l' hanno presa bene neppure le associazioni filo-Ong, antirazziste, centri sociali e sigle della sinistra estrema che si erano organizzate per contestare la Lega a Catania. Quelli di «Mai con Salvini - Sicilia», promotori della manifestazione (questa sì un mezzo flop) contro le politiche di odio e di discriminazione», provano a consolarsi condividendo il parere di un avvocato esperto di diritti umani, pubblicato sul sito della Adif-Associazione Diritti e Frontiere. «La privazione arbitraria della libertà personale dei naufraghi soccorsi da nave Gregoretti si può ricavare già in base alla legislazione italiana vigente a quel tempo, e tanto dovrebbero fare i giudici. Una decisione su questo caso stabilirà il livello effettivo di rispetto in Italia dello Stato di diritto». In sostanza, se i giudici non condanneranno Salvini, l' Italia non si potrà più considerare una vera democrazia. Ma altri fini giuristi avevano già la sentenza in tasca, senza bisogno di scomodare il gup di Catania. Ad esempio i giudici di Ballando con le stelle. Secondo lo stilista venezuelano Guillermo Mariotto, esperto di moda, «il gesto di Salvini contro i migranti è anticostituzionale. A mio avviso si è trattato di abuso di potere». Parola di giudice.
Massimiliano Scafi per “Il Giornale” il 5 ottobre 2020. Un anno fa, a luglio, il Giuseppe Conte oggi capo di un governo giallorosso era ancora il Conte Giuseppe capo di un governo gialloverde, con un ministro dell' Interno piuttosto agitato che aveva appena ordinato di lasciare a bordo per cinque giorni sotto il solleone di Catania 131 migranti per fare pressione sulla Ue. E lui, il premier, sapeva? Era d' accordo con questa strategia muscolare? Probabile: era, appunto, il capo del governo. E adesso che lo hanno convocato i giudici, parlerà? E gli altri ministri coinvolti, tutti grillini, faranno luce? «Sono a completa disposizione - assicura Conte - Riferirò tutte le circostanze di cui sono a conoscenza, in penna trasparenza, come ho fatto sempre». Ma qui, su quel sempre, scattano i dubbi. Possibile che Matteo Salvini abbia deciso tutto da solo? Che bloccare al molo la nave Gregoretti non fosse una scelta politica comune? Salvini è convinto «di aver agito nell' interesse nazionale» e «con il consenso dell' intero esecutivo», Conte afferma invece che il caso Gregoretti non è mai stato discusso in Consiglio dei ministri né in altre sedi ufficiali. Il leader della Lega insiste e sostiene di avere sms e WhatsApp, le prove cartacee e digitali dei contatti che avrebbero coinvolto Conte, l' Unione Europea e la Conferenza episcopale. Palazzo Chigi smentisce da quindici mesi. Chissà se il tribunale di Catania riuscirà a sciogliere il giallo. Ma andando indietro nel tempo, qualcuno al governo sapeva- Per esempio Alfonso Bonafede. Sarebbe stato interessante sentirlo (non è tra i ministri convocati, ndr). Secondo il Caroccio il Guardasigilli, nella trasmissione In Onda su La7, il 30 luglio 2019 aveva ammesso la collegialità della decisioni. «C' è un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell' Interno e della Difesa. La posizione e sempre la stessa, vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevano scendere sono scese, tuttavia del problema dell' immigrazione deve farsi carico la Ue». Quanto a Conte, «lo ringrazio perché continua a porre la questione nelle cancellerie d' Europa». Anche Luigi Di Maio, che invece sarà sentito il 4 dicembre, forse avrà qualcosa da dire. Lui, all' epoca vicepremier, il 31 luglio copriva ancora Salvini chiedendo un intervento di Bruxelles per la redistribuzione degli emigrati in tutti gli Stati membri. «L' Italia non può sopportare nuovi sbarchi, noi abbiamo dato come Paese e quei migranti devono andare in Europa. Non si trattino i nostri militari sulla nave Gregoretti come dei pirati, vogliamo rispetto per la nostra Marina e le nostre forze dell' ordine». Insomma, si chiedono i magistrati di Catania, trattenere 131 disperati sulla Gregoretti in attesa dell' Europa, fu soltanto «atto amministrativo» deciso dal Viminale o un «gesto politico» avallato da tutto l' esecutivo? Una domanda che verrà rivolta a Elisabetta Trotta, ministro della Difesa del Conte 1, quando comparirà alla sbarra. E pure a Danilo Toninelli, un altro che potrebbe fare chiarezza. «La questione migratoria - dichiarava il 28 luglio l' ex ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - riguarda tutto il continente. L' Unione Europea risponda».
Giulia Bongiorno, ecco l'audio di Conte che lo inguaia sulla Gregoretti: "Prima i ricollocamenti", Salvini scagionato? Libero Quotidiano l'11 ottobre 2020. "Prima i ricollocamenti". Ecco l'audio che secondo Giulia Bongiorno, avvocato difensore di Matteo Salvini nel processo Gregoretti, inchioderebbe il premier Giuseppe Conte alle sue responsabilità. Se sequestro di persona dei migranti c'è stato davvero (e la stessa accusa del processo catanese pensa di no), allora il responsabile è da ritenere il presidente del Consiglio, e non solo perché la decisione dell'allora ministro degli Interni Salvini di non far sbarcare i migranti fu "collegiale", presa cioè da tutto il governo in solido. Come spiega il Giornale, l'audio a cui aveva fatto cenno la Bongiorno a Tagadà su La7 qualche giorno fa "non è, come qualcuno aveva pensato a botta calda, la registrazione di una riunione del Consiglio dei ministri", e in quanto tale "la utilizzabilità del documento sarebbe tutta da verificare". No, quelle parole Conte le ha pronunciate in conferenza stampa, nel discorso di fine anno 2019, un video ancora presente su Youtube. "Davanti ai giornalisti, il 28 dicembre scorso - sottolinea il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti - Conte offrì la su versione sul caso della Gregoretti, che pochi giorni dopo sarebbe approdato all'esame della giunta per le autorizzazioni a procedere. Fu una scelta condivisa con lei, gli venne chiesto, come dice Salvini? «Sicuramente dal primo riscontro c'è stato un coinvolgimento della presidenza come è sempre avvenuto per la ricollocazione, perché per quanto riguarda le ricollocazioni abbiamo sempre a livello di presidenza con l'aiuto del ministero degli Esteri lavorato noi per ricollocare e consentire poi lo sbarco". Eccolo, il passaggio chiave. "Per la Bongiorno è esattamente quanto spiega di avere fatto Salvini: prima di lasciar scendere i migranti, aspettare gli impegni dell'Europa". Anche di questo dovrà rendere conto il premier, davanti a giudice e pm.
Ong, senza la Lega la sinistra non sale più in barca: Orfini, Delrio, Boschi, Prestigiacomo non pervenuti. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 06 ottobre 2020. Hanno preferito tirare i remi in barca e attraccare, rimettendo i piedi a terra, dopo aver sognato di scrivere un nuovo romanzo d'avventura: "Venti pirla contro la Lega sopra i mari". Hanno perso anche lo slancio umanitario, la voglia di scendere in campo, o meglio in plancia, e improvvisamente hanno scoperto di soffrire di mal di mare e di non potersi più permettere certe strapazzate Dal barcone sono tornati in Transatlantico. Eppure come te li vedevi tronfi, fino a qualche tempo fa, mentre ci mettevano la faccia e il fisico e giocavano a fare i piccoli eroi, i salvatori dell'umanità, salpando a bordo di gommoni e navi Ong per offrire la loro testimonianza, dare il loro contributo alla nobile causa dei Migranti, predicare l'apertura di porti e confini e dire evangelicamente che è possibile scendere dagli scranni del potere e sedersi umilmente tra gli ultimi. Te li ricordi bene i volti dei parlamentari Graziano Delrio, Matteo Orfini, entrambi del Pd, e di Nicola Fratoianni di Leu, mentre si imbarcavano nel giugno 2019 sulla Sea Watch 3, la nave incriminata (in tutti i sensi) di Carola Rackete che Salvini non voleva a nessun costo approdasse sulle nostre coste, sbarcando migranti illegali. Ma loro, i magnifici tre, erano saliti sull'imbarcazione per incoraggiare la violazione delle regole, poco prima che la Rackete, in modo sempre molto democratico, entrasse di forza nelle nostre acque territoriali e speronasse una motovedetta della Guardia di Finanza. Loro erano lì, a fare da testimoni della Verità e della Giustizia contro le Leggi ingiuste di Salvini. Così come era lì, nel Mediterraneo, Fratoianni, stavolta in compagnia della deputata forzista Stefania Prestigiacomo e del parlamentare di +Europa Riccardo Magi, a bordo di un gommone, nel gennaio del 2019, sfidando il freddo e l'imbarcazione della Guardia Costiera, per chiedere lo sbarco dei disperati fermi sulla Sea Watch.
BOSCHI E FIANO. Su una nave, stavolta la Diciotti della Guardia Costiera, era salita anche la renziana Maria Elena Boschi insieme a Emanuele Fiano del Pd, nell'estate 2018, per denunciare il presunto «sequestro» dei migranti a bordo. Viene facile fare la battuta: quest' estate la Boschi, anziché su una nave di migranti, ha preferito salire sull'imbarcazione dei suoi amici, per farci le vacanze, come testimoniato da una foto molto discussa Ma è tutto l'esaurirsi dell'andazzo, del traffico marittimo di parlamentari, a risultare molto interessante. Ora che al governo c'è il timoniere Conte in versione Bis (cioè, filo-sinistra), ora che Salvini non sta più al Viminale, ma è alla sbarra, in tribunale, non c'è più urgenza, vocazione, dovere politico di presenziare su una nave piena di migranti. Eppure la situazione continua a essere drammatica, eppure i disperati continuano a essere torturati nei campi libici, eppure i Decreti Sicurezza di Salvini sono ancora in vigore, eppure le navi delle ong continuano a essere fermate e sequestrate nei porti italiani, anche se ufficialmente per ragioni amministrative (solo quest' estate sono state poste sotto sequestro la Ocean Viking, la Sea Watch 3, la Sea Watch 4 e la Mare Jonio).
SANDRO VERONESI. Come ha detto di recente Luca Casarini, capo missione della Mare Jonio e non certo accanito tifoso di Salvini, «tutte le navi sono di fatto bloccate dal governo italiano. Questa è proprio una volontà governativa. Nonostante le belle parole e i proclami, siamo tornati nella situazione in cui tutte navi del soccorso in mare organizzate dalla società civile sono sotto blocco». Ci sarebbe materiale a sufficienza per prendere di nuovo il mare, per andare al largo, per obbedire a quell'appello rivolto a personaggi noti e intellettuali un paio di anni fa dallo scrittore Sandro Veronesi di mettere i propri corpi a disposizione per salire sulle navi delle ong (poi però, guarda caso, Veronesi non si è mai visto a bordo...). Ci sarebbero tutti gli elementi per indurre un milionario come Richard Gere a imbarcarsi di nuovo sulla Open Arms, portando cibo e assistenza; o per spingere una star come Angelina Jolie a incontrare i migranti su una nave a Malta o a far visita a Lampedusa, come ha fatto alcuni anni fa. E invece no, vip e parlamentari ora se ne stanno rincantucciati in casa, preferiscono il calduccio delle loro dimore allo sbattimento della traversata, né fanno più sit-in, visite ispettive, gesti clamorosi per chiedere di accogliere i migranti fermi sulle navi bloccate. Sì, è vero, il governo Conte Bis è molto più di maglie larghe, tant' è che gli sbarchi sono triplicati rispetto a un anno fa. Ma non è questo il punto. Il punto è che non c'è più Salvini. Il punto è che il loro viaggio in barca non sarebbe più un'efficace misura spot, apprezzata dal pubblico plaudente del politicamente corretto. Né servirebbe più a presentarli come paladini contro le ingiustizie e testimoni di umanità. Verrebbe meno l'occasione di farsi pubblicità sulla pelle dei migranti. E allora capisci quanta miseria ci sia dietro la loro presunta vocazione umanitaria. La verità è che a tutti costoro gliene frega poco o nulla dei disperati. Non hanno a cuore la loro Salvezza, hanno a cuore solo la polemica contro Salvini. "Nel 2019 sul barcone, nel 2020 nel salotto buono", canterebbero oggi gli Afterhours, denunciando la doppia morale dei radical chic. Gente navigata, sì. E anche molto paracula.
FABIO ALBANESE per lastampa.it il 12 dicembre 2020. A metà mattinata, e appena conclusa la sua deposizione nell’aula bunker di Bicocca all’udienza preliminare per il processo Gregoretti, l’ex ministro delle infrastrutture esce dall’aula e affronta giornalisti e telecamere per dire: «Ho risposto a tutte le domande che mi sono state poste». La difesa di Salvini? «Vuole scaricare su di me la responsabilità dei porti chiusi e della mancata concessione dei pos, il porto sicuro, quando è scritto chiaramente che quella responsabilità spetta al ministro dell’interno». Toninelli era il primo dei due testimoni che oggi depongono al processo, presente in aula Matteo Salvini che rischia il rinvio a giudizio per sequestro di persona e abuso d’ufficio. L’altra è la ex ministra della difesa Elisabetta Trenta che dopo meno di un’ora di deposizione e aver risposto alle domande dell’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Salvini, ha lasciato l’aula bunker senza aver voluto incontrare i giornalisti. La deposizione di Toninelli, in effetti, almeno in quei pochi minuti nei quali ai giornalisti è stato concesso di entrare in aula, è stata condita da diversi «non ricordo» a domande sulla gestione di altri casi di salvataggi in mare di migranti, già a partire dal 2018, anno precedente al caso Gregoretti, e da una precisazione: «Il governo si occupava di trovare presso altri Stati la collocazione dei migranti, ma ognuno era un caso a sé». Come dire, la fase della concessione del pos e della gestione dello sbarco dei migranti era cosa diversa da dove poi sarebbero stati portati. Ai giornalisti fuori dall’aula bunker, l’ex ministro M5S ha dunque fatto quelle dichiarazioni, come a voler allontanare da sé i sospetti avanzati dalla difesa. Poi, come è arrivato, è andato via in taxi senza voler rispondere ad alcuna domanda. La risposta di Salvini è arrivata immediata: «Toninelli non c’era e se c’era dormiva». L’udienza preliminare, presieduta dal capo dei gip di Catania Nunzio Sarpietro, si è conclusa poco dopo le 13, dopo le dichiarazioni spontanee dell’ex ministro Salvini che, all’ingresso stamattina, aveva ribadito di avere agito nell’interesse degli italiani e di come durante la sua gestione del Viminale, siano diminuiti sbarchi e morti in mare. Al termine dell’udienza si è poi appreso che il gup Sarpietro sentirà il prossimo 28 gennaio prossimo, come testimone, il premier Conte il quale ha chiesto di essere ascoltato a Palazzo Chigi. Le date in cui saranno sentiti l’attuale ministro dell’interno Lamorgese e l’allora ministro dello sviluppo economico, oggi degli Esteri, Di Maio, si dovrebbero sapere lo stesso 28 gennaio.
Da repubblica.it il 12 dicembre 2020. Eccola la "prova" con cui l'avvocato Giulia Bongiorno intende inchiodare il primo governo Conte alle sue responsabilita', in questo caso quelle di aver condiviso con Matteo Salvini la decisione di tenere bloccati a bordo della nave Gregoretti i 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo una settimana prima fino a quando dalla commissione Ue non fosse arrivato l'impegno ai ricollocamenti. La "prova", come la chiama il difensore di Salvini, ha la voce del premier che, alla conferenza stampa di fine 2019 a Palazzo Chigi, dice di non avere ricordo di un suo coinvolgimento diretto nella decisione riguardante lo sbarco dalla Gregoretti ma ammette quella che sarebbe stata sempre la linea di condotta del governo gialloverde: prima i ricollocamenti, poi lo sbarco. Oggi, nell'aula bunker di Bicocca, il premier non ci sarà. All'ultimo momento ha dato forfait scrivendo al giudice Nunzio Sarpietro e avvalendosi della prerogativa prevista dal codice di procedura penale di essere sentito a Palazzo Chigi. La data verrà concordata nei prossimi giorni. Il processo che vede l'ex ministro accusato di sequestro di persona entra comunque nel vivo con le testimonianze degli ex alleati di governo, gli ex ministri dei Trasporti Danilo Toninelli e della Difesa Elisabetta Trenta convocati dal giudice dell'udienza preliminare Nunzio Sarpietro dopo aver acquisito una enorme mole di documenti: quelli relativi a ben 140 sbarchi di migranti portati a terra da navi umanitarie o militari durante l'anno in cui il Viminale fu guidato da Salvini ma anche dopo con la gestione di Luciana Lamorgese. Su sei, in particolare, avvenuti con navi umanitarie tenute bloccate al largo per diversi giorni prima di ottenere il porto di sbarco dal Viminale si è accentrata l'attenzione del giudice: tra questi il caso della Open Arms ( per il quale Salvini è imputato in un secondo processo che avrebbe dovuto aprirsi oggi davanti al gup di Palermo ma che verrà rinviato per la coincidenza delle date) due della Sea Watch 3, uno della Alan Kurdi, ma anche due della Ocean Viking, avvenuti a settembre e novembre 2019, già in era Lamorgese con la nave di Msf tenuta in mare per molti giorni in attesa di ottenere assicurazioni sul ricollocamento dei migranti. Dunque, una linea condivisa e adottata anche dal secondo governo Conte quella del "prima i ricollocamenti poi lo sbarco" secondo la difesa di Salvini. Che è sicura di ricevere conferma oggi anche dalle parole dell'ex ministro dei trasporti Toninelli. A luglio 2019, con la Gregoretti ormeggiata al porto di Augusta e i migranti bloccati a bordo, Toninelli dettava alle agenzie: "Ora la Ue risponda perché la questione migratoria riguarda tutto il continente" mentre fonti del suo ministero sottolineavano che " si sta lavorando in perfetto coordinamento con il ministero dell'interno nell'auspicio che si arrivi ad una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocamento". Sarà dunque difficile ora per l'esponente pentastellato tirarsi fuori dalla scelta di un modus operandi che durante il suo ministero ha sempre rivendicato accusando persino Salvini di volersi prendere "tutti i meriti della diminuzione degli sbarchi". Tutta da ascoltare sarà invece la testimonianza della ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta che non si è mai espressa pubblicamente sul caso Gregoretti nonostante in molti in quei giorni di luglio 2019 sollecitassero una sua presa di posizione davanti all'imbarazzante caso di una nave della Marina militare italiana tenuta prima fuori dai porti del suo paese e poi ormeggiata ma senza il permesso di sbarco. Una situazione questa, per altro, in palese violazione dello stesso decreto sicurezza bis firmato da Matteo Salvini che prevede espressamente l'inapplicabilità a navi militari italiane delle disposizioni mirate a vietare l'ingresso di navi con migranti. Disposizioni che - stando ad una successiva sentenza del Tar del Lazio sul caso Open Arms - non possono comunque essere applicate a nessuna nave che porti a bordo naufraghi perché in violazione delle leggi internazionali sul soccorso in mare che prevedono che le persone siano immediatamente soccorse e sbarcate nel porto sicuro più vicino. Sul tavolo del giudice Sarpietro, oltre ai documenti degli sbarchi forniti dal Viminale, i due decreti sicurezza che il Parlamento si appresta definitivamente ad archiviare ma anche il codice Minniti voluto dal predecessore di Salvini, la prima vera stretta alle operazioni di soccorso delle Ong nel Mediterraneo.
Ecco i post che inchiodano lo "smemorato" Toninelli. In diversi tweet l'allora ministro scriveva: "Non abbiamo obblighi di sbarco". Bongiorno: "Imbarazzata dai suoi 'non ricordo'". Federico Garau, Sabato 12/12/2020 su Il Giornale. Furioso per essere finito al centro della bufera per la questione relativa alla nave Gregoretti che vede imputato Matteo Salvini, l'allora ministro dei trasporti Danilo Toninelli minaccia ritorsioni contro gli organi di stampa cha continueranno ad abusare dell'espressione "non ricordo di aver firmato il decreto" e ad associarla a tale vicenda. La difesa di Salvini ha raccolto ogni testimonianza mirata a documentare il coinvolgimento di vari membri del governo, tra i quali sono ricordati anche un tweet di Conte e diversi post dello stesso Toninelli. Lo stesso che, celebrando la scelta politica di chiudere i porti, scriveva sui social: "Non abbiamo obbligo di sbarco". Tutte prove che saranno utilizzate nel processo, così come il video in cui il premier Conte "parla del governo e del ruolo dell'esecutivo nella decisione sugli sbarchi in Italia di migranti come idea condivisa", spiega l'avvocato Giulia Bongiorno. Questi ed altri elementi sono "nella memoria difensiva già depositata agli atti del procedimento", rivela ancora il legale del leader del Carroccio.
L'attacco di Italia Viva. Una frase, quella contestata, che ha scatenato perplessità e battute al vetriolo anche da parte degli alleati (almeno fino a questo momento ancora è così) di Italia Viva, che hanno affondato il colpo in modo decisamente esplicito."Tra tutte le motivazioni che si possono dare in un tribunale, 'non ricordo' (cito testualmente) è la meno credibile per uno che ha fatto il ministro per oltre un anno. Toninelli sa che a firmare quel decreto ci fu anche lui. Se ne assuma la responsabilità", ha dichiarato tramite Twitter il deputato di Italia Viva Marco Di Maio. Ancora più pesante il commento della collega di partito di Di Maio, Vicepresidente vicario di Italia Viva al Senato, Laura Garavini."Gravi e imbarazzanti i non ricordo di Toninelli. Si trattava di decidere sulla vita di centinaia di profughi. Donne, bambini, giovani vite in pericolo, in mare. Come può l'ex ministro non ricordare che posizione avesse assunto rispetto al salvataggio di vite umane?".
La difesa di Toninelli. Lo stesso Toninelli non ha comunque perso tempo a replicare a quanti lo hanno fatto bersaglio di ironia e biasimo per l'accaduto, puntualizzando in una nota la sua posizione. "Stanno circolando versioni gravemente alterate e false della mia deposizione sul caso Gregoretti", ha spiegato l'allora ministro dei Trasporti, come riporta ItalPress. "Non esiste alcuna mia dichiarazione su una fantomatica firma del decreto relativo alla nave Gregoretti a me attribuibile in quanto, ed è un dato oggettivo", aggiunge il grillino, "nessun provvedimento di divieto di sbarco è stato mai assunto con riferimento a tale imbarcazione. Ed è ovvio perchè si tratta di nave militare dello Stato italiano". Toninelli specifica che il vuoto di memoria sarebbe relativo ad un'altra situazione, nella quale ad essere imputato resta comunque l'ex vicepremier Matteo Salvini. "Non esiste alcun mio “non ricordo di aver firmato il decreto” per il semplice fatto che non vi è mai stato un decreto per tale vicenda. Il mio 'non ricordo' si riferiva ai decreti di divieto di sbarco per la nave dell'ong Open Arms. Fatti, questi, intorno ai quali ho deposto in termini di verità e trasparenza.", puntualizza l'ex ministro, che poi passa alle minacce. "Diffido, pertanto, le testate giornalistiche dal continuare la diffusione di una notizia falsa, riservandomi il diritto di querela".
Lo sgomento di Bongiorno e la relazione Gasparri. A restare basita per l'atteggiamento del senatore pentastellato è anche Giulia Bongiorno, senatrice del Carroccio e legale di Matteo Salvini. "Tantissimo imbarazzo per Toninelli. Tutto mi sarei aspettata, ma non dire “no, non partecipavo, non mi ricordo”. Io ero in quel governo e ricordo benissimo quello che accadeva. Prendevano tutte le decisioni insieme", rivela l'avvocato. "C'erano Toninelli, Moavero, il presidente Conte, Salvini e Di Maio. Io che non facevo parte di quelle riunioni, ma ricordo lucidamente che scrivevo a mio figlio che avrei fatto notte, perché nella stanza accanto stavano decidendo chi fare sbarcare e chi no". La conferenza stampa della Bongiorno, riportata da LaPresse, si conclude con la ripetizione di un concetto già espresso in tante altre occasioni: "Salvini ha sempre detto che rivendica la linea del Conte 1 e che è una linea condivisa da tutti i ministri competenti". Sulla questione è intervenuto anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, che si dice certo di avere le prove del coinvolgimento dell'ex ministro, già prodotte in una sua relazione: "Nel caso Gregoretti i magistrati farebbero prima a leggere la relazione che ho presentato all'aula e che solo per motivi di pregiudizio politico vide il dissenso di alcuni. Il coinvolgimento dell'intero governo, con Toninelli, con Conte e con tanti ministri nella gestione della vicenda Gregoretti, è palese ed è dimostrato nei fatti. La mia puntuale relazione lo dimostra", dichiara il senatore azzurro, come riportato da LaPresse. "I magistrati invece di far perdere tempo alla giustizia italiana, che dovrebbe fronteggiare ben altre urgenze, leggano le mie pagine e troveranno le loro risposte. Salvini ha agito di intesa con l'intero governo. Ci sono prove palesi e incontestabili del coinvolgimento dei vari Toninelli e Conte. Ripeto, basta leggere le carte. I magistrati non perdano tempo. Quel che ho scritto io è chiaro, incontestabile, definitivo. Salvini non deve andare a processo", aggiunge ancora Gasparri. "Le norme vigenti, la Legge Costituzionale n.1 del 1989, prevedono procedure e casistiche che in questo caso sono evidenti. Soltanto ignoranza e faziosità consentono di tenere in piedi questa vicenda. Le posizioni di Conte e Toninelli sono vistose e se negassero la realtà dei fatti farebbero una ben magra figura, cosa che Toninelli mi pare abbia già fatto", conclude.
I post incriminati. Ed in effetti, tanti sono i riferimenti citati dalla difesa di Salvini, a riprova del coinvolgimento di altri membri del governo, compreso lo stesso Toninelli. "Anche la Corte di Strasburgo dà ragione al Governo e torto a Sea Watch. Dobbiamo garantire ai migranti viveri, cure e assistenza adeguata. Ed è quello che stiamo facendo. Ma non abbiamo obblighi sullo sbarco. E non li faremo sbarcare finché la Ue non batte un colpo. Avanti così". Queste le parole di Toninelli in data 29 gennaio 2019 , dopo l'ennesimo scontro sul caso Sea Watch, riportate da AdnKronos. Ai "non ricordo" dello smemorato Toninelli, Giulia Bongiorno ha replicato mostrando questo ed altri Tweet, così come estratti di interventi pubblici o interviste. "C'è qualcuno che favorisce la partenza dei barconi della morte, ma il governo del cambiamento non è più disposto ad accettare questo stato di cose. L'Olanda conosceva da subito i reali intendimenti della Sea watch", dichiarava Toninelli il 26 gennaio del 2019, riferendosi ancora una volta al caso Sea Watch. Facendo un balzo indietro nel tempo di sei mesi circa, lo stesso ex ministro così si esprimeva: "Da alcune ore c'è una imbarcazione con 450 persone a bordo che naviga nel Sar maltese. Per la legge del mare è Malta che deve inviare proprie navi e aprire il porto. La nostra Guardia costiera potrà agire se serve in supporto ma Malta faccia subito il suo dovere" (13 luglio 2018). Un commento condiviso dallo stesso Giuseppe Conte il giorno successivo, a riprova del fatto che vi fosse una linea compatta sul delicato tema immigrazione e sbarchi. "Francia e Malta prenderanno rispettivamente 50 dei 450 migranti trasbordati sulle due navi militari, a breve arriveranno anche le adesioni di altri paesi europei. È un risultato importante ottenuto dopo una giornata di scambi telefonici e scritti che ho avuto con tutti i 27 leader europei. Finalmente l'Italia inizia a essere ascoltata davvero", cinguettava il premier. Entusiasta per il risultato conseguito dal governo del cambiamento, Toninelli replicava: "Su migranti più risultati in 45 giorni che in tanti anni. Complimenti a Conte. Il governo del cambiamento sta ribaltando gli schemi. Con questa riconquistata credibilità internazionale l'Italia non rimarrà più sola". Tra le prove prodotte dall'avvocato Bongiorno anche un post del 15 agosto 2019: "Avevo già firmato a suo tempo il decreto di Salvini che vietava l'ingresso, il transito e la sosta della Open Arms in acque italiane. Avevo firmato anche stavolta per ribadire che chi non rispetta il diritto del mare non può sbarcare in Italia. Quel decreto è stato bocciato dal Tar ed emetterne un altro identico per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti. E a differenza di Salvini che cerca solo il consenso facile noi agiamo con senso di Stato e concretezza". Nel pieno della crisi di governo, solo 5 giorni dopo, l'ex ministro così aggiunse: "Stiamo lavorando ancora per sbloccare al più presto la situazione della Open Arms. C'è un dato politico importante da registrare: mentre in precedenza gli altri paesi europei prima dello sbarco davano la disponibilità ad accogliere una parte di migranti, ora invece ci dicono prima di sbarcarli a Lampedusa e poi si vedrà. Stanno ricominciando a voltarci le spalle e questo ha un unico responsabile: Matteo Salvini che ha indebolito il governo e di conseguenza la nostra posizione in Europa". Toni completamente differenti rispetto a quelli autocelebrativi di un anno prima: "Ci siamo insediati da pochi giorni e la musica sta già cambiando". E poi: "Con i ministri Moavero e Salvini porteremo in Europa il tema della cooperazione", aggiunse citando peraltro proprio le parole del leader del Carroccio.
Matteo Salvini, Repubblica: dopo Gregoretti, presto indagato anche per Open Arms. Un nuovo capo d'accusa. Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Nuova indagine contro Matteo Salvini sugli immigrati. Repubblica sgancia la bomba: "L'ex ministro dell'Interno, già imputato per sequestro di persona aggravato a Catania, nel giro di qualche giorno lo sarà ufficialmente anche a Palermo". Un accerchiamento giudiziario che riporta l'Italia ai tempi di Silvio Berlusconi premier. "Al palazzo di giustizia - scrive il quotidiano diretto da Maurizio Molinari -, sono arrivate dal Senato le carte che contengono l'ultima autorizzazione a procedere votata il 31 luglio, per i 107 migranti rimasti ostaggio sette giorni sulla Open Arms, nell'agosto 2019, al largo di Lampedusa". A Catania l'udienza per la Gregoretti è fissata il 3 ottobre, poi verrà appunto il turno di Palermo, ancora in attesa della fissazione di un'udienza preliminare.
Oltre al sequestro di persona, è stata formulata contro l'ex capo del Viminale anche l'accusa di rifiuto di atti d'ufficio "per aver omesso, senza giustificato motivo - è scritto nell'atto d'accusa - di esitare positivamente le richieste" di un porto sicuro, il 14, il 15, il 16 agosto 2019, "provocando consapevolmente l'illegittima privazione della libertà dei migranti, costringendoli a rimanere a bordo dalla notte fra il 14 e il 15 fino al 18, quanto ai minori, e per tutti gli altri sino al 20". Era il caso della famosa ispezione del pm di Agrigento Luigi Patronaggio a bordo della nave, nei giorni in cui il governo Conte 1 e la maggioranza gialloverde si stavano sfaldando.
Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 25 settembre 2020. L'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini è già imputato per sequestro di persona aggravato a Catania, nel giro di qualche giorno lo sarà ufficialmente anche a Palermo. Al palazzo di giustizia, sono arrivate dal Senato le carte che contengono l'ultima autorizzazione a procedere votata il 31 luglio, per i 107 migranti rimasti ostaggio sette giorni sulla "Open Arms", nell'agosto 2019, al largo di Lampedusa. I faldoni sono stati consegnati al tribunale dei ministri, che li ha girati alla procura diretta da Francesco Lo Voi, ora i pubblici ministeri si apprestano a chiedere la fissazione di un'udienza preliminare per l'imputato Salvini. Proprio come è accaduto a Catania, dove l'udienza inizierà il 3 ottobre. Lì, "parte offesa" sono i 134 bloccati sulla motonave della Guardia Costiera Gregoretti per cinque giorni, nel luglio dell'anno scorso. […]
(ANSA il 30 luglio 2020) - L'Aula del Senato ha autorizzato il processo all'ex ministro Matteo Salvini per la vicenda Open Arms. I favorevoli all'autorizzazione sono stati 149 , i contrari 141. La Giunta per le autorizzazioni a procedere aveva deliberato il 26 maggio scorso di negare l'autorizzazione a procedere, ed era sulla relazione della Giunta che i senatori sono stati chiamati a votare. Quindi i favorevoli all'autorizzazione a procedere hanno votato "no" alla relazione della Giunta, mentre i contrari all'autorizzazione hanno al contrario votato sì. Nelle dichiarazioni di voto in favore dell'autorizzazione a procedere si sono espressi M5s, Pd, Iv, Leu, Autonomie, mentre i gruppi di centrodestra avevano espresso la loro contrarietà. La relazione della Giunta per essere approvata necessitava di un quorum di 160 voti, cioè la maggioranza assoluta dei componenti.
(ANSA il 30 luglio 2020) - "Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l'Italia: lo rifarei e lo rifarò, anche perché solo in questo luglio gli sbarchi sono sei volte quelli dello stesso periodo di un anno fa, con la Lega al governo. Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita, guarderò tranquillo i miei figli negli occhi perché ho fatto il mio dovere con determinazione e buonsenso. Mi tengo stretto l'articolo 52 della Costituzione ("la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino") e ricordo le parole di Luigi Einaudi: "Quando la politica entra nella giustizia, la giustizia esce dalla finestra". Non ho paura, non mi farò intimidire e non mi faranno tacere: ricordo che per tutti i parlamentari, presto o tardi, arriverà il giudizio degli elettori". Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini, dopo il voto di Palazzo Madama.
Il Senato consegna Salvini ai magistrati: sarà processato per sequestro di persona. Il Dubbio il 30 luglio 2020. L’Aula del Senato dà l’ok al processo per l’ex ministro dell’Interno, accusato di sequestro di persone per il caso Open Arms: rifiutò di concedere lo sbarco alla nave spagnola con a bordo oltre 160 migranti. Il senato dice sì al processo per sequestro di persona nei confronti del leader della Lega Matteo Salvini. L’allora ministro dell’Interno rifiutò di far sbarcare 160 migranti ospiti della nave Open Arms i quali rimasero in mare per 19 giorni.
Il dibattito in Senato. «Sono sereno, i senatori votino come credono». Aveva dettoè Matteo Salvini, arrivando in Senato per il voto di oggi a palazzo Madama, con la richiesta di processo dei giudici per il caso Open arms. «Mio problema -aggiunge – sarà spiegare stasera ai miei figli che il papà non è un delinquente, un assassino». Per il Tribunale dei ministri di Palermo, il no allo sbarco imposto alla Open Arms dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini non fu un atto politico, ma «un vero e proprio reato ministeriale». In 114 pagine, i magistrati argomentano le ragioni alla base della richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, accusato di plurimo sequestro di persona. Un reato, si legge nelle carte dei magistrati di Palermo, aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti le sue funzioni ed anche in danno di minori.
Ore 12.29, Salvini: «Un voto politico. Da Renzi solo supercazzole». «Si è già capito che il voto è politico. Noto che non sta intervenendo nessuno del M5s. Ma preferisco il loro bel tacer che le gratuite supercazzole di Renzi e compagnia – ha detto Salvini intervenendo in Aula -. Triste fine per Renzi passare dall’avere come modello De Gasperi ma si comporta come uno Scilipoti qualsiasi. Invece di prorogare stati d’emergenza in carenza di emergenza evitate di far sbarcare gente che porta il contagio in Italia. E se riparte il contagio saremo noi a denunciare chi ha permesso che si corresse questo rischio. Questa sera dovrò spiegare ai miei figli che papà va a processo perché è un delinquente che ha difeso i confini, questo è l’unico peso che mi porto, non mi interessano le critiche politiche». E in merito a Conte ha sottolineato: «Il premier era perfettamente complice di un reato che non esisteva». «Il 17 agosto abbiamo fatto scendere 17 presunti minorenni, che poi si dimostrano tutt’altro che minorenni, e il presidente del Consiglio è complice di questo», ha detto Salvini. «Il 19 agosto a pieno sequestro teorico in corso, Toninelli rilascia una intervista in cui diceva che i migranti sarebbero stati portati in Spagna ed è stato detto no anche a questo. È evidente che si trattava di una violazione di legge. Se un uomo non difende le sue idee fino in fondo o non valgono niente le sue idee o non vale niente lui. Andrò fino in fondo senza chiedere aiutini a nessuno. Noi alle idee contrapponiamo altre idee non tribunali politici, l’unico tribunale è quello del voto». «Io stasera torno a casa con un processo ma a testa alta. Tanti mi dicono, “Matteo hai ragione, ma l’indicazione del mio partito è diversa”. Io guardo ai fatti, delle interpretazioni e dei messaggi alla Palamara non importa. Sono convinto che gran parte della magistratura sia composta da persone serie che non passano le giornate con gli esponenti della sinistra per scegliere i componenti del Csm. Se qualcuno pensa di mettere paura a me, al movimento, al centrodestra con processi politici avete sbagliato persona. E il riferimento alla vicenda della Lombardia è voluto, ma il tempo è galantuomo. Oggi tocca a Salvini andare a processo, ma la ruota gira. Tuttavia, quando capiterà a voi la Lega sarà dal lato delle garanzie», ha aggiunto Salvini. «Se c’è qualcuno che ha commesso un crimine e messo a rischio la vita di queste persone è il comandante di questa nave pirata. Una nave pirata che raccoglie immigrati in acque libiche e maltesi, una nave che ha diritto di avere a bordo 19 migranti e arriverà ad averne a bordo 150».
Ore 11.50, Marcucci: «Ora discontinuità del governo sul tema migranti». «Salvini non viene assolto o condannato dal Senato. L’aula del Senato consentirà soltanto di mandare avanti il lavoro dei giudici sulla Open Arms. Contro il leader della Lega, non c’è alcun accanimento politico, almeno da parte del Pd. Ora però, mi aspetto dal governo Conte, una discontinuità totale sul tema delle politiche migratorie. Se Salvini andrà a processo, l’esecutivo deve liberarsi di politiche del passato, totalmente sbagliate, continuando a pretendere dall’Europa un intervento più adeguato». Lo afferma il capogruppo Pd in Senato Andrea Marcucci, in vista del voto dell’aula del Senato.
Ore 11.20, Meloni: «Processare Salvini è scandaloso». «Processare Matteo Salvini per aver difeso i confini italiani dall’immigrazione illegale è semplicemente scandaloso. Fratelli d’Italia voterà compattamente, e convintamente, contro l’autorizzazione a procedere. La sinistra impari a battere i suoi avversari nelle urne, se ne è capace. Forza Matteo». A scriverlo su Twitter è la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Ore 11.00, Salvini: «Renzi? Ormai non gli crede più nessuno». «Sono tranquillo, perché ho difeso i confini e l’onore del mio Paese. È assurdo andare a processo ma se devo andare andrò. Rischio 15 anni di carcere per aver difeso il mio Paese? Ne sono orgoglioso. Ma è ridicolo. Su Open Arms prendemmo una decisione collegiale con i ministri dei Trasporti e della Difesa». Così il leader della Lega Matteo Salvini conversando con i giornalisti in Senato, mentre in Aula è in corso la discussione. «Renzi? Ormai non gli crede più nessuno, neanche i suoi genitori». «Se qualcuno merita processo è l’attuale governo: giudichino gli italiani se sia “colpevole” chi ha fermato gli scafisti o chi li asseconda con porti aperti, confini colabrodo, “profughi” col barboncino, clandestini che fuggono dalla quarantena e girano liberi!», ha scritto Salvini su Twitter durante la discussione.
Ore 10.47, De Falco: «Nessuna corresponsabilità da parte di Conte». Sul caso Open Arms «non c’è alcuna possibilità di rinvenire la corresponsabilità del presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che operò una moral suasion nei confronti del ministro dell’Interno, Matteo Salvini e scrive una lettera al ministro Salvini invitandolo a far venire meno il reato che si sta compiendo impedendo lo sbarco dei minori. Dice a Salvini: fai sbarcare almeno quelli». A dirlo il senatore del Misto, Gregorio De Falco.
Ore 10.37, Urraro: «Salvini in linea con l’indirizzo di governo». «La vicenda è perfettamente ascrivibile all’azione di governo e ad un onere di condivisione nella gestione del fenomeno migratorio: le azioni del ministro dell’Interno si erano poste all’interno di un indirizzo di governo», ha detto il senatore della Lega, Francesco Urraro, intervenendo durante la discussione.
Ore 10.20, Renzi: «Sì all’autorizzazione al processo». «Credo che nella vicenda della gestione della politica migratoria di questo Paese, con il governo Gialloverde, prima ancora di discutere se ci siano stati dei crimini, dobbiamo capire se sia stato un errore o no. Noi abbiamo sempre pensato che quella gestione della politica migratoria sia stata una errore. E lo dico a quella parte di intellettuali di sinistra che hanno sostenuto che noi eravamo la brutta copia della destra quando andavamo a salvare le persone in mare, ma anche a raccogliere in mare i cadaveri di chi moriva durante la traversata. Noi eravamo quelli che contro l’idea dei più volevano lo Ius Culturae e che occorresse andare alle riunioni in Europa. Questo è il punto politico», ha detto Matteo Renzi, in Aula al Senato. «Poi ci sono due elementi che vanno considerati: la relazione del presidente Gasparri e l’Elefante nella stanza, che è il funzionamento della giustizia e il rapporto fra magistratura e politica. Noi non dobbiamo rispondere alla domanda se Salvini abbia commesso reato o no, a questa domanda deve dare risposta la magistratura», ha aggiunto. «Noi dobbiamo dire se ci fosse un preminente interesse pubblico nel non far sbarcare i migranti, scelta avallata dal presidente del Consiglio. Per me il preminente interesse pubblico non c’è. Noi che ci accingiamo a votare a favore della autorizzazione a procedere, anche nei confronti del ministro dei Trasporti, voteremo per l’autorizzazione a procedere per il senatore Toninelli, perché se non c’è il preminente interesse nazionale per Salvini non c’è nemmeno per Toninelli». «Tu non blocchi l’immigrazione tenendo un barcone a largo, tu aumenti i followers su Facebook. Il populismo che era la motivazione per bloccare i barconi oggi vi si ritorce contro», ha poi detto il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. «Il fatto che nelle chat fra magistrati ci sia qualcuno che invita ad attaccare un politico, solo per antipatia personale è uno scandalo», ha aggiunto. «Abbiamo un elefante nella stanza, il 12 dicembre avevamo chiesto una riflessione politica matura. O noi affrontiamo il tema del rapporto fra magistratura e politica o prima o poi tocca a tutti. Se una componente articolata di un partito viene così definita anche se è una fondazione che organizza eventi e si applica la legge sui partiti, se questo accade oggi per una fondazione, domani può accadere che una srl che lavora accanto alla politica può diventare il soggetto. Se quello che esce dalle intercettazioni dei magistrati, messe in naftalina da tutti i media, fossero uscite quei politici sarebbero stati indagati per traffico di influenze. Se i Trojan vengono accesi e spenti senza un criterio logico, siamo in presenza di una deriva venezuelana», ha aggiunto Renzi.
Ore 10.10, Bonino: «Sì al processo, Salvini potrà difendersi in Tribunale». «Voteremo in diniego della richiesta della Giunta di dire no al processo a Salvini, ribadisco che i motivi di sicurezza nazionale che possono giustificare la violazione della legge devono ravvisare da stati di necessità che non vedo», ha dichiarato Emma Bonino, del gruppo Misto, parlando in Senato, durante il dibattito in vista del voto sul caso Open Arms. «Oggi dobbiamo decidere se Salvini deve essere mandato a processo per sequestro di persona e omissione di atti di ufficio, norme che i decreti di sicurezza non ha eliminato. Noi non siamo un tribunale, non dobbiamo decidere se Salvini è colpevole o innocente», aggiunge Bonino. «Né dobbiamo discutere delle idee del senatore Salvini sull’immigrazione». «È la terza volta che siamo chiamati a pronunciarci su Salvini eper la terza volta intervengo per ricordare qual è il compito che ci assegnano legge e Costituzione», ha aggiunto Bonino. «Salvini avrà la possibilità – conclude – di difendersi nel processo». «Dobbiamo valutare se le condotte fossero finalizzate a tutelare un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, a perseguire un preminente interesse pubblico – ha aggiunto -. La Giunta ha ravvisato la sussistenza di ciò – ha proseguito -, al contrario io ritengo che lui abbia giustificato la propria condotta per finalità generalmente politiche».
Il tribunale dei ministri: «Fu un reato, non un atto politico». L’episodio riguarda il rifiuto di ingresso in acque territoriali imposto ai 107 migranti giunti in prossimità di Lampedusa a bordo della ong “Open Arms”, nella notte tra il 14 e il 15 agosto scorso, violando convenzioni internazionali e norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani. In particolari, Salvini avrebbe violato, tra le altre, la convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso in mare, la convenzione Unclos e la Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e abusando dei propri poteri ometteva, «senza giustificato motivo, di esitare positivamente le richieste di Pos inoltrate al suo ufficio il 14, 15 e 16 agosto, provocando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale dei predetti migranti, costringendoli a rimanere a bordo della nave per un tempo giuridicamente apprezzabile, precisamente dalla notte tra il 14 ed il 15 agosto sino al 18 agosto 2019, quanto ai soggetti minorenni e per tutti gli altri sino al 20 agosto 2019, data in cui, per effetto dell’intervenuto sequestro preventivo della nave, disposto dalla procura della Repubblica di Agrigento, venivano evacuate tutte le persone a bordo».
Salvini: «È normale attaccare gli avversari per via giudiziaria?» «Chiedete a Pd e M5S se ritengono normale attaccare gli avversari per via giudiziaria e non per via politica», ha spiegato Salvini, ai giornalisti entrando in Senato. Salvini ha ricordato «come io, i miei avversari politici, Monti, Fornero e gli altri li ho combattuti politicamente». «La proposta di non autorizzare il processo è stata approvata a maggioranza dalla Giunta. Salvini, nella vicenda Open Arms, agì di concerto con i ministri della Difesa e dei Trasporti, con un atto di governo collegiale», ha spiegato il presidente della stessa Giunta, Maurizio Gasparri, aprendo i lavori d’Aula a Palazzo Madama. Il leader della Lega potrà contare sui voti 63 senatori leghisti, su quelli di Fratelli d’Italia (17) e su quelli di Forza Italia (56), che in totale fanno 136. Per il sì al processo, invece, sono schierati il Pd (35), il M5s (95) e Leu (5), che complessivamente arrivano a 135 voti. Favorevole al processo anche Italia viva, che conta 18 senatori. Due mesi fa, la Giunta per le immunità del Senato aveva respinto la richiesta di autorizzazione a procedere per l’ex ministro dell’Interno a causa della spaccatura della maggioranza. La votazione si era conclusa con 13 sì a favore della relazione del presidente della Giunta Maurizio Gasparri e 7 no mentre i tre senatori renziani non avevano partecipato al voto.
Gasparri invoca «l’esimente del perseguimento del preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». «Quando l’indirizzo governativo espresso dal Presidente del Consiglio in ordine ai minori presenti a bordo – motivato anche alla luce del mutamento della situazione originaria a seguito dell’avvicinamento della nave ai confini nazionali – è stato manifestato al ministro – si legge nella relazione del presidente Gasparri , quest’ultimo ne ha preso atto assumendo la decisione di adeguarsi allo stesso, pur non condividendolo. Va precisato che tale sbarco è avvenuto lo stesso giorno della presa d’atto del ministro Salvini (ossia il 17 agosto 2019) e non il 18 agosto, come erroneamente riportato nella richiesta di autorizzazione a procedere. In definitiva, nel momento in cui l’indirizzo governativo relativo ai minori è stato estrinsecato da parte del Presidente del Consiglio, il ministro Salvini ha potuto adeguarvisi, cosa prima non possibile non sussistendo alcuna manifestazione esplicita in tal senso. Relativamente ai maggiorenni presenti a bordo occorre chiedersi se la presa di posizione del Presidente Conte sui minori possa aver configurato o meno una tacita indicazione al ministro Salvini anche per gli adulti presenti a bordo. La risposta a tale quesito è sicuramente negativa, innanzitutto per una circostanza fondamentale. Chiedere con atto scritto lo sbarco immediato dei minori comportava un implicito indirizzo opposto per i maggiorenni, altrimenti il Presidente Conte avrebbe dovuto chiedere lo sbarco immediato di tutti gli immigrati presenti a bordo e non solo dei minori. In altri termini, l’atto formale adottato dal Presidente Conte per i soli minori comportava la conseguente deduzione, sul piano logico, che la Presidenza del Consiglio condividesse la linea del ministro Salvini sui migranti non minorenni, altrimenti sarebbe stato illogico circoscrivere l’indirizzo ai soli minori, sapendo che a bordo erano presenti anche maggiorenni. Con riferimento alle condivisibili osservazioni prospettate nel corso delle sedute, va evidenziato che il Presidente Conte, se avesse voluto assumere un indirizzo idoneo a separare l’azione promossa dal ministro Salvini dall’azione del Governo anche per i migranti adulti, avrebbe dovuto – nella lettera del 16 agosto – ordinare lo sbarco immediato di tutti gli immigrati presenti a bordo e non quindi dei soli minorenni. Tale distinguo, effettuato dal Presidente Conte nella sua lettera del 16 agosto, rende anzi evidente per facta concludentia una condivisione implicita di quest’ultimo delle azioni poste in essere dal ministro Salvini in ordine ai migranti maggiorenni».
«Condivisione governativa degli atti». Inoltre, nella fattispecie in esame, «la “condivisione governativa” è certificata da un decreto interministeriale a valenza interdittiva, adottato dal Ministro dell’interno di concerto con i Ministri della difesa e delle infrastrutturee dei trasporti in data 1° agosto 2019. Appare sin troppo ovvio – ha aggiunto Gasparri – far notare che lo stesso Presidente del Consiglio Conte, che pur si è attivato ai fini dello sbarco dei minori, tuttavia non si è affatto avvalso dei poteri di cui all’articolo 5, comma 2, lettera c), della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di “sospendere l’adozione di atti da parte dei Ministri competenti, sottoponendoli al Consiglio dei Ministri” successivamente. Né lo stesso Presidente Conte ha adottato decisioni concrete volte a permettere lui lo sbarco degli immigrati maggiorenni, dopo il 17 agosto 2019; sbarco che, come noto, in questo caso – a differenza dei due precedenti – è avvenuto in esecuzione di un provvedimento della magistratura, non avendo assunto iniziative nel frattempo non solo il Ministro dell’interno, ma anche gli altri Ministri interessati e lo stesso Presidente del Consiglio».
Da qui il diniego della Giunta alla richiesta di autorizzazione a procedere, «attesa la sussistenza nel caso di specie dell’esimente del perseguimento del preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».
Marco Cremonesi per corriere.it il 31 luglio 2020. Il cielo di Milano Marittima è sempre più blu, ma l’umore di Matteo Salvini è di tempesta. Nemmeno il ritorno al Papeete, la disco spiaggia dell’amico ed europarlamentare Massimo Casanova, riesce a riconciliarlo. Non con i giornalisti, certamente: «Segretario, ci parla un minuto?». «Assolutamente no». In realtà, a corruscare il cipiglio del leader leghista non è la certezza, dopo il voto in Senato di ieri, di dover essere processato per i fatti della nave Open arms. In realtà, Salvini era certo almeno da mercoledì che i 160 voti che sarebbero stati necessari a risparmiargli il processo non sarebbero arrivati. E forse, il motivo dell’umor nero è proprio quello. Magari Salvini in un aiutino renziano ci sperava. Magari non sarebbe stato sufficiente a evitargli il processo. Ma un voto clamoroso e lo scompiglio tra le fila della maggioranza, come dice un salviniano, «non avrebbe avuto prezzo». Ma l’aiutino non è arrivato. E così, per tutto il giorno, le parole più fiammeggiati Salvini le riserva proprio a Matteo Renzi. A partire proprio dall’aula: «Preferisco l’imbarazzato “bel tacer” del M5S alle gratuite supercazzole di Renzi e compagnia. Lui è passato dall’avere come modello De Gasperi al comportarsi come uno Scilipoti qualunque». Un refrain che ricorre più delle altre due parole chiave della giornata: «Processo politico». Un altro indizio viene dalle parole della sua candidata alla presidenza della Regione Toscana, Susanna Ceccardi. Che in un’intervista a Controradio lo dice a chiare lettere: «I renziani strizzano l’occhio a destra e a manca». E cita la fonte: «Ho sentito da Salvini che Renzi gli avrebbe detto “chiamami e poi ne parliamo del voto”». E il segretario che cosa avrebbe risposto? «Col cavolo che lo chiamo». E in effetti, anche in Aula Salvini lo ripete: «Per me, i messaggini non contano niente». Il leader leghista non perde occasione per dare in testa all’ex premier: «Renzi è meno credibile di una pianta grassa, neanche i suoi genitori gli danno più retta». Anche una volta arrivato a Milano Marittima — ciabatte Havaianas rosse, bermuda militari e camicia bianca » — di fronte alle telecamere di Rete 4, il registro non cambia: «Non ho mai dato del venditore di tappeti a Renzi per un semplice motivo: ho troppo rispetto dei venditori di tappeti». E ancora: «Italia viva diceva che Azzolina e Bonafede non sono capaci di fare i ministri. E Azzolina e Bonafede sono là. È per questo che sono sempre meno gli italiani che li credono». E di nuovo: «Non li votano neanche i loro genitori». Certo, qualche puntura c’è anche per Luigi Di Maio e Giuseppe Conte: «L’anno scorso mi davano una mano a chiudere i porti e quest’anno mi mandano a processo per lo stesso motivo». Ma, appunto, il nemico del giorno è il senatore Matteo Renzi. Perché era dalla prima settimana di luglio che le interlocuzioni tra leghisti e renziani si erano fatte più serrate. Fino al voto per il rinvio della legge elettorale di metà mese, che i leghisti avevano salutato con brindisi. Poi, l’altra notte, il mantenimento al Senato di due presidenze di commissione per i leghisti aveva alimentato la speranza dei salviniani. Che ora masticano amaro: «Renzi si è ridotto a fare l’Alfano, da solo dentro il Palazzo e niente nel paese. Continui pure così…».
Alberto Custodero per repubblica.it il 31 luglio 2020. La diretta, a volte, può giocare brutti scherzi. È il caso del servizio del Tg2 che, proprio in una diretta dal Senato a pochi secondi dalla chiusura delle votazioni sul caso Open Arms, ha annunciato "il colpo di scena". "Salvini non andrà a processo, non è stata concessa l'autorizzazione". La giornalista era nella sala dei Postergali, quella usata per le dirette nella quale non ci sono agenzie, non ci sono computer e non ci sono nemmeno schermi dai quali seguire i lavori in Aula. La cronista posa il telefono e prende la parola. "È proprio di ora il risultato, non è passata l'autorizzazione a procedere..." è stato l'incipit del servizio della cronista di Palazzo Madama. Pare che l'errore di interpretazione del voto dell'Aula le sia stato suggerito al telefono, pochi istanti prima della diretta, dal suo caporedattore. "Sembrava un voto scontato - prosegue lo sfortunato servizio - visto anche il sì di Iv. E invece no, ci sono stati 141 voti favorevoli ma 149 no. Quindi Salvini non andrà a processo. Questo è davvero un colpo di scena perche tutta la maggioranza era compatta per dire che non c'era interesse generale". "Ma il centrodestra compatto ha detto no: Salvini ha fatto l'interesse generale". Protagonista della clamorosa gaffe una giornalista parlamentare con vent'anni di esperienza e scrittrice. Suo il libro "Di corsa e di carriera", edito da Macchioni, prefazione Vittorio Sgarbi. Questa volta, ironia della sorte, andare in onda di corsa ha procurato alla conduttrice un inciampo di carriera. Il suo svarione non è passato inosservato. E come avrebbe potuto non essere notato, del resto, vista tra l'altro l'enfasi con cui annunciava che "il centrodestra, compatto, ha detto che Salvini ha fatto l'interesse generale".
Le scuse della direzione del Tg2. "Nell'edizione del Tg2 delle 18.15, subito dopo l'annuncio della presidente del Senato Casellati del risultato della votazione sull'autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, durante un collegamento abbiamo erroneamente detto che con il voto l'autorizzazione a procedere non sarebbe stata concessa, mentre il Senato ha autorizzato il processo al senatore Salvini". Così, in una nota, la direzione del Tg2. "È stato un grave errore di interpretazione del risultato, che abbiamo corretto qualche minuto dopo con un vivo del conduttore. Ci scusiamo comunque - conclude la direzione del Tg2 - per aver indotto in errore i nostri ascoltatori".
Il teatro dell’assurdo. Massimo Brandimarte, ex Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto, il 2 Agosto 2020 su Il Corriere del Giorno. Il capo del governo ed il governo, cui quel ministro apparteneva, nonché la parte politica che lo sosteneva, hanno dapprima approvato, per tacito comportamento concludente, quell’azione, mentre poi l’hanno clamorosamente rinnegata, quando si è trattato di decidere sull’autorizzazione procedere. Se nemmeno i senatori ne hanno discusso, di quale autorizzazione a procedere stiamo parlando? Per legge, i ministri, per i reati commessi nell’ esercizio delle loro funzioni, sono processati dinanzi al tribunale dei ministri, che, però, deve ottenere l’autorizzazione a procedere da parte di un ramo del Parlamento, il quale deve valutare se il ministro abbia agito, in sintesi, per la tutela di un interesse pubblico. Sappiamo come è andata a finire nell’ultimo dibattito svoltosi in Senato. Tuttavia, non possiamo fare a meno di sottolineare quattro storture.
La prima. La maggioranza ha votato a favore dell’autorizzazione. L’opposizione contro. Domanda. Possibile che su una questione così tecnica, di diritto costituzionale e penale, non si sia deciso ciascuno con la propria testa, ma per gruppi politici? Per caso, anche le tesi giuridiche sono politiche? Conclusione: i senatori non hanno votato secondo il proprio libero convincimento, ma per partito…preso!
La seconda. Il governo nazionale è retto da un capo, che sceglie i propri ministri, per cui l’azione di ogni ministro deve intendersi sempre riferita al suo capo. Se così non fosse, se cioè ci fosse disarmonia o contrasto di vedute, esplicite o implicite, delle due l’una: o se va il capo del governo o viene licenziato il ministro. Naturalmente, viene, anzi dovrebbe essere licenziato il ministro. Altrimenti, l’azione di costui deve intendersi fatta propria dal capo del governo. Anche se un capo di governo si vergognasse di ammetterlo. Semplice no? Conclusione: il capo del governo ed il governo, cui quel ministro apparteneva, nonché la parte politica che lo sosteneva, hanno dapprima approvato, per tacito comportamento concludente, quell’azione, mentre poi l’hanno clamorosamente rinnegata, quando si è trattato di decidere sull’autorizzazione procedere. Giudesco, vero?
La terza. Nel decidere se il ministro abbia agito nell’interesse pubblico, la Camera, in pratica, deve valutare se un reato, già sicuramente commesso, è giustificato da un interesse pubblico. Ora, il problema è esattamente questo: siamo sicuri che un reato sia stato commesso? E quale? Nessuno dei senatori che hanno votato per la concessione dell’autorizzazione a procedere si è soffermato, durante il dibattito, sulla ricorrenza, in termini tecnici, degli estremi dell’assai improbabile reato di sequestro di persona, escluso in passato dalla stessa procura della Repubblica, che aveva chiesto l’archiviazione. Conclusione: se quel reato è sostanzialmente insostenibile, secondo la logica non solo dei tecnici, ma persino dell’uomo comune della strada, tant’è che nemmeno i senatori ne hanno discusso, di quale autorizzazione a procedere stiamo parlando?
La quarta. Secondo alcuni giuristi, è prevedibile che l’imputazione verrà estesa ad altri soggetti istituzionali, che all’epoca dei fatti facevano parte della compagine ministeriale e che, alla fine, tutti verranno prosciolti o assolti, per insussistenza del reato, o, quanto meno, per avere agito nell’esercizio di un diritto reale o putativo che sia. Conclusione: a cosa è servito questo teatro dell’assurdo? L’ipocrisia non è mai stata un buon partito!
Open Arms, Matteo Salvini inchioda il M5s con un video di Toninelli: "I porti chiusi? Decisione mia, di Salvini e Conte". Libero Quotidiano il 31 luglio 2020. A Matteo Salvini basta un video per inchiodare il Movimento 5 Stelle sul caso Open Arms. A detta del leader della Lega e di chi era al governo la scorsa estate (come Giovanni Tria) la decisione di non far sbarcare i migranti a bordo della ong "fu collegiale", di Giuseppe Conte e grillini compresi. E ora abbiamo la prova. Il numero uno del Carroccio, accusato da solo di sequestro di persona, rilancia su Twitter un filmato dell'epoca che ritrae Danilo Toninelli dire: "I porti chiusi? Fino ad oggi non Salvini, ma Salvini, il presidente del Consiglio Conte e il sottoscritto decidiamo insieme". E ancora: "Abbiamo diminuito di una cifra enorme il numero degli sbarchi, significa che stiamo facendo un buon lavoro di squadra". Beccato dunque, anche se verrebbe da chiedere perché allora i grillini si tirano indietro.
Stasera Italia, Danilo Toninelli insulta Matteo Salvini: "Il più grosso markettaro di sempre, sapete come vive?" Libero Quotidiano il 31 luglio 2020. Altra schifezza di Danilo Toninelli contro Matteo Salvini, il tutto a Stasera Italia, il programma in onda su Rete 4 e condotto da Veronica Genitli. Il tema era il rinvio a giudizio di Matteo Salvini nell'ambito del processo Open Arms, svolta per la quale il grillino era in brodo di giuggiole. E così, eccolo sputacchiare insulti: "Che Salvini sia il più grosso markettaro della politica, che vive soltanto di consenso creato dalla macchina della propaganda, funge soltanto da risonanza delle parole non dei fatti", ha affermato il re delle gaffe. Nessuna analisi nel merito, solo il consueto travaso di bile di un personaggio improbabile.
Open Arms, Giovanni Tria dalla parte di Matteo Salvini: "Fu decisione collegiale, nessuno si oppose".
Libero Quotidiano il 31 luglio 2020. A spezzare una lancia a favore di Matteo Salvini anche Giovanni Tria. L'ex ministro dell'Economia, che nei giorni concitati della scorsa estate c'era eccome, difende il leader della Lega sul caso Open Arms: "Ho sentito parlare di interesse pubblico: per quel Governo quello era interesse pubblico. L’informazione stava sui giornali, chi non era d’accordo poteva esprimersi. Ci sono responsabilità collegiali", tuona a ridosso del via libera del Senato al processo che vede il numero uno del Carroccio accusato di sequestro di persona. "Non mi ricordo - prosegue poi a Stasera Italia su Rete Quattro - che qualcuno si sia espresso. Mi sembrava una decisione molto simile a tutte quelle precedenti. Non voglio dire quello che pensavo perché faccio parte di quel Governo: la responsabilità è ovviamente collegiale e tirarsene fuori dopo non è elegante". Stando dunque alle parole di Tria anche Giuseppe Conte è coinvolto, così come più volte ribadito da Salvini, nel caso. Ad avvalorare la sua teoria un altro politico che la scorsa era a fianco del Movimento 5 Stelle: Gianluigi Paragone. L'ex grillino ha infatti confessato che lo stesso M5s era d'accordo sulla linea dura tenuta dalla Lega nei confronti dei migranti. Insomma, tutto sembra far pensare che a pagarne le conseguenze sia sempre solo Salvini.
Open Arms, Cacciari: "Complici di Salvini hanno votato sì al processo". Per Cacciari la decisione finale è arrivata da una maggioranza formata in gran parte "da persone che hanno collaborato con Salvini". Federico Giuliani, Giovedì 30/07/2020 su Il Giornale. Nel giorno in cui il Senato ha accolto la richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal tribunale di Palermo nei confronti di Matteo Salvini per il caso Open Arms, c’è chi è rimasto perplesso dall’esito della votazione. Massimo Cacciari ha dichiarato all’agenzia Adnkronos che c’è un aspetto che va "al di là di ogni decenza": i "complici" dell’ex ministro dell’Interno hanno votato per mandare il leader leghista a processo. Scendendo nel dettaglio, Cacciari, che nei giorni scorsi si era già espresso in merito al processo, ha spiegato che risulta "abbastanza indecente e incredibile che i suoi primi collaboratori al governo, a distanza di un anno, non di due guerre civili e tre rivoluzioni, lo rimandino al processo". L’ammissione arriva dalla bocca di chi non nutre "alcuna simpatia" per il segretario del Carroccio. "Che si rimandassero a processo anche loro", ha tuonato l’ex sindaco di Venezia, sottolineando come "anche loro" hanno condiviso praticamente "tutto quello che Salvini ha fatto".
La posizione di Cacciari. Al di là del voto di quelli che Cacciari chiama "complici", per il filosofo, se il voto fosse arrivato da una maggioranza che si era opposta agli atti di Salvini, "allora mi sarebbe sembrato del tutto logico questo voto". Ma in questo caso è difficile trovare un filo conduttore, visto che la decisione è arrivata da una maggioranza formata in gran parte "da persone che hanno collaborato con Salvini". "Può anche darsi che Salvini se la sia chiamata - ha aggiunto Cacciari - ma a prescindere da ciò, era evidente che sarebbe finita così". "Sarebbe sembrato molto più decente che lasciassero perdere", ha chiosato. Cacciari infine, negando che si tratti di accanimento giudiziario, ha affermato sicuro che per Salvini "questa grana processuale finirà in niente, e semmai in questo momento gli farà anche un pò comodo. Sono sicuro che lo assolveranno”. Questo stesso ottimismo è condiviso anche dal diretto interessato. Salvini ha infatti dichiarato parole emblematiche: "Qui mi hanno fatto un favore, vedrete come cresciamo dieci punti nei sondaggi in un batter d'occhio". Tornando alla votazione, ricordiamo che i voti a favore della relazione della giunta per le elezioni sono stati 141 e non hanno raggiunto la quota necessaria, ovvero la maggioranza assoluta pari a 160, perchè il parere della giunta, contrario all'autorizzazione, fosse confermato. Contrari alla relazione della giunta 149 senatori, un astenuto.
Open Arms, ecco chi ha esultato per il processo contro Salvini. Da Casarini al governatore Enrico Rossi passando per don Biancalani ed Erri De Luca: i "nemici" del leghista ora gongolano. Federico Giuliani, Giovedì 30/07/2020 su Il Giornale. L’Aula del Senato ha dato il via libera all’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini sul caso Open Arms, la nave della ong spagnola bloccata per 19 giorni al largo di Lampedusa nell’agosto 2019, quando il segretario della Lega era a capo del Viminale. Sono stati 149 i voti favorevoli, 141 i contrari e un solo astenuto. Ricordiamo che la richiesta presentata dal Tribunale dei ministri di Palermo accusa Salvini di sequestro di persona per aver bloccato lo sbarco dei migranti a bordo della citata Open Arms. "Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l'Italia: lo rifarei e lo rifarò", ha dichiarato a caldo il leader leghista, sottolineando come nel mese di luglio il numero di sbarchi sia aumentato di sei volte rispetto a quelli registrati nello stesso periodo di un anno fa. Salvini dice di andare avanti "a testa alta" e con la "coscienza pulita". "Non ho paura, non mi farò intimidire e non mi faranno tacere: ricordo che per tutti i parlamentari, presto o tardi, arriverà il giudizio degli elettori", ha concluso.
Tutti contro Salvini. Tanti gli attestati di solidarietà ricevuti da Salvini. Altrettanti i pareri di chi si dice soddisfatto della decisione presa dal Senato che, a quanto pare, sembrerebbe di vitale importanza per la tenuta democratica del Paese.
Ne è convinta, ad esempio, l’ex sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini: "Un processo sul caso Open Arms sarà salvifico per la tenuta democratica nel nostro Paese, perché servirà a sancire la differenza tra interesse pubblico e interesse di parte, a ridefinire la sostanza del concetto di stato di necessità, a restituire sacralità alla vita umana, legittimità e dignità all'opera di soccorso delle Ong". Nicolini ha quindi spiegato che “così dovrebbe essere tutte le volte che la tracotanza del potere politico calpesta il diritto internazionale e viola le norme costituzionali a tutela dei diritti inviolabili della persona".
Anche i Verdi attaccano a testa bassa Salvini. Il voto con cui il Senato ha concesso alla magistratura l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno "dimostra che nessuno può far passare il proprio convincimento politico per interesse pubblico dello Stato e che, di fronte alla legge, tutti i cittadini sono uguali". Elena Grandi e Matteo Badiali, co-portavoce dei Verdi e esponenti di Europa Verde hanno spiegato che "l'operato di Salvini è stato un atto di crudeltà finalizzato solo a scopi propagandistici, perpetrato sulla pelle di tanti innocenti".
Dello stesso avviso anche Riccardo Noury, portavoce di Amensty International Italia. "La vicenda della Open Arms è stato uno dei picchi più gravi di politiche contrarie ai diritti umani dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati, e di politiche che hanno prima delegittimato e poi criminalizzato le attività delle Ong", ha detto Noury all’Adnkronos.
Per lo scrittore Erri De Luca Salvini avrebbe agito "convinto di essere un intoccabile" e "sapendo di commettere gli abusi". Enrico Rossi, presidente della Toscana, ha scritto su Facebook che il capo del Carroccio "è già colpevole di avere violato i più elementari diritti umani, di avere abusato dei suoi poteri, di avere trattato le persone come fossero oggetti, di avere aumentato i clandestini e gli irregolari, di avere alimentato l'odio verso il diverso e verso lo straniero". Rossi ha chiuso il suo intervento ribadendo tuttavia il rischio che Salvini "possa recitare la parte della vittima, disorientando l'opinione pubblica".
Pietro Grasso, senatore di LeU, ha invece sottolineato che autorizzare il processo nei confronti di Salvini "è di estrema e delicata importanza: dobbiamo infatti ribadire con forza il principio - negato da quest'Aula sulla vicenda "Diciotti" - per cui ciascuno è chiamato a rispondere alla Legge quando decide deliberatamente, soprattutto per fini politici e di propaganda, di ignorarla".
Don Massimo Biancalani, il prete dei migranti, ha osservato all'Adnkronos di essere rimasto "colpito" dal voto del Senato e che quella odierna passerà alla storia per essere una giornata importante per "l'umanità scartata e abbandonata". "Temevo compromessi dell'ultima ora - ha dichiarato - einvece non è andata così. Da sacerdote vivo nella speranza e spero che questa giornata segni un cambio di passo". "Giusto - ha detto ancora il sacerdote- che Salvini, orchestratore, prenda le sue responsabilità rispetto a errori clamorosi che contraddicono la Costituzione. Non posso immaginare che il popolo italiano accetti che le persone vengano lasciate in mezzo al mare".
Soddisfatto anche Luca Casarini, capomissione di mare Jonio e Mediterranea Saving Humans. "Finalmente, come succede per tutti i comuni cittadini, Salvini sarà sottoposto a regolare processo per i crimini, gravi, dei quali è accusato. Invece di scappare, protetto da un privilegio, questa volta dovrà spiegare, davanti ad un tribunale, il motivo per cui ha inflitto pesantissime sofferenze a 151 esseri umani, innocenti, che avevano tutto il diritto di essere aiutati". "Chi usa il suo potere per calpestare i diritti umani non può rimanere impunito", ha terminato il suo intervento all'Adnkronos Casarini.
L'Ong poteva andare a Malta ma è venuta in Italia. Ricostruiti i tragitti della nave che avrebbe potuto sbarcare sia a La Valletta che in Spagna. Fausto Biloslavo, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. Se Matteo Salvini va processato per il «sequestro» della nave di Open arms dovrebbe essere in buona compagnia. Non c'è dubbio che il primo agosto dello scorso anno il leader leghista, come ministro dell'Interno, intimava l'altolà alla nave della ong spagnola carica di migranti in accordo con il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Danilo Toninelli, ambedue grillini. E informando il presidente del Consiglio di allora e di oggi, Giuseppe Conte. Il «divieto di ingresso, transito e sosta» nelle acque territoriali italiane derivava dai decreti sicurezza approvati in maniera collegiale dal governo e ancora validi. Nel mondo alla rovescia dove un ministro va a processo per avere cercato di fermare gli sbarchi e le Ong fanno quello che vogliono si è perso di vista il caso, che ha scatenato tutto. Il primo agosto dello scorso anno Open arms aveva raccolto in mare 55 persone in aerea di ricerca e soccorso libica, senza che nessuna autorità, tanto meno italiana avesse ordinato o concesso l'autorizzazione. Il 2 agosto gli spagnoli recuperavano altri 69 migranti in acque di competenza maltese. Il comandante di Open arms non si è mai sognato di dirigersi verso il suo paese e neppure Malta, che si opponeva allo sbarco, ma alle 22.50 del 2 agosto inviava una richiesta di Pos (luogo sicuro di sbarco) a Roma indicando come porto più vicino Lampedusa. Non solo: il 9 agosto faceva salire a bordo altri 39 migranti intercettati sempre in acque maltesi. Su Open arms c'erano 163 persone nonostante la nave fosse abilitata a portarne solo 19. E di fronte all'offerta di Malta di far sbarcare l'ultimo carico di migranti il comandante si rifiutava sostenendo che dividendoli potevano scoppiare «rivolte e disordini a bordo». Open arms è entrata comunque in acque italiane grazie al maltempo. Una pattuglia di avvocati con un ricorso al Tar è riuscita a forzare la mano e provocare uno scontro epistolare via mail fra Conte e Salvini sullo sbarco dei minori. Alla fine i 27 minori o presunti tali sono stati fatti scendere il 17 agosto. Una volta a terra si è scoperto che 9 erano maggiorenni. Neanche l'offerta della Guardia costiera di scortare la nave fino in Spagna, stato di bandiera, e l'invio di un'unità della marina militare di Madrid per recuperare i migranti ha fatto desistere Open arms dal mantenere il braccio di ferro con Salvini. Alla fine la procura di Agrigento intimava il sequestro della nave per fare sbarcare tutti i migranti rimasti a bordo. Il vicecapo di gabinetto del ministro dell'Interno, prefetto Paolo Formicola, in una nota faceva notare che «la complessiva condotta della Open arms rivelava l'intento di porre in essere un'attività volta al preordinato e sistematico trasferimento illegale di migranti in Italia». Chi ha mandato a processo Salvini non sembra averne tenuto conto. E ancora meno si è preoccupato che il comandante di Open arms, Marc Reig Creus e la capomissione Ana Isabel Montes Mier, fossero stati rinviati a giudizio il 4 luglio 2019 dalla procura di Ragusa per uno sbarco imposto precedente del 18 marzo 2018 durante gli ultimi giorni del governo Gentiloni. Il reato contestato è quello di violenza privata funzionale al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina per avere fatto sbarcare a Pozzallo 216 migranti. Gli eventi dimostrano, secondo la procura, come «l'unico vero obiettivo dell'Ong non fosse quello umanitario di salvare i migranti, ma () di portarli ad ogni costo in Italia in spregio alle regole». Copione molto simile al caso Salvini con la differenza che l'ex ministro dell'Interno è stato mandato alla sbarra nel giro di un anno dai fatti. Il processo di Ragusa contro il comandante e la capo missione del «metodo Open arms», fra covid e rinvii, non è ancora entrato nel vivo. La prossima udienza è prevista a novembre, due anni e otto mesi dopo lo sbarco imposto all'Italia.
Open Arms: il processo a Salvini è una barbarie. Corrado Ocone, 31 luglio 2020. 30 luglio 2020. In una Roma immersa nella canicola estiva, nell’Aula del Senato, in pieno centro, viene consumato un atto che passerà alla storia come quello del definitivo imbarbarimento della vita politica italiana. In spregio alle regole del buon senso, del rispetto istituzionale e dei valori ultimi di libertà e democrazia che, almeno a parole, dovrebbero sorreggere ancora la nostra vita civile. È questo il senso ultimo della votazione a favore (149 voti contro 141) della improbabile richiesta di autorizzazione a procedere per “sequestro di persona” chiesta dalla magistratura al Parlamento nei confronti di Matteo Salvini, leader dell’opposizione e del primo partito italiano, Salvini. Il quale, sinceratosi delle condizioni di salute a bordo, si era rifiutato come ministro dell’Interno di far attraccare ad un porto italiano l’Open Arms, uno di quei “taxi del mare”, come li chiamava allora Luigi di Maio, che fanno entrare in Italia ogni giorno migliaia di individui clandestinamente. Una scelta politica precisa, netta, ovviamente criticabile ma che rispondeva a due precisi valori squisitamente politici: la difesa dell’“interesse nazionale”, cioè quella che gli antichi chiamavano salus rei publicae (e in tempi di Covid il termine salute è molto pregnante) e la volontà popolare, cioè nientemeno che la democrazia, avendo avuto Salvini un preciso mandato in tale direzione dall’ampia fetta di italiani che lo avevano votato e che oggi lo voterebbero sicuramente ancora e con più convinzione. Certo, la politica non è, non può essere, un consesso di anime belle o gentiluomini: i colpi bassi fanno parte del gioco. Ma quando essi si propongono semplicemente, come è avvenuto ieri, di eliminare un avversario politico pericoloso con mezzi illegittimi, quando si fa ciò in barba ad ogni coerenza con quanto si è detto e fatto precedentemente chiamandosi fuori da atti collegiali di governo firmati e controfirmati, siamo già fuori dal perimetro della civiltà. E se non della democrazia formale, senza dubbio di quella sostanziale che è racchiusa nello spirito della nostra Costituzione, a cui pure ipocritamente si rendono in ogni momento ossequiosi omaggi. Gli autori di questo crimine sono in primo luogo Giuseppe Conte e i Cinque stelle, che avevano avallato collegialmente un atto politico che solo politicamente, ripeto, andava e andrebbe giudicato. Autori ne sono anche i piddini, i quali però non ci sorprendono più di tanto, abituati ad assecondare gli atti della magistratura quando colpiscono e atterrano gli avversari a cui non si riesce a tenere testa con gli argomenti e con la politica. Una vecchia storia che da Bettino Craxi passando per Silvio Berlusconi giunge appunto sino a Salvini, ovvero una vecchia tattica di delegittimazione morale dell’avversario che risale cromosicamente alle radici comunistiche e azionistiche della sinistra italiana. E che dire poi del “doppiopesismo” renziano, garantista con gli amici e i familiari e giustizialista, con sofismi e bizantinismi vari, con gli avversari? Ma quella di Matteo Renzi è ormai una storia che rasenta il ridicolo, se è vero come è vero che nel Paese il numero di coloro che hanno ancora fiducia in lui si approssima allo zero. In un quadro così fosco, e drammatico per lo stato comatoso in cui versa la nostra democrazia e vita civile, conforta solo il fatto che ormai il gioco di una certa parte della magistratura, della sinistra e del deep state antisalviniano si è talmente scoperto che gli italiani non se la bevono più e prima o poi presenteranno il conto salato a questa cricca di potere senza dignità e illiberale. La quale non per caso teme il voto come il diavolo teme l’acqua santa. Corrado Ocone, 31 luglio 2020
Alberto Giorgi per il Giornale il 31 luglio 2020. Come da pronostico, nel tardo pomeriggio di ieri l’aula di Palazzo Madama ha dato il via libera all’autorizzazione a procedere chiesta dal tribunale dei ministri di Palermo contro Matteo Salvini, finito nel mirino dei magistrati per il caso della nave Open Arms. Con 149 voti, il Senato ha respinto la richiesta della giunta per le immunità che chiedeva di non procedere contro l’ex ministro dell’Interno, e a sinistra è scoppiata la festa. Quella di ieri è stata una giornata lunga e difficile. In mattinata il capo politico della Lega si è difeso con orgoglio nell’emiciclo, ricordando come nell’agosto del 2019 – poco prima che finisse l’esperienza del governo gialloverde – pensò semplicemente a difendere i confini italiani dalla Ong spagnola, che aveva caricato a bordo migranti recuperati al largo delle coste della Libia. "In quel tribunale ci vado a testa alta e con la schiena dritta", così ha concluso il proprio discorso Salvini, già sicuro che il Senato lo avrebbe mandato a processo. E infatti una manciata di ore più tardi la ghigliottina della sinistra è arrivata puntuale, anche coi i voti di Renzi e dei renziani, che nei mesi scorsi si erano detti contrari a processo. L’ennesima giravolta, insomma. E così Salvini, dopo il processo per sequestro di persona per il caso della nave Gregoretti – l’udienza preliminare del dibattimento è stata fissata al 3 ottobre – dovrà subire un altro procedimento, sempre per sequestro di persona. Reato che prevede una pena massima fino a 15 anni di reclusione. Secondo i 149 senatori che lo hanno mandata a processo, all’epoca dei fatti non agì per interesse nazionale, bensì per scopi delittuosi. Non ci vuol molto a capire che si tratta di un processo politico per tagliare fuori il numero uno del Carroccio dalla contesa politica. "Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l'Italia: lo rifarei e lo rifarò, anche perché solo in questo luglio gli sbarchi sono sei volte quelli dello stesso periodo di un anno fa, con la Lega al governo. Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita, perché ho fatto il mio dovere con determinazione e buonsenso. Non ho paura, non mi farò intimidire e non mi faranno tacere: ricordo che per tutti i parlamentari, presto o tardi, arriverà il giudizio degli elettori", è stato il commento a caldo di ieri di Salvini, che da oggi studia come portare con sé in tribunale anche chi avallò le sue decisioni sulla Open Arms: su tutti, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Non a caso l’unica astenuta di ieri a Palazzo Madama – la grillina Tiziana Drago – ha parlato di "corresponsabilità del governo Conte Uno in quella vicenda". Ecco, allora servita la correità dell'eventuale reato ed è proprio questa la carta che il segretario della Lega vuole giocarsi: far processare anche l’inquilino di Palazzo Chigi. E magari anche gli allora responsabili del Mit e della Difesa, Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta. D’altronde, se la decisione di non far attraccare subito la Open Arms fu una scelta del governo, perché dovrebbe pagare solo Salvini e non il premier?
La giustizia secondo Pd e M5s? Clandestini liberi, Salvini a processo. Sbarchi record, centri migranti al collasso e continue fughe dalla quarantena. Il Paese è allo sbando. E il governo che fa? Manda a processo Salvini per aver difeso i confini e smonta i decreti sicurezza. Andrea Indini, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. Mentre il Senato impallinava Matteo Salvini, al termine di un processo farsa durato tutta la giornata, i banchi del governo erano penosamente vuoti. Hanno preferito non guardare negli occhi il leader leghista mentre la maggioranza armava i pm di Palermo. Forse perché avrebbero provato imbarazzo. Alcuni di loro, infatti, avevano controfirmato fino all'ultimo le misure messe in atto dall'allora capo del Viminale per fermare gli sbarchi degli immigrati clandestini e i soccorsi pilotati delle Ong internazionali. Di sicuro lo aveva fatto il premier Giuseppe Conte che di quanto accadeva al largo dei porti italiani veniva costantemente informato dagli uffici del ministero dell'Interno. E che dire di Luigi Di Maio che aveva uno dei suoi fidati al dicastero che gestiva proprio quei porti? Ora se ne lavano tutti le mani e scaricano ogni responsabilità sul Capitano. Con la stessa nonchalance voltano le spalle ai decreti Sicurezza da loro stessi votati e, dopo l'accordo trovato ieri, disposti ad affossare senza farsi troppi problemi di coscienza. La nuova linea dell'esecutivo Conte, imposta dal Partito democratico a un Movimento 5 Stelle più debole che mai, sposa in toto l'ideologia dei "talebani" dell'immigrazione: porti aperti a clandestini e navi delle Ong. Il problema è che i giallorossi hanno deciso di forzare la mano in un momento molto delicato per il Paese. Ci troviamo, infatti, a combattere contro la possibilità di una seconda ondata di Covid-19 e ad affrontare una crisi economica senza precedenti. Sui giornali promettono tutti misure per fermare gli sbarchi. Nei fatti, poi, fanno l'esatto opposto. Lo dimostrano, per esempio, gli arrivi a Lampedusa proprio mentre il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese si trovava sull'isola. O i clandestini potenzialmente infetti parcheggiati in alberghi, agriturismi o comunque strutture non controllate. Le fughe da questi centri dimostrano la totale incapacità (o il preoccupante disinteresse) del governo a proteggere i propri cittadini. Succede quindi che, in barba alla legge e al buonsenso, si permette a un gruppetto di migranti tunisini sorridenti, con tanto di cappellino di paglia calcato sul capo e un barboncino portato al guinzaglio, di sbarcare tra i flash dei presenti attoniti. Immagine perfetta di un Paese dai confini colabrodo in cui la maggioranza di sinistra processa il leader del maggior partito d'opposizione per aver sbarrato la strada a una nave che non aveva il diritto di entrare in un porto italiano. Situazione fotocopia in cui si è trovata invischiata anche la Lamorgese quando, nell'ottobre dell'anno scorso, ha tenuto in rada la Ocean Viking per undici giorni. Per lei nessuno ha sollevato alcuna obiezione. Mentre i giallorossi perdono tempo a processare Salvini in Aula, gli sbarchi continuano a crescere. I dati di questo mese sono allarmanti, probabilmente i peggiori degli ultimi tre anni. L'aumento degli arrivi supera il 400 per cento. E pensare che solo un anno fa, grazie al pugno duro di Salvini, avevamo a che fare con numeri prossimi allo zero. Oggi, in una intervista al Corriere della Sera, Di Maio, costretto oggi ad appoggiare una linea diametralmente opposta a quella sposata quando era al governo con la Lega, torna a proporre un approccio "pragmatico e concreto" al problema. Come se questo può accadere quando ti trovi a dover affrontare un'emergenza come quella dell'immigrazione clandestina con la sinistra. Da quando il Pd è arrivato al governo, ha un solo chiodo fisso: abbattere i decreti Sicurezza. È diventata la loro ragione di vita. Un po' come lo era stato lo ius soli durante la precedente legislatura. Sulla cittadinanza facile agli stranieri hanno già sbattuto il muso contro il muro. Adesso sembrerebbe che siano riusciti a strappare ai Cinque Stelle il superamento dei due dl Salvini. Entro la fine dell'anno saranno carta straccia e le Ong potranno tornare a fare alla luce del sole quello che negli ultimi mesi non hanno mai desistito dal fare: traghettare clandestini da una sponda all'altra del Mediterraneo. Nel frattempo il governo continuerà a farsi prendere in giro dai migranti che se ne infischiano della quarantena e mettono a rischio la salute di un Paese intero.
Mauro Indelicato per il Giornale il 31 luglio 2020. Il “day after” del voto in Senato sul caso Open Arms ha lasciato non pochi strascichi politici, sia nella maggioranza che nell'opposizione. Ma è soprattutto negli ambienti della Lega che adesso si discute maggiormente su quanto avvenuto. Il 26 maggio, in sede di seduta della Giunta per le autorizzazioni, Italia Viva aveva votato contro il processo a Matteo Salvini. Ieri in aula Matteo Renzi ha invece attuato un ennesimo ribaltone, facendo votare i suoi 18 senatori a favore della richiesta da parte del tribunale dei ministri di Palermo. Dunque la procedura giudiziaria nei confronti del leader del Carroccio andrà avanti, proprio come quella per il caso Gregoretti ed al contrario invece di quanto stabilito nel marzo del 2019 per il caso Diciotti. Tre casi simili, ma capitati in contesti politici differenti che hanno fatto orientare diversamente le varie forze politiche. Le accuse mosse contro Salvini sono soprattutto due: abuso di ufficio e sequestro di persona. Viene contestato all'allora ministro dell'Interno di aver impedito lo sbarco della nave dell'Ong spagnola e quindi aver creato situazioni di pericolo a bordo. L'indagine sul caso Open Arms è partita dalla procura di Agrigento, che per competenza l'ha girato poi a Palermo, lì dove si è insediato il tribunale dei ministri che il 1 febbraio scorso ha disposto la richiesta al Senato di poter procedere nei confronti del numero uno della Lega. Oggi nella sede del Carroccio si fanno alcuni calcoli: non solo si fa la conta sugli appena 18 senatori renziani che sono stati decisivi per l'esito del voto, ma nel conteggio entrano anche i giorni riguardanti lo stop all'ingresso della nave Open Arms. Dalla sede della Lega parte una considerazione in merito: “I giorni contestati all'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini per il mancato sbarco sono quelli dal 14 al 20 agosto 2019 – si legge in una nota – Un periodo più breve, per esempio, di quello atteso dalla Ocean Viking per ottenere il via libera dal Viminale guidato da Luciana Lamorgese: 11 giorni nell'ottobre 2019”. Il riferimento è proprio al caso Ocean Viking, uno dei primi che il governo giallorosso ha dovuto affrontare in merito alle attività delle Ong. In quell'occasione la nave, usata dall'Ong francese Sos Mediterranée all'epoca assieme a Medici Senza Frontiere, ha atteso parecchio tempo prima di poter sbarcare. In particolare, il 30 ottobre è arrivata a Pozzallo con più di 100 migranti a bordo, ma le prime operazioni di salvataggio risalivano al 18 ottobre, giorno in cui i membri dell'Ong hanno chiesto un porto sicuro.
Palazzo Chigi e la mail errata (e in ritardo) sul processo contro Salvini. Gli uffici della presidenza del Consiglio rispondono alla richiesta dell'avvocato Bongiorno, circa il processo Gregoretti, con oltre due mesi di ritardo. L'errore di Palazzo Chigi. Alberto Giorgi, Lunedì 03/08/2020 su Il Giornale. Anche Palazzo Chigi sbaglia a mandare i messaggi di posta elettronica. Errare humanum est, dice la nota massima dei latina, ma non dovrebbe succedere se di mezzo ci sono comunicazioni ufficiali istituzionali. E se l’oggetto della questione è un procedimento a carico di un parlamentare. In questo caso, si tratta dell’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, concesso al tribunale dei ministri di Catania dall’aula del Senato, in data 13 febbraio, per il caso Gregoretti. Come noto, invece, nei giorni scorsi Palazzo Madama ha dato il via libera a un secondo procedimento contro il leader della Lega: sempre per sequestro di persona, questa volta per il caso della nave della Ong Open Arms. In questo caso ad avanzare la richiesta sono stati i magistrati di Palermo. Bene, dicevamo dalla mail sbagliata. Ecco, la mail non è stata solamente sbagliata da Palazzo Chigi, ma inviata con larghissimo ritardo. Spieghiamo. In data 25 maggio, la senatrice del Carroccio Giulia Bongiorno, in qualità di avvocato dell’ex titolare del Viminale, avanzò ufficialmente la richiesta della difesa del senatore Salvin nell’ambito, appunto, del caso Gregoretti. Ne seguono sessantanove giorni di silenzio, senza che da Palazzo Chigi arrivasse alcuna risposta. Il motivo di questo silenzio? Presto detto: gli uffici del Presidente del Consiglio avevano spedito il materiale a un indirizzo mail errato – perché non riferibile allo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno – e quindi niente è stato ricevuto prima di oggi, che è il 3 di agosto. Un buco di settanta giorni che imbarazza Palazzo Chigi, che anziché inviare una comunicazione ufficiale all’indirizzo Pec (posta elettronica certificata) dello studio dell’avvocato Bongiorno, pensa bene di rispondere all’indirizzo della segretaria dello studio stesso. Il tutto sbagliando questo secondo indirizzo. Et voilà, la frittata è fatta. In questo modo anziché servirsi della pec, consigliata per questo tipo di comunicazioni, hanno inviato una mail a un indirizzo generico (sbagliato!) con tutta la documentazione relativa a un processo contro un ex ministro. Ovviamente, le comunicazioni ufficiali su questioni peraltro delicate andrebbero indirizzate alla mail pec dello studio, cosa che non è avvenuta. Gli uffici di Palazzo Chigi hanno preferito – viene da chiedersi il perché – rispondere all’indirizzo di segreteria, sbagliandolo pure…Il capo politico della Lega, nei prossimi mesi, dovrà difendersi in due diversi procedimenti: in entrambi è accusato di sequestro di persona, per aver tardato lo sbarco dei migranti a bordo dell’imbarcazione della Guardia Costiera Italiana (Gregoretti) e della nave della Ong spagnola (Open Arms). Il primo appuntamento è fissato a inizio ottobre, il 3: in quel giorno di inizio autunno è stata fissata l’udienza preliminare del processo-Gregoretti.
Francesco Bechis per formiche.net il 7 agosto 2020. Matteo Salvini ha trovato il suo avvocato, e non è l’ultimo degli arrivati. Niente paura per il caso Open Arms: ci pensa Rudolph Giuliani a difenderlo. L’ex sindaco di New York e braccio destro del presidente americano Donald Trump si è oggi lanciato in una strenua difesa del “Capitano” su Twitter. Tutto parte da un cinguettio di una giovane ragazza italoamericana, Sofia Carbone (account seguito da Salvini). “Salvini sta facendo i conti con un processo criminale su un disaccordo politico. Vi suona familiare? Trump è stato messo sotto impeachment e hanno cercato di rimuoverlo dal suo posto proprio su un disaccordo politico. I leader nazionalisti e populisti sono sotto attacco in tutto il mondo”. Pochi minuti, e il tweet cattura l’attenzione del repubblicano di ferro. “Strumentalizzare i processi con accuse criminali per scopi politici è una grave violazione dei diritti civili e dei diritti fondamentali dell’uomo”, ha scritto in risposta Giuliani. Un endorsement a Salvini che arriva nel momento più difficile, e da un interlocutore di rango oltreoceano, tra i più fidati consiglieri del Tycoon. Non è la prima volta che l’ex primo cittadino di New York si occupa di cose italiane. Di recente proprio il leader del Carroccio ha postato su Twitter un suo video in cui accusa la Cina per la morte di “tutti quegli italiani”. Dopotutto Giuliani è indissolubilmente legato allo Stivale. I suoi genitori, Rodolfo ed Evangelina, sono emigrati negli Stati Uniti da Marliana, un piccolo borgo toscano in provincia di Pistoia. Ma per Salvini l’avvocato di Trump sembra avere una simpatia che va ben oltre la conterraneità…
Salvini: “Paura del processo? 200 avvocati si sono offerti di difendermi gratis”. Il Dubbio il 31 luglio 2020. “Si sono offerti 200 avvocati gratuiti a difesa da tutta Italia, pensavo di fare dei pullman”. “Spero di non trovare un Palamara, un parente di Palamara, un cugino o un amante di Palamara in Tribunale a Catania, la prima udienza è fissata il 3 ottobre dopo le regionali. Questo è un processo made in Palamara, ma i giudici alla Palamara sono una minoranza”: così il leader della Lega, Matteo Salvini, all’indomani della decisione del Senato sul via al processo per il caso Open Arms. “Dopo Catania – ha detto ancora Salvini – ci sarà un provvedimento a Palermo. Se mi invitano anche a Ragusa ed Agrigento riesco a coprire anche quella parte di questa bellissima isola. Vado con la tranquilità di non aver commesso nulla di male. Si sono offerti 200 avvocati gratuiti a difesa da tutta Italia, pensavo di fare dei pullmman. E’ una vicenda talmente surreale, che vado a processo curioso”. Un ringraziamento particolare lo riserva all’ex ministro dell’Economia Tria: “Ringrazio Tria, decisione fu collegiale. Per la poltrona c’è chi vende anima al diavolo” “Ringrazio Tria che ha ammesso che la decisione fu collegiale del governo, c’è chi per tenersi la poltrona venderebbe l’anima al diavolo”.
Open Arms, Salvini: “Avvocati pronti a difendermi”. Notizie.it il 31/07/2020. Sul caso Open Arms, Salvini dichiara di avere 200 avvocati pronti a difenderlo. Il leader della Lega è pronto a combattere al processo. Caso Open Arms, Matteo Salvini pronto a schierare avvocati per difenderlo durante il processo. Ieri sera, 30 luglio 2020, il Senato ha votato a favore affinché finisse in tribunale ma il leader della Lega è sul piede di guerra. La sua risposta non è tardata ad arrivare: “Il mio è un processo Palamara. I giudici alla Palamara sono la minoranza. Ma io spero di non trovare a Catania un Palamara quando mi processeranno il 3 ottobre”. Diverse le difese prese da Salvini in merito al caso Open Arms, quando bloccò la nave dell’omonima Ong per 19 giorni con 164 migranti a bordo, nell’agosto 2019. Il leader della Lega ha detto che stava facendo il suo dovere come ministro, puntando poi il dito contro il Movimento 5 Stelle, che ai tempi era alleato di Governo, accusandoli di essere stati d’accordo. Matteo Salvini avrebbe dunque ricevuto messaggi da circa 200 avvocati pronti a prendere le sue parti al processo per Open Arms. “I miei elettori, sotto l’ombrellone, un po’ ridono e un po’ s’incazzano. "Ma come, mi dicono: noi ti abbiamo eletto proprio per fare quello e loro ti mandano a processo per averlo fatto?"”, ha dichiarato il leader della Lega, “Se c’è un reato, è quello del Governo. Dopo aver dichiarato un’emergenza senza l’emergenza, il non fare nulla per evitare gli sbarchi è un reato: si chiama favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. La polemica per il voto del Senato prosegue anche sui social, in particolare sulle pagine Facebook e Twitter ufficiali di Salvini, dove al verdetto aveva postato un intervento piccato: “Non ho paura, non mi farò intimidire e non mi faranno tacere: ricordo che per tutti i parlamentari, presto o tardi, arriverà il giudizio degli elettori”.
Alessandro Sallusti per “il Giornale” l'1 agosto 2020. Si chiama Italia Viva ma meglio sarebbe chiamarla Italia Morta. Il partito di Renzi affonda nei sondaggi ma non è quello il problema, semmai è la conseguenza di una dissennatezza senza pari. Peccato, financo noi avevamo creduto in una sua capacità riformatrice, eravamo pure caduti nel tranello della sua dichiarata vocazione garantista perché non pensavamo fosse sincera e non ad personam per i suoi parenti stretti, che uno dopo l' altro finivano nel tritacarne della giustizia. Lo avevamo difeso - lui e la sua famiglia - provocando l' irritazione di molti lettori e della cosa non ci pentiamo (anche se questa è la prova che l' intuito dei lettori è infallibile) perché riteniamo la coerenza un valore e non merce di scambio. Niente da fare, Renzi più fa e più si butta giù. Il suo voto nell' aula del Senato decisivo per mandare a processo Salvini - dopo che lo aveva salvato in commissione - è la plastica negazione di una narrazione che aveva preso forma alla Leopolda e creato un brivido nel Paese e per molti, e non solo di sinistra, una speranza. Peccato, dicevamo, proprio non ci voleva. Ma con il senno di poi viene il dubbio che in realtà da quelli parti non ci sia mai stato nulla di serio, certamente non di affidabile. Italia Viva è diventata velocemente Italia Morta perché è fondata sul nulla, un partito familiare che di volta in volta si mette a disposizione del signorotto di turno, come facevano le compagnie di ventura dei primi secoli del millennio scorso, solo per spartirsi il bottino frutto di prevaricazioni e saccheggi. Ma tutto questo, in fondo, sono affari di Renzi. Che intuendo la malaparata (oggi stando ai sondaggi non verrebbe neppure rieletto) sta spremendo il limone fino all' ultima goccia, non fosse altro che per assicurarsi una pensione anticipata più che decente. Dal suo punto di vista probabilmente fa pure bene, ma non venga a parlarci di politica, di valori, di futuro. Io, non so voi, non voglio neppure immaginare di vivere in un' Italia renziana, uno così venderebbe i nostri figli al primo che passa pur di trarne un minimo vantaggio. Fino a un po' di tempo fa da queste parti si diceva: Renzi è il figlio che Berlusconi non ha avuto. Alla luce dei fatti questo è il peggior insulto mai fatto al Cavaliere. I suoi figli, naturali e politici, sono infinitamente migliori di questo mercenario.
Gregoretti, Matteo Salvini trascina Giuseppe Conte in tribunale: Libero mostra le carte che inguaiano il premier. Libero Quotidiano il Giuliano Zulin 06 agosto 2020. «Non pretendevo un medaglia, era il mio lavoro quello che gli italiani mi chiedevano, non mi aspettavo neanche due processi, se volete venire a farmi compagnia il 3 ottobre sarò in tribunale a Catania, non sono abituato ad andarci da criminale, ma ci vado a testa alta, ma sicuramente qualche esponente del governo verrà a farmi compagnia. Io rischio 15 anni di carcere per aver fatto rispettare la legge e i confini del mio Paese ed è chiaro che è un processo politico, ma siccome le scelte le prendevamo tutti insieme allora ci andremo tutti». Le parole di Matteo Salvini pronunciate a Rtl 102.5 promettono spettacolo. Ne vedremo delle belle al processo. Soprattutto vedremo alla sbarra, magari come testimone chiamato dalla difesa, Giuseppe Conte, Elisabetta Trenta (ex ministro delle Difesa) e Danilo Toninelli (ex ministro delle Infrastrutture, alla guida della Guardia Costiera). Il "capitano" sarà giudicato, su decisione del Senato a maggioranza giallorossa, per le vicende Gregoretti e Open Arms. In entrambi i procedimenti l'ex capo del Viminale è accusato di sequestro di persona. La sua colpa? Aver tenuto a bordo, senza farli sbarcare, centinaia di migranti. Eppure c'era una norma, il famoso decreto sicurezza tramutato in legge con i voti dei grillini, che permetteva al segretario del Carroccio di poter impedire ai clandestini l'approdo sul territorio italiano. Dov' era il premier, che poi è lo stesso dal 2018, quando si concepivano tali provvedimenti che permettevano il divieto di sbarco? Era a Palazzo Chigi o era un turista? In realtà, atti alla mano, il capo del governo dovrà rispondere come Salvini dei reati a lui contestati. Vediamo perché. Il 12 febbraio il Senato votò per il rinvio a giudizio dell'ex ministro dell'Interno. Da segnalare che sul caso Diciotti, identico a quello della Gregoretti, Palazzo Madama salvò Matteo. Già solo questo fa capire che i senatori si esprimono solo per motivi politici. Che poi è un guaio, perché adesso è toccato a un leghista - quindi un reietto per la sinistra - ma domani, dopodomani potrebbe toccare a ogni ministro della Repubblica, che si vedrà limitato nelle sue funzioni, approvate dal popolo. Torniamo alla vicenda. A luglio 2019, l'equipaggio della Gregoretti salva in mare 116 persone ma, come era avvenuto alla Diciotti, non gli è data la possibilità di attraccare e quindi rimane per giorni fuori dal porto di Augusta. Vengono comunque fatti scendere i minori e un passeggero affetto da sospetta tubercolosi. Poi il 31 luglio la "Rappresentanza permanente presso la Ue" fa sapere che, su richiesta della presidenza del Consiglio (quindi di Conte), alcuni Paesi europei sono disposti ad accogliere i migranti. Poche ora dopo si decide lo sbarco dei 115 a bordo della Gregoretti, imbarcazione della Guardia Costiera. Dunque Palazzo Chigi era pienamente responsabile. Non solo Salvini. Il primo agosto, sempre del 2019, una nave Ong, la spagnola Open Arms, in più operazioni prende a bordo centinaia di immigrati e chiama le autorità italiane, benché ancora in acque internazionali. Lo stesso giorno viene emanato dal ministero dell'Interno, di concerto con quello della Difesa e dei Trasporti informando la presidenza del Consiglio, il divieto di ingresso, transito e sosta nel mare italiano dell'imbarcazione, in virtù dei decreti sicurezza (votati dalla maggioranza gialloverde e approvati dal premier). Il capitano del mezzo invece di procedere verso la Spagna o verso Malta, punta sull'Italia. I legali della Open Arms fanno ricorso al Tar del Lazio contro il divieto. I giudici lo accolgono parzialmente. Così i migranti si avvicinano a Lampedusa. Tredici vengono fatti scendere per motivi sanitari benché, a una prima visita, tutta questa emergenza non emerga (solo uno ha l'otite come dichiarava il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio). Altri scendono a terra: 27 presunti minori. Presunti poiché otto di loro, appena sbarcati, si dichiarano maggiorenni. Rimangono così poco più di un centinaio di clandestini a bordo. La sinistra teme per la salute degli ospiti, allora sale a bordo il medico della Sanità marittima con gli uomini della Squadra mobile e della Guardia costiera, su input del procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella. Risultato: zero «patologie particolari importanti» dal punto di vista sanitario, anche se risultano «molto stanchi e provati dalla lunga permanenza sulla barca». Il 19 agosto, nonostante il governo gialloverde ormai fosse morto, ancora Salvini, la Trenta, Toninelli e Conte si oppongono di nuovo al Tar, quasi chiedendo che la Open Arms andasse in Spagna, la quale sarebbe ormai pronta ad accogliere... Niente, il giorno dopo il pm di Agrigento sequestra la nave e fa scendere tutti. A processo però va solo Salvini, ma davanti al giudice qualche testimone uscirà come imputato. Gli atti e le date parlano da soli.
Open Arms, Filippo Facci: deve pagare tutto il governo. Salvini a processo? Parlamentari cretini e giustizia modello-Palamara. Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Non siamo tra quelli che scrivono «torna Mani pulite» ogni tre secondi, però una cosa forse sta tornando: è il silenzio che circonda le storture giudiziarie quando riguardano gli avversari politici, con l'auspicio che ad altri - per esempio al Pd, ai renziani, ai grillini - certe cose non capiteranno. Poi però càpitano, prima o poi: ed ecco che i ruoli regolarmente si invertono. È anche così che la politica si è scavata la fossa: non comprendendo che sfruttare le inchieste penali per screditare gli avversari alla fine porta discredito a tutti, e siamo alla fine. Ora, nel caso, non occorre essere amici di Matteo Salvini per comprendere l'assurdità del suo caso, non occorre condividere il merito politico per stupirsi di un metodo giudiziario che corrisponde a processare un uomo (solo) per l'azione politica di tutto un governo. Una cosa del genere può stupire solo un candido come Giovanni Tria, l'ex ministro dell'Economia del governo gialloverde, che ieri infatti ha detto così: «Per quel governo, l'azione di Salvini era interesse pubblico. L'informazione stava sui giornali, chi non era d'accordo poteva esprimersi: ma non mi ricordo che qualcuno si sia espresso La responsabilità è ovviamente collegiale, e tirarsene fuori dopo non è elegante». Per dirla male: se un ministro agisce pubblicamente, e a nome di un governo, ogni responsabilità sarà dunque del governo di cui lui fa parte. Non stiamo parlando di reati di sangue o di azioni cogitate di nascosto, isolate, private, ma di atti e di azioni - quelle di Salvini - sospinte da espliciti consensi all'interno della maggioranza. Quindi era un atto condiviso, come peraltro dimostrano le ordinarie concertazioni e i carteggi di Salvini col capo del governo e il ministro della Difesa. Qualcuno ha estratto una lettera di Giuseppe Conte che chiedeva delucidazioni e invitava Salvini a riflettere bene prima di muoversi: e allora? Pare normale, e comunque la lettera anticipava una piena condivisione governativa. Lo dimostra la prova contraria: se davvero fosse stata solo un'iniziativa personale, una responsabilità singola di Salvini, Conte e la sua maggioranza avrebbero potuto fermarla o chiedere le dimissioni di un ministro che era il loro.
OPPORTUNISTI. Ora però abbiamo un solo ex ministro (non un governo) accusato di sequestro di persona per aver trattenuto dei migranti a bordo di una nave circa un anno fa, abbiamo un solo ex ministro che dovrà affrontare ben due processi per sequestro di persona. È stata la terza volta che Salvini si è ritrovato a dover esser giudicato dall'Aula: in precedenza era accaduto per il caso della nave Diciotti e l'aula non aveva concesso l'autorizzazione. Che cos' è cambiato? Sappiamo, quanto a opportunismo, che i grillini sono quello sono: inutile prendersela. E il Pd? La speranza che qualche coscienza individuale addittasse questa stortura giudiziaria s' infrange contro la storia di un partito che, dal 1992, pur cambiando nome più volte, ha fatto dell'uso politico delle inchieste una specialità senza eccezioni. Il bello è che c'è anche poco da cavillare, qui: che l'azione di un governo sia collegiale, nel ragionamento della Procura di Agrigento, è un dettaglio politico-giuridico che è stato neppure sfiorato, ipotizzato; il dubbio che altri potessero essere iscritti nel registro degli indagati - diciamo così, in concorso - semplicemente non è esistito, e questo nel Paese del reati associativi per eccellenza, contestati di continuo - per molto meno - anche solo per il cosiddetto «concorso morale» ex articolo 110 del codice penale.
AUTORIZZAZIONE A PROCEDERE. Il Parlamento non deve entrare nel merito delle imputazioni di una procura, lo sappiamo: ma chiedersi se una procura sia motivata da finalità ad hoc, ad personam, quello sì, deve farlo. È ancora suo dovere. Anche se l'ex guardasigilli Andrea Orlando (Pd) qualche anno fa propose di lasciare alla Consulta e non più al Parlamento il compito di occuparsi delle autorizzazioni a procedere e agli arresti dei parlamentari: disse che le autorizzazioni erano diventate «un anticipazione di giudizio di colpevolezza o di innocenza, comunque una valutazione politica». Peccato che l'immunità parlamentare sia stata introdotta proprio perché fosse oggetto di valutazione politica: altrimenti a che cosa doveva servire? Certo, è anche vero che intanto in questi anni hanno abolito la politica, e che il livello dei parlamentari pigia-bottoni è sceso sotto la crosta terrestre: un cretino di onorevole disposto a leggersi mezza carta, oggi, non lo trovi più, e non trovi più uno che ne faccia una questione di merito, che giustifichi o meno l'esistenza di un'inchiesta sulla base del cosiddetto «fumus persecutionis», qualcuno che insomma si preoccupi che una qualsiasi inchiesta improbabile e delirante - e tante ce ne sono state - possa interferire con il mandato popolare. Non c'è più niente di tutto questo. C'è il nemico da abbattere. C'è la giustizia dei Palamara che mette le sentenze al posto delle schede.
Immigrazione, Vittorio Feltri a Gherardo Colombo: "Se recuperi dalle onde uno sfigato che affoga te lo porti a casa". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 01 agosto 2020. Leggo sui giornali di proprietà di industriali attacchi furibondi a Matteo Salvini ormai destinato a essere processato per aver frenato la invasione selvaggia dei migranti. Non ne sono stupito. La Lega sta sulle scatole ai signori e ai loro ubbidienti camerieri. Vorrei però segnalare ai nostri lettori (fessi non sono) che l'ex capo dell'Interno faceva parte del Consiglio dei ministri presieduto da Giuseppe Conte. Si dà il caso che le decisioni del governo fossero e siano collegiali, quindi approvate dall'organo stesso e non prese dai singoli responsabili dei dicasteri. Se non fosse così non avrebbe senso l'esistenza del citato Consiglio. Ogni ministro sarebbe padrone del proprio gabinetto e ne risponderebbe personalmente. Pertanto Salvini, ammesso avesse sbagliato, dovrebbe condividere l'errore anzitutto con Conte (altrimenti che ci sta a fare a Palazzo Chigi?) e colleghi vari, nessuno dei quali si era mai opposto alle maniere forti del cosiddetto Capitano. Il quale pertanto non può essere considerato un capro espiatorio bensì uno della banda. O si giudica tutta la banda o nessuno. Mi sembra evidente. Nel merito della vicenda si può soltanto specificare che ogni Stato è obbligato a difendere i propri confini da ogni intrusione, altrimenti non è uno Stato ma un gruppo di sbandati in balia di chiunque entri in un territorio regolato da violate norme precise. Cosicché tacciare il condottiero di Alberto da Giussano di aver difeso le frontiere è una follia. È l'esecutivo nella sua interezza ad aver bloccato le navi stracolme di clandestini, i quali una volta sbarcati liberamente si sparpagliano nella penisola e usufruiscono delle nostre strutture sociali gratuite o, meglio, finanziate da noi con scarso entusiasmo. Il problema dell'immigrazione è vecchio come il mondo e sarebbe velleitario pensare di azzerarlo, tuttavia le calate dei barbari vanno contrastate se non desideriamo essere inghiottiti dagli stranieri. Invece in questo Paese stravagante c'è addirittura un ex valente magistrato, Colombo, il quale, mediante una nave, sta organizzando il salvataggio in mare di extracomunitari in procinto di annegare. Nobile impresa umanitaria, però privata, e come tale va condotta con mezzi appunto propri. Ossia, se tu recuperi tra le onde uno sfigato che si accinge ad affogare, poi lo devi portare a casa tua, non addossare alla collettività il suo mantenimento. Come diceva il povero Stefano Ricucci, non è lecito fare i froci col culo degli altri. Caro Colombo, capita perfino a me di compiere beneficenza senza peraltro sbandierarlo ai quattro venti, ma soprattutto uso i soldi miei, non quelli della comunità. Conduci a riva chi ti pare ma evita di far pagare ai connazionali il conto delle tue buone azioni. Prima di chiudere il pistolotto, una semplice osservazione. Se uno casca in acqua accidentalmente sono il primo a tuffarmi per impedirgli di morire, se invece si avventura tra i flutti sapendo che poi qualcuno lo tirerà fuori dai guai le cose cambiano. Si arrangi, eviti di sfidare la sorte e non avrà bisogno di soccorso.
