Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

IL TERRITORIO

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

       

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

IL TERRITORIO

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Bolzano.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Veneto.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.

La Lombardia da Bere?

Succede a Milano.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Valle d’Aosta.

Succede a Torino.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Liguria.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)

Succede a Bologna.

Si vota a “Ad Minchiam”.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Firenze.

SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Sardegna.

SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Roma.

Succede a Latina.

SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Molise…che non esiste.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Napoli.

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Puglia. 

Succede a Bari.

Si vota a “Ad Minchiam”.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Foggia.

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Taranto.

ArcelorMittal, Ex Ilva. Chi non vuole lavorare.

Succede a Sava.

Succede a Manduria.

Avetrana. La Rivendicazione di Torre Colimena: luogo bistrattato da Manduria.

Succede ad Avetrana.

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Brindisi.

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Lecce.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Calabria.

I Buoni ed i Cattivi.

Succede a Reggio Calabria.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Sicilia.

Succede a Palermo.

Succede a Messina.

Succede a Siracusa.

Succede ad Agrigento.

 

  

 

 

IL TERRITORIO

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Roma.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 20 dicembre 2020. Sindaca, prima della sentenza ha detto: andrei avanti anche da condannata. Ma quanto pesa davvero questa assoluzione per la sua corsa a un mandato bis, ora che il totem grillino dell' onestà è salvo?

«L' assoluzione toglie un pretesto per farmi fuori a chi magari già immaginava un mega inciucio per la corsa al Campidoglio. Vede, la differenza è che a me della poltrona non importa nulla. A me interessa soltanto portare avanti un lavoro, difficile, che ho avviato quattro anni fa».

Appena uscita dal Tribunale ha sfidato governo e Parlamento a mettere al centro Roma. Cosa si aspetta in concreto?

«Mi aspetto che tutte le forze politiche abbiamo rispetto per la Capitale. E che al di là degli schieramenti politici votino lo stanziamento di fondi per Roma. In primis il lavoro: questa città ha sofferto più di altre la crisi legata al Covid, perché ha perso flussi turistici importanti».

E come si risolleva?

«I commercianti vanno ristorati: il governo tagli le tasse per chi quest' anno non ha potuto fatturare. Mi riferisco a Imu e tassa sui rifiuti. Noi siamo intervenuti sulle tasse comunali ed abbiamo lanciato un fondo di 3 milioni per il microcredito per concedere prestiti a piccoli imprenditori che non hanno sostegno dalle banche. Roma storicamente è indietro sullo sviluppo delle infrastrutture: abbiamo presentato richieste per finanziare il potenziamento di metro e tram. Cose concrete. Abbiamo chiesto che si vari un piano straordinario per l' emergenza casa. Quali obiezioni reali possono esserci?».

Eppure nella bozza italiana del Recovery Fund non c' è traccia del «progetto importante per Roma» promesso da Conte. Cosa dice al premier?

«Che le chiacchiere stanno a zero. Che i romani sono stanchi di promesse. I progetti sono sul suo tavolo: ha nostre richieste per 25 miliardi. Ovviamente sappiamo che non tutto è finanziabile ma gli abbiamo anche indicato le priorità. Non ha più scuse».

Perché il ddl sui poteri per Roma, peraltro molto light, firmato dal M5S è fermo da un anno? Chi lo rallenta?

«Il fatto è che tutti, da destra a sinistra, si riempiono la bocca dicendo che vogliono varare i poteri per Roma, poi arrivati al dunque non fanno nulla. Roma è da sempre terreno di scontro politico. Basta interessi di partito, si metta al centro la città. Io l' ho fatto. Da sindaco chiedo che approvino i disegni di legge per lo snellimento delle procedure amministrative per Roma: l' anno scorso abbiamo inviato le bozze a tutti i capigruppo in Parlamento e soprattutto all' esecutivo. Uso il plurale perché quelle modifiche le hanno chieste tutti i gruppi del Consiglio comunale. Se non le approvano non fanno un dispetto a me, ma alla Capitale».

È stato detto che qualcuno nel M5S tifava per la sua condanna, per fare l' accordo con il Pd ai suoi danni. Ha mai avuto questa sensazione?

«Più che una sensazione. Si vede che hanno fatto male i conti. Ma questa è la politica di palazzo dalla quale mi sono sempre tenuta distante, ai cittadini non interessa. Forse per questo sono stata attaccata. Io sono più concreta. A me interessa sapere cosa fanno per la mia città».

A chi ha chiesto ieri di avere «la decenza di tacere»?

«Sono stata lasciata sola, politicamente, a gestire la città più complessa d' Italia. Quando mi hanno consigliato qualche esperto me ne sono dovuta pentire... Ho fatto sicuramente qualche errore all' inizio, ma soltanto chi non fa non sbaglia mai. Diciamo che in questi anni ho imparato tanto. E ora posso anche permettermi di dire che c' è chi parla a vanvera. Tutti campioni della chiacchiera».

Di Maio da capo politico avrebbe potuto fare di più?

«Il capo politico è Crimi. Diciamo che tutto il M5S avrebbe potuto e forse dovuto fare di più».

Chi l' ha chiamata dopo l' assoluzione? Grillo? Di Battista? Il premier Conte?

«Le telefonate vanno fatte prima. Mi ha fatto piacere avere alcune conferme da parte di chi già sento spesso».

Pensa che ci sia qualche margine per un appoggio del Pd alla sua corsa?

«Le ribadisco che non amo gli inciuci di palazzo. Sono una persona concreta. C' è una legge di bilancio: si adoperino per Roma. Il favore non lo fanno a me, ma ai romani».

È un retroscena che avrà sentito, può replicare: baratterebbe mai un posto di governo con la ricandidatura a sindaco? Glielo hanno chiesto?

«Ma lei lascerebbe mai Roma? È la mia città, una delle più belle al mondo. Mi sto dannando per risollevarla dal baratro nel quale era sprofondata. E l' abbandono proprio ora? Voglio dare continuità al lavoro svolto. Nessuno tornerebbe mai al passato: miliardi di debiti che si tramutano in nuove tasse sui cittadini, periferie abbandonate, bus vecchi e illegalità diffusa. Si ricorda com' era piazza Venezia quattro anni fa? Ora è stata totalmente rimessa a nuovo».

Prima ha accennato agli errori. Cosa non rifarebbe?

«All' inizio mi sono fidata troppo di chi non lo meritava. Comunque non è passato giorno in cui io non abbia lavorato fino a notte tarda per la mia città. Questo non posso rimproverarmelo».

Tre progetti entro 6 mesi per Roma.

«Un unico grande progetto: riportare investimenti per rilanciare il lavoro e ridisegnare la città. Davanti a noi abbiamo il Giubileo del 2025 e la candidatura a Expo 2030. Faccio un appello a tutte le forze sane: lavoriamo insieme. Intanto stiamo rifacendo le strade, rimettendo a posto i parchi, recuperando le periferie e risanando Atac con l' acquisto di 900 bus».

Il M5S ha problemi di selezione della classe politica. Cambierà la squadra per la ricandidatura? C' è chi ha mostrato limiti evidenti.

«Chi lavora per la città non ha nulla da temere».

Nel 2021 la appoggeranno anche liste civiche, oltre al M5S?

«Le porte sono aperte per chiunque voglia proseguire per la strada del cambiamento. Tanti sui territori, nelle periferie, vogliono impegnarsi con noi, al di fuori dei salotti e dei giochi di potere. Chi vuole lavorare con onestà e nell' interesse dei romani è il benvenuto».

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 9 dicembre 2020. «Non è stata davvero una maxirissa - ha scritto ieri su queste pagine Massimo Ammaniti - ma una manifestazione di narcisismo da adolescenti». E analizzare il ruolo avuto dai social nel rilanciare i video della zuffa del Pincio (o episodi simili) è un aspetto chiave della vicenda. In un certo senso capostipite del genere può essere forse considerata la pagina Facebook «Roma fa schifo», secondo alcune analisi dell' epoca vera benzina dell' elezione di Virginia Raggi come moltiplicatore dell' indignazione. I video dei bus in fiamme, delle strade allagate e sporche, dei primi cinghiali a passeggio in città trovarono lì, quando tanti social non esistevano quasi, la cassa di risonanza del sentimento di ribellione al degrado. Oggi la pagina è ancora attiva, conta 192.040 seguaci e il contenuto dei video non è cambiato di molto. Su questa traccia sono nati i gruppi «Sei di Magliana/Balduina/Prati/Tuscolano etc. etc. se...», che da agorà virtuale per condividere ricordi e sentimenti dei singoli quartieri sono spesso diventati sfogatoi di malessere ma con un fraintendimento di base. Il loro peso istituzionale è pari a zero e la veemenza messa nel documentare la panchina rotta o le foglie non raccolte sperando in chissà quale riscontro resta ininfluente come un urlo dalla finestra sperando che qualcuno ascolti. In modo più selezionato, filtrato dal pubblico al quale si rivolge, c' è poi «Wanted in Rome» (145.556 followers), tutto in inglese, che tra una bellezza architettonica e un appuntamento culturale non può esimersi dal segnalare i casi più bizzarri di vita capitolina. Con scopi diversi (la condivisione «acchiappa like» fine a se stessa, più che un sentimento di denuncia) c' è poi «Welcome to favelas», bannata da Fb più di una volta e rispuntata su Telegram. La «rissa» del Pincio ha acquisto visibilità su questa pagina, gestita da Massimo Zossolo, uno dei condannati per gli scontri di piazza San Giovanni nel 2011, che ieri si è raccontato su Il Foglio: «Faccio microcronaca, non è giornalismo, non è tutta spazzatura. Mi rifaccio a Radio Parolaccia di Radio Radicale». La pagina ha un milione di followers su Instagram (i video non riguardano solo Roma) e 500 mila su Telegram: «Ci arrivano video in continuazione - ha detto Zossolo -, solo per il Pincio 100». Le immagini e le segnalazioni, oltre che fornire spunti per le cronache dei quotidiani, sono anche divenute una fonte di indagine primaria per gli inquirenti. E questo aspetto sfugge probabilmente alle tante emulazioni nate di recente sul leitmotiv della violenza ostentata senza filtri: «Risseromane», «Risseromaneedovetrovarle» «Risseitaliane» (ieri si è vantata di essere diventata con 33.065 membri «la più grande community delle risse del web») o di quelle al femminile «Gossipderomaa (doppia "a" finale), dove proliferano faide, diffamazioni e violazioni della privacy come se nulla fosse e dove, sospetta chi indaga anche sui fatti del Pincio, tutto nasce e finisce a favore di videocamera di uno smartphone. Specchio autoreferenziale di una vita virtuale.

F.Pac. per “il Messaggero” l'1 dicembre 2020. Conferme o smentite ufficiali non ce ne sono state fino a tarda sera. Poi la doccia fredda. Il comandante della polizia municipale Stefano Napoli si è dimesso. Un nuovo scossone per il corpo di piazza della Consolazione, dopo l' addio (per sopraggiunti limiti di età) di Antonio Di Maggio. Napoli ha consegnato il suo addio alla sindaca, con una lettera di tre pagine. «Ho constatato con rammarico la mortificante assenza del benché minimo cenno da parte sua di vicinanza alla mia persona e al mio ruolo». Parole che si abbattono come una scure sulla sindaca. Da ieri pomeriggio Radio Campidoglio aveva rotto la routine d' inizio settimana rilanciando la notizia che aveva messo in subbuglio il palazzo: Antonio Napoli, comandante della polizia locale, ha comunicato a Virginia Raggi la volontà di fare un passo indietro. Una lettera di dimissioni consegnata alla sindaca e subito congelata. Come detto, da Palazzo Senatorio non è arrivato nessun commento ufficiale.

I RAPPORTI. Anche se la stessa prima cittadina e l' assessore al Personale (e competente sulla partita) Antonio De Santis - a chi li ha chiamati, sulla vicenda hanno provato a gettare acqua sul fuoco. Quel che è certo è che i rapporti tra Napoli - alla testa dei vigili dal luglio scorso - e la stessa Raggi da giorni sono ai minimi storici. E che, anche all' interno del corpo, già da settimane serpeggiassero veleni. Ne è prova proprio l'audio circolato nei giorni sulla coppia di amanti beccati nell' auto di servizio. Un audio della centrale, si è detto all' inizio. Poi una microspia. Di sicuro, fin da subito, l' idea era che quell' audio fosse stato diffuso per mettere in difficoltà più Napoli che i due focosi pizzardoni.

L'INCHIESTA. Non c' è solo questo, però, dietro la lettera di dimissioni di Napoli. Da un lato, il comandante sconta soprattutto l' inchiesta della trasmissione Report (e gli effetti da essa provocati), che ha messo alla berlina gli agenti capitolini, accusandoli - tra l' altro - di conflitti di interessi sui permessi per le riprese cinematografiche, di controlli tardivi e selettivi nei locali in centro e di rapporti con la criminalità da parte di tre caschi bianchi; dall' altro, poi, c' è stato proprio l' audio (non si capisce ancora chi l' ha registrato) di due vigili che hanno un rapporto sessuale mentre sono in servizio.

I SINDACATI. Di sicuro che, nei pochi mesi in cui è stato comandante, Napoli non è mai stato amato da una parte dei sindacati. L' ormai ex caspo è stato convocato una settimana fa dalla sindaca: insieme hanno concordato sia di fare una rotazione degli uomini in strada in Centro sia, soprattutto, che il corpo avrà un nuovo comandante dall' anno prossimo. Radio Campidoglio fa già girare il nome del successore: il generale Paolo Gerometta, ora assegnato alle Risorse umane di Palazzo Senatorio.

Potere Capitale. Report Rai PUNTATA DEL 23/11/2020. Daniele Autieri collaborazione di Federico Marconi. È uno dei Corpi di polizia cittadina più grandi d’Europa: oltre 6mila vigili con competenze che vanno dal decoro urbano alla verifica delle misure anti-Covid. Ma a dieci anni dalle prime denunce che portarono all’arresto del comandante generale del Corpo di polizia locale di Roma, Angelo Giuliani, il sistema di potere all’interno dei vigili urbani della capitale è ancora in piedi. Un sistema che permette agli agenti della Polizia locale di esercitare un controllo totale sulla città: sui commercianti, sugli imprenditori, sui politici, sugli stessi privati cittadini. Attraverso testimonianze e intercettazioni inedite, l’inchiesta ricostruisce i legami tra l’allora comandante Giuliani e l’attuale comandante generale Stefano Napoli, nominato alla guida del Corpo il 30 giugno scorso dalla sindaca Virginia Raggi. Parlano commercianti vittime di estorsione e cittadini minacciati di morte solo per aver segnalato troppe irregolarità, ed emerge per la prima volta il ruolo di alcuni vigili come fiancheggiatori dei clan nella conquista dei locali del centro di Roma. Un sistema così consolidato che è capace perfino di far tremare un sindaco, al punto da rendere lecita la domanda: quale è stato il ruolo dei vigili di Roma negli scandali che hanno portato alle dimissioni di Ignazio Marino?

- Riceviamo e pubblichiamo una precisazione del presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio (23/11/2020)

Da questa mattina si annuncia che durante la trasmissione “Report”, dedicata al "malaffare che si nasconde nel Corpo di Polizia Municipale" di Roma Capitale, emergerà il mio nome citato nel corso di una telefonata intercettata tra Comandanti del Corpo stesso. Lo annuncia “Repubblica” in un articolo di Daniele Autieri (autore del servizio in onda stasera), che scrive “l’allora comandante Giuliani chiede a Napoli di accelerare le pratiche che interessano politici e imprenditori. Tra loro anche Marco Marsilio…”. Si parla di una vicenda del settembre 2011: nove anni fa. Di una telefonata che l’allora Comandante in capo effettua verso il comandante del I Gruppo, nella quale Giuliani chiede a Napoli di fornirgli una relazione che l’ispettorato edilizio della PM e l’ufficio tecnico del Municipio avevano effettuato mesi prima su un fabbricato in via del Vantaggio sottoposto a lavori di ristrutturazione. Ho faticato non poco a ricostruire l’episodio, e tuttora ammetto di non ricordare con precisione tutti i contorni di una vicenda così lontana nel tempo e così marginale. Ma quello che posso sicuramente dire è questo:

- A via del Vantaggio vi è un fabbricato di proprietà della Comunità ebraica, utilizzato per scopi sociali, da molto tempo in degrado e sostanziale disuso, che sin dal 2005 è oggetto di un Accordo di Programma con il sindaco Veltroni per la sua riqualificazione;

- Il locatore dell’immobile nel corso del 2011 conduce i lavori di ristrutturazione, a causa dei quali il Comune riceve diverse segnalazioni ed esposti, che portano all’apertura di un’inchiesta per abusi edilizi, in particolare nella cantina trasformata in spa (da quel che mi consta, finita pressoché nel nulla, essendo l’albergo tuttora aperto);

- Anche il sottoscritto riceve da un residente del posto la richiesta di "vederci chiaro" per opere che riteneva irregolari. Mi rivolgo quindi alla Polizia Municipale per avere documentazione utile a capire se la segnalazione è meritevole o no di attenzione;

- Questo ‘accesso agli atti’ va a rilento, sollecito più volte il Comandante che, evidentemente in imbarazzo per il ritardo e la scarsa trasparenza degli uffici nel fornire quanto richiesto, chiama il comandante del I Gruppo, Napoli, per ottenere una risposta, non sapendo più cosa dire alle insistenti richieste del sottoscritto tese a ottenere documenti chiusi in un cassetto per motivi poco chiari. Sarebbe questo il "favore" richiesto? L’aiuto che il Comandante della PM fornisce al "politico" di turno per chissà quali biechi interessi privati? Non ho fatto altro che esercitare il mio diritto/dovere di accedere agli atti, pretendere trasparenza e informazioni su una procedura pubblica sospetta di irregolarità.

POTERE CAPITALE di Daniele Autieri Collaborazione Federico Marconi Immagini Chiara D’Ambros, Alfredo Farina, Paolo Palermo, Gianluca Pipitone Montaggio Andrea Masella Grafiche Michele Ventrone.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 10 ottobre scorso a piazza San Giovanni, a Roma, si dà appuntamento il popolo dei sovranisti e dei “no mask”. Tra i manifestanti c’è anche un sindacato del Corpo di Polizia Locale di Roma Capitale.

MARCO MILANI - COORDINATORE ROMANO UGL POLIZIA LOCALE Siamo qui per manifestare il disagio di una categoria nell’applicare alcune norme di difficile comprensione sia per noi sia per i cittadini.

DANIELE AUTIERI Ci sono video che vi riprendono in cui ribaltate questi tavolini, c’è una ragazza che sviene…

MARCO MILANI Se c’è una violenza privata al tavolino, o se devo chiedere scusa ai bicchieri e le forchette, se nel caso lo faccio? Di certo non ci sono aggressioni, cazzotti o lesioni personali.

DANIELE AUTIERI Sa che dicono, che eravate un po’ comunque irruenti come gruppo, che a lei la chiamano “il pugile”: è vero?

MARCO MILANI Mi chiameranno pure il pugile, però i pugni li tiro sul ring.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO In pieno giorno a piazza Navona scatta l’intervento dei vigili urbani contro alcuni ristoratori. Un telefono cellulare ruba immagini imbarazzanti per le forze dell’ordine. Volano sedie, i tavolini vengono ribaltati, qualcuno alza le mani. A guidare l’intervento dei vigili è Antonio Di Maggio, fino al 30 giugno scorso comandante del Corpo di Polizia Locale di Roma Capitale, conosciuto come “lo sceriffo” per i modi autoritari. Con lui c’è anche Marco Milani. Detto “il pugile”.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I vigili intervengono per far rispettare i permessi di occupazione del suolo pubblico. Con il comandante Di Maggio, si scagliano contro i ristoratori. Una cameriera sviene e si accascia a terra.

CAMERIERA Io sono andata a fare l’apertura del locale dove lavoravo, al Bimabos, e mentre stavo apparecchiando il ristorante ho sentito il rumore di tavoli al ristorante accanto, c’erano i vigili che stavano prendendo i tavoli e li lanciavano.

DANIELE AUTIERI Lei è uscita in quel momento, è andata fuori?

CAMERIERA Si, io sono uscita fuori, e mi hanno detto che c’ho due minuti per togliere tutti i tavoli. Io gli avevo detto, piangendo, un attimo sono da sola. Ero tutta agitata, spaventata. Poi loro hanno iniziato anche da me a lanciare i tavoli tutti quanti. Poi sono svenuta.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per questa vicenda finiscono sotto processo per lesioni e abuso d’ufficio il pugile Marco Milani e lo sceriffo, il comandante Antonio Di Maggio. Il 30 giugno Di Maggio è andato in pensione. E al momento del congedo, la sindaca Virginia Raggi lo omaggia con il massimo degli onori.

VIRGINIA RAGGI, SINDACA DI ROMA (INTERVENTO A MANIFESTAZIONE PUBBLICA) Ricostruiremo questo corpo di cui la città deve andare orgogliosa e di cui la città ha veramente bisogno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I vigili urbani di Roma, una polizia cittadina tra le più importanti d’Europa. Seimila persone che hanno competenze varie: vanno dalla sicurezza stradale al contrasto del degrado della città, al controllo sulle attività imprenditoriali e finanche a quelle del controllo sull’applicazione delle misure anti-Covid. Ora dieci anni fa circa, parallelamente all’inchiesta “Mafia Capitale”, un’altra inchiesta giudiziaria scoperchia un sistema corruttivo ai danni degli imprenditori. Vengono arrestati anche dei vigili urbani. E insomma i magistrati scoprono un’associazione che temono per delinquere che è in grado di condizionare anche la politica. Un Potere Capitale che nessuno è stato in grado di scalfire. Il nostro Daniele Autieri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO È il 2015, la città paralizzata per le riprese di Spectre, l’ultimo film della saga sul più famoso degli agenti segreti. L’Aston Martin di James Bond sfreccia lungo gli argini del Tevere. Per gestire la logistica delle riprese del film, oltre all’intero iter delle autorizzazioni, la produzione incarica la società Ro.Ma Mediaservice. Un’azienda specializzata, che negli anni ha prestato la sua consulenza a pellicole e fiction di successo come Gli orologi del diavolo, con Beppe Fiorello. Chi ha potere sul controllo delle autorizzazioni sono proprio i vigili urbani, ma per questo la Ro.Ma Mediaservice può giocarsi il suo un asso nella manica. Un asso di briscola.

OPERATORE CINEMATOGRAFICO Questa è un’azienda fondata da un comandante dei vigili.

DANIELE AUTIERI Quale comandante?

OPERATORE CINEMATOGRAFICO Mario De Sclavis. Il comandante del Gruppo del Prenestino.

DANIELE AUTIERI Quindi un comandante dei vigili, Mario De Sclavis, fonda una azienda che per lavorare chiede permessi ai vigili stessi? OPERATORE CINEMATOGRAFICO Sì, in pratica non è proprio così. Perché non sono i vigili a concedere l’autorizzazione. È l’ufficio dipartimento delle attività culturali del comune di Roma che concede l’autorizzazione, ma poi sono i vigili a metterla in pratica e a interpretarla, con una determinazione dirigenziale propria del comandante del gruppo interessato.

DANIELE AUTIERI A noi risulta che la sua società sia stata in realtà fondata da suo padre, Mario De Sclavis, che è un comandante dei vigili urbani.

AL TELEFONO ROBERTO DE SCLAVIS, RO.MA. MEDIASERVICE Non è vero. Non so chi le ha dato questa informazione.

DANIELE AUTIERI Non è vero quindi? ROBERTO DE SCLAVIS No, l’ho fondata io.

DANIELE AUTIERI Le volevo chiedere di questa società, la Ro.Ma. Mediaservice…

MARIO DE SCLAVIS È la società dei miei figli, con cui lavorano, è una società di servizi…

DANIELE AUTIERI È un società che ha fondato lei però…

MARIO DE SCLAVIS No, l’ha fondata mio figlio, il maggiorenne, Roberto, e sono soci mio figlio Roberto e mio figlio Adriano.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le visure smentiscono la versione del comandante De Sclavis. È proprio lui a fondare la Mediaservice nel 2005. Nel 2008, vende le sue quote al secondo figlio, Adriano, ma continua ad esercitare un ruolo attivo sul settore delle autorizzazioni cinematografiche, come dimostrano alcune determinazioni dirigenziali che riportano la sua firma.

DANIELE AUTIERI Non c’è un conflitto di interessi rispetto al ruolo che lei svolge e quello che fa questa società, che si occupa di autorizzazione…

MARIO DE SCLAVIS Ci sarebbe qualora io abusassi della mia posizione, tenga presente che tutti gli anni, per la legge sul conflitto di interessi, dichiaro all’amministrazione l’attività dei miei, figli, ciò che fanno e come se non bastasse, ovviamente, io mi astengo da tutte le procedure, tutti gli atti che possono riguardare loro… demandando tutto a un dirigente superiore.

DANIELE AUTIERI Però lei firma diciamo delle determine…

MARIO DE SCLAVIS No, tutto a un dirigente superiore, assolutamente.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Circolo degli Artisti di via Casilina è stato uno dei locali più frequentati di Roma. Si sono esibiti artisti di fama internazionale. E un’intera generazione è cresciuta al bancone dei suoi bar.

DANIELE AUTIERI Si apre un’indagine alla Procura di Roma, no?

BUTTAFUORI Sì.

DANIELE AUTIERI Un’indagine che si conclude in realtà nel 2015 con il sequestro del locale, è stato sequestrato, perché? BUTTAFUORI Il locale sequestrato per un esposto dove dichiaro che è stato sotterrato dell’amianto nell’area esterna del Circolo degli Artisti dove era adibito al consumo da bere o a volte come ristorante.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dalle indagini emerge anche che per 17 anni il Circolo non ha pagato l’affitto al Comune di Roma. 17 anni di impunità, perché nessuno ha mai controllato che uno dei locali più frequentati della Capitale fosse in regola. E i pochi controlli fatti venivano spesso annunciati.

BUTTAFUORI Venivamo avvisati. Comunque là i vigili erano di casa, una volta al mese facevamo la festa dei vigili. Il locale era a loro piena completa disposizione.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 16 marzo del 2015 la festa finisce. Il giudice dispone il sequestro del locale. Dalle indagini emerge anche che il circolo degli artisti era accatastato come deposito, laboratorio, casa popolare. Ma nessun vigile è stato indagato per i mancati controlli.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Chi invece ha un locale in regola è Mauro. Lo acquista nel 2017, nel quartiere San Lorenzo, in pieno centro a Roma.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A pochi metri dal ristorante, altri locali occupano il suolo pubblico senza permesso. Mauro non ci sta. Lo scorso anno presenta un esposto ai vigili. E i vigili gli fanno visita.

MAURO - RISTORANTE “DA FRANCO AL VICOLETTO” La domenica mattina alle 11 mi arriva la telefonata: guarda, sono tizio, caio, ma ce l’hai quella busta per me? Ma di quale busta stai parlando, non ho capito. Lui ha detto: “Ah ho capito, stai facendo il finto tonto. Mo’ passo!”. Aveva una specie di fazzoletto bianco, già aperto. Si è messo a sedere. Gli ho detto: “Vabbè, che ti posso fare?”. Mi ha detto: "Vabbè fammi uno spaghetto alle vongole…”. Gli ho fatto sto spaghetto alle vongole. Ho preso 500 euro, ho detto: “ho questi 500, ti bastano?” Ha detto “ok metti qua”, neanche ha finito gli spaghetti e se ne è andato. Senonché mi pare una settimana dopo, mi sento bussare alla spalla, era lui. Ha detto: Ehi amico, ciao. Ho detto: oddio che è successo? Dice: mi devi fare un favore: dammi 400 euro, ho tamponato il capo dei vigili urbani…l’assicurazione non ce l’hai? Ha detto: no, quello li vuole contanti sennò mi caccia via. Ho capito, quando ha detto questa fregnaccia, ho detto questo ormai è un cliente fisso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Mauro denuncia. La Polizia arresta il vigile mentre incassa la bustarella. Durante le perquisizioni, viene trovata cocaina nel motorino e nell’ufficio dell’agente. E la procura allarga l’indagine anche ad altri vigili.

GUGLIELMO MUNTONI, GIUDICE SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE TRIBUNALE DI ROMA Quello che emerge purtroppo è l’esistenza di una serie di persone, dai professionisti a pubblici ufficiali, che facilitano una gestione illegale dei beni. VFC

DANIELE AUTIERI Guglielmo Muntoni è il numero uno nella lotta ai patrimoni delle mafie. Dal suo ufficio ha disposto il sequestro di beni per 2 miliardi di euro. Ci racconta qualcosa di incredibile. Quando è lo stato a gestire un ristorante confiscato al crimine organizzato i controlli dei Vigili si fanno più stringenti.

DANIELE AUTIERI Il locale viene gestito da un’organizzazione criminale che non rispetta regola, lavoro, sicurezza, spazio pubblico, voi lo sequestrate, lo amministrate voi e da quel momento diventa bombardato di controlli? GUGLIELMO MUNTONI È così. Quello che ci ha colpito è che quando abbiamo sequestrato noi i ristoranti dal giorno dopo c’erano controlli metodici insistenti con interventi pesanti per rimuovere tutti i tavoli che non erano regolari. DANIELE AUTIERI A voi cosa hanno detto i vostri gestori?

GUGLIELMO MUNTONI Si lamentavano del fatto che gli esercizi di fronte, o accanto, gli facevano gesti di sfottimento perché loro continuavano a tenere i tavoli fuori e noi no.

DANIELE AUTIERI Come viene spiegata questa disparità di trattamento?

GUGLIELMO MUNTONI Io ho trasmesso gli atti alla procura, la procura ha fatto le sue indagini, credo non si sia arrivati a nulla di concreto. Le domande restano.

DANIELE AUTIERI Lei cosa pensa?

GUGLIELMO MUNTONI Me lo tengo per me!

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Rapporti tra Vigili urbani e la mafia che gestiva i locali della capitale sono emersi già nel 2015. Al termine di un’indagine del Gico della Guardia di Finanza, la procura chiede l’arresto di tre vigili, Franco Caponera, Fabio Corazzini e Alessandro Egidi, e degli imprenditori Salvatore Mercuri e Giovanni Pagliaro. Secondo l’accusa sarebbero legati al clan calabrese dei Mancuso. Dalle intercettazioni emergerebbe che i tre vigili, in cambio di soldi e di regali, avrebbero agevolato le attività commerciali finanziate con i capitali della ‘ndrangheta.

INTERCETTAZIONE 1 Il vigile Franco Caponera al telefono avvisa di un’imminente ispezione l’imprenditore Salvatore Mercuri, ritenuto vicino ai calabresi. Franco Caponera: Salvato’ allora senti, passeranno loro. Tu o tua figlia fate trovare tutta la documentazione. Salvatore Mercuri: Tranquillo Franco, tutto a posto. Franco Caponera: Un’altra cosa Salvatò, mi si è raccomandato, non mettere in mezzo altre persone. Salvatore Mercuri: Tranquillo Franco, io ho a che fare solo con te.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Gli imprenditori controllano un ristorante a Campo de’ Fiori e attraverso una serie di scatole societarie sono proprietari di locali a piazza di Spagna, come la Barcaccia, poi altri a Corso Trieste, e a via Belsiana. A curare i loro interessi è una figura misteriosa: l’ingegnere romano Marco Beni. Non è indagato, ma Beni sa che i suoi referenti hanno infiltrato la Polizia della Capitale e li chiama immediatamente quando arrivano le ispezioni dei vigili.

INTERCETTAZIONE 2 Marco Beni: Senti, sono venuti in cantiere, per la Dia, per queste cose qua. Chi dobbiamo chiamare? Io non c’ho un cazzo lì. Salvatore Mercuri: Va bene, adesso te la risolvo io. Dove sono? Marco Beni: Sono tutti sotto Belsiana.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo cinque anni dal rinvio a giudizio il processo non è ancora concluso. Il 26 agosto scorso, in piena emergenza Covid, un’associazione di quartiere segnala ai vigili che il ristorante la Barcaccia ha invaso piazza di Spagna con i suoi tavolini. Il 23 settembre arriva la risposta della polizia locale che conferma le irregolarità, ma nessuno interviene per portare via quei tavoli.

DANIELE AUTIERI Cercavo il titolare.

CAMERIERE Non è qui.

DANIELE AUTIERI Perchè gli volevo chiedere dei tavolini fuori… sono irregolari non potrebbero essere messi in mezzo alla piazza.

CAMERIERE Come irregolari? Sono passati i vigili, hanno fatto i controlli.

DANIELE AUTIERI Sono passati i vigili?

CAMERIERE Certo che sono passati, stiamo a Piazza di Spagna qua.

DANIELE AUTIERI Lo so, però abbiamo proprio un documento dei vigili dove dicono in effetti sono irregolari quei tavolini.

CAMERIERE Non so, comunque non c’è, non c’è il titolare.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I tavoli della Barcaccia invadono ancora oggi piazza di Spagna. Con i vigili che stazionano a pochi metri di distanza. Gli imprenditori Mercuri e Pagliaro, sotto processo con l’accusa di corruzione di una persona incaricata di un pubblico esercizio e sospettati di utilizzare soldi della ‘ndrangheta, hanno continuato ad acquistare locali nel centro di Roma, e Marco Beni ad amministrarli. Anche se nessuno sembra conoscere l’ingegnere romano, nemmeno all’interno dei locali che gestisce.

INGRESSO NEL LOCALE NUMBS ALLA RICERCA DI MARCO BENI

DANIELE AUTIERI Io stavo cercando l’ingegnere Marco Beni, mi hanno detto che lavora qua?

CAMERIERA Io non ne ho la più pallida idea

DANIELE AUTIERI No, mi hanno detto che gestiva il locale, no?

CAMERIERA No. DANIELE AUTIERI Grazie allora, arrivederci.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il ruolo di Beni nelle attività degli imprenditori ritenuti vicini alla ‘ndrangheta vive nelle carte, ma anche nei ricordi di chi nei panni di amico ha vissuto la sua ascesa nel mondo dei locali della Capitale.

LUCA PALAMARA, EX-MAGISTRATO Chiunque andava mi diceva: ha aperto un locale qua, uno là, erano tanti. Pieno di locali. Bed& breakfast, cose, dappertutto. Pensa se ero andato in questi locali, adesso ero fritto… Un amico storico di infanzia dei tempi dell’università, un’amicizia importante che si è interrotta nel 2010. Al Numbs da quando aprì, quello a piazza Istria, c’ero anche andato. I. Alla fine uno deve vivere da monaco, praticamente no?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono passati cinque anni dall’apertura del processo che ha svelato l’intreccio di interessi tra vigili urbani, imprenditori e la ‘ndrangheta. Ma quel processo segna il passo. Mentre gli stessi imprenditori sospettati di riciclare il denaro della ‘ndrangheta corrono. Acquistano nuove proprietà nella Capitale. Ora se è vero quello che ha detto il magistrato Muntoni, non c’è da stare tranquilli. Il magistrato che gestisce beni sequestrati alla mafia dice: “il sistema malato sopravvive grazie all’operato di quei vigili corrotti che fanno più controlli - pensate un po’ - in quegli esercizi dove è presente lo Stato. Sono un po’ più molli nel fare i controlli agli altri”. Ecco, questo se fosse vero sarebbe un segnale bruttissimo per la città. È ancora più brutto invece il segnale, è arrivato quando è stato coinvolto il più alto in grado dei vigili urbani. E la accusa è infamante: aver percepito delle tangenti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questo è il documento con cui i vigli urbani affermano che l’indirizzo del sindaco di Roma è incredibilmente sconosciuto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Parliamo dei vigili urbani di Roma, della Capitale. Uno dei più importanti corpi di polizia cittadina d’Europa. Hanno competenze varie che vanno dalla sicurezza stradale al contrasto del degrado nella città al controllo sulle attività commerciali e quello sull’applicazione delle normative anti-Covid. Ora però la loro immagine è stata incrinata da inchieste giudiziarie. Una su tutte, quella del 2012, che ha coinvolto il numero uno, l’ex comandante generale dei vigili Angelo Giuliani. Ecco, è stato accusato da un imprenditore, un grossista di vini e liquori noto nella Capitale, Silvio Bernabei, di far parte di una rete di vigili che esercitavano estorsione ai danni degli imprenditori. Giuliani è stato poi coinvolto nell’ambito dello stesso procedimento in un altro reato: avrebbe percepito una tangente di 30mila euro da un’impresa privata. Quello che è certo è che l’inchiesta della magistratura ha fatto emergere un sistema di corruzione che ruotava intorno alla figura di alcuni consulenti. Che cosa accadeva: io cittadino faccio un abuso edilizio, il vigile viene, ti becca e ti dice “guarda però che potresti risolvere la cosa se ti rivolgi a un consulente”. Tu paghi un consulente, in realtà paghi una tangente al vigile urbano e quello che era insanabile, miracolosamente diventa sanato. Lungo l’inchiesta, lungo la strada, emergono anche intrecci con la politica.

ANGELO GIULIANI AL TG1 DEL 28/02/2012 Io non ho necessità di dimettermi. Poi, io sono il comandante della Polizia Municipale, se minimamente mi sfiorasse l’idea che non sono nelle condizioni di guidare il Corpo più grande d’Italia la mia coscienza mi imporrebbe di fare un passo indietro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pochi giorni prima della sua destituzione, Giuliani tesse ancora la sua trama per continuare a condizionare la politica.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 1 AGOSTO 2012 ANGELO GIULIANI AL TELEFONO CON UN AMICO ANGELO GIULIANI A compa’ qui l’unica maniera è costruire una forza che la possiamo dà a chi cazzo ce pare. Devo trovare una brava persona che sia destra o sinistra a me non me ne frega un cazzo. Dopodiché vediamo un attimino come stanno le cose, a un certo momento, vediamo chi cazzo sta davanti e ci mettiamo una lista civica, un amico che ci dà retta, o no?

INTERLOCUTORE Va bene, sì, lo troviamo.

ANGELO GIULIANI Però sta roba statte zitto eh!

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le indagini della procura portano all’arresto del comandante che, nel corso del 2014, viene prima scarcerato, poi sospeso quindi reintegrato dal giudice del lavoro che revoca la sospensione per un vizio di forma. Cinque anni dopo il processo per la presunta tangente da 30mila euro finisce prescritto. Il giudice stigmatizza i comportamenti dell’ex-comandante generale. Quanto al giro di estorsioni messo in piedi ai danni di commercianti e privati cittadini, Giuliani è stato scagionato ma molti vigili sono ancora sotto processo. Tra le vittime di quel sistema c’è anche Vincenzo Conticello, imprenditore per anni sotto scorta per aver rifiutato di pagare il pizzo alla mafia. Lascia Palermo per Roma e apre il suo ristorante. Ma non sa cosa lo aspetta.

VINCENZO CONTICELLO Il sistema funzionava così: c’erano delle pseudo agenzie immobiliari. Se ti rivolgevi all’agenzia X, immobiliare-disbrigo pratiche, a cui si rivolgono quasi tutti. La consulenza costava 14-15mila euro. 12mila-13mila sono le mazzette che in parte prende per sé stesso e in parte distribuisce.

DANIELE AUTIERI Con Napoli che rapporti hai avuto?

VINCENZO CONTICELLO Mi ci sono visto dieci volte, venti volte…

DANIELE AUTIERI E lui che ti diceva?

VINCENZO CONTICELLO Devi stare tranquillo. In un bar di piazza Venezia. E lui mi dice delle cose chiare, sugli aspetti dei permessi. Vincenzo tu hai sbagliato, non ti sei rivolto alle persone corrette.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Napoli citato da Conticello era l’allora comandante del I Gruppo, quello che controlla il centro storico di Roma. Lo stesso dirigente che nel luglio scorso Virginia Raggi nomina comandante generale del Corpo.

DANIELE AUTIERI Comandante, buongiorno, sono Daniele Autieri di Report. Stiamo facendo un servizio sul corpo.

DANIELE AUTIERI Le posso fare qualche domanda?

STEFANO NAPOLI, COMANDANTE GENERALE DEL CORPO DI POLIZIA LOCALE DI ROMA CAPITALE Non credo sia questa la sede e il momento.

DANIELE AUTIERI Conticello ci racconta che voi vi incontraste in un bar a piazza Venezia e che lei gli fece chiaramente capire che il problema di Conticello era che non aveva parlato con le persone giuste…

TEFANO NAPOLI Non credo che questo possa essere corrispondente alla verità…

DANIELE AUTIERI Non è la verità?

STEFANO NAPOLI No, assolutamente.

DANIELE AUTIERI Ma lei era il comandante del primo gruppo. Addirittura lei arrivò, se non sbaglio, a spostare 30 agenti.

STEFANO NAPOLI Quella fu una decisione dell’amministrazione a cui io ottemperai.

DANIELE AUTIERI E perché, perché c’erano delle situazioni di rischio di corruzione, di fenomeni di corruzione?

STEFANO NAPOLI C’era stata una situazione che nasceva da una indagine svolta da me, dal I Gruppo e alla luce di quella indagine ci fu una decisione dell’amministrazione di effettuare una rotazione del personale del I Gruppo.

DANIELE AUTIERI Con Giuliani che rapporto c’era?

STEFANO NAPOLI Era il mio comandante del Corpo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il I Gruppo viene di fatto smantellato, mentre Stefano Napoli rimane al suo posto, protetto dal comandante Angelo Giuliani.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 19 GIUGNO 2012 ANGELO GIULIANI Dobbiamo parla’ un attimino, te vojo insegna’ qualche trucco… no, no, te lo dico con affetto.

STEFANO NAPOLI Mi insegni qualcosa…

ANGELO GIULIANI No, no c’hai poco da impara’, dopo ste pressioni t’è cresciuto 6, 7 palmi di pelo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Napoli non è solo l’allievo di Giuliani. È l’uomo che lo aiuta a risolvere le situazioni più imbarazzanti. Giuliani telefona a Napoli e chiede un aiuto per l’onorevole Marco Marsilio, in seguito fondatore di Fratelli d’Italia insieme a Giorgia Meloni e oggi presidente della Regione Abruzzo.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 11 SETTEMBRE 2012 ANGELO GIULIANI CSte’, una cortesia, mi sta bombardando l’onorevole Marsilio…

STEFANO NAPOLI Che vonno?

ANGELO GIULIANI Onorevole Marsilio per via del Vantaggio c’era stato un nostro intervento edilizio e c’era anche l’ufficio tecnico, sono già due mesi, doveva mandare la relazione. Se me la puoi sollecitare sennò non so che cazzo dirgli…

STEFANO NAPOLI Vabbè domani ti richiamo e mi fai dare qualche dettaglio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pochi giorni dopo c’è un’altra persona da aiutare, che arriva a nome di Matteo Costantini, un consigliere del I municipio di Roma.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA - 20 SETTEMBRE 2012 STEFANO NAPOLI Ciao angele’

ANGELO GIULIANI Quando ti posso mandare una persona? Legata con la persona… che ci sei andato a parlare.

STEFANO NAPOLI Guarda oggi sono fuori, sto a caccia, fammela veni pure domani alle cinque del pomeriggio…

ANGELO GIULIANI Alle 5 del pomeriggio, viene a nome di Matteo Costantini, ok?

STEFANO NAPOLI Va bene, ok.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Negli anni in cui Stefano Napoli guida il nucleo dei vigili del centro storico che comprende anche Trastevere, il sistema si mette in moto dopo il sequestro di un’immobile dove è stato realizzato un soppalco irregolare.

TESTIMONE ABUSO EDILIZIO Questo vigile mi convoca al comando di Trastevere e come prima cosa mi mette in contatto con un avvocato. Io e mio marito andiamo dall’avvocato, che prepara le carte per poter riaprire il cantiere per la rimozione del soppalco.

DANIELE AUTIERI Quindi il soppalco poi lo rimuovete?

TESTIMONE ABUSO EDILIZIO In realtà no. Il vigile passava spesso in cantiere e ci ripeteva che dovevamo stare tranquilli perché aveva trovato un modo per mettere in regola la casa.

DANIELE AUTIERI Mi scusi signora, questo vigile le ha mai chiesto dei soldi?

TESTIMONE ABUSO EDILIZIO All’inizio no, poi quando i lavori erano quasi finiti la persona che ci aveva messi in contatto con il vigile ci dice che dovevamo pagare 12mila euro. Per noi è stata una botta.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I vigili scrivono un’informativa in cui dichiarano che l’immobile è di nuovo a norma. Informativa che finisce sul tavolo del pubblico ministero che studia i documenti ed emette il decreto di dissequestro. TESTIMONE ABUSO EDILIZIO Qualche mese dopo il dissequestro riceviamo la parcella dell’avvocato: altri 4.500 euro. Ma per noi in realtà l’avvocato era stato già pagato con quei 12mila euro che avevamo dato al vigile. A quel punto ci si è accesa una lampadina. Contattiamo un tecnico che n viene a casa, vede l’abuso e ci dice che quell’abuso era impossibile regolarizzarlo.

DANIELE AUTIERI Mi faccia capire, i vigili avevano inventato tutto?

TESTIMONE ABUSO EDILIZIO Sì, esattamente, i vigili si erano inventati tutto.

DANIELE AUTIERI E quindi che fate?

TESTIMONE ABUSO EDILIZIO A quel punto io e mio marito ci siamo autodenunciati. E chiaramente abbiamo denunciato anche i vigili.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dalla sua denuncia si è aperto un processo dove sono coinvolti quattro vigili urbani. Ecco a questa denuncia se n’è aggiunta anche un’altra, del grande accusatore di Giuliani, Silvio Bernabei. Dice: “Anche io sono stato vittima di quel racket dei vigili”. Solo che le indagini le conduce lo stesso corpo di Polizia Locale. Giuliani le affida al suo allievo, Stefano Napoli, il quale in qualche modo impiega sei mesi prima che la sua informativa finisca in Procura. Ecco, secondo l’imprenditore Bernabei, tutto questo tempo sarebbe servito per sistemare bonariamente la vicenda e lavare i panni sporchi in famiglia. Napoli e Giuliani da noi ascoltati smentiscono questa versione ma Bernabei ci ha fornito il fax che ha spedito al suo avvocato e sembrerebbe confermare questa versione. Ora dopo nove anni l’ex comandante Giuliani è stato prescritto dalle accuse di tangenti mentre è ancora sotto processo perché è sospettato di aver influenzato la nomina del presidente del concorsone dei vigili. Oggi Giuliani è a capo del gruppo dei vigili dell’Eur. Mentre invece il suo allievo Stefano Napoli è stato nominato a luglio scorso dalla sindaca Virginia Raggi nuovo comandante generale dei vigili urbani. Ora in merito invece ai procedimenti penali aperti negli ultimi anni nei confronti dei 28 agenti del corpo di polizia locale Virginia Raggi, la sindaca, sottolinea che almeno nella metà dei casi le indagini sono state condotte dalla polizia locale stessa. È proprio questa anomalia che abbiamo cercato in qualche modo di evidenziare perché tutto questo alimenta il sospetto di autoreferenzialità. È ovvio che la pace è da preferire alla guerra. Soprattutto se si guarda all’esperienza del sindaco precedente. Aveva istituito una app. Si chiamava Io Segnalo e doveva favorire le denunce di malfunzionamento di alcuni aspetti della città. Ecco, come è andata a finire quella app?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Uno dei rari tentativi di controllare dall’esterno l’operato degli agenti della polizia locale viene fatto nel 2015 quando la Giunta guidata dal sindaco Ignazio Marino istituisce “Io Segnalo”, una app che permette a chiunque di denunciare gli illeciti, obbliga i vigili a intervenire e a riferire l’esito dell’intervento.

IGNAZIO MARINO, EX-SINDACO DI ROMA Questa app è stata introdotta verso il termine del mio mandato e faceva parte di un disegno molto più ambizioso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’Operazione di moralizzazione e trasparenza IO SEGNALO avviata dal sindaco dura poco. Fino a quando qualcuno che aveva segnalato gli illeciti viene minacciato di morte.

TESTIMONE IO SEGNALO Ricevo una chiamata verso mezzanotte da un numero anonimo, dove mi minaccia di morte, lui sa che chiamo i vigili in zona, mi ammazza, mi spacca la macchina, sa dove abito.

DANIELE AUTIERI E lei dopo questa telefonata cosa fa?

TESTIMONE IO SEGNALO Io dopo questa telefonata sporgo denuncia al commissariato di Polizia.

DANIELE AUTIERI Riceve altre minacce?

TESTIMONE IO SEGNALO Seconda meta di settembre mi citofonano all’ora di cena, rispondo, chi è? Un amico. Chiedo ancora chi è? E non risponde più nessuno. Scendo per buttare la spazzatura e trovo un biglietto attaccato al citofono dove c’è scritto il nome e cognome mio: hai fatto fare multe a centinaia senza motivo ora ti bruciamo casa e ti diamo fuoco alla macchina brutto infame.

DANIELE AUTIERI Dalla sua denuncia inizia un’indagine?

TESTIMONE IO SEGNALO Dove viene fuori che il marito di una vigilessa mi ha fato la chiamata minatoria a mezzanotte.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La procura scopre che in tanti sono stati minacciati dai vigili urbani per il numero eccessivo di denunce. E in tutti questi casi c’è da chiarire un particolare non trascurabile. Chi svela l’identità di chi segnala le irregolarità sulla app?

TELEFONATA REGISTRATA AGENTE POLIZIA LOCALE Buongiorno, è il quarto gruppo della polizia locale di Roma Capitale. Le volevo chiedere una cortesia, siccome abbiamo pochissimo personale, se continua a farci tutte queste segnalazioni rischia di non avere soddisfazione.

TESTIMONE IO SEGNALO Io ne ho fatte un paio.

AGENTE POLIZIA LOCALE No veramente ne ha fatte quattro già da sta mattina.

TESTIMONE IO SEGNALO Mi perdoni, ma lei mi telefona per questo?

AGENTE POLIZIA LOCALE La volevo avvisare…

TESTIMONE IO SEGNALO Innanzitutto lei come ha fatto ad avere il mio numero mi perdoni?

AGENTE POLIZIA LOCALE Noi leggiamo tutto, siamo la Polizia signore, non so lei a chi pensava di rivolgersi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Noi leggiamo tutto, siamo la Polizia. Ecco la Polizia invece di tutelare chi denunciava nel caso di Io Segnalo, tutelava i denunciati. Ora le indagini della magistratura hanno se non altro evidenziato un ruolo, un comportamento, un po’ ambiguo di alcuni vigili. Si ha l’impressione che il corpo dei vigili urbani, se intaccato, va in autotutela. E risulta impermeabile a ogni tentativo di intromissione esterna. Come nel caso di un marziano, che è sbarcato a Roma. Ma senza astronave.

IGNAZIO MARINO, EX-SINDACO DI ROMA Una situazione che sorprese anche me fu il fatto che i vigili della polizia municipale di Roma ricevevano, io appunto ho ricordato che mi sono insediato nei mesi estivi, ricevevano lo straordinario notturno a partire dalle 16 del pomeriggio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ignazio Marino non lo sa, ma il suo tentativo di riformare la prassi degli straordinari rischia di destabilizzare gli equilibri interni del Corpo. Un agente tuttora in servizio ci spiega perché.

AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE Il corpo funziona con lo straordinario. C’è tutto un sistema clientelare dietro, per cui invece di assumere personale, tirano fuori soldi dal cilindro e ti fanno fare questo e quello a pagamento extra.

DANIELE AUTIERI Lei trova qualcuno che ha fatto mille ore di straordinario in un anno.

AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE Più di mille ore. DANIELE AUTIERI Più di cento al mese. Quanto vale un’ora di straordinario?

AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE Siamo su mille ore, diecimila euro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 31 dicembre del 2014, a tre settimane dall’arresto di Massimo Carminati e degli uomini del Mondo di Mezzo, e mentre monta lo scandalo che coinvolge l’ex comandante Angelo Giuliani, 767 agenti si danno malati e mandano deserto il Capodanno di Roma.

IGNAZIO MARINO Avevamo previsto circa 900 vigili in servizio per la sicurezza dei cittadini di Roma e dei turisti e nelle ore pomeridiane, serali, iniziarono ad arrivare oltre 700 certificati medici. Dissi, ma cosa sta accadendo? C’è un virus…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Lo scandalo di Capodanno fa il giro del mondo, coprendo di ridicolo la Capitale. Il comandante Raffaele Clemente si reca in procura affinché si indaghi su un possibile un sabotaggio orchestrato dalle sigle sindacali. Ma i sindacati verranno tutti assolti. Per il giudice si trattava solo di cani sciolti. 767 cani sciolti.

DANIELE AUTIERI Un’altra occasione di scontro molto forte è quando lei decide di portare avanti il suo piano anti corruzione del corpo di polizia di Roma Capitale.

IGNAZIO MARINO Quando mi resi conto che il personale non ruotava da molti anni, in alcuni casi da due decenni, ritenni che fosse giusto, sano per l’amministrazione avere una rotazione di alcune figure.

AGENTE DELLA POLIZIA LOCALE I dirigenti si sono inventati una cosa… Dalla rotazione dobbiamo escludere le persone che fanno lavoro particolarmente indispensabile e questi non ruotano. Allora vedi che anche settori in cui volendo c’è la corruzione quella sporca, quella brutta, dei soldi, è chiaro che se un dirigente partecipa lì ci mantiene chi dice lui perché se entra un elemento di disturbo rovina tutto il sistema. DANIELE AUTIERI Per quanto tempo i vigili mantenevano i loro incarichi?

ALFONSO SABELLA, MAGISTRATO La rotazione a Roma veniva fatta in modo particolare. Se prima un ufficio si chiamava patate e cipolla, poi si chiamava cipolla e patate. E le persone avevano ruotato. Ma la gente faceva le stesse cose. Ma al di là di queste cose, che abbiamo ovviamente risolto… sui vigili c’era problema rotazione non tanto verticale, ma quella orizzontale/territoriale, cioè spostare dei vigili dai gruppi in cui lavoravano in altri gruppi. Il problema è che c’erano vigili che erano radicati in quei territori da 20 anni, 22 anni. E le dico che appena abbiamo cominciato a eseguire la rotazione, con Clemente abbiamo constatato un incremento esponenziale delle sanzioni elevate.

DANIELE AUTIERI A un certo punto voi approvate la riforma.

ALFONSO SABELLA La approviamo, ce la impugnano al tar, e vinciamo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 30 ottobre del 2015 26 dei 48 membri dell’assemblea capitolina rassegnano le loro dimissioni per far cadere la giunta Marino. L’assemblea viene sciolta e il prefetto della Capitale, Franco Gabrielli, nomina come commissario Francesco Paolo Tronca.

DANIELE AUTIERI Mi sembra che nemmeno la sindaca Raggi ha preso in mano le riforme?

ALFONSO SABELLA Deve sfidare i vigili, devi avere il coraggio di sfidare determinati centri di potere.

DANIELE AUTIERI Eravate dei marziani?

ALFONSO SABELLA Ignazio è arrivato a Roma come marziano, ma un marziano non può arrivare sulla terra con bicicletta, ma con un’astronave, e lui si è portato una bicicletta…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A creare guai seri al sindaco non è la sua bicicletta. Ma la sua Panda Rossa. A novembre del 2014, dal nulla spunta una montagna di multe per violazione dei varchi di accesso Ztl nel centro della capitale. Multe mai pagate. Perché il sindaco di Roma risultava sconosciuto ai suoi vigili.

IGNAZIO MARINO, EX-SINDACO DI ROMA Io non ero assolutamente al corrente di queste multe perché vennero effettivamente emesse ma non vennero inviate a me.

DANIELE AUTIERI E dove vennero inviate?

IGNAZIO MARINO Vennero inviate all’autoparco del Comune.

DANIELE AUTIERI La macchina era la sua? E nonostante questo le inviarono…

IGNAZIO MARINO Sì, perché in alcune delle notifiche scrissero che il soggetto si era trasferito o era sconosciuto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questo è il documento che certifica l’impossibilità di reperire Ignazio Marino. Per chi gli deve contestare le multe l’indirizzo del sindaco di Roma è incredibilmente sconosciuto.

DANIELE AUTIERI In merito alla vicenda c’è un altro elemento oscuro che dipende dal fatto che fosse stato manomesso il sistema di controllo interno del Comune di Roma…

IGNAZIO MARINO Il procuratore scrisse nero su bianco che era evidente che c’era stato un hacker che era entrato nel sistema informatico del Comune di Roma, aveva manipolato i dati del sindaco per alterare il suo permesso in modo tale che quando le telecamere della Ztl vedevano il mio permesso segnalassero che era scaduto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A giugno del 2016 Virginia Raggi viene eletta sindaco. Il comandante dei vigili Renato Marra si confida con il fratello Raffaele, controverso consigliere della prima cittadina. Lo mette in guardia sul potere dei Vigili delegati al pronto intervento nel centro storico. IL cosiddetto PICS.

INTERCETTAZIONE RENATO MARRA Il problema è che quello vuole utilizzare i Pics per sapere e addentrarsi nei vari assessorati e nei movimenti del sindaco e ricordati che sono molto pericolosi

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 14 luglio dello stesso anno il comandante Renato Marra invia al fratello Raffaele un messaggio whatsapp. Che ha il sapore di un monito.

TESTO MESSAGGIO «Ti ricordi la panda rossa in divieto di sosta? Ti ricordi la storia delle multe? La bottiglia di vino pagata con la carta del comune? Tutte queste notizie sono state diffuse ad arte dai Vigili del pronti intervento del centro storico. Che controllava per il Pd tutti gli spostamenti di Marino. Parlane con il sindaco». IGNAZIO MARINO Rimasi spiazzato perché leggere che il Partito Democratico voleva utilizzare alcuni vigili, per trovare, individuare disperatamente qualcosa che potesse essere utilizzato contro il sindaco… certo è inquietante.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Inquietante. È un’informazione che Renato Marra, comandante dei vigili urbani, condivide con il fratello Raffaele, che è anche consigliere della sindaca. Ecco, non sappiamo se qualcuno gli abbia chiesto informazioni conto di quelle informazioni, quello che sappiamo è che Raffaele Marra è stato condannato in primo grado a un anno e quattro mesi per abuso di ufficio. Avrebbe in qualche modo influenzato la nomina, la promozione del fratello, a capo dell’ufficio promozione e turismo del comune. Nomina avallata dalla sindaca Raggi. Ora la sindaca ha anche attaccato la riforma del corpo della giunta Marino, dice è stata annullata dal Tribunale del Lavoro, ma si dimentica di dire che è stata approvata dal Consiglio di Stato e del Tar. Poi ha assicurato anche che nell’ultimo anno sono ruotati 1200 vigili. Rivendica anche di aver contribuito al ricambio del corpo dando seguito all’assunzione di 1300 agenti. Ribadisce anche, la sindaca, che nessun comandante è rimasto sempre al comando dello stesso gruppo. Dimentica di dire che almeno la metà di quei comandanti ricopre quel ruolo da un paio di lustri. È vero, è ovvio, che ci sono anche tantissimi vigili che credono nella divisa che indossano, che incarnano lo spirito di servizio. È anche per loro che abbiamo raccontato tutte queste criticità.

Dagospia il 24 novembre 2020. Da rai.it. È uno dei Corpi di polizia cittadina più grandi d’Europa: oltre 6mila vigili con competenze che vanno dal decoro urbano alla verifica delle misure anti-Covid. Ma a dieci anni dalle prime denunce che portarono all’arresto del comandante generale del Corpo di polizia locale di Roma, Angelo Giuliani, il sistema di potere all’interno dei vigili urbani della capitale è ancora in piedi. Un sistema che permette agli agenti della Polizia locale di esercitare un controllo totale sulla città: sui commercianti, sugli imprenditori, sui politici, sugli stessi privati cittadini. Attraverso testimonianze e intercettazioni inedite, l’inchiesta ricostruisce i legami tra l’allora comandante Giuliani e l’attuale comandante generale Stefano Napoli, nominato alla guida del Corpo il 30 giugno scorso dalla sindaca Virginia Raggi. Parlano commercianti vittime di estorsione e cittadini minacciati di morte solo per aver segnalato troppe irregolarità, ed emerge per la prima volta il ruolo di alcuni vigili come fiancheggiatori dei clan nella conquista dei locali del centro di Roma. Un sistema così consolidato che è capace perfino di far tremare un sindaco, al punto da rendere lecita la domanda: quale è stato il ruolo dei vigili di Roma negli scandali che hanno portato alle dimissioni di Ignazio Marino?

Daniele Autieri per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 novembre 2020. C'è un processo aperto presso il tribunale di Roma che imbarazza il comandante generale del corpo di polizia locale, Stefano Napoli. La storia è del 2011, ma i suoi strascichi hanno animato le testimonianze rilasciate negli ultimi mesi dallo stesso Napoli e da un altro comandante, David Bonuglia, ai tempi suo assistente al I gruppo, quello che controlla il centro storico di Roma. La vicenda riguarda una presunta estorsione da parte di quattro vigili che risale al 2011. Vittime: prima una donna, poi l' imprenditore di vini e liquori Silvio Bernabei. In entrambi i casi i vigili avrebbero promesso di sistemare irregolarità edilizie in cambio di soldi. Al tempo, Bernabei presenta un esposto all' allora comandante generale Angelo Giuliani che incarica delle indagini il comandante del I gruppo (nel luglio scorso nominato dalla sindaca Raggi comandante generale) Stefano Napoli. L' informativa resta congelata per sei mesi senza essere trasferita in procura. Nel corso della sua testimonianza a processo, rilasciata prima nel 2015 e poi in parte ritrattata nel novembre del 2019, David Bonuglia dichiara: «Mi dette l' incarico Napoli, e mi spiegò che me lo dava a novembre perché c' era stato un tentativo di comporre bonariamente, cui avevano partecipato Napoli e Giuliani». Lo stesso Silvio Bernabei conferma e spiega: « E' vero, hanno cercato di risolvere la questione inter nos » , ovvero trovando un accordo. Interpellato dal programma Report, che nell' inchiesta "Potere capitale" ha ricostruito la vicenda, Napoli nega l' esistenza di qualunque tipo di accordo: « Tanto è vero che al termine di quell' indagine sono stati deferiti dall' autorità numerosi colleghi». Napoli fa riferimento ai circa 30 agenti trasferiti dal Gruppo di Trastevere proprio per il rischio corruzione. Tuttavia, nonostante la difesa del comandante, è anche vero che il 4 aprile del 2012 i carabinieri si presentano in ufficio da Napoli con un ordine di sequestro firmato dalla procura. Gli atti da sequestrare sono proprio quelli legati ai procedimenti sulle presunte estorsioni di Trastevere. Un intervento a gamba tesa che il comandante giustifica come «un atto dovuto concordato con la procura » . Su quell' atto dovuto, ma soprattutto sull' estorsione ai danni di privati cittadini, il processo è ancora aperto.

M.Fv. per “la Repubblica” il 2 dicembre 2020. «Non c' è dubbio che ci sia stata un' organizzazione e una regia precisa per screditarmi e farmi cadere quando ero sindaco, a cominciare dalla vicenda della Panda rossa». Ignazio Marino risponde a 7.000 km di distanza da Roma, dalla Thomas Jefferson University di Philadelphia dove lavora e dove l' equipe medica, racconta, in questi mesi ha assistito «più di 15 mila pazienti col Covid».

Tornare ai fatti di 6-7 anni fa che lo videro protagonista suo malgrado gli strappa un sorriso amaro. C' erano i vigili dietro il caso della sua auto parcheggiata davanti al Senato?

«Non sono in grado di rivolgere accuse specifiche ma sicuramente venne orchestrata la panzana del sindaco senza permesso. Ma le pare possibile? Davanti a Palazzo Madama ci sono i dissuasori mobili, io parcheggiavo lì la mia Panda, accanto alla postazione dei carabinieri, per disposizione del prefetto poiché avevo rinunciato alla scorta».

Eppure quella storia tenne banco a lungo, anche politicamente.

«Ma come può venire in mente a qualcuno che il sindaco di Roma non abbia il permesso di circolare in città?».

Report ha mostrato un' intercettazione inedita tra i fratelli Marra in cui si parla di un tentativo di screditarla ordito con la complicità dei vigili: ha mai percepito "attenzioni particolari" da parte di chi lavorava con lei?

«Se quello che dicono i fratelli Marra, due figure apicali del Comune, fosse vero sarebbe molto grave: il Pd avrebbe lavorato con un gruppo di vigili per costruire dossier falsi contro il sindaco e arrivare alla sua rimozione».

Ne ha mai avuto contezza?

«Sono sempre stato convinto che quel sabotaggio nascesse dall' interno. Le racconto un episodio: quando venni chiamato dall' Economist a Londra a discutere con gli altri sindaci delle capitali europee di investimenti, ricevetti la telefonata del capogruppo del Pd che mi invitava a rientrare a Roma con l' ultimo volo della sera a riferire in Aula sulla Panda rossa, perché altrimenti i lavori dell' assemblea capitolina non sarebbero potuti proseguire. Una richiesta che arrivava dal principale partito della mia maggioranza che, così, aiutava a creare lo scandalo».

Era tutto orchestrato?

«Sì e lo conferma il fatto che "Roma Golpe Capitale" un documentario che racconta in modo articolato quegli episodi è stato finora sempre rifiutato da tutte le tv italiane».

Torniamo ai vigili: Roma si può governare senza l' appoggio della polizia municipale?

«In quel corpo c' erano e ci sono delle irregolarità e delle responsabilità: quando venni eletto mi posi tra i primi obiettivi quello di rendere sicure le piazze più importanti della città. Tra queste c' è piazza Navona che andava presidiata nelle sue 9 vie d' accesso con due vigili per ogni entrata dall' alba a mezzanotte per impedire l' ingresso dei venditori di merce contraffatta. Dopo il primo mese mi resi conto che c' erano delle uscite rilevanti per straordinari e scoprii che per i vigili lo straordinario notturno scattava dalle 16. Fu per questo che avviai un' interlocuzione costruttiva per arrivare anche alla rotazione dei vigili. La rotazione non era un mio capriccio, è prevista dalla legge».

La stessa che ha provato a chiedere Raggi a Napoli provocando le sue dimissioni. Ha consigli da dare alla sindaca sulla ricerca del prossimo comandante?

«Nessun consiglio. Posso dire quello che feci io quando nominai Raffaele Clemente che arrivava dalla polizia: una ricerca di curricula all' altezza del compito e una selezione seria».

Flaminia Savelli per ilmessaggero.it il 4 dicembre 2020. La nomina di un generale dell' Esercito a capo dei vigili urbani deflagra sottotraccia nei ranghi della Municipale di Roma. La sindaca Virginia Raggi ha scelto Paolo Gerometta, alto ufficiale in ausiliaria, insomma in prestito dal Ministero della Difesa, per rimpiazzare l' ex comandante Stefano Napoli, dopo un' ondata di polemiche, vecchi scandali tornati a galla e malumori. Con la decisione di assegnare a un esterno la guida della polizia locale, la polemica sta già montando tra i 6mila agenti. E rischia di tradursi in uno sciopero bianco. «Lasciamo a casa orologio e penna. Sono gli strumenti, insieme al fischietto, del nostro mestiere. Senza non possiamo notificare atti e multe» annuncia Mauro Cordova, presidente dell' Arvu, l' associazione romana vigili urbani che conta oltre 2 mila iscritti. La minaccia è di lasciare le strade della città, nelle due settimane più calde dell' anno per le festività natalizie, senza regole e controlli. Con una protesta che fa leva su un cavillo burocratico: le forniture di orologi e penne ai pizzardoni romani non arrivano dal comando generale. «Li compriamo noi, io stesso rifornisco i miei iscritti» spiega Cordova, che di proteste e battaglie sindacali ormai è esperto. Negli anni 70, Cordova, era un agente in servizio del centro storico quando alla guida del comando Generale c' era Francesco Andreotti, fratello del senatore Giulio. Poi ha attraversato mezzo secolo di storia dell' amministrazione capitolina come funzionario e quindi come presidente dell' Arvu. Ora, in testa all' ennesimo braccio di ferro tra pizzardoni e amministrazione. Ad accendere la miccia della protesta non sarebbe però solo la nomina del generale Gerometta. I motivi dei pizzardoni avrebbero radici più profonde. Da giorni il malcontento è alimentato da polemiche e incertezze: «Ci sentiamo traditi, il corpo della Municipale è stato attaccato su più fronti e non è stato difeso» dice Cordova. A partire dal servizio di Report andato in onda la settimana scorsa e che inanella una serie di inchieste sul corpo della polizia Locale romana. Dalle autorizzazioni per i set cinematografici, alle ombre sui gruppi che coordinano i controlli su negozi e ristoranti del centro storico. Indagini archiviate ma che hanno spinto il Campidoglio a procedere con le rotazioni dei vigili destinati agli incarichi più delicati, e cioè commercio e ambulanti. La risposta, al pugno duro della sindaca Raggi che ha incassato pure le dimissioni dell' ormai ex comandante Napoli, sta dunque arrivando. Con i caschi bianchi che senza orologi e penne, si stanno preparando a notificare atti e sanzioni con tempi lunghi. A rallentare il lavoro dunque, e le pratiche. Minacciando addirittura l' interruzione del servizio. In settimane delicatissime per i romani che dovranno già fare i conti con restrizioni e divieti previsti per le norme sanitarie. Una su tutte: il rispetto del coprifuoco, il divieto di circolazione nelle ore notturne tra Natale, Santo Stefano e Capodanno. Ma senza vigili a presidiare le strade. Non si tratta della prima rivolta silenziosa. Durante l' amministrazione del sindaco Ignazio Marino - era la notte del 31 dicembre 2014 - sparirono dai ranghi ben 767 vigili previsti in servizio (con la collaborazione di molti medici di fiducia). Un' assenza di massa per contestare due iniziative dell' ex primo cittadino: aver rimesso in discussione il salario accessorio (lo straordinario notturno alle quattro del pomeriggio) e aver tentato di applicare un sistema di rotazione del personale negli uffici previsto dal piano anticorruzione, sostenuto pure dall' allora comandante del Corpo Raffaele Clemente.

I vicini di casa. Report Rai. PUNTATA DEL 07/12/2020, Daniele Autieri collaborazione di Federico Marconi. Dopo l’inchiesta “Potere capitale”, seguita dalle dimissioni di Stefano Napoli dalla carica di comandante generale ad interim dei vigili urbani di Roma, e dalla decisione della sindaca Virginia Raggi di imporre la rotazione di tutti gli agenti impegnati nel centro storico della Capitale, Report torna a raccontare le anomalie presenti all’interno di uno dei corpi di polizia cittadina più grandi d’Europa. Lo fa ricostruendo per la prima volta, con documenti e testimonianze inedite, una vicenda di abusivismo che coinvolge direttamente gli ultimi due comandanti generali, Stefano Napoli e il suo predecessore Antonio Di Maggio. L’inchiesta riguarda due case acquistate da Napoli e Di Maggio nel 2007 e rimaste abusive fino ad oggi. Due appartamenti che sorgono non troppo distanti dalle Vele di Calatrava, l’incompiuta di Roma immersa in un’area segnata dall’abusivismo urbanistico. Attraverso documenti catastali e contratti d’acquisto, l’inchiesta ricostruisce la genesi di quelle operazioni immobiliari: il valore d’acquisto degli immobili, il conflitto di interesse dei protagonisti, lo scontro acceso con lo stesso Comune di Roma. Uno scontro che arriva fino alle aule del Tar, il tribunale amministrativo regionale, chiamato a esprimersi sulla possibilità di abbattere le case dei comandanti, proprio come accaduto ai villini dei Casamonica, distrutti dalle ruspe nel novembre del 2018 al termine di una maxi operazione condotta dagli stessi Di Maggio e Napoli e vantata con orgoglio dalla sindaca Virginia Raggi.

“VICINI DI CASA” Di Daniele Autieri Collaborazione Federico Marconi Immagini Alfredo Farina – Matteo Delbò Montaggio Andrea Masella Grafiche Michele Ventrone.

ANGELO GIULIANI – COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Io sono il comandante del corpo della polizia municipale. Se minimamente mi sfiorasse l’idea che non sono nelle condizioni di guidare il corpo più grande d’Italia, la mia coscienza mi imporrebbe di fare un passo indietro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le indagini della procura portano all’arresto del comandante che, nel corso del 2014, viene prima scarcerato, poi sospeso, quindi reintegrato dal giudice del lavoro che revoca la sospensione per un vizio di forma. Cinque anni dopo, il processo per la presunta tangente da trentamila euro finisce prescritto. Il giudice stigmatizza i comportamenti dell’ex-comandante generale. Quanto al giro di estorsioni messi in piedi ai danni di commercianti e privati cittadini, Giuliani è stato scagionato, ma molti vigili sono ancora sotto processo. Tra le vittime di quel sistema c’è anche Vincenzo Conticello, imprenditore per anni sotto scorta per aver rifiutato di pagare il pizzo alla mafia. Lascia Palermo per Roma e apre il suo ristorante.

VINCENZO CONTICELLO Il sistema funzionava così: c’erano delle pseudo agenzie immobiliari. Se ti rivolgevi all’agenzia X, immobiliare-disbrigo pratiche, a cui si rivolgono quasi tutti. La consulenza costava 14-15mila euro. 12mila-13mila sono le mazzette che in parte prende per sé stesso e in parte distribuisce.

DANIELE AUTIERI Con Napoli che rapporti hai avuto?

VINCENZO CONTICELLO E lui dice delle cose chiare sugli aspetti dei permessi; tu hai sbagliato, non ti sei rivolto alle persone corrette.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Napoli citato da Conticello era l’allora comandante del I Gruppo, quello che controlla il centro storico di Roma. Lo stesso dirigente che nel luglio scorso Virginia Raggi nomina comandante generale del corpo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Buonasera. Il giorno dopo la trasmissione la sindaca Raggi ha confermato la fiducia nel suo comandante Napoli, gli ha chiesto però di far ruotare i suoi uomini, quelli che si occupano di controllare gli esercizi commerciali e anche di contrastare l’abusivismo nel centro storico. Però il 30 novembre il comandante Napoli annuncia le sua dimissioni e scrive nella lettera inviata alla sindaca: dice di essere vittima di un vile attacco alla sua dignità, denuncia di essere stato abbandonato dal Campidoglio. E aggiunge: a conferma dell’odiosa campagna mediatica a cui siamo stati sottoposti, la mattina del 26 novembre una troupe di Report si è avvicinata alla mia abitazione. Ora io vorrei rassicurare il comandante Napoli, non c’è alcuna campagna mediatica contro di lui fatta tanto meno da Report, però è vero che il nostro Daniele Autieri è andato a chiedergli conto di quello che aveva scoperto. A lui e anche al suo vicino di casa.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 20 novembre del 2018, otto villini abusivi del clan criminale dei Casamonica vengono abbattuti nella periferia est di Roma. Alla maxi operazione, guidata dal comandante dei vigili urbani, Antonio Di Maggio, partecipa anche la sindaca Virginia Raggi.

VIRGINIA RAGGI – SINDACO DI ROMA Noi dopo trenta anni abbiamo riportato la legalità in un quartiere di Roma nella quale sostanzialmente una famiglia criminale, i Casamonica, la facevano da padrone. E devo ringraziare la polizia locale e tutte le forze dell’ordine.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A pochi chilometri di distanza dalle ville dei Casamonica, sorge un pezzo di Roma, spuntato come un fungo negli ultimi venti anni. Un’enclave dell’abusivismo dove si continua a costruire ancora oggi.

PAOLO BERDINI – ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI ROMA 2016-2017 Qui la proprietà è dell’università di Tor Vergata. Quando iniziò l’esproprio nel 1972 ci si accorse che c’erano tre borgate abusive per 50-55 ettari di terreno occupato.

DANIELE AUTIERI Ma lei quando la acquista sapeva che la casa era abusiva?

ROLANDO DELLEA – RESIDENTE No, assolutamente no. Anzi io confidavo, come credo chiunque compri una casa e accenda un mutuo anche consistente, che la casa sia più che apposto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Cinquantacinque famiglie hanno acquistato casa all’interno di questo maxi comprensorio, realizzato dalle società del costruttore Franco Di Bonaventura. Tra loro anche il comandante dimissionario del corpo di polizia locale Stefano Napoli e il suo predecessore Antonio Di Maggio. DANIELE AUTIERI Napoli ha lavorato da lei perun periodo? Il comandante. Perché lui ha scritto nel curriculum che aveva lavorato per un po’ per la Cosedil.

FRANCO DI BONAVENTURA – COSTRUTTORE EDILE Un periodo lui ha lavorato anche... ha dato delle prestazioni, ha lavorato come avvocato.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Tra il 2006 e il 2008, mentre vengono ultimate le case, il costruttore si avvale di una consulenza strategica, quella di Stefano Napoli, al quale riconosce un contratto di lavoro part time. Il Comando Generale del Corpo, autorizza il funzionario.

DANIELE AUTIERI Napoli faceva il vigile ancora quando ha lavorato da lei?

FRANCO DI BONAVENTURA – COSTRUTTORE EDILE Napoli chiese l’autorizzazione al loro ufficio e ha lavorato con un contratto a progetto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Come dimostra questo verbale di immissione in possesso della casa, Stefano Napoli non si limita a fare il consulente, ma è uno degli agenti incaricati dal costruttore a consegnare le abitazioni ai nuovi proprietari. ROLANDO DELLEA – RESIDENTE Io l’ho conosciuto nel periodo in cui ho comprato casa, ma non sapevo che fosse un funzionario dei vigli urbani perché ho avuto modo di incontrarlo negli uffici della società venditrice.

DANIELE AUTIERI Dal costruttore, stava lì.

ROLANDO DELLEA – RESIDENTE Esatto stava lì.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Napoli all’epoca svolgeva mansioni nel gruppo incaricato di controllare proprio quel territorio, alle dipendenze del comandante Antonio Di Maggio. Quando a giugno del 2007 il costruttore finisce di realizzare i villini, il vigile e consulente Stefano Napoli fiuta l’affare. Insieme a Napoli, anche il collega Di Maggio sembra interessato a comprare una casa e il 19 novembre firma il rogito.

ANTONIO DI MAGGIO – EX COMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE La storia della casa è banale. Io acquisto una casa con un rogito notarile normale, sto pagando il mutuo di 800 euro e più al mese. L’ho pagata 3.600 euro al metro, quando a Centocelle stavano a 2.800 le case.

DANIELE AUTIERI Il fatto che questa casa fosse abusiva, lei lo sapeva, non lo sapeva, come era la cosa?

ANTONIO DI MAGGIO – EX COMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE Ma ti pare, ma io sono così bravo, come, sono “sceriffo di Roma”, come mi definisci tu, e vado a spendere… cioè la casa o me la faccio regalare se sono un corrotto oppure se sono una persona… non me la compro. Che cazzo ne sapevo io? Io sono una persona onesta, dite quello che volete, io vi sto dicendo che sono una persona per bene.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Appena un mese dopo, il 19 dicembre, anche Napoli compra un appartamento identico a quello del suo comandante: 47 metri quadrati ai quali si aggiunge anche un posto auto. Napoli però riesce a strappare un prezzo migliore di quello di Di Maggio: paga 100mila euro, circa duemila euro al metro quadrato.

DANIELE AUTIERI Glielo chiedo cortesemente. Lei acquista una casa nel 2007 da un costruttore, da un costruttore da cui lavora?

STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Signor Autieri la ringrazio.

DANIELE AUTIERI È un’operazione regolare? Me lo può spiegare?

STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Signor Autieri le ho risposto, ci vedremo nelle sedi competenti. La ringrazio.

DANIELE AUTIERI Sì, ma una sede competente è anche quella di dare risposte ai cittadini. Lei rappresenta un’istituzione comandante. Io glielo sto chiedendo cortesemente.

STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE E io cortesemente le sto rispondendo: ci vedremo nelle sedi competenti, la ringrazio.

DANIELE AUTIERI Quindi la questione della casa secondo lei è regolare? La casa del 2007, che lei ha acquistato nel 2007?

STEFANO NAPOLI – EX COMANDANTE GENERALE CORPO DI POLIZIA LOCALE ROMA CAPITALE Ci vedremo nelle sedi competenti, la ringrazio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il contratto dimostra che al momento dell’acquisto Stefano Napoli è consapevole delle irregolarità non sanate dai costruttori che pendono su quelle case. Il comune di Roma chiede che vengano abbattute. Napoli e Di Maggio, entrambi dirigenti del Campidoglio, fanno ricorso al Tar contro il loro stesso datore di lavoro. E vincono.

ANTONIO DI MAGGIO – EX XOMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE Il Tar ha detto al Comune: organizzate una sorta di condono, perché ci pare opportuno, perché le cose non sono chiare.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nonostante siano abusive, quelle case non possono essere abbattute perché, come spiega la sentenza del Tar, l’amministrazione si è avveduta “con colpevole ritardo” dell’illegittimità di quei titoli edilizi.

DANIELE AUTIERI Voi a un certo punto vi rendete conto che Stefano Napoli, anche in virtù dei rapporti che aveva con quel costruttore, fosse a conoscenza che queste case non erano regolari. Andate mai dalla sindaca Raggi a testimoniare tutto questo, a raccontarglielo?

ROLANDO DELLEA – RESIDENTE Noi comunque siamo stati con i nostri legali presso la segreteria della sindaca Raggi e abbiamo depositato tutti gli atti dalla lettura dei quali, poteva tranquillamente desumersi questa circostanza alla sindaca, alla segreteria della sindaca.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 16 maggio del 2018 poche settimane dopo la segnalazione depositata presso la segreteria della sindaca, Virginia Raggi nomina Antonio Di Maggio comandante del corpo.

ANTONIO DI MAGGIO – EX COMANDANTE POLIZIA ROMA CAPITALE Grazie sindaca Virginia Raggi di avermi dato questo onore di dirigere il Corpo.

PAOLO BERDINI – ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI ROMA 2016-2017 Non sono in grado di controllare entro 60 giorni le richieste e dunque i privati spesso vincono al tribunale perché è scattato il silenzio - assenso. E noi ci troviamo questo pezzo di città abusiva che non ha ancora i marciapiedi. È la capitale dell’inciviltà, è la capitale dell’illegalità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il silenzio - assenso: è così che l’abusivismo si è divorato pezzi di una città. A essere beffati sono gli onesti. E il Comune che cosa fa? Invece di implementare gli uffici con il personale e snellire la burocrazia, fa come le tre scimmiette. Qui che cosa è accaduto? Che un imprenditore chiede la consulenza, chiede di essere seguito da chi quelle regole dovrebbe farle rispettare ed eventualmente, semmai, sanzionare chi non le rispetta. Uno dice: vabbè, è una cosa bellissima perché alla fine il residence esce regolare. E invece no. Qui è uscito anche abusivo. Quando il Comune se ne accorge e chiede l’abbattimento, il Tar dice ormai è troppo tardi. E qui qual è il ruolo ambiguo? Che chi doveva controllare in realtà Napoli, quell’appartamento pur sapendo che era abusivo, lo acquista. Anzi poi consegna anche le chiavi, come fosse un agente immobiliare, agli altri acquirenti. Anche l’altro comandante Di Maggio acquista l’appartamento abusivo. Lui dice: io non lo sapevo che era abusivo, ma l’ho pagato a un prezzo superiore di mercato. Ecco, c’è qualcosa di irregolare, di losco in tutto questo? Non lo sappiamo. Loro dicono di no e noi gli crediamo. Però sicuramente c’è qualcosa di inopportuno: quando nel 2018 gli acquirenti, gli altri acquirenti vanno dalla sindaca Raggi a raccontare la vicenda e spiegano anche il ruolo dei due vigili, che cosa accade? Che pochi giorni dopo la Raggi nomina comandante generale Di Maggio. Ecco, insomma, così vanno le cose. 