Colombo e Spataro nostromi del barcone salva migranti. Le due toghe battezzano la nuova nave italiana ResQ. Chiedono due milioni: "È un dovere". Fausto Biloslavo, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. Ci mancava solo una nuova onlus dell'accoglienza, che punta a raccogliere 2 milioni di euro per mettere in mare l'ennesima nave e portare migranti in Italia. Lo sponsor, testimonial d'eccezione e presidente onorario è Gherardo Colombo, quello del pool di mani Pulite, ma non mancano fra i soci fondatori altri magistrati, del calibro di Armando Spataro. Solo due anni fa, quando indossava ancora la toga, si era duramente scontrato con l'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini, proprio sull'immigrazione. Poi ci sono giornalisti, attori, avvocati, sindacalisti, preti, la crème della «società civile» fermamente pro migranti. Per non parlare di Sergio Cusani, uno dei condannati più famosi di Mani pulite o Beppe Caccia, fondatore di Mediterranea, i talebani dell'accoglienza italiani, che si sono beccati tre diffide di seguito della Guardia costiera con la loro nave Mare Jonio non abilitata ai soccorsi. Tutti assieme appassionatamente nella fondazione di ResQ-People Safving People presentata ieri. «Mi sono posto una semplice domanda: sarei contento se qualcuno mi venisse a salvare se stessi annegando in mare? Sì, sarei contento» ha spiegato un po' banalmente, Gherardo Colombo intervenendo alla conferenza stampa. L'ex pm ha poi citato la Costituzione per spiegare che i perseguitati «hanno il diritto di essere accolti. Non è una facoltà o un privilegio». Peccato che la stragrande maggioranza dei migranti in arrivo, a cominciare dai tunisini, la prima nazionalità, non scappano da guerre e il loro Paese è considerato democratico. L'obiettivo della nuova onlus è di raccogliere 2,1 milioni di euro attraverso donazioni e crowdfunding. I soldi serviranno a comprare una nave di 520mila euro, ma per ammodernarla e ingaggiare 10 uomini di equipaggio, 9 medici e infermieri ci sarà bisogno di un milione. ResQ-People Saving People prevede anche l'acquisto di due gommoni veloci per individuare i barconi dei migranti. Alla fine per andare avanti un anno ci vogliono due milioni. «Siamo la nave degli italiani, della società civile. Che agisce, che non teme. Che dà diritto. Che si ribella» è lo slogan. All'appello hanno risposto Colombo e tre ex magistrati: Elio Michelini, Giovanni Palombarini e Armando Spataro. Palombarini, che è stato ai vertici di Magistratura democratica nel 2013 ha corso alle politiche senza successo con la lista dell'ex pm Antonio Ingroia. Il presidente della nuova onlus è l'inviato di Famiglia cristiana, Luciano Scalettari. Non mancano il giornalista Gad Lerner e i conduttori di Catepillar, programma top di Radio2. ResQ non poteva che ricevere la benedizione di Beppe Giulietti, presidente della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. Fra i primi 130 soci ci sono preti nettamente schierati come il comboniano Alessandro Zanotelli. Un cofondotare è Silvio Aimetti, primo cittadino di Comerio e portavoce dei sindaci accoglienti della provincia di Varese. Ben rappresentati anche legali e docenti legati all'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, che ha appena denunciato Italia, Malta e Libia per un caso del 2019. Sul loro sito campeggia il logo e l'appoggio di Open society fondata da George Soros. Fra i soci spiccano nomi forti delle Ong che si battono contro la «fortezza Europa», come Cecilia Strada, ex presidente di Emergency e Sabina Siniscalchi di Oxfam. Oltre a Juan Matias Gil, già imbarcato sulla nave di Msf. Nel 2018 il ministro dell'Interno Salvini voleva bloccare la nave spagnola Open arms, che forse nelle prossime ore gli costerà un processo per un altro stop. Due anni fa Matias Gil si schierava via Twitter contro il responsabile del Viminale: «La Ong spagnola fa vedere il lavoro sporco e inumano dei governi libico e italiano».
Laura Anello e Francesco Grignetti per “la Stampa” il 30 luglio 2020. Gli arrivi non rallentano: tra le 23 di martedì e le 8 di ieri mattina, Lampedusa ha contato 23 sbarchi con 334 migranti, un ritmo di due sbarchi e mezzo ogni ora. Barche, barchini, gommoni. Uomini, donne, bambini, un anziano in carrozzina, perfino un gattino. E si alza la tensione. In particolare accade in Sicilia, dove molti sindaci sono esasperati perché i migranti fuggono da tutte le parti, saltano le recinzioni dei centri di accoglienza, si dileguano per le campagne, e i cittadini protestano perché hanno paura che gli stranieri siano portatori di contagio. Ma la temperatura si alza soprattutto in politica. Matteo Salvini batte e ribatte sul tema. Ma a preoccupare il governo sono i Governatori, e non solo quelli di destra. Nei giorni scorsi aveva fatto la voce grossa Massimiliano Fedriga, dal Friuli. Anche Toscana e Emilia-Romagna, però, come il ministero dell' Interno ha toccato con mano, non vogliono più migranti. E se persino il mite Alberto Cirio, che governa il Piemonte, annuncia le barricate, si prospetta un' estate davvero difficile per Luciana Lamorgese. Che ieri sera entrava al Consiglio dei ministri intenzionata a dare battaglia, numeri alla mano. «L' emergenza sanitaria - dice - incide fortemente anche sulla disponibilità dei territori ad accogliere i migranti, seppure con test sierologico o con tampone negativo, e concentra soltanto su alcune regioni il peso della redistribuzione». «Ora diciamo "basta" e l' ho scritto al ministero dell' Interno - ha dichiarato intanto Cirio - perché il Piemonte non può garantire oltre queste forme di accoglienza. Ho chiesto con fermezza al ministro Lamorgese di non voler procedere a ulteriori invii, che metterebbero fortemente a rischio la tenuta e la sicurezza del nostro sistema sanitario e sociale». È scatenato anche Nello Musumeci, presidente della Regione Sicilia: «C' è approssimazione, superficialità e impotenza da parte degli organi di Stato nell' affrontare il fenomeno migratorio. La nostra pazienza è al limite». Davanti a quella che appare un' offensiva del rifiuto, e anche per rispondere alle critiche di Nicola Zingaretti e di quella parte della sinistra che la incalza, la ministra Lamorgese ha lanciato un appello dal sapore istituzionale: «Stiamo facendo il possibile, ma ci troviamo davanti a un evento con numeri elevatissimi. Bisogna lavorare con le Regioni sul tema della redistribuzione. Ovviamente ognuno si preoccupa che dal un punto di vista sanitario ci sia una garanzia. E noi stiamo lavorando per questo: fare i tamponi e poi redistribuire i migranti in modo che non ci sia preoccupazione alcuna sui territori rispetto a una possibile diffusione del coronavirus». La ministra stessa, pur scatenando le ironie di tanti, ha anche riconosciuto: «Per noi sono inaccettabili questi arrivi continui, che stanno collassando l'isola di Lampedusa». Il rischio è che esploda la tensione. Ne parla apertamente anche Luigi Di Maio, che ha richiamato ruvidamente l' Europa ai suoi impegni: «Non dobbiamo avere paura di dire scrive il ministro degli Esteri - che in questo momento l' Italia da sola non ce la può fare. Serve un' azione di ampio respiro sul tema, che salvaguardi la tenuta sociale del Paese». Alla politica italiana appare davvero distante la tragedia di chi fugge da guerre e carestie. Basterebbe leggere il rapporto dell' Unhcr, l' agenzia dell' Onu per i rifugiati, che boccia senza appello la Libia e che mette nero su bianco quel che tutti sanno: non solo non è un porto sicuro, ma è la tappa finale di un viaggio costellato da abusi, esecuzioni sommarie, torture, lavori forzati, pestaggi, violenze sessuali su donne e bambini. Già in Libia, i migranti hanno spesso disturbi psichici gravi derivanti dai traumi subiti. Poi - sempre che la Guardia costiera non li riporti indietro con le maniere forti - si avventurano per mare e spesso non arrivano a destinazione. Secondo il rapporto, almeno 1750 migranti sono morti nel 2018 e nel 2019.
SBARCANO IN ITALIA CON TROLLEY E BARBONCINO. Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 28 luglio 2020. Sono sbarcati ieri a Lampedusa vestiti di tutto punto, occhiali da sole griffati, sigaretta in bocca e telefonini ultima generazione con i quali si facevano selfie di circostanza. E c' era pure un barboncino tenuto al guinzaglio che scodinzolava felice per avere toccato terra. Siamo felici che undici immigrati, tra cui tre belle signore, siano sbarcati in Italia. Ma avremmo preferito vederli entrare documenti alla mano da una delle nostre dogane e sottoporsi a tutti i controlli, sanitari e no, a cui è costretto un americano, un inglese o qualsiasi altro cittadino del mondo civile. Questa non è più disperazione, qui siamo alla mera illegalità, l' Italia come colonia in cui entrare a proprio piacimento perché qui si è sempre e comunque graditi ospiti a prescindere. Siamo al clandestino chic, con barboncino, colf e magari pure amante al seguito. Questa immagine ben rappresenta la resa dell' Italia e la stupidità imperante. Domando: si può essere anti salviniani senza per forza essere anche cretini? Si può essere cattolici mantenendo comunque un certo tasso di lucidità e buonsenso? Ci sarà da qualche parte uno di sinistra che non si è bevuto completamente il cervello? Se almeno una di queste categorie esistesse speriamo che si appalesi al più presto e urli: «Salvini o non Salvini, adesso basta». Esiste? Dubito, se è vero, come è vero, che nello scorso weekend il governo ha mandato uomini dell' esercito in tuta mimetica a controllare se noi bagnanti avevamo la mascherina in spiaggia, mentre centinaia di immigrati appena sbarcati fuggivano indisturbati dai centri di prima accoglienza ancora prima di avere fatto un tampone per stabilire se erano infetti. Dubito, dopo aver letto che un clandestino ghanese in libera uscita ha violentato sulla ciclabile di La Spezia una donna che stava facendo jogging (pochi giorni fa a Milano era successa la stessa cosa). A giorni il Senato dovrà decidere se fare processare o no Matteo Salvini per avere chiuso i porti durante il suo breve mandato di ministro degli Interni. Ma, per esempio, processare invece o almeno anche chi permette che in questo paese si entri in gruppi di amici con cagnolini appresso come se si andasse a una festa di compleanno proprio non se parla?
Lodovica Bulian per “il Giornale” il 28 luglio 2020. Il ministro dell' Interno Luciana Lamorgese vola in Tunisia per tentare di arginare il flusso incontrollato di migranti che arrivano a Lampedusa dal Paese nordafricano. Solo nella notte di ieri ci sono stati sette sbarchi con più di duecento migranti quasi tutti tunisini arrivati in poche ore. Undici, tra cui tre donne, sono stati soccorsi vicino alla costa, erano a bordo di un barchino con bagagli e un barboncino al guinzaglio al seguito. La diffusione dell' immagine sui social ha scatenato - e non poteva essere altrimenti - polemiche a non finire. Il fronte tunisino è esploso. Solo a luglio sono arrivati in Italia 5.200 migranti, erano stati mille nel 2019 e 1.900 nel 2018. E i tunisini sono i più numerosi tra le persone sbarcate da gennaio a oggi: 4.354, il 35% del totale. Il timore del Viminale è che l' ondata continui ad aumentare, per questo Lamorgese ieri è andata a Tunisi dal presidente della Repubblica, Kais Said, e dal suo omologo e premier incaricato di formare un nuovo governo, Hichem Mechichi. L'urgenza è di porre un freno alle partenze con un rafforzamento dei controlli da parte della guardia costiera tunisina. Sono decine i barchini che partono dalle coste di Sfax e Zarzis. La crisi economica e politica del Paese, la disoccupazione alle stelle e il Covid hanno innescato un mix esplosivo che ha moltiplicato in modo esponenziale le partenze: «L' Italia è pronta a offrire pieno supporto alla Tunisia anche mediante formule più efficaci di collaborazione nell' attività di sorveglianza delle imbarcazioni dei trafficanti in partenza dalla costa africana», spiega Lamorgese. Il presidente Said ha dato «rassicurazioni su una intensificazione dei controlli alle frontiere marittime per contrastare l' attività dei trafficanti di migranti». I migranti che arrivano a Lampedusa in poche ore di navigazione sono per la quasi totalità giovani tunisini col sogno italiano. Molti sono già noti alle forze dell' ordine, espulsi diverse volte dall' Italia, anche per precedenti penali di rilievo. Da qui il timore per le fughe incontrollate dai centri di accoglienza e di quarantena: spesso molti dei tunisini che fuggono restano irrintracciabili. «Specialmente con il perdurare della pandemia - dice ancora il ministro Lamorgese da Tunisi -, questi flussi incontrollati creano seri problemi alla sicurezza sanitaria nazionale che si riverberano sulle comunità locali interessate dai centri di accoglienza, dai quali, tra l' altro, i migranti cercano di allontanarsi in ogni modo prima del termine del periodo di quarantena obbligatorio». Lampedusa fatica a reggere la pressione di queste settimane. L' hotspot è oltre ogni limite di capienza: avrebbe un centinaio di posti, ma nei giorni scorsi si è arrivati a oltre mille presenze. La notte scorsa mentre trecento ospiti venivano trasferiti a Porto Empedocle - da cui poi c' è stata una fuga di massa - attraverso le motovedette della Finanza e della Guardia Costiera, sull' isola ne arrivavano altri 150. Alle sei del mattino di ieri un barchino con 17 tunisini è entrato direttamente in porto e le persone sono sbarcate prima ancora che arrivassero le forze dell' ordine. Un altro barchino è stato ritrovato abbandonato e le persone che erano a bordo sono state poi avvistate incamminarsi sulla terraferma. Il sindaco chiede lo stato di emergenza. E a Lampedusa a molti abitanti torna alla mente il 2011, quando a seguito delle primavere arabe sull' isola arrivarono 28mila persone. Altri numeri. Ma su quelli di oggi c' è il timore che siano destinati ad aumentare ancora.
La retorica sui "negri" per non perdere consenso. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 28 Luglio 2020. C’è stato un periodo in cui ne arrivavano pochi. Anziché chiudere i porti (questo lo avremmo fatto dopo) aiutavamo i libici a riempire e sigillare i campi di concentramento allestiti laggiù, e se ne scappavano alcuni non c’era problema perché finivano affogati davanti alle nostre spiagge. I pochi che sopravvivevano a questa civile selezione erano distribuiti secondo il protocollo messo a garanzia della tenuta democratica del Paese: un po’, stagione richiedendo, nelle piantagioni schiaviste, e gli altri nei lager domestici. Questo bel programma cominciò a fare acqua perché gli aguzzini libici, per quanto noi li aiutassimo a mantenere in efficienza l’organizzazione dei carnai, più di tanto non potevano fare: diciamo che l’accuratezza delle operazioni di stupro e tortura non garantiva alla perfezione il contenimento (dopotutto parliamo di negri, notoriamente indisciplinati). Il dispositivo mostrava dunque qualche segno di inefficacia, ma per fortuna è arrivato Salvini ad affinarlo e pace se poi gli hanno uccellato il governo: perché il suo bel lascito, vale a dire il bis dei decreti sicurezza, i successori progressisti se lo sono tenuto ben stretto. Adesso si tratta, come si dice, di tesaurizzare. Innanzitutto occorre, come spiega Marco Minniti al Foglio che la Lega non sia lasciata sola a strillare che i negri portano le malattie: la sinistra deve mostrare che non è da meno, ça va sans dire con linguaggio opportuno, e dunque non deve negare e anzi deve dire con la dovuta chiarezza che «c’è un’evidente correlazione tra immigrazione e Covid». Così si compete congruamente sul campo xenofobo, che non vorrai mica abbandonarlo all’esclusiva del Truce: per un elettore leghista che li vorrà ributtati in mare perché sono sporchi negri, c’è un elettore progressista che reclamerà la stessa cosa ma in base alla democratica causa del nesso eziologico. L’idea che «l’evidente correlazione» dovrebbe indurre a una tutela supplementare, cioè farli scendere e curarli, anziché istigare a una discriminazione aggiuntiva, pare identicamente estranea a destra e a manca. Idem sul sacrosanto diritto degli italiani di scegliersi semmai gli immigrati giusti. Non sia mai che soltanto Matteo Salvini possa fare comizio in argomento. Quello dice che dobbiamo prendere solo i migranti con conto in banca e catechizzati? E noi diciamo che d’ora in poi mandiamo alle nostre ambasciate una lista con gli immigrati di cui abbiamo bisogno, così facciamo entrare solo quelli che servono (è sempre Minniti). E anche qui: l’idea che questi scappano dalla fame, e dunque non sono manager in cerca di consulenze meglio pagate, appare abbastanza trascurata da una parte e dall’altra visto che ragionano come se si trattasse di organizzare delle visite aziendali. Cosa fai con quella che ti arriva con due bambini in braccio e uno nel ventre, dopo che le hanno sgozzato il marito? La rispedisci laggiù perché non ne hai bisogno? Eppure si va avanti così, ciascuno con la propria retorica fuorviante e vigliacca e tutti uniti nell’identico desiderio di cavarne consenso: o di non perderne, che riesce a essere anche peggio.
Migranti, governo impugnerà l'ordinanza di Musumeci. Il governatore diffida i prefetti: "Applicatela". Il governatore aveva disposto lo sgombero di hotspot e centri di accoglienza dei migranti dell'isola: "Sia data rapida esecuzione al provvedimento". La Repubblica il 25 agosto 2020. Il governo impugnerà in tempi rapidi l'ordinanza con la quale il presidente della Sicilia, Nello Musumeci, aveva disposto lo sgombero di hotspot e centri di accoglienza dei migranti dell'isola. E' quanto si apprende da fonti dell'esecutivo. La decisione e" stata presa dopo un attento esame di tutti gli atti e le norme dell'ordinamento. Ma il governatore siciliano non si arrende e ha inviatoin serata una nota di diffida alle autorità competenti (le Prefetture) per l'esecuzione della propria ordinanza emanata lo scorso 22 agosto su hotspot e centri di accoglienza per migranti. Nel documento, il governatore richiede, tra le altre misure, di illustrare il crono-programma del progressivo svuotamento degli hotspot per le gravi ragioni di promiscuità e assembramento in cui sono costretti gli ospiti. "Qualora ciò non fosse stato già predisposto (come avvenuto stamane per il trasferimento dei migranti risultati positivi al Coronavirus, contagiatisi tra loro, nella struttura di Pozzallo), nella piena vigenza della ordinanza", il presidente Musumeci ha chiesto "di dare rapida esecuzione al provvedimento, tenuto conto altresì dell'enorme numero di migranti attualmente presenti senza alcun distanziamento e pregiudizio della loro salute, nell'hotspot di Lampedusa".
Il governo si affida al Tar per fermare Musumeci. Ma il giurista: ha ragione. L'esperto: ordinanza valida. Lamorgese: "Via 800 migranti dagli hotspot siciliani". Giuseppe Marino, Giovedì 27/08/2020 su Il Giornale. C'è lo scontro verbale, con il ministro Lamorgese che replica a Salvini («ha superato ogni limite») c'è quello a colpi di cavilli che da ieri è ufficiale. E c'è il dramma della situazione sul campo, che per gli hotspot siciliani è pessima. La nave quarantena «Azzurra» ieri è attraccata a Lampedusa per far salire a bordo 200 migranti, tra cui i 70 contagiati e Lamorgese parla di 800 trasferimenti in tutto in vista, mentre era trapelata la notizia di una gara per nuove navi quarantena. Ma nell'isola di frontiera per ora restano altri mille migranti. E dei 33 nuovi contagiati scoperti ieri in Sicilia, tre sono nell'hotspot lampedusano. E sempre ieri è arrivata la denuncia dell'Usip: «Il personale dell'XI Reparto Mobile di Palermo, ha registrato il primo caso di positività tra gli operatori provenienti da Lampedusa». È la conferma della difficoltà di gestire un centro con un numero di ospiti quadruplo della capienza massima. E l'accelerazione dei trasferimenti conferma quantomeno la valenza politica dello strappo del governatore siciliano con l'ordinanza che ordina di svuotare gli hotspot. Ieri è arrivato anche il ricorso del Viminale Tar della Sicilia contro l'ordinanza per l'invasione di competenza e «perché avrebbe effetti su altre regioni».Passo indispensabile per impedire che la mossa di Musumeci dispieghi i suoi effetti. Perché, nonostante il ministero avesse liquidato come «nulla» l'ordinanza, la questione giuridica è ben più complessa. Ne è convinto Claudio Zucchelli, attuale presidente dell'equivalente siciliano del Consiglio di Stato ed ex direttore per dieci anni del Dagl, il dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi. Il giurista ha messo on line un parere che liquida l'argomento della «nullità» dell'ordinanza: «È errato, oltre che scorretto, - scrive Zucchelli - sostenere che non ha alcun valore, essa ha forza e valore di provvedimento amministrativo». Se ne desume che «fino a quando il giudice amministrativo non lo annulli o sospenda gli effetti, è esecutivo ed esecutorio». Ed ecco perché il Viminale, che pure aveva subito tentato il dialogo, è stato costretto al ricorso. «Che -dice Musumeci- non ci fermerà». Secondo Zucchelli del resto, l'ordinanza non solo è legittima perché su materia sanitaria, ma il governatore ha anche il potere di farla applicare, in forza dell'articolo 31 dello Statuto della Sicilia (regione autonoma), secondo cui «al mantenimento dell'ordine pubblico provvede il Presidente della Regione a mezzo della polizia di Stato, la quale nella Regione dipende disciplinarmente, per l'impiego e l'utilizzazione, dal governo regionale». E infatti sono in grave imbarazzo i prefetti dell'isola che si trovano a operare nel pieno di un conflitto tra poteri. Ieri i presidenti dei sindacati dei prefetti, Sinpref e Associazione prefettizi, hanno diramato una nota per esprimere «stupore» per la minaccia di Musumeci di denunciare chi non adempirà all'ordinanza. I prefetti, dicono i presidenti Antonio Giannelli e Antonio Corona, «nonostante le tante carenze in termini di risorse umane», continuano a operare, ma chiedono «che si definisca con chiarezza chi deve fare cosa». Un conflitto istituzionale in piena regola. Di fronte al quale il premier Conte continua a lasciare sola il ministro Luciana Lamorgese. Un silenzio talmente assordante da far sospettare addirittura una delegittimazione politica, visto che la poltrona di Lamorgese fa gola a molti. Anche nel Pd.
Migranti in Sicilia, il governo ha impugnato l'ordinanza di Musumeci. Pubblicato mercoledì, 26 agosto 2020 da La Repubblica.it. Il Governo ha impugnato l'ordinanza del presidente della Sicilia Nello Musumeci che prevede la chiusura degli hotspot e dei centri di accoglienza per migranti presenti sull'isola. Il ricorso sarebbe già stato notificato alla controparte e ne è in corso il deposito presso il Tar della Sicilia. Alla base dell'impugnazione la considerazione che la gestione del fenomeno migratorio è competenza dello Stato, non delle Regioni. Ma il presidente Musumeci difende il suo provvedimento. "Il Governo centrale vuole riaffermare la sua competenza sui migranti. Mi verrebbe da dire: bene, la eserciti pure e intervenga come non ha fatto in questi mesi - dice il governatore - La Sicilia difenderà la propria decisione davanti al giudice amministrativo. Ma nessuno pensi che un ricorso possa fermare la nostra doverosa azione di tutela sanitaria. Compete a noi e non ad altri. E su questa strada proseguiremo". In precedenza erano stati prefetti a criticare l'iniziativa del governatore siciliano: "Suscita stupore l'iniziativa del Presidente della Regione Sicilia, stando a notizie di stampa, di sollecitare le prefetture di quel territorio - pena il possibile deferimento alla Autorità giudiziaria - a dare tempestiva esecuzione alla ordinanza con la quale ha disposto la chiusura di hot-spot e centri di accoglienza migranti". Lo scrivono in una nota i sindacati dei prefetti, Sinpref e Ap, i quali, "senza entrare minimamente nel merito della questione", ricordano che "tali strutture sono operative per l'accoglienza di persone su specifiche disposizioni del Viminale, con il quale solamente vanno pertanto affrontati e risolti possibili motivi di confronto". "Quanto sta accadendo in queste ore - prosegue la nota - con ordinanze, di Presidenti di Regione e Sindaci, contrastanti con direttive e circolari ministeriali, sta ancor maggiormente agitando un quadro normativo complesso in tema di gestione dell'accoglienza degli immigrati, resa oltremodo difficile dalle altrettanto delicate procedure per prevenire la diffusione del Covid. Da sempre i prefetti, come ampiamente dimostrato lavorando in silenzio e sul campo anche in occasione dell'emergenza prodotta dell'epidemia in atto, garantiscono l'unità della Repubblica, raccordando la rete istituzionale a livello territoriale. Per questo, nello spirito di servizio che ne connota ruolo e stile operativo, essi continueranno ad assicurare l'operatività necessaria a superare il delicato momento che il Paese sta vivendo, nonostante le tante carenze in termini di risorse umane che restano da colmare con urgenza". "In questo contesto - conclude il comunicato dei sindacati dei prefetti - attendono che si definisca con chiarezza chi deve fare cosa, così da evitare, ora e come anche nel recente passato, di 'pagare' con avvisi di garanzia o con inviti a dedurre del Giudice contabile, l'operare per trovare, direttamente sul campo, soluzioni concrete a situazioni emergenziali o di non prevedibile sopravvenienza. Quest'estate i migranti trasferiti dalla Sicilia in altre regioni sono già più di 4 mila. E' quanto si apprende da fonti del Viminale, secondo cui tra oggi e domani saranno 850 i migranti imbarcati a Lampedusa sulle due navi quarantena "Aurelia" e "Azzurra". Nel frattempo è in corso di predisposizione il bando per il noleggio di altre navi.
ANTONIO FRASCHILLA per palermo.repubblica.it il 27 agosto 2020. Il Tar di Palermo accoglie la richiesta di sospensione dell'ordinanza del governatore siciliano Nello Musumeci in tema di immigrazione. Richiesta del governo Conte che ha fatto ricorso contro l'atto firmato dal governatore siciliano che prevedeva la chiusura immediata degli hotspot e dei porti dell'Isola per un presunto rischio sanitario legato all'emergenza Covid e alla presenza dei migranti. Il Tar entra subito nel merito, anche nella sospensiva, bocciando l'ordinanza del presidente della Regione nelle sue fondamenta. Scrive il Tar nel decreto di sospensione: "Le misure adottate con l’impugnato provvedimento sembrano esorbitare dall'ambito dei poteri attribuiti alle regioni, laddove, sebbene disposte con la dichiarata finalità di tutela della salute in conseguenza del dilagare dell’epidemia da Covid-19 sul territorio regionale, involvono e impattano in modo decisivo sull’organizzazione e la gestione del fenomeno migratorio nel territorio italiano, che rientra pacificamente nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. b), della Cost, e, peraltro, sono certamente idonee a produrre effetti rilevanti anche nelle altre regioni e, quindi, sull’intero territorio nazionale, nel quale dovrebbero essere trasferiti, nell’arco delle 48 ore decorrenti dalla pubblicazione dell’ordinanza, i migranti allo stato ospitati negli hotspot e nei centri di accoglienza insistenti sul territorio regionale, Inoltre la disposta chiusura dei porti all’accesso dei natanti di qualsiasi natura trasportanti migranti sembra esorbitare parimenti dalla competenza regionale". La presidente del Tar Sicilia Maria Cristina Quiligotti, che firma il decreto di sospensione, interviene anche sulla chiusura dei porti ai migranti disposta da Musumeci con il suo atto: "La disposta chiusura dei porti all’accesso dei natanti di qualsiasi natura trasportanti migranti sembra esorbitare parimenti dalla competenza regionale". Secondo il Tar Musumeci nella sua ordinanza non dà alcuna sostanza alla presunta emergenza sanitaria: "In definitiva, l'esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario legato alla diffusione del Covid-19 tra la popolazione locale, quale conseguenza del fenomeno migratorio, che, con il provvedimento impugnato, tra l’altro, si intende regolare, appare meramente enunciata, senza che risulti essere sorretta da un’adeguata e rigorosa istruttoria, emergente dalla motivazione del provvedimento stesso e altrettanto sembra potersi affermare anche in relazione alla diffusione del contagio all’interno delle strutture interessate; considerato che, pertanto, per le valutazioni tutte sopra esposte, sussistono i presupposti per l’adozione del richiesto decreto cautelare monocratico con conseguente sospensione dell’esecutività degli effetti dell’impugnato provvedimento fino alla prossima udienza del 17.9.2020, che si fissa fin da ora, ai fini della trattazione collegiale della predetta istanza cautelare". Musumeci contesta la decisione del Tar: "Quella adottata dal magistrato del Tar di Palermo è una decisione cautelare che non condividiamo e che è stata assunta senza neppure ascoltare la Regione, come può essere concesso a richiesta della parte e come noi abbiamo formalmente chiesto, non avendo potuto depositare le nostre difese - dice - tuttavia se in pochi giorni sono stati trasferiti oltre 800 migranti è la dimostrazione che serve denunciare il problema ad alta voce. Sulla nostra competenza in materia sanitaria non faremo un solo passo indietro".
Da "Il Giornale" il 28 agosto 2020. Primo round al Viminale: la sospensione dell'ordinanza della Regione Sicilia che ordinava di svuotare e chiudere tutti gli hotspot dell'isola è arrivata in un batter d'occhio. Il Tar di Palermo ha accolto la richiesta degli avvocati di Stato Sergio Fiorentino e Lidia Maria La Rocca di agire «inaudita altera parte», cioè senza permettere alla controparte, Regione, di dire la propria. Dunque non una decisione nel merito, ma solo un provvedimento d'urgenza, chiesto dal governo paventando gravi ripercussioni tra cui, si legge nelle 23 pagine del ricorso, «il rischio emulativo da parte di altre regioni» che avrebbe messo ulteriormente in crisi l'intero sistema della gestione dell'accoglienza dei migranti. Un argomento giuridico forte che però mette a nudo anche un punto politico centrale: la Sicilia ha la sfortuna di essere da anni la scialuppa di salvataggio del flusso di migranti, ormeggiata di fronte alla Libia. E, soprattutto da quando c'è il coronavirus, non è facile trovare altri territori disponibili ad accogliere i migranti. Uno scarso entusiasmo per l'accoglienza dimostrato non solo dalle regioni guidate dal centrodestra, che da sempre manifesta perplessità rispetto all'accoglienza indiscriminata, ma anche da parte di quelle guidate dalla stessa sinistra che con una mano chiude la porta di casa propria, con l'altra digita post di fuoco contro l'egoismo di Nello Musumeci. Dal canto suo, il presidente della Regione, pur sconfitto nel primo round giudiziario, può vantare un primo successo politico: il Viminale sta sgomberando migranti dagli hotspot più sovraffollati. Mercoledì sera il ministro Luciana Lamorgese ha annunciato il trasferimento di 800 dei milleduecento migranti stipati all'inverosimile nell'hotspot di Lampedusa. Ed è significativo della scarsa collaborazione che il Viminale riceve da altre regioni il fatto che sia trapelata l'intenzione di trasferire i migranti a bordo delle due navi quarantena, mentre è in vista un bando per reperire altre imbarcazioni. La decisione del Tar ha subito fornito carburate al dibattito politico che nei giorni scorsi si era arroventato. Giorgia Meloni si è detta pronta a sostenere Musumeci nella battaglia, le capogruppo azzurro Gelmini e Bernini denunciano la velocità del Tar nel pronunciarsi contro i governatori di centrodestra e la lentezza a decidere nel merito. E per Salvini è «governo e giustizia spalancano porti e porte ai clandestini che ora sono anche un problema sanitario». «Salvini cavalca elettoralmente un problema che non esiste», replica il capogruppo dei senatori Pd Andrea Marcucci. Ma al di là degli scontri verbali, la motivazione del Tar, oltre a riconoscere i problemi organizzativi segnalati dal governo per il «brevissimo termine» per lo sgombero fissato dall'ordinanza, riporta al centro proprio la questione sanitaria, una competenza regionale. I giudici non ne negano l'esistenza, ma non la ritengono sufficientemente motivata nell'ordinanza: «L'esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario» secondo il giudice «appare meramente enunciata, senza che risulti essere sorretta da un'adeguata e rigorosa istruttoria». Proprio su questo punto però la Regione continua ad agire attraverso una task force che, dice Musumeci, «verificherà: gli oltre 40 centri di accoglienza censiti in Sicilia». Il 17 settembre nell'udienza di merito Musumeci potrebbe avere più frecce al suo arco.
Antonio Fraschilla per repubblica.it il 28 agosto 2020. All'indomani della sospensiva del Tar data alla sua ordinanza sui migranti, il governatore Nello Musumeci attacca a testa bassa la magistrata che ha firmato il decreto, la presidente del Tribunale amministrativo di Palermo Maria Cristina Quiligotti. "Il governo nazionale ha impugnato la nostra ordinanza - dice Musumeci - lo ha fatto al Tar con un magistrato che non appare al di sopra di ogni sospetto. Secondo una 'malalingua' è stato consulente di Zingaretti che è il capo del partito più importate al governo. Abbiamo denunciato una amara realtà e di fronte a questa denuncia il governo nazionale fa finta di non capire e utilizza magistrati compiacenti". Il riferimento è a una nomina tra i "saggi della Regione Lazio per la semplificazione normativa" della Quiligotti. "Sta facendo effetto la decisione del Tar di Palermo che annulla la mia ordinanza la macchina infernale del potere si è messa in moto e produce effetti: la macchina del potere sappia che non ci facciamo intimidire", dice Musumeci. Per l’Associazione nazionale dei magistrati amministrativi (Anma) le dichiarazioni contro il decreto della giudice Quiligotti "hanno già superato il limite di una critica tecnica nel merito, giuridica, e hanno assunto toni inaccettabili e da rispedire al mittente”. Nella sua decisione Quiligotti critica nel merito l'ordinanza del governatore siciliano, che "va oltre i poteri delle Regioni" ma soprattutto si basa su un presupposto, quello del rischio diffusione del coronavirus, che non poggia su alcuna analisi e dato concreto: "Nessuna rigorosa istruttoria per dimostrare l'esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario legato alla diffusione del Covid-19 tra la popolazione locale quale conseguenza del fenomeno migratorio", si legge nella decisione del Tar. Musumeci rincara la dose parlando di "magistrati compiacenti del governo": "Noi andiamo avanti, naturalmente - avverte Musumeci - perchè al di là dei bizantinismi giuridici, siamo convinti di essere dalla parte della ragione. Stiamo combattendo una battaglia di civiltà a difesa della salute di chi si trova in Sicilia, non solo dei siciliani, ma anche di quei migranti che vengono trattati da oggetto di speculazioni. Noi andiamo avanti, stiano tranquilli, non ci fermiamo al di quale di qualche prete spretato che si gira dall'altra parte. Roma lo sappia. Se ne sono capaci, vincano questa battaglia, ma vincano con la forza della ragione, non con la ragione della forza". Nel frattempo, ha già fatto sapere il governatore - proseguono gli accessi e le verifiche della task force regionale: martedì mattina sarà a Lampedusa e nei giorni successivi saranno "verificati accuratamente" gli oltre 40 centri di accoglienza che sono censiti in Sicilia. Le reazioni alle durissime affermazioni del governatore non tardano ad arrivare. Per Fabio Mattei, presidente Anma, “attaccare personalmente un giudice per una decisione non condivisa, mettere in discussione la sua autonomia è grave, perché così si contesta alla base l’indipendenza stessa della giustizia”. “La dottoressa Quiligotti - continua il presidente Anma - è una servitrice dello Stato, ed è stata in passato consulente giuridica e tecnica in modo trasversale, anche del ministro della Lega Calderoli, per fare un solo esempio, come spesso succede ai magistrati che offrono la loro "scienza e conoscenza" per il buon funzionamento della pubblica amministrazione. Quella del Governatore Musumeci, - conclude Mattei, è quindi una polemica sbagliata, inaccettabile, pretestuosa: da rispedire al mittente. Per difendere l’Italia, come si proclama spesso, si devono innanzitutto rispettare le sue istituzioni, a partire dalla giustizia amministrativa chiamata a dirimere controversie delicatissime e di rilevante impatto sulla società tutta. Purtroppo, in questi anni, abbiamo assistito a questa cattiva prassi, trasversale agli schieramenti politici, di attaccare alternativamente i Tar per decisioni non gradite, che non piacciono ai "potenti di turno", a dimostrazione che i magistrati italiani non guardano in faccia nessuno, solo applicano la legge”. Sul fronte politico interviene il Pd: "Apprendo che Nello Musumeci ha attaccato la credibilità del magistrato che annullato la sua ordinanza sui migranti - dice il deputato Santi Cappellani del Pd - non so se Maria Cristina Quiligotti sia stata in passato consulente di Zingaretti. Anche fosse questo non giustifica in alcuna maniera il tentativo maldestro di Musumeci di ventilare l’ipotesi che sia “corrotta”, questo è il brutale significato che si cela dietro l’uso del termine “compiacente” e dietro la frase “non al di sopra di ogni sospetto”, usate da questo presidente della Regione. La mancanza di rispetto per le istituzioni sta oltrepassando tutti i limiti consentiti dalla normale dialettica politica. Spero si intervenga in tutte le sedi possibili".
Primo round per Musumeci: i migranti lasciano Lampedusa. Guerra sui migranti, Musumeci ancora all’attacco. 850 migranti salperanno da Lampedusa attraverso due navi quarantena. Svuotato anche l'hotspot di Messina. Maurizio Zoppi, Giovedì 27/08/2020 su Il Giornale. Il pugno duro del governatore Nello Musumeci all'esecutivo romano inizia a dare i suoi frutti. L'emergenza di Lampedusa in merito agli oltre mille migranti presenti nell'hotspot in Cotrada Imbriacola si riduce nettamente. In giornata lasceranno 850 nord africani l'isola siciliana. I migranti saranno imbarcati sulle navi Azzurra e Aurelia, dotate di apposite zone rosse per isolare quelli positivi al covid. Dall'inizio dell'estate i migranti arrivati in Sicilia sono più di settemila. La seconda nave disposta dal ministro dell'Interno per la quarantena dei migranti è arrivata a Lampedusa questa mattina. Dopo giorni di maestrale la Azzurra ha già attraccato al porto di Lampedusa per operare il trasbordo di circa 700 migranti.
È già conclusa invece l'operazione di trasbordo dal centro migranti di circa 273 persone a bordo della nave Aurelia. Con questi due interventi si ridurrà sensibilmente la presenza dei migranti nell'isola e il rischio della diffusione del covid-19 a causa di numerosi positivi tra i clandestini. Nel frattempo è stato depositato nella serata di ieri (26 agosto ndr) al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia il ricorso del governo nazionale contro l’ordinanza del presidente della Regione Nello Musumeci che prevede la chiusura degli hotspot e dei centri di accoglienza per migranti presenti sull’isola. II governo, giocando di astuzia, ha scelto non la strada dell’impugnativa Costituzionale ma quella del ricorso amministrativo. Una ‘genialata’ giuridica che permette all’esecutivo di non convocare il Consiglio dei Ministri e procedere con la firma congiunta del premier Giuseppe Conte e del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Ma la Sicilia resisterà contro il ricorso e lo farà sostenendo che lo Stato sbaglia nell’imputazione di competenza. “In queste ore tantissimi intellettuali e giuristi di ogni area mi stanno esprimendo il loro sostegno. E si fa strada – scrive Musumeci – sempre più la consapevolezza che il diritto alla salute e la dignità della persona non possono essere negoziabili”. Musumeci ha puntato il dito all'esecutivo romano anche sul fronte sociale e politico “Irazzisti veri sono quelli che fanno finta di nulla davanti a tragedie, quelli del business dell’immigrazione e dell’accoglienza. Noi abbiamo sempre detto NO ai mercanti di uomini che solo una politica seria può bloccare. Mi conforta, tra tante inutili polemiche, il sentimento di condivisione del popolo siciliano e di tanti da ogni parte d’Italia. La nostra è una battaglia di civiltà. Che non si fermerà”. ha concluso il governatore Musumeci. Anche il sindaco Cateno De Luca ha vinto la sua battaglia cittadina in merito al centro migranti della caserma Gasparro di Bisconte. Stando alle parole del primo cittadino il Cas dello Stretto oggi chiuderà battenti a seguito del trasporto in altre località dei migranti. De Luca più volte a manifestato attraverso i social, oppure interviste giornalistiche il suo consenso ad uno scontro istituzionale con Roma. “Quando si è davanti ad una struttura colabrodo cos’altro deve fare un sindaco per dare anche un segnale forte alla sua comunità? Continuare a prendere schiaffi, continuare a subire questa logica del pisciatoio siciliano? È ovvio che in queste situazioni, quando viene meno l’impegno istituzionale attraverso i Prefetti allo è scontro. E scontro sia. Non ordinanze manifesto che servono solo a prendere qualche like su facebook”. Ha affermato il primo cittadino.
Dove andranno i migranti? Numerosi sono i politici del centrodestra che vorrebbero sapere con assoluta certezza dove verranno trasferiti i migranti che salperanno dai centri migranti siciliani alla volta di altre destinazioni. Uno di questi è il segretario della Lega Lombarda Paolo Grimoldi che attraverso una nota afferma: "Una semplice domanda al ministro Lamorgese: gli 850 clandestini che oggi lasciano Lampedusa dove andranno a finire? Andrebbero rimpatriati in Tunisia e smistati tra i Paesi UE ma dato che non accadrà supponiamo che verranno ripartiti tra le Regioni con i soliti criteri basati sul numero di abitanti, è così? Per cui in Lombardia ne toccherebbero il 14% ovvero circa 150? Pretendiamo trasparenza dal governo e un’assunzione di responsabilità pubblica: se intendono inviare altre centinaia di clandestini in Lombardia devono dirlo in modo che i cittadini lo sappiano".
Roberto Calderoli e il cavillo con cui Nello Musumeci può vincere su Conte e Lamorgese: "Ora c'è l'articolo 31". Libero Quotidiano il 28 agosto 2020. Roberto Calderoli ha un'arma segreta. La mente eccelsa della Lega non si demoralizza dopo la sospensione da parte del Tar dell'ordinanza di Nello Musumeci sulla chiusura degli hotspot e dei centri di accoglienza. "A mio avviso - spiega in un post su Facebook - resta la validità amministrativa del provvedimento che riguarda la tutela della salute dei cittadini siciliani, e dei turisti in transito in Sicilia, e non le politiche migratorie". Ma non è tutto, perché il senatore del Carroccio verga un consiglio preziosissimo al governatore della Regione Sicilia: "A questo punto - prosegue - se io fossi in lui utilizzerei l’articolo 31 dello statuto della Regione Siciliana che prevede testualmente che: ‘Al mantenimento dell'ordine pubblico provvede il Presidente della Regione a mezzo della polizia dello Stato, la quale nella Regione dipende disciplinarmente, per l'impiego e l'utilizzazione, dal Governo regionale. Il Presidente della Regione può chiedere l'impiego delle forze armate dello Stato'". Insomma, statuto alla mano il responsabile dell’ordine pubblico in Sicilia è il presidente regionale, "che può delegare questa competenza al Governo centrale (testualmente: Il Governo dello Stato potrà assumere la direzione dei servizi di pubblica sicurezza, a richiesta del Governo regionale): una possibilità, non un obbligo". Un vero e proprio schiaffo a Luciana Lamorgese e Giuseppe Conte che, fin da subito, si sono dichiarati contrari alla decisione. E a questo punto, nel braccio di ferro tra Stato e Regione, che vinca il migliore.
Immigrazione, la denuncia della Lega dalla Sardegna: "Algerini sbarcano tra i turisti" per poi dileguarsi nel nulla. Libero Quotidiano il 28 agosto 2020. Altro video-denuncia della Lega. Nella pagina Twitter del Carroccio si vede nuovamente un filmato a dir poco sconcertante che mostra quanto l'Italia sia ormai allo sbando. Il motivo? Anche nella giornata di giovedì 27 agosto un gruppo di algerini è sbarcato come nulla fosse tra i turisti. È accaduto in Sardegna, nella spiaggia di Tuerredda. Qui un gruppetto di clandestini lascia a bordo della piccola imbarcazione qualche vestito per poi dileguarsi nel nulla. Un rischio che ora come ora il Paese non può permettersi, quello degli sbarchi incontrollati, visto e considerata l'emergenza coronavirus. Eppure al governo poco importa e lo ha dimostrato con il "no" all'ordinanza del governatore della Sicilia, Nello Musumeci, sulla chiusura degli hotspot e dei centri di accoglienza al collasso.
Il bollettino shock della Sicilia: "65 nuovi casi, 58 migranti". I dati sul Covid parlano chiaro: il 90% dei nuovi contagiati si conta tra i migranti. Musumeci attacca: "Avanti con ordinanza". Ignazio Stagno, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. In Sicilia la situazione sul fronte della gestione dell'immigrazione è sempre più fuori controllo. I casi di contagio tra i migranti aumentano e l'isola deve fare i conti con una bomba Covid da non sottovalutare. E a preoccupare (e non poco) l'amministrazione regionale è il bollettino di oggi. I numeri parlano chiaro: su 65 nuovi casi, 58 sono migranti. Un dato che arriva proprio nella giornata in cui si è acceso ancora di più lo scontro tra la stessa Regione e il Viminale. Sul campo infatti resta l'ordinanza del governatore, Nello Musumeci, che prevede lo sgombero degli hotspot a partire dalla mezzanotte. L'ordinanza è stata liquidata dal Viminale come una atto dal poco valore giuridico. Ma su questo fronte lo stesso Musumeci ha annunciato battaglia: "Nelle sedi opportune e davanti la magistratura ognuno farà valere le proprie ragioni. Se la mia ordinanza entro mezzanotte non verrà rispettata ci troveremo di fronte un atto grave di omissioni contro cui andrò a procedere. Il mio unico compito è quello di gestire l’emergenza Covid. Sul piano politico ho già parlato con la ministra Lamorgese diverse volte, ho chiesto di intervenire, ho chiesto la nave in rada per i positivi, ho chiesto un ponte aereo, lo stato d’emergenza per Lampedusa; non si può pensare che la nostra sia una terra in cui gestire un fenomeno che viene gestito male. Si faccia quel che si deve fare, si chiudano questo obbrobriosi centri, si dia dignità a questi migranti". Parole che lasciano intuire come possa essere duro lo scontro che si profila all'orizzonte tra la Regione e il governo. Uno scontro che va avanti ormai da giorni. La regione Sicilia intanto ha già fatto un passo avanti. Con una circolare l'assessorato alla Sanità ha chiesto alle Aziende sanitarie provinciali e alla prefetture "una celere ricognizione e puntuale indicazione del numero dei soggetti migranti, attualmente ospitati all'interno dei centri di accoglienza/hotspot insistenti sulla provincia di pertinenza, o altro genere di strutture eventualmente interessate dalle disposizioni dell’ordinanza regionale". Insomma la Sicilia si prepara a dar seguito nei fatti all'atto varato dal governatore. E proprio su questo fronte, lo stesso Musumeci ha rincarato la dose a Stasera Italia su Rete 4: "A mezzanotte scade il termine della mia ordinanza, cosa accadrà? Se lo Stato dovesse dirmi 48 ore non bastano e chiede una settimana va benissimo. Ma io non posso far finta di niente. Dopo la mezzanotte ci penseranno le prefetture ad eseguire la mia ordinanza, come hanno fatto con le due precedenti ordinanze, ci penseranno le prefetture attivando le forze dell’ordine - ha spiegato Musumeci - se ricevessero una telefonatina da Roma per dire: non eseguire l’ordinanza di Musumeci, saremo difronte a una vera e propria omissione d’atti d’ufficio. E non resterebbe che rivolgermi alla magistratura, a meno chè entro mezzanotte il Governo non voglia impugnare la mia ordinanza e a quel punto andremo davanti alla magistratura amministrativa e ognuno farà valere le proprie ragioni. Io credo di stare solo compiendo il mio dovere come soggetto attuatore per l’emergenza Covid 19, niente di più, anzi mi scandalizza che nessuno lo abbia sottolineato prima". Il dato del bollettino di oggi però alza ancora di più l'asticella della tensione. E questa volta il Viminale non potrà ignorare la realtà cruda dei numeri.
Esplode il coronavirus tra i migranti accolti. L'isola in ginocchio tra lager e navi-lazzaretto. Trasferiti 62 positivi da Pozzallo a bordo della Azzurra al largo di Trapani. Chiara Giannini, Mercoledì 26/08/2020 su Il Giornale. Il presidente della Regione Siciliana ha già attivato le procedure per mettere in atto l'ordinanza che svuoterà la sua regione dai migranti. Tanto che ieri nei centri siciliani hanno iniziato ad arrivare le task force volte a verificare le condizioni di salute degli ospiti. «Da stamattina - ha scritto ieri il governatore sui social - , a quanto apprendo, si è iniziato a svuotare l'hotspot di Pozzallo, dove alle 11 arriverà il nostro team per esaminare l'idoneità dei locali. I ricorsi notificati a mezzo stampa non producono effetti. Ma alzare la voce, a tutela della salute pubblica, evidentemente sì. Vedremo se in qualche giorno si ristabilirà la legalità. Vi tengo aggiornati!». Il fatto è che quella di Musumeci è una corsa contro il tempo, anche perché il Covid si sta diffondendo a macchia d'olio tra i migranti. Ieri su 162 ospiti dell'hotspot di Pozzallo 62 sono risultati positivi al Covid. Un pullman della Croce Rossa Italiana li ha quindi caricati per trasportarli a Trapani, dove sono stati imbarcati sulla «Azzurra», la nave quarantena messa a disposizione del governo insieme alla «Aurelia», inizialmente per far trascorrere i 14 giorni di vigilanza sanitaria agli immigrati, ma adesso con funzioni simili a quelle avute anche dalla Moby Zazà, ovvero di vera e propria «nave di contenimento» del contagio da Covid-19. Una sorta di lazzaretto. Il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna ha chiarito: «È il frutto di una collaborazione quotidiana, continua e riservata con il ministero dell'Interno e con la prefettura di Ragusa che testimonia come soltanto la sinergia istituzionale può portare a risultati celeri». Anziché fare un plauso a Musumeci, che usa il pugno duro per liberare la sua terra dai malati di Covid, Ammatuna ringrazia «il ministero dell'Interno, la prefettura di Ragusa e quanti si sono spesi per raggiungere» il risultato. «Purtuttavia - prosegue -, tutto ciò non significa che non esistano problemi nella gestione dei flussi migratori e ribadisco la necessità che il presidente Conte dia la massima priorità alla questione, coinvolgendo il governo nella sua interezza». E stranamente una presa di posizione c'è anche dal parte del sindaco di Lampedusa Totò Martello, che fino a pochi giorni fa sembrava aver scelto la via dell'accoglienza, simboleggiata sulla sua isola dalla «porta d'Europa». «L'ordinanza di Musumeci - ha detto - vuole svegliare un governo assente. Però se noi chiudiamo l'hotspot, quando ci saranno gli arrivi spontanei dove andranno i migranti? Salvini, che è entrato in un hotspot senza mascherina e quindi dovrebbe fare un po' di quarantena, ha detto una falsità dicendo che i migranti infetti girano nell'isola, non è vero assolutamente. Questo racconto, falso, ha dato il colpo di grazia al turismo». Peccato che Martello neghi la realtà in maniera plateale, visto che dei migranti che fuggono dall'hotspot e girano sull'isola c'è ampia documentazione giornalistica.
Da liberoquotidiano.it il 24 agosto 2020. Per criticare Nello Musumeci, l'ineffabile Gad Lerner non trova di meglio che dargli del fascista. Il tema è l'emergenza migranti e il braccio di ferro tra il governatore di centrodestra della Sicilia, che ha imposto lo sgombero degli hotspot e dei centri accoglienza per motivi sanitari, visto che stanno letteralmente esplodendo, e il Viminale che invece avoca a sé la decisione se trasferire o meno i migranti, e così facendo di fatto congela la situazione. "Una volta, se non altro, Nello Musumeci aveva il coraggio di proclamarsi fascista - scrive Lerner su Twitter, da qualche mese migrato da Repubblica al Fatto quotidiano -, Ora invece pubblica ordinanza fasulla per addossare ai migranti il contagio Covid19 e chiedere al governo di respingerli in mezzo al mare. Cioè di agire da fascista quale lui continua a essere". Risposta a stretto giro di posta di Musumeci: "Ecco l’opinione di Gad Lerner. Che fa l’intellettuale facendo finta di non capire. È razzista, caro Lerner, chi pensa di ammassare migliaia di persone in condizioni disumane. È razzista chi non muove un dito contro una invasione che ha portato oltre diecimila persone sulle nostre coste in meno di due mesi. Se ne faccia una ragione ed eviti di buttarla in caciare, restando vittima dei suoi pregiudizi ideologici. Logori pregiudizi. Io vado avanti a tutelare la salute di chiunque stia sul suolo siciliano. Faccio il mio dovere di presidente. E mi aspetto che il governo centrale faccia la sua parte".
"Sei fascista", "Sai cosa penso?". È "rissa" tra Lerner e Musumeci. Polemiche sulla decisione di sgomberare gli hotspot e i centri di accoglienza della Sicilia. Per il giornalista il governatore si conferma "fascista". Musumeci ricorda che è da razzisti "pensare di ammassare migliaia di persone in condizioni disumane". Gabriele Laganà, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. La decisione di Nello Musumeci di sgomberare gli hotspot e i centri accoglienza della Sicilia per motivi sanitari non è piaciuta alla sinistra, ai radicalchic, ai cattolci progressisti e ai fautori dell’accoglienza senza se e senza ma. Una pioggia di critiche, infatti, è caduta addosso al governatore che, in queste difficili giornate, sta lavorando per tutelare la salute degli stessi migranti ma anche quella dei cittadini siciliani. Il Viminale, invece, avoca a sé la decisione se trasferire o meno i clandestini: così facendo, però, ha di fatto congelato ogni azione del governatore. La polemica è divampata grazie ai maestri dell’accoglienza che, a parte le solite frasi condite da retorica, non indicano come gestire un’emergenza di proporzioni bibliche. Del resto quando si tratta di parlare tutti sono bravi. Ma come dimostra il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, le posizioni cambiano quando si tocca con mano l'emergenza. Eppure c’è chi proprio non accetta che ci sia qualcuno impegnato a porre un freno al flusso di clandestini nel nostro Paese. Tra questi vi è Gad Lerner. Il giornalista de Il fatto Quotidiano non ha trovato di meglio che dare del fascista al governatore. "Una volta, se non altro, Nello Musumeci aveva il coraggio di proclamarsi fascista – ha scritto Lerner su Twitter-. Ora invece pubblica ordinanza fasulla per addossare ai migranti il contagio Covid19 e chiedere al governo di respingerli in mezzo al mare. Cioè di agire da fascista quale lui continua a essere". Il messaggio è stato accompagnato da una foto che ritrae un giovane Musumeci in compagnia di Giorgio Almirante. Un fatto, questo, che evidentemente il giornalista deve considerare come un motivo di vergogna. Ma Musumeci non è un tipo che si lascia intimorire dagli attacchi dei suoi nemici. Il governatore, poco dopo aver saputo dell’affondo di Lerner, su Facebook ha risposto: "Ecco l’opinione di Gad Lerner. Che fa l’intellettuale facendo finta di non capire. È razzista, caro Lerner, chi pensa di ammassare migliaia di persone in condizioni disumane. È razzista chi non muove un dito contro una invasione che ha portato oltre diecimila persone sulle nostre coste in meno di due mesi". "Se ne faccia una ragione ed eviti di buttarla in caciare, restando vittima dei suoi pregiudizi ideologici- ha dichiarato ancora Musumeci-. Logori pregiudizi. Io vado avanti a tutelare la salute di chiunque stia sul suolo siciliano. Faccio il mio dovere di presidente. E mi aspetto che il governo centrale faccia la sua parte".
"Ordinanza fasulla del ducetto": l'odio di Gad Lerner su Musumeci. Nuovo attacco di Gad Lerner contro Nello Musumeci dopo che il governo ha impugnato l’ordinanza del governatore della Sicilia che prevedeva lo sgombero di hotspot e centri di accoglienza migranti dell’isola. Gabriele Laganà, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Nei giorni scorsi per offenderlo gli aveva dato del "fascista", ora del "ducetto". Gad Lerner continua imperterrito nella sua battaglia contro il governatore della Sicilia, Nello Musumeci. E anche questa volta affida ai social il suo pensiero provocatore. "Il governo impugna l'ordinanza fasulla del ducetto Nello Musumeci che pretendeva di chiudere i centri d'accoglienza siciliani. Già ora i migranti vengono ricollocati su tutto il territorio. Respingerli è solo incivile propaganda. I veri fratelli d'Italia credono nella fratellanza", è il messaggio al vetriolo che il giornalista simbolo della sinistra radical chic ha scritto su Twitter. Lerner fa riferimento all’ordinanza di Musumeci, che prevedeva lo sgombero di hotspot e centri di accoglienza migranti della Sicilia, impugnata dal governo e dal Viminale. L'ordinanza, secondo il ricorso, "interferisce direttamente e gravemente con la gestione del fenomeno migratorio che è materia di stretta ed esclusiva competenza dello Stato". Inoltre, sempre secondo il ricorso, si sottolinea che nonostante sia stata motivata come misura anti Covid, l’ordinanza "interferisce sul fenomeno migratorio e produce effetti diretti a carico di altre Regioni”. Ma quello che la firma del Fatto continua a non voler vedere è la condizione di vita dei clandestini stipati in luoghi non idonei. Senza dimenticare che alcuni di essi, risultati positivi al coronavirus, hanno tentato la fuga dai centri di accoglienza mettendo così a rischio, la salute di tutti i cittadini. Ma parlare di questo al giornalista dell’intellighenzia ultra progressista forse non conviene. Così come gli non conviene illustrare quale sia la via giusta per metter in pratica l’accoglienza di massa perché di risposte potrebbe non averne.
Ormai quel cattivone di Musumeci, impegnato a tutelare la salute dei siciliani e degli stessi migranti, è finito nel mirino del buon Gad. Quest’ultimo lo scorso lunedì aveva dato il via allo scontro con un post su Twitter: "Una volta, se non altro, Nello Musumeci aveva il coraggio di proclamarsi fascista. Ora invece pubblica ordinanza fasulla per addossare ai migranti il contagio Covid19 e chiedere al governo di respingerli in mezzo al mare. Cioè di agire da fascista quale lui continua a essere". Il messaggio è stato accompagnato da una foto che ritrae un giovane Musumeci in compagnia di Giorgio Almirante. Il governatore aveva subito replicato su Facebook:"Ecco l’opinione di Gad Lerner. Che fa l’intellettuale facendo finta di non capire. È razzista, caro Lerner, chi pensa di ammassare migliaia di persone in condizioni disumane. È razzista chi non muove un dito contro una invasione che ha portato oltre diecimila persone sulle nostre coste in meno di due mesi". "Se ne faccia una ragione ed eviti di buttarla in caciare, restando vittima dei suoi pregiudizi ideologici- ha scritto ancora Musumeci-. Logori pregiudizi. Io vado avanti a tutelare la salute di chiunque stia sul suolo siciliano. Faccio il mio dovere di presidente. E mi aspetto che il governo centrale faccia la sua parte".
Matteo Salvini e Nello Musumeci denunciati: "Tre accuse gravissime", il gioco sporco della sinistra sui migranti. Libero Quotidiano il 25 agosto 2020. “Non mi bastavano i processi per sequestro di persona: la sinistra mi ha denunciato, insieme al governatore Nello Musumeci, per procurato allarme, abuso d’ufficio e diffamazione”. Matteo Salvini prende le tre denunce e se le mette al petto come se fossero medaglie: il capogruppo di Italia Viva al Senato lo ha denunciato insieme al presidente della Regione Sicilia. “Noi abbiamo detto basta agli sbarchi - ha dichiarato il segretario della Lega - con il traffico degli esseri umani e con il virus che arriva dall’altra parte del mondo. E cosa succede? Un’altra denuncia. Renzi sta bene? Conte e Lamorgese dove sono? Invece Di Maio non va disturbato perché domani ospita in pompa magna il ministro degli Esteri cinese, chissà che non porti qualche monopattino elettrico per Toninelli e qualche banco a rotelle per la Azzolina”. Salvini dovrà già andare a processo a Catania il 3 ottobre per sequestro di persona: “Adesso grazie a questo governo raccolto altre tre denunce. Io ho semplicemente difeso i confini, la sicurezza, la salute, le leggi e l’orgoglio del mio paese. E continuerò a farlo”. Non mi bastavano i processi per “sequestro di persona”: la sinistra (nella persona del signor Faraone) mi ha denunciato, insieme al governatore della Sicilia Musumeci, per “procurato allarme”, “abuso d’ufficio” e “diffamazione”...!
Altro che laboratorio di paura: la verità dietro il "caos" Sicilia. L’isola, come ogni estate, è stata travolta dai flussi migratori. E c'è chi minimizza i rischi sanitari e le possibili infiltrazioni di terroristi legati all'Isis. Alberto Giorgi, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Tra sbarchi su sbarchi quotidiani, centri di accoglienza al collasso e decine di migranti positivi al coronavirus, la Sicilia è in ginocchio. Per l’isola è (stata) un’estate durissima, che ha visto i flussi migratori tornare a interessare massicciamente le sue coste e i suoi porti. Sono migliaia i clandestini arrivati sul territorio italiano dalla Libia e dalla Tunisia e tra di loro non ci sono solamente decine di positivi al Sars-Cov-2, bensì anche ex combattenti del sedicente Stato Islamico. Dunque l’emergenza è triplice: migratoria, sanitaria e terroristica. In queste settimane gli sbarchi si sono susseguisti no-stop, compresi i cosiddetti sbarchi-fantasma. Tra le migliaia di immigrati arrivati in Sicilia, più di uno è riuscito a far perdere le proprie tracce ancor prima di entrare in uno dei tanti hotspot dell’isola. Quegli stessi hotspot che il governatore Nello Musumeci ha provato a sgomberare e a chiudere, venendo prima stoppato dal governo e poi – su imbeccata dell’esecutivo giallorosso stesso – dal Tribunale amministrativo della regione. Dicevamo della minaccia terroristica. Bene, in un articolo uscito quest’oggi sulle colonne di Avvenire, l’inviato ad Agrigento Nello Scavo conferma la notizia della fuga, avvenuta nei giorni scorsi, di alcuni tunisini da poco sbarcati sul territorio siciliano. E scrive: "Dal Paese d’origine le autorità hanno fatto sapere, a quanto pare in modo piuttosto informale, che tra loro potrebbe esserci qualche ex combattente del Daesh". Il che, ovviamente, è inquietante. Si tratterebbe di reduci dalla campagna in Siria che facendo ritorno in patria, per evitare di finire in galera, salperebbero sui barconi della speranza e della morte verso il Vecchio Continente. Allo stesso tempo, però, il giornale di ispirazione cattolica – a favore dell’accoglienza sempre e comunque – minimizza i rischi sia per la nostra salute pubblica (sul versante migranti positivi al Covid-19), sia per la nostra sicurezza nazionale (sul fronte degli ex guerriglieri dell’Isis). "Sicilia, laboratorio di paura. Tra fake news, Covid e terrorismo islamico", questo il titolo dell’articolo. Ma di fake news qui non ce n’è neanche l’ombra: in primis perché le possibili infiltrazioni di uomini vicini a Daesh sono state confermate dalla autorità tunisine; in secundis perché – per quanto concerne la pandemia – il 24 di agosto tra i nuovi 65 casi di coronavirus rilevati nell’isola, 58 erano migranti ospitati a Lampedusa. Giusto per fare un esempio. Avvenire parla addirittura di "macchina della paura", ma questi sono i fatti siciliani delle ultime difficili settimane. Così come non è certo una falsa notizia il fatto che tra i tanti disperati stipati nei barconi guidati dagli scafisti si riescano ad infiltrare anche pericolosi foreign fighters: in passato, sia l’Interpol, sia l’intelligence Usa, lo hanno confermato. Insomma, altro che fake news.
Lo sbarco shock a Lampedusa: arriva un barcone con 450 migranti. Impossibile svuotare l'isola: quasi mille gli arrivi in sole 24 ore. L'hotspot di nuovo al collasso. L'ira del sindaco: "Basta con le angherie dal governo". E i cittadini organizzano lo sciopero. Maurizio Zoppi, Domenica 30/08/2020 su Il Giornale. Una imbarcazione con a bordo 450 tunisini è arrivata questa notte a Lampedusa scortata dalla Guardia costiera e dalle forze dell'ordine. Un maxi sbarco nell'isola siciliana in barba alle proteste dei cittadini presenti sul molo, che hanno manifestato il loro dissenso attraverso striscioni e urla. "Questa è una invasione. Siamo stanchi e le forze dell'ordine devono essere insieme a noi", afferma Attilio Lucia, vice coordinatore a Lampedusa della Lega presente al molo durante gli sbarchi. "Da qui non si muove nessuno. Devono passare sul mio cadavere. Dov'è la ministra Lamorgese? Siamo stanchi. Sono tutti tunisini, peraltro, quindi vanno rimpatriati immediatamente. Impediremo con tutte le nostre forze di farli passare", ha urlato durante il trasbordo l'ex senatrice della Lega Angela Maraventano. Il maxisbarco sull'isola avviene dopo 24 ore già "calde". Erano infatti già approdati altri 500 migranti su una trentina di piccole imbarcazioni. Una emergenza che stenta a placarsi anche dopo i vari appelli della grave situazione fatti dal sindaco Totò Martello. Proprio ieri il primo cittadino della isola siciliana ha inviato una lettera al primo ministro tunisino Kasis Saied minacciando di raggiungere le coste nordafricane con la sua barca, percorrendo al contrario la rotta dei migranti. Giunto anche lui questa notte al porto, il primo cittadino ha protestato vivamente: "Siamo in ginocchio, con questi arrivi all'hotspot si supereranno le 1.500 presenze. La situazione è insostenibile: o il governo prende decisioni immediate oppure sciopererà tutta l'isola", ha spiegato, "Sarà direttamente l'amministrazione a dichiarare lo sciopero, chiudendo tutto. Non è possibile continuare a sopportare queste angherie da parte del governo. Le condizioni di vivibilità all’interno del centro di accoglienza di Lampedusa sono insopportabili, e sarà così fino a quando non si avvieranno trasferimenti in misura tale da superare il sovraffollamento: è una situazione che ho denunciato da tempo, così come l’allarme per aumentare la sorveglianza ed impedire che migranti escano dalla struttura. Gli effetti dell’emergenza migranti a Lampedusa non si limitano al solo Centro di accoglienza”. Le parole del primo cittadino di Lampedusa sono una risposta indiretta alle dichiarazioni ufficiali del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, che ha assicurato ai giornalisti la sua intesa con il governo tunisino. Intesa che avrebbe comportato una forte riduzione degli sbarchi sulle nostre coste ad agosto, in confronto al precedente mese di luglio: ma del crollo degli sbarchi rivendicato dalla Lamorgese non si trova riscontro. L'ennesimo sbarco è la ciliegina sulla torta che aggrava l'emergenza covid-19 in Sicilia e che non placa lo scontro politico e istituzionale tra l'esecutivo romano e il governo Musumeci. Interviene in merito alla vicenda anche il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci che ha scritto attraverso i social: "Mi rivolgo direttamente al presidente Conte. Lampedusa non ce la fa più. La Sicilia non può continuare a pagare l’indifferenza di Bruxelles e il silenzio di Roma. E ieri abbiamo anche sentito qualche irresponsabile pronunciare frasi incomprensibili come “non esiste l’emergenza”. C’è una emergenza umanitaria e sanitaria. Lo dicono i numeri. Lo dicono i fatti. E non basta impugnare una ordinanza per negare la realtà. È tempo di decisioni forti. Presidente Conte, convochi il Consiglio dei ministri per affrontare l’emergenza di questi mesi, divenuta insopportabile in queste ore. Lo chiedo da presidente di una Regione che, come prevede lo Statuto, ha diritto di partecipare al Consiglio quando si affrontano decisioni che riguardano la mia Isola. Lo chiedo con rispetto, ma con fermezza. Non costringete i lampedusani a scioperi e serrate. È un luogo meraviglioso, quello: non merita questo trattamento!".
Andrea Priante per il ''Corriere della Sera'' l'8 agosto 2020. In principio fu il «paziente 0»: un operatore pakistano addetto alla raccolta dei rifiuti, che a giugno rientrò da un viaggio in patria e finì nel reparto Malattie infettive dell' ospedale. Prima del ricovero ebbe il tempo di contagiare un migrante ospite della struttura in cui lavorava, la «Serena» di Treviso. È un' ex caserma trasformata in centro di accoglienza per richiedenti asilo. Oggi lì vivono trecento profughi. E di questi - a meno di due mesi da quel primo caso - 246 hanno contratto il Covid-19 assieme a undici operatori. Tutti asintomatici. Attualmente è il più grande focolaio di coronavirus in Italia. Che la situazione rischiasse di degenerare lo si era capito già il 30 luglio, quando un primo giro di tamponi aveva consentito di scoprire 137 migranti infetti. Ma in una decina di giorni il bilancio si è drasticamente aggravato e ora il sindaco di Treviso, Mario Conte, vuole sapere di chi è la responsabilità di quella «bomba sanitaria», il segretario della Lega Matteo Salvini punta il dito sul governo «che spalanca i porti e mette in pericolo l' Italia» e, dal fronte opposto, il candidato del centrosinistra alle regionali Arturo Lorenzoni evidenzia «carenze nel monitoraggio sanitario» parlando di una situazione che è «una vergogna nazionale». Su come sia stato possibile lasciar crescere l' emergenza fino a questo punto, ci sono teorie diverse. Gianlorenzo Marinese, il presidente di Nova Facility - la società che gestisce il centro - ricorda che dopo il primo allarme di giugno i 300 ospiti rimasero in isolamento per otto giorni e poi furono lasciati liberi di muoversi «senza neppure essere sottoposti a un nuovo tampone». Dall' Usl dicono che «il protocollo non prevedeva un nuovo giro di test e comunque all' interno della struttura non ci sono le condizioni di sicurezza», considerato che a giugno i medici erano stati aggrediti e sequestrati in guardiola da un gruppo di ospiti. Ma anche ipotizzando che il focolaio di oggi non sia conseguenza diretta di quello di due mesi fa, com' è stato possibile che i 137 malati di fine luglio siano stati lasciati nelle condizioni di infettare altrettanti ospiti sani? E qui la risposta ha del sorprendente: positivi e negativi al tampone non sono mai stati separati. Si era deciso di creare, all' interno della «Serena», una palazzina dove isolare gli infetti ma in realtà non è mai stato fatto: da giugno a oggi, i profughi hanno continuato a condividere camere e spazi comuni. Marinese dice che i soliti facinorosi hanno rifiutato il trasferimento al grido «il Covid non esiste» e lui non ha «l' autorità per costringerli a fare le valigie né a indossare le mascherine o a usare il disinfettante». Il prefetto Maria Rosaria Laganà conferma che non è stato possibile obbligare i contagiati a trasferirsi nella palazzina accanto: «Non ci sono i presupposti di legge. La norma impone di stare in quarantena, non di chiudere le persone in un recinto o in una stanza». Le fa eco il direttore generale dell' Usl Francesco Benazzi: «Ciò che è accaduto dipende dal mancato rispetto delle norme di distanziamento. Il campanello d' allarme doveva darlo la coop, garantendo l' isolamento nella palazzina e l' uso delle mascherine». Il risultato è che a Treviso migranti sani e malati sono rimasti insieme, lasciando campo libero al virus. In un caso simile sempre in Veneto, a Jesolo, si era agito diversamente: alla scoperta di un focolaio nel centro gestito dalla Croce Rossa, era subito scattato il trasferimento dei positivi in un' altra struttura. In questo modo, almeno lì, la situazione non era peggiorata.
Silvia Madiotto per corriere.it il 7 agosto 2020. Contrariamente all’ottimismo dimostrato dal direttore dell’Usl 2 il giorno in cui venivano effettuati i tamponi, l’aumento esponenziale dei casi positivi fra i profughi dell’ex caserma Serena di Treviso è qualcosa di molto simile a un disastro. Erano 137 una settimana fa: dopo il maxi screening di controllo, al termine di una settimana di quarantena obbligatoria, i positivi sono diventati 246 su 281 ospiti a cui si aggiungono anche 11 operatori (su 25), che prima invece non avevano evidenziato contatti con il virus. Ci sono solamente 49 persone “sane” lì dentro. Ad alleggerire la tensione non basta che, su circa 130 colleghi di lavoro delle aziende in cui sono impiegati i migranti, le positività siano state soltanto due. Quello che sta capitando all’interno della Serena, dove le linee guida evidentemente non hanno sortito effetto sul contenimento del contagio, diventa un grosso problema e un allarme sanitario. «Qui ci sono delle gravi responsabilità e altrettanto gravi silenzi del Governo - taglia corto il sindaco di Treviso Mario Conte -. Da lì non deve uscire nessuno finché non saranno tutti negativi, dobbiamo tutelare la salute della nostra comunità. I danni al territorio sono incalcolabili, qualcuno dovrà renderne conto».
Il sindaco. Quasi otto su dieci fra i rifugiati e i dipendenti di Nova Facility sono positivi al Covid. Conte sta preparando una richiesta a Nova Facility: vuole sapere cosa sia accaduto alla caserma. «E come mai ci siano così pochi operatori a monitorare la situazione – dice Conte -. Bar, ristoranti, negozi e fabbriche applicano rigorosamente le linee guida per ridurre il contagio. Non è che allora alla Serena possa succedere di tutto. Penso ai ragazzi lì accolti, a chi ha altre patologie. Ma se non ci sono regole, tutti mangiano insieme, dormono dove dormivano prima, non usano le mascherine e non rispettano l’isolamento negli edifici preposti, ci sono delle carenze evidenti». Ovviamente, l’isolamento della struttura continua, la Serena è blindata e monitorata a vista dalle forze dell’ordine, e ci sono molti dubbi sul fatto che possa riaprire i cancelli al termine delle due settimane di prassi. «Abbiamo chiesto all’azienda un resoconto di quanto sta accadendo - annuncia il prefetto Maria Rosaria Laganà -. Dovranno farci sapere il motivo per cui il contagio si è esteso, cosa hanno fatto per rispettare le prescrizioni dell’Usl, quanto personale aggiuntivo è stato inserito, se ci sono state delle carenze».
Il prefetto. Già prima dell’esito drammatico del terzo round di tamponi il prefetto evidenziava criticità, anche sui disordini e violenze che si verificano all’interno della struttura. «Prima dell’emergenza non c’erano segnalazioni, si comportavano tutti bene, altrimenti saremmo intervenuti. Cos’è cambiato? Non sappiamo di chi fra gli ospiti siano le responsabilità, attendiamo le indagini dell’autorità giudiziaria. Valutare la gestione dell’azienda in questo momento è complicato, ci sono 290 ospiti chiusi, alcuni malmostosi, e non possiamo chiedere a Nova Facility azioni di forza, ma abbiamo chiesto che sia aumentata la presenza all’interno e di rafforzare la vigilanza».
I migranti, la bomba sanitaria e i negazionisti della sinistra. Per dem e renziani il problema non sono i migranti positivi ma gli italiani. E al boom di sbarchi rispondono cancellando i dl Sicurezza e riproponendo lo ius soli. Così portano al collasso il Paese. Andrea Indini, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. La sinistra sta mettendo in atto l'ennesimo gioco al massacro: negare cioé che in Italia ci sia un'emergenza sanitaria legata all'immigrazione clandestina. Farlo non solo è pericoloso perché non procrastina qualsiasi intervento volto a risolvere una situazione ormai esplosiva, ma è anche dannoso per tutti quei cittadini che fino a oggi hanno rispettato tutte le regole imposte dal governo per arginare i contagi, minando così l'intero sistemo economico del Paese. Molti nuovi focolai sono "d'importazione", vengono da fuori. Eppure la maggioranza non lo accetta: anziché sventolare bandiera bianca, ammettendo di non essere in grado (ideologicamente parlando) di fermare gli sbarchi dei clandestini, di far rispettare la quarantena ai migranti, di effettuare i dovuti controlli alle frontiere, preferisce riversare (ancora una volta) sugli italiani le proprie attenzioni vessandoli e mettendoli in difficoltà. La prima a ribaltare la realtà sulla portata dell'emergenza sanitaria legata ai continui sbarchi è stata Maria Elena Boschi. Nei giorni scorsi, in un'intervista al Corriere della Sera, ci teneva a precisare che "tecnicamente il coronavirus è stato esportato dagli italiani in Africa con gli aerei e non da loro con i barconi". Oggi, dalle colonne dello stesso giornale, è toccato al ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, rincarare la dose rivendicando che "il 75% dei positivi sono italiani, contagiati da altri italiani". "I positivi stranieri salvati in mare vengono tutti sottoposti a test e tamponi e molti di loro ripartono immediatamente. Non mi pare il tema". L'esponente dem invita piuttosto a prendersela con "le feste senza regole" o con "l’imprenditore irresponsabile che, tornato dall'estero, è andato in giro con i sintomi". Certo, si tratta di atteggiamenti da condannare senza se e senza ma. Ma si tratta anche di girare la testa da tutt'altra parte perché la pressione a cui sono sottoposti i porti italiani nelle ultime settimane (solo nel mese di luglio gli sbarchi sono aumentati di oltre il 400 per cento) e la situazione imbarazzante in cui versano i centri di prima accoglienza dovrebbero suggerire al governo Conte che la misura è colma e che rimandarne la situazione significa esporre l'intero Paese a rischi inutili. I campanelli d'allarme sono numerosi: i focolai all'interno della comunità bengalese di Roma, i ritorni "fantasma" dall'Est Europa con i pullman che evitano i controlli all'arrivo, gli sbarchi sulle coste del Sud Italia e le fughe dei migranti sulle spiagge, le strutture colabrodo a cui vengono destinati gli stranieri che dovrebbero stare in quarantena. Tutti questi casi messi insieme danno l'immagine di un governo incapace di far rispettare le regole e fanno temere che la situazione sia del tutto sfuggita di mano. Nei giorni scorsi, durante un evento di Forza Italia, Silvio Berlusconi aveva apertamente invitato il premier Giuseppe Conte a "vigilare sul rischio di una nuova ondata di coronavirus di importazione, che passa per gli immigrati che arrivano clandestinamente in Italia". "Mai come oggi - aveva avvertito - è necessario un controllo rigoroso delle frontiere". La risposta della maggioranza, al netto delle litigiosità interne, è stata diametralmente opposta: c'è chi sogna lo smantellamento dei decreti Sicurezza e, di conseguenza, la riapertura dei porti, e chi torna a cianciare di ius soli. L'esatto opposto di quello di cui avremmo bisogno. E, mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio perde tempo nel proporre rimpatri veloci, che mai avverranno, e interventi contro le imbarcazioni dei trafficanti, al Viminale tutto tace e a nessuno della Difesa viene in mente di far blindare dall'esercito i centri migranti o le strutture per l'accoglienza per evitare altre fughe. "Si può sapere che cosa sta facendo il governo per arginare questo gravissimo fenomeno?", si chiede Giorgia Meloni. Il rischio, come detto, è che i giallorossi, in nome di quella che la leader di Fratelli d'Italia definisce una "spregiudicata politica immigrazionista", vanifichino tutti i sacrifici fatti sino a oggi dagli italiani. "Davvero in Italia chi arriva illegalmente è al di sopra della legge e può fare quello che vuole, anche mettere a rischio la salute e la vita dei cittadini? Basta: la misura è colma". Il punto è che il Paese non può permettersi una seconda onda. Non può permetterselo sia dal punto di vista sociale sia economico. Per questo bisogna fare tutto quello che è necessario per fermare tutte le possibilità di nuovi contagi. Non solo. Al netto dell'emergenza legata alla diffusione del Covid-19, è importante anche riprendere in mano il dossier immigrazione. Per cinque anni, durante i governi Letta, Renzi e Gentiloni, trafficanti e Ong hanno avuto il "lasciapassare" per le nostre coste. Dopo la (breve) parentesi del pugno duro di Matteo Salvini, si è ritornati al vecchio malcostume e il business dell'accoglienza ha ripreso a galoppare senza sosta. Per il Nicola Zingaretti e i suoi non è ancora abbastanza: chiedono di allargare ulteriormente le maglie. Il loro sogno, con il beneplacito dell'Unione europea, è di trasformare il Paese in un gigantesco porto di approdo per tutti i disperati del terzo mondo. I risultati di questa politica scellerata sono sotto i nostri occhi e li abbiamo pagati a caro prezzo già negli anni scorsi.
Ecco in quali Regioni il governo ha inviato migranti positivi al Covid. Toscana, Piemonte, Basilicata, Molise, Lazio: il governo giallorosso ha deciso di smistare i migranti positivi al coronavirus in giro per l'Italia. Federico Giuliani, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Dal Lazio alla Toscana, dal Lazio al Piemonte, passando per Basilicata e Molise. Il governo giallorosso ha deciso di smistare i migranti in varie regioni italiane, così da alleggerire la pressione sull'hotspot di Lampedusa, ormai al collasso. Al di là della logica alla base dell'accoglienza, c'è un altro problema da considerare al tempo del coronavirus. Ossia la possibilità che i nuovi arrivati possano essere infettati dal Covid. Il contesto sanitario aggrava dunque una situazione già di per sé molto complessa. Già, perché basta un solo migrante positivo all'interno di una struttura per creare un vero e proprio focolaio. Come accaduto, d'altronde, all'ex Caserma Serena di Treviso, in cui sono state trovate 134 persone infette durante lo screening che ha coinvolto i 293 ospiti e i 22 operatori impegnati nell'edificio. Un ulteriore problema è rappresentato dalla scelta dell'esecutivo giallorosso di voler spostare gli stessi migranti in giro per l'Italia. Il rischio, in questo caso, è quello di portare il coronavirus in regioni in cui l'R0, cioè il parametro usato per valutare l'andamento di un'epidemia provocata da una malattia infettiva, era sotto controllo. Detto altrimenti, dal momento che in Sicilia la situazione è critica, i giallorossi stanno distribuendo i nuovi arrivati, molti dei quali positivi al coronavirus, nel resto del Paese. Poco importa se la mossa di Giuseppe Conte ha scontentato tanto la destra quanto la sinistra. Piaccia o non piaccia, la strada è stata tracciata.
Le regioni a rischio. Ma in quali regioni sono stati inviati i migranti infetti? Secondo quanto riferisce il quotidiano Libero, 19 immigrati positivi al Covid sono stati inviati da Lampedusa al Centro temporaneo di permanenza di Torino. Il trasferimento, tra l'altro, ha creato disordini e un carabiniere è rimasto ferito. In Toscana, a Livorno, cinque immigrati restano ricoverati nel reparto Covid dell'ospedale. Ricordiamo che i pazienti, per sfuggire ai controlli, si erano tuffati nelle acque del porto da una nave traghetto proveniente da Malta. In Sicilia, a Lampedusa, si sono verificati ben otto sbarchi, compreso il soccorso di un barchino; calcolatrice alla mano, nell'isola sono giunte ben 250 persone. L'hotspot ne contiene 950. Un numero enorme, che ha spinto il sindaco locale, Totò Martello, a chiedere il loro trasferimento. La Prefettura di Agrigento ha quindi informato che 170 di loro finiranno a Porto Empedocle, ad Agrigento. Nel frattempo, a Palermo, al San Paolo Hotel, alcuni tunisini, in quarantena, hanno lasciato le loro camere creando non pochi scompigli. Attenzione però anche alla Basilicata, dove ci sono da segnalare i 37 bengalesi positivi al Covid e un clima molto teso. Nel Lazio lo scenario è stato descritto dalle parole dell'assessore alla Sanità Alessio D'Amato: "Registriamo 18 casi e zero decessi. Di questi 4 provengono da altre Regioni e 5 sono casi di importazione: un caso del Bangladesh, uno da Albania, uno dalla Moldavia, uno dal Pakistan e uno dalla Polonia". In tutto sono quasi 400 i migranti trasferiti in loco dalla Sicilia. In Molise troviamo invece 171 immigrati provenienti da Lampedusa; due di loro sarebbero risultati positivi al coronavirus.
Coronavirus, dramma a Lampedusa: sbarcano altri 26 immigrati positivi. Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. Sbarchi senza sosta a Lampedusa, mentre il governo osserva imbelle l'invasione e mentre il sindaco, Totò Martello, minaccia di proclamare autonomamente lo Stato d'emergenza. E nelle ultime ore, oggi, sabato 25 luglio, a preoccupare ancora una volta sono i clandestini positivi al coronavirus. Gli operatori dell'hotspot faticano a gestirli, mentre il segretario generale Mp, Antonio Allotta, ha reso noto che i test sierologici condotti sulle ultime persone sbarcate "hanno dato risultato positivo per altre 25 persone". Insomma, altri 25 immigrati infetti arrivati in Italia. La situazione ci preoccupa, perché tutti i nuovi sbarcati sono stati sul molo per ore, i positivi sono rimasti a lungo divisi dagli altri da una corda rossa, e tutti gli altri, che evidentemente devono essere sottoposti alla quarantena, sono stati pure in attesa sul posto - dice Allotta - Adesso i positivi sono stati portati in una piccola struttura chiusa, e saranno sottoposti a ulteriori esami, mentre gli altri sono stati divisi in gruppi e sono ancora in attesa. E non ci risulta che si sappia neppure dove devono essere spostati". Insomma, il caos è totale. E in questo caos, giorno dopo giorno, arrivano sempre più immigrati positivi al coronavirus.
I sindaci siciliani in rivolta: "Così si diventa razzisti". "Siamo esasperati". E si appellano a Palazzo Chigi. Valentina Raffa, Mercoledì 29/07/2020 su Il Giornale. Il governo trasferisce i migranti. Tenta di svuotare utopicamente Lampedusa presa d'assalto e li sposta a Porto Empedocle da dove saranno destinati in diversi centri, tra Molise e Piemonte. Ma la tecnica dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia dislocando il problema da un posto all'altro non è la soluzione. Lo sanno i sindaci delle città più martoriate, che ogni giorno devono confrontarsi con la gente, timorosa di dovere fare i conti nuovamente con l'incremento del Covid-19 e infuriata perché i migranti evadono dalle strutture spesso violando la quarantena. «Siamo esasperati». Il sindaco di Porto Empedocle, Ida Carmina, è sul piede di guerra e si appella al presidente del Consiglio Conte perché intervenga. In pratica dalla tensostruttura della Protezione di Civile sono scappati più di 100 migranti e il Viminale ne trasferisce altri 200. «Ho fatto un'ordinanza per evitare che ci fossero altri sbarchi e invece Porto Empedocle continua essere utilizzata come sede privilegiata di tutti gli sbarchi per scelta governativa». La ricetta della Carmina per il governo è il blocco navale. È la proposta avanzata già da tempo dal segretario nazionale del Sap, Giuseppe Coco, caduta nel vuoto. «Il personale di polizia è allo stremo denuncia -. Assistiamo ai trasferimenti da Lampedusa su terraferma di centinaia di migranti. Scendono poche donne e per il resto sono tutti giovani robusti soprattutto tunisini. Da quale guerra scappano? Non vanno fatti sbarcare». La Carmina dice no anche alla nave quarantena da mille posti che il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese vuole posizionare davanti a Porto Empedocle e suggerisce che stazioni vicino Lampedusa e che i trasferimenti siano spalmati su diversi porti. Chiede sicurezza per i suoi concittadini anche il sindaco di Caltanissetta, Roberto Gambino, che, dopo la fuga in massa dal Cara di Pian del Lago, ha scritto al numero uno del Viminale sottolineando che il «centro di accoglienza non è adeguatamente protetto». «Noi sindaci diventiamo bersaglio di invettive dei cittadini che dovrebbero sentirsi protetti e sicuri. Una sicurezza che non si percepisce più, dando spazio a derive intolleranti e razziste». Gambino ha chiesto che venga disposto «il blocco di ogni trasferimento di migranti a Caltanissetta» e che il centro sia svuotato e torni ad accogliere solo i richiedenti asilo. Uno schiaffone, insomma, al Viminale, perché prenda consapevolezza della realtà. E pare che stia accadendo: «Vanno fermati gli sbarchi», dice il ministro, sperando che alle parole seguano i fatti. Duro Salvini: «Si accorge solo ora di dover fermare i flussi». Il capo della Farnesina Luigi Di Maio si appella all'Ue perché riprendano le redistribuzioni.
Toh, il sindaco pro immigrati ora non vuole più gli immigrati. Ora chiede l'emergenza. Anzi la pretende. E se il governo degli amici giallorossi non gliela concederà poco importa. Se la dichiarerà da solo come uno stizzito sovranista isolano. Gian Micalessin, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Ora chiede l'emergenza. Anzi la pretende. E se il governo degli amici giallorossi non gliela concederà poco importa. Se la dichiarerà da solo come uno stizzito sovranista isolano. Singolare metamorfosi quella di Salvatore Martello, meglio conosciuto come Totò, sindaco di Lampedusa. Un anno fa era un riverito e compassato progressista. Da ieri, complice l'arrivo d'un migliaio di migranti nel centro accoglienza della sua Lampedusa, ulula contro il governo incapace di fermarli e pretende navi militari per traslocare altrove i «disgraziati» diventati indesiderati. C'è da capirlo. Fare l'anti-Salvini al riparo dei decreti del cattivo Matteo era comodo ed elegante. In pubblico poteva spendere parole di fuoco contro il ministro simbolo della destra ingenerosa e disumana. In cuor suo, invece, se la poteva ridere sicuro e compiaciuto. Tanto a proteggere la sua isola e la sua reputazione bastavano i famigerati decreti sicurezza e tutte le misure che - dall'arrivo al Viminale di Salvini fino al 30 agosto del 2019 - hanno contribuito a ridurre drasticamente gli sbarchi. Conscio di quell'invidiabile fortuna, il buon Totò poteva atteggiarsi a profeta dell'accoglienza regalando distillati di politicamente corretto. «Noi siamo qui che li aspettiamo. Se arrivano sono i benvenuti» ripeteva mentre inneggiava allo sbarco dei migranti traghettati dalla Ong di Luca Casarini e dei centri sociali. E benvenuta per Totò era persino quella Carola Rackete che nella fretta d'accoglierne l'invito non esitò a speronare una fastidiosa motovedetta della Finanza. Del resto come biasimarlo? A sentir lui l'emergenza migranti era solo «speculazione ideologica». «In Italia siamo abituati a chiamare emergenza anche cose che non la rappresentano... le emergenze vere e proprie qui le abbiamo avute soltanto nel 2009 e nel 2011, cioè prima e dopo la Primavera Araba». In questa illuminata visione solidale e umanista gli illiberali decreti sicurezza non potevano certo trovar posto. Né - tantomeno - «rappresentare un deterrente contro gli sbarchi». Andateglielo a dire adesso mentre il Conte bis, per cui Totò a settembre si spellava le mani, fa di tutto per non applicare quei decreti. Andateglielo a dire mentre il centro d'accoglienza straripa, mentre i pochi turisti fuggono e i migranti campeggiano sulla banchina. Andateglielo a dire e al posto del profeta dell'accoglienza scoprirete una specie di cacciatore di migranti pronto a bloccarli sul molo e a pretenderne l'evacuazione su navi militari. E a far infuriare ancora di più il povero Totò s'aggiunge lo sgarbo d'un Salvini liquidato come un «giullare» per aver osato metter piede nella sua Lampedusa rinfacciandogli la passata arrendevolezza. A ben vedere non ha torto. Di altri Salvini a Lampedusa non c'è proprio bisogno. Basta e avanza il buon Totò. Anche perché da quando gli odiati e inutili decreti sicurezza non vengono più applicati, è lui il più sincero e convinto nemico di ogni umana accoglienza.
Federico Geremicca per “la Stampa” il 3 agosto 2020. Ci mancava solo la signora col cappellone di paglia e il barboncino, una tunisina «di ritorno» che sperava di farla franca travestendosi da ricca turista europea. Oppure i 26 migranti con barchino approdati serenamente tra i turisti incuriositi nella super-sorvegliata riserva dell' Isola dei Conigli. È capitato anche questo: e allora eccole, tra folklore, tragedia e propaganda, le ultime immagini in arrivo da Lampedusa, isola tornata nell' occhio del ciclone. Fotogrammi che si aggiungono a fotogrammi, una pellicola lunga anni. Un film confuso e a volte ingannevole. Facce e tragedie si mescolano e sfumano: Carola Rackete e la Finanza, i 368 morti del 2013 e Papa Francesco, poi gli sbarchi ed i turisti, le tv e i migranti, le missioni navali e le Ong, in un drammatico caleidoscopio che tutto confonde. Da che parte stanno i buoni e chi sono i cattivi? Ma soprattutto: andrà mai in secca questo fiume umano che ha trasformato Lampedusa in una sorta di negletta Ellis Island italiana? Ricominciamo da una foto, e da un impegno. «Nelle prossime 48-60 ore l' isola sarà abitata solo dai lampedusani. Ora basta con gli sbarchi», disse dal palco improvvisato e gli credettero, perché promise anche il premio Nobel per la pace, campi da golf e un casinò: erano anni ancora buoni per Berlusconi, che spesso le sparava ma talvolta poi faceva, e allora perché non poteva succedere anche a Lampedusa? Era il 30 marzo 2011, un marzo assurdamente afoso, e la "primavera araba" - con le sue illusioni e le sue contraddizioni - aveva rovesciato sull' isola migliaia di fuggiaschi e di imbroglioni che vagavano liberi e increduli per il paese, visto che il centro d' accoglienza era stato chiuso dal ministro dell' Interno del tempo (Maroni) perché tenerlo aperto poteva significare «che siamo pronti ad ospitarli». E così ad ospitarli - nei loro bar, a casa e per le vie del centro - dovettero essere i lampedusani. Come sempre, del resto. Silvio Berlusconi cadde rovinosamente quello stesso autunno, ma partire da quel mattino di fine marzo è utile a ricordare quanto quell' isola sia una implacabile cartina di tornasole delle responsabilità politiche e morali di tutti: e di quanto nessuno - da sinistra, dal centro e da destra; in Italia e soprattutto in Europa - possa alzare le mani e dire - in coscienza - «io sono innocente». Lampedusa, infatti, non riconosce più innocenti, e snocciola l' elenco infinito dei presunti colpevoli: Maroni, Alfano, Renzi, Minniti, Salvini, Prodi, Di Maio, Lamorgese... Non c' è un governo, un ministro, del quale salverebbero l' onore. Anche Salvini, sì. Perché nonostante l' affannarsi di qualche fan isolano, i lampedusani non la bevono. Da lì, uno scoglio nel canale di Sicilia, hanno giudicato subito i «porti chiusi» una politica che non poteva durare. Non è solo il fatto che a gente che vive di pesca e di mare non si possa prospettare come soluzione l' incubo di un porto negato, irraggiungibile: è che molti di quei porti chiusi (compreso il loro) poi li hanno visti riaprirsi, finito il rituale can can mediatico. E allora è la solita storia, hanno pensato. La solita toppa che è peggio del buco. Ma si è continuato a metter toppe: una da destra e una da sinistra. Diciamo Rigore contro Accoglienza: derby insulso con tutti sconfitti. Fu quel che cercò di raccontare Papa Francesco a Lampedusa, nel suo primo viaggio oltre Vaticano, giusto sette anni fa. Parlò da una tribunetta fatta con i resti delle barche dei migranti, denunciando il precipizio cui avrebbero condotto quelle che chiamò la globalizzazione dell' indifferenza e una cinica «cultura del benessere». La gente applaudiva, ma più per la gioia di averlo lì che per la speranza che le sue parole potessero cambiare anche solo una delle carte in tavola. Infatti nulla è cambiato. Anzi. Sull' isola sta andando in scena un grottesco ritorno al passato - agli anni '80 e '90 - con barchini di migranti che, in tutta autonomia, arrivano a frotte dopo aver traversato un Canale di Sicilia trasformato in un deserto assassino. Del resto, tra le coste nordafricane e quelle italiane non c' è più nulla: ritirate le missioni europee, ferme o sequestrate le navi Ong. Segnali di resa incondizionata. Oppure: meglio lavarsene le mani. E chi oggi parte dalle coste libiche o tunisine sa che l' alternativa è secca: o arriva o annega. In questi giorni di mare piatto, naturalmente arrivano. E accade, così, che le immagini degli sbarchi lampedusani tornino a fare il giro del mondo, riproponendo una tragedia che solo una tragedia temporanea ma maggiore - la pandemia - era riuscita occultare. E dunque a Parigi possono osservare il barchino coi 26 migranti che approda all' Isola dei Conigli (dove se ti avvicini, anche solo in canoa, ti multano) e a Berlino scrutare l' elegante signora tunisina col barboncino. Ci sarebbe da ridere, è vero: ma nessuno ce la fa. A Lampedusa meno che altrove. E soprattutto adesso, nel pieno di una stagione turistica che rischia di andarsene alla malora. Il nuovo-vecchio sindaco, Totò Martello (di sinistra, poi ecologista, quindi civico) non sa più a quale santo votarsi: «Ora lo stato di emergenza lo dichiaro io!». Ma viene contestato dalla sua nemica di sempre, Angela Maraventano - lampedusana doc ma leghista d' adozione - ex senatrice e famosa per uno sciopero della fame contro gli immigrati durato un solo mattino, e per questo battezzato «lo sciopero del cappuccino». Quanti eroi o anti-eroi ha sfornato l' isola durante gli anni di un' emergenza carsica, che Roma riscopre solo se utile per propaganda a poco prezzo? Giusy Nicolini, sindaco ecologista; Pietro Bartolo, il «medico dei clandestini», ora eurodeputato e oggetto di film; Dino De Rubeis, ex primo cittadino nei giorni di Berlusconi e adesso ai domiciliari per concussione; il parroco, don Carmelo, amato da Papa Francesco; l' infaticabile comandante della stazione dei carabinieri, De Tommaso... Donne e uomini invecchiati in questa guerra impossibile. E mentre altri andranno o arriveranno, aggiungendo nuovi fotogrammi, per loro il film non è finito. Avanti tutta, di toppa in toppa. Del resto è una vita che va così.
Immigrati positivi infettano i poliziotti: l'ultimo orrore nel centro di accoglienza. Sicilia, ecco altri 64 immigrati positivi al coronavirus, Conte che fa? Guarda e l'Italia si infetta. Salvatore Dama su Libero Quotidiano l'11 agosto 2020. Lampedusa è bellissima. Ma è un posto strano. Dal 2011, da quando è stato decretato lo stato di emergenza, ha ricevuto soldi a pioggia. Centinaia di milioni. Dove sono finiti? Il sindaco Totò Martello ha fatto piantare una ventina di palme sulla strada che costeggia il porto nuovo. Si sono già ammosciate. Per il resto: a Lampedusa non c'è l'ospedale. Se ti devono operare o se devi partorire, vai in Sicilia. A Lampedusa la connessione internet fa schifo. È lenta o inesistente. C'è un solo cavo che arriva da Porto Empedocle. L'ultima volta che si è lesionato, qualche anno fa, sono stati tre mesi isolati. A Lampedusa ci sono dieci strade asfaltate. Il resto è tutto sterrato. A Lampedusa non è terminata la metanizzazione. Le case si alimentano con le bombole. A Lampedusa l'aeroporto ha tre gates, quello di Ibiza ne ha 17, per dire. A Lampedusa l'hotspot è un cacatoio a cielo aperto. Mille migranti stipati laddove se ne potrebbero ospitare novanta. Se ti va bene, pigli il Covid; se ti va male, becchi la malaria.
CRONISTORIA. Eppure di soldi ne sono stati stanziati, tanti, dal 12 febbraio 2011, quando è stato decretato lo stato di emergenza a fronte della prima ondata massiva di migranti. Ecco un po' di cronistoria. Nel 2013 il governo vara una manovra correttiva. Dentro ci finisce un articolo che istituisce, al Viminale, un fondo per fronteggiare l'eccezionale afflusso di stranieri a Lampedusa. Sono 190 milioni per il 2013. All'articolo 2 si cita esplicitamente l'isola, in difficoltà nel fronteggiare l'invasione. Nella legge di stabilità 2014 l'intero comma 319 è dedicato a Lampedusa. Si parla di "rafforzare la dotazione di infrastrutture" per aumentare "l'efficienza dei servizi". In particolare, si cita "il completamento del programma di metanizzazione". Si parla di 20 milioni di euro all'anno. Dal 2014 al 2020. E, come si è detto, negli appartamenti ci sono ancora le bombole per alimentare l'acqua calda e le cucine.
TRIBUTI LOCALI. Nel decreto 16/2014 in materia di finanza locale c'è un articolo, il 13, dedicato alle isole minori. All'interno, si legge, viene sbloccato un fondo da 1,4 milioni di euro, destinato al Comune di Lampedusa e Linosa, e finalizzato alla realizzazione di interventi urgenti. Sempre nel 2014 arriva un'altra pioggia di soldi: 62,7 milioni di euro. È introdotta una disposizione di favore nei confronti dei comuni, come Lampedusa ed altri comuni siciliani, maggiormente interessati dalla pressione migratoria che esclude le spese connesse all'emergenza migratoria dal patto di stabilità interno. E veniamo ai lampedusiani. Gente ospitale, gentile, simpatica. La stragrande maggioranza di loro lavora nel turismo e soffre la situazione esplosiva che c'è sull'isola. Perché gli sbarchi sono una cattiva pubblicità. Anche se l'hotspot è posizionato in maniera tale che chi villeggia non percepisce appieno il caos che c'è lì dentro. Ma ci sono anche altri a cui questo stato di emergenza non dispiace. Perché se finisce il viavai, cala anche il sipario sui vantaggi fiscali di cui ha goduto l'isola in questi anni. L'ultimo è arrivato a gennaio 2019. Con la conversione del decreto "Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione". L'articolo 1-bis prevedeva la sospensione della riscossione nei confronti dei cittadini isolani che, alla data del 12 febbraio 2011, avevano il domicilio fiscale o la sede operativa nel comune di Lampedusa e di Linosa. Il pagamento delle tasse era già andato in stand dal 16 giugno 2011 al 15 dicembre 2017. La nuova norma prevedeva il pagamento del pregresso in unica soluzione o con un massimo di 18 rate mensili. Ma guai a dire che i lampedusiani siano dei privilegiati. Si incazzano a morte. Anche perché nel frattempo i tributi locali non solo non si sono fermati. Ma il Comune li ha anche aumentati.
Adesso i sindaci sono sul piede di guerra per l'arrivo di migranti contagiati. Aumenta il numero di migranti contagiati rintracciati in Italia, così come appare sempre meno gestibile la situazione relativa alle fughe dai centri di accoglienza: da nord a sud, molti sindaci adesso lanciano l'allarme. Mauro Indelicato, Venerdì 24/07/2020 su Il Giornale. Era aprile, l’Italia era si trovava nel pieno della fase più dura delle chiusure anti covid, e già dalla Sicilia si iniziava ad intuire che la sovrapposizione dell’emergenza sanitaria e quella migratoria avrebbe creato una miscela potenzialmente esplosiva. Nel giorno di Pasqua ad esempio, 32 sindaci dell’agrigentino avevano scritto una lettera al presidente del consiglio Giuseppe Conte per lamentare problemi importanti relativi all’accoglienza. Pochi giorni prima il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, aveva chiesto per la prima volta una nave dell’accoglienza in cui far trascorrere le quarantene a chi sbarcava. E questo perché, nonostante il coronavirus, in Sicilia si continuava ad arrivare ed a Pozzallo la scoperta del primo migrante positivo al covid ha destabilizzato il sistema dell’accoglienza. Strutture riaperte, comuni già alle prese con la grave crisi dettata dalle chiusure si sono ritrovati a ricevere decine di migranti all’interno di alcuni edifici. Oggi il problema è di livello nazionale: il grido giunto in pieno lockdown dalla Sicilia è rimasto inascoltato ed ora sono molti sindaci, da nord a sud, a chiedere al governo di intervenire. Il motivo è presto detto: garantire misure di distanziamento sociale nelle strutture di accoglienza è difficile, trovare nuove strutture quasi impossibile e nelle ultime settimane sono aumentati i casi di migranti i cui tamponi hanno dato esito positivo. Un caso emblematico è arrivato questa settimana da Potenza: qui sono stati portati 26 bengalesi sbarcati qualche giorno prima a Lampedusa che, dopo alcuni controlli, sono risultati positivi al coronavirus. Persone quindi contagiate, le quali sono riuscite ad uscire senza problemi dall’isola in cui erano sbarcati e ad attraversare il meridione fino a giungere in un centro di accoglienza del capoluogo lucano. “Non accada più – ha tuonato sull’Huffington post il sindaco Mario Guarente – sono arrivati da Lampedusa con certificati che dicevano che erano negativi, questo è un fatto gravissimo, che ha messo a repentaglio la salute degli operatori delle cooperative e della comunità e che non deve ripetersi”. Una rabbia, quella del primo cittadino di Potenza, condivisa con il suo collega di Brindisi: qui almeno 30 tunisini degli 80 giunti da Lampedusa sono scappati mentre erano in quarantena in una struttura poco lontana dal centro. Ed il sindaco Riccardo Rossi ha chiesto all’esecutivo provvedimenti urgenti: “Abbiamo chiesto al Governo – si legge in una sua recente dichiarazione – che questo sia l’ultimo arrivo perché quella struttura, che fino a qualche giorno prima che ci inviassero i migranti da tenere in quarantena era un Cara, non è adeguata né dal punto di vista logistico né del personale a gestire una situazione come questa, prettamente sanitaria”. Guarente e Rossi politicamente parlando sono in apparenza agli antipodi: leghista il primo, rappresentante di una coalizione di centro – sinistra il secondo. Eppure hanno lanciato medesimi appelli ed hanno messo in evidenza la stessa rabbia, che è poi quella dei cittadini. In tanti, dalla Sicilia alla Calabria, così come in Campania, nelle ultime settimane hanno manifestato contro l’apertura di centri di accoglienza, da dove spesso si è riusciti a fuggire, in cui sono stati aggrediti poliziotti, come ad esempio accaduto al Villa Sikania di Siculiana, e dove le condizioni non sembrerebbe garantire il distanziamento sociale richiesto invece a tutto il Paese. Fughe dalle strutture di accoglienza sono state registrate in provincia di Pesaro, così come in Umbria, situazioni critiche riscontrate anche all’interno dell’hotspot di Taranto. I migranti stanno continuando ad arrivare, il numero di coloro che vengono trovati positivi è cresciuto nelle ultime settimane e, contestualmente, la macchina dell’accoglienza non sembra reggere l’onda d’urto di due crisi contemporanee, quella sanitaria appunto e quella migratoria. E adesso? Forse, in vista dei mesi tradizionalmente più delicati sul fronte degli sbarchi, potrebbe essere troppo tardi: prefetture, enti e forze dell’ordine dovranno fronteggiare numeri che aumentano con lo stesso ritmo dell’insofferenza di sindaci e cittadini. Con la prospettiva che, viste anche le condizioni delle curve dei contagi in alcuni dei Paesi da cui si parte maggiormente verso l’Italia, a partire da Libia e Bangladesh, sempre più migranti contagiati potrebbero arrivare lungo le nostre coste.
"Ci ha portato migranti positivi" La Lamorgese rischia denuncia. In Basilicata ora si teme un focolaio dopo il trasferimento degli stranieri prima ospiti a Lampedusa, il sindaco di Potenza è pronto a denunciare il ministro Lamorgese: "Si è assunta la responsabilità di mandare in giro per l'Italia gente infetta". Federico Garau, Venerdì 24/07/2020 su Il Giornale. Continua a salire la preoccupazione in Basilicata dopo l'esito dei tamponi faringei che ha riscontrato la positività al Coronavirus di 26 migranti trasferiti dalla Sicilia a Potenza. Si tratta di un fatto molto grave, soprattutto perché, come rivela il quotidiano "Repubblica", i soggetti in esame avevano con loro un certificato di negatività al virus, rilasciato dai medici di Lampedusa e firmato in data 13 luglio. In Basilicata, una delle regioni più risparmiate dal Covid-19, si teme l'origine di un focolaio. Un vero e proprio dramma, che potrebbe mettere in discussione anche la posizione del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Mario Guarente, sindaco di Potenza e rappresentante della Lega, è sul piede di guerra ed intende denunciare la titolare del Viminale."Queste persone sono arrivate con un certificato di negatività al test sierologico che io ho avuto modo di leggere, test evidentemente inattendibili", ha dichiarato ieri, come riportato da "Repubblica". "Stiamo valutando denunce non solo nei confronti di chi lo ha materialmente effettuato, ma anche della ministra Lamorgese che si è assunta la responsabilità di mandare in giro per l'Italia gente infetta". Sono 50, infatti, i miganti spostati da Lampedusa a Potenza, e più della metà si sono rivelati essere infetti. Una gestione dell'emergenza sbarchi eseguita forse troppo in fretta, con lo scopo di svuotare velocemente l'hotspot di Lampedusa, così da placare le ire dei cittadini, sempre più provati dalla situazione. Ed ora la Basilicata deve occuparsi dei contagiati. Eppure, in occasione della sua recente visita a Lampedusa, la Lamorgese aveva assicurato "la massima attenzione del governo", aggiungendo che "i migranti sbarcati vengono sottoposti a test sierologici". Gli sbarchi, tuttavia, continuano numerosi, specialmente quelli autonomi e la situazione è al collasso. Soltanto da pochi giorni, fra l'altro, sarebbe arrivato a Lampedusa il macchinario per effettuare i tamponi faringei ai nuovi arrivati. "Da ieri finalmente possiamo fare i tamponi. Prima a fare i test sierologici all'interno dell'hotspot era il medico della ditta che ha in gestione il centro, anche se quando ci sono tanti arrivi ci diamo tutti una mano, Asp e Croce Rossa", ha spiegato a "Repubblica" Francesco Cascio, direttore dell'ambulatorio. "Test sierologici sbagliati? Può capitare che ci siano falsi positivi o falsi negativi", ha ammesso. "Io a tutti coloro che accusano dico: venite qui a vedere come lavoriamo e capirete". La tensione a Potenza, ed in Basilicata, continua però a restare altissima. I cittadini non intendono accettare l'arrivo di altri positivi, lo stesso sindaco ha promesso addirittura "barriere umane". "Nel caso in cui il ministero degli Interni volesse destinarci ulteriori arrivi di migranti extracomunitari, e laddove non si effettuassero tutti i protocolli sanitari previsti, mi vedrei costretto nei modi e nelle forme di legge a impedire ulteriori accessi o presenze in Basilicata", ha affermato il presidente della Regione Vito Bardi, come riportato da "La Gazzetta del Mezzogiorno".
Serenella Bettin per ''il Giornale'' il 3 agosto 2020. Hanno lanciato mobili, una brandina, distrutto computer perché loro la quarantena non la vogliono fare. L'ex caserma Serena di Treviso torna alla ribalta. Sono 330 gli ospiti qui dentro e di questi, 136 sono positivi al coronavirus. Sono asintomatici ma di stare in isolamento non ne vogliono sapere. Così la settimana scorsa alcuni hanno danneggiato l'infermeria lanciando una brandina, dei mobili e un computer. La tensione è nata dalla decisione di tenere all'interno della struttura tutti i migranti, non solo i positivi. Ma a fare da protagonista sabato mattina è stato un ventisettenne gambiano, che stava minacciando il personale medico all'interno. Ha preso e strattonato medico e infermiera, poi si è scagliato contro mobili, computer, stampante, e non contento ha anche afferrato due spranghe di ferro cercando di colpire gli uomini della Polizia di Stato che erano intervenuti in tenuta antisommossa. Poi ha cercato di fuggire. Ma è stato arrestato. Ieri pomeriggio la situazione era tranquilla. Due quindi i blitz e le indagini chiariranno se il gambiano abbia partecipato anche alla prima rivolta. Attorno all'ex caserma, un cordone formato da polizia carabinieri e militari, è pronto a intervenire. Già più volte questa realtà aveva causato polemiche da parte dei residenti. E se già la convivenza all'interno è difficile per le diverse culture ed etnie, ora con il coronavirus lo è diventata ancor di più. I positivi sono stati isolati e messi dentro a un padiglione. Culture diverse, positività al covid: una miscela perfetta per innescare una bomba. Per quelli negativi sono stati recuperati altri locali. Anche ai 22 operatori che lavorano nel centro è stato fatto il tampone. Al setaccio anche aziende e realtà con cui i richiedenti asilo siano venuti in contatto. A Latina invece diciotto dei 155 migranti arrivati qualche giorno fa da Lampedusa sono fuggiti da Cori, sui Lepini, dove erano ospitati per la quarantena. Hanno abbandonato la struttura e sono scappati. Dodici erano risultati positivi. La polizia ne ha rintracciati tredici, scappati nelle campagne; per gli altri sono state diffuse le foto alla Polfer di Roma Termini. Nonostante i vari disordini, e nonostante i sacrifici che il nostro Paese ha fatto per arginare l'emergenza covid gli sbarchi a Lampedusa continuano. «In poco meno di due settimane - ha detto il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello - sono arrivati sull'isola oltre 5 mila e 500 migranti in 250 sbarchi, molti dei quali di piccolissime entità. Ormai è una vera e propria emergenza». Solo la scorsa notte tre sbarchi per un totale di una quarantina di arrivi. Tutti tunisini. E sempre ieri mattina altre dodici persone. Il sindaco ha lanciato un appello al premier Conte per accelerare i trasferimenti annunciando la chiusura dell'hotspot. Al momento qui ci sono 678 persone. In poco meno di 24 ore ne sono state trasferite oltre 300. Oltre cento sono stati trasferiti a bordo del traghetto per Porto Empedocle (Agrigento). Entro stasera poi è attesa la nave quarantena inviata dal governo, nave che ospiterà a bordo i migranti. «La nave quarantena va bene ma non risolve il problema», ha detto il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna. Pozzallo nell'hotspot conta 239 migranti di cui 20 positivi al covid. «Non è una critica al ministero dell'Interno che sta facendo grandi sforzi - ha detto - ma uno stimolo al governo ad ascoltare di più i territori. Il Viminale ha svolto una funziona importante, però la questione dell'immigrazione è stata sottovalutata dal governo italiano. Il problema non si risolve con la nave».
Celio, i tre migranti infetti e violenti erano già fuggiti da un centro. I nigeriani hanno devastato un reparto del Celio e aggredito medici e militari. Erano già stati denunciati per epidemia colposa. Claudio Cartaldo, Lunedì 31/08/2020 su Il Giornale. Non era la prima volta. I tre migranti positivi al Covid, ora piantonati in un’ala del Policlinico militare del Celio dopo aver sfasciato la struttura e ferito un medico, avevano già provato a scappare un’altra volta dalla quarantena loro imposta. Quando erano ancora ospitati in un centro di accoglienza a Grottaferrata, infatti, erano fuggiti nonostante la positività al nuovo coronavirus e il rischio di diffondere il contagio. La notizia, riportata oggi dal Messaggero, può diventare una grana non di poco conto per il governo. Palazzo Chigi e il Viminale sono infatti in difficoltà per i continui sbarchi sulle coste italiane e per il rinnovato attivismo delle Ong, situazione aggravata dalla pandemia e dal fatto che molti dei contagi registrati in Italia sono importati dagli immigrati che approdano nel Belpaese. Gli stranieri vengono sottoposti al tampone e messi nei centri di accoglienza, a volte sovraffollati come quello di Lampedusa. Dovrebbero rispettare la quarantena obbligatoria ma più di una volta si sono registrate pericolose fughe di massa. Poi ci sono i migranti già presenti nel territorio italiano, anche loro a rischio contagio. Una vera e propria bomba epidemiologica e politica. Per questo la vicenda dei tre migranti positivi è emblematica e merita attenzione. I tre immigrati sono due donne, titolari di protezione internazionale, e un uomo con il permesso di soggiorno per casi speciali. Il 17 agosto, dopo aver provato a scappare dal centro di accoglienza di Grottaferrata, vengono scortati al Celio da due volanti della polizia. Sono positivi al Covid e il Viminale è al Policlinico militare che invia gli stranieri senza fissa dimora o impossibilitati a rimanere isolati nella struttura che li ospita. Prima di entrare nel centro militare, riporta il Messaggero, addosso all’uomo viene trovato un punteruolo di 20 centimetri. Poi i tre restano lì, piantonati delle forze dell’ordine. La quarantena scorre quasi normalmente fino al 28 agosto, venerdì scorso, quando i tre nigeriani tentano nuovamente la fuga. Bloccati, sfondano i mobili, mordono un medico e cercano di sequestrare un ragazzino albanese. Sono lunghi momenti di panico. C’è il pericolo che qualcuno si faccia male o che la situazione precipiti. Poi i militari e il personale del Celio riescono a sedare gli animi. Il risultato? Per ora i tre immigrati sono bloccati in un’ala della struttura, separata dagli altri ospiti. Dopo i fatti di venerdì scorso sono stati denunciati a piede libero. Non solo per la tentata fuga dalla quarantena obbligatoria (l’ultima volta avevano incassato una denuncia per epidemia colposa), ma anche per danneggiamento, resistenza e lesioni.