DUE VIGILI ROMANI SI ACCOPPIANO NELL'AUTO DI SERVIZIO, PECCATO CHE NELLA FOGA ABBIANO LASCIATO LA RADIO ACCESA. Mario Landi per leggo.it il 23 novembre 2020. La divisa, si sa, ha sempre avuto un certo fascino. Per lui. E per lei. Mettici un infinito turno di pattuglia per tutta la notte e Roma che è romantica perfino davanti a un campo nomadi. E il patatrac è fatto: una coppia di vigili urbani, lei sulla quarantina e lui con qualche anno in più, non hanno resistito e si sono lasciati andare a sesso sfrenato nell'auto di servizio con tanto di scritta sulla fiancata. A testimoniarlo un eloquente audio che qualcuno probabilmente ha registrato approfittando del fatto che i due nella foga avrebbero lasciato l'autoradio accesa. Il file in perfetto stile YouPorn, secondo quanto risulta a Leggo, è finito sulla scrivania del comandante generale della polizia municipale della Capitale Stefano Napoli, uno che nella sua lunga carriera ne ha viste di tutti colori ma forse non ne aveva mai sentita una così. Il fattaccio è successo qualche giorno fa. I due agenti a luci rosse sono in forze al XV gruppo (zona Cassia) e l'altra sera è toccato a loro il pattugliamento notturno del campo rom in via di Tor di Quinto. Lei è più giovane ed è figlia d'arte (la madre è stata un pezzo grosso dei vigili di Roma), lui è più grande e, contro tutti gli stereotipi del pizzardone romano, pare abbia un fisico prestante. L'altra sera, secondo quanto è stato denunciato in un esposto al Comando, erano insieme su una Fiat Tipo di servizio e dalla sede del XV gruppo hanno raggiunto la postazione assegnatagli. Il turno di notte è lungo. Per scambiare quattro chiacchiere via la mascherina. Ma la carne è debole e il Corpo (quello della municipale) anche. Così, via anche la divisa. E poi via il resto. Il motore era spento. Ma l'autoradio di servizio probabilmente no. E così la loro passione e le cinquanta sfumature di municipale non sono rimaste rinchiuse nell'abitacolo. Anzi. In poche ore erano già sulla bocca degli oltre sei mila agenti della Capitale. Al comando generale c'è imbarazzo e rabbia per come i due abbiano gettato nel ridicolo l'intero Corpo. Invece ai piedi della scalinata del Campidoglio, in un bar (neanche a dirlo) tre vigili ci scherzano su davanti a un caffè e uno di loro uscendo intona la canzone Grande Raccordo anulare di Corrado Guzzanti simil Antonello Venditti: «Nella pause faremo l'amore... e se nasce una bambina poi, la chiameremo Romaaaa».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 26 novembre 2020. Si indaga per intercettazione abusiva. Perché è stata una cimice, piazzata ad arte, a captare, l' incontro intimo tra due agenti del XV gruppo della polizia municipale. La procura di Roma aveva già aperto un fascicolo sul plico recapitato al comando generale dei vigili urbani lo scorso giugno: due chiavette Usb con la registrazione ambientale di un rapporto sessuale e una lettera anonima che accusava due agenti in servizio di avere fatto sesso, in auto, durante il turno di controllo davanti a un campo rom di Tor di Quinto. Due mesi dopo, quando il caso è stato trasmesso alla procura, non ci sono stati dubbi: sin dal primo momento al procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli è stato chiaro che quella registrazione non venisse dalla centrale, con la radio lasciata casualmente aperta, ma fosse un audio carpito illegalmente. Adesso un' informativa è arrivata anche al pm Paolo Ielo, anche se non c' è alcuna prova che i fatti denunciati siano avvenuti durante il pattugliamento, è solo la lettera anonima a riferirlo. I due agenti potrebbero essere sentiti proprio per chiarire e stabilire se davvero il rapporto sessuale si sia consumato durante il turno. Si potrebbe configurare l' interruzione di pubblico servizio. Ma difficilmente l' aggiunto, che coordina i reati contro la pubblica amministrazione, procederà, non ci sarebbero né gli elementi sufficienti né gli estremi. Quello che si valuta, invece, in procura, è che l' intercettazione abusiva, l' invio dell' audio, la lettera anonima e anche la diffusione della notizia ad alcuni mesi dalla denuncia recapitata al Comando generale, rientrino in una strategia che punti a colpire la vigilessa. Una forma di revenge porn, fattispecie di reato, che prevede pene fino a sei anni e riguarda le vendette compiute attraverso la diffusione di immagini o video a sfondo sessuale senza il consenso dell' interessato. Nessun dubbio sul fatto che la registrazione e l' invio dell' anonimo siano avvenuti in un clima di veleni. La donna, tra l' altro, nel 2016, aveva denunciato, insieme a una collega un suo superiore. Il sovrintendente è attualmente a processo con l' accusa di violenza sessuale aggravata davanti ai giudici della prima sezione penale e l' agente è parte lesa. E la stessa donna, qualche mese fa, aveva firmato una relazione al suo comandante riferendo delle attenzioni particolari e affatto gradite ricevute da un collega. Nel frattempo ai due protagonisti della vicenda è stato notificata ieri l' avviso dell' apertura di un procedimento disciplinare. Sono già stati trasferiti entrambi ad altro incarico e saranno sentiti nei prossimi giorni. L' accusa è di avere leso l' immagine del Corpo. Ma, come sottolinea il legale della donna, bisognerà stabilire «se a danneggiare la municipale non sia stato invece chi ha piazzato una microspia e diffuso l' audio». E intanto la sindaca Virginia Raggi è intervenuta sul servizio di Report, andato in onda lunedì, sui vigili urbani: «Episodi che dipingono un quadro inquietante di possibile corruzione nella Municipale. Le colpe di alcune mele marce non devono però cadere sulle spalle di chi lavora ogni giorno onestamente».

Emilio Orlando e Franco Pasqualetti per leggo.it il 24 novembre 2020. Due inchieste parallele. Una disciplinare interna, l’altra penale che a giorni verrà assegnata al pool di magistrati che si occupano di reati contro la pubblica amministrazione. Dopo lo scandalo della coppia di agenti della polizia Roma Capitale del gruppo Cassia, intercettati mentre facevano sesso in orario di lavoro dentro una macchina di servizio, gli atti sono stati inviati in Procura. L’episodio sarebbe avvenuto a fine agosto in una piazzola davanti l’area che era stata occupata abusivamente del campo nomadi di Tor di Quinto, che era stata bonificata qualche giorno prima. I due agenti, di 52 anni lui e di 40 lei (figlia di una ex dirigente di massimo livello del Corpo della polizia municipale e ora responsabile di un altro dipartimento del Campidoglio) sono stati già trasferiti in via cautelativa dal comandante generale Stefano Napoli. Uno al tredicesimo e l’altra al quattordicesimo gruppo in attesta di ulteriori sviluppi. Tra i reati che si profilano, oltre al peculato d’uso legato all’auto di servizio per scopi personali ci sarebbe anche quello di interferenze illecite nella vita privata. Sembrerebbe infatti che, l’atto sessuale consumato durante il turno di servizio oltre ad essere stato “captato” dalla radio ricetrasmittente digitale di cui sono dotate le “volanti” dei vigili, sarebbe stato anche oggetto di una intercettazione ambientale abusiva, registrata con una penna all’interno della quale c’era una microspia. La cimice sarebbe stata messa da qualcuno prima del servizio e ritirata quando i due amanti clandestini erano rientrati in ufficio. Insomma, una sorta di spy story, i cui contorni sono ancora oscuri e che riserverà a breve altri importanti colpi di scena. La registrazione, infatti, è stata consegnata con un esposto anonimo al Comando. «Ma come li mettono lì per controllare noi e poi fanno certe cose?». Si mette le mani nei capelli Florian Nicolic, uno degli abianti del campo nomadi di Tor di Quinto. La notizia di Leggo ha fatto il giro del campo e tutti, giornale alla mano, commentato tra lo scherno e la rabbia. «Non li abbiamo visti fare sesso - racconta Nicolae - ma è veramente uno scandalo, portano una divisa ed erano in servizio...». C’è poi chi la butta sullo scherzo: «A saperlo che quelli facevano zum zum (mima il gesto con la mano, ndr) - sorride Dimitri - ne approfittavamo per uscire indisturbati, tanto quelli avevano altro a cui pensare. Altro che a noi nomadi...». Taccuini e macchine fotografiche non sono ben viste qua, ma c’è chi fa polemica: «Per una volta voi giornalisti non state qua per noi, ma per altri soggetti... se trovate anche il filmato fatecelo arrivare, così ridiamo un po’».

Stefano Cappellini per la Repubblica il 14 novembre 2020. Per dimostrarsi romani occorre un test? Non funzionerebbe o non sarebbe attendibile: i fantomatici romani "da sette generazioni" sono una leggenda. Però quello proposto dal libro di Francesco Rutelli, Tutte le strade partono da Roma , ha una sua efficacia. Occorre una certa pratica della città per conoscere anche solo in teoria la differenza tra Infernetto, Infernaccio, vicolo dell' Inferno e valle dell' Inferno. Sono zone ben distanti le une dalle altre e vi basti sapere che l' ultima, valle dell' Inferno, è in zona Vaticano. A Roma succede. Il confine tra santità e perdizione è volatile. Quello tra lecito e illecito pure, tanto che gli antichi provarono invano a separare con un muro le virtù dei Fori dai vizi della Suburra, proprio laddove oggi sorge l' Hotel Forum caro a Beppe Grillo (questa è facile ma obbligatoria). Le vie della Capitale, ha ragione Rutelli, «sono democratiche »: attraversano tutto e dappertutto portano, partono borghesi e sortiscono proletarie, ma pure viceversa, svanisce il centro e principia la periferia senza che il viandante abbia mai cambiato strada, e non conta mica solo il davanti e il dietro, anzi è l' unico posto dove il sopra e il sotto contano quasi di più, perché come scrive Montaigne, a Roma si cammina «sul tetto di case antiche» e «i resti sono profondi fino agli antipodi». Il pregio di questo libro ibrido - compendio storico, guida culturale e memoir personale, lo studio, gli amori e certo la politica dell' autore, Rutelli è stato senza dubbio il miglior sindaco degli ultimi trent' anni - è non trascurare nessuna dimensione. In senso letterale, perché a Roma conta molto anche il contrasto sorprendente tra il grande e il piccolo, che può nascondere meraviglie. Per esempio, sono convinto che solo uno su dieci dei romani o non romani che leggeranno è a conoscenza del fatto che nell' anonimo muraglione che sorregge la ferrovia dalle parti di Porta Maggiore si apre una porticina che conduce a una basilica sotterranea neopitagorica. Lì c' è la tomba in marmo del fornaio Eurisace, morto ricco, tanto da effigiare le pareti del sepolcro con le scene di lavoro del grano e del pane. E consola sapere quanto anche all' epoca funzionasse il genere pizza a taglio, ovvero il negozio che non manca in alcuna via della città. C' è una storia, mille storie, per ogni consolare, l' Appia regina viarum , depredata per secoli, la Tuscolana che in origine partiva dal Colosseo, la Casilina che porta a Tor Bella Monaca passata in vent' anni dagli insediamenti abusivi alle torri di edilizia popolari, l' Aurelia costruita sull'asservimento degli Etruschi, che il gallico Rutilio Namaziano percorre verso casa nel V secolo dopo Cristo raccontando nel De reditu suo (Il ritorno) quanto struggente fosse, e sia sempre stato, l' addio allo splendore della città. Sapete qual è il Km zero di tutte le vie consolari? È la statua del Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio (la copia, l' originale si può ammirare ai Musei capitolini). Campidoglio, potere del nome. Perché la toponomastica romana è così seminale da essere presente in decine di Paesi sparsi nel mondo, a cominciare dal Capitolium più famoso dopo l' originale, quello che ospita il Congresso degli Stati Uniti i cui affreschi, peraltro, sono romanissimi. A dipingerli fu Costantino Brumidi, pittore di corte di Pio IX e architetto, arrestato con l' accusa di aver collaborato alla rivoluzione del 1848-49. Prima condannato, poi prosciolto, partì per l' America da Civitavecchia per sfuggire alle vendette dei cardinali: l' Apoteosi di George Washington sulla cupola del Congresso è opera sua, così come L' Europa e l' America che si stringono la mano fuori dall' ufficio postale del Senato (è da quelle parti che Rutelli, in visita negli Usa, incontra per la prima volta Joe Biden, allora presidente della commissione Esteri, e si sente dire: «Se avessi i tuoi capelli sarei presidente»). Prima di fuggirsene, Brumidi aveva preparato un progetto per buttar giù mezzo Castel Sant' Angelo e far posto a una strada che collegasse il Vaticano al Quirinale. Il castello è rimasto lì, tutto a Roma resta lì, ma anche se svanisce non è detto che faccia grande differenza tra eterno e provvisorio (come racconta a suo modo il diversissimo ma complementare libro di Nicola Lagioia, La città dei vivi). Persino il Tevere ha rischiato più volte di essere "tombato" o deviato, ben prima delle strepitosa gag di Carlo Verdone in Gallo cedrone che proponeva di asfaltarlo («Ma 'sto fiume ce serve o nun ce serve?»). L'andirivieni tra presente e passato è continuo, come quello tra pubblico e privato (quest' ultimo quasi sempre legato ai ricordi di scorribande a due ruote, bici, cinquantini, moto Guzzi, Rutelli all' inizio fu il "sindaco in motorino"). In una palazzina dell' Eur a via Eufrate Rutelli incontra Pier Paolo Pasolini in un giorno di fine ottobre del 1975. Gli dice: «È un onore conoscerla, verrò ad ascoltarla tra pochi giorni al congresso dei Radicali a Firenze». Pasolini avrebbe dovuto parlare l' ultimo giorno di lavori. Ma prima imboccò la strada che porta Roma al mare senza lasciare Roma, diretto in un posto detto Idroscalo.

Franco Montini per “la Repubblica - Edizione Roma” il 4 novembre 2020. «Mio padre Dino, milanese doc, diceva che Roma lo divertiva, lo faceva ridere e per questo, piuttosto che per ragioni di lavoro, decise di trasferirsi nella capitale. Oggi, invece - prosegue Marco Risi - complice la pandemia, le parole più attuali mi sembrano quelle pronunciate da Gore Vidal in una celebre scena del film "Roma" di Federico Fellini: "Non c' è posto migliore di questa città, morta e rinata tante volte, per vedere se arriva la fine del mondo"».

A suo avviso, c' è davvero da temere il peggio per il futuro della città?

«Non saprei: mi limito ad osservare che, se per qualche tempo, i romani sono stati ligi alle regole, ordinati, disciplinati, gentili, disponibili, molto rapidamente tutto è stato dimenticato. Le persone per strada sono tornate a guardarsi in cagnesco, gli automobilisti a suonare ai semafori e a parcheggiare in terza fila, ma soprattutto non si sono mantenuti i doverosi comportamenti sociali che raccomandavano attenzione e distanziamenti. L' impressione è che i romani non riescano a credere che le cose temute possano accadere realmente».

Insomma, ben venga lockdown?

«Per carità non voglio dire questo: in primavera durante la reclusione ho sofferto per l' impossibilità di andare al cinema e ora trovo irragionevole la chiusura di questi luoghi che sono i più sicuri e protetti della vita sociale. Durante il lockdown, ho cercato di resistere all' isolamento, continuando a fare le cose di sempre: leggere, scrivere, ideare progetti, sentire gli amici, ma senza provare alcun senso di colpa per le cose che avrei dovuto fare e non facevo, giustificato, per una volta, dalle inevitabili limitazioni imposte dalla pandemia».

Questa capacità di sapersi adattare anche alle situazioni difficili e complicate è considerata una caratteristica tipicamente romana.

«Non so se derivi da un innato cinismo o sia frutto di un Dna che affonda le radici nella storia, per cui i romani, me compreso, hanno l' impressione di sapere tutto, di essere sempre un passo avanti, anche se in realtà sappiamo pochissimo e vivacchiamo sulle ceneri di Giulio Cesare».

Le sarebbe piaciuto vivere nella Roma dei Cesari?

«La vita delle classi più abbienti e dei patrizi era certamente bellissima: libagioni, avventure, servitù a non finire. Lo spettacolo dei gladiatori al Colosseo era certamente più emozionante e coinvolgente del calcio allo stadio Olimpico. Ma se eri figlio del popolo o, peggio ancora, schiavo, la fatica e il dolore erano esperienze quotidiane. In ogni caso, l' antica Roma mi affascina molto».

Tuttavia, non si è mai cimentato nel cinema peplum e nella sua filmografia i film romani, a prescindere dai generi, sono un' esigua minoranza.

«Innanzi tutto perché girare a Roma è complicatissimo per questione di permessi e di traffico. E poi le persone detestano le invasioni di quelli che chiamano i cinematografari. Oggi, quando i camion delle troupe arrivano ed occupano i posti auto sotto casa, fioccano le proteste. Anni fa, per il film "L' ultimo capodanno", per qualche giorno, in orario notturno, bloccammo, benché solo in un senso, il traffico sul ponte delle Aquile: la seconda sera nella corsia opposta un automobilista rallentò, quasi fermandosi. Pensavo volesse curiosare e salutare qualcuno: invece, quando scoprì che si stava girando un film, ripartì a tutta velocità apostrofandoci con un generoso "andatevelò a piglia'"».

Invece, in passato, i rapporti fra Roma e il cinema era idilliaci.

«Non so se fossero davvero idilliaci, forse, più realisticamente, a Roma negli anni '60 si respirava nell' aria la gioia di vivere e si era tutti più sereni. Di sicuro, c' era un maggiore rispetto nei confronti degli altri. Inoltre poter dire di avere un padre regista incuteva una certa soggezione: oggi, al contrario, il lavoro nel cinema ha perso qualsiasi fascino».

Avere un padre famoso, conoscere i volti più popolari del cinema dell' epoca, le ha consentito di vivere un' infanzia e una giovinezza da privilegiato?

«In realtà non più di tanto. È vero che sono cresciuto in un quartiere ricco, in un appartamento di fronte al ristorante Celestina in viale Parioli 103/a, ma nella zona il nostro condominio era chiamato il palazzaccio, perché particolarmente brutto. Il mio amico d' infanzia, Massimo Borgna, detto "Luna piena" per il suo faccione alla Charlie Brown, era il figlio del garagista sotto casa, con il quale, già frequentando le elementari, eravamo soliti marinare la scuola per andare a nasconderci fra i prati dell' Acqua Acetosa, dove ancora non esistevano i circoli sportivi, che hanno invaso gli argini del Tevere. Questa mia infanzia selvaggia finì, quando mia madre mi trasferì dalle scuole pubbliche alla privata San Giuseppe in via Flaminia, dove eravamo più controllati e dove le assenze venivano immediatamente comunicate alla famiglia».

E le frequentazioni con i divi dell' epoca?

«Molto meno di quanto si possa immaginare: da ragazzo, credo di aver incontrato Tognazzi una sola volta, quando ci venne a trovare al mare, durante una vacanza a Tor San Lorenzo. Gassman l' ho conosciuto al Circeo quando avevo già vent' anni. Tra lui e mio padre c' è sempre stata una sottile competizione in fatto di donne. Così Vittorio, quando la mia ex-moglie Francesca D' Aloja lasciò suo figlio Alessandro per mettersi con me, la convocò pretendendo una spiegazione sul "misfatto" e, al momento del saluto, con una certa enfasi, le disse: "Ricordati che fra i Risi e i Gassman hanno sempre vinto i Gassman"».

Ha coltivato amicizie nel mondo del cinema?

«Ho avuto, perché purtroppo non c' è più, un amico davvero fraterno: Carlo Vanzina, che era una persona gentile, cortese, coltissima. Per anni siamo stati inseparabili, poi, a complicare il rapporto, sono intervenute le mogli e abbiamo iniziato a vederci meno, pur restando sempre in contatto. Da ragazzi, andavamo al cinema insieme, vedevamo anche due o tre film nella stessa giornata. Studiavamo poco, ma a scuola Carlo andava benissimo. All' epoca, e oggi la cosa sembra ridicola, si entrava in sala quando capitava, anche a metà del secondo tempo: si vedeva prima la fine del film e poi l' inizio. Una cosa assurda, come iniziare un libro a pagina 95 e successivamente leggere l' incipit. Con Carlo ci rendemmo presto conto di questa cosa assurda e diventammo spettatori rigorosissimi: il film si doveva vedere integralmente dai titoli di testa a quelli di coda. Tuttavia il modo selvaggio di andare al cinema proseguì fino agli anni '80. Carlo riempiva un quadernetto con appunti da critico, una professione che avrebbe voluto fare».

Quali sono i suoi luoghi romani del cuore?

«A Roma ci sono strade dove mi sento bene, che mi comunicano una grande carica, altre volte invece mi trasmettono malinconia. In alcuni casi sono tratti diversi di una stessa strada a fornirmi emozioni contrastanti. Amo molto i primi 50 metri di via Settembrini, ma non i successivi. Le strade con i platani, e a Roma ce ne sono tanti, mi mettono sempre un' infinita malinconia. L' Appia Antica è un luogo che associo ad un' idea di energia esplosiva. E, se per qualche motivo ci capito, non posso non sostare per qualche minuto accanto all' elefantino di piazza Santa Maria sopra Minerva. Da qualche anno vivo non lontano da Porta Pia e piazza Fiume e improvvisamente ho scoperto la bellezza della vita di quartiere. Dove abito resistono ancora le botteghe, ci sono una quantità di trattorie tradizionali, e molti cinema, Mignon, Savoy, Europa. Ma, soprattutto, mi muovo a piedi: per le mie esigenze, non ho più bisogno di usare la macchina. Una cosa bellissima».

 Camping rom nell'oasi protetta, decine di accampati in barba a Covid e decoro. Nonostante sgomberi e bonfiche, il parco delle Valli è ostaggio di baracche e discariche. Ponti e cavalcavia sono colonizzati da decine di rom. I residenti: "Nessun rispetto delle regole anti-contagio". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. "Mica metto la mascherina quando parlo con la mia famiglia". L’uomo che abbiamo davanti, un rom di origine romena sulla cinquantina, ci guarda di traverso: abbiamo appena interrotto il suo pranzo. Un pasto frugale a base di carne cucinata su un braciere e birra. Non è solo. Insieme a lui ci sono altre quattro persone che si schermano dietro ai cappucci non appena vedono le nostre telecamere. Siamo in zona Monte Sacro, sotto ad uno dei tanti ponti che scandiscono il corso del fiume Aniene. Teoricamente sarebbe una riserva naturale protetta della Regione Lazio, ma basta sbirciare al di là della vegetazione per rendersi conto che ogni anfratto è ormai terra di conquista. I ripari più gettonati sono ponti e cavalcavia, letteralmente colonizzati da decine di nomadi. Quello dove sorprendiamo la combriccola alle prese con il pranzo dista poche decine di metri da una scuola elementare. "Non ci siamo solo noi, più in là ci sono altre tende", dice l’uomo nella speranza di farci allontanare. "Ma la polizia non vi dice nulla?". "La polizia la conosco, è venuta ieri e non ci ha detto nulla", ribatte. Risalendo sulla pista ciclabile che costeggia gli argini del fiume ecco comparire un gruppo di donne. Spingono passeggini stracolmi di materiale rovistato. Le seguiamo finché non ci conducono sotto l’ennesimo cavalcavia occupato da una lunga fila di tende canadesi accerchiate da cianfrusaglie e scarti di ogni genere. Secondo Holljwer Paolo, consigliere di Fratelli d’Italia in II Municipio, è qui che avrebbero trovato riparo alcuni dei nomadi sgomberati un paio di mesi fa dal Foro Italico. "Diverse decine di persone che non avevano diritto a entrare nel circuito dell’accoglienza – ci racconta – si sono allontanate prima dell’arrivo delle ruspe del Campidoglio, e questo è il risultato". Il paradosso è che anche in questa oasi gli sgomberi non sono una novità. L’ultimo risale a circa un anno fa e costò alle casse del Comune di Roma diverse centinaia di migliaia di euro. "È un cane che si morde la coda, ci vuole più controllo del territorio sennò – attacca Paolo – non ne verremo mai a capo". Stefano Erbaggi, dirigente romano di Fratelli d’Italia, non esita a definirlo "un gioco dell’oca". "Si spendono soldi per sgomberi e bonifiche del territorio a che pro? Se questa gente non viene dissuasa a riaccamparsi si riparte sempre dal via e tra poco – dice indicando la discarica che svetta alla sue spalle – dovremo spendere altri soldi". Il problema è annoso. Soprattutto per chi vive nei paraggi. "Io ho origini libiche – ci dice Silvia, residente sulla sessantina – e non ho assolutamente nulla contro gli stranieri, purché si comportino bene". Non è questo il caso. "Bevono, bivaccano e non rispettano le regole", denuncia. Quello che proprio non le va giù è la totale inosservanza da parte dei nomadi delle disposizioni anti-contagio. Soprattutto adesso che il governo ci chiede nuovi sforzi per scongiurare il peggio. "Non indossano le mascherine – continua Silvia – e stanno sempre assembrati, nella più totale promiscuità, poi ce li ritroviamo sui mezzi pubblici o sulle panchine della zona". La sensazione è che vengano usati due pesi e due misure: "Seguono le loro regole, qualcuno sostiene che vadano lasciati fare perché sono una minoranza, ma questo discorso – ragiona la signora – dovrebbe venire meno quando il loro stile di vita mette a repentaglio il prossimo".

Ama di Roma: furti di carburante dei furbetti alle spalle dei contribuenti? Parla una “pentita”. Le Iene News il 10 novembre 2020. Alcuni furbetti rubano da anni e senza controlli un sacco di carburante, pagato con i soldi dei contribuenti, dai camion della raccolta rifiuti dell’Ama di Roma? Il racconto di una "pentita" e l'inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti. “Gente s’è costruita le case con ’sta cosa che rubano la benzina nei camion… che nella notte raccolgono la monnezza, mettono un tubo dentro, riescono a fare il succhio e a svuotare il furgone, arrivano a prendere anche 5 taniche di benzina a sera capito?”. Parte dal racconto di una “pentita” il servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti su come verrebbe rubato e rivenduto da alcuni furbetti, impunemente, sistematicamente e senza che nessuno se ne accorga, un sacco di carburante comprato con i soldi pubblici. Il “prelievo” avverrebbe dai camion dell’Ama, l’Azienda municipale ambiente che si occupa della raccolta dei rifiuti a Roma. “Gli autisti, quando fanno la notte escono con il camion, si mettono che ne so un posto un po’ appartato. Arriva un altro con la macchina che regge le taniche, svuota tutto e porta via”, continua a raccontarci la donna che chiameremo "Michela" e che preferisce rimanere anonima. “Perché sinceramente l’ho fatto io che gli davo una mano. Nel senso che io gli portavo la macchina, lui svuotava il camion e le taniche e io portavo via la macchina. Poi una sera è passata la pattuglia, io ho avuto paura e non l’ho voluto fare più”. La truffa avverrebbe con la tecnica del “succhio”, ovvero succhiando tramite un tubo il carburante dal serbatoio di un camion per la raccolta dei rifiuti. Questo poi verrebbe messo nelle taniche e rivenduto. In particolare, sarebbe coinvolta secondo Michela un’autorimessa Ama di Rocca Cencia a Roma Est. Con un sistema che andrebbe avanti da anni ai danni dei contribuenti, che pagano con le loro salatissime tasse sui rifiuti quel gasolio rubato e poi rivenduto. Michela dice di essersi rivolta a noi dopo le nostre inchieste sul lavoro in Ama. Dopo la prima emergenza Covid che aveva fermato tutto, siamo tornati a indagare cercando di pizzicare questi presunti furbetti del carburante, partendo dai piazzali indicati da Michela come teatro dei presunti furti.  C’è poi una domanda fondamentale: possibile che ad Ama nessuno si sia accorto di nulla? Non ci sono controlli sul carburante? Nessuno si è accorto di quello che mancava? Per capire meglio, siamo andati anche all’autorimessa Ama di Rocca Cencia a Roma Est di cui ci ha parlato Michela. Cerchiamo di parlare con un responsabile dei controlli e, come dire, non veniamo accolti benissimo. Anzi, il povero Filippo Roma rischia di prenderle un’altra volta. Una dipendente ci ha anche raccontato che un sistema di controlli sul pieno di benzina dei mezzi ci sarebbe: peccato però che nessuno controlli quelle schede carburante. Che ci possano essere complicità? Per chiarire abbiamo chiesto di parlare con l’amministratore unico Ama, Stefano Zaghis. L’azienda per ora sembra preferire tacere. Sindaca Raggi, lei invece che dice?

 Lorenzo D'Albergo per "repubblica.it" il 20 ottobre 2020. I 5S puntano il dito contro la Regione. La Pisana e la berlusconiana Michela Brambilla, deputata animalista, se la prendono con i grillini. In particolare col presidente della commissione Ambiente, Daniele Diaco. Così l'abbattimento di 7 cinghiali, la mamma e i suoi 6 piccoli uccisi venerdì sera nel parco Mario Moderni, diventa l'occasione per far volare schiaffoni tra partiti. Vuoi per le Comunali in arrivo, vuoi per il solito groviglio amministrativo in cui a Roma è rimasta avviluppata persino la gestione degli ungulati, comanda sempre la politica. Che stavolta, oltre ai consueti rimpalli, nei giardini dell'Aurelio ha messo in mostra il volto peggiore della classe dirigente capitolina: Brambilla racconta di essere stata insultata al telefono da Marcello Visca, manager del dipartimento Ambiente, nei momenti più concitati. E i membri della sua associazione, la Leeida, affibbiano allo stesso funzionario un'uscita poco felice: «Spostatevi, ora mi godo lo spettacolo». Ma procediamo con ordine. Si parte venerdì: il tavolo tecnico con Regione, Città Metropolitana e Comune decide di intervenire dopo le segnalazioni dei cittadini. I cinghiali, stando al protocollo firmato il 27 settembre 2019, possono essere catturati e portati in una tenuta di caccia oppure abbattuti. In assenza di gabbie, si procede con la seconda opzione. E ora a fare luce sull'accaduto sarà una commissione d'inchiesta del Comune. L'indagine si preannuncia lunga, ma il Campidoglio pare aver già individuato i responsabili: la Regione. Non Daniele Diaco, l'ultraraggiano accusato invece da Brambilla e dall'assessora all'Agricoltura della Pisana, Enrica Onorati. « Quando ho saputo dell'abbattimento - racconta l'onorevole - ho provato a bloccare tutto. Ho chiamato Zingaretti e lui mi ha fatto chiamare da Onorati. A quel punto c'è stata una call a tre con Diaco. Lui è andato sul posto e ci ha preso in giro, diceva di non trovare i dirigenti. Che erano andati al bagno. Balle. Non ha fermato l'uccisione solo per poter fare polemica con il Pd». La replica di Diaco è un assaggio delle conclusioni a cui giungerà il Comune: «Eravamo contro l'abbattimento, ma la Regione non aveva gabbie. Poi, in serata, mi chiama Brambilla. Spiega di avere avuto la disponibilità di Zingaretti a fermare tutto, ma non arrivano atti formali o gabbie. Io? Non ho trovato i dirigenti sul posto e poi la polizia provinciale non mi ha fatto avvicinare. La competenza sulla fauna selvatica è della Regione. Dovevano venire loro. Ero solo, sotto la pioggia, e rischiavo la denuncia. Brambilla? Se la prenda con la Regione, ci hanno riso in faccia quando abbiamo proposto metodi non cruenti peri cinghiali. Il suo è solo uno spot». Che, però, spazientisce i 5S: la sindaca Raggi punta anche sugli animalisti per la sua lista civica.

Roma, la polizia provinciale spara ai cuccioli di cinghiale di via Gregorio VII. La protesta dei cittadini: "Colpa dell'Ama e dell'incuria". Dopo 24 ore di incertezza e polemiche, nella notte, gli agenti si presentano nel giardino Mario Moderni in via della Cava Aurelia. I cadaveri portati via su un camion con su scritto: "Materiale destinato all'eliminazione". Brambilla: "Uno scandalo". Valentina Lupia il 17 ottobre 2020 su La Repubblica. “A Roma è stato commesso un omicidio: mamma e sei cuccioli di cinghiale sono stati prima narcotizzati e poi uccisi, nonostante ci fossero altre soluzioni”. È la denuncia disperata - lanciata nel cuore della piovosa notte romana - delle associazioni animaliste Leidaa, Enpa e Animaliberaction. Ma anche dei cittadini della zona di Gregorio VII che, sfidando il buio, l'acqua, e il primo freddo stagionale, sono scesi in strada, a poche centinaia di metri dalla basilica di San Pietro, per protestare contro la decisione di abbattere i sette animale.

I fatti. Giovedì mattina gli animali, probabilmente attirati dai secchi pieni di rifiuti, si erano intrufolati nel giardino Mario Moderni, in via della Cava Aurelia: un punto lontano dalla strada, che mamma cinghiale aveva immaginato sicuro per lei e per i suoi cuccioli. Eppure si è trasformato in una trappola, perché poi i cancelli sono stati chiusi, con loro dentro. Venerdì sera, alle 21, dopo una giornata passata nell'incertezza, alla ricerca di una soluzione all'insolito problema,  sono arrivati sul posto gli uomini della polizia provinciale armati di fucile per narcotizzare gli animali. Ed è montata la rivolta. Non contro i cinghiali, ovviamente. Oltre alle associazioni animaliste, sono scesi cittadini dei palazzi limitrofi, altri ne sono arrivati da tutta Roma, per accertarsi che i cinghiali fossero trasferiti nella natura. Ma fin dall’inizio l’atmosfera è apparsa tutt’altro che pacifica nei confronti degli animali e lì, contro il Comune, la Regione e il protocollo che hanno firmato sul tema dei cinghiali, è montata la protesta. “Mamma e cuccioli sono stati ammazzati — spiega Ilaria Riccitelli, volontaria Enpa, Ente protezione animali, che era sul posto — È stato un omicidio: sono stati narcotizzati dalla polizia provinciale. Poi i veterinari della Asl hanno eseguito due punture con liquido mortale”. E infatti i corpi degli animali, che molti speravano essere “solo” addormentati, sono stati caricati su di un camion “speciale”: “Materiale di categoria 1 destinato all’eliminazione, Regione Lazio”. Il retroscena, se confermato nei dettagli, appare ancora più grottesco. “Nel pomeriggio si è tenuto un tavolo tra Regione e Comune — spiega l'onorevole Michela Vittoria Brambilla, già ministra e sottosegretaria, ma anche fondatrice della Leidaa, le Lega italiana Difesa animali e ambiente - E ben prima che scoppiasse la rivolta ho contattato il governatore regionale, Nicola Zingaretti, per annunciare che la mia associazione, coi propri mezzi, sarebbe andata a recuperare la famiglia di cinghiali per farsene carico. Mi mette in contatto con Enrica Onorati, l’assessora competente per la Regione, poi procedo con una chiamata a tre anche con il presidente comunale della commissione Ambiente, Daniele Diaco: la questione sembrava risolta e noi saremmo andati lì a recuperare gli animali, per metterli in sicurezza”. Poi, la sera, verso le 21, il patatrack. Prosegue Brambilla: “Nonostante le chiamate e la nostra disponibilità, uomini della polizia provinciale si sono presentati lì, con forze dell’ordine, il presidente della commissione Ambiente, Daniele Diaco e il direttore del dipartimento Tutela Ambientale, Marcello Visca, che ha anche speso parole ingiuriose nei miei confronti: motivo per cui sarà denunciato. Ma formalizzerò anche un esposto per quanto accaduto ai cinghiali: le soluzioni c’erano”. Sul posto, ai presenti che hanno implorato Daniele Diaco di contattare immediatamente la sindaca Virginia Raggi affinché facesse qualcosa ha risposto: “Chi dà l’ok è la Regione”. E così, mentre Regione e Comune dichiarano quotidianamente di battersi per la tutela degli animali, non rimane che ai romani difendere i cinghiali, attirati dai rifiuti che spesso l’Ama raccoglie a singhiozzo.

Cinghiali abbattuti a Roma: ecco perché potevano essere salvati. Le Iene News il 22 ottobre 2020. Nina Palmieri ci racconta l’assurda storia dell’abbattimento di una famiglia di sette cinghiali avvenuto qualche giorno fa a Roma. Politici e attivisti si erano resi disponibili ad accoglierli in strutture dedicate ma il Comune non ha sentito ragioni. Ecco cosa è successo. “È stata un’esecuzione in piena regola, un massacro”. Così Paola, un’attivista per la difesa degli animali, racconta quello che è avvenuto qualche giorno fa a Roma quando una famiglia di sette cinghiali, cuccioli compresi, è stata sterminata perché era arrivata in piena città. Ma era davvero necessario ucciderli? Nina Palmieri incontra l’attivista che ci dice: “Se i cassonetti strabordano e normale che ci siano i cinghiali, è cibo gratis… lo vengono a cercare perché sanno di trovarlo”. Quella famiglia di cinghiali, uccisa con una iniezione, era arrivata a Roma qualche giorno prima ed era entrata in un parco giochi per bambini. “Erano in un recinto, da lì non sarebbero potuti uscire né potevano fare del male a nessuno”, continua Paola. Dopo la convocazione di un tavolo tecnico, si decide che i cinghiali devono essere abbattuti. A quell’incontro c’era anche l’attivista: “Noi abbiamo proposto di prelevarli nel giro di mezz’ora a spese nostre per portarli in un luogo adeguato. Era una storia a lieto fine che si poteva raccontare ai bambini”. La voce della decisione di abbatterli si sparge e la gente del quartiere, che si era affezionata a quella presenza, comincia ad affluire insieme alle forze dell’ordine. Interviene anche l’onorevole Michela Brambilla, che chiama il presidente della regione Nicola Zingaretti per dirsi disponibile ad andare a prendere quella famiglia di cinghiali. “Mi ha detto: sono ben contento, sono tuoi”, ci racconta la Brambilla ma il presidente della commissione ambiente del Comune di Roma le avrebbe poi riferito di non riuscire a mettersi in contatto con il responsabile in loco. Dopo poco arriva la polizia locale di Roma Capitale, con i fucili con l’anestetico e scoppia la bagarre con la cittadinanza. L’uccisione però non si ferma. Racconta ancora Paola: “Sono subito caduti a terra, era una dose altissima di anestetico. La cosa più agghiacciante è che un piccolino è corso da mamma cinghiale, la prima a cadere”. “Poi sono arrivati con il camion della spazzatura”, ci dice un testimone, “li hanno sbattuti dentro come un sacco di patate”.

Aldo Cazzullo per il ''Corriere della Sera - Cronaca di Roma'' il 12/10/2020. Mezzogiorno di un sabato di pandemia; e alla stazione Termini non ci sono taxi. Si esce su via Marsala: il parcheggio è deserto, ci sono soltanto figuri un po' loschi, forse abusivi, che offrono «taxi-taxi» con tono da cospiratori. All' uscita principale c' è una piccola coda di clienti in attesa. Passa sporadicamente qualche auto bianca, ma non basta per caricare tutti. A quel punto scatta il piano d' emergenza: Samarcanda. Chiamare un taxi in stazione è un' assurdità; perché i taxi in stazione dovrebbero già esserci. Invece spesso si deve telefonare a Samarcanda, perché è una cooperativa che garantisce professionalità e (quasi sempre) gentilezza, oltre all' opportunità - anche questa ovvia in tutto il mondo, tranne che in Italia - di pagare con la carta di credito. Ma stavolta pure Samarcanda si arrende: non ci sono proprio taxi. La colpa, dice l' operatore - gentilissimo come sempre - è del Comune: già normalmente lavora una vettura su due; nel week-end i turni sono ulteriormente rarefatti. Sabato scorso, in effetti, il pubblico del festival librario «Insieme» ha aspettato anche 40 minuti sotto la pioggia all' uscita dell' Auditorium per avere un taxi. Però almeno in stazione (oltretutto in assenza di turisti stranieri) i taxi ci dovrebbero essere. I tassisti sono una delle categorie che più hanno sofferto le conseguenze economiche del Covid. Su queste pagine abbiamo espresso molte volte comprensione per la battaglia contro la proletarizzazione del mestiere. Abbiamo ripetuto cento volte che i tassisti sono come i medici, i carrozzieri, i giornalisti: non si possono giudicare in blocco; sono in grande maggioranza brave persone e bravi lavoratori, e i casi di disservizio non consentono di demonizzare un' intera categoria. Certo, gli stranieri si stupiscono del fatto che in tutte le capitali del pianeta si possono fermare i taxi per strada, mentre a Roma è quasi impossibile; ma su questo ci sono opinioni discordi. I tassisti sembrano convinti che la richiesta di corse sia fissa, e più di tanto non si possa lavorare. Molti pensano che non sia così: se fosse più semplice avere un taxi, ci sarebbero più persone - perché sono stanche, perché ha cominciato a piovere, perché mancano gli autobus, perché la metro non funziona, perché in piena pandemia una vettura è più sicura di un mezzo affollato - disposte a prendere un taxi. Invece si è sempre scelto di aumentare i prezzi (per una corsa media si arriva facilmente alla temuta tariffa 3) anziché aumentare le licenze. Ora con il Covid ovviamente la domanda è diminuita. Ma questa non è una buona ragione per non far trovare i taxi in stazione. Non ci sono scuse o ragioni che tengano: in un Paese civile, in una capitale degna del suo rango, i taxi in stazione ci devono essere. Ogni giorno, a qualsiasi ora, con qualsiasi tempo. Poi si può discutere su tutto. Ma se non si è d' accordo con questa premessa, discutere è inutile.

Lettera al “Corriere della Sera” il 15 ottobre 2020. Caro Aldo, sono un tassista, lettore del Corriere. Ho letto il suo ennesimo articolo sulla presunta carenza di taxi a Roma. Vorrei spiegarle alcune cose sulla categoria e sul dramma che stiamo vivendo da marzo. Lei si è lamentato che sabato scorso mancavano taxi in stazione, è vero, nei weekend mancano i taxi, ma se il Comune ci obbliga a restare a casa di chi è la colpa? Se durante la settimana ci fanno lavorare un giorno sì e uno no, è mia la colpa? Se su una turnazione di 55 giorni ne ho potuti lavorare 24, sempre su turni di 8 ore, ho qualche colpa? Lo sa che da marzo siamo ridotti alla fame? Lo sa che ci sono colleghi che hanno dovuto prendere soldi in prestito da persone poco raccomandabili? Lo sa che il Comune di Roma ci ha fornito due, ripeto due, mascherine Fpv2? Lo Stato ci ha concesso, dopo ripetute richieste, solo 800 euro di sostegno. Perché se vado alla Posta devo fare due ore di fila per pagare una bolletta, mentre una volta non posso aspettare 5 minuti un taxi? Lei dice che in stazione i taxi ci devono essere sempre, ebbene le assicuro che raramente mancano i taxi in stazione, su 24 ore potranno mancare forse durante le ore di notte verso le 3, ma durante il resto della giornata il servizio taxi è fornito...

LA RISPOSTA DI ALDO CAZZULLO. Caro Mario, capisco il suo sfogo, per questo cedo gran parte dello spazio alla sua lettera, che pure sono costretto a tagliare per poterle rispondere. Capisco, e certo non da solo, la vostra sofferenza. La migliore solidarietà che noi cittadini possiamo dimostrare nei vostri confronti è prendere il taxi; ma dovete consentirci di farlo. Se ho scritto l' ennesimo articolo, è perché purtroppo i taxi a Roma continuano a mancare. Incredibilmente, perché mancano pure i turisti stranieri. Le assicuro che accade regolarmente di non trovare taxi alla stazione Termini. Il parcheggio di via Marsala è in mano ad abusivi e a un vero e proprio racket che quasi sempre rifiuta di caricare passeggeri non diretti a Ciampino o Fiumicino. Il parcheggio principale è spesso vuoto di taxi, e non alle 3 del mattino. Sono d' accordo con lei che l' errore è del Comune; ma voi tassisti avete dimostrato, con mezzi a volte discutibili, di poter far cambiare idea al Comune. E non solo a quello di Roma. (È vero che capita, lontano dalle stazioni, di vedere code di taxi in attesa. Ma perché, a differenza che nelle altre capitali europee, i taxi a Roma non girano mai in cerca di clienti? Perché a Madrid, Londra e quasi sempre a Parigi basta un cenno per fermare i taxi, e a Roma non accade quasi mai?).