Messina, hotspot come un colapasta: altri 58 i migranti in fuga. In 18 sono fuggiti dall'hotspot di Messina, mentre a Pozzallo quaranta migranti hanno fatto perdere le loro tracce. Sicilia nel caos. Maurizio Zoppi, Sabato 08/08/2020 su Il Giornale. Il centro migranti di Messina sembra essere uno scolapasta. Questa notte sono fuggiti altri diciotto migranti dall'hotspot di Bisconte. Sono scattate subito le ricerche da parte delle forze dell'ordine. Carabinieri e polizia sono stati impegnati sino all'alba ma soltanto quattro di essi sono stati rintracciati. Nessun segnale al momento dei restanti nord africani che si sono volatilizzati tra le campagne messinesi. I cittadini sono preoccupati e si pongono numerose domande in merito alle continue fughe dall'hotspot messinese. "Che fine hanno fatto gli altri 14?", "C'era qualcuno positivo al covid-19?". Queste solo due delle tante domande che i siciliani si pongono in merito alla emergenza che sta attanagliando da numerosi mesi l'Isola. Una doppia emergenza per la Sicilia che stando ai dati è stata una delle regioni che ha rispettato senza problemi la quarantena imposta dal governo Conte. Ma adesso in Sicilia la paura è tanta. Il numero dei contagiati raddoppia giornalmente e il sistema migranti fa acqua da tutte le parti. A Pozzallo una quarantina di migranti hanno fatto perdere le proprie tracce. Erano ospiti all'interno del centro migranti in cui sono presenti 29 positivi al covid-19. Il primo cittadino della città Roberto Ammatuna ha cercato di placare gli animi dei residenti affermando che la fuga è avvenuta dal padiglione centrale dell'hotspot in cui nono sono presenti gli infetti al coronavirus. Alcuni dei migranti sono rientrati spontaneamente, altri sono ricercati dalle forze dell'ordine che stanno setacciando tutta la zona. "Purtroppo si conferma la fondatezza della mia denuncia e della mia presa di posizione", afferma a IlGiornale.ti il sindaco di Messina Cateno De Luca. "L'hotspot è stato chiuso e non abbiamo nemmeno consentito che altri migranti venissero trasferiti lì. La mia linea di pensiero con il Prefetto Maria Carmela Librizzi è stata molto chiara. Aspetto solo che finisca il periodo di quarantena dei migranti che sono al Cas, ossia alla caserma Gasparro, dopodichè deve sparire tutto. Le continue fughe dei migranti dimostrano che quella struttura non è affatto idonea, non lo è mai stata e non lo sarà mai per poter svolgere una tipologia di servizi. Io non consentirò più a nessuno lo svolgimento di attività per migranti in una struttura, che ribadisco, è anche abusiva". L’hotspot di Bisconte è stato oggetto in questi ultimi mesi di numerose fughe. La chiusura definitiva dell’ex caserma sarebbe una vittoria decisiva per il sindaco De Luca, che, dopo aver appreso la notizia degli ultimi gruppi di migranti che sono scappati da centro ha lanciato nei giorni scorsi un forte appello alle istituzioni. Per l'assessore alla Salute della Regione Siciliana Ruggero Razza: "Il modello imposto sta implodendo. E nessuno pensi ancora alla tendopoli. Non si può fare. Punto”. Nel frattempo continuano ad aumentare i migranti positivi al covid in Sicilia, i quali nella maggior parte dei casi vengono trasferiti in un hotel-quarantena a Palermo. Proprio questa mattina otto ospiti del Cara di Pian del Lago di Caltanissetta sono stati trasportati nella struttura del capoluogo siciliano. Più di settemila migranti sbarcati in Sicilia nel mese di luglio. II risultato? Tanti i positivi al coronavirus. I dati dimostrano che gli infetti in Sicilia, segnalati nella giornata di ieri, la maggior parte sono immigrati. La tensione è alta come già scritto in Sicilia e lo dimostra anche il corteo che si è svolto nei giorni scorsi a Porto Empedocle. Una delle città più coinvolte dai continui sbarchi. Hanno sfilato un centinaio di cittadini, soprattutto giovani, i quali hanno chiesto la chiusura immediata della tendopoli che ospita i migranti e dove si sono già verificate fughe incontrollate.
Un centinaio di migranti in fuga dal Cara di Caltanissetta, decine di agenti impegnati nelle ricerche. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da Romina Marceca su La Repubblica.it Sono tutti tunisini e nessuno di questi è positivo al Covid-19. Le forze dell'ordine stanno rintracciando gli stranieri per le vie della città. La prefetta Di Stani: "Nessuna tensione nei giorni scorsi". Salvini attacca il governo. Un centinaio di migranti, tutti tunisini e ospiti del Cara di Pian del Lago, a Caltanissetta, sono fuggiti dal centro. I carabinieri ne avrebbero intercettati tre ma tutte le forze dell'ordine sono state allertate per la ricerca dei fuggiaschi. I migranti fuggiti dal Cara fanno parte del gruppo di profughi trasferiti nel centro nisseno per il periodo di quarantena obbligatoria. Secondo una prima ricostruzione gli ospiti del Cara hanno sfondato in diversi punti la recinzione. Alcuni sono stati visti e bloccati in via Rocester a piedi scalzi, nella strada che porta al centro della città. Altri sono stati intercettati nella zona vicino al Cara. Decine di militari dell'Arma e agenti della polizia sono impegnati nelle ricerche dei profughi. In tutto nel centro c'erano 350 persone. Nessuno dei tunisini fuggiti dal centro è positivo al Covid-19, fa sapere il sindaco di Caltanissetta Roberto Gambino. I test seriologici eseguiti nei giorni scorsi sono risultati negativi. "Chiederò al governo di non inviare più immigrati a Pian Del Lago", aggiunge il sindaco di Caltanissetta Roberto Gambino. "Sono tutti negativi ai tamponi, ma non è questo il punto - dice Gambino- chiedo la massima sicurezza della struttura. Perché in questo modo non si possono contenere. Ho appurato che 10 di loro sono stati individuati e riportati al centro e di questo ringrazio il questore. Ma così non si può continuare. Stando a quanto è accaduto oggi evidentemente non ci sono le condizioni di sicurezza adeguate. Se c'è un'ordinanza del presidente della Regione che obbliga chi arriva qui alla quarantena, voglio la sicurezza che rimangano in isolamento. Non è un problema che posso risolvere io. Intervenga il governo". A seguire la vicenda da vicino è il questore di Caltanissetta, Giovanni Signer, e anche la prefetta di Caltanissetta Cosima Di Stani: "Non c'era stata alcuna tensione nei giorni scorsi e tutti avevano manifestato la volontà di chiedere lo status di rifugiato. Non comprendiamo questa fuga". Riparte anche la polemica politica e il leader della Lega attacca il governo: "Cento immigrati in fuga da una struttura di accoglienza a Caltanissetta: sbarchi senza sosta, raffica di clandestini col Covid-19, allontanamenti di finti profughi. Il governo minaccia lo stato di emergenza per tappare in casa gli italiani ma spalanca i porti e non controlla i clandestini. Quasi tutti i giornali e i telegiornali nascondono la verità ai cittadini: Conte-Lamorgese-Pd-5Stelle mettono in pericolo l'Italia".
Tunisini in fuga dal Centro Pre Covid di Brindisi. Il Corriere del Giorno il 24 Luglio 2020. Marti (Lega): “Ora basta, Governo ed Emiliano mettono a rischio sicurezza e salute dei pugliesi”. “Il trio Conte – Lamorgese – Emiliano sta mettendo in pericolo la Puglia. La notizia della fuga nella notte di 20 tunisini dal Cara di Restinco (Brindisi), trasformato d’imperio dal Governo PD-cinquestelle in Centro Pre Covid, è un fatto preoccupante per una Regione che ha pagato un prezzo alto al Coronavirus. Assurdo e vergognoso” dichiara Roberto Marti senatore pugliese della Lega . “Come Lega abbiamo stigmatizzato da subito questa decisione, avvenuta tra le comprensibili proteste del territorio e il silenzio di Michele Emiliano, che quando si tratta di difendere i pugliesi dalle scelte scellerate e pericolose di questo governo fa orecchie da mercante, impegnato com’è a corteggiare Conte e i 5stelle per salvarsi la poltrona” aggiunge Marti. “Quanto sta accadendo, dalla Sicilia, alla Basilicata, alla Puglia è uno schiaffo in pieno volto agli italiani, che in questo lockdown hanno dato grande prova di sacrificio e rispetto delle regole, compostezza di fronte al dolore e forza d’animo nel resistere alla difficile congiuntura economica. Permettere che tutto ciò sia vanificato da una politica dell’accoglienza dissennata dei governi di centrosinistra e cinquestelle è inaccettabile! La Lega è al fianco dei territori e dei suoi concittadini. La loro sicurezza, tanto più in questo momento storico, è bene prioritario. Chiediamo che sia subito fatta chiarezza sulle responsabilità degli avvenimenti di questa notte e pretendiamo provvedimenti immediati di Emiliano, Conte e Lamorgese nei confronti di quella struttura, o saranno barricate” conclude il Sen. Marti.
Restinco, 20 migranti tunisini scappano dal Cara dove erano in quarantena. Tra loro non c'è l'uomo risultato positivo al Coronavirus e isolato. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2020. Venti migranti tunisini sono fuggiti alle prime ore dell'alba dal Cara di Restinco (Br), dove stavano trascorrendo la quarantena dopo essere approdati sulle coste italiane. Tra i fuggitivi, tuttavia, non c'è l'uomo risultato positivo al Coronavirus e isolato rispetto al gruppo. Inizialmente in 30 hanno provato a scappare, ma alcuni sono stati rintracciati nel giro di pochi minuti. Qualcuno provando a saltare dal muro di cinta ha riportato fratture.
Giovanni Camirri e Michele Milletti per ''Il Messaggero'' il 20 luglio 2020. Come in Fuga per la vittoria, ma questo non è un film. Una partita di pallone di sabato pomeriggio, apparentemente per divertirsi ma in realtà per scappare: così hanno fatto perdere le proprie tracce 23 dei 25 migranti tunisini accolti in un ex agriturismo gestito da una cooperativa sociale nella zona di Gualdo Cattaneo, comune di seimila abitanti a quindici chilometri da Foligno. L'allarme è scattato nella serata di sabato. Più o meno alla stessa ora in cui, a Taranto, altri 31 migranti arrivati da Lampedusa sono fuggiti da un Hotspot che si trova nella zona portuale: secondo quanto si apprende, undici sarebbero stati rintracciati. I migranti giunti a Gualdo Cattaneo, tutti uomini e richiedenti asilo, erano arrivati giovedì scorso da Agrigento, e sistemati dalla prefettura di Perugia nella struttura ricettiva per le due settimane di quarantena. Nessuno di loro è risultato positivo al covid. È subito stata organizzata una task force per le ricerche: una pattuglia della squadra volante di Foligno, ieri mattina, ne ha rintracciati due a Bevagna. Assieme agli altri due che non sono scappati, saranno immediatamente ricollocati in altre strutture. Al momento, rischiano una sanzione per aver violato la quarantena. La ricerca degli altri 21 connazionali è andata avanti per tutta la giornata di ieri e continuerà nelle prossime ore. Il sindaco di Gualdo Cattaneo, Enrico Valentini, ha detto al Messaggero: «Le autorità mi hanno comunicato che dei 25 immigrati arrivati giovedì pomeriggio a Gualdo Cattaneo, 23 risultano irreperibili dal tardo pomeriggio di sabato. Sono in corso le indagini e le ricerche da parte delle autorità con le quali sono in costante contatto. Siamo stati informati del loro arrivo dal Ministero dell'Interno con una mail. La gestione delle migrazioni va condivisa con le comunità locali soprattutto quando ad essere interessate sono realtà piccole, e con strutture altrettanto piccole, come Gualdo Cattaneo. Ora il mio compito è quello di rassicurare i cittadini e di garantire la calma sociale». Dell'allontanamento dei 23 migrati aveva dato notizia l'onorevole e segretario regionale della Lega Virginio Caparvi attraverso un post su facebook. Caparvi sostiene anche che il centro di accoglienza verrà chiuso. La prefettura di Perugia ha reso noto come, oltre al fatto che i controlli ad Agrigento avevano segnalato negatività al covid, «nella struttura di Gualdo Cattaneo gli stranieri erano stati monitorati, non presentando sintomi di malattia. Peraltro, uno di loro, recatosi al pronto soccorso a Foligno per una puntura d'insetto, è stato sottoposto nuovamente ad un test che ha avuto ancora esito negativo». La vicenda è destinata a finire sul tavolo del ministro dell'Inter Luciana Lamorgese. È quanto intende fare la senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena con una interrogazione urgente. «Ci dovrà dire dove sono finiti i 23 migranti scomparsi». «Quanto accaduto è l'ennesima riprova della assoluta incapacità di gestire i flussi migratori da parte di questo Governo» hanno commentato i senatori della Lega Luca Briziarelli e Stefano Candiani. «Caro Speranza, sarebbe utile anche non far entrare liberamente in Italia migliaia di clandestini, e poi consentire loro di violare pure la quarantena, come accaduto a Gualdo Cattaneo» ha scritto su facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, rispondendo al ministro della Salute Roberto Speranza, che ha parlato di contagi Covid e dei «comportamenti corretti» da seguire.
Giuseppe De Lorenzo per ilgiornale.it il 20 luglio 2020. Ventuno di loro sono ancora “irreperibili”. Gli altri quattro saranno presto trasferiti altrove. Il day after di Gualdo Cattaneo, piccolo centro da 5mila anime nella verde Umbria, è ancora caratterizzato dall’incertezza. I migranti fuggiti sabato dal centro di accoglienza dove avrebbero dovuto passare la quarantena anti-Covid non sono ancora stati ritrovati. In paese si vocifera su errori, testimonianze, possibilità. Un cittadino sostiene di aver visto alcuni tunisini salire su un furgoncino per poi sparire chissà dove. E così prende piedi l’ipotesi che "sia stata una fuga organizzata e non estemporanea". Tutto inizia mercoledì sera quando le autorità competenti inviano una mail al sindaco di Gualdo Cattaneo per informarlo che il giorno dopo avrebbero inviato al centro “Il Rotolone” 25 immigrati provenienti dalla prefettura di Agrigento. Sbarcati poche ore prima. Il sindaco legge il messaggio solo giovedì, dopo i canonici passaggi al protocolli, e scopre così che da lì a cinque ore si troverà in paese, unica zona rossa di tutta l’Umbria nel periodo più nero della pandemia, un gruppo di persone potenzialmente infette. La prefettura di Perugia assicura che ai test sierologici sono risultati tutti negativi, ma si sa che solo il tampone può dare certezze. "Il test del sangue non è attendibile - dice al Giornale.it il sindaco Enrico Valentini - non è riconosciuto neppure dall’Iss né dall’Oms". Sul momento il primo cittadino si infastidisce per la mancata condivisione delle informazioni ("sono io l’autorità sanitaria locale"), scrive subito a prefetto e ministero dell’Interno, ma non riceve risposte. "Si sono presentate 15 persone sotto il Comune a chiedere spiegazioni ed è stato avvilente non sapere cosa rispondere loro". La situazione precipita quando sabato sera i responsabili dell’Arci solidarietà “Ora d’aria” si ritrovano a cena solo due ospiti su 25. Gli altri 23 sono scomparsi, nonostante l’obbligo della quarantena. Immediate scattano le indagini e le ricerche: due vengono trovati, degli altri 21 nessuna notizia. Secondo il Messaggero i tunisini avrebbero organizzato una partita di pallone per poi darsela a gambe, ma Alessandro Becchetti - che conosce bene la zona - assicura che nelle vicinanze non ci sono campi da calcio. Inoltre un cittadino, come spiega il sindaco, sostiene di aver visto un gruppo di persone camminare lungo la strada e improvvisamente salire su un furgoncino. Qualcuno li ha aiutati? Li conoscevano? L’informazione è arrivata a chi indaga. E potrebbe spiegare il motivo per cui dopo giorni di ricerche ne siano stati trovati solo due. Gualdo Cattaneo è arroccata tra le campagne: se fossero fuggiti a piedi, forse sarebbero ancora in zona. “A quest’ora potrebbero già essere fuori regione”, dice il deputato leghista Virginio Caparvi. “Se mi trasferissero in una campagna tedesca, non avrei nessuno disponibile a venirmi a prendere. Forse queste persone avevano contatti già in Umbria, il che fa pensare a una organizzazione più ampia e non ad una fuga estemporanea”. C’è una questione, infatti, su cui il sindaco Valentini vorrebbe fare un "ragionamento approfondito". E cioè la scelta di inviare in Umbria proprio 25 tunisini. Non è questione razziale, ma di opportunità. "La Tunisia ha una buona colonia qui in Umbria e molti di loro non vivono in maniera non regolare. Sono canali non proprio legali...". Droga? “Anche”. In effetti un anno fa la relazione della Direzione investigativa antimafia su Perugia riferiva che, nella piramide della criminalità, i tunisini si sono ormai ritagliati lo spazio dello “spaccio al dettaglio”. E non bisogna andare neppure troppo indietro, era il 2014, per ricordare l’operazione Show Must Go On con cui la squadra mobile del capoluogo umbro arrestò il braccio destro del boss della mafia tunisina intenta a gestire il traffico di droga in città. Sulla fuga restano ovviamente da chiarire numerosi aspetti. Innanzitutto bisognerà rispondere a una domanda: a chi toccava vigilare sul rispetto della quarantena? “Non è stato posto in essere alcun controllo - dice Emanuele Prisco, deputato FdI - Il ministero non può buttare dei migranti lì in mezzo ai monti. Andava strutturata meglio: per i 14 giorni di quarantena bisognava assicurare che non uscissero”. Quel che è certo è che ora i quattro migranti rimasti verranno spostati altrove. E la struttura verrà chiusa “a tempo indeterminato”. Nella speranza di ritrovare i fuggitivi. E di sottoporli a tampone.
OLTRE 20 MIGRANTI FUGGONO DALL'HOTSPOT DI TARANTO. (ANSA il 20 luglio 2020) - Oltre 20 migranti giunti nei giorni scorsi da Lampedusa sono fuggiti ieri sera dall'Hotspot di Taranto, dove erano in attesa di essere inviati in altri centri dopo l'identificazione. Lo confermano fonti della Questura di Taranto. Altri ospiti sono stati invece bloccati dalla Polizia nonostante il tentativo di allontanarsi dalla struttura, che si trova nella zona portuale. Le ricerche dei migranti fuggiti finora hanno dato esito negativo. Nei giorni scorsi sono stati trasferiti a Taranto da Lampedusa un centinaio di migranti. Nel corso delle operazioni di identificazione, gli agenti dell'Ufficio Immigrazione della Squadra Mobile e della Digos della Questura ionica avevano arrestato un tunisino di 31 anni, rientrato in Italia nonostante fosse destinatario di provvedimento di respingimento emesso dal Questore di Palermo nel settembre 2019. Recentemente l'associazione Pannella aveva denunciato un presunto utilizzo improprio dell'Hotspot "per funzioni in violazione alla legge che ne regolamenta l'istituzione. Queste strutture - aveva evidenziato l'associazione - sono destinate solo all'identificazione dei migranti, e non alla loro ospitalità, mancando i requisiti minimi per l'accoglienza. E invece ancora in questi giorni vengono trasferite a Taranto persone già identificate a Lampedusa".
(ANSA il 20 luglio 2020) - "Da settimane denunciamo l'insostenibilità di un'accoglienza ideologica, aggravata dal fatto che molti di quanti arrivano sono affetti da Covid. Nonostante il grande lavoro delle Forze dell'Ordine e degli operatori, la situazione sta sfuggendo di mano per colpa di un governo ostinato sulle porte aperte". Lo afferma la deputata di Fratelli d'Italia Ylenja Lucaselli in merito alla notizia della fuga dall'hotspot di Taranto, avvenuta ieri sera, di oltre una ventina di migranti giunti nei giorni scorsi da Lampedusa. "Peraltro, alcune iniziative politiche - aggiunge - messe in campo dalla maggioranza rischiano di essere un palese incentivo agli arrivi. Lo dimostra la volontà di modificare i decreti sicurezza, smontando i pochi elementi di deterrenza al traffico di esseri umani". "Agli italiani, per contenere il contagio, è stato imposto - conclude Lucaselli - un lockdown con gravi ripercussioni economiche. Ora, quello stesso contagio rischia di essere diffuso da arrivi di irregolari e dalle loro fughe dagli hotspot. Una gravissima colpa in capo ad un governo di irresponsabili".
Migranti, i pm processano la nave che ha riportato i clandestini in Libia. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. L'avvocato Danilo Risi, esponente dell'associazione nazionale Giuristi Democratici, si dice «molto soddisfatto del lavoro complicato svolto dalla procura». La procura di Napoli ha appena concluso le indagini sul comandante della nave Asso 28 e un rappresentante dell'armatore, la Augusta Offshore. È stato Risi, insieme alla collega Elena Coccia, a presentare l'esposto che ha dato il là all'inchiesta. L'esposto è stato firmato dai Giuristi ma anche dal sindaco partenopeo Luigi de Magistris e da una trentina di personalità del mondo della cultura e dello spettacolo tra cui Moni Ovadia. L'indagine fa riferimento ai fatti del 30 luglio 2018, quando, secondo l'accusa, 101 migranti soccorsi in acque internazionali sono stati caricati a bordo e ricondotti illegalmente a Tripoli. Le autorità italiane non sarebbero state coinvolte. È la prima volta che una nave privata italiana finisce a processo per una vicenda simile. Asso 28 ha soccorso i migranti (tra cui pare anche 5 donne e altrettanti minorenni) a ridosso della piattaforma petrolifera della Mellitah Oil&Gas, joint venture tra Eni e la compagnia statale libica. Da quel momento, sostiene la procura, a bordo di un rimorchiatore battente il tricolore i naufraghi erano da considerarsi sotto la giurisdizione italiana, ma l'intervento non sarebbe stato comunicato a Roma. Il comandante e il rappresentante a terra dell'armatore sono accusati di aver violato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell'uomo e il Testo unico sull'immigrazione in vigore in Italia. Tra i capi di imputazione: abuso d'ufficio in concorso, sbarco in un porto non autorizzato e abbandono di minore. Oltre alle indagini condotte dalla capitaneria di Porto di Napoli, i magistrati hanno a disposizione i documenti audio delle conversazioni registrate dalla nave della Ong Open Arms e intercorse con Asso 28. Il contenuto è stato pubblicato dal sito di Avvenire. A bordo di Open Arms, in quel momento, c'era anche Nicola Fratoianni, deputato di Leu, ascoltato nei mesi scorsi come persona informata dei fatti. Era il periodo in cui i parlamentari della sinistra scattavano selfie sulle navi delle Ong e si collegavano coi talk-show militanti. Di questi tempi però, per scansare (comprensibilmente) il virus che prolifera sui barconi diretti verso le coste della Sicilia e della Calabria, nessuno dei "compagni" vi sale più a bordo. Veniamo agli audio diffusi dal quotidiano dei vescovi. Open Arms chiede ad Asso 28 se abbia incontrato gommoni in difficoltà lungo la rotta. La risposta è affermativa: «Sì, per l'esattezza abbiamo 101 persone a bordo. Abbiamo ricevuto l'ordine di riportarli a Tripoli». «Ok, d'accordo, potete dirci il colore del gommone che avete soccorso?». «Bianco». «Colore bianco, d'accordo, d'accordo. Avete visto altri gommoni in zona?». «Negativo». «D'accordo, grazie mille Asso 28». La conversazione termina qui. Non sappiamo se ve ne siano state altre. A questo punto, dalla barca della Ong, si sente distintamente una voce che si rivolge a una persona vicina: «Sai che cos' è questo?». Risposta: «Respingimento collettivo». Parla di nuovo il primo uomo: «Digli di cercare Asso 28 perché sicuramente ha bandiera italiana». Questa la ricostruzione di Riccardo Gatti, capomissione di Open Arms: «Alla nostra richiesta di fornirci i dettagli delle posizioni ci diedero indicazioni poco chiare. Questo per farci allontanare, ma poi abbiamo capito che era successo qualcosa di strano». È stato Gatti a contattare il ponte di comando del rimorchiatore italiano, le cui risposte però, stando all'accusa, non coinciderebbero con le rilevazioni successive. Sull'episodio era intervenuta subito anche Eni smentendo seccamente di essere stata coinvolta. Le precisazioni fornite, però, per gli investigatori sono contraddittorie. La procura non crede che Asso 28 abbia ricevuto disposizioni dalle autorità libiche per dirigersi a Tripoli. La guardia costiera libica, questa la difesa della nave italiana, presidia ogni piattaforma che opera nelle sue acque territoriali, e ha gestito l'operazione di soccorso in totale autonomia. «Ora attendiamo il rinvio a giudizio», ha commentato l'avvocato Risi di Giuristi Democratici, «perché si arrivi a stabilire un principio che deve riguardare tutti i comandanti delle navi in ogni parte del mondo si trovino, affinché a bordo qualsiasi cittadino sia trattato secondo i principi del diritto italiano». La giustizia farà il proprio corso. E chissà se terrà conto che i due indagati hanno salvato la vita a 101 persone che stavano raggiungendo illegalmente il nostro Paese.
Da avvenire.it il 22 giugno 2020. Esito negativo del tampone Covid e via alle operazioni di disimbarco per le 211 persone soccorse dalla nave Sea Watch 3 attraccata a Porto Empedocle. Dopo una notte di viaggio verso Porto Empedocle nel mare agitato, #SeaWatch è finalmente in porto. Sono ora in corso le procedure sanitarie per il trasbordo di 211 persone sulla nave Moby Zazá, dove effettueranno la quarantena. L'operazione avverrà via terra. Già nella giornata di sabato erano salite a bordo della Sea Watch 3 le autorità sanitarie e le forze dell'ordine e soltanto domenica è arrivato l'atteso esito, negativo, di un tampone per "un caso sintomatico che era stato individuato al momento dell'imbarco", come aveva spiegato Giorgia Linardi, portavoce in Italia della Ong "Sea Watch" riguardo ai ritardi del trasferimento sulla nave "Moby Zazà" dei 211 migranti giunti in mattinata a Porto Empedocle a bordo di "Sea Watch 3". Linardi aveva aggiunto che "l'uomo era stato isolato, come prevedono le norme di prevenzione della diffusione del contagio, e segnalato dal nostro personale medico alle autorità, nei rapporti giornalieri forniti da bordo". Nel frattempo altre 67 persone soccorse dalla nave Mare Jonio di Mediterranea sono potute approdare direttamente a terra, a Pozzallo sabato. Mentre ha ripreso il mare anche la nave umanitaria Ocean Viking dopo tre mesi di stop a causa dell'emergenza coronavirus. L'imbarcazione della Ong Sos Mediterranee si sta dirigendo verso le acque della Libia, secondo quanto constatato da un giornalista della France Presse a bordo. Sulla nave, che è salpata stamani dal porto di Marsiglia, è in atto uno stretto protocollo sanitario per evitare la diffusione del Covid-19 a bordo. L'arrivo nelle acque libiche è previsto per giovedì. Invece, restano sotto fermo amministrativo a Palermo dal 5 maggio scorso Alan Kurdi, della tedesca Sea-Eye, che aveva continuato il soccorso in mare durante il periodo del contenimento da Covid e la Aita Mari, la nave della ong spagnola Proyecto Maydayterraneo. Gli equipaggi di entrambi le navi erano stati sottoposti a quarantena dopo il rientro dalle operazioni di soccorso.
Patrizia Floder Reitter per ''La Verità'' il 22 giugno 2020. «Sotto un cielo grigio, in acque Sar, il nostro equipaggio si prepara a intervenire in caso di necessità», annunciava su Twitter Sea watch 3, partita lo scorso 6 giugno da Messina con un lenzuolo bianco appeso alla fiancata che chiedeva «giustizia per George Floyd». Ha ripreso a pattugliare il Mediterraneo anche il velivolo Moonbird, utilizzato per avvistare i barconi che continua a segnalare: «Finalmente torniamo a essere presenti sia in mare che nel cielo», esultavano i volontari della Ong tedesca fondata nel 2015. Sea watch 3, dissequestrata lo scorso dicembre dal Tribunale di Palermo dopo le note vicende legate alla capitana Carola Rackete che aveva speronato una motovedetta delle Guardia di finanza, durante l'emergenza Covid-19 era rimasta ferma al pari delle altre imbarcazioni che trasportano stranieri irregolari. Sui social è tornata a chiedere donazioni per le sue missioni, a breve sarà operativa anche Sea watch 4 che partirà dalla Spagna, dal cantiere navale di Burriana, Comune Valenciano dove da marzo la stanno sistemando come nave da soccorso: «La migliore del Mediterraneo», assicurava la Ong in un tweet lo scorso 30 aprile. Oliver Kulikowski, portavoce di Sea watch, ha spiegato che prevedono di essere pronti a metà luglio. L'ex Poseidon, impiegato per ricerche in mare e oggi Sea watch 4, è costato 1,5 milioni di euro ed è stato finanziato da United4rescue, alleanza tedesca di organizzazioni sostenuta economicamente dalla Chiesa evangelica di Germania, che è riuscita a raccogliere fondi anche attraverso la piattaforma online change.org. All'alleanza aveva aderito pure il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che lo scorso 4 ottobre ha conferito la cittadinanza onoraria al vescovo luterano Heinrich Bedford-Strohm, presidente del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca.
A chi credere? Per qualcuno è Madou, per altri è Juniò.
Salvo Toscano per "corriere.it" il 7 luglio 2020. Ha attraversato il Mediterraneo da solo. A sei anni. E da solo, senza un parente, ha fatto la sua quarantena, gentilissimo ed educato, racconta chi lo ha seguito in quei giorni. E ieri, in una calda giornata d’estate siciliana, i suoi angeli custodi hanno rintracciato la sua mamma, che si trova al Cara di Crotone. Presto Madou, questo il nome del piccolo africano, potrà riabbracciarla. Grandissima l’emozione tra le poliziotte e i volontari delle Croce Rossa a Porto Empodocle, che per due settimane si sono occupati del piccolo, durante la quarantena sulla nave Moby Zaza.
Sbarcati 169 migranti. Madou ha viaggiato da solo, senza i genitori, senza un parente. Presto potrà riabbracciare la sua mamma. Dopo i numerosi controlli e gli accertamenti fatti dalla Questura in questi giorni con l’aiuto della Croce Rossa, è arrivata la conferma: Madou è il figlio della donna che si trova a Crotone. La certezza è arrivata alle due di pomeriggio di ieri nella tensostruttura allestita nella cittadina alle porte di Agrigento, la Porto Empedocle che nei romanzi di Andrea Camilleri, che vi era nato, divenne Vigata. Angelo Vita, volontario della Croce rossa italiana di Agrigento, ha partecipato alla identificazione dei 169 migranti sbarcati dalla Moby Zaza. Racconta all’agenzia Adnkronos di Madou con gli occhi lucidi per l’emozione. Anche lui alla notizia del ritrovamento della mamma del bambino in un pianto di gioia. «Il piccolo è stato per due settimane sulla nave senza i genitori, ma è stato accudito con affetto dai poliziotti e dalla Croce rossa. Un bimbo molto affettuoso e educato. Educatissimo. Questa storia mi ha molto colpito e mi resterà nel cuore per sempre».
Il coraggio di Juniò, a 6 anni attraversa il Mediterraneo per abbracciare la madre. Redazione su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Un abbraccio, tante lacrime e il mar Mediterraneo fanno da cornice ad una storia commovente. Juniò Diara, 6 anni, è partito da solo dalla Libia per poter riabbracciare sua madre e la sorella gemella dopo cinque mesi di separazione. Nonostante le avversità della pandemia da coronavirus e un viaggio che avrebbe potuto costargli la vita, la voglia di rivedere la sua famiglia è stata più forte di tutto. Il piccolo Juniò ha attraversato in solitudine il mar Mediterraneo, nascosto a bordo di un peschereccio soccorso dalla Ocean Viking della Ong Sos Mediterranee. Una volta arrivato in Italia ha trascorsa la quarantena sulla Moby Zazà ormeggiata ad Agrigento dove 28 migranti, salvati dalla Sea Watch, erano risultati positivi al Covid-19. Gli operatori della Croce Rossa sulla nave quarantena lo hanno accudito per due settimane, fino a quando non è riuscita a sbarcare a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Grazie a loro e all’aiuto della Croce Rossa di Crotone la mamma del piccolo viene rintracciata nel Cara di Isola Capo Rizzuto, riuscendo a portare a termine il loro congiungimento presso il centro di Sant’Anna alle porte della città calabrese. Una storia a lieto fine che in poco tempo è diventata virale e ha portato alla ribalta il tema dei migranti e dei lager in Libia. La scena dell’incontro tra Juniò e la mamma è stata immortalata in un video pubblicato sulle pagine social della Croce Rossa Italiana.
LA STORIA – Quella di Juniò è soltanto una delle tante drammatiche storie di immigrazione. Originario della Costa d’Avorio, il piccolo era partito alla volta dell’Europa con la sua famiglia nella speranza di un futuro migliore. Una volta arrivati in Libia, il padre muore lasciando di fatto Juniò da solo con la madre Aisha Binate, 22 anni, e la gemellina Rama. Dopo essere sopravvissuti ai campi di prigionia libici, la mamma e i gemellini erano riusciti guadagnarsi la libertà, andando a vivere con un’amica ivoriana in un alloggio di fortuna. Ma le condizioni in Libia non erano più tollerabili, così Aisha decide di partire con la figlia lasciando il piccolo Juniò nelle cure della sua amica. Dopo la perdita del marito, la donna non voleva che tutta la sua famiglia morisse in mare così ha deciso di non portare con sé il figlio maschio Juniò affinché almeno uno di loro sopravvivesse. Non potendo partire tutti insieme Aisha ha scelto così di partire insieme alla figlia che, in quanto bambina, avrebbe potuto incorrere in rischi maggiori.
La ragazza voleva solo mantenere la promessa fatta al marito, ovvero che sarebbero riusciti ad andare in Europa lontano dalla fame e dalle armi che, anche in Costa d’Avorio, li avevano costretti a cercare riparo altrove. Inizia così il viaggio di Aisha e Rama, che dopo aver attraversato il mare in un canotto vengono salvate dalla Ocean Viking e protette nel Cara di Crotone, il centro per richiedenti asilo. Ed è proprio qui che mamma e figlia ricevono la notizia più bella: l’arrivo di Junior, così come lo chiamano in famiglia. Il bambino aveva come unico desiderio quello di riabbracciare la sua famiglia. Riesce così ad imbarcarsi di nascosto su un peschereccio per tutta la traversata, sfuggendo al controllo degli scafisti. L’imbarcazione viene assistita dall’equipaggio della Ocean Viking, la nave della Ong SOS Mediterranee, che intercetta il barcone in acque internazionali. Ma è durante il periodo di quarantena sulla Moby Zaza che la Ong viene a conoscenza della sua storia e scatta l’impegno per rintracciare sua mamma. Il centro diventa così un punto di partenza per la realizzazione di un desiderio di una vita migliore racchiuso in un commovente ritrovamento.
Un anno in viaggio per arrivare in Italia, il racconto di un migrante salvato da una Ong. Gabriel su Il Riformista il 20 Giugno 2020. Mi chiamo Gabriel, ho 22 anni. Fino a 18 anni ho vissuto in Guinea Bissau. Studiavo, avevo degli amici e la mia famiglia, pur tra mille difficoltà, mi sosteneva come poteva. Sarei voluto rimanere nel mio Paese ma non avevo scelta, potevo solo scappare. Con degli amici ci eravamo organizzati per partecipare a una manifestazione contro il governo che voleva aumentare i prezzi dei generi alimentari. Quel giorno la piazza in cui si protestava era piena di ragazzi come me. Volevamo giustizia, sognavamo un paese libero e democratico. Durante le proteste pacifiche sono arrivati dei militari, qualcuno di noi è stato arrestato, qualcun altro picchiato. Sono riuscito a scappare e a nascondermi a casa di un amico. La sera, quando tutto sembrava tranquillo, sono tornato dai miei. Mia madre mi aveva preparato un piccolo zaino, con un cambio di vestiti, qualcosa da mangiare e dell’acqua. Mio padre mi ha dato dei soldi, credo tutti quelli che era riuscito a mettere insieme. Mi ha dato anche un foglietto con un nome e un numero di telefono da chiamare, mentre mi abbracciava. Era l’ultima volta che li vedevo. Il pomeriggio dopo la manifestazione erano andati certi uomini a casa a fare domande su di me e a minacciare neanche troppo velatamente i miei genitori. Non potevo rimanere, era pericoloso per la mia vita. Da quel giorno mi sono messo in cammino, il mio viaggio è durato più di un anno. Ho attraversato tanti confini. Senegal, Mali, Niger: ogni Paese con un trafficante diverso. Poche parole, soldi consegnati prima di partire e via su camionette distrutte, su macchine strapiene di persone, cibo e acqua centellinati, al limite della sopravvivenza. E poi il deserto, dove ho visto morire dei compagni. L’acqua era poca e la bevevano solo i trafficanti senza distribuire le scorte. Non so quanto sia durato il viaggio nel deserto, di quei giorni ho ricordi confusi, gli ultimi tempi perdevo spesso conoscenza, ero convinto che il mio viaggio ormai fosse finito lì. Mi ricordo solo che pensavo spesso a mio padre e che quei soldi che mi aveva dato erano stati sprecati, poteva destinarli agli studi di uno dei miei fratelli. Arrivai in Libia e ripresi conoscenza in una stanza vuota, lì con me c’erano altri ragazzi. Ero convinto che, sopravvissuto al deserto, il peggio fosse passato. Ma mi sbagliavo. I ragazzi in quella stanza, come me sognavano tutti l’Europa, tutti in fuga da guerre, dittature o da povertà estrema. Ma la libertà sembrava irraggiungibile soprattutto quando capimmo che i trafficanti ci avevano venduti come schiavi a un libico che ci faceva trasportare sacchi pieni di cemento per giornate intere sotto il sole, senza pagarci. A quel punto era chiaro che non potevo durare a lungo: con altri ragazzi abbiamo contattato l’ennesimo trafficante, abbiamo messo insieme i soldi che avevamo e così siamo saliti su un gommone. Eravamo in 130 persone su quel pezzo di plastica che ne avrebbe potuti trasportare men di trenta secondo me. Siamo stati in mare due giorni e due notti. Alcuni di noi erano finiti in acqua e si tenevano al gommone con le braccia. Saremmo morti se non ci avesse salvato una nave di una ong. Ci hanno tirato su, ci hanno dato da bere e delle coperte asciutte. Lì ho capito che non sarei morto in mare. Sono arrivato in Italia a settembre 2017. In Sicilia ho presentato la mia domanda di protezione internazionale. Mi hanno riconosciuto la protezione umanitaria, valida per due anni. Sono arrivato a Roma per cercare lavoro. Ma dopo alcuni mesi senza trovare nulla ho provato ad andare via dall’Italia. Volevo andare in Portogallo, perché parlo portoghese, la lingua del mio paese. Pensavo che sarebbe stato più facile lì per me. Non avevo il permesso di viaggiare fuori dall’Italia o un passaporto e sono stato rimandato indietro due volte: prima a Ventimiglia e poi a Zurigo. L’unica possibilità che mi sembrava di avere era di andare a lavorare nei campi come bracciante a Foggia, insieme a tanti altri come me, senza diritti, ancora una volta invisibile. Ho chiesto aiuto al Centro Astalli dove ogni giorno andavo a mangiare e fare la doccia. Parlai con gli operatori che lavorano lì. Mi dissero che ero giovane, che avevo un futuro davanti. Che vita avrei fatto? Sarei stato un’altra vittima del caporalato. Sapevo che avevano ragione ma era disperato, non sapevo cos’altro fare. Mi hanno accolto al Centro d’accoglienza per uomini e mi hanno chiesto cosa volessi fare, se avevo voglia di studiare. Dopo tanto tempo avevo un’altra possibilità. Ho fatto un corso di formazione e un tirocinio come aiuto cuoco. Mi sono impegnato tanto, mi piace molto cucinare. Però qualche mese fa si è presentato un nuovo ostacolo da superare: la mia protezione umanitaria era in scadenza. Mi hanno spiegato che non sarebbe stato possibile rinnovarla, che avrei potuto solo convertirla in un altro permesso di soggiorno. Ma per farlo, oltre a un contratto di lavoro, mi servivano una residenza e un passaporto. Tutte cose che non avevo. Quando sei abituato a conoscere solo odio e violenza non pensi mai che qualcuno possa aiutarti senza chiedere nulla in cambio e invece mi sono dovuto ricredere. Grazie alla generosità del mio datore di lavoro, ora ho un contratto di un anno presso un agriturismo. Questo mi ha consentito di avere un nuovo permesso di soggiorno. Ora ho una residenza. Grazie all’aiuto del Centro Astalli vivo in una comunità di ospitalità a Roma presso i Padri Bianchi e con loro sto benissimo. Mi impegno molto per il mio futuro perché ora ho un sogno da realizzare: diventare uno chef.
Prima i profughi, basta leggi per respingerli bisogna organizzarsi per accoglierli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Giugno 2020. Ottanta milioni di profughi. Più di tutti gli abitanti della Francia, o dell’Italia, o dell’Inghilterra. Di questi, almeno una quindicina di milioni sono bambini e altrettanti sono ragazzi sotto i diciotto anni. Cinque milioni di bambini non vanno a scuola e resteranno forse senza nessun tipo di istruzione per tutta la vita. Molti sono orfani, o separati dai loro genitori. Impauriti, tremanti. Queste sono le cifre ufficiali. Bisogna commentarle? Quando mi capita di parlare o di scrivere dei problemi di migranti o dei profughi, di solito vengo aggredito e accusato di essere un comunista o un veterocomunista. Cosa c’entra il comunismo con la richiesta di considerare gli esseri umani esseri umani? Credo niente. I primi profughi che ho conosciuto nella mia vita – allora ho imparato questa parola: ero bambino, parlo del 1956 – fuggivano dal comunismo. Erano gli ungheresi che scappavano dalla repressione di Krusciov contro il tentativo di comunismo un po liberale di Imre Nagy. Scappavano dai carrarmati. Il comunismo ha creato molti profughi, nella sua breve storia. Come tutti i regimi totalitari. Come i fascismi. Non è una specialità della sinistra chiedere umanità per le persone disperate. Non dovrebbe esserlo. Dovrebbe essere uno dei pochi valori unificanti di una società moderna. Ci si può e ci si deve dividere su molte cose: l’economia, l’idea di diritto, il modo nel quale si spartisce la ricchezza, i metodi di produzione, i compiti e i diritti e i doveri dei lavoratori. Ma sul principio generale dell’umanità, e del diritto alla dignità, non dovrebbero esserci divisioni. Non vedo che differenza debba esserci tra sinistra e destra. A me sembra uno dei principi di base della convivenza: insieme al rifiuto della violenza, della truffa, della rapina, dello stupro, della schiavizzazione. Non c’è nessuna scelta ideologica o di campo nel pensare che 80 milioni di profughi devono essere aiutati: sono un problema di tutti, perché costituiscono un macigno sulla possibilità di sviluppo della modernità e della storia. Apocalisse umanitaria, torture morte e disperazione: dove è l’UE? E invece assistiamo, anche in queste ore, al tripudio dell’indifferenza. Oggi è la giornata internazionale del rifugiato ma la cosa lascia tutti assopiti: la sinistra esattamente come la destra. le Istituzioni, i giornali, i partiti, gli intellettuali. Vince il silenzio. Queste ottanta milioni di persone disperate, che hanno dovuto lasciare le proprie case, la propria terra, i propri averi, per cercare di salvare la pelle, o i figli, sono in grandissima parte ammassate in paesi poveri. Appena un pochino meno disperati dei paesi di origine. Solo il 15 per cento dei profughi ha raggiunto l’Occidente. Cosa racconterà l’Occidente agli storici quando dovrà rendere conto dell’indifferenza con la quale ha accolto – e maltrattato – neanche il 15 percento dell’esercito dei profughi? Come spiegherà la sua cecità e il suo egoismo, che hanno provocato nuovi squilibri, nuove ingiustizie, nuove violenze, nuove guerre? Le cifre che ci hanno fornito le autorità internazionali non lasciano scampo: il problema dei rifugiati è il principale problema sul tappeto per la politica internazionale. L’Occidente non si può sottrarre. Neanche l’Italia può sottrarsi. Deve smetterla di fare leggi per respingere i profughi: deve organizzarsi per accoglierli. C’è una parola d’ordine, mutuata da Trump, che è l’unica parola d’ordine ragionevole per chi vuole entrare nella modernità: “Prima i Profughi”. Non può restare una esclusiva dei gesuiti e dei volontari. Deve diventare bandiera di tutti gli Stati: “Prima i profughi”.
(ANSA il 2 febbraio 2020) - POZZALLO (RAGUSA) La nave dell'Ong spagnola Open Arms, con 343 migranti a bordo, è attraccata nel porto di Pozzallo. Le operazioni di sbarco sono più lunghe del previsto: lo stato di emergenza dichiarato dal governo per il Coronavirus impone un lungo protocollo. Sulla nave è salito il medico di porto, Vincenzo Morello, coadiuvato da tre colleghi. I migranti sono stati soccorsi in 5 diverse operazioni. Imponente la macchina dell'accoglienza, con ambulanze e medici in banchina, trattandosi del primo sbarco dopo l'emergenza sanitaria.
(LaPresse il 2 febbraio 2020) - "Qualche giudice fa politica nel nome di un partito. Andremo avanti, un altro processo. In questi minuti, mentre io come pericoloso criminale ricevo la notizia di un altro processo, la stessa ong sta facendo sbarcare in Italia più di 300 immigrati, per la gioia dei trafficanti di esseri umani". Lo ha detto Matteo Salvini in un video messaggio postato su Facebook. "Vi voglio bene - ha aggiunto salvini, rivolgendosi ai suoi sostenitori in rete - e voglio bene e anche a quei giudici che stanno spendendo mesi del loro tempo e milioni di euro di soldi pubblici oltre a migliaia di fogli di carta per fare processi politici che non mi spaventano minimamente".
Diodato Pirone per “il Messaggero” il 2 febbraio 2020. Mancano una decina di giorni al voto dell' Aula del Senato sul processo a Matteo Salvini per il caso Gregoretti ma al leader della Lega è arrivata una nuova richiesta di autorizzazione a procedere per il blocco di una nave di immigrati. La vicenda è quella della Open Arms, dell' agosto scorso. È stato lo stesso leader della Lega a darne notizia attaccando le procure: «Ormai le provano tutte per fermare me e impaurire voi: vi prometto che non mollo e non mollerò, mai» perché «sono tutti processi politici che non mi spaventano». Il tribunale dei ministri di Palermo gli contesta il sequestro di persona. Secondo i giudici, non solo c' è l' obbligo di prestare soccorso ma, per vietare lo sbarco, mancavano i presupposti previsti dal decreto sicurezza bis firmato proprio dall' ex ministro degli Interni. Non c' era cioè motivo di ritenere che l' approdo potesse rappresentare un pericolo per la sicurezza. Come in una storia circolare, la Open Arms anche in queste ore ha tenuto sul filo le autorità. La nave della ong, con a bordo 363 migranti salvati nei giorni scorsi in cinque operazioni davanti alla Libia, ha lanciato appelli all' Italia e a Malta affinché indicassero un porto sicuro. «Anche quello è un sequestro? - ha chiesto Salvini in una diretta Facebook - Io sono un criminale, ma se lo fanno Conte o Lamorgese cos' è, un atto di interesse nazionale?». La soluzione è arrivata in serata, con l' autorizzazione del Viminale per lo sbarco a Pozzallo, dopo che la Commissione Europea aveva ricevuto la richiesta di coordinare la ripartizione dei migranti e si era messa in contatto con vari Stati. Sul fenomeno migratorio, ha spiegato il premier Giuseppe Conte parlando della visione del governo, «soluzioni nazionali, o nazionalistiche, non hanno chance di successo. Senza entrare nel caso Salvini. La migrazione richiede invece un approccio multi-livello europeo e internazionale fondato sui principi di solidarietà e di responsabilità condivisa». È la terza volta che i senatori sono chiamati a decidere se dare il via libera a un processo a Salvini. La prima risale al marzo 2019, quando il leader della Lega era ancora ministro degli Interni nel governo gialloverde. In quell' occasione, il Senato negò l' autorizzazione a procedere per la vicenda Diciotti, rimasta per cinque giorni nel porto di Catania con a bordo 177 persone, nell' agosto 2018. La seconda, una decina di giorni fa. Cambiata la maggioranza è cambiato anche l' esito in giunta per l' autorizzazione a procedere, che ha votato per il processo, decidendo sul «caso Gregoretti»: 135 immigrati che, nel luglio 2019, non vennero fatti sbarcare dalla nave militare che li aveva soccorsi al largo di Lampedusa. Su questa vicenda, il 12 febbraio ci sarà l' ultimo passaggio parlamentare: spetterà all' Aula del Senato esprimersi. «Io chiederò di andare a processo», ha ribadito Salvini.
Il tribunale di Palermo dissequestra la nave Mare Jonio. Era sotto sequestro nel porto di Licata dallo scorso 3 settembre. Mediterranea Saving Human: "Finalmente libera". Giorgio Ruta il 04 febbraio 2020 su La Repubblica. La Mare Jonio torna libera. Il tribunale civile di Palermo ha accolto il ricorso della rete Mediterranea per la reimmissione in possesso della nave salva migranti. I giudici hanno ordinato alle autorità coinvolte di far cessare con effetto immediato il sequestro a cui era sottoposta dallo scorso 3 settembre. L'imbarcazione, oggi ormeggiata a Licata, era entrata nelle acque territoriali, autorizzata via radio dalla guardia costiera, dopo aver trasferito 31 migranti in una motovedetta. Alle 23.55, diverse ore dopo, mentre si trovava ancorata poco fuori dalla costa dell'isola, la Guardia di finanza gli ha notificato il sequestro ordinato dal ministro degli Interni, il suo ultimo atto da ministro, per "violazione del decreto sicurezza bis". "La decisione ripristina finalmente la legalità. La Mare Jonio è di nuovo libera, dopo un sequestro illegittimo durato cinque mesi - dichiara Alessandra Sciurba, presidente dell'associazione Mediterranea Saving Humans - . E, dopo l'archiviazione delle accuse contro il comandante Pietro Marrone e il capomissione Luca Casarini, questo è un altro fondamentale passo verso la cancellazione dal basso dei Decreti Salvini". Mediterranea lancia a partire da oggi una campagna di raccolta fondi per ritornare in mare. "Il governo attuale - conclude Sciurba - non ha avuto il coraggio di fare politicamente quello che un tribunale oggi ha ritenuto essere l'unica cosa giusta. Adesso vogliamo tornare in mare al più presto, a salvare i profughi di una guerra terribile dall'annegamento e dalle catture delle milizie libiche, a salvarci, insieme alle altre navi della società civile, da scelte criminali e velenose come quelle del rinnovo del memorandum con la Libia".
Orlando risponde a Salvini: "A Palermo non ci sono migranti". Non si è fatta attendere la replica del sindaco di Palermo Leoluca Orlando alle dichiarazioni di Matteo Salvini, in visita ieri nel capoluogo siciliano per incontrare i simpatizzanti della Lega. Vincenzo Ganci, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. Da un lato il leader della Lega Matteo Salvini, dall'altro il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. É chiaro ormai da tempo a tutti che tra i due non c'è simpatia. Il primo chiede di fermare l'immigrazione, il secondo apre le porte della città. "Palermo accoglie, lui è... Quasi quotidianamente i due si lanciano frecciatine sui giornali, ma anche attraverso i social. E l'incontro di ieri a Palermo tra l'ex ministro dell'Interno e i simpatizzanti della Lega, è stata l'occasione per rimarcare le loro posizioni. "Se uno sente Orlando in televisione e non abita a Palermo dice 'questo è il sindaco di Zurigo' - dice Salvini - Raccolta differenziata che funziona, mezzi pubblici puntuali. Uno pensa 'siccome la città funziona come un orologio, si occupa di immigrati perché i palermitani sono tutti contenti'". "In questa città non ci sono migranti - la risposta di Orlando - qui siamo tutti palermitani". Abbiamo incontrato in esclusiva il primo cittadino di Palermo, che ha parlato della visita di Salvini a Palermo. "Le frasi apparse a Ballarò, sono frasi ingiuriose pronunciate da Salvini e da coloro che fanno parte della sua esperienza politica, contro i palermitani, qualificano il soggetto di cui stiamo parlando. Questa città ha vissuto e vive un cammino di crescita e di accoglienza, di rispetto per i diritti umani di tutti - ha detto Orlando - In questa città non ci sono migranti". "Palermo - ha aggiunto Orlando - non è in competizione con l'ex ministro Salvini. Lui gioca a cricket e noi a volley. Un altro sport, altre regole, altri campi, altri valori. Io credo che la sua presenza a Ballarò quando non c'è il mercato, gli ha impedito ci cogliere la ricchezza della cittadinanza e di un quartiere, perchè Ballarò è Palermo e Palermo è Ballarò". Salvini però dal palco del teatro "Al Massimo", critica la gestione della città da parte del governo Orlando. Dalla viabilità, alla gestione dei rifiuti. E la stoccata: "A sentirlo parlare sembra il sindaco di Zurigo" che è stata accolta dagli applausi della folla. La recente classifica del Sole 24 Ore delle città più vivibili d'Italia, vede infatti Palermo piazzarsi in fondo alla graduatoria, alla 98esima posizione su 107 città. Dal lavoro che manca, ai giovani che emigrano per trovare fortuna all'estero. Tutti problemi che secondo Salvini, Orlando fa finta di non vedere: "Siccome la città funziona come un orologio, si occupa di immigrati, perché i palermitani sono tutti contenti".
I dati sui migranti a Palermo. Secondo l’ultimo rapporto "Italiani nel mondo", della Fondazione Migrantes, sono 768 mila i siciliani che abitano all’estero e sono iscritti all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’esterno). Alla data del primo gennaio 2019, Palermo è il primo comune con più emigrati: 32.541. In compenso a Palermo ci sono quasi 30 mila stranieri. Ben 25.753 sono residenti (pari al 3,8% della popolazione) e provengono da ben 130 Paesi diversi. La comunità più numerosa è quella del Bangladesh, con 5.339 residenti, pari al 20,7% del totale degli stranieri. Ai residenti vanno aggiunti gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana: sono 4.300, di cui quasi 268 nel 2018. Sono questi i dati elaborati dall'Ufficio statistico del Comune aggiornati al 31 dicembre 2018. Non si conoscono invece i dati degli immigrati non regolari che vivono in città.
L'Algeria ruba il mare all'Italia e manda migranti in Sardegna. Il 21 marzo del 2018 l'Algeria ha unilateralmente allargato i confini della propria Zee, spingedosi fino a ridosso della Sardegna. Il caso è stato sollevato dall'ex presidente sardo Mauro Pili e potrebbe avere implicazioni anche sull'immigrazione. Mauro Indelicato, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Una notizia passata inosservata, ma che dopo essere stata rilanciata nei giorni scorsi potrebbe riservare non poche clamorose ripercussioni a livello politico e non solo. Il caso riguarda le rivendicazioni algerine sul mare antistante la Sardegna. Un contesto non dissimile da quello che, sotto il profilo geopolitico internazionale, è apparso come uno dei casi più delicati degli ultimi mesi e che ha a che fare con il memorandum turco – libico che estende le rispettive Zee (Zone Economiche Esclusive) a ridosso delle acque territoriali di altri Stati. Cartina alla mano, a tirare fuori il caso è stato l’ex presidente della Regione Sardegna, Mauro Pili: “Ad attaccare i confini internazionali a mare questa volta è l' Algeria – ha dichiarato Pili – che, con decreto del presidente della Repubblica del 21 marzo del 2018, ha messo nero su bianco i nuovi confini della propria zona economica esclusiva marittima”. Algeri, con un tratto di penna sulla mappa, di fatto si è accaparrata un tratto di mare antistante le acque territoriali italiane difronte la Sardegna: “L’operazione è emersa solo qualche settimana fa – ha spiegato l’ex presidente sardo – ma è stata tenuta segreta di fatto in Italia”. Secondo Mauro Pili, il paese nordafricano avrebbe esteso la propria Zee in tutta la zona del Mediterraneo passante davanti Sant' Antioco, Carloforte, Portovesme, Oristano, Bosa e Alghero. Di fatto, il mare della Sardegna occidentale sarebbe per intero delimitato dalla nuova zona economica algerina. Un fatto certamente rilevante da un punto di vista politico, ma anche da quello economico: il rischio è che la Sardegna e l’Italia possano essere limitati nello sfruttamento delle risorse marine delle acque internazionali vicine al territorio formalmente del nostro paese. Un pescatore di Alghero o di Oristano, per fare un esempio, potrebbe essere accusato da Algeri di appropriazione di “proprie” risorse se trovato con il peschereccio anche ad appena 13 miglia dalla Sardegna. L’ex presidente Pili ha accusato tutti i vari governi succedutisi dal marzo 2018 in poi: “Come al solito – ha dichiarato l’esponente politico – il nostro paese dorme e soltanto qualche settimana fa ha presentato una protesta formale alle Nazioni Unite”. La querelle è dunque diventata tale solo alla fine del 2019, con la recriminazione dell’Italia avanzata all’Onu, nonostante il decreto algerino sia in vigore da almeno un anno e mezzo prima. Ed in quel lasso di tempo non sono mancati incontri e vertici bilaterali tra esponenti del governo di Roma e di Algeri. Eppure, la questione non era mai stata messa in agenda. “Nonostante il tentativo dell'Italia di porre rimedio a questa gravissima falla nel sistema della tutela dei confini a mare e delle acque internazionali – ha dichiarato ancora Mauro Pili – Dall'Onu non è arrivata sino a oggi nessuna risposta. Sorprende come tutte le forze politiche e gli stessi governi, sia quello italiano che quello sardo, non siano stati in grado di respingere questo ennesimo blitz ai danni della Sardegna e dei sardi. Svendono la Sardegna e anche il suo mare”. Nel mirino di Algeri non soltanto le risorse derivanti dalla pesca, bensì anche quelle energetiche. La questione però, potrebbe riguardare anche quella migratoria. Già dal 2017 il Sulcis ha iniziato a fare i conti con il fenomeno degli sbarchi fantasma, il quale ha portato nelle coste del sud della Sardegna decine di barchini partiti dall’Algeria. “Se l'Italia cede la propria sovranità sul tratto di mare fra la Sardegna e l' Algeria – ha dichiarato già alcuni mesi fa il capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione difesa, Salvatore Deidda – il messaggio suona: «Accomodatevi, fate pure come se foste a casa vostra». Ed ecco come le coste sulcitane sono divenute la meta preferita per migliaia di migranti algerini”. La questione appare tanto delicata, quanto poco approfondita sotto il profilo mediatico e politico. Eppure, la scelta unilaterale algerina oltre a costituire fonte di pericolo economico per il nostro paese, potrebbe dare dell’Italia un’immagine di un paese sempre più debole nel Mediterraneo e sempre più marginale nel contesto del cosiddetto “mare nostrum”.
Ora l'Onu processa i dl Salvini. Assist al Pd delle porte aperte. Dopo un visita di 11 giorni nel nostro Paese, la relatrice Elver attacca i dl Sicurezza e dà fiato al fronte anti-Salvini. Angelo Scarano, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. L'Onu mette nel mirino i decreti Sicurezza varati da Matteo Salvini nel corso della sua esperienza di governo. A "processare" i decreti voluti dall'ex titolare del Viminale è la relatrice speciale Onu per il diritto all'alimentazione Hilal Elver al termine di una visita di undici giorni nel nostro Paese. Nel suo report, la Elver non usa giri di parole e punta il dito contro la politica della Lega che ha frenato l'ondata migratoria nel nostro Paese: "L'approvazione nel 2018 del decreto sicurezza e immigrazione, conosciuto ai più come decreto Salvini, ha contribuito all'incremento del numero di lavoratori migranti privi di documenti, accelerando l'illegalizzazione dei richiedenti asilo e spronando ulteriormente il lavoro irregolare senza alcuna protezione. Attualmente si stima la presenza di circa 680.000 migranti privi di documenti, il doppio rispetto a cinque anni fa". Parole dure che suonano come una sorta di assist al fronte rosso che dopo le Regionali chiede al governo giallorosso di cancellare i decreti Sicurezza. Ieri erano stati le sardine, la del Schlein e l'eurodeputato Bartolo a chiedere una rapida riforma dei decreti Salvini. Un vero e proprio chiodo fisso per il Pd che dopo il voto alle Regionali è tornato alla carica chiedendo a gran voce cambiamenti prorpio sui due decreti che hanno cambiato radicalmente la gestione dei flussi migratori verso il nostro Paese. Il Pd con Delrio ha già fatto sapere che ha tutta l'intenzione di stravolgere le norme firmate da Salvini: "Cambiamo le regole e combattiamo l'immigrazione clandestina con flussi regolari, ricollocamento e una nuova legge che ripristini il sistema di accoglienza diffusa. I decreti vanno superati perché Salvini ha usato il problema solo per scopi politici". Poi sempre Delrio ha rincarato la dose: "La riscrittura dei decreti sicurezza è urgente per ripristinare percorsi di inserimento e procedere poi a una nuova legge sull'immigrazione che possa garantire solidarietà e sicurezza. Perché il tema non venga più usato per propaganda elettorale". E in queste ore, nei fatti, il governo giallorosso ha già messo da parte i decreti Sicurezza spalancando i porti alle navi delle Ong che ormai senza sosta continuano a far sbarcare i migranti nel nostro Paese. Basti ricordare i 400 della Ocean Viking a Taranto e le altre centinaia sbarcati dall'inizio dell'anno. Un vero e proprio cambio di rotta che cancella quanto fatto dalla Lega al governo. Ora però i dem, anche con l'assist dell'Onu, vogliono fare un passo in avanti cercando di cancellare definitivamente le norme sulla Sicurezza di Salvini. L'ultimo atto di un esecutivo che sin dal primo momento del suo insediamento ha cambiato le carte in tavola dichiarando un ritorno all'accoglienza senza freni.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 30 gennaio 2020. Passate le elezioni, gabbati gli elettori. Come avevamo previsto, una volta chiuse le urne e archiviato il voto regionale, il governo fa sbarcare i migranti che aveva tenuto a bagnomaria per quattro giorni al largo delle nostre coste. L'Ocean Viking, la nave di Medici senza frontiere, con 400 immigrati soccorsi in acque libiche, attraccherà a Taranto, il porto sicuro indicato dopo lunga meditazione dal ministero dell' Interno. Certo, a differenza della Gregoretti, la nave della Guardia costiera che ha messo nei guai Matteo Salvini e per la quale il capo della Lega rischia 15 anni di carcere, in questo caso non ci sono stati tweet delle organizzazioni umanitarie a denunciare le condizioni a bordo dei cosiddetti profughi. Né abbiamo visto parlamentari del Pd strapparsi i capelli (non è il caso di Davide Faraone, che di capelli ne ha pochissimi) e imbarcarsi per esprimere solidarietà agli immigrati. Anzi, a dire il vero, per quattro giorni 216 uomini, 38 donne e 149 bambini sono stati lasciati soli in mezzo al mare senza che nessuno se li filasse. Il porto sicuro non sembrava un' urgenza di cui la politica dovesse occuparsi. Impegnati com' erano nella campagna elettorale, tutti quei cuori teneri pronti a immolarsi mangiando gli arancini sulla banchina di Lampedusa per solidarietà con i migranti erano al lavoro per arginare la campagna d' odio di Salvini. C'era da salvare il Paese, o per lo meno l' Emilia e di conseguenza la poltrona di chi l' ha governata per anni. E poi bisognava impegnarsi affinché l' onda lunga leghista non travolgesse la maggioranza, lambendo il governo e minacciandone la stabilità. Dunque, la solidarietà verso 149 bambini, 38 donne e 216 uomini, è passata in secondo piano rispetto all' emergenza vera dell' avanzata di Salvini e della sua armata. E poi, diciamoci la verità, visto che l' ex ministro dell' Interno si è intestato la battaglia contro i clandestini, la criminalità straniera e lo spaccio organizzato dalle bande nigeriane, meglio far sparire i nordafricani. Quattrocento persone che mettono piede sul suolo italiano il giorno prima delle elezioni, dopo che si è detto che ormai gli sbarchi sono ridotti a poche unità, certo non erano un buon viatico per i compagni impegnati nella strenua difesa del fortino rosso dell' Emilia Romagna. Dunque meglio soprassedere con la richiesta di un porto sicuro. Del resto, se serve, il profugo può attendere: mica muore se rimane ancora un po' a bordo di una nave delle Ong. I volontari di Medici senza frontiere in fondo sono tanto carini e gentili, soprattutto appassionati verso il prossimo e anche di buona compagnia quando ci sono di mezzo gli immigrati. E poi, diciamoci la verità, quelli a bordo della Ocean Viking non sono come quegli altri che erano stati soccorsi da Carola Rackete, la capitana tedesca che, oltre a sfondare il blocco navale, ha rischiato anche di far colare a picco una bagnarola della Guardia di finanza. Lì la signorina dei migranti agiva in stato di necessità. I salvati in mezzo al mare, se non fossero stati sbarcati in fretta, come esigeva il coro della sinistra per l' appunto capeggiato da Davide Faraone, che era anche salito a bordo, minacciavano di buttarsi in mare. C' era il pericolo di veri e propri atti di autolesionismo. Nel caso in questione, forse perché ai profughi era stato spiegato che c' erano le elezioni e bisognava attendere perché altrimenti qualche emiliano si sarebbe potuto anche incazzare nel vedere i nuovi arrivati, nessuno si è dimostrato impaziente. Buoni buoni, gli extracomunitari hanno fatto la fila per i servizi e si sono adattati al comfort della nave di Medici senza frontiere, sicuri che di lì a qualche giorno, una volta sconfitto quel cattivone di Salvini e aver celebrato in tv a reti unificate l' evento, sarebbero stati accolti dai battimani. E così probabilmente sarà, perché gabbati gli elettori adesso si possono spalancare le porte a nuovi arrivi e l' aumento del 400 per cento di profughi dall' inizio dell' anno è solo l' antipasto. Ovviamente, resta una domanda: ma se far aspettare per cinque giorni i migranti a bordo di una nave della Guardia costiera è sequestro di persona, perché il porto sicuro un ministro lo deve indicare all' istante e non può esitare a far sbarcare uomini e donne salvati in mare, farli attendere per quattro giorni perché si deve votare, che cos' è? Una presa per i fondelli dell' elettore o soltanto una grande ipocrisia? Ve lo dico io: si tratta di entrambe le cose. I profughi vanno soccorsi quando serve per dar fastidio agli avversari, ma vanno lasciati in mare quando non servono, anzi possono fare danni. È la politica dell' accoglienza targata sinistra. Quanto sono buoni i buonisti. E quanto sono tonni le sardine.
Cassazione paralizzata dai ricorsi: oltre 10mila richieste d'asilo politico. Il decreto Minniti ha eliminato l'Appello e ora i migranti si rivolgono tutti al Palazzaccio: nel 2016 erano solo 374...Massimo Malpica, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. Un'onda di ricorsi stranieri minaccia di paralizzare la corte di Cassazione. A lanciare l'allarme, per il secondo anno consecutivo, è il primo presidente della Suprema corte, Giovanni Mammone, che nel suo intervento per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2020, davanti al capo dello Stato Sergio Mattarella, al premier Giuseppe Conte e al Guardasigilli Alfonso Bonafede, punta l'indice contro il decreto Minniti del 2017, poi convertito nella Legge 46 del 2017, che peraltro avrebbe avuto come obiettivo quello di «accelerare i procedimenti in materia di protezione internazionale». Solo che, parallelamente alla creazione di sezioni specializzate in materia di immigrazione, la nuova normativa ha anche eliminato l'appello. Prevedendo per il richiedente che si è visto negare la protezione dalla sezione specializzata solo la possibilità di ricorrere, entro trenta giorni, alla Cassazione. Così, se nel 2016 erano stati presentati solo 374 ricorsi per protezione internazionale alla Suprema corte, oggi quel numero ha subito veramente un «incremento esponenziale», per usare le parole di Mammone, arrivando nell'anno appena concluso a 10.341. Quasi 28 volte di più, e in crescita costante anno dopo anno, visto che nel 2017 erano 1.089 e nel 2018 già 6.026. Il perché, appunto, è tutto nella riforma, come ha spiegato proprio il primo presidente della Suprema corte, visto che «le impugnazioni in questione, prima diluite tra le Corti d'appello, sono affluite tutte in Cassazione, gravando oltremodo la Corte di legittimità». La valanga di ricorsi «protettivi» ha spinto in alto, infatti, il gravame di procedimenti civili della Cassazione, che dal 2014 a oggi è cresciuto del 16,1 per cento. Una messe di procedimenti pendenti che tradisce, appunto, il nuovo onere previsto dalla riforma dell'ex ministro Minniti per i giudici del «Palazzaccio». Provocando un disagio che, come detto, non solo sembra tradire lo scopo della riforma, cioè l'accelerazione della definizione delle richieste di protezione internazionale, ma allarma anche i vertici della Suprema corte. Mammone, infatti, aveva già sottolineato a gennaio 2019, all'inaugurazione dello scorso anno giudiziario, il «preoccupante» boom di ricorsi da parte di richiedenti asilo. E il vicepresidente del Csm, David Ermini, aveva rilanciato l'allerta, spiegando che quella impennata clamorosa rischiava di diventare una vera «emergenza» per la Cassazione, aggravando il «carico insostenibile» di cause già pendenti. Più una constatazione che una facile previsione, confermata infatti anche quest'anno nel discorso di Mammone che ha ribadito come, in virtù di quella riforma, «il contenzioso» dei richiedenti asilo «si riversa interamente sulla Cassazione». E un passaggio sui richiedenti protezione lo ha fatto anche il Pg della Cassazione, Giovanni Salvi. Ricordando, nel suo intervento, che «le scelte sulle politiche migratorie e di ingresso nel territorio dello Stato competono al legislatore e al governo», ma «nel quadro di compatibilità con le norme costituzionali e pattizie, prima tra tutte l'obbligo che il nostro Paese ha assunto per la protezione internazionale di coloro che ne hanno potenzialmente diritto».
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 30 giugno 2020. Europa assassina che vuole affogare i migranti, ovviamente razzista, accusa che va sempre più di moda e «fortezza» da abbattere per fare arrivare tutti quelli che lo desiderano dall'Africa compresi i contagiati. Carola Rackete è tornata a pontificare, un anno dopo la forzatura del blocco e lo sbarco dei migranti a Lampedusa schiacciando contro la banchina un'imbarcazione dalla Guardia di finanza. L'anniversario è l'occasione per sparare a zero contro l'Unione europea compresa l'Italia. Le Ong estremiste continuano a fare quello che vogliono, nessuno le ferma e ogni tanto rispuntano le eroine dei talebani dell'accoglienza come Carola. La capitana Rackete non voleva rilasciare interviste per l'anniversario della forzatura del blocco a Lampedusa, ma ha parlato con l'agenzia di stampa tedesca Dpa. Secondo la capitana di Sea Watch 3, la stessa nave che ci ha portato 28 positivi al Covid-19, i migranti continuano a morire nel Mediterraneo «perché l'Unione europea vuole che affoghino». L'Europa assassina lo farebbe «per spaventare chi intende intraprendere gli attraversamenti». Ovviamente i paesi europei stanno sfruttando la crisi provocata dal coronavirus e la valanga di morti per «mettere da parte i diritti umani e per smettere di rispettare la legge del mare». In pratica non solo dobbiamo accogliere a braccia aperti tutti, ma pure i contagiati. «Malta, in primo luogo, ma anche altri stati europei, tra cui la Germania, stanno usando la pandemia come scusa», secondo l'irriducibile tedesca. Nel mirino c'è pure l'Italia, che l'ha graziata: «Devo sottolineare ancora una volta che, nonostante sia al potere la nuova coalizione del governo italiano, nulla di fondamentale è cambiato all'interno della Ue e alle frontiere esterne. Se c'è stato un cambiamento, le cose sono peggiorate durante l'ultimo anno». La capitana accusa «diversi stati europei, tra cui Spagna, Malta, Italia, Paesi Bassi e Germania, di continuare a ostacolare il salvataggio e il monitoraggio delle missioni via mare e aeree». E si lamenta pure della magistratura, in gran parte filo Ong: «Nonostante la Corte Suprema italiana (di Cassazione, nda) abbia convalidato la mia decisione di entrare nel porto (di Lampedusa un anno fa, nda) la criminalizzazione del salvataggio in mare continua. Nel mio caso e nelle indagini su altri che agiscono in solidarietà con le persone in movimento». La chicca del 2020, è la rievocazione in stile Black lives matter, dell'avventura del 29 giugno 2019: «Ho pensato che dovevamo essere in mare non solo per effettuare il salvataggio, ma anche come segno di resistenza contro il razzismo strutturale delle autorità europee». E aggiunge ricordando gli arresti domiciliari una volta forzato il blocco e schiacciato i finanzieri fra la sua nave e la banchina che «come donna bianca, non ho avuto paura per un secondo che la polizia potesse uccidermi durante l'arresto o dopo in cella, come invece è successo a molti neri, anche in Germania. Ed è per questo che dobbiamo agire». L'eroina delle Ong estremiste non ha dubbi: «Il razzismo strutturale è un problema tanto nell'Ue quanto negli Stati Uniti. Se #BlackLivesMatter negli Stati Uniti richiede di tagliare i fondi ai dipartimenti di polizia, di conseguenza dobbiamo chiedere la stessa cosa in Europa con #DefundFrontex». Rackete cavalca l'onda e accusa l'Agenzia per il controllo delle frontiere, che cerca di tamponare il flussi migratori, di «applicare la politica di confine razzista degli stati europei». Nonostante un'Europa buonista e politicamente corretta fino all'assurdo, l'appello della pasionaria è «superare il razzismo strutturale» della Ue. E lancia il grido di battaglia: «Come cittadini europei, dobbiamo interrompere questa politica! Dobbiamo abbattere la fortezza Europa, creata per far morire i poveri». Neppure una parola sui tre torturatori e stupratori nei lager dei trafficanti libici di esseri umani condannati in maggio a Messina a 20 anni di carcere ciascuno, che erano tranquillamente sbarcati da Sea watch 3 dopo la forzatura del blocco della capitana un anno fa.
Arrivarono con Carola Rackete: condannati perché torturatori. Chiara Giannini, Sabato 30/05/2020 su Il Giornale. Erano arrivati a bordo della Sea Watch di Carola Rackete, la comandante tedesca della nave che lo scorso anno speronò una motovedetta della Guardia di Finanza ed erano stati riconosciuti come torturatori nei centri di detenzione libici da alcuni migranti sbarcati dalla Alex & co di Mediterranea Saving Humans. Il Gup di Messina ora li ha condannati a 20 anni di carcere ciascuno. Si tratta di Mohamed Condè, detto Suarez, 22 anni della Guinea, Hameda Ahmed, 26 anni, egiziano e Mahmoud Ashuia, egiziano, 24 anni. Erano stati fermati il 16 settembre dello scorso anno all'hotspot di Messina e accusati, di torture, violenza sessuale, associazione a delinquere, tratta di esseri umani e omicidio. Il fermo dei tre, giudicati con la formula del rito abbreviato, era avvenuto con ordinanza della Direzione distrettuale antimafia di Agrigento. Il fatto che fossero arrivati a bordo della Sea Watch di Carola Rackete era stato messo a tacere sia dal Viminale che dai vertici della Polizia, ma raccontato in esclusiva proprio dal Giornale. Intanto, proseguono senza sosta gli sbarchi di migranti. Il centro di accoglienza di Lampedusa è pieno. In poche ore sono arrivate dentro al porto numerose imbarcazioni con 185 persone. Dopo gli arrivi delle settimane scorse dalla Tunisia, sono ripresi quelli dalla Libia. Il tutto nonostante il duro lavoro della Guardia costiera di Tripoli, che ieri ha riportato indietro circa 200 migranti. E ieri la Guardia di Finanza ha recuperato al largo dell'isola altre 50 persone, quasi tutti provenienti da Bangladesh e Marocco. «Ci dicono che scappano dal Covid - racconta un operatore delle forze dell'ordine impiegato a Lampedusa - e che vengono in Italia perché sono venuti a conoscenza che ora possono essere regolarizzati e che possono trovare un lavoro», dopo l'annuncio del ministro Teresa Bellanova. E prosegue: «Adesso neanche più aspettiamo che arrivino. Ci è stato dato ordine di andarli a cercare». È da chiedersi perché, visto che il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, in periodo di emergenza Covid aveva parlato di «porti italiani non sicuri».
Magistratopoli, caso Rackete e Giovanni Falcone. Alessandro Butticé, Giornalista de il Riformista il 15 Giugno 2020. In un triste momento di estreme polarizzazioni nel nostro Paese, dove persino un virus pandemico si è colorato politicamente, figuriamoci i commenti – sulla stampa e i social – alle sentenze relative al tentativo di collisione-speronamento da parte della nave di un’ONG comandata da una giovane capitano tedesca, in danno di un’imbarcazione militare italiana. Soprattutto se legate, seppur indirettamente, alle disposizioni impartite da un ministro dell’interno pro-tempore, Matteo Salvini, inneggiato da alcuni e duramente contestato da altri, compresi alcuni magistrati, come recentemente emerso da alcune chat agghiaccianti dell’ex Presidente dell’ANM Palamara. Dove si apprende persino che Salvini avesse ragione, ma che andava comunque “attaccato”. Senza gli occhiali colorati dall’ideologia e dal tifo da stadio di una parte o dell’altra, mi sono quindi chiesto come avrebbe giudicato il “caso Rackete” l’allora Giudice Istruttore Giovanni Falcone, che mai avrebbe potuto essere parte, ma semmai vittima, di quella che alcuni hanno ormai definito come “magistratopoli”. Mai avremo purtroppo la risposta. E lungi dall’utilizzare la memoria di un eroico Magistrato che ho avuto la fortuna l’onore di conoscere personalmente nel 1984 – e da subito stimare e ammirare, ben prima che diventasse un’icona italiana e della nostra Magistratura – ho provato però ad immaginarmelo. Soprattutto grazie ad un messaggio ricevuto in febbraio – per la precisione la notte dopo la pubblicazione della clamorosa sentenza della Cassazione – dall’amico, oggi generale in congedo, Emilio Errigo. Un autentico “lupo di mare”, oltre che studioso di diritto del mare. Voleva rendermi partecipe di un sua riflessione ispirata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 20 febbraio. Per molti – me compreso – ancora controversa e di difficile comprensione. E non solo perché in netto contrasto con altri precedenti pronunciamenti della stessa Cassazione e – secondo alcune interpretazioni – persino della Corte Costituzionale. Visto il tempo trascorso, che sembra ancora più lungo, dopo la pandemia, voglio ricordare sommariamente i fatti, a chi li avesse scordati, perché caduti nel dimenticatoio della stampa, come spesso accade nel nostro Paese dopo qualche giorno di clamore mediatico. Alla giovane comandante tedesca Carola Rackete erano stati contestati i reati previsti dagli art. 1100 del codice della navigazione (Resistenza o violenza contro nave da guerra) e dall’articolo 337 del codice penale (Resistenza a pubblico ufficiale), per avere usato atti di resistenza e di violenza (a rischio di speronamento) contro una motovedetta della Guardia di finanza e del proprio equipaggio. La mancata convalida dell’arresto da parte della Guardia di Finanza, era stata motivata dal GIP di Agrigento sulla base dell’insussistenza del primo fatto, per l’impossibilità di riconoscere nella motovedetta italiana il requisito di “nave da guerra” richiesto dalla norma, e sulla base della mancanza del requisito dell’antigiuridicità del secondo fatto, per essere stato commesso in presenza della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso in mare (art. 51 c.p.). Sul primo punto, la Cassazione, operata una ricognizione delle fonti di diritto applicabili (in particolare gli articoli 239 e 243 del Codice dell’Ordinamento militare), ha confermato che allo stato degli atti non vi è prova che la motovedetta della Guardia di Finanza in questione integrasse i requisiti previsti dalla legge per essere considerata nave da guerra ai sensi dell’art. 1100 del codice della navigazione. Perché non era comandata da un ufficiale, ma da un sottufficiale. Sul secondo punto, da un lato vengono richiamate le fonti internazionali e nazionali sugli obblighi di salvataggio in mare, e dall’altro lato è stato ricordato che in tema di misure precautelari (l’arresto in flagranza) la sussistenza di una causa di giustificazione che ne vieta l’applicazione non debba apparire evidente ma possa anche solo essere verosimilmente esistente, i giudici hanno ritenuto che nel caso di specie sussistesse il divieto di arresto previsto dall’art. 385 del codice di procedura penale, ed hanno dunque giudicato corretta la prospettazione delineata dell’ordinanza del GIP. Assieme alle mie perplessità per questo ragionamento, ed alla speranza che – nonostante l’avversione di pezzi della magistratura per l’ex ministro dell’interno, emersa dal “caso Palamara” – la tesi accusatoria della Procura di Agrigento sia stata difesa dinanzi alla Suprema Corte, in punto di diritto, col ne essario vigore, voglio condividere con i nostri lettori il testo ricevuto dal generale Errigo. Lo faccio come contributo a che ognuno possa farsi la propria libera idea. A mente fredda ed al di fuori del clamore mediatico di quei giorni di febbraio. “Le scrivo a tarda notte perché non riesco a mantenere quieti i miei plurimi pensieri di diritto umanitario, diritti umani e altri non insignificanti diritti di libertà, difesa e sicurezza pubblica. Lei ha buona memoria e ricorderà sicuramente il primo caso di applicazione in Italia, a cura del giovanissimo Brigadiere della Guardia di Finanza che le scrive, allora Comandante del Guardacoste d’altura G.12 Di Bartolo, del nuovo diritto internazionale del mare (Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982), al fine di bloccare in “alto mare” un ingente traffico Internazionale di armi e droga da parte di una agguerrita organizzazione internazionale criminale composta da trafficanti internazionali. L’Operazione Fidelio, così venne titolata l’azione di Polizia Giudiziaria sul Mare, portata a termine con successo dalle non grandissime ma ben costruite Motovedette (Guardacoste) allora in dotazione del Servizio Navale del Corpo della Guardia di Finanza, aveva una ben strutturata e consolidata organizzazione Centrale (Comando Generale) di Comando e Controllo delle complesse operazioni aeronavali facente capo strategicamente allora come adesso, a livello nazionale alla Centrale Operativa del Comando Generale delle Fiamme Gialle, mentre a minor livello di responsabilità operativa regionale, tatticamente alle Sale Operative dei Comandi di Legione, allora poste al Comando di un Colonnello della Guardia di Finanza. Ora limitare l’esame della condotta giuridicamente interessante ma incompleta al solo status giuridico del Comandante o del mezzo navale operante a difesa e sicurezza dello Stato Costiero, non lo trovo affatto aderente all’effervescente evoluzione del Diritto Internazionale del Mare, né al diritto europeo o nazionale italiano. Allora 1986, erano altri tempi, certamente diversi, e avevamo assieme a noi che seguiva l’Operazione Fidelio un Giudice Istruttore che si chiamava Giovanni Falcone, il quale ritenne legittimo l’intervento repressivo posto in essere dalle Unità Navali e militari della Guardia di Finanza in alto mare per fermare una condotta umana “allora” come adesso, internazionalmente considerata illegale. In quella operazione Internazionale di polizia giudiziaria sul mare, furono in undici i militari della Guardia di Finanza facenti parte dell’equipaggio della Motovedetta d’altura che rischiarono veramente di perdere la vita in mare, lasciando figli orfani, mogli vedove e genitori col cuore spezzato dal dolore. I Giudici condannarono il Comandante della nave Fidelio battente bandiera dell’Honduras, per aver commesso il reato tentata “distruzione di opere militari”, di cui all’art. 253 del c.p., tale è considerata dal diritto penale vigente la nave della Marina Militare o la Motovedetta di un Corpo di Polizia a ordinamento militare quale è il Corpo della Guardia di Finanza. Ora pur non pretendendo che tutti, compresi alcuni studiosi del diritto, abbiano la stessa conoscenza necessaria per poter comprendere e interpretare i singoli fatti penalmente rilevanti o meno, attirerei l’attenzione dei suoi lettori sulla lettura del citato art.253 del Codice Penale italiano”. Non posso che comprendere e condividere l’amarezza del generale Errigo. Sono dell’idea che seppure le sentenze si debbano sempre eseguire e rispettare, non necessariamente si devono tutte applaudire. E questa sentenza, come quella del GIP di Agrigento, credo che non riuscirò davvero ad applaudirla. Anche se come servitore dello Stato non avrei esitato un solo istante ad eseguirla, nel caso mi fossi trovato a doverla applicare. E lo dico pur non essendo affatto un estimatore dell’ex ministro dell’Interno. Cui rimprovero, tra l’altro, la sua frequente assenza ai tavoli europei quando si discuteva persino di immigrazione. Oltre che il suo pericoloso (per l’italia e per l’Europa) e superficiale atteggiamento, fatto soprattutto di proteste ma senza proposte serie e concrete, verso l’Europa. Ma spero che queste sentenze, senza attendere la tanto richiesta di una riforma epocale della giustizia italiana, possano servire da stimolo al legislatore per rapide modifiche normative. Prima che la Guardia di Finanza o le altre forze di polizia, all’incrocio di una nave straniera che sia sospetta di porre in essere una presunta violazione della legge nazionale, decidano di cambiare sistematicamente rotta o girarsi dall’altra parte. So però che questo non succederà mai. Perché la Guardia di Finanza, assieme alle altre Forze Armate e di Polizia, fa parte del meglio che il nostro Paese possa esprimere in questi strani anni della nostra storia nazionale. Ma anche questa è Italia. Prendere o lasciare.
La Cassazione: l’arresto di Carola Rackete non era legittimo. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Caccia. È stato legittimo il no del gip di Agrigento all’arresto della comandante della Sea Watch, Carola Rackete. È stato respinto dalla Corte di Cassazione il ricorso della Procura di Agrigento contro l’ordinanza che lo scorso 2 luglio ha rimesso in libertà Carola Rackete, la comandante della nave Sea Watch 3 approdata a Lampedusa forzando il blocco. La giovane comandante tedesca a fine giugno era entrata nel porto di Lampedusa nonostante il divieto della Guardia di Finanza. La terza sezione penale della Cassazione ha rigettato il ricorso della Procura, dando così ragione alla gip di Agrigento Alessandra Vella, che non aveva convalidato l’arresto di Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, che era stato contestato alla giovane donna. «Grande soddisfazione per un provvedimento coerente da un punto di vista istituzionale e giuridico», commenta l’avvocato Alessandro Gamberini, difensore di Rackete. «Ora«, aggiunge il legale, «sarà importante leggere le motivazioni, ma l’esito di oggi mi lascia ben sperare per il proseguio del procedimento».
Lu.Spa. per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2020. La Rackete risale a bordo. Ma, almeno per il momento, non torna nel Mediterraneo a prendere altri migranti. Forse si è un po' stufata. O forse, come suggerisce il suo legale, voleva solamente «un po' d' aria fresca». Fatto sta che la comandante è andata lontanissimo, addirittura in Antartide. «Carola», racconta l' avvocato Alessandro Gamberini, «è in Antartide con la nave di GreenPeace. È contenta della sentenza della Cassazione, ci ha ringraziato per il nostro lavoro difensivo. Quando saranno depositate le motivazioni cercheremo di utilizzarle difendendoci davanti alla Procura di Agrigento». Già, ma la domanda resta: cosa ci è andata a fare nel posto più freddo e inospitale della Terra? Spiega ancora il legale, intervenuto ai microfoni della trasmissione "L' Italia s' è desta", condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus: «Per fare una battuta non voleva stare al fresco, voleva aria fresca. Penso sia una scelta di vita, di interesse e di impegno. Chi la conosce sa bene che non ha avuto particolari problemi nella vicenda della Sea Watch, sarei rimasto più traumatizzato io». Gamberini si sofferma poi anche sulle vicende giudiziarie della sua assistita: «Dal punto di vista formale i procedimenti ancora aperti contro Carola sono due: favoreggiamento dell' immigrazione clandestina, destinato nella mia valutazione a chiudersi in tempi brevi, e resistenza a pubblico ufficiale». «La versione di Carola su questa vicenda», aggiunge, «è che lei stava entrando in porto molto lentamente, non aveva una telecamera laterale per vedere cosa le accadeva di lato, quando stava ormeggiando si è affacciata per verificare se poteva fare la manovra in sicurezza e quando si è accorta che c' era il naviglio della Guardia di Finanza, ha bloccato la manovra. Ma le navi hanno un moto inerziale quindi quel piccolo tocco fu inevitabile». E la querela nei confronti di Salvini? «Credo che a breve ci sarà il rinvio a giudizio. Dopo i post di Salvini che incitavano all' odio contro di lei ci sono stati episodi di minacce, verbali, scritte e anche fisiche, intemperanze di soggetti che l' avvicinavano e le facevano minacce».
Migranti, la Cassazione: «Rackete ha rispettato il dovere di soccorso». Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. Correttamente in base alle disposizioni sul «salvataggio in mare», la comandante della Sea Wacht Carola Rackete è entrata nel porto di Lampedusa perché «l’obbligo di prestare soccorso non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro» . Lo afferma la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi di conferma del «no» all’arresto di Rackete con l’accusa di aver forzato il blocco navale della motovedetta della Gdf per impedirle l’accesso al porto. Secondo gli ermellini legittimamente è stata esclusa la natura di nave da guerra della motovedetta perché al comando non c’era un ufficiale della Marina militare, come prescrivono le norme, ma un maresciallo delle Fiamme Gialle. Dunque Rackete ha agito in maniera «giustificata» dal rischio di pericolo per le vite dei migranti a bordo della sua nave.
Mauro Indelicato per il Giornale il 20 febbraio 2020. Il 17 gennaio scorso la Corte di Cassazione ha definito legittima la scarcerazione, operata dal Gip di Agrigento Alessandra Vella il 2 luglio 2019, di Carola Rackete. Nelle scorse ore sono state rese note le motivazioni che hanno portato la suprema Corte a dare ragione al giudice per le indagini preliminari ed a rigettare, contestualmente, il ricorso avanzato dalla procura di Agrigento. Il caso in questione, come si ricorderà, riguarda lo speronamento operato da Carola Rackete, in qualità di comandante della nave dell’Ong tedesca Sea Watch, nei confronti di una motovedetta della Guardia di Finanza all’ingresso del porto di Lampedusa. Era il 29 giugno 2019 e, dopo alcuni giorni in mare a seguito del divieto di ingresso decretato dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, la stessa Carola Rackete ha deciso di forzare fisicamente il blocco per entrare con la Sea Watch all’interno dello scalo portuale lampedusano. A bordo della nave vi erano alcuni migranti recuperati alcuni giorni prima nel Mediterraneo centrale. Una volta giunta sull’isola, la procura di Agrigento ha arrestato la ragazza tedesca trasferita poi poche ore dopo nella città siciliana per l’interrogatorio. Il resto della storia è stato prima accennato: il 2 luglio è arrivata la scarcerazione, considerata legittima dalla Cassazione. I giudici del “palazzaccio”, com’è possibile osservare dalle motivazioni depositate, hanno sposato la linea del Gip: “Carola Rackete – si legge nel documento della Cassazione – agì in adempimento del dovere di soccorso in mare e, correttamente, il gip di Agrigento non convalidò il suo arresto ritenendo configurabile questa causa di giustificazione che comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e fermo.” “Le convenzioni internazionali in tema di soccorso in mare – si legge ancora nel testo – e prima ancora l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in base all’articolo 10 della Costituzione, tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima, sono il parametro normativo che ha guidato il gip di Agrigento nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto di Rackete, in una situazione nella quale la causa di giustificazione era più che verosimilmente esistente”. Dunque, secondo la Cassazione, c’era una situazione di pericolo che ha giustificato il comportamento della capitana della nave dell’Ong e, per tal motivo, quest'ultima non andava arrestata. Il pericolo derivava, in particolare, dal fatto che i migranti non si trovavano in un luogo sicuro. In tal senso, i giudici della Cassazione hanno richiamato la convenzione di Amburgo, secondo cui “l'obbligo di prestare soccorso – si legge ancora nel documento – non si esaurisce nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro, e tale non può essere qualificata, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. Nelle motivazioni dei giudici poi, si fa riferimento allo status della motovedetta della finanza, la quale non poteva essere considerata come nave da guerra: "I mezzi della Guardia di finanza - si legge nel documento - sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra”. E questo perché, come c’è scritto nela sentenza della Cassazione, “per poter essere qualificata come nave da guerra, l'unità della Guardia di finanza deve altresì essere comandata da un ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell'apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il che nel caso in esame non è dimostrato”. Le motivazioni redatte dai giudici hanno già portato, come prevedibile, a numerose reazioni sotto il profilo politico. Tra queste, è da registrare anche quella proprio dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini: “Se è vero quello che leggo, che si può speronare una nave della guardia di Finanza con a bordo cinque militari della guardia di Finanza – ha dichiarato il segretario della Lega – è un principio pericolosissimo per l’Italia e per gli italiani”. Secondo Salvini, come si legge nelle dichiarazioni rilasciate subito dopo la diffusione delle motivazioni della Cassazione, “Un conto è soccorrere dei naufraghi in mare, che è un diritto o dovere per chiunque, un conto è giustificare un atto di guerra”. “Se io, in Germania – ha concluso l’ex ministro – speronassi una nave militare tedesca, penso che giustamente sarei messo in galera. Mi leggerò la sentenza: se così fosse, sarebbe un pericoloso precedente perché da domani chiunque si sentirebbe titolato a fare quello che non va fatto”.
Caso Rackete, poliziotta la attacca: “Carola è una zecca e terrorista”. Asia Angaroni il 21/02/2020 su Notizie.it. È una "lurida zecca di sinistra" che "cerca visibilità": così la poliziotta, vice ispettore alla questura di Grosseto, è intervenuta sul caso Rackete. Secondo la Corte di Cassazione, Carola Rackete ha agito “per necessità”. Nel caso specifico, “Carola ha operato in adempimento di un dovere, sancito dal diritto internazionale con rango di principio consuetudinario, direttamente recepito nel nostro ordinamento attraverso l’art. 10 della Costituzione”, ha tenuto a precisare Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch, che ha così commentato la sentenza della Cassazione. Sul caso Rackete ha aggiunto: “Il dovere di soccorrere chiunque si trovi in difficoltà in mare non si esaurisce nell’atto del soccorso, ma solo quando hanno trasferito le persone in un luogo sicuro, dove possano esercitare i propri diritti fondamentali”. E ancora: La Cassazione chiarisce che una nave non si qualifica come un luogo sicuro, dove si esaurisce l’onere di assistere i naufraghi. Le disposizioni del precedente Governo hanno violato questo assunto”. Infatti ha ricordato: “In questo momento, due navi umanitarie restano in attesa dell’indicazione di un porto, in balia di condizioni meteo avverse”. Contro la decisione della Corte di Cassazione, invece, è una poliziotta, vice ispettore alla questura di Grosseto, che sui social ha duramente attaccato la Rackete. Il suo post è stato poi rimosso, ma ad averlo ripreso e a servirsene contro l’attuale amministrazione comunale è un ex consigliere e avvocato grossetano.
Caso Rackete, gli insulti della poliziotta. “È inutile che vi sforziate di dare dignità a questa lurida zecca di sinistra per avere visibilità: è solo una terrorista che farà la fine che merita e voialtri siete una pletora di mummie, completamente decontestualizzate dalla vita reale, talmente adusi a spaccare il capello in 4 da dimenticare pure di che cosa state parlando”. Queste le parole usate su Facebook dalla poliziotta di Grosseto. Il post, pubblicato giovedì 20 febbraio, è stato successivamente rimosso. Ma il danno ormai è stato fatto: il messaggio non è passato inosservato, molte le critiche da parte di chi difende Carola Rackete. A scagliarsi contro la poliziotta è anche un ex consigliere comunale grossetano. Il post proseguiva con altri insulti rivolti alla capitana poche ore dopo la sentenza della Cassazione, che ha confermato il “no” all’arresto della Rackete. La poliziotta, tuttavia, non ha mai citato esplicitamente la capitana tedesca. Nel messaggio non mancano neppure gli attacchi ai giudici, ricordando che la nave “ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, cioè pubblici ufficiali, onesti e fedeli alle istituzioni. E gli ospiti sulla nave, non fuggivano da niente”.
La poliziotta contro la Rackete, la sinistra insorge: è bufera. La poliziotta successivamente si è scusata per le parole usate contro la Rackete ma ha confermato il suo giudizio negativo sulle Ong e sul loro operato. Gabriele Laganà, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. Carola Rackete ancora al centro di polemiche politiche e feroci attacchi. Questa volta la comandante della Sea Watch è finita nel mirino di una poliziotta, vice ispettore alla Questura di Grosseto, che l’avrebbe insultata pesantemente su Facebook. "È inutile che vi sforziate di dare dignità a questa lurida zecca di sinistra per avere visibilità: è solo una terrorista che farà la fine che merita e voialtri siete una pletora di mummie, completamente decontestualizzate dalla vita reale, talmente adusi a spaccare il capello in 4 da dimenticare pure di che cosa state parlando. Questa troia ha speronato una motovedetta della GDF, cioè pubblici ufficiali, onesti e fedeli alle istituzioni. E gli “ospiti” di questa povera stronza da un cazzo di niente. Coglioni”, è il duro e pesante messaggio postato ieri sul social, e poi rimosso, dall’agente per esprimere la sua rabbia nei confronti della giovane tedesca, mai citata per nome, e della sua condotta. Il commento, seppur sparito quasi subito da Facebook, è stato ripreso da un ex consigliere comunale e avvocato di Grosseto e poi, grazie a screenshot, ha fatto il giro del web. Sul caso è intervenuta la questura di Grosseto che ha garantito di essere impegnata a verificare l’effettiva "riferibilità al dipendente di questa Amministrazione. In caso di esito positivo, verranno presi tutti i provvedimenti del caso". La sinistra da sempre vicina alle Ong impegnate nei salvataggi di immigrati in mare è subito partita all’attacco. Per Nicola Fratoianni, esponente di Sinistra Italiana-Leu,"se sono state scritte come sembra da un'appartenente alla polizia di Stato della Questura di Grosseto non ci sono dubbi, anche perché la circolare del Capo della Polizia è netta e chiara: non può svolgere le delicate funzioni che la Repubblica affida ai tutori della legalità e delle leggi". "Non ci accontenteremo di parole di circostanza, vogliamo sapere – ha continuato l'esponente di Leu - quali provvedimenti verranno assunti nei confronti di una persona che non può certo rappresentare lo Stato e difendere i valori della nostra Costituzione". Poche ore dopo la poliziotta ha scritto un post di scuse per il linguaggio usato confermando però, di continuare "a pensare delle Ong quello che penso". Rispondendo a un commento, successivamente è apparso un altro post dell'agente: "Non mi ha obbligata nessuno. Giusto per la cronaca. Mi sono resa conto di avere usato un'espressione impropria che peraltro non mi è stata risparmiata né pubblicamente, da persone che non conosco, né in privato. Sono libera di pensare ciò che voglio sulle ong, che non sono enti istituzionali". Proprio ieri, la Cassazione ha depositato le motivazioni di conferma del 'no' all'arresto della comandante della Sea Watch ribadendo che Rackete "agì correttamente". Era il 29 giugno dello scorso anno quando, dopo alcuni giorni in mare a seguito del divieto di ingresso decretato dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, la Rackete decise di forzare fisicamente il blocco per entrare con la Sea Watch nel porto di Lampedusa. A bordo della nave vi erano alcuni migranti recuperati alcuni giorni prima nel Mediterraneo centrale. Una volta giunta sull’isola, la procura di Agrigento ha arrestato la ragazza tedesca. Il 2 luglio è arrivata la scarcerazione, considerata legittima dalla Cassazione.
Espulsi, restarono in Italia con il "placet" dei giudici: interviene la Cassazione. Nove irregolari erano finiti a processo per non aver lasciato il suolo nazionale dopo l'ordine di espulsione del procuratore generale. Il giudice di pace li assolse, ma adesso interviene la Suprema Corte: "La motivazione caratterizzata da assoluta astrattezza". Lavinia Greci, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Avevano ignorato l'ordine di espulsione emesso dal questore ed erano andati a processo. Ma in quella sede erano tutti stati assolti. Ma oggi, a distanza di circa un anno, tutto deve essere riesaminato perché nei giorni scorsi, i giudici della Cassazione hanno annullato proprio quelle nove sentenze di assoluzione, con la formula "perché il fatto non sussiste", emesse un anno fa dal giudice di pace di Milano, nei confronti di nove immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno e finiti a processo per aver disatteso l'ordine ricevuto. Cioè andarsene dal suolo nazionale.
La decisione della Suprema Corte. Secondo quanto riportato da Il Giorno, infatti, la Suprema Corte ha ribadito una linea giurisprudenziale già tracciata con precedenti pronunce, secondo le quali dovrebbero sussistere seri e provati impedimenti alla base del mancato rientro nel Paese d'origine, una volta emesso il decreto di espulsione. In base a quanto ricostruito dal quotidiano, infatti, come previsto dal Testo unico sull'immigrazione, le espulsioni dal territorio nazionale possono essere giudiziarie o amministrative e avvengono in due modalità.
Le modalità di espulsione. Il primo modo in cui si articola l'ordine di allontanamento dal suolo nazionale è tramite accompagnamento alla frontiera da parte delle forze dell'ordine: è disposto dal questore ed è convalidato dall'autorità giudiziaria entro le 48 ore. L'altro, invece, è possibile solo in caso di provvedimenti amministrativi: trattamento in un Cpr o, in alternativa, ordine di espulsione entro una settimana, con conseguenze penali in caso di inottemperanza e una multa variabile da 15mila e 30mila euro. E proprio in quest'ultimo caso, rientrerebbero tutti i nove procedimenti penali trattati dalla Cassazione.
I casi trattati dalla Cassazione. In base a quanto riportato dal quotidiano, tra l'11 gennaio e il 1° marzo del 2019, il giudice di pace aveva assolto nove irregolari che avevano appunto ignorato l'ordine del questore, rimanendo in Italia oltre il limite consentito dei sette giorni. "La mancanza di documenti e la situazione di emarginazione sociale dell'imputato fanno residuare il ragionevole dubbio che la mancata ottemperanza all'ordine possa essere dipesa da cause di forza maggiore", si leggeva.
Il ricorso del procuratore. Ma, in quella circostanza, il procuratore generale presso la Corte d'Appello aveva fatto ricorso contro tutti i verdetti, contestando che "nel processo l'imputato non ha indicato alcuna ragione alla base del suo inadempimento agli ordini di lasciare il territorio dello Stato nei sette giorni successivi alla notificazione di ciascun decreto dispositivo di tale ordine". Inoltre, come ricostruito anche dal quotidiano, le motivazioni elencate dal giudice di pace, ovvero la mancanza di documenti, l'emarginazione sociale e la conoscenza "virtuale" del processo, sarebbero "adattabili a qualsiasi caso e del tutto prive di un seppur minimo riferimento allo specifico oggetto del procedimento".
La conferma della Cassazione. La tesi esposta nel ricorso del procuratore generale è stata condivisa anche dai giudici di Cassazione, che scrivono: "La motivazione fondante la decisione assolutoria è caratterizzata da assoluta astrattezza e come tale è meramente apparente in quanto avulsa dalle risultanze processuali e genericamente riferibile a un numero indeterminato di comportamenti umani costituenti l'inadempimento sanzionato dalla norma incriminatrice in discussione".
Ecco i visori 3d per mettersi nei panni dei migranti. Il progetto prevede anche la realizzazione di laboratori di rielaborazione dell’esperienza vissuta virtualmente dai ragazzi a scuola, con la presenza di "testimoni diretti delle migrazioni umane". Roberto Vivaldelli, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Grazie alle tecnologie dei video a 360 gradi e all’utilizzo di visori speciali e di una app, i ragazzi si troveranno ad operare le scelte che si trovano a fare i migranti in viaggio. Come spiega La Verità si tratta dell'ultima trovata delle associazioni pro-immigrazione per educare i ragazzi a scuola all'accoglienza. Un progetto della Fondazione Cser (Centro studi emigrazione Roma) dei padri scalabriniani con il sostegno della Fondazione Migrantes e della Société de la Chapelle. Prende il nome di Il progetto "Ponte di Dialoghi" e nasce dalla volontà, spiega il centro studi, "di promuovere una cultura della conoscenza, accoglienza e convivenza nell’intento di diminuire le forme di discriminazione o xenofobia e sensibilizzare la cittadinanza, ed in particolare i giovani che rappresentano il presente ed il futuro di una società aperta e plurale, capace di garantire pari diritti, doveri e opportunità a tutti senza esclusioni di sorta. Il progetto è incentrato su una comprensione, prima di tutto, empatica e in secondo luogo cognitiva delle migrazioni". Inoltre, il progetto prevede anche la realizzazione di laboratori di rielaborazione dell’esperienza vissuta virtualmente dai ragazzi, con la presenza di "testimoni diretti delle migrazioni umane": esperti e migranti che in prima persona "racconteranno le proprie storie". È prevista una serie di pubblicazioni sulla storia delle immigrazioni nelle principali città italiane per aiutare i ragazzi a comprendere il vissuto del proprio territorio. “Ponte di dialoghi” è stato presentato il 14 gennaio, a Roma, e come riporta Romasette prenderà il via a marzo in una decina di scuole medie inferiori e superiori e durerà per tutto il 2020. Saranno coinvolti almeno mille studenti. Per ora sono disponibili quattro storie diverse, sintetizzate in 7 minuti, raccontate in immagini tridimensionali riprese da una telecamera GoPro posta sulla testa del protagonista principale. Chi indossa il visore Oculus Go avrà la sensazione di trovarsi veramente al posto di Carolina del Rwanda, di Namin della Guinea o degli altri migranti dal Congo e dall’Est Europa. I ragazzi a scuola ascolteranno le voci e urla delle carceri libiche, rischieranno di annegare in mare o di camminare a piedi attraverso deserti senza acqua da bere. E, soprattutto, saranno chiamati a fare delle scelte. "Speriamo di estendere l’iniziativa anche alle comunità di giovani italiani all’estero" ha spiegato padre Lorenzo Prencipe, responsabile del Cser. "Vogliamo unire la dimensione cognitiva con quella emozionale, per arginare quella che è stata definita la fine della compassione”. Naturalmente, il progetto non spiega il rovescio della medaglia e non aiuta ad analizzare il fenomeno delle migrazioni nel suo complesso. Né spiega quali possono essere le ripercussioni negative delle migrazioni se non controllate per quanto riguarda, ad esempio, l'ambito sociale o lavorativo. Cerca di far presa, esclusivamente, sul lato emotivo e sensoriale degli studenti. Si punta sullo strumento della compassione e dell'indignazione, che però rappresenta solo un aspetto delle migrazioni. Il Centro Studi Emigrazione, l'ente che promuove questo progetto dedicato alle scuole, è un’istituzione con finalità culturali promossa nel 1963 dalla Congregazione dei Missionari Scalabriniani, impegnata dal 1887 nell’assistenza religiosa e sociale degli emigrati italiani all’estero e, da alcuni decenni, nell'assistenza e promozione umana di tutti i migranti.
Spagna, il governo delle sinistre vuole nove milioni di immigrati. Sarebbero "necessari nei prossimi tre decenni per mantenere il livello del mercato del lavoro". La replica del leader di Vox, Santiago Abascal: "Arrivano da Paesi dove maltrattano e lapidano donne". Matteo Orlando, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. In Spagna un ministro del neo governo rosso-viola, guidato da Pedro Sanchez, ha chiesto di accogliere nei prossimi anni 8-9 milioni di immigrati. Secondo José Luis Escrivá Belmonte, il 59enne ministro per la Sicurezza sociale, inclusione e migranti, la Spagna deve attrarre "milioni e milioni di immigrati", lavoratori stranieri che sarebbero "necessari nei prossimi tre decenni per mantenere il livello del mercato del lavoro". Per Escrivá, in carica dal 13 gennaio, solo così si eviterà la "giapponesizzazione" dell’economia spagnola ma, ha aggiunto, "dovremo spiegarlo alla società". José Luis Escrivá, un economista indipendente indicato dal Psoe, uno dei partiti della coalizione di sinistra al governo - insieme a Podemos, al Partit dels Socialistes de Catalunya e alla sinistra radicale di Izquierda Unida - ha affrontato l’argomento nel corso di un forum ministeriale sulla migrazione e l'integrazione, curato dall’Ocse e tenutosi a Parigi, durante il quale ha incontrato governanti del Canada (la viceministro all'immigrazione Catrina Tapley), della Costa Rica (la viceministro al lavoro e alla previdenza sociale Natalia Álvarez), della Svezia (la ministro all'Occupazione Eva Nordmark) e la commissaria agli affari interni della commissione Von der Leyen, la svedese Ylva Johannsson. Secondo l’economista-ministro Escrivá, la Spagna non può permettersi l'accettazione passiva dell'invecchiamento demografico, come fatto dal Giappone, senza l'adozione di misure che aprano all'immigrazione o a politiche di promozione della nascita. Alla domanda se ciò non implica un rischio di squilibrio per il mercato del lavoro stesso, Escrivà ha risposto che dipende dall'orizzonte che verrà considerato. "Ciò che è necessaria è una prospettiva a medio termine e una pedagogia adeguata", mentre a breve termine la cosa più importante nella politica di immigrazione, secondo Escrivá, è "cooperare con i paesi di origine". Ad Escrivá, che ha lavorato a lungo presso la Banca di Spagna e, in Europa, da consulente, ha partecipato in prima persona al processo di integrazione monetaria (arrivando a ricoprire la carica di capo della divisione politica monetaria della Banca centrale europea), ha risposto immediatamente Santiago Abascal, il leader del partito di destra Vox. Su Twitter il quarantatreenne Abascal ha scritto: "mi chiedo quanto sia compatibile portare ‘milioni e milioni’ di immigrati da paesi in cui le donne vengono maltrattate e lapidate, con la sinistra che pontifica sugli spagnoli dicendo: se un uomo non riceve educazione femminista dall'infanzia è un potenziale stupratore". Il leader di Vox, che più volte ha spiegato di volere difendere il patrimonio cattolico spagnolo dal laicismo, era stato critico contro il governo Sanchez 2 già nel corso del suo intervento in occasione della sessione di investitura del nuovo governo. La preoccupazione di Abascal, ma anche di una parte dei vescovi cattolici, e del Partito Popolare di Pablo Casado Blanco, è legata alle probabili prossime aperture del governo delle sinistre spagnole a numerose modifiche che apriranno ulteriormente le maglie dell'aborto, del suicidio assistito e dell'eutanasia, della fecondazione artificiale e dell'adozione per le coppie dello stesso sesso e per i single, del riconoscimento dei diritti "umani" agli animali, e dell’accettazione integrale delle "agende" del femminismo radicale, dei gruppi Lgbtq+ (che premono per la diffusione dell'ideologia gender nelle scuole) e dei "potentati" che anche in Spagna condizionano l'economia.
Nuovo avviso di garanzia per l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Redazione de Il Riformista il 28 Dicembre 2019. L’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano è stato raggiunto da un nuovo avviso di garanzia in relazione al rilascio di documenti d’identità a immigrati ospiti nei centri di accoglienza del piccolo paese in Calabria. Lucano, che si è detto “amareggiato” per l’ennesima indagine della magistratura nei suoi riguardi, ha spiegato all’AdnKronos i dettagli della vicenda: “Mi sembra tutto così assurdo, mi viene contestato un reato che avrei commesso nel settembre 2016 – spiega Lucano – per aver fatto due carte di identità a una donna eritrea e a suo figlio di pochi mesi, che erano inseriti in un progetto di accoglienza al Cas a Riace“. L’ex sindaco artefice del cosiddetto ‘Modello Riace’ di integrazione ha precisato che “la Prefettura ci aveva chiesto l’inserimento per la madre e il bambino e noi avevamo detto di sì perché c’era la disponibilità“. In seguito, osserva Lucano, “fu fatta l’iscrizione al registro anagrafico e poi fu richiesta la carta d’identità perché il bambino aveva necessità di vedersi assegnato un pediatra“. La procura di Locri contesta all’ex primo cittadino il fatto che la carta d’identità sia stata rilasciata nonostante la donna e il bimbo “non avessero il permesso di soggiorno”. Lucano però non si tira indietro, anzi: “Io lo rifarei, la Costituzione prevede il diritto alla salute, il diritto alla salute è inviolabile e fondamentale“. “La carta d’identità era legata ad esigenze sanitarie – conclude Lucano – e per me è prioritario rispettare la dignità umana di un bambino di pochi mesi”. La prima indagine su Mimmo Lucano risale all’ottobre 2017, quando la procura di Locri gli contesta i reati di truffa aggravata, concussione e abuso d’ufficio in merito alla gestione del sistema dell’accoglienza. Il 2 ottobre 2018, a conclusione dell’operazione Xenia, viene messo agli arresti domiciliari con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. La misura viene revocata dal tribunale del Riesame che la ‘converte’ in divieto di dimora il 16 ottobre 2018, mentre a febbraio 2019 la Cassazione annulla il divieto di dimora, decisione che tuttavia verrà applicata dal tribunale di Locri solo a settembre.