Lettera di un lettore al “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2020. Sono un ricercatore e viaggio spesso per lavoro. Di solito arrivo a Fiumicino e noleggio una vettura con autista. Qualche tempo fa sono atterrato a Ciampino verso le 11 di sera e ho provato a prendere un taxi. Dopo circa 10 minuti di coda, i tassisti hanno smesso di prendere i passeggeri della fila, e hanno iniziato a raccogliere gruppi di persone con destinazioni simili. La fila si è sciolta e ci siamo messi a vagare per il piazzale cercando un taxi libero. Alcuni stranieri hanno iniziato a sghignazzare urlando «viva Roma, viva l' Italia»: come dargli torto? Ai passeggeri, per lo più turisti, i tassisti proponevano in anticipo tariffe molto diverse da quelle di legge. Dal momento che non ero interessato a un «taxi collettivo» ho cercato di prendere un taxi solo per me, ma nessuno si dichiarava libero. Dopo aver vagato per il piazzale per una ventina di minuti, ho visto due poliziotti e gli ho chiesto di riportare l' ordine nella fila. Hanno fermato un taxi, hanno fatto scendere uno strano passeggero che sedeva sul sedile anteriore (forse un amico del tassista). Al che, il tassista ha provato a fare entrare altri passeggeri. Gli ho spiegato che volevo andare da solo. A questo punto i poliziotti mi dicono che «sto passando dalla parte del torto» e mi fanno scendere. Ero troppo stanco per protestare, mi adeguo. Il taxi riparte con i turisti e lo strano «passeggero». Erano le 24, l' ultimo bus era partito. Sono stato costretto a prendere uno degli ultimi taxi con altri turisti. Il tassista mi ha chiesto 30 euro, e 35 (!) ai turisti che viaggiavano con me. L' alternativa era passare la notte a Ciampino. Alessandro M.,  Roma

Roma, corruzione per le licenze agli ambulanti: 18 arresti. Ci sono anche due Tredicine. Pubblicato mercoledì, 23 settembre 2020 da La Repubblica.it. Diciotto misure cautelari (otto in carcere e dieci ai domiciliari) sono state seguite questa mattina, su delega della procura, dai militari del Nucleo Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza e dal personale della Polizia Locale di Roma Capitale nell'ambito dell'indagine sul cosiddetto racket delle autorizzazioni per il commercio su strada con il coinvolgimento di pubblici ufficiali, imprenditori e sindacalisti. Tra gli arrestati anche i due fratelli Tredicine, Dino (in carcere) e Mario (ai domiciliari). I reati contestati, a vario titolo, sono quelli di associazione per delinquere, corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, rivelazione del segreto d'ufficio, estorsione, abusiva attività finanziaria, usura e autoriciclaggio. Gli investigatori, nel frattempo, hanno provveduto a eseguire un sequestro preventivo di disponibilità finanziarie per 1 milione di euro, pari ai profitti illeciti conseguiti da alcuni indagati. L'indagine della Guardia di finanza e della polizia locale di Roma denominata "Monsone" ha consentito di ricostruire "un collaudato sistema corruttivo ed estorsivo posto in essere da un sodalizio criminale di 13 persone": due pubblici ufficiali (l'allora responsabile degli Uffici "Disciplina" e "Rotazioni" del Dipartimento Attivita' Produttive del Comune di Roma e un suo diretto collaboratore), quattro esponenti di un'associazione sindacale di categoria ed un gruppo di sette imprenditori/commercianti (tre dei quali di nazionalita' bangladese, siriana e israeliana). L'organizzazione - secondo gli investigatori - ha "gestito, a scopo di illecito arricchimento, le autorizzazioni amministrative per l'esercizio di attivita' commerciali su aree pubbliche e le numerose postazioni presenti nella capitale nel settore del commercio ambulante, avvalendosi (qualora necessario) di condotte intimidatorie, minacce e violenze per ottenere indebite somme di denaro". Diverse le utilità ricevute dai pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio per le attività illecite: denaro contante, ripetuti pranzi o cene, capi di abbigliamento griffati e abbonamenti annuali per assistere a partite del campionato di calcio di Serie A. Contestate anche ipotesi di usura con prestiti tra i 2 e i 5 mila euro e l'applicazione di tassi d'interesse annui superiori anche al 500%. I dettagli dell'operazione saranno illustrati in un incontro con la stampa che avverrà alle ore 12.00 presso la sala riunioni della Procura della Repubblica di Roma.

Roma, mazzette per camion bar e banchi della Befana: 18 arresti. Ci sono anche due Tredicine. A dare il via all'indagine la denuncia di un bengalese. Otto persone in carcere, dieci ai domiciliari: coinvolti anche l'allora responsabile degli Uffici "Disciplina" e "Rotazioni" del Dipartimento Attività Produttive del Comune di Roma e un suo diretto collaboratore. Tra i capi di imputazione contestati dalla procura a Tredicine anche l'incasso del bonus Covid per le partite Iva. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 23 settembre 2020. Un giro di mazzette per aggiudicarsi le postazioni migliori per i loro camion bar. E non solo: anche i banchi della befana di piazza Navona, quelli di abbigliamento e souvenir. Otto persone in carcere, 10 ai domiciliari e 40 gli indagati per un'inchiesta della procura di Roma sul commercio ambulante. L'indagine del nucleo speciale di polizia valutaria svela un quadro inquietante in cui per ottenere uno spazio i commercianti dovevano pagare: si arriva fino a 60mila euro l'anno.  E chi non si sottometteva, finiva vittima di usura: era costretto a chiedere prestiti a strozzini suggeriti dal gruppo. Tra gli arrestati anche Dino e Mario Tredicine, il primo in carcere e il secondo ai domiciliari, e Alberto Bellucci, capo dell'ufficio discipline e rotazioni. Al centro dell'inchiesta, infatti, ci sono proprio le rotazioni che, per definizione oltre che per legge, devono cambiare ogni due mesi. E invece, anche tramite prestanomi e licenze fittizie, erano sempre gli stessi ad assicurarsi le postazioni. Il tutto anche grazie alla complicità delle associazioni sindacali di categoria, di cui Mario Tredicine era componente: anche loro chiudevano un occhio in cambio di qualche bustarella. Agli atti dell'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Antonio Clemente, anche alcune videoriprese. In una di queste Bellucci mettendo il contante nel portafogli commenta tra sé e sé: "E la pratica è clamorosamente archiviata". A dare il via all'indagine, la denuncia di un cittadino bengalese che non voleva pagare e che ha subito minacce violentissime. Il sistema copriva il commercio ambulante di tutta la città, 240 le postazioni finite nell'inchiesta, dal centro alla periferia, e aveva un tariffario ben preciso a seconda del luogo e del periodo dell'anno. In una delle intercettazioni, uno degli indagati dice: "Tutte le sostarelle fanno i turni, se le vendono a 7 piatte (700 euro, ndr)". Le mazzette, oltre che in contanti, venivano anche saldate con pranzi, cene, capi d'abbigliamento griffati o, addirittura, abbonamenti allo stadio: secondo gli inquirenti era dal 2006 che l'ufficio veniva gestito in questo modo. E la figura chiave era proprio Bellucci. Di lui Dino Tredicine dice: "Finché al 34 c'è Alberto, la categoria non trema". Tra i capi di imputazione contestati dalla procura, anche uno più recente che riguarda il bonus per le partite Iva messo a disposizione dal Governo nell'ambito delle misure per contrastare la crisi da Covid. Dino Tredicine aveva messo a disposizione di alcuni commercianti bengalesi un commercialista che li avrebbe aiutati ad ottenere i sussidi dell'Inps. Un servizio che sarebbe stato pagato: gli stranieri dovevano restituire una parte della somma ricevuta, circa la metà, agli indagati. La Finanza aveva perquisito i Tredicine a febbraio del 2019 e Dino si era sfogato, il giorno dopo, con il figlio Stefano: "Parlano pure dei redditi degli ultimi 20 anni, ma mica sò 20 anni solo che lavoramo. A Stè, ma questi vanno cercando de levacce tutto, 'sti pezzi de merda, questi ce fanno fà la fine dei zingari capito? Io 'sti giorni passati avevo pure pensato a vendè qualche cosa". Ed è anche dal comportamento tenuto in quei giorni che il gip deduce la loro "pericolosità criminale" che, scrive Francesco Patrone, "emerge altresì dagli scomposti tentativi, che lo stesso voleva attuare attraverso parenti o conoscenti dopo aver appreso della esistenza delle indagini". Tredicine, che vanta un patrimonio pari a 3,1 milioni di euro, in quei giorni caldi progetta di occultare "quanta più documentazione possibile in box, cantine o locali, o addirittura mettendola all'interno di un furgone o dietro una parete in muratura". Ma non potrà evitare che con l'operazione di oggi arrivi a suo carico una richiesta di sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni per un importo di 809.250 euro.

Tredicine, dalle castagne a Carminati la dynasty delle bancarelle romane. Arrivata dall'Abruzzo negli Anni 60 la famiglia che controlla i camioncini di bibite e chincaglierie davanti ai monumenti più importanti ha esteso la propria influenza a tutta la vita sociale di Roma, dalla politica al sindacato. Alessandro Paolini su La Repubblica il 23 settembre 2020. Tredicine, i ras della bancarella. Un impero nato dalle caldarroste, cresciuto negli anni con i camion bar piazzati a pochi passi dai più importanti monumenti della città e i banchetti pieni di rosari, anfiteatri in miniatura e basiliche nella palla di vetro con neve cadente. Con gli stand della Festa della Befana a piazza Navona che non hanno mai mollato (ai tempi d'oro un banco fruttava 30 mila euro a settimana) sopravvivendo a qualsiasi gara d'appalto, ad ogni cambio di amministrazione (Ignazio Marino cercò invano di ostacolarli riducendo il numero delle loro postazioni) e persino al progressivo spegnersi dell'appuntamento che per decenni ha richiamato nell'antico circo di Diocleziano migliaia di bambini romani con le loro famiglie. Ora, gli eredi del caldarrostaro ambulante Donato Tredicine - arrivato dall'Abruzzo negli anni Sessanta con il suo braciere e i sacchi di castagne - sono tra i protagonisti dell'inchiesta "Monsone", che ha fatto finire otto persone in carcere e dieci ai domiciliari. Tra loro, anche due tra gli eredi dell'impero, Dino e Mario: uno in cella, l'altro in casa. Ma per la potente famiglia di madonnari - indisturbati inquilini per anni e anni del banco con vista su Fontana di Trevi - Regina Coeli si era già aperta in passato.  Negli stessi anni del loro grande salto in politica. Quando Giordano, figlio di Donato, scala il centrodestra romano fino a diventare - con Alemanno sindaco - vicepresidente del Consiglio comunale capitolino e vicecoordinatore regionale di Forza Italia. Poi l'inchiesta "Mafia Capitale" travolge anche lui. A inchiodarlo, una serie di intercettazioni telefoniche tra Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. <Io glielo dico sempre>, racconta il presidente della Cooperativa "29 Giugno". "A Giorda', se non t'arrestano diventerai primo ministro". E lui me dice: "Perché, me possono arresta'? Li mortacci tua... Te possono arresta'..." si legge nei brogliacci delle loro conversazioni.

Ma oltre che in politica, nella dinastia dei bancarellari d'oro - padroni di quarantadue postazioni sulle sessantotto disponibili in città, emerse in un'inchiesta di Repubblica nel 2012 - c'è anche un ramo che si "butta" nel sindacato.  Alfiero Tredicine è stato presidente di Apre - Confesercenti. E come lui Mario e Dino, protagonisti della retata di oggi. Il primo è stato vicepresidente dell'Uva - Confcommercio, l'altro della Fivag - Cisl.  E la saga continua.

Lorenzo De Cicco per ''Il Messaggero'' l'1 settembre 2020. Roma, alberi a rischio crollo E metà dei giardinieri è esentato dalla potatura. Rami a terra ieri per il maltempo ma i tronchi cadono anche con il sole Tra inidoneità e mansioni d'ufficio il 50% dei comunali non si occupa delle piante. Dietro piazza del Popolo un tronco ha centrato in pieno due macchine parcheggiate; in via Capodistria, accanto a Villa Torlonia, il fusto di un platano si è «appoggiato», così annotano i vigili del fuoco, sul tetto di una palazzina. La Nomentana, arteria di grande scorrimento, ieri è stata chiusa in un tratto dalla Polizia municipale per colpa degli «alberi pericolanti». Bollettino degli ultimi capitomboli vegetali di Roma, dopo 48 ore di acquazzoni. Ma nella Capitale del verde incolto non serve una scudisciata di pioggia per far sì che fusti e ramaglie vengano giù come birilli sulle strade o sui marciapiedi: a volte non è necessario nemmeno uno sbuffo di vento. Il pino di 18 metri che il 27 luglio è rovinato su una Mercedes che svoltava da piazza Venezia, accanto all' Altare della Patria, per dire, si è spezzato in un pomeriggio di sole, senza neanche un refolo di ponentino. I crolli in sequenza degli ultimi quattro anni svelano di fatto le falle di una manutenzione che viaggia al rallentatore. Nonostante l' urgenza, gli appalti rimangono impaludati nella motriglia della burocrazia per mesi, a volte per anni, tra errori di calcolo nei fogli excel (è successo anche questo...) e dirigenti in fuga dalle commissioni di gara. Ma alla base dello sfascio c' è anche un altro aspetto: le truppe che dovrebbero andare alla guerra contro i fusti pencolanti sono gonfiate. I giardinieri effettivi, per farla breve, sono molti di meno di quelli annotati negli organici del Campidoglio. Se n' è accorto Pietro Maria Scaldaferri, ex dirigente della Procura di Roma e fino a Ferragosto, per un mandato-lampo durato cinque mesi, capo del Servizio Giardini di Roma Capitale. In prestito dal Ministero della Giustizia per volontà di Virginia Raggi, che poi l' ha riaccompagnato alla porta a ridosso della pausa agostana, Scaldaferri ha iniziato a toccare i nervi scoperti del Servizio Giardini, un settore segnato negli anni da inchieste, scandali, arresti. Ed ha accertato, per esempio, che solo metà dei giardinieri, di fatto, possono considerarsi davvero «operativi». L' altra metà passa il turno senza toccare un albero. È tutto annotato in un rapporto interno, commissionato dall' ex direttore alla fine di luglio. Formalmente, si legge nel dossier, gli addetti del Servizio Giardini di Roma sarebbero 395. Ma ecco la prima sforbiciata (al Personale): 97 sono dipendenti di «categoria C», insomma svolgono funzioni di coordinamento o mansioni d' ufficio, al massimo si occupano dei sopralluoghi. Di prendere in mano una cesoia, non se ne parla. Altri 2 dipendenti fanno parte delle «categorie protette», hanno disabilità molto gravi. In 60 invece nel certificato medico hanno prescritti «minori aggravi». Tradotto: sono «inidonei» ad alcune mansioni. In alcuni casi si tratta di invalidità anche del 50 o 60%, in altri invece la percentuale è molto più bassa: 10%. Tra i dipendenti considerati «non operativi», quindi esentati dagli incarichi più faticosi - ma anche, come dire, propri del mestiere? - c' è chi ha informato i superiori di prendere psicofarmaci e tranquillanti. O di avere un passato da tossicodipendente. Risultato: oltre il 40% dei giardinieri comunali non sale su una gru, non accende una motosega, non sfronda i rami pericolanti. Senza contare altri 23 giardinieri assunti col contratto part-time. Lavorano a metà servizio. E dire che l' urgenza della manutenzione non solo ordinaria, ma straordinaria, a tutto campo, è nota in Campidoglio: la sindaca Raggi, un anno e mezzo fa, ipotizzò un piano straordinario da oltre 100 milioni per abbattere quasi 50mila alberi secolari, a fine vita, potenzialmente pericolosi. L' operazione avrebbe dovuto essere finanziata dal governo, ma i soldi extra non sono mai arrivati. Nel frattempo si va avanti con gli interventi al risparmio. «Il pino crollato a piazza Venezia? Due anni fa chiedemmo analisi approfondite - ha ricordato l' agronoma che lo esaminò, Sara Sacerdote - ma alla fine l' unico controllo che abbiamo realizzato è stato quello visivo». A occhio.

RAFFAELLA TROILI per il Messaggero il 26 agosto 2020. Julian si è svegliato, le sue urla si sentono fin dentro la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, perché lui dorme lì fuori, a piazza del Popolo. All'esterno di Santa Maria in Montesanto, l'altra chiesa gemella, mangia e sbraita un altro clochard. I clienti dei bar e ristoranti storici che costeggiano i lembi della piazza si guardano intorno preoccupati. Tra venditori di rose insistenti, gimkane tra monopattini, strisce pedonali inesistenti, ragazzine che si rinfrescano da capo a piedi nella fontana dei Leoni. Nel dormitorio che si è creato a piazza del Popolo, quanti erano protagonisti sembrano in ostaggio. Come padre Mario, il rettore di Santa Maria dei Miracoli: «Non se ne può più, non sappiamo a chi rivolgerci, nessuno li manda via davvero». Rumeni ubriachi, una coppia in particolare, Julian e una donna con cui discute davanti ai turisti seduti da Rosati piuttosto che da Canova, ma l'unica in grado di calmarlo e portarlo via (a piazzale Flaminio) quando lui in preda all'alcol esagera.

PADRONE DELL'AREA. Padrone dell'area ieri con strafottenza ha portato la sua branda in giro per la piazza per poi piazzarla all'entrata della chiesa. Sono dovuti intervenire i militari dell'Esercito che presidiano la piazza per convincerlo ad andar via. Era entrato in chiesa, pare per rubare. In piazza raccontano delle offese che rivolge al rettore, «la polizia solo viene ogni tanto e lo porta via, ma il giorno dopo è di nuovo qui, entra nei locali, pretende, strilla». Del suo entourage fanno parte una serie di ubriaconi, come testimoniano le bottiglie sparse qua e là e l'odore forte di urina proprio sotto gli archi di accesso alla piazza. I cartoni sparsi qua e là rendono l'idea di come la piazza nonostante sia il salotto buono della città lotti ogni giorno in bilico con il degrado. Tanto che le varie forze dell'ordine di passaggio non c'è giorno che gli dicano: «Julian fai il bravo». Il senso di rassegnazione, da parte del rettore come dei ristoratori impressiona. Forse sono stanchi di chiedere aiuto, intanto il clochard grida contro tutto e tutti, ti fissa come se volesse aggredirti da un momento all'altro. A volte è facile tenerlo a bada, altre prende il sopravvento. Alla fine si allontana, si ferma con il suo letto al centro della piazza, si appoggia alla fontana, sotto lo sguardo vigile dei militari, poi dopo un po' si allontana, «ma tornerà, lo fa sempre».

AMBULANTI PRESSANTI. Lo sconforto è evidente. Altri giacigli sono più nascosti, ma le tracce di bivacchi si vedono e sentono. Mentre al centro della piazza un ambulante ha messo in mano a forza un mazzo di rose a una ragazza. Il fidanzato sta discutendo per farglielo restituire. Gli agguati sono dietro l'angolo, il viavai di turisti e passanti confonde le acque. Ma le urla di Julian dalla sua branda, contro tutto e tutti, risuonano nella piazza. «Aiutateci, non sappiamo a chi chiedere aiuto», ripete chi vive e lavora nel salotto buono di Roma.

Laura Bogliolo per “il Messaggero” il 23 agosto 2020. Sicurezza, igiene, decoro. Gli accampamenti lungo le Mura Aureliane sono aumentati in modo esponenziale durante l'emergenza coronavirus, è nata una vera tendopoli che continua a moltiplicarsi tra bivacchi, risse e degrado. «Qualcuno ci aiuti» è il grido di allarme di residenti, commercianti  e di chi ricorda che le Mura Aureliane sono un bene archeologico. E intanto incombe il rischio di contagio per il coronavirus. Il comitato di quartiere dei residenti di San Lorenzo, l'associazione dei commercianti di zona e il comitato "Mura Aureliane" hanno scritto a sindaco, prefetto, questore, alla Sovrintendenza «per chiedere un intervento urgentissimo». Le tendopoli occupano via di Porta San Lorenzo, viale Pretoriano, viale di Porta Tiburtina e viale di Porta Labicana. «Per non parlare di piazza Siculi, attraversarla è una sfida tra sbandati, cattivi odori, guano e quegli alberi non potati da anni che creano la notte anche di giorno - denuncia Gloria Battaglia, presidente del "comitato Mura Aureliana" - ho vissuto tre anni in India, uno stato del genere l'ho visto solo a Dehli, non devono essere i cittadini a sollecitare le istituzioni, è vergognoso da vedersi, la mancanza di reazione è inspiegabile, la situazione ormai è fuori controllo». Sbandati, immigrati irregolari, persone con problemi psichici, la rissa è sempre dietro l'angolo. «Scattano liti anche per avere il posto migliore...» aggiunge Battaglia. Sono circa 8 mila i senzatetto, gli invisibili nella Capitale. Come si sa, il degrado chiama degrado e in zona ci sono stati episodi preoccupanti. «E i residenti sono spaventati, intorno al quartiere ne gravitano tanti» dice Emanuele Venturini, presidente del comitato di quartiere San Lorenzo che distingue «tra chi ha bisogno di aiuto e chi delinque». Cosa fa il Campidoglio? A fine aprile l’assessorato capitolino alla Comunità solidale, guidato da Veronica Mammì, a fine aprile faceva sapere che «dall’inizio del lockdown è stato messo in campo un investimento di circa un milione di euro in più per ampliare i servizi solo per le persone senza fissa dimora - spiegano - arrivando a 700 posti in più rispetto al circuito ordinario di 200». Ma intanto la situazione lungo le Mura Aureliane è deflagrante e i romani attendono risposte dalle istituzioni.

Laura Bogliolo per ilmessaggero.it il 9 novembre 2020. Aveva chiesto di essere cremato e poi sepolto nel cimitero Acattolico di Testaccio. Lui, Gigi Proietti, un pezzo di cuore di Roma e del teatro nazionale, lui, l’attore più vicino ai romani che hanno voluto ricordarlo con murales che tappezzano la Capitale dal Tufello all’Appio, dove aveva frequentato il liceo classico Augusto. Gigi proietti sembra essere rimasto “incastrato” in una delle sue barzellette, in quelle frasi che sono in bilico tra realtà e finzione. È presumibile che la sua salma, considerando la drammatica situazione dei cimiteri capitolini, possa attendere una settimana prima della cremazione. Così ha scritto Il Messaggero l’altro giorno, ricordando il triste tsunami che ha travolto il cimitero Flaminio di Prima Porta dove decine e decine di salme da giorni aspetterebbero una cremazione. Nei registri del Flaminio il suo nome non compare tra quelli in programma nelle prossime ore e dunque è verosimile supporre che passerà qualche giorno. Insomma, nella pagina nera del lungo elenco di figuracce alla romana c’è anche questa. E mentre i romani e chiunque abbia a cuore il teatro, la recitazione, soffrono, dalla Campania arriva un appello. «Dopo aver appreso della notizia delle difficoltà incontrate, con probabile slittamento di una settimana nella cremazione della salma di Gigi Proietti al cimitero Flaminio abbiamo deciso di offrire alla famiglia la nostra piena disponibilità ad effettuare gratuitamente la cremazione». A parlare è Emilio Liquori, amministratore dell’impianto Tempio Mater di Castel Volturno. I problemi di Roma sulle cremazioni purtroppo sono noti. Tempo fa una figlia denunciò l’attesa di oltre 50 giorni per ottenere le ceneri del papà. Una storia a parte, fatta di burocrazia ed errori, ma sembra che l’ultimo cammino dei romani non sia ancora del tutto privo di ostacoli. Dopotutto già alla fine di ottobre era stato comunicato che negli ultimi tre mesi i decessi a Roma erano cresciuti notevolmente e che le richieste di cremazione erano aumentate. Da parte sua, Ama che gestisce i servizi cimiteriali, aveva dato istruzioni alle agenzie funebri della Capitale per evitare «code nell’espletamento delle operazioni cimiteriali». Tra gli ostacoli, ci sono stati i lavori di manutenzione nei forni crematori. Ama aveva fatto sapere che «i lavori di manutenzione sulla sesta linea del forno crematorio del Flaminio sono conclusi ed è stata richiesta a tutti i soggetti preposti l’accelerazione dell’iter amministrativo propedeutico alla cremazione per potenziare la capacità di far fronte alla domanda crescente».

Caos nei cimiteri capitolini, anche Gigi Proietti in fila per la cremazione. Sono ancora decine le salme che aspettano di essere cremate nel cimitero Flaminio, compresa quella di Gigi Proietti. Secondo l'Ama i disservizi sono dovuti al picco di morti causato dal Covid. Ma le associazioni attaccano: "Colpa di burocrazia e disorganizzazione". Alessandra Benignetti, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Non c’è solamente il picco di decessi registrati negli ultimi tre mesi dietro il caos che sta investendo il cimitero Flaminio, nella zona nord della Capitale. Secondo le associazioni alla base dei problemi ci sarebbe soprattutto la disorganizzazione dell’amministrazione capitolina. "Ad agosto è stato saturato il cimitero Laurentino e quindi le persone residenti nel quadrante sud della Capitale hanno dovuto iniziare a trovare soluzioni alternative per i feretri – spiega al Giornale.it Valeria Campana, portavoce del Comitato Tutela Cimiteri Capitolini - la prima, ovviamente, è la cremazione, che consente di collocare l’urna cineraria in un’altra tomba". "In questi anni – va avanti Campana – per una serie di errori tecnico burocratici il Campidoglio non è riuscito ad ampliare, modificando il piano regolatore, il cimitero Laurentino e neppure a liberare circa 1300 sepolture al Verano, che potevano essere messe all’asta così da dare una boccata d’ossigeno sia in termini di spazio che finanziari". "L’aumento di decessi delle ultime settimane, quindi – denuncia – ha solo aggravato una situazione già al limite, visto che il numero delle salme che aspettano di essere cremate è di due o tre volte superiore a quello dei morti per Covid nel Lazio". Nella Capitale, anche per colpa del nuovo coronavirus, i decessi sono cresciuti del 25 per cento soltanto nel mese di ottobre. Per evitare "congestioni" nei cimiteri la scorsa settimana Ama ha messo in campo due soluzioni: il trasferimento di parte delle salme in una "sala d’attesa" allestita al cimitero del Verano e l’attivazione della "sesta linea del forno crematorio del Flaminio" per potenziare le attività. "Resta intatta la capacità di soddisfare tutte le tipologie di operazioni cimiteriali", assicurava la municipalizzata in una nota diramata nei giorni scorsi. Ma secondo le associazioni sarebbero ancora centinaia le salme che attendono di essere cremate. In coda c’è anche quella di Gigi Proietti, l’attore scomparso la scorsa settimana per un attacco cardiaco. Secondo Il Messaggero la sua famiglia potrebbe dover attendere almeno una settimana per la cremazione. Tanto che un impianto di Castel Volturno, in Campania, si sarebbe offerto per effettuarla gratuitamente". Per gli altri, però, l’operazione non si preannuncia semplice. "Chi vuole andare a cremare il caro estinto fuori comune - ci spiega, infatti, Valeria Campana - non può farlo se non dietro il pagamento di una tassa di circa 250 euro, senza dimenticare le restrizioni sugli spostamenti dettate dall’ultimo dpcm". Intanto la figuraccia del Campidoglio fa indignare il mondo politico. "Come si può arrivare a questo?", si domanda su Twitter il candidato sindaco della Capitale, Carlo Calenda, commentando l'odissea toccata alla salma dell'artista romano. Sulla questione sono intervenute anche le consigliere Dem Valeria Baglio e Giulia Tempesta, che denunciano come lo scorso anno "i soldi allora stanziati in bilancio per le manutenzioni straordinarie dei cimiteri, tra cui le manutenzioni dei forni crematori e la realizzazione di altri sei nuovi impianti", non sono mai "arrivati a destinazione". "Il presunto picco di mortalità delle ultime settimane è solo una giustificazione meschina per nascondere l'impreparazione e l'immobilismo della giunta che da tempo era al corrente dei problemi cui sarebbe andata incontro, senza l'avvio di manutenzioni dei luoghi e lavori di adeguamento dei servizi", attaccano in una nota. "Questa situazione – concludono - non è figlia di un'emergenza temporanea, ma è una precisa responsabilità dell'amministrazione Raggi che da tempo sarebbe dovuta intervenire". È la stessa posizione sostenuta dal Codacons, che nei giorni scorsi ha annunciato un esposto contro Ama per interruzione di pubblico servizio.

Dagospia il 17 luglio 2020. Come già comunicato lo scorso 18 maggio, sono stati immediatamente sospesi dal servizio e dalla retribuzione i dipendenti coinvolti nell’inchiesta della Procura della Repubblica a seguito delle indagini dei Carabinieri del Nucleo Radiomobile di Roma su ipotesi di condotte illecite nell’espletamento di alcune operazioni cimiteriali all’interno del Cimitero di Prima Porta. I dipendenti, per i quali è subito scattato anche un procedimento disciplinare, resteranno sospesi dal servizio sino all’esito del procedimento stesso. La vicenda è emersa anche grazie alle segnalazioni e alla collaborazione dell’azienda con le Autorità competenti. Ama S.p.A. si considera a tutti gli effetti parte lesa, continuerà a offrire la massima collaborazione agli inquirenti e non esiterà ad assumere ulteriori iniziative anche a tutela della propria immagine. Lo comunica AMA S.p.A. in una nota. Ufficio Stampa Ama

Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 17 luglio 2020. Le immagini immortalano lo scempio. Le telecamere nascoste tra i vasi di fiori dei loculi registrano la scena: Alcuni dipendenti dell'Ama si accaniscono sui cadaveri nel cimitero di Prima Porta. La salma viene brutalmente sezionata. Tagliata con un coltellaccio, i resti buttati nell'ossario comune. Tutto alla luce del sole. È accaduto questo al cimitero Flaminio tra gennaio e febbraio scorso. Le videocamere piazzate dai carabinieri del nucleo radiomobile acquisiscono preziose prove. I lavoratori della municipalizzata, con le tute arancioni e la scritta Ama, si dispongono intorno alla salma, la sollevano, un altro la tiene e un collega infierisce con il coltello.

LE IMMAGINI. Il video drammatico, ma indispensabile per gli inquirenti per incardinare l'accusa, da stamattina è sul sito del Messaggero. I cadaveri sono brutalmente offesi per un solo obiettivo: arrotondare lo stipendio. Il tutto realizzato ingannando i familiari dei defunti, all'oscuro di ciò che accade. La procura di Roma adesso si prepara a chiedere il rinvio a giudizio, il pm è Pietro Pollidori, e accusa 15 persone tra dipendenti dell'Ama e impresari funebri, a vario titolo, per truffa, corruzione, induzione alla corruzione e vilipendio di cadavere.

IL CASO. Dopo 30 anni all'interno del loculo, scade il tempo per la permanenza della bara. Perciò si dispone l'estumulazione e il trasferimento dei resti, quasi sempre, nell'ossario comune. Tuttavia in molte aree del cimitero il corpo si conserva in ottimo stato. Una notizia pessima per i parenti del defunto: i familiari devono mettere mano al portafoglio e pagare la cremazione. È di fronte ad una spesa imprevista che, per i pm, viene presentata una ragionevole e meno dispendiosa soluzione: le faccio spendere di meno. Si tratta di una proposta presentata da alcuni dipendenti dell'agenzia funebre che poi dividono la busta dei soldi con i complici che vestono la divisa dell'Ama. Accade poi il rituale macabro. I parenti non sanno quello che succede. Non immaginano che ciò che rimane del loro caro verrà poi tagliato da macellai improvvisati: i dipendenti della municipalizzata afferrano i coltelli ed iniziano a sezionare la salma mummificata. Nel giro di una mezz' ora riducono il corpo in pezzi. Alla fine, ciò che resta lo prendono e lo collocano nell'ossario comune.

SECONDA INCHIESTA. Anche se i casi scoperti dal radiomobile dei carabinieri sono sei, in procura sono certi che questa operazione macabra sia andata avanti per molto tempo. A questo punto c'è da chiedersi, cosa accade a Prima Porta? C'è infatti un'altra inchiesta del sostituto procuratore Silvia Sereni che riguarda la truffa sulle cremazioni. Ovvero i vasi di terra consegnati ai parenti del defunto al posto dell'urna cineraria: la bara viene seppellita, all'insaputa della famiglia, nell'area comune. In questo caso, alcune agenzie funebri, incassano i soldi della cremazione, subito dopo il funerale, salvo poi non eseguirla. In questo nuovo filone, sempre i carabinieri del nucleo radiomobile, hanno individuato 10 bare seppellite. Ma è solo l'inizio. La procura ritiene, infatti, che i casi possano essere molti di più.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 17 luglio 2020. Il danno è da capogiro: quasi 90 milioni di euro sprecati in un affare fallimentare, che ha scavato una voragine nei bilanci della ex Provincia di Roma. Si tratta dell'acquisto del palazzo da 32 piani che sarebbe dovuto servire come sede unica, costruito sui terreni di Luca Parnasi, l'imprenditore a processo per associazione a delinquere e corruzione per lo Stadio della Roma. Ora la Corte dei Conti del Lazio chiede i danni e bussa alla porta di 37 tra politici, tecnici e amministratori, del Campidoglio e della Regione, che si sono succeduti nel corso degli anni. I nomi sono importanti: i magistrati hanno notificato l'invito a dedurre - che equivale a un avviso di conclusione delle indagini - anche alla sindaca Virginia Raggi, alla guida del Comune e quindi della Città Metropolitana di Roma, e al presidente della Regione e segretario dem Nicola Zingaretti. Nella lista ci sono anche i consiglieri Maria Agnese Catini, Giuliano Pacetti, capogruppo M5S, Paolo Ferrara, ex capogruppo, insieme al consigliere comunale Maria Teresa Zotta. L'invito a dedurre è stato notificato anche alla parlamentare del Pd Patrizia Prestipino, all'europarlamentare dem Massimiliano Smeriglio, all'ex capo di Gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro. Ancora: ci sono i nomi di Amalia Colaceci, ex assessore di palazzo Valentini poi diventata presidente di Cotral, e Michele Civita, assessore in Regione già a processo per il nuovo stadio della Roma, Mauro Alessandri, prima consigliere provinciale e poi assessore ai Trasporti della Pisana, Antonio Calicchia, già direttore generale della Provincia di Zingaretti, il dirigente del dipartimento Risorse strumentali, Stefano Carta. E poi compaiono i ragionieri e i consiglieri del Cda del fondo d'investimento utilizzato per la compravendita immobiliare. Ognuno dei 37 indagati, secondo la ricostruzione del viceprocuratore Massimo Lasalvia, titolare del fascicolo, avrebbe una parte di responsabilità: chi ha proposto e chi ha votato l'acquisto della nuova sede, chi ha continuato negli anni a deliberare atti per cercare di ripianare la voragine finanziaria. Per la procura, il fondo istituito dall'ex Provincia per l'acquisto immobiliare sarebbe stato amministrato in conflitto d'interessi dalla stessa società di gestione del risparmio che controllava la torre Parnasi. E non è tutto: nello stesso fondo sono stati fatti confluire anche gli immobili di pregio della Città Metropolitana, a garanzia del prezzo finale. Il problema è che questo strumento finanziario, fin dal momento dell'istituzione, avrebbe generato uno squilibrio finanziario macroscopico, che sarebbe stato compensato con la progressiva vendita all'incanto dei palazzi pubblici. La torre Parnasi, in zona Eur-Castellaccio, «risultata peraltro inagibile e quindi inutilizzabile» - si legge negli atti - era stata acquistata dal Fondo Immobiliare Provincia - uno strumento finanziario definito «complesso e oneroso» dagli investigatori - al prezzo di circa 263 milioni di euro. Sono stati i finanzieri del Nucleo Pef di Roma a quantificare il danno: circa 90 milioni di euro, appunto, 69 dei quali utilizzati per fare fronte a oneri gestionali del fondo, che aveva un andamento negativo e che sarebbe stato costituito senza requisiti di legge idonei. Altri 20 milioni di euro si sarebbero invece volatilizzati in spese della nuova sede e in canoni di locazione passiva.

Da beppegrillo.it il 12 luglio 2020. A Virgì, pijia na valigia, tu fijio, tu marito, famme un fischio, che se n’annamo via da sta gente de fogna. Lassa perde. Nun te spormonà, sta a fa un bucio de culo, puro senza rubbà, e , chi te critica quà, chi te critica là, chi c’ha er pupo sur fòco, e, jielo devi da tojie, e n’artra che se lamenta che nun je risponni, che nun la vai a sentì, che c’ha puro lei quarche cosa da lamentasse. E che cavolo! Se chiama Virginia, mica è la Madonna der Divino Amore! Quella, dice , che fà li miracoli. Sò de Roma, e sò settant’anni che ce vivo, e, ogni quarvorta che vinceva un sindaco, me mettevo de buzzo bòno a vedè quello che faceva. A Roma se dice che: li cavalli se vedeno all’arivo! E io li ho sempre giudicati alla fine de la corsa. Voi no, cari romani, voi dovete da rompe er ca’… sempre. Nun è da oggi. Sò circa tremila anni che rompete li cojoni, ma nun fate mai gnente pé dà na mano, anzi, giù botte! Oggi, per esempio, sta pòra donna, era contenta d’avè messo la luce che nun c’era da quarant’anni, a na via a Torre Angela. Me direte, ma era na via de borgata, quarant’anni fa era tutto abusivo! E certo, era abusivo, come si fasse na casa abusiva fosse un diritto, e, che , dar momento che sò state sanate dar condono del 1987, aricordatevelo, voi che rompete er ca’…, 1987. Nisuno, e dico nisuno, c’aveva messo mano, pé mette la luce, li lampioni. Dice. Ma che te vanti? Sò solo quattro lampioni. Intanto sò de ppiù, ma, si pure fussero due, ereno quarant’anni, quasi, che aveveno condonato. Quindi annate a rompe er ca’… da n’artra parte. Me fa piacere che nun sbomballate le gonadi cô le buche, puro si nun s’è finito de rifà tutte le vie de Roma. Ma come se dice, ogni vorta che dovete da fà un lavoro? Roma mica s’è fatta in un giorno. E voi, pretennete che sta pòra crista, che deve da combatte a mafia romana, e famijie Casamonica, casapound, forza nòva, li cazzari, sò due, e carciofare, Cartagirone co li giornali, Angelucci cò le cliniche, er Pd, a Lega, li fascisti, li zingari, li ladri, li corrotti che staveno dentr’ar comune, li corrotti dell’Atac, le perdite dell’acqua, li abusivi ne le case comunali, li politici che l’occupaveno, embè. Si io me sò stancato a scrive tutto, e nun ho finito, quello che ha fatto sta pòra crista in quattro anni, senza sprecà na lira, ma come se deve da sentì lei che ste cose l’ha fatte? E jianno rotto, dandoje fòco, ai Tmb der Salario, a quello de Rocca Cencia, jianno dato fòco a 1200 cassonetti de la monnezza, hanno tolto e marmitte a tutte le auto der servizio giardini, stanno a mette li chiodi nelle spiagge che ha fatto sequestrare a li delinquenti de Ostia, stanno a rompe li cessi pé li disabili. E voi che ca… fate? A criticate? Ma annate a fancina! Invece de curavve la città vostra, fate er tifo pe li ladri, li delinquenti, proprio quelli che v’hanno fatto vive dentro a la monnezza, oppuro ve credete che er nome der monnezza de Thomas Milian, è un nome de fantasia? C’era la monnezza, eravamo noi che la producevamo, e nun c’è gnente da fà, si potemo buttà per tera na cosa, noi ce la buttamo, si potemo mette un divano, verso e tre de notte, vicino ar cassonetto, noi, ce lo mettemo. Vòi mette er culo che c’è da fa, a chiamà l’Ama che te lo viè a prenne, a gratis, a casa? Ve meritate Carraro, Signorello, Darida, Veltroni, Rutelli, Alemanno ! Marino. Da che sò vivo e capiente, solo Petroselli era ben visto da tutti, ma, er Signore se lo prese de corsa, forse voleva mette a posto er paradiso. Tutto er resto, monnezza su monnezza, de persone, o de opere, e li buffi c’hanno invaso la città. L’anima de li mejo morta… vostra, si nun ve spicciate a sostenè sta pòra ragazza, armeno, senza metteje li bastoni fra le ròte, cari romani, ve devo da di che sète proprio infami. E si, perché nun ve basta che ve compra l’autobusse co l’aria fredda e calla, nun ve basta che ve rifà tutte e strade, nun ve sta bene che ve regala er mare libero, aricordateve quanno pe annà su la spiaggia dovevate da pagà l’ingresso, sveja! Era tutta mafia, ve stava bene? No. Perché sentivo tutti che se lamentaveno, e, nun c’era un buco dove potè annà ar mare. Pé questo ve dico che l’onesti dovrebbero pijà e valige, e, annassene, abbandonà sta città bella e zoccola. Si vincheno li vecchi partiti, sète fottuti. Nun se farà più gnente, e, si se farà quarcosa sarà pé volere de la magistratura. Ma voi, godete a sputà in faccia a na sindaca pulita, e testarda, una che le cose le fa. Pensatece , c’avete undici mesi de tempo, pé pensacce bene. O volete Roma, o sète morti, che Roma, quell’artri, se la magneno. Ringrazio Franco Ferrari per questo suo sonetto.

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 13 luglio 2020. E pensare che il sonetto era entrato a casa Raggi già sabato. Quando il marito della sindaca, Andrea Severini, aveva condiviso sui social (salvo ieri cancellarlo) il post su Facebook di tale Franco Ferrari. Un testo scritto in romanesco che inizia così: «A Virgì, pijia na valigia, tu fijio, tu marito, famme un fischio, che se n'annamo via da sta gente de fogna». Seguito da una lunga assoluzione della sindaca, incentrata sulle colpe dei cittadini incivili che saboterebbero la grillina «facendo il tifo per i ladri». Fin qui uno dei tanti fenomeni social da tastiera che si sentono eredi del Belli. La faccenda, però, è diventata tremendamente seria (ma non grave) quando il post è stato fatto proprio dal blog di Beppe Grillo. Ed è accaduto ieri dopo pranzo. All'insaputa di Raggi che si è trovata attaccata da tutti i partiti, indignati per gli insulti alla «gente de fogna» e allo stesso tempo con mille letture e dietrologie su questa mossa di Grillo. Un modo per scaricarla e favorire un accordo con il Pd nella Capitale aiutando la trattativa per le regionali di settembre? Una parte di Movimento che mal sopporta la fissazione di «Beppe» per i dem e da sempre non va a braccetto con la sindaca «dei mille problemi» dice nelle chat così: «Grillo le ha dato il benservito». Chi invece conosce il Fondatore, che in questi giorni è comodamente spaparanzato al mare, sostiene l'opposto: vuole aiutarci, vuole mandare un messaggio interno per dire di sbloccare la situazione. Max Bugani, per esempio, uno dei pionieri del M5S che adesso lavora in Campidoglio con Raggi, è euforico. Ma quando si muove Grillo, con i suoi meta-messaggi e le sue provocazioni l'effetto è quello dello sguardo della Gioconda: dove guarderà? Cosa vorrà dire? Chi vuole bene a Raggi sottolinea infatti la parte finale di questo sonetto, l'appello ai romani (e forse anche al Pd, che però non ci pensa proprio) a sostenerla per la ricandidatura: «Pensatece, c'avete undici mesi de tempo pé pensacce bene». Ma gira un po' la testa a smontare e rimontare tutto, visto che alla fine l'unico vero messaggio che emerge è l'insulto ai romani. Allora occorre fotografare la situazione: il M5S tiene ancora a bagnomaria la sindaca. Lei si vuole ricandidare l'anno prossimo, ma il capo politico Vito Crimi non si prende la briga di mettere al voto su Rousseau la deroga al secondo mandato. Visto che la mossa, oltre a interessare le sindache grilline (volendo ci sarebbe anche Chiara Appendino a Torino, che però è pronta al passo indietro) potrebbe metter gola ai parlamentari in cerca del terzo giro. E così meglio rimandare tutto a ottobre, agli Stati generali. Sapendo che il Pd su Raggi, come raccontato da Il Messaggero, reputa il suo bis «una minaccia», parola di Nicola Zingaretti. E così nell'intenzione di Grillo ci sarebbe stata la volontà di «dare una mano a questa ragazza», come si giustifica quando inizia a ricevere le prime telefonate.