Serena Pizzi per il Giornale il 28 dicembre 2019. E Mimmo Lucano finisce (ancora) nei guai. Già finito a processo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, all'ex sindaco di Riace è stato recapitato un nuovo avviso di garanzia. Il motivo? La falsificazione di alcuni documenti d'identità destinati agli immigrati ospiti nei progetti di accoglienza. La Procura di Locri, quindi, ha notificato all'ex primo cittadino di Riace un altro avviso di garanzia. A confermarlo all'Adnkronos è lo stesso Lucano che si dice "amareggiato" e spiega di averlo ricevuto nei giorni scorsi. "Mi sembra tutto così assurdo, mi viene contestato un reato che avrei commesso nel settembre 2016 - precisa Lucano - per aver fatto due carte di identità a una donna eritrea e a suo figlio di pochi mesi, che erano inseriti in un progetto di accoglienza al Cas a Riace". Secondo quanto riferisce l'ex sindaco, quindi, "la prefettura ci aveva chiesto l'inserimento per la madre e il bambino e noi avevamo detto di sì perché c'era la disponibilità". In seguito, continua a difendersi Lucano, "fu fatta l'iscrizione al registro anagrafico e poi fu richiesta la carta d'identità perché il bambino aveva necessità di vedersi assegnato un pediatra". L'ex primo cittadino spiega che gli viene contestato il fatto che la carta d'identità sia stata rilasciata nonostante la donna e il bimbo "non avessero il permesso di soggiorno". Ovviamente, questa è la versione dei fatti di Lucano. Ricordiamo, infatti, che il caro Mimmo si è sempre difeso e ha sempre rivendicato le sue azioni illecite e illegali per le quali è sotto processo. Per chi se lo fosse perso, Lucano è imputato nel processo scaturito dall'inchiesta Xenia, accusato insieme ad altre 25 persone di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa e abuso d’ufficio. Visto il suo passato poco brillante, ci si aspetta che l'ex sindaco di Riace abbia imparato la lezione e invece..."Io lo rifarei", dice Lucano difendendosi con un "la Costituzione prevede il diritto alla salute, il diritto alla salute è inviolabile e fondamentale". Sì, ma le leggi si rispettano pure Mimmo. "La carta d'identità era legata ad esigenze sanitarie - conclude Lucano - e per me è prioritario rispettare la dignità umana di un bambino di pochi mesi". Ora, le carte dimostreranno dove sta la verità. Intanto, sulla testa di Lucano è piombata un'altra tegola.
Processo Xenia, il teste chiave conferma: “Ingenti somme di denaro, ma non per l’accoglienza”. Rec News l'1/07/2020. Nell’aula del Tribunale di Locri il pm Michele Permunian ha sentito il colonnello della GdF Nicola Sportelli. Sotto la lente degli inquirenti sono finiti anche il frantoio e le case. Terminata la presunta emergenza, riprende il processo a carico di Mimmo Lucano e degli altri 25 imputati del sistema Riace. L’ex sindaco del borgo reggino nell’ambito del processo Xenia è imputato per i reati di associazione a delinquere, truffa, falso, concorso in corruzione, abuso d’ufficio e malversazione. Nell’aula del Tribunale di Locri ha deposto in qualità di teste chiave il colonnello Nicola Sportelli della Guardia di Finanza, una delle colonne portanti dell’accurata indagine durata 18 mesi. Il militare ha rilevato che “dalle indagini è emersa una distrazione di ingenti somme di denaro per fini diversi dall’accoglienza“, che tra gli altri hanno riguardato anche Lucano, la compagna Lemlem Tesfahun e il presidente di Città Futura Fernando Antonio Capone. Sotto la lente del pubblico ministero Michele Permunian è finita anche casa Lamberti, l’abitazione donata nel 2013 dai familiari di un giudice deceduto che avrebbe dovuto accogliere gli indigenti, ma che invece era stata regalata alla compagna di Lucano “non per le finalità del progetto”, rileva il colonnello Sportelli. Il lavoro degli investigatori è inoltre concentrato sul frantoio di oltre 300mila euro di valore che Città Futura ha acquistato dal marito di Chiara Sasso (Recosol, Il Fatto Quotidiano) e sulle case in teoria indirizzate ai migranti ma in realtà utilizzate per fini personali da giornalisti (strenuamente impegnati in campagne difensive) volti noti dello spettacolo, amici di Lucano, attivisti. Tutte cose che abbiamo ampiamente documentato Il processo riprenderà, salvo cambi di programma, il 6 luglio.
Bechis, iI vero sequestro del migranti della Gregoretti è quello perpetrato da Conte e il Pd. Libero Quotidiano il 6 Gennaio 2020. Per giorni è andata in onda la sceneggiata di Matteo Renzi e dei suoi fedelissimi: "Sul caso della nave Gregoretti leggeremo le carte e decideremo solo dopo averle lette", hanno sciorinato in continuazione. Ancora sabato sera a Stasera Italia il capogruppo di Italia Viva in Senato, Davide Faraone, recitava la medesima litania. Non sapeva il poveretto che in contemporanea il suo collega Ettore Rosato diceva che Italia viva aveva ormai deciso per l'autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, perché il caso è identico a quello della nave Diciotti, su cui tutti loro avevano votato si (all' epoca dalle fila del Pd). Lo scrive Franco Bechis nel suo editoriale sul Tempo in edicola lunedì sei gennaio. La sceneggiata, prosegue il direttore del Tempo, ha avuto fine con una intervista dello stesso Renzi in cui ha ufficializzato l' intenzione di votare si alla richiesta avanzata dal tribunale dei ministri, ammettendo per altro di non avere ancora «letto le carte". Da che nasce l'accusa di sequestro di persona? Dal fatto - scrive il tribunale dei ministri - che i migranti non avevano "libertà di locomozione". Ma se fossero sbarcati subito, l' avrebbero avuta? Questo è davvero il punto più fragile dell'accusa perché non avrebbero affatto avuto quella libertà. Sarebbero finiti come poi è accaduto all' hotspot di Pozzallo dove per lungo tempo sarebbero stati alcuni (i malati di scabbia e uno di tubercolosi) in quarantena, gli altri in una sorta di detenzione sia durante le proce dure di identificazione che nell' attesa del riconoscimento eventuale dello status di rifugiato, del rimpatrio o della destinazione in altri paesi. Come sarebbe stato quel soggiorno? Esattamente come poi è stato, cosa di cui non frega a nessuno. Gli stessi che ora voteranno si all' autorizzazione a procedere sostenendo che Salvini è un sequestratore di migranti sia pure per 4 giorni, hanno tenuto gli stessi in prigione di sicuro per 40 giorni, ma probabilmente per molto più tempo sequestrandoli anche loro. Ecco, forse dovrebbero guardarsi un po' allo specchio...
I migranti della Gregoretti rimasti per mesi all'interno dell'hotspot di Pozzallo. I migranti a bordo della nave Gregoretti sono rimasti per cinque mesi in gran parte all'interno dell'hotspot di Pozzallo. E le condizioni della struttura siciliana non sono state descritte come edificanti: eppure il caso è passato sotto traccia. Mauro Indelicato, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Il prossimo 20 gennaio all’interno dei locali che ospitano la giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato si consumerà uno dei passaggi politici più delicati degli ultimi mesi. In particolare, i senatori verranno chiamati a dare il via libera o meno ai giudici per procedere nei confronti dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Il caso, come si sa, riguarda la nave Gregoretti e, in particolare, la permanenza a bordo di essa di 115 migranti dal 27 al 31 luglio scorso. In quel momento al Viminale sedeva per l’appunto Matteo Salvini, il quale ha vietato lo sbarco dei migranti che in quei giorni si trovavano sulla nave della Guardia Costiera, ormeggiata presso il porto siciliano di Augusta. L’accusa per Salvini riguarda il sequestro di persona e l’abuso di potere. Secondo la procura di Catania l’attuale segretario leghista andava prosciolto, non è stato dello stesso avviso il competente tribunale dei ministri etneo. Da qui la richiesta al Senato di togliere l’immunità a Salvini ed andare avanti con il procedimento. La questione adesso è, per l’appunto, solo politica. Il caso è molto simile, anzi a dir la verità del tutto uguale, a quello che ha riguardato nell’agosto 2018 la nave Diciotti. In quell’occasione il tribunale dei ministri di Catania ha chiesto di procedere sempre contro Salvini, tuttavia nel marzo scorso la giunta per le immunità del Senato ha votato contro tale richiesta. Ma in quel momento vi era in parlamento un’altra maggioranza rispetto a quella attuale: Salvini era ministro dell’interno del governo Conte I, sostenuto da Lega e Movimento Cinque Stelle. Oggi l’esecutivo, retto sempre da Giuseppe Conte, è formato da Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico. E se i grillini a marzo hanno salvato Salvini dal procedimento, oggi invece appaiono intenzionati a votare a favore della richiesta del tribunale dei ministri. La maggioranza giallorossa dovrebbe votare interamente contro il segretario leghista. Tuttavia, ed è questo uno dei dati politici più interessanti, per motivazioni estremamente diverse. Secondo Pd ed Italia Viva, il caso Gregoretti è analogo a quello Diciotti e dunque i senatori che hanno votato Sì nel marzo scorso, esprimeranno lo stesso parere il prossimo 20 gennaio. Per i grillini invece, i due casi sono diversi e dunque dopo aver votato No a marzo, in giunta nella prossima riunione voteranno Sì. Una scelta, quella del Movimento Cinque Stelle, che sembra in realtà maggiormente figlia dei mutamenti politici accaduti negli ultimi mesi. È interessante comunque notare come la maggioranza che sostiene l’attuale governo, pur essendo prossima ad esprimere lo stesso voto, ha pareri completamente opposti su una questione di non poco conto. Perché, come detto, Pd e renziani sono convinti che i casi Gregoretti e Diciotti presentino importanti peculiarità, il Movimento Cinque Stelle al contrario crede che i contesti e le situazioni siano diverse. Fin qui il discorso di natura politica. C’è poi un altro dettaglio, passato in sordina, che riguarda nel merito le accuse rivolte a Matteo Salvini. Come detto, l’ex ministro dell’interno è accusato di aver sequestrato i migranti a bordo della Gregoretti. Questo perché nessuno dei 115 all’interno della nave della Guardia Costiera in quei 5 giorni aveva “libertà di locomozione”. Se è vera questa circostanza per gli episodi che vanno dal 27 luglio al 31 luglio, perché allora soprassedere su quanto poi accaduto successivamente? È infatti emerso come i migranti approdati poi dalla Gregoretti, siano rimasti per diversi mesi all’interno dell’hotpost di Pozzallo. L’aereo che li ha portati in Germania, nell'ambito dei programmi di redistribuzione, è decollato soltanto nello scorso mese di dicembre. A conti fatti, sono cinque mesi di permanenza non certo dorata per i migranti. Lo si evince ad esempio da un reportage condotto dall’Asgi, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, pubblicato lo scorso 6 settembre nell’ambito del progetto In Limine. Uno studio condotto sul centro di Pozzallo, ha portato alla seguente conclusione: “Nell’hotspot di Pozzallo sono presenti al momento circa 300 persone arrivate in periodi e con sbarchi differenti – si legge nel testo – 67 della nave della Guardia Costiera Gregoretti, 70 della nave Open Arms, decine di nordafricani giunti a Lampedusa e i 70 della nave Eleonore della ONG Lifeline arrivati lunedì scorso”. Dunque, c’erano alcuni migranti provenienti dalla Gregoretti, gli stessi la cui permanenza per cinque giorni all’interno della nave sta costando una richiesta per procedere contro Salvini. Per il successivo mese di agosto, ecco le condizioni in cui hanno versato proprio i migranti sbarcati dalla nave: “La condizione all’interno della struttura sovraffollata è privativa e disagevole – viene riportato nel reportage dell’Asgi – i migranti raccontano che non ci sono posti letto per tutti e sono costretti a dormire per terra e in promiscuità, i bagni sono insufficienti, le condizioni igieniche sono critiche”. “Una condizione gravissima – conclude lo studio – che emerge dai loro racconti riguarda la sorveglianza delle persone: rilevanti sono le misure di sequestro dei telefoni, oltre che le pressioni che gli operatori e i sorveglianti del centro hanno esercitato su di loro, ammonendoli di non avere comunicazioni con persone esterne e minacciandoli, in caso contrario, di punirli”. In poche parole, sulla terraferma a Pozzallo i migranti della Gregoretti non hanno avuto una sorte migliore rispetto a quanto da loro vissuto a bordo della nave. Anzi, dal racconto sono emerse condizioni peggiori. Come detto, i migranti sono poi partiti a dicembre: se da settembre fino all’ultimo mese dello scorso anno la situazione non ha subito miglioramenti, per cinque mesi queste persone hanno vissuto in un contesto poco edificante. Eppure oggi gli approfondimenti politici riguardano soltanto i cinque giorni in cui la nave Gregoretti è rimasta ormeggiata ad Augusta.
· Quelli…che Porti Chiusi.
La sinistra peggio di Salvini, nega il diritto di asilo e se ne vanta. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 6 Agosto 2020. Il cittadino italiano sa bene di vivere in un Paese in cui l’apparato statale è strutturalmente inefficiente ma che soprattutto è, da sempre, molto duro, e talvolta violento, con i soggetti deboli, mentre è accondiscendente con i poteri forti. In primo luogo è molto accondiscendente con se stesso: omissioni, reticenze, menzogne, coperture di ogni tipo hanno sempre caratterizzato la storia difficile della nostra Repubblica. In ogni stato democratico non bisognerebbe avere il timore di ammettere e rimediare agli errori ma ciò mai è stato fatto per i fatti di sangue impuniti che hanno coinvolto, direttamente o indirettamente, apparati dello Stato, delle sue forze armate e della sua polizia. Colpisce dunque vedere che, per una volta, una clamorosa illegalità non sia dissimulata o negata, ma venga addirittura rivendicata: è una pessima novità che avviene nel 2020, governo di centro sinistra, e riguarda la violenta vicenda dei respingimenti dei migranti alla frontiera orientale terrestre del Friuli Venezia Giulia di cui ho scritto sul Riformista del 27 giugno. Quei respingimenti illegali continuano senza posa (coinvolgendo finora centinaia di rifugiati provenienti da alcune delle peggiori aree di crisi del mondo come l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria) ma nella lugubre vicenda si è recentemente inserita una novità alquanto particolare: rispondendo ad una interrogazione urgente dell’on. Riccardo Magi, in data 26 luglio, il Governo ha dato risposte di eccezionale gravità perché profondamente contrastanti con principi di diritto interno ed europeo in tema di libertà e diritti umani fondamentali. In particolare il Governo ha dichiarato che le riammissioni dall’Italia alla Slovenia a carico dei cittadini stranieri si attuano «anche qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere protezione internazionale». Una affermazione sconcertante perché riconosce che viene impedito di fatto alle persone di presentare domanda di asilo in Italia e che le stesse vengono respinte alla frontiera violando le norme interne e il diritto dell’Unione Europea, in special modo il Regolamento Dublino III il quale statuisce che gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Che il Regolamento sia logoro e incapace di regolare alcunché e che vada urgentemente cambiato è fatto noto a tutti, ma finché sarà vigente e non sarà sostituto da un altro Regolamento più efficiente nonché rispettoso dei diritti delle persone, gli Stati hanno l’obbligo di rispettare le normative dell’Unione e non possono farne carta straccia. Metto in guardia il lettore da non pensare che ciò di cui stiamo parlando sia una riammissione tra Italia e Slovenia di richiedenti asilo attraverso una applicazione errata (ma almeno un’applicazione la cui validità sarebbe sindacabile in giudizio) del citato Regolamento Dublino. Nulla di tutto ciò, ma qualcosa di molto diverso e perverso che viene illustrato nella lettera aperta che ASGI ha inviato al Governo italiano e all’UNHCR, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, il 4 agosto (lettera aperta che segue quella del 5 giugno, rimasta senza risposta): lo straniero entra in Italia, viene fermato, identificato e anche denunciato per il reato di ingresso irregolare, viene (forse) persino informato della possibilità di chiedere asilo. Ma se decide di chiedere asilo non succede nulla; nessuna registrazione di tale domanda e nessuna conseguente procedura. La persona viene prelevata con la forza caricata su furgoni in dotazione alla Polizia di Stato e riconsegnata alla polizia slovena in modo “informale”, ovvero senza alcun provvedimento che la persona abbia in mano che motivi, in fatto in diritto, questa riammissione (o forse dovremmo più correttamente chiamarla deportazione non avvenendo in esecuzione di alcun provvedimento?). La polizia slovena non riammette un richiedente asilo che dovrebbe trattare come tale bensì riprende solo un migrante irregolare; nel fulmineo passaggio tra Italia e Slovenia il potenziale richiedente asilo non è più tale, non lo è mai stato e nulla documenterà il suo vano tentativo se non la sua voce di soggetto debole, privo di diritti e che da lì a poco sarà spedito a suon di botte fuori dall’Unione Europea tramite una catena di respingimenti tra Slovenia, Croazia e Bosnia documentata da tutti i rapporti internazionali. Tutti i passaggi tra i diversi Paesi coinvolti hanno le medesime caratteristiche: impossibilità di chiedere asilo e riammissioni senza alcun provvedimento (ovvero senza lasciare traccia). Ma oltre che a Berlino forse esiste un giudice anche a Lubiana e l’esistenza della pratica dei respingimenti a catena è stata recentemente riconosciuta dal Tribunale Amministrativo Sloveno che il 16 luglio ha sancito l’illegittimità della riammissione dalla Slovenia alla Croazia e poi dalla Croazia alla Bosnia di un richiedente asilo. Il giudice sloveno ha stabilito che la polizia non ha informato l’interessato del suo diritto a presentare domanda di protezione internazionale, in chiara violazione del diritto nazionale e dell’Ue, mentre la riammissione ha anche violato il divieto di espulsione collettiva perché al richiedente non è stato notificato un ordine di allontanamento, né gli è stata fornita l’assistenza legale e linguistica prima della sua riammissione in Croazia. Per quanto riguarda il respingimento a catena, la sentenza ha riconosciuto l’esistenza di «rapporti sufficientemente affidabili sui possibili rischi dal punto di vista dell’articolo 3 della Cedu» sia in Croazia, dove il richiedente è stato inizialmente allontanato, sia in Bosnia-Erzegovina, dove è stato successivamente respinto. Nella lettera aperta al Governo italiano ASGI chiede di porre fine con immediatezza alle prassi che permettono le riammissioni illegittime alla frontiera italo slovena e di rispettare il diritto d’asilo degli stranieri che si presentano alla frontiera attuando il vigente diritto europeo. All’Unhcr nella sua qualità di agenzia delle Nazioni unite che dovrebbe vigilare sul rispetto del diritto d’asilo, ASGI chiede di attuare un monitoraggio diretto della frontiera terrestre che finora non c’è stato e di assumere un’aperta posizione pubblica sulla nota del Governo italiano poiché l’opinione pubblica, le istituzioni e le associazioni hanno il diritto di conoscere la posizione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati su fatti così gravi che si svolgono non in Libia o in altri paesi in guerra, ma niente meno che nel territorio dell’Unione europea. Cosa spinge l’attuale governo italiano di centro sinistra a macchiarsi di tanto fango al confine orientale terrestre di Trieste? Non certo una situazione di emergenza (che pure, non giustificando le riammissioni, permetterebbe almeno di comprendere meglio gli eventi) poiché gli arrivi dei migranti al confine terrestre sono stati meno di 10mila nel 2019 e nei primi mesi del 2020 sono stati persino inferiori a quelli dello stesso periodo del 2019 con numeri contenuti e assolutamente gestibili (poche centinaia di persone al mese). In questa storia opaca Salvini, che a nord est aveva tanto urlato ma con poco esito, non c’entra nulla e neppure può essere invocata (seppure priva di alcun fondamento etico) la difficoltà di uscire da una situazione preesistente e compromessa come quella libica. I respingimenti dei richiedenti asilo oggetto di questa breve analisi sono dunque una decisione nuova elaborata ed assunta dal Governo di centro sinistra in carica; una decisione che l’illumina l’esistenza di una ideologia politica (lascio ai sociologici stabilire se auto prodotta o mutuata da altri) che si basa sullo sprezzo del Diritto e sulla indifferenza verso i diritti fondamentali di quei soggetti deboli verso i quali si è da sempre feroci e violenti quando e quanto si vuole. Per tutte queste ragioni considero ciò che sta avvenendo con i respingimenti dei richiedenti asilo al confine terrestre la più grave vicenda politica che investe la sinistra italiana (tuttora silente) e che illumina ciò che rimane della sua identità.
Il silenzio ipocrita dei buonisti se è la sinistra a non accogliere. La Ocean Viking al largo da 7 giorni. Non accolta la richiesta di sbarco. E sulla home page di Repubblica poco risalto alla notizia. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 02/07/2020 su Il Giornale. Facciamo così. Torniamo un po’ indietro nel tempo al 18 marzo dell’anno scorso. Ricordate? A Palazzo Chigi c’era sempre Giuseppe Conte, ma al suo fianco troneggiavano Gigino di Maio e Matteo Salvini. Il leghista occupava lo scranno più alto del Viminale e combatteva la sua battaglia contro gli sbarchi di migranti e le Ong. Il caso Diciotti, i decreti sicurezza, la sfida alle navi solidali. Non passava giorno che non si parlasse di porti chiusi e porti aperti, della disumanità di chi non vuol soccorrere gli stranieri, dei “sequestri” in mare e via dicendo. Quel giorno la Mare Jonio aveva salvato 49 migranti davanti alla Libia, poi aveva puntato verso l’Italia e chiesto un porto sicuro a Roma nonostante l’alt di Salvini. La mattina dopo Repubblica apriva il quotidiano con un titolo a caratteri cubitali, solo tre parole: “Aprite i porti”. All’interno i servizi degli inviati sulla nave e un commento di Concita De Gregorio su “la legge del mare”. Tutto molto strappalacrime. Ora torniamo al tempo presente, tra giugno e luglio 2020, quando centinaia di migranti prendono il largo dalle coste libiche. Stavolta ad intercettarli sono gli umanitari della Ocean Viking, nave di Sos Méditerranée. Il primo soccorso risale a una settimana fa quando vengono salvati 117 migranti. Poi se ne aggiungono altri fino ad arrivare a 180. La nave chiede subito un porto, ma resta in stand by per sei lunghi giorni. “Oggi li faranno sbarcare”, dicono tutti. Invece giorno dopo giorno non accade nulla: zero novità. “Abbiamo inviato cinque richieste alle autorità marittime italiane e maltesi: finora non abbiamo ricevuto risposte tranne due, negative”, denuncia il direttore operativo di Sos Méditerranée, Frédéric Penard. I naufraghi sono “in condizioni precarie”, alcuni minacciano il suicidio. Due di loro si sono buttati in mare. “Questo è ciò che accade quando si ritarda a lungo lo sbarco di persone estremamente vulnerabili”, scrive l’Ong su Twitter. La tensione è alle stelle. “I sopravvissuti mostrano segni di agitazione, depressione, affaticamento mentale estremo. Il disagio psicologico causato dal loro trauma in Libia e dalla situazione attuale è insostenibile. Devono sbarcare subito”. Un dramma di portata colossale. Ci sono insomma tutte le parole chiave per aprire la polemica dell’estate contro il governo brutto e cattivo che lascia nel limbo una nave carica di immigrati disperati. #restiamoumani #aprirelefrontiere #portiaperti. Si prevedono barchette di parlamentari pronti a salire a bordo in solidarietà con i disperati. Sono certe denunce a destra e sinistra contro l’esecutivo che non apre i porti. La bufera politica contro il Viminale appare scontata. E invece no. Agli Interni infatti oggi c’è Luciana Lamorgese, che da tempo promette di cambiare i decreti Sicurezza senza ancora aver trovato la quadra per riuscirci davvero. Lei fa parte dei “buoni”, quindi non le si può mica imputare la cattiveria leghista di voler tenere chiusi i porti. Come non detto. Zitti e mosca. Almeno - direte - Repubblica farà come allora, quando gettò fiumi di inchiostro per l’enorme appello “aprite i porti”. Un bel titolone nell'edizione online. In fondo le due vicende si somigliano, e forse questa odierna appare addirittura più grave. E invece no. La notizia viene gestita da Rep come una notiziola di cronaca qualsiasi (questi 180 migranti valgono meno di quelli della Mare Jonio di un anno fa?). Dopo poche ore dall’appello di Ocean Viking, il pezzo si fa fatica a trovare nella home page del sito, prima nascosto in un piccolo riquadro e poi fatto scomparire tra le news italiane diverse scrollate in giù. Si vede che “la legge del mare” nel frattempo è cambiata. E ora i buoni possono lasciare al largo i migranti, senza essere per questo tacciati di becero razzismo. Buono a sapersi. Ma fate attenzione: questo non si chiama opportunismo politico. È soltanto pura ipocrisia.
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2020. Non solo prende a schiaffi un migrante, ignaro che un cellulare filmi tutto, ma un ispettore di polizia costringe un ragazzo maghrebino del centro accoglienza di Favara a mollare una sberla dietro l’altra a un giovane disperato come lui perché impari... ad essere uomo. Testuali le parole energiche di questo massiccio ispettore con i capelli grigi, già denunciato in Procura e in servizio in uno dei reparti mobili schierati in provincia di Agrigento: «Sei un ospite e devi rispettare la legge, fai l’uomo».
La «lezione». Con un malinteso senso dell’educazione a tutti i costi, in una miscela di alterato galateo da vecchio nonnismo, il video denuncia l’arroganza di un ispettore che, all’interno del Centro di contrada Ciavolotta, non viene fermato da quattro colleghi in divisa mentre assesta il primo potente ceffone invitando il ragazzo che gli sta accanto a fare altrettanto contro il suo compagno. E quello sbalordito non capisce. Scatta la traduzione di un altro migrante. Ma il giovane non vorrebbe colpire nessuno. Pressato dall’ispettore che gli grida fissandolo negli occhi, infine il ragazzo accenna, un po’ spaventato, una manata leggera, innocua, quasi chiedendo scusa con lo sguardo al suo amico.
L’inchiesta della Procura. No, l’ispettore, un siciliano da vent’anni nella città dei Templi, non si lascia prendere in giro. E scatta un altro suo vigoroso manrovescio che colpisce lo sventurato a guancia e orecchio. La «lezione» va avanti così per un minuto in un video scoperto prima dalla Adnkronos, poi finito nelle mani di una sociologa da anni impegnata ad Agrigento sul fronte dell’emigrazione, Giorgia Butera, presidente della Mete onlus, l’associazione che fa parte dell’Unar e che ha presentato la denuncia in questura ad Agrigento. Con immediato intervento della Procura diretta da Luigi Patronaggio che procede con l’accusa di abuso dei mezzi di correzione e che ha affidato tutto alla sostituta Cecilia Bavarelli, adesso impegnata negli interrogatori dei testimoni.
I provvedimenti del questore. Un fatto è certo. Per alcuni minuti gli ospiti della comunità di Favara sono stati costretti a schiaffeggiarsi a vicenda. Un modo, sembra, per punire chi avrebbe tentato una fuga. Come spesso capita in questi centri di accoglienza dove la questura diretta da Rossella Iraci è impegnata con ben altri metodi. E infatti è durissima la reazione del questore nei confronti dell’ispettore: «È una persona di cui ci vergogniamo e che non rende onore alla polizia di Stato. Non ci sono parole per descrivere quello che abbiamo provato». Avviata la procedura interna: «Stiamo adottando rigorosi provvedimenti disciplinari. Intanto, l’ispettore è stato rimosso dall’incarico. Forzatamente a riposo, ma lontano dai migranti. L’iter disciplinare ha i suoi tempi, ma noi non ci giriamo dall’altra parte. Agiremo in maniera pesante perché queste scene non possono essere nemmeno immaginate, né consentite. Vedremo anche se e quanto sono responsabili le altre persone presenti e che forse nulla hanno fatto davanti a questa manifestazione di impensabile e stupido nonnismo. Sì, saremo molto rigorosi, d’intesa con il Dipartimento pubblica sicurezza al cui vertice sta il capo della polizia».
La «mamma» dei migranti. La rabbia della dottoressa Iraci è legata al rischio di vedere annullare l’impegno continuo di «una questura premiata proprio per la materia dell’accoglienza con la medaglia d’argento al valore civile. Con riconoscimenti continui. Compresa la storia di Maria Volpe...». E il riferimento corre a un’altra ispettrice per tanti anni responsabile dell’ufficio minori, insignita dal presidente della Repubblica Mattarella con l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana perché considerata «una mamma» da tanti sfortunati ragazzi approdati a Lampedusa e Porto Empedocle
Schiaffi nel centro accoglienza. Rimosso il poliziotto-sceriffo. Nel video l'agente è con due tunisini che avevano tentato la fuga. Il questore: "Una persona che non ci rende onore". Tiziana Paolocci, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Ha preso a schiaffi un migrante per punirlo di essere fuggito dal centro di accoglienza di Favara e ha costretto un altro a imitarlo per dar loro una lezione. Ma quel comportamento è costato caro a un agente della questura di Agrigento, che con una punta di nonnismo nei giorni scorsi ha umiliato i due immigranti. Ieri, infatti, è stato identificato e rimosso dal suo incarico. Non presterà più servizio nel Centro di contrada Ciavolotta, dove si sono svolti i fatti, mostrati in un video girato di nascosto da un ospite della struttura, con il telefonino. Le immagini, diventate virali, hanno fatto scattare l'inchiesta del pubblico ministero Cecilia Baravelli che, ipotizzando il reato di abuso dei mezzi di correzione, ha chiesto e ottenuto dal gip Alessandra Vella un incidente probatorio per acquisire la testimonianza di 5 tunisini, presenti al fattaccio. Verranno ascoltati mercoledì dallo stesso gip, dal pm e dal difensore del poliziotto indagato, l'avvocato Daniela Posante. Il questore di Agrigento, Rosa Maria Iraci, invece ha già trasmesso gli atti alla procura e avviato un procedimento disciplinare a carico del poliziotto. L'episodio risale ai primi di giugno. I due migranti, di cui uno minorenne, giunti in Sicilia, erano stati posti in quarantena con gli altri come misura anti-contagio, ma avevano provato a fuggire. Fermati poco dopo erano stati riportati indietro. Nell'imbarazzante filmato si vede l'ispettore dai capelli grigi che agisce indisturbato nel Centro di contrada Ciavolotta, davanti agli occhi di quattro colleghi, che restano a guardare senza intervenite. L'uomo urla ai due stranieri di schiaffeggiarsi, mostrando loro come si fa con due potenti sberle. «Tu qui sei l'ospite e devi rispettare la legge, adesso devi dare uno schiaffo a lui. Così glielo devi dare. Fai l'uomo!», urla con fare da sceriffo a uno dei due, che non capisce o finge di non capire. Ma un altro migrante traduce, incalzato dal poliziotto. A quel punto il tunisino non ha scuse: costretto rifila un ceffone al connazionale. La «lezione» per l'agente che non finisce qui. Alcuni testimoni hanno raccontato - ma nel video non si vede - che il poliziotto a quel punto costringe entrambi i fuggitivi a inginocchiarsi e prendersi a ceffoni, fino a quando il più giovane si mette a piangere. Il filmato, scoperto dalla Adnkronos, è finito nelle mani di una sociologa da anni impegnata sul fronte dell'emigrazione, Giorgia Butera, presidente della Mete onlus che nei giorni scorsi ha sporto denuncia in questura ad Agrigento. Dura la reazione del questore Rosa Maria Iraci. «Stiamo adottando rigorosi provvedimenti disciplinari - ha detto -. È una persona di cui ci vergogniamo e che non ci rende onore. Intanto, l'ispettore è stato rimosso. Forzatamente a riposo, ma lontano dai migranti. L'iter disciplinare ha i suoi tempi, ma noi non ci giriamo dall'altra parte». Anche il console tunisino Jalel Ben Belgacem, a stretto contatto con la questura, segue la vicenda.
Nel 2019 sono state 91 le espulsioni per la sicurezza dello Stato. I provvedimenti ordinati dal ministero dell’Interno sono calati rispetto al 2018, quando erano stati 126. Maurizio Tortorella il 3 gennaio 2020 su Panorama. Il 2019 si è chiuso con un totale di 91 espulsioni dall’Italia per motivi di sicurezza dello Stato. Gli ultimi due allontanati sono entrambi stranieri: Mohamed Bendafi, un marocchino 24enne residente a Torino; e il 19enne bengalese Jounayed Ahmed, residente a Padova. Le indagini su Bendafi compiute dal Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri di Torino, hanno appurato che l’uomo era impegnato nella diffusione online di video di propaganda jihadista, e alla ricerca anche diforeign fighters. Su Bendafi i carabinieri avevano cominciato a indagare con l’operazione antiterrorismo “JBook Primo” dell’aprile 2017. L’ultimo espulso del 2019 è stato invece l’imam salafita e insegnante di religione Jounayed Ahmed, attivo presso l’associazione culturale islamica “Bangladesh Cultural Center” di Padova. Su di lui la Digos della città aveva avviato indagini specifiche dopo aver ricevuto segnalazioni nelle quali Jounayed veniva accusato di umiliare, minacciare e perfino picchiare i bambini che frequentavano i suoi corsi di religione islamica. Il 14 novembre scorso Bendafi e Jounayed erano stati fermati e sottoposti alla misura cautelare dell’obbligo di dimora. Il dato complessivo del 2019, 91 espulsioni, segna un netto calo rispetto al 2018, quando le espulsioni erano state 126, il record assoluto degli ultimi anni. Nel 2017 i casi erano stati 105, scesi poi a 66 nel 2016, e ancora 66 erano state le espulsioni decise dal ministero dell’Interno nel 2015. Nei cinque anni compresi tra il 1°gennaio 2015 e il 31 dicembre 2019, le espulsioni per motivi di sicurezza dello Stato sono state in tutto 454.
Immigrazione, Monsignor Mario Delpini: "Basta assistenzialismo con gli stranieri". Renato Farina su Libero Quotidiano il 29 Gennaio 2020. Arci-miracolo a Milano, visto che c' è di mezzo l' arcivescovo della Madonnina, l'innovazione al vecchio titolo del film di De Sica ci sta tutta. Al Pirellone, sede del Consiglio regionale, si aspettavano tutti, da monsignor Mario Delpini, una tirata alla Savonarola, una bastonatura al popolo ricco e ai suoi rappresentanti, com'è ormai costume dei pastori di grandi città europee ed italiane. Non è andata così. Non è stato neppure - sia chiaro - il ricamo elegante e colto di un adulatore. Tutt' altro. Si è usciti tutti come irrobustiti dalla voglia di fare, aprendo gli occhi dinanzi ad un' eredità che va riconquistata. Il titolo della lectio magistralis del dotto prelato è stato: «Elogio dell' umanesimo lombardo». Esso esige di essere all'erta. Ascoltarlo, per chi c' era, è stato come immergersi nelle acque sorgive così lombarde o nei laghi prealpini. Retorica asciutta, quotidiana e alta. Le sorgenti antiche dei padri sono state riproposte misteriosamente fresche e sempre nuove. La tensione operosa e «capace di stupore» dell'«identità lombarda» (ha pronunciato questa formula senza schifarla quasi fosse lessico sovranista) può sfidare senza esasperazione i problemi di oggi: che sono quelli che state pensando tutti. Non sono un'immaginazione dei preti. Riguardano la famiglia nella sua sostanza tradizionale, e nei suoi bisogni di casa, lavoro, educazione, meno tasse, occhio ai giovani.
CATTOLICESIMO LOMBARDO. Interessantissime, esposte con piglio originale e non colpevolizzante, le indicazioni date sull' immigrazione. Con un afflato ambrosiano, pratico, senza radicalismi che spaccano la gente in due partiti: i buoni e i cattivi. Invece: «Buon senso», che è il prodotto sapienziale del cattolicesimo lombardo, fatto proprio anche dagli spiriti laici e socialisti. Delpini ha fatto vibrare l' aula con questa descrizione della Lombardia: «Quando lo sguardo e il pensiero percorre il territorio della Regione, ne resta incantato, per la sua bellezza, per la varietà del paesaggio, per la entusiasmante ricchezza delle attività, per l' indole dei suoi abitanti, operosi, ingegnosi, inclini alla solidarietà e all' intraprendenza, con una radicata fiducia nella provvidenza di Dio e una imprevedibile capacità di stupore, sotto un cielo così bello quando è bello. La laboriosità creativa della nostra gente si è resa famosa per l' eccellenza dei suoi prodotti. Possiamo esserne fieri». La fierezza non chiama alla superbia, ma alla responsabilità e alla condivisione: «Non possiamo però ignorare il pericolo che la ricchezza comporta: diventa oggetto di un desiderio avido di possesso, diventa un idolo al quale sacrificare i principi dell' onestà, della legalità, dei valori dell' umanesimo lombardo». Occorre vigilanza per non consentire al cancro della corruzione di insediarsi nella società e nella politica. Qualche capitolo.
Famiglia. «Da tempo si chiede che la politica consideri la famiglia un bene irrinunciabile per la società e ne promuova la serenità, che si favoriscano anche fiscalmente le famiglie che generano figli, che la questione della casa, delle case popolari in particolare, sia adeguatamente affrontata».
Lavoro: «Occorre stimolare la politica nazionale, immaginando soluzioni regionali che, insieme a imprenditori, organizzazioni sindacali e associazioni, sappiano provocare quel salto di qualità che tante famiglie e tanti disoccupati o male occupati si attendono». Non astratto centralismo, ma concreto regionalismo comunitario, sussidiarietà, autonomia.
Immigrazione: «Dobbiamo liberarci dalla logica del puro pronto soccorso; dobbiamo andare oltre le pratiche assistenzialistiche mortificanti per chi le offre e per chi le riceve, anche oltre una interpretazione che intenda "integrazione" come "omologazione" (alla francese, ndr). Si tratta di dare volto, voce e parola alla convivialità delle differenze, passando dalla logica del misconoscimento alla profezia del riconoscimento. Siamo chiamati a guardare con fiducia alla possibilità di dare volto a una società plurale in cui i tratti identitari delle culture contribuiscano a un umanesimo inedito e promettente; siamo chiamati mostrare come le nostre tradizioni, la nostra identità lombarda e ambrosiana è così ricca di valori e dimensioni da dar vita a riedizioni inedite e inaspettate delle nostre radici».
CULTURA DEL LAVORO. Marchiamo questi concetti: non più pronto soccorso, basta assistenzialismo, ma integrazione che in Lombardia vuol dire cultura del lavoro. Identità nelle differenze. Come il risotto, scrisse Guido Piovene, dove i chicchi sono mantecati, uniti e però distinti. Integrati all' onda nel brodo lombardo. Con la solita umiltà, che giunse persino a individuare nel suo nome di battesimo, Mario, il segno della propria piccolezza, l' Arcivescovo si pone come «profeta minore», e si paragona non a Isaia o Elia, ma ritiene al massimo di immedesimarsi in un Carneade biblico, lo sconosciuto Aggeo terza fila della schiera biblica, che disse al popolo deluso e scoraggiato una meravigliosa sillaba esortativa: «Su!». Ecco Delpini mettersi su questa scia di semplicità: «Io mi permetto di rivolgermi a questa assemblea e al popolo di Lombardia con le sue stesse parole: "Su, ora coraggio, popolo tutto del paese, e al lavoro, perché Io sono con voi... il mio Spirito sarà con voi, non temete!". Quel patrimonio di valori, di stili di vita, di tratti caratteristici che ho chiamato umanesimo lombardo è un patrimonio di cui siamo riconoscenti, non nostalgici, è una risorsa per cui possiamo essere fiduciosi, non orgogliosi, è una responsabilità che impegna a servire e a condividere». Sul libro d' onore della Regione, che compie 50 anni, ha scritto: «Sono lombardo, figlio di lombardi, fiero dell' umanesimo lombardo e perciò umile, riconoscente, animato da senso di responsabilità, perché ho molto ricevuto da ogni cultura». Bello, c' è molto del cardinal Borromeo. Molto del Duomo di Milano. Che punta in alto con la guglia della Madonnina d' oro. Ma che non ha la verticalità radicale del gotico nord-europeo. La facciata è più larga che alta, unicità assoluta e milanese, le statue sono 3.600, senza confusione, senza "pastrugni", ognuno al suo lavoro.Renato Farina
Le mamme che girano il Senegal per dire ai giovani quanto è pericoloso il Mediterraneo. Madame Diouf ha perso il figlio in mare. Da allora ha iniziato la sua battaglia, creando un’associazione di donne che va su e giù per il Paese a raccontare ai ragazzi la verità sui viaggi verso l’Europa. Luigi Spinola e Costanza Spocci su L'Espresso il 27 dicembre 2019. Munita di pennarelli colorati, Yayi Bayam Diouf traccia i contorni dell’Europa e dell’Africa sulla lavagna, mentre gli occhi dei bambini seguono attenti i suoi movimenti. «Chi di voi mi sa dire dov’è il Mediterraneo?», chiede. Un bambino alza la mano: «Il Mediterraneo è il posto in cui è seppellito mio padre». Diouf è la fondatrice del Collettivo delle donne senegalesi contro l’emigrazione irregolare e sta facendo il giro delle scuole elementari della periferia di Dakar per parlare di emigrazione. «Quel bambino ha ragione», ci dice dopo la sua lezione, «eppure un tempo il Mediterraneo era un ponte tra noi e voi. Ora ci dicono “no, non muovetevi, restate lì”, così per andare in Europa, i ragazzi devono imboccare le vie più pericolose». Da Thiaroye, cittadina storica senegalese affacciata sul mare alla periferia di Dakar, negli ultimi anni sono partiti centinaia di ragazzi in cerca di fortuna. Sono quasi tutti scomparsi in mare: alcuni di loro sulla rotta per Lampedusa, dopo aver preso la via del deserto fino alla Libia, altri nell’Oceano, a largo delle Canarie. Nel 2005, in piena “crisi delle piroghe”, anche Yayi Bayam Diouf ha perso il suo unico figlio mentre cercava di raggiungere la Spagna. Dopo la tragedia, ha deciso di dedicare la sua vita a informare i ragazzi sui rischi che corrono nel partire. È andata casa per casa a tirare fuori dalle quattro mura le altri madri in lutto e le ha convinte a unirsi, per provare a fermare la strage dei ragazzi. La risposta della comunità all’inizio è stata faticosa. «Alcune donne mi hanno detto di no, perché non avevano l’autorizzazione del marito», dice. Così Diouf per cambiare le cose ha iniziato cambiando sé stessa. Nata in una comunità di pescatori, Madame non si è più accontentata di raccogliere il pesce che cade dai cesti del pescato sulla spiaggia, come fanno le altre donne. A 57 anni, è diventata la prima pescatrice di Thiaroye-sur-Mer. «Dovevo dimostrare che una donna può fare tutto e guadagnarsi da vivere da sola, non ci sono lavori riservati agli uomini», spiega Diouf. Da allora è salita di molto nella gerarchia sociale, fino a diventare la vice-presidente del Consiglio degli Uomini di Thiaroye. Quando le altre donne hanno visto che essere indipendenti era possibile, hanno creato con lei il Centro di formazione professionale delle donne e dei giovani di Thiaroye. Quando le ragazze arrivano al Centro, Madame le organizza in unità di lavoro. «Il male va eliminato alla radice», dice convinta, guidandoci nelle stanze di uno scalcinato edificio di due piani, che ospita anche il quartier generale del Collettivo delle donne contro l’emigrazione irregolare. All’entrata del Centro c’è un patio e a fianco uno sportello, dove due maman prendono appuntamenti al telefono, sfogliano carte e accolgono i ragazzi che vengono a chiedere informazioni su come emigrare regolarmente. Nella stanza accanto, dietro la porta, si apre uno spazio con diversi scaffali. A colorarli ci sono tante saponette in fila, quadrate e tutte rigorosamente “bio”. «Sono fatte con olio di baobab ed essenze di frutta e piante», spiega Madame Diouf. Qui le donne fanno la trasformazione del sapone, altre lo commerciano. Una rampa di scala conduce ai laboratori di sartoria, con macchine Singer e stoffe. Accanto c’è la cucina, dove attorno a un tavolo ritroviamo otto ragazze con il cappello da chef, tutte intente a impastare e sfornare biscotti. Hanno tra i diciassette e i diciotto anni, ognuna di loro ha una storia di maltrattamenti alle spalle. Tutte sembrano molto fiere delle teglie che hanno sotto gli occhi. «Vogliamo rimanere qui a Thiaroye e aprire una pasticceria», raccontano timidamente, una completando la frase dell’altra. Dopo essersi conosciute al centro di formazione, le ragazze hanno deciso di mettersi insieme per aprire una micro-impresa di produzione e vendita di biscotti. «Stiamo raccogliendo i soldi per questo», dicono. Il loro laboratorio fa parte di un piano più ampio, che mira a integrare le donne nella vita economica di Thiaroye. Madame Diouf recupera le ragazze andando dalle madri che le tengono chiuse in casa. «Volete che vostra figlia abbia una formazione che l’aiuti a trovare un lavoro?», chiede ogni volta. Al Centro si impara gratis, e lì le maman del Collettivo aiutano le ragazze a organizzarsi per diventare economicamente indipendenti. «Se porta i soldi a casa, la famiglia terrà la figlia con sé più a lungo, non la darà in sposa da ragazzina», spiega Madame. E non la spingerà a rischiare la vita prendendo la via del mare o quella del deserto, fino alla Libia, dove spesso alle ragazze è riservata una sorte perfino peggiore di quella che attende i ragazzi. Ragazze e ragazzi qui sono al centro di un programma di prevenzione della migrazione irregolare, coordinato da un migrante di ritorno dall’Italia. La sua esperienza aiuta, spiega Madame. «Diciamo ai ragazzi di non prendere rischi inutili, perché adesso come adesso in Italia, come in altri posti in Europa, di lavoro ce n’è poco», spiega in un perfetto italiano Moustafa Gueye. Mediatore del progetto “Ponti”, finanziato da Roma ai tempi del governo Gentiloni, ogni tanto Gueye lavora anche come maestro al Centro. «Il progetto Ponti ha lanciato un bando di concorso per piccole startup. I candidati sono perlopiù ragazzi dai diciotto ai trent’anni, ma il programma è aperto anche alle donne fino a cinquanta anni e ai migranti di ritorno», spiega Moustafa Gueye. «La prima tappa è stata la formazione per la gestione d’impresa e l’educazione finanziaria. Poi ciascuno di loro ha fatto un business plan, necessario per farsi accettare il progetto. A quel punto arriva il finanziamento e l’accompagnamento della nuova impresa». Tra gli imprenditori in erba c’è di tutto: avicoltori e apicoltori, sarti e ristoratori. Progetti di questo tipo sono fondamentali, spiega Moustafa Gueye, per chi pensa a partire, ma anche per chi è tornato e non sa se restare. «È difficile rientrare a casa dopo tanto tempo, non ci sono molti sbocchi in Senegal». Lui è tornato tre anni fa, dopo averne passati quindici a Milano. In Italia aveva trovato un buon lavoro in un’azienda di guarnizioni auto, lo avevano raggiunto anche i figli, poi le cose sono andate male. «Dopo la crisi del 2007-2008 abbiamo dovuto chiudere, sono rimasto con tre anni di mobilità e cassa integrazione. Alla fine mi sono detto che a 55 anni passati sarebbe stato difficile trovare un altro lavoro». Moustafa non sarebbe comunque rimasto in Italia per sempre. Come quasi tutti i migranti, ha sempre avuto in testa il ritorno a casa, ma anche per lui è stata dura, fino a quando ha incontrato la signora Diouf. Moustafa Gueye segue con partecipazione i primi passi delle piccole nuove aziende, senza nascondere la sua preoccupazione: «Sono molto fragili, se non vengono sostenute rischiano di morire sul nascere». Il progetto pilota “Ponti”, con il leitmotiv “creazione di imprese per combattere l’immigrazione irregolare” era stato concepito per essere riprodotto e moltiplicato. Ma non ci sono altri bandi in programmazione. E se si spegne la speranza di farcela a casa, la voglia di riprendere la via per l’Europa torna a salire. Thiaroye è soprattutto un villaggio di pescatori, ma negli ultimi anni per pescare bene, e guadagnarci, bisogna spingersi sempre più lontano. A volte i pescatori non tornano e vengono inghiottiti dai flutti, a volte si dotano di un motore e si danno al ben più redditizio lavoro del passeur, traghettando uomini e donne all’altro capo dell’Oceano. Madame Diouf è riuscita a farsi ascoltare anche da loro. «Ho contattato i trafficanti, ci ho parlato, e alcuni di loro oggi sono con me nelle campagne di sensibilizzazione», racconta. «Uno sta a Rufisque, un villaggio qui vicino, costruiva lui stesso le piroghe e faceva partire i giovani. Era qui con noi proprio ieri, sta finendo la sua formazione in educazione finanziaria». La spiaggia di Thiaroye è larga e quasi attaccata a un gruppo di case. Decine di bambini corrono da una parte all’altra. Alcuni giocano a calcio dribblando dei copertoni semi-sepolti dalla sabbia, altri si nascondono nelle grandi piroghe di legno spiaggiate. I ragazzi più grandi stanno seduti in silenzio sulle panchine rivolte verso il mare. Sono isolati uno dall’altro, ognuno raccolto nella sua bolla. Il figlio di Madame Diouf, come tanti altri, è partito da qui. Oggi forse lo avrebbero convinto a restare. «Non possiamo fermare il mare con le braccia, ma le partenze sono diminuite», dice Madame. «Sulla spiaggia ora ci sono dei comitati di sorveglianza che provano a persuadere i ragazzi a non partire». Non è la polizia, sono piccoli gruppi di anziani, donne, giovani e alcuni vecchi pescatori. «Siamo come in famiglia, parliamo e tutto si risolve all’interno della comunità. Non abbiamo bisogno della polizia». Ma ci sono ancora madri e padri che finanziano i viaggi, e ragazzi che partono per conto loro, senza ascoltare nessuno, concede Madame Diouf. «Dobbiamo continuare a combattere, è una lotta senza confini e un lavoro molto difficile, perché bisogna sempre parlare e trovare alternative per dimostrare che si può restare qui e lavorare con dignità».
· Le “altre Lampedusa”.
Le “altre Lampedusa” fuori dal Mediterraneo. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo il 14 settembre 2020 su Inside Over. In continuo aumento e con numeri sempre più allarmanti: sono i dati del fenomeno migratorio che, in questa prima parte del 2020, ha toccato cifre record in Italia. Sono 20.624 i migranti giunti fino ad ora sulle coste italiane attraverso i viaggi della speranza che hanno come base di partenza l’Africa. Metà di questi viaggi hanno avuto come meta di arrivo Lampedusa, piccola isola siciliana della provincia di Agrigento che, più di tutti gli altri territori italiani, ha subìto gli effetti di un fenomeno sfuggito in qualche modo dal controllo del governo. Sbarchi continui che non hanno lasciato tregua agli abitanti ma nemmeno al locale centro di accoglienza che si è trovato ad accogliere un numero di ospiti in gran lunga superiore rispetto allo spazio disponibile. Su 195 posti a disposizione, l’hotspot di contrada Imbriacola ha accolto stranieri in diverse centinaia arrivando anche, in alcune occasioni, a più di mille persone. Una situazione resa ancor più difficile dall’emergenza sanitaria caratterizzata dal coronavirus e dai casi di positività che si sono diffusi a macchia d’olio tra gli stessi immigrati ammassati dentro l’hotspot. L’isola maggiore delle Pelagie è divenuta quindi il simbolo in Italia degli effetti devastanti del fenomeno migratorio. Guardando oltre il Mediterraneo, a favorire ai migranti l’ingresso in Europa attraverso altre “porte” vi sono due arcipelaghi: le Canarie e le Mayotte.
Un’altra Lampedusa in Spagna: le Canarie. Le Canarie sono un arcipelago spagnolo che, per la sua posizione vicino il continente africano, rappresenta una porta d’ingresso in Europa ai paesi posti nell’area nord-occidentale dell’Africa: Senegal, Gambia e Mauritania. Non solo quella del Mediterraneo, ma anche quella atlantica rappresenta la rotta seguita dalle organizzazioni criminali che organizzano i viaggi della speranza di migliaia di disperati. Anche qui, si registrano numeri allarmanti che denotano il vertiginoso incremento degli arrivi rispetto agli anni precedenti. Il ministero dell’Interno spagnolo ha reso noto che in questa prima parte del 2020 v’è stato un aumento del 520% degli arrivi dei migranti sulle isole che formano l’arcipelago rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Libia e Marocco quindi non sono più le uniche basi di partenza dall’Africa ma, assieme a loro, anche Senegal, Gambia e Mauritania sono divenute dei punti strategici. Qui le organizzazione di criminali che gestiscono il traffico di migranti sta divenendo sempre più radicato. E, come accade per altre zone del continente africano in cui hanno inizio i viaggi della speranza che seguono la rotta del Mediterraneo, anche in questo caso non mancano le morti durante le traversate in mare. L’Oim (L’Organizzazione internazionale per le migrazioni), ha parlato di un numero di decessi di gran lunga superiore sia rispetto al 2019 che al 2018. Dal primo gennaio al 19 agosto di quest’anno, i migranti che hanno perso la vita sono stati 239.
Quell’insospettabile porta d’Europa nel cuore dell’Oceano Indiano. Non tutte le colonie tra gli anni ’60 e ’70 hanno optato per l’indipendenza. Ad esempio, quando l’arcipelago delle Comore nel 1974 ha voluto staccarsi da Parigi, la popolazione di due isole vicine ha preferito invece rimanere con la Francia. Grande Terre e Petit Terre hanno così costituito la regione d’oltremare francese delle Mayotte, che dunque amministrativamente fanno parte a tutti gli effetti del territorio della République. Questo piccolo arcipelago costituisce un pezzo di Francia e quindi d’Europa nel cuore del canale del Mozambico, a metà strada tra l’Africa e il Madagascar. Quando il fenomeno migratorio ha iniziato a prendere piede, questo dettaglio si è rivelato fondamentale per spiegare i flussi che interessano Mayotte. Chi approda qui arriva a tutti gli effetti in Europa. I porti di queste due isole sono diventati improvvisamente delle porte per il territorio comunitario, nonostante le migliaia di chilometri di distanza dal vecchio continente. Dalle vicine Comore ogni anno arrivano in centinaia, così come dal Mozambico o dal Madagascar. Tutti sono attratti non tanto dalle condizioni di vita nell’arcipelago, quanto dalla possibilità di accedere in territorio francese, con tutti i vantaggi annessi. Perché anche se il continente è lontano, valgono anche qui le convenzioni, i trattati e le leggi applicate in tutti i Paesi dell’Ue. È possibile quindi far domanda d’asilo, trascorrere diversi mesi in attesa dell’esito e magari nel frattempo provare a prendere un volo interno per Parigi. Sono molto più complicate le espulsioni verso i Paesi di origine, circostanza quest’ultima che negli anni ha attratto un gran numero di migranti anche dal corno d’Africa. Se il Mediterraneo è etichettato come la tomba per molte persone che hanno provato a raggiungere Lampedusa, l’Oceano Indiano non è da meno: una stima delle autorità francesi ha calcolato almeno settemila morti tra i migranti nel periodo compreso tra il 1995 e il 2015. Negli anni successivi la situazione non è affatto migliorata, nel 2018 contro l’immigrazione clandestina la popolazione ha anche organizzato proteste durante una visita ufficiale del presidente Macron.
Le incognite per l’Europa. Quanto accade tra le Canarie e le Mayotte è la dimostrazione che il problema migratorio per l’Europa non riguarda soltanto il Mediterraneo. Le porte di accesso al vecchio continente si trovano non soltanto dinnanzi le nostre coste o quelle elleniche, ma anche a migliaia di chilometri di distanza dal mare nostrum. Una circostanza che dovrebbe imporre maggiori cautele nell’approccio ai delicati problemi che coinvolgono il fenomeno migratorio. Sottovalutare l’esistenza di altre Lampedusa tra l’Atlantico e l’Oceano Indiano, vorrebbe significare non avere una visione organica della situazione. L’Europa, un po’ per l’eredità storica di alcuni Paesi membri e un po’ per le contingenze venutesi a creare in diverse parti del continente africano, ha più punti vulnerabili sotto il profilo migratorio. E di questo non può non tenerne conto.
Come Spagna e Francia fronteggiano il problema. C’è poi un paradosso che coinvolge i Paesi direttamente toccati dalle rotte extra mediterranee. Quando si tratta di affrontare l’immigrazione nel mare nostrum, spesso sono emersi toni favorevoli all’accoglienza e a volte di critica all’Italia, specie durante l’era del braccio di ferro tra il Viminale e le Ong nel precedente governo. Al contrario, quando l’immigrazione è un fattore che riguarda territori lontani il contesto sembra variare. Se Emmanuel Macron infatti è stato spesso tra i fautori di politiche volte all’accoglienza in Europa dei migranti giunti in territorio italiano, nell’arcipelago di Mayotte il presidente francese ha mostrato una linea molto più dura. Addirittura anche il famigerato Ius Soli è stato ritoccato esclusivamente per la regione d’oltremare di Mayotte al fine di interrompere il flusso migratorio. Molte donne, come descritto da Insideover, dalle Comore andavano a partorire nelle Mayotte proprio per far nascere figli con cittadinanza francese. Adesso la situazione è cambiata e soltanto coloro che nascono da almeno un genitore presente nell’arcipelago regolarmente da tre mesi può essere francese. La Spagna, dal canto suo, sta pensando anch’essa a regole più ferree per evitare un massiccio esodo di migranti verso le Canarie, sulla scia di quanto già stabilito per le enclavi di Ceuta e Melilla. In poche parole, l’accoglienza è spesso predicata solo per chi arriva in Italia tramite le rotte mediterranee. Lontani dai riflettori del continente la situazione cambia radicalmente.
L'incendio nel campo profughi. Moria era già morta ancora prima di morire. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 12 Settembre 2020. Tredici mila rifugiati, più di un decimo degli 86.000 abitanti dell’isola di Lesbo. 13.000 disperati, stretti corpo a corpo in un’immensa favelas puzzolente, in lotta per l’acqua, il cibo, l’aria, uno contro l’altro a rubarsi il sonno. Il campo profughi di Moria, terra greca in faccia alla Turchia, poteva solo essere immaginato dalla mente perversa di un pittore che da tempo avesse superato i confini della follia. Era reale, con le tende afflosciate dal dolore, le capanne di lamiera traforate dai miasmi della vita in fuga, le baracche divorate dalla delusione, dalle promesse tradite. Tutti lo sapevano che era una cisterna colma di un carburante marcio, pronto a infiammarsi. Tanti lo prevedevano, lo avevano previsto lanciando allarmi che come sempre hanno trovato dall’altro lato un guardiano in sonno, attonito, sorpreso dall’atteso. Un custode greco che è il sostituto imposto di un’Europa che è perennemente in arrivo con qualche alta carica istituzionale per rammendare lo sbrego e giurare ravvedimenti per il futuro. C’è da giurarci, il vice presidente della commissione europea, Margaritis Schinas, atteso da un momento all’altro, arriverà tra un attimo o in quello successivo, pronuncerà impegni solenni e dopo, dopo porterà di nuovo a letto l’Europa, che si farà risvegliare dalle sirene di un prossimo incendio, di una nuova tragedia, prevedibili come tutti quelli del passato. Sono per lo più afghani, gli sfollati di Moria, sono fuori dal campo senza più nulla delle pochissime cose che avevano, sono stati bloccati lungo la strada che porta a Mytilene, un camion a un capo e un altro al capo opposto, rinchiusi sull’asfalto, per non farli entrare nei paesi vicini, per non essere messi in contatto con una popolazione locale che diventa sempre più ostile, non per razzismo o egoismo, per paura, impotenza, rabbia. La vita a Moria è sempre stata complicata, l’accertamento di alcuni casi di infezione da covid19 l’aveva resa impossibile, tensioni e paure interne, misure rese restrittive fino a diventare insopportabili. Sono gli stessi rifugiati a essere sospettati degli incendi, e il campo distrutto non deve essere ricostruito, secondo Skai Stratos Kytelis, sindaco di Mytilene e portavoce della comunità dell’isola. Gli abitanti non ci stanno più, non vogliono che l’isola paghi il prezzo di un compromesso tra la Turchia e l’Europa, perché Moria è nata in virtù di questo, accontentare Erdogan, alleggerendogli il carico. Salvo poi abbandonare il fardello agli isolani, che per tanto tempo hanno accolto, aiutato. Moria non era e non poteva essere più un affare di Lesbo, della solidarietà, dei volontari. Doveva essere affrontata come un’incombente questione umanitaria. Che riguarda, e continuerà a farlo, l’Europa, che arriva ora a distribuire acqua e pacchetti alimentari sull’autostrada per Mytilene, la casa che sostituisce le stamberghe di Moria: l’addiaccio al posto dell’addiaccio, mitigato dalla promessa di portare in Germania o in Olanda qualche centinaio di minori, dall’arrivo di navi rifugio. Moria muore e non ne nasce una speranza, per quanto orribile fosse era più accogliente del bitume che veste la terra e fa da materasso a un’agonia che prosegue, si aggrava col propagarsi del Covid19 che abbranca anime indifese, braccia tese a elemosina qualcosa da bere, uno straccio da mettersi addosso. Moria era già morta prima di morire, il fuoco ne ha attestato l’estinzione, e l’Europa che arriva sulla strada per Mytilene, viene per porgere le condoglianze.
Il rogo nel campo profughi di Moria. Lesbo in fiamme, l’Ue chiude tutto per coprire la vergogna del rogo dei diritti. Giulio Cavalli su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Troppo facile chiamarlo inferno. Così si rende tutto troppo lontano, metafisico, come se fosse segnato da un inevitabile destino e invece il campo di Moria, l’hotspot greco più grande d’Europa, è il risultato di disfunzioni politiche, di un enorme buco nero che l’Europa cavalca per (non) governare l’immigrazione ed è la fotografia dei diritti umani di cui l’occidente si riempie la bocca, che stanno nei protocolli o negli accordi internazionali e che poi diventano carta straccia da rinchiudere in qualche buco. Il campo di Moria, che dovrebbe contenere al massimo 3.000 migranti e che invece oggi ne conta quasi 13.000 è il sacchetto dell’umido di quello che siamo diventati, è la discarica dei nostri errori e dei nostri orrori. E ieri sono arrivate anche le fiamme. Immagini impressionanti che vengono rilanciate in tutto il mondo in cui si vedono le baracche, i container, le tende e quelle poche cose che stavano per terra bruciare sotto fiamme altissime. Il segretario generale dell’accoglienza dei richiedenti asilo del ministero delle politiche migratorie, Manos Logothetis, appena giunto a Lesbo ha dichiarato all’Agenzia di stampa Atene-Macedonia (Ana): «Il disastro di Moria è totale. Per ordine del Ministro delle politiche migratorie e dell’asilo, vado sull’isola per valutare la situazione. Dobbiamo vedere in collaborazione con tutte le istituzioni quali soluzioni possiamo fornire per l’ospitalità temporanea e di lunga durata dei residenti. È una priorità assoluta per tutti». I migranti si sono riversati per strada, migliaia di persone che hanno perso tutto, di nuovo, che vengono colpiti dai gas lacrimogeni della polizia che tenta di bloccarli, un inferno scrivono molti giornali, un inferno raccontano molti inviati. Qualcuno corre a specificare che le fiamme sarebbero state appiccate dai migranti stessi, incendi dolosi, dicono, per protestare contro il lockdown. E allora riprendiamo il filo di questa storia, per bene, dall’inizio. Moria è una zona franca stipata da gente che arriva da tutto il mondo, Moria è uno spazio in cui non esistono strutture: le cosiddette abitazioni sono ammassi di tende, stoffe rattoppate e pali secchi. Ognuno si arrangia come può e con quel che può: perfino gli stracci sono merce preziosa che viene rubata dalle tende. Moria è quel posto dove la coda per la colazione e per il pranzo e per la cena dura almeno due ore, 6 ore in coda al giorno per mangiare e poi ci sono anche due ore di fila per andare in bagno. Oppure c’è il secchio, per tutti. Il fiume che costeggia il campo è pieno di rifiuti e liquami, una discarica a cielo aperto che costeggia il campo e che inonda di odore tutta la zona circostante. Bisogna raccontarlo per bene il campo di Moria, bisogna raccontare quel bus solo per i migranti che porta al centro di Mytilene e che costa un euro. Nessun biglietto, nessuna ricevuta, il bus dei negri è un affare che si gestisce fuori dalle regole, dividendo a ognuno la sua parte. Poi ci sono le irruzioni delle squadracce fasciste, quelle che nei mesi scorsi sono entrate nel campo a seminare un po’ di violenza che loro chiamano giustizia. Ci si è indignati giusto per qualche giorno poi la notizia è scomparsa, tutto passato. E si arriva ai mesi maledetti del Coronavirus: ci si aspetta che una pandemia che pascola lì dove non esiste distanziamento sociale smuova le coscienze, ci si aspetta che qualcuno sia sfiorato dal pensiero che un campo con ammassate migliaia di persone sia un focolaio pronto a esplodere e invece la soluzione presa si riduce alla scelta più facile: chiudere tutto, anzi, rinchiudere tutti. Siamo a marzo: la prigionia a cielo aperto diventa istituzionalizzata per decreto e chi se ne fotte della malattia. Così il 2 settembre si registra il primo caso di Coronavirus, si muovono le associazioni umanitarie e le istituzioni europee, si prova a far notare che avrebbe potuto essere una strage ma la reazione è sempre la stessa: tutti chiusi, dicono le istituzioni greche, l’uomo verrà sottoposto a quarantena. Come si possa immaginare una quarantena in un luogo in cui mancano i diritti essenziali è un mistero che questa Europa insiste nel proporci. L’8 settembre i casi accertati infatti sono già 35 ma all’intento del campo la sensazione è che siano molti di più e che manchino anche i controlli sanitari. “Chiudere tutto” sperando che il problema si dissolva è la fotografia della miopia politica che impera. Qualcuno all’interno del campo prova a protestare, le associazioni umanitarie che lavorano a Moria tentano di fare sentire la propria voce ma del più grande campo profughi d’Europa sembra che abbiano voglia di parlarne in pochi. E così si arriva agli incendi di ieri, alle urla, alla fuga, alla disperazione e ancora una volta alla politica che rincorre un’emergenza che ha radici profonde che si è voluto continuare a sottovalutare. Lo chiamano inferno ma Moria ha mandanti morali che sono chiari a tutti. L’inferno è una punizione del destino, Moria invece ha una storia lunga alle spalle che bisogna solo avere voglia di leggere.
· Le Colpe in Libia.
Pietro Senaldi per ''Libero Quotidiano'' il 22 dicembre 2020. I nostri diciotto pescatori di Mazzara del Vallo sono finalmente tornati a casa. Hanno passato oltre 100 giorni in condizioni al limite dell' umano nelle carceri libiche del generale Haftar. Gli sgherri del regime li avevano fatti prigionieri mentre navigavano al largo della Cirenaica. Secondo l' Italia, quando sono state fermate, le imbarcazioni tricolori si trovavano in acque internazionali. Secondo Bengasi no, perché la Libia, fin dal tempo di Gheddafi, ha esteso i propri confini fino a duecento miglia al largo delle coste. Sta di fatto che il dittatore nordafricano se li è tenuti, caricandoli anche dell' improbabile accusa di traffico di stupefacenti, e ha ricattato il nostro Paese per mesi. Li riteneva merce di scambio, come fossero degli spioni, trattandoli però come criminali di bassa lega. A un prezzo che non conosceremo mai, eccezion fatta per la pubblica umiliazione di vedere il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri volare a Bengasi a baciare la pantofola di un leader in disarmo e ormai sconfitto, l' Italia è riuscita a rimpatriare i poveretti prima di Natale. Ne siamo felici, così i pescatori potranno passare il 25 dicembre con le loro famiglie, anche se non c' è molto da festeggiare di questi tempi e oltre la metà dell' equipaggio è islamico, quindi se ne frega della nascita di Gesù Bambino. Noi di Libero, insieme al programma di Alessandro Milan su Radio 24, siamo stati tra i pochi organi d' informazione ad accendere un faro sul dramma dei diciotto di Mazara del Vallo. La vicenda imbarazzava l' esecutivo e la stampa filogovernativa la teneva volutamente bassa, malgrado i famigliari abbiano picchettato per mesi Palazzo Chigi per ottenere udienza e visibilità. Forti della battaglia che, con le nostre forze, abbiamo fatto per loro, ci sentiamo di dire un paio di cose ai pescatori, mentre li accogliamo a braccia aperte. La prima è che è vero che il governo ci ha messo troppo tempo a liberarli. All' Italia sono stati necessari oltre tre mesi di trattative e promesse per fare quello che al sultano di Ankara Erdogan è riuscito in cinque giorni semplicemente minacciando le maniere forti nel caso Haftar non avesse lasciato andare subito un equipaggio turco sequestrato. Però non è elegante prendersela con i liberatori, per quanto tardivi, appena si riacquisisce la possibilità di parlare e muoversi, come invece stanno facendo alcuni nostri pescatori, che a quanto dichiarano sembrano avercela più con il nostro governo che con il regime libico. Conte e i suoi ministri hanno un elenco smisurato di colpe, ma non può essere messo in conto a loro se l' Italia non conta nulla in Libia. Il disastro nella nostra ex colonia è merito di Sarkozy, Obama e, per quel che ci riguarda, dell' ex presidente della Repubblica Napolitano e del Pd, che pur di mettere in difficoltà il governo Berlusconi non hanno esitato ad accodarsi a una guerra che ci ha procurato solo danni. Per spodestare Gheddafi, hanno prima rischiato di consegnare il Paese all' Isis, quindi lo hanno spaccato in due e condannato alla guerra civile. Nel frattempo, malgrado l' uso di bombe, non sono neppure riusciti a cambiare l' assurda legge di Gheddafi che estende le acque territoriale libiche a duecento miglia quando quelle di tutti gli altri Stati arrivano solo fino a dodici. Segno che non gliene importava. L' altra cosa da ricordare ai nostri pescatori è che tirarli fuori di galera è stato doveroso ma non facile. Cortesemente, d' ora in poi, evitino di fare il loro lavoro tra le motovedette libiche e lascino alla diplomazia le dispute internazionali. Forse pescare al largo dell' Africa è un diritto per gli uomini di Mazara del Vallo, ma siccome non riescono a difenderlo, e tanto meno ce la fanno il nostro disastrato Stato e la Ue, che se ne frega di noi e di loro e di Libia non capisce nulla, sarebbe il caso che prossimamente i siciliani dirigessero le loro prue verso altri lidi. I soli che possono navigare impunemente nelle acque che furono del Colonnello sono le imbarcazioni delle ong e quelle degli scafisti, entrambe benedette dai dittatori libici perché fanno loro il favore di mettere in crisi l' Europa e ricattare noi, chiedendo soldi e favori sotto la minaccia di invaderci con centinaia di migliaia di disperati.
Conte e Di Maio volati a Bengasi. Liberati i pescatori italiani sequestrati in Libia: ritorno alla libertà dopo 108 giorni. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. Sono finalmente liberi i 18 pescatori in stato di fermo da 108 giorni in Libia, bloccati a Bengasi dopo essere partiti a bordo di due pescherecci da Mazara del Vallo. Ad annunciarlo ufficialmente è stato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, volato questa mattina in Libia assieme al presidente del Consiglio per seguire di persona le operazioni di liberazione dei 18 pescatori 8 italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi), bloccati dalle autorità libiche lo scorso primo settembre a una quarantina di miglia dalle coste della Libia. I nostri pescatori sono liberi. Fra poche ore potranno riabbracciare le proprie famiglie e i propri cari. Grazie all’Aise (la nostra intelligence esterna) e a tutto il corpo diplomatico che hanno lavorato per riportarli a casa. Un abbraccio a tutta la comunità di Mazara del Vallo. Il Governo continua a sostenere con fermezza il processo di stabilizzazione della Libia. È ciò che io e il presidente Giuseppe Conte abbiamo ribadito oggi stesso ad Haftar, durante il nostro colloquio a Bengasi”, scrive su Facebook il ministro degli esteri grillino.
LA VICENDA – Secondo la ricostruzione più "accurata" dei fatti, i due pescherecci “Medinea” e “Antartide” sono stati fermati della autorità che rispondono al maresciallo Khalifa Haftar, che controlla quell’area del paese, a circa 40 miglia nautiche dalla costa. Proprio la distanza dalla costa libica è un punto chiave della vicenda: uno Stato esercita la propria sovranità nel cosiddetto mare territoriale, una porzione di mare che si estende per un massimo di 22 chilometri, pari a 12 miglia nautiche. Ogni Stato deve però consentire il passaggio di navi stranieri al suo interno, purché non rappresentino un rischio per la sicurezza nazionale. Tra le 12 e le 24 miglia invece uno Stato ha poteri di controllo sulle navi stranieri per evitare che queste commettano reati nel proprio territorio. L’intervento libico è invece avvenuto a circa 40 miglia dalla terraferma, all’interno di una fascia marittima che da tempo la Libia rivendica come propria zona economica esclusiva.
LA RECLUSIONE DEI PESCATORI – Secondo una ricostruzione del Corriere della Sera, i 18 prigionieri sono stati tenuti in una grande stanza al secondo piano di una palazzina sita nel porto militare di Bengasi. Il cibo, scrive il Corsera, “viene servito regolarmente: una dieta a base di pasta, pesce e verdura. Trascorrono il tempo guardando la televisione, hanno servizi igienici sempre accessibili”. Pur non essendo reclusi in un carcere, si tratta a tutti gli effetti di una prigionia: non hanno alcuna libertà di movimento e l’intera area è circondata da un muro di cemento, potendovi accedere soltanto da un posto di blocco controllato dai militari fedeli al maresciallo Khalifa Haftar.
IL RITORNO – A Mazara del Vallo il comune si prepara al ritorno. Sulla pagina Facebook del sindaco Salvatore Quinci compare la scritta: “Finalmente liberi”. I familiari dei pescatori si sono radunati nella sala consiliare dove è stata data loro la notizia. “Il più bel regalo di Natale – hanno detto – sarà una grande festa”.
Il caso. Chi sono i pescatori di Mazara del Vallo e perché sono stati prigionieri in Libia. Elena Del Mastro su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. Il gruppo di 18 pescatori proveniente da Mazara del Vallo è rimasto rinchiuso 107 giorni nelle prigioni libiche dal primo settembre al 17 dicembre. Si tratta di otto tunisini, sei italiani, due indonesiani e due senegalesi, tutti pescatori partiti a bordo di due pescherecci, Medinea e Antartide da Mazara del Vallo più di tre mesi fa. L’accusa per i pescatori era quella di aver violato le acque territoriali pescando all’interno di quella che ritengono essere un’area di loro pertinenza, in base a una convenzione che prevede l’estensione della Zee (zona economica esclusiva) da 12 a 74 miglia. Nei giorni seguenti le milizie di Haftar contestarono al gruppo anche altri reati infondati come il traffico di droga. Durante i mesi di prigionia, durante il corso delle trattative, i libici avrebbero chiesto anche uno scambio di prigionieri: in cambio della libertà dei pescatori, avrebbero chiesto l’estradizione di quattro calciatori libici condannati in Italia come scafisti di una traversata in cui morirono 49 migranti. I claciatori- scafisti furono condannati a 30 anni di carcere dalla giustizia italiana, ma per i libici sono giovani promesse del calcio. Sono stati condannati dalla corte d’assise di Catania e poi dalla corte d’appello etnea, con l’accusa di aver fatto parte del gruppo di scafisti responsabili della cosiddetta ‘Strage di Ferragosto’ del 2015 in cui morirono 49 migranti. La notte della ‘Strage’ avrebbero contribuito con “calci, bastonate e cinghiate” per bloccare i migranti nella stiva dell’imbarcazione. Nel corso del processo, la loro vicenda era stata monitorata dall’ambasciata libica in Italia, partecipando anche ad alcune udienze al Tribunale di Catania. I quattro raccontarono ai giudici di aver pagato per quel viaggio, ricostruendo la loro versione, come Al Monsiff che disse di “giocare a calcio nella serie A” e “aveva deciso di andare in Germania per avere un futuro, impossibile in Libia a causa della guerra”. Durante il dibattimento i legali dei quattro imputati sollevarono anche alcune anomalie nel loro riconoscimento, avvenuto attraverso delle interviste ai 313 sopravvissuti di quel viaggio, giunti a Catania a bordo della Siem Pilot il 17 agosto 2015. I pescherecci di Mazara del Vallo sono stati posti sotto sequestro durante le trattative, ma il gruppo di pescatori tornerà a bordo degli stessi dopo il lieto fine della vicenda che per mesi ha angosciato molti dei familiari. “È un’emozione indescrivibile, piango da quando ho avuto notizia”, ha detto l’armatore del Medinea, Marco Marrone, dopo le notizie che arrivano da Bengasi sui pescatori italiani.
Durante la prigionia le famiglie dei pescatori hanno più volte protestato a Mazara, davanti alla casa del Ministro alla Giustizia e a Montecitorio, dove si trovavano ancora quando sono stati raggiunti dalla lieta notizia della liberazione dei loro congiunti. Ad annunciarlo ufficialmente è stato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, volato questa mattina in Libia assieme al presidente del Consiglio Giuseppe Conte per seguire di persona le operazioni di liberazione.
Pescatori trattenuti in Libia: “Di Maio mi ha appena annunciato che sono liberi”. Le Iene News il 17 dicembre 2020. Silvio Schembri parla con il sindaco di Mazara del Vallo, il paese di 8 dei 18 pescatori trattenuti in Libia da inizio settembre dopo essere stati arrestati mentre pescavano a 80 miglia dalle coste libiche, in acque internazionali. Il primo cittadino annuncia: “Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio mi ha appena comunicato che i nostri uomini da questo momento sono liberi”. Con Silvio Schembri vi avevamo raccontato il dolore delle famiglie e alcune cose che sembravano non tornare in questa delicata vicenda internazionale. Sono finalmente liberi i 18 pescatori di Mazara del Vallo (tra cui 8 italiani) prigionieri in Libia dallo scorso settembre, dopo una battuta di pesca a circa 80 miglia dalla costa di Bengasi, di cui ci ha raccontato Silvio Schembri nel suo servizio, che potete rivedere qui sopra. Lo ha annunciato alla Iena il sindaco di Mazara del Vallo, che per telefono ha spiegato: “Ho appena ricevuto la chiamata da Bengasi dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che mi ha comunicato che i nostri uomini da questo momento sono liberi. Già dalle prime ore dell’alba attendevamo questa notizia, perché sappiamo che da ieri notte a Bengasi c’era un’attività frenetica. I nostri uomini sono già sui pescherecci, il motore di uno dei due motopesca è già acceso. Attendiamo che anche l’altro si possa mettere presto in movimento. Non auguro più a nessuno di dover rivivere giornate come queste”. Dopo che la moglie di uno dei pescatori aveva ricevuto dal marito, qualche ora fa, un messaggio audio inequivocabile: “Siamo liberi”, si era diffusa la notizia del “blitz” diplomatico del premier Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che questa mattina molto presto sono volati a Bengasi, con l’obiettivo di riportare subito dalle loro famiglie i 18 pescatori trattenuti in Libia. Con Silvio Schembri vi avevamo raccontato del dolore delle famiglie ma anche di un problema con cui i pescatori della marineria di Mazara del Vallo convivono da alcuni anni: l’assenza della “Vigilanza pesca”, un servizio svolto dalla Marina militare italiana a sostegno di tutte le navi e pescherecci battenti bandiera italiana che si trovano nelle acque di fronte alla Tunisia e alla Libia, che, nel Mediterraneo orientale, da un paio d’anni non funzionerebbe più. E infatti anche la notte del sequestro dei nostri 18 pescatori era stato lanciato l’allarme, ma nessuno è riuscito a intervenire in tempo. Avevamo inoltre parlato di un presunto accordo per il trasferimento di prigionieri tra l’Italia e la Libia, così come dimostrava il video di una tv libica in cui interviene proprio l’ambasciatore libico in Italia. Questo perché il generale Haftar avrebbe chiesto la liberazione di quattro presunti calciatori detenuti in Italia con l’accusa di essere trafficanti di uomini, condannati a 30 anni di carcere. Dopo il nostro servizio, il ministero degli Esteri e il ministero della Difesa hanno voluto chiarire alcuni aspetti da noi trattati, nella nota che potete leggere qui. Resta comunque il fatto che le autorità militari italiane intimano ai nostri motopesca di non entrare nell’area delle acque internazionali autodichiarata come “Zona esclusiva” dalle autorità libiche e controllate dalle motovedette di Haftar, la cui autorità, come dichiara la stessa nota ministeriale, l’Italia non riconosce. Il ministro Di Maio ha sostenuto che i pescatori fossero in una zona dove non dovevano andare in quanto zona di guerra dichiarata ad alto rischio. Quello che rimane da capire è come quel tratto di mare possa essere considerato “zona di guerra” se nessuna delle due fazioni libiche dispone di effettiva forza navale. Oggi però arriva la bellissima notizia della liberazione dei 18 pescatori, e insieme a questa anche i primi inevitabili commenti politici. Tra cui quello di Matteo Salvini, leader della Lega, che dice: “Conte e Di Maio a Bengasi dopo 108 giorni. Con comodo...”. Ironia e critiche anche da parte di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che ritiene “indecente” il vantarsi per la liberazione dei pescatori. Intanto celebriamo con le famiglie dei pescatori il loro rientro e stasera a Le Iene vi mostreremo nuovi dettagli.
Laura Anello per “la Stampa” il 18 dicembre 2020. La speranza si fa largo di buon mattino tra i vicoli multietnici che profumano di couscous, dilaga tra i pescherecci del porto, esplode a mezzogiorno nell'aula consiliare del Comune, diventata il presidio delle famiglie dei marinai sequestrati. «Liberi, sono liberi», è il tam tam che diventa frenetico tra le madri, i figli, le mogli che aspettano e combattono da tre mesi. «Liberi, sono liberi», confermano le prime fotografie che arrivano sui telefonini. Le immagini di 18 uomini dimagriti, provati, che fanno il segno di vittoria sul bus che li porta via dalla prigione, sulla banchina della città libica di Bengasi, e poi sui loro pescherecci, i pescherecci che sono casa, lavoro e trincea. «Liberi, sono liberi», ripete adesso Rosetta Ingargiola, che per 108 lunghissimi giorni ha pregato e sperato. Tra i prigionieri, laggiù, c'era suo figlio Pietro Marrone, comandante del Medinea, 46 anni, l'unico "uomo di casa" che le è rimasto dopo la morte del marito e quella del figlio Gaspare, inghiottito dal mare forza nove a 23 anni. Era il 1996, quasi un quarto di secolo fa. «Non potevo perdere anche Pietro», dice prima di sciogliersi nell'abbraccio del vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. «Grazie per quello che ha fatto», gli sussurra. «Il Padreterno ha fatto tutto», le risponde lui con gli occhi che gioiscono sopra la mascherina. Ma Pietro è vivo, l'ha già chiamata, poche parole per dirle che sta bene, prima di mettersi al lavoro per salpare. Tornerà sulla sua barca, la barca con cui era partito per quella fatidica battuta di pesca, insieme con i compagni dell'altro peschereccio, l'Antartide. È già tardo pomeriggio quando chiama il suo armatore, Marco Marrone: «Grazie a tutta Italia», gli dice. Poche parole, «per il momento non posso dire altro, dobbiamo ricaricare le batterie per avviare i motori». Il Medinea è già pronto e messo in moto, come risulta dal Blue Box satellitare di bordo, ma l'Antartide è ancora fermo. Una volta partiti, dovranno fare poco più di quattrocento miglia, due giorni di navigazione, arrivo previsto tra sabato notte e domenica, e ad aspettarli ci saranno i fuochi d'artificio. «Una cosa piccola e simbolica per accoglierli - chiarisce il sindaco Salvatore Quinci - non dobbiamo dimenticare che siamo nel pieno della pandemia». In tempo di Covid anche abbracciarsi è vietato, e quindi sulla banchina del porto nuovo - all'arrivo - saranno ammessi solo i familiari stretti. I marinai dovranno fare il tampone e poi la quarantena. «Ma l'importante a Natale è stare tutti insieme, noi siamo una famiglia piccola, niente assembramenti», dice Gaetana Giordano, madre di un altro marinaio sequestrato, Giacomo Giacalone, 32 anni e una figlia di un anno e 5 mesi. «Da una settimana non faceva che dire: papà, papà. Ha portato fortuna». È un sospiro di sollievo al femminile. Sollievo di madri, di mogli, di figlie, di sorelle. Donne per cui la solitudine e l'attesa sono consuete compagne di vita. Donne forti come rocce. Donne che mettono in conto tutto. Qui a Mazara c'è gente che è stata sequestrata cinque, sei, sette volte. Gente che ha lo scafo impallinato dalle mitragliatrici. Gente che è sfuggita per un soffio al sequestro mentre pescava l'oro di questo mare, il gambero rosso. Gente che ha sempre commentato con sarcasmo gli accordi con la Libia, i trattati di amicizia, le motovedette italiane in regalo, perché la Libia qui è sempre stata la minaccia, il nemico, la prigione. Alcune mogli hanno appreso della liberazione mentre erano a Roma, a protestare. Come Cristina Amabilino, moglie di Bernardo Salvo, tre figli. Adesso aspetta il marito, sceso dal motopesca Natalino, una delle barche che sono riuscite ad allontanarsi al momento dell'agguato. A Mazara c'è il cognato Vito Gancitano: «I libici fanno così, intimano al comandante di salire sulla motovedetta, poi dicono agli equipaggi di seguirli. Ma in questo caso sette pescherecci sono riusciti a scappare, mio cognato è rimasto sequestrato nonostante non fosse il comandante. Il comandante, Luciano Gancitano, ha detto che aveva un malore, è andato lui». «Mio marito sta in mare per 35 giorni e torna a casa per 5, così sempre e da sempre - racconta Paola Bigione, moglie di Michele Trinca, il comandante dell'Antartide -. È la nostra vita. Io a vent' anni mi sono sposata, ho cresciuto due figlie da sola, e non mi sono mai lamentata, vengo anche io da una famiglia di pescatori». Le due figlie si chiamano Ilaria e Margherita, e di loro ha chiesto Michele quando è riuscito a comunicare. «Lo abbiamo chiamato noi a un numero libico, ce l'hanno passato». Poche parole, per dire che sta bene, ma che non è stata una passeggiata: «Siamo stati in prigione, ci hanno tolto le fedi, i telefoni». E lui, che non piange mai, questa volta ha pianto.
“Pescatori di Mazara liberati da Putin”, la rivelazione dell’armatore. Notizie.it il 21/12/2020. Nella liberazione dei pescatori, ci sarebbe lo zampino di Silvio Berlusconi, tramite un intervento del suo amico Vladimir Putin. Nella mattinata di domenica 20 dicembre sono finalmente tornati a Mazara del Vallo i 18 pescatori liberati lo scorso giovedì dopo 108 giorni trascorsi imprigionati nelle carceri libiche. Malgrado la forte pioggia, sono state decine i parenti e gli amici radunati sul molo per riabbracciare dopo mesi i pescatori. Sulla loro liberazione spunta in queste ore però un retroscena. Stando a Marco Marrone, l’armatore del ‘Medinea’, il rilascio sarebbe stato possibile grazie a Silvio Berlusconi, il quale avrebbe contatto il suo amico Vladimir Putin.
“Pescatori di Mazara liberati da Putin”. Il presidente russo infatti risulta essere in buoni rapporti con il generale Haftar, il quale grazie al suo intervento si sarebbe convinto a liberare i 18 marittimi dei due pescherecci sequestrati al largo della Libia lo scorso settembre. Marrone avrebbe parlato al telefono proprio con il Cavaliere. “È stato Silvio Berlusconi – ha detto l’armatore all’Adnkronos – a dirmi al telefono che la liberazione dei 18 pescatori è avvenuta grazie all’intervento di Putin. Perché il presidente russo è molto amico di Haftar. Il Presidente mi ha detto che quando ha saputo del sequestro dei due pescherecci ha cercato subito di fare qualcosa e ha fatto intervenire Putin, che è suo amico. Non so altro…”. “Io sono un milanista fino al midollo, un milanista accanito, e ieri ho parlato con il mio presidente – ha continuato Marrone -. Ho seguito tutte le partite del Milan, da sempre, ovunque. E ieri dopo l’arrivo dei pescatori il Presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè me lo ha passato al telefono”. Infine: “Non si può dire ma è stato il signor Putin con le sue telefonate ad Haftar a fare liberare i pescatori. Non bisogna dirlo però, poi si dice che lui è un sostenitore di Haftar, ma a lui non piace questa cosa”. Ma “io l’ho ringraziato, come ho ringraziato anche il premier Conte e il governo tutto“. Scortati dalla nave della Marina Militare Carlo Margottini, i due pescherecci con a bordo i pescatori sono entrati nel porto di Mazara intorno alle ore 10 di domenica mattina. Proprio dalla Marina Militare è stata fornita l’ultima cena consumata a bordo dagli uomini appena liberati, assieme ad un biglietto che recitava “Bentornati a casa”.
Pescatori in Libia, la conferma della "Stampa": "Una telefonata di Vladimir Putin dietro la liberazione". Libero Quotidiano il 24 dicembre 2020. Silvio Berlusconi non aveva tutti i torti. A mettere lo zampino per la liberazione dei pescatori di Mazara del Vallo Vladimir Putin. Quella che sembrava essere solo una frase pronunciata dal leader di Forza Italia e captata in un retroscena de La Stampa, sembra essere proprio la realtà. È lo stesso quotidiano a citare fonti ben informate che confermano il coinvolgimento del presidente russo. I testimoni parlano di una telefonata giunta circa due settimane fa dal Cremlino alla base di Al-Rajma, città della Cirenaica dove si trova il quartier generale di Khalifa Haftar.
Durante la conversazione il capo del governo libico non riconosciuto è stato esortato ad accelerare sul rilascio dei pescatori a Bengasi da 108 giorni. Putin ha fatto presa in fretta sul generale, che dal canto suo ha utilizzato il sequestro dei pescatori per legittimare il suo ritorno dopo il fallimento del suo colpo di mano su Tripoli. Non solo, perché in cambio Haftar ha anche chiesto il sostegno russo e garanzie sul mettere un freno all'azione della Fratellanza musulmana nell'ovest del Paese (considerata da Haftar come un'entità terroristica ndr). A suggellare il suo trionfo, Haftar ha anche preteso la presenza in Libia, alla liberazione dei 18 uomini, del premier Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Presenza che ha innescato una vera e propria polemica in Italia.
Felice Cavallaro per il "Corriere della Sera" 21 dicembre 2020. Le sirene del porto, un popolo in festa, mamme e figli in lacrime, finalmente solo con lacrime di gioia, hanno accolto ieri mattina l' arrivo dei due pescherecci e dei 18 uomini d' equipaggio sequestrati per più di tre mesi a Bengasi. Prima i tamponi anti Covid, poi il contatto con la banchina di Mazara del Vallo lasciata a fine agosto e gli abbracci. Canti, musica, trombette, la benedizione del vescovo, la felicità del sindaco, i parenti in cerchio per stringere i prigionieri liberati giovedì con un' operazione culminata nella trasferta lampo del premier Conte e del ministro Di Maio in Libia. Un blitz e un contatto diretto con il gran capo delle milizie di quell' area, il generale Khalifa Haftar. Anche di questo s' è parlato subito dopo la festa per il ritorno a casa durante una telefonata fra Silvio Berlusconi e l' armatore di uno dei due pescherecci, Marco Marrone. Un breve e scherzoso dialogo sul cellulare di Gianfranco Micciché, il presidente dell' Assemblea Regionale siciliana accorso per la grande accoglienza. Con l' armatore «milanista da sempre» che ringraziava stupito da una confidenza registrata dai cronisti: «Non si può dire, ma è stato Putin a farli liberare chiamando Haftar...». Dettaglio destinato ad alimentare la polemica politica che già imperversa, ma sulla quale ieri cercavano tutti di far prevalere l' aria di festa, seppure fra racconti inquieti. Come quello del giovane comandante del Medinea, Matteo Marrone, accanto alla madre Rosetta Ingargiola, 74 anni, per tutti «Mamma Rosetta»: «Siamo stati trattati malissimo da quei fetenti... Tenuti in celle fredde, senza letti, al buio». E un altro pescatore, Onofrio Giacalone: «Dormivamo a terra, al gelo. Terribile. Hanno anche sparato per aria. Ci siamo spaventati a morte, non sapevamo se ne saremmo usciti vivi». Turbata pure Naourisi, la ragazza tunisina che aveva denunciato di essere stata «discriminata» quando il 13 novembre non ha potuto parlare con il papà Mohamed al telefono, «proprio perché tunisina». Poi anche lei in lacrime: «Oggi è festa».
Gian Micalessin per “il Giornale” il 18 dicembre 2020. Ai servizi segreti spetta la soluzione di questioni politicamente irrisolvibili. Ai capi di governo spetta valutarne le conseguenze e il costo per l' autorità dello Stato. In base a queste regole il Direttore dell' Aise (Agenzia Informazioni Sicurezza Esterna) generale Gianni Caravelli e i suoi uomini possono dire di aver sbrogliato un caso apparentemente impossibile. Altrettanto non si può dire per il nostro Presidente del Consiglio e per il nostro ministro degli Esteri. Non a caso ieri il presidente del Copasir Raffaele Volpi si è rivolto ai nostri 007 sottolineando di voler ringraziare «unicamente loro». Difficile dargli torto. Per riavere i pescatori sequestrati dal generale Khalifa Haftar Giuseppe Conte e Luigi Di Maio hanno accettato di trasformarsi nel prezzo stesso del riscatto. Volando a Bengasi hanno riconosciuto dignità politica e istituzionale ai sequestratori dei nostri connazionali e si sono inginocchiati ad Haftar. Per intenderci è come se, a suo tempo , fossero volati in Somalia per stringere la mano ai terroristi rapitori della cooperante italiana Silvia Romano. Insomma nella ridicola e tardiva illusione di presentarsi come i risolutori di una vicenda totalmente affidata , invece, alla gestione della nostra intelligence hanno ulteriormente compromesso l' immagine dell' Italia. Ma la colpa non è certo dei nostri 007. A loro è stato chiesto, una volta di più, di risolvere una grana libica figlia dall' inconsistenza della nostra politica. E loro hanno ancora una volta obbedito. Esattamente come succede fin dall' autunno 2018. Allora un Giuseppe Conte fresco d' incarico e smanioso di chiudere con una foto simbolo la Conferenza di Palermo sulla Libia ordinò ad un generale Caravelli, ancora numero due dell' Aise, di prendere un aereo, volare a Bengasi e portare in Italia a tutti costi Haftar. Quella leggerezza segnò la fine della nostra autorevolezza e consegno all' uomo forte della Cirenaica la certezza di avere in pugno Conte e la sua corte. Così è andata anche stavolta. Caravelli e i suoi si sono una volta di più uniformati alle indicazioni di una Presidenza del Consiglio inconsapevole di aver trasformato la liberazione dei pescatori in un' umiliante processione a casa dei nostri ricattatori. Una processione resasi indispensabile per sanare gli errori del primo settembre quando Di Maio vola a Tobruk per incontrare il presidente del Parlamento Aguilah Saleh. Il passo, teoricamente corretto per un ministro chiamato ad interfacciarsi con un autorità politica, è uno schiaffo al generale Haftar già costretto ad accettare il cessate il fuoco firmato da Saleh e impostogli dai suoi alleati egiziani russi ed emiratini. Ma con loro non può alzar la voce né, tantomeno, le mani. Può invece farlo con un' Italia protagonista in Libia di un' azione politica confusa e inconcludente costataci il titolo di potenza di riferimento. Un titolo ormai saldamente nelle mani della Turchia da un parte e degli alleati di Haftar dall' altra. E così nel giro di poche ore lo sgarbo di Di Maio viene punito con il sequestro dei due pescherecci. Un sequestro reso possibile anche dalla latitanza - non sappiamo se «ordinata» da Roma o figlia del caso - di una Marina Militare chiamata - in base alle regole della missione Mare Sicuro - a proteggere i nostri pescatori. E a render il tutto più complesso s' aggiungono le complicazioni del caso Regeni che rendono assai arduo un coinvolgimento a nostro favore delle autorità egiziane. Così i nostri 007 affrontano una trattativa complicatissima minacciata dall' ufficializzazione del peggiore dei ricatti ovvero la richiesta di uno scambio con i quattro scafisti condannati in Italia per la morte, nel 2015, di 49 migranti chiusi nelle sentine di un barcone partito da Bengasi. L' unico modo per dribblare quella richiesta è sanare lo sgarbo generato dalla visita di Di Maio. Ma ancora una volta Conte e Di Maio propongono la peggiore delle soluzioni ovvero quella di una foto ricordo a Bengasi con cui attribuirsi la paternità della liberazione. Una foto che non ricorderà un successo, ma la sottomissione dell' Italia ad un inaccettabile ricatto.
Francesca Sforza per “la Stampa” il 18 dicembre 2020. La situazione dei pescatori di Mazara del Vallo, trattenuti con i loro equipaggi da inizio settembre a Bengasi nella roccaforte del generale libico Khalifa Haftar, si è sbloccata l'altra sera, durante il vertice di governo dedicato al caso Regeni. Dai servizi operativi sul terreno è arrivato infatti il via libera, la certezza che la visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio sarebbe coincisa con il rientro a casa dei diciotto pescatori, tra cui 8 italiani, 6 tunisini, 2 indonesiani e 2 senegalesi. Era questa la condizione posta dal generale di Bengasi: incontrare le massima autorità italiane per discutere con loro della situazione in Libia - tanto che il caso dei pescatori non è stato oggetto esplicito del colloquio - e rafforzare così la propria legittimazione interna in vista dei prossimi dialoghi intra-libici. Un prezzo politico che Conte e Di Maio hanno scelto di pagare per una serie di motivi: in primo luogo perché Haftar è sempre stato un interlocutore dell'Italia (e dunque la cosa non rappresenta una particolare violazione degli equilibri esistenti), poi perché anche nel loro caso il ritorno politico in termini di consenso interno è molto superiore al "cedimento" nei confronti del generale di Bengasi. I pescatori italiani potranno festeggiare il Natale a casa, ringraziamenti ufficiali sono arrivati dalle massime autorità tunisine, grate all'Italia che nel pacchetto siano stati compresi anche i loro connazionali, e - non ultimo - il premier torna rafforzato alla vigilia del colloquio con Matteo Renzi, slittato proprio per l'impegno libico, che recentemente aveva messo in discussione la sua leadership citando anche la debolezza negoziale sulla vicenda degli stessi pescatori. La svolta è maturata negli ultimi giorni, ma le trattative erano entrate nel vivo già da un mese, con un lavoro incrociato di diplomazia e servizi. Risolutivi sono stati gli americani, ma pressioni importanti sono arrivate dagli Emirati Arabi e anche dai russi, mentre molto esiguo è stato stavolta il ruolo degli egiziani - enfatizzato ad arte da esponenti libici di area tripolina ad uso di politica interna - con cui l'Italia ha rarefatto i contatti in seguito agli ultimi sviluppi giudiziari sul caso di Giulio Regeni, e decisamente fantasioso il supposto intervento di Macron su Al Sisi in favore del rilascio. Del resto, che la vicenda sarebbe giunta a questa conclusione era anche nell'interesse di Haftar, che puntava a una sua legittimazione internazionale in una fase di stallo come quella attuale e non certo ad un aumento del livello di scontro (l'Italia stava già sondando l'ipotesi di sanzioni e del coinvolgimento di tribunali internazionali). A fronte della gioia dei pescatori e delle loro famiglie, le reazioni della politica italiana non sembrano assecondare il clima da unità nazionale che un tale rientro poteva pure lasciar immaginare: sebbene subito smentito il tweet del portavoce del presidente del Consiglio con la geolocalizzazione dell'incontro con Haftar a Bengasi ha sollevato le critiche di diversi esponenti di Italia Viva, che lo hanno accusato di mettere a rischio gli apparati della sicurezza - «ha capito che non è più al Grande Fratello?», ha ironizzato il capogruppo Davide Faraone - e gli esponenti della destra, da Meloni a Forza Italia, hanno parlato di «Italia umiliata di fronte ad Haftar», mentre Salvini, con un tweet a caldo, ha commentato: «Oggi sono 108 giorni dal sequestro. Con comodo». A Palazzo Chigi e alla Farnesina, malgrado la pioggia di critiche e distinguo che vengono dai diversi cortili politici, si guarda al risultato: i pescatori sono rientrati a casa, i tunisini hanno detto che non dimenticheranno questo gesto, e soprattutto la nuova amministrazione americana, ai suoi massimi livelli, si è spesa per noi. Tutte cose che non erano affatto scontate.
Giorgia Meloni sul viaggio in Libia di Conte: "Quando Silvio Berlusconi accolse Gheddafi la sinistra si indignò". Libero Quotidiano il 19 dicembre 2020. Fa ancora parlare il viaggio del tutto inusuale di Giuseppe Conte in Libia. Il premier è volato in Libia assieme a Luigi Di Maio per recuperare i pescatori di Mazara del Vallo tenuti prigionieri a Bengasi. Ma a creare particolarmente scalpore è stato l'incontro del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri con Khalifa Haftar, il cui governo non è riconosciuto. "La sinistra si era indignata per l’accoglienza riservata da Silvio Berlusconi a Gheddafi - è il commento di Giorgia Meloni -. Ora al governo va direttamente in Libia a fare i salamelecchi e a baciare la pantofola ai capi tribù libici. Così hanno ridotto l’Italia gli inetti che ci governano". Un pensiero quello della leader di Fratelli d'Italia ampiamente condiviso. In molti infatti si sono chiesti cosa ci sia davvero dietro la liberazione dei nostri pescatori. Magari un appoggio a quel generale non riconosciuto. Chissà.
I pescatori di Mazara accusano i libici “Picchiati e umiliati”. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 dicembre 2020. I marinai di altre due imbarcazioni che erano riuscite a scappare pestati per vendicare l'affronto. "Trattati come terroristi. Domani a casa". "All'inizio, ci hanno rinchiusi in un bunker sottoterra, ma Giacomo e Bernardo non c'erano. "Che gli è successo?", ci siamo detti. All'improvviso, li abbiamo visti arrivare con il volto insanguinato". La voce di Fabio Giacalone rimbalza via radio dal peschereccio Antartide in navigazione al largo della Libia fino al porto di Mazara. "Li hanno picchiati - dice - perché le loro barche erano riuscite a scappare. Un affronto per i libici". Quel drammatico primo settembre, furono fermati non solo Medinea e Antartide, ma anche Anna Madre e Natalino. I comandanti vennero convocati sulla motovedetta con i documenti delle imbarcazioni. Poco dopo, due pescherecci riuscirono a fuggire. "E se la sono presa con Giacomo e Bernardo", sussurra Marika Calandrino, la moglie di Giacomo Giacalone, il comandante di Anna Madre: "Già quando era arrivata la prima fotografia dalla Libia dopo il sequestro avevo capito. Mio marito aveva il volto gonfio, un occhio quasi chiuso, e il collo rosso. Quando ci siamo sentiti dopo la liberazione gli ho chiesto subito: "Tutto bene?". E mi ha fatto capire che era successo qualcosa di brutto". Il cognato di Bernardo Salvo, Vito Gancitano, è amareggiato: "Lui non è neanche il comandante del Natalino, è il timoniere. Quando i libici li hanno fermati, si è ritrovato ad andare a bordo della motovedetta. Lo avranno scambiato per il comandante, e su di lui si sono vendicati". Anche la famiglia di Bernardo Salvo ha capito guardando le prime fotografie giunte in Italia dopo il sequestro: "Fino ad oggi non abbiamo detto nulla - spiega Vito - il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos'è successo". Il padre di Fabio Giacalone, Pietro, anche lui pescatore per tanti anni, stringe i pugni mentre il figlio racconta ancora dei suoi compagni col volto insanguinato. "Perché dalla Farnesina continuavano a dirci che i nostri ragazzi erano trattati bene? - si arrabbia - Non era vero". Il fruscio delle "onde corte" porta altri racconti drammatici. "Gli italiani li hanno infilati tutti in una stanza buia, larga quattro metri per quattro", dice ancora Fabio Giacalone. "Subivamo continue umiliazioni e violenze psicologiche. Arrivavano nel cuore della notte e ci urlavano: "Adesso, vi liberiamo". E invece ci portavano in un'altra prigione. Quattro ne abbiamo cambiate, i tunisini di più. Solo nell'ultimo mese, ci hanno trasferiti in un palazzo, che era un posto più decente". La voce va e viene, la comunicazione è disturbata. Il papà di Fabio non si dà pace: "L'avevo detto a mio figlio che non dovevano spingersi fin lì, è troppo pericoloso. L'avevo detto la sera prima della partenza. E, poi, mentre erano in viaggio, ho visto sul computer dov'erano arrivati, ho subito chiamato il comandante per metterlo in guardia". Ora, sulla stessa frequenza corrono anche i racconti di Piero Marrone, il comandante del Medinea: "Ce la siamo fatta addosso per lo spavento - dice all'armatore, Marco Marrone - pensavamo di non farcela. Dentro quelle celle buie ci hanno trattato come se fossimo dei terroristi, umiliazioni su umiliazioni. Adesso, siamo tanto stanchi e abbiamo solo bisogno di tornare a casa". L'armatore chiede: "Vi facevano mangiare?". Risponde: "Solo un pasto decente abbiamo fatto, la mattina che è arrivato Conte". E con i vestiti come vi siete organizzati? "Siamo rimasti con le stesse cose per settimane. Poi qualche detenuto, che era lì chissà per cosa, ci ha dato magliette, mutandine e un pezzo di sapone". La navigazione è ancora lunga. "Arriveranno domenica mattina - spiega Marco Marrone - e sarà una grande gioia". Prima di riabbracciare i loro familiari, però, i pescatori dovranno essere sottoposti al tampone per il Covid. Solo se positivi, ci sarà una quarantena. "Sarà il Natale che abbiamo desiderato per cento giorni, tutti insieme a casa", dice Marika Calandrino.
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. «Questi cento e passa giorni in Libia sono stati i più lunghi della mia vita. Non passavano mai. È stato brutto, difficile. Ed è stata una galera...». Comincia e si interrompe così, in un minuto, la prima telefonata di Fabio Giacalone, il direttore di macchina dell'Antartide quando tutti cercano di captare le prime notizie sulla liberazione. Nel salone del municipio di Mazara, da tre mesi bivacco e rifugio dei parenti dei 18 sventurati, è Monica, una ragazza di 15 anni, ad afferrare un telefonino quasi per abbracciare il padre, Onofrio Giacalone, sorridente fra gli altri pescatori che sembrano sereni nella foto postata dal premier Conte. Scattata sulla banchina di Bengasi. Tra le fiancate graffiate dell'Antartide e del Medinea, i pescherecci siciliani sequestrati a colpi di mitraglia. Drammatico prologo «di questa vera e propria galera» trascorsa a due passi dal nuovo molo, sempre nell'area portuale. «In un edificio che per accesso ha un varco presidiato da uomini armati», ripetono adesso a madri e figli sgomenti. Rimbalza per prima quella foto di Conte a Mazara. Poi arriva un'altra telefonata. E Monica euforica ascolta finalmente la voce del padre, forzatamente rassicurante, come se volesse fare coraggio alla ragazza: «Siamo, liberi. Ci hanno fatto uscire dalla casa e ci hanno portato qui sul ponte dei pescherecci. Insomma, non siamo più in galera». Nel diario di questi 108 giorni riecheggia più volte la parola galera. E come passavate le giornate? «Pochi contatti con gli addetti alla sorveglianza, nessuno con l'esterno». Per Giacalone un pensiero continuo a quanti lo attendevano a casa. Anche al padre, Pietro, un pescatore pronto a fare i primi calcoli nautici: «Sono circa 410 miglia, diciamo due giorni di navigazione... Sabato notte insieme». E il figlio ancora lontano gli dice «la cosa più bella». Una frase che pone davvero fine all'incubo: «Ora lasciatemi in pace che devo accendere i motori». Scatta però un'emergenza, come apprendono da Mazara i due armatori, Leonardo Gangitano e Marco Marrone. Un imprevisto a quest' ultimo comunicato dal suo comandante Pietro Marrone, 44 anni, stesso cognome: «Batterie da ricaricare dopo 3 mesi. Ma se parte il primo ci agganciamo e salpiamo comunque insieme. Non possiamo certo restare qui dopo questo tempo in cui ogni giorno mille angosce mi venivano anche per mia madre...». Poi nella notte i motori si accendono, i pescherecci sono pronti a partire. E riesce da quelle 410 miglia a farla sorridere la mamma, Rosetta Ingargiola, 74 anni, la nonnina rimasta per settimane all'addiaccio in una tenda davanti a Montecitorio per protestare, per accendere i riflettori. Suo figlio, grato: «Il pensiero andava a lei rimasta vedova e senza mio fratello, annegato a 24 anni in mare per una tempesta». Sono le tragedie di questo mondo della pesca che nel giorno più felice di Mazara offre l'esempio di una comunità integrata. Come si percepisce dalla solidarietà fra mamme e figli di siciliani, tunisini, senegalesi, confusi fra chador e mascherine, uniti nei balli etnici che esplodono a sera, mentre le batterie sono ancora sotto carica. C'è Islem Ben Haddata che con il suo perfetto italiano scongiura il padre tunisino: «Basta con il mare. Avevo il terrore che non tornasse più». Come Insaf, la giovane figlia di Jemmali Farat, il secondo motorista del Medinea. O di Chaima, la primogenita di un altro pescatore berbero, Habib Mathlouthi. Tutte pronte a confortare Marika Calandrino, la più giovane delle mogli al megafono per tre mesi, grandi occhi azzurri, in lacrime quando sente il marito Giacomo Giacalone, 32 anni. Ma importante è che echeggi la voce da Bengasi, «da quell'inferno», come lo ha chiamato per 108 giorni Cristina Amabilino, la moglie di un altro marittimo, Bernardo Salvo, pronto a tranquillizzare con un flash dal telefonino libico: «Siamo usciti dalla galera...». Sorride finalmente anche il figlio, dieci anni appena, che su Facebook aveva pubblicato una letterina scritta su un foglio a quadri: «Per favore ministro Di Maio mi porta a casa il mio papà?». E invece papà parla al telefono e prova ad accendere i motori.
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 19 dicembre 2020. Ci sono volute più di tre ore per ricaricare le batterie e sono sembrate quasi più lunghe di quei tre mesi passati da una cella all'altra di Bengasi. Quando, all'una di notte, i motori dei due pescherecci si sono riaccesi, Pietro Marrone, il comandante del Medinea, ha attivato la radio di bordo. Come il comandante dell'Antartide. Rassicurando gli armatori, Marco Marrone e Leonardo Gangitano, in contatto con i familiari dei 18 pescatori. Mamme, mogli e figli già in festa per accoglierli domani mattina al porto di Mazara del Vallo. Ancora un giorno di navigazione «dieci nodi l'ora» per questi uomini pronti a sottoporsi a tampone, quarantene, interrogatori del Ros, decisi comunque a «ripartire anche psicologicamente» dopo questa avventura che «al solo pensarci non fa dormire la notte», come echeggia dai cosiddetti baracchini che collegano il porto alle barche. Anzi alle «varcuzze», come le chiama in dialetto Marrone evocando la gioia di giovedì quando i libici li hanno riportati in banchina, davanti ai pescherecci, senza spiegare che cosa fosse accaduto: «Sembrava un giorno come tanti. Arriva una guardia e dice: "Preparatevi che dobbiamo andare via"...». È il diario del giorno numero 108. Una frase rincuorante, «ma non del tutto», come spiega Marrone dalla cabina del Medinea, finalmente fuori dalle acque libiche, gli occhi su una fregata della Marina italiana inviata a fare da scorta. L'invito della guardia non appariva rassicurante: «A metà novembre, accadde la stessa cosa. Ma poi ci portarono in un altro carcere. Quattro ce ne hanno fatto cambiare in tre mesi. Sempre lasciandoci al buio, facendoci arrivare un po' di cattivo cibo in ciotole di latta...». È il racconto di un tormento continuo. Con il terrore del peggio: «Non sapevamo se saremmo rimasti vivi. In questi Paesi ognuno ragiona per i fatti suoi. Non sapevamo da chi eravamo stati presi, da quale pezzo di Libia. Non dimenticheremo le umiliazioni. Non violenze. Ma pressioni psicologiche. È stato complicato: accendevano e spegnevano le luci, a loro piacimento». Ed ancora: «Terribile non potere parlare fra di noi. Gli italiani divisi dai tunisini, separati. Non ci vedevamo nemmeno tra di noi. Tutti insieme una volta solo dopo 70 giorni. Perché?». Tanti i dettagli da riferire ai carabinieri delegati per i primi verbali a Mazara. Ma ecco la ricostruzione di Marrone: «Dopo l'assalto a colpi di mitragliatrice, ci hanno sbattuto in carcere senza il tempo di portare qualcosa con noi. Nemmeno le cose intime. Una maglietta, un pezzo di sapone ci sono arrivati grazie a un detenuto che ci aiutava. Non per tutti. Senza umanità. La barba finalmente fatta giovedì mattina dopo un mese. La svolta grazie all'Italia, a quanti ringraziammo...». La radio gracchia e le ultime parole di Marrone si perdono mentre a Mazara esplode la rabbia di una donna che si è sgolata in questi mesi anche davanti a Montecitorio, Cristina Amabilino, moglie di uno dei marittimi, Bernardo Salvo: «Il governo ha perso tempo prezioso. Non lo ringrazierò mai perché ha agito comunque in ritardo, sbagliando fin dall'inizio. Il giorno dell'assalto la Marina parlò di un elicottero che in 20 minuti avrebbe difeso i nostri uomini. Quell'elicottero non è mai arrivato...». Altro dettaglio di un'inchiesta aperta. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio l'altro ieri con il generale Khalifa Haftar.
Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 19 dicembre 2020. Il sollievo per la liberazione in Libia dei 18 pescatori di Mazara il giorno dopo lascia il posto alle polemiche. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha rivolto un'interrogazione urgente al governo «per sapere se sia vero quanto sostiene il quotidiano panarabo Asharq al-Awsat, secondo cui un accordo di scambio di prigionieri con l'Italia si è concluso sullo sfondo di una mediazione che riguarderebbe l'estradizione» di 4 cittadini libici condannati in Italia come scafisti. «Ma non si possono mettere sullo stesso piano - chiosa Gasparri - dei lavoratori onesti sequestrati ingiustamente e degli scafisti processati e condannati nel nostro Paese». Il giornale panarabo, edito a Londra e vicino alle posizioni del generale Haftar, ha pubblicato ieri sul sito online l'articolo in questione, firmato dal Cairo. Ma la sua ricostruzione è respinta seccamente, oltre che da fonti di intelligence, dall'avvocato Michele Andreano, il legale incaricato dall'ambasciata libica a Roma di difendere i quattro presunti scafisti (secondo la Libia solo «quattro giovani calciatori»), arrestati nel 2015 per il naufragio di un'imbarcazione che costò la vita a 40 migranti: «Ritengo impossibile l'ipotesi di scambio, credo non sia mai stata presa in considerazione neppure dalla Procura generale di Catania», dice Andreano. I 4, reclusi in Sicilia, sono in attesa del processo in Cassazione. In secondo grado, tre sono stati condannati a 30 anni, il quarto a 20. Della liberazione dei pescatori si occuperà martedì prossimo il Copasir, il Comitato parlamentare che vigila sull'operato dei nostri servizi segreti. E anche la Lega, attraverso i deputati Viviani, Formentini, Zoffili e Pagano, ora chiama in causa il governo: «Ci dica realmente cos'è successo in Libia durante il sequestro. I 18 pescatori, ha raccontato il loro comandante, sono stati trattati da terroristi, chiusi in una gabbia al buio. Invece il governo ci aveva assicurato che non erano stati trattenuti in carcere». Ma il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, stigmatizza: «Trovo inutili queste polemiche politiche, la cosa più importante è stata la liberazione».
Pescatori liberati tornano a Mazara del Vallo, l’abbraccio con le famiglie. Notizie.it il 20/12/2020. Sono finalmente giunti a Mazara del Vallo i 18 pescatori liberati giovedì scorso dopo 107 giorni trascorsi imprigionati nelle carceri libiche. Nella mattinata di domenica 20 dicembre sono finalmente tornati a Mazara del Vallo i 18 pescatori liberati lo scorso giovedì dopo 108 giorni trascorsi imprigionati nelle carceri libiche. Malgrado la forte pioggia abbattutasi in queste ore sulla città siciliana sono decine i parenti radunati sul molo per riabbracciare dopo mesi i pescatori, giunti in Italia dopo circa sessanta ore di viaggio a bordo dei pescherecci Antartide e Medinea. Scortati dalla nave della Marina Militare Carlo Margottini, i due pescherecci con a bordo i pescatori sono entrati nel porto di Mazara intorno alle ore 10 del mattino, dopo essere partiti da Bengasi all’una di notte di venerdì scorso. Proprio dalla Marina Militare è stata fornita l’ultima cena consumata a bordo dagli uomini appena liberati, assieme ad un biglietto che recitava “Bentornati a casa”. Dopo essere entrati in porto, quattro operatori sanitari della Asp di Trapani hanno effettuato i tamponi ai pescatori. Sul molo intanto, sono decine le persone radunatesi sotto la pioggia battente per poter riabbracciare i familiari tornati a casa. Tra questi anche la signora Anna Giacalone, madre di uno dei pescatori prigionieri, che ha dichiarato ai microfoni dei giornalisti: “Non vedo l’ora di abbracciare mio figlio. Non sto nella pelle, questi giorni non passavano mai. Finalmente ci siamo“.
Il commento del sindaco di Mazara. Poche ore prima dell’arrivo dei pescatori in porto, il sindaco di Mazara del Vallo Salvatore Quinci ha lanciato un appello alle autorità competenti affinché il comparto della pesca possa continuare ad operare di nuovo in totale sicurezza, senza il timore di ulteriori episodi di questo tipo: “Ci dicano se possiamo continuare a lavorare o se dobbiamo tirare i remi in barca. […] La pesca garantisce 600 posti di lavoro e altre migliaia nell’indotto. L’Ue si faccia protagonista di una svolta che ridisegni le politiche economiche del Mediterraneo”.
Vincenzo Nigro per “la Repubblica” il 20 dicembre 2020. Poco alla volta emergono altri tasselli sulla liberazione dei 18 pescatori di Mazara in Libia e sulla costruzione politica che il governo italiano ha messo in piedi per liberarli. Il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio quando sono volati a Bengasi dal generale Khalifa Haftar cedevano a una sua richiesta "politica" pur di avere la liberazione dei pescatori. Ma hanno portato anche un messaggio politico affidato loro dal presidente di Tripoli Fayez Serraj. L' uomo che dal 2016 ha retto in condizioni impossibili la barra del "Governo di accordo nazionale", di fronte alla paralisi dei negoziati di Tunisi voluti dall' Onu ha affidato all' Italia una nuova proposta politica da verificare. E lo ha fatto dopo avere trascorso 4 giorni in visita privata a Roma, con la moglie e un segretario. Serraj aveva annunciato di essere prontissimo alle dimissioni quando ci sarà un nuovo presidente del Consiglio presidenziale. Ma un accordo non si trova, per mille ragioni, non solo per l' opposizione di Haftar ma anche per le rivalità nelle stesse due aree in cui è divisa la Libia, Est e Ovest. Serraj ha detto all' Italia e alla Turchia di essere pronto a prolungare il suo mandato, proponendo di congelare il Consiglio presidenziale. Ma si è offerto di trovare posto a una nuova figura del premier, affidata ad un uomo di Haftar. È la proposta politica che Conte e Di Maio hanno presentato al maresciallo. Il 1° settembre Haftar aveva ordinato brutalmente il sequestro dei pescherecci italiani quando aveva visto che, dopo avere di fatto perso la guerra per l' assedio a Tripoli, veniva messo da parte da molti alleati. Anche dall' Italia, un Paese da sempre in equilibrio fra lui e Tripoli. Il ricatto in qualche modo ha pagato, perché l' Italia è stato costretta a inviare due leader politici alla corte del capo-milizia. Una fonte diplomatica italiana commenta dicendo che «anche questa proposta ha mille controindicazioni: la prima è quella che Haftar non saprà chi nominare, perché sa benissimo che il designato dell' Est, se risultasse capace, diventerebbe immediatamente un suo potenziale rivale. Se poi fosse un candidato troppo debole sarebbe invece ostaggio del gioco dei "signori della guerra" e della politica di Tripoli». E in effetti un premier dell'Est trapiantato a Tripoli senza un accordo complessivo avrebbe vita difficilissima. Comunque, l' impegno diplomatico oggi prevedibilmente verrà presentato da Luigi Di Maio in Qatar: il ministro degli Esteri vola a Doha per una visita in cui incontrerà l' altro importante sponsor - dopo la Turchia - del governo di Tripoli. Di Maio ieri è tornato a parlare del caso dei pescatori, salutando i parenti in video-conferenza: «Siamo andati in Libia perchè era importante riportarli a casa il prima possibile».
Cosa ha avuto in cambio Haftar per liberare i pescatori di Mazara del Vallo. Claudia Fusani su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. “Antartide” e “Medinea” hanno acceso i motori intorno alle 15 ora italiana destinazione Mazara del Vallo. A bordo dei due pescherecci i 18 pescatori prigionieri dal primo settembre nelle carceri di Bengasi del generale Haftar. Tre ore prima Giuseppe Conte e Luigi di Maio erano a colloquio con il Generale che non è l’interlocutore istituzionale dell’Italia che ha invece rapporti diplomatici con il Governo nazionale di Tripoli (Gna) girato da Al Serraj. Un colloquio dai contenuti ancora top secret ma che è stata la svolta di questa brutta faccenda durata ben 107 giorni. Decisamente troppi. Altre volte era capitato che i nostri pescherecci si trovassero nei guai per aver superato i confini della pesca. Sequestri o arresti risolti ogni volta in breve e con qualche aiuto economico. Questa volta la vicenda si era messa subito male: lunghe giornate senza info dei nostri; notizie false filtrate ad arte per drammatizzare la situazione (“sono spacciatori”); richieste irricevibili (la liberazione di quattro trafficanti libici detenuti in Italia) a cui seguivano settimane di silenzi. Ora questa storia finisce bene. E ne comincia un’altra: quale è stata la moneta di scambio della liberazione. Prima di tutto va detto che è «stato un sequestro diverso dagli altri, se non si parte da qui – spiega la nostra fonte tecnica – non si capisce neppure perché il presidente Conte oggi è andato di persona a Bengasi col ministro Di Maio e abbia incontrato Haftar». I sequestri in Libia – ne abbiano avuti tanti negli anni – sono stati in genere il canale di finanziamento delle varie bande/tribù militari che impediscono alla Libia di essere il paese che potrebbe essere. Dunque soldi, visibilità e riconoscimenti all’autorità di turno sono stati la moneta del riscatto. Questa volta è stato “un sequestro politico”. Da subito i 18 pescatori sono stati una pedina nella mani del generale Haftar che da anni conduce la battaglia per il controllo non solo di tutta la Libia ma anche di pezzi interi del nord Africa. Il tutto grazie all’appoggio di Russia (Putin sta inviando reparti speciali in Libia), Emirati, Francia, Arabia Saudita ed Egitto, “il più interessato”. L’Italia ha invece tradizionalmente rapporti esclusivi con Tripoli e la Gna, il governo nazionale libico riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato da Al Serraj. È con lui che stringiamo da anni accordi, con fortune alterne, per cercare di fermare il traffico di essere umani dalla Libia. È certo che Haftar abbia preteso, per la liberazione, “un gesto politico esplicito” del governo italiano come ad esempio la presenza di Conte e Di Maio a Bengasi. Dunque le polemiche sulle “passerelle” e gli spot sono per una volta fuori luogo. Così come è certo che il 6 dicembre, Al-Namroush, ministro della Difesa del governo di Serraj, era a Roma per rinnovare un accordo politico-militare con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. In quella occasione il libico avrebbe suggerito ai nostri di cercare la mediazione francese per risolvere lo stallo sui pescatori. E il favore del Cairo che cerca così di abbassare la pressione per il caso Regeni. Ieri Bengasi ha fatto uscire una nota per “elogiare il ruolo che il governo italiano gioca nel sostegno ad una crisi libica”. Il ministro Guerini ha voluto elogiare “chi ha saputo lavorare in silenzio”. I 18 pescatori sono liberi grazie ad un incrocio di favori diplomatici. Il cui punto di caduta è presto per dire. C’era anche Rocco Casalino ieri a Bengasi. In una delle chat di lavoro gli è partita l’immagine della sua geolocalizzazione. Un puntino rosso tra gli hangar dell’aeroporto di Bengasi. Vero o falso che sia per molto meno poteva saltare tutta la trattativa.
(ANSA l'11 novembre 2020) - "Chi ha dato l'ordine di non intervenire militarmente e di passare alla via diplomatica per liberare gli equipaggi dei pescherecci in mano da piu di due mesi delle milizie libiche del generale Haftar? E per quali motivi il Ministro della Difesa, il Ministro degli Esteri e la Presidenza del Consiglio sono venuti a conoscenza solo il giorno dopo del sequestro, con i pescatori già detenuti a Bengasi? ". Lo chiede il deputato di Italia Viva e membro dell'ufficio di presidenza della Camera, Francesco Scoma con interrogazione urgente al Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, al Ministro degli Esteri Luigi di Maio e al Ministro della Difesa Lorenzo Guerini. "Poco dopo le 23 - spiega - , sia il comandante Giacalone sia Marrone, l'armatore dei pescherecci sequestrati, sostengono di aver ricevuto conferma dalla Marina che l'elicottero della Marina fosse già in volo per raggiungere gli equipaggi e per far desistere i sequestratori con l'intervento delle forze speciali. Cosa è successo tra le 23 e le 2.35 quando Marrone riceve l'ultima chiamata dalle autorità che confermano la via diplomatica per la risoluzione della crisi? Perchè l'elicottero con gli incursori del Comsbubin o fucilieri del reggimento San Marco con l'obiettivo di fare desistere i pochi miliziani libici della motovedetta non è più intervenuto?, conclude.
Pescatori italiani rapiti in Libia, un misterioso "blackout": "Per tre ore gli armatori della Marina non hanno risposto alle telefonate". Libero Quotidiano il 05 novembre 2020. Da più di due mesi, il leader libico il generale Khalifa Haftar, detiene illegalmente 18 cittadini italiani catturati in acque internazionali: i 18 pescatori di Mazara del Vallo. Il governo italiano non parla dell'eventuale negoziato che ha avviato con Haftar, ma ormai - scrive Repubblica - la richiesta è "diventata solo un paravento per nascondere il fatto che Haftar si prende la libertà di non restituire i pescatori all'Italia". Il sequestro è avvenuto dopo ore di osservazione di una vedetta libica e con il mancato intervento di un elicottero di un cacciatorpediniere della Marina Militare italiana che era a 115 miglia dall'area del sequestro. Un elicottero la cui semplice presenza sarebbe bastata ad allontanare i miliziani libici. Un elicottero che però non è mai intervenuto. Dopo il primo attacco dei libici sono subito arrivate le prime risposte dalla Marina di Roma. "Ma all'improvviso per 2 o 3 ore la Marina non risponde più alle telefonate degli armatori", spiega una fonte a Repubblica, "poi verso le 3 di notte chiamano per dire che l'elicottero non può intervenire, che il caso ormai è diplomatico e che non c'è nulla da fare". E i nostri pescatori sono ancora ostaggio in Libia...
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2020. Il vescovo paga le bollette della luce, il presidente dell' Assemblea regionale fa arrivare duemila euro a famiglia, sindacati e Federpesca raccolgono altri mille euro a testa, ma i familiari dei 18 pescatori di Mazara del Vallo arrestati due mesi fa dai libici, ancora detenuti in una caserma di Bengasi, non ce la fanno più a sopportare il silenzio calato su un intrigo internazionale sfociato in un processo del quale si ignora tutto. Sarà per Covid ed emergenze connesse, ma pochi si accorgono della disperazione di Rosetta Ingargiola sfiorando questa donna di 74 anni raccolta in sé, per terra, davanti a Montecitorio, un cartello in mano per protestare e ricordare il figlio Pietro Marrone, 44 anni, comandante di uno dei due pescherecci sequestrati il primo settembre dai libici di Khalifa Haftar, il «maresciallo» in lotta contro un altro pezzo del Paese: «Loro si combattono e mio figlio è da 60 giorni in carcere senza capire perché. Come non lo capisco io che un figlio di 24 anni ho perso in mare per una tempesta e che adesso, vedova, aspetto solo il ritorno dell' altro». Parla accanto a una bella ragazza tunisina di 24 anni che la conforta, Insaf, lo stesso dolore, la stessa ansia: «Io voglio solo che mio padre torni a casa. Ho il terrore che tutti dimentichino, qui a Roma. Anche premier e ministri». Lo dice in perfetto italiano, ben integrata in Sicilia dove il padre, Jemmali Farat, lavora come secondo motorista da anni per Marco Marrone, l' armatore di uno dei due pescherecci trascinati con la minaccia delle armi nel porto di Bengasi. Marrone, un ragazzone di trent' anni, sta pure lui in trasferta di protesta a Roma insieme con un' altra ragazza, Maoires, anche lei senza notizie del padre, Maomed Ben Haddata, un marinaio che definisce «un sequestrato». Come fanno Cristina Amabilino per il marito Salvo Bernardo e Rosaria Giacalone per il suo Onofrio, stesso cognome, direttore di macchina del «Medinea». Ecco la pattuglia che con tenda e sacchi a pelo prova a scuotere i Palazzi romani, mentre gli altri familiari rimasti nell' isola assediano il municipio di Mazara con il secondo armatore, Leonardo Gangitano, proprietario dell'«Artemide». Per tutti il dramma è esploso con gli accorati allarmi lanciati via radio dagli equipaggi di altri sette pescherecci di Mazara arrivati quel giorno con i primi due a 60 miglia dalla costa libica. Per pescare il gambero rosso. «Rispettando quindi la norma di non violare le dodici miglia dalla costa di altri Paesi», spiega Marrone. Ma c' è un pezzo di Libia che ha allungato a 74 miglia la linea delle «sue» acque «territoriali». Autonomamente. Rivendicando un diritto da nessuno riconosciuto. Anche sparando colpi di mitragliatrice. E bloccando «Medinea» e «Artemide» mentre gli altri natanti riuscivano a disperdersi e tornare a Mazara. Dove adesso sono tutti terrorizzati perché qualcuno sussurra che alla violazione di ipotetici confini potrebbe aggiungersi la presunta presenza a bordo di un po' di droga. «Un' accusa infamante, se prendesse corpo», assicurano armatori e familiari temendo una trappola di milizie infide. Di qui l' appello al premier Conte e al ministro Di Maio di scuotere i loro interlocutori dall' altra parte del Mediterraneo. «Ma il premier ci ha ricevuti solo il 29 settembre in fretta assicurando il possibile. Si parla di "Servizi" all' opera. Ma nulla accade», ripetono per telefono la mamma, le due ragazze e le due mogli a chi è rimasto a Mazara. «Qui ogni tanto passa un deputato, poi niente», si lamenta Marrone, preoccupato anche da una ipotesi inquietante: «La cosa peggiore è sentir dire che possano diventare merce di scambio per barattarli con quattro libici detenuti in Italia». Un riferimento chiaro ai quattro partiti da Bengasi nel 2015, condannati a 20 e 30 anni di carcere a Catania come assassini e trafficanti. Ma indicati come vittime di un clamoroso errore «perché si tratta solo di calciatori in cerca di fortuna», sostengono parenti e tifosi in contatto con l' avvocato Cinzia Pecoraro che spera nella Cassazione, negando però ogni negoziato: «Mai dalla Libia si è parlato di ostaggi. Una bufala». A ben altra trattativa si affidano invece tutti. Compresi i due armatori che, «ovviamente mettendo al primo posto le vite umane», sperano anche nella restituzione delle imbarcazioni. «Perché senza non si può lavorare e vivere».
Pescatori sequestrati in Libia, Di Maio: “Lavoriamo per riportarli indietro, entrati in area non autorizzata”. Le Iene News il 21 ottobre 2020. Silvio Schembri incontra a Mazara del Vallo, nel trapanese, le famiglie dei 18 pescatori trattenuti con la forza da oltre 50 giorni in Libia. Erano in acque internazionali. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio parlando con la Iena: “Lavoriamo per riportarli indietro, sono entrati in area non autorizzata sotto il controllo di truppe militari”. Silvio Schembri ci racconta il sequestro dei 18 pescatori di Mazara del Vallo trattenuti da oltre 50 giorni a Bengasi, in Libia. I pescatori, che facevano parte di un gruppo di 9 motopescherecci impegnati in una battuta di pesca in acque internazionali, sono stati avvicinati da imbarcazioni della guardia costiera libica e costretti con le armi a seguirli fino a Bengasi, città sotto il controllo del generale Haftar. Silvio Schembri, prima di chiedere spiegazioni al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha incontrato alcuni dei pescatori scampati al sequestro che hanno raccontato quelle lunghe ore di paura e le famiglie dei 18 ancora nelle mani dei libici. Le due imbarcazioni, Medinea e Antartide, si trovavano nelle acque internazionali mentre per le autorità libiche avrebbero sconfinato in una zona ritenuta di sua esclusiva pertinenza. Una decisione unilaterale della Libia insomma, secondo la quale la zona di competenza esclusiva si estenderebbe fino a 74 miglia dalla propria costa e quindi ben oltre le 12 miglia riconosciute da tutti i paesi del mondo. Un’area pescosissima quella, nella quale i pescatori di Mazara sono abituati ad andare, anche perché sapevano di essere protetti dal servizio della Marina chiamato Vigilanza Pesca o “Vipe”, che assicura la presenza navale continua nelle acque sostengono del Canale di Sicilia. Una missione che però da qualche tempo, come raccontano gli stessi pescatori siciliani, sembrerebbe fare acqua in tutti i sensi. L’armatore della Annamadre spiega: “Abbiamo chiamato i soccorsi 5 minuti dopo che hanno iniziato a sparare. Ci hanno detto che stavano intervenendo ma dopo un po' non abbiamo sentito più nulla. Sentivamo solo i comandanti che gridavano aiuto...”. Silvio Schembri va a parlare del dramma dei 18 sequestrati e delle paure dei pescatori siciliani con il ministro degli Esteri Luigi di Maio. “Qui il tema è molto semplice”, ci dice. “Abbiamo i pescherecci italiani che sono entrati in un’area non autorizzata. Quell’area è un’area sotto il controllo di truppe militari”. Un’area, spiega ancora il ministro Di Maio, non riconosciuta però dal nostro governo. Silvio Schembri chiede spiegazioni al ministro, che prosegue: “Non abbiamo servizi di scorta ai pescherecci”. “Non c’è stato ancora nessun processo avviato. Per quello che mi riguarda, questa richiesta non è mai stata notificata ufficialmente da alcuna parte, però tante delle cose che noi stiamo affrontando in questi giorni, e in queste ore - perché mentre parlo con lei ci sono tutti gli apparati dello Stato che stanno lavorando - noi non le renderemo pubbliche perché noi ci assicuriamo della salute dei cittadini e pescatori siciliani e allo stesso tempo lavoriamo per riportarli indietro”. Intanto da oltre 50 giorni 18 nostri pescatori sono trattenuti con la forza lontani dalle loro famiglie, per avere pescato in acque internazionali.
Pescatori sequestrati: i ministeri rispondono al nostro servizio, ma qualcosa ancora non torna. Le Iene News il 23 ottobre 2020. Nota congiunta, dopo il servizio di Silvio Schembri sul sequestro di 18 italiani in Libia che rivedete qui sopra, dei ministeri degli Esteri e della Difesa: “Nessuna motovedetta italiana ad Haftar”. Allora chi attacca i nostri pescatori? L’ambasciatore libico: “Parole strumentalizzate”. Ma appare in diretta tv con la madre di uno dei presunti calciatori arrestati in Italia. Qualche giorno fa vi abbiamo parlato dei 18 pescatori di Mazara del Vallo detenuti in Libia dall’esercito del generale Haftar di Bengasi dopo essere stati fermati in acque internazionali durante una battuta di pesca da una motovedetta libica. Quello specchio di mare viene rivendicato come “Zona economica esclusiva” dalla Libia, anche se nessuna comunità internazionale riconosce questo diritto. Nel servizio del nostro Silvio Schembri che rivedete qui sopra, abbiamo raccontato il dolore delle famiglie, ma anche un problema con cui i pescatori della marineria di Mazara del Vallo convivono da alcuni anni: l’assenza della “Vigilanza pesca”, un servizio svolto dalla Marina militare italiana a sostegno di tutte le navi e pescherecci battenti bandiera italiana che si trovano nelle acque di fronte alla Tunisia e alla Libia, che, nel Mediterraneo orientale, da un paio d’anni non funzionerebbe più. Anche la notte del sequestro dei nostri 18 pescatori era stato lanciato l’allarme, ma nessuno è riuscito ad intervenire in tempo. Tra le stranezze di cui vi abbiamo parlato c’è anche un presunto accordo per il trasferimento di prigionieri tra l’Italia e la Libia, di cui si è discusso soltanto pochi giorni prima del sequestro dei pescatori italiani, così come dimostra il video di una tv libica in cui interviene proprio l’ambasciatore libico in Italia. Questo perché il generale Haftar avrebbe chiesto la liberazione di quattro presunti calciatori detenuti in Italia con l’accusa di essere trafficanti di uomini, condannati a 30 anni di carcere. In seguito alla messa in onda del nostro servizio, il ministero degli Esteri e il ministero della Difesa hanno voluto chiarire alcuni aspetti trattati nel servizio. I due ministeri, con una nota congiunta, dicono: "Il Governo italiano riconosce esclusivamente il governo di Tripoli, unico considerato legittimo dalla Comunità Internazionale e dunque dalle Nazioni Unite. È quindi ovvio che non sia in vigore tra l’Italia e una istanza non riconosciuta alcun trattato sullo scambio di detenuti (il video dell’ambasciatore Omar Al Tarhouni che avete trasmesso non a caso è stato smentito dall’ambasciatore in persona nelle ultime ore)”. Le cose però non sembrano stare esattamente in questi termini. L’ambasciatore libico in Italia ha detto che il suo intervento nella tv libica “è stato usato a fini strumentali e non corrisponde affatto a ciò che ho realmente detto”. Anche se sembrerebbe smentire se stesso e non il nostro servizio, dato che nella sua dichiarazione - di cui noi abbiamo mandato in onda solo una parte - si riferisce esplicitamente alla detenzione in Italia dei quattro calciatori/scafisti condannati a 30 anni di reclusione a Catania. Durante la trasmissione infatti l’ambasciatore è in collegamento telefonico, trasmesso in diretta dalla tv libica, con la madre di uno di questi e pronuncia alcune frasi inequivocabili. All'intervistatore, che gli chiede se la madre del ragazzo detenuto in Italia potrà rivedere il figlio in Libia e "se avverrà uno scambio di prigionieri”, l’ambasciatore risponde: “Voglio rassicurarla sulla situazione riguardante suo figlio e i giovani calciatori. C'è un accordo al vaglio del ministero della Giustizia italiano e di quello libico. ll 19 giugno 2019 è stata accordata una data definitiva per l’approvazione da parte di entrambe le parti. Tre settimane fa abbiamo presentato una richiesta di revisione delle carte o, in alternativa, uno scambio di prigionieri basato sull’accordo in lavorazione tra l’Italia e la Libia”. Ma il concetto di “scambio” viene ripetuto anche in altre parti dell’intervista all’ambasciatore: “Purtroppo a oggi non è ancora stato né firmato né approvato questo accordo di scambio, se dovessimo raggiungere questo accordo con l’Italia potremmo riportare in Libia i nostri giovani. Quando parliamo dei detenuti mi riferisco ai giovani condannati a 25 e 30 anni”. D’altra parte esiste nei documenti ufficiali del ministero della Giustizia italiano una precisa traccia di un Trattato internazionale con la Libia, di cui l’ambasciatore è il legittimo rappresentante, in tema di “Trasferimento di detenuti tra l’Italia e la Libia”. I contenuti di questo trattato, tra l’altro, non ci risulta siano pubblici. Per di più, l’intervista all’ambasciatore libico che abbiamo trasmesso risale al 23 agosto 2020, cioè una settimana prima del sequestro dei pescatori mazaresi da parte delle milizie di Haftar. Il ministero degli Esteri e quello della Difesa italiani inoltre hanno precisato che “lo Stato italiano non ha mai fornito alcuna motovedetta alle istanze della Cirenaica (cioè alle milizie del generale Haftar). Nel servizio de Le Iene il giornalista, testualmente, dice: «Quindi noi abbiamo regalato le motovedette ai libici e loro li usano per attaccare i nostri pescatori. Esattamente quello che è successo il 1° settembre». Questo, alla luce di cui sopra, è totalmente falso”. (Noi in realtà abbiamo detto "esattamente quello che sarebbe successo…"). E questo è il punto che proprio non riusciamo a comprendere: c’è un video che parla chiaro e mostra una delle motovedette donate dall’Italia alla Libia (la 654) mentre tenta di abbordare un peschereccio italiano. In quell’occasione la motovedetta libica viene messa in fuga da un elicottero e da una unità navale della nostra Marina Militare, intervenuti a protezione del motopesca. Ma se motovedette come quella ripresa nel video non sono in possesso delle milizie di Haftar, come sostengono nella nota i ministeri, allora a chi risponde quella ripresa nel video mentre fugge dopo aver tentato di abbordare un nostro peschereccio? La risposta ce la dà la stessa nota governativa: "L’Italia, come altri Paesi europei, ha fornito, nel tempo, alle legittime Autorità di Tripoli strumenti e mezzi (tra cui la motovedetta PV Sabratha 654, che però è in riparazione in Italia dal 3 agosto) per le attività di contrasto al traffico di esseri umani”. Il che renderebbe forse ancora più grave quanto abbiamo documentato, perché se quella motovedetta (la 654) era agli ordini di Sarraji e delle autorità di Tripoli (e quindi del governo riconosciuto anche dall’Italia), si tratterebbe di un attacco messo in atto da chi viene costantemente aiutato e supportato dall’Italia. Sempre secondo la nota dei due Ministeri, però, nel nostro servizio c'è altro che non quadra: "Nel caso specifico, al momento dell’acquisizione dell’informazione riguardo il fermo del motopesca Natalino, l’unità navale più vicina navigava ad oltre 115 miglia nautiche di distanza. Le possibilità di intervento fuori dalle acque territoriali libiche sono state precluse dalle distanze in gioco (tra le 5 e le 6 ore di navigazione), dalla vicinanza del motopesca alle acque territoriali libiche, dalla dinamica dell’evento che ha visto il personale militare libico presente a bordo del motopesca già alla ricezione dell’informazione dell’abbordaggio”. Ma noi, in realtà, non abbiamo mai parlato di un intervento di una unità navale, ma di un elicottero, come riferitoci da chi ha chiamato gli aiuti. Infatti questo intervento sarebbe stato promesso ai pescatori vittime dell’attacco. Un elicottero dedicato alla Ricerca e soccorso in mare viaggia infatti a una velocità di almeno 90/100 miglia orarie e in circa un'ora di volo avrebbe potuto quindi essere sul punto dove la motovedetta libica stava fermando i pescherecci italiani, a circa 30 miglia dalla costa libica, ben al di fuori delle 12 miglia delle acque territoriali. E le operazioni non sono durate mica poco: i pescherecci italiani, sotto la minaccia delle armi, hanno navigato per diverse ore, almeno 5 - prima di entrare nelle acque territoriali libiche riconosciute. Il che lascerebbe pensare che il tempo per intervenire era sufficiente. Nulla dice invece il comunicato sul punto principale: il fatto pacifico e non smentito che le nostre autorità militari intimano ai nostri motopesca di non entrare nell’area delle acque internazionali autodichiarata come “Zona esclusiva” dalle autorità libiche e controllate dalle motovedette di Haftar, la cui autorità, come dichiara la stessa nota ministeriale, l’Italia non riconosce. Il ministro Di Maio ha sostenuto che i pescatori fossero in una zona dove non dovevano andare in quanto zona di guerra dichiarata ad alto rischio. Quello che rimane da capire è come quel tratto di mare possa essere considerato “zona di guerra” se nessuna delle due fazioni libiche dispone di effettiva forza navale.
Felice Cavallaro per il Corriere della Sera il 14 settembre 2020. Il sequestro dei due natanti e dei 18 pescatori siciliani bloccati a Bengasi da dieci giorni rischia di trasformarsi in una proposta indecente, «comunque irricevibile». Perché dalla Libia, non dalla Tripoli del traballante governo riconosciuto dall' Onu, ma da ambienti considerati vicini al generale della Cirenaica Khalifa Haftar rimbalza in Italia la proposta di una trattativa che trasformerebbe in ostaggi i pescatori accusati di avere violato le acque libiche. Ostaggi da scambiare con quattro libici arrestati nel 2015 a Catania, processati in Corte di assise e in Cassazione, condannati a 30 anni come trafficanti di migranti e assassini. Considerati però da amici, familiari e miliziani libici solo dei presunti «giovani calciatori». Una tesi bizzarra sostenuta da un nugolo di parenti schierati al porto di Bengasi con cartelli rivolti ad Haftar perché non si tratterebbe di trafficanti, ma di attaccanti e terzini che avrebbero voluto raggiungere la Germania per essere arruolati come professionisti nelle grandi squadre: «Calciatori in cerca di fortuna, migranti come quelli che viaggiavano con loro, non scafisti». Il contrario di quanto accertato dalla magistratura adesso sconcertata da questa ipotesi definita «ripugnante» dal procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro: «Altro che giovani calciatori. Non furono condannati solo perché al comando dell' imbarcazione, ma anche per omicidio. Avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati». È un quadro surreale perché la richiesta è di fare tornare gli «assassini» in Libia per riprendere a giocare nelle squadre di Bengasi e dintorni. Un quadro destinato ad alimentare polemiche politiche e ad aprire una complessa pagina diplomatica, mentre i servizi di intelligence sono al lavoro invocando riserbo. Ma a temere che il silenzio non aiuti a liberare i pescatori sono i familiari dei 18 siciliani riuniti con gli armatori dei due pescherecci, Antartide e Medinea. Tutti raccolti in un magazzino del porto di Mazara. Decisi a protestare contro «l' inefficienza del governo italiano», come dice Leonardo Gancitano, l' armatore dell' Antartide: «Ci siamo resi conto che con quel pezzo di Libia hanno rapporti solo Turchia e Francia. E quindi abbiamo pensato che forse è meglio rivolgerci a Macron, anziché a Conte...». Amara considerazione echeggiata mentre molti ringraziavano solo una deputata eletta a Mazara con i Cinque Stelle, Vita Martinciglio, come affonda Gancitano: «È l' unica a darci notizie. Gli altri impegnati in campagna elettorale. Distratti da quello che diventerebbe un ricatto, se le notizie di uno scambio dovessero prendere davvero corpo». E prova a confortare donne disperate come Rosaria Giacalone, moglie del direttore di macchina di uno dei due pescherecci, o Rosa Ingargiola, madre di Pietro Marrone, il comandante del Medinea: «La notte non si dorme, il giorno si piange, voglio rivedere mio figlio...». S' affaccia lo spettro del ricatto. Ma ogni margine di trattativa sembra svanire davanti a un processo con imputati considerati responsabili di quella che fu definita «la strage di Ferragosto». Cinque anni fa i quattro libici, tutti fra i 23 e i 25 anni, Joma Tarek Laamami, Abdel-Monsef, Mohannad Jarkess e Abd Arahman Abd Al Monsiff, con quattro marocchini, anche loro condannati e reclusi in carcere, furono accusati di non avere liberato i 49 migranti rinchiusi in stiva. Per questo il procuratore Zuccaro considera l' eventualità di «uno scambio di ostaggi» una enormità giuridica: «Non penso che verremo interpellati, ma da operatori del diritto saremmo assolutamente contrari. Sarebbe una cosa ripugnante».
Quei pescatori di Mazara del Vallo finiti nella rete dei ricatti di Haftar. Diciotto lavoratori del mare prelevati in acque internazionali e ora in ostaggio del generale. Che vuole in cambio la liberazione di quattro calciatori condannati in Italia come scafisti. E la diplomazia non riesce a risolvere il caso. Marta Bellingreri. L'Espresso l'8 ottobre 2020. L'aula Consiliare di Mazara del Vallo da due settimane è occupata. I lavori dell’assemblea cittadina interrotti. Nel frattempo anche a Roma, davanti al Parlamento, c’è un presidio permanente. «Non ce ne andremo da qua finché i nostri padri, fratelli, mariti e amici non torneranno a casa», dice Naoires Ben Haddad da piazza Montecitorio. Così come afferma contemporaneamente Marica Calandrino dall’aula occupata del Comune di Mazara. A fare questa pressione sulle istituzioni e provare a tenere alta l’attenzione sono le famiglie dei pescatori di Mazara del Vallo arrestati in acque internazionali e portati in carcere a Bengasi, in Libia, lo scorso primo settembre.
I pescatori sequestrati da Haftar dimostrano che i libici si sono presi il Mediterraneo. Con i nostri soldi. Stanno marcendo in prigione. Dimenticati da Palazzo Chigi e dalla Farnesina. Ostaggi di un signore della guerra che per liberarli chiede uno scambio con quattro trafficanti di esseri umani spacciati per “calciatori”. Umberto De Giovannangeli il 29 settembre 2020 su globalist.it. Stanno marcendo nelle prigioni di Haftar. Dimenticati da Palazzo Chigi e dalla Farnesina. Ostaggi di un signore della guerra che per liberarli chiede uno scambio con quattro trafficanti di esseri umani spacciati per “calciatori”. Secondo quanto riportato dal generale Mohamed al Wershafani dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) all’agenzia Nova, i pescatori verranno processati da un tribunale militare di Bengasi nel mese di ottobre. Al Wershafani ha precisato che l’accusa è di ingresso e pesca in acque libiche senza previa autorizzazione. Nei giorni scorsi sono comparse su alcune testate online libiche foto di panetti di droga rinvenuti, secondo questi ultimi, sui pescherecci italiani Antartide e Medinea. Cosa questa definita inventata dagli armatori e dai familiari dei marittimi. Infatti non figura, per ora, l’accusa relativa al sospetto traffico di sostanze stupefacenti. La scorsa settimana, fonti della Procura di Bengasi avevano riferito sempre ad Agenzia Nova che i pescatori italiani fermati dalle autorità dell’est della Libia si trovavano ancora “agli arresti domiciliari e non sono stati trasferiti in carcere, in attesa della formulazione dei capi di accusa e la definizione del procedimento penale”. “Dopo 26 giorni non abbiamo ancora alcuna notizia sul rilascio dei due motopescherecci di Mazara del Vallo, sequestrati dalle autorità libiche il primo settembre. Non è assolutamente tollerabile questo silenzio da parte del ministero degli Esteri”. Lo scrive, in una nota, il presidente della Regione siciliana Nello Musumeci. «Lo sapevate che 18 pescatori di Mazara del Vallo sono tenuti in ostaggio da oltre 27 giorni? Sapevatelo e dicetelo al governo. #Pescatoriliberi». Lo scrivono su Twitter Ficarra e Picone. “Dove sono il signor Conte e il signor Di Maio, se fossero stati i loro figli si sarebbero mossi più velocemente ma noi siamo da una settimana qui a chiedere un intervento che non sia quello di un portavoce”. A lanciare l’appello questa sera 28 settembre, alla trasmissione Mediaset di Nicola Porro a Quarta Repubblica, è la signora Rosa uno dei familiari dei pescatori dal primo settembre rinchiusi nel carcere libico di El Quefia. “Ci siamo resi conto che con quel pezzo di Libia hanno rapporti solo Turchia e Francia. E quindi abbiamo pensato che forse è meglio rivolgerci a Macron, anziché a Conte.”, è l’amara considerazione dice Leonardo Gancitano, l’armatore dell’Antartide, una delle due motopesca sequestrate dai libici. “Nessuno di noi è estraneo, siamo fratelli anche se non di sangue – rilancia il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero - importante è che i pescatori sentano che qui c'è una città, che c'è una chiesa che sta sposando pienamente la loro causa, siamo con loro, con la nostra presenza silenziosa, raccolta, vogliamo che questa trattativa che è complessa e difficile vada presto a buon fine”.
Trattativa “segreta”. Un tweet del Libyan Addres Journal conferma ciò che da giorni si dice a Mazara del Vallo, a proposito della vicenda del sequestro in Libia di 18 pescatori, Il tweet rende ufficiale ciò che anche le autorità italiane ritenevano ufficioso e qualcuno anche infondato: l’esistenza di una trattativa dietro quella ufficiale, rimasta ferma però al palo. I miliziani di Haftar hanno ribadito infatti alla testata giornalistica libico che i pescatori “ (da quattro settimane a Bengasi) saranno liberati, se prima non vi sarà da parte dell'Italia il rilascio di quattro «calciatori» libici oggi in carcere in Italia. Uno scambio di prigionieri insomma. E la trattativa nascosta è diventata così quella ufficiale. I libici indicati come “calciatori” sono in realtà quattro scafisti, condannati a Catania a 30 anni per traffico di esseri umani e per la morte in mare di 49 migranti, fatto risalente all’estate 2015. Una richiesta che mette a pari la storia di 18 persone che erano in mare per lavoro e quella di 4 soggetti che in mare andavano per guadagnare sulla pelle di 49 migranti, tutti morti affogati davanti alla costa orientale siciliana. Sottolinea il procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro: “Altro che giovani calciatori. Non furono condannati solo perché al comando dell’imbarcazione, ma anche per omicidio. Avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati”. Per questo il procuratore Zuccaro considera l’eventualità di «uno scambio di ostaggi» una enormità giuridica:” Non penso che verremo interpellati, ma da operatori del diritto saremmo assolutamente contrari. Sarebbe una cosa ripugnante”.
Acque contese. Scrive Alessandro Puglia, in un documentato report su Vita: “Un mare dove nessuno deve vedere, scomodo, in cui ciò che è lecito viene stabilito di volta in volta, senza testimoni. Un mare dove se cali la tua rete da pesca devi stare attento perché puoi essere sequestrato, minacciato con le armi e magari rinchiuso in uno dei tanti lager dove ogni giorno centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini vengono torturati. No, questo non è un mare lontano. É il nostro mare, il Mediterraneo Ma cos’è accaduto da quando uno stato diviso in più fazioni e in guerra come la Libia ha istituito la sua zona Sar che per i non addetti ai lavori significa letteralmente “ricerca e soccorso in mare”? E cosa c’entra il Golfo di Sirte? Beatrice Gornati, dottore di ricerca in diritto internazionale all’Università degli studi di Milano esperta in traffico di migranti nel Mediterraneo spiega: ‘Bisogna tenere presente che nel 1973 la Libia dichiarò che il Golfo di Sirte fosse parte delle sue acque interne: il Golfo fu annesso attraverso una linea di circa 300 miglia, lungo il 32°30’ parallelo di latitudine nord. Tuttavia, tale rivendicazione fu respinta da un gran numero di Stati, inclusi i principali membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito). A seguito di questo episodio, nel febbraio 2005, la Libia stabilì inoltre, tramite una decisione del Libyan General People’s Committee, una zona di protezione della pesca, nel rispetto della General People’s Committee Decision No. 37 del 2005. Anche in questo caso, la delimitazione stabilita dalla Libia incontrò le proteste di diversi Stati e della Presidenza dell’Unione europea: considerando infatti che la Libia aveva rivendicato il Golfo di Sirte quale parte delle sue acque interne, le 62 miglia di zona di pesca da essa reclamate sarebbero state contate a partire dalle 12 miglia dalla linea di chiusura del golfo. Peraltro, nel 2009, la Libia dichiarò una ZEE (zona economica esclusiva) ‘adjacent to and extending as far beyond its territorial waters as permitted under international law’ ,il cui limite esterno, ad oggi, non è ancora stato tracciato. il 28 giugno 2018 l’Imo (Organizzazione Marittima internazionale) ufficializza quello che in passato appariva come un’utopia e registra su comunicazione delle autorità libiche la zona Sar (Search and Rescue) libica con un proprio centro di coordinamento di soccorsi (JRCC). Registrandosi sul sito è possibile consultare alcuni dati, visionare la mappa e conoscere altitudine e longitudine dell’area in questione. Muniti di carta nautica, abbiamo calcolato queste distanze. Dalla costa di Tripoli alla linea rossa di confine le miglia sono circa 116,25. É chiaro quindi perché i pescatori siciliani hanno tutto il diritto di dire oggi che da un anno a questa parte i libici ‘si sono presi mezzo Mar Mediterraneo’. Il capitano Raimondo Sudano (uno dei rappresentanti dei marinai di Mazara del Vallo, ndr) aggiunge: ‘E questo avviene anche grazie all’Italia che dà alla guardia costiera libica i mezzi di sostentamento per fare la Guerra a noi italiani che andiamo a lavorare onestamente. I libici si sono ora fatti anche furbi, oltre che con le motovedette vengono a fare gli abbordaggi in mare con le barche da pesca e subito dopo arrivano i loro gommoni e non hai neanche il tempo di chiamare le autorità italiane che vieni sequestrato con tutto il pescato e trattato come un terrorista”. “La paura di tornare in mare è tanta - rimarca ancora Puglia -e si sovrappone a quel senso di abbandono da parte dello Stato che non tutela i suoi pescatori. Scrive l’esperto Fabio Caffio che, pur ricordando l’impegno passato della nostra Marina nello Stretto di Sicilia e nell’Adriatico dall’aggressività jugoslava, rimarca: ‘Diverso invece l’impegno della Marina nella zona di acque internazionali ove ricade la ZPP libica: non risulta infatti che la Forza Armata abbia ricevuto alcuna direttiva di proteggere da vicino ed in modo continuativo l’attività di pesca dei connazionali contrastando la pretesa libica”.
Il reportage è del 24 maggio 2019. Il titolo era: “La denuncia dei pescatori siciliani: ‘così i libici si sono presi il Mediterraneo’”. E’ trascorso più di un anno. E quel titolo è drammaticamente attuale. E ciò che rende ancora più intollerabile la situazione, è che i libici “si sono presi il Mediterraneo” anche grazie ai finanziamenti italiani alla cosiddetta Guardia costiera libica e al fatto che, per “paura” di dover salvare migranti, le navi della nostra Marina militare non possono avventurarsi in mare aperto. Quel mare che da tempo non è più “nostrum”.
"Manca il visto". I nostri militari respinti dalla Libia. In Libia siamo alla beffa. I nostri militari giunti per un cambio del contingente a Misurata, che gestisce l'ospedale da campo, è stato rimandato indietro con la scusa che non avevano il visto d'ingresso. Fausto Biloslavo, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. In Libia siamo alla beffa. I nostri militari giunti per un cambio del contingente a Misurata, che gestisce l'ospedale da campo, è stato rimandato indietro con la scusa che non avevano il visto d'ingresso. Non solo: a Tripoli gli uomini del comandante della missione militare italiana Miasit, compresa la scorta, sono disarmati perché i libici non li hanno mai autorizzati. «Segnali piccoli e grandi, ma pure pericolosi, che i turchi non ci vogliono fra i piedi in Libia. A Misurata hanno messo gli occhi sull'aeroporto, dove abbiamo da anni il nostro ospedale da campo», spiega una fonte militare del Giornale. Il senatore Enrico Aimi, capogruppo di Forza Italia in Commissione Esteri, ha denunciato la beffa dei militari rimandati a casa. Nel pomeriggio del 30 luglio un Hercules C 130 decollato da Pisa era atterrato alle 17.30 a Misurata con una trentina di soldati italiani a bordo. «Ad alcuni militari del Celio e della brigata Julia è stata però negata l'autorizzazione allo sbarco da parte delle autorità libiche, perché mancava sul loro passaporto il visto d'ingresso. Un caso di respingimento senza scrupoli, ridicolo e al tempo stesso umiliante» denuncia Aimi. Sei miliari hanno potuto scendere, ma altri 17 sono dovuti tornare indietro. In Libia abbiamo un massimo di 400 uomini, 142 veicoli, 2 mezzi aerei e una nave nel porto di Tripoli in appoggio alla Guardia costiera nel contrasto alle partenze dei gommoni verso l'Italia. «La notizia ha dell'incredibile e dimostra che a livello internazionale il nostro Paese non conta più nulla. Mentre in Italia arrivano dalle stesse coste a ritmo sempre più serrato migliaia di clandestini che finiscono per finanziare i trafficanti di uomini, dalla Libia ci impongono di ritornare da dove siamo venuti» attacca Aimi, che preannuncia un'interrogazione parlamentare. Lo zampino dei turchi è evidente, ma nella capitale la situazione appare ancora più pericolosa con la scorta e il personale disarmati del generale di brigata Maurizio Fronda comandante della missione. Solo i carabinieri del Tuscania in difesa dell'ambasciata possono girare con le armi. Il comando alloggiava in un albergo vicino, non proprio il massimo dal punto di vista della sicurezza. Adesso si stanno spostando, ma sempre senza armi.
Il ruolo del Niger nell’arrivo di massa di migranti in Italia. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo il 14 settembre 2020 su Inside Over. Dall’altra parte del Mediterraneo, nell’Africa centro-occidentale, v’è uno Stato che, sospeso tra Sahara e Sahel, rappresenta uno dei territori più delicati e strategici del continente: il Niger. Una nazione che si caratterizza, tra le altre cose, anche per il “semplice” motivo di rappresentare il punto di partenza, prima ancora della Libia, di diverse migliaia di migranti che si imbarcano nei viaggi della speranza per raggiungere i confini italiani, vere e proprie porte d’Europa. Un territorio base per quanto concerne le partenze ma che “dietro le quinte”, fa registrare anche diversi fenomeni di violenza nei confronti degli stessi protagonisti dei viaggi che diventano vittime dei loro aguzzini membri delle organizzazioni criminali.
Migranti rischiano di morire nel deserto. Sono più di 80 i migranti africani che, all’inizio di questo mese, hanno rischiato di morire in territorio nigerino e nel pieno del deserto del Sahara se non fosse stato per un’equipe dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), intervenuta con un’operazione di salvataggio prima che fosse troppo tardi. Gli sfortunati protagonisti di questa vicenda e provenienti da Nigeria, Togo, Mali e Ghana, erano a bordo dei camion guidati dai trafficanti i quali, alla vista dei militari, hanno deciso di abbandonare i loro passeggeri. Soli, senza acqua e senza cibo, sono stati scaricati nella vastità del deserto a 230 chilometri a nord di Dirkou. Fra loro anche bambini e feriti, alcuni dei quali in condizioni delicate. Fortunatamente sono stati avvistati in tempo da alcuni componenti dell’Oim ricevendo i soccorsi necessari. Sono circa 400 le persone salvate quest’anno dall’Oim in questa zona e numerose quelle che hanno perso la vita durante la tratta perché, vista la grandezza dell’area, non è possibile riuscire a dar soccorso a tutti. “Non è raro che i trafficanti si liberino dei loro passeggeri”. Sono queste le parole rilasciate all’agenzia Reuters da Paul Dillon, portavoce dell’Oim che prosegue: “Conoscono bene le conseguenze dell’abbandono nel deserto e impressiona questa mancanza di considerazione per la vita umana”.
Cosa accade prima di arrivare in Libia? Dalla Libia i barconi partono per raggiungere le coste italiane, ma cosa avviene prima che inizi un viaggio lungo il Mediterraneo? La vera base delle partenze, dove tutto viene deciso è Agadez, città a nord del Niger punto di riferimento per i tuareg nigerini. Proprio qui viene effettuato lo smistamento dei migranti sulla base della provenienza e poi l’inizio del loro viaggio verso la Libia. In questa fase accade che in molti cadono nelle mani degli aguzzini. Sfruttando il viaggio di attraversamento del deserto e la situazione politica della Libia, i membri delle organizzazioni criminali ne approfittano per schiavizzare i migranti nei propri campi. Fatti questi venuti alla luce grazie alla testimonianza di coloro i quali, una volta giunti in Sicilia, hanno contribuito a fornire elementi utili alla polizia italiana che segue delle inchieste specifiche.
Perché il Niger è la vera base di partenza. Basta guardare una cartina geografica e si può ben intuire il ruolo che il Paese africano ha nei flussi migratori che coinvolgono il Mediterraneo. Il Niger si trova esattamente al centro tra la Libia e il Sahel, chiunque voglia raggiungere via terra le coste della Tripolitania deve necessariamente attraversare il territorio nigerino. I suoi confini settentrionali ben si incastrano con quelli del Fezzan, la regione desertica della Libia che i gruppi criminali usano come base logistica per organizzare i macabri traffici di esseri umani. Ma non è soltanto la geografica a dare al Niger questa centralità. La ragione è anche se non soprattutto politica. Niamey appartiene infatti alla Cedeao (o Ecowas, se si usa l’anagramma in inglese), l’organizzazione internazionale definita più volte come “l’Unione Europea dell’Africa occidentale”. Si tratta infatti di una comunità economica che raggruppa buona parte dei Paesi della regione e che ha nel libero scambio di merci e nella libertà di movimento delle persone il principale obiettivo. In poche parole, non esistono frontiere tra il Niger e i Paesi da cui partono buona parte dei migranti diretti in Libia e quindi in Italia. Il “sogno” di approdare in Europa inizia per migliaia di persone acquistando un semplice biglietto di bus per raggiungere la capitale del Niger. In questa fase non serve l’intermediazione di organizzazioni criminali e di trafficanti, perché per arrivare a Niamey non bisogna attraversare dogane, né tanto meno subire particolari controlli. Quando ancora si circola in Niger, i migranti non si sentono clandestini e coloro che li aiutano a risalire fino ad Agadez non si sentono criminali. È questo il punto fondamentale che ha fatto di questo Paese del Sahel il perno dei flussi migratori. La base dell’immigrazione non è in campi sperduti del Sahara o in vecchie basi militari abbandonate nel Fezzan, bensì in normali e anonime stazioni dei bus di Niamey. Da qui comincia veramente tutto, da qui in poi intere vite vengono poi inghiottite a favore dei lauti traffici criminali legati alla tratta di esseri umani.
La missione italiana in Niger. A dimostrazione della centralità del Niger nel Sahel e della delicatezza del ruolo del Paese su vicende che interessano poi il Mediterraneo, vi è anche l’attenzione sotto il profilo militare rivolta verso Niamey. Come scriveva alcune anni fa l’analista Marco Perduca, il Niger è oramai una nuova “caserma d’Africa”. Il Paese fa gola a molti: la sua posizione centrale e le sue immense riserve di uranio hanno convinto negli anni molti governi a piazzare qui propri contingenti. Chi vuole mettere piede in Africa, non può non essere presente nel Niger. E infatti qui sono stanziati francesi, americani, ma anche tedeschi e italiani. L’obiettivo è quello di lottare contro i è sempre più radicati gruppi jihadisti ed arrestare il traffico di esseri umani che parte da Agadez. Il nostro contingente è presente con 470 uomini, arrivati a Niamey nel 2018. La missione è stata infatti approvata nel gennaio di quell’anno dal governo Gentiloni e rinnovata dai successivi esecutivi. Il 16 luglio scorso il parlamento ha dato via libera al rifinanziamento di questa e delle altre nostre missioni all’estero. I soldati italiani sono impegnati soprattutto nell’addestramento delle forze locali, chiamate anche ad ostacolare il lavoro di chi porta i migranti alle soglie del deserto libico.
Immigrazione, Marco Minniti: "Va gestita in Libia, non qui. Se cade la Tunisia, il caos". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 15 settembre 2020. La pandemia ha sconvolto il mondo ancora più dell'11 settembre, che abbiamo ricordato pochi giorni fa. Ha chiuso in casa centinaia di milioni di persone, fermato processi geopolitici, sconvolto l'economia mondiale, rimesso in discussione i limiti dell'uomo moderno. La sola cosa che pare immune al Covid è il tedio quotidiano della politica nostrana, un'altalena di polemiche di bassa lega e nobili velleitarismi che si infrange immancabilmente sugli scogli della realtà. Le elezioni regionali di lunedì prossimo sono l'ennesimo pretesto per tenere la situazione sottovuoto, pur essendo chiaro a tutti che, sia che si concludano con un 7-0 per il centrodestra sia che finiscano con uno 0-7 in favore della maggioranza, all'indomani non muterà nulla. Fatti salvi eventi eccezionali esterni imprevedibili o un crollo di nervi collettivo dei parlamentari grillini. L'unica cosa che può cambiare, in caso di disfatta dei dem, è la sorte del segretario, Zingaretti, ma siamo al punto che questo ormai non scalda troppo neppure i parlamentari del partito. Marco Minniti osserva la realtà dal suo ufficio. Nei mesi scorsi i commissari europei lo hanno proposto come inviato speciale della Ue per la Libia. Il nostro governo ha lasciato colpevolmente cadere l'offerta. È un numero uno eppure in Italia molti fanno finta di non averlo capito. Lui non è tipo da farsi il sangue amaro per questo. «Quarant' anni fa, dietro la mia scrivania di funzionario del Partito Comunista, campeggiava la scritta "Qui si lavora, non si fa politica". Tradotto: non si fa inutile chiacchiera politicista. E quella era una politica seria, basata su valori e partiti popolari. Oggi non ho cambiato idea. Alzo lo sguardo e vedo la situazione più inedita che la realtà ci potesse consegnare. Il Covid sarà uno spartiacque nella storia del mondo che avrà effetti più duraturi e profondi perfino dell'attacco alle Torri Gemelle, perché la pandemia cambia le regole delle relazioni tra gli uomini». L'Occidente però fatica a capirlo, e a dare una risposta. In Italia la sinistra continua ad attorcigliarsi intorno al proprio ombelico mentre i sovranisti le hanno sfilato la rappresentanza popolare. Quanto all'Europa, non riesce a uscire dal dualismo tra Germania regina dell'economia e Francia guida diplomatica e a dare una risposta unitaria. «Il Mediterraneo si chiamava Mare Nostrum, ora sono acque contese anche tra russi e turchi. Solo pochissimi anni fa sarebbe stato impensabile. La sinistra ha fatto degli errori, ma la destra non fa il suo lavoro, non porta avanti i propri valori, non alza il dibattito, si perde in polemiche di secondo piano», chiosa Minniti. Come influirà il virus negli equilibri mondiali? «I futuri rapporti di forza nel mondo dipendono da come i diversi Paesi usciranno dalla pandemia. Prima del Covid si prevedeva che in dieci anni, tra le prime cinque economie del mondo quattro sarebbero state asiatiche. Oggi India e Cina sono in ginocchio. Chi trova il vaccino fa come Cristoforo Colombo, scopre l'America; da qui tutta la freddezza dell'Occidente verso l'annuncio di Putin, che dichiara di averlo. Una piccola guerra fredda sanitaria».
Se l'Asia si è ammalata, Europa e Usa non paiono godere di migliore salute.
«Gli Stati autoritari non hanno il problema del consenso né della trasparenza; e questo in tempi di pandemia è un grande vantaggio rispetto all'Occidente, che si deve confrontare con l'opinione pubblica. In certi Paesi il bollettino quotidiano dei contagi e dei morti non esiste».
Ho capito. Abbiamo già perso?
«Come Europa, dobbiamo darci una mossa, ma per farlo dovremmo prima aprire gli occhi».
Da dove si parte?
«Dal Mediterraneo, il mare che fu nostrum, e dalla Libia, fondamentale per l'Italia per i flussi migratori, la lotta al terrorismo islamico e l'approvvigionamento di materie prime».
Per un martello, tutto è un chiodo: non sarà fissato lei con il Medio Oriente e la Libia?
«Gli Stati Uniti si sono da tempo ritirati dal Mediterraneo. Già con Obama fecero la scelta drastica di considerare l'Asia come principale terreno di competizione nel mondo. E sbagliò anche l'Unione Europea, che era convinta che la propria sfida fondamentale si giocasse a Est, sul confine russo. Siccome in politica estera i vuoti si riempiono, il risultato di questi errori strategici è che abbiamo regalato un pezzo importante del Mediterraneo e Libia, a Russia e Turchia. Oggi la Sicilia non è più una terra di confine con il Nord Africa ma è la frontiera tra l'Occidente e le autocrazie di Erdogan e Putin. Il primo sta facendo rivivere il sogno dell'Impero Ottomano, il secondo ha realizzato il progetto egemone che fu sia degli zar sia dell'Unione Sovietica».
La Libia fu il grande errore di Obama, dell'Europa e di Napolitano: non è un po' tardi per piangerci sopra?
«L'Occidente si illuse di rispondere alle richieste delle primavere arabe costruendo militarmente le condizioni per l'avvento della democrazia. Obama, poi, ha ammesso l'errore. Per noi che veniamo dal Pci c'era poi il terrore più psicologico che politico di schierarsi contro la Nato. L'Europa poi si lasciò trascinare, anche per ragioni propagandistiche. Il risultato è che adesso siamo di fronte a un freddissimo inverno arabo».
Ma che ci possiamo fare?
«Come Italia, dobbiamo capire che la sfida epocale non è chi vince il referendum sul taglio dei parlamentari. Siamo troppo presi dall'ordinarietà. Come Europa, dobbiamo capire che, per colmare il vuoto lasciato dagli Usa, bisogna correre sulle capacità di difesa e protezione autonoma, altrimenti il Mediterraneo diventerà un centro permanente di instabilità. L'Unione deve capire che la risposta al virus non può essere solo di natura economica».
I segnali le sembrano buoni?
«Per niente. Non si può correre nei conti ma restare fermi sulle gambe in diplomazia. Abbiamo lasciato alla sola Francia la gestione della crisi nel Mediterraneo Orientale, sia in Libano, sia per quanto riguarda le tensioni tra Grecia e Turchia sul controllo dell'isola di Kastellorizo, la stessa del film di Salvatores, al centro di una disputa sul controllo dei giacimenti petroliferi e di gas. Ma l'Europa non può farsi rappresentare da singoli Paesi. E poi, basta sottovalutare il problema dell'immigrazione».
È tornato il Minniti di destra?
«Macché di destra, penso agli interessi dell'Italia. E il primo è non regalare la Libia a Russia e Turchia: la vicenda libica è l'esempio perfetto di come il nostro interesse nazionale non si gioca solo dentro i confini del Paese».
Ci risiamo: perché è così cruciale la Libia?
«È illusorio pensare che il problema dell'immigrazione si risolva con la redistribuzione dei profughi all'interno della Ue. La partita si gioca in Africa, è lì che vanno governati i flussi, più che mai adesso, in epoca di coronavirus. Io da ministro, senza pandemia, ho fatto, con fatica, undicimila ricollocamenti in Europa; e allora erano obbligatori. Adesso c'è la pandemia e dall'estate 2018 la redistribuzione è su base volontaria. È chiaro che non può essere una soluzione di sistema».
Glielo spiega lei alla sinistra italiana?
«Abbiamo già dato. Tocca ad altri, temo, assaporare, per dirla con Dante, quanto sa di sale lo pane altrui».
Ha parlato anche di minaccia terrorista.
«La Libia è storicamente una potenziale piattaforma di attacco. Fino a pochi anni anni fa Sirte era in mano all'Isis. Oggi in Tripolitania, portati insieme con l'esercito turco, ci sono 2.500 combattenti turco-siriani di formazione jihadista. Senza considerare che il giornale inglese The Telegraph ha scritto che Erdogan avrebbe dato il passaporto turco a guerriglieri di Hamas. Fatto gravissimo, se vero, pensando anche che Ankara è nella Nato».
Perché la situazione è precipitata in questo modo?
«Siamo a un passaggio cruciale. Le democrazie nel mondo sono apertamente sfidate nella loro essenza e nella loro sovranità. Questo è il cimento della classe dirigente europea. L'Unione non sottovaluti le mosse di Erdogan e Putin. Se lo fa, l'intera Unione rischia il declino».
La nostra classe dirigente spicca per decadimento?
«L'Italia deve riuscire a far capire alla Ue che la questione libica non è un problema solo nostro. I politici devono uscire dal rimpallo quotidiano di accuse. Dobbiamo ricordarci di essere tra i soci fondatori della Ue e smettere di sentirci il fratello malato dell'Europa, rinunciando a essere protagonisti nel mentre si aspettano, litigando, gli aiuti economici».
Come si sta comportando il ministro degli Esteri Di Maio in Libia?
«Personalizzare sarebbe sbagliato e ingeneroso. In controluce si legge su questi temi la fragilità del sistema Italia; anzi, sorge spontanea una domanda: esiste un sistema Italia? Per esempio, l'Italia tempo fa ha aperto un ospedale militare a Misurata, ma la città ha appena siglato con Erdogan un patto che concede alla Turchia la gestione del porto per 99 anni. È stato appena siglato un cessate il fuoco in Libia che prevede che Sirte diventi città aperta. Si lascia la possibilità che essa diventi la nuova linea di confine tra la zona di influenza turco-quatariana e quella russo-egiziana. In Cirenaica c'è una base russa con Mig 29. Tutto possiamo permetterci tranne la divisione del Paese in due zone d'influenza. L'antidoto ci sarebbe, le elezioni previste, nelle bozze dell'accordo (fragile perché non sottoscritto dal generale Haftar), per marzo 2021. Solo che il voto si sarebbe già dovuto tenere nella primavera del 2018, poi nell'autunno di quell'anno. Un eventuale scetticismo non sarebbe infondato. Fino a quando vogliamo nascondere la polvere sotto il tappeto e far finta di non vedere quel che accade?».
Ha nostalgia di Gheddafi?
«Per niente, anche se bisogna riconoscere che la comunità internazionale intervenne contro il dittatore senza avere un progetto né la minima idea di cosa sarebbe avvenuto dopo. È stata una risposta sbagliata alle primavere arabe e il risultato è che oggi non è la Libia ad avere un debito con la comunità internazionale ma viceversa. E ho paura che il peggio debba ancora venire».
C'è un'altra crisi alle porte?
«C'è il rischio del collasso della democrazia tunisina, l'unica dell'Africa settentrionale, colpita al cuore prima dal terrorismo islamico e poi dal Covid, che hanno cancellato il turismo, la sola fonte di ricchezza del Paese».
Infatti adesso emigrano anche i tunisini, vestiti da spiaggia e con barboncino al seguito.
«Perché emigra anche la classe media. Si è da poco costituito un nuovo governo. L'Europa deve sostenere la Tunisia; la partita va oltre il governo dei flussi migratori. Se collassa anche quella democrazia, l'intero Nord Africa è perduto per l'Europa».
Il racconto shock dall'hangar della morte: «Sevizie e sadismo: poi la rivolta nel sangue». Un gruppo di bengalesi in un centro di detenzione illegale vicino Tripoli dopo giorni di torture senza fine reagisce contro il criminale libico che li teneva prigionieri. Con esiti terribili. Filippo Rossi il 23 luglio 2020 su L'Espresso. Hanno ucciso il “maledetto”, hai sentito il colpo di pistola, no? Ora siamo in pericolo..., grida affannata Amandine, in una registrazione telefonica. Si trova nel mezzo di una rivolta di migranti in Libia. Qualche minuto prima, una trentina di loro si sono ribellati alle continue e insopportabili sevizie subite da un criminale libico (soprannominato “maledetto”), in un centro di detenzione illegale, un hangar nei pressi di Tripoli. Amandine è una migrante camerunese. Per giorni è rimasta imprigionata insieme ad altre 300 persone ammanettate, continuamente torturate e testimoniando atti di rara crudeltà.
Così l’Italia copre le torture delle bande libiche. Renata Polverini su Il Riformista il 30 Luglio 2020. Caro Direttore, per quanto si possa fingere di non vedere e non sapere la realtà, prima o poi, ci presenta il conto. Un conto pagato in vite umane spezzate per sempre, come nel caso dei poveri ragazzi sudanesi mitragliati e uccisi mentre tentavano la fuga dalle prigioni libiche; un conto pagato dai seimila e cinquecento migranti – tra i quali moltissime donne e bambini – che dall’inizio di quest’anno, con il nostro decisivo contributo logistico ed economico, sono stati riconsegnati ai propri aguzzini. Sono tra quei parlamentari che si sono rifiutati di votare il rifinanziamento della nostra missione militare in Libia che, come sappiamo, consiste ormai nel coprire le malefatte della cosiddetta “Guardia Costiera” del martoriato Paese nord africano. Non ho votato quel provvedimento perché ritengo moralmente indegno che con i nostri mezzi navali e con i nostri soldi, si dia sostegno a chi cattura in mare e riporta nei lager sulla terra ferma i migranti che riescono a sfuggire alle violenze ed alle torture cui sono sottoposti. I reportage di un coraggioso giornalista come Nello Scavo, attualmente sotto scorta per le puntuali e documentate denunce pubblicate su Avvenire, come i tuoi pezzi su Il Riformista, hanno ampiamente documentato le condizioni di vita disumane ed i loschi traffici di esseri umani perpetrati dalle bande libiche assoldate dal nostro Governo sin dalla precedente legislatura.
Gentiloni e Minniti prima, Conte e Salvini/Lamorgese, ora, si sono adeguati alle stesse regole d’ingaggio che, nel XVI secolo, Elisabetta I d’Inghilterra aveva stabilito per i “Sea Dogs”, i “cani del mare”, cioè i corsari, dediti alla tratta degli schiavi per conto di una regina che non esitò a promuoverli “Lord” e a farne, come nel caso di Francis Drake, veri e propri eroi nazionali. Ma almeno Elisabetta aveva lo scopo di contrastare l’immenso potere della flotta ispanica nel Mediterraneo; noi abbiamo in mente soltanto il vantaggio elettorale che una politica muscolare sull’immigrazione può dare, in termini elettorali, nel breve periodo. “Sul lungo periodo”, invece, come diceva Keynes, “siamo tutti morti” perché è del tutto evidente che sostenere i criminali libici nella loro attività di carcerieri senza scrupoli o inviare i nostri militari in Sicilia per impedire la fuga dei migranti stipati all’inverosimile in strutture che ne potrebbero accogliere dieci volte di meno, sia soltanto un palliativo oltre che un atto di cinismo politico che umilia il Parlamento molto di più di qualsiasi “spoliazione” di ruolo fatta in nome della “emergenza”. Ci sfugge completamente, infatti, la complessità di ciò che sta accadendo nel “nostro” mare; e così, mentre pensiamo a lucrare qualche voto sulla paura della gente, Egitto, Russia e buon ultima la Turchia, stanno spostando a loro favore gli equilibri geo politici in un’area decisiva per la nostra sicurezza e per i nostri interessi economici. Ma questo non sembra preoccuparci quanto le “fughe di massa” dei migranti da Caltanissetta; figuriamoci poi se qualcuno si domanda da cosa scappano, per quale motivo rischiano la vita loro e dei propri figli o dove mai possono voler andare persone di madrelingua francese come i tanti che stanno fuggendo dalla Tunisia. Però ci indigniamo e mobilitiamo, parlo di una certa destra quantomeno giornalistica, per la libertà di “M49”, alias “Papillon”, il simpatico orso che si beffa regolarmente delle gabbie in cui, a Trento, cerca senza fortuna di costringerlo il Corpo Forestale. Ma forse c’è di più e persino di peggio; mi riferisco al tentativo di “negare” l’esistenza di un’emergenza sanitaria ancora non del tutto risolta in Italia, per inneggiare alla libertà dalla mascherina e da ogni altra “costrizione” dettata dal buon senso, che abbiamo visto andare in scena l’altro ieri al Senato nel convegno organizzato da Vittorio Sgarbi. Stiamo attenti al vero messaggio che quella ridicola messa in scena “negazionista” sottende: gli italiani sono “fuori pericolo” (lascia stare, poi, i vari focolai che investono financo gli alpeggi, luoghi difficilmente frequentati dagli africani in fuga dalle carestie e dalle violenze o, semplicemente , alla ricerca di una vita migliore): oggi il “rischio” vero arriva da fuori, dagli immigrati, i nuovi “untori” contro i quali presto si scateneranno le nuove campagne sovraniste. Stiamo per scendere un altro gradino, forse irreversibile, nel precipizio dove abbiamo gettato la nostra millenaria civiltà e, dopo questo, come per Macbeth dopo il primo delitto, “non vi sarà più nulla di serio” e il “vino della vita” sarà “spillato” per sempre.
Laura Boldrini: “Vi racconto l’orrore dei campi di detenzione”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Luglio 2020. Laura Boldrini, ex Presidente della Camera, dopo una carriera nella Fao e presso il WFP, è stata portavoce dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati. Impegnata con Liberi e Uguali, ha aderito il 24 settembre scorso al gruppo del Pd. Il voto del 16 luglio sul Decreto missioni, che rifinanziava anche la guardia costiera libica, l’ha vista esprimersi contro. Sulle coste libiche la guardia costiera ha aperto il mitragliatore e falciato tre uomini. Era stato appena approvato il rifinanziamento italiano, gli stiamo dando tre milioni di euro. Uno dei motivi per i quali non ho votato quel rifinanziamento è proprio per i metodi che i libici usano verso i migranti, e perché ci sono elementi della stessa guardia costiera di Tripoli che sono in combutta con i trafficanti.
Fanno il doppio gioco?
«Non lo dico come frutto di una mia elaborazione. Risulta chiaramente dai rapporti delle associazioni umanitarie e perfino delle Nazioni Unite, oltre alle decine di inchieste giornalistiche internazionali che lo documentano».
D’altronde è un paese polverizzato, nel caos…
«In Libia c’è un conflitto armato, a tratti cruento, e ci sono delle perdite umane dei libici e dei migranti che sono chiusi a chiave in luoghi di detenzione dai quali non riescono a mettersi in salvo; alla luce di questo ritenevo e ritengo un errore politico rifinanziare la Guardia costiera libica. Il che non vuol dire non sostenere la Libia o comunque il governo internazionalmente riconosciuto. Ci sono modi e modi».
Aiutiamo i libici a casa loro, ma non la guardia costiera?
«Modifichiamo il tipo di aiuto, si dovrebbe incrementare il sostegno allo sminamento, visto che in molte zone sono presenti mine; si potrebbe sostenere la società civile, le famiglie più vulnerabili, gli sfollati interni, vittime del conflitto. Non sto dicendo “freghiamocene della Libia”, sto dicendo che bisogna cambiare. E modificare sostanzialmente il Memorandum of understanding. Io feci un Question time alla Camera, tempo fa. A distanza di qualche mese non se ne è saputo più nulla. Se il Parlamento chiede al governo come intende agire, poi non può non ricevere risposta, non avere più contezza di quel che accade. Quando c’è stato da votare per il rifinanziamento, lo scorso 16 luglio, io e altri colleghi e colleghe di maggioranza non ce la siamo sentite».
Un voto che ha comunque assegnato tre milioni in più dell’anno precedente. Eppure sappiamo piuttosto bene quel che avviene in Libia. C’è chi paragona i centri di detenzione libici ai lager nazisti.
«Sono sempre molto attenta alle parole, la terminologia è sostanza. Ritengo che quelli libici siano luoghi di detenzione dove viene praticato il sopruso, la violenza e anche la tortura. Sia in quelli governativi che negli altri. Viene sistematicamente negato il diritto di accesso ai centri da parte degli organismi internazionali. Sono luoghi dove manca qualunque garanzia di diritto alla tutela delle persone. Sono luoghi dove non si finisce per aver commesso un reato ma dove si sta perché si è entrati irregolarmente nel Paese. Questo devono capire le persone: chi è lì è soggetto a ogni tipo di ricatti, anche economici».
Quasi ostaggi, praticamente.
«Spesso i reclusi in questi centri devono chiedere a chi è rimasto a casa di spedirgli denaro per essere rimessi in libertà. Vengono liberati se pagano, altrimenti rimangono chiusi dentro. Non esiste Stato di diritto, altro che porto sicuro».
Rispetto alle diverse posizioni nella guerra civile libica, sappiamo com’è collocata la guardia costiera?
«È una guerra aperta, quella di Libia dove intervengono anche potenze straniere. Una guerra che ha già causato morti e migliaia di sfollati libici che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case: una situazione di pericolo generalizzato. Ripeto: con una guerra in corso, si possono considerare quelli libici “porti sicuri”? Lo ha ricordato poco fa anche l’Unhcr».
Un avvitamento nella spirale del cinismo. Aiutiamoli a casa loro rimane uno slogan vuoto.
«Sono anni che mi adopero per far passare questo concetto: riportare i migranti intercettati in mare in un luogo non sicuro, vuol dire comunque esporli a nuovi pericoli. È paradossale, quei profughi che scappavano da situazioni di pericolo, riacciuffati dalla guardia costiera libica, già sapevano cosa li attendeva in quei centri di detenzione. E mentre cercavano di mettersi in salvo i libici gli hanno sparato addosso. Questi sono metodi deplorevoli e inaccettabili. I soldi dei contribuenti italiani non possono essere spesi per sostenere chi applica questi metodi».
Dal punto di vista politico quale sarà la sua iniziativa?
«Tutti avrebbero dovuto capire, col voto in aula il 16 luglio scorso, che si stava combinando un disastro. Adesso cosa fare? Spero innanzi tutto che anche alla luce di questo episodio si acceleri la revisione del Memorandum of understandig tra Italia e Libia. Non prendiamoci in giro: avere dalla Libia la garanzia che avrà rispetto dei diritti umani è illusorio. Nel tavolo della diplomazia dobbiamo starci con il senso di realtà».
Realisticamente, cosa si può fare adesso?
«Quel che va fatto in Libia è articolato su tre punti-chiave. Il primo è che vanno chiusi quei centri di detenzione dove sono arbitrariamente trattenuti i migranti, come chiedono le Nazioni Unite da mesi. Il secondo è operare una evacuazione umanitaria, un trasferimento verso tutti quei Paesi che possono offrire delle quote di accoglienza. Terzo, risparmiare sui costi ingenti dei centri detentivi garantendo un uso diverso delle risorse. Perché non offrire ai privati la possibilità di accogliere i profughi in casa? Avrebbe certamente un impatto finanziario minore. Coniugare rispetto per i diritti ed economicità per i contribuenti è possibile e anzi doveroso».
Nella sinistra della maggioranza si è aperto un caso.
«Ma rispetto a un anno fa alcune cose sono cambiate. La ministra Lamorgese non usa il linguaggio di Salvini, non vediamo dirette Facebook dalla terrazza del Viminale, non fa di ogni sbarco il motivo per aumentare l’asticella della disumanità».
I toni saranno cambiati ma i decreti Salvini rimangono dov’erano.
«L’accordo di governo prevedeva di superare i cosiddetti decreti Salvini, a cominciare dai rilievi del Presidente della Repubblica. Parliamo di quasi un anno fa. Doveva essere una priorità già prima del Covid, adesso io mi auguro che quanto prima ci sarà la chiusura del cerchio e che questi decreti vengano radicalmente superati. Dobbiamo rimediare ai danni fatti da Salvini: quei decreti sono fatti apposta per aumentare l’insicurezza».
La aumentano?
«Certo, perché quei decreti, abolendo il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, hanno messo migliaia di persone in condizioni di irregolarità. E questo ha creato ancora più marginalità e più problemi, specialmente agli enti locali».
Un’altra bandiera di quei decreti era la mancata iscrizione dei residenti asilo all’anagrafe.
«La Corte Costituzionale ad inizio luglio lo ha dichiarato incostituzionale. Se le anagrafi municipali perdono di vista chi è sul territorio, non può esserci sicurezza. Quindi sono tutte norme contrarie ai nostri principi, a quelli della Costituzione, dell’ordinamento e a quelli delle convenzioni internazionali».
E non è il momento di superarli?
«Certo. Ma finora pare che vi sia stato sempre qualcosa di più urgente, cambiare quei decreti non sembra essere stata una priorità. Non dimentichiamo: nella maggioranza c’è una componente che ha firmato e votato quei decreti ed è dunque più riluttante a metterci mano. Ma c’è un accordo di governo e pacta sunt servanda. Non si può più rimandare».
Così la nostra politica in Libia ha arricchito ancora di più i trafficanti di esseri umani. Francesco Mannocchi il 27 luglio 2020 su L'Espresso. La nostra scelta di esternalizzare la frontiera e legittimare e finanziare la fantomatica Guardia Costiera libica ha ottenuto un unico risultato: i trafficanti prendono soldi sia dai migranti che dai governi europei. Pensare che adesso i centri di detenzione possano chiudere è quindi una pura illusione. È il 4 aprile del 2019 quando Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, visita Tripoli e un centro di detenzione della capitale libica. Si dichiara ”scioccato” dal livello di sofferenza che ha visto, udito, toccato con mano. Le dichiarazioni che seguono la sua visita sono severe: «Quello che accade in questi centri non è solo responsabilità della Libia, ma dell’intera comunità internazionale». Aggiunge: «È molto difficile sostenere che lo sbarco in Libia sia uno sbarco in sicurezza». Nelle stesse ore in cui il segretario Onu visitava il centro di detenzione per migranti, il generale Khalifa Haftar, dopo aver spostato uomini e mezzo a sud di Tripoli, attaccava militarmente la città, facendo ripiombare il paese nella quarta guerra dal 2011, l’anno della rivoluzione. Della rivoluzione sospesa. Una concomitanza che ha poco a che fare col caso, e molto di più con lo scollamento tra la politica fatta di tentativi di negoziazione internazionale, photo opportunity, accordi bilaterali, visite di stato e il vero potere libico: le armi. Haftar attacca Tripoli nonostante la presenza di Guterres, o, forse, proprio in virtù della presenza di Guterres. È la fotografia dell’impunità libica. Passano cinque mesi. È settembre. Le Nazioni Unite pubblicano un rapporto dettagliato in cui accusano apertamente autorità locali e statali libiche del coinvolgimento nella tratta di esseri umani. Il rapporto segnala anche come il modello di business si adatti all’evolversi del conflitto. Significa che, non importa se ci sono aree segnate dai combattimenti e poco importa anche chi sieda nei ministeri, le milizie che gestiscono il traffico troveranno il modo di mettere le mani sul lucroso giro di soldi intorno ai centri di detenzione. La narrazione del Pd che tenta di spiegare con ragioni "umanitarie" il finanziamento alla guardia costiera libica è falsa come quella di Matteo Salvini. Le Nazioni Unite dicono anche di più, in quel rapporto, dichiarano infatti di essere allarmati che gruppi armati cerchino di ottenere legittimità, fingendo di sostenere gli impegni contro il traffico di uomini con il «solo obiettivo di ricevere assistenza tecnica e materiale dall’estero». Passano altri sei mesi, è febbraio 2020, l’Italia rinnova automaticamente il Memorandum di intesa sottoscritto nel 2017, il protocollo con cui l’Italia si è impegnata a finanziare i centri libici e a fornire sostegno alle autorità per il contrasto all’immigrazione irregolare , di nuovo senza passare dal Parlamento e la Commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, in una lettera chiede al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di «sospendere le attività di collaborazione con la Guardia costiera libica». Mijatovic invita il governo italiano a «riconoscere l’attuale situazione in Libia e definire il tempo che necessariamente occorrerà affinché eventuali cambiamenti proposti con il nuovo accordo sull’immigrazione abbiano un impatto». Come a dire: verificate che le garanzie promesse corrispondano a verità, che gli impegni presi si traducano in un ripensamento complessivo delle leggi che in quello stato inquadrano il fenomeno migratorio e poi - casomai - continuate a foraggiare le istituzioni libiche. Nel frattempo, scrive ancora la Commissaria, bisognerebbe sospendere le attività di collaborazione con la guardia costiera che implichino il ritorno in Libia delle persone intercettate in mare, lo scrive - sottolinea una volta ancora - alla luce della «moltitudine di prove delle gravi violazioni che subiscono». Moltitudine di prove, scrive la commissaria, non voci, o indiscrezioni. Moltitudine di prove. Di Maio risponde con prontezza, dicendosi consapevole che l’accordo vada migliorato, ma che la diminuzione delle morti in mare sia la prova che quella del Memorandum è la direzione giusta da seguire: «non possiamo disimpegnarci», dice, aggiungendo che è necessario garantire la protezione di migranti e richiedenti asilo e rimpiazzare il sistema dei centri con nuove «formule che aderiscano ai principi dello stato di diritto, confidando - conclude - che un accordo emendato possa essere raggiunto tempestivamente». Sono passati mesi, il Memorandum si è automaticamente rinnovato così come le visite ufficiali, le photo opportunity, e nonostante le promesse di modifica e i tavoli della commissione bilaterale Italia-Libia riuniti a Roma, l’accordo emendato non è ancora stato raggiunto. È con queste premesse che il 16 luglio la Camera dei Deputati ha votato il rifinanziamento della missione in Libia. Quattrocentouno sì, 23 no, un’astensione e un caso politico: il Pd, nonostante l’Assemblea del partito, lo scorso 25 febbraio (proprio sulla scia del rinnovo del Memorandum) avesse espressamente dato parere contrario al rinnovo degli accordi, ha sostenuto in aula, con poche eccezioni, il rifinanziamento. 58 milioni di euro, di cui 10 alla missione bilaterale di supporto alla Guardia costiera Libica, tre milioni in più dello scorso anno. Inoltre quest’anno, membri della Guardia di finanza e dei carabinieri saranno impegnati nella costruzione di un cantiere navale e una scuola nautica in Libia, progetti su cui al momento non è dato avere ulteriori informazioni. A conti fatti, dalla firma del Memorandum a oggi, i fondi stanziati dall’Italia per la Guardia costiera libica hanno raggiunto la cifra di 22 milioni di euro. Mentre prosegue l'Odissea della Ocean Viking, in Parlamento riprende la discussione sulle missioni all'estero e sul contratto tra i due paesi sulla gestione dei migranti. Ma la realtà, come mostrano i tanti episodi registrati in questi mesi, è solo una: la Libia non rispetta alcun diritto umano. Nel giorno in cui la Camera votava il rifinanziamento della missione, la ministra degli Interni Luciana Lamorgese era a Tripoli a rafforzare la collaborazione per il contrasto all’immigrazione, sul piatto altri 30 mezzi per il controllo delle frontiere terrestri. «L’Italia vuole imprimere un’accelerazione alla collaborazione con la Libia - ha detto la ministra - sempre nel rispetto dei diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare in terra». Lamorgese ha sottolineato l’esigenza di evacuare i centri di detenzione «attraverso corridoi umanitari gestiti e organizzati da Ue e Nazioni Unite». Dalla firma del Memorandum, nel 2017, tutti i governi hanno usato la presenza delle Nazioni Unite in Libia come alibi. Il messaggio implicito era ed è: se c’è l’Onu possiamo migliorare la condizione dei migranti e dei richiedenti asilo in Libia, se c’è l’Onu possiamo accelerare i reinsediamenti e i corridoi umanitari. I numeri, però e come spesso accade, raccontano un’altra storia. Dal 25 febbraio, causa Covid-19, l’Italia ha bloccato i voli, ma nel 2019 i corridoi umanitari dalla Libia hanno riguardato 393 persone verso l’Italia, i reinsediamenti, in tutta Europa, 510 persone, di cui 16 in Italia. Funzionari di Oim, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni, di base a Tripoli, dichiarano che ci siano al momento 2.500 persone in attesa di essere rimpatriate, e che certo la situazione si è inasprita a causa dell’epidemia, ma anche prima dell’epidemia il rapporto con le istituzioni libiche «non era sempre collaborativo». Perché le leve politiche europee hanno poco impatto, ma soprattutto perché, per dirlo ancora con la voce di chi lavora sul campo «dietro ai centri ci sono le milizie, quindi soldi e criminalità, cioè l’unica lingua con cui in Libia si gestisce il fenomeno migratorio: il guadagno». Ecco perché è inverosimile chiedere e sperare di ottenere la chiusura e il superamento dei centri di detenzione. Perché intorno a quei centri si muovono due flussi costanti di denaro: quello delle persone migranti che vogliono a qualsiasi costo lasciare il paese e vengono intercettati e riportati indietro dalla Guardia costiera Libica, e quello dei finanziamenti europei che hanno reso quei luoghi di abuso una macchina di denaro. Un bancomat. Ecco le conseguenze a lungo termine di aver scelto di esternalizzare la frontiera, delegare i respingimenti a un’istituzione che l’Italia ha contribuito a legittimare, e allontanare lo sguardo: oggi i migranti non pagano solo per lasciare il paese. Pagano anche per entrare nei centri. Perché sperano di essere portati via in sicurezza, portati via dalle Nazioni Unite. Che però continuano a denunciare che la situazione nel paese nordafricano, anziché migliorare, «continui a deteriorarsi» (Federico Soda, capo Missione Oim in Libia). Mentre scriviamo le truppe di al-Sarraj e Haftar si stanno muovendo intorno alla città contesa di Sirte, nella zona della mezzaluna libica, per intenderci intorno ai pozzi di petrolio, all’oro del paese. La Turchia ha riaffermato il totale supporto politico e militare al governo di Tripoli e l’Egitto ha votato a favore dell’intervento militare in Libia. Si sta preparando una nuova guerra, che altro non è che la continuazione della precedente per la conquista di Tripoli, che era a sua volta la continuazione di quella del 2018. E così via. Nelle stesse ore a Zintan, a sud ovest di Tripoli, un gruppo armato ha assaltato il centro di detenzione di Dahr el-Jabel, dove sono rinchiuse 600 persone. Molte di loro avevano cercato di fuggire dal paese e sono state riportate indietro dalla Guardia Costiera. Il gruppo armato, la milizia, ha attaccato la struttura con lo scopo di prelevare i migranti e trasferirli nelle strutture non ufficiali di detenzione. Il direttore di Dahr el-Jabel la mattina dopo l’attacco ha dichiarato che né lui né il suo staff sono in grado di garantire la sicurezza delle persone in detenzione. Dahr el-Jabel è uno degli undici centri di detenzione ufficiali gestiti dal ministero dell’Interno libico. Quelli in cui dovrebbe «essere garantito il rispetto dei diritti umani e la tutela delle persone», per dirla con le parole del ministro Di Maio. Al momento nel centro di detenzione scarseggiano acqua e cibo. Le armi no, quelle in Libia non scarseggiano mai.
Caro Zingaretti, sei lo stesso coinvolto. La narrazione del Pd che tenta di spiegare con ragioni "umanitarie" il finanziamento alla guardia costiera libica è falsa come quella di Matteo Salvini. Roberto Saviano su L'Espresso il 27 luglio 2020. Qualche giorno fa ho chiesto al Segretario del Pd Nicola Zingaretti, dalle colonne di Repubblica, perché i parlamentari del Partito democratico avessero votato a favore del rifinanziamento della Guardia costiera libica, dopo che l’Assemblea nazionale del Pd a febbraio aveva dato indicazioni opposte. La mia richiesta ha avuto due risposte. Quella diretta del ministro degli Esteri Di Maio, che scrive a Repubblica per dire sostanzialmente questo: «La Libia è una priorità assoluta della politica estera italiana e la sua stabilizzazione risponde a specifici interessi nazionali in termini di contrasto al terrorismo, di lotta al traffico di esseri umani e di rapporti economico-commerciali». Nulla da eccepire, magari i rapporti commerciali, fossi stato in Di Maio, li avrei messi in cima alla lista, perché è di quello che si tratta: è realpolitik. Punto. Anche Zingaretti risponde, ma indirettamente e tramite Facebook . «La scelta - scrive - deriva dalla convinzione che abbandonare in questo momento quello scenario sarebbe dannoso innanzitutto per la Libia e anche per i migranti che vi stanziano». E ancora: «Ma è del tutto evidente che per quanto mi riguarda il Pd dovrà verificare con assoluta inflessibilità se questo nostro impegno in Libia effettivamente cambia le cose nella direzione auspicata e soprattutto pone termine alla condizione infernale nella quale sono costretti a vivere tanti migranti». Vorrei far notare al Segretario che l’Italia finanza la Libia da oltre un decennio e che, nonostante le numerose e serissime inchieste giornalistiche, nonostante i rapporti e le denunce dell’Onu, nonostante le prese di posizione di Papa Francesco, la condizione dei prigionieri nei lager che l’Italia finanzia non è mai cambiata, anzi, a dire il vero è peggiorata. Ma ora vi spiego perché considero il Pd e Zingaretti responsabili, al pari di Berlusconi, Salvini, Di Maio e Minniti dell’orrore dei lager libici, dei finanziamenti ai trafficanti di esseri umani e dell’allontanamento delle Ong dal Mediterraneo. Perché a differenza della bestia cattiva - che definisce le Ong che salvano vite “taxi del mare”, che chiama le traversate in cui migliaia di uomini, donne e bambini perdono la vita, “crociere” - la bestia buona ha sempre dichiarato di agire a salvaguardia della vita umana. Argomentazione che ancora usano i parlamentari per giustificare l’aver disatteso una risoluzione votata in Assemblea all’unanimità. Il problema è che questa narrazione è falsa e in quanto falsa, falsifica il lavoro di chiunque si sforzi di denunciare ciò che accade in Libia e ciò che, di conseguenza, accade anche in Italia. Sapete perché? Perché veniamo tutti ascritti a una sinistra politica che di fatto non esiste più. Perché veniamo usati come il braccio armato di chi, al governo, dopo averci magari dato ragione a parole, agisce esattamente come l’avversario politico. Vedete, vogliono far passare chi denuncia, racconta e prova a offrire soluzioni come incapace di comprendere la ragion di Stato e così rispondono: non possiamo lasciare la Libia perché altrimenti i migranti starebbero peggio. Ma davvero si può star peggio di così? Cosa può succedere di più drammatico di essere detenuti per anni in luoghi dove non arriva luce, di avere scarsità di cibo e di acqua, di essere stuprati e torturati al fine di estorcere denaro alle famiglie. Di essere usati come carne da macello nella guerriglia, di essere venduti come mercenari, come schiavi. Cosa c’è di peggio di essere divisi dai propri cari, dai propri genitori, dai propri figli. Cosa c’è di peggio di perderne definitivamente le tracce? E infine, cosa c’è di peggio di decidere di prendere il mare dove le percentuali di salvezza sono esigue? Tutto questo va avanti, con un’interruzione seguita alla morte di Gheddafi, dal 2008, cioè da 12 anni. E noi stiamo ancora qui a sentirci dire che è meglio esserci che non esserci? Che è meglio finanziare la Guardia costiera libica che creare corridoi umanitari? Ecco perché è arrivato il momento di dire chiaro e tondo alla bestia buona che non è poi così buona e che le parole no, non bastano più.
Memorandum Italia-Libia: l'accordo della vergogna che continua a condannare a morte. Mentre prosegue l'Odissea della Ocean Viking, in Parlamento riprende la discussione sulle missioni all'estero e sul contratto tra i due paesi sulla gestione dei migranti. Ma la realtà, come mostrano i tanti episodi registrati in questi mesi, è solo una: la Libia non rispetta alcun diritto umano. Francesca Mannocchi il 06 luglio 2020 su L'Espresso. Fino a due mesi fa Alessandro Porro era a Firenze, la città in cui vive, volontario con la Croce Rossa durante l'emergenza Covid. Chiamate giorno e notte, e lui addetto all'autoambulanza sanificata con l'ozono per trasferire i casi sospetti all'ospedale più vicino. Oggi Alessandro è in mare, soccorritore sull'Ocean Viking, come l'anno scorso, come due anni fa, l'estate del 2018, l'estate dei porti chiusi. L'estate in cui l'Aquarius con 630 persone a bordo dopo giorni di navigazione attraversò in Mediterraneo, fino a Valencia. Tra il 9 e il 10 giugno 2018, l'Aquarius, la nave gestita da Sos Mediterranee insieme a Medici Senza Frontiere, effettua soccorsi coordinati dall'IMRCC, il Centro nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo, ma alla nave viene negata l'autorizzazione allo sbarco in un porto sicuro italiano, come previsto dal diritto internazionale. L'11 giugno il governo spagnolo offre all'Aquarius la possibilità di sbarcare a Valencia, il 12 giugno, le autorità italiane trasferiscono 524 persone su navi italiane, le restanti 106 restano sull'Aquarius e tutte viaggiano per 4 giorni in direzione della Spagna, dove arriveranno la mattina del 17 giugno. Il prezzo delle politiche salviniane dei porti chiusi. Prezzo metaforico e non. I sopravvissuti in mare (tra cui 123 minori e sette donne incinte) restarono in mare nove giorni prima di arrivare in un porto sicuro, e l'operazione che vide coinvolte due navi militari italiane (la Orione e la Dattilo) per facilitare il viaggio all'Aquarius costò allo stato italiano, secondo le stime di EuObserver, almeno trecentomila euro. Oggi Alessandro Porro ripensa a quei giorni a bordo dell'Ocean Viking, da dieci giorni in mare, dopo sette richieste negate di assegnazione di un porto, sia a Malta sia all'Italia, è – mentre scriviamo – in direzione di Porto Empedocle: "abbiamo fatto quattro soccorsi dal 25 giugno, i primi due per un totale di 118 persone, e cinque giorni dopo altri due interventi di cui uno notturno, tutti in zona SAR maltese e in quella che si sovrappone tra Italia e Malta. Al momento in nave ci sono 180 persone, tra cui una donna incinta di cinque mesi e 25 minori. Molte delle persone salvate erano in mare da giorni, disidratate e deboli, senza acqua né cibo." Dal 25 giugno, giorno del primo soccorso, una persona è stata evacuata per motivi medici, altre due hanno tentato di suicidarsi gettandosi in mare, molti altri manifestano gravi difficoltà psicologiche e minacciano di farsi del male e fare del male ad altri salvati a bordo. Il tre luglio Ocean Viking ha richiesto l'evacuazione medica per 44 persone considerate a rischio e dichiarato – per la prima volta nella storia dei loro soccorsi in mare – lo stato di emergenza. "Secondo le leggi internazionali gli stati devono fornire indicazioni di sbarco e il soccorso finisce quando l'ultima persona soccorsa è in salvo. Al momento il soccorso è ancora in atto perché sono ancora tutti a bordo tranne uno". Alessandro ripete queste parole come una litania stanca, si rende conto di avere un tono rassegnato e si ferma. "Mi sento un disco rotto" dice, mentre elenca le norme del diritto internazionale marittimo, mentre spiega che i salvati cominciano a manifestare diffidenza anche nei loro confronti, non capiscono perché siano in mare da dieci giorni, mentre racconta le storie di abusi e torture delle persone tratte in salvo. Le storie dalla Libia, purtroppo si somigliano tutte, hanno tutte le stesse parole d'ordine: abusi, estorsioni. Lo racconta a bordo ad Alessandro il ragazzo di vent'anni di origine eritrea rapito un anno fa, portato in un centro di detenzione illegale in cui i miliziani gli hanno rotto una gamba e un piede con un bastone di metallo affinché la sua famiglia mandasse denaro contante, o l'altro ragazzo, partito da Zuwara, che è stato lasciato per giorni senza cibo prima che la sua famiglia riuscisse a pagare il riscatto del suo rapimento. È affaticato Alessandro, sente di raccontare – invano - storie già dette, già sentite, già denunciate. E ancora una volta dimenticate. La sua è la frustrazione di non essere ascoltato. Queste estate, quella scorsa, quelle prima. Mentre le persone in fuga continuano a descrivere una situazione a terra – in Libia – di totale impunità, la paura di essere rapiti e morire, non tanto per la guerra ma perché si sentono bersagli mobili ogni volta che camminano in strada. Sono passati due anni da quando l'Aquarius è stata spedita a Valencia, l'estate del 2018, l'estate dei porti chiusi. La situazione è diversa solo in apparenza, non ci sono più quei toni e quella retorica, certo, forse perché non ci sono toni e basta. Le vite delle persone soccorse in mare non sono usate come allora per politicizzare il dibattito sul fenomeno migratorio, ma di fatto i soccorsi in mare non esistono più. "Il soccorso in mare è un fatto tecnico legalmente necessario e ora è in ogni modo ostacolato e rallentato – dice Alessandro – è una situazione per molti versi diversa dal 2018, ma fronteggiamo ritardi, manca un sistema europeo di soccorso e siamo in mare alla cieca, con le nostre poche capacità di ricerca. Il binocolo, la termocamera, il radar di intercettazione di messaggi radio fra aerei navi, o con l'ausilio di aeroplani di altre Ong. È come se stessimo reinventando un sistema di ricerca e soccorso che esisteva e funzionava bene. E lo stiamo ricostruendo in modo non efficace, fatichiamo a portare le persone allo sbarco". A rendere tutto più complicato il rischio sanitario, le difficoltà generate dai protocolli Covid e il tema migratorio di fatto scomparso dal dibattito pubblico."I diritti negati alle persone che soccorriamo vengono negati a tutti. Smantellando ricerca e soccorso si fa un torto a tutti noi cittadini europei, non solo a quelli a bordo delle nostre navi."
Giugno 2020, il Ministro degli Esteri di Maio a Tripoli e le modifiche al Memorandum. Il 24 giugno scorso, di ritorno da una visita ufficiale a Tripoli, il Ministro degli Esteri Luigi di Maio esprime soddisfazione per lo spirito di collaborazione del governo di Fayez al Sarraj. Di Maio atterra a Tripoli a ristabilire e risaldare alleanze dopo che, all'inizio di Giugno, il Gna (Governo di Accordo Nazionele) di Fayez al Sarraj ha riconquistato Tripoli grazie ai droni armati e ai mercenari siriani trasferiti in Libia da Erdogan. Di Maio è consapevole che la parte occidentale della Libia, per la negligenza europea e la disattenzione e l'attendismo italiani, stia diventando un protettorato turco. L'alleanza tra i due paesi è vincolata da un accordo militare e uno energetico firmati alla fine dello scorso anno, accordi che incidono su interessi non solo italiani sul Mediterraneo centrale e orientale. Akin è un giovane eritreo: dopo il suo arrivo in Libia, come molti, è finito ostaggio delle milizie e si è ammalato di tubercolosi in un centro di detenzione illegale in cui un gruppo armato lo ha tenuto a lungo in ostaggio. Qui si trovava di fronte all'ufficio dell'UNHCR a Tripoli in attesa di essere ascoltato. Sul piatto dell'incontro tra di Maio e il governo libico il nodo Memorandum, l'accordo stilato nel 2017 dall'allora governo Gentiloni e il governo libico sulla "cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere". Il Memorandum si è rinnovato automaticamente il 2 novembre 2019, decisione controversa, criticata, rinnovato nonostante gli appelli, le denunce e le prove dei quotidiani abusi di cui sono vittime le persone migranti in Libia. "Chiederemo modifiche al governo di Sarraj", fu la promessa di Viminale e Farnesina. Oggi siamo al redde rationem. Bisogna proporre modifiche e farle accettare. Soprattutto bisognerebbe farle applicare. Tornato in Italia il Ministro di Maio ha dichiarato: «Il presidente Al-Serraj mi ha consegnato la proposta libica di modifica del memorandum, si va in una giusta direzione, con la volontà della Libia di applicare i diritti umani». La volontà di applicare i diritti umani. In un paese che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 51 e non riconosce dunque lo status di rifugiato e non può dunque essere obbligata a prendersene cura. E se pensiamo anche a quelle che invece ha firmato (eccone solo alcune: la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, 1986, la Convenzione UA sui rifugiati in Africa, 1981, Carta africana sui diritti del minore, 2000, Protocollo alla Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa, 2004) risulta evidente che gli impegni presi siano stati disattesi. Quindi è vero, la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra eppure a oggi riconosce aventi diritti di status di rifugiato i cittadini di sette nazionalità: siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi oromo e sudanesi del Darfur. Alcune presenti massicciamente nei centri di detenzione. La Libia ha però aderito a trattati e convenzione contro la schiavitù e la tortura, per la tutela dei diritti dei bambini e delle donne che, come la Convenzione di Ginevra, hanno obblighi vincolanti. Eppure nessuno si è sentito vincolato né punito per l'inazione e nessuno è stato, evidentemente, in grado di fare pressione affinché i trattati venissero applicati. Risulta difficile in questo quadro pensare che il governo italiano riesca a imporre l'applicazione di un Memorandum che nella forma e nella sostanza nasce e resta fumoso e confuso. Le autorità libiche avrebbero consegnato al Ministro di Maio una proposta in cui «si impegnano nell'assistere i migranti salvati nelle loro acque, a vigilare sul pieno rispetto delle convenzioni internazionali attribuendo loro protezione internazionale così come stabilito dalle Nazioni Unite». Una settimana dopo la visita, il 2 luglio, il Comitato misto italo-libico si è riunito a Roma avviando formalmente il negoziato per la modifica del Memorandum. Nel corso della riunione, si legge nella nota della Farnesina "la delegazione italiana ha confermato l'obiettivo di imprimere una svolta sostanziale alla cooperazione con la Libia nella gestione dei flussi migratori irregolari, attraverso il richiamo e il puntuale rispetto delle norme applicabili in materia di diritti umani, un ruolo centrale da riconoscere alle competenti agenzie delle Nazioni Unite e il progressivo superamento del sistema dei centri che ospitano i migranti". Obiettivo delle modifiche, a tre anni dalla firma del Memorandum che ha esternalizzato la ricerca e soccorso nel Mediterraneo alla Guardia Costiera libica (fornendo attrezzature, garantendo un importante impegno finanziario e addestrando uomini), è dunque quello di chiudere i centri - i centri descritti dal Memorandum e dalla vulgata politica italiana come "campi di accoglienza" ma che sono "detention centers" centri di detenzione, per la legge libica – e riconoscere centralità alle agenzie delle Nazioni Unite. Agenzie, l'UNHCR e OIM, usate come alibi, giustificazione, per le politiche di esternalizzazione dei confini dagli ultimi tre governi, nonostante le denunce di abusi, le evidenti e documentate violazioni dei diritti umani, le inchieste della magistratura e le prese di distanza delle stesse agenzie ONU.
Un passo indietro: le dichiarazioni dei ministri italiani sulle agenzie delle Nazioni Unite.
Estate 2017. Marco Minniti, allora Ministro dell'Interno e promotore del Memoradum d'intesa, nel corso della festa del Pd a Certaldo dice, a proposito dei respingimenti dei migranti intercettati dalla Guardia Costiera Libica: «Affidare la gestione dei campi di accoglienza in Libia ad Unhcr e Oim è l'unica scelta possibile, sono impegnato affinché avvenga il più rapidamente possibile, ma è irrinunciabile il rispetto dei diritti umani delle persone accolte».
Dicembre 2018. Rispondendo alla richiesta di chiarimenti da parte del Consiglio d'Europa sugli accordi presi in Libia, Marco Minniti dichiara ancora: «L'Italia considera cruciale il tema dei diritti umani, l'obiettivo dell'azione italiana è infatti duplice: prevenire traversate che pongano a rischio le vite e garantire il rispetto degli standard internazionali di accoglienza in Libia, anche e soprattutto mediante il rafforzamento della presenza e delle attività di Unhcr e Oim».
Marzo 2019. Cambio di governo, Matteo Salvini è ministro dell'Interno e dichiara, a proposito delle agenzie ONU: «La Libia può e deve soccorrere gli immigrati in mare, e quindi è da considerare un Paese affidabile. Dove gli immigrati che vengono riportati a terra dalla Guardia Costiera vengono tutelati dalla presenza del personale Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni».
Settembre 2019. Cambia di nuovo governo, in perfetta continuità con i precedenti il Ministro di Maio a capo della Farnesina e in visita a New York dichiara: «I migranti in Libia saranno afffidati all'Onu, le persone salvate dalla Guardia Costiera libica verranno prese in carico da UNHCR».
E le Nazioni Unite? In questi anni, le agenzie della Nazioni Unite hanno ripetutamente dichiarato di non considerare la Libia un porto sicuro. Lo scorso anno, dopo che il centro di detenzione di Tajoura, a Tripoli, è stato bombardato da un drone delle forze armate del generale Haftar provocando la morte di 53 persone migranti (altre 130 rimasero ferite), UNHCR e OIM hanno rilasciato l'ennesima dichiarazione, stavolta congiunta, si legge: «È necessario compiere ogni sforzo per impedire che le persone soccorse nel Mediterraneo siano fatte sbarcare in Libia, Paese che non può essere considerato porto sicuro». Nella dichiarazione le due agenzie Onu sottolineavano anche la necessità che le imbarcazioni degli Stati Europei che conducevano operazioni di ricerca e soccorso tornassero a svolgere «questo compito vitale», come le navi delle ONG, si legge ancora nel testo che «non devono essere penalizzate per il soccorso di vite in mare». Era il luglio del 2019, sei mesi dopo l'UNHCR decide di chiudere il GDF, Gathering and Departure Facility, di Tripoli, la struttura di raccolta e partenza per persone migranti che avrebbe dovuto essere il luogo di attesa delle persone vulnerabili in vista dei voli di ricollocamento, ma che nel giro di poco tempo si era di fatto trasformato nell'ennesimo centro di detenzione. La guerra di Tripoli entrava nel suo nono mese, i mortai colpivano le abitazioni adiacenti al centro UNHCR, il personale militare e di polizia libico veniva addestrato a pochi metri dalle strutture che ospitavano i rifugiati e richiedenti asilo, e il 30 gennaio Jean Paul Cavalieri, capo missione UNHCR in Libia dichiara: «L'Agenzia sospende le operazioni a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, dello staff e dei suoi partner in considerazione dell'aggravarsi del conflitto». Staff internazionale evacuato in Tunisia e GDF (centro di raccolta e partenza) chiuso. Per le Nazioni Unite, argomento centrale della difesa del Memoradum di tutti i governi di ogni colore, la Libia non era e non è un porto sicuro. Oggi come allora l'accesso ai centri di detenzione è vincolato a negoziazioni e l'azione di monitoraggio del rispetto delle vite migranti è vincolato alla presenza e al potere delle milizie armate. Oggi come allora le Nazioni Unite non possono entrare nei centri di detenzione illegali, non sanno – come nessuno sa – quanti siano e dove e soprattutto quante persone siano costrette a vivere in quei luoghi.
Maggio 2020, il massacro dei bengalesi a Mizdah. Il 28 maggio scorso 30 persone, 26 cittadini del Bangladesh e quattro persone di origine subsahariana sono state uccise da un gruppo di trafficanti in un deposito di contrabbando a Mizdha, vicino alla città di Gharian, sud ovest di Tripoli, che allora era ancora sotto il controllo del generale Khalifa Haftar. Le autorità locali hanno inizialmente ipotizzato che la strage fosse stata compiuta per vendetta dalla famiglia di un trafficante che teneva in ostaggio i migranti, ma le ricostruzioni ottenute attraverso le testimonianze dei sopravvissuti dai funzionari dell'ambasciata bengalese, hanno fatto luce sulla vicenda: i cittadini bengalesi sono stati rapiti nel deserto tra Bengasi e Tripoli, presi in ostaggio da una milizia e portati nel deposito di Mizdha. I sopravvissuti hanno dichiarato di aver pagato tra gli otto e i diecimila dollari per raggiungere l'Europa attraverso la Libia, e che il gancio, il contatto con i trafficanti libici fossero altri cittadini bengalesi. Una volta giunti in Libia, i trafficanti hanno alzato la richiesta economica e quando gli ostaggi, dopo quindici giorni di abusi e torture a fini estorsivi, hanno assaltato il capo della milizia cercando di liberarsi, i suoi uomini per rappresaglia hanno sparato a sangue freddo contro di loro uccidendo 26 persone e ferendone gravemente altre dodici. Il deposito di Mizdah, altro non è se non un centro di detenzione illegale. Quelli gestiti dalle milizie, quelli di cui è impossibile conoscere il numero preciso. Un giovane libico che lavora nello staff locale dell'OIM (e parla a condizione di anonimato per ragioni di sicurezza) sostiene che, sulla base delle loro ricostruzioni, il deposito ospitasse un numero molto più alto di persone migranti, fino a duecento, spostate prima che le autorità potessero raggiungere il luogo del massacro, verso destinazioni ignote. «La domanda è quante strutture di questo tipo ci siano in Libia – dice – nessuno lo sa e per tutti gli staff sia locali che internazionali non è solo pericoloso provare a raggiungere questi luoghi ma è pericoloso anche cercare di capirne di più».
Luglio 2020, Ocean Viking in mare senza porto di sbarco e i numeri libici. Tra le motivazioni di chi difende il Memorandum e sostiene che negli ultimi tre anni (dalla firma al rinnovo) la situazione nei centri di detenzione libici sia migliorata c'è la considerazione che il numero delle strutture detentive gestite dal DCIM (dipartimento anti immigrazione clandestina del Ministero dell'Interno libico) si sia ridotto da circa trenta a undici e il numero delle persone detenute a sua volta ridotto da diecimila a duemilaquattrocento. Proviamo a leggere i numeri libici con altre – più scettiche - lenti. Da gennaio a oggi, secondo i dati forniti dall'OIM, sono stati riportati in Libia dalla Guardia Costiera 5.476 persone. Al momento nei centri ufficiali – undici, appunto – ci sono però 2.400 persone. La matematica non inganna: posto che, sempre secondo i dati OIM, fino ad aprile nei centri di detenzione ufficiali c'erano mille persone, significa che delle 5.400 persone riportate a terra dalla guardia costiera libica da Gennaio a oggi, mille e quattrocento siano finite in strutture detentive e altre quattromila siano scomparse. Semplicemente sparite dai radar. In questa parola: ‘scomparse", ci sono molte diverse – tragiche – possibilità. Possono essere scappate in città, cercando ospitalità e un po' di sicurezza in abitazioni occupate da connazionali, possono essere stati costretti al fronte, a combattere o – molto più spesso - possono essere stati prelevati, rapiti a fini estorsivi dalle milizie locali e destinati a strutture clandestine, come il deposito di Mizdha, il luogo della strage dei bengalesi. Centri di detenzioni non ufficiali, illegali, in cui nessuna agenzia delle Nazioni Unite può entrare, nessuno può registrare le persone, avere contezza della loro presenza in Libia. Qualsiasi destino sia toccato loro, una cosa è certa per tutti: non fanno parte delle statistiche ufficiali, è per loro complicato oltre che pericoloso tentare di mettersi in contatto con le agenzie delle Nazioni Unite e diventano, esattamente come raccontano i salvati dalla Ocean Viking, "un bersaglio mobile ogni volta che sono in strada". Dall'inizio dell'anno, secondo le testimonianze dello staff locale delle agenzie delle Nazioni Unite, un venti, trenta percento delle persone sbarcate veniva direttamente lasciato scappare al momento dello sbarco al porto. Secondo una fonte del Ministero dell'Interno libico, negli ultimi mesi le autorità di Tripoli starebbero utilizzando una struttura un tempo usata come fabbrica di tabacco per trasferire gli altri migranti dopo lo sbarco, una struttura che non è sulla lista degli undici centri di detenzione gestiti dal Ministero dell'Interno ma dove, i funzionari governativi presenti al momento dello sbarco, destinano i migranti. Per le agenzie delle Nazioni Unite è impossibile sapere quante persone siano finite in questa struttura abbandonata, e da chi sia gestita, la sola indiscrezione è che faccia capo ai gruppi e alle tribù di Zintan. Le autorità libiche hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di recarsi nell'edificio ma le agenzie si sono rifiutate perché il centro non compare sulla lista ufficiale del Ministero. Federico Soda, capo missione OIM in Libia, sottolinea che: «Le condizioni nei centri continuano a essere inaccettabili e che gli eventi degli ultimi mesi, non ultima la strage dei bengalesi a Mizdah, dimostrano che la detenzione non sia un deterrente, ma che al contrario aumenti la determinazione di fuggire dalla Libia via mare». Chi è stato in un centro di detenzione libico, legale o illegale, farebbe di tutto pur di lasciare il paese. Anche rischiare la vita in mare. L'OIM gestisce i rimpatri volontari dalla Libia, oggi però dal paese non si esce. Causa guerra e Covid gli aeroporti sono chiusi e i rimpatri bloccati. Federico Soda cerca da due mesi di sbloccare le partenze, sono 1.500 le persone in attesa di rientrare nei paesi di origine. La richiesta è rimbalzata di ufficio in ufficio, fino ai tavoli del governo, ma l'agenzia è ancora in attesa di risposte. Quando anche i voli ripartiranno ricominceranno anche i programmi di reinsediamento ma, sempre causa Covid, i numeri saranno ridimensionati di molto. Paesi che prima dell'epidemia avrebbero accettato tre, quattrocento persone oggi si dichiarano disponibili a non accettarne più di sessanta, settanta. Significa più persone bloccate in Libia, più persone esposte al pericolo di abusi. Sono passati tre anni dal Memorandum che ha esternalizzato controllo dei confini e delegato i recuperi in mare, il Memorandum che ha esternalizzato responsabilità e percezione dell'altro, della persona migrante che attraversa il Mediterraneo per fame, disperazione o solo perché, assai più semplicemente e tragicamente, non ha documenti per spostarsi altrimenti che così. Anni in cui la Libia è stata attraversata da conflitti minori e da una guerra massiccia che ha devastato intere aree della capitale e provocato 400 mila sfollati interni, anni in cui Ong, agenzie Onu e inchieste giornalistiche hanno denunciato e documentato abusi e torture in quei centri finanziati dall'Europa, accettati dall'Europa, e battezzati dall'Italia con un nome improprio: Si legge, articolo due paragrafo due del Memorandum: "Adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza summenzionati già attivi nel rispetto delle norme pertinenti". E però non sono mai stati e non sono centri di accoglienza, sono – lo ripetiamo – per la legge libica, centri di detenzione. Sono stati anni in cui l'azione delle Ong in mare è stata ostacolata, impedita e criminalizzata, i porti sono stati chiusi e poi riaperti ma riaperti solo sulla carte, anni in cui inchieste della magistratura hanno accertato e contestato il reato di tortura nei centri di detenzione libici, in particolare quello di Zawhia, sotto il controllo formale del Ministero dell'Interno libico, ostaggio di milizie che hanno in mano le due ricchezze del paese: contrabbando di carburante e traffico di esseri umani. Torture così efferate che il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha dichiarato che l'attività investigativa avesse: «Dato conferma delle inumane condizioni di vita all'interno dei cosiddetti capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l'umanità». A tre anni dalla firma di quel Memorandum oggi si torna a discutere di modifiche che, alla luce di quanto elencato finora, si riveleranno parole vuote, impegni destinati a non essere rispettati. Al tavolo del Comitato Italo Libico non c'erano, per esempio, delegati delle UN che in questi anni hanno lavorato sul terreno, difficile immaginare un tavolo di concertazione e di riflessioni sulle modifiche da apportare al testo, in assenza di funzionari che hanno vissuto e lavorato nei centri e che hanno affrontato ogni giorno la difficile relazione con la autorità libiche da un lato e con i ricatti delle milizie dall'altro. La presenza delle agenzie delle Nazioni Unite è stata usata in questi anni come alibi da ogni governo. "Della sicurezza dei salvati si occuperanno le Nazioni Unite": intanto le medesime Nazioni Unite continuavano a ripetere che i respingimenti fossero inaccettabili. L'alibi era chiaro, è il comma 22 del Memorandum: se ci sono OIM e UNHCR sul terreno vuol dire che la situazione è migliorabile. Ma la situazione non è migliorata. Le agenzie Onu non sono – per loro stessa ammissione – in condizione di garantire la sicurezza delle persone sbarcate in Libia dalla Guardia Costiera libica, le strutture sono nelle condizioni in cui sono sempre stati, cambiare le finestre o dare una mano di pittura a un centro detentivo non significa risolvere il problema. E il problema è la legge: finché non si attiva un processo trasparente di ripensamento del sistema giuridico libico le persone migranti continueranno a essere portate indietro in un paese che li obbliga a una detenzione sine die, in cui rischiano di diventare ostaggio di milizie, e in cui non è possibile per nessun organo internazionale tutelare la loro incolumità e garantire che non finiscano in un luogo illegale sottoposti a torture e atrocità. «Finché non mettono mano alle leggi, finché non saremo certi di riuscire a registrare tutti e che le persone registrate non spariscano sotto gli occhi delle autorità, non cambierà molto in Libia» dice Federico Soda. Mentre scriviamo l'Ocean Viking è ancora in mare, il governo italiano ha inviato un team di psicologi, un'ispezione medica per stabilire lo stato delle persone salvate. Sono stati effettuati tamponi Covid a tutti e si attendono i risultati. Alessandro Porro, dalla nave, alle 23 di domenica sera sapeva che era stato assegnato un Porto di sbarco, Porto Empedocle, ma non sapeva ancora se i salvati sarebbero stati trasferiti, come si apprende da indiscrezioni, sulla Moby Zaza, la nave noleggiata dalla protezione civile proprio per la quarantena delle persone soccorse in mare. Da Gennaio a oggi sono arrivate in Italia 6.900 persone via mare. I numeri non sono più quelli dell'emergenza in termini numerici, sono però sempre di più i numeri di una emergenza umanitaria. Anche figlia di quel Memorandum del 2017 che il governo Conte 2 si impegna a modificare pur sapendo che è stato e continua ad essere totalmente inefficace.