LE CRITICHE. Il problema sono gli insulti ai romani. Che costringono Raggi a una garbata presa di distanza: «Amo Roma con tutta me stessa, vado avanti ma - dice rivolgendosi all'autore del post in romanesco con un Ps su Facebook Quel gente de fogna non mi piace. Lo so che ti riferisci a chi ruba o incendia ma, se puoi, toglilo». E subito arriva il like di Di Battista («Sei una signora») e anche Crimi in serata: «La rinascita deve proseguire». A dire il vero, però, vanno avanti solo i commenti sdegnati di tutti i partiti per le parole sull'Urbe (anche i consiglieri comunali M5S che prendono le distanze). E allora ecco Giorgia Meloni: «Espressioni inaccettabili, Grillo disprezza i romani». Poi Matteo Salvini: «Siamo pronti a ridare onore alla città». Italia viva, con Luciano Nobili, consiglia a Virginia di prendere in considerazione il Garante «e di andarsene». Nel Pd la linea è di evitare lo scontro con Grillo, fondamentale per chiudere le alleanze impossibili alle regionali, per la tranquillità del premier Conte. E così i big del Nazareno tacciono. E si ritorna alla borgata Ottavia, a casa Raggi. Post serale del marito della sindaca: «La valigia non la prendiamo, non molliamo». E anche questa potrebbe essere una minaccia o un buon auspicio.

Diodato Pirone per “il Messaggero” il 13 luglio 2020. Professor Cassese, lei è uno dei massimi esperti di amministrazione, non solo in Italia, e abita a Roma da molti anni. Che voto darebbe all'amministrazione capitolina guidata da Virginia Raggi?

«Zero, perché non c'è un voto più basso».

Quali le ragioni di un giudizio così netto?

«La ragione è semplice, sotto gli occhi di chi abita a Roma e cammina per le sue strade: le condizioni fisiche della Capitale (dire delle buche è poco; vi sono strade smottate e chiuse da sei mesi, senza che siano neppure iniziati i lavori di ripristino), i trasporti, la pulizia. Se un sindaco non sa far funzionare i suoi uffici, non stabilisce priorità, non controlla, va sostituito».

Nel suo sonetto diffuso ieri Grillo sostanzialmente dice che la sindaca non viene apprezzata dai romani. Eppure la Raggi è stata eletta con oltre 700.000 voti. C'erano tutte le condizioni per un grande amore con la cittadinanza, perché non è sbocciato?

«Altro è agitare le piazze, altro è amministrare. Alla prova della gestione, si è rivelata poco capace. Non mi pare che vi sia alcuno che sostenga il contrario. Ho pubblicato un editoriale sul Corriere della Sera il 1 settembre 2017 nel quale scrivevo che Roma: è una città in stato di abbandono. Le strade sono intransitabili a causa delle buche. Nei casi più gravi, vengono tenute chiuse per evitare incidenti, ma così impedendo alla gente di raggiungere le proprie abitazioni. Vi sono lavori pubblici che attendono da quarant' anni d'esser fatti. Per la pulizia di strade e giardini, in alcuni casi diventati pattumiere, si ricorre ormai al fai da te: si paga qualche extracomunitario di buona volontà, che provvede. Se un albero crolla, lo si circonda con qualche segnale di pericolo e lo si lascia per terra. Alcuni luoghi pubblici, anche i portici di una delle principali basiliche, sono intransitabili perché vi sono persone accampate, che hanno fatto della strada la propria casa. Tolleranza e incuria regnano sovrane. I trasporti pubblici non funzionano, per cui tutti ricorrono ai mezzi privati, con conseguenze gravi per traffico e ambiente. I vigili urbani sono diventati una entità astratta. Gli amministratori locali vivono sulla luna, invece di girare per le strade e constatare in che condizioni sono. La situazione, tre anni dopo, è peggiorata. Il confronto con Milano, una città che è rifiorita grazie alla buona amministrazione, peggiora la votazione per Roma».

Ma davvero come dice Grillo l'amministrazione 5Stelle può vantare attenzione alle periferie?

«Chiunque giri per Roma può testimoniare che le condizioni della Capitale sono miserevoli, sia al centro, sia nelle periferie. Una parte del verde pubblico è ormai curato dai cittadini che si associano, pagano una quota o si danno da fare essi stessi, lavorando per tenerlo pulito, togliere le erbacce, tagliare i rami caduti».

Acquisto di nuovi autobus, spiagge libere, strade riasfaltate. E' questa la Roma dell'amministrazione 5Stelle?

«Strade riasfaltate? Un sogno. Provi a camminare in centro e a vedere le condizioni dei sampietrini. Aggiungo: veda le condizioni dell'Ama, l'azienda che raccoglie e gestisce i rifiuti urbani, e le vicende del suo bilancio, il modo in cui funzionano i Municipi, l'impegno dei dipendenti comunali. La città è abbandonata a sé stessa. Lo straniero che la visita rimane impressionato dalle meraviglie del passato e dallo scempio del presente, prodotto da incuria. É la Capitale di uno dei grandi Paesi industrializzati del mondo, mentre sembra una città mediorientale».

Per Grillo i romani non stanno apprezzando un'amministrazione che non ruba. Estremizzando sembra quasi che l'onestà di un amministratore ne danneggi l'efficienza o ne ostacoli i risultati. Questo mantra dei 5Stelle ha radici nella realtà?

«L'onestà è un prerequisito necessario. Onestà senza capacità di amministrare non serve alla collettività».

Beppe Grillo, striscione-shock contro il comico M5s: "Tu assassino, tuo figlio stupratore. Verme, merda". Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. No, i tifosi della Roma non hanno gradito più di tanto il terrificante e delirante "sonetto" dedicato da Beppe Grillo a Virginia Raggi, quello con cui ancora non è chiaro se il capo-comico la abbia silurata o al contrario "portata in palmo di mano" (molto più probabile la prima). Già, il grillino infatti ha definito "gente di fogna" i romani. Insomma, non era poi così difficile ipotizzare qualche reazione scomposta. E quest'ultima, appunto, è arrivata dai tifosi giallorossi. Come rivela iltempo.it, questi hanno esposto lo striscione che potete vedere qui sotto in via Piccolomini, a Roma. Striscione durissimo che recita: "Tu assassino e tuo figlio stupratore... insulti Roma... ma sei una merda senza onore. Grillo verme". Roba da brividi. Parole pesantissime e inaccettabili per rispondere a un insulto certo pesante, quello di Grillo ai romani, ma comunque inaccettabile.

Il vaffa degli artisti romani al sonetto pro Raggi di Grillo: "Dipinge Roma come Kabul". Irritazione per l'insulto «Gente de fogna» Proietti: «Adesso la smettano, siamo stanchi». Cinzia Romani, Martedì 14/07/2020 su Il Giornale. «Gente de fogna» e «infami». Oltre il danno, la beffa. Perché in tali termini dispregiativi Beppe Grillo si è appena espresso, insultando i quiriti che hanno il solo torto di cadere nelle buche, senza venir risarciti («le buche, ormai, sono storiche: i cittadini sanno dove stanno», disse la Raggi), o di respirare miasmi quando passano davanti ai cassonetti. Una bidonville piena di anziani malridotti, spazzatura, gabbiani che camminano per strada, topi enormi e cinghiali a vista. Un posto triste, dove ogni cosa a ogni altra cosa ha detto addio, pare per sempre. Degrado, abbandono e «Roma zoccola», pure. E, ancora, «monnezza di persone», che di certo non meritano Virgy, che nel cosiddetto sonetto grillesco viene invitata a fare la valigia, con marito e figlio. Ma come? Abbiamo appena perso un grande romano, Ennio Morricone, che tutto il mondo ci invidiava, e il giullare di Genova, pronto a negare buche e altri disastri della sua prima cittadina, sbeffeggia i romani, magari per nascondere una sconfitta politica senza appello? Il mondo del cinema, intanto, non ci sta. E, a modo suo, si ribella. «Ormai abbiamo le spalle forti. Finora, eravamo porci e ladroni. E mò, siamo gente de fogna, infami. Non ci meritiamo niente! L'unica cosa è rispondere a Grillo con lo slogan a base della sua politica, quel vaffa che ha lanciato lui. La smettano! Siamo antichi. Siamo stanchi. E poi, quello non è un sonetto. Grillo può chiamarlo così, ma non lo è: ci sono precise leggi metriche, per un sonetto. Imparate almeno questo», dice Gigi Proietti, mentre allestisce le prove al Globe, il bel teatro elisabettiano di Villa Borghese, che lui dirige. La butta a ridere (per non piangere) Sandra Milo. Da Alatri, afferma ironica: «Ma Grillo ci faccia un piacere: si prenda la Raggi e se la porti via. I romani hanno dominato il mondo, costruito opere straordinarie, che ancora ispirano gli architetti e gli uomini di scienza. Noi discendiamo da quella stirpe, altro che gente de fogna!». È di parere diverso, invece, la produttrice Elda Ferri, che insieme al regista Roberto Faenza cerca di mandare avanti il film Resilient, sul premio Nobel italiano Mario Capecchi. «La Raggi ha rotto una rete, che le ha procurato forti ostilità. Ha fatto cose di cui avrà beneficio chi le succederà», scandisce, andando controtendenza. Ma Carlo Verdone non è d'accordo. «Guardo il mio quartiere, ogni dieci metri c'è una buca assassina. Roma pare Kabul. Mi fa molto male. Sono preoccupato e arrabbiato, non vedo vie d'uscita», dice il comico, che inizialmente tifava per la sindaca, pur non condividendone le idee. Romani gente de fogna? «Per salvare l'operato disastroso della sindaca, Grillo dà la colpa ai romani. E questo è un vero e proprio insulto all'intelligenza. Se è una cloaca, è perché l'Ama non raccoglie i rifiuti. Basta con gli insulti. Qualificano chi li pronuncia», commenta lo scrittore Giorgio Montefoschi. Impossibile dargli torto.

Fabio Rossi per il Messaggero il 9 luglio 2020.

IL PROVVEDIMENTO. Sanatoria per tutti gli occupanti abusivi delle case dell' Ater - oltre seimila casi a Roma - purché vi si siano insediati prima del 23 maggio 2014: il giorno in cui è entrata in vigore la legge Lupi sull'emergenza abitativa, che impedisce agli occupanti di ottenere la residenza e la regolarizzazione. La giunta regionale ha approvato la delibera che mette in atto la decisione del consiglio regionale che a febbraio, nell' ultimo collegato al bilancio, con una scelta molto contestata aveva dato il via alla regolarizzazione delle occupazioni senza titolo: una realtà che, oltre a sacche di povertà ed emarginazione sociale, comprende anche abusi e prevaricazioni ai danni degli aventi diritto, oltre a casi di vero e proprio racket sulle case occupate. Il fenomeno ha evidentemente messo le radici in un contesto che, nel corso degli anni, è diventato sempre più fuori controllo, nonostante i recenti tentativi di riportare, almeno in parte, la legalità.

L' ITER. La nuova delibera della Regione definisce i termini e le modalità di presentazione della domanda e stabilisce l' iter procedurale. La richiesta di regolarizzazione potrà essere inviata al Comune dove è ubicato l' alloggio e all' Ater di competenza, a partire dal 1° settembre 2020 e fino al 27 febbraio 2021. Potrà essere inviata direttamente dall' interessato, tramite raccomandata o Pec, oppure ricorrendo alla consulenza di Caf, sindacati, patronati e comitati degli inquilini. Oltre alla data dell' occupazione, un altro elemento determinante sarà il reddito. Chi otterrà la sanatoria dovrà pagare una cifra sarà pari al canone Erp calcolato in base al reddito, per il periodo dell' occupazione dell' alloggio, per un massimo di cinque anni. Con una sanzione di 200 euro mensili, per la fascia di reddito più bassa, ridotta del 10 per cento per i nuclei familiari in cui siano presenti minori o del 20 per cento qualora siano presenti minori con disabilità.

I CRITERI. Chi presenta la domanda per la sanatoria dovrà dichiarare di non essere proprietari o di non poter utilizzare altri alloggi adeguati alle esigenze del nucleo familiare sul territorio dove si trova l' alloggio occupato o di non essere proprietario di immobili con un valore superiore ai 100 mila euro sull' intero territorio nazionale. E inoltre dovrà dichiarare di non avere avuto in assegnazione alloggi realizzati con contributi pubblici o di non aver realizzato abusi all' interno dell' immobile abitato senza titolo. Nella legge approvata a febbraio, inoltre, per quanti hanno occupato dopo il 23 maggio 2014 viene prevista la possibilità di restare nell' abitazione avanzando domanda di casa popolare e aspettando in graduatoria, qualora l' assegnazione avvenga entro due anni. «Abbiamo votato contro questa norma, nel collegato al bilancio, perché non si sono scisse le posizioni di chi ha davvero diritto a una casa popolare da chi occupa abusivamente e fa compravendita di alloggi di edilizia residenziale pubblica», sottolinea Fabrizio Ghera, capogruppo di Fratelli d' Italia in consiglio regionale.

Roma ha bocciato le strade dedicate a Fabrizio Frizzi e Tomas Milian, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. Lorena Loiacono per leggo.it il 9 luglio 2020. In tanti hanno pianto e riso per loro. Avrebbero voluto vedere quei nomi su una targa di marmo, ad intitolare una strada.  Ma non sarà così per Fabrizio Frizzi. E neppure per Tomas Milian. Almeno non ora. Il conduttore romano, gentiluomo della tv, ad esempio dovrà aspettare ancora 8 anni. Il Campidoglio infatti, nonostante ci fosse una mozione approvata all’unanimità in consiglio comunale, ha bocciato l’iniziativa. Il motivo? Per intitolare una strada bisogna aspettare 10 anni dalla morte: «Per questo - spiega Andrea De Priamo, consigliere capitolino di Fratelli d’Italia e primo firmatario della mozione - avevamo chiesto una deroga sui 10 anni, ma non è stata accolta. La regola serve ad evitare un continuo cambio di nomi delle strade ma per Frizzi avremmo trovato uno spazio ad hoc in una zona dove ci sono viali intitolati ai personaggi dello spettacolo». Così per Fabrizio Frizzi, scomparso il 26 marzo del 2018, bisognerà aspettare altri 8 anni. La strada per lui era pronta: doveva essere all’Aventino, tra le terrazze più belle della Capitale. Il “no” tenuto con il silenziatore «perché non volevamo addolorare i parenti». Lo stesso vale per l’attore Tomas Milian, cubano di origine e romano di adozione, che tutti conoscono come “er monnezza”, scomparso nel 2017: anche per lui, protagonista di decine di pellicole cult per almeno due generazioni, il consiglio comunale capitolino ha inutilmente chiesto una deroga. Eppure in alcuni casi sarebbe quasi dovuta l’eccezione, visto il sentimento popolare nei confronti di personaggi così cari. A giorni, arriverà la stessa richiesta per Ennio Morricone.

Lorena Loiacono per leggo.it il 9 luglio 2020. Dopo sette anni la targa di viale Sora Lella verrà sistemata. Verrà corretta quindi la data della morte dell’attrice, che erroneamente riporta sul marmo il 1997 invece del 1993. Dopo la denuncia di Leggo, che segnalava l’errore, e la sollevazione social in difesa dell’attrice romana (al secolo Elena Fabrizi), il Campidoglio ha assicurato che provvederà a correggere la targa. Non solo, il Comune di Roma ci tiene anche a sottolineare che quella targa è stata messa nel 2013, a seguito di una delibera del 2012, quindi l’errore non ha a che fare con la Giunta Raggi. In realtà nell’articolo di Leggo non viene detto che l’attuale amministrazione ha commesso l’errore, viene invece segnalato che nessuno ha ancora provveduto a porvi rimedio. Quella targa sta lì, sotto gli occhi di tutti, da 7 anni: quindi ha visto passare diversi sindaci. Raggi compresa. E comunque preme sottolineare che una delle segnalazioni giunte al Comune di Roma risale al mese di febbraio scorso. Forse ce ne sono state anche prima: ma di certo una è arrivata a febbraio, quando l’amministrazione era quella attuale. Non ci si può sbagliare. Da quel giorno sono passati circa 5 mesi. Di mezzo ci si è messo anche il Covid, certo, ma 150 giorni di attesa sono comunque tanti. Troppi. Anche perché durante la quarantena sembrava che il Campidoglio volesse accelerare sulla manutenzione stradale approfittando del traffico ridotto a zero. Qualche intervento è stato fatto ma non per la targa di Sora Lella. La gaffe è del Comune di Roma, a prescindere dai colori politici. Basti spiegare ai lettori, per esempio, che per cambiare una targa basta poco: la delibera del 2012 riporta la data corretta, quindi non va neanche riscritta. La burocrazia questa volta non può essere tirata in ballo: si tratta solo di decidere di sostituire il marmo, come avviene in pochi giorni per una targa vandalizzata. E il momento è quello giusto visto che il Campidoglio vuole ricordare Ennio Morricone, artista infinito che con le sue note ha consegnato alla storia del cinema film come “Bianco, rosso e Verdone”, dove una strepitosa Sora Lella è diventata la nonna di tutti i romani.

Valentina Lupia per "repubblica.it" l'1 luglio 2020. I cinghiali continuano a vagare per strade, cortili condominiali e parchi di Roma nord e i cittadini stanno cominciando ad aggredirli. Addirittura, a Monte Mario, a colpi di balestra: stanno diventando virali, infatti, le immagini di un cucciolo di cinghiale che, in cerca di cibo insieme alla madre, cammina dolorante a testa bassa col dorso completamente trafitto tra una freccia. A denunciare il fatto è stata una cittadina, Paola Spadaccia, che il 29 giugno ha fotografato i due animali e ha pubblicato la foto sui social, chiedendo agli abitanti della zona se qualcuno avesse visto qualcosa: "Non è questo il modo di risolvere il problema dei cinghiali", spiega. La segnalazione è arrivata anche in Comune: "Fermare queste persone folli non è semplice - spiega Daniele Diaco (M5S), presidente della commissione Ambiente in Campidoglio - Ma stiamo cercando di intervenire in qualche modo". Nel frattempo Earth, l'associazione nazionale a difesa dei diritti giuridici degli animali, è pronta a sporgere denuncia in procura. "Non è purtroppo la prima volta che accadono fatti come questo e a fare le spese del malsano divertimento di qualcuno questa volta sono stati dei cuccioli - spiega la presidente nazionale, Valentina Coppola - . Per questo ci opponiamo fermamente a quanto accaduto e ci attiveremo per fare in modo che venga individuato il responsabile. Chiediamo, quindi, ai residenti del quartiere che abbiano visto qualcosa di segnalarlo alle guardie zoofile Earth che provvederanno a intervenire. Una volta individuato il responsabile, depositeremo presso la procura di Roma formale denuncia in modo tale da assicurarci che la persona in questione possa ricevere una pena adeguata". Venerdì 26 cinghiali adulti e cuccioli erano stati fotografati in largo Vidari, ancora a Monte Mario, intenti a banchettare tra i rifiuti. E di qualche tempo fa sono i video di un cinghiale, rinominato Tobia, che cercava le coccole e si lasciava accarezzare da chiunque. Insomma, mentre si cerca soluzione all'aumento di questi animali, ora ci si deve anche scontrare con la crudeltà di chi vuole sbarazzarsene in autonomia.

Marco Pasqua per “il Messaggero” il 29 giugno 2020. C'è la ragazza che si abbassa i pantaloncini tra le macchine in sosta, e usa quello spazio come se fosse un bagno a cielo aperto. Ci sono quelli, invece, che scambiano quegli stessi mezzi per dei trampolini e giocano a chi ne danneggia di più. Ma anche i ragazzi che, ad orari neanche troppo proibiti, si apparecchiano le strisce di droga, nell'indifferenza generale, e la consumano come fosse un panino o una birra. E i residenti, esasperati, sono ormai costretti a riprendere quelle scene con il cellulare e, in alcuni casi, a sporgere denuncia chiedendo un intervento per ripristinare la legalità. La geografia dello spaccio di Trastevere è ormai nota, da anni, e ha subito solo piccole modifiche. Se, un tempo, c'erano soprattutto gli africani in particolar modo gli ambulanti, che, insieme alla merce contraffatta vendevano fumo e coca ora ci sono anche giovanissimi che parlano direttamente ai loro coetanei, anche delle scuole superiori. Eccoli, in vicolo della Torre, ma anche in vicolo del Cinque, in vicolo de' Renzi, e poi i classici ponte Sisto e piazza Trilussa. In vicolo del Bologna, dove si vendono alcolici anche oltre gli orari consentiti dai regolamenti comunali, la droga si smercia dove capita e c'è qualcuno che giura di averla vista passare anche sotto al bancone di qualche locale. In via Benedetta, ogni weekend, ci sono code di giovanissimi, spinelli alla mano, comprato qualche metro più in là. In vicolo del Cedro, nel giardino, a terra è facile trovare gli involucri per la droga, ovviamente svuotati. E poi la Scalinata del Tamburino, quei 126 gradini che collegano viale Glorioso a via Dandolo, punto di riferimento di qualche collettivo musicale trasteverino che ha cantato la droga nei suoi inni rap (con tanto di recensioni su Google). Qualche settimana fa, qui, i carabinieri hanno sorpreso due persone intente a vendere fumo ai giovanissimi. Per non parlare di tutta la zona calda intorno a San Calisto, frequentatissima anche dai minorenni. Da via San Francesco a Ripa a via della Cisterna, qui è una terra di nessuno. Nell'ultima via, sono state girate le immagini dei ragazzi che consumano droga sulle auto e, alla fine, urinano contro il muro. «Ogni notte, nei fine settimana, dobbiamo aver paura a rientrare a casa dicono alcuni residenti Ci sono ragazzi ubriachi che possono circondarti, con la scusa di una sigaretta, per chiederti soldi o per il gusto di aggredirti. Ma anche quelli che danneggiano le auto o prendono a calci i portoni». «Qualcuno si difende come può ammettono anche buttando acqua di sotto, ma a quel punto le reazioni possono essere violente. Sappiamo di sbagliare, ma come dobbiamo comportarci quando chiamiamo le forze dell'ordine e vediamo che non cambia niente?». Qualcun altro ha installato, ovviamente seguendo le disposizioni in materia di privacy, delle telecamere di sorveglianza di fronte ai portoni dei palazzi, soprattutto in chiave anti-vandali. «Vediamo di tutto spiegano da chi cerca di trovare il modo di entrare nei portoni, magari aspettando l'ingresso di un residente, a chi scambia la strada per un wc, fino a quelli che imbrattano le pareti con le bombolette spray, senza neanche la paura di essere visti e denunciati». Il girato di queste telecamere basterebbe a far impallidire chiunque: è la dimostrazione di come questi barbari abbiamo l'arroganza di sentirsi i padroni delle strade del rione, liberi di poter agire a loro piacimento. «Noi davvero non comprendiamo perché non ci sia la volontà di aumentare la vigilanza da parte delle forze dell'ordine su questa zona - si chiede polemicamente Dina Nascetti, portavoce di Vivere Trastevere e da sempre in prima linea contro il degrado - Tutti sanno dove si spaccia, eppure ogni fine settimana queste persone possono continuare a gestire indisturbate i loro traffici». «Siamo venuti da poco a vivere a Trastevere, dall'estero, perché amiamo il Centro della città - racconta una coppia di residenti - e non riusciamo a subire tutto ciò. Possibile che nessuno voglia davvero intervenire per evitare questo scempio?».

Laura Bogliolo per “il Messaggero” il 28 giugno 2020. Prima arriva il cono d'ombra, poi l'eclissi totale che oscura ogni possibilità di rinascita. Sembra quasi la storia di certi angoli della Capitale ignorati, divorati dall'anarchia del degrado che si rafforza e diventa sempre più democratico tanto da colpire le periferie, ma anche arterie del traffico in pieno Centro. Si passeggia su via Veneto, si volta l'angolo su corso d'Italia e si viene tramortiti dal degrado: l'accesso al sottovia Ignazio Guidi è una baraccopoli e guai ad avvicinarsi. Due giovani dall'aria minacciosa fanno segno di andare via. Degrado e uscite di sicurezza vietate accomunano questo stradone sotterraneo a un altro, ancora più centrale perché costeggia praticamente San Pietro. Nel sottovia lungotevere in Sassia, direzione via Gregorio VII, stessa sorte per le vie di fuga: preda di sbandati, sono discariche sotterranee. Affacciarsi da via di Porta Cavalleggeri sull'uscita di emergenza vuol dire restare traumatizzati: gradini pieni di rifiuti e bottiglie di birra e in fondo il corpo di un uomo che dorme. Come a Bucarest, si vive sotto terra anche a Roma. Usciti dalle profondità, solo dopo aver preso una boccata d'aria proviamo a riavvolgere il nastro e a riflettere: cosa accadrebbe se scoppiasse un incendio nei due sottovia percorsi ogni giorno da migliaia di auto mentre le vie di fuga sono ostruite da tendopoli e montagne di immondizia? Sembra che tra i corridoi del Campidoglio non ci sia la consapevolezza di quei luoghi, dei rischi che si corrono a lasciarli in preda a sbandati senza scrupoli. La fotografia dello scempio, invece - e non si tratta solo di decoro - è stampata chiaramente nell'esposto firmato da Roberta Angelilli dell'esecutivo nazionale di FdI e da Stefano Erbaggi dell'esecutivo di Roma. E finisce sui tavoli della Procura: l'esposto è indirizzato a Virginia Raggi, prefettura e vigili del fuoco. «A parte il malfunzionamento degli impianti di ventilazione e l'assenza di estintori, la situazione più problematica riguarda l'impraticabilità delle uscite di sicurezza», denuncia Angelilli. L'esposto potrebbe portare alla chiusura dei due sottovia per motivi di sicurezza. Nel documento si legge: «In base alla vigente legislazione il dpr 151 del 2011 sono previste infatti severe misure di sicurezza per le gallerie stradali superiori ai 500 metri di lunghezza». Della sicurezza dei sottovia «è responsabile uno specifico ufficio del Comune di Roma, Dipartimento SIMU - Ufficio manutenzione ponti e gallerie», dichiarano Angelilli, Erbaggi e Alessandra Consorti, dirigente FdI Roma. Insomma, cosa si aspetta a intervenire? «Grave pericolosità dei sottovia - si legge nell'esposto - vengono disattese le più basilari norme della logistica antincendio». Nel sottovia lungotevere in Sassia in direzione di via Gregorio VII «delle 3 uscite di sicurezza, una non è accessibile, una non è fruibile visto che le scale di sicurezza (completamente al buio) sono coperti da cumuli di rifiuti alti anche 3 metri; l'ultima uscita è fruibile, ma completamente al buio e in condizioni igienico-sanitarie terribili». Nel sottovia Ignazio Guidi viene denunciato che «in entrambe le direzioni le 10 uscite di sicurezza sono ricovero di vagabondi, parzialmente ostruite». Ne sa qualcosa Paolo Peroso, presidente del comitato Amici di Porta Pia: «Le uscite di sicurezza sono occupate da persone violente e senza scrupoli ed è vietato avvicinarsi. Sono stato minacciato più volte, e quando si ubriacano lanciano bottiglie nel sottovia con le auto in corsa».

STEFANO CIAVATTA per il Venerdì- la Repubblica il 26 giugno 2020. «Buongiorno, la temperatura prego» dice un addetto alla sicurezza mentre a fianco della transenna un altro tiene conto degli ingressi. È l'insolito benvenuto a Porta Portese, il mercato delle pulci di Roma, da poco riaperto dopo 3 mesi con ingresso contingentato, massimo 3.600 persone come da protocollo regionale, un quinto rispetto agli standard. Ognuno dei 1.090 proprietari di banchi ha sottoscritto una quota minima per pagare la security che monitora le tre entrate ufficiali e una quarta interna. Vietate le altre laterali. Dopo un esordio in sordina è arrivato anche il secondo test, con il 90 per cento dei banchi e il passaparola della gente. C'è un clima da primo giorno di scuola o da incantesimo rotto. Nonostante il restringimento dei banchi, nessun sovraccarico, manca l'assedio della folla. In compenso mascherine tutti, guanti molti, ovunque sulle bancarelle cartelli, avvisi e gel igienizzanti, distanziamento quanto possibile, ormai per timore somatizzato. Appena entrati si incrocia il collezionista Giuseppe Garrera: ha già in mano una prima edizione in russo del Dottor Zivago, «una rarità, stampata sotto copertura, come parte di un programma di propaganda della Cia per distribuire materiale vietato in Urss». Più in là Federico Gizzi, studioso e cultore della romanistica novecentesca, dice «vengo qui dalla fine degli anni Novanta per stampe e fotografie d'epoca». Ecco il segnale più naturale che Porta Portese ha davvero riaperto. Anche il meteo, il vero dominus del mercato scoperto da montare e smontare ogni volta, oggi è clemente. LAdri di biciclette Il rituale nasce nel 1945 anche se il Cesare de La tregua di Primo Levi teneva banco qui da prima, nello smercio spontaneo intorno al vecchio scalo ferroviario di Trastevere caduto in disuso. Nel 1946 è già un «famosissimo mercato di ladri»: quando Luigi Bartolini scrive Ladri di Biciclette ha la Roma seicentesca come location ma non è quella che serve a De Sica, il neorealismo vuole spalancare la città e con Cesare Zavattini si ripiega su Porta Portese. La Roma dell'usato, quella che vende se stessa da secoli, è carambolata qui a seguito dello smottamento e smantellamento della tradizione tardo medievale dei mercati del centro. Non più piazza Navona dopo quattro secoli di monopolio, non più Campo de' Fiori nato nel 1869, non più piazza della Cancelleria, dove la Roma barocca finiva sui banchi. Libri, stracci, casalinghi, tutto ciò che è seconda mano viene via via spostato fuori dalle Mura, non ritenuto consono al nuovo status unitario. E quindi nasce il porto franco di Porta Portese, il suk di ambulanti, antiquari, venditori occasionali e privati, il vernissage notturno di anticaglie per quel pubblico sofisticato, come un giovane Alberto Arbasino, che arriva da cinema e night club e ha il gusto della trouvaille, la sorpresa per due soldi. ambulanti e antiquari Antonio Conti, vicepresidente della Associazione operatori del mercato, ha il viso di chi ha faticato per un mese nell'organizzare la riapertura e mediare tra le varie anime e associazioni di Porta Portese che «nonostante la fama è da sempre autorizzato solo per un terzo, il resto degli 850 operatori è abusivo ma tollerato». Che esista a Trastevere il mercato lo dice «una determina del 1959, dalla Porta a largo Toja, con 600 licenze: 301 di nuovo e 299 di usato. Poi mai più un aggiornamento». Le licenze si sono spostate sul nuovo, in generale l'abbigliamento, oggi spesso in subaffitto a bengalesi ed egiziani. Invece il core business di seconda mano è rimasto precario, in attesa di regolarizzazione: «Per Comune e Regione non è ancora "mercato storico", come altri in Europa». Pur non avendo più un banco ma una libreria in centro, la Serendipity, Conti viene considerato un veterano: «Ho dato la vita a questo mercato, non voglio vederlo morire». la paura di non farcela Critiche, rimpianti e de profundis fanno parte da sempre della rassegna stampa del mercato, ogni decennio ha il suo trasloco, chiusura, fine: titoli annunciati da ogni giunta comunale e smentiti dal tempo. L'ultimo censimento aveva ridotto il numero dei banchi e tolto gli occasionali. Nessuno però immaginava il blocco per Covid-19, nemmeno gli ultimi dei mohicani. «Chiunque lavora qui è perché nella vita gli è successo qualcosa di strano, uno shock, un evento» dice Daniele. Ha un banco dal 1999 e viene ogni domenica da Anzio con la sua compagna Mara, libraia di prime edizioni e rarità, che racconta: «Ero preoccupata, temevo che il mercato non sarebbe più ripartito. Nessuno tifava per noi. Fuori di qui molti dei banchi che vedi non bastano a se stessi, gli serve la dimensione Porta Portese per sopravvivere. Per noi è fondamentale lo struscio, la folla, la strada». 

CONCORRENZA. Non esiste un libro storico su Porta Portese ma è inossidabile la cartolina che allude a incantamenti e ritrovamenti, ieri nel circuito Roma By Night, oggi su Tripadvisor. Il turista moderno però è frustrato: cerca il vintage luxury ma trova file interminabili di banchi di abbigliamento di stock di marca su via Portuense. Rispetto ai fasti c'è una domanda inevasa di turismo ricercato. Oltre eBay e mercatini conto terzi, la concorrenza sono anche le casbah abusive sulle consolari: gli svuota cantine tirano sempre, però in questo momento la disciplina di Porta Portese potrebbe avere la meglio. La fortuna del mercato la fece la decadenza dell'aristocrazia romana, poi sono state le case borghesi a svuotarsi, il flusso era così florido che anche gli antiquari facevano l'alba dai rigattieri. Tra gli anni Novanta e il Duemila una casa da svuotare finiva al 90 per cento qui, in un delirio mercantile, poi però i figli dei rigattieri hanno cambiato mestiere. Arsaneelage Don Manoj Yayasinghe Fernando viene dallo Sri Lanka, è a Porta Portese da 18 anni, a notte fonda arrivano privati e antiquari per mobili e manifatture varie, tutti muniti di torce: «Devi tenere aperto un mercato come questo, è un fatto di storia, cultura, lavoro. Porta Portese non è un mercato di stracci e i turisti devono trovare oggetti di valore a buon prezzo». Intanto l'ordine tra i banchi si fa calca pacata, autogestita. Il mito resiste ancora, e chi l'avrebbe mai detto?

DANIELE AUTIERI per la Repubblica il 22 giugno 2020. In una delle città meno colpite dalla pandemia in proporzione alla sua popolazione, il Covid 19 sembra essersi accanito sul Campidoglio. A dispetto dello smartworking e del lockdown che, almeno fino ad oggi, sembra aver impedito al virus di invadere Roma, gli uffici del Comune sono stati comunque flagellati dalla malattia e, a parte alcuni e importanti casi di super lavoro per garantire servizi essenziali per i romani come l'assegnazione dei buoni pasto, le assenze si sono fatte sentire. Questa fotografia emerge dai tassi di assenza elaborati dal Dipartimento organizzazione e risorse umane del Campidoglio e riferiti al mese di marzo, che vengono accompagnati da un distinguo che ha l'aria della giustificazione: « La causale " malattia" comprende anche le assenze per ricovero ospedaliero, per infortunio sul lavoro e le assenze derivanti dai decreti Covid». E allora ecco i numeri: la presenza al lavoro (non solo quella fisica ma l'attività lavorativa in generale) nel gabinetto della sindaca si è fermata al 64,2%. Oltre il 35% del personale in servizio presso uno degli uffici più importanti del Campidoglio è mancato durante quei 31 giorni: il 12,5% per ferie, l'11,9% per malattia, il 2,4% per la legge 104 e il restante 8,8% per "altri motivi". Come il gabinetto della sindaca, anche la maggior parte degli uffici di dirigenza hanno replicato percentuali simili. È accaduto con il segretariato generale, con il corpo di polizia di Roma Capitale, con l'avvocatura capitolina. In alcuni casi, poi, le turbolenze del lockdown si sono fatte sentire più che altrove. Mentre le maestre e i maestri romani combattevano con Zoom per assicurare il percorso formativo ai bambini delle scuole comunali, al dipartimento servizi educativi e scolastici oltre la metà dei dipendenti era assente. Il tasso di assenza ha raggiunto qui il 51,2%, con un 24,8% che è mancato all'appello per "altri motivi" dalle ferie e dalla malattia. Un dato simile ( 48,8% di assenza) è stato registrato alla sovrintendenza capitolina dei Beni culturali così come dall'agenzia capitolina sulle tossicodipendenze ( 46,3%), anche se la prova peggiore l'hanno data alcuni municipi. Il record spetta al primo, dove il 64% dei dipendenti risulta " assente" nel mese di marzo. Un record eguagliato solo dal IV municipio, e seguito dal 56% dell'XI municipio. Le giustificazioni ci sono e sono più che condivisibili, anche se perdono di forza quando i dati di Roma vengono messi a confronto con quelli di Milano. Nel capoluogo lombardo, duramente colpito dal Covid, il gabinetto del sindaco ha registrato un tasso di assenza di appena il 5,7%; il servizio di presidenza del consiglio comunale del 17,7%; l'area lavoro e formazione del 12,9%. Anche a Milano, come prevedibile, i tassi di assenza sono stati in generale più elevati ma hanno continuato ad oscillare tra il 15 e il 28%. Pochi i picchi negativi, come il 42% di assenza nell'area della pianificazione urbanistica. I numeri raccontano quindi due realtà lontane, dove - nonostante i molti passi in avanti - Roma continua a mostrare un ritardo di produttività all'interno degli uffici pubblici. Resta adesso da capire se la strada dello smartworking, che la sindaca Virginia Raggi vuole trasformare da emergenza in prassi, possa diventare la soluzione al problema, oppure rischiare di acuirne gli effetti.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 10 giugno 2020. Fratelli criminali e soci in affari, in grado di portare avanti direttamente dal carcere un business illegale da 300mila euro al mese, e di trasformare il quartiere di Tor Bella Monaca nella Scampia romana: un supermarket della droga aperto h24. Perché Leonardo Bevilacqua, detto Bruno lo zingaro e Manolo Romano, soprannominato Pisolo, erano stati arrestati l'ultima volta nel 2016 per il sequestro lampo di due minorenni, eseguito per ricattare la madre che non era in grado di saldare un debito da 50mila euro per una partita di cocaina. Nonostante questo, anche dalla prigione continuavano a portare avanti gli affari. L'organizzazione che hanno gestito per anni non si è mai fermata. Fino a ieri: i Carabinieri e la Guardia di finanza di Roma, in due operazioni congiunte, hanno arrestato 42 persone, su richiesta della Dda. Di queste, 32 sono in carcere. Per altre 10 il gip ha disposto il divieto di dimora nella Capitale. Gli indagati sono tutti quanti accusati di avere fatto parte di un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico, radicata nella periferia sud della città. Durante il blitz, gli inquirenti hanno trovato e sequestro contanti, orologi di lusso, auto e moto per 200mila euro. Sotto sequestro anche un immobile e macchine per altri 300mila euro. Un'operazione resa possibile da indagini certosine, con intercettazioni, pedinamenti, appostamenti e, soprattutto, dalle dichiarazioni del primo pentito nel giro dello spaccio di Tor Bella Monaca. L'attività investigativa dei carabinieri di Frascati, coordinati dalla pm Barbara Zuin, in particolare, ha permesso di ricostruire i ruoli dei vari componenti della banda. I fratelli Bevilacqua e Romano - hanno cognomi diversi perché hanno in comune solo la madre - erano i capi e organizzatori dell'associazione. Bruno lo zingaro era temuto e rispettato, «delinque incessantemente dal 2003», sottolineano gli inquirenti. Nonostante fosse in carcere da tempo, per tutti la piazza continuava ad essere di sua proprietà: nel quartiere c'era «la piena consapevolezza - annota il gip - che, una volta libero, sarebbe ritornato in prima persona a gestirla». La sua fedina penale è macchiata da una lunga lista di precedenti e gli inquirenti descrivono la sua «indole violenta», nota a tutti quelli che lo conoscono. Ma non era l'unico temuto della famiglia: anche la moglie Alessandra Conte - pure lei arrestata - era rispettata, perché tutti sono certi che tenesse aggiornato il marito «su come procedevano le condotte dei singoli associati e gli affari illeciti», in grado di fruttare circa 10mila euro al giorno. Era lei, secondo l'accusa, ad aggiornare Bevilacqua e a consentirgli di gestire il business anche della prigione. La banda era organizzata nei dettagli: ognuno aveva un compito preciso. Vedette, pusher - anche minorenni -, cassieri, fornitori, addetti alle questioni legali in caso di arresto. Il tutto «per soddisfare in qualsiasi ora del giorno e della notte, in ogni periodo dell'anno, centinaia di acquirenti, ma anche di far fronte ad imprevisti, come l'arresto di singoli spacciatori o la loro temporanea impossibilità ad osservare i turni, con la pronta sostituzione con altri soggetti», si legge nell'ordinanza. I guadagni venivano divisi in modo prestabilito: ai due fratelli l'80 per cento, il 15 per cento a chi si occupava di confezionamento e rifornimento, il restante 5 per cento ai pusher. Le vedette avevano uno stipendio fisso: 100 euro al giorno. Ed erano previste anche decurtazioni in busta paga e punizioni per chi sgarrava. La droga, al cellulare e anche di persona, veniva chiamata con nomi in codice: pallette, macchina, telefono. L'ordinanza è piena di conversazioni criptiche: «Ce piamo un caffè?», «ce magnamo qualcosa?», «sali, se famo na partita a play». Per il gip non ci sono dubbi: erano tutti codici per concordare la compravendita di stupefacente. Droga che era davvero nascosta ovunque, tra via Ferruccio Mengaroni, via Scozza e via San Biagio Platani: grondaie, saracinesche, zolle di terra, auto parcheggiate, aiuole.

Aerei e ultraleggeri, tre sciagure da fine maggio: mistero nei cieli Roma. La tragedia dell’elicottero caduto nel Tevere a Nazzano è solo l’ultima in un mese e mezzo: a Nettuno sono morti due nuotatori, a Due Ponti un allievo pilota. Tutti incidenti che si sono verificati dopo la riapertura dal lockdown. Altri tre casi nei mesi passati. Rinaldo Frignani il 12 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. In un video sui social il piccolo elicottero rosso di Domenico Careri atterra sul prato di Villa Baldacchini, a Torrita Tiberina, vicino Roma. L’ex pilota Alitalia con 30mila ore di volo alle spalle è alla cloche, accanto a lui una sposa emozionata pronta per la cerimonia nell’esclusiva tenuta della famiglia del comandante. È una delle poche immagini del 78enne originario di Ferrara che venerdì scorso fra Nazzano Romano e Farfa ha perso la vita su quello stesso velivolo, precipitato nel Tevere con un’amica veronese, Elena Andrioli, di 75, dopo aver colpito i cavi dell’alta tensione nell’ultimo dei tre incidenti aerei avvenuti in provincia di Roma in appena un mese e mezzo. Un bilancio che preoccupa, anche perché le tragedie si sono verificate dopo il lockdown e all’inizio della ripresa dell’attività, anche degli ultraleggeri. I tecnici dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo non fanno ipotesi, le indagini sono in corso. Nessuno si può sbilanciare su quello che è successo prima della conclusione degli accertamenti investigativi, ma rimane il fatto che nella Capitale non era mai successo prima e che nei mesi scorsi ci sono stati altri tre incidenti ad aeromobili decollati da superfici sempre nei dintorni della Capitale (Nettuno, Santa Marinella, Fiano Romano), anche questi con morti e feriti. Problemi tecnici, errori di manovra, manutenzione precaria, fattori esterni, forse anche malori: le inchieste non si sono ancora concluse, imboccare una pista invece di un’altra è un azzardo, in un mondo, quello dell’aviazione, dove si viaggia per procedure precise e da seguire senza alcun genere di improvvisazione. «I top gun guardateli al cinema», conferma un soccorritore, che sabato scorso ha recuperato con vigili del fuoco e carabinieri i rottami dell’elicottero rosso di Careri dal fondo del Tevere. Un triste spettacolo, come quello del 31 maggio scorso a Nettuno, dove sono morti i nuotatori del giro azzurro Gioele Rossetti e Fabio Lombini, 23 e 22 anni, amici di Manuel Bortuzzo (il loro collega ferito a colpi di pistola sempre a Roma e oggi costretto su una sedia a rotelle), precipitati poco dopo il decollo dall’aviosuperficie «Le Grugnole», e quello in località Due Ponti, sulla via Flaminia, solo sei giorni prima: un ultraleggero caduto anch’esso nel Tevere. A bordo un giovane allievo pilota, Daniele Papa, 23 anni, e il suo istruttore, Giannandrea Cito (30). Quest’ultimo, primo ufficiale Ryanair, si è salvato saltando fuori dall’abitacolo prima che il velivolo affondasse, il ragazzo invece non ce l’ha fatta. Incidenti troppo ravvicinati che hanno impressionato, e non poco, chi è appassionato al volo con questo genere di apparecchi. Anche perché solo a Roma sono migliaia. Nella Capitale ci sono sette delle 13 scuole «Vds» (volo da diporto e sportivo) di tutta la regione, ma ce ne sono poi altre 14 di addestramento professionale «Ato» (Approved Training Organisation) dall’Enac, l’Ente nazionale per l’aviazione civile, per aerei di tutti i generi: si insegna dal livello basico al recurrent-type rating, dove si impara a pilotare una specifica macchina o ci si aggiorna. Per ottenere l’attestato «Vds» per gli ultraleggeri bastano invece 16 ore di volo e 33 di teoria (un terzo di quelle per la licenza di pilota privato) e il documento viene rilasciato sempre dalle scuole, che sono autocertificate. La differenza principale con le altre è che non sono sotto la sorveglianza Enac, e che — oltre alla differenza di peso massimo al decollo — anche gli apparecchi in questione sono autocertificati, dai costruttori.