Nello Scavo per “Avvenire” il 3 luglio 2020. Quanti soldi dall'Italia e dall'Europa sono arrivati in Libia? La risposta è uno dei segreti meglio custoditi nel continente. A cominciare dai fondi alle "municipalità". Enti locali in gran parte in mano a clan e milizie che solo nel 2017, dopo che l' Italia negoziò e ottenne il calo delle partenze, sono costati ai contribuenti almeno 18 milioni di euro. Non è che la punta dell' iceberg. Come dimostrano i 318 milioni scuciti all' Unione Europea senza che questo abbia portato né pace né diritti umani. Il caso dei "sindaci", però, è esemplare. Uno dei documenti riservati ottenuti da Avvenire racconta della trattativa tra i capibastone libici e i funzionari italiani. A ogni pagina del fascicolo sono stampate le insegne della diplomazia italiana. La Farnesina, a cui abbiamo chiesto un commento, «non è in grado di confermare, né di smentire». Si chiama: «Progetti delle Municipalità Libiche». Soldi che avrebbero dovuto potenziare il sistema scolastico, migliorare la raccolta dei rifiuti, facilitare la distribuzione dell' acqua potabile, migliorare la condizione di ospedali. La lettura di quelle non poche pagine suggerisce che non dev' essere stato un negoziato facile. Roma finora ha complessivamente messo in campo (sotto forma di aiuti, equipaggiamento, motovedette, forniture e denaro contante) oltre 450 milioni di euro, di cui un centinaio provenienti da Bruxelles. Nulla si sa (e forse mai si saprà) di impieghi attraverso i fondi riservati dell' intelligence. Qualcuno in Libia aveva preso l' Italia per un bancomat. Ad esempio le tribù di Bani Walid. La richiesta monstre era di 85 milioni di euro. Da Roma finiranno per approvare 1,1 milioni. Oppure Maya e Sabratha. La prima, un sobborgo sulla strada tra Tripoli e la Tunisia, arriva a domandare 9 milioni in un colpo solo per mettere a posto mezza città. Gli emissari di Roma alla fine assegneranno per quell' anno non più di 400 mila euro. A Sabratha di milioni ne hanno chiesti 7,7 per acquistare «apparecchiatura di risonanza magnetica» del valore di 1,8 milioni più altri 5,9 milioni per Tac, unità per raggi x, microscopi, sterilizzatori e altro materiale. Il preventivo italiano si fermerà a 1,5 milioni. Più generosa Roma si mostrerà con la città di Zawyah, capitale delle partenze dei migranti verso l' Italia e quartier generale del contrabbando di idrocarburi. L' intera provincia è tenuta sotto schiaffo dalla milizia al Nasr, quella dei fratelli Kachlav e dell' onnipresente guardacoste Bija. Quest' ultimo era già stato accolto in Italia nella primavera del 2017. Poche settimane dopo il flusso dei barconi precipitò al minimo storico. Il preventivo del 3 ottobre 2017 assegnerà a Zawyah 1,8 milioni, 400mila euro in più di quanto avesse chiesto la parte libica. Denaro interamente stanziato per la «fornitura di medicinali ed equipaggiamenti medici per l' Abu Surra Village Hospital». Quando contattiamo le fonti in Libia per verificare se il materiale sia mai arrivato, come risposta scoppiano a ridere: «Quello di Abu Surra è poco più di un dispensario - spiega un operatore internazionale -. Se medicinali e strumentazioni sono arrivati in questo ambulatorio, li avranno consegnati di notte e fatti sparire la mattina, perché qui non si è visto quasi nulla. Qui manca sempre tutto». Anche in Europa la trasparenza è una chimera. Sulla carta ogni centesimo di euro è controllato. In realtà una volta presa la rotta libica, sapere cosa davvero ci facciano coi soldi diventa un rompicapo. Ad oggi 318 milioni di euro sono stati sborsati dall' Eutfa, il Fondo fiduciario di emergenza dell' Ue. Finanziamenti che avrebbero dovuto migliorare le condizioni di vita per libici e migranti. Tutti i report del segretario generale dell' Onu, però, ribadiscono un costante peggioramento. Il timore di vedere arrivare decine di migliaia di migranti, però, ha finito per far dirigere il gioco proprio ai trafficanti. Come a Zuara, altra roccaforte degli scafisti dove neanche la sabbia si sposta senza il benestare dei Dabbashi. All' Italia chiedevano 10 milioni e mezzo. Riceveranno l' ok per una prima tranche da 1,7 milioni. «Il problema - arguisce una fonte umanitaria italiana in Libia - sta nel fatto che non ci sono controlli. In teoria tutti i macchinari, i medicinali, le strumentazioni indicate nei preventivi possono essere stati regolarmente acquistati, ma poi chi sorveglia se finiscono davvero negli ospedali o vengono rivenduti al mercato nero internazionale? ». Un sanitario di una Ong straniera è ancora più diretto: «Tranne quello con i militari italiani a Misurata, fuori da Tripoli non c' è un ospedale decente. Da anni sentiamo di soldi destinati ai servizi di base. Abbiamo visto qualche autocompattatore per i rifiuti, alcune pompe a motore per l' acqua, computer nuovi in qualche scuola. Ma poi se stai male devi avere qualche buon amico al ministero della Salute a Tripoli o abbastanza soldi per comprare il permesso per curarsi a Malta o in Italia». Le falle non permettono di sapere, ad esempio, da dove i fratelli Kachlav abbiano preso i soldi per costruire ed equipaggiare una clinica privata a Zawyah. All' inaugurazione, il 22 ottobre 2019, c' era il "proprietario", quel Mohamed Kachlav inserito con Bija nella lista nera di Onu, Ue e Dipartimento di Stato Usa perché accusati dei traffici di persone, armi e petrolio. Accanto a lui, a tagliare il nastro, il sindaco della città che due anni prima aveva chiesto all' Italia 1,4 milioni per il desolante "Surra Village Hospital". Il municipio sulla sua pagina ufficiale Facebook aveva pubblicato le foto della cerimonia, con i locali tirati a lucido, gli ambulatori, le attrezzature ancora nel cellophane. Qualche ora dopo le immagini sono state fatte sparire.
I paramilitari che stanno aiutando Erdogan a espandersi in Africa. Emanuel Pietrobon l'11 giugno 2020 su Inside Over. La creazione di una rete di partenariati strategici ed alleanze in Africa rappresenta un obiettivo primario per la Turchia. L’agenda, fino ad oggi, ha prodotto grandi risultati: l’influenza saudita è stata contenuta ricorrendo ad una saggia diplomazia a base di potere morbido, ossia centri culturali, moschee e cooperazione allo sviluppo, mentre a vecchi rivali (come l’Italia) sono state sottratte aree di influenza senza colpo ferire. Uno dei principali strumenti che Ankara ha utilizzato, e sta utilizzando, per ritagliarsi un ruolo da protagonista nella nuova corsa all’Africa è una compagnia di consulenze e servizi militari: Sadat.
La rete di Sadat nel continente nero. La Sadat ha iniziato le proprie operazioni in Africa nel 2013, presentandosi come un ente di consulenza su questioni strategiche e fornitore di importanti servizi, come l’addestramento delle forze armate. La Turchia, attualmente, è legata a più di 35 paesi sahariani e subsahariani da accordi per la cooperazione bilaterale di natura multidimensionale e gli affari militari rientrano fra i settori di collaborazione. Spesso, negli accordi di cooperazione nel campo della difesa, la Turchia chiede che sia introdotta la possibilità di inviare specialisti privati in loco, per lavorare fianco e fianco con le istituzioni e gli eserciti. La Sadat è, ovviamente, l’ente che beneficia in maniera esclusiva di tali clausole, che le hanno consentito di radicarsi dal Magreb all’Africa nera: Libia, Sudan, Uganda, Costa d’Avorio, Ciad; soltanto per citare alcuni paesi in cui la potente compagnia sta operando. Le operazioni nel teatro libico sono iniziate nell’immediato post-fondazione: la compagnia è stata ufficialmente registrata il 28 febbraio 2012 e il suo fondatore, l’ex generale Adnan Tanriverdi, ha visitato Tripoli nel maggio 2013 con l’obiettivo “di determinare i bisogni delle nuove forze armate libiche e vagliare la possibilità di [fornire] consulenza e addestramento”. L’ex generale fu accolto dall’allora ambasciatore a Tripoli, Ali Kemal Aydın, e da una squadra di ufficiali libici. La visita, conclusasi con un accordo fra la Sadat e Tripoli per l’addestramento e l’erogazione di servizi di consulenza agli uomini di Fāyez Mustafā al-Sarrāj, può essere considerata uno degli eventi premonitori di quel che sarebbe accaduto negli ultimi due anni, ossia il coinvolgimento attivo di Ankara negli affari interni del paese con lo scopo di partecipare alla sua spartizione. La decisione della Sadat di intervenire in Libia si è rivelata una mossa vincente, da ogni punto di vista: l’avanzata di Khalifa Haftar è stata fermata e il destino della partita è stato riscritto, al di là di ogni previsione, e la compagnia ha acquisito una conoscenza pratica, sul campo ed in prima linea, che potrà tornare estremamente utile negli anni a venire, in quanto trasmissibile a tutti quei paesi, africani e non, che si rivolgeranno ad essa per migliorare la qualità delle proprie forze armate.
Sadat: che cos’è? Sadat, acronimo di Uluslararası Savunma Danışmanlık İnşaat Sanayi ve Ticaret, è un’agenzia privata di consulenza militare che ha sede ad Istanbul ed è stata fondata nel 2012 da Adnan Tanriverdi, un generale allontanato dall’esercito nel 1997 nel corso delle purghe anti-islamiste che sono costate la presidenza del consiglio all’allora primo ministro Necmettin Erbakan, il mentore di Recep Tayyip Erdoğan. Sin dall’inizio, come palesato dal caso libico, Sadat ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione e nella conduzione degli affari militari turchi, rivelandosi braccio e mente di Erdoğan. La stretta vicinanza alla presidenza, o meglio al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), hanno spinto cronisti occidentali e turchi a ribattezzare la Sadat l'”esercito ombra di Erdoğan”, in quanto viene ritenuta una vera e propria istituzione parallela creata appositamente per proteggere il nuovo sistema di potere dai colpi di coda del morente stato profondo kemalista. Il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 è stato sventato anche grazie al perentorio intervento di questo esercito parallelo, i cui membri hanno assicurato il controllo di luoghi-chiave, come i ponti, e combattuto contro i golpisti. Non è una coincidenza che Tanriverdi, ad un mese dal golpe, sia stato nominato consigliere capo militare da Erdoğan, ruolo che ha ricoperto sino a gennaio di quest’anno, quando si è dimesso in seguito alle critiche ricevute da una parte del mondo politico per aver dichiarato che la Sadat sta lavorando per accelerare il ritorno del Mahdi, una figura messianica dell’escatologia islamica associata alla fine dei tempi. La presenza di Sadat è stata segnalata in Siria, in supporto diretto (invio di combattenti) ed indiretto (addestramento) all’esercito siriano libero, in Palestina, dove armerebbe Hamas, ed in Germania, dove aiuterebbe i servizi segreti, Milli Istihbarat Teşkilati (MIT), a condurre operazioni coperte e spionistiche, e sarebbe in contatto con pericolose bande di strada come “Germania ottomana“. A parte la tutela dell’ordine erdoganiano e l’addestramento delle forze armate straniere alle tattiche d’avanguardia nella guerra diretta ed asimmetrica, Sadat svolge ed offre altre funzioni di rilievo: è un think tank, ossia un incubatore di idee. Uno dei progetti più ambiziosi proposti e sponsorizzati dall’ente è, senza dubbio, il cosiddetto “esercito dell’islam“. Si tratterebbe di amalgamare le forze armate dei 57 paesi membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) sotto un’unica bandiera, possibilmente turca, per dare vita al più corposo esercito del globo: 5 milioni e 206mila soldati all’attivo. Tale esercito servirebbe un unico scopo: fungere da deterrente contro l’imperialismo occidentale nel mondo islamico ed essere pronto e preparato alla guerra totale qualora necessario. Sadat ha curato il piano nei minimi dettagli, realizzando anche un’analisi di scenario inerente un conflitto fra l’esercito dell’islam ed Israele. L’analisi prevede un attacco su larghissima scala in stile guerra lampo (blitzkrieg) che, si stima, dovrebbe assicurare una rapida vittoria in una settimana. A quel punto, con Israele completamente sottomesso, il blocco islamico turco-centrico potrebbe trasformarsi in un polo di potere capace di rivaleggiare con l’Occidente e creare un nuovo ordine internazionale. L’idea del think tank ha colpito Erdoğan, che ha tentato di promuoverla in diversi paesi, anche in sede di OIC, ma con scarsi risultati: soltanto la Malesia ha accolto con favore il progetto, mentre il Pakistan ha mostrato un certo interesse. L’appoggio dei due paesi è bastato a convincere Ankara a focalizzare gli sforzi sulla formazione di un triangolo con Islamabad e Kuala Lumpur per spostare il baricentro della civiltà islamica dal mondo arabo al cuore dell’Asia. La proposta di una “NATO araba” lanciata dall’amministrazione Trump non è, quindi, semplicemente legata al bisogno estemporaneo di aumentare le pressioni su Teheran, ma si inquadra in questo più ampio di contesto di scontro fra Ankara e Riad per l’egemonia sul dār al-Islām.
Lorenzo Vita il 29 maggio 2020 su Inside Over. La guerra in Libia vive un’escalation dai lati ancora oscuri. Mentre il mondo subiva la pandemia di coronavirus, la Libia non ha mai smesso di vivere sulla propria pelle l’inferno della guerra. E in queste settimane si è assistito a una escalation di violenze e tensioni internazionali che rende sempre più evidente uno scenario “siriano” anche nel cuore del Nord Africa. Un conflitto senza fine in cui le potenze esterne all’Europa giocano un ruolo fondamentale e in cui Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan provano a dividersi la posta in palio mentre gli Stati Uniti osservano e contrastano le conquiste russe. E l’escalation vede in particolare l’avvento dei mercenari arruolati dalle potenze che sostengono le parti in campo, il governo di Fayez al Sarraj e l’Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar. Sono migliaia, forse decine di migliaia, gli uomini non appartenenti alle forze armate dei propri Paesi che sono giunti in Libia come combattenti per l’una o l’altra parte della barricata. Gruppi appartenenti ad aziende private o arruolati in Stati già in guerra e che negli anni si sono confermati veri pilastri di quella guerra asimmetrica che ormai da tempo contraddistingue i vari scenari bellici. Non scontri ufficiali tra forze armate, ma guerre logoranti, anarchiche, dove è sempre più difficile capire chi combatte e con quali mezzi. Ma intanto il sangue scorre, insieme ai fiumi di denaro per sovvenzionare queste forze e agli interessi che contraddistinguono le radici dei conflitti. E la Libia è una di queste nuove guerre in cui tutto sembra essere fluido e senza via d’uscita.
Il triangolo africano. All’inizio erano soprattutto africani i mercenari coinvolti in Libia. L’esercito di Sarraj poteva contare su ciò che rimaneva delle forze armate libiche e dal riconoscimento internazionale. Ma per Haftar il problema è sempre stato più sentito: il sostegno delle tribù non basta quando non si hanno caserme e uomini in numero adeguato alla conquista di Tripoli. E le forze che hanno sostenuto l’ascesa del maresciallo dell’Est non hanno mai potuto entrare ufficialmente in conflitto se non per rapide incursioni aeree. I soldi c’erano: mancava la possibilità di inviare uomini. È per questo motivo che sin dalle prime grandi offensive, Haftar (o meglio, i suoi ricchi alleati) ha attinto dalle grandi masse a sud del confine libico. Ciad e Sudan, in particolare, sono diventati in particolare i grandi bacini dove poter arruolare uomini disposti a tutto, con la possibilità di garantire a loro una paga e ai governi dei due Paesi denaro e aiuti. Nelle ultime settimane, Al Jazeera, non a caso qatariota, ha puntato i riflettori su una missione emiratina a Khartoum con un duplice scopo: portare aiuti sanitari e stringere sull’arruolamento di altri uomini per riempire le file del generale Haftar. Le autorità sudanesi hanno negato l’esistenza stessa della missione. Ma l’ultimo rapporto di dicembre delle Nazioni Unite parla chiaro: in Libia ci sarebbero tra i mille e i tremila combattenti sudanesi assoldati dall’Esercito nazionale libico. Discorso leggermente diverso per il Ciad, dove invece non c’è un unico canale di collegamento. Molti ciadiani si sono arruolati come mercenari nelle unità fedeli al maresciallo. Ma altri hanno rappresentato per anni schegge impazzite, assoldati anche da milizie legate a Tripoli, come dimostrò l’attacco sferrato da alcuni combattenti nel sud della Libia contro forze fedeli a Bengasi.
Turchia e Russia. Negli ultimi giorni l’Osservatorio siriano per i diritti umani, l’organizzazione con sede a Londra che ha per anni rappresentato il megafono dei ribelli siriani, ha denunciato l’arrivo di circa diecimila mercenari arruolati in Siria dai comandanti turchi. Migliaia di miliziani, a volte jihadisti, altre volte semplicemente uomini in cerca di soldi, giunti sulle coste nordafricane per sostenere la resistenza del Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Sarraj. Altre migliaia sarebbero invece già in fase di addestramento nei campi turchi e dovrebbero arrivare in Libia verso la metà di giugno. Tutto prima che la missione Irini dell’Europa possa mettere a rischio il traffico di armi e uomini verso la Tripolitania e la Cirenaica. Per la Turchia non si tratterebbe certo di una novità. Come avvenuto in Siria, dove milizie siriane sono state arruolate e addestrate per combattere contro l’esercito di Damasco, così ora il copione viene ripetuto in Libia, ma questa volta per sostenere il governo. In questo senso, fondamentale non è solo il supporto sul campo dei droni e dei soldati e mezzi di Ankara già presenti a Tripoli in accordo con Sarraj, ma anche il flusso di denaro per pagare le “truppe” e che potrebbe essere garantito dal ricco alleato del Qatar. Lo stesso Osservatorio accusa anche la Russia, che secondo l’ong arruolerebbe uomini nelle province di Raqqa, Homs, Latakia e Al Hasakah per poi imbarcarle nella base Hmeimin e portarle direttamente in Libia a sostegno, questa volta, del generale Haftar e della sua avanzata tra Tripoli e Misurata. Accuse gravi che per ora trovano conferme solo dalle dichiarazioni dei rivali di Mosca e di Ankara. L’ambasciatore americano a Tripoli, Richard Norland, ha parlato apertamente di mercenari inviati dalla Russia, mentre il comando per l’Africa (Africom) ha confermato la presenza di aerei russi in Libia parlando di protezione per i contractors “arruolati” da Mosca. Mosca si difende definendo la presenza di aerei sovietici e non russi come di una “non prova” della propria presenza. E per i contractors vale la regola che non sono considerati uomini legati all’autorità per cui indirettamente lavorano.
I movimenti della Wagner. Ma se sui mercenari siriani permane un alone di terrore e oscuri traffici, diverso è il caso delle migliaia di contractors assoldati dalla Wagner, vera e propria “forza armata” di Putin nei conflitti dove non vuole coinvolgere il proprio esercito. Impiegati in diversi teatri operativi, gli uomini della Wagner sono diventati una pedina fondamentale anche in Libia. E i movimenti di queste milizie private, in particolare con l’ultima tappa di Bani Walid, hanno scatenato l’ira del Gna. Mohamed Qanunu, portavoce dell’operazione “Vulcano di Rabbia”, aveva denunciato l’arrivo di un Ilyushin e di 14 Antonov 32 carichi di contractors e armi in arrivo da Tarhouna. Poi però è stato il sindaco della città, Salem Alaywan, a spiegare che gli stessi contractors avrebbero lasciato in massa la città roccaforte dei Warfalla per dirigersi verso una sconosciuta località a sud. Movimenti che portano a fare diverse riflessioni. I contractors sono lì in via ufficiale per sostenere l’Enl, ma servono soprattutto a evitare che Haftar capitoli per fare in modo che il Cremlino possa capitalizzare quanto perso dagli Stati europei e dagli Usa evitando che la Turchia prenda il sopravvento. Tanto è vero che la presenza degli uomini della compagnia privata e i Mig e Sukhoi giunti ad Al Jufra servono in particolare per limitare le operazioni dei droni turchi e dei mercenari al soldo di Ankara. Finché il conflitto non porterà a un accordo che renda più facile per la Russia defilarsi: possibilmente accordandosi anche sul fronte siriano.
La misteriosa Operation Opus. Se i contractors russi e i mercenari siriani al soldo dei turchi sono ormai una realtà acquisita, non si deve credere che anche altri Paesi non prendano parte a questa campagna militare privatizzata. Gli Stati arabi coinvolti nel conflitto, in particolare Emirati Arabi Uniti, hanno fatto uso dei propri soldi per “investirli” nel conflitto. Ed è di pochi giorni fa la rivelazione del New York Times che ha svelato una missione costata circa 80 milioni di dollari e che avrebbe visto decine di contractors occidentali arruolati da società con sede a Dubai, Lancaster6 e Opus Capital Asset per un’operazione segreta in favore di Haftar. Secondo quanto rivelato dai documenti delle Nazioni Unite, il piano prevedeva che due gommoni partiti da Malta dovevano recarsi in Tripolitania per fermare un carico di armi verso le truppe di Sarraj. Altri sei elicotteri sarebbero poi giunti dal Botswana con uomini provenienti da Stati Uniti, Regno Unito, Sudafrica e Australia. La missione, nome in codice “Operation Opus” sarebbe saltata per il rifiuto di Haftar dopo aver visto i mezzi messi a disposizione. Uno scoop che dimostra come il coinvolgimento delle forze di altri Stati sia un problema estremamente più radicato in un territorio come quello libico che si presta a orazioni ibride con l’ausilio di uomini non riconducibili ad alcune forza armata. Con due eserciti che si combattono su un territorio vastissimo e scarsamente abitato, linee del fronte labili e molto ampie, e con l’impreparazione e inadeguatezza delle forze ufficialmente in campo, è chiaro che forze mercenarie ma ben addestrate possono fare la differenza. Specialmente se si vuole evitare di inviare i propri boots on the ground ma si vuole comunque mandare segnali importanti.
La verità dietro alla deposizione di Gheddafi. Andrea Massardo il 4 agosto 2020 su Inside Over. Era il 2011 quando Mu’ammar Gheddafi venne rovesciato a seguito della prima guerra civile libica, segnando così l’inizio di una spaccatura all’interno del Paese che, a nove anni distanza, ancora non è stata superata. Dopo la caduta del regime in carica dal 1969, la Libia non è riuscita a trovare un’unità nazionale, creando uno scenario politico nel quale si sono intromesse una moltitudine di potenze mondiali e che comprendono, tra le altre, la Russia, la Francia, la Turchia e l’Egitto, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Con la popolazione allo stremo e la cronaca giornaliera che parla ormai incessantemente di incursioni, attacchi, attentati e scontri a fuoco, il Paese è ormai lo spettro di se stesso, ben lontano dal sogno della Libia indipendente del colonnello Gheddafi e sempre più soggiogato al potere internazionale. Uno scenario di conquista e di neo-colonialismo che, poco prima di essere deposto, l’ex-dittatore aveva tristemente profetizzato, promettendo di combattere sino all’ultimo affinché non accadesse.
“Combatteremo fino all’ultimo uomo e all’ultima donna”. “Esiste una cospirazione contro la Libia volta a creare un nuovo sistema di colonialismo e conquistare i nostri pozzi di petrolio. Tutto questo è impossibile, impossibile. Combatteremo sino all’ultimo uomo e ultima donna per difendere la Libia, da nord a sud, da est a ovest”. Con queste parole il colonnello Gheddafi – come riportato dalla testata britannica The Guardian – aveva preannunciato una stagione di invasione della Libia da parte delle potenze straniere. Un triste scenario per il popolo libico che, a nove anni di distanza, sembra però essersi trasformato nella dura realtà di tutti i giorni. Dietro agli scontri tra il generale Khalifa Haftar e il presidente Fayez al-Sarraj si celano infatti i nomi di Emmanuel Macron, di Recep Tayyip Erdogan, di Vladimir Putin e di Abdel Fatah al Sisi. E nessuno di loro, in fondo, è minimamente interessato al bene della popolazione libica, bensì a semplici vantaggi economici legati alla conquista di un pozzo petrolifero aggiuntivo rispetto ai propri rivali internazionali. Una guerra di logoramento, fatta di brevi avanzate e celeri ritirate, tutte svolte nelle vicinanze di qualche giacimento di oro, il vero tesoro della Libia che Gheddafi ha tentato di difendere sino all’ultimo dall’invasione straniera.
Le bugie dei buonisti. Una delle frasi ripetute soprattutto dalle fazioni progressiste dell’Europa si riferiva alla necessità sociale di intervenire in Libia a seguito delle gravissime violazioni dei diritti umani perpetrati dalla famiglia Gheddafi. In parte fondata, questo grido di battaglia è stato in grado di convincere l’opinione pubblica circa la necessità di intervento, permettendo alla Libia di “liberarsi” da un regime durato oltre quarant’anni. Tuttavia, dall’intervento internazionale ad oggi che cosa ne è rimasto del territorio libico e della sua popolazione, se non qualche maceria e la quasi totalità delle famiglie distrutte? In confronto a quanto accaduto in questi anni in Libia nei confronti della popolazione, Gheddafi potrebbe quasi essere paragonato a un agnellino. Una guerra continua, una criminalità nelle città giunta alle stelle e la continua paura che, da un momento all’altro, una bomba possa piovere sulla propria testa a causa di qualche mezzo militare straniero. La profezia di Gheddafi, in buona sintesi, non è altro che la quotidianità attuale di ogni libico che abita a Tripoli, Sirte e Misurata, una sciagura causata in toto dalle mire internazionali sulla regione. Tutto questo, in conclusione, non fa altro che evidenziare la grandissima frottola che ci hanno fatto bere per troppi anni e che voleva la deposizione di Gheddafi come la naturale fine di un dittatore odiato dalla popolazione. Ma la verità, in fondo, è molto diversa. La fine di Gheddafi è quella di un dittatore che, sebbene con i metodi della dittatura, ha lottato fino all’ultimo per rendere grande agli occhi del mondo il proprio Paese, tentando di salvarlo – e pagando con la sua stessa vita – l’invasione straniera.
L’estremismo islamico in Libia ai tempi di Gheddafi. Mauro Indelicato il 22 maggio 2020 su Inside Over. L’estremismo islamico in Libia è ancora oggi un fenomeno molto presente e che incide in diverse regioni. Ma le sue radici affondano tra gli anni Ottanta e Novanta, quando i gruppi jihadisti hanno iniziato a radicarsi bene sul territorio soprattutto nell’est del Paese nordafricano. Ben presto i gruppi islamisti sono diventati i principali avversari del rais Muammar Gheddafi, il quale poi a metà degli anni Novanta ha lanciato una dura repressione.
Il fondamentalismo islamico in Cirenaica. L’ascesa del fondamentalismo islamico in Libia è possibile riscontrarla soprattutto in Cirenaica. Qui diversi gruppi sono riusciti a fare breccia, sulla scia della diffusione delle idee più radicali che a fine anni Ottanta imperversava in tutto il mondo islamico. Sono due le principali ragioni per le quali il fondamentalismo ha messo radici in Cirenaica. La prima è di natura geografica: la regione dell’est della Libia ha subito le influenze dal vicino Sudan, lì dove i gruppi jihadisti iniziavano ad operare e ad essere molto attivi. In secondo luogo, la Cirenaica ha sempre rappresentato una spina nel fianco per Gheddafi, al potere dal 1969 ed accusato dalle tribù di questo territorio di privilegiare la Tripolitania. Il sistema sociale libico è infatti molto caratterizzato dall’importanza delle tribù, al cui interno l’interesse familiare ha sempre prevalso su quello nazionale. Secondo diversi gruppi tribali della Cirenaica, Gheddafi ha distribuito le ricchezze prevalentemente in Tripolitania, tralasciando invece l’altra storica regione libica. Nell’est del Paese si viveva dunque con un forte senso di insofferenza nei confronti del potere gheddafiano. L’estremismo islamico in tal senso ha quindi rappresentato un appoggio per andare contro il rais. E le idee radicali hanno quindi iniziato a diffondersi, soprattutto negli ambienti più ostili a Gheddafi. Per avere un’idea del dilagare dal fondamentalismo islamico in Cirenaica, basti pensare che tra gli anni Novanta e il 2000 un miliziano di Al Qaeda su cinque operante in Iraq era di origine libica e, in particolare, proveniente dall’est del Paese. La città di Derna è quella che storicamente in assoluto ha sempre fornito un gran numero di foreign fighter alla causa islamica. Le scuole terroristiche in Cirenaica sono divenute tra le più importanti ed al contempo pericolose di tutto il medio oriente.
La posizione di Gheddafi contro il fondamentalismo. Gheddafi è salito al potere nel 1969 portando avanti ideali nasseriani, figli del panarabismo socialista che in quegli anni ha instaurato diverse nuove repubbliche in nord Africa ed in medio oriente. L’idea di società del rais, illustrata nel suo Libro Verde del 1977, appare laica e con diversi richiami alla “democrazia delle masse”. Ma in questa visione, c’è anche spazio per un importante ruolo dell’Islam. Gheddafi non ha mai nascosto la portata centrale della religione musulmana nel suo progetto di unificazione del mondo arabo. Tanto è vero che nel 1992 lo stesso rais ha rivelato di un’offerta da parte di alcuni gruppi fondamentalisti volta a consegnargli il titolo di “califfo”. Una richiesta da lui rifiutata, ma che fa ben intuire come alcuni tratti della sua ideologia politica, quali l’anticolonialismo ed il ruolo della religione nella società, possano a prima vista sembrare in comune con l’ideale islamista. Tuttavia, la formazione nasseriana di Gheddafi gli ha sempre fatto condannare la linea dei Fratelli Musulmani. Inoltre, in più occasioni ha definito come “folli” coloro che hanno compiuto atti terroristici in nome dell’Islam, come disse in un’intervista a metà degli anni Novanta: Per loro dovrebbero aprirsi i manicomi e non le galere. Inoltre poi, Gheddafi ha condannato l’idea di portare la jihad in Europa: “Se noi oggi rivendichiamo il diritto di invadere l’Europa – ha dichiarato ancora in un’intervista ad Angelo Del Boca – Allora dobbiamo giustificare i Paesi europei che in passato ci hanno invaso”. L’integralismo islamico dunque, viene visto da Gheddafi come una minaccia sia per il suo Paese che, più in generale, per l’interpretazione e l’immagine dell’Islam. Di conseguenza, il rais nei gruppi fondamentalisti vede un nemico da combattere.
La repressione di Gheddafi. Nell’ottica del colonnello, però, ad emergere è soprattutto il fatto che in quel frangente storico i movimenti islamisti costituiscono la vera unica opposizione al suo potere. Dunque, l’obiettivo a quel punto diventa quello di stanare quanto prima ogni recrudescenza del fenomeno. Per questo vengono inviati in Cirenaica reparti speciali e forze di sicurezza, il cui intento è quello di individuare e sgominare le varie cellule terroristiche insediate nell’est del Paese. Si è scatenata a tutti gli effetti una guerra a bassa intensità, in cui settimana dopo settimana decine di terroristi sono stati arrestati oppure uccisi dai blitz delle forze di sicurezza. Epicentro delle operazioni era ovviamente la Cirenaica: qui ad operare erano anche alte sfere del gruppo terroristico Al Qaeda, il cui fondatore Osama Bin Laden ha operato dal vicino Sudan. Molti prigionieri sono stati trasferiti all’interno delle carceri di massima sicurezza, tra cui quello tripolino di Abu Salim. Qui il 29 giugno del 1996 almeno 1.270 prigionieri sono stati uccisi, forse a causa di una rivolta sedata dalle forze di sicurezza oppure, come hanno in seguito accusato alcune associazioni internazionali, per via di un’azione di forza del governo. Molte di quelle vittime provenivano da Bengasi, tra di loro anche gente che aveva combattuto in Afghanistan tra le fila degli islamisti. La vicenda del carcere di Abu Salim è spesso stata vista come un conto in sospeso tra i gruppi radicali ed il potere gheddafiano. Le azioni di repressione a danno degli islamisti sono andate avanti soprattutto tra il 1993 ed il 1998. Agli inizi degli anni 2000 l’integralismo islamico, secondo le autorità tripoline di allora, non era più considerabile una minaccia per il Paese.
Il mandato di cattura contro Bin Laden del 1998. A conferma della forte azione repressiva contro i gruppi jihadisti, vi è anche l’episodio del 16 marzo 1998: quel giorno il governo di Tripoli ha infatti emesso un mandato di cattura internazionale per Osama Bin Laden. Nonostante il fondatore di Al Qaeda fosse già ben noto alle cronache e conosciuto quale personaggio più pericoloso del fondamentalismo islamico, il mandato di cattura emanato dalla Libia di Gheddafi è stato il primo trasmesso all’interpol. Bin Laden in Libia era ricercato già dal 1996 per l’uccisione di Silvan Becker, agente dei servizi segreti interni tedeschi, e della moglie. I due erano stati uccisi da una mano islamista nel marzo del 1994 proprio nel Paese nordafricano. Il rais è stato quindi il primo a rendere esplicita la minaccia internazionale rappresentata da Al Qaeda e da Bin Laden. Pochi mesi dopo l’emanazione del mandato di cattura, l’organizzazione terroristica si renderà protagonista dell’attentato contro le ambasciate Usa di Nairobi e Dar Es Salam, avvenuto il 7 agosto 1998. Ed il 20 agosto successivo, l’amministrazione Clinton avvierà un raid contro Bin Laden in Sudan ed Afghanistan. Tripoli e Washington si sono dunque clamorosamente ritrovate, dopo anni di scontri politici, sulla stessa posizione. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, organizzati proprio da Bin Laden ed Al Qaeda, la Libia ha espresso la sua solidarietà agli Usa ed ha dichiarato di avere tra i propri obiettivi la lotta al terrorismo. Circostanza quest’ultima che ha contribuito nel 2004 alla fine delle sanzioni economiche contro Tripoli, inflitte sul finire degli anni ’80.
La situazione negli anni successivi allo contro. L’estremismo islamico in Cirenaica ha perso forza dopo la repressione di Gheddafi, ma non è mai sparito del tutto. A testimoniarlo è l’episodio del gennaio del 2006, quando un gruppo di manifestanti ha assaltato il consolato italiano di Bengasi a seguito dell’esposizione, da parte dell’allora ministro Roberto Calderoli, di alcune vignette ritenute blasfeme contro l’Islam. Il fatto che l’episodio sia accaduto nel capoluogo della Cirenaica è emblematico di come le idee islamiste in questa parte del Paese erano ancora ben radicate. Non è un caso che le prime rivolte anti Gheddafi del 2011, che hanno portato poi al rovesciamento del potere del rais, siano scoppiate proprio nella parte orientale della Libia. E fazioni islamiste si sono subito inserite nei disordini, radicandosi ulteriormente in tutta la Cirenaica. A Bengasi sono sorte formazioni quali ad esempio Ansar Al Sharia, responsabile dell’uccisione dell’ambasciatore Usa in Libia l’11 settembre 2012. La stessa Bengasi, così come Derna, sono state per diversi anni occupate da estremisti il cui intento era quello di instaurare degli emirati islamici. Oggi la regione è quasi interamente controllata dalle truppe del generale Haftar, ma gruppi terroristici sia legati ad Al Qaeda che all’Isis sono segnalati ancora molto attivi.
Che cos’è la Jamahiriya. Mauro Indelicato il 19 giugno 2020 su Inside Over. La Jamahiriya è la forma di governo instaurata in Libia dal 1977 al 2011. Il suo ideatore è stato il rais Muammar Gheddafi, al potere nel Paese nordafricano dal 1969. La Jamahiriya libica ha tratto spunto, da un punto di vista ideologico ed organizzativo, da quanto teorizzato dal Libro Verde scritto dallo stesso Gheddafi negli anni ’70 e pubblicato nell’anno di fondazione della sua forma di governo. La Jamahiriya è rimasta in vigore per 34 anni, venendo abolita nel 2011 a seguito della fine del gheddafismo e dell’uccisione dello stesso rais.
Etimologia del termine. La parola Jamahiriya in arabo non esiste, essa è stata coniata artificiosamente dallo stesso Gheddafi per indicare la sua forma di governo che ha voluto instaurare in Libia. Jamahiriya è quindi un neologismo, ricavato dall’unione di due parole: jamāhīr, traducibile con il termine “masse”, e jumhūriyya, il quale invece indica in arabo Repubblica. Dunque, con Jamahiriya il rais voleva indicare la “Repubblica delle Masse”. Con questo termine, Gheddafi ha voluto indicare la nascita di una forma di governo incentrata sulle masse e sulla partecipazione diretta del popolo al governo del Paese. La scelta del neologismo inoltre, ha forse voluto simboleggiare per il rais la nascita di una nuova forma di governo non solo in Libia e nel mondo arabo ma, in generale, a livello internazionale. Già dunque dall’etimologia del termine è ben possibile individuare il contesto politico ed ideologico ruotante attorno alla Jamahiriya.
Il Libro Verde di Gheddafi. Muammar Gheddafi è salito al potere il 1° settembre 1969, a seguito di un colpo di Stato militare condotto assieme ad un gruppo di ufficiali i quali hanno rovesciato il governo di Re Idris. Il rais, nativo di Sirte ed all’epoca ventisettenne, ha quindi preso le redini della Libia inaugurando la Repubblica. La sua ideologia era nasseriana, ispirata cioè al panarabismo socialista inaugurato in Egitto da Gamal Abd El Nasser, in quel momento al timone del governo de Il Cairo. Obiettivo di Gheddafi era quindi quello di costituire una Repubblica laica e socialista, con la nazionalizzazione dei giacimenti di petrolio e l’espulsione dalle basi militari di americani ed inglesi, in quel momento presenti all’interno della Libia. Altro chiodo fisso di Gheddafi era l’emancipazione dal periodo coloniale e, in tal senso, nel 1970 ha espulso tutti gli italiani ancora residenti in Libia con l’intento di affrancare il Paese dal periodo della colonizzazione italiana. Nel corso dei primi anni di governo però, complice anche l’improvvisa e prematura scomparsa di Nasser, Gheddafi ha iniziato ad architettare una “nuova via” non solo per la Libia ma, più in generale, per il mondo arabo. Un sentiero socialista, in grado di affrancarsi tanto dal capitalismo quanto dal comunismo uscendo fuori dalla logica dei due blocchi. Da qui la stesura del suo “Libro Verde”, un colore scelto in onore dell’Islam e con il testo volto ad indicare la sua nuova via della “Repubblica delle Masse” da far intraprendere alla Libia. All’interno del libro, Gheddafi si è occupato di ogni aspetto della vita politica e sociale del Paese che doveva uscire dalla sua nuova rivoluzione. Dalla famiglia al ruolo della donna, passando per quello della tribù, fino all’organizzazione dell’economia e del sistema politico della nuova Libia. Il Libro Verde è stato pubblicato nel 1977, il 2 marzo di quell’anno è stata annunciata ufficialmente la nascita della Gran Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista, la cui bandiera adottata è interamente verde, proprio come la copertina del testo del rais divenuto a tutti gli effetti riferimento culturale e politico del Paese.
Il sistema istituzionale. L’architettura istituzionale della Libia della Jamahiriya era diversa rispetto a quella della gran parte degli Stati di oggi. In primo luogo, ad emergere era la mancanza di una chiara divisione di poteri. Non era previsto il parlamento, erano presenti alcuni segretariati che fungevano da ministeri ma con compiti non delineati. Per dare l’idea della complessità del sistema istituzionale previsto nella Jamahiriya, basti pensare che lo stesso Gheddafi è stato formalmente capo di Stato soltanto per i primi due anni, dal 1977 al 1979. Questo perché tale ruolo era appannaggio del segretario generale del Congresso Nazionale, che il rais ha lasciato già a partire del 1979 e dandolo in rotazione ad altri membri di questa istituzione. Tuttavia, le redini del potere sono sempre rimaste in mano a Muammar Gheddafi, il quale però ha rinunciato ad ogni incarico ufficiale, preferendo invece l’appellativo di “Guardiano della Rivoluzione”. Partendo dal basso, il sistema istituzionale prevedeva la formazione dei cosiddetti “Congressi del Popolo locale” e dei “Comitati del Popolo locale”, al cui interno vi era la rappresentanza delle popolazioni dei vari comuni. Un gradino più in alto si trovavano invece i Congressi ed i Comitati delle Regioni, a cui partecipavano i segretari ed i dirigenti dei Congressi e dei Comitati del Popolo locale. A loro volta, i membri delle istituzioni regionali eleggevano propri delegati da inviare al Congresso del Popolo nazionale ed al Comitato del Popolo nazionale. Il Congresso si riuniva annualmente e riuniva circa 2.700 delegati da tutto il Paese. I membri eleggevano quindi i segretari e nominavano il Gabinetto. Il Congresso aveva una funzione paragonabile a quella del parlamento, il Comitato invece con i suoi segretariati corrispondeva al governo. Il segretario del Congresso era anche capo di Stato, il segretario del Comitato invece diveniva capo dell’esecutivo. Ma, come detto in precedenza, una netta separazione dei poteri non esisteva. Le varie istituzioni prima elencate avevano il generico compito di rappresentare le istanze della popolazione nei vari livelli locali, regionali e nazionali. La rappresentanza formalmente era diretta: non esistevano partiti, definiti da Gheddafi nel Libro Verde come elementi dittatoriali ed impositivi, né associazioni e tutti i cittadini ufficialmente potevano partecipare alla vita politica senza rappresentanza intermedia. In cima alla piramide tuttavia, è sempre rimasto comunque lo stesso Gheddafi. In qualità di guardiano della rivoluzione, era lui a tirare le fila politiche della Libia. Da molti analisti, la Jamahiriya libica è stata definita come una “Stateless Society”: di fatto non c’era uno Stato con leggi e costituzioni in grado di determinare il corso della vita politica, molto dipendeva dalla volontà del guardiano della rivoluzione e dunque del rais. Inoltre, la rotazione delle nomine in seno ai Comitati ed al Congresso ha evitato la formazione di poteri diversi rispetto a quelli del guardiano della rivoluzione.
Il sistema di welfare. Ma al di là dello schema istituzionale, la Jamahiriya libica ha anche disciplinato un sistema economico complessivamente socialista, con un ruolo molto forte delle istituzioni economiche statali e con importanti interventi volti alla redistribuzione della ricchezza. Quando Gheddafi è salito al potere, la Libia era già un rinomato produttore di petrolio. La qualità dell’oro nero libico ha attirato da sempre l’attenzione di molte compagnie straniere, attratte da caratteristiche del greggio locale che abbattevano i costi di raffinazione. Inoltre, la vicinanza geografica all’Europa ha sempre rappresentato un altro elemento importante agli occhi delle compagnie del vecchio continente. Gheddafi ha nazionalizzato i vari giacimenti, la compagnia libica Noc ha negli anni iniziato ad operare in joint venture con le altre compagnie straniere, tra cui soprattutto l’italiana Eni. Gli ingenti introiti del petrolio sono stati reinvestiti anche per infrastrutture, tra cui il “grande fiume artificiale”, e per programmi di assistenza alla popolazione. Ogni giovane coppia sposata ad esempio, aveva diritto ad una casa mentre per una vasta fascia di giovani l’istruzione e l’accesso all’università era gratuito. La Libia ha quindi potuto vantare tra gli anni ’90 e 2000 un livello medio pro capite secondo in Africa solo al Sudafrica. I proventi del petrolio hanno potuto contribuire anche al mantenimento della pax libica: in una società, quale quella del Paese nordafricano, dove la tribù è un elemento decisivo i soldi dell’oro nero hanno permesso a Gheddafi di mantenere un sistema di welfare in grado di accontentare gran parte dei poteri tribali.
La caduta della Jamahiriya. La sorte della Jamahiriya è stata segnata dallo scoppio delle proteste nell’est del Paese nel febbraio del 2011, sull’onda della cosiddetta primavera araba che poche settimane prima aveva fatto cadere i governi di Ben Alì in Tunisia e Mubarack in Egitto. La guerra seguita a quelle proteste, con l’intervento Nato del 2011 decisivo per la definitiva avanzata del Cnt, il Congresso Nazionale di Transizione anti Gheddafi, hanno provocato la fine dell’esperienza politica iniziata nel 1977. In Libia come all’estero sono in tanti a chiedersi se la Jamahiriya poteva sopravvivere senza l’avvento delle proteste della primavera araba. Negli ultimi anni la mancanza di partiti politici e di un potere decentralizzato rispetto al rais, ha portato non pochi contrasti all’interno della stessa famiglia Gheddafi. Saif Al Islam, secondogenito del rais, era a favore di riforme in grado di proiettare la Jamahiriya in un contesto più consono alle esigenze di uno Stato. Mutassim Gheddafi, altro figlio del fondatore della Repubblica delle Masse, portava avanti invece istanze più conservatrici. Uno scontro che, alla scomparsa naturale di Muammar Gheddafi, avrebbe potuto ad ogni modo far crollare gli equilibri interni al potere libico di allora. In poche parole, la complessità della Jamahiriya difficilmente poteva garantire una sopravvivenza del sistema a lungo termine. Il 20 ottobre 2011, con l’uccisione di Gheddafi a Sirte, si è definitivamente conclusa l’esperienza libica della Jamahiriya.
Fuga verso la Libia: su «la Lettura» la storia vera ispira Roberto Costantini. Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Ida Bozzi. Una storia di volontà ed emancipazione, coraggio e amore, che si snoda a cavallo del mare Mediterraneo e che segue la vita di una famiglia italiana, i Muccio, divisa tra due sponde, la Libia e l’Italia. Su questa vicenda Roberto Costantini sta scrivendo un nuovo romanzo e una sceneggiatura. Del lavoro in corso dà un’anticipazione in un racconto su «la Lettura» #429, in edicola per tutta la settimana e disponibile nella nuova App per smartphone e tablet. La copertina de «la Lettura» #429 con un’opera di Beverly PepperDopo i gialli della Trilogia del male (Marsilio), con protagonista il commissario Balistreri, e dopo il romanzo appena pubblicato per Longanesi, Una donna normale, con l’agente segreto Aba Abate, al centro del nuovo libro che Costantini sta scrivendo e del racconto in questo numero de «la Lettura», c’è una storia vera di emigrazione italiana, complicata dalla Seconda guerra mondiale. Lo scrittore (nato proprio a Tripoli nel 1952) ha ricostruito, anche grazie ai membri della famiglia Muccio ancora in vita, gli umori, i drammi e le speranze di un’epoca. Nel 1930 i Muccio fuggono da Modica, in Sicilia, dove per loro, con il fascismo, l’aria si è fatta irrespirabile. Riparano in Libia, a Tripoli: un «nuovo mondo», dove i bambini di casa sgranano gli occhi davanti ai dromedari e dove la famiglia dovrà affrontare anche momenti drammatici, come la malattia che si porta via il figlio piccolo, i bombardamenti, la chiusura delle scuole. Tanto che tre delle figlie torneranno in Italia per poter terminare gli studi: il tutto raccontato in una forma narrativa che si muove tra il diario personale, il romanzo e l’epistolario (qui l’intervista video di Costantini a tre delle sorelle Muccio). Sono molti i racconti nel supplemento, e si tratta di altrettante immersioni in mondi diversissimi. Lo scrittore svedese Fredrik Sjöberg, atteso a Milano per il festival I Boreali (il 29 febbraio), propone nel supplemento un racconto esilarante attorno alle ricerche più strambe della scienza: esperimenti con ragni nello spazio o con concentrati d’urina, test scientifici sui funghi allucinogeni, statue anti-piccione, colture di acari nel (proprio) orecchio, e altre imprese condotte da scienziati — alcuni dei quali premiati per questi bizzarri test con il premio «Ig Nobel». Una tendenza della narrativa recente, indagata nella sezione Universi, è il tema della «ribellione» della natura a chi per tanto tempo l’ha maltrattata. L’altra faccia, dei #Fridayforfuture di Greta Thunberg. Nell’articolo di Severino Colombo viene proposto un viaggio tra i thriller in cui boschi, montagne, laghi si rivoltano contro l’uomo per le tante ingiurie subite, come nel nuovo Voci nella nebbia di A. E. Pavani (Mondadori). Il recupero e la salvaguardia del paesaggio sono i temi cari all’architetto Tilman Latz, intervistato da Giulia Ziino alla vigilia delle Giornate internazionali sul paesaggio della Fondazione Benetton. Mentre in un articolo di Emilia Costantini si parla del progetto «Camp/ Fare campo» di Leonardo Delogu e Valerio Sirna. Un evento-performance abitativo che prenderà vita al Teatro India di Roma dal 24 febbraio, nell’ambito del progetto «Oceano Indiano»: gli artisti abiteranno un accampamento teatrale con musiche e testi, in uno spazio in cui il pubblico potrà entrare e interagire. Il racconto del contemporaneo passa ovviamente anche attraverso il cinema: nella sezione Maschere, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone racconta a Costanza Rizzacasa d’Orsogna il nuovo film girato con l’amico Gabriele Mainetti, Freaks out, che sarà nelle sale il 22 ottobre: storia di quattro personaggi allo sbando nelle periferie di Roma al tempo della Seconda guerra mondiale, dopo la scomparsa del proprietario del circo in cui lavoravano. «La Lettura» è anche in un’App per smartphone e tablet. Per chi sottoscrive l’abbonamento (distinto da quello al «Corriere»), sono disponibili, oltre al nuovo numero, gli oltre 400 numeri usciti dal 2011; il Tema del Giorno (solo in digitale); la newsletter dell’inserto che arriva il venerdì. L’App de «la Lettura» si può scaricare sull’App Store (per iPhone e iPad) e su Google Play (per tablet e smartphone con Android). Al lancio è disponibile in abbonamento a 3,99 euro mensili o 39,99 annuali, con una settimana gratis (anziché 4,99 euro al mese e 49,99 euro all’anno).
ANSA il 17 gennaio 2020. - "La giustizia dinanzi ai misteri dei soldi libici": a pochi giorni dalla conferenza internazionale sulla Libia in programma domenica a Berlino, Le Monde torna a puntare i riflettori sull'annosa inchiesta giudiziaria relativa ai presunti finanziamenti libici alla campagna presidenziale di Nicolas Sarkozy. "Da sei anni - scrive Le Monde - la giustizia indaga su eventuali versamenti da parte del clan di Gheddafi per la campagna presidenziale di Nicolas Sarkozy nel 2007. Tra le affermazioni di persone vicine all'ex dittatore e le smentite dei sarkozysti", il giornale fa dunque il punto sull'inchiesta in corso, in un lungo articolo con apertura in prima pagina. Tra l'altro, sottolinea Le Monde, "gli inquirenti hanno attentamente ricostruito i numerosi viaggi a Tripoli di Claudé Gueant e Brice Hortefeux (due fedelissimi dell'ex presidente,ndr.), a volte senza missione ufficiale". L'inchiesta,, scrive, tra l'altro, il giornale, ha inoltre "permesso di tracciare il percorso dei soldi liquidi, ma senza dimostrare che Nicolas Sarkozy ne abbia beneficiato".
Stefano Graziosi per “la Verità” il 22 gennaio 2020. A che gioco sta giocando la Francia sul dossier libico? Parigi ha bloccato una dichiarazione congiunta di Italia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, finalizzata a condannare la stretta petrolifera recentemente imposta a Tripoli dal generale Khalifa Haftar. «La Francia sta bloccando l' emissione di una dichiarazione congiunta dei Paesi occidentali che condanni la chiusura di porti e campi petroliferi e che chieda che siano riaperti immediatamente. Perciò i Paesi emetteranno dichiarazioni individuali che esprimono la loro posizione. Sembra che i sostenitori del criminale Haftar siano ancora sulle proprie posizioni (anche) dopo la dichiarazione di Berlino», ha affermato ieri Ashraf Shah, alto funzionario tripolitano considerato particolarmente vicino al premier Fayez Al Serraj. Insomma, nonostante l' unanimità ostentata domenica alla conferenza di Berlino, pare proprio che fra le nazioni europee non si registri eccessiva concordia sul dossier libico. Non dimentichiamo che nei giorni scorsi le forze di Haftar hanno bloccato svariati impianti petroliferi nell' Est e nel Sudovest del Paese. L' obiettivo del generale della Cirenaica è duplice: strangolare economicamente Tripoli ed esercitare pressioni ricattatorie sulla stessa Unione europea. Va da sé che, partendo da simili premesse, mantenere in piedi seriamente un cessate il fuoco rischia di rivelarsi un' impresa ardua. Formalmente la Francia ha messo il veto sulla condanna, avanzando due motivazioni. In primo luogo, Parigi sostiene che nella dichiarazione non sarebbe stato previsto il coinvolgimento di Grecia e Cipro: una mossa volta probabilmente a far leva sull' astio di Atene verso una strenua alleata di Serraj come la Turchia. In secondo luogo - ed è forse l' aspetto più significativo - la Francia ha affermato che, senza la stretta di Haftar, il petrolio rischierebbe di finire ai «terroristi»: si tratta, a ben vedere, di uno degli argomenti maggiormente utilizzati dal generale della Cirenaica, che ha ripetutamente accusato Serraj di vicinanza alle sigle islamiste e - in particolare - alla Fratellanza musulmana. Ed è proprio per il comune contrasto alla Fratellanza che gli alleati regionali del maresciallo (dagli Emirati Arabi Uniti all' Egitto) starebbero continuando a spingerlo verso un approccio bellicoso. Haftar parrebbe adesso poter comunque contare su un prezioso alleato anche in sede europea, visto l' atteggiamento doppiogiochista della Francia. Insomma, il fronte che appoggia il generale della Cirenaica non sembra troppo disposto verso concreti propositi di pace. Resta ancora da capire in realtà il ruolo della Russia, che pur figurando tra i principali sponsor del maresciallo parrebbe aver lasciato trapelare nelle ultime ore irritazione nei suoi confronti. Quello che comunque emerge dall' atteggiamento francese sono due elementi. Innanzitutto, Parigi mostra ancora una volta di considerare l' Unione europea come un mero amplificatore dei propri interessi geopolitici: il supposto europeismo di Emmanuel Macron si è cioè - nuovamente - rivelato un abile manto, volto a mascherare la spregiudicatezza e le ambizioni di grandeur dell' Eliseo. Tutto questo, senza dimenticare poi lo schiaffo all' Italia: non va trascurato che Giuseppe Conte ha criticato ieri il blocco petrolifero di Haftar, auspicando un' inverosimile «piena convergenza tra tutti i Paesi». Sulla medesima scia si è posta anche Farnesina. E lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sempre ieri - dal Qatar - ha chiesto di rispettare l' accordo di Berlino. In secondo luogo, si scorge una questione di natura geopolitica, che chiama direttamente in causa l' effettiva forza della Francia nel continente africano. Il punto, in altre parole, è che il doppio gioco di Parigi sul dossier libico manifesti probabilmente una condizione di debolezza, non di forza. Non dimentichiamo che la Francia è da mesi uscita dal novero degli attori internazionali principali in Libia, per lasciare il posto a potenze di ben altro calibro: il territorio libico sta scivolando sempre più verso le orbite di Mosca e Ankara, senza poi ovviamente dimenticare l' Egitto e gli stati del Golfo. Il progressivo tramonto europeo dell' influenza sulla Libia investe quindi anche (se non soprattutto) Parigi. La Francia - ricordiamolo - sta riscontrando sempre maggiori difficoltà pure in altri teatri africani (si pensi solo alla sua precaria presenza militare nel Sahel). Insomma, l' appoggio tacito ad Haftar potrebbe leggersi come un colpo di coda, l' estremo - e probabilmente vano - tentativo dell' Eliseo di rientrare in una partita da cui rischia di essere inesorabilmente escluso. Anche perché, visti i problemi socioeconomici che la dilaniano all' interno, la Francia non è oggettivamente in grado oggi di perseguire una politica di potenza degna di questo nome. Non bisogna poi ignorare eventuali ripercussioni sui rapporti con Washington, visto che ieri gli Stati Uniti hanno dichiarato che le operazioni petrolifere libiche «devono riprendere immediatamente». Gli americani, insomma, potrebbero gradire ben poco i funambolismi d' Oltralpe.
Cosa stiamo finanziando in Libia? Dal 2 febbraio accordi con Tripoli si rinnovano per tre anni. Emma Bonino de Il Riformista 1 Febbraio 2020. Un presidio a Montecitorio per chiedere ancora una volta di sospendere gli accordi con la Libia che proprio il 2 febbraio si rinnovano per altri tre anni. Questo l’appuntamento lanciato da Radicali italiani per domenica pomeriggio per non cedere alla rassegnazione verso le tante storie drammatiche che arrivano dalla Libia e chiedere chiarezza e trasparenza rispetto a quanto accade in quel paese. Da ultimo, preoccupa, ma non sorprende, la decisione dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati di sospendere le attività nel centro di transito di Tripoli dove le persone più vulnerabili, purtroppo solo alcune tra le migliaia bisognose di protezione, nei mesi scorsi hanno trovato assistenza medica e supporto nel tentativo di lasciare la Libia e fuggire dal conflitto in corso e dagli orrori perpetrati nei centri di detenzione. La situazione sul campo è tale che non è più possibile garantire la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura e dello staff. Con la fine dell’intervento dell’Unhcr, già ridotto al minimo e limitatissimo rispetto alla situazione drammatica vissuta in questi anni da decine di migliaia di persone, cade l’ultima ipocrisia a cui hanno fatto ricorso i governi italiani che si sono succeduti dall’accordo sottoscritto nel 2017 e che il 2 febbraio verrà rinnovato per altri tre anni. Solo pochi giorni fa, infatti, i ministri degli esteri e dell’interno hanno ripetuto che il contenuto degli accordi è in via di revisione e che l’obiettivo da parte italiana è di migliorare le condizioni dei centri di detenzione per migranti attraverso un maggiore coinvolgimento delle organizzazioni umanitarie internazionali. Ecco, la notizia della chiusura del centro di transito di Tripoli smentisce la possibilità di un intervento del genere e mette la parola fine a qualsiasi tentativo di mistificare la verità: continueremo, dal 2 febbraio in poi, ad assistere a violenze, stupri, respingimenti e morti in mare e all’attuazione di una strategia diabolica finanziata con fondi italiani ed europei che vede il nostro paese chiudere gli occhi e rinnegare i principi fondamentali del diritto internazionale, pur di fermare gli sbarchi sulle nostre coste. Con un’aggravante, se possibile, che riguarda la totale mancanza di trasparenza sui termini reali del Memorandum del 2017: cosa ha finanziato esattamente l’Italia in Libia? Che ruolo hanno giocato davvero le navi militari italiane negli interventi di respingimento della guardia costiera libica in mare? Per cosa sono state usate le nostre motovedette? Quali uomini abbiamo addestrato se è vero che il noto trafficante Bija, a capo di una delle milizie più potenti, in tutta segretezza ha addirittura trascorso un periodo di formazione in Italia ospite del nostro governo, come ha rivelato un’inchiesta giornalistica? L’ultima scoperta, in ordine di tempo, è l’esistenza di un canale sanitario tra Tripoli e Milano per curare i miliziani feriti e soprattutto la incredibile libertà di movimento da parte del personale diplomatico del governo di al-Serraj che, pare, sia stato capace di far sparire e mettere su un aereo per Tripoli due dei combattenti curati al San Raffaele di Milano denunciati per aver accoltellato un loro connazionale, prima che gli inquirenti italiani avessero il tempo di interrogarli. Tutto ciò mentre a livello mondiale altri decidono le sorti di quel paese perché l’Italia, distratta dalla situazione complessiva del Nord Africa e focalizzata solo sul tema dei migranti e sulla necessità di non farli arrivare, ha perso di vista le priorità e tutto ciò che si stava nel frattempo muovendo. Il vertice di Berlino ha dimostrato quanto sia sempre più difficile l’avvio di un processo politico e la fine delle ostilità. Di fronte a questo quadro sconfortante e sempre più fuori controllo, non possiamo che continuare a chiedere, come faremo in maniera nonviolenta con il presidio lanciato da Radicali italiani domani pomeriggio davanti a Montecitorio, la sospensione immediata del memorandum e un pieno protagonismo del Parlamento per fare finalmente chiarezza su quanto accaduto in questi tre anni, in Libia e nel Mediterraneo, a migliaia di persone sacrificate sull’altare della propaganda.
Bija racconta la sua visita in Italia: «Sì, sono stato anche al Ministero dell'Interno». «A Roma ho visto diverse persone. Il ministro Minniti? Non ricordo». Parla Abdul Rhaman Milan detto "Bija", l’uomo accusato di essere un trafficante e invitato in italia nel 2017. «Siamo andati anche alla Guardia Costiera italiana, alla Croce Rossa Italiana, al Ministero della Giustizia italiano e poi siamo andati al Viminale stesso». Francesca Mannocchi su L'Espresso il 25 ottobre 2019. Aggiornamento 14 ottobre 2020: secondo i media libici, Abd al-Rahman al-Milad, detto Bija, è stato arrestato dalla "Forza di dissuasione", quindi dalla milizia "Rada", del Governo di Tripoli.
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Nel maggio del 2017 lei era in Sicilia, cominciamo dal principio. Chi l’ha invitata?
«Ho ricevuto l’invito da Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) tramite la Guardia costiera che fa parte della Marina libica. Il viaggio non riguardava solo l’Italia ma anche Tunisi e la Spagna. È stato un viaggio molto fruttuoso, in Italia abbiamo cambiato posto ogni giorno, in Sicilia, a Roma, nel Lazio. È stato utile perché abbiamo visitato le navi dell’Operazione Sofia e della Guardia costiera italiana, il centro di accoglienza in Sicilia a Mineo».
Sul foglio in possesso de L’Espresso - datato 3 aprile 2017 – l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) in veste di ente organizzatore di una visita di studio in Italia “prega la sezione consolare italiana a Tunisi di facilitare le procedure di emissione dei visti” e si parla di tredici persone. Chi erano queste persone? Chi componeva la delegazione libica?
«C’erano dodici membri oltre me, alcuni del ministero dell’Interno libico, specificamente del Dcim cioè l’ente che si occupa dell’Immigrazione illegale, poi membri del ministero degli Esteri, del ministero della Giustizia, un membro dell’ufficio del Procuratore generale e un altro membro della Guardia costiera».
Quindi lei è partito per l’Italia con un visto regolare?
«Sono partito con un visto regolare, ho fatto un colloquio in una sede dell’Ambasciata italiana in particolare presso l’ufficio di rappresentanza al dodicesimo piano della torre di Tripoli. Sono andato lì, ho fatto richiesta del visto, mi hanno fatto le foto e dunque tutti sapevano che Abdul Rhaman sarebbe arrivato in Italia. Sempre nella lettera di invito di Oim si legge che la proposta di programma “prevede incontri presso diverse autorità italiane e comunitarie”».
Quali membri delle istituzioni italiane avete incontrato?
«Per prima cosa abbiamo visitato il porto di sbarco in Italia, in Sicilia, non ricordo bene la zona precisa e lì ci hanno spiegato come vengono accolti i migranti quando sbarcano, poi li hanno trasferiti da un centro ad un altro e abbiamo visitato i centri per migranti. C’erano anche migranti libici e siriani, ricordo. Solo questo».
Il trafficante libico Bija in Italia: ecco la lettera ufficiale di invito. Una missiva protocollata da un’agenzia Onu. Destinatario: il consolato italiano a Tunisi. E il “comandante Bija”, considerato un potente boss degli scafisti, è venuto nel nostro Paese per incontri istituzionali.
Lei ha detto all’inizio del nostro incontro che la conferenza italiana è stata molto fruttuosa, perché?
«Ho visitato le motovedette italiane e come trattano i migranti, come noi. Fanno le foto con le registrazioni, abbiamo imparato come la Guardia costiera usa radar e altri mezzi. Abbiamo stretto una cooperazione tra la Guardia costiera libica e quella italiana per riattivare i termini dei Memorandum, come quelli vecchi del 2008».
Due mesi dopo la sua visita in Italia, le partenze dalle coste libiche verso l’Italia improvvisamente si fermano, in modo drastico. Una delle ricostruzioni del suo incontro in Italia è che quella conferenza sia stata occasione per una trattativa segreta tra lei e le istituzioni italiane per bloccare le partenze. È vero?
«È molto complicato da spiegare. E lungo. Noi consideriamo la trattativa in corso da anni non da pochi mesi. Prima dell’arrivo delle motovedette italiane la Guardia costiera libica era debole, lavoravamo solo con uno Zodiac di sette metri. Dopo gli accordi con l’Italia abbiamo rimesso in mare una motovedetta, la Tallil. E quando abbiamo ricevuto le motovedette eravamo sempre in mare, ne recuperavamo a migliaia. Partivano da tutta la costa, da Sabratha, da Zuwara, ma li prendevamo subito. Se i migranti vengono catturati poi non si fidano più dei trafficanti. Volevamo questo. E poi abbiamo cominciato a prendere i motori e bruciare i gommoni. Era il modo di dire: è finita».
Ma il vero problema erano le Ong. Perché ce l’ha tanto con le Ong?
«Perché erano troppe e troppo vicine, a sei sette miglia dalla costa. È stato un problema, perché le Ong hanno aumentato il numero delle persone che lavoravano nel traffico di uomini. A quel tempo chiunque lavorava nel traffico, donne, bambini, chiunque. Allora cosa abbiamo fatto? Ho chiesto un incontro al colonnello Ayub Qassim (portavoce della Guardia costiera libica, ndr) e gli ho chiesto di spingere le Ong oltre 60 miglia dalla costa. Perché per i gommoni non è possibile arrivare a 60 miglia, solo uno su cento ce la può fare. Era il nostro obiettivo. Mandare via le Ong. E quando ci siamo riusciti, i gommoni arrivavano a venti miglia dalla costa libica e per noi era facile prenderli. Quando abbiamo mandato via le Ong le partenze sono diminuite. Questa era la nostra soluzione».
Perché hanno scelto proprio lei, Abdul Rhaman Milad, tra tanti, per far parte della delegazione libica?
«L’Oim voleva gente esperta che lavorava sul campo. Quando mi hanno chiamato cercavano i più attivi, quelli che avevano più risultati. E come membro della Guardia costiera e capo della Guardia costiera Ovest, a Zawhia ero la persona giusta. Ora mi chiedo, perché questa guerra su Abdul Rhaman? Cosa vogliono queste Ong? Per sfortuna noi non ci siamo trovati a combattere solo le Ong ma anche i Paesi che le finanziano. Le Ong vogliono che smettiamo di fermare il traffico perché vogliono il caos. Le Ong vogliono mettere a tacere la Guardia costiera libica».
Durante il viaggio ha incontrato qualche membro del governo italiano?
«Abbiamo incontrato membri del Ministero dell’Interno».
Chi?
«Non ricordo i nomi, non chiederli perché non ricordo».
Poi?
«Siamo andati anche alla Guardia Costiera italiana, alla Croce Rossa Italiana, Ministero della Giustizia italiano e poi siamo andati al Palazzo del Ministero dell'Interno stesso».
Ricorda di aver incontrato anche l’allora Ministro dell’Interno Marco Minniti?
«Non so, forse, non ricordo». ( Qui la replica di Minniti: "Non l'ho incontrato" )
Qualche mese dopo la sua visita in Italia, l’Onu impone sanzioni contro lei e altre cinque persone, ritenuti boss dei traffici in Libia. Lei è ritenuto un pericoloso trafficante perché secondo le accuse faceva il doppio gioco, “fermando le imbarcazioni dei trafficanti concorrenti per avere il monopolio sulla rotta”.
«Pericoloso trafficante? Ok. Il consiglio di sicurezza i suoi report erano fondati su post su Facebook e social media e altri report maliziosi, falsi. Rispetto la decisione del Consiglio di Sicurezza però non hanno alcuna prova per condannarmi. Vengano qui a interrogarmi. Sono disponibile. Così mi portano le prove. Il video in cui picchio quel migrante? Ve lo spiego perché lo picchio».
A proposito di quel video, durante una intervista con Reuters lei ha detto: “Sì, colpisco i migranti e così si siedono correttamente e non si muovono”, come dire che picchia i migranti che recupera in mare per tenerli calmi.
«Guardate il video per capire perché abbiamo fatto così, nel gommone c’erano donne e bambini e volevano salvarsi saltando velocemente sulla motovedetta. Proviamo a parlare con loro, non ci capiscono. C’erano 140-170 persone e se saltavano tutti insieme non avrei potuto salvarli. Allora ho picchiato uno di loro per fare ordine».
Dopo la decisione del Consiglio di Sicurezza lei è stato sollevato dal suo incarico come capo della Guardia Costiera di Zawhia.
«Ho smesso di lavorare perché ho ricevuto ordine dall’ammiraglio della Guardia Costiera, e come qualsiasi membro, quando riceve una denuncia deve interrompere il suo lavoro e ho lasciato tutto il carico al mio sottoposto».
Tornerà al suo posto?
«Due settimane fa ho ricevuto una lettera ufficiale per tornare al mio posto, a capo della Guardia Costiera di Zawhia».
Chi è Bija, tra petrolio e schiavi un uomo al centro del sistema. Ritratto di Abdul Rhaman Milad, capo della guardia costiera libica della zona Ovest, e accusato di essere al centro del traffico di essere umani. L'Espresso il 25 ottobre 2019. Abdul Rhaman Milad detto Bija (foto di Alessio Romenzi)Abdul Rahman Milad, nom de guerre Bija, classe 1989, è il prototipo più efficace di cosa è stata la Libia dopo la rivoluzione del 2011. Nel 2011 Bija, giovanissimo, lascia l’accademia navale e si unisce ai ribelli, combattendo per deporre l’ex rais Muammar Gheddafi. In combattimento viene ferito nove volte, perde un pezzo della mano destra per lo scoppio di una granata, perde un fratello morto in combattimento. Bija, dopo essere stato ferito più gravemente, viene curato in Germania, tornerà dopo mesi essendosi guadagnato la fiducia dei suoi pari e di quelli che diventeranno i suoi capi. Dopo la rivoluzione, governi deboli, contrapposti e guerre civili irrisolte hanno creato un il vuoto di potere e di controllo che è stato riempito dalle milizie, le stesse che erano state protagoniste della rivoluzione e che cominciano a spartirsi le aree di interesse, gli asset strategici, economici, ma anche i consigli comunali e naturalmente istituzioni come la guardia costiera. Dopo il 2011 la tribù di Bija - Awlad Bu Hmeira - conquista il controllo del porto di Zawhia, zona più che strategica, per il petrolio e per le partenze dei migranti. A Zawhia infatti c’è una delle più grandi raffinerie di tutto il paese, con una capacità di 150 mila barili al giorno. A Zawhia dunque cominciano a incrociarsi le rette dei traffici libici: i migranti e il petrolio. Che troppo spesso sono unite, e troppo poco vengono descritte come parte dello stesso meccanismo criminale. La tribù di Bija conquista dunque di fatto il controllo della raffineria. Che significa controllare chi entra chi esce, ma soprattutto controllare i traffici, il petrolio di contrabbando che - secondo Mustafa Sanalla, capo del NOC (National Oil Corporation, cioè l’unico ente libico che può tassare vendere e trattare il gas e il petrolio) - ammonterebbe al 40% dell’intera produzione del paese. A Bija in questo “sistema” spetta il controllo del porto e diventa capo del ramo locale della guardia costiera, cioè la Guardia Costiera Ovest. Dopo la rivoluzione e i bombardamenti della Nato buona parte della flotta della Marina è andata distrutta e i dipendenti non sono stati pagati per mesi, mentre la Libia diventava la sede di un traffico di uomini che andava assumendo la struttura dell’industria e diventava il principale punto di transito per la rotta del Mediterraneo centrale. Miliziani come Bija hanno riempito i vuoti, diventando parte di una triangolazione di interessi che descrivono perfettamente il sistema-Libia. All’inizio del 2017 alcune inchieste giornalistiche (si veda soprattutto il lavoro di Nancy Porsia, ma anche Annalisa Camilli, lo stesso Espresso di quei mesi) cominciano a descrivere Bija come il perno dei traffici di Zawhia e un video pubblicato dal quotidiano inglese The Times riprende i suoi uomini picchiare migranti con una frusta dopo averli recuperati in mare, nel video i migranti sono terrorizzati, vorrebbero buttarsi in mare e si attaccano spaventati al bordo della nave. Il 2017 è l’anno cruciale in cui viene rinnovato il Memorandum d’Intesa con lo Stato libico. Febbraio del 2017. Il titolo del testo è: Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana.
Comma b e c dell’articolo 1
B) la parte italiana fornisce sostegno e finanziamento a programmi di crescita nelle regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale, in settori diversi, quali le energie rinnovabili, le infrastrutture, la sanità, i trasporti, lo sviluppo delle risorse umane, l’insegnamento, la formazione del personale e la ricerca scientifica.
C) la parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il ministero dell’Interno.
Significa che uomini come Bija vengono inseriti in un doppio gioco di fatto. Prendono risorse dall’Italia e dall’Ue per intercettare i migranti e prendono denaro dai trafficanti per proteggere le loro operazioni illegali, il traffico dei migranti e la gestione dei centri di detenzione. Nonostante le informazioni su Bija fossero note da mesi e non potevano non essere note agli staff locali delle organizzazioni internazionali e delle sedi diplomatiche, a marzo 2017 Bija viene selezionato dall’Oim (organizzazione internazionale per le migrazioni) come uno dei due membri della Guardia Costiera Libica per fare parte della delegazione che nel maggio 2017si è recata in Italia per una visita di “studio”, in Sicilia e Lazio. Obiettivi: studiare il sistema di accoglienza italiano nei centri di accoglienza e nei porti di sbarco. Operare con la Guardia Costiera Italiana, studiare i radar, le procedure. Stringere accordi. Nell’estate del 2017 un lungo report delle Nazioni Unite inserisce per la prima volta il nome di Bija come parte del sistema criminale della zona di Zawhia. Il report descrive la Brigata al-Nasr, comandata da un cugino nonché uno dei capi di Bija - Mohammed Koshlaf - come la brigata che ha in mano i principali traffici della zona, il traffico di carburante e il traffico di uomini che gestirebbe in accordo con Bija, responsabile di far partire solo i gommoni di trafficanti “amici”, cioè quelli affiliati o quelli che pagano mazzette per partire e bloccare gli altri, recuperandoli in mare e gestendoli a terra, attraverso il centro di detenzione locale, anch’esso denominato “al Nasr” come la milizia, e gestito da uomini vicini al capo Koshlaf. Uomini accusati di violenze, torture e estorsioni a danno dei migranti, che una volta portati indietro rientrano in un circolo di violenza e abusi e ricatti. Secondo le Nazioni Unite, gli uomini di Milad consegnavano i migranti al centro di detenzione, una struttura fatiscente dove diventavano vittime di abusi e si legge nel report «nel centro i migranti venivano venduti ad altri trafficanti». E le donne «sono state vendute sul mercato locale come schiave del sesso». Gli investigatori e il panel di esperti delle Nazioni Unite affermano che Bija e altri membri della guardia costiera «siano direttamente coinvolti nel naufragio delle barche dei migranti attraverso l’uso di armi da fuoco». E sempre secondo le testimonianza raccolte nel report, la guardia costiera guidata da Bija tasserebbe ogni barca e gommone. Chi non pagava veniva punito. Sempre nel 2017 Amnesty International pubblica un lungo, dettagliatissimo report. Si legge «Le reti criminali [di Zawhia, ndr] tramite la guardia costiera, impediscono alle bande rivali di svolgere con successo operazioni di contrabbando. Anche la guardia costiera di Zawiya è coinvolta nel commercio di contrabbando». La documentazione di Amnesty International rivela che alcuni membri della guardia costiera libica sono collusi con i trafficanti fornendo un passaggio sicuro in cambio di un pagamento. Il fatto che Bija fosse un personaggio quantomeno controverso non ha impedito ai paesi europei di stringere accordi con lui. Questo lo porta al seminario. Proprio lui, spiegano nella base della Marina al porto di Tripoli, perché si è distinto sul campo. «È uno dei nostri uomini migliori», ripetono tutti nell’ufficio di Ayub Qassim, portavoce della Guardia Costiera. Dunque Bija nel Maggio 2017 arriva con la delegazione libica in Italia, dorme in Sicilia, viaggia a Roma dove alloggia in un hotel del centro della città. Fa foto ufficiali nella sede della guardia costiera italiana, che vengono pubblicate salvo poi sparire dal server dopo l’inchiesta di Nello Scavo su Avvenire che ha rivelato la presenza di Bija, lo scorso 4 ottobre. Il sistema-Libia consiste esattamente in questo. La milizia Nasr controlla ogni cosa a Zawhia: raffineria, traffici, centro di detenzione. Ma la guardia costiera è una istituzione ufficialmente riconosciuta e Bija è un ufficiale del governo sostenuto dalle Nazioni Unite e basato a Tripoli. Nel Luglio 2018 Bija viene sottoposto a sanzioni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sanzioni che prevedono il divieto di viaggio e blocco dei beni, proprio per i crimini su cui sta indagando la Corte Penale Internazionale de L’Aja. «Alcuni dei suoi uomini - si legge nei documenti della Corte - avrebbero beneficiato dei programmi Ue di addestramento nelle operazioni Eunavfor Med e Operazione Sophia ». Bija è inoltre accusato di aver dato ordine ai suoi uomini di sparare su pescherecci e navi umanitarie. Dopo le sanzioni viene sollevato dall’incarico. Smette cioè di essere a capo della Guardia Costiera Ovest. Ma lo scorso 15 ottobre Bija riceva la lettera ufficiale dalla Guardia Costiera di Tripoli per riprendere il suo posto a capo della Guardia Costiera di Zawhia. Dopo l’inizio della guerra il 4 Aprile scorso, Bija è stato visto più volte al fronte combattendo a difesa della città di Tripoli contro le forze del generale Haftar. Un altro importante documento, firmato dal governo di Sarraj ad agosto assegna alla zona Ovest, cioè la zona che comprende Zawhia, 8 milioni e novecento mila dinari attraverso il Ministero della Difesa. Che è come dire che il governo assegna ai gruppi armati che fanno parte del ministero della difesa soldi per difendere la città sotto assedio. Sarraj in un discorso pubblico in tv ha chiesto a tutte le forze miliari e di sicurezza e a tutte le istituzioni sotto il Ministero dell’Interno di scendere in campo in difesa della città. Tutte le istituzioni sotto il Ministero dell’Interno, tutti i gruppi armati, inglobate nelle forze ufficiali a colpi di decreto. Cambia l’uniforme, ma non la sostanza. Anche Bija è uno di loro, parte del sistema Libia.
Nel Mediterraneo sono aperti molti fronti di crisi. E ognuno pensa solo ai propri interessi. Roberto Iannuzzi, Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017), il 24 gennaio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Fino a pochi anni fa, per assistere a un uragano bisognava spostarsi negli oceani, dall’Atlantico al Pacifico. Oggi una tempesta di notevole potenza può scoppiare anche nel Mediterraneo. Il discorso potrebbe riferirsi ai cambiamenti climatici, ma si applica progressivamente anche a quelli geopolitici se nella frase precedente agli oceani sostituiamo il Medio Oriente. Nei decenni passati abbiamo assistito alla distruzione dell’Iraq, poi della Siria e dello Yemen. Conflitti di inaudita violenza ma di breve durata hanno investito il Libano e Gaza. Le tensioni con l’Iran sono cresciute fino a raggiungere più volte i limiti di un conflitto armato. Molti di questi paesi sono mediterranei a pieno titolo, ma percepiti come mediorientali (cioè “lontani”) nell’immaginario italiano ed europeo. In realtà, già dal 2011 l’intervento Nato in Libia – a seguito dell’enorme sconvolgimento delle rivolte arabe che ha coinvolto anche paesi a noi prossimi, come Tunisia ed Egitto – avrebbe dovuto farci capire che non è così, che ciò che avviene al di là del Mediterraneo ci riguarda da vicino. Ma dopo aver rovesciato e ucciso il leader libico Gheddafi, travalicando il mandato Onu che prevedeva un intervento finalizzato a favorire un negoziato fra i contendenti, America ed Europa non hanno saputo stabilizzare il paese, mentre l’evoluzione della crisi è spesso totalmente scomparsa dall’orizzonte dei media occidentali. Del resto la copertura mediatica è non di rado ingannevole, cosicché mentre l’opinione pubblica si dimenticava della Libia e dei conflitti mediorientali sopra citati, l’intervento di diversi governi occidentali ha contribuito spesso a inasprirli – dopo averli in alcuni casi anche provocati. Il risultato di tali interventi è stato invariabilmente fallimentare, causando non solo gigantesche crisi umanitarie in loco, ma anche inasprendo i fenomeni migratori, favorendo l’insorgere di fenomeni estremisti come l’Isis e aggravando le tensioni geopolitiche internazionali. All’inizio del 2011 in Italia consideravamo ancora la Libia come il nostro cortile di casa, “la quarta sponda” secondo un gergo che tradisce il nostro retaggio coloniale. Certo, c’erano gli interessi francesi e inglesi, gli investimenti turchi, russi e cinesi, ma nessun altro poteva vantare rapporti stretti come i nostri con questo paese nordafricano. All’indomani della conferenza di Berlino dobbiamo prendere atto di un ruolo italiano molto ridimensionato, di un’Europa divisa e inconcludente, del sostanziale disinteresse americano e di paesi come Emirati Arabi Uniti, Turchia, Russia ed Egitto che hanno colmato il vuoto geopolitico provocato dal fallimento occidentale, divenendo i veri arbitri del conflitto libico. Nella fase di preparazione della conferenza, gli stessi stati che lavoravano alla stesura del comunicato finale hanno continuato a inviare armi in Libia, e nessun meccanismo sanzionatorio è stato annunciato nei confronti di coloro che continueranno a violare l’embargo Onu. La crisi libica è poi ulteriormente complicata da ciò che sta avvenendo altrove nel Mediterraneo. Il recente accordo fra Ankara e il governo tripolino di al-Sarraj ha fatto scalpore non solo per la promessa assistenza bellica turca, ma perché pone le basi per la creazione di una zona economica esclusiva che potrebbe ostacolare la costruzione di EastMed, il gasdotto sottomarino israelo-greco-cipriota destinato a raggiungere l’Italia escludendo però paesi come Libano, Siria e la stessa Turchia. L’aggressività turca nel Mediterraneo è ulteriormente stuzzicata dai rapporti militari sempre più stretti che Washington sta tessendo con Atene, rivale storica di Ankara. La mossa americana non deriva solo dal raffreddamento dei rapporti con l’alleato turco, ma dalla volontà statunitense di contenere la proiezione russa a sud del Bosforo. L’esito è tuttavia di esasperare la sindrome di accerchiamento turca. Altra conseguenza è che, dopo l’accordo turco-libico, anche la Grecia vuole avere voce in capitolo in Libia: ha recentemente ospitato Khalifa Haftar (il rivale di al-Sarraj) ad Atene e rischia di rappresentare un ulteriore ostacolo a una posizione europea unitaria nella crisi libica. L’intervento turco nel Mediterraneo inoltre turba l’Egitto di al-Sisi, rivale di Ankara nello scontro intra-sunnita che nel 2013 ha visto il primo rovesciare, con l’appoggio dei sauditi e degli Emirati, il governo dei Fratelli Musulmani egiziani sostenuto dal presidente turco Erdogan. Né Il Cairo né Abu Dhabi sono minimamente propensi ad accettare una presenza turca in Libia in aiuto di al-Sarraj contro il loro protetto Haftar. Quest’ultimo a sua volta ha buoni rapporti con i russi, che dal canto loro intendono usare la Libia come carta negoziale nei confronti dell’Europa, eventualmente anche nel loro confronto con Washington. Il dato preoccupante è che, in questo quadro sempre più intricato, tutti i principali attori agiscono in ordine sparso, ciascuno intento a perseguire i propri interessi a scapito di qualsiasi cornice sovranazionale – sia essa l’Europa o l’Onu – che possa tentare di ricomporre le diverse posizioni alla ricerca di una soluzione negoziata. Una frammentazione di intenti e un intreccio di rivalità che non lasciano presagire nulla di buono per la stabilità del Mediterraneo.
Stefano Agnoli per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2020. L' ultima provocazione turca nel Mediterraneo è del 18 gennaio scorso, ed è passata quasi sotto silenzio: dopo aver spento il transponder il giorno di Santo Stefano, la nave per perforazioni petrolifere Yavuz ha lasciato il porto di Mersin per recarsi nelle acque a sud di Cipro e iniziare a esplorare nel «blocco 8» di competenza di Eni e Total. Sono ormai dieci giorni che staziona in una zona dove non dovrebbe trovarsi e soprattutto non dovrebbe operare, visto che si tratta della concessione rilasciata da un governo membro dell' Unione europea. Già altre volte la Yavuz è comparsa in acque cipriote contese con la Turchia e il governo turco-cipriota, ma ora per la prima volta si tratta di un' attività palesemente illegale. Un po' come se una nave turca iniziasse a perforare senza permesso nelle acque di fronte a Ravenna o alla Sicilia, o nel mare del Nord olandese. Ma finora nulla si è mosso, non si sono registrate risposte diplomatiche o politiche degne di nota. Niente da Roma o da Parigi, una timida diffida dall' Ue e solo la protesta delle autorità di Nicosia, che peraltro hanno con grande leggerezza lasciato a lungo sul sito web del loro ministero dell'Ambiente tutti i dati sulle ubicazioni delle precedenti trivellazioni, poi frettolosamente rimosse tra accuse di spionaggio e soffiate dolose. «Ma se la Yavuz avesse provato la stessa mossa nella concessione dell' americana Exxon, si sarebbe mossa la Sesta Flotta» è uno dei commenti che si registra tra gli addetti ai lavori. La Turchia è l' attore che più di recente ha concorso ad animare il Grande Gioco in corso nell' area mediterranea dal 2010-2011, ovvero dalla fine del regime libico di Muhammar Gheddafi e da quando sono stati scoperti ingenti giacimenti di gas di fronte alle coste israeliane e egiziane. Scenari che si sono sempre più intrecciati con la situazione mediorientale e del Golfo Persico e che hanno come filo conduttore il controllo delle fonti di energia e la geopolitica. Anche gli schieramenti non spiegano tutto: in Libia il governo di Al Sarraj, che resta paradossalmente l' unico riconosciuto da Onu e Ue, ormai è ristretto all' area metropolitana di Tripoli e poco più. Ma gode dell'appoggio della Turchia, del Qatar e delle milizie di Misurata, i fratelli musulmani tanto invisi a Egitto, Arabia Saudita e Emirati, che temono il contagio e infatti appoggiano il generale cirenaico Haftar insieme a Russia e Francia. Ankara, in questa partita, ha un duplice interesse di fondo. La sicurezza energetica innanzitutto, di cui ha estremo bisogno e per la quale dipende quasi interamente dalla Russia, alla quale è legata con i gasdotti TurkishStream e BlueStream. La Libia è bloccata da anni, ma resta il Paese con le maggiori riserve di petrolio e gas di tutta l' Africa, il nono a livello mondiale. Logico che faccia gola. E poi c' è il sogno neo-ottomano di Erdogan, al quale la creazione di un «hub» in Libia, aperto alla fratellanza musulmana, potrebbe essere funzionale. Così si spiegano anche le manovre della Yavuz nelle acque del Levante e l' interesse per quei giacimenti di gas, da cui la Turchia finora è esclusa. Ma così si comprende anche la connessione «de facto» con la Russia di Vladimir Putin. Gli schieramenti, appunto, non spiegano tutto. A Tripoli russi e turchi sono contrapposti: truppe turche e miliziani siriani di fronte a contractor russi mescolati con i soldati di Haftar. Ma molti interessi coincidono: quello strategico di Mosca è di bloccare l' afflusso di nuovo gas verso l' Europa, cioè di gas diverso da quello che proviene oggi dai giacimenti siberiani attraverso il NordStream che arriva in Germania e, appunto, il TurkishStream che sbucherà dal Mar Nero nei Balcani. E le ambizioni turche, con le rivendicazioni sul gas dal Levante e la possibilità di bloccare le rotte verso l' Europa, sono assolutamente funzionali a questo disegno di mantenere l' Ue in una tenaglia di forniture russe, da nord e da sud. Funzionale agli interessi del Cremlino è stato anche il progetto di «cessate il fuoco» in Libia prospettato ad Haftar nel suo viaggio di metà gennaio a Mosca. Dopo aver annusato la trappola di una possibile «spartizione» della Libia sotto egida turca e russa, e dopo consultazioni con egiziani e emiratini, Haftar ha infatti abbandonato in tutta fretta la capitale russa. Ci si potrebbe domandare che cosa c' entri Mosca con la coalizione che spalleggia il generale della Cirenaica. Ma il suo ingresso è il risultato della partita svoltasi un paio d' anni fa sullo scacchiere mediorientale, quella della produzione mondiale di greggio e del suo prezzo sui mercati, da cui dipendono i destini di Petro-Stati come l' Arabia Saudita. L' intesa Opec-non Opec sui tagli alla produzione non ha evitato solo un crollo dei prezzi del barile, ma ha avuto anche l' effetto di far convergere parti - come Russia e Arabia Saudita - fino ad allora diffidenti e divise dalla guerra di Siria. E ha consentito così alla Russia di posizionarsi anche sullo scacchiere nordafricano, in difesa dei suoi interessi nel gas. Certo, in questa trama mancano degli attori. Come gli Stati Uniti, divenuti autosufficienti sul piano energetico e spariti dallo scenario libico. Ma anche e soprattutto l' Europa e l' Italia. La prima bloccata dalle divergenti strategie dei suoi principali Paesi, con la Francia decisa a conquistare più terreno anche in vista del «phase out» delle sue centrali nucleari, e la Germania terminale privilegiato del gas di Mosca. La seconda sostanzialmente ininfluente e ancora formalmente legata alla parte tripolina che oggi ha la Turchia in pole position. Eppure la prospettiva di vedere gli uomini di Erdogan in controllo del gasdotto che trasporta il gas libico in Italia non dovrebbe essere rassicurante per Roma. Mentre la Yavuz staziona sempre nella concessione Eni e Total.
Libia e petrolio, Abdulhadi Lahweej: «Il generale Khalifa Haftar non ha paura dei turchi. L’Eni’ L’apprezziamo molto». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi, inviato in Libia. Lahweej «Ministro degli Esteri» di Haftar: giusto fermare il flusso del petrolio. Ovvio che è stato giusto chiudere i pozzi di gas e petrolio. I proventi delle risorse energetiche vengono utilizzati dal governo Sarraj a Tripoli per pagare le milizie locali, finanziare gli estremisti islamici e facilitare l’arrivo dei soldati turchi, oltreché dei terroristi siriani». Sono ferme e decise le risposte di Abdulhadi Lahweej. Nonostante la recente conferenza di Berlino e le pressioni internazionali, il ministro degli Esteri del governo di Tobruk legato a filo doppio a Khalifa Haftar dice a chiare lettere che la fase militare della crisi non è affatto conclusa. «Siamo pronti a combattere contro i turchi. Non li temiamo», ripete Lahweej nel suo ufficio a Bengasi. È stato tra gli artefici del recente avvicinamento della politica estera italiana ad Haftar, ha facilitato la sua recente visita a Roma e tra un paio di settimane tornerà lui stesso per nuovi colloqui alla Farnesina.Ministro, stiamo passando da una produzione di greggio che superava il milione 200mila barili quotidiani a 75.000. Non è povertà per l’intero Paese?«Occorre che voi europei capiate che i proventi delle risorse energetiche libiche da tempo ormai non andavano al popolo libico. I governanti di Tripoli li usano per scopi militari, dunque contro gli interessi di tutti noi. Rafforzare le milizie è un danno gravissimo per il Paese. Dunque tagliare i proventi di gas e petrolio è una scelta logica per il bene di tutti».Il maresciallo Haftar è deciso a continuare il blocco?«Attenzione. Questa mossa non arriva da Haftar o dal governo qui tra Tobruk e Bengasi, ma piuttosto dal popolo e dalle tribù che vivono nelle zone dei pozzi e giacimenti di gas. Sono loro che hanno liberamente preso l’iniziativa».Non cercate di bloccarle?«Al contrario, rispettiamo le loro scelte. Non come il presidente della Compagnia Nazionale Petrolifera a Tripoli, Mustafa Sanallah, che è giunto a minacciare di bombardare le tribù. Semmai mandiamo i nostri soldati ad assicurare la vita di chi presidia pozzi, gasdotti e infrastrutture. Ci sono anche compagnie internazionali con impiegati sul posto che vengono da Italia, Stati Uniti, Francia, Filippine, Bosnia e così via. So che nella zona di Jalu operano aziende italiane addette alla ricerca di nuovi giacimenti».Potrebbe venire bloccato anche il terminal Eni di Mellitah?«Non credo. Non miriamo a colpire le risorse energetiche italiane. Con Roma c’è un rapporto storico, apprezziamo il lavoro dell’Eni».Crede vi sia un rapporto nuovo tra Haftar e l’Italia?«A Roma devono capire che è nel loro interesse dialogare con noi. Siamo gli unici in grado di garantire il blocco dei flussi migratori verso l’Italia. Negli ultimi anni gli italiani hanno pagato 360 milioni di euro al governo Sarraj per fermare le migrazioni. Soldi sprecati».Tripoli in macerie come il centro storico di Bengasi?«C’è anche una parte di Bengasi sicura e in crescita, non solo case distrutte. Comunque, uno dei motivi per cui prendiamo tempo ad avanzare è proprio per evitare che Tripoli venga devastata e i civili paghino il prezzo».
Tregua fallita. Le operazioni di salvataggio dei 30 migranti al largo della Libia effettuate dalla Marina militare turca. La Francia accusa Erdogan: "Non rispetta la parola data". L'Italia è preoccupata: "Il flusso di armamenti mina le prospettive di una soluzione pacifica alla crisi". L'amministratore delegato Eni Claudio De Scalzi contro il blocco del petrolio: "È come togliere ossigeno alle persone". Vincenzo Nigro su La Repubblica il 29 gennaio 2020. A dieci giorni dalla conferenza di Berlino la tregua in Libia è saltata ormai definitivamente. Ma soprattutto i due fronti, quello del governo di Tripoli di Fayez Serraj e quello del generale Khalifa Haftar, stanno accumulando armi e mercenari in quantità notevoli e sono pronti a far ripartire la guerra alla grande. Stamattina all'alba due navi da guerra turche sono entrate in porto a Tripoli. Hanno scortato un'importante nave mercantile che ha scaricato nella capitale libica decine di carri armati, blindati e di altri mezzi militari destinati all'esercito di Tripoli. In questi giorni sarebbero arrivati anche gli ultimi dei 3000 mercenari turcomanni siriani schierati a protezione di Tripoli. Dall'altra parte il generale Haftar continua a ordinare ai suoi miliziani di bombardare la periferia Sud di Tripoli (4 bambini sono morti per un razzo caduto nel cortile di una scuola) e continua anche a stringere l'assedio sulla città di Misurata. Tutto questo riarmo inizia a provocare reazioni politiche: ieri il presidente francese Emmanuel Macron per la prima volta ha accusato direttamente il presidente turco Erdogan: "Navi turche hanno fatto sbarcare mercenari siriani sul suolo libico, il presidente turco non mantiene la parola data". Anche l'Italia ha inviato un messaggio alla Turchia: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha telefonato al suo collega Mevlut Cavusoglu per dirgli che "il continuo flusso di armamenti verso entrambe le parti del conflitto e il blocco della produzione petrolifera minano ulteriormente le prospettive di una soluzione pacifica alla crisi in Libia". Di Maio cita giustamente anche il blocco del petrolio deciso da Haftar, un vero e proprio "atto di guerra" messo in atto già 2 giorni prima della conferenza di Berlino. E del blocco del petrolio ieri ha parlato per la prima volta con durezza l'amministratore delegato dell'Eni Claudio De Scalzi: "Con il blocco della produzione di petrolio è come togliere ossigeno alle persone. Siamo a 12 giorni di produzione bloccata, ma quello per la Libia è ossigeno. I nostri colleghi della compagnia libica hanno espresso una grande preoccupazione che va capita e amplificata". De Scalzi ha contatti continui con il suo omologo della Noc Mustafa Senalla: "Sono nostri colleghi e amici, che hanno difficoltà sempre maggiori. E in tutto questo il cessate-il-fuoco neanche è stato innescato e la diplomazia internazionale deve occuparsi costantemente di questo problema".
Libia, «tremila mercenari siriani e armi dalla Turchia per Tripoli». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Battistini. Tremila uomini. «E’ quel che ci serve per difendere Tripoli dalla truppe di Haftar», ci confidava qualche giorno fa un consigliere politico del premier Fayez Al Sarraj. Tremila uomini, conferma da Bengasi il maggiore Ahmed Al Mismari, portavoce cirenaico di Haftar, trasmesso sul canale satellitare 218: «E’ il numero di mercenari che la Turchia ha mandato nella Libia occidentale per sostenere Sarraj». Su questi tremila miliziani siriani filoturchi – che già avrebbero cominciato a combattere lungo i 22 chilometri di fronte, nei quartieri a sud della capitale – si concentrano ora droni, aerei spia, osservatori. Se davvero sono arrivati, l’escalation del conflitto è già nei fatti: «Una nave turca carica di armi avanzate, munizioni e missili antiaerei è approdata nel porto di Tripoli sotto la protezione di due navi da guerra turche – danno per certo gli haftariani -. Queste armi sono già nelle mani di gruppi estremisti a Tripoli e a Misurata, oltre che al confine con la Tunisia». Il portavoce del feldmaresciallo è prodigo di dettagli: i siriani si sarebbero posizionati ad Ain Zara, a Mouz e sul ponte di Zahra, pochi chilometri dal centro di Tripoli, e dormono in varie scuole. «Sono disertori dell’esercito siriano ed estremisti legati ad Al Nusra, ad Al Qaeda e all’Isis». Di più: «Molti di questi uomini sono pronti a trasferirsi in Europa». Non è più un mistero. Né che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aiuti Sarraj spedendo siriani, né che Haftar agiti lo spettro dei terroristi in arrivo in Europa. Men che meno, è un segreto il nuovo ruolo di Ankara, ufficializzato dai memoranda firmati a dicembre con Sarraj: il 19 gennaio alla conferenza di Berlino avevamo avuto da Erdogan la rassicurazione che non ci sarebbe stato un diretto sostegno militare, protesta ora il presidente francese Emmanuel Macron, e invece Ankara «non ha mantenuto la parola» e non ha «posto fine alle sue interferenze nella crisi». La risposta di Erdogan è dai toni duri: da che pulpito, risponde la Turchia, visto che «la Francia rappresenta la più grande minaccia all’integrità territoriale e alla sovranità della Libia» attraverso il suo appoggio – sia politico che militare – all’esercito di Haftar. «Non è più un mistero che la Francia fornisca un sostegno incondizionato, per poi poter dire la sua sulle risorse naturali del Paese». Non solo: i turchi accusano Parigi d’essere la «principale responsabile dei problemi della Libia dall’inizio della crisi nel 2011». I tremila uomini sono la svolta del conflitto. Sarraj aveva chiesto alla Turchia soprattutto armi, ma le recenti perdite – e la necessità dei misuratini di sfilarsi dalla difesa della capitale, per fronteggiare l’assedio probabile alla loro città – hanno spinto il premier libico a chiedere anche un rinforzo di uomini, pena la caduta della capitale nelle mani di Haftar. Martedì, dalla Cirenaica parlavano già di un elicottero turco e di due navi militari – la fregata Gaziantep e la Qidiz - monitorati nelle acque tripoline: due ore in rada, prima di scaricare «armi e attrezzature militari». La Gaziantep, ufficialmente, si trova in quella zona per soccorrere migranti (l’altro giorno ha recuperato un gommone con una trentina di persone), ma da est l’accusano d’organizzare operazioni militari mascherate da aiuto umanitario. A Mitiga, l’aeroporto civile della capitale che Haftar bombarda senza sosta da alcuni giorni, secondo i cirenaici s’è installata la War Room voluta da Ankara. E’ in una zona defilata dello scalo. Un altro segreto ben protetto: pur di colpirla, i cirenaici lunedì hanno tirato razzi fin sul posteggio e vicino alle sale d’imbraco di Mitiga. L’aeroporto è quasi inservibile e l’unico collegamento aereo col mondo, negli ultimi giorni, è la piccola pista di Misurata.
Il giallo dei libici fatti rimpatriare da diplomatici e «007» di Tripoli. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. Hanno preso un volo di linea diretto a Tripoli, accompagnati da funzionari diplomatici e 007, i due libici fuggiti dall’Hotel Rafael di Milano dopo aver accoltellato un connazionale di 32 anni, la sera del 15 gennaio. I due sono stati fatti «emigrare» dall’Italia da funzionari del consolato e dell’ambasciata a Roma, nonostante su di loro pendesse un’indagine per lesioni. E peggio ancora, senza che alle forze di polizia milanesi, né alla procura, venisse comunicato nulla. Sembra una storia di «extraordinary redentions» come fu per il rapimento dell’imam milanese Abu Omar, su mandato della Cia, la vicenda che da una settimana sta agitando (e moltissimo) gli ambienti diplomatici, dei servizi segreti e pure dell’antiterrorismo. I due libici scomparsi, così come il ferito 32enne ora sorvegliato «a vista» dalla polizia italiana, fanno parte di un programma di aiuto sanitario avviato la scorsa primavera dall’ospedale San Raffaele di Milano (Gruppo San Donato) su richiesta della ambasciata libica presso la Santa Sede. Accordo, di cui non risultano noti però i dettagli, che prevede la presa in carico di un alcuni feriti di guerra libici da parte dell’ospedale italiano per procedere alla cure mediche molto importanti di cui hanno bisogno. I costi degli interventi e dei ricoveri (una trentina i pazienti fin qui assistiti) vengono sostenuti direttamente dal governo di Tripoli che salda — con regolarità e senza obiezioni — le fatture dei pagamenti direttamente al Gruppo San Donato, di cui è presidente l’ex ministro di Interno ed Esteri, Angelino Alfano. Si parla di fatture da diverse centinaia di migliaia di euro. Una situazione particolare viste le difficoltà diplomatiche e di interlocuzione con le autorità libiche che hanno i governi di tutti i Paesi europei, ma che evidentemente non toccano questo specifico accordo commerciale. La questione, sulla quale ora indagano Digos e antiterrorismo, su delega del capo del pool di magistrati antiterrorismo Alberto Nobili, è stabilire non solo chi abbia agevolato la dipartita dei due indagati (per lesioni), come sia stata organizzata e chi ne abbia autorizzato l’uscita dall’Italia. Ma anche chiarire chi siano realmente di due personaggi fuggiti: semplici soldati feriti in guerra, o piuttosto appartenenti a qualche gruppo particolare e riservato di miliziani? Perché sono stati fatti sparire? I libici non volevano forse che le autorità italiane potessero approfondire la loro reale identità, e quindi interrogarli su questioni ben più critiche rispetto alla lite (banale, per pochi euro) con il loro connazionale? Un altro aspetto dirimente riguarda invece i controlli effettuati «a monte», ossia prima del loro arrivo in Italia. Da chi sono stati svolti? Le autorità antiterrorismo erano state informate? Su questo restano molti dubbi e va chiarito anche il ruolo di ambasciate e ministero degli Esteri. I miliziani ricoverati sono in possesso di regolare passaporto libico, ma su questi documenti sono necessari approfondimenti perché è possibile che non contengano la reale identità delle persone ma siano di documenti di copertura. La conferma che si tratti di un caso diplomatico molto spinoso arriva anche da un altro fatto. Gli investigatori della Digos, guidati da Claudio Ciccimarra, stanno interrogando in queste ore su delega dei pm le autorità diplomatiche libiche a Milano, compreso il console. Un atto delicato, in ambito internazionale, che conferma la serietà dei sospetti su questa storia da parte della procura. Una vicenda suggestiva e dai contorni potenzialmente esplosivi che in questa settimana s’è consumata quasi sotto silenzio. Ma che oggi rischia di diventare un caso diplomatico di portata internazionale.
"Attenzione massima sulla crisi in Libia: i profughi sono 600mila". Il presidente del Copasir: «Non c'è solo un problema di immigrazione, ma di stabilità». Chiara Giannini, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. I nuovi pericoli per l'Italia? Ce ne parla Raffaele Volpi, presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica).
C'è una forte crisi internazionale. Come la vede?
«La situazione libica è indubbiamente molto complessa e non disgiunta completamente dalla questione irachena. La Libia è orfana del sistema Gheddafi, che fondamentalmente funzionava con la redistribuzione del sistema della ricchezza».
Quali sono in questo contesto le prospettive di sicurezza?
«È chiaro che per noi non è prettamente un problema di immigrazione, è un problema di stabilità. È indubbio che la Turchia ha fatto una scelta particolarmente discutibile che è quella di utilizzare i mercenari siriani. Questo potrebbe essere un problema. In Iran, invece, gli Stati Uniti hanno fatto una scelta molto mirata. È una situazione da cauterizzare».
Aumento dei flussi migratori, c'è attenzione?
«Si parla di 3mila persone nei campi libici riconosciuti. In realtà la denuncia che viene fatta è un po' fuori centro perché ci sono 600mila persone nei campi illegali, quelli di chi fa la tratta degli uomini. Il problema è un po' più a sud. La spinta viene dalla Nigeria per salire fino al Niger dove c'è una politica condizionata da poteri internazionali che spingono all'immigrazione verso nord».
Rischio terrorismo: è reale?
«Noi abbiamo un sistema di sicurezza e quindi di intelligence e di controllo di quelle aree che riguardano il terrorismo che è assolutamente efficace».
In Italia si parla anche del rischio «estremisti». Sono ancora un pericolo?
«Gli elementi di tensione storica permangono, anche se in alcuni casi sono diventati assolutamente marginali e comunque controllati, come estremismo di destra o sinistra. In alcuni casi preoccupa l'internazionalizzazione delle forme di terrorismo».
Odio social, cosa ne pensa?
«La problematica esiste, ma è un problema generale e non solo di odio attraverso i social. Serve una censura culturale e non legislativa».
Cina, quali rischi?
«Noi non ce l'abbiamo con la Cina. Stiamo attenti a quella che è la sicurezza nazionale. Sicuramente le politiche che emergono riguardo all'acquisizione di nuovi mercati da parte di aziende cinesi sono fatte in maniera molto aggressiva. Il 5G è solo l'elemento macro».
Quali altri pericoli esistono?
«Come Copasir abbiamo deciso di fare una serie di audizioni perché ci consentirà di fronte a problematiche di un certo tipo di rapportarci subito con il Parlamento senza aspettar la fine di un'indagine conoscitiva. I pericoli ci sono ovunque. Tre i settori particolarmente sensibili: bancario assicurativo, energetico e industria Difesa, con aziende estere pronte a tutto. O siamo certi di poter seguire in maniera diretta gli interessi nazionali del nostro debito oppure può diventare un problema».
Esiste un pericolo anche a livello di governo?
«Io non condivido determinati metodi per rimanere o non rimanere al governo, ma questa è un'altra cosa. Credo che in questo momento sia palese una sostanziale differenza tra Paese reale e Paese parlamentare. Ci sono delle elezioni domenica. Se in Emilia Romagna il partito comunista che per settant'anni nelle sue trasformazioni ha governato prende 10 punti di distacco da un partito come la Lega io credo questo sia il riferimento di cui tener conto. Bersani diceva attenzione che c'è la mucca nel corridoio. Secondo me c'è il cavallo di razza che ti sta mangiando al tavolo da pranzo».
Libia, a Sirte tra i nostalgici di Gheddafi (e tifosi di Haftar: «Ci ha liberato»). Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi. Viaggio nella roccaforte del clan del Colonnello, che vorrebbe al governo il figlio Saif al Islam. E che è controllata dalle truppe dell’uomo forte della Cirenaica, ma è ancora divisa fra tre tribù. «Grazie Khalifa Haftar, che ci hai liberato dalle milizie di Misurata. Ma adesso aspettiamo Saif al Islam Gheddafi al governo». Non c’è voluto molto tempo prima che tanti tra gli abitanti di Sirte cominciassero a dire ad alta voce ciò che per otto lunghi anni aveva covato nel loro cuore, alimentato dal desiderio faticosamente represso di vendetta. Sono trascorsi solo pochi giorni dal 6 gennaio, data d’arrivo delle truppe dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico capitanato dall’uomo forte della Cirenaica. E già Sirte torna a rivelare con rinnovata energia ciò che in realtà è sempre stata: la roccaforte del clan Gheddafi, nostalgica del quarantennio del Colonnello contro le ingerenze straniere e desiderosa di riprendersi quel ruolo di motore primo dell’unificazione nazionale libica che l’anarchia armata dagli ultimi anni le aveva brutalmente tolto. «Ancora non sappiamo se Saif al Islam, il figlio più politico di Muammar, sarà davvero in grado di ricostruire la Libia. Dal 2011 è stato a lungo in prigione a Zintan, rischia di essere assassinato in ogni momento se esce allo scoperto. Ma certo ci proverà. E noi saremo con lui», dicono giovani e anziani nei caffé, nei ristoranti, sulla spiaggia, al mercato del venerdì. Ci siamo arrivati dopo aver percorso gli oltre 500 chilometri di deserto piatto e ricco di impianti petroliferi (oggi chiusi) da Bengasi, la cui autostrada costruita dalle ditte italiane negli anni d’oro di Gheddafi segue il tracciato della vecchia via Balbia di epoca fascista. I posti di blocco sono tenuti dagli uomini di Haftar. Il traffico appare regolare. Un viaggio che è anche la biografia delle battaglie e dei mutamenti dei rapporti di forza susseguitisi dallo scoppio della rivoluzione del 17 febbraio 2011: prima l’avanzata delle brigate della rivolta, poi le controffensive delle tribù fedeli a Gheddafi, quindi i trionfi delle milizie di Misurata sostenute dalla Nato, seguiti dall’arrivo di Isis e le battaglie per debellarlo nel 2016. Il racconto della recente vittoria di Haftar ci viene fatto da Ahmad Milud, un imprenditore tripolino 36enne che ai primi di gennaio si era trasferito dalla capitale a Sirte: «La decisione di venire è stata repentina, dettata dalla paura. Il 2 gennaio alle otto di mattina sono uscito in auto dalla mia casa nel quartiere di Hadba a Tripoli per comprare il pane. Ma sono rimasto stupefatto nell’incontrare due miliziani siriani appena inviati dalla Turchia a presidiare da soli un posto di blocco. È stato insopportabile. Non possiamo venire governati da truppe straniere e per giunta mercenari jihadisti. Prima di sera ero già in viaggio per Sirte con mia moglie e le nostre tre bambine». Tre giorni dopo essersi insediato nell’appartamento di un amico, ecco l’arrivo in città delle truppe di Haftar. «È stato del tutto indolore, pacifico, senza alcuno spargimento di sangue in tutta Sirte. Neppure un colpo di fucile, se non quelli di gioia sparati in aria dalla popolazione per essere stata liberata. Alle cinque del pomeriggio Tv218, l’emittente di Bengasi, avvisava che le loro colonne stavano entrando dalla zona orientale. Altre erano in procinto di tagliare la strada costiera a ovest. Evidentemente le milizie di Misurata circondate da una popolazione ostile hanno scelto la ritirata veloce per evitare di rimanere accerchiate senza scampo», ricorda. Qui nessuno può dimenticare l’ondata di saccheggi che accompagnò il linciaggio di Muammar Gheddafi con i suoi fedelissimi alle porte di Sirte il 20 ottobre 2011. «Certo che poi le milizie di Misurata con l’aiuto americano ci hanno liberati da Isis nel 2016. Però, in seguito, la loro presenza fu caratterizzata da ingiustizie e vessazioni di ogni tipo. Ci furono tanti furti d’auto ai posti di blocco. I miliziani prendevano con la forza tutto ciò che volevano. Ci consideravano mucche da mungere», racconta il 46enne Al-Halef Khalifa, proprietario di un supermercato più volte rapinato dalle milizie. Tre suoi nipoti morirono tra le fila di Isis. Una storia nella storia: tanti fedelissimi di Gheddafi, pur se laici e nazionalisti, furono pronti ad unirsi ai radicali panislamici più duri pur di fare la guerra con furia vendicativa contro Misurata e agli occidentali, che avevano determinato la caduta di Muammar. Sono lo specchio delle divisioni tribali imperanti, dramma e ragione prima dell’impasse libica. La stessa Sirte è contesa da almeno tre tribù maggiori: i Gheddafi e i Ma’adani legati al vecchio regime, oltre ai Farjani, i quali invece favoriscono Haftar per il semplice fatto che è dei loro. La città mostra evidentissimi i segni dei conflitti. Almeno due mesi durò l’assedio contro Gheddafi nel 2011. Ma il più grave fu quello contro Isis cinque anni dopo. I crateri delle bombe americane sono ora pozzanghere piene d’acqua marcia. Da allora non c’è stata alcuna ricostruzione pubblica o privata su larga scala. La gente vive nelle abitazioni ancora pesantemente danneggiate e riparate dai singoli alla bell’e meglio. Interi quartieri sono ridotti in macerie. Lo Ouaga-dougou, il lussuoso centro congressi voluto da Gheddafi per favorire il dialogo con i Paesi africani, resta danneggiato dai proiettili e bruciato all’interno. Lungo il mare e presso l’ospedale Ibn Sina le case sono quasi tutte abbandonate. «Nel 2010 questa città aveva oltre 800.000 residenti, adesso sono meno di mezzo milione. Tanti ancora non possono tornare a causa delle carenze abitative. Però qui acqua ed energia elettrica sono più garantite che a Tripoli o Bengasi. I negozi sono ricchi di prodotti, le scuole funzionano regolarmente. Inoltre sono del tutto spariti furti e abusi. Sirte è finalmente sicura», ricorda il colonnello Kamal, vice comandante dei servizi di sicurezza arrivati con le truppe di Haftar. La ventina di civili con cui parliamo lo confermano senza incertezze: il monopolio della forza imposto dai militari di Haftar è platealmente accolto con soddisfazione. Il fronte si è ora spostato 100 chilometri più a ovest verso Misurata, dove però il consenso resta con le milizie.
Libia, al mercato di Tripoli dove i migranti diventano soldati da inviare al fronte. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Battistini. I ghanesi, no. «Non sanno neanche come si tiene in mano un mitra». I ciadiani, sì. «Quelli si sentono libici e hanno voglia di combattere». Anche gli eritrei vanno bene. «Sono soldati nati». Il meglio però restano i sudanesi: «Molti sono arrivati qui come mercenari e per loro è facile prendere un compaesano e reclutarlo nelle milizie…». La rotonda Fashelom, alla periferia di Tripoli, è il discount del soldato. L’outlet del mercenario low cost. Il self service del migrante da arruolare. Alle sei del mattino la scena è identica a questa rotonda e in tutte le città della Libia, in Tripolitania e in Cirenaica, al mercato dell’ovest di Sarraj e alla fiera dell’est di Haftar. Si cerca carne da cannone. E l’ufficio di collocamento per la guerra è ovunque, fra i palazzi in costruzione o nel retro dei bar. In Libia, al contrario di quel che si crede, non è più d’un migrante su dieci a stare nei centri di detenzione: gli altri sono per le strade, liberi di sognare l’Italia e poco altro, spesso in condizioni non meno terribili. La merce umana così s’espone di buon’ora sui marciapiedi sbrecciati — decine d’africani ad aspettare in ciabatte, i piedi impolverati come le vite, neri di pelle e di futuro — e chi passa col pick-up si ferma qualche minuto, scruta i lavoranti in offerta speciale, ordina ciò che serve: uno che oggi gli porti la carriola per cinque euro a giornata, uno che sappia dare la biacca a un palazzo, uno che scarichi i camion. O uno che se ne vada in guerra: a sparare nelle milizie, se è buono; a spalare nelle retrovie, se non sa far altro. C’è chi dice sì perché in fondo pagano, 300 euro al mese più vitto e alloggio. C’è chi dice no, perché non vuol pagare con la vita. C’è chi non dice niente perché il dio dei libici non paga il sabato e nemmeno gli altri giorni, e quindi si va e basta: «Fino a due giorni fa c’era qui un ragazzo ciadiano che si chiama Abu Bakar — raccontano — un tebu delle tribù del sud. Fa il muratore. Se però vuoi il lavoro, gli hanno ordinato, prima devi andare nella zona di Salah-al-Din». Ma là non ci sono cantieri, c’è il fronte… «Lui sa cavarsela». È il caporalato dei soldati. Le compravendite sono un segreto ben protetto: dopo lo scandalo del mercato degli schiavi, filmato due anni fa dalla Cnn, guai a chi ne fa parola. E appena chiediamo al comandante Nasser Aamar, 50 anni, a capo di una qatiba di 300 uomini che difende Tripoli, la risposta è un’altra domanda: «Perché usiamo i migranti? E allora perché non chiedete a Haftar come mai usa i mercenari del Niger, i ribelli del Mali, gli ufficiali egiziani, giordani, emiratini?...». L’arruolamento funziona così: «Loro non ti dicono d’entrare nelle milizie — racconta M. A. O., 44 anni, un nigeriano che in patria faceva il calciatore —. Si presentano nel cantiere dal padrone libico e comunicano di volere quindici persone da mandare al fronte per un mese. Il libico si fa dare i soldi: se i migranti vogliono tenersi il lavoro, devono obbedire e andare con le milizie. Chi non ci sta, è sostituito da qualcun altro preso alla rotonda di Fashelom». Tre anni fa, M. A. O. è stato rapito e in fondo gli è andata bene: l’hanno picchiato, gli hanno chiesto i soldi per il rilascio, ma almeno ha evitato la guerra. «La maggior parte — spiega — finisce alla logistica delle truppe, a lavare gavette. I ciadiani o gli eritrei, più pratici di armi, vanno in prima linea». Non tutti sono sicuri che si tratti d’un vero arruolamento forzato: «I tebu e i mahamid, è noto che si sentano tribù libiche e quindi combattano volentieri — dice Donatella Rovera, di Amnesty International —. Gli altri, è possibile che le milizie li sfruttino per lavorare. Ma questo non può essere tecnicamente definito un arruolamento. Nessuno ha mai trovato la prova che i migranti siano mandati a sparare». Diverso il parere dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che per bocca di Vincent Cochetel ha denunciato tempo fa come nel centro di detenzione di Qaser Ben Gashir siano date agli immigrati le divise e un’alternativa: la libertà in cambio del reclutamento. Anche alla Caritas, se cerchiamo conferme, la risposta è tortuosa: «Non sappiamo di migranti assoldati dalle milizie», (prima versione, ufficiale); «in effetti sappiamo qualcosa, ma non possiamo parlarne perché poi ci fanno grane» (seconda versione, ufficiosa). Il venerdì sulla tangenziale, in mezzo al traffico, la carne da betoniera e da cannone si raduna intorno al campo 11 Giugno, uno sterrato che chiamano pomposamente stadio di calcio. Si gioca a pallone, per 50 centesimi si trova un pezzo di carne alla brace, per un euro la foto tessera da tenere in tasca. Ogni tanto passa un pick-up: «Nessuno m’ha mai chiesto d’arruolarmi — dice Ashraf Oukadou, 22 anni, sudanese — ma perché no? Quelli sono soldi sicuri». L’ultima volta, Ashraf ha fatto il meccanico per tre giorni e per dodici ore al giorno: «Alla fine, il padrone libico mi ha riempito di botte. E non mi ha dato un dinaro. Meglio le milizie».
Libia, Europa ridicola: "Firmata la tregua", ma senza Serraj e Haftar. E la guerra continua più di prima. Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. È presto per parlare di pace in Libia dopo il sostanziale stallo della conferenza internazionale tenutasi ieri a Berlino per cercare di spingere i due contendenti a deporre le armi e a riunire il dilaniato paese con una normalizzazione politica. Unico risultato concreto è stata la creazione della commissione militare che dovrà controllare l' osservanza di una tregua comunque spesso violata. Il cessate il fuoco dovrebbe poi servire a facilitare l' arrivo di una forza internazionale che però è stata finora soltanto vagheggiata senza conferme. La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen ha solo fatto capire che in una ipotetica missione di pace giocherebbe un forte ruolo l' Unione Africana. I rappresentanti delle nazioni che cercavano di mediare, fra cui, oltre all' ospitante Germania, spiccano Francia, USA, Russia, Italia, Gran Bretagna, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Cina, hanno approvato in serata una dichiarazione finale che ricapitola i punti principali del cessate il fuoco. Ma senza un vero accordo tra il presidente del governo di Tripoli, Fayez al Serraj, e il generalissimo Khalifa Haftar, il cui esercito è legato al parlamento di Tobruk. Insomma, il summit sembra esser servito più come vetrina per le potenze straniere che appoggiano l' una o l'altra fazione. Fra i punti principali della bozza, già anticipati da un paio di giorni, c' erano il mantenimento della fragile tregua e dell'embargo sulle armi e la creazione di un nuovo "consiglio presidenziale", nonchè il riportare l' esercito "sotto l'autorità politica". Ma fin dall' inizio della conferenza il clima era pesante, poichè Serraj e Haftar non si sono mai seduti al tavolo comune con gli altri leader. E nemmeno si sono incontrati fra loro, restando sempre in stanze separate. La cancelliera tedesca Angela Merkel li ha incontrati entrambi, separatamente, prima e anche dopo l' approvazione della bozza finale, ma senza convincerli ad andare più in là di una tregua che, pur imperfetta, rimandava ancora all' iniziativa bilaterale del presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Erdogan. Haftar si sente il più forte avendo conquistato la maggior parte del territorio, e non intende retrocedere, semmai potrebbe andargli bene che il suo esercito, meglio strutturato, formi il nerbo di un futuro esercito libico unitario. Serraj dal canto suo teme che si proponga la sua sostituzione con un nuovo presidente più gradito ad Haftar e ai parlamentari di Tobruk. L'unico passo avanti è stato che i due capi libici hanno accettato la nomina di una commissione militare internazionale, nell' ambito della missione ONU Unsmil, che avrà il compito di monitorare la tenuta della tregua. Serraj ha chiesto al ministro degli Esteri tedesco Heiko Mass che «la tregua sia accompagnata dalla cessazione delle minacce di Haftar alla città di Tripoli». Per tutta la giornata si erano susseguite violazioni del cessate il fuoco in Libia, con tentativi delle forze di Haftar di sfondare le linee nei settori di Al Halatat e Khallet al-Furjan, fermate anche grazie alla distruzione di un carro armato. Intanto altre milizie fedeli ad Haftar bloccavano il pompaggio di petrolio nell'oleodotto che dal giacimento di El Sharara, vicino Ubari, 900 km a Sud di Tripoli, arriva alla raffineria di Zawiya. Il giacimento è gestito da Akakus, joint-venture tra la libica NOC, la spagnola Repsol, la francese Total, l' austriaca Omv e la norvegese Statoil. Secondo il New York Times sarebbe il governo degli Emirati, che appoggia Haftar, a suggerirgli di continuare l' avanzata per poter poi accrescere il suo peso negoziale. A Berlino Haftar ha parlato, fra gli altri, col presidente francese Emmanuel Macron, altro suo sostenitore. E poco dopo Macron ha denunciato l' arrivo di miliziani siriani inviati dalla Turchia in aiuto a Serraj. Proprio il turco Erdogan era stato poco prima affrontato dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, il quale gli aveva ricordato come fosse importante evitare «intrusioni esterne in Libia», fra cui appunto i miliziani siriani e anche gli stessi militari turchi inviati a Tripoli. Erdogan è stato poi fra i primissimi leader a lasciare Berlino in serata, seguito a ruota da Pompeo. Nessun entusiasmo scaturiva poi dal vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, per cui «ci sono piantagrane che vogliono far deragliare il cessate il fuoco». Mirko Molteni
Dall'articolo di Paolo Valentino per il ''Corriere della Sera'' il 20 gennaio 2020. (…) Erano presenti, ma non hanno partecipato ai lavori, anche il generale Khalifa Haftar e il premier al-Serraj. I due hanno aspettato in stanze separate che l’accordo fosse redatto, mentre la Merkel in persona si è incaricata di far la spola tra le due stanze per riferire. E però, a un certo punto, Haftar «non ha più risposto alla cancelliera, che sollecitava una sua parola definitiva sul testo della dichiarazione finale. Secondo chi era nella stanza, è stato l’unico momento del pomeriggio nel quale l’imperturbabile Angela Merkel ha tradito una punta di irritazione. “Aspettiamo ancora dieci minuti — ha detto — se Haftar continua a negarsi, chiudiamo qui con il documento che abbiamo concordato”. Ed è finita proprio così. La Conferenza sulla Libia si è conclusa con l’approvazione di un meccanismo internazionale che ambisce a consolidare la tregua con una serie di passi successivi. Prima di tutto il blocco effettivo delle forniture d’armi e la cessazione del sostegno militare ai duellanti da parte degli attori internazionali coinvolti nella vicenda libica. Ma la dichiarazione di Berlino non porta le firme né di Al-Sarraj né di Haftar. E soprattutto sulla sua praticabilità grava l’ambiguo silenzio del generale, che si è squagliato all’ultimo momento, riproponendo il copione della scorsa settimana a Mosca, quando era partito nella notte rifiutandosi di firmare la tregua e lasciando Vladimir Putin, uno dei suoi padrini, con un palmo di naso. Merkel ha dovuto ammetterlo a denti stretti: “Non abbiamo potuto risolvere tutti i problemi”»
Marco Conti per “il Messaggero” il 20 gennaio 2020. 7 titoli, 55 punti e nemmeno 4 ore di riunione. Giusto il tempo per far capire ai due contendenti, chiusi in due diverse stanze della Cancelleria, che si deve far di tutto per cercare di passare dalla tregua alla pace. Di una Conferenza a Berlino sulla Libia si parlava invano sin dallo scorso settembre. Sino a qualche giorno fa non c'era nemmeno una data. Alla fine è uscito un documento articolato di fatto eguale alla bozza circolata nei giorni scorsi. La Cancelliera Merkel fa la padrona di casa. Lascia l'iniziativa alle Nazioni Unite, dopo aver schierato l'Europa che conta. Nella capitale tedesca arrivano i principali leader dei Paesi europei e arabi, oltre ai rappresentanti di Usa, Ue, Unione africana e Onu. Il documento finale spiana la strada ad una cessate il fuoco duraturo, a un embargo sulle armi dirette verso il Paese e alla fine delle ingerenze straniere. Un work in progress tutto da verificare, ma che cambia il registro del confronto che passa dalle armi alla diplomazia. Haftar e Serraj continuano a non volersi parlare e si rifiutano di incontrarsi, ma alla fine scontano la firma che i rispettivi sponsor mettono sotto il documento conclusivo. La guerra per procura dovrebbe terminare definitivamente seguendo un percorso che parte da una tregua immediata per arrivare, attraverso regolari elezioni, all'insediamento di un nuovo governo libico unitario. Presupposto di tutti ciò è il disarmo delle milizie, l'embargo sulle armi e le sanzioni monitorie per chi continua a non rispettarlo. Haftar deve permettere l'estrazione di greggio, mentre nel documento non c'è la forza di interposizione anche se al punto 55 si dice di riportare il lavoro fatto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L'idea è spinta dall'Italia, rilanciata di recente dallo stesso Serraj e ripresa anche da Mosca, Parigi e dal primo ministro britannico Boris Johnson. Pesa la rivalità tra Serraj e Haftar. I due sono stati informati all'inizio e alla fine dalla Cancelliera sull'andamento dei lavori. Non hanno firmato il documento, ma alla fine hanno dato comunque il loro assenso alla nomina dei membri del comitato militare 5+5 che, secondo il piano di azione dell'Onu, dovrebbe monitorare il cessate il fuoco e stabilire la linea degli schieramenti. Ma l'ostacolo più grande, probabilmente, oltre alle rivalità interne, sarà misurare la reale volontà di applicare in pratica quanto hanno sottoscritto a Berlino quelli che fino a ieri hanno continuato a incrementare la propria influenza nel Paese: la Turchia, la Russia, gli altri stati arabi, in primis Egitto e Emirati Arabi Uniti. Ma anche, seppure senza ammetterlo, la Francia. Ieri era il momento dell'esultanza, con la cancelliera tedesca Angela Merkel che insieme al segretario generale dell'Onu Antonio Guterres si presenta soddisfatta in conferenza stampa per annunciare che «tutti sono d'accordo» su una soluzione politica e per rispettare l'embargo sulle armi. Da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall'egiziano al Sisi ai rappresentanti degli Emirati arabi, sino agli Stati uniti rappresentati dal segretario di Stato Mike Pompeo, passando per Francia, Germania, Gran Bretagna, Unione Europea, Algeria, Lega Araba, Unione Africana. Un livello di presenze mai raggiunto nei precedenti tentativi, e che ha contribuito al successo, ma che dà anche il senso di come si sia complicata la vicenda per lo spropositato aumento dei protagonisti. La certezza che domani non si riprenderà a sparare in Libia non ce l'ha nessuno, ma Berlino è la prova che se l'Europa vuole ha la forza di imporsi anche a russi e turchi e sa tirare per la giacca anche Washington. Il passaggio in Consiglio di Sicurezza sottrae la vicenda ad affare a due, la avvolge in un multilateralismo dal quale non si può sottrarre la Francia ma non è detto che all'Italia torni lo spazio degli anni scorsi anche se Di Maio è rientrato a Roma gongolante per il giudizio espresso dalla Cancelliera: «Complimenti, ho sentito parlare molto bene di lei».
Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 20 gennaio 2020. Si è discusso di pozzi a Berlino, ma non di uno dei nodi principali di tutta la questione libica, ovvero della distribuzione delle entrate petrolifere. Ed è per questo che il generale Khalifa Haftar, mentre mostra una vaga disponibilità a mantenere la tregua, esercita la maggiore pressione che può sul paese, chiudendo anche i pozzi dell'ovest, quelli di Sharara ed El Feel (Elephant). Quest'ultimo, in particolare, è operato da Eni per il 33% con una media di 75 mila barili al giorno. L'Ente ha confermato che la produzione è stata parzialmente ridotta a seguito della chiusura di una valvola lungo l'oleodotto. Nel summit tedesco, le parti hanno ribadito di voler respingere ogni «tentativo di danneggiare l'infrastruttura petrolifera libica, qualsiasi sfruttamento illecito delle sue risorse energetiche, che appartengono al popolo libico, attraverso la vendita o l'acquisto di greggio libico e derivati al di fuori del controllo del Noc», e anche «una distribuzione trasparente ed equa del petrolio ricavi». Non può che preoccupare, dunque, che la produzione di petrolio - unico bene di sostentamento della popolazione libica - sia quasi del tutto azzerata. Ieri il movimento di protesta Rabbia del Fezzan del sud della Libia, ha rivendicato la chiusura dei giacimenti di Sharara ed El Feel, che segue a quella di qualche giorno fa dei giacimenti e dei porti della Libia centrale e orientale, dove lo stop ha riguardato circa 800 mila barili al giorno. Mustafa Omar, capo del sindacato dei lavoratori nel giacimento petrolifero di Sharara che si trova a circa 200 chilometri a ovest di Sebha, ha spiegato ad Agenzia Nova che alcuni individui hanno chiuso una valvola tra la zona di Al Riyayna e la città di Zintan, costringendo gli ingegneri a interrompere la produzione fino a nuovo avviso. L'impianto è gestito dalla joint venture Akakus, che riunisce la libica Noc, la spagnola Repsol, la francese Total, l'austriaca Omv e la norvegese Statoil e produceva circa 300 mila barili di petrolio al giorno prima di essere fermato. Il vicino giacimento di El Feel è invece gestito dalla Mellitah Oil and Gas, una joint venture tra la Noc e la compagnia italiana Eni. La National Oil corporation (Noc, la compagnia petrolifera della Libia) ha dichiarato lo stato di force majeure, cioè l'incapacità di poter operare per cause di forza maggiore, sui carichi di greggio dai porti di Brega, Ras Lanuf, Hariga, Zueitina e Sidra. E secondo il presidente Mustafa Sanallah, «la Libia perderà, a causa di questa chiusura, quasi 800.000 barili di petrolio al giorno, equivalenti a 55 milioni di dollari al giorno». Dietro la decisione, nonostante ufficialmente siano le milizie e le tribù locali a eseguire il blocco, c'è il generale della Cirenaica che sa quanto questo argomento possa incidere sugli equilibri nel paese. L'Esercito nazionale libico ha autorizzato le Guardie delle strutture petrolifere a consentire dei picchetti permanenti e dei sit-in per contestare il presunto sperpero delle risorse libiche da parte del governo di Fayez al Serraj per pagare le milizie turche. Nella bozza della dichiarazione finale di Berlino, la questione della distribuzione delle entrate, uno dei principali oggetti di contesa del conflitto, viene affrontata in modo marginale. Il dossier viene rimpallato al «dialogo intra-libico» portato avanti dalle Nazioni Unite con degli incontri a Ginevra, ma si chiede «di migliorare la capacità delle pertinenti istituzioni di controllo libiche, in particolare l'Audit Bureau, l'autorità di controllo amministrativo, l'autorità nazionale anticorruzione, l'ufficio del procuratore generale le commissioni parlamentari competenti, secondo l'Accordo politico libico e le leggi libiche pertinenti».
Libia tra petrolio, guerra e alleanze: cosa sta succedendo e cosa cambia dopo Berlino. L'incontro nella capitale tedesca, i pozzi chiusi, le bombe su Tripoli, le amicizie internazionali che continuano a cambiare. Ecco come leggere la crisi libica. Francesca Mannocchi il 20 gennaio 2020 su L'Espresso. Le ultime due settimane prima della Conferenza di Berlino sono state segnate da eventi cruciali, culminati nel blocco dei pozzi, alla vigilia dell’incontro. La Turchia di Erdogan ha annunciato l’invio delle truppe, facendo seguito all’accordo di cooperazione militare stretto con Fayez al Sarraj in Dicembre, il generale Khalifa Haftar - sostenuto da una milizia salafita madkhalista, la Brigata 604 - ha occupato e conquistato la strategica città di Sirte, e sul fronte di Tripoli sarebbero comparsi ribelli siriani reclutati dalle truppe di Erdogan in supporto ai soldati che difendono la capitale libica dalle truppe di Haftar. Soprattutto, il giorno prima della Conferenza di Berlino le milizie e le tribù legate al Generale Haftar nella parte orientale della Libia hanno bloccato i pozzi di petrolio. Ahmed Mismari, portavoce dell’LNA di Haftar, in un comunicato ha annunciato che è stato "il popolo libico a bloccare i pozzi". Poche ore dopo il blocco, un comunicato dell’Unsmil, la missione speciale delle Nazioni Unite sulla Libia, ha espresso "profonda preoccupazione per le possibili devastanti conseguenze" ma – una volta ancora dall’inizio della guerra, il 4 aprile 2019 – evitando di nominare il generale Khalifa Haftar. Come sempre in Libia, si scrive guerra e si legge gas. E’ stato così storicamente. Lo è con maggiore nettezza oggi. Parte della guerra di Libia si gioca sui pozzi e le raffinerie nel paese, ma ormai una parte consistente si gioca nel Mediterraneo orientale. Zona di perforazione, e sede di progetti di gasdotti, zona in cui confluiscono ambizioni contrapposte. Il petrolio è un ricatto rivolto all’interno e un ricatto agli alleati esterni. In un comunicato stampa di domenica, la National Petroleum Company (NOC) ha riferito che le esportazioni verso i porti noti come la "mezzaluna del petrolio" , i polmoni dell'economia libica, si erano fermate: Brega, Ras Lanouf, al-Sedra e al-Hariga. Il blocco causerà un calo della produzione del Paese da 1,3 milioni di barili al giorno a 500.000 barili al giorno e un deficit di 55 milioni di dollari al giorno. Una fonte interna al NOC ha dichiarato a Reuters sabato mattina che sia stato proprio l’LNA (l’esercito di Haftar) a ordinare alle milizie la chiusura dei porti e il conseguente blocco delle esportazioni. Nonostante questo Haftar è stato accolto a Berlino, senza che il tema venisse neppure sfiorato. Haftar controlla i pozzi ma non può vendere il petrolio, Tripoli controlla le istituzioni ma non i pozzi e le raffinerie. È il comma 22 della guerra di Libia. «Non c’è dubbio che la chiusura dei pozzi nel Golfo di Sirte mostri che i sostenitori di Haftar nell’Est stiano alzando la voce e mostrando la forza per ricordare ai partecipanti a Berlino e alla comunità internazionale che le rimostranze che sono alla base del conflitto resistono e sono ancora irrisolte. Uno dei temi è che le rendite del petrolio che finiscono nella Banca Centrale di Tripoli vengano consegnate all’Est, in relazione al fatto che le forze militari che fanno capo al Libyan National Army di Haftar garantiscono il flusso del greggio, producendo dunque quelle entrate. La seconda richiesta, implicita in questo blocco, è quella di cambiare il capo della Banca Centrale» spiega Claudia Gazzini, senior analyst per l’International Crisis Group. Al momento, infatti, il generale Khalifa Haftar e le forze militari a lui collegate controllano la maggioranza dei pozzi e delle raffinerie, ma non possono monetizzarle, perché le entrate del petrolio e del gas sono incanalate dal NOC, la National Oil Corporation, basata a Tripoli, la sola istituzione che può esportare gas e petrolio e che drena le entrate attraverso la Banca Centrale. La Banca Centrale a sua volta lavora principalmente con il Governo di Tripoli, sebbene paghi gli stipendi dei funzionari della parte orientale della Libia. «Non sappiamo ancora quanto durerà questo blocco, dipenderà anche da come reagiranno gli Stati Uniti, due anni fa, quando accadde qualcosa di simile, i funzionari americani chiesero con urgenza al Generale Haftar di riaprire i terminal petroliferi, ora la situazione è differente, per prima cosa perché gli Stati Uniti dipendono meno dalle importazioni, il prezzo del petrolio è sceso, e forse a Washington c’è meno preoccupazione di un tempo sull’impatto globale di queste chiusure, e potrebbero dunque decidere di aspettare prima di fare pressione su Haftarı» aggiunge ancora Claudia Gazzini. La chiusura dei pozzi è stato, per Haftar, certamente un mezzo per fare pressione (indiretta) sui presenti a Berlino ma è bene ricordare che tutta la Libia, inclusa la zona controllata da Haftar faccia affidamento sulle entrate petrolifere, un paese in cui, secondo i dati del 2018, la rendita degli idrocarburi costituiva il 90% delle entrate statali. Tim Eaton, ricercatore per Chatam House ritiene che il blocco possa essere interpretato secondo due direttrici: «Per prima cosa porre fine al blocco diventerà una ‘concessione’ da mettere sul tavolo di Berlino, e poi LNA farà leva nuovamente per spezzare il monopolio del NOC di Mustafa Sanalla sulle vendite del petrolio». Il gas e il petrolio contano sempre, dunque, ma mai direttamente. Sono sempre sul tavolo e vengono usati come ago della bilancia, strumento di pressione, da attori locali e internazionali, servono da collante per vecchie e nuove alleanze. Lo scorso cinque Dicembre Sarraj e Erdogan hanno firmato un accordo marittimo che stabilisce una linea di 35 chilomentri tra Turchia e Libia, sancendo di fatto un confine esterno, una zona economica esclusiva, che però incide in un’area rivendicata da Grecia e Cipro, che hanno piani di costruzione di un gasdotto nel Mediterraneo Orientale. Il due gennaio scorso Grecia, Israele e Cipro hanno firmato un accordo per costruire un gasdotto per trasportare gas dal Mediterraneo sud-orientale all’Europa continentale, progetto cui la Turchia si oppone perché – appunto – insiste su un’area a cui aspira Erdogan. La partita delle alleanze e delle interferenze sulla pax libica si è dunque allargata e complicata. La Grecia non è stata invitata in Germania e ha dichiarato che si opporrà a ogni accordo di pace in Libia a meno che non venga cancellato l’accordo marittimo tra la Turchia e il governo di Fayez al Sarraj. Haftar per rendere più solido e allargato il fronte anti-Erdogan pochi giorni prima della Conferenza è volato ad Atene, ha incontrato il ministro degli Esteri greco. La tenuta delle alleanze, è evidente, si sta giocando anche sui diritti di perforazione del Mediterraneo centrale. «La Turchia non sta interferendo in Libia solo al fine di ottenere l'accesso a parte delle enormi riserve di gas naturale che sono state scoperte nel Mediterraneo orientale dal 2013, ma è sicuramente uno dei principali fattori e la Grecia è profondamente schierata con LNA di Haftar e la sua guerra, perché aspira a tutto il gas naturale del Mar Egeo, senza alcuna intenzione di condividerlo con la Turchia» dice Jalel Harchaoui ricercatore sulla Libia per il Clingendael Institute. Quello che è chiaro è che oggi in Libia le alleanze siano fluide e spesso sovrapponibili. Da un lato c’è l’asse Grecia/Cipro/Israele a sostegno di Haftar per difendere gli interessi nel Mediterraneo Orientale, coalizione – quella a sostegno del Generale della Cirenaica – di cui fa parte anche la Russia di Putin. Che l’otto gennaio scorso, mentre il governo italiano tentava maldestramente di mediare un incontro (che non è poi avvenuto) tra Haftar e Sarraj, erano a Istanbul per inaugurare il Turkish Stream, il gasdotto da 930 km che porterà il gas russo in Europa attraverso la Turchia. Alla cerimonia di inaugurazione Putin ha detto che il gasdotto è un segno di “cooperazione a beneficio della nostra gente e delle persone di tutta Europa, del mondo intero" sottolineando la stretta cooperazione tra Ankara e Mosca. Che passa dal gas, certo, ma anche dalle sfere di influenza in Siria e ormai solidamente anche in Libia. Nemici no, meglio non amici, dunque. Sono stati proprio Putin e Erdogan i promotori di un incontro a Mosca, una proposta di cessate il fuoco firmata da Sarraj e dal capo del Consiglio di Stato Khaled Mishri, ma rigettata da Khalifa Haftar e da Aghila Saleh, il capo del Parlamento di Tobruk. Il rifiuto di Haftar è riconducile a vari fattori (non può accettare il ritiro delle truppe dalla periferia di Tripoli, ad esempio) ma soprattutto dimostra ai suoi alleati internazionali che le sorti militari della sua offensiva non dipendono solo da Mosca, e che – se anche Putin facesse un passo indietro – ha altri sostenitori altrettanto forti (gli Emirati Arabi Uniti). Da una parte dunque gli interessi energetici dei due non-amici (Turchia/Russia) in vista del Turkish Stream, dall’altra quelli di Cipro/Israele/Grecia (e Egitto). In mezzo, i governi europei e i loro interessi economici (si legga energetici) nel paese. «L'Italia importa ogni giorno una grande quantità di idrocarburi dalla Libia e sa che - se la guerra si deteriorerà - il flusso delle importazioni libiche potrebbe essere seriamente interrotto. Ecco perché l'Italia vuole la calma in Tripolitania, mentre la Francia vuole che Haftar continui la guerra per raggiungere la vittoria» commenta ancora Jalel Harchaoui. In una recente intervista a Der Spiegel, il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha sostenuto che «l’Italia e l’Europa hanno perso terreno in Libia per una semplice ragione: non erano disposti a fornire armi ai belligeranti». La verità è che l’Italia e l’Europa in questi anni hanno perso terreno in Libia perché hanno progressivamente ristretto l’angolo di osservazione sul paese nordafricano, la principale lente indirizzata a sud di Lampedusa è stata quella legata alle politiche migratorie, alle quote per ospitare i migranti che attraversavano il Mediterraneo e a come controllare le partenze dalle coste della Tripolitania, come trattare con il governo di Sarraj e come smantellare (o cooptare) il potere delle milizie che controllano il traffico di uomini. Intanto lo scenario si modificava irreversibilmente, con attori nuovi – certo – e con attori presenti da tempo sul terreno libico e da tempo sottovalutati. «Finora l'Italia non è riuscita ad avere una politica equilibrata, ha continuato piuttosto a fluttuare da un polo all'altro, il che ha diminuito fortemente la sua credibilità, indebolendo il capitale politico con entrambe la parti» commenta Emad Badi, ricercatore esperto di Libia e Sahel. La conferenza di Berlino si è conclusa con sollievo da parte dei governi europei che hanno cercato di colmare la distanza con i nuovi attori centrali nella partita libica, ma ha anche contribuito a rafforzare solidi legami. La questione aperta del post-Berlino è se i due contraenti riusciranno a convincere i proprio sostenitori in casa e fuori dai confini libici. Da un lato le milizie dunque (e quando parliamo di milizie parliamo del controllo di pozzi e raffinerie) e dall’altro alleati che – soprattutto nel caso di Haftar – non hanno abbandonato l’idea di una vittoria militare. Nessun governo europeo poteva permettersi di tornare da Berlino senza una bozza di accordo firmata, Angela Merkel ha con onestà ribadito che la conferenza sia stata un passo di un percorso tutt’altro che facile, Ghassam Salamè ha espresso soddisfazione a nome delle UN. Va certamente ricordato però, che quando Haftar lanciò la sua offensiva su Tripoli ad Aprile, Salamé stesso era nella capitale e nulla potè di fronte alla determinazione dell’aggressione militare del Generale di Bengasi. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres è stato realista: «Non possiamo monitorare un cessate il fuoco che non esiste». La strada è in salita, dunque. I pozzi chiusi e Tripoli, stanotte, era di nuovo sotto le bombe.
Marco Conti per “il Messaggero” il 21 gennaio 2020. Cambiare la missione Sophia, a cominciare dal nome, e predisporre la forza di interposizione Ue in modo da essere pronti quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite darà il via libera. Con l'orecchio teso verso Tripoli e in mano i 55 punti del documento sfornato a Berlino, a Bruxelles si cerca di recuperare il tempo perduto mettendo a punto una sorta di road map che dovrebbe permettere di consolidare la tregua in Libia ed avviare la ricomposizione del Paese. Alla riunione dei ministri degli esteri dei Ventisette nessuno è disposto a mettere la mano sul fuoco sulla reale volontà dei due contendenti, ma per ora consola il fatto che l'Europa abbia ripreso un po' del suo ruolo, anche perché la situazione in Libia sta pericolosamente precipitando verso il modello siriano. L'interesse suscitato dal racconto della Conferenza di Berlino fatto dall'alto rappresentante dell'Ue Josep Borrell e dal ministro degli esteri Luigi Di Maio ha finito con il monopolizzare la riunione, ma nessuna decisione è stata presa e tutto è rinviato al summit del 17 febbraio anche in attesa di capire cosa accadrà in Libia. Il giorno dopo Berlino i due principali contendenti continuano nello scambio di accuse con il premier libico al Serraj che rifiuta ogni rapporto con il generale Haftar perchè «non rispetta i patti». Anche se la tregua è debole, a Bruxelles Borrell e Di Maio hanno rilanciato - seppur con qualche sfumatura diversa - sia la missione di interposizione che la missione Sophia. Quest'ultima, per la verità, esiste ancora ma «è stata distrutta e abbandonata sotto il signor Salvini, che non c'è più». Il giudizio del ministro degli Esteri del Lussemburgo Jean Asselborn è pesante e non ricorda che a suo tempo anche il M5S si trovò d'accordo. Al punto che ieri Di Maio, ha spiegato che la «riattivazione» della missione Sophia per monitorare il rispetto dell'embargo all'export di armi verso la Libia può essere «un punto di partenza», ma la missione va «smontata» e poi «rimontata» in maniera «completamente diversa». Ovvero non può tornare ad essere considerata una missione salva-migranti, ma deve essere orientata alla lotta al traffico d'armi. E' per questo che Borrell parla di «rifocalizzazione» della missione, anche se non è ancora chiaro cosa dovrebbero fare gli equipaggi delle navi qualora dovessero imbattersi in qualche zattera o barcone. Novità potrebbero arrivare sul fronte dei migranti dall'incontro che oggi avranno i ministri Di Maio (Esteri) e Lamorgese (Interni) con la vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, che coordina il lavoro dell'esecutivo europeo per arrivare a un nuovo patto sulle migrazioni e l'asilo, e con la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson. Cambiare la regola del paese di primo approdo - sul quale sta lavorando anche il ministro delle Politiche Comunitarie Enzo Amendola - renderebbe più semplice la gestione dei flussi provenienti dal Nord Africa, ma i tempi per una riformulazione di Dublino potrebbero essere ben diversi da quelli di Sophia. Si riaffaccia quindi il rischio che nuovamente, come denunciato anche ieri dalla senatrice Emma Bonino, in Italia il tema dei migranti prenda il sopravvento sui più urgenti temi che attengono la politica estera e la sicurezza del Paese. Il fatto che diciassette mercenari siriani ingaggiati dalla Turchia per combattere a Tripoli siano sbarcati in Italia, non rassicura. Resta il fatto che la spinta per rimettere in mare le navi della missione Sophia è sostenuta da tutti, compreso il commissario agli affari economici Paolo Gentiloni, mentre sulla fattibilità di una missione di interposizione in stile Libano, le perplessità tra i Ventisette restano forti. Austria, Lussemburgo e Svezia, hanno giudicato «prematura» l'eventualità, ma Di Maio insiste proprio per replicare al turco Erdogan che non vuole una missione a guida Ue.
“Terroristi siriani arrivati in Italia dalle coste di Tripoli”. Giovanni Giacalone su Inside Over the world il 19 gennaio 2020. Più di 40 jihadisti siriani avrebbero lasciato le coste della Libia occidentale per raggiungere l’Italia, plausibilmente con l’obiettivo di compiere attentati. È quanto emerso durante una conferenza stampa di Ahmed al-Mismari, portavoce dell’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. Al-Mismari si è rivolto direttamente al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, puntando il dito anche contro il governo guidato da Fayez al-Sarraj: “Lo sa che nelle ultime 48 ore più di 41 terroristi siriani hanno lasciato le coste di Tripoli diretti verso l’Italia con l’aiuto dei trafficanti di esseri umani sostenuti dal Governo di accordo nazionale?”, come riportato poco fa dall’AdnKronos. Un allarme che coincide, sul piano delle tempistiche, con l’allerta lanciata dal Dipartimento di Stato americano nella quale si invitano i cittadini statunitensi presenti in Italia a prestare particolare attenzione: “I terroristi – si legge nella nota in questione – possono attaccare con poco o nessun preavviso, colpendo località turistiche, centri di trasporto, mercati o centri commerciali, strutture del governo locale, hotel, club, ristoranti, luoghi di culto, parchi, importanti eventi sportivi e culturali, istituzioni educative, aeroporti e altre aree pubbliche”. Nella giornata di sabato, alla vigilia della conferenza di Berlino sulla Libia, Erdogan aveva messo in guardia la comunità internazionale che se il “governo legittimo” di Tripoli, guidato da Fayez al Sarraj, dovesse cadere, ci sarebbe il rischio di “creare terreno fertile per il terrorismo”. Un chiaro avvertimento dunque; del resto il governo di al-Serraj è sostenuto da una moltitudine di gruppi islamisti e jihadisti. Non a caso diversi volti noti di quella galassia sono già stati individuati a suo tempo nelle file delle milizie legate a Tripoli, come Adel al-Rubaie, Issa al-Busti, Massound al-Akouri e Mohammed Mahmoud Ben Dardaf, terrorista ricercato dal governo della Libia orientale per l’assalto al consolato statunitense di Bengasi, avvenuto tra l’11 e il 12 settembre 2012, nel quale rimaneva ucciso l’ambasciatore statunitense Chris Stevens. Il jihadista era impegnato nelle forze fedeli ad al-Sarraj, precisamente nelle file della brigata Somoud e veniva centrato nel maggio 2019 da un missile anticarro “Kornet” di fabbricazione russa. Il gruppo jihadista “Ansar al-Sharia” aveva successivamente pubblicato messaggi di cordoglio per la morte del jihadista. Ora al-Serraj, grazie al supporto di Ankara, ha a disposizione anche i jihadisti “siriani” anti-Assad trasportati dai turchi da Idlib alla Libia occidentale. Come già illustrato da ilGiornale, ai volontari verrebbero pagati 1500 dollari al mese e garantita la cittadinanza turca a fine avventura. Il trasferimento di jihadisti è stato confermato anche da re Abdallah di Giordania e dall’inviato speciale in Libia delle Nazioni Unite, Ghassan Salamé. I mercenari sono stati inquadrati nell’unità Omar Al Mukhtar, l’eroe libico impiccato dagli italiani nel 1931, un segnale più che eloquente da parte di al-Serraj e Erdogan nei confronti dell’Italia. Una situazione paradossale, considerato che l’Italia aveva fin’ora sostenuto al-Serraj, assieme a Turchia e Qatar, il cosiddetto “asse dei Fratelli Musulmani” che spinge per prendere il controllo della Libia. Il progressivo allontanamento di Roma nei confronti di Tripoli non deve essere però stato digerito da al-Serraj e dall’asse islamista. I rischi di un sostegno italiano ad al-Serraj erano ampiamente prevedibili ed erano già stati evidenziati da tempo su InsideOver. È pur vero che l’Italia ha numerosi interessi nell’area occidentale della Libia, interessi che vanno dalle installazioni petrolifere e ai gasdotti fino al controllo delle coste e all’ospedale militare di Misurata. È però altrettanto vero che forse schierarsi con al-Serraj portando contemporaneamente avanti la retorica della “mediazione nell’interesse del popolo libico” non ha certo portato buoni risultati. Oggi, allinearsi con Ankara e al-Sarraj implicherebbe il voler politicamente sdoganare milizie islamiste non esattamente “moderate” e allinearsi con attori che sostengono quell’islamismo radicale con il quale non è certo il caso di andare a braccetto. In aggiunta, se ieri si avvisava che i turchi stavano trasferendo i jihadisti del conflitto siriano a poche miglia dalle coste italiane, oggi ci si trova a ricevere gli avvertimenti di Erdogan, mentre nel frattempo vengono lanciati allarmi su jihadisti già giunti in territorio italiano. La presenza turca in Libia occidentale, oltre che corpo estraneo al contesto, non fa altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco e se prima la parte occidentale del Paese era teatro di oligopoli e scontri interni tra le varie milizie pro-Serraj, adesso sono arrivate anche le katiba jihadiste dalla Siria e la lunga mano di Erdogan a peggiorare la situazione. A questo punto è veramente difficile sostenere Tripoli e del resto le premesse al disastro c’erano tutte e da tempo.
Crisi in Libia, quanto manca Craxi unico premier con una visione internazionale. Margherita Boniver il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nessuna riabilitazione per Bettino Craxi. A vent’anni dalla sua morte in Tunisia, questa considerazione continua ad affollare i miei pensieri. Eliminata brutalmente la prima Repubblica per via giudiziaria selettiva, abbattuta la cosiddetta Seconda con la demonizzazione del Cavaliere Nero Silvio Berlusconi, anche lui colpito da una sentenza con effetti retroattivi, e coadiuvata da buone dosi di veleno marchio Bruxelles, eccoci alle comiche finali verrebbe da dire. Intendiamoci, fa piacere sentire dei ripensamenti e delle ammissioni masticate a mezza bocca da personaggi insospettabili di simpatie socialiste. E possiamo quasi intenerirci a sentire quanto dichiarava Renzi a Tg 2 Dossier l’altra sera, con accenni che sembravano dipingerlo come il prossimo agnello sacrificale. Ma se una riabilitazione deve esserci, e ci sarà, non saranno solo i libri di storia a farne una lettura vigorosa e contemporanea, così come forte, decisionista e a largo spettro è stata la politica del segretario e poi unico presidente del Consiglio socialista. Basti ricordare la sua straordinaria visione della politica mediterranea e internazionale, oggi spesso evocata e rimpianta da un Paese come il nostro alle prese con il groviglio del caos libico. Ma la lista è molto più lunga, e ci arrivano a sprazzi, rompendo la censura dell’oblio, ricordi di un’epoca ormai lontana, di un Italia in pieno boom economico, ma alle prese con grandi contraddizioni. A cominciare dalla sfida al sistema del terrorismo degli anni ‘70 che per un decennio ha insanguinato le cronache con le atroci morti di magistrati, docenti e sindacalisti e che con il rapimento di Aldo Moro sembrava aver raggiunto limiti invalicabili. A questa sfida Craxi dette un eccezionale contributo, prima evitando la presentazione di leggi emergenziali e in seguito adoperandosi, in splendida solitudine, con l’adesione tardiva di Fanfani, per salvare la vita dello statista democristiano. Che venne sacrificata all’altare della politica della fermezza, capitanata da certa stampa assetata di sangue dal Pci e da una Dc mesmerizzata. Senza mai una autocritica a posteriori. Si continua con gli euromissili installati a Comiso, che provocarono enormi manifestazioni di dissenso, probabilmente anche finanziate da fondi sovietici dove il bersaglio era Craxi boia, e che per settimane riempirono le piazze da nord a sud. La vicenda di Sigonella è forse la più nota, e risvegliò in Parlamento e fuori un grande sentimento di dignità nazionale lasciando forse aperta la porta a vendicazioni postume. Ma anche la sua opposizione alla svendita della Sme e la sua contrarietà alla privatizzazione selvaggia del patrimonio industriale pubblico gli fecero schiere di nemici eccellenti. Ma Craxi non venne mai sconfitto politicamente, e avvicinandosi alla fine della sua parabola pubblica si manifestò soprattutto una avversione da parte degli stessi gruppi, giornali ed élite per comodità di lessico che pochi anni dopo si coagularono in identiche formazioni contro Silvio Berlusconi, reo di aver impedito la vittoria di Occhetto. Craxi, come arcinoto, divenne il capro espiatorio di una sarabanda mediatico-giudiziaria, gli venne applicato il teorema “non poteva non sapere”, venne accusato di aver ricevuto fondi irregolari e soprattutto non più amnistiati come in precedenza per il Psi, e divenne il fulcro di una impressionante campagna demonizzatrice che travolse verità e giustizia. Fu costretto dal precipitare di questa violenta e falsa rivoluzione moralista a recarsi in Tunisia dove venne accolto e protetto con rispetto e grande cura. Non venne mai abbandonato dal suo popolo, diversamente da troppi dirigenti del suo partito, che continuarono ad andare a trovarlo ad Hammamet. Nei lunghi dolorosi anni dell’esilio, ricordo innumerevoli delegazioni di socialisti, moltissime provenienti dal Sud. La sua tomba, nella parte cristiana del cimitero tunisino, ogni anno viene visitata da migliaia di persone, che lo ricordano uomo libero morto da uomo libero.
Erdogan: «Stiamo inviando truppe in Libia Entro il 2020 pronti a estrarre gas». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefano Agnoli. Le esplorazioni di Ankara in queste aree con la nave Oruc Reis alla ricerca di nuovi giacimenti. Il generale libico Khalifa Haftar, capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, è disposto a rispettare il cessate il fuoco, malgrado non abbia firmato l’accordo sulla tregua a Mosca. Lo ha dichiarato - secondo quanto riferiscono i media - il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas da Bengasi, dove si è recato per incontrare Haftar in vista della Conferenza di Berlino di domenica, alla quale peraltro il generale ha confermato di voler partecipare. Anche il premier Fayez al-Sarraj del Governo di accordo nazionale libico (Gna) Fayez al Sarraj parteciperà alla conferenza internazionale sulla Libia. La decisione sarebbe scritta in un comunicato del Gna), dopo un incontro avuto dal premier mercoledì sera con «leader politici e militari». Oltre al premier del Gna al Sarraj e al generale Haftar, la Germania ha invitato alla conferenza sulla Libia a livello di capi di Stato e di governo Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Repubblica del Congo, Italia, Egitto, Algeria, nonché rappresentanti di Nazioni Unite, Unione africana, Unione europea e Lega araba. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha lanciato un appello alla Comunità internazionale affinché fornisca «un forte sostegno» alla conferenza, spiegando che la dichiarazione che verrà rilasciata al termine conferenza «ruoterà attorno a sei assi», vale a dire cessazione delle ostilità e cessate il fuoco permanente; attuazione dell’embargo sulle armi; riforma del settore della sicurezza; ritorno al processo politico; riforma economica; rispetto dei diritti umani. Intanto, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan - dopo aver accusato gli Emirati Arabi Uniti di aver fatto fallire l’accordo di cessate il fuoco in Libia - ha annunciato di aver iniziato a inviare truppe a sostegno del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli e ha assicurato che continuerà a usare «tutti i mezzi diplomatici e militari» necessari per promuovere «la stabilità» nella regione. Le parole del capo dello Stato di Ankara arrivano dopo che ieri il quotidiano britannico «The Guardian» ha reso noto che circa 2 mila ribelli siriani sono stati mobilitati dalla Turchia per contrastare l’offensiva su Tripoli dell’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar, intensificatasi a partire dallo scorso dicembre. «Non possiamo accettare altre truppe militari in Libia» questo «è il momento del dialogo e del confronto». Lo ha detto il premier Giuseppe Conte, al termine dell’incontro ad Algeri con il presidente della Repubblica Abdelmadjid Tebboune. Sulla Libia è «il momento del dialogo e del confronto, dobbiamo affidarci al dialogo e alla diplomazia che sono sempre più efficaci delle armi», ha spiegato Conte da Algeri. «Il primo passo è un cessate il fuoco, a questo punto non è importante se formale o sostanziale, l’importante è che questo cessate il fuoco sia duraturo e consenta alle armi del dialogo e del confronto di dispiegarsi a pieno», ha aggiunto Conte. Erdogan ha anche annunciato che la Turchia «concederà le licenze e comincerà le trivellazioni, come previsto dall’accordo con la Libia, nel 2020». In un discorso sulle strategie del governo turco nel 2020, Erdogan ha spiegato che la Turchia comincerà «il prima possibile» a perforare in una zona contesa del Mediterraneo orientale ricca di idrocarburi. Il presidente turco ha spiegato che le perforazioni avverranno nella zona interessata dall’accordo sui confini marittimi firmato a fine novembre tra Ankara e Tripoli.
L'”internazionale” dei Fratelli musulmani in Libia. Giovanni Giacalone su Inside Over il 18 gennaio 2020. L'”internazionale” dei Fratelli musulmani spinge per il sostegno a Fayez al-Serraj e al governo di Tripoli contro l’avanzata del generale Khalifa Haftar e questo è un dato di fatto sempre più evidente, a partire dall’accordo sul sostegno militare firmato a dicembre tra Sarraj e Recep Tayyip Erdogan. Ankara ha già trasferito centinaia e centinaia di tagliagole precedentemente attivi in Siria e appartenenti a gruppi come Sultan Murad, la brigata Mutassim, la divisione Hamza, al-Jabha al-Shamiyyah, Aylaq al-Sham e Suqour al-Sham. Questi combattenti siriani riceverebbero 1500 dollari al mese e sarebbe stata garantita loro la cittadinanza turca alla fine dell’avventura, come illustrato ieri su ilGiornale. La Turchia era già stata presa in castagna più volte mentre inviava mezzi militari e “consiglieri” a Misurata e a Tripoli e non ha mai fatto nulla per nasconderlo. Si tratta dopotutto della medesima strategia precedentemente messa in atto in Siria, quando i turchi sostenevano e supportavano jihadisti e tagliagole vari per combattere contro Bashar al Assad. Il fallito golpe contro Erdogan dell’estate 2016 ha però costretto Ankara ad allinearsi maggiormente con Mosca, abbandonando così il progetto di rovesciare Assad per instaurarvi un esecutivo “amico”. Con tale allineamento, il margine d’azione di Erdogan è stato così ampiamente ridimensionato all’intervento militare contro i curdi nella zona di confine con la Siria. L’altra zona con rimasugli di presenza di jihadisti e gruppi filo-turchi, la sacca di Idlib, è oramai in procinto di cadere e non è certo un caso che è proprio da qui che sono partiti molti dei jihadisti ricomparsi in Libia, come sottolineato anche da re Abdallah di Giordania durante un’intervista al canale francese France 24.
Il ruolo di Ennahda e del Qatar. Oltre alla Turchia, a dar manforte ad al-Sarraj c’è anche il Qatar. Ankara e Doha sono infatti tra i più importanti sostenitori dei Fratelli musulmani, un’organizzazione islamista radicale messa al bando da Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Siria e Russia. È proprio dal Qatar che il leader spirituale della Fratellanza, Yusuf Qaradawi, invocava il jihad in Siria contro Assad.
A fine dicembre, Erdogan aveva proposto di invitare anche il Qatar alla conferenza di Berlino sulla crisi libica, una richiesta fin’ora rimasta inascoltata, viste le recenti lamentele di Doha che ha reso noto di contare sull’azione turca. Un altro elemento d’interesse è la visita a sorpresa ad Ankara, lo scorso 11 gennaio, dello “speaker” del parlamento tunisino nonché leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi, dove ha incontrato Erdogan. Un viaggio che non è piaciuto a gran parte dei parlamentari tunisini che hanno anche chiesto chiarimenti allo speaker. Ghannouchi ha risposto indicando che la visita era di stampo prettamente “personale” e programmata da tempo. Ennahda è notoriamente l’espressione tunisina di quell’islamismo politico legato all’area Fratelli musulmani e Ghannouchi ne è leader storico. Sono in molti, all’interno dell’Assemblea tunisina, a ritenere che il leader si sia recato da Erdogan per discutere il sostegno a Sarraj, anch’egli legato all’area Fratelli. I motivi di tanto interesse per i Fratelli musulmani nei confronti della Libia è dovuto a più fattori: in primis bisogna tener bene a mente che la questione libica è plausibilmente l’ultima “spiaggia” per la Fratellanza che, dopo una rapida ascesa spalleggiata dall’amministrazione Obama durante le cosiddette Primavere arabe, è andata incontro a una pesante disfatta, forse la peggiore della sua storia. In Egitto l’esecutivo “democraticamente eletto” e guidato da Mohamed Morsi ha dimostrato ben poco di democratico ed è crollato dopo appena un anno per mano di una rivolta popolare sostenuta dall’esercito. In Tunisia, Ennahda, dopo un’iniziale ascesa, si è notevolmente ridimensionata in un Paese da sempre di stampo laico. In Siria il tentativo di rovesciare Assad non è riuscito e la Fratellanza ha visto tramontare le speranze di una potenziale ascesa al potere. Nel frattempo l’organizzazione islamista veniva messa al bando anche da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Ai Fratelli Musulmani restano Turchia (non certo esempio di democrazia e tolleranza) e il Qatar; sostenere Sarraj diventa dunque una questione quasi di vita o di morte per gli islamisti. Bisogna poi tener presente che la Tripolitania è strategica non soltanto per le installazioni petrolifere e i gasdotti, ma anche per tutta la questione legata alle partenze di immigrati irregolari. Erdogan potrebbe così ricattare l’Europa, minacciando di “aprire il rubinetto”, come già fatto con la rotta balcanica del resto.
Il fiasco italiano. Per quanto riguarda l’Italia, la cosa più idonea in questo momento è evitare qualsiasi tipo di intesa con Ankara e ritirare il sostegno ad al-Serraj e non è difficile capirne il motivo: l’alleanza che lo sostiene ha una chiara continuità con quell’islamismo radicale che, almeno in teoria, si sostiene di voler contrastare. Insomma, potrebbe essere molto imbarazzante per l’Italia trovarsi dalla stessa parte di Turchia e Qatar affianco ad al-Serraj, soprattutto quando tra le file delle milizie a suo sostegno emergono taglia-gole già utilizzati in chiave anti-Assad e personaggi come Mohammed Mahmoud Ben Dardaf, terrorista ricercato dal governo della Libia orientale per l’assalto al consolato statunitense di Bengasi, avvenuto tra l’11 e il 12 settembre 2012, nel quale rimaneva ucciso l’ambasciatore statunitense Chris Stevens. Il jihadista era impegnato nelle forze fedeli a Sarraj, precisamente nelle file della brigata Somoud e veniva centrato nel maggio 2019 da un missile anticarro “Kornet” di fabbricazione russa. Il gruppo jihadista “Ansar al-Sharia” aveva successivamente pubblicato messaggi di cordoglio per la morte di Ben Dardaf attraverso alcuni profili social. La strategia italiana del sostegno ad al-Sarraj è apparsa evidente fin dagli inizi della crisi libica, spesso accompagnata dalla retorica della mediazione “nell’interesse del popolo libico” e in accordo con l’esecutivo “legittimamente riconosciuto dall’Onu”. Del resto l’Italia ha numerosi interessi nell’area occidentale della Libia che vanno dalle installazioni petrolifere e ai gasdotti fino al controllo delle coste e all’ospedale militare di Misurata. Le dinamiche sul terreno sono però cambiate nel frattempo e a dirla tutta, non era neanche difficile a suo tempo intuire che il sostegno a Tripoli sarebbe risultato fallimentare, come già esposto a suo tempo da InsideOver, per diversi motivi:
Il governo di al-Sarraj non gode del sostegno di un vero e proprio esercito, nessuna forza compatta, ma piuttosto una galassia di milizie di diversa estrazione (islamisti legati alla Fratellanza, salafiti, signori della guerra, ex membri dell’esercito libico, rivoluzionari etc…) tenuti insieme solamente da interessi particolari di tipo politico ed economico-finanziario. Non certo i partner migliori per puntare a una stabilizzazione del Paese. Vale poi la pena chiedersi se sia Sarraj a controllare le milizie o se non siano invece le milizie a controllare lui, visto che sono proprio loro a garantire la sua sicurezza e il funzionamento del suo governo, cosa che gli esecutivi occidentali sanno molto bene. C’è poi tutto l’aspetto legato alla componente islamista che include non soltanto combattenti dei Fratelli Musulmani, ma anche jihadisti di gruppi come Ansar al-Sharia e Isis, come illustrato da un recente pezzo di Speciale Libia: “Dopo la ricomparsa al fianco delle milizie di Tripoli di Adel al-Rubaie, fanatico della Shura dei Mujahideen e membro di Ansar al-Sharia fuggito in Cirenaica, al fronte contro l’Lna sono scesi in campo anche Issa al-Busti, originario di Souq al-Juma, noto per la sua partecipazione ad attacchi terroristici in Cirenaica da parte di cellule collegate ad Ansar al-Sharia…Inoltre è stata confermata la presenza al fronte del terrorista Massoud al-Akouri, noto anche come Masoud al-Azari”. Oggi, sostenere Ankara e al-Sarraj implicherebbe allinearsi con attori che sostengono quell’islamismo radicale con il quale non è certo il caso di andare a braccetto e porterebbe anche al tentativo di sdoganamento politico di certe milizie islamiste non esattamente “moderate”, a poche miglia dalle coste italiane. Non va inoltre sottovalutata la situazione interna in Turchia. Per quanto tempo Erdogan e il suo entourage riusciranno ancora a mantenere il potere in un momento non proprio brillante per il Paese? Una bella incognita. Insomma, si rischia l’ennesimo fiasco, dopo quello già ottenuto e l’Italia farebbe bene a ponderare attentamente prima di giocarsi le ultime carte, ammesso e concesso che non sia troppo tardi.
Edward Luttwak, atto di accusa al Pd: "L'Italia ha le capacità militari per dominare la Libia". Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. «Si può permettere di arrivare alla bomba atomica a uno Stato che ammette di aver abbattuto un Boeing carico di passeggeri per errore? Ovviamente, no». Polemologo, politologo, saggista e economista consulente del governo di Washington, Edward Luttwak è famoso non solo per i suoi studi sulla "grande strategia" degli Imperi Romano e Bizantino, dell' Urss e della Cina, ma anche per il suo linguaggio diretto.
«Né gli Stati Uniti né Israele lo permetteranno mai. In ciò non c' è differenza tra Obama e Trump, anche se Obama ha sperato di poter tenere lontano l' Iran dalla bomba non solo con la forza, ma anche attraverso l' accordo. Comunque entrambi lo hanno detto in maniera ufficiale. Il governo israeliano non lo ha invece mai detto in modo così solenne, ma c' è stata comunque una dichiarazione del capo del Mossad davanti alla Knesset».
In compenso, l' Europa sembra credere ancora all' accordo sul nucleare.
«Un accordo che in realtà permette sostanzialmente all' Iran di fare quello che gli pare. Ma i governi dei Paesi europei, incluso quello del Regno Unito, si attaccano a un vestito della politica sotto il quale non c' è più niente».
Debolezza militare?
«Niente affatto. I Paesi europei le armi le hanno, e le sanno pure usare. Le stesse Forze Armate italiane potrebbero suonarle sia all' Iran che alla Turchia. Ma per usare una forza militare al servizio dell' interesse nazionale bisogna avere coesione nazionale. L' Italia ha la capacità militare per dominare la Libia: le basterebbe spostarvi le truppe che ha ora in Kosovo o in Afghanistan. Ma non ha la coesione politica per farlo. Il potere di ogni Stato dipende dalla sua capacità militare ed economica, moltiplicata per la coesione nazionale necessaria a utilizzarla. Mille portaerei per zero coesione fanno zero».
E ora che succede in Iraq?
«Quando gli americani hanno rimosso Saddam hanno creato le condizioni per cui la maggioranza sciita determinasse il futuro del Paese, ma adesso questa maggioranza sciita è scesa in piazza per chiedere la fine dell' influenza iraniana. La cosa più probabile è che alla fine se ne vadano tutti. La presenza militare occidentale, in effetti, era per affrontare l' Isis».
Il governo italiano continua però vedere l' Iran sciita come un alleato proprio contro l' Isis.
«Gli interessi italiani in Iraq non sono forti come quelli che ci sono in Libia, che in pratica è stata creata dal colonialismo italiano. E vediamo che dove c' è l' ospedale militare italiano i militari italiani assicurano in quella zona stabilità e sicurezza per tutti. L' Italia è l' unico Paese a conoscere la Libia abbastanza da poterla stabilizzare. Però deve avere la volontà di farlo».
E se l' Iran adesso blocca lo Stretto di Hormuz per far salire i prezzi del petrolio?
«Se si vuole suicidare, può fare questo e altro. L' Iran utilizza una retorica altisonante, ma la verità è che i suoi militari e le sue milizie sono capaci solo di massacrare civili disarmati. Nelle proteste dello stesso Iran come in Siria. Però ogni volta che si sono scontrati con gli israeliani le hanno prese».
Trump però era stato eletto per ritirarsi. E invece sta riportando una forte presenza Usa nel mondo.
«Trump ha promesso che un giorno lascerà l' Afghanistan e lo farà, nel momento in cui potrà farlo. Pensa che nei Paesi islamici sostanzialmente non si possa fare niente. Vuole invece confrontarsi con la Cina, che però ormai è abbastanza contenuta da una alleanza di cui fanno parte India, Giappone, Vietnam, Australia. Non solo i Paesi ma anche i leader: Trump è riuscito a stabilire un forte rapporto personale con Modi e Abe, cosa che non era riuscita a Obama».
Intanto la Libia va verso una spartizione tra Turchia e Russia.
«Ripeto, la Turchia è un Paese con bassissima capacità militare. E per arrivare in Libia deve poi volare sopra due Paesi che essa stessa ha deciso di fare nemici: Israele ed Egitto. Quindi è debolissima in Libia. Vi agisce perché altri non fanno niente».
Il 3 novembre si tengono le prossime presidenziali. L' esito sarà influenzato dai problemi internazionali?
«La gente vota soprattutto su base economica e emotiva, e meno del 30% della popolazione americana ha un passaporto. La politica internazionale la seguono quattro gatti, e nessuno dei candidati manifesta un vero interesse».
Maurizio Stefanini
Alessandro Da Rold per “la Verità” il 15 gennaio 2020. Prende il via il mese caldo di audizioni del Copasir, comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, con l' audizione del generale Luciano Carta, il numero uno dell' Aise, il nostro spionaggio internazionale. Quella di ieri è stata la prima giornata di lavori a palazzo San Macuto, incentrata soprattutto sulle regole di ingaggio dei nostri militari all' estero, nello specifico Libia (250 soldati) e Iraq (900), dopo due settimane di forti tensioni in Medio Oriente, dalla morte del generale iraniano Qasem Soleimani fino alla «tregua» di Mosca tra il governo di Tripoli di Fayez al Serraj e il generale della Cirenaica Khalifa Haftar. Oggi si continua con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma nei prossimi giorni saranno sentiti anche il direttore dell' Aisi (controspionaggio) Mario Parente e quello del Dis, Gennaro Vecchione. Nelle prossime settimane, come già anticipato il mese scorso dal presidente Raffaele Volpi, saranno sentiti anche i tecnici di Mef, Banca d' Italia e Consob su possibili scalate estere su nostri asset economici strategici, come Unicredit e Generali, dopo l' uscita di Jean-Pierre Mustier da Mediobanca. I nostri interessi economici e militari sono i dossier più importanti del 2020, pensando anche all' impegno dell' Eni nel contesto libico. Tra gli interrogativi posti ieri dai nostri parlamentari a Carta c' è stata soprattutto la sicurezza dei nostri militari in Libia. Il tema è di stretta attualità dopo che proprio Conte, a margine dell' incontro con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, ha parlato del possibile invio di militari a Tripoli solo «in condizioni di sicurezza». La situazione in Libia è più che mai complessa per gli italiani. La nostra intelligence si adopera troppo in diplomazia parallela e ha smesso di fare attività sul campo. Anzi, stando a fonti diplomatiche, si parla diffusamente di un crescente sentimento «anti italiano». Del resto alla fine dell' estate del 2018 sui muri di Tripoli comparvero persino delle scritte contro i nostri servizi segreti e contro Giovanni Caravelli, vicedirettore dell' Aise, il generale che ha preso in mano il dossier dopo l' uscita di scena dell' ex direttore Alberto Manenti. Non solo. Durante l' audizione del direttore dell' Aise si è parlato di un presunto attacco hacker all' account twitter della nostra ambasciata a Tripoli. Nei giorni scorsi aveva messo un like a un post dell' Esercito di liberazione nazionale (Lna) di Haftar per poi rimuoverlo e smentire «ogni forma di approvazione a comunicazioni di terzi attribuita nelle scorse ore». Secondo quanto riportato dal giornale online Startmag, Carta avrebbe discusso anche di «reti di comunicazione con eventuali infrastrutture tecnologiche cinesi o Stati occidentali» ma «senza un reale coordinamento Nato». Si tratta di un' affermazione che sarebbe stata riferita a Vivendi, azionista francese di Telecom, il nostro colosso nelle telecomunicazioni che controlla Telecom Sparkle, ovvero il traffico dati che transita dai cavi nel Mediterraneo. Sullo sfondo delle audizioni al Copasir resta poi aperta la partita per la nomina dell' inviato speciale in Libia. La partita sarebbe tra l' ex ministro degli Interni Marco Minniti e Giampiero Massolo, ex direttore del Dis e attuale presidente dell' Ispi. Proprio in una recente intervista a Formiche, Massolo invitava il nostro Paese a stringere accordi con la Francia nel contesto libico. Si tratterebbe di un approccio diverso rispetto a quello degli anni passati, risultato delle politiche proprio di Minniti.
Michele Arnese per startmag.it (di ieri) il 15 gennaio 2020. Si è tenuta stamattina l’audizione del direttore dell’Agenzia Informazioni per la Sicurezza esterna (Aise), generale Luciano Carta, nell’ambito del programma avviato dal Copasir (Comitato parlamentare di sicurezza della Repubblica). Non si è parlato soltanto di rischi di scalate estere per le imprese italiane ritenute strategiche. In primo piano anche la Libia. Infatti, secondo la ricostruzione di Start, si è esplicitamente parlato della sicurezza effettiva dei nostri militari tra Irak e Libia. Qual è il quadro geografico degli investimenti a rischio e l’instabilità mediterranea che potrebbero incidere sull’Italia?, è stata in sostanza la domanda che ha accomunato diversi interventi. Qual è la sicurezza effettiva dei nostri militari a Misurata? Ci sono state pressioni sulle milizie di Haftar tramite i russi? Questi alcuni degli interrogativi. Si è anche approfondita la prosecuzione delle operazioni estrattive e commerciali Eni connesse alla sicurezza. Riferite anche rassicurazioni giunte da parte della compagnia statale libica NOC i cui introiti alimentano la banca centrale libica controllata dal governo di Tripoli. Discusso anche un fatto inedito e preoccupante: un attacco hacker ha fatto sì che gli account social dell’ambasciata italiana a Tripoli abbiano espresso plauso e sostegno alle avanzate dell’Esercito di Haftar. Tanto che ad esempio l’account Twitter dell’ambasciata ha prima smentito l’appoggio e poi di fatto è stato congelato. Il tema tlc ha fatto capolino quando Carta ha parlato di reti di comunicazione con eventuali infrastrutture tecnologiche cinesi o Stati occidentali ma “senza un reale coordinamento Nato”. Per alcuni parlamentari il riferimento era alla Francia. Dunque a Vivendi, azionista di Tim che controlla i cavi di Telecom Italia Sparkle? Toccato anche il tema Cina nel giorno in cui il Sole 24 Ore ha dato conto di una notizia che riguarda il porto di Venezia: lo scalo ha dovuto dire addio alla linea diretta di trasporto container con la Cina e il Sudest asiatico. “La decisione è stata presa da Ocean Alliance, la compagine formata dalle compagnie Cma-Cgm, Cosco Shipping, Evergreen e Oocl, ed è legata al fatto che Venezia non dispone più di pescaggi adeguati a consentire la navigazione delle grandi portacontainer destinate al servizio Aem6, che collega appunto Shanghai (e altre città asiatiche, compresa Singapore) con la Laguna”, si legge oggi sul Sole. Il terminal portuale di Vado Ligure è finto sotto la lente d’ingrandimento durante l’audizione perché non si farebbe abbastanza per limitare — secondo quanto emerso dalla riunione-audizione — la penetrazione in servizi commerciali e finanziari che finiscono per portare vantaggi a Pechino.
L'Italia ha perso la Libia. Il fallimento della missione del Ministro degli Esteri Di Maio è la prova della inadeguatezza personale e del Governo. Fausto Biloslavo il 7 gennaio 2020 su Panorama. L’Italia è riuscita a perdere la Libia che sta scivolando verso un’escalation del conflitto pronto ad esplodere in una guerra più ampia con il coinvolgimento sul terreno della Turchia dalla parte del governo di Fayez el Serraj e degli egiziani al fianco del generale Khalifa Haftar. L’inetto ministro degli Esteri, Luigi di Maio, è rimasto come da copione con il cerino in mano. Il leader 5 stelle si era fatto portavoce di una missione europea, che doveva arrivare a Tripoli come panacea i tutti i mali, ma non è mai partita. Le truppe di Haftar hanno ripetutamente bombardato l’aeroporto Mittiga rendendo impossibile un atterraggio nella capitale. L’alternativa era Misurata, la Sparta libica, che ha minacciato proteste violente soprattutto contro il ministro degli Esteri francese accusato di appoggiare l’uomo forte della Cirenaica. I notabili della città guerriera hanno anche attaccato l’Italia per i suoi tentennamenti. Alla fine il governo Serraj ha avuto gioco facile a cancellare la visita, forte del patto di ferro con Ankara per l’invio di un contingente turco, che ha già mandato avanti le prime avanguardie. Di Maio, dopo la riunione di emergenza odierna a Bruxelles, ha partorito il solito topolino annunciando che da “domani l’Europa prenderà iniziative importanti sulla Libia. Bisogna parlare con tutti gli interlocutori, convincerli al cessate il fuoco”. Sarà duro farlo a parole, in nome della diplomazia e della più volte rimandata conferenza di pace di Berlino mentre sul terreno si spara e si combatte una guerra per procura con evidenti interessi e coinvolgimenti militari stranieri di una nutrita schiera di paesi. Ad un certo punto sembrava che la proposta europea fosse l’imposizione di una no fly zone, che non piace ai russi e serve a poco oltre ad aver bisogno di tempo per diventare operativa. L’unica soluzione concreta sarebbe una forza di interposizione fra i contendenti a cominciare dal fronte di Tripoli per garantire un vero cessate il fuoco e costringere Serraj e Haftar a sedersi attorno ad un tavolo per negoziare la pace con un accordo sul futuro del paese. Nessuno, però, vuole rischiare i propri scarponi sul terreno, a parte i turchi del “sultano” Erdogan, che hanno già deciso l’invio di un contingente di 5000-6000 uomini. Se non rimarrà solo uno spauracchio gli egiziani potrebbero muovere i carri armati in Cirenaica in difesa di Haftar. Nel frattempo hanno iniziato manovre navali imponenti per mostrare i muscoli ad Ankara nel Mediterraneo. E l’8 gennaio sono convocati al Cairo i rappresentanti di Francia, Grecia e Cipro, il fronte anti turco con l’adesione all’ultimo minuto dell’Italia. In realtà nelle stesse ore il destino della Libia potrebbe essere deciso all’inaugurazione del gasdotto Turkstream da parte di Recep Tayyip Erdogan e del presidente russo, Vladimir Putin. Il “sultano” e lo “zar”, che il giorno prima ha fatto tappa a Damasco potrebbero spartirsi l’ex regno di Gheddafi. “Bisogna capire bene cosa vogliono fare turchi e russi, ma il paese rischia la sua unità” spiega una fonte diplomatica immersa nel dossier libico. La Cirenaica andrebbe per conto suo rimanendo nella mani di Haftar che si è spinto fino a Sirte, fra avanzate e ritirate, controllando il forziere petrolifero del paese. La Tripolitania con il gas resterebbe a Serraj difeso dalla baionette di Misurata e quelle turche, se necessario. La Libia fondata dagli italiani dopo aver sconfitto gli ottomani nel 1911 si dissolverebbe nel nulla. Anche se non ci fosse la divisione si sta profilando la peggiore Caporetto geopolitica della storia repubblicana. L’incapacità politica nel giocare una partita internazionale dove è necessario mostrare i muscoli mette a rischio anche il nostro contingente, del tutto inutile in questa situazione di crisi. Negli ultimi mesi i 300 uomini di difesa dell’ospedale militare all’aeroporto di Misurata hanno dovuto scavare un dedalo di bunker per ripararsi da una dozzina di attacchi aerei di Haftar sullo scalo. Pochi giorni fa è stata bombardata dal generale una base della milizia Nawassi a 500 metri da nave Pantelleria della Marina militare ormeggiata a Tripoli per aiutare la Guardia costiera nel contrasto dell’immigrazione clandestina.
Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 15 Gennaio 2020. Il risultato del vertice di Mosca è una nuova offensiva su Tripoli del generale Khalifa Haftar. Le minacce del presidente turco Recep Tayyp Erdogan, che intende impartirgli «la lezione che si merita» e lo accusa di «pulizia etnica», non scompongono l' uomo forte della Cirenaica. Da ieri, le truppe dell' Esercito Nazionale Libico e i mezzi militari forniti dagli Emirati Arabi Uniti si sono ammassati nei pressi della cittadina di Tarhunah, in vista di un nuovo assalto alle linee difensive del Governo di Accordo Nazionale. I combattimenti proseguono a Salah al-Din e Ain Zara, quartieri della capitale, i cui cieli sono sorvolati da caccia dell' Esercito Nazionale Libico, anche se, formalmente, il cessate-il-fuoco entrato in vigore domenica in Libia resta in vigore a tempo indeterminato, nonostante il rifiuto di Haftar di siglare un accordo formale con Tripoli. Il ministero della Difesa russo, per mascherare il fallimento dei colloqui, assicura in una nota che durante i colloqui promossi dalla Russia è stato raggiunto «un accordo di principio tra i belligeranti per mantenere e prolungare la cessazione delle ostilità a tempo indeterminato». Comunque, Haftar si prende altre 48 ore e dichiara di dover consultare le tribù sui negoziati. Intanto prosegue l' avanzata, alzando la posta in gioco in vista del 19 gennaio, data fissata ieri per la conferenza di pace di Berlino. Saranno ospiti della Germania il premier di Tripoli Fayez al-Sarraj, sia Haftar. Sono stati invitati anche i rappresentanti di Stati Uniti, Russia, Italia, Regno Unito, Francia, Cina, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto, Algeria, Repubblica del Congo (in quanto presidente del Comitato di Alto livello dell' Unione Africana sulla Libia) e poi Nazioni Unite, Unione Europea, Ua e Lega Araba. Fra i partecipanti, alcuni sono bravi a chiacchierare. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, hanno «concordato di intensificare gli sforzi congiunti per sostenere una soluzione politica inclusiva» e tale da «ripristinare la stabilità in Libia» e sostenere «le istituzioni nazionali mantenendo l' integrità e la sovranità territoriale e le risorse del Paese». Altri, meno loquaci, come gli Emirati Arabi Uniti pensano piuttosto a rifornire di uomini e armamenti i due contendenti. Vanificare tanto sforzo bellico con una prospettiva di tregua non rientra nemmeno nei piani di Parigi. «Le iniziative europee di peacekeeping in ambito militare e diplomatico potrebbero essere impedite proprio dai francesi, la cui vicinanza ad Haftar è nota», spiega a Libero Michela Mercuri, docente di Geopolitica del Mediterraneo all' Università Niccolò Cusano e alla Sioi di Roma. «Si parla in questi giorni di una forza d' interposizione, ma il suo esito dipende da un elemento destabilizzante come Parigi, in grado di disturbare il processo». Se non vi saranno ostacoli sul campo di battaglia, è lì che si deciderà il destino della Libia, spiega a Sky News Arabya Khaled Al Mahjoub, ufficiale dell' Lna: la «soluzione militare» è finalizzata a «eliminare le milizie» presenti nel Paese e a «creare lo Stato libico».
Haftar lancia appello ai libici: “Jihad contro l’intervento turco in Libia”. Redazione de Il Riformista il 4 Gennaio 2020. Khalifa Haftar incita la popolazione alla “mobilitazione generale” e alla “jihad” contro un eventuale intervento militare turco in Libia a sostegno del Governo di accordo nazionale. Il generale che ha lanciato dal 4 aprile scorso la campagna per la presa di Tripoli, ha aggiunto durante un discorso in Tv: “Accettiamo la sfida e dichiariamo la guerra santa islamica e la mobilitazione generale”. Intanto il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha messo in guardia la Turchia (senza farne esplicita menzione) dall’invio di truppe in Libia: “Qualsiasi sostegno straniero alle parti in guerra” nel Paese, ha affermato, “non farà che aggravare il conflitto e complicare gli sforzi per una soluzione pacifica”. Guterres ha sottolineato in un comunicato che “le continue violazioni dell’embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza non fanno che peggiorare le cose”. In un recente rapporto, gli esperti Onu incaricati di controllare l’applicazione dell’embargo, instaurato nel 2011, hanno rilevato violazioni sia da parte della Turchia (a favore del Governo di accordo nazionale) sia da parte di Giordania ed Emirati Arabi Uniti (a favore del maresciallo Haftar). “Un rigoroso rispetto dell’embargo è essenziale per creare un contesto favorevole alla cessazione delle ostilità”, ha dichiarato Guterres, rinnovando l’appello “a un cessate il fuoco immediato in Libia e a un ritorno a un dialogo politico da tutte le parti”.
La condanna dell’Egitto per la decisione del Parlamento turco. Il Cairo da tempo appoggia il generale Khalifa Haftar che da aprile sta cercando di conquistare Tripoli. Giovanni M. Jacobazzi il 5 gennaio 2020 su Il Dubbio. L’Egitto “condanna, nei termini più forti” il “passo del Parlamento turco” con cui è stato deciso di “inviare forze turche in Libia”. Lo ha affermato questa settimana il ministero degli Esteri egiziano. Il Cairo da tempo appoggia il generale Khalifa Haftar che da aprile sta cercando di conquistare Tripoli. Una reazione dura che contrasta con il silenzio dei Paesi europei. Con l’approvazione del dispiegamento di truppe in Libia da parte del parlamento, la Turchia di Erdogan ha ufficializzato la “militarizzazione”, in corso da mesi, della propria politica estera nel Mediterraneo. Fin dallo scorsa primavera Ankara fornisce soldati e uomini dell’intelligence, armamenti e droni alle milizie che supportano il Governo di Accordo Nazionale (Gna) presieduto da Fayez Al Sarraj a Tripoli, nello scontro con l’Esercito Nazionale Libico (Lna) guidato da Khalifa Haftar, che fa capo al governo di Tobruk. La recente offensiva che ha consentito all’Lna di conquistare nuovi territori a sud della capitale, grazie al crescente sostegno militare offerto ad Haftar dalla Russia in coordinamento con Egitto ed Emirati Arabi Uniti, ha spinto Erdogan a effettuare un salto di qualità nel suo impegno al fianco di Al Sarraj, con il quale ha siglato un patto di sicurezza. In tal modo Erdogan ha posto il Gna sotto la protezione turca per garantire la sopravvivenza di Al Sarraj, probabilmente nell’ottica di un accordo con l’Lna e Haftar mediato con Vladimir Putin, a garanzia di un ruolo preminente sia di Ankara che di Mosca nel futuro della Libia.Non sarà facile però trovare una sintesi che favorisca la fine delle ostilità: come far accettare, infatti, ad Egitto ed Emirati Arabi Uniti la possibilità che i Fratelli musulmani continuino ad avere un ruolo rilevante in Libia? Per i governi del Cairo e Abu Dhabi, i Fratelli musulmani sono un’organizzazione terroristica, mentre le fazioni, i leader politici e i gruppi armati riconducibili alla Fratellanza esercitano una forte influenza sul Gna e Al Sarraj, con l’appoggio della Turchia e in maniera più defilata del Qatar, i due grandi sponsor dell’organizzazione transnazionale islamista. Da queste dinamiche, i Paesi occidentali continuano ad essere distaccati. Gli Stati Uniti, infatti, sono concentrati prevalentemente sul versante iraniano, vedasi il raid ordinato da Trump e costato la vita al generale Suleimani. Francia, Italia, Germania e Gran Bretagna, in continuo disaccordo fra loro, stanno lasciando, come detto, campo libero a Turchia e Russia.L’Italia, in particolare, è appiattita sin dall’inizio sul sostegno al Gna e ad Al Sarraj. Ciò ha reso problematica l’interlocuzione con Haftar, malgrado i tentativi effettuati da Giuseppe Conte con la conferenza di Palermo e da Luigi Di Maio con la recente visita a Bengasi. In prospettiva, per la cura e la soddisfazione dei propri interessi economici, energetici e di sicurezza, concentrati principalmente in Tripolitania, l’Italia corre il rischio di dover chiedere aiuto ad Ankara, le cui ambizioni neo-ottomane, mai nascoste di Erdogan, si stanno estendendo in maniera aggressiva a tutto il Mediterraneo.In tale ottica, di riavere cioè da parte turca il predominio nel Mediterraneo, Tripoli avrà il ruolo di avamposto della rinnovata egemonia di Ankara in Nord Africa e nell’Europa del sud. L’Italia è il Paese europeo più esposto al disegno geopolitico di Erdogan, di cui parte integrante è la promozione del fondamentalismo dei Fratelli musulmani. Nulle le reazioni al riguardo da Roma e da Bruxelles.L’Italia e il resto dei Paesi europei continuano, infatti, a legittimare il Gna di Al Sarraj, ormai legato mani e piedi alla Turchia, come il governo libico riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale sulla falsariga dell’Onu e con l’acquiescenza di Nato e Stati Uniti. In estrema sintesi, nessuno pare in grado, al momento, di contrastare efficacemente il Sultano di Ankara.
Sarraj agli europei: “Non venite in Libia”. Salta la missione Ue a guida italiana. La Turchia comincia l’invio graduale delle truppe. Il governo di unità nazionale contrario alla missione Ue. Sull’attacco all’accademia militare a Tripoli accuse all’aviazione di Haftar. Il generale nega: “C’è la mano dell’Isis”. Francesco Semprini il 6 Gennaio 2020 su La Stampa. Il Governo di accordo nazionale libico chiede a Bruxelles di non inviare la propria delegazione a Tripoli per trovare una mediazione politica alla crisi bellica in atto, azzerando di fatto lo sforzo europeo di reinserirsi nel dossier del Paese nordafricano dopo un’assenza di fatto durata oltre un anno. La missione capitanata dall'Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, con protagonisti i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Luigi Di Maio, sarebbe dovuta arrivare domani nella capitale libica ma «questioni di sicurezza» ne rendono l’attuazione complicata, pericolosa. In realtà, spiegano fonti locali, dietro il rinvio c’è il disinteresse da parte del Gna di Fayez al Sarraj di dare spazio trattative diverse da quelle che hanno portato all’accordo tra Tripoli e Ankara con il conseguente supporto militare della Turchia alla Tripolitania. Come dire, «siete arrivati tardi, un alleato già lo abbiamo». La missione europea, del resto, era già nata zoppa avendo registrato la defezione della Francia, da sempre vicina a Khalifa Haftar, tanto che Parigi avrebbe finanche impedito a Di Maio di divulgare un comunicato congiunto di condanna dell’attacco di sabato all’accademia di Tripoli smontando la già fragile architettura europaa messa in piedi a dicembre. E con essa gli sforzi organizzativi della Conferenza di Berlino prevista per la seconda metà di questo mese. Inutili i tentativi di recupero in extremis del ministro Di Maio che ieri ha tentato, inutilmente, di contattare al telefono Sarraj: da Tripoli nessuna risposta. Oltre al fatto che la missione sarebbe stata bersaglio di proteste da parte di attivisti che nella capitale si stanno mobilitando da giorni dinanzi all’estremo tentativo dei Paesi europei. «L’Italia e l’Europa andassero prima da Haftar convincendolo al ritiro, prima di venire qui», spiegano alcuni attivisti dalla capitale. Se Bruxelles e le cancellerie del Vecchio continente rimango al palo, ad accelerare è invece il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il quale ha reso noto che l'invio «progressivo» di soldati turchi in Libia. Il dispiegamento delle truppe verso la Libia è già iniziato e con esso l’inizio di una nuova fase destinata a portare a decisive mutazioni sul campo con i russi protagonisti militari in Cirenaica e cambi di equilibri nel lungo periodo. Lo conferma il precipitare degli eventi sul terreno dove la situazione è sempre più complessa. Dopo la chiamata alla jihad dichiarata da Haftar, assume i contorni di un giallo l'attacco al collegio militare di Hadaba, a sud di Tripoli, un'esplosione - apparentemente provocata da un missile - che sabato sera ha provocato la morte di almeno 28 persone ed il ferimento di altri 18. Cadetti di polizia, ufficialmente, miliziani pro-Sarraj, secondo ambienti filo-Haftar che, in un intreccio di dichiarazioni e smentite, si sono prima attribuite la responsabilità dell'attacco salvo poi negare in un secondo momento un coinvolgimento nel raid, sostenendo che si sia trattato invece di opera dei terroristi di Isis o di Al Qaeda. Il portavoce del generale, Ahmed Al Mismari, ha smentito ha precisato che «l'esplosione ha avuto luogo dall'interno e non dall’esterno» e che tutti gli elementi inducono a pensare a un attentato terroristico contro i cadetti dell'Accademia militare a Tripoli così come era avvenuto per quella a Bengasi. Il governo di Sarraj, sostenuto dalla comunità internazionale, continua invece a ritenere che l'autore dell'attacco sia l'aviazione del generale Haftar sostenuta dagli Emirati Arabi, tanto che Tripoli ha chiesto una riunione d'emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu per discutere delle «atrocità e dei crimini di guerra di Haftar». Il vice premier del Gna, Ahmed Maiteeg ha definito l'attacco «terrorista» e ha promesso la prosecuzione della lotta contro le forze di Haftar. Ovviamente con al fianco l'alleato turco.
Libia, partite le truppe di Erdogan. Il governo Serraj: "Haftar dietro al raid sull'accademia di polizia". Il presidente turco: "L'esercito è lì per garantire un cessate il fuoco, non per combattere". Decine di vittime fra i cadetti nel bombardamento aereo alle porte della capitale. Tripoli e l'Onu lanciano l'accusa al generale che smentisce dopo una prima rivendicazione. Serraj chiede una riunione cel Consiglio di Sicurezza. Vincenzo Nigro il 5 gennaio 2020 su La Repubblica. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato l'avvio del dispiegamento di truppe in Libia a sostegno del governo di Tripoli, sulla base del voto del Parlamento di Ankara del 2 gennaio scorso. I militari hanno iniziato "gradualmente" il dispiegamento, ha spiegato all'emittente televisiva turca della Cnn durante un'intervista. "Il compito dei nostri soldati è il coordinamento. Lì svilupperanno il centro operativo". In Libia "il nostro scopo è di far sopravvivere il governo legittimo" di Fayez al-Sarraj, ha aggiunto, "l'esercito turco è lì per garantire un cessate il fuoco, non per combattere", e per cercare di "evitare tragedie umanitarie". Nel frattempo un portavoce del generale Khalifa Haftar ha rivendicato la responsabilità dell'attacco aereo sull'accademia di polizia di Tripoli, che ha causato la morte di almeno 30 cadetti. "I cadetti di quel college sono miliziani", ha affermato Khaled Al-Mahjoob in una dichiarazione ad Alhurra TV, ripresa dal Libya Observer. Una dichiarazione che è stata poi smentita dal portavoce di Khalifa Haftar in conferenza stampa. La rivendicazione è però coerente con le illazioni già fatte circolare sui siti vicino al generale Haftar, secondo cui nell'Accademia di polizia erano concentrati alcuni dei miliziani siriani che il governo turco avrebbe spostato in Libia per farli combattere dalla parte di Serraj. Quindi non cadetti di polizia, ma combattenti per il Governo di Accordo Nazionale. In risposta all'attacco il Governo di accordo nazionale libico di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale ha chiesto una riunione d'emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite "per discutere delle atrocità e dei crimini di guerra di Haftar". Lo riferisce il Libya Observer. E a Tripoli la stessa missione Onu ha condannato il bombardamento di sabato. Haftar ieri ha chiamato la popolazione alla "mobilitazione generale" e alla "jihad" contro l'eventuale intervento militare turco in Libia a sostegno del governo di accordo nazionale. "Accettiamo la sfida e dichiariamo la guerra santa islamica e la mobilitazione generale", ha detto Haftar in un discorso rimandato dalla rete televisiva al-Hadath. Nelle ultime ore l'aviazione di Haftar ha accelerato il ritmo delle sue operazioni, con un possibile effetto negativo sulla missione diplomatica che il 7 gennaio 4 ministri degli Esteri della Ue, sollecitati dall'italiano Luigi Di Maio, dovrebbero tenere a Tripoli. I ministri di Italia, Francia, Germania e Regno Unito assieme al rappresentante Ue Josep Borrell hanno in agenda una missione che ormai si dovrebbe tenere in una condizione di crisi sempre più intricata. I punti di crisi sono questi: innanzitutto le operazioni militari sono molto pesanti. L'aeroporto di Tripoli è chiuso, da più di 48 ore il generale Haftar lo bombarda, non è chiaro se la sua milizia garantirà una tregua in tempo per effettuare le piccole riparazioni necessarie sulla pista che è stata danneggiata. Inoltre il bombardamento dell'Accademia di polizia è il più grave attacco aereo di Haftar dall'inizio dell'assedio a Tripoli, il 4 aprile scorso. Il generale non riesce a entrare in città, le milizie alleate di Serraj riescono a tenere i suoi mercenari alla periferia. Ma Haftar bombarda pesantemente dall'aria. Oltre a colpire con razzi Grad l'aeroporto "Mitiga" di Tripoli, il generale sabato ha compiuto anche un attacco con droni a una caserma della milizia "Nawasi" all'interno della base navale di Abu Sitta. È la base in cui è ormeggiata la nave della Marina Militare italiana che offre assistenza tecnica alla guardia costiera libica. Secondo elemento: la sfida fra Turchia e Haftar. Proprio sabato il generale ha alzato i toni della sfida politica contro l'annunciato schieramento di soldati turchi dalla parte di Serraj: "Dichiaro jihad, guerra santa contro il colonizzatore ottomano", dice il generale in pensione. È arrivato a sfidare personalmente il presidente turco Erdogan, dicendo "questo stupido sultano turco ha scatenato la guerra in tutta la regione (...) È un colonialista brutale che vede la Libia come un'eredità storica". Terzo elemento negativo: a Tripoli milizie e ambienti politici vicini alla Turchia stanno lanciando manifestazioni e contestazioni anti-italiane e anti-europee. Gli slogan dicono che "è tardi, non ci avete difeso per tempo, adesso è inutile che veniate a Tripoli". A questo si accompagnano le reazioni del Consiglio presidenziale guidato da Fayez Serraj. Il governo di Tripoli dice quello che con realismo nei giorni scorsi in Italia ha detto anche l'ex presidente della Camera Pierferdinando Casini. Ovvero "se la Ue si presenta adesso a Tripoli, dopo mesi di assenza, senza uno straccio di idea politica da proporre al governo Serraj, senza una vera iniziativa, allora il viaggio del 4 ministri è inutile". In ogni caso il ministro degli Esteri Di Maio sta provando a moltiplicare gli sforzi. Innanzitutto, ha deciso di accettare per l'8 gennaio un invito del collega egiziano Sameh Shoukri: al Cairo parteciperà a un incontro a 5 anche con Francia, Grecia e Cipro. Subito dopo Di Maio ha chiesto incontri anche ai suoi colleghi tunisino e algerino. Volerà a Tunisi e Algeri il 9 e il 10 per rimettere la Libia al centro della politica estera italiana nel Mediterraneo. Intanto il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha messo in guardia la Turchia (senza farne esplicita menzione) dall'invio di truppe in Libia: "Qualsiasi sostegno straniero alle parti in guerra" nel Paese, ha affermato, "non farà che aggravare il conflitto e complicare gli sforzi per una soluzione pacifica". Guterres ha sottolineato in un comunicato che "le continue violazioni dell'embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza non fanno che peggiorare le cose". Poi l'annuncio della partenza delle operazioni.
Il lato oscuro del generale Haftar. Mauro Indelicato su Inside Over il 14 gennaio 2020. Tante incognite e mille contraddizioni: il repertorio di Khalifa Haftar è sempre stato caratterizzato da questi elementi. Anche a Palermo, nel novembre del 2018, il generale è stato in grado di attirare su di sé tutta l’attenzione mediatica proprio grazie al suo stile “capriccioso”, non lontano da quello del rais Muammar Gheddafi. Nel capoluogo siciliano Haftar ha prima confermato la partecipazione al vertice organizzato dall’Italia, poi ha smentito questa circostanza ed infine, solo all’ultimo momento, si è presentato pur senza prendere parte alla foto di rito finale. Un “tira e molla” proseguito per tutto il tempo, con continui colpi di teatro. Proprio come accaduto nelle scorse ore a Mosca, con il generale improvvisamente andato via dalla capitale russa senza firmare alcun documento. Ed attirando, su di sé, sia l’attenzione mediatica che le minacce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ma chi è veramente il generale protagonista di queste ore di frenetiche trattative? E come mai si contrappone in maniera così forte ad Al Sarraj?
La fazione salafita a cui appartiene Haftar. Nel giorno dell’Epifania i soldati del Libyan National Army hanno conquistato la città di Sirte, luogo natio di Muammar Gheddafi ma soprattutto località strategica nell’ambito del conflitto in corso nel paese nordafricano. Le forze fedeli al governo di Fayez Al Sarraj hanno subito puntato il dito per questo episodio contro la brigata 604: si tratta, in particolare, di un gruppo interno alle forze di difesa di Sirte considerato però vicino ai salafiti. E soprattutto ad un ramo specifico di questo movimento, quello cioè dei madkaliti. Il gruppo esiste in Libia da diversi decenni, appare diffuso soprattutto nell’est del paese ed è stato tollerato da Gheddafi in funzione anti Fratelli Musulmani. A questa fazione appartiene anche Khalifa Haftar. Ed è uno dei motivi per il quale non solo si sospetta che la brigata 604 abbia “venduto” Sirte al generale della Cirenaica. Ma non solo: l’uomo forte della Libia ha l’appoggio di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti proprio perché vicino a questo ramo del salafismo. Per i Saud in particolare, è una garanzia contro la stessa fratellanza musulmana, acerrima nemica di Riad. Il conflitto dunque, sotto questo profilo, è anche un duello tra due diverse visioni dell’islamismo: da un lato quello dei Fratelli Musulmani, supportato da Turchia e Qatar, dall’altro quello del salafismo madkalita, che ha nell’Arabia Saudita lo sponsor principale dal punto di vista ideologico. Si spiega dunque così uno dei motivi per il quale il generale della Cirenaica appare contrapposto al premier Al Sarraj.
Nessun duello tra “laici” ed islamisti. Il vero problema nel futuro della Libia, è che al momento manca una vera alternativa “laica”: comunque vada, come spiegato in precedenza, si ha a che fare con un duello tra due versioni di Islam. Il tutto rappresenta lo specchio della situazione nel paese, soprattutto dopo la deflagrazione della struttura di potere di Gheddafi. Una società tribale senza più una guida, ulteriormente divisa dal conflitto, non ha potuto dare vita a movimenti o partiti in grado di proporre una visione più moderna del paese. La sfida, diretta e senza esclusione di colpi, è dunque tra l’Islam politico della Fratellanza Musulmana e la fazione salafita dei madkeliti. Haftar, nonostante si presenti spesso in divisa e con la fama di leader anti terrorismo, non è comunque quella “eminenza laica” descritta in questi anni. Sotto questo fronte, la strada per la Libia appare tutta in salita.
Che cos’è la missione italiana Miasit in Libia. Paolo Mauri su Indide Over il 12 gennaio 2020. Miasit, la missione italiana bilaterale di assistenza e supporto in Libia, è intesa a fornire assistenza e supporto al governo di accordo nazionale libico ed è frutto della riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività di supporto sanitario e umanitario previste dall’operazione Ippocrate (terminata il 31 dicembre 2017) e di alcuni compiti di supporto tecnico-manutentivo, tra i quali quelli di ripristino dei mezzi aerei e degli aeroporti libici e interventi a favore della guardia costiera libica, rientranti nell’operazione Mare Sicuro. Miasit ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche ufficialmente riconosciute nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite.
Compiti. La missione ha avuto inizio a gennaio del 2018 e non ha un termine di scadenza predeterminato. I suoi compiti sono:
fornire assistenza e supporto sanitario, garantendo anche la possibilità di trasferire in Italia i pazienti che dovessero richiedere cure altamente specialistiche;
condurre attività di sostegno a carattere umanitario e a fini di prevenzione sanitaria attraverso corsi di aggiornamento a favore di team libici impegnati nello sminamento;
fornire attività di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring a favore delle forze di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, in Italia e in Libia, al fine di incrementarne le capacità complessive;
assicurare assistenza e supporto addestrativi e di mentoring alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza della Libia;
svolgere attività per il ripristino dell’efficienza dei principali assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, funzionali allo sviluppo della capacità libica di controllo del territorio e al supporto per il contrasto dell’immigrazione illegale;
supportare le iniziative, nell’ambito dei compiti previsti dalla missione, poste in essere da altri dicasteri;
incentivare e collaborare per lo sviluppo di capacity building della Libia;
effettuare ricognizioni in territorio libico per la determinazione delle attività di supporto da svolgere;
garantire un’adeguata cornice di sicurezza/force protection al personale impiegato nello svolgimento delle attività/iniziative in Libia.
Il contingente. Il contingente del personale comprende: personale sanitario, unità per assistenza e supporto sanitario, unità con compiti di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring, mobile training team, unità per il supporto logistico generale, unità per i lavori infrastrutturali, unità di tecnici/specialisti, squadra rilevazione contro minacce chimiche/biologiche/radiologiche/nucleari (Cbrn), team per ricognizione e per comando e controllo, personale di collegamento presso dicasteri/stati maggiori libici; unità con compiti di force protection del personale delle aree in cui esso opera. La missione Miasit impiega 130 mezzi terrestri e i mezzi navali del dispositivo aeronavale dell’operazione Mare Sicuro a cui si aggiungono un massimo di 400 uomini. Il fabbisogno finanziario, così come riportato dal Dpp (Documento Programmatico Pluriennale) Difesa 2019-2021, ammonta a 49.012.962 euro di cui 14 milioni per obbligazioni esigibili nell’anno 2020. Il comando di Miasit è affidato a un generale di brigata, attualmente nella persona del generale Alessio Cavicchioli.
Il contesto. Il 17 febbraio 2011 a Bengasi iniziava la sollevazione popolare contro il regime del rais libico, il colonnello Muhammar Gheddafi. Dopo un mese, tale sollevazione assumeva le caratteristiche di una guerra civile e allo scopo di coordinare lo sviluppo delle operazioni, il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) autorizzava la costituzione di un Operations Center in Bengasi. In questo contesto, nell’ambito del più ampio impegno italiano per la risoluzione della crisi libica ed al pari di iniziative similari assunte da altri Paesi (Emirati Arabi Uniti, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Giordania e Qatar) le Autorità politiche nazionali autorizzavano l’invio in Libia di un team di istruttori per supportare il citato Opscenter nel processo di acquisizione di capacità autonome, avviando così il 28 aprile 2011 l’operazione Cirene. Dal mese di settembre 2013 Cirene è stata ridenominata Missione militare italiana in Libia (Mil), mantenendo scopo e finalità della precedente operazione. In tale ambito, il 26 settembre 2013 ha avuto inizio l’operazione Coorte finalizzata all’addestramento di circa 2mila militari libici sul territorio libico e successivamente su quello italiano. L’Operazione ha consentito la formazione iniziale di circa 400 unità libiche, ed è terminata il 30 gennaio 2015. Il 1 gennaio 2018 ha preso avvio la Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (Miasit) che ha integrato in un unico dispositivo, le attività di supporto sanitario e umanitario previste dall’operazione Ippocrate e alcuni compiti dell’operazione Mare Sicuro. La base giuridica di riferimento sono le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu numero 2259, 2312, 2362, 2380 e 2437 che invitano gli Stati membri, singolarmente o nell’ambito di organizzazioni regionali, a cooperare con il governo di accordo nazionale libico e reciprocamente, su richiesta della Libia, nel consolidamento di capacità istituzionali per la difesa dei confini, la prevenzione e la lotta ai traffici illegali di ogni tipo attraverso il proprio territorio e il Mar Mediterraneo. La missione si inquadra nell’ambito delle attività di supporto al governo di accordo nazionale libico, in linea di continuità con l’impegno umanitario assunto dall’Italia in riferimento alla crisi libica. L’operazione è stata anche espressamente richiesta da parte di Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale della Libia con lettera del presidente al-Serraj del 30 maggio 2017, relativa alla necessità di ricevere addestramento in Italia e in Libia a favore delle forze di sicurezza libiche, e del 23 luglio 2017 relativo all’invio in Libia di un sostegno tecnico navale idoneo a fornire aiuto necessario nella lotta all’immigrazione illegale e al traffico di esseri umani. L’Italia ha approvato la missione Miasit con delibera del Consiglio dei Ministri il 28 novembre 2018 e con votazione di approvazione del Parlamento rispettivamente alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 2018 e al Senato il 12 dicembre 2018.
Venti di guerra sulla Libia: arrivano soldati e mercenari. La Turchia ha approvato in Parlamento la mozione per inviare soldati in Libia per sostenere il governo internazionalmente riconosciuto, sostenuto dall’Onu. Valerio Sofia il 4 gennaio 2020 su Il Dubbio. Affluiscono soldati e mercenari in Libia, e nulla fa pensare che le cose miglioreranno, anzi. L’Italia ha da esattamente due anni una missione militare in Libia, incentrata soprattutto sull’ospedale di Misurata. Da allora, dopo aver dato un contributo importante curando tra gli altri i miliziani feriti durante la loro offensiva contro l’Isis a Sirte, il contingente italiano è rimasto relativamente passivo mentre lo scenario geopolitico della Libia cambiava vorticosamente, e il generale Haftar dalla Cirenaica andava rafforzandosi e parallelamente andava ampliando la rete dei suoi sostenitori internazionali a danno del governo di Tripoli, tanto da arrivare a minacciarlo militarmente in una prima occasione e di nuovo adesso con la capitale assediata. Roma ha cercato di tenere aperti i canali di dialogo all’interno delle fazioni libiche, ma bisogna prendere atto che al momento l’Italia è stata del tutto scavalcata dagli eventi e dagli altri protagonisti della crisi. Che è complessa e pericolosa, e potrebbe portare la situazione del Paese alle porte dell’Italia a degenerare verso una guerra aperta che potrebbe raggiungere livelli molto superiori al recente passato e tali da oltrepassare di molto i confini della guerra civile. Troppi infatti gli attori in gioco, senza considerare eventuali e solo per ora remote ripercussioni da quanto sta succedendo tra Iraq e Iran dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani. Al momento l’Iran non è tra i protagonisti della crisi in Libia ( anche per la marginalità della componente sciita nel Paese), ma è praticamente l’unico soggetto poco coinvolto. È invece molto coinvolta la Turchia, che ha appena approvato in Parlamento la mozione per inviare soldati a difesa di Tripoli. Il governo di è quello internazionalmente riconosciuto, sostenuto dall’Onu come governo di unità e pacificazione, ma di fatto non gode di sostegni concreti da parte dei propri alleati, e conta solo sulle milizie delle città circostanti. Milizie molto forti tra quelle libiche, come quelle di Misurata, in grado fino ad ora di difendersi e anche di aver acquisito una certa preminenza. Milizie che hanno contribuito a sconfiggere la presenza dell’Isis in Libia. Ma che ora si scoprono troppo deboli per garantire la sopravvivenza del governo, se dalla parte di Haftar continuano ad arrivare sostegni magari occulti da parte dei pezzi grossi della comunità internazionale. Gli Usa di Trump sono infatti ambigui, e se l’Unione Europea a parole è dalla parte del governo Onu, di fatto la Francia ha rapporti più che amichevoli con Haftar, e in passato è stata denunciata la presenza di esperti e armamenti francesi al fianco di Haftar. Meno mascherato è il sostegno russo al generale di Tobruk, e si è detto più volte che mercenari e contractor russi sono arruolati nelle sue fila, gli stessi che forse potrebbero aver aiutato le forze di Haftar ad abbattere dei droni tra cui uno italiano ( e intanto ieri i libici o chi per loro hanno abbattuto un altro drone, proprio turco). Con Haftar poi ci sono soprattutto l’Egitto e gli Emirati Arabi, nemici giurati dei Fratelli Musulmani cui invece fa riferimento lo schieramento di al- Serraji. Questi Paesi arabi forniscono l’aviazione con a loro volta l’impiego anche di piloti mercenari. In risposta a tutto questo al- Serraji ha chiesto un sostegno più concreto alla Turchia, amica a sua volta dei Fratelli Musulmani e nemica dell’Egitto. E il parlamento ha risposto approvando l’invio di soldati, anche se da tempo si parla dell’ipotesi che Ankara invii piuttosto miliziani siriani e mercenari. Comunque sia, l’Esercito nazionale libico di Haftar ha già annunciato che "non permetterà la presenza di qualsiasi forza turca ostile sul territorio libico", e ha aggiunto che la formazione "è pronta a combattere". In Libia si potrebbe presto assistere a qualcosa di tragicamente complicato.
I «mercenari» di Erdogan. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Battistini, inviato a Tripoli. Hanno la mimetica, non le mostrine. Tutti a Tripoli li cercano. «Sei turco?». Aeroporto di Misurata, coda «non libyans». Da oggi s’atterra solo qui. Neanche cento ore dopo la conferenza pacificatoria di Berlino, i Grad di Khalifa Haftar hanno abbattuto un drone turco sulle piste di Mitiga, rotto la tregua e pure gli indugi: guai a chi solca il cielo sopra Tripoli, avverte il feldmaresciallo, abbatteremo qualsiasi cosa ci voli, foss’anche un Boeing come in Iran. Tutti a Misurata, dunque: tre ore e mezza d’auto dalla capitale. Gli ultimi aerei della sera scaricano in Tripolitania malati che rincasano da Tunisi e pellegrini di ritorno dalla Mecca, sfollati africani e spioni europei, quiete famigliole e dormienti tagliagole. I soldati misuratini hanno gli occhi aperti. E qualche riguardo, se intravvedono i loro nuovi amici: ai controlli s’avanza un ragazzone tarchiato e tatuato di femmine e disegni d’esplosioni, la pelle scheggiata, carico di borse e d’un giubbotto antiproiettile. «Sei turco?», la rispettosa domanda. Come chiedere: sei per caso uno dei valorosi combattenti venuti ad aiutarci contro il traditore criminale Haftar? No: il passaporto è rosso Ue, niente amaranto Türkiye Cumhuriyeti, e nelle sacche ci sono solo obbiettivi da fotoreporter, mica armi da mercenario. I doganieri sono un po’ delusi. Un italiano… In coda con gli altri, allora. Anzi, più in coda degli altri. I filoturchi ci sono, ma non li vedi. Hanno le mimetiche, non le mostrine. Parlano arabo, ma l’accento è siriano. Li manda Erdogan, si raccomandano a Dio. «Sono 35 nostri addestratori militari e consiglieri militari — minimizza il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar — che danno il sostegno alla formazione dei fratelli libici». «Sono tremila paramilitari siriani mandati via da Raqqa — spiegano quelli di Haftar — e ne arriveranno presto altri tremila per aiutare il governo terrorista di Tripoli: gliene abbiamo già ammazzati una trentina». Atterrano con voli speciali della Turkish, viaggiano da Misurata alla capitale su pullman scortati dalla polizia tripolina. In tasca, un mensile di 2 mila dollari. In mano, le armi per uccidere i cirenaici e i loro «addestratori» russi. In testa, la promessa d’un passaporto turco rilasciato a fine 2020. Ci sono, ma dove sono? Molti, nella base militare Salahaddin e a Tajura, dov’è la cinquecentesca moschea ottomana Murad Agha che il neo-ottomano Erdogan venne a visitare quattro anni fa. La «khad», la linea dell’assedio iniziato il 4 aprile da Haftar, è su otto grandi strade venti chilometri a sud di Tripoli. Sta nella zona di Mashrua (il Progetto), la periferia modello della capitale che l’era gheddafiana numerava via per via e voleva riempire di fabbriche, oggi stracolma di miliziani: nelle strade 4, 5 e 6 hanno piantato le camerate e le cucine; nella 7, si combatte spesso; nella 8 c’è il fronte caldissimo di Khalla Tat, i cadaveri fra i cementifici abbandonati. «Se cammini oltre il carcere di Abu Selim — dicono qui —, puoi morire e nessuno lo saprà». Fino a un mese fa, a Mashrua s’andava a proprio rischio. Da quando sono comparsi loro, i siriani filoturchi, una rete di check-point fedeli al premier Sarraj li protegge bloccando chi s’avvicina: «Militari professionisti — li descrive un miliziano che ha a che fare con loro —, gente seria, non esaltati». A Tripoli, turchi&turcomanni sono affettuose conoscenze. Quelli che ci vivono da sempre, fanno mobili e infissi dalle parti di Dahra. Quelli appena arrivati, hanno subito i loro ristoranti di riferimento: «Quando levano la divisa — sussurra il cameriere del Sultan Ahmet —, vengono a mangiare qui». I turchi hanno viaggiato a lungo senza visto, qui, ma Gheddafi non li amava molto: ai tempi del re, l’Economist ne lodava «la fantastica fedeltà a Tripoli», così ci pensò il Colonnello a consigliare l’Ue di tenere fuori Erdogan («attenti — diceva —, sarà il cavallo che distruggerà tutta Troia…»). «Voi italiani ci avete scaricato e Sarraj ha fatto bene a chiedere l’aiuto dei turchi — commenta ora Othman Salem Ben Amara, 60 anni, padre d’uno dei cadetti uccisi nella strage del 5 gennaio —. Ma ci bastavano le loro armi: gli uomini, ce li possiamo mettere noi». Fra le case dietro l’aeroporto di Mitiga, odore di galline morte e auto accartocciate, camere da letto sventrate e alberi spiumati, è dove piombano i razzi di Haftar. La gente se n’è andata via, ha intuito il peggio. Su un muro della Noflim Street, uno spray invoca la «Syria horra», Siria libera in arabo. Tre settimane fa, non c’era.
Franco Frattini sulla Libia: "L'Italia sta perdendo la partita per colpa del Pd". Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 10 Gennaio 2020. «La crisi libica, per gli interessi italiani, è più pericolosa di quanto sta accadendo in Iran. Il nostro Paese, per i peccati di incertezza commessi a partire dai governi Letta e Renzi nel 2013-2014, rischia di essere tagliato fuori dalla possibile partizione del Paese secondo le diverse sfere di influenza: russe e turche. Scenario da cui abbiamo tutto da perdere». Franco Frattini, due volte ministro degli Esteri nei governi di centrodestra, ex commissario Ue a Giustizia e Sicurezza, non ha dubbi: l'Italia ha giocato malissimo la partita libica. Adesso per recuperare posizioni non c'è che una strada: promuovere un'iniziativa in sede europea che favorisca la «riconciliazione nazionale tra Serraj e Haftar, anche attraverso la formazione di una forza di interposizione militare Ue lungo la linea di confine tra le due parti. Come avviene in Georgia e Ucraina. Questo sarebbe il vero colpo grosso».
Mediterraneo e Medio Oriente sono in fiamme. L'incendio iraniano è destinato a spegnersi o a divampare?
«Quella dell'Iran è stata una reazione minima per non perdere la faccia. Teheran doveva necessariamente agire per dimostrare di non avere "stra-perso". Non dimentichiamo che il popolo pochi giorni fa protestava per il caro vita e il prezzo della benzina. Detto questo, credo che Khamenei, la Guida suprema, eviterà di lanciarsi in un'escalation militare. Sa di essere circondato da Stati ostili. Non a caso si è sempre opposto al "partito della guerra" interno, rappresentato da Soleimaini e dal suo successore, Ghaani».
Lei scommette ancora sulla leva dell'accordo nucleare del 2015. Perché?
«Perché se noi europei non facciamo sforzi per riprendere il dialogo con Teheran, facciamo il gioco di chi in Iran non vuole l'intesa. E anche in questo campo abbiamo tutto da perdere. Che guadagniamo dalla proliferazione nucleare? Se il "deal" salta, pure i sauditi vorranno la bomba, e l'area diventerà una polveriera. Io ne sono testimone».
Di cosa?
«Nel 2015 andai a Teheran, invitato dal Consiglio di sicurezza iracheno. E già allora alcuni settori iraniani contestavano l'accordo in nome delle eccessive riduzioni subite. Logico che ora, da leoni feriti, cerchino di riavere le mani libere. Ma l'Unione europea deve riprendere da dove abbiamo lasciato, legando l'Iran al dialogo. Teheran potrebbe avere interesse a giocare di sponda con l'Europa».
Ma questo non rischierebbe di indispettire Trump?
«Noi italiani abbiamo molto da offrire a Washington. I soldati in Iraq e Libano, ad esempio. L'Italia, l'Europa, proprio adesso che gli Stati Uniti si stanno disimpegnando dal Medio Oriente, possono giocare un ruolo decisivo. Agli Stati Uniti dobbiamo dire, ad esempio: meglio la divisione dei compiti che 10mila soldati Usa in Iraq».
Come valuta l'improvviso attivismo di Palazzo Chigi sulla Libia? Il premier Conte ha incontrato Haftar e puntava a vedere anche Serraj.
«L'Italia ha peccato di incertezza. Sono almeno sette anni, iniziando con il governo Letta, che non sappiamo chi sia il nostro interlocutore. Prima abbiamo appoggiato Serraj; poi abbiamo preso contatti indiretti con Haftar - dispiegando l'ospedale da campo vicino Bengasi -, infine, una volta visto l'attivismo francese, abbiamo preso contatti diretti con il generale. Risultato: siamo stati ritenuti inaffidabili. Gli inviti a Roma rispondono all'esigenza di superare la sensazione di aver scontentato tutti».