Elicottero tocca i cavi e precipita  nel Tevere a Nord di Roma. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2020. L’incidente alle 17 fra Nazzano Romano e Farfa, a nord della Capitale sulla via Tiberina. A dare l’allarme alcuni passanti. Sul posto i sommozzatori dei vigli del fuoco che intorno alle 20 hanno individuato i resti del velivolo. «Volteggiava fra i tralicci, quando all’improvviso ha toccato i cavi dell’alta tensione ed è precipitato nel Tevere. È affondato in un attimo». Così i testimoni dell’incidente aereo del tardo pomeriggio di venerdì fra Nazzano Romano e Farfa sulla via Tiberina, nei pressi del ristorante Piccolo Paradiso. Ai comandi del velivolo non si esclude un 78enne originario di Ferrara ma residente a Roma, con la passione per il volo, ma forse anche un’altra persona. Dopo due ore di ricerche sott’acqua con l’utilizzo di uno speciale ecoscandaglio, già usato qualche settimana fa sempre nello stesso fiume per trovare un aereo caduto a Castel Giubileo (morto un ragazzo di 22 anni), i sommozzatori dei vigili del fuoco, che hanno lavorato con i colleghi carabinieri, hanno individuato il relitto dell’elicottero spezzato a metà. Dalle telecamere sarebbe anche emersa la sagoma di un corpo adagiato sul fondale melmoso, a circa 15 metri di profondità. Nessuna traccia dell’altra persona, che tuttavia potrebbe essere rimasta imprigionata nella carlinga. Con il sopraggiungere dell’oscurità i palombari del comando provinciale dei vigili del fuoco sono stati fatti risalire in superficie: le operazioni di soccorso sono state interrotte ma saranno riprese nella prima mattinata di sabato per il recupero della salma (o delle salme) e dei resti dell’elicottero. Intanto la zona di inabissamento è stata delimitata con due palloni galleggianti. I carabinieri della compagnia di Monterotondo hanno ascoltato alcuni testimoni dell’incidente. Nella zona sono in corso lavori di manutenzione dei tralicci dell’alta tensione: ce ne sono parecchi, con relativi cavi e allacci, visto che in quel tratto di Tevere c’è uno sbarramento dell’acqua che viene utilizzato proprio per la produzione di corrente elettrica. Il fondale scende rapidamente, forse uno dei punti più profondi del corso del fiume. Il velivolo stava sorvolando la zona, ma sembra senza alcuna autorizzazione. Si indaga ora sull’attività svolta dal 78enne che, come ha confermato la moglie, non è tornato a casa dopo essere uscito proprio per un volo. Forse un sopralluogo aereo proprio nella zona dei tralicci per conto di qualche società che sta operando da quelle parti oppure per un giro turistico dell’area, ma senza la comunicazione alle autorità di vigilanza aerea. Da qui l’iniziale difficoltà di chi indaga di risalire al modello e al proprietario del velivolo, comunque di piccole dimensioni, come ha subito confermato l’Enac dopo una verifica sui voli civili e militari attorno alla Capitale.

Elicottero cade nel Tevere: morto un ricco possidente? Notizie.it l'11/07/2020. Individuato sul fondale del Tevere l'elicottero precipitato il 10 luglio. La possibile vittima è un ricco possidente. Continuano le operazioni di recupero dell’elicottero precipitato nel fiume Tevere nel pomeriggio del 10 luglio a Nazzano Romano, alle porte della Capitale. Dopo alcune ore di ricerche, fonti investigative hanno confermato poco prima delle 21 che il velivolo è stato individuato sul fondale del fiume grazie agli ecoscandagli adoperati dai Vigili del Fuoco giunti sul posto. Resta ore da capire se l’equipaggio sia riuscito a uscire in tempo dall’abitacolo dell’elicottero o se invece si sia inabissato anch’esso. Dalla mattina di sabato 11 luglio inizieranno le operazioni di recupero del velivolo: il tutto potrebbe durare anche diversi giorni.

Chi c’era a bordo dell’elicottero. Secondo quanto riportato dalle cronache locali, tra le possibili vittime – condizionale d’obbligo dato che al momento non è stato recuperato alcun corpo da parte dei sommozzatori – potrebbe esserci una donna e un uomo di 78 anni, molto conosciuto in zona. Le sue iniziali sono D.C. e di cui si sono perse le tracce proprio giorno 10 luglio intorno all’ora di pranzo. Una coincidenza che fa destare più di qualche preoccupazione ai familiari. Potrebbe trattarsi, dunque, di un ricco possidente che vive a Torrita Tiberina. Disperata la figlia che rivela: “Non troviamo mio padre dalle ore 16 di ieri. Era solito volare con il suo ultraleggero e portare con sé gli amici”.

La testimonianza. Ad assistere alla caduta dell’elicottero nel Tevere anche un papà con dei figli presenti sul posto. Stava facendo birdwatching vicino all’area naturalista ha raccontato: “A un certo punto ho visto un piccolo elicottero che toccava i fili dell’alta tensione con le pale ed è caduto nel fiume, inabissandosi dopo poco”. Secondo alcuni testimoni presenti in prossimità dell’incidente, il velivolo avrebbe urtato dei cavi dell’alta tensione che lo avrebbero fatto precipitare nella acque del fiume Tevere. Si attende tuttavia una più precisa ricostruzione di quanto accaduto da parte delle Forze dell’Ordine. Nel frattempo i Vigili del Fuoco hanno comunicato in serata tramite il proprio profilo Twitter che sul posto sono attualmente impegnati nelle ricerche due squadre di uomini e il nucleo sommozzatori al fine di raggiungere il velivolo finito sul fondale: “Roma 10 luglio 17:00, Vigili del Fuoco impegnati con il DragoVF 58, due squadre e nucleo sommozzatori per un elicottero precipitato a Nazzano Romano nei pressi del fiume Tevere”.

Roma, cade un altro aereo ultraleggero: è della scuola di Nettuno. Morte le due persone a bordo. Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it. Un aereo ultraleggero è precipitato questa mattina poco dopo le 10 presso la scuola di volo di Crazy Fly di Nettuno, precisamente in via Avezzano. Morte le due persone che erano a bordo. Sul posto stanno intervenendo diverse squadre dei vigili del fuoco. A quanto riferito dai vigili del fuoco, l'aereo sarebbe caduto dopo il decollo e ha preso fuoco. Sul posto diverse squadre dei vigili del fuoco e i carabinieri. Da chiarire le cause dell'incidente. Lunedì 25 maggio un biposto della scuola di volo dell'Urbe si era inabissato nel Tevere per cause ancora da accertare. A bordo c'erano l'istruttore, che è riuscito a mettersi in salvo subito dopo lo schianto mentre non ce l'ha fatta l'allievo, un giovane di 23 anni, rimasto purtroppo incastrato al seggiolino.

Precipita ultraleggero a Nettuno, morti nuotatori Lombini e Rossetti. Fabio Lombini il 31 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Una vera e propria tragedia per il nuoto azzurro quella registrata nel corso del pomeriggio. Un aereo ultraleggero è precipitato poco dopo il decollo presso la scuola di volo di Crazy Fly, a Nettuno, in via Avezzano. Morte le due persone a bordo: si tratta di due nuotatori, il 22enne di Forlì Fabio Lombini (Sport-Vigili del Fuoco) e il 23enne romano Gioele Rossetti (Aurelia Nuoto) che pare fosse alla guida. A quanto riferito dai vigili del fuoco l’aereo sarebbe caduto dopo il decollo e avrebbe preso fuoco per cause da accertare. Lombini, argento ai campionati assoluti invernali del 2017 nei 200 stile libero in 1’44″60 dietro a Filippo Megli e avanti a Filippo Magnini, già nazionale alle Universiadi di Taipei e ai campionati europei in vasca corta di Copenhagen nel 2017, stava svolgendo un allenamento collegiale al centro federale di Ostia seguito dal responsabile tecnico Stefano Morini ed accompagnato dal suo allenatore Alessandro Resch. «La Federazione, sconvolta e attonita, esprime le più sentite condoglianze a familiari, amici e società di appartenenza», sottolinea la Fin (Federazione italiana nuoto) che esprime il cordoglio per la scomparsa di Lombini e Rossetti. «Giungano a tutti loro i sentimenti di cordoglio del presidente Paolo Barelli, dei presidenti onorari Lorenzo Ravina e Salvatore Montella, dei vice presidenti Andrea Pieri, Francesco Postiglione e Teresa Frassinetti, del segretario generale Antonello Panza, del consiglio e degli uffici federali, del direttore tecnico della squadra nazionale di nuoto Cesare Butini e dell’intero movimento acquatico».

Ivo Iannozzi e Mirko Polisano per “il Messaggero” l'1 giugno 2020. La Nazionale azzurra. Il sogno di tutti gli atleti. Un desiderio che Fabio Lombini ha potuto soltanto sfiorare. La giovane promessa del nuoto è morto ieri a 22 anni insieme all'amico di sempre Gioele Rossetti, un anno più grande e nuotatore anche lui. Erano a bordo dell'ultraleggero che ieri mattina è precipitato subito dopo il decollo a Nettuno, a pochi chilometri dalla Capitale. Sono le dieci e qualche minuto quando le ruote del biposto si staccano dall'aviosuperficie Crazy Fly nella zona delle Grugnole alla periferia di Nettuno, quasi al confine con il territorio della provincia di Latina. Subito qualcosa non va. Rossetti alla barra di comando del P9s Tecnam a due posti se ne accorge ben presto: aveva il brevetto di volo ed era solito guidare ultraleggeri, quello su cui viaggiavano era della sua famiglia. Un rumore, poi il tentativo disperato di riprendere il velivolo da parte del pilota, l'impatto sul terreno, l'esplosione, le fiamme. Un testimone racconta: «A circa trecento metri di altezza, l'aereo ha iniziato a perdere quota. Il pilota ha virato verso sinistra, cercando con tutta probabilità un punto sul quale eseguire un atterraggio di emergenza, ma non c'è riuscito». In quella manovra è stata anche schivata un'abitazione. Lo schianto al suolo è stato fatale: le fiamme avvolgono la cabina di pilotaggio e i corpi di Gioele e Fabio sono completamente carbonizzati. I due passeggeri - da quanto appurato - erano ancora legati con le cinture ai seggiolini. Dalle prime verifiche emergerebbe che l'ultraleggero è precipitato circa 30 secondi dopo il decollo. Al momento si ipotizza un guasto tecnico. A quanto ricostruito, l'ultraleggero era del padre di Rossetti. Il velivolo e tutta l'area sono stati messi sotto sequestro. Nei prossimi giorni verrà effettuata l'autopsia. La procura di Velletri e l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (Ansv) hanno aperto un'inchiesta sull'incidente. L'Agenzia ha anche inviato un proprio investigatore sul luogo dell'incidente. Probabilmente i due giovani avevano deciso di sorvolare la parte del basso Lazio. Ai comandi c'era Gioele Rossetti, che ha gareggiato a livello nazionale per l'Aurelia Nuoto, accanto a lui Fabio Lombini, argento agli Assoluti invernali 2017 nei 200 stile libero, già nazionale alle Universiadi di Taipei e agli Europei in vasca corta di Copenhagen nel 2017. Lombini stava svolgendo un allenamento collegiale al centro federale di Ostia seguito dal responsabile tecnico Stefano Morini ed accompagnato dal suo allenatore Alessandro Resch. «La Federazione, sconvolta e attonita, esprime le più sentite condoglianze a familiari, amici e società di appartenenza» ha sottolineato la Fin. Quello di ieri è il secondo incidente avvenuto nei cieli del Lazio in pochi giorni. Lunedì pomeriggio poco dopo il decollo dall'aeroporto dell'Urbe un velivolo biposto, con a bordo istruttore e allievo, è finito nel Tevere scomparendo nelle sue acque. L'istruttore che ha tentato una manovra di ammaraggio è riuscito a mettersi in salvo. Purtroppo per l'allievo Daniele Papa, 23enne - anche lui - di Cerveteri non c'è stato nulla da fare. Nelle storie di Instagram ci sono gli ultimi istanti prima del volo, con Fabio e Gioele felici di condividere sui social la loro mattinata a bordo dell'ultraleggero «Fabio mi ha mandato un messaggio alle 8 di mattina - dice commosso Pino Castellucci, direttore del centro federale di nuoto a Ostia - avvisandomi che non sarebbe rientrato per il pranzo. Era con noi da mercoledì e oggi avrebbe dovuto iniziare gli allenamenti con la nazionale». Quel sogno che Fabio ha potuto solo sfiorare.

Mirko Polisano per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. Si sono fermate alle 14.50 di ieri le speranze dei familiari e degli amici di Daniele Papa, il 23enne di Cerveteri che due giorni fa è precipitato con un velivolo biposto nel Tevere. La procura di Roma indaga per omicidio colposo contro ignoti, mentre i primi rilievi effettuati iniziano a rivelare le possibili ipotesi dell'incidente, a cominciare dai dubbi sul tipo di manovra effettuata. Un'azione non improvvisata, una scelta dunque ben precisa ma compiuta da «inesperti» di casi di emergenza, stando alla prima ricostruzione tecnica.Il Diamond Aircraft DA20-C1, decollato dall'aeroporto di Roma Urbe, si era inabissato all'altezza di via Vitorchiano, in zona Due Ponti dopo un touch and go, esercitazione abituale di chi deve prendere confidenza con gli aerei. Potrebbe essersi verificata una «piantata motore», il brusco arresto del funzionamento dei comandi, e da lì in quegli attimi concitati la decisione di ammarare nel Tevere, invece che in uno dei tanti campi che circondano l'Urbe e più indicati per gli atterraggi d'emergenza. Circostanza compatibile con questo scenario anche la «parabola strana» del velivolo a cui avrebbero assistito i molti testimoni. Le regole del volo prevedono che in caso l'aereo si trovi in panne a meno di cinquecento piedi di altezza, il pilota deve cercare un posto dove atterrare. Un errore umano oltre al guasto tecnico? Lo dovrà accertare il perito che domani sarà incaricato dalla procura. Il fascicolo al momento è a carico di ignoti. Poi si dovranno attendere gli esiti dell'autopsia che aiuteranno a ricostruire l'esatta dinamica. I sommozzatori dei vigili del fuoco erano riusciti ad individuare con l'uso di un «side sonar scan» il relitto già martedì notte. Ieri sono partite le operazioni di recupero. L'aereo è riemerso spezzato: bisognerà capire se la rottura è avvenuta con l'impatto oppure in un altro momento. Scene strazianti quando è riemersa la carlinga: si intravedeva la sagoma di Daniele con il casco in testa e le mani alla barra di comando. Oltre a quelle della procura ci sono anche le indagini dell'Ansv, l'agenzia nazionale per la Sicurezza del volo. A bordo dell'aereo c'era anche Giannandrea Cito, l'istruttore che si è salvato. Il pilota è stato ricoverato al policlinico Gemelli e non è in pericolo di vita. Così dovrebbe essere andata, lunedì scorso. Il Diamond ha un unico portellone che si apre verso l'alto. Durante l'ammaraggio qualcosa deve essere andato storto, la cintura di Daniele Papa non si è sganciata. Cito avrebbe raccontato di aver tentato due volte di aiutare l'allievo: «Mi sono anche ributtato sotto, in acqua, ho cercato in tutti i modi di sganciarlo dalla cintura, ma non ci sono riuscito». Forse con l'impatto sull'acqua il velivolo può essersi ribaltato. Gli inquirenti vogliono accendere un faro anche sulla manutenzione. Il velivolo aveva solo mille ore di volo e il motore sembra essere stato controllato di recente. Circostanza che però non collimerebbe con l'ipotesi del guasto tecnico.

Francesco Salvatore e Flaminia Savelli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 30 maggio 2020. «Ho sentito un forte rumore e ho provato a prendere i comandi ma il mezzo è andato giù perché il ragazzo era nel panico e li aveva bloccati». È questo il cuore della testimonianza fornita dall' istruttore di volo Vito Giannandrea, a poche ore dall' incidente aereo in cui ha perso la vita un allievo di 23 anni, Daniele Papa. Ricoverato al Gemelli, l'istruttore ha raccontato quei momenti agli agenti. «Stavamo provando la fase di atterraggio, scendendo e risalendo con l' aereo. A un certo punto ho sentito il botto. L'areo era in fase di discesa. Ho preso in mano i comandi ( l' aereo ha un doppio comando ndr) ma non lo ho potuto governare perché il pilota era nel panico e non li mollava» . Il biposto a quel punto è finito nel Tevere, all' altezza di via Vitorchiano. «L'aereo non è colato subito a picco. Mi sono sganciato e ho provato a sganciare anche lui ma non ce l'ho fatta. Poi mi sono attaccato alla coda per fare leva e tenere l' aereo a galla ma è affondato». L' inchiesta del pm Alberto Galanti, al momento senza indagati, è aperta per omicidio colposo. È stata disposta una consulenza per capire se il motore del mezzo, che apparteneva ad una flotta di aerei nuovi, abbia avuto un' avaria o se durante il volo sia stato preso un albero o la cima di qualche edificio. La vittima, figlio di un pilota Alitalia, dopo aver conseguito un primo brevetto per 41 ore di volo, era alla sua terza lezione del corso successivo. «L'istruttore può riferire ciò che crede - ha detto Egidio Papa, zio di Daniele - saranno poi le indagini a chiarire cosa è accaduto su quell' aereo » . Periti e tecnici sono ancora a lavoro su ciò che resta del biplano finito nel fiume a 10 metri di profondità: « L' indagine è complessa - ha aggiunto - e noi stiamo seguendo sia l' aspetto legale che quello più tecnico, legato all' incidente. Certo, la responsabilità del volo era del pilota e mio nipote aveva una certa esperienza dunque è difficile credere che fosse nel panico. Comunque solo le perizie potranno stabilire la dinamica dello schianto. Restano ancora molti punti da chiarire». Intanto la famiglia è in attesa dei risultati dell' esame autoptico: «Non abbiamo ancora potuto neanche organizzare il funerale per Daniele. Siamo stravolti da questo dolore».

Adelaide Pierucci per "Il Messaggero" il 2 luglio 2020.

IL CASO. Un guasto dell'aereo, non un errore umano. Il pilota del velivolo che il 25 maggio scorso è precipitato nel Tevere durante un allenamento ha denunciato la sua verità riguardo l'incidente costato la vita all'allievo Daniele Papa, 23 anni, al momento dello schianto ai comandi. «C'è stato un problema tecnico. Potevo morire anche io», ha scritto Vito Giannandrea. L'atto è così finito nel fascicolo aperto con l'ipotesi di omicidio colposo dal pm Alberto Galanti. Gli accertamenti sui resti del bisposto finito in acqua saranno avviati nei prossimi giorni, non appena il magistrato formalizzerà l'incarico a un perito specializzato in disastri aerei.

IL BIPOSTO. L'aereo Diamond DA20 biposto era decollato da una scuola di volo dell'aeroporto di Roma Urbe per un'esercitazione nel primo pomeriggio del 25 maggio. L'istruttore, ancora prima di formalizzare la denuncia, aveva raccontato di aver udito un rumore durante la seconda manovra e volendo controllare di cosa si trattasse, di aver chiesto al ragazzo di lasciargli i comandi. Comandi, però, che Daniele Papa non avrebbe subito ceduto, probabilmente proprio perché rimasto raggelato dalla paura per l'imminente incidente. Secondo il pilota, infatti, l'allievo non avrebbe risposto alle sue domande. «Ho dovuto togliergli le mani dalla cloche», ha spiegato ai primi soccorritori il pilota. Nel frattempo, il velivolo sarebbe diventato ingestibile, fino all'ammaraggio nel Tevere. Dopo lo schianto l'aereo, infatti, si è inabissato in breve tempo, mentre l'istruttore è riuscito a liberarsi e ad uscire dall'abitacolo, il ventitreenne non è riemerso in superficie. In un primo momento era stato dato per scomparso. Squadre dei sommozzatori dei vigili del fuoco lo hanno cercato giorno e notte, scandagliando il fondale. Il velivolo è stato rinvenuto solo all'alba del giorno dopo. All'interno il corpo senza vita del ragazzo, seduto ancora alla sua postazione. L'ipotesi è che sia rimasto bloccato dalla cintura di sicurezza, che invece l'istruttore è riuscito a sganciare, pur rimanendo ferito. L'allarme era scattato subito dopo il decollo quando era stata segnalata un'avaria al motore e il biposto era sparito dai radar. Le ricerche immediate. E sono partite proprio da via Vitorchiano dove il segnale gps ha guidato i soccorritori fino al pilota, trovato vicino al fiume ferito. Secondo quanto riferito da Vito Giannandrea, esperto pilota, l'aereo ha perso quota ed è precipitato nel Tevere in un tentativo di ammaraggio, ma mentre lui con una manovra d'urgenza sarebbe riuscito a uscire dalla cabina di comando, sfortunatamente l'allievo ai comandi non sarebbe riuscito nello stesso tentativo. Sull'incidente ha aperto un fascicolo di indagine anche l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo.

I PRIMI RILIEVI. Gli ispettori hanno eseguito i primi rilievi sul campo di volo della scuola di via Salaria già nei giorni successivi all'incidente. Daniele Papa viveva a Cerveteri. Il sindaco Alessio Pascucci lo ha voluto ricordare con un lungo saluto su facebook: «Abbiamo sperato fino all'ultimo momento, ma purtroppo ci è arrivata la notizia che non avremmo mai voluto ricevere. Voglio mandare a nome di tutta la comunità di Cerveteri le più sentite condoglianze e un caloroso abbraccio ai genitori e alle persone che lo conoscevano e gli volevano bene». Intanto per capire se il ventitreenne sia morto sul colpo o per annegamento si attendono i risultati dell'autopsia.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2020. C' è un elefante nella cristalleria del Lazio e si chiama Nicola Zingaretti, segretario del Partito Democratico, presidente della Regione e responsabile di un disastro - vero - riconosciuto da anni e che prende il nome di sanità. Parlarne, ora, oltrepassa le scaramucce del cosiddetto «benaltrismo» con cui i giornali di destra cercano di riequilibrare la mole di accuse fatta soltanto e ingiustamente alla Lombardia, perché il caso. Zingaretti è veramente un elefante, un brontosauro, e i cristalli sono già tutti per terra frantumati. Chiaro che non se ne parli, adesso. Ma il ministero della Salute ha assegnato il penultimo posto al Lazio per ciò che riguarda i livelli essenziali di assistenza. La situazione sanitaria è talmente disperata che persino il movimento grillino ha evidenziato come Zingaretti abbia lasciato un contesto peggiore di quello ereditato dal centrodestra nel 2013, questo «nonostante l' iniezione di liquidità ottenuta dallo Stato per l' aumento della popolazione residente o per affrontare il Giubileo straordinario», ebbe e dire Devid Porrello, consigliere regionale grillino. La giunta guidata dal Partito Democratico ha tagliato 10mila tra medici e infermieri nonostante il maxifinanziamento di un miliardo ricevuto dal governo. La regione è al di sotto delle medie nazionali sia nell' indice per lo stato di salute sia in quello del mantenimento dello stato di salute. I cittadini delle province di Rieti, Latina, Viterbo e Frosinone non fanno che protestare per la chiusura o il ridimensionamento di molti nosocomi. Il recente rapporto dell' associazione medici dirigenti (Assomed) parla di rischio di collasso per mancanza di specialisti, e il numero dei posti letto ogni mille abitanti (3,7) è inferiore a tutte le regioni del nord Italia.

MENO LETTI PIÙ POLTRONE. Con Zingaretti al comando, gli ospedali del Lazio oggi hanno mille posti letto in meno. Zingaretti ha chiuso ospedali, cancellato i pronto soccorso in moltissimi comuni e consegnato poltrone a direttori generali provenienti da altre regioni perché cacciati dopo aver perso le elezioni. Tutto questo era già solare prima del tempo del coronavirus. Poi è venuto il tempo della pandemia e il preludio zingarettiano ancora lo ricordiamo. Zingaretti è quel signore che all' inizio dell' epidemia era venuto a Milano a fare i cosiddetti aperitivi progressisti e a invitare i cittadini a uscire di casa, quindi a sfottere chi, per tempo, raccomandava di non farlo. Zingaretti è quel signore che poi si è preso il coronavirus (forse proprio a Milano) e che per verificarlo ha potuto fare il tampone quando era un privilegio riservato a pochi, a meno di essere praticamente dei moribondi. Zingaretti è quel signore che si è fatto ovviamente la quarantena a casa e ha annunciato che aveva iniziato una cura antivirale quando le cure virali erano ancora precluse ai cittadini normali, relegati in casa, in sostanza spiattellando al suo popolo ciò che al suo popolo era precluso. Terminato il preludio, sono partiti i tre atti. Il primo è il meno grave, se vogliamo: da governatore del Lazio, Zingaretti ha semplicemente firmato un provvedimento sulle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali, le case di riposo) assolutamente identico a quello a cui hanno dedicato tanta cura i magistrati milanesi versus la Regione Lombardia. Dov' è l' errore? Le toghe milanesi sono troppo zelanti o quelle romane sono troppo inerti? Il Partito democratico parrebbe orientato verso la prima cosa, visto che ha chiesto il commissariamento della giunta lombarda. Con la stessa metrica, però, il Pd dovrebbe commissariare o denunciare anche il proprio segretario. Zingaretti infatti ha mandato dei contagiati nei vari ospizi (Rsa) come risulta dalle delibere di giunta, ma come non è invece risultato sulla libera stampa: apprezzabile che, mimetizzata nelle pagine locali di Repubblica, sia apparso il caso del San Raffaele di Rocca di Papa: 126 pazienti di cui più della metà positivi, un' inchiesta misconosciuta, e un direttore della Asl che non risulta abbia neppure i titoli necessari. Ma per il resto? Occhi solo per la Lombardia a dispetto di un centinaio di morti che restano da spiegare nel centritalia: c' è da capire quante delle 116 strutture regionali abbiano a loro volta creato dei reparti isolati e con quali conseguenze. La scorsa settimana si era saputo di nove Rsa con 269 posti letto, più di quelli lombardi: sono stati utilizzati? Saperlo sarebbe importante alla luce dei 100 morti laziali di cui si è poi appreso il 6 aprile, questo a causa - almeno secondo i sindacati - di sconsigliabili promiscuità. Insomma, c' è da capire quanto nel Lazio si siano verificate le stesse premesse per cui il Partito Democratico ha chiesto il commissariamento della Lombardia. Il Lazio in pratica si è mosso nello stesso modo, ma 28 giorni dopo, con tutta calma, senza l' assillo delle drammatiche urgenze che stavano colpendo il nord.

Il secondo atto, sempre con protagonista l' odontotecnico Nicola Zingaretti (è il suo titolo di studio) riguarda le famigerate mascherine e commesse stramilionarie, accordi non rispettati, un reticolo di società anche estere e soprattutto un' inchiesta incaricata di far luce sull' ennesimo pasticcio della sanità laziale che è anche al vaglio della Corte dei Conti. Due domande su tutte: perché le tempistiche di consegna delle mascherine non sono state rispettate?

E quanto è costato tutto questo? Stanno risultando cose molto strane: Zingaretti ha chiesto le mascherine persino a dei produttori di divani, a imprese offshore imboscate alle Cayman e all' editore croato di «Eva 3000», stanziando la bellezza di 133 milioni di euro. La Regione aveva detto che una delle ditte, la Exor, era un distributore ufficiale della 3M, che però ha smentito. Dalla Regione silenzio. Questa Exor tuttavia si è beccata con un affidamento diretto ben 35 milioni di commessa, anche se poi è risultata controllata da due psicologhe e da un cinese che si era sempre occupato solo di materiale elettrico.

APPALTI, MILIONI E CONCORSI. In generale la Regione si è rivolta a un canaio tra ditte probabili e improbabili: Eco Tech (30 milioni di euro di commessa, di cui la Exor risulta intermediaria) e poi Servimed e Worldwide luxury corner della naturopata Patrizia Colbertaldo (ex candidata nel 2008 nella Lista civica per Rutelli) che pure non ha mai prodotto un bilancio e risulta inattiva, poi c' è la Wisdom glory holdings ltd, società che al pari delle altre sembrerebbero avere poco a che spartire col settore richiesto. Sta di fatto che, di 27 milioni di mascherine ordinate, solo un terzo risulta esser stato effettivamente consegnato, e in Regione si parla di «mascherine fantasma» così come autentici ectoplasmi risultano Zingaretti e il capo della protezione civile Carmelo Tulumello: nessuno dei due, venerdì scorso, si è presentato al Comitato di controllo contabile, organismo regionale. Ci sono da rendicontare 66 milioni in mascherine, camici, tute, occhiali, visori, tamponi e altro ancora. Dove sono queste cose? Ci sono? Quanto sono costate?

Il terzo atto è una boutade, ma fa molto riflettere. C' è un giornale online, Etruria news, che ha raccontato la denuncia di un candidato escluso da un concorso sanitario al San Camillo: prima ancora che fossero pubblicati gli elenchi dei vincitori, lui, Antonio Di Nicola, aveva indovinato 16 nomi su 20. Ne ha scritto anche il Fatto Quotidiano: il candidato escluso ha centrato addirittura i primi due nominativi in graduatoria (su 160) e questo un mese e mezzo prima della proclamazione dei vincitori. Le altre 18 prime posizioni sono state conquistate in un ordine non esattamente coincidente con le previsioni, ma Di Nicola ne ha comunque azzeccati 14. Stiamo parlando di incarichi dirigenziali con stipendi di circa 130mila euro lordi cadauno. Naturalmente l' ospedale San Camillo ha detto che il concorso si è svolto correttamente, ed è solo un caso che la prima classificata fosse alle dirette dipendenze del presidente di commissione. Tra gli altri, ci sono numerosissimi ex candidati del Pd alle amministrative, un ex presidente di municipio, un coordinatore del comitato «Zingaretti presidente» e rappresentanti sindacali vari. Ma non distogliamoci dal problema principale, che è quello di commissariare la sanità lombarda: alla quale, peraltro, affluiscono decine di migliaia di laziali fuggendo dalla sanità di Zingaretti. Non si capisce perché.

Silvia Di Paola per “la Verità” il 20 marzo 2020. Il Comune di Roma è moroso nei confronti dell' esercito italiano, al quale da anni non paga le spese sostenute per il colpo di cannone quotidiano sparato a mezzogiorno dal colle del Gianicolo. Nell' ultima variazione di bilancio, approvata dall' amministrazione di Virginia Raggi, è scritto che «le strutture capitoline hanno segnalato l' emersione di ulteriori passività potenziali e contenziosi». Tra questi, per l' appunto, c' è il «mancato pagamento per le annualità 2015-2016-2017-2018 e gennaio/ottobre 2019 del servizio dello sparo del cannone al Gianicolo di Roma». L' importo è pari a 42.262,46 euro che dovrebbe incamerare il Comando militare della Capitale. Il colpo viene esploso dal 1847, quando papa Pio IX volle un rintocco a metà giornata da Castel Sant' Angelo. [Il Messaggero]

Laura Larcan per “il Messaggero” il 20 febbraio 2020. Vegetariani, con i muscoli pompati, alti mediamente un metro e sessantotto centimetri, i denti spesso cariati e una aspettativa di vita di 30 anni. Questo l'identikit dei gladiatori, professionisti degli spettacoli nelle arene della Roma imperiale. A partire dal Colosseo. Lo raccontano i dati antropologici emersi dallo studio sui reati delle sepolture della cosiddetta necropoli dei gladiatori rinvenuta a Efeso in Turchia. È solo uno degli aspetti inediti che saranno illustrati il 26 febbraio nella conferenza Che spettacolo! Gladiatori e anfiteatri nel mondo romano, all'Antiquarium del parco archeologico di Ostia antica. A parlarne, Rossella Rea, illustre studiosa, per oltre trent'anni alla guida del Colosseo, tra i massimi esperti di ludi gladiatori. Con lei, la direttrice del parco, Mariarosaria Barbera, e Cinzia Vismara, già docente di archeologia e storia dell'arte greca e romana. Tutta la verità, vi prego, sui gladiatori e gli anfiteatri, allora. È questo il senso dell'incontro aperto al pubblico gratuitamente. «Gli studi sulla necropoli dei gladiatori a Efeso hanno individuato uomini molto muscolosi, non molto alti e, soprattutto, vegetariani - anticipa Rossella Rea - Questi giovanotti fra i 20 e i 30 anni avevano una statura media di 1,68 metri». Ma ciò che stupisce è la loro dieta: «Agli integratori proteici degli sportivi di oggi preferivano una dieta vegetariana, a base di legumi, specialmente le fave, e orzo - precisa Rea - Erano detti hordearii, ovvero mangiatori di orzo, lo raccontano Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia e Tacito nelle Storiae. Le ossa contenevano un quantitativo doppio, rispetto alla media, di stronzio, elemento affine al calcio, che rivela una dieta povera di carne e impostata oltre che su orzo e fave, su bevande composte da vegetali misti a cenere di ossa, utili come complemento dietetico per accrescere l'apporto di minerali». I denti però non godevano di ottima salute: «L'alimentazione dolce e polposa, ricca degli zuccheri presenti nei cereali, è forse alla base delle frequenti carie dentali acute», dice la studiosa. E i muscoli? «Le ossa di gambe e braccia rivelano un prolungato allenamento - precisa Rea - Erano i pompati dell'epoca, con ossa più forti e grasso, quanto bastava a proteggere i muscoli dalle lame, in caso di impatti superficiali». Nessuna carenza alimentare. Lo spettacolo era assicurato, come strumento di propaganda imperiale. Oltre al Colosseo, si contavano ben 102 anfiteatri romani conservati in Italia, ma allargando lo sguardo si arriva a contarne 230 in Europa. «Oltre ai combattimenti dei gladiatori - aggiunge Cinzia Vismara - gli anfiteatri ospitavano anche cacce ed esecuzioni di condannati ad essere uccisi da bestie feroci». La preparazione di questi spettacoli prevedeva la cattura, il trasporto e il mantenimento degli animali, un impegno non indifferente: «Di queste operazioni ci rimangono alcune immagini, in pitture e mosaici», spiega Vismara».

Racket, clandestini e due vigili. La bolgia intorno al Colosseo. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Roncone. State a sentire. Ecco qui il Colosseo. L’idea era: vediamo che succede intorno al monumento più famoso del mondo. Luogo di crimini reiterati. Sulle pagine delle cronache locali: notizie di risse, inseguimenti, furti, spaccio. Traboccante sensazione di impunità. Quando sei sotto al Colosseo, pensi sempre: Dio mio quanto è grande. Allora provi a guardarlo meglio: solo che a quel punto ti sembra ancora più grande (oggi, poi, è appeso a un cielo azzurro, assolutamente azzurro). Sono riflessioni un po’ infantili, ma piene di uno stupore inevitabile e commovente e almeno 7 milioni e mezzo di visitatori, quelli dell’anno scorso, possono confermare che è proprio ciò che capita. Poi, però, regolarmente, qualcosa spezza l’incantesimo del bello. Come adesso. Laggiù. Oltre la transenna, dietro a quel matto che, con una banana sbucciata in mano, dice di essere Gesù di Nazareth. Subito dietro: dove un tipaccio travestito da centurione romano — il naso a becco, un ricamo sulla guancia, una rosa rossa tatuata sull’avambraccio — ha attaccato un turista americano all’inferriata del Palatino. Sono anni che questi ceffi travestiti da centurioni continuano a infestare la zona. Ed è incredibile che continuino a farlo. Stavolta è andata così. Il turista, circa cinquant’anni, giacca a vento dei New York Yankees, chiede in inglese quanto costa farsi un selfie insieme. Il centurione mette su un sorriso fasullo e, aiutandosi a gesti, spiega che servono appena 50 euro, ci mettiamo calmi calmi e ti fai con me tutte le foto che vuoi. L’americano è indeciso, l’amico intanto si è allontanato, e così finisce che l’americano cincischia, chiede uno sconto, poi ci ripensa, si scusa, dice che tornerà più tardi. Si volta come per andarsene, ma il centurione lo prende per il braccio: «Me stai a fa’ perde tempo...». Il turista cerca di liberarsi dalla presa, invece si ritrova appiccicato all’inferriata. Il centurione gli urla addosso, gli sputa addosso. Poi, con disprezzo, lo molla. La scena è durata meno di due minuti. Nessuno è intervenuto. I turisti sono soli e abbandonati dentro questa tremenda confusione, questa bolgia di stampo medievale: lo sguardo scorre sui mendicanti che fingono di essere storpi e le batterie di giovanissime borseggiatrici nomadi pronte ad attaccare con le loro manine veloci, ci sono i cestini dei rifiuti colmi, c’è quell’oscenità dell’eterno cantiere della metro C, ci sono due prostitute che rimorchiano una coppia di messicani increduli e un mangiafuoco con la barba nera come quello di Pinocchio, ci sono due ubriachi con la radio accesa che cercano di trascinare a ballare due ragazze di Verona («Ma non c’è un poliziotto, qui?») e davanti a loro la scorribanda degli ambulanti che provano a venderti caricabatterie per gli smartphone e ombrelli, occhiali da sole e bottigliette d’acqua a 5 euro l’una, e non un euro di meno, tanto o paghi o muori di sete, perché non c’è un bar, non c’è un bagno, non c’è un cartello che indichi al turista dove sono gli ingressi per entrare dentro il panorama pazzesco che è venuto a visitare: con l’Anfiteatro Flavio e l’Arco di Costantino, il Palatino e i Fori e, in alto, il Colle Oppio e la Domus Aurea.

(Tutti i siti fanno parte del Parco Archeologico del Colosseo che, dal 2018, è diretto da Alfonsina Russo. «Lo so: la situazione, fuori dai siti, è complicata». Una vergogna planetaria, direi. «Senta, io mi occupo di ciò che accade dentro. Premesso questo, con la sindaca Virginia Raggi abbiamo aperto un tavolo permanente dove affrontare l’emergenza della criminalità e del malaffare che attanaglia i turisti». Lei è ottimista. «In che senso?». Nel senso che se aspetta dalla sindaca Raggi la soluzione di un problema, la vedo dura. «Io, però, non posso arrendermi. Mi incoraggia perciò sapere che, ultimamente, sono stati almeno effettuati controlli straordinari sui responsabili della truffa “saltafila”»).

Immigrati clandestini assoldati dalle organizzazioni che gestiscono il racket dei biglietti. Indossano pettorine verdi e arancioni simili a quelle degli addetti che lavorano per il centro informazioni ufficiale di via dei Fori Imperiali. Promettono di far saltare la lunga coda per entrare al Colosseo: al turista chiedono 25 euro a biglietto (che, al botteghino, ne costa 16; 18 acquistandolo online). L’altro giorno, i vigili urbani ne hanno denunciati 17. I vigili compiono questi blitz — chiamiamoli così — a bordo di auto civetta, cioè senza insegne, ma indossando la divisa. L’effetto sorpresa diventa un effetto comico. Adesso, comunque, ci sono solo due vigili urbani. E, come spesso capita ai vigili urbani di Roma durante il servizio, fumano (uno fuma e parla con la moglie al cellulare: «Amò... e niente, io sto qui ar Colosseo... du’ palle»).

Disturbiamoli un po’.

(Buongiorno, posso farle una domanda? «Dica». Perché non siete intervenuti poco fa? Un centurione, laggiù, ha aggredito un turista americano. «Ma dove?», risponde quello che sembra essere il capo pattuglia. Laggiù. «Ah, boh. Non ce ne siamo accorti». Questi centurioni non sono...«I centurioni so’ centurioni... Ah ah ah!». Vi sarete accorti degli ambulanti. «Quali? Ci sono venditori ambulanti?». Guardi, lì c’è persino un mangiafuoco. «Ma mica è pericoloso... comunque, mi diaretta: c’è il sole, sembra una mattina di primavera... perché invece di intervistare due poveri vigili, non si fa una bella passeggiata?»).

Facciamola, una passeggiata. All’inizio e alla fine di via dei Fori Imperiali, chiusa al traffico, e costeggiando quindi la meraviglia dei Fori, quattro blindati dell’esercito e otto militari. Sperando, si suppone, che un terrorista arrivi in macchina e venga quindi fermato ai checkpoint, e non preferisca invece arrivare camminando sul marciapiede, o proprio in metropolitana, con lo zainetto. Due carabinieri di pattuglia incontrati in via degli Annibaldi (dove i furgoni Mercedes degli Ncc sono parcheggiati in quadrupla fila). Lo scorso 23 agosto, un autotrasportatore tedesco fermò il suo Tir in via di San Gregorio, mise le quattro frecce, e scese a scattare foto ricordo con il cellulare (le agenzie riferirono il suo commento: «Solo per me divieto in porca città»). Una settimana prima, un turista vietnamita aveva fatto alzare in volo un drone. Cinque li hanno sorpresi mentre incidevano i loro nomi sui ruderi. Una coppia di punkabbestia risale via della Domus Aurea: intorno ai resti della villa di Nerone, visitabile solo nel fine settimana, vive una comunità cenciosa di sbandati e clandestini, nelle fessure dei ruderi gli spacciatori nascondono le dosi destinate ai consumatori del centro storico.(«È una fogna, questa zona: e sarei io, il problema?», s’interroga — in romanesco stretto — il centurione che prima ha aggredito quel turista americano.

Quanti siete?

«Una decina. Tutti onesti lavoratori, eh».

Avete una licenza?

«A bbbello, io è na’ vita che vivo d’espedienti... mo’ te pare che pe’ vestimme da antico romano ciò bisogno der permesso?».

I vigili urbani non le dicono niente?

«Fanno i bravi. Chiudono un occhio. So’ padri de famiglia pure loro».

Prima però lei ha maltrattato quel turista...

«Io? Ma quando? Io so’ na personcina a modo...»).