Quale il momento chiave?
«Il momento migliore, per l'Italia, c'è stato nel 2018 alla conferenza di Palermo. All'invito a Serraj e Haftar doveva seguire la guida della riconciliazione libica, invece alle promesse non sono seguiti i fatti. Per l'Italia è indispensabili parlare con tutti. Incluse Mosca e Ankara. Quindi bene ha fatto il ministro degli Esteri, Di Maio, a incontrare l'omologo turco Cavusoglu. Però non basta».
Cosa dovrebbe fare l'Italia per recuperare terreno?
«Promuovere una forte iniziativa europea per riprendere il cammino della riconciliazione nazionale. Abbiamo tutto da perdere, anche a livello petrolifero, dalla divisione della Libia in zone di influenza russe e turche: saremmo tagliati fuori. Dobbiamo offrire alle due parti in campo qualcosa di concreto: l'Ue, finora assente, faccia da garante: guidi una forza di interposizione lungo la linea di confine di Serraj e Haftar. Altrimenti a loro due converrà tenersi i rispettivi protettori». Tommaso Montesano
Dagospia. DAGONOTA il 9 gennaio 2020. Conte per Haftar ha voluto per forza organizzato il picchetto che si riserva ai capi di stato riconosciuti e pure per questo Serraj si è arrabbiato.
Da quotidiano.net il 9 gennaio 2020. Il giallo sulla sorte di Sarray è durato poco. In serata sono circolate voci insistenti su un presunto sequestro di Fayez Al Sarraj al rientro da Bruxelles. Ma prima ancora della notizia, l'Ansa batte la smentita, dando conto delle parole dell'ambasciatore libico presso l'Ue Hafed Gaddur: "Il premier libico Sarraj è rientrato con me a Tripoli, sta bene, non c'è stato alcun rapimento o arresto come scrivono alcuni. È totalmente falso", scrive dando conto delle parole dell'ambasciatore libico presso l'Ue Hafed Gaddur. Una fake news, quindi? Parrebbe proprio di sì. Secondo le indiscrezioni poi smentite Fajez Sarraj alle 21,45 era stato rapito da gruppo di uomini armati uscendo dallo scalo di Meitiga, alle porte della capitale. Era arrivato con un volo privato gestito da Linee aree libiche con il ministro degli Esteri Taher Siala. che però, sempre stando alle voci, rilanciate dai social media di Bengasi e Tripoli, non era stato toccato. Anche Ashraf Shah, un esponente di spicco vicino all'esecutivo del premier Fayez Al-Sarraj, ha confermato che le voci su un sequestro o arresto di Sarraj sono infondate. "Queste notizie sono false. Il primo ministro è a Tripoli, sta lavorando dalla sala operativa per difendere la capitale", ha detto sempre ll'Ansa l'ex consigliere politico della presidenza dell'Alto consiglio di Stato. "Dopo che il primo ministro si è rifiutato di andare a Roma dopo aver saputo che Haftar era nella capitale italiana, e dopo la dichiarazione congiunta russo-turca di un cessate il fuoco domenica - ha spiegato Shah contattato al telefono - stanno cercando di propalare che il premier è stato arrestato a Tripoli". Il riferimento, implicito, è fra l'altro a un messaggio pubblicato sulla pagina Facebook del Libyan Address, un sito molto vicino ad ambienti haftariani, nel quale in un'"urgente" aveva scritto: "un gruppo armato prende il primo ministro Fayez al-Sarraj e le sue guardie portandoli verso una destinazione sconosciuta dopo che il suo aereo è atterrato all'aeroporto di Mitiga provenendo da Bruxelles".
Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 9 gennaio 2020. A Palazzo Chigi si giustificano, respingono la parola flop, non vogliono sentir parlare di autogol di Giuseppe Conte e rivendicano addirittura un «mezzo risultato». Ma sono gli stessi diplomatici, alla Farnesina così come in Libia, a parlare di «errore madornale», di «pasticcio che ci costerà caro». Di sicuro più di qualcosa non ha funzionato se ieri i nostri servizi segreti erano già diretti a Ciampino per scortare il capo del governo legittimo della Libia, Fayez al Sarraj, sino a Palazzo Chigi. E di sicuro non ha giocato a favore dello sforzo diplomatico del presidente del Consiglio la scelta di vedere prima il generale Khalifa Haftar, soprattutto a pochi giorni dal massacro dei cadetti dell' accademia militare di Tripoli. Dunque non solo per una ragione di protocollo, ma anche di opportunità politica. La versione ufficiale di Palazzo Chigi dell' incomprensione con Fayez al Sarraj, che di rientro da Bruxelles ha prima confermato un incontro con Conte e poi ha deciso di tirare dritto e rientrare in Libia, si aggrappa ad una presunta fake news . I media libici avrebbero rilanciato a metà pomeriggio l' intenzione (infondata) del presidente del Consiglio di fare incontrare i due avversari. Un colpo di scena, o di teatro, che avrebbe dimostrato la centralità dell' Italia e delle nostre capacità diplomatiche. Eppure di fronte alle accuse delle opposizioni di aver fatto crollare la credibilità dell' Italia compiendo un autentico pasticcio, per Giuseppe Conte il bicchiere è mezzo pieno. «Siamo comunque riusciti a incontrare uno dei protagonisti della guerra in Libia - rivendica in queste ore il premier -. E nonostante l' incomprensione con al Sarraj abbiamo raggiunto un primo risultato». Lo accusano di aver cambiato cavallo puntando su Haftar e facendo così indispettire al Sarraj. Ma anche qui, Conte smentisce l' illazione. E rivela di aver pressato Haftar, durante le tre ore di colloquio, per ottenere una tregua di almeno una settimana. Proposta che il generale avrebbe preso in considerazione, ma chiedendo in cambio «garanzie» sulla presenza delle milizie sul territorio. E quando da Istanbul è arrivato il comunicato congiunto del faccia a faccia tra Putin e Erdogan, Conte lo ha letto interamente ad Haftar. Il quale però, oltre a riconoscere all' Italia un ruolo di mediazione, non ha promesso più di tanto. Giustificazioni e rassicurazioni che non riescono a nascondere l' ingenuità ammessa a denti stretti nello stesso staff del presidente del Consiglio: «Forse è stato un errore fissare gli incontri nella stessa giornata, ma è difficilissimo in questi casi incrociare le agende...». Del resto l' incomprensione con il capo del governo riconosciuto dall' Onu avveniva nelle stesse ore in cui al Cairo il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, affrontava altre difficoltà. E si sfilava dalla firma della dichiarazione congiunta di Egitto, Francia, Grecia e Cipro, da lui giudicata troppo sbilanciata sul ruolo della Turchia. A metà di una giornata a dir poco infelice per la nostra diplomazia, Conte ha sentito anche il capo dello Stato. Sergio Mattarella non nasconde la preoccupazione sia per i venti di guerra sul fronte mediorientale, sia per le difficoltà che sta incontrando l' Italia nel ritagliarsi un ruolo. Difficoltà che il nostro Paese condivide con l' Europa. E c' è ancora un sospetto, affiorato anche fra gli alleati della maggioranza, che Palazzo Chigi fermamente respinge. E cioè che ci sia stata una corsa alla visibilità fra premier e ministro degli Esteri. «Non c' è alcuna competizione - viene rimarcato -, si lavora in stretto contatto». Si sapeva da giorni che Haftar ieri sarebbe stato a Roma, in primo luogo per incontrare l'ambasciatore americano. «Lo sapeva benissimo anche al Sarraj», assicurano a Chigi. Dove fino a tarda sera si è cercato di recuperare con una telefonata fra Conte ed il premier libico: il tentativo di ricucire un rapporto che ha segnato il punto più basso degli ultimi tempi. Per dirla con Pier Ferdinando Casini, «è stata una giornata un po' infelice, c' è da preoccuparsi dell' inconsistenza italiana».
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 9 gennaio 2020. A forza di essere pompato in funzione anti Salvini, Giuseppe Conte a un certo punto si deve essere convinto di poter davvero diventare uno statista di livello internazionale. Del resto, prima la grande stampa aveva decantato il suo ruolo quando si trattò di far nascere la commissione Ursula, poi c' erano stati i salamelecchi dei capi di Stato al vertice di Biarritz, quindi il tweet di Donald Trump con l' endorsement a favore di una sua permanenza a Palazzo Chigi. Chiunque al suo posto avrebbe gonfiato il petto, figurarsi un «avvocato del popolo» trovatosi all' improvviso ai vertici della Repubblica. Dunque, ecco che in queste ore di crisi internazionale il nostro presidente del Consiglio deve aver creduto di potersi guadagnare un posto di prima fila sulla scena mondiale, trasformandosi da professore in mediatore fra due guerreggianti. Colto di sorpresa dall'eliminazione via missile del generale a capo di mille intrighi in Medio Oriente, e dopo aver balbettato in un' intervista a Repubblica qualche frase sul ruolo che l' Europa dovrebbe assumere per evitare un conflitto tra Iran e America, Giuseppe Conte si è quindi dato da fare per risolvere il garbuglio libico. Mentre le milizie del generale Khalifa Haftar bombardavano Tripoli decise a far capitolare Fayez Al Serraj, e mentre il sultano turco Recep Tayyip Erdogan riforniva di armi e giannizzeri il legittimo governo libico, il nostro premier ha spinto Luigi Di Maio a partire per un tour nelle capitali del Nord Africa, così da togliersi di torno il ministro degli Esteri, e poi ha mosso i nostri servizi segreti per organizzare incontri bilaterali con i protagonisti della guerra che infuria nel golfo della Sirte. A differenza di altri presidenti del Consiglio, Conte si è tenuto la delega sugli 007 e dunque ha avuto mano libera nel muovere gli agenti del controspionaggio, alcuni dei quali, come è noto, in terra libica sono di casa. Vuoi perché la considerano il nostro cortile, vuoi perché tramite l'Eni coltiviamo un certo numero di interessi, sta di fatto che le pedine mosse dal capo del governo hanno avuto gioco facile a rintracciare qualcuno che consentisse di agganciare sia Haftar sia Al Serraj. L'obiettivo era di trascinarli a Roma, incontrando prima l' uno e poi l' altro. Il premier già si vedeva nei panni di Bill Clinton, quando alla Casa Bianca accolse Yasser Arafat e Shimon Peres, facendo siglare al capo palestinese e quello israeliano un accordo di pace. Avrebbero dovuto essere incontri separati, preparati non già dalla diplomazia, ma dagli spioni, così da sorprendere tutti con l' inizio di una trattativa per il cessate il fuoco. Praticamente una consacrazione dell' abilità di mediazione, ma soprattutto delle capacità di relazione, del capo del governo. Un atto che avrebbe fatto dimenticare le molte cose rimaste in sospeso a Palazzo Chigi, in attesa del voto in Emilia Romagna da cui potrebbero dipendere le sorti dell' esecutivo. Nel piano di Giuseppe Conte però qualche cosa dev' essere andato storto. Di Maio si è tolto dai piedi, evitando di rompere la tela diplomatica tessuta dal presidente del Consiglio, e gli spioni hanno agganciato le persone giuste per far arrivare a Roma i due contendenti. Insomma, tutto era pronto per il grande incontro e da Palazzo Chigi sono state fatte filtrare le notizie dell' arrivo di Haftar e subito dopo sarebbe dovuto sbarcare Al Serraj. Un trionfo. Per l'Italia un grande ritorno sulla scena e anche un ruolo da superpotenza diplomatica. Per Conte un accrescimento del prestigio personale. Peccato che, appena saputa la notizia del bilaterale fra Haftar e Conte, qualcuno abbia preso cappello. In particolare Al Serraj che, informato della convocazione di una specie di conferenza a distanza, si è sentito imbrogliato e ha disdetto l' incontro. Insomma, quella che doveva essere la grande opera di mediazione del nostro presidente del Consiglio, che consentisse all' Italia di riprendere in pugno la situazione libica e di proporsi come interlocutore unico fra le forze in campo, si è rivelata una disfatta. Anzi, un rovescio diplomatico. Già, perché fino a ieri il nostro Paese sosteneva il governo legittimamente riconosciuto dall' Onu, ossia Al Serraj. È vero che nell' ultimo anno la diplomazia aveva provato a mettere d' accordo Tripoli con il generale ribelle sostenuto dall' Egitto, proponendo Roma come tavolo neutro per una trattativa. Ma l' appoggio era riservato ad Al Serraj, con il quale infatti si erano strette intese anche per la gestione dei migranti. Ora il capolavoro di Conte ha ribaltato i ruoli, e vedendo Haftar ha fatto infuriare proprio Al Serraj. Quello che doveva rivelarsi un colpo da maestro, in grado di assicurare al capo del governo un prestigio internazionale, si è rivelato un colpo da ko per le ambizioni di Conte. Da presidente mediatore a presidente mediano.
Claudio Antonelli per “la Verità” il 10 gennaio 2020. Nel corso della giornata più difficile per le relazioni internazionali del Tricolore, Giuseppe Conte ha trovato il tempo di salire al Quirinale e far saper a Sergio Mattarella quanto stava avvenendo. Non sappiamo quali termini esatti siano stati utilizzati, ma mercoledì il Colle è stato informato del fatto che Roma da lì a poco sarebbe diventata una sorta di spazio di co-working della diplomazia mediterranea. Un posto dove passi, ti fermi e incontri qualcuno negli uffici del premier, senza riconoscere al proprietario alcun affitto né costo. Dal punto di vista diplomatico, s' intende. Peccato che il tentativo organizzato dall' Aise di fare incontrare il generale Khalifa Haftar e il premier di Tripoli Fayez Al Serraj sia invece naufragato. Quando Serraj ha saputo della presenza dell' avversario a Palazzo Chigi - e probabilmente anche del tentativo in corso di portare le richieste di Haftar in sede Onu - ha chiesto al pilota dell' aereo (decollato da Bruxelles) di tirare dritto fino in Libia. Risultato, la scorta della nostra intelligence già pronta a Ciampino ha ripiegato verso i garage di servizio. Conte, a quanto ci risulta, avrebbe contattato di nuovo Mattarella per telefono. Da lì in avanti, silenzio. Fino a ieri, quando il premier ha organizzato un incontro con il ministro degli Esteri dimezzato di ritorno dall' Algeria. Finte strette di mano che non cancellano la disfatta. Un flop che rischia di avere pesanti ripercussioni sui vertici dei nostri servizi che, assieme al premier, sono finiti vittima del loro stesso tentativo di uscire dall' impasse libico. Solo che le ripercussioni saranno aggravate dalla battaglia che ancora oggi infuria tra Fbi, Cia e Casa Bianca. In un interessante articolo pubblicato sull' ultimo Limes, Dario Fabbri racconta la guerra civile tra trumpiani a washingtoniani nelle province dell' impero. E una di queste zone è proprio l' Italia, dove «Mifsud lavorava per un' intelligence occidentale schierata contro di noi, se non per l' agenzia di Langley». Le parole sono di Rudolph Giuliani e anticipano le conclusioni di Fabbri. La nomina del Conte bis è stata benedetta da Trump con l' idea di trovare il Paese ideale per recuperare le prove contro il complotto clintoniano. «Impossibile stabilire se la nostra intelligence abbia collaborato o scelto di bluffare», sentenzia Limes, «di certo il campo trumpiano non ha ottenuto informazioni utili a ribaltare la situazione interna», in vista delle elezioni presidenziali. Trump se l' è legata al dito e l' idea dei servizi di invitare Haftar e Serraj rischia di essere la ciliegina sulla torta in grado di rompere i rapporti con la Casa Bianca. Gli americani non sarebbero stati adeguatamente informati, così come non hanno apprezzato la nostra posizione morbida verso la Turchia, che progressivamente sta versando le proprie lire a Mosca, dove si rifornirà di armi in vista dello sbarco a Tripoli. In ballo ci sono tanti soldi, e gli Usa non gradiscono che Paesi satellite come il nostro si intromettano in tali questioni. Ancor più grave se colui che dovrebbe fare da garante non ha ravvisato la necessità di riportare l' Italia sulla rotta atlantica, esattamente quella che conduce a Washington. Il flop di Conte è nei fatti il flop di Mattarella. Non solo perché ne ha avuto contezza in diretta, ma anche perché è stato il Colle a fare da scudo al premier affinché mantenesse strette le deleghe ai servizi, nonostante la scarsa preparazione specifica e nonostante il caos Mifsud. Ecco che non è difficile comprendere che l' irritazione degli Usa stia cominciando a prendere forma e che la segreteria telefonica di Mattarella (metaforicamente parlando) si stia riempiendo di messaggi. Mercoledì ne sono stati registrati tre in meno di 24 ore. Il primo sulle colonne del Corriere della Sera. Il figlio di Giulio Andreotti, Stefano, si ha mandato una lettera di risposta al giudice Giancarlo Caselli che sempre sul Corriere si era lanciato in una ricostruzione della storia processuale di Andreotti. In sostanza, Stefano punta il dito per dire che Caselli pare credere alle frasi del pentito sul padre ma tace quelle su Mattarella. Il riferimento è a Piersanti, il fratello di Sergio. Un' uscita fino a poche tempo fa improbabile dalle parti di via Solferino. Tutti sano che gli Andreotti sono storicamente vicini agli Stati Uniti. Non a caso, sempre mercoledì, il sito Dagospia , fin dai tempi di Francesco Cossiga vicino ai nostri servizi, mette online una breve frase: la Cia si sarebbe stancata di Conte. Per poi fare il bis a poche ore di distanza (dopo il forfait di Al Serraj) con una «velina» che dà tutta la colpa a Palazzo Chigi. Due messaggi a Conte perché Mattarella intenda. E non sono i primi alert. Gli Usa non possono accettare che il presidente della Repubblica, di sponda con papa Bergoglio, avvicini l' Italia alla Cina e lo faccia su temi così delicati da mettere in discussione le fondamenta della Nato. A Leonardo è stata sospesa la licenza degli elicotteri di Boeing per le forze speciali, per timore che possa esserci un travaso di tecnologia verso Pechino. Non è una sciocchezza: è un fatto molto grave. E spetta al Colle dare rassicurazioni al più presto, visto che lo scacchiere è più liquido che mai. Senza dimenticare che tra i pregi Trump non c' è la pazienza.
· Le colpe in Tunisia.
Di Maio chiede blocco dei fondi alla Tunisia: “Prima svolta su sbarchi”. Notizie.it l'01/08/2020. Luigi di Maio ha chiesto il blocco dello stanziamento dei fondi alla Tunisia fino a quando non arriverà una svolta sul blocco delle partenze. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha chiesto al comitato congiunto per la cooperazione allo sviluppo della Farnesina la sospensione dello stanziamento dei fondi previsti per la Tunisia nell’attesa di avere un risvolto nella collaborazione chiesta in materia migratoria. Si tratterebbe in particolare di 6,5 milioni. Il titolare del dicastero degli Esteri ha manifestato la necessità di fare un accordo di cooperazione migratoria con la Tunisia che consenta al nostro paese di seguire il modello albanese degli anni Novanta. Vale a dire quando l’Italia ebbe raggiunto degli accordi con l’Albania che hanno portato a fermare, sequestrare e affondare le barche che si utilizzavano per la traversata e per venire in Italia. Anche perché, ha continuato, non ci si può permettere una nuova ondata di sbarchi anche per il rischio sanitario che essa comporterebbe, come stanno dimostrando i casi di Porto Empedocle o Caltanissetta. “Sono inutili gli slogan o le urla, serve un piano concreto per affrontare questa questione“, ha aggiunto il ministro sottolineando che “l’Italia non ce la farà mai da sola“. A tal proposito, ha continuato, si aspetta dalla Tunisia una collaborazione per permettere rimpatri attraverso le imbarcazioni in modo da velocizzare le procedure attualmente in vigore solo con gli aerei. Su questo, ha assicurato, il governo sta lavorando per riuscire a raggiungere un accordo e tra le richieste che l’ambasciatore Fanara ha inoltrato al governo tunisino c’è la possibilità di rimpatriare 300-400 persone con una nave. “É molto importante perché i rimpatri devono seguire il ritmo degli arrivi“, ha concluso Di Maio.
Gian Micalessin per “il Giornale” il 18 agosto 2020. Ci sono andati in due e, come se non bastasse, si son portati dietro una coppia di commissari europei pronti a garantire i finanziamenti reclamati da Tunisi per fermare i migranti in partenza e riprendersi quelli rispediti dall'Italia. Ma anche così la trasferta tunisina, affrontata ieri dal ministro dell'Interno Luciana Lamorgese e da quello degli Esteri Luigi Di Maio, resta una missione pressocché impossibile. Il perché è scritto nei numeri mestamente elencati dalla stessa Lamorgese nella rituale conferenza di Ferragosto. Quei numeri evidenziano la devastante Caporetto subita dal governo giallorosso sul fronte della lotta all'immigrazione. I 21.618 arrivi registrati tra l'1 agosto 2019 ed il 31 luglio 2020 (ovvero dall'addio al Viminale di Matteo Salvini ad oggi) sono il 148,7% per cento in più rispetto agli 8.691 migranti accolti tra il 1 agosto 2018 e il 31 luglio 2019 quando agli Interni c'era il leader della Lega. In questo contesto, già disastroso, il dato più devastante si registra proprio sul versante tunisino. Da lì sono approdati, dal primo gennaio, 8.984 irregolari contro gli 8.746 partiti da una Libia che, fino ad inizio dell'anno, continuava a detenere il record delle partenze. Ad acuire i problemi s' è aggiunta l'inerzia politica di una Lamorgese e di un Di Maio che per sette mesi si sono limitati ad osservare l'evidente spostamento, o raddoppio, delle rotte senza muovere un dito. Solo a fine luglio la responsabile del Viminale s' è decisa a volare a Tunisi per affrontare la questione con il presidente della Repubblica Kais Saied e il capo del governo designato e ministro dell'Interno uscente Hichem Mechichi. Incontri replicati ieri in compagnia del commissario europeo per l'Allargamento e la Politica di vicinato Oliver Varhelyi e a quello per gli Affari interni Ylva Johansson. Durante il vertice la Lamorgese e Di Maio hanno confermato l'impegno ad addestrare le forze tunisine incaricate di bloccare le partenze, garantire la manutenzione delle motovedette e fornire nuovi motori fuoribordo. Il Viminale ha sbloccato a favore della Tunisia 11 milioni per il controllo delle forntiere. I commissari europei si sono invece impegnati a valutare nuove forme di aiuto a Tunisi. Ma i soldi dell'Europa e la collaborazione promessa dai tunisini non risolveranno certo la situazione pregressa. Per capirlo basta considerare quanto spuntata sia l'arma dei rimpatri garantita, nel caso della Tunisia, da uno dei pochi trattati di riammissione stipulati dall'Italia. In base a quegli accordi possono venir rimandati a casa non più di ottanta migranti a settimana divisi su almeno due voli charter. Un'operazione che - oltre ad essere materialmente costosa - richiederebbe ben 84 settimane, quindi più di un anno e mezzo, soltanto per smaltire i 6.727 tunisini (dati del Viminale) arrivati in Italia dal primo gennaio. E a rendere il tutto più complesso contribuisce la lentezza con cui i consolati tunisini emettono i documenti indispensabili per il rimpatrio. Lentezza che si accentua quando un eccesso di rientri genera malcontento e proteste sul fronte interno. Proprio per questo è difficile immaginare che le promesse di aiuti garantite dai commissari Ue, e reiterate ieri al presidente Saied e al premier designato Mechichi, comportino modifiche sostanziali ed immediate. Per capirlo basta guardare cos' è successo dalla trasferta tunisina di fine luglio ad oggi. Allora una Lamorgese decisa a dimostrarsi energica e battagliera non esitò a definire «inaccettabile» il ritmo degli sbarchi. Peccato che da allora ad oggi se ne contino già duemila in più.
Francesca Paci per “la Stampa” il 18 agosto 2020. Hanno parlato quasi un'ora il premier Giuseppe Conte e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan: proprio ieri, mentre il ministro degli esteri Luigi di Maio e la collega dell'interno Luciana Lamorgese erano in Tunisia a discutere di flussi migratori, Palazzo Chigi sondava a tutto campo il nuovo ambizioso protagonista del Mediterraneo allargato, Ankara. Al centro della lunga telefonata tanti temi, il Libano, la Siria, le potenzialità e le sfide del Mare Nostrum, le prospettive di collaborazione bilaterale nel quadro di un miglioramento delle relazioni tra Turchia e UE e, ovviamente, la Libia, dove nulla ormai si muove senza l'avallo di Erdogan, garante della pax sul fronte tripolino quanto Putin lo è su quello di Haftar. L'Italia, riposizionatasi ormai a fianco del Governo di accordo nazionale di Fayez al Sarraj (Gna), cerca un ruolo, cosa che non dispiacerebbe a Tripoli, per differenziare un po' gli sponsor ed emanciparsi minimamente da quello turco, ma che nel nuovo status quo turco-russo non è semplice. Ankara, a cui il recente accordo di pace tra Israele e gli sponsor emiratini di Haftar ha ricordato quanto mobile sia l'ordine geopolitico mediterraneo, ha fatto capire in più occasioni da che parte penda il rapporto di forza. Sul piano militare - si mormora che tra le ragioni dello spostamento dell'ospedale italiano fuori Misurata ci sia la volontà turca di non avere nessun altro dentro la base aerea in cui si trovava prima - ma anche sui migranti. L'Italia guarda ai barconi provenienti dalla Tunisia così come a quelli che, seppur oggi in misura ridotta, salpano dalla Libia, con cui c'è tuttora in ballo il controverso Memorandum. E, riferiscono fonti governative, sarebbe interessata a collaborare con Ankara come fa da tempo l'Europa sul versante orientale e come fanno Tripoli e Malta attraverso la nuova iniziativa trilaterale sul contenimento dei flussi. Erdogan, si apprende, è molto aperto a questo potenziale partenariato che gli consentirebbe di ribadire ulteriormente il proprio ruolo a Tripoli, dove ieri erano in visita per discutere di cooperazione militare il ministro della difesa turco Hulusi Akar e quello qatarino Khaled bin Muhammad al Attiyah.
Salvini contro il governo sui milioni alla Tunisia: "Usa soldi trovati da me". Il leghista all'attacco: sono i risparmi dei decreti Sicurezza che vogliono cancellare. Chiara Giannini, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. La questione immigrazione per il governo è ormai fuori controllo. Lo dimostra l'ultima trovata che viene criticata dal leader della Lega Matteo Salvini. «L'Italia - spiega l'ex ministro - finanzia i controlli anti-clandestini in Tunisia grazie ai decreti Sicurezza che il governo vuole cancellare. Gli 11 milioni che Roma verserà a Tunisi sono frutto dei risparmi sul capitolo dell'accoglienza dopo la razionalizzazione voluta dalla Lega e approvata anche dai grillini. Ennesima dimostrazione che Conte-5Stelle-Pd non hanno idee né valori ma solo odio ideologico e fame di poltrone. Questo governo mette in pericolo l'Italia». D'altronde, che la soluzione non bloccherà i flussi ma costituirà un semplice palliativo lo lasciano presagire le parole del deputato tunisino Sami Ben Abdelaali, che ribadisce al Giornale che per fermare i flussi «occorrono soluzioni legali e fondi per l'acquisto di motovedette, tecnologia, radar e tutto quanto serve a controllare centinaia di chilometri di coste». Intanto a Lampedusa è arrivata anche la Aurelia, la seconda nave quarantena del Gruppo Snav, che per il forte vento non è riuscita ad attraccare in banchina. All'inizio si era pensato di trasbordare 250 dei migranti ospiti dell'hotspot con le motovedette di Guardia costiera e Guardia di finanza, ma poi si è preferito desistere perché i rischi sarebbero stati alti. Allo stato attuale nel centro di Contrada Imbriacola ci sono oltre mille clandestini, a fronte di una capienza massima di 190 persone. Alcuni migranti sono stati trasportati in Sicilia a bordo di un traghetto, ma in serata altre ne sono partite per Porto Empedocle. A Messina il sindaco Cateno De Luca annuncia che ieri «sono scappati altri 20 tunisini dalla caserma di Bisconte». E precisa: «Ribadisco quanto già promesso: il 26 agosto termina il periodo di quarantena dei 20 tunisini che non sono riusciti a fuggire, sempre che non ci provino ancora. Dopodiché io comincerò a dare calci nel sedere a chiunque mi impedirà la chiusura il 27 agosto. A Messina non deve esserci più nessun migrante, la caserma Gasparro sarà chiusa. Non voglio più sentire parlare di hotspot e Cas a Messina. È giusto che si continui con la solidarietà, ma sicura: sia per i migranti che per la popolazione». Il commissario provinciale della Lega di Palermo Alessandro Anello racconta che sarebbero stati trasferiti d'urgenza all'hotel San Paolo Palace di Palermo perché risultati positivi al Coronavirus «quattro dei 23 migranti tunisini scappati l'8 agosto scorso dal centro di accoglienza Piano Torre di Isnello, nel Palermitano, dove si trovavano in quarantena, e bloccati poco prima di Ferragosto dalle forze dell'ordine in un casolare abbandonato a Collesano». Tensioni anche a Rocca di Papa, dove sempre il Sap, attraverso il segretario generale Stefano Paoloni denuncia l'uso di camici non a norma per le forze dell'ordine. «Con questi indumenti - spiega - non si può proprio fare servizio di ordine pubblico. I migranti del centro Mondo migliore dovevano essere trasferiti al Celio perché tra loro c'erano dei positivi. Loro si rifiutavano, quindi è stato richiesto l'intervenuto del reparto mobile. I camici dati in dotazione coprono la divisa, limitano il movimento, tengono coperti cinturoni e armi e il rischio è elevato». E prosegue: «Non si possono esporre come sempre le forze dell'ordine a rischi non dovuti». Anche Salvini è intervenuto sull'argomento: «Camici per le forze dell'ordine - spiega -, multe e restrizioni per gli Italiani, ma porti spalancati per gli immigrati infetti che vagano in giro per l'Italia. Tutto questo non è normale. #governoclandestino».
· Le colpe in Algeria.
Algeria, la polveriera sottovalutata a due passi dall’Italia. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo il 23 settembre 2020 su Inside Over. “In Italia troveremo salvezza”: è questa una delle frasi che riecheggia di più nei gruppi privati social cui prendono parte gli algerini che vogliono scappare via dalla loro nazione. Il messaggio è chiaro e non necessita di alcuna interpretazione dal momento che i fatti e i numeri parlano anche chiaro. Sono 968 le persone che dall’inizio dell’anno ad oggi sono partite dall’Algeria per arrivare nel territorio italiano attraverso i viaggi in mare a bordo di motoscafi. La rotta algerina nei primi mesi del 2020 ha iniziato il suo corso in modo lento e quasi silente fino a raggiungere numeri di una certa importanza nel periodo successivo. Dall’Algeria si parte, si continua a partire e si partirà dal momento che i viaggi della speranza aventi come meta l’Italia stanno raggiungendo numeri usciti fuori controllo. Un flusso di arrivi che adesso inizia a destare non poche preoccupazioni dal momento che la nazione italiana si è ritrovata ad essere invasa da più rotte già durante il periodo del lockdown, raggiungendo i massimi livelli nel corso dell’estate.
L’allarme che arriva dalla Spagna. Le “fughe” dall’Algeria nell’ultimo mese stanno raggiungendo cifre che hanno messo in allerta anche la Spagna. Se infatti nella parte orientale del Paese del continente africano le partenze sono dirette verso l’Italia, in quella occidentale la destinazione designata è la penisola iberica. Solamente la scorsa settimana sono approdati tra Murcia, Alicante e Almeria più di 800 migranti a bordo di una trentina di motoscafi. Un numero così alto tale da mettere in difficoltà il Sistema Integrato di Vigilanza Esterna spagnolo utilizzato per rilevare i movimenti irregolari in mare. Ad arrivare in Spagna come in Italia sono soprattutto giovani che scappano da un paese che da un punto di vista politico ed economico ha registrato tanti fallimenti favorendo l’aumento del tasso di disoccupazione e la diffusione della povertà. Ad aggiungersi a questi fattori adesso è anche il coronavirus che, nelle ultime settimane, ha fatto registrare picchi elevati dei casi di contagio. Viaggi che durano più di un giorno le cui cifre si aggirano intorno ai mille euro a carico di ogni migrante, escluso materiale di salvataggio in caso di naufragio.
Quella polveriera che rischia di travolgere l’Italia. Della rotta algerina se ne parla poco, a livello mediatico appare surclassata da quella tunisina e libica. Eppure ha la sua incidenza nel flusso migratorio diretto verso il nostro Paese. E se in Spagna se ne stanno accorgendo nelle ultime settimane, in Italia da anni a notare il fenomeno sono soprattutto gli abitanti del Sulcis, la regione del sud della Sardegna in cui anche in questo 2020 non sono mancati sbarchi fantasma e problemi relativi all’accoglienza. Già a gennaio le autorità locali hanno dovuto fare i conti con l’arrivo di decine di migranti dall’Algeria, ben 193 soltanto entro la prima metà del primo mese di questo anno. Quasi un segnale premonitore di quello che avrebbe in seguito rappresentato il 2020, con una situazione progressivamente peggiorata in primavera quando nel nostro Paese al problema relativo all’immigrazione si è sovrapposta l’emergenza legata al coronavirus. Da Sant’Antioco a Teulada, i comuni dell’area del Sulcis hanno chiesto più volte provvedimenti per provare ad arginare il fenomeno. Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese si è recata in visita ad Algeri: le ricette poste sul piatto da parte del titolare del Viminale riguardano accordi per facilitare sia i controlli che i rimpatri. L’Algeria infatti non è un Paese in guerra, dunque coloro che arrivano in Sardegna non hanno titoli per chiedere la protezione internazionale e, al pari di quanto accade con la Tunisia, l’obiettivo da parte di Roma è quello di chiedere collaborazione per un rapido ritorno in patria di coloro che approdano lungo le nostre coste. Ma non è semplice, anche perché il contesto algerino è tutt’altro che stabile in questo momento sia da un punto di vista politico che sociale. Una vera polveriera ad oggi difficile da disinnescare. A partire sono soprattutto ragazzi di sesso maschile attratti dalla possibilità di arrivare in poche ore in Sardegna, con tanto di filmati delle loro traversate che spesso finiscono sui social.
L’incognita Algeria pesa sul nostro Paese. Ciò che preoccupa maggiormente al momento è la piega presa dal contesto algerino. Non raggiunta a pieno dalle primavere arabe del 2011, oggi l’Algeria sta attraversando una delicata fase di transizione. Nel febbraio del 2019 sono iniziate proteste contro l’ex presidente Bouteflika, al potere dal 1999 e dal 2013 costretto alla sedia a rotelle per gravi motivi di salute. L’annuncio di una sua ricandidatura ha aperto il vaso di Pandora che teneva molto stretta la società algerina. Di colpo molti giovani e molti esponenti della società civile hanno accantonato le storiche paure che hanno spesso evitato di far esplodere il malcontento. È sparito il timore riguardante i traumi subiti dal Paese durante la cruenta guerra civile degli anni ’90, sono scomparse le preoccupazioni relative alla possibile instabilità post Bouteflika. E così le proteste hanno assunto dimensioni tali da costringere alle dimissioni l’anziano e malato presidente, aprendo però una fase ricca di incognite. Oggi alla presidenza c’è Abdelmadjid Tebboune, un uomo di 75 anni che non ha saputo scrollarsi di dosso l’etichetta di personaggio vicino al potere e dunque non gradito da molti strati della società. Oltre alla diffidenza, Tebboune deve affrontare le sfide di un’Algeria dove la disoccupazione giovanile è del 26.3%, un’enormità vista l’età media piuttosto bassa della popolazione. Proprio la mancanza di prospettive future sta alimentando il desiderio di molti di andare via verso l’Europa, soprattutto verso Italia e Spagna. Per il nostro Paese un peso di non poco conto. E non soltanto sul fronte migratorio: da qui arriva il 28% del gas che serve al nostro fabbisogno, una percentuale destinata a scendere nei prossimi anni ma che comunque rimarrà sempre significativa. I contratti posti in essere con la società algerina Sonatrach, la più importante d’Africa in fatto di fonti energetiche, sono vitali e importanti per l’Italia che da un’ulteriore instabilità algerina avrebbe solo da perderci. Tra immigrazione, gas e contratti di natura economica, l’Algeria per il nostro Paese appare un tassello delicato e fondamentale. Fin troppo per poter dormire sonni tranquilli.
Ecco come l’Algeria ha provato a soffiarci il mare. Mauro Indelicato e Sofia Dinolfo l'1 agosto 2020 su Inside Over. L’importanza della Zona economica esclusiva e il ruolo dell’Italia nel definire la propria area di competenza. Sono questi due nodi cruciali che consentiranno a breve alla nazione italiana di dotarsi, al pari di altri Stati, di una propria area marittima dalla quale potere trarre dei vantaggi economici del tutto esclusivi. Un percorso, quello che si sta percorrendo, che non da nulla per scontato dal momento che sono state anche registrate anche delle “invasioni” nelle aree di appartenenza all’Italia.
Che cos’è la Zee. Di Zona economica esclusiva si è iniziato a parlare soprattutto sul finire degli anni ’70, per arrivare poi alla regolamentazione della materia nel 1982 con la convenzione di Montego Bay, nota anche come Unclos (United Nations Convention on the Law of the Sea). Un documento che oggi funge da base del diritto internazionale del mare e che è giunto al culmine di un intenso dibattito sull’argomento iniziato nella seconda metà del XX secolo. Fino a quel momento infatti, sulla navigazione valeva il principio della libertà dei mari. I diritti degli Stati nazionali non andavano oltre le tre miglia nautiche di distanza dalla costa, al di là delle quali si parlava unicamente di “acque internazionali” e quindi zone dove non era concepito l’accesso esclusivo alle risorse ad un singolo attore internazionale. Un principio, quello della libertà dei mari, che mal si conciliava però con il contesto economico che si stava sviluppando soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Molti governi hanno iniziato ad avanzare pretese di sfruttamento e gestione esclusiva delle risorse del mare poste nelle vicinanze delle proprie acque territoriali. Per questo a Montego Bay, località turistica giamaicana, si è quindi proceduto alla stesura di un trattato in grado di fare ordine sulla materia. In particolare, sono state stabilite aree appartenenti a pieno titolo alla sovranità dello Stato costiero, ossia le cosiddette “acque interne”, seguite poi dalle “acque territoriali” e cioè zone dove vigono sempre le leggi dello Stato di appartenenza ma dove al contempo è consentito il cosiddetto “passaggio inoffensivo” dei mezzi battenti bandiera di un’altra nazione. Oltre le acque territoriali, che hanno un’estensione di 12 miglia nautiche dalla costa, inizia la “zona contigua”, lì dove uno Stato può intervenire per punire reati commessi nel proprio territorio o prevenire le violazioni alle proprie leggi. Così come stabilito dall’articolo 33 dell’Unclos, la zona contigua non va oltre le 24 miglia nautiche di distanza dalla costa. Solo successivamente si entra a pieno titolo in quelle che un tempo erano identificate come mere “acque internazionali”. Ed è qui che ad entrare in gioco è la Zee, la Zona Economica Esclusiva. Secondo quanto stabilito a Montego Bay, la Zee si estende entro le 200 miglia nautiche dalla linea di base e lo Stato costiero qui esercita il diritto di gestione delle risorse naturali ed ha giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. A differenza delle acque territoriali, la Zee deve essere proclamata dallo Stato interessato e resa nota a livello internazionale. Non tutti i governi hanno provveduto a farlo, anzi la questione appare molto complessa nel Mediterraneo, mare “piccolo” dove è difficile individuare zone estese fino a 200 miglia tra una costa e l’altra.
La posizione dell’Italia che non ha ancora proclamato la Zee. Il mare è una fonte di ricchezza per tutto quello che riesce ad offrire, un patrimonio inestimabile che l’Italia non ha ancora sfruttato in pieno. Motivo? Fino ad ora non ha provveduto a delineare in modo fattivo la sua area di appartenenza acquisendo ufficialmente il diritto alla sua Zona Economica Esclusiva. Sia prima che successivamente alla firma della Convenzione di Montego Bay la via seguita da Roma è stata quella di delimitare la piattaforma continentale attraverso singoli accordi con gli altri Stati. Si ricordano in tal senso quelli stipulati con la Jugoslavia nel 1969, con la Tunisia nel 1971,con la Spagna nel 1974, con la Grecia nel 1977 e l’Albania nel 1992. Questo modus operandi ha fatto si che l’Italia rimanesse indietro rispetto ad altri Stati che invece, nel frattempo, hanno proclamato la Zee. Il sistema produttivo nazionale italiano si basa in buona parte sulla cosiddetta economia del mare: dalla pesca al turismo marino, dai trasporti marittimi alla ricerca ambientale, per poi passare alle attività cantieristiche. Una forza economica che va tutelata ma anche potenziata alla luce di quello che la natura può offrire. Il fatto che l’Italia fino ad ora non abbia proclamato una Zee, ha dato la possibilità ad altri Stati di porre in essere atti unilaterali non corrisposti che hanno generato un’invasione. Caso emblematico quello accaduto con l’Algeria.
Il caso Algeria. Era il 21 marzo del 2018 quando l’Algeria ha deciso di allargare i confini della propria Zee. Lo ha fatto in modo unilaterale estendendosi fino alla Sardegna. A sollevare il caso in quel periodo fu l’ex presidente della Regione Mauro Pili che ha fatto emergere come la nazione algerina avesse agito in silenzio nel disegnare i confini della propria Zona economica esclusiva. Di fatto l’Algeria ha esteso la propria Zee fino a tutta la zona del Mediterraneo che passa per Sant’ Antioco, Carloforte, Portovesme, Oristano, Bosa e Alghero. Un’azione che ha di certo avuto un peso politico ma, in questo caso, anche e soprattutto economico a discapito dell’Italia. Già perché la nazione italiana in questo contesto ha corso il rischio di essere limitata nello sfruttamento delle risorse marine delle acque internazionali più vicine. Ad inizio del 2020, l’ex presidente Pili è tornato sulla questione che sembrava caduta nel dimenticatoio. In questo contesto è arrivata una risposta da parte del ministero degli Esteri algerino che ha rassicurato l’esistenza di un dialogo in corso tra Algeri e Roma. A confermare le rassicurazioni avanzate dal ministero in questione, anche fonti della Commissione Esteri e Comunitari della Camera: “Da metà febbraio in poi- ci dicono- i rapporti fra l’Italia e il Paese nordafricano sono andati avanti. C’è un buon dialogo fra le parti per risolvere il problema”. Tra le due Nazioni ci sarebbero delle contrattazioni già da tempo e, il silenzio mediatico che vi è stato da quando la questione è stata sollevata la prima volta dall’ex governatore sardo, a quanto pare è stato dovuto alla delicatezza della questione.
Il disegno di legge in parlamento. La querelle con l’Algeria ha riacceso i riflettori sul discorso legato alla Zee: il nostro Paese non ha mai fissato i confini della propria zona economica esclusiva e le pretese avanzate da Algeri negli anni passati, uniti ai timori di molti amministratori sardi direttamente esposti alle velleità algerine, hanno ben messo in evidenza la necessità di arrivare ad una regolamentazione in materia. Da dicembre risulta depositato alla Camera un disegno di legge che ha come obiettivo quello proprio di istituire una Zee italiana: “C’è una condivisione trasversale al testo – fanno sapere dalla Commissione Esteri – Gli obiettivi almeno sono condivisi da tutti i partiti”. Prima firmataria del disegno di legge è la deputata del M5S Iolanda Di Stasio, la quale ad InsideOver ha confermato il coinvolgimento trasversale da parte delle forze politiche: “La proposta di legge sulla Zee ha ricevuto la piena approvazione da parte della Commissione esteri della Camera, con un appoggio trasversale che ne valorizza ulteriormente l’importanza strategica per il Paese – ha dichiarato la parlamentare – e attendiamo dunque la calendarizzazione per il voto dell’Aula”. “Recentemente – ha proseguito Iolanda Di Stasio – abbiamo promosso il provvedimento con il coinvolgimento di esperti di studi strategici, sottolineando quindi la necessità di istituire una Zee italiana. Gli obiettivi, come più volte ho voluto ribadire, sono molteplici, primo tra tutti la tutela e la gestione delle risorse del mare e la difesa del patrimonio territoriale e della biodiversità”. Il testo è approdato ufficialmente in commissione lo scorso 27 maggio. Nel mirino non soltanto la disputa con l’Algeria, ma anche una regolamentazione in toto dei diritti di sfruttamento delle acque di nostra competenza da parte dell’Italia. Una mossa che non mancherà di avere ricadute geopolitiche importanti in un momento in cui tutti gli altri Paesi del Mediterraneo stanno chiudendo le varie partite sulle rispettive Zee: una vera e propria rincorsa contro il tempo, l’ennesima nel mare nostrum, visto che l’Italia sta arrivando in ritardo rispetto ad altri attori internazionali.
· Le colpe in Siria.
Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 13 Ottobre 2020. Tornano in libertà circa 20 mila civili siriani, in larga parte donne e bambini, ma insieme con loro usciranno dal famigerato campo profughi di al Hol, nella Siria nord-orientale, più di 10 mila miliziani siriani di medio e basso rango dello stesso Stato islamico. È il risultato di una «amnistia generale» annunciata ieri dalle autorità curdo-siriane, che gestiscono il campo e che traducono così in fatti i ripetuti avvertimenti inviati agli Stati Uniti e ai paesi della Coalizione internazionale di non potersi fare carico da sole, del fardello delle decine di migliaia di jihadisti e dei loro familiari, catturati negli anni scorsi durante la campagna militare anti-Isis sulla sponda est dell' Eufrate. L' annuncio segue quello di una settimana fa, sempre da parte delle autorità curdo-siriane che controllano tutta la regione nord-orientale del paese, di essere pronte a liberare circa 25 mila civili, in larga parte donne e bambini, dal famigerato campo profughi di al Hol, al confine con l' Iraq. Il campo, costruito nel 1991, contiene più di 60 mila persone, metà delle quali di nazionalità irachena e circa 10 mila di altre nazionalità tra cui occidentali, ed è descritto come un luogo dove l' Isis continua a fare proseliti. Le autorità curde avevano detto la settimana scorsa che il via libera ai civili siriani non avrebbe contemplato i tagliagole islamici. Ma la decisione dà il segno della fretta che le autorità curde hanno di allentare le forti pressioni locali, esercitate per lo più dalle comunità arabo-siriane delle regioni di Raqqa e Dayr az Zor, a cui appartengono gli ex miliziani e le loro famiglie. E comunque una simile iniziativa non può che generare preoccupazione nell' Occidente e negli Usa, per eventuali e rischiosi ritorni di fiamma. «Numerosi detenuti nel nord e nord-est della Siria saranno rilasciati o le loro pene saranno ridotte in forza di un' amnistia generale», hanno dichiarato le autorità curde di Siria. Hanno detto anche che nelle loro carceri ci sono al momento 19 mila detenuti, in larga parte ex membri dell' Isis. Di questi 12 mila sono siriani, 5 mila iracheni e altri duemila di 55 diverse nazionalità. Soltanto i 12 mila siriani beneficeranno dell' amnistia. Il provvedimento che porterà alla liberazione «prevede delle eccezioni per assicurare il rispetto della sicurezza nella regione e garantire il diritto delle vittime di ricevere giustizia». Questo in riferimento ai timori, espressi dentro e fuori la Siria, che il ritorno in libertà di decine di migliaia tra combattenti Isis e loro familiari possa alterare in maniera determinante i già precari equilibri dell' area. Il comunicato delle autorità curde lascia però spazio a interpretazioni su chi potrà beneficiare dell' amnistia. Si dice che saranno rilasciati «membri dell' Isis di medio e basso rango, se hanno ottenuto meriti di buona condotta». Una definizione per alcuni troppo ambigua. In maniera altrettanto poco chiara si afferma che sono esclusi dall' amnistia i colpevoli di «spionaggio», «tradimento», «crimine d' onore», «traffico di droga», «dirigenti di organizzazioni terroristiche» come l' Isis.
Domenico Quirico per la Stampa il 13 settembre 2020. Le mogli dei despoti sono ormai una categoria assodata, anzi una figura retorica, donnoni di solito grossi e autoritari, spietati difensori della Famiglia, angeli custodi ma del retrobottega del Potere dove il raiss, il capo, la guida suprema regna ma non governa. Questi duri hanno sempre un lato debole, persino Hitler aveva Eva Braun. Devono pur riversare l' affetto su qualcuno, anche se sono in lotta contro tutto l' universo. Confessiamolo, con Asma Assad ci siamo sbagliati. Purtroppo la faccia non serve a indicare più niente. Lombroso è definitivamente sconfitto. Gli inferociti, anche declinati al femminile, hanno facce angeliche. Sì, il volto non è più lo specchio dell' anima. E pensare che con lei la trucida cronaca siriana per la prima volta dava nella confortevole soap opera, solida, pretenziosa, affettuosamente volgare. Bene bene bene: il regime si tempera, pensavamo. Errore fatale. La tragedia siriana, ormai trasformata in lento decennale stillicidio di sangue, la si poteva purtroppo decifrare anche attraverso la schiccheria della "lady D d' oriente'' . Il marito, (oftalmico ben educato e dittatore senza pietà, la duplicità è dunque vizio di famiglia), circondato da nubi di bravacci, il piccolo ghigno rappreso sotto i baffetti grigi, riduceva i suoi concittadini, anno dopo anno, a una pozzanghera di sangue, li stanava a milioni, loro esperti come pochi in fatto di sacrifici, vessazioni e dolori. Bashar non è il dittatore grossolano e invasato, assomiglia a Franco: impiegatizio, metodico, pianificatore. Fin dall' inizio della rivolta si è proposto non solo di sopravvivere e vincere, voleva ripulite, governare una Siria svuotata di ogni possibile nemico, linda, popolata solo dalla fedeltà canina di complici, fanatici, riconoscenti.
Non è un burattino. Guardavamo indifferenti il macello da questa parte del mondo e dicevamo: è solo un burattino, Putin gli iraniani hezbollah, tutti lo tengono in pugno, lo lasceranno cadere quando non servirà più. Era lui che manovrava tutti senza fretta dal palazzo di Damasco. Putin gli ayatollah perfino i terrificanti jihadisti con il loro al di là misterioso e pieno di minacce. Beh, li ha usati come pedine. E alla fine è rimasto a regnare sulle rovine. E intanto la signora, la "rosa del deserto''? Mentre lui ripuliva gli angolini, lei pensava alle palanche. La laureata al King' s college, la seminarista del Profitto allevata alla JP Morgan, pianificava un losco ma più moderno capitalismo familiare edificato su corruzione e distruzione. Il compendio necessario al dopo massacro. La consacra e sintetizza il capo della diplomazia americana: «È diventata il maggiore profittatore del regime». Non più quindi le vecchie clientele paleolitiche della Siria dirigista, imprinting tardo sovietico alla papà Afez, largo al capitalismo da padrino mafioso come forma di investimento. Bel lavoro! Ne scruto una foto recente sul profilo Facebook della presidenza siriana: è lei, bionda, sorridente, capelli corti e sbarazzini, vestito a fiori che si specchia su uno sfondo di rose e altre squillanti verzure. Ti prende un senso vago di disagio, di soffocamento se accosti questa immagine alle macerie da terremoto delle città siriane, tumuli di cemento che sono anche tombe, da cui usciva un fetore di marcio. Ci sono sotto cadaveri irrecuperabili, accoppati dai bombardamenti del clan degli Assad, un odore acre e cattivo. Gli amati sudditi di Asma e Bashar. Che rapporto c' è tra queste immagini? Sembrano scattate su pianeti diversi, in ere geologiche separate da milioni di anni. Dove li ficcate i 400 mila morti in quello sfondo agreste? E i milioni di profughi in bivacco sulle rovine aspettando tempi miglior che non vengono mai? Come si riflettono in quegli occhi chiari con quel tanto di mistero che è solo nella chiarezza di una calma interiore, persino il paesaggio che la circonda sembra assorto nei suoi pensieri? Foto agghiacciante come un boia che racconti favole amene. Sono gli uomini, e le donne, deboli che non riescono a salvare le apparenze. Ma come sopravvivono senza rimorsi?
Il ritratto estasiato. Guardarla è un incanto, nessun tanfo di morte suggerisce la foto, semmai mitezza gioia il tè delle cinque e bimbi mandati a letto dopo il bacio di mezzanotte. Se allarghi il grandangolo sei certo di trovare la londinese periferia chic di Aston dove l' hanno allevata. E invece c' è la schizzata di bidonville che chiazzano la vista dal palazzo presidenziale di Damasco. Vien voglia di riabilitare gli aedi di Vogue che nella primavera del 2011, mentre gli sgherri della coppia glamour cominciavano ad ammazzare, le scodinzolarono dietro con un ritratto estasiato. Anche il suo matrimonio in fondo è stato più che una faccenda di amore un incontro al vertice. A far da Cupìdo un capo dei servizi segreti che convinse la sospettosa e potente suocera Anissa che una moglie sunnita e con solidi ancoraggi altoborghesi sarebbe stato propagandisticamente producente per il rozzo regime alauita. Ci siamo cascati noi occidentali, gli sciagurati di Paris Match che si spennellarono a far paragoni e classifiche tra Asma e Carlà Bruni e Michelle Obama: chi è la più chic del reame? Quindi solo una graziosa figurina di Epinàl? Il superfluo l' affascina ma lo vuole sontuoso e prestigioso, a Londra ovviamente, ma si dà anche alla carità con la sua Ong, "Syria Trust for development'". Ma l' elemosina della Signora serve a inquadrare la società civile e a ricattare Onu e Unione Europea costretti a servirsene per ogni operazione umanitaria.
Il business del telefono. Bashar serrava sotto le ''katibe'' della derelitta Armata siriana libera, lei non marcava visita, ma dava la caccia ai parenti del clan dei Makhluf, grandi elemosinieri del regime e barattieri numero uno. Avevano iniziato con la "regia dei tabacchi" come si diceva ai tempi di Crispi regalata da Hafez Assad al genero Mohamed Makhluf, sono arrivati alla lucrosa società telefonica, gente dalle mandibole trituratrici, in ottimi rapporti con il grande fratello moscovita dove hanno depositato ricchezze e alloggi. Maneggiano anche bande di tagliagole con cui hanno dato un contributo decisivo alla ripulitura di Aleppo. Ricchi, straricchi, finanziatori della repressione con fondi criminaloidi: troppo ricchi per la allieva della City per cui sono gente che ormai da decenni sta troppo alla tavola della corruzione, intorpidita da digestioni laboriose, ormai con il culto di sughi e besciamelle. E poi tra intenditori di un genere equivoco di affari sporchi non è ammessa concorrenza. Lei ama le penombre, parla poco, lavora a testa fredda, aliena da istrionismi: molto vistose le affinità con il marito. Asma dà la scalata al monopolio della corruzione di stato creando una tessera annonaria elettronica: dal 2014 è obbligatoria per avere accesso al carburante sovvenzionato e da quest' anno anche ai prodotti alimentari per le famiglie, un chilo di the, tre chili di riso e quattro chili di zucchero al mese. Tra sanzioni e distruzioni, con la guerra infinita e l' ottanta per cento della popolazione sotto la soglia di povertà vuol dire controllare tutto il commercio di Stato. L' impero dei Makhluf vien smontato pezzo per pezzo, perdono il ramo del contrabbando di petrolio e poi Syriatel a cui vengono richiesti 180 milioni di dollari di tasse non pagate. Tutto, badate bene, mentre a guerra infuria in un sanguinario tira e molla! Beni congelati, dipendenti in galera, il clan si trasferisce in Russia, quasi un esilio. Adesso ad Asma resta da recuperare il denaro che hanno giudiziosamente nascosto all' estero. Ci riuscirà, vedrete, poi si sussurra che si dedicherà alla successione dinastica, il figlio più grande Hafez terzo erede designato di questo regno della barbarie.
Ferdinando Fedi, generale dei Carabinieri, già capo dell'Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore della Difesa, per opinione.it il 25 maggio 2020. Fra alcuni giorni scadono i termini delle sanzioni economiche alla Siria prorogate alla fine di maggio dello scorso anno. Esistono dall’inizio della guerra civile nel 2011 e non furono decretate dalle Nazioni Unite, come di solito avviene, ma dal Consiglio dell’Unione europea. Le restrizioni inflitte per far cadere Bashar al-Assad hanno messo la Siria in ginocchio e l’hanno isolata dal sistema economico e bancario. Il commercio estero si è azzerato, i fondi sovrani del governo sono congelati e anche le rimesse degli espatriati siriani, importanti per l’economia di un Paese in conflitto, sono ostacolate dall’embargo. In questi anni le sanzioni, lungi dall’indebolire Assad, hanno condannato la popolazione siriana alla fame, hanno distrutto la società con gravi ripercussioni anche sul sistema sanitario non più in grado di far fronte neppure alle esigenze minimali. Come spesso avviene in queste circostanze, fame, miseria e malattie hanno agevolato l’attivismo delle milizie combattenti integraliste che riescono maggiormente nell’opera di proselitismo proprio quando le situazioni sono di grave disagio. Il petrolio costituiva oltre il 50 per cento delle esportazioni del Paese prima del conflitto, ora i cittadini siriani passano ore in coda per approvvvigionarsi pochi litri di carburante e le fabbriche sono tutte chiuse per mancanza di materie prime. Il progetto di realizzare un cambio di regime in Siria, che avrebbe condannato il Paese all’instabilità come avvenuto in Libia e in Iraq, è fallito ma si continua comunque a perseguire l’obiettivo agendo sulle condizioni della popolazione. Gran parte del territorio è infatti tornata sotto controllo dell’esercito governativo e solo la provincia di Idlib, nella regione nord ovest, resta la roccaforte dei ribelli. Questa è dunque la disperata situazione e i siriani, impossibilitati a sopravvivere, sperano in un futuro solo scappando dalla loro terra. Quella che era iniziata come una guerra giustificata dal principio della “responsabilità di proteggere” un Paese accusato di violare sistematicamente i minimi diritti umani, si è ora trasformata in una lesione di quei diritti proprio da parte della Comunità internazionale che li voleva difendere. Si devono pertanto sostenere tutte gli appelli e le iniziative umanitarie affinché sanzioni così devastanti per la vita quotidiana di ogni siriano non siano prorogate alla imminente scadenza anche per non far apparire ipocrita la retorica sui profughi che scappano e devono essere protetti. Spostiamo la retorica sulla dignità del popolo siriano e sui relativi diritti a minimi standard di vita ora soffocati dalle sanzioni.
Siria, 10 anni di guerra: 384 mila morti e 11 milioni di profughi. Il conflitto entra nel decimo anno: il 15 marzo 2011 iniziavano le proteste. Cartlotta Sami, portavoce dell'Unhcr: "Per i rifugiati aprire dei canali sicuri e gestiti dagli Stati in modo costante e strutturato". Pietro Del Re il 15 marzo 2020 su La Repubblica. In Siria la guerra entra nel decimo anno: i morti sono 384mila. Oltre ad aver già provocato 384 mila morti, la guerra in Siria che oggi entra nel suo decimo anno ha anche causato il più gran numero di profughi dalla Seconda guerra mondiale, con più della metà della popolazione costretta sia a spostarsi all’interno del Paese sia a fuggire oltre frontiera. Dice Carlotta Sami, portavoce per Italia dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: «Sono cifre spaventose perché il numero di chi è scappato all’estero ha raggiunto quota 5,5 milioni mentre gli spostati interni sono più di 6 milioni. Costituiscono il gruppo di rifugiati più grande al mondo. E la maggior parte di loro ha un solo desiderio: rientrare a casa loro».
Pochi giorni fa, proprio sul sito di Repubblica, l’Unhcr ha lanciato il seguente appello ai 1.700 super milionari italiani: “Mobilitate le vostre risorse per salvare vite umane”. La Turchia accoglie 3,6 milioni di profughi siriani. Ma di questi, solo una piccola parte vive nei campi allestiti anche con i soldi dell’Unione europea. E gli altri?
«Gli altri sono quelli che chiamiamo i “rifugiati urbani” sebbene non vivano necessariamente nelle città, ma su tutto in territorio turco, e quindi anche nelle campagne. La loro situazione è migliorata negli anni, perché adesso molti di loro lavorano o possono studiare frequentando l’università. Per gli altri siriani, ciò che preoccupa è che nonostante la solidarietà espressa dai Paesi vicini, la maggior parte di loro, ossia l’83%, vive al di sotto della soglia di povertà. L’altro aspetto inquietante è che molti bambini non vanno a scuola, il che compromette seriamente l’investimento sul futuro e renderà ancora più difficile ricostruire la Siria».
Ankara teme l’arrivo di altri profughi, quelli che ora vivono in condizioni disperate a Idlib, l’ultima provincia in mano alla rivolta, dove l’offensiva del regime spalleggiato dai caccia di Mosca ha recentemente provocato lo spostamento di circa 960mila persone. C’è chi parla della peggiore crisi umanitaria dal dopoguerra, con bambini che muoiono di fame e di freddo.
«Sì, dei bambini sono morti di freddo e adesso, con l’emergenza umanitaria si protrae nel tempo, si verificano sempre più numerosi casi di malnutrizione. Per questo qualche giorno fa abbiamo chiesto che almeno le persone che hanno più bisogno di cure vengano lasciate passare in Turchia. Dei 960 mila di sfollati di Idlib ce ne sono che vivono nelle tende che siamo riusciti a distribuire nelle ultime settimane, ma la maggior parte s’è sistemata in fattorie abbandonate o in edifici bombardati, che erano già occupati da altri profughi. Con il passare dei giorni la situazione non fa che peggiorare, perché ormai scarseggiano i mezzi di sussistenza. Ora, 4 su 5 di queste persone sono o donne o bambini».
Il Libano, con una popolazione di 4,5 milioni di persone, ospita 1,5 milioni di profughi, dei quali meno di un milione è iscritto presso la vostra agenzia. Anche lì, la maggior parte dei siriani vive in condizione molto precarie.
«Sì, perché anche in Libano la maggior parte dei rifugiati siriani non vive nei campi. Noi cerchiamo di aiutarli con quello che chiamiamo cash assistance, ossia con piccole somme di denaro con cui affittare un luogo per vivere e acquistare cibo. Ma in Libano il sistema sanitario è quasi tutto in mani private, perciò per i poverissimi i profughi siriani diventa davvero molto difficile garantire un’esistenza dignitosa a se stessi e alla propria famiglia. Ci sono poi quelli che cercano di arrivare in Europa. E che magari finiscono parcheggiati a Lesbo».
Che cosa si dovrebbe fare per alleviare le pene di chi scappando da una guerra si ritrova in campo sovraffollato, pieno di topi e dove servono un solo pasto al giorno?
«A Lesbo ci sono 36 mila profughi in un campo attrezzato per ospitarne meno di 5 mila. Da mesi chiediamo di trasferire 20 mila persone sulla terra ferma dove potrebbero essere sistemate in maniera dignitosa e dove ci sarebbe anche la possibilità di accoglierle in appartamenti. Purtroppo non si riesce a trovare la volontà politica per gestire con raziocinio e umanità un confine come quello: garantendo un flusso regolare di persone e accelerando le procedure di richiesta di asilo, e non, come ha invece deciso la Grecia, di sospenderle per i nuovi arrivati. Un’altra soluzione, era quella di trasferire i rifugiati nei vari Paesi europei, ma è stata scartata».
Ma c’è la disponibilità da parte delle nazioni ad aiutare quest’altra fetta di umanità sofferente?
«Nel 2019, abbiamo chiesto l’accoglienza in Paesi sicuri per 1,2 milioni di rifugiati, che sono i più vulnerabili tra i 25 milioni di rifugiati planetari. Ebbene da tutta la comunità internazionale abbiamo ricevuto un’apertura per appena 55mila posti. Per risolvere situazioni come quella drammatica di Lesbo bisogna aprire dei canali sicuri e gestiti dagli Stati in modo costante e strutturato».
Come complica il vostro lavoro il fatto che nella guerra in Siria siano coinvolti gli eserciti di più Paesi: siriano, russo, turco, iraniano e libanese di Hezbollah?
«A Idlib i nostri interventi sono limitati per ovvie ragioni di sicurezza. In questo momento c’è un cessate il fuoco che ci semplifica il lavoro, ma l’attività umanitaria in quella zona è ancora fortemente condizionata proprio per il fatto che ci sono molti attori in aperto conflitto tra loro».
Quanti profughi siriani torneranno a casa, il giorno che la guerra finirà?
«Ogni volta che ho incontrato dei profughi tutti mi hanno sempre detto di voler rientrare appena possibile in Siria. E’ un desiderio molto radicato nella diaspora siriana».
Nove anni fa scoppiava il conflitto in Siria: 500mila morti, 1 milione di sfollati. Umberto De Giovannangeli de Il Riformista il 15 Marzo 2020. Nove anni di guerra. Nove anni di distruzione e di morte. Un Paese ridotto ad un cumulo di macerie, oltre mezzo milione i morti, in grandissima maggioranza civili, un popolo ridotto ad una moltitudine di profughi alla mercé di trafficanti di esseri umani o di spregiudicati “Gendarmi”, come il presidente turco Erdogan, che li usano come arma di ricatto verso l’Europa. Un Paese distrutto. Uno Stato fallito. È la Siria. A nove anni dall’inizio del conflitto, che risale al 15 marzo 2011 la crisi umanitaria – aggravatasi da dicembre – rimane più che mai drammatica. Dal 1° dicembre 2019, più di 961.000 persone sono sfollate nel nord-ovest del Paese, di cui 950.000 scappate da Idlib e Aleppo: la maggior parte di loro sono donne e bambini, costretti a dormire all’aperto in balìa delle temperature rigide perché i campi hanno raggiunto la loro massima capienza. Oggi, quella siriana è la popolazione rifugiata di dimensioni più vaste su scala mondiale. Una situazione su cui l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) lancia l’allarme, diffondendo anche un appello per le donazioni destinate a supportare le attività di soccorso della popolazione civile stremata dal conflitto, dagli stenti e dall’inverno. Ad oggi, fa sapere l’Unhcr, l’intervento umanitario è stato finanziato solo per il 9%. La maggior parte delle persone sfollate nel nord-ovest della Siria, spiega l’Unhcr, si trova ora nei governatorati del nord di Idlib e Aleppo, aggravando una situazione umanitaria già allo stremo. Infatti i recenti spostamenti di massa superano l’attuale capacità di risposta, e a causa dei combattimenti il numero degli sfollati interni cresce di ora in ora: si calcola che arriverà a 1,1 milioni di persone entro poche settimane. I combattimenti stanno avanzando verso aree densamente abitate, aumentando l’impatto del conflitto sui civili, e rapporti recenti indicano un aumento degli attacchi aerei e bombardamenti che hanno coinvolto scuole, ospedali e altre infrastrutture civili, causando un alto numero di vittime. Per rispondere attivamente anche ai bisogni dei nuovi sfollati, i partner che fanno parte con Unhcr del cluster di protezione stanno identificando le terre più adatte ad estendere i campi. Negli ultimi nove anni, spiega ancora l’Unhcr, i governi e le popolazioni di Turchia, Libano, Giordania, Iraq, Egitto, nonché di alcuni Paesi al di fuori della regione, hanno assicurato ai siriani protezione e sicurezza aprendo loro scuole, ospedali e le proprie case. Nonostante la maggior parte dei rifugiati presenti nei Paesi limitrofi viva al di sotto della soglia di povertà, fa tutto il possibile per guadagnarsi da vivere, investire in un futuro per sé e per le proprie famiglie e contribuire alle economie dei Paesi che li accolgono. Alcune comunità di accoglienza, ad esempio in Libano, devono far fronte a ristrettezze economiche, e la carenza di aiuti e l’accesso limitato a servizi sanitari e istruzione generano un aumento dei costi giornalieri e rischiano di spingere le famiglie rifugiate in una spirale di vulnerabilità. Per la disperazione, alcuni rifugiati sono costretti a ritirare i propri figli da scuola per farli lavorare e contribuire al sostegno della famiglia. Altri riducono il numero di pasti giornalieri. Esposti a sfruttamento e abusi, altri ancora si danno alla prostituzione, contraggono matrimoni precoci o cadono vittime di lavoro minorile. «La Siria entra nel decimo anno di guerra con quasi un milione di persone costrette ancora una volta a fuggire dalle proprie case – dice a Il Riformista Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa – . Intrappolate, case, scuole e spesso ospedali distrutti. La maggior parte di loro è esposta al freddo, sotto le tende, a ridosso del confine con la Turchia: la situazione umanitaria sta causando effetti devastanti sulla nutrizione, l’educazione e la salute. Abbiamo bisogno di aiuto immediato, non possono essere abbandonati». Tanto più ora; ora che una tragedia umanitaria rischia di trasformarsi in una catastrofe sanitaria con la pandemia del Coronavirus. Cresce l’allarme nei campi profughi, super affollati, in Giordania, in Libano, a Lesbo e in altre isole greche, in Turchia, in Iraq, ed ora l’allarme rosso è scattato anche nella Striscia di Gaza: milioni di persone già provate da stenti e sofferenze indicibili, con un fisico fortemente debilitato, risultano più vulnerabili al virus. Non possono essere abbandonati. Non devono esserlo.
Idlib, 1 milione di disperati in mano a un autocrate russo, un gendarme turco e un macellaio siriano. Umberto De Giovannangeli de Il Riformista il 6 Marzo 2020. Sei ore di colloqui per frenare l’escalation a Idlib. È l’ennesimo patto siglato dallo Zar e il Sultano. Ma è un patto “forzato”. Lo si coglie dalle affermazioni di uno dei contraenti, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. «Le forze del regime siriano hanno violato gli accordi, e gli abitanti di Idlib sono scappati. Assad vuole spazzare via i civili in quella regione e noi non staremo a guardare». Così Erdogan al termine dei colloqui al Cremlino con il suo omologo russo Vladimir Putin. Il presidente turco ha sottolineato che la cooperazione fra Ankara e Mosca è «ad un alto livello» e questo permette «di raggiungere degli accordi», di trovare «un punto comune», e arrivare «a un cessate il fuoco, a partire dalla mezzanotte». «Non sempre concordiamo su tutto – aggiunge Erdogan – ma in ogni momento critico siamo sempre stati in grado di trovare un’intesa comune e arrivare a una soluzione: lo abbiamo fatto anche oggi». L’intesa prevede la creazione di un corridoio di sicurezza ampio 12 chilometri lungo l’autostrada M4, che sarà controllato congiuntamente da pattuglie russe e turche, a partire dal 15 marzo. Ci sarà poi una zona cuscinetto ampia sei chilometri per separare i militari turchi da quelli siriani. Mosca e Ankara hanno reiterato che non vi è una soluzione militare alla crisi in Siria e che la sovranità e integrità territoriale del Paese “va rispettata”. «Entrambi crediamo che si debba mantenere l’integrità territoriale della Siria e che si debbano combattere i terroristi: spero che questi accordi contribuiscano a costruire una base per fermare l’escalation in Siria e fermare la crisi umanitaria», ha detto il presidente russo. Nel frattempo ieri ci sono state dozzine di attacchi aerei russi contro città e villaggi di Jabal al-Zawiya, nella provincia di Idlib, mentre le forze siriane di Assad hanno lanciato una nuova offensiva via terra su Al-Fatira e Fleifel, dove si sono verificati violenti scontri con fazioni dell’opposizione e jihadisti. Secondo gli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani sono state registrate vittime da entrambe le parti. Intanto, però, l’esodo continua. L’Onu ha fatto sapere che è salito a un milione il numero di civili siriani sfollati, per lo più donne e bambini, costretti alla fuga nel nord-ovest della Siria. L’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario (Ocha) afferma che rispetto al precedente conteggio di fine marzo, il numero di sfollati dal 1 dicembre a oggi è salito a un milione di persone. Di questi, l’80% sono donne e bambini. I minori sono il 60% per cento. Si tratta di persone ammassate in una zona stretta tra la linea dell’avanzata governativa a Idlib e Aleppo e la frontiera turca. La Turchia ha da anni sigillato il proprio confine e non fa passare profughi siriani nel proprio Paese, dove dal 2011 sono giunti più di tre milioni di civili siriani. In tutta l’area di Idlib e Aleppo sotto controllo turco vivono 4 milioni di persone. Di queste quasi tre milioni (2 milioni e ottocentomila) hanno bisogno di urgente assistenza umanitaria. In questo gioco tra potenze, gli attori sono tre: Erdogan e il suo omologo siriano, Bashar al-Assad sui lati opposti, in mezzo Vladimir Putin, storico alleato del leader alawita e con il quale anche il presidente turco ha relazioni diplomatiche buone, ma altalenanti. Il presidente turco è volato ieri a Mosca per cercare una soluzione all’escalation militare. Sorridono, si stringono la mano, si combattono e poi scendono a patti, negoziando tregue e preparando guerre. Come complici che si spartiscono territori e potere. Il destino di milioni di disperati, di una umanità sofferente, nelle mani di un autocrate russo, di un “gendarme” turco e di un “macellaio” siriano. È la vergogna del Terzo Millennio.
Atene spara contro i profughi, Von Der Leyen: “Grecia nostro scudo”. Redazione de Il Riformista il 4 Marzo 2020. «Chi cerca di mettere alla prova l’unità dell’Europa resterà deluso. Manterremo la linea e la nostra unità prevarrà. La Turchia non è un nemico e le persone non sono mezzi per raggiungere un obiettivo. Grazie alla Grecia per essere il nostro scudo», ha dichiarato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, in conferenza stampa con i presidenti delle altre istituzioni europee e il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, in una visita alla frontiera greco-turca. Ha poi garantito «pieno sostegno e solidarietà dell’Ue alla Grecia», definendo la situazione alla frontiera «molto tesa». «Le preoccupazioni greche sono le nostre», per questo Von der Leyen si è detta «pronta a mobilitare le risorse» per sostenere Atene. L’impegno della presidente consiste in un’assistenza finanziaria da 700 milioni di euro, l’attivazione del meccanismo di protezione civile e il rinforzo di Frontex. Dei 700 milioni di euro di assistenza finanziaria per la gestione dei migranti, 350 milioni «sono disponibili immediatamente», mentre altri «350 potranno essere richiesti come parte di un emendamento del bilancio». Il pieno appoggio dell’Ue ad Atene arriva mentre si registrano forti tensioni e scontri tra i militari greci e i migranti che provano ad attraversare il confine. Un video circolato lunedì mostrava la Guardia costiera greca respingere con la forza un gommone carico di persone che voleva entrare in Europa dalla Turchia cercando prima di speronarlo, e poi sparando e allontanandolo con dei bastoni.
L.Cr. per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2020. L'Europa fa quadrato con la Grecia contro le «inaccettabili provocazioni» della Turchia. Non si abbandonano i principi di umanità e giustizia, però si risponde con fermezza alla «strumentalizzazione politica» della questione migranti da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. La via della fermezza è corroborata da fatti concreti, con l'invio di mezzi militari, soldati e 700 milioni di euro al governo di Atene. È il messaggio arrivato ieri dai massimi rappresentanti Ue venuti in visita a Kastanies, che in questi giorni è uno dei punti più caldi sul confine di terra greco-turco, con decine di migliaia di migranti ammassati sulla parte orientale, dopo che la settimana scorsa Erdogan aveva personalmente dato la luce verde all' esodo in flagrante violazione degli accordi firmati nel 2016, per cui Bruxelles s' impegnava a pagare 6 miliardi di euro in cambio dell' impegno turco a farsi carico dei migranti. «Il confine greco è anche il confine europeo, il nostro scudo», dice Ursula von der Leyen a Kyrikos Mitsotakis. Poco prima il premier greco ha accompagnato la presidente della Commissione europea per un tour in elicottero mirato ad osservare dall' alto le dimensioni del problema nella regione. Sole e aria limpida: dalla parte greca sono ben visibili migliaia di poliziotti e militari pronti ad intervenire, dall' altra decine di migliaia di civili disposti a tentare il tutto per tutto con la benedizione di Erdogan. Fanno tra gli altri parte della missione Ue anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, oltre al presidente del Parlamento, David Sassoli. «Se un anno e mezzo fa avessimo rivisto il trattato di Dublino, oggi saremmo meglio preparati. Tra l' altro, ci sono tanti minori non accompagnati e l' Europa ha il dovere morale di occuparsi di loro», specifica Sassoli. Centrale resta il principio condiviso per cui i partner europei intendono sostenere in modo unitario le richieste greche. «Non è più il problema dei profughi», esclama infervorato Mitsotakis. «Siamo piuttosto di fronte allo sfacciato tentativo turco di strumentalizzare le sofferenze di migliaia di civili vittime della guerra per promuovere la propria agenda geopolitica», aggiunge. In risposta ottiene la mobilitazione attiva dell' agenzia Ue di protezione militare Frontex. Von der Leyen dettaglia la consistenza della mossa: una nave armata, tre guardiacoste, due elicotteri, un aereo, tre veicoli dotati di apparecchiature a visione termica, cento guardie di frontiera (che si aggiungono alle 530 inviate in precedenza). I contributi finanziari dovrebbero tra l' altro servire per l' accoglienza. Non manca però una mossa volta a rilanciare il dialogo con Ankara. Nei prossimi giorni il capo della diplomazia Ue, Josep Borrell con il commissario Janez Lenarcic, dovrebbe incontrare i turchi per discutere della situazione in Siria e soprattutto spingere la Russia affinché blocchi l' offensiva dell' esercito siriano contro l' enclave di Idlib.
Da ilfattoquotidiano.it il 5 marzo 2020. La Turchia non indietreggia e porta avanti lo scontro con l’Europa su due fronti. Il primo è quello di Idlib, l’ultima roccaforte dei ribelli siriani dove sta sostenendo gli insorgenti per respingere l’offensiva del regime di Damasco, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanesi. Il secondo è quello al confine greco, dove continuano ad arrivare migliaia di rifugiati provenienti dal paese sul Bosforo che le forze di sicurezza di Atene stanno continuando a respingere, con numerosi scontri che si sono registrati tra migranti e forze di sicurezza di Atene. Dopo la visita dei presidenti di Commissione, Parlamento e Consiglio Ue al confine, accompagnati dal primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, numerosi scontri tra migranti e forze di sicurezza di Atene sono avvenuti in prossimità del confine. I migranti hanno lanciato pietre contro la polizia di frontiera greca che ha risposto con gas lacrimogeni e granate stordenti. Testimoni riferiscono inoltre di aver udito diversi spari. Sulla sponda turca del confine sono giunte numerose ambulanze. Atene ha inoltre diffuso un video in cui compare un poliziotto turco che spara gas lacrimogeno verso la frontiera greca. Si segnala al momento almeno un ferito, colpito da un proiettile alla gamba mentre alcuni migranti cercavano di attraversare le recinzioni nei pressi del valico di frontiera di Pazarkule (Kastanies sul lato greco). Il prefetto della provincia frontaliera turca di Edirne ha però accusato la polizia del vicino europeo di aver “sparato utilizzando anche proiettili veri” e sostiene che nelle violenze è morto almeno un migrante, con altri cinque che sono rimasti feriti. Secondo il racconto delle autorità turche, una delle persone è stata colpita alla testa, una nella zona inguinale, una al torace e tre ai piedi. Quella ferita al torace, che non è stata ancora identificata, è poi deceduta in ospedale. Agli scontri hanno assistito membri della commissione Diritti umani del Parlamento di Ankara che erano giunti stamani sul posto per un’ispezione. Un’inchiesta sull’accaduto è stata inoltre aperta dalla procura locale. La Grecia “nega categoricamente” di aver sparato contro i migranti al confine greco-turco. “La Grecia tratta i migranti in modo orribile e poi incolpa la Turchia”, ha detto il direttore delle comunicazioni della presidenza turca, Fahrettin Altun, nel giorno in cui il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, incontra il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, e l’Alto rappresentante per la Politica Estera europea, Josep Borrell, con il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarcic, vedono il vicepresidente, Fuat Oktay. “Oggi ogni Paese europeo che cerca di rimandare indietro i rifugiati a cui ha chiuso i confini, picchiandoli e affondando le loro barche, viola la Dichiarazione universale dei diritti umani. La Grecia affonda i gommoni lasciando morire i bambini a bordo”, ha aggiunto lo stesso Erdogan in un discorso al gruppo parlamentare del suo AkParti, ad Ankara. Il leader ha chiesto alla Grecia di non usare la violenza contro le persone al confine, che lui stesso ha deciso di inviare come strumento per minacciare l’Ue, sia per la questione dei finanziamenti legati all’accordo sul contenimento dei flussi migratori del 2016 che per chiedere sostegno nel teatro siriano: “Abbiamo aperto le porte ai rifugiati che vogliono andare in Europa – ha continuato – Questa decisione è in linea con il diritto internazionale. Invitiamo tutti i Paesi Ue, e in particolare la Grecia, a rispettare i rifugiati che giungono nel loro territorio, conformemente alla Dichiarazione universale dei diritti umani”. In un tweet del portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, l’Ue ha risposto alle dichiarazioni del Sultano: “Bisogna ristabilire la collaborazione, cercando nuove soluzioni ed evitando passi unilaterali”. Ma il presidente di Ankara ha dichiarato che “se i Paesi europei vogliono risolvere la questione (dei migranti, ndr), devono sostenere gli sforzi della Turchia per soluzioni politiche e umanitarie in Siria”. Proprio per sostenere la Grecia in vista della nuova ondata migratoria, la Commissione europea ha proposto un pacchetto di aiuti fino a 700 milioni di euro: 350 sono “immediatamente disponibili” per la gestione della frontiera, in particolare per aumentare la capacità di accoglienza, mentre altri 350 dovrebbero arrivare da un emendamento al bilancio che la Commissione presenterà. Nella proposta si chiede anche agli Stati membri di fornire gli equipaggiamenti e il personale necessari a Frontex perché possa lanciare due interventi rapidi ai confini terrestri e marittimi tra Grecia e Turchia, oltre a gestire un piano di rimpatri che non hanno diritto di restare nel Paese. Ai membri Ue verrà anche chiesto di rispondere alle esigenze della Grecia, tramite il meccanismo Ue di Protezione Civile, di ricevere equipaggiamenti medici, tende, coperte e altri articoli necessari, oltre a 160 esperti in procedure di asilo. L’Ue ha inoltre annunciato 170 milioni di euro di aiuti umanitari per continuare ad assistere le persone più vulnerabili in Siria. Lo riferisce una nota del servizio di azione esterna della Ue, precisando che, di questi, “60 milioni di euro” serviranno “per far fronte alla crisi umanitaria nel nord-ovest della Siria”. I finanziamenti Ue annunciati oggi aiuteranno la popolazione siriana in tutto il paese. Nel suo discorso, Erdogan ha anche aggiunto che “come non lasceremo il nostro Paese ai terroristi, non lasceremo il popolo siriano innocente alla mercé del regime criminale e dei suoi sostenitori. Con le nostre ultime operazioni militari abbiamo dimostrato ancora una volta di essere un Paese che sa combattere, ma che non vuole la guerra”. Ha infatti aggiunto che la Turchia spera di “ottenere un cessate il fuoco il più rapidamente possibile”. Speranza che potrebbe avverarsi nel vertice di domani, nel corso del quale vedrà, tra gli altri, anche il presidente russo, Vladimir Putin. Gli scontri però continuano e due soldati turchi sono rimasti uccisi e 6 feriti a Idlib. I militari di Ankara hanno “immediatamente risposto” al fuoco nemico, ha fatto sapere il Ministero della Difesa turco, provocando, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, la morte di nove militari lealisti. L’attacco, dicono, è avvenuto con dei droni, nella zona di Saraqeb. Salgono così ad almeno 39 i soldati turchi uccisi a Idlib nell’ultima settimana, mentre Ankara sostiene di aver “neutralizzato” (cioè ucciso o ferito) 3.138 combattenti di Damasco dall’inizio dell’operazione ribattezza Scudo di Primavera, il 27 febbraio scorso. Il presidente della Turchia, che ieri ha ospitato nel Paese l’inviato speciale di Donald Trump per la Siria, James Jeffrey, ha poi rivelato di aver chiesto agli Stati Uniti un sostegno per la campagna di Idlib attraverso l’invio di armi e munizioni. Agli attacchi nei confronti della coalizione a sostegno del governo siriano di Bashar al-Assad ha risposto il Ministero della Difesa russo, accusando la Turchia di aver violato la legge internazionale schierando una divisione meccanizzata nella zona di Idlib: “Nessuno in Occidente nota le azioni di Ankara che ha dispiegato in violazione del diritto internazionale un gruppo offensivo grande quanto una divisione meccanizzata al fine di ‘garantire con tutti i mezzi l’adempimento dell’accordo di Sochi'”, ha dichiarato il portavoce Igor Konashenkov. La divisione potrebbe essere composta da 14mila militari, 250 carri armati e altre 300 unità corazzate, fa sapere Interfax. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha invece dichiarato che “sono in programma piani per discutere la crisi di Idlib con Erdogan. Ci aspettiamo che si raggiunga un’intesa sull’origine di quella crisi, sulle ragioni di quella crisi, sulle ricadute di quella crisi e sul pacchetto di misure congiunte necessarie per porvi fine”.
Erdogan adesso sfida l'Europa sui migranti: "Mi avete sottovalutato". Il presidente turco rivela che dall'Europa adesso giungono chiamate e richieste per provare a ridimensionare la portata del flusso migratorio diretto verso il vecchio continente. Mauro Indelicato, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. E adesso Erdogan gongola: il “sultano” sa bene di avere l’Europa in pugno, sa che sulla questione migratoria il vecchio continente sarà sempre disposto ad assecondarlo nei suoi ricatti pur di bloccare ogni frontiera. Il presidente turco non fa nulla per nasconderlo, anzi adesso ha pure rilanciato: “L’Europa ci ha sottovalutato – ha dichiarato Erdogan al quotidiano turco Hurriyet – Avevamo detto che avremmo aperto le porte ma ci hanno sottovalutato. Quando è successo, il telefono ha cominciato a squillare”. Il riferimento è ai proclami enunciati nei giorni scorsi da Ankara, secondo cui adesso il governo non tratterà più i migranti che vogliono andare in Europa. E questo perché, secondo lo stesso Erdogan, il vecchio continente è stato reo di non essersi completamente schierato dalla sua parte nell’ambito della battaglia di Idlib. Qui, in questa che costituisce l’ultima provincia siriana ancora fuori dal controllo del presidente Bashar Al Assad, nei giorni scorsi sono morti più di 30 soldati turchi entrati in territorio siriano per dar manforte ai gruppi islamisti rivali dell’esercito di Damasco. Da allora, il sultano ha iniziato una rappresaglia contro i soldati siriani mentre dall’Europa ha chiesto maggior sostegno anche in virtù dell’appartenenza della Turchia alla Nato. Circostanza questa non avvenuta, da qui la minaccia intentata da Erdogan sul fronte migratorio: via i controlli, stop al mantenimento dei profughi all’interno del suo paese. In poche ore, le frontiere con la Grecia sono diventate autentici campi di battaglia con l’esercito ellenico che anche in queste ore sta provando a respingere l’immensa pressione migratoria improvvisamente arrivata lungo i suoi confini sia marittimi che terrestri. Una situazione difficile per Atene e che ha iniziato a preoccupare Bruxelles. Qui le istituzioni comunitarie avrebbero intrapreso una prima opera diplomatica volta ad evitare il verificarsi di scenari simili a quelli del 2015, quando più di mezzo milione di siriani si sono spinti verso l’est ed il nord Europa tramite la cosiddetta “rotta balcanica”. La maggiore preoccupazione è della Germania, la quale nel 2016 è stata prima promotrice di un accordo con la Turchia dal valore di tre miliardi all’anno valevole per tre anni, da erogare ad Ankara in cambio del mantenimento dei profughi siriani all’interno dei confini del paese anatolico. Adesso che i migranti sono tornati prepotentemente a bussare, è molto probabile che da Berlino e da altre capitali del nord Europa arrivi l’input ad attuare un altro accordo del genere con il governo turco. Ed Erdogan, per l’appunto, adesso ostenta quasi come un trofeo le nuove chiamate a lui rivolte dal vecchio continente. La sua strategia, secondo l’ottica di Ankara, starebbe pagando. Agitare lo spettro dei migranti ha dimostrato, ancora una volta, quanto sia ricattabile l’Ue sotto questo profilo e quanto Erdogan, da qui in avanti, continuerà ancora a far riferimento ai profughi per raggiungere i propri scopi.
Bonino contro Erdogan sui migranti: "L'Ue ha fallito". Ma la soluzione dell'ex ministro degli Esteri non è quella di limitare i flussi: "Dieci anni fa il Paese Ue con la percentuale più alta di over 65 era la Germania. Oggi è l'Italia e la Germania è scesa al quinto posto, grazie all'immigrazione". Roberto Vivaldelli, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. Su una cosa Emma Bonino, leader dei radicali ed ex ministro degli Esteri, ha perfettamente ragione: sul tema dei migranti l'Unione europea ha fallito, dando ad Erdogan "il coltello per il manico". Mentre migliaia, forse decine di migliaia, di rifugiati ormai si accalcano al valico di frontiera tra Grecia e Turchia, dopo che Ankara ha deciso di non impedire più il flusso di migranti richiedenti asilo verso l'Europa, Emma Bonino spiega a La Repubblica che quella dei migranti "è un'emergenza politica in cui i migranti non sono il problema, ma la manifestazione del problema, che - osserva -è l'assenza di qualunque progetto e responsabilità di governo su un tema che impegnerà tutti gli Stati europei per i prossimi decenni". "Erdogan- sottolinea Emma Bonino- ha guadagnato due volte dall'accordo (con l'Ue), in termini economici e in termini strategici, perché oggi dispone di una 'bomba umanà di milioni di profughi, che può fare esplodere quando vuole. L'Europa ci ha perso due volte, perché ha pagato per farsi ricattare, e perché ora deve gestire un'emergenza che non sarebbe stata tale se negli anni si fossero ordinatamente accolti e ricollocati in Ue i profughi siriani". Fin qui, tutto bene. Ma la soluzione dell'ex ministro degli esteri non è quella di limitare i flussi, ma di aprire le frontiere ai migranti: "Un continente di 513 milioni di abitanti come la Ue non solo può permettersi, ma deve anche attivamente organizzare flussi migratori ordinati e robusti" spiega. "Dieci anni fa il Paese Ue con la percentuale più alta di over 65 era la Germania. Oggi è l'Italia e la Germania è scesa al quinto posto, grazie all'immigrazione". Per Bonino, dunque, l'immigrazione di massa rappresenta un destino ineluttabile: piuttosto che farci ricattare dal presidente turco Erdogan, dunque, è meglio aprire i confini. Come spiega Jean-Louis Harouel nel suo saggio I diritti dell'uomo contro il popolo (liberilibri, 2019), "l'ondata verso l'Europa dell'immigrazione extra-europea", è presentata dai suoi fautori "come buona e giusta perché iscritta nella meccanica irresistibile e necessariamente benefica del senso della storia". Uno storicismo caratteristico dei messianismi e dei millenarismi secolari. L'ex ministro degli esteri dimentica totalmente i rischi per la sicurezza nazionale e la cara vecchia ragion di stato. Al contrario, secondo la storica leader dei radicali "non soccorrere profughi che rischiano la vita e soffrono la fame non è solo disumano, è contrario alle regole di diritto a cui siamo vincolati. Non si deroga all'umanità né alle regole di diritto". Immancabilmente, l'invito di Bonino è quello di "europeizzare" la crisi. La colpa è degli odiatissimi stati. Secondo Bonino "l'Italia rimane prigioniera, anche con questo esecutivo, della trappola sovranista, che è un' ideologia che esibiamo, ma è innanzitutto un costo che subiamo, visto che l' assenza di integrazione e coordinamento europeo su questi temi oggi danneggia soprattutto l' Italia. Sono gli stati "sovrani" a portare la Ue alla paralisi". La storica leader dei radicali non riesce a fare i conti con la realtà: il mondo è formato da stati, che agiscono sulla base dei rispettivi interessi nazionali. Non sono certo gli stati ad aver causato la crisi politica dell'Unione europea, quanto l'illusione che gli altri Paesi europei non si muovano sulla base di essi. Una visione ideologica che non tiene conto della realtà, proprio come sul tema immigrazione.
Ecco perché Erdogan potrebbe andare in crisi. Mauro Indelicato su Inside Over il 5 marzo 2020. Isolato a livello internazionale, dopo aver innescato un’escalation contro Assad ad Idlib ed aver chiesto invano l’aiuto di Ue e Nato, Erdogan non sembra poter dormire sonni tranquilli anche sul fronte interno. Qui già un po’ di tempo la sua parabola appare in discesa: l’Akp, il partito da lui fondato nel 2001, ha perso il controllo di tutte le principali città turche nelle amministrative dello scorso anno, comprese Istanbul ed Ankara. Il consenso, complice anche un momento non felice dell’economia, non è più ai massimi livelli già da anni. Il presidente turco ha quindi provato a solidificare e compattare il fronte interno con le avventure militari, sia quelle anti curde in Siria che quelle più recenti in Libia ed anti Assad ad Idlib. L’obiettivo era quello di tenere unito il paese di fronte alle minacce terroristiche e presentare Ankara come un nuovo attore di primo piano nell’area mediorientale. Ma i risultati al momento non sono stati quelli sperati da un sultano sempre più circondato.
L’impatto di militari morti e nuovi profughi. Negli ultimi giorni ad Istanbul sono state affisse nei luoghi pubblici sempre più bandiere turche, anche al di là di quelle di ordinanza. Nelle università, così come nelle stazioni della metropolitana, all’ingresso o nei luoghi di aggregazione del pubblico hanno fatto più o meno improvvisamente la loro comparsa grandi bandiere con la mezzaluna ben notate da cittadini e turisti. E questo non costituisce, per la verità, una grande novità. Ma è emblema di ciò che sta accadendo nel paese: il governo vorrebbe innestare nell’opinione pubblica, dopo la morte di più di 50 soldati nella provincia siriana di Idlib, un senso di solidarietà ed orgoglio nazionale in grado di fare leva sul senso patriottico molto alto dei turchi. Un modo per l’attuale governance anche per appianare ogni sorta di polemica e di dibattito politico sull’opportunità delle missioni militari a cui i militari sono stati esposti da Erdogan. Tuttavia, l’effetto per il momento è parzialmente opposto. Non sono pochi, specialmente nelle grandi città, coloro che al fianco del sentimento di lutto nazionale contrappongono anche la collera per come si è arrivati alla morte dei propri soldati. Se la motivazione volta al contrasto dei gruppi curdi ha retto ad ottobre, in occasione dell’operazione “Primavera di Pace” lanciata nel nord della Siria, questa volta c’è una parte di opinione pubblica che ha iniziato a considerare le missioni in Libia e ad Idlib come “capricci” di Erdogan. E dunque, in tanti non comprendono come mai il governo abbia mandato a morire i propri militari a Tripoli e nella stessa Idlib. Già dopo le prime conferme delle vittime turche in Libia, arrivate nei giorni scorsi, molti cittadini hanno iniziato a non gradire le ultime prese di posizione di Ankara in politica estera. La morte di 50 soldati uccisi in Siria, ha provocato un più forte impatto emotivo sulle persone. A questo occorre aggiungere anche la situazione dei profughi. Erdogan in migliaia li sta lasciando andare verso l’Europa per ritorsione, dopo che da Bruxelles non è arrivata alcun appoggio alla Turchia ad Idlib. Ma tra i gruppi partiti alla volta della Grecia, nella stragrande maggioranza dei casi si ritrovano migranti irregolari non siriani la cui presenza nelle grandi città è fonte di critiche al governo. Erdogan spera di spedirli adesso in Europa, ma tanti altri ne potrebbero arrivare da Idlib per via delle operazioni militari in corso. Ed ogni migrante che entra in Turchia rappresenta una critica in più per il governo, reo secondo i partiti di opposizione di aver fallito il proprio approccio in politica estera.
I malumori dell’esercito. Se fin qui il quadro sopra descritto è di natura politica, i timori principali per Erdogan in realtà potrebbero arrivare dall’esercito. Dopo il fallito golpe del 2016, il presidente turco ha avviato una fase di totale stravolgimento delle forze armate: sono stati cambiati molti generali e molti comandanti, ma soprattutto sono stati espulsi coloro che erano sospettati di appartenere al gruppo di Fethullah Gulen, il magnate in auto esilio negli Usa nemico numero uno di Erdogan e sospettato da quest’ultimo di aver messo in piedi un vero e proprio “anti Stato“. Tuttavia, il presidente turco non può controllare l’esercito al pari di come controlla il parlamento. Così come fatto notare su AgenziaNova nei giorni scorsi, “l’esercito è erede della tradizione laicista e kemalista, resta un corpo a sé stante nel panorama nazionale, con frequenti contatti internazionali e percorsi formativi diversi da quelli dell’apparato burocratico civile”. Se la morte di numerosi soldati in Siria ed in Libia ha destato molto clamore nella popolazione, a maggior ragione gli ultimi episodi hanno destato non poche perplessità in seno all’esercito. Molti militari oramai avvertono la sensazione di essere mere pedine da sacrificare sull’altare delle velleità di Erdogan. E di questo il presidente turco, vista la storia caratterizzata da numerosi golpe nel suo paese, dovrà tenerne in qualche modo conto.
Odi e vendette: così il clan Assad ha dominato la Siria. Marta Serafini il 17 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Da oltre cinquant'anni una sola famiglia ha mantenuto il controllo di uno dei Paesi più importanti del Medio Oriente. Ma ora il suo esponente più discusso, Bashar, pur avendo vinto la guerra, rischia di perdere la pace. Questa è la storia di un presidente che non doveva esserlo, di un clan attraversato da odi e vendette, intrighi, omicidi e loschi affari. Ma soprattutto è la storia di una famiglia al potere da mezzo secolo. E che un giorno, forse non molto lontano potrebbe essere costretta a cedere lo scettro del potere. Welcome to House of Assad, welcome to Damasco, welcome to Siria, teatro di una delle peggiori carneficine della nostra epoca. Sembra una serie di Netflix ma non lo è. Per capire cosa sta succedendo in questi mesi in Siria bisogna riavvolgere il nastro e risalire in cima all’albero genealogico del clan.
La «bestia» ora si è guadagnata rispetto. E può cambiarsi nome in Al-Assad, il leone.
Tutto ha inizio con Sulayman al-Wahhish, un alawita delle montagne siriane settentrionali nel villaggio di Qardaha, nel governatorato di Latakia. Il suo nome non era nemmeno Assad ma «Wahhish», che in arabo significa la «bestia». Di Sulayman non si trovano tracce nelle polverose strade siriane fino al 1936 quando, secondo lo storico statunitense Daniel Pipe, firma una lettera indirizzata al primo ministro francese Léon Blum nel 1936. Nella missiva implora i francesi di non abbandonare il loro mandato sulla Siria e di continuare a mantenere il governatorato alawita indipendente dal resto del Paese. Una richiesta sensata dal suo punto di vista, se si pensa che a quell’epoca gli alawiti, minoranza musulmana additata dalla maggior parte dei sunniti come eretici o infedeli, erano già stati perseguitati per secoli fino al 1919, anno dell’inizio del protettorato di Parigi. Come per ogni clan che si ricordi, però più che le lettere e le preci sono stati le armi e il sangue a determinare il corso della storia. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il governatore ottomano di Aleppo invia truppe nell'area di Latakia per raccogliere le tasse e radunare le reclute. È l’occasione che Sulayman sta aspettando: armato solo di sciabole e vecchi moschetti, respinge i soldati del governatore. Molto meglio delle suppliche per farsi un nome: la «bestia» ora si è guadagnata rispetto. E può cambiarsi nome in Al-Assad, il leone.
Il Clan.
Rifaat Assad. Responsabile del massacro di Hama.
Hafez Assad. Presidente dal 1971 fino alla sua morte nel 2000.
Anisa Makhlouf. First lady dal 1971 fino al 2000. È morta nel 2016.
Mohammed Makhlouf. Fratello di Anisa
Jamil Assad. Morto del 2004, non faceva parte del cerchio magico.
Bashar Assad.Presidente dal 2000.
Asma Assad. First lady dal 2000.
Maher Assad. È comandante nella Quarta divisione corazzata ed è di fatto capo della Guardia repubblicana.
Manal Al-Jadaan. Moglie di Maher Assad.
Bushra Assad. Ha lasciato la Siria nel 2012 per gli Emirati.
Assef Shawkat. Ucciso nel 2012 era capo dell’intelligence militare e vice ministro della Difesa.
Basil Assad. Morto in un incidente d’auto nel 1994.
Majad Assad. Morto nel 2009 soffriva di una malattia mentale.
Rami Makhlouf. È uno dei quattro cugini di Bashar e business man che controlla la Syriatel con strettissimi legami con il regime.
La forza però, soprattutto in Medio Oriente, non basta a garantire prosperità e ricchezze. Per vedere un Assad a palazzo bisognerà aspettare gli anni ‘70. Vero artefice della scalata è Hafez, il Padre, nipote del Leone. Due le combinazioni che rendono possibile l’impresa. La prima è che Hafez si unisce molto giovane al partito Baʿth e la seconda è che, non avendo abbastanza denaro per frequentare l’università, si iscrive all’accademia militare, circostanza che gli permette di entrare in contatto con l’elite del Paese. Hafez è un alawita, parte svantaggiato. Ma rappresenta una Siria laica che preme per prendere il potere in piena Guerra Fredda. Data la sua determinazione viene inviato ad addestrarsi in Unione sovietica. Ma è dopo che nel 1966 il Baʿth porta a segno un colpo di Stato all'interno del regime e sopprime gli altri partiti politici che partecipavano al governo, che riesce finalmente a mettere le zampe su una delle poltrone più importanti del governo. Hafez viene nominato ministro della Difesa siriano. Ed è da questa posizione che il discendente del Leone, il 13 novembre 1970, tira l’unghiata. Hafez, il Padre, l’uomo cui forse sono dedicate più state in tutto il Medio Oriente diventa presidente della Siria. Stare al vertice per un alawita, in un paese a maggioranza sunnita non è semplice. Molti conservatori considerano questa minoranza come una setta eretica e non amano essere governati da politici «non-musulmani». Inoltre Hafez è un laico che si è alleato con l'Unione Sovietica, diventata decisamente impopolare tra i musulmani dopo la sua occupazione militare dell'Afghanistan nel 1979. Alla fine degli anni Settanta, il dissenso religioso e l’opposizione dei moderati crescono a tal punto da convincere gli oppositori ad unire le proprie forze ai Fratelli musulmani. La miccia è accesa: durante i primi anni Ottanta una serie di attentati insanguina Damasco. Il presidente stesso finisce nel mirino e il 26 giugno 1980, nel corso di un ricevimento di Stato in onore del presidente del Mali, prima evita una raffica di mitragliatrice e poi riesce ad allontanare con un calcio una granata che gli è stata lanciata contro. Il tutto mentre una sua guardia del corpo si sacrifica per attutire l'impatto dell'esplosione di una seconda granata. Sopravvissuto con solo lievi ferite, Hafez fa scattare una vendetta rapida e spietata: poche ore più tardi varie centinaia di integralisti vengono imprigionati e uccisi.
RIFAAT ASSAD. Il compito di lavare l’onta è affidato al fratello Rifaat che si aggiudica il soprannome di «macellaio di Hama».
Il compito di lavare l’onta è affidato al fratello Rifaat che, in tutta riposta, trascina nella prigione di Tadmur a Palmira migliaia di oppositori, la stessa dove trent’anni più tardi il nipote Bashar farà rinchiudere gli oppositori. Il 2 febbraio 1982 la popolazione di Hama, in stragrande maggioranza sunnita insorge. In quattro giorni vengono uccisi circa 300 baʿthisti e i militari di un'unità di paracadutisti inviata dall'esercito. Le forze armate siriane, organizzate e guidate da Rifaat, replicano con un durissimo assedio e lo spietato bombardamento di Hama, durati 27 giorni, nel corso dei quali fanno «terra bruciata» su un terzo della città. Non certo con un eufemismo, Rifaat si aggiudica il soprannome di «macellaio di Hama». Il fratello minore però non ci sta a stare nelle retrovie a fare il lavoro sporco del maggiore. E così due anni dopo decide di tentare il colpo e progetta un golpe ai danni di Hafez indebolito da un infarto. Il leone più giovane tenta di sbranare il più anziano. Ma non ce la fa. Se ne andrà in esilio portandosi dietro 300 milioni di dollari. Destinazione, Francia dove tutt’ora oggi vive da magnate del settore immobiliare e dove è perseguito per appropriazione indebita ed evasione fiscale. Sempre più provato e costretto a guardarsi le spalle, Hafez può contare su poche persone. Tra queste c’è il primogenito, Basil. Entrato nell’esercito giovanissimo, ha fatto carriera ed è diventato il capo della guardia repubblicana. Dopo l’infarto del padre inizia ad accompagnarlo nelle occasioni pubbliche. È lui il figlio che meglio capisce il padre. «Era così impegnato che potevano passare tre giorni senza che ci scambiassimo una parola. Non abbiamo mai fatto colazione o cenato insieme, e non ricordo di aver mai pranzato insieme in famiglia, o forse lo abbiamo fatto solo una o due volte per cene di Stato. Come famiglia, trascorrevamo un giorno o due a Latakia in estate tutti insieme, ma anche in quel caso lui lavorava in ufficio e non riuscivamo a vederlo molto», racconterà in un’intervista al giornalista irlandese Patrick Seale, grande conoscitore della Siria e del Medio Oriente. Soprannominato dalla stampa di regime «cavaliere d’oro» per le sue abilità da cavallerizzo, Basil sarà paragonato dall’ex direttore della Cia Michael Hayden a Sonny de Il padrino. Per Hafez il «boss», il figlio è una garanzia: molto meglio di Maher, troppo incline alla violenza, o di Bashar considerato troppo debole o, peggio ancora, dell’ultimo genito Majad, dipendente dall’eroina e con gravi problemi psichiatrici. Ma Basil, appassionato di auto veloci, nel 1994, si schianta in un incidente cambiando il corso della storia. E Hafez sempre più debole - morirà nel 2000 stroncato da un infarto mentre è al telefono con il presidente libanese Émile Lahoud - è costretto a richiamare in patria Bashar. Bashar, dopo la laurea in medicina, conseguita nel 1988 all'Università di Damasco, era stato mandato nel Regno Unito per specializzarsi in oculistica. Nel documentario della Bbc «A Dangerous Dynasty» un tutor britannico, assunto dalla famiglia per insegnare l'inglese a Basil, ricorderà «Una volta ho incontrato Bashar mentre stava entrando in casa ma non sono riuscito a ad avere un contatto visivo con me teneva sempre gli occhi bassi». Sebbene non abbia mai dimostrato alcun interesse nella vita politica né abbia il carattere adatto al comando, dopo essere stato inserito velocemente nell’esercito, nel 2000 dopo la morte del padre diventa presidente, grazie anche ad una modifica della legge che vieta la carica ai minori di 35 anni. «Gran parte della famiglia era spaventata dalla sua ascesa al potere. Nessuno si sentiva al sicuro», spiega Sam Dagher, giornalista statunitense e autore di «Assad or We Burn the Country: How One Family’s Lust for Power Destroyed Syria», che in Siria ha vissuto anni prima di essere arrestato ed espulso. Ed è a questo punto della partita che entrano in gioco i Makhlouf. A portare questo cognome è Anisa, la first lady siriana moglie di Hafez. Anisa è cresciuta in un umile ambiente rurale ed è anche lei alawita. Dopo la morte del marito, diventa il vero centro del potere siriano e usa la sua influenza per rafforzare la posizione dei suoi parenti in modo da controllare Bashar. A Maher, il secondogenito favorito, fa assegnare il controllo di unità militari chiave come la Guardia repubblicana e il 42 ° battaglione che controlla i pozzi di petrolio nella provincia orientale di Deir Ezzor. Al fratello Muhammad Makhlouf e ai suoi figli, Hafez, Ayyad e Rami, permette di prendere in mano i settori più importanti dell’economia siriana.
RAMI MAKHLOUF. Negli anni Rami e suo padre, Muhammad, costruiranno un impero commerciale e un patrimonio superiore ai 5 miliardi di dollari.
Ed è proprio in quegli anni che Rami Makhlouf fonda e diventata Ceo di Syriatel, una delle due società di telecomunicazioni in Siria che avrebbe continuato a dominare il 70 percento del mercato. Negli anni Makhlouf e suo padre, Muhammad, costruiranno un enorme impero commerciale e un patrimonio superiore ai 5 miliardi di dollari, mentre Hafez e Ayyad Makhlouf domineranno sugli apparati di sicurezza dello stato. Secondo Sam Dagher, i Makhlouf - di fatto - hanno controllato gli Assad per almeno dieci anni. Rami è il parente più vicino al presidente, lo assiste e lo consiglia. E sarebbe lui ad averlo incoraggiato a sparare sui manifestanti dopo le rivolte del 2011 e ad utilizzare l’immagine della moglie Asma gradita all’estero per rafforzarsi. La rosa del deserto, come la soprannomina Vogue in una copertina, è oltretutto una ex manager capace di gestire conti e flussi finanziari. Nata da una famiglia di mercanti sunniti di Homs e Damasco, è sempre apparsa delicata e gentile. Ma dietro l’aria da moglie devota nasconde un carattere molto più ambizioso. Ha iniziato a lavorare presso la sede londinese della Deutsche Bank come analista di hedge fund, si è occupata di clienti in Estremo Oriente e in Europa. E ha lavorato alla J.P. Morgan, fino al matrimonio nel 2000. Asma ha una nemica all’interno della famiglia: Anisa, la madre di Bashar, che tenta in tutti i modi di limitare il ruolo pubblico della moglie del figlio. »Prima del 2011, i censori del regime non avrebbero nemmeno permesso a noi giornalisti di riferirsi ad Asma come «first lady», racconta Iyad Aissa, giornalista dell'opposizione siriana che ha scritto ampiamente sulla famiglia Assad. «Ci è stato permesso di descrivere Asma solo come "la moglie del presidente", a differenza di Anisa, la madre di Bashar, rimasta first lady anche dopo la morte di Hafez».
ANISA MAKHLOUF. Anisa odia Asma e tenta in tutti i modi di limitare il ruolo pubblico della moglie del figlio.
Sarà solo dopo la morte di Anisa nel febbraio 2016, che Asma, oggi 44enne vede la sua stella iniziare a brillare. «L'antipatia di Anisa Makhlouf per sua nuora era un riflesso della sua preoccupazione per la mancanza di sostegno da parte di Bashar al-Assad tra la gente», sottolinea ancora Dagher. Se infatti sotto Hafez istruzione, sanità e servizi erano garantiti al popolo secondo un’impostazione sovietica, dal 2000 in poi le disparità sociali si erano profondamente acuite. Soprattutto dopo la fine dell’occupazione siriana in Libano nel 2005, la crisi economica del 2008 e una serie di siccità dal 2009, la vita dei siriani medi era diventata intollerabile: mentre famiglie come i Maklhouf e gli Assad facevano soldi a palate, la maggior parte della popolazione pativa la fame. Ed è anche in questo senso da leggere lo scoppio delle rivolte nel 2011 che sfoceranno nella guerra civile prima e nella guerra dopo. Intanto, mentre il mondo impara a conoscere Bashar, fin qui rimasto praticamente nell’ombra, come un feroce «rais» che tortura gli oppositori e sgancia barili bomba sul suo popolo, anche Asma inizia ad avere un ruolo non certo positivo nella storia: «Sono il vero dittatore», si legge in una delle mail hackerate da WikiLeaks e pubblicate nel 2012. La rosa del deserto per tutti diventa la Maria Antonietta di Siria. La sua immagine di donna cosmopolita e benefattrice inizia lentamente ad offuscarsi. Mentre il suo Paese viene massacrato dalle bombe, Asma spende e spande per spese d'arredamento e gioielli. Candelabri, tappeti, lampade da migliaia di sterline mentre l'Onu conta nel paese migliaia di vittime. Dai carteggi esce il ritratto di una donna avida e malata di shopping al punto da non saper resistere a un paio di scarpe incrostate di cristalli da oltre 6mila dollari. All’inizio del conflitto gli Assad hanno ancora bisogno dei Makhlouf. Dal punto di vista finanziario è Rami l’uomo che gestisce gli affari del presidente e della famiglia. E lo dimostrano anche i Panama Papers dai quali emerge sia il nome di Rami che quello di Asma. Per via delle sanzioni dell'Ue, Asma non può più entrare in nessun Stato dell'Unione Europea, ad eccezione della Gran Bretagna, Paese del quale conserva la cittadinanza mentre i Makhlouf vengono inseriti da subito nella lista nera degli Stati Uniti. Con la guerra, la torta delle speculazioni paradossalmente si riduce. E tra la first lady, Bashar e i cugini scoppia una faida. Già nel dicembre 2019, proprio mentre parti crescenti dei beni di Rami venivano congelate sotto vari pretesti dallo stato siriano, quelli dello zio paterno di Asma, Tarif al-Akhras, venivano scongelati. A settembre Asma e un gruppo di fedeli funzionari che in precedenza avevano lavorato nella sua rete di Ong lanciano un'acquisizione ostile contro un'organizzazione di beneficenza gestita da Makhlouf attraverso la quale vengono pagati i salari del Ssnp (Partito nazionalista siriano) e delle milizie fedeli a Rami. Nel dicembre 2019 e nel marzo 2020, il regime sequestra i beni dalle compagnie petrolifere di Rami per ripagare i disavanzi del bilancio dello Stato siriano. Fino a quando a maggio Bashar punta il coltello alla gola del cugino e gli chiede di saldare i suoi debiti col fisco per oltre 300 milioni di euro. Sebbene abbia vinto la guerra, il capostipite Bashar oggi appare in difficoltà. Mosca preme per avere la sua fetta nella torta della ricostruzione postbellica, l’alleato iraniano in difficoltà economica minaccia di non sostenere più militarmente il presidente. «L’attuale faida, quindi, rischia di portare instabilità all’interno dei gruppi sociali più vicini al regime. Per certi versi, l’emersione di tali divisioni interne al regime è anche il frutto dell’andamento del conflitto, che ha reso il pericolo di una vittoria militare dell’opposizione ormai assai remoto. È quindi probabile che, man mano che il regime continuerà a consolidare la propria posizione nei confronti dell’opposizione, emergano anche altre faglie di instabilità interna, rimaste sopite negli anni precedenti per creare un fronte unito contro il nemico comune. E le divisioni non vanno sottovalutate in quanto, se mal gestite da Damasco e dai suoi alleati, potrebbero trasformarsi in un grave rischio per la stabilità e finanche la sopravvivenza dell’attuale leadership siriana, non dissimile dalla minaccia rappresentata dall’opposizione armata», ha scritto Eugenio Dacrema, ricercatore associato dell’Ispi. Ma soprattutto i parenti, un tempo alleati e sostenitori, sembrano aver deciso di rivoltarsi contro il vertice della piramide. E Bashar, pur avendo vinto la guerra, ora potrebbe perdere la pace.