L’ultimo sguardo è sulla «botticella» che arriva trainata da un povero cavallo ormai sfiancato. Ci sono turisti che non rinunciano. Il vetturino: «Per 150 euro, un giro di un’ora».

Che bestiaccia.

Il vetturino, intendo.

Gustavo Bialetti per la Verità il 27 febbraio 2020. Se per caso, girando per Roma, avete l' impressione che sia una città dove ognuno fa quello che gli pare, in spregio a leggi, regolamenti e senso civico, sappiate che non è più così. Anche nella città eterna, famosa per essere l'unica capitale del pianeta a non riuscire a raccogliere l'immondizia e nota per il singolare fenomeno dell'autocombustione dei mezzi pubblici, le regole sono regole, specie se riguardano il maltrattamento degli animali. E questo vale anche per i pesciolini rossi, che pur non essendo molto interattivi, non devono andare al bar, ma stare a casa nell' acquario. Eh sì, perché nella città di Mafia capitale, di tavolino selvaggio e delle buche come crateri, sabato mattina due guardie zoofile, come racconta l' edizione romana del Corriere della Sera grazie alla testimonianza diretta di una linguista che era presente al «grave fatto», si sono presentate in un bar di Prati e hanno steso un verbale chilometrico per la presenza di un pesciolino rosso sul bancone. «Si verifica la presenza di pesce rosso in contenitore di vetro delle dimensioni di», pare che abbiano scritto i solerti operatori. Quindi hanno fatto una multa di 100 euro al ragazzo dietro il bancone e gli hanno detto che gli avrebbero sequestrato l' animale. Dopo estenuante trattativa, il ragazzo ha ottenuto di travasare il pesciolino nell' acquario di sua madre, non prima che le suddette guardie verificassero a domicilio che la signora avesse davvero un bell'acquario e non fosse tenutaria di un lager per pesci. Se a Roma controllassero con la medesima attenzione i bambini che non vanno a scuola e vagano per strada, non ci sarebbe più evasione dell' obbligo scolare in alcuni, ben noti, insediamenti. Ma con i pesci è più facile fare i duri. Se anche si trovano bene al bar, non possono metterlo a verbale.

150 anni Roma Capitale, "clamorosa svista" del Campidoglio. Il Comitato Roma 150 bolla come un errore grave che il Comune di Roma abbia adottato il 3 febbraio come data commemorativa per dare il via alle Celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale. All'epoca la città era ancora nelle mani del papa. Francesco Curridori, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. "Clamorosa svista". Il Comitato Roma 150 bolla come un errore grave che il Comune di Roma abbia adottato il 3 febbraio come data commemorativa per dare il via alle Celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale con un concerto, trasmesso dalla Rai, che si terrà al Teatro dell'Opera e che è stato organizzato in collaborazione col Ministero della Difesa. "Non possiamo però esimerci dal rimarcare la irritualità della scelta, forse dettata da eccessiva fretta, per la data del 3 febbraio 2020, essendo ben noto — o almeno così dovrebbe essere nel Paese che ha dato i natali a Machiavelli, Vico e Gramsci— che la “storica” data della proclamazione di Roma Capitale avvenne con legge n. 33 del 3 febbraio del 1871 e NON nel 1870", scrivono i membri del Comitato Roma 150. Una vera beffa, considerando soprattutto il fatto che al concerto sarà presente anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella. In sostanza, la prossima settimana "si festeggeranno per motivi ignoti ai più i 149 anni di Roma Capitale tenendo a mente e nel pallottoliere la data del 1871, oppure i 150 anni dal 3 febbraio 1870", fa notare il "team" di storici ed esperti presieduto da Andrea Costa e di cui fanno parte anche due ex assessori all'Urbanistica come Paolo Berdini (sotto la Raggi) e Bernardo Rossi Doria (con Ignazio Marino), oltre al deputato Stefano Fassina. Il 3 febbraio 1870, infatti, Roma era ancora nelle mani del Papa e in Francia regnava ancora l'imperatore Napoleone III. Ma non solo. "Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi avevano ancora una condanna a morte sul capo; il progetto di Italia “unita” era in realtà quello di dividerla in tre secondo gli accordi di Plombiéres del 1858…con l’Idea di un protettorato francese per il Regno del Nord avente Milano come sua Capitale", ricordano i membri del Comitato 150. Comitato che il Campidoglio ha scelto di non coinvolgere nell'organizzazione. "Non hanno alcun ruolo ufficiale, non sono nessuno" sarebbero le parole dall'entourage di Raggi, secondo quanto riporta Romatoday. Dal Comune si sottolinea che, nella nota di accompagnamento agli inviti spediti via mail, si intende come "apertura delle Celebrazioni per il 150esimo anniversario" e si specifica che ciò avviene "a un anno dall'approvazione della legge che ha istituito Roma Capitale d'Italia". Nessuno sbaglio, dunque, ma solo l'inizio di una lunga serie di appuntamenti che dureranno fino al 3 febbraio 2021.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 28 gennaio 2020. «Un tempo noi posti fissi eravamo venerati come dei», racconta Checco Zalone nel film campione d'incassi Quo vado?, ben indottrinato fin da piccolo: «Io da grande voglio fare il posto fisso», rispondeva al maestro delle elementari. Altri tempi. Oggi, almeno in Campidoglio, la poltrona nell'ufficio pubblico, col contratto a tempo indeterminato, non fa più così gola. Anzi, c'è chi la rigetta come fosse una iattura. Uno su 5, fra chi ha superato la selezione, ha detto no al Comune di Roma nel 2018 e nel 2019. Messaggio chiaro: grazie mille, ma di venire a fare il vigile urbano o l'impiegato all'Anagrafe dell'Urbe non mi interessa. Vicenda paradossale, per certi versi. Che segna forse la fine di uno stereotipo il mito del pubblico impiego, del lavoro per tutta la vita a spese dello Stato, in questo caso del Campidoglio ma che è figlia anche dei ritmi pachidermici della burocrazia capitolina. Il concorso con cui l'amministrazione di Roma ancora oggi assume personale risale al 2010. Una maxi-procedura - non a caso subito ribattezzata concorsone - che è rimasta impantanata per quasi sei anni, tra un rimpallo amministrativo e un ricorso legale. Fino a che, nell'ultimo scampolo del 2016, si è cominciato ad assumere. I primi due anni quasi nessuno rifiutava il posto, raccontano a Palazzo Senatorio. Nell'ultimo biennio invece si è registrato un boom di rigetti. Parlano i numeri: nel 2018 e nel 2019 sono stati assunti dal Comune di Roma 2.300 dipendenti. Eppure il Campidoglio ha avuto più di un grattacapo per coprire tutti i posti, perché quasi 450 candidati hanno rinunciato a un passo dalla firma. Per fortuna la graduatoria degli idonei era piuttosto lunga: è bastato scorrere la lista per riuscire ad assegnare tutti gli incarichi, tra vigili, giardinieri, travet e contabili. Ma la trafila si è comunque allungata, perché per ogni chiamata andata a vuoto, l'iter del reclutamento è dovuto ricominciare da capo. Dal 2016 a oggi il Campidoglio ha arruolato quasi 5mila persone, comprese le maestre precarie che sono state stabilizzate. Risultato: la spesa per il personale, che nel 2015 ammontava a 906 milioni di euro solo per i contratti a tempo indeterminato - nel 2018, l'ultimo dato disponibile, è arrivata a quota 996 milioni. Quasi cento milioni in più, un miliardo in totale. In linea, grosso modo, con quanto sborsato dall'amministrazione cittadina nell'anno appena concluso. «Abbiamo ricambiato il 26% del personale dal 2016 a oggi», si vantano in Comune. Resta la domanda: perché tanti rifiuti? Ognuno dei 450 avrà avuto una buona ragione per rinunciare a un posto di lavoro sicuro in Campidoglio. Certo è che molti, date le lungaggini del concorso capitolino, nel frattempo si sono rivolti altrove. Insomma, hanno trovato un impiego diverso, spesso nel settore privato. A Palazzo Senatorio si augurano che quando verrà sfornata la nuova selezione il numero delle rinunce diminuisca, dato che l'arruolamento dovrebbe viaggiare a ritmi molto più spediti rispetto al concorso precedente. Nel 2020, ha spiegato di recente Antonio De Santis, l'assessore alle Risorse Umane di Roma che ha avuto il merito di sbloccare la procedura del 2010, il Comune finirà di scorrere la vecchia graduatoria. Così saranno assunti 894 dipendenti: 300 vigili, 50 funzionari delle biblioteche, 100 architetti, addirittura 15 dietisti di cui, evidentemente, c'è bisogno in Comune. Poi entro fine anno, ha detto De Santis, sarà sfornato il nuovo concorso. In palio 1.470 posti da dipendente, più altri 42 da dirigente. «Daremo spazio ai millennials», ha dichiarato l'assessore. Sperando che non dicano no.

Auditorium, anni di proroghe e pagamenti in ritardo: Anac interviene sull'ex gestione del bar. La prima gara per affidare il servizio di caffetteria era stata indetta nel 2002. La seconda solo nel 2018. In mezzo, per anni, pasti e colazioni sono stati gestiti da Relais Le Jardin, la società del genero di Gianni Letta. Interviene l'Autorità nazionale Anticorruzione. Nel frattempo i fratelli Ottaviani, colossi dei catering nel Lazio, hanno cambiato orizzonti di business. Francesca Sironi il 20 febbraio 2020 su L'Espresso. La concorrenza è uguale per tutti. Ma per alcuni è meno uguale che per altri. Il 17 novembre l'Autorità nazionale Anticorruzione ha chiuso una relazione sul servizio di caffetteria e catering dell'Auditorium di Roma. Il bar del teatro dedicato a concerti e spettacoli era ed è affidato ad un'azienda esterna, come avviene per quasi tutti i musei e le istituzioni culturali italiane. Vengono definiti servizi aggiuntivi. E la committenza dovrebbe passare attraverso gare regolari, così da garantire la miglior offerta, un po' di concorrenza, il mercato insomma. Ma all'Auditorium la società che aveva vinto il bando nel 2003 non ha avuto competizione fino all'anno scorso. Nel 2007 l'appalto sarebbe dovuto scadere, ma il servizio è rimasto a lei, prorogato, di stagione in stagione, fino al 2018. Undici anni di proroghe. L'azienda che vendeva brioche e tramezzini agli spettatori, fino all'anno scorso, era Relais Le Jardin, piccolo colosso dei catering di proprietà dei fratelli Ottaviani. Roberto e Stefano Ottaviani, marito di Marina Letta, figlia di Gianni, l'ex potente sottosegretario della presidenza del Consiglio. Come aveva raccontato Emiliano Fittipaldi su L'Espresso, Relais Le Jardin negli anni d'oro dei "Grandi Eventi" era ubiquitaria: dal G8 di Genova alla Conferenza intergovernativa di Roma, dal pranzo tricolore di Obama all'Aquila ai padiglioni italiane nelle Esposizioni universali, ai Mondiali di nuoto: le committenze per i banchetti erano di Relais Le Jardin. La società è controllata da un'immobiliare il cui comando societario fino all'anno scorso si perdeva in Lussemburgo. Oggi, è della famiglia. Nel 2016 il nome di Stefano Ottaviani  era comparso nei Panama Papers : suo il "Lagoon investments group" con sede a Panama. La Relais è appena tornata alle cronache per un'altra vicenda: nel concludere le indagini sul fallimento di Alitalia Sai, la procura di Civitavecchia ha contestato agli ex manager non soltanto false plusvalenze in bilancio, ma anche la «dissipazione di risorse» per oltre mezzo milione di euro. Fra le fatture contestate ci sono 133mila euro di catering durante le riunioni del consiglio di amministrazione. Affidati alla Relais le Jardin. La delibera dell'Anac, inviata al Comune di Roma - che è proprietario degli spazi, dati in comodato d'uso gratuito alla Fondazione Musica per Roma per la gestione e la programmazione delle attività - non mette in evidenza solo le proroghe continue del servizio, considerate illegittime. Nei rilievi c'è anche la contabilità: il contratto prevedeva infatti il pagamento di una quota fissa e di una parte variabile in proporzione agli incassi. Pagamenti che avrebbero dovuto essere effettuati entro 90 giorni dall'approvazione del bilancio. Dalla documentazione che la stessa Fondazione ha inviato all'Anac però, risulta che i bonifici dovuti da Relais per il 2013, ad esempio, erano arrivati all'istituzione con ben due anni di ritardo. Non solo. L'importo della quota variabile era calcolato sulla base di un semplice elenco, perché non c'era un sistema di contabilizzazione automatica degli incassi che potesse permettere il controllo sistematico delle ricevute. In ogni caso, non ci sarebbero poi prove di attività di verifica da parte dell'ente. Nel 2018 la fondazione ha indetto una nuova gara. Si sono presentate due aziende. Ha vinto "Le Voilà Banqueting" di Roberto e Vincenzo Azzarone, già a Palazzo Brancaccio, al palazzo delle Esposizioni e al Vittoriano. Sono loro a servire caffè e catering dell'Auditorium adesso. Nell'ultimo bilancio disponibile sul sito di Musica per Roma risulta un credito con Relais Le Jardin per 619.460 «relativi principalmente alle royalties 2018 non ancora scadute». La società dei fratelli Ottaviani non ha subito scosse, comunque. Il fatturato nel 2018 è arrivato a quasi 20 milioni di euro, in crescita rispetto all'anno precedente, e il bilancio è stato chiuso con un utile di 2,7 milioni. I tramonti romani erano stati previsti in bilancio, dove si citano le concessioni concluse al bar del museo Maxxi e della Bouvette del Campidoglio, «senza che la società abbia partecipato alle gare indette per il rinnovo degli appalti», si legge, nel rispetto di una nuova strategia, per la quale l'azienda «intende continuare a ridurre il proprio impegno nell’ambito delle concessioni di servizi  all’interno  di  complessi  museali  ed  artistici,  destinando  risorse  verso  nuovi  mercati,  non  soggetti  a  vincoli  di spazio  e  di  tempo».

Valeria Costantini per roma.corriere.it il 17 febbraio 2020. Tassista picchiato e rapinato nella notte a Roma. È accaduto in zona Montespaccato, dove l’autista aveva appena portato quattro clienti, da quanto ricostruito finora si trattava di tre cittadini ecuadoriani e un’italiana. Erano saliti sull’auto in via Casilina, poi la corsa fino a una strada isolata poco prima dell’alba. Come mostra un video ripreso da un residente, i tre uomini hanno improvvisamente aggredito il tassista a calci e pugni, dopo una discussione sui soldi da spendere tra di loro.

Notte di violenza. Il conducente, malconcio, ha iniziato a gridare e a chiedere aiuto: «Mi stanno rubando la macchina, aiutatemi», il suo disperato appello. Alcuni passanti in auto si sono fermati a soccorrerlo: denunciato uno degli stranieri che è stato bloccato e consegnato alle forze dell’ordine intervenute poco dopo. Gli altri tre aggressori sono spariti nel nulla e al momento ancora ricercati. Il tassista, ferito, è stato portato in ospedale. «Solidarietà al tassista aggredito con calci e pugni e rapinato ieri notte a Roma. Spero che i responsabili di questo vile episodio siano tutti assicurati alla giustizia» ha scritto in un tweet la sindaca, Virginia Raggi.

A. Mar. per “il Messaggero” il 18 febbraio 2020. «Ho visto la morte in faccia, questa volta ho avuto paura di non tornare a casa dai miei due figli. Ho il viso gonfio, un occhio nero e domani mattina (stamani, ndr) mi toccherà rivedere quel folle in tribunale al processo per direttissima. Ma tutto sommato sto bene e l'importante è raccontarla...». Andrea P., 47 anni da compiere, da diciotto alla guida di un'auto bianca nella Capitale, è appena stato dimesso dal pronto soccorso. È lui la vittima della brutale aggressione con tentativo di rapina della sua Toyota Corolla Hybrid nuova di zecca, avvenuta all'alba di lunedì a Montespaccato. Un episodio di violenza, l'ennesimo, questa volta ripreso, però, in un video girato da un residente.

Andrea che cosa ricordi di quei momenti?

«Momenti? Sono stati minuti infiniti, in cui ero in balìa di quel personaggio, fuori di sé e ubriaco. Dalle 6,20 fino alle 7: quaranta minuti di puro terrore. Chiedevo aiuto, urlavo, ma all'inizio non si fermava nessuno».

C'è stata indifferenza?

«Credo che tra i primi automobilisti che sono passati ci fossero delle donne, e loro le posso pure capire. Ma altri sono andati via senza muovere un dito finché, finalmente, non è uscito un uomo da un forno che mi ha aiutato a bloccare quel pazzo. Subito dopo di lui si sono fermati anche altri due passanti, quindi è arrivata la volante di polizia e, non senza fatica, perché il folle si era barricato dentro l'auto, è stato arrestato».

Chi era quell'uomo?

«Lo avevo preso insieme con altri due sue connazionali, degli ecuadoregni, e una donna italiana, fuori da un locale all'angolo tra via Casilina e viale della Primavera, a Centocelle. Era la mia prima corsa del mattino, non abito distante e quando al 3570 è arrivata la chiamata sono andato io. La sera ero stato allo stadio, ero contento. Mi hanno chiesto di portarli dall'altra parte della città a Montespaccato, poi arrivati a destinazione hanno cominciato a litigare per chi doveva pagare».

E come è andata?

«Secondo gli amici avrebbe dovuto pagare lui, ma tergiversava, mi ha mostrato la tessera dell'autobus spacciandola per la carta di credito, allora io in viva voce ho chiamato il 112. La donna si è arrabbiata con me: Che ca.. ti chiami la polizia, pago io. Mi dà i soldi e mentre cercavo il resto dei 36 euro continuavano a litigare finché l'italiana e gli altri se ne sono andati: Tu resti qua, a bere su a casa non vieni, gli hanno detto. Mi sono girato e quello si era chiuso dentro la macchina, scapocciava e non voleva più uscire».

Lei, allora, che cosa ha fatto?

«Ho provato a farlo uscire, ma quello ha messo la mano nella tasca dei pantaloni, come se avesse una pistola e mi ha urlato: Adesso ti ammazzo. Sono scappato via».

Quando l'ha picchiata?

«A un certo punto, però, l'ho visto al posto di guida, voleva rubarmi l'auto che avevo comprato solo il 17 gennaio con tanti sacrifici. Mi è preso un colpo, con quella macchina io ci campo la famiglia, così sono tornato indietro, mi sono attaccato allo sportello, sono entrato sul lato passeggero per fermarlo: con una mano tenevo il volante, con l'altra suonavo il clacson per attirare l'attenzione e i soccorsi. Nel frattempo, quello non sapeva neppure guidarla ed è andato a sbattere contro un muretto: 500 euro di danni mi ha fatto. Io gridavo Aiuto, mi stanno rubando la macchina, speravo che qualcuno intervenisse subito».

Invece?

«Invece, quel pazzo mi ha sferrato 3 o 4 pugni in faccia, per fortuna senza centrarmi in pieno con tutta la forza, anche se dopo mi sono ritrovato tutto tumefatto. Sono comunque riuscito a farlo uscire dalla macchina, mi inseguiva continuando a minacciarmi: Ti ammazzo. Faceva qualche metro poi tornava indietro per risalire in auto e ripartire, allora pure io riprendevo coraggio e tornavo sui miei passi per impedirgli di portarmi via la macchina. È andata avanti così finché non è uscito fuori il fornaio...».

Poi è arrivata anche la polizia.

«Sì, in una ventina di minuti. Anche davanti agli agenti lo straniero non si è arreso, hanno dovuto ammanettarlo per tirarlo fuori dalla macchina. Lui stesso, che ha 25 anni, ha raccontato di avere dei precedenti e l'hanno portato via. Quindi la polizia mi ha accompagnato al pronto soccorso del Pertini, 7 i giorni di prognosi».

È la prima volta che subisce un tentativo di rapina alla guida del taxi?

«No, mi era già successo cinque anni fa. Ma allora fu tutto più veloce e indolore: il balordo mi puntò un coltello alla gola, in trenta secondi si prese i soldi e scappò via. Invece, ieri è stato uno choc. Ora voglio solo rimuovere e dimenticare tutto, ai miei figli di 6 e 10 anni ho detto che sono caduto al parco... ma mica ci credono».

Dal flop di mafia capitale alla guida di piazzale Clodio: vita e opere di Michele Prestipino. Fausto Mosca su Il Dubbio il 4 marzo 2020. Il nuovo procuratore capo di Roma è stato per anni ill braccio destro di Pignatone. Ha vinto la continuità. Michele Prestipino è il nuovo capo della Procura di Roma, ha avuto la meglio su Francesco Lo Voi al ballottaggio: 14 voti a 8. A favore di Prestipino hanno votato i cinque togati di Area, i tre di Unicost, tre del gruppo di Autonomia &Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, i due laici del Movimento 5 Stelle, e il pg della Cassazione Giovanni Salvi. Lo Voi ha invece incassato le preferenze di Magistratura indipendente (tre voti), dei due laici in quota Forza Italia, di uno della Lega e di un grillino, oltre al voto del primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone. Ma niente da fare, alla fine è stata premiata la continuità con la precedente “gestione”, garantita dal facente funzioni. Non poteva che essere Prestipino l’erede predestinato, al fianco di Giuseppe Pignatone fin dagli anni Palermo, passando per la Procura di Reggio Calabria, per arrivare a sigillare il sodalizio investigativo nella Capitale. Insieme hanno portato a termine inchieste dal grande impatto mediatico, non sempre accompagnate dal “successo” processuale. Di Pignatone e Prestipino insieme si ricordano soprattutto due mega inchieste, destinate a fare giurisprudenza ma anche letteratura. “Crimine”, a Reggio, fu l’operazione che costrinse a riscrivere i manuali di storia della ‘ndrangheta e a ridefinire la natura stessa dell’associazione calabrese. Da quel momento in poi contestare il 416 bis alle ‘ndrine significa dover dimostrare l’appartenenza a un’organizzazione «verticistica» e «unitaria», sul modello palermitano. Ma è soprattutto la seconda operazione, “Mafia Capitale”, ad essere finita nell’immaginario collettivo come la grande guerra, persa, da Pignatone e Prestipino. Un flop giudiziario, smontato dalla Cassazione, che ha riconosciuto sì l’esistenza di organizzazioni criminali a Roma, ma non la loro natura mafiosa. Il grande teorema della «mafia autoctona» messa in piedi da Buzzi e Carminati si è sciolto come neve al sole. Eppure, il “mondo di mezzo” è stato fonte d’ispirazione di best seller, film e serie tv. La fiction ha tributato alla Procura quel riconoscimento titanico che le aule di Tribunale non sono riuscite a dimostrare. Ma un fallimento, anche epocale, può capitare nella carriera di chiunque. E Michele Prestipino, che prima d’oggi non aveva mai guidato una Procura (se si escludono i 10 mesi seguiti da facente funzione), ha sbaragliato la concorrenza titolatissima di Lo Voi con nettezza. Ha persino ottenuto l’endorsement di Piercamillo Davigo che nel maggio scorso aveva votato in Commissione a favore del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, in nome della «discontinuità», ritenuta necessaria nella Capitale, dopo l’era Pignatone. Poi lo scandalo Lotti-Palamara – e le conversazioni intercettate tra politica e magistratura per decidere le sorti degli uffici giudiziari di mezzo Paese date in pasto alla stampa ad arte – cambia le carte in tavola. Prestipino torna in corsa e convince l’anima conservatrice e quella progressista della magistratura a convergere su di lui, stracciando gli altri aspiranti procuratori: Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi. Tutti e tre i candidati, inoltre, provengono da blasonate Direzioni distrettuali antimafia, come se per Roma non si potesse far domanda senza un’esperienza pregressa con le cosche. A Piazzale Clodio possono comunque tirare un sospiro di sollievo: l’eterna lotta alla successione è terminata. Prestipino guiderà l’ufficio giudiziario. E non si allontanerà troppo dal suo predecessore, nel frattempo nominato presidente del Tribunale Vaticano, l’organo di primo grado della giustizia vaticana, da Papa Francesco.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 5 marzo 2020. Spumante nei bicchieri di plastica «e manco 'na pizzetta». Anche nel giorno professionalmente più importante della sua vita, Michele Prestipino si conferma un romano atipico. Emozionato nel brindisi con i colleghi della Procura. Poche chiacchiere, poi di nuovo a lavorare. Del resto a Roma è nato, cresciuto (nel borghese corso Trieste) e infine ritornato, ma non è e non sarà mai un «magistrato romano». E non solo per le ascendenze messinesi. In realtà è un filosofo mancato e se avesse seguito l' inclinazione liceale oggi non correrebbe dietro a Spada e Casamonica, ma a Kant e Aristotele come il padre Vincenzo, docente di filosofia morale a Macerata. O a Marx e Lukács come lo zio Giuseppe, che oltre a insegnare filosofia teoretica a Siena era intellettuale gramscianamente organico, dopo aver animato un movimento sindacale nella Libia post coloniale dove nel 1932 il padre magistrato (ah, ecco) era stato inviato per «negoziare» il trasferimento della popolazione della Cirenaica e far posto agli italiani inviati dal regime fascista. Sarà l' impronta familiare ad averlo conservato studioso, anche dopo la precoce fine della carriera universitaria come cultore di diritto civile. Il metodo analitico nella lettura delle carte - anche se intercettazioni e interrogatori - non l' ha mai perso, come il gusto della scrittura. Degli atti giudiziari, degli articoli di dottrina, dei libri. Esordi giudiziari ad Avezzano: pretura circondariale, poi tribunale. Sua una sentenza pilota in materia di rifiuti, ammettendo le associazioni ambientaliste come parti civili. E proprio in Abruzzo il primo incrocio con le mafie, da giudice di sorveglianza che esamina le pratiche dei boss detenuti. Nel 1996 il trasferimento a Palermo, le indagini su mafia, appalti e banche. «Raro acume investigativo», certificherà nel 2004 il procuratore Pietro Grasso. Nasce il sodalizio con Giuseppe Pignatone, che in quel palazzo razionalista così tragicamente famoso era entrato vent' anni prima. Uno figlio di un cattolico e nipote di un comunista che il comitato centrale mandava da Mosca nella minuscola Capizzi, dove «c' erano i voti ma non una sola persona che avesse finito le elementari» e potesse fare il sindaco. L' altro figlio di un democristiano teorico del milazzismo, due volte deputato e presidente di enti pubblici. «Se Pignatone è metodico, Prestipino è frenetico, se l' uno sembra sornione, l' altro appare impetuoso, ma ho scoperto che entrambi nutrono passione smodata per la parola», scrive Gaetano Savatteri nella prefazione del loro libro «Contagio» (Laterza). Il resto della simbiosi è storia nota: Palermo, Reggio Calabria, Roma. Con lo stesso metodo investigativo nei diversi contesti: composizione dei puzzle criminali e cultura della prova, da solidificare prima del processo. Non tutto è stato facile. A Roma la nomea di «cocco» di Pignatone aveva procurato inevitabili gelosie e pregiudizi. Superati quando s' è visto che Prestipino non era arrivato per godersi la dolce vita, ma per sgobbare. Nelle più complesse inchieste antimafia come nella minutaglia degli «affari semplici», un inferno da 140 mila fascicoli l' anno. Anche per questo, ieri in Procura, i sorrisi (e qualche lacrima) non erano solo dei pm, ma anche di segretarie e cancellieri. Primo a entrare e ultimo a uscire dall' ufficio, anche come capo reggente dopo l' addio di Pignatone. Mai sentito dire «ora non posso, passa domani» a un sostituto che voleva risolvere un problema. Piuttosto «aspettami dieci minuti e ne parliamo». Refrattario alle scene televisive (preferisce i convegni) e riservato sulla vita privata (solo recentemente ha parlato ai colleghi di compagna e figlio nato l' anno scorso), non è di quelli che a pranzo se ne sta in ufficio da solo. Capita di vederlo arrivare al baretto di piazzale Clodio e aggiungersi alla tavolata dei pm, se c' è un posto libero. Non cambierà, anche ora che guida 100 magistrati nel posto che, leggenda ma non troppo, conta come un paio di ministeri. Il migliore augurio che gli si può fare è il titolo dell' ultimo libro dello zio filosofo: diritti e dignità.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 marzo 2020. L' inchiesta di Perugia sulla presunta corruzione del pm Luca Palamara e le relative intercettazioni sul mercato delle nomine al Csm non hanno cambiato le cattive le abitudini. Dopo nove mesi, lo scacchiere della magistratura italiana è ancora un campo di battaglia, dove le decisioni si prendono a colpi di maggioranza, anche quelle più importanti, come la scelta del procuratore di Roma, una poltrona che vale più di un ministero. Ieri il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha nominato il nuovo capo degli uffici inquirenti capitolini al ballottaggio e qui l' ha spuntata Michele Prestipino Giarritta per 14 voti a 8, dopo che nella prima tornata i consiglieri si erano divisi su tre diversi candidati. Area, il cartello delle sinistre, e una parte di Autonomia e indipendenza hanno votato Prestipino; la corrente centrista di Unicost in prima battuta ha puntato su Giuseppe Creazzo (appoggiato anche da due dissidenti di Ai) e poi su Prestipino; infine i conservatori di Magistratura indipendente hanno sostenuto il loro campione Franco Lo Voi. Pure i laici si sono spaccati: due dei tre 5 stelle hanno sostenuto Prestipino, il terzo ha scelto prima Creazzo e poi Lo Voi; nome, quest' ultimo, che ha convinto anche i due consiglieri di Forza Italia e un leghista, mentre l' altro si è astenuto. Il vincitore della sfibrante disfida ha 62 anni, è nato a Roma da genitori siciliani ed è entrato in magistratura nel 1984, con primo incarico in Abruzzo e una carriera n gran parte spesa nella lotta alla criminalità organizzata. Nel 2012 è diventato procuratore aggiunto della Capitale e dal maggio scorso era procuratore facente funzioni. È l' erede perfetto di Giuseppe Pignatone, che tanti orfani ha lasciato nella Procura di Roma. Infatti Prestipino è stato vice di Pignatone a Roma e a Reggio Calabria, oltre che suo stretto collaboratore a Palermo. Un sodalizio di lunga data a cui vengono attribuiti successi come la cattura del boss Bernardo Provenzano, l' inchiesta Mafia capitale (anche se le accuse di mafiosità sono cadute in Cassazione) e il rinvio a giudizio di Gianfranco Fini per la vicenda della casa di Montecarlo. La nomina di Prestipino rappresenta una «scelta di continuità», auspicata da molti, con la gestione precedente, nonostante i maneggi dei renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri, i quali, con l' appoggio di Palamara, in riunioni carbonare nel maggio scorso avevano provato a tagliare il cordone ombelicale con Pignatone, candidando «a sua insaputa» il pg di Firenze Marcello Viola, il quale avrebbe dovuto segnare una cesura con il metodo Pignatone, inaugurato nel 2012 e che adesso, con Prestipino, potrebbe perpetuarsi sino al 2028. A infastidire il Giglio magico era stata soprattutto la gestione dell' inchiesta Consip. Quando da Napoli era approdata a Roma, a voler credere alle parole del Palamara intercettato, ad alcuni indagati eccellenti sarebbero arrivati segnali rassicuranti o forse vennero fraintesi gesti di cortesia istituzionale. Quel che è certo è che la Procura guidata da Prestipino, come prima prova del fuoco, dovrà esprimersi entro poche settimane su un' eventuale richiesta di rinvio a giudizio, tra gli altri, di Lotti per rivelazione di segreto, di Tiziano Renzi per traffico di influenze e di Denis Verdini per turbativa d' asta e concussione, onde evitare il rischio tangibile di vederli mandare alla sbarra direttamente dal gip Gaspare Sturzo che già due volte ha respinto la richiesta d' archiviazione per l' ex ministro e per il babbo. Dentro al Giglio magico o almeno tra gli avvocati di riferimento, dopo la bocciatura di Viola, c' era chi auspicava che a vincere fosse Giuseppe Creazzo, attuale procuratore di Firenze. «Promoveatur ut amoveatur», suggerivano i latini quando c' era da rendere innocuo un personaggio scomodo. A maggio le microspie degli inquirenti perugini avevano rivelato che i renziani puntavano ad allontanarlo da Firenze, addossandogli la colpa di aver fatto arrestare i genitori dell' ex premier. Ma ieri la speranza di portare a casa almeno questo magro risultato è tramontata già alla prima votazione, quando Prestipino ha totalizzato 10 voti, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi 7 e Creazzo solo 6 (quelli della sua corrente Unicost, di due consiglieri di Ai e di un laico pentastellato). E per questo rimarrà ancora in riva all' Arno. La vittoria del delfino di Pignatone è stato un brutto colpo anche per Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo di Ai che, da ex colleghi di Prestipino e Lo Voi, avevano fatto di tutto per far prevalere Creazzo. I due paladini dell' Antimafia più ortodossa, quella dei Falcone e dei Borsellino, ma anche dei Caselli e degli Ingroia, si sono astenuti quando hanno dovuto scegliere tra due candidati che vedono come fumo negli occhi, anche per l' aver condiviso con loro alcuni procedimenti, come quello contro l' ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro. La nomina di Prestipino susciterà mal di pancia anche tra le toghe considerate non in linea con il nuovo-vecchio corso, come i pm di Magistratura indipendente, passati in pochi mesi dall' euforia all' irrilevanza, dalla quasi nomina di Viola (di Mi) alla sconfitta di Lo Voi. La conferma di Prestipino al vertice della Procura fa tirare un sospiro di sollievo a gran parte dei suoi aggiunti, che, dopo le fughe di notizie sulle mosse dei presunti complottardi, si sentivano in un fortino sotto assedio. I veri vincitori sono, però, le toghe rosé di Area, che dopo la nomina del procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi (membro di diritto del Csm), di due nuovi aggiunti romani e del presidente dell' Associazione nazionale magistrati Luca Poniz, porta a casa un altro importantissimo risultato. Prestipino, nonostante non sia iscritto a nessuna corrente, era il loro candidato, sostenuto con convinzione in tutte le votazioni al plenum. Festeggia a metà Piercamillo Davigo che è stato il relatore della proposta Prestipino, ma ha visto frantumarsi la sua creatura: solo due dei quattro consiglieri eletti in Ai hanno seguito la sua indicazione di voto.

Magistratura ai piedi di Davigo, Prestipino batte i più titolati Creazzo e Lo Voi. Giovanni Altoprati su Il Riformista il 5 Marzo 2020. E alla fine Michele Prestipino ce l’ha fatta. È lui il nuovo procuratore di Roma. Una nomina in “continuità” con la gestione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione lo scorso maggio, e di cui Prestipino è sempre stato il più stretto e fidato collaboratore. Il rapporto fra i due iniziò alla Procura di Palermo alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando Pignatone era il braccio destro del procuratore Giancarlo Caselli e Prestipino un semplice sostituto.  Il voto è arrivato ieri mattina al Csm e ha rispettato le previsioni della vigilia che non lasciavano speranze agli sfidanti Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo. A favore di Prestipino hanno votato i cinque togati di Area, il gruppo di sinistra della magistratura, i tre di Unicost (che inizialmente avevano sostenuto Creazzo, il candidato della loro corrente), Piercamillo Davigo e i suoi due fedelissimi di Autonomia e indipendenza, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, i due laici del M5s Alberto Maria Benedetti e Fulvio Gigliotti, e il pg della Cassazione Giovanni Salvi, esponente di Area. Per Lo Voi hanno votato i tre togati di Magistratura indipendente, il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone, i due laici di Forza Italia Michele Cerabona e Alessio Lanzi e il laico del M5s Filippo Donati. Astenuti i togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, entrambi eletti con Aei ma ultimamente in contrasto con la linea di Davigo, e il laico della Lega Emanuele Basile. Non ha partecipato al voto il vice presidente del Csm David Ermini. L’asse Davigo-Area è uscito, dunque, vincitore anche questa volta. Pur non rappresentando il voto dei circa ottomila magistrati che a luglio del 2018 mandarono a Palazzo dei Marescialli altri consiglieri, Davigo, con i 5stelle a rimorchio, sta ridisegnando nel silenzio dei media i vertici delle Procure e dei Tribunali italiani. Se non fosse esplosa la vicenda “Palamara”, con le dimissioni di ben cinque consiglieri del Csm, di cui tre di Mi, il voto di ieri sarebbe andato in maniera diversa. A maggio, infatti, era uscito vincitore in Commissione per gli incarichi direttivi Marcello Viola, procuratore generale di Firenze ed esponente di Mi. Nomina poi azzerata in quanto il nome di Viola era stato fatto, a sua insaputa, durante la celebre cena intercettata con il trojan fra l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e i consiglieri del Csm poi dimessisi. Per “imporre” Prestipino il Csm è stato costretto a una interpretazione estensiva del Testo unico sulla dirigenza per gli uffici giudiziari. Sulla carta, infatti, Lo Voi e Creazzo avevano molti più titoli. Oltre a essere già procuratori, Lo Voi aveva rappresentato l’Italia a Eurojust, mentre Creazzo era stato vice capo legislativo al ministero della Giustizia. Questa volta, per superare l’handicap del curriculum di Prestipino che era solo aggiunto e non aveva molti titoli, il Csm è ricorso alle “esperienze”. «Sebbene privo di indicatori specifici si è reso protagonista di esperienze pregnanti rispetto all’incarico da conferire, tali da fondare sul piano prognostico il giudizio sulla sua maggiore capacità a porsi a guida dell’ufficio a concorso», è la burocratica formula utilizzata a Palazzo dei Marescialli per motivare la sua scelta. Fra i punti forti, l’indagine su “Mafia Capitale” a cui sono state dedicate molte pagine nel parere per la nomina. Il fatto che la Cassazione abbia smontato il teorema della Procura di Roma, escludendo l’aggravante mafiosa, non ha spostato minimamente il giudizio finale del Csm in quanto «l’indagine ha disvelato caratteristiche del tutto peculiari delle organizzazioni criminali operanti nel territorio di Roma, anche per profili di penetrazione nella pubblica amministrazione e nella politica». La nomina di Prestipino segna un punto a favore del potere delle correnti alla luce dei nuovi rapporti di forza a piazza Indipendenza.  Per la destra giudiziaria di Mi, uscita a pezzi dalla vicenda Palamara, di cui, dopo il clamore iniziale, si sono perse completamente le tracce, si preannuncia una lunga traversata nel deserto. Almeno fine alle prossime elezioni del Csm previste nel 2022. Pesa, a tal proposito, la profonda incapacità dei vertici di Mi di gestire, la scorsa estate, l’accaduto, accettando che i propri consiglieri si dimettessero senza neppure uno straccio di processo e sulla base di articoli stampa.  Per i prossimi due anni il quadro è chiaro. Qualcosa verrà concesso ad Unicost, l’altra corrente coinvolta nel caso Palamara, che però che sta cercando di recuperare terreno. Ieri, ad esempio, ha “scaricato” Creazzo votando Prestipino con la speranza di aver qualche “bonus” nomine in futuro. E infatti già si parla di Creazzo come prossimo procuratore generale di Roma. “Quarantena”, invece, per Mi che, tramontata la leadership di Cosimo Ferri, è ora alla ricerca di un nuovo leader. Corrente “scalabile” in quanto sono tanti i magistrati che non si riconoscono nelle esternazioni dell’ospite preferito di Giovanni Floris o nella sinistra giudiziaria il cui scopo principale, dopo aver fatto fuori Silvio Berlusconi, è togliere ora di mezzo i due Matteo. Primo banco di prova, le elezioni per il rinnovo dell’Anm di marzo.

Da ansa.it il 20 febbraio 2020. Oltre 13 milioni di presenze fantasma (cioè non calcolate dalle statistiche ufficiali del turismo quindi non classificate e irregolari) tra gli affitti brevi a Roma, pari al 55,9% dell'offerta online complessiva. E' la stima prudenziale che emerge dal rapporto sul sommerso ricettivo a Roma realizzato da Sociometrica per l'Ente bilaterale del turismo del Lazio (Ebtl) che parla di situazione "insostenibile". Secondo le stime ufficiali alberghiere ed extralbeghiere le presenze annue a Roma sono 43 milioni 550 mila: quelle in nero incidono per oltre il 30% portando il dato totale a 57 milioni 116 mila.  "È impossibile amministrare una metropoli - spiega il presidente dell'Ebtl Tommaso Tanzilli - senza conoscere la quantità effettiva di fruitori dei suoi servizi pubblici (dai trasporti alla raccolta dei rifiuti, dal traffico alla pubblica sicurezza). Siamo di fronte a un fenomeno che non crea occupazione né investimenti: case di proprietà per la maggior parte gestite da società di property management con pochi addetti e l'uso di molti mezzi di automazione. Non è sharing economy. È un'impresa a tutti gli effetti che ci auguriamo sia tassata come è giusto".

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 18 giugno 2020. «Nonna, non torno. Vado a dormire da un'amica». Si scopre ora che l'ultima telefonata di Desirée Mariottini effettuata la sera prima della scomparsa, era partita dall'Infernetto e dal telefono di un ventenne agli arresti domiciliari per droga proprio all'Infernetto. Un testimone che, se ascoltato, nel processo a carico dei quattro giovani africani accusati dell'omicidio di Desirée, potrebbe aggiungere tasselli sulle ultime ore di vita della sedicenne di Cisterna di Latina, ritrovata morta a 36 ore da quell'ultima chiamata in uno stabile abbandonato di San Lorenzo. La II Corte di Assise scioglierà la riserva sull'opportunità o meno di ascoltare il giovane solo all'esito della istruttoria dibattimentale, ossia nelle battute finali del processo. Nell'udienza di ieri, dedicata alle investigazioni della IV sezione della Squadra Mobile, accusa e difese si sono contrapposte sulla necessità di sentire il nuovo testimone, mai interrogato prima. «L'audizione non intaccherebbe il quadro granitico sugli odierni indagati - ha spiegato il procuratore aggiunto Maria Monteleone - È cruciale conoscere invece le ore vissute dalla ragazza prima del suo arrivo a San Lorenzo - ha ribattuto per le difese l'avvocato Giuseppina Tenga - Anzi, ritengo che l'accertamento andasse fatto nell'immediatezza». La telefonata era stata effettuata la sera del 17 ottobre. La mattina del 19, non avendo ricevuto analoga chiamata la sera prima, i familiari di Desirée avevano sporto denuncia per la sua scomparsa. Ma era tardi. La ragazza era stata appena trovata morta nello stabile di San Lorenzo. L'autopsia rivelerà che era morta per un cocktail di stupefacenti e medicinali assunti a partire da ventiquattro ore prima e anche abusata. Il processo, incardinato a gennaio e sempre svolto a porte chiuse, vede imputati per omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di stupefacenti a minori, quattro cittadini ghanesi e nigeriani, Yussef Salia, Alinno Chima, Mamadou Gara e Brian Minteh. Gli imputati si sono finora difesi sostenendo di non aver provocato loro la morte della giovane. «Abbiamo consumato insieme alcuni stupefacenti, senza assolutamente l'intenzione di uccidere». Secondo la madre e la zia di Desirée, ascoltate nelle scorse udienze, la ragazza non avrebbe fatto uso di stupefacenti. Per gli investigatori ascoltati ieri invece la minorenne si sarebbe recata a San Lorenzo alla ricerca di stupefacenti, perché probabilmente in crisi di astinenza.

Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 16 aprile 2020. Spacciava droga insieme con alcuni complici sulla piazza di Cisterna di Latina. Gianluca Zuncheddu, il padre di Desirée Mariottini, la sedicenne violentata e uccisa la notte del 19 novembre 2018 in un palazzo abbandonato a San Lorenzo, è stato arrestato dai carabinieri nel corso di un’operazione antidroga nella quale sono state eseguite otto ordinanze di custodia, tre delle quali a persone già detenute. Secondo i militari dell’Arma della compagnia di Latina e Aprilia proprio due anni fa, da febbraio ad agosto, Zuncheddu ha gestito la consegna di cocaina, hashish e marijuana a casa dei clienti insieme con una coppia di pusher ed era il referente del gruppo nella cittadina dove risiedeva anche la figlia. Fra gli otto arrestati di giovedì mattina ci sono anche i due presunti responsabili dell’agguato a colpi di pistola contro la vettura di un maresciallo dei carabinieri in servizio proprio presso la stazione dell’Arma di Cisterna che stava indagando sul gruppo di spacciatori. All’epoca dei fatti, la notte del 19 maggio di due anni fa, l’auto del sottufficiale venne presa di mira in via Carlo Alberto dalla Chiesa proprio davanti al suo alloggio. Quattro colpi di pistola, poi gli attentatori fuggirono su una vettura che venne ritrovata bruciata fuori da Cisterna. Fin dall’inizio le indagini si concentrarono su quanto i carabinieri stavano facendo per contrastare le bande di spacciatori nella zona. Dall’indagine sul commercio al dettaglio degli stupefacenti sono anche emersi episodi di intimidazioni ed estorsioni.

Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 17 aprile 2020. Che padre è uno che ha vissuto il dramma di una figlia stuprata e uccisa a soli 16 anni con un mix di droghe da un gruppo di pusher africani ma dirige una piazza di spaccio nella sua città? Non sappiamo se Gianluca Zuncheddu, 39 anni, sul braccio per sempre il tatuaggio del volto di sua figlia, abbia continuato nella sua attività dopo quel 19 ottobre 2018 che ha sconvolto anche la sua vita, ma il suo arresto, avvenuto ieri mattina a Cisterna di Latina in un blitz antidroga dei carabinieri (per fatti avvenuti tra febbraio e agosto di quello stesso anno), suona come l' ultimo oltraggio alla memoria di Desirée Mariottini, massacrata nella notte tra il 18 e il 19 ottobre di due anni fa nello squallore di quel palazzone abbandonato di via dei Lucani a San Lorenzo a Roma, allora come ora terra di nessuno se non delle bande di spacciatori che per poche decine di euro vendono sballo, sesso di gruppo e morte. C' era finita per caso quella sera a San Lorenzo Desirée, portata a Roma da un' amica più grande, il suo primo buco, sembra, dopo almeno un anno di canne e sniffate. L' hanno ritrovata all' alba avvolta in un piumone in uno stanzone deserto abbandonata agonizzante da quei quattro pusher africani, poi arrestati, che l' hanno lasciata morire lì da sola nel tentativo di salvarsi. «Io l' ho visto in aula quel padre, un padre distrutto. Non ci può essere punizione peggiore per uno che spaccia droga che vedersi morire la figlia uccisa da pusher - dice il procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone - . E però voglio dire con grande crudezza che di Desirée in giro ce ne sono tantissime e sempre più giovani. Ragazzine anche di 12-13 anni che subiscono il dramma di genitori inadeguati, di mancanza di rapporti affettivi familiari e di una rete di sostegno sociale e finiscono in giri di droga e di prostituzione minorile. Me le vedo passare davanti ogni giorno e non è solo un problema di livello sociale, anzi». Non era l' amore dei genitori che mancava a Desirée. Barbara Mariottini, la giovanissima mamma-sorella che l' aveva avuta a soli 19 anni e le ha dato il suo cognome, ha fatto di tutto per salvarla scontrandosi con il muro di gomma della società che non vede, non sente, non agisce: scuola, servizi sociali, giudici minori. «Eppure siamo state felici», ripete scorrendo quegli infiniti album di foto di lei e della sua Desy. Ma anche per Gianluca Zuncheddu, quella figlia nata da un rapporto tra ragazzi e finito poco dopo, era «tutta la sua vita». Per lei aveva voluto esequie indimenticabili, palloncini bianchi e lilla e fuochi d' artificio davanti ai palazzoni del quartiere di San Valentino, le magliette bianche con su stampate il volto di padre e figlia indossate da decine di giovani del quartiere, teste rasate e braccia e colli tatuati come lui, i cartelli da stadio con su scritto "giustizia per Desirée" e, a tutto volume, la canzone di Jovanotti "E per te". Da quel 19 ottobre del 2018, come per Barbara Mariottini, anche per Gianluca Zuncheddu la morte di Desy è diventata un' ossessione: sul suo profilo facebook, un giorno dietro l' altro, fino a Pasquetta, foto, cuori e dichiarazioni di amore per quella figlia che lui, che spacciava droga ad altri ragazzi come Desy, non è riuscito a salvare. «Ci ho provato, ma non ho potuto fare niente », ha ammesso piangendo al processo in corso a porte chiuse in corte d' assise a Roma. Erano in tanti a Cisterna di Latina, nei giorni immediatamente successivi alla terribile fine di Desirée, a pensare che Zuncheddu, che conosceva bene quei giri di droga, sarebbe andato a prendere con le sue mani gli assassini-stupratori di sua figlia. Era già andato a riprenderla una volta, qualche settimana prima, quando Desirée non era tornata a casa e la madre, disperata, aveva finito per rivolgersi a lui. Gianluca l' aveva trovata, l' aveva riportata a casa ma si era beccato pure una denuncia da parte della figlia per aver violato quel decreto del giudice che gli impediva di avvicinarsi a madre e figlia. Ma forse era già troppo tardi per salvarla. Desy, 16 anni, un viso pulito, un sorriso timido e il suo male dentro come tantissime altre ragazze della sua età, il complesso per quel lieve difetto a un piede che la faceva sentire diversa dalle altre. Una fragilità acuita forse da una famiglia che si è accorta troppo tardi che quel disagio era diventato per lei un macigno. «Mi hanno accusato di non essermi occupata di lei e questo mi ha fatto un gran male - è lo sfogo della mamma - Desy era dolce, timida, sensibile. Per ovviare al malessere dell' adolescenza aggravato da un suo disagio fisico era seguita da una psicologa privata. Poi sono cominciate le canne e ho attivato i servizi sociali, il Sert. Ma la verità è che ti rivolgi a tutti ma ti ritrovi senza strumenti». Un dramma davanti al quale il procuratore aggiunto Monteleone ammette: «Siamo colpevoli tutti, i genitori distratti, la scuola è quella che è, i servizi sociali inadeguati, gli stessi tribunali minorili. La verità è che non abbiamo una rete sociale capace di affrontare questa situazione».

«Io l’avrei salvata». Al processo per l’omicidio Desirée parla il padre. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. A trentasei anni Gianluca Zuncheddu ha già conosciuto un lutto inesprimibile: la perdita di una figlia. Neppure il vocabolario ti aiuta: manca la parola che descriva la condizione di un genitore privato di un figlio. È il suo giorno nell’aula bunker di Rebibbia dove si celebra il processo per la morte di Desirée Mariottini, la sedicenne stuprata e uccisa da un mix di sostanze stupefacenti in via dei Lucani il 18 ottobre 2018. E lui, ascoltato in coda a una lunga serie di testimoni (fra i quali i medici legali che si occuparono della vicenda), risponde, spiega, racconta. Poi, durante il controesame si fa più riluttante, meno concreto, più esitante: «Io l’avrei salvata se avessi potuto intervenire» dice l’uomo di strada che è in lui, già coinvolto in un’inchiesta per spaccio di stupefacenti. Zuncheddu parla, ad esempio, della volta in cui la riportò a casa, dopo che lei si era resa introvabile, e lei glielo fece pesare, denunciando di aver violato il divieto di avvicinamento disposto dal giudice dopo la separazione dalla moglie, Barbara Mariottini. Un’età complicata quella di Desirée. Resa più aspra da un’handicap al piede che pareva condizionarla rendendola più insicura e ancora più infelice. Un dato, quello dell’introversione della ragazza, che le difese tenteranno di utilizzare a proprio vantaggio. Come se la narrazione di una ragazza complessa potesse distrarre dalla brutalità dei fatti ricostruiti dall’aggiunto Maria Monteleone e dal sostituto Stefano Pizza. Quando la notizia della morte di Desirée è arrivata il padre era agli arresti domiciliari ma oggi in aula allude ad approfondimenti svolti in prima persona: «Sono stato a San Lorenzo — dice — e ho saputo lo squallido retroscena sulla morte di mia figlia». Desirée, dice di aver ricostruito suo padre, sarebbe stata venduta agli spacciatori da una delle ragazze del giro di via dei Lucani. Circostanze che non sarebbero emerse in sede di indagine affiorano ora durante il dibattimento, possibile? Zuncheddu risponde con le lacrime ad alcune domande. È provato ma appare sincero, autentico nel suo dolore. Quanto ad Alinno Chima, detto «Cisco», uno degli imputati al processo, la Cassazione ha confermato le motivazioni per convalidare la custodia in carcere nei suoi confronti. Le ragioni? «L’assenza di qualunque integrazione dell’indagato sul piano socio-economico in particolare per quanto concerne la disponibilità di lecite fonti di guadagno, la spiccata capacità a delinquere tratta dalla diuturna attività di spaccio e dalla estrema gravità del fatto» scrivono i giudici riferendosi, di fatto, al pericolo di fuga che potrebbe verificarsi se «Cisco» fosse scarcerato. Commenta il difensore, l’avvocato Giuseppina Tenga: «Il Riesame ci aveva dato ragione, ora la Cassazione respinge le nostre richieste. Vedremo cosa stabiliranno i giudici al processo dove ci pare si stia facendo chiarezza».

La mamma di Desirée  in aula. «Lei soffriva, io ho chiesto aiuto». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. «Noi due siamo state felici».Nuova udienza sul caso della 16enne morta di overdose dopo essere stata drogata e violentata. Desirée che indossa abiti goffi. Desirée che si sforza di nascondere la propria femminilità. Desirée che, giorno dopo giorno, si chiude nel profondo di sé stessa. Insomma Desirée Mariottini nelle parole di chi l’ha conosciuta e amata, la mamma, le zie, i nonni. Entra nel vivo il processo (celebrato a porte chiuse) per l’omicidio della sedicenne trovata morta in un container del quartiere san Lorenzo il 19 ottobre 2018 con in corpo un mix di sostanze stupefacenti. La prima testimonianza è quasi una prova di sopravvivenza: Barbara Mariottini, la mamma, deve superare le pressioni della difesa che vuole disegnare uno scenario di abbandono attorno alla vittima, drogata, stuprata e lasciata morire. Ma Barbara, devastata eppure composta, risponde, racconta, spiega. La vacanza con la figlia a Terracina («Noi due felici»). Il disagio di Desirée per l’handicap al piede («Si chiudeva in sé stessa») fino al rapporto conflittuale con il proprio corpo. Poi la consapevolezza che la figlia stava sperimentando cocaina e hashish e le denunce, quattro nel giro di un anno alle forze dell’ordine e ai servizi sociali («Ho chiesto aiuto a tutti quelli a cui era possibile farlo»). E ancora: gli episodi controversi. Quella volta che lei, la mamma si risolse a chiedere aiuto al padre(dal quale era separata e che aveva un divieto di avvicinamento del giudice) perché Desirée era introvabile: «Me la riportò ma lei lo denunciò perché aveva violato il divieto di avvicinamento». L’altro caso, poco prima della morte, con l’arresto di Desirée per possesso di sostanze stupefacenti che in realtà, emerge, sarebbero state di due ragazze maggiorenni con le quali la ragazza era uscita quel giorno. Su tutto, lo strazio per la via imboccata dalla figlia. La narrazione di due solitudini, quella di una madre che fatica a comunicare con la figlia e l’altra di una figlia avvitata nella sua stessa introversione. Diverse le interpretazioni offerte in aula. C’è chi come Claudia Sorrenti che assiste le parti civili si dice «convinta che l’udienza ha permesso di approfondire la storia di questa giovane donna ma non ha ancora spiegato i drammatici fatti di quella notte». E si dice fiduciosa che «i consulenti e la polizia scientifica con le loro testimonianze facciano chiarezza». E c’è invece chi, come gli avvocati delle difese sottolinea la difficoltà a gestire la ragazza. Gli imputati Yusif Salia, Mamadou Gara, Brian Minteh e Chima Alinno sono accusati di concorso in omicidio volontario e violenza sessuale di gruppo, e della cessione di sostanze narcotiche e psicotiche, reati aggravati dall’età della ragazza e dalla condizione di impossibilità di difendersi in cui era stata ridotta, dai futili e abietti motivi. Dice Giuseppina Tenga che assiste il nigeriano Alinno: «Più si va avanti nel dibattimento e più emerge il dramma umano della famiglia della vittima». Il 27 gennaio saranno ascoltati il padre e il nonno ma anche gli agenti della squadra mobile che hanno svolto le indagini del pm Stefano Pizza e della coordinatrice del pool dei reati sessuali Maria Monteleone.

"Desirèe fu stuprata da vergine": ora medico smentisce i pusher. Al processo per la morte della 16enne, il medico avrebbe confermato la possibilità che la ragazza fosse ancora vergine al momento dello stupro. Il padre: "Ho cercato di salvarla". Francesca Bernasconi, martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Desirèe Mariottini era vergine quando è stata violentata". Lo aveva ipotizzato il medico legale dopo aver effettuato l'autopsia sul corpo della 16enne trovata morta in uno stabile abbandonato a San Lorenzo, il 18 ottobre del 2018. E ora, secondo quanto riporta il Messaggero, l'ipotesi sarebbe stata riconfermata ieri, a Rebibbia, davanti ai giudici della III Corte d'Assise, nel processo per la morte della ragazza. La 16enne non sarebbe stata pronta a tutto pur di procurarsi la droga e non si sarebbe prostituita e il medico legale che ha svolto l'autopsia, sentito ieri insieme all'anatomopatologo, ha confermato che le lesioni sul corpo di Desirèe sono compatibili con una violenza sessuale e avrebbe anche riferito la possibilità che la ragazza fosse ancora vergine al momento dello stupro, date le "lesioni all'imene". Al processo ha parlato anche il papà di Desirèe, Gianluca Zuncheddu, che tra le lacrime ha detto: "Ho cercato di salvarla ma non ho potuto fare niente". L'uomo ha riferito ai giudici di aver notato un cambiamento in sua figlia e di aver trovato una carta stagnola bruciata, ma non avrebbe potuto fare nulla, dato il divieto di avvicinamento verso la madre della 16enne, sua ex compagna. Sul banco degli imputati ci sono quattro cittadini africani: si tratta di Alinno Chima, Mamadou Gara, Yussef Salia e Brian Minthe, tutti accusati di omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di droga a minori. Intanto. la Cassazione ha confermato la custodia cautelare in carcere per Alinno Chima, detto Sisco, dichiarando inammissibile il ricorso dell'imputato contro l'ordinanza del Riesame che stabiliva la necessità della custodia cautelare in carcere. I giudici hanno riferito che "il rinvenimento delle tracce biologiche di 'Sisco'" su uno dei flaconi di metadone "costituisca conferma" della disponibilità di tali flaconi. Inoltre, la Corte ha ritenuto valido il rischio "del pericolo di fuga e di reiterazione nella commissione di reati". Al processo sono stati sentiti anche i familiari di Desirèe, tra cui la mamma Barbara, le zie e la nonna, che hanno ricostruito i giorni precedenti alla morte della 16enne. Commosse, le 4 donne hanno ricordato il carattere timido e riservato della ragazzina: "Evitava anche di spogliarsi davanti a noi - avrebbe detto la zia, secondo il racconto del Messaggero - Non era drogata, no. Io ho undici anni più di Desirée. Eravamo come sorelle. Da piccole ci scambiavamo i giocattoli, da grandi i vestiti. La portavo a vedere le mostre di Monet. Non aveva mai avuto un fidanzato, mai intimità. Me lo avrebbe detto, mi confidava tutto". "Non era una tossicodipendente- avrebbe detto ai giudici la madre- esageravo nei racconti perché speravo che così attivassero più ricerche e soprattutto che potesse intervenire un giudice che la costringesse ad andare in una comunità per minori problematici".

Adelaide Pierucci e Raffaella Troili per “il Messaggero” il 28 gennaio 2020. Non conosceva l'amore, impacciata e fragile aveva protetto quella parte di sé. Non aveva mai avuto un fidanzato, come tanti adolescenti inseguiva sogni e fuggiva, risucchiata da debolezze più grandi di lei. Quando è inciampata nell'orrore. E ha perso la verginità e la vita. L'aveva detto la nonna, «era poco più di una bambina», come pure i familiari, convinti. Ora la conferma: «Desirée Mariottini era vergine quando è stata violentata», hanno riferito ieri in aula gli esperti chiamati a eseguire l'autopsia sul corpo della 16enne trovata morta in uno stabile abbandonato e occupato in via dei Lucani a San Lorenzo il 18 ottobre 2018. Desirée non era pronta a tutto, in quel covo dove si spacciava droga non era andata per trovare roba a tutti i costi, anche vendendo il suo corpo. Era piuttosto una sprovveduta, che si è fidata di persone sbagliate e tutto questo rende ancor più doloroso ripercorrere gli ultimi momenti di vita della giovane di Cisterna, un'adolescente problematica, tanto che la madre le aveva provate tutte perché fosse ricoverata in una comunità. Inafferrabile, come sono i ragazzi, che davvero poco a volte conosciamo davvero, per quante maschere indossano, spavaldi quanto imberbi. Quanta più cura possibile non rende immuni da sconfitte crudeli. Le trecce colorate e l'apparecchio ai denti, le stravaganze, vanificate dallo sguardo dolce e inquieto, nonostante quel filo di rossetto. Ugo di Tondo, docente di Anatomia patologica e Dino Tancredi, medico legale, entrambi della Sapienza, hanno riferito davanti alla Corte d'Assise chiamata a giudicare quattro giovani africani, di un «rapporto sessuale violento» e «lesioni all'imene» tali da evidenziare che la giovane abbia perso la verginità contro la sua volontà, stordita, offesa, lasciata morire in un vecchia stamberga covo di sbandati, nel quartiere San Lorenzo. Durante il processo si è via via delineata una verità atroce, che rende un poco giustizia alla giovane, drogata e stuprata, una violenza di gruppo a cui il suo cuore non ha retto e si è arreso come lei, per overdose. «Quando è stata trovata era morta da quattro, cinque ore, aveva escoriazioni alle braccia». Forse ha lottato, fin quando è crollata stordita. Il papà, Gianluca Zuncheddu, ascoltato ieri ha raccontato così la sua Desirée: «Era una ragazza debole, se avessi potuto riprendermela l'avrei tirata fuori, l'avrei salvata». L'uomo una settimana prima era andato a casa dell'ex moglie, «volevo portarla via, poi ho visto che aveva del vino nella borsa e le ho dato due schiaffi e sono stato arrestato, giacché c'era nei miei confronti un divieto di avvicinamento per stalking». Dopo la morte della figlia è andato a San Lorenzo: «A cercare la verità, ho svolto mie personali indagini. E scoperto che Desirée era stata tradita, venduta da due amiche, due ragazze di colore. Mia figlia le aveva cercate perché una di loro si era presa il suo tablet». Desirée era esile e timida e soffriva di una lieve zoppìa, hanno testimoniato in precedenza la mamma, la zia e la nonna materna. «Evitava anche di spogliarsi davanti a noi - ha detto la zia - Non era drogata, no. Io ho undici anni più di Desirée. Eravamo come sorelle. Da piccole ci scambiavamo i giocattoli, da grandi i vestiti. La portavo a vedere le mostre di Monet. Non aveva mai avuto un fidanzato, mai intimità. Me lo avrebbe detto, mi confidava tutto. Era stata bullizzata a scuola. La prendevano in giro per il suo problema al piede, una compagna in particolare». Ma prima della scomparsa aveva salutato la mamma dicendo: «Domani andiamo a fare l'iscrizione a scuola». Voleva lasciare l'Agrario per l'Artistico. Non è più tornata a casa. «Seguivo passo passo Desirée ma a volte lei non era gestibile», ha ricordato in lacrime, la mamma Barbara, nell'aula bunker di Rebibbia di fronte alla Corte di Assise chiamata a giudicare per la morte della figlia, Yussef Salia, Alinno Chima, Mamadou Gara e Brian Minthe, ghanesi e nigeriani, tutti accusati di omicidio volontario, violenza sessuale aggravata e cessione di stupefacenti a minori. «Ho presentato quattro denunce di scomparsa - ha spiegato - ogni volta che tardava avvertivo la polizia, appena tornava le ritiravo. L'ultima volta è stata via due giorni. Non l'abbiamo più riabbracciata». «Ma non era una tossicodipendente esageravo nei racconti perché speravo che così attivassero più ricerche e soprattutto che potesse intervenire un giudice che la costringesse ad andare in una comunità per minori problematici. Una volta le ho trovato nello zainetto un piccolo involucro vuoto. Sono andata al Sert e ai Servizi sociali. Chiedevo sempre aiuto. Mi dissero che c'erano tracce di cocaina». Battaglie perse, fughe, bugie. Desirée era solo un'adolescente drogata di libertà, un angelo fragile. Precipitata in un giro sbagliato, da cui forse era attratta come accade a quell'età e attirata in una trappola. Drogata e stuprata, in una bettola senza traccia d'amore.

Buche a Roma, soldi dirottati: indagini anche sui Municipi. Le Iene News il 27 gennaio 2020. L’inchiesta della procura si allarga anche ai 15 municipi della Capitale. Il sospetto è che i soldi destinati alla manutenzione delle strade siano stati dirottati per comprare scrivanie e andare al museo. Intanto 3 ragazzi sono morti per quelle maledettissime buche di Roma come ci ha raccontato Cristiano Pasca. L’inchiesta sulle buche di Roma si allarga dal Campidoglio ai 15 municipi della Capitale. I soldi destinati a riparare le strade sarebbero, secondo l’accusa, finiti in altri capitoli di spesa. L’accusa che si potrebbe profilare è quella di abuso d’ufficio anche se al momento non ci sarebbero iscritti nel registro degli indagati. L’inchiesta è partita lo scorso settembre da un esposto del Codacons che ha ipotizzato che i soldi del Comune per la manutenzione stradale siano stati usati per altri scopi oppure per finanziare anche i bonus o indennità per i vigili. La procura ha acquisito bilanci e contratti d’appalto dei 15 municipi. C’è anche il sospetto di lavori fantasma, annotati nei documenti ma mai realizzati. Insomma, chi doveva vigilare sembrerebbe che non l’abbia fatto. Solo nei primi sei mesi del 2019, gli agenti della Municipale hanno registrato 1 milione e 100mila infrazioni (10% in più rispetto allo stesso periodo del 2018). Una parte dei ricavi di queste multe sarebbero dovuti servire per tappare le buche sulle strade di Roma che continuano a uccidere persone, soprattutto giovanissimi. Con Cristiano Pasca abbiamo raccontato il dramma di questi ragazzi morti per colpa di queste maledettissime buche. Il 6 maggio 2018 è toccato a Elena Aubry, noi de Le Iene abbiamo ascoltato la testimonianza della mamma della 25enne (clicca qui per il servizio). Lo stesso destino crudele è toccato il 12 dicembre 2018 a Luca Tosi Brandi, come potete vedere nel video qui sopra. Aveva 20 anni e quel giorno stava tornando a casa dopo aver preso un bel voto a un esame all’università. A un certo punto forse proprio una buca gli avrebbe fatto perdere il controllo della sua moto. “Si vede il ragazzo che arriva in motorino, entra in una buca al centro della strada. E in quel momento inizia a perdere il controllo del mezzo e va purtroppo a schiantarsi contro lo spigolo di una villa”, ricostruisce Domenico Musicco, il legale della famiglia di Luca. Effettivamente guardando il video sembrerebbe che il ragazzo avrebbe perso il controllo del mezzo subito dopo che la ruota anteriore è entrata in una buca: “La colpa è dell’Amministrazione”, conclude il legale. “Io non ho più riabbracciato mio figlio, l’ho visto poi dentro a un sacco”, dicono i genitori. Intanto sulle strade di Roma si continua a morire. Cristiano Pasca chiede alla sindaca Virginia Raggi perché questi soldi verrebbero spesi in altro. Ora anche la Procura vuole vederci chiaro.

Morte Elena Aubry, 6 indagati per omicidio stradale: “Manutenzione assente”. Notizie.it il 2 agosto 2020. Chiusa l'inchiesta sulla morte di Elena Aubry, deceduta a Ostia a causa dell'asfalto sconnesso: chi doveva salvaguardare la strada non l'ha fatto. Erano circa le 10.30 del 6 maggio 2018 quando Elena Aubry perse la vita in un incidente in via Ostiense, all’altezza del Cineland, a Ostia. La 26enne alla guida della sua moto, una Honda Hornet 600, ha perso il controllo a causa dell’asfalto sconnesso e si è schiantata contro il guard rail. La ragazza è morta sul colpo. La madre non si è mai data pace e da anni chiede giustizia per la figlia così prematuramente strappata alla vita. Parlando di “quello schifo di strada“, mamma Graziella commentava così quanto accaduto alla figlia: “La strada è devastata. Mi chiedo come sia possibile che una strada così importante sia tenuta così male”. “Un testimone ha riferito di averla vista sobbalzare all’improvviso, nonostante andasse piano. Mia figlia guidava sempre con prudenza”, raccontava la madre. A distanza di poco più di due anni da quel drammatico incidente, si è conclusa l’inchiesta sulla morte di Elena Aubry. Sono 6 le persone indagate per omicidio stradale. Roma e le sue buche continuano a seminare morte. Per l’omicidio stradale di Elena Aubry, la procura ritiene che la responsabilità sia di chi avrebbe dovuto salvaguardare la strada, ma non lo ha fatto. Così a finire nel registro degli indagati sono due dirigenti del Simu, il dipartimento Sviluppo infrastrutture e manutenzione del Campidoglio, e un collega del municipio di Ostia che si occupa di manutenzione stradale. Con loro è accusato anche il responsabile della ditta che ha steso l’asfalto e i due delegati che dovevano controllare periodicamente che non vi fossero buche e che non l’hanno fatto. Il reato non è omicidio colposo, ma stradale, per il quale sono previste pene più severe. Chiuse le indagini, verrà presentata la richiesta di rinvio a giudizio. Dopo essersi sfogata contro chi aveva rubato le ceneri della sua Elena, Graziella Viviano, madre della giovane motociclista, ha commentato la chiusura dell’inchiesta: “Spero che il processo imponga quanto dovrebbe essere ovvio: le strade vanno curate altrimenti si muore. Purtroppo c’è voluta la morte di mia figlia per svelare quanta indifferenza c’è su questo tema nella pubblica amministrazione”.

La scure del Comune sui pini di Roma, alla faccia delle politiche "green" della Raggi. L'ipotesi dell'abbattimento indiscriminato dei pini marittimi di Corso Trieste ha riacceso i riflettori sull'annosa questione della tutela del verde di Roma: "Si preferisce tagliare invece che curare". Elena Barlozzari, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Gli iconici pini marittimi di Corso Trieste sono sorvegliati speciali del Comune di Roma. La politica della prevenzione, da tempo, in questa città, è stata messa da parte. E così, l'ennesimo crollo, nel quale è rimasta addirittura coinvolta un'automobilista, ha messo l'amministrazione con le spalle al muro. Dopo aver ignorato i continui campanelli d'allarme, il Campidoglio si è trovato di fronte all'ennesima emergenza. Che fare? Tra le soluzioni strategiche messe in campo dal dipartimento Tutela ambiente nel corso di un vertice straordinario ce n'è una che ha sollevato una vera e propria levata di scudi. Si parla dell'abbattimento di 157 piante su 160. Una soluzione drastica che, qualora venisse adottata, stravolgerebbe irrimediabilmente la fisionomia del quartiere. Residenti e comitati sono sul piede di guerra. Pronti a difendere con le unghie e con i denti il doppio filare di alberi disegnato dall'architetto De Vico negli anni Trenta. "Non tutti i pini della strada sono arrivati a fine vita - tuona Emanuela Migheli, del comitato Salviamo i Pini di Corso Trieste - perché nel corso del tempo sono state effettuate delle sostituzioni". "Certo, - ammette l'attivista - sappiamo che ci sono delle criticità, ma non crediamo sia necessario desertificare il corso". Insomma, per la Migheli, il taglio indiscriminato non può e non deve essere la soluzione. "Non si demolisce un edificio solo perché alcune delle sue parti sono da sostituire, ecco - riflette Susanna Spafford, presidente dell'associazione Amici dei Pini di Roma - vorremmo che anche per il filare di Corso Trieste si ragioni in questi termini". I pini, sostengono in coro le attiviste, non sono pericolosi di per sé. La trovata dei tecnici capitolini non convince neanche gli amministratori locali. "Il problema della sicurezza dei cittadini esiste e non va sottovalutato - puntualizza Rino Fabiano, assessore all'Ambiente del II Municipio - tuttavia ci opporremo alla desertificazione di Corso Trieste. É d'accordo anche il consigliere di Fratelli d'Italia Holljwer Paolo che ha già presentato una mozione sull'argomento. "Quello che chiediamo è un serio monitoraggio delle alberature da parte del Comune di Roma per capire quali sono effettivamente le piante da abbattere", spiega l'esponente di centrodestra. "Gli alberi irrecuperabili - sottolinea - vanno eliminati e sostituiti con le stesse essenze arboree, mentre quelli salvabili vanno curati". Il caso ha inevitabilmente rimesso al centro del dibattito l'annosa questione della tutela del verde di Roma che, nel corso delle ultime amministrazioni, è stata lentamente trascurata. E così la situazione di Corso di Trieste è diventa emblema di un fenomeno che riguarda l'intera città. "Se gli alberi cadono, - chiarisce Fabiano - cadono per una mancanza di cura". D'altronde, prosegue l'assessore, "per la manutenzione del verde orizzontale sono stati investiti appena 5milioni di euro, mentre il fabbisogno sarebbe di 300milioni". Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Da quando il servizio giardini è stato smantellato, spiega la Stafford, "la manutenzione del verde di Roma è stata affidata sostanzialmente a dei taglialegna, a ditte non specializzare sulla base di capitolati generici, e si è pensato solo a tagliare e mai a curare". Un vero paradosso nell'era di Greta Thumberg e dell'ossessione "green". Soprattutto in una città come Roma, la più verde d'Europa. Dove nel nome della lotta alle polveri sottili vengono squalificate le auto diesel per intere giornate. "É assurdo che un'amministrazione che si ammanta di condurre politiche ambientaliste poi prenda in considerazione una proposta del genere", attacca la Migheli. Il cortocircuito è servito. D'altronde, come insegnano anche i fatti di Monte Carnevale, questa è la città delle eterne contraddizioni.

Mario Landi per leggo.it il 21 gennaio 2020. Dieci giorni e un'intera mattinata fermi, completamente fermi nell'ingorgo- Immaginate che inferno: eppure accade regolarmente a Roma, seconda città al mondo per ore perse nel traffico urbano. Ben 254, preceduta solo da Bogotà. Milano, con 226 ore (in pratica 9 giorni e mezzo in un anno), è settima. La Global scorecard della società americana Inrix è impietosa soprattutto con l'Italia nell'analisi dei trend della mobilità e della congestione urbana in 200 città di 38 Paesi, riferito al 2018. Nella parte alta della classifica ci sono infatti molte rappresentanti del Belpaese: basta scorrere fino al quindicesimo posto per trovare Firenze, mentre al diciassettesimo c'è Napoli. Chiude la top 100 mondiale made in Italy Palermo, città dove nel film di Roberto Benigni Johnny Stecchino si celebrava ironicamente il traffico come il più grave problema urbano: il capoluogo siciliano viene collocato all'83esima posizione, grazie alle 119 ore buttate con il motore acceso dell'auto ma sostanzialmente fermi per strada.

IL METODO. Ma come vengono elaborati queste classifiche? Per ciascun'area metropolitana, l'analisi di Inrix (proprietaria di un archivio dei dati che include diversi anni) considera i rilevamenti forniti dalla propria rete sulle principali autostrade e arterie stradali. Le varie analisi incluse nel rapporto comprendono due elementi portanti: la velocità di riferimento in condizioni ottimali e la velocità calcolata, in cui vengono considerate tutte le velocità archiviate in periodi di 15 minuti nell'arco di un giorno e di un mese per ogni segmento stradale.

LE PIÙ CONGESTIONATE. Perdere molto tempo fermi nel traffico non corrisponde però alla graduatoria delle città più congestionate: i dati confluiscono infatti in un'altra classifica generale, che tiene conto degli ostacoli complessivi nell'attraversare una metropoli in auto. Roma (seconda al mondo per ore perse nel traffico) resta nella top ten, al decimo posto. Milano si attesta al 27esimo, Napoli al 45esimo, Torino al 50esimo, Genova al 78esimo, Palermo all'83esimo, Firenze al 92esimo, Bologna al 116esimo. Il titolo di città più congestionata al mondo va a Mosca, seguita da Istanbul.

Roma seconda al mondo per ore perse nel traffico: sono 254 all’anno per ogni cittadino. Redazione de Il Riformista il 20 Gennaio 2020. Roma e Milano sono tra le città peggiori al mondo per le ore perse nel traffico. Secondo il Global card scorecard di Inrix, a Roma nel 2018 si sono passate in media 254 ore l’anno nel traffico veicolare: più caotica solo Bogotà, con 272 ore. Al terzo posto Dublino (246 ore), davanti a Parigi (237), la russa Rostov-on don (237) e Londra (227). Settimo posto per Milano con 226 ore. A livello europeo, nella classifica delle città più trafficate guida la classifica Mosca, seguita da Istanbul e Londra, al quarto posto San Pietroburgo.

LE ACCUSE DAL CODACONS – La ricerca che vede Roma al secondo posto nella classifica mondiale per ore perse nel traffico dimostra, secondo il Codacons, “come la viabilità nella capitale sia al collasso, a danno degli automobilisti che sprecano tempo prezioso imbottigliati ogni giorno nelle proprie autovetture”. “Si tratta di una vera e propria violenza verso i cittadini, che sprecano ogni anno 254 ore nel traffico – spiega il presidente Carlo Rienzi – Dati così disastrosi sono motivati dall’incapacità dell’amministrazione da un lato di incentivare l’uso dei mezzi pubblici, dall’altro di garantire un servizio di metro, bus e tram adeguato ed efficiente”. “I romani non si fidano del trasporto pubblico e continuano a muoversi in auto alimentando il traffico – prosegue Rienzi – L’assenza di vigili urbani sulle strade, la sosta selvaggia e altre criticità croniche della viabilità capitolina, aggravano le code chilometriche su numerose arterie, con la conseguenza che i cittadini subiscono una vera e propria violenza rimanendo per ore imprigionati nelle proprie auto”.

Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti per ilgiornale.it il 13 gennaio 2020. Le Mura aureliane hanno difeso la capitale dell'Impero dall'avanzata dei barbari, ma Roma le ha dimenticate, lasciandole in balia di degrado e accampamenti abusivi. Basta costeggiarle a piedi per rendersene conto. In alcuni casi la vegetazione è così fitta da oscurarle. Le cinta murarie sono spesso minate dalle piante infestanti o imbrigliate da eterne recinzioni. Bottiglie di birra e siringhe, invece, raccontano delle notti brave, quelle che si consumano quando il monumento si popola di clochard e sbandati. Lungo i quasi tredici chilometri di Mura che cingono il centro della città, tutto parla la lingua dell'abbandono. "Ogni tanto c'è qualche intervento spot, ma dopo poco - ci spiega Paolo Peroso, dell'associazione Amici di Porta Pia - la situazione ritorna come prima". "Si lavora sempre sull'emergenza - accusa - e non nel quotidiano". È il caso della maxi baracca comparsa qualche tempo fa a ridosso della fortificazione, all'altezza di Corso d'Italia. "L'hanno buttata giù - racconta Peroso - ma nessuno è venuto a portare via la sporcizia". E così, è ancora possibile ammirare una distesa di indumenti, vettovaglie, plastiche e immondizia. Per chi non è pratico di Roma, forse, sembrerà un'assurdità. Eppure la presenza di accampati all'ombra delle Mura è un fenomeno ultraventennale. I luoghi più gettonati sono le uscite di emergenza del sottopasso Ignazio Guidi. Spazi bui, sudici e maleodoranti, dove le cataste di immondizia sbarrano il passo mettendo a repentaglio la vita di chi guida. "Queste sono uscite di sicurezza e la legge dice che devono essere libere da qualsiasi impedimento, invece, - denuncia Peroso - se dovesse scoppiare un incendio gli automobilisti le troverebbero inagibili. Cosa aspettano a bonificarle?". Non certo che ci scappi il morto, visto che proprio in uno dei sottopassi di Porta Pia un delitto c'è già stato. Quello di Norma Maria Moreira De Silva, la clochard brasiliana violentata ed uccisa da un balordo a novembre del 2017. "A distanza di più di due anni - constata amaramente Peroso - non è cambiato nulla". Anzi. Per ripararsi dal freddo, i senzatetto hanno colonizzato ogni anfratto. Non c'è una sottovia che non sia abitata. Anche quella che affaccia su via Campania, a poche decine di metri da via Veneto, la strada della Dolce Vita. Qui vivono quattro persone. Un russo, un lituano, un moldavo e un serbo. Li troviamo adagiati su dei vecchi materassi, immersi nella penombra. Sembrano dei fantasmi. Sono le undici di mattina è sono già storditi dall'alcol. Risalendo in superficie, poi, la scoperta. Sui mattoni di tufo vecchi migliaia di anni svetta una tenda, al di là della quale si è sistemato Bobo, un anziano senzatetto che ha perso entrambe le gambe. Ha ricavato un mini appartamento in un varco. "Sono in Italia da più di vent'anni e non ho mai avuto una casa", ci rivela. Lui è uno di quelli che in strada ci stanno per scelta. "Nel dormitorio - dice - non ci voglio andare". Non ha paura. "Mi protegge Dio", sentenzia facendosi il segno della croce. "Anche se - ci confessa - qui c'è gente che beve troppo e rischia di fare una brutta fine". I residenti, invece, qualche preoccupazione in più la nutrono. "Certo, - ragiona Peroso - non tutte le persone che vivono per strada sono pericolose, però da qui sono transitati tanti delinquenti". "In passato abbiamo avuto parecchia paura - racconta - perchè c'erano gruppi di alcolizzati che terrorizzavano il quartiere, diverse donne sono state pedinate e importunate". A nulla servono denunce ed esposti. "Non è possibile - tuona Holljwer Paolo, consigliere del II Municipio di Fratelli d'Italia - che un monumento importante come le Mura aureliane, che dovrebbe essere patrimonio non solo dei romani ma dell'intera umanità, si sia trasformato in un ricettacolo di sbandati dal quale è meglio tenersi alla larga". "Non bastano gli interventi sporadici, ci vuole più attenzione da parte del servizio giardini e di Ama perché - aggiunge - è proprio il degrado a favorire queste situazioni".

Dagospia il 20 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: OGGETTO: “Forse sarà la volta buona che tolgono la monnezza. Tom Cruise approda a Roma per il suo nuovo film” –Dagospia, 18 gennaio. Caro Dago la monnezza a Roma non è “Mission Impossible” ma “Ogni maledetta Domenica”…quindi mentre aspettiamo Al Pacino…”lottiamo un centimetro alla volta”.  Stefano Zaghis Amministratore Unico di Ama S.p.A. 

Alessandro Barbera per “la Stampa” il 20 gennaio 2020. «Noi tuteliamo la salute pubblica!». Virginia Raggi non sapeva come cavarsi d' impaccio. Travolta dalla rabbia di migliaia di romani costretti d' inverno a lasciare in garage l'ecologissimo diesel euro sei, ha usato un argomento logicamente ineccepibile: adeguatevi. Per il sindaco di Roma è un collaudato strumento di comunicazione. Se la città soffre di problemi endemici, vengono da lontano e la colpa non è sua. Piaccia o no, i romani se ne devono fare carico. Purtroppo per lei spesso questa narrazione non regge. Prendiamo i rifiuti, che qui costano la più alta tariffa comunale d' Italia: 268 euro l' anno. Nei dieci minuti in cui la Raggi confermava ai giornalisti la decisione di bloccare le euro sei, partiva il viaggio di un Tir - rigorosamente diesel di vecchia generazione - verso uno dei termovalorizzatori e discariche sparsi in otto Regioni. Ogni giorno dai depositi Ama partono fra i 160 e i 180 autoarticolati, sette ogni ora. Nei prossimi mesi saranno molti di più. La gestione dei rifiuti da parte dell' azienda municipalizzata romana è sempre più precaria. I pochi impianti di smaltimento a disposizione della città stanno venendo meno uno a uno. A ottobre 2018 la Regione Lazio ha chiuso il termovalorizzatore di Colleferro. Due mesi dopo è andato in fiamme - e distrutto per sempre - l' impianto di trattamento meccanico-biologico di via Salaria, uno di quegli stabilimenti in cui si triturano i rifiuti indifferenziati e si divide ciò che va in discarica da ciò che viene bruciato negli inceneritori. Colleferro al limite di utilizzo Dal 15 gennaio è chiusa per sempre anche la discarica di Colleferro, un impianto in grado di accogliere ogni giorno oltre mille tonnellate di materiali: è arrivata al limite di utilizzo. L' Ama ormai gestisce un solo stabilimento a Rocca Cencia, ma presto dovrà essere chiuso per manutenzione. Oggi l' autonomia del Comune nel trattamento e smaltimento dei rifiuti è ridotta al 23%. Quando chiuderà Rocca Cencia, quella percentuale scenderà a zero. A Milano sfiora il 100%. Gli unici impianti funzionanti resteranno i due a Malagrotta di Manlio Cerroni, noto in città come il re della monnezza. E' l'epilogo di quattro anni di ideologia a Cinque Stelle, che tratta i rifiuti come se dovessero sparire per autocombustione. I cittadini che abitano nei pressi degli impianti applaudono, il resto della città soffre. Il no a qualunque impianto ha solo aggravato la dipendenza dalle altre Regioni, aumentando i costi: per smaltire una tonnellata di rifiuti ora sono necessari 236 euro, tre anni fa erano meno di 200. La media del mercato è circa 150. Per l' incapacità cronica di gestire la macchina dello smaltimento, Ama lascia per le strade una media di mille tonnellate di rifiuti, oltre un quinto di quelli che vengono prodotti ogni giorno in città. Per capire il criterio che muove la gestione dell' emergenza, basta un giro turistico fra i cassonetti: l' attenzione al decoro si concentra nel centro storico e i quartieri limitrofi a più alta densità di popolazione. Più ci si allontana, più i luoghi di raccolta si allontanano dalle case, più è facile trovare montagne di rifiuti agli angoli delle strade. A Tor Bella Monaca, Portuense, Casilino, ma anche nell' elegante quartiere collinare della Balduina o a Montesacro. A Natale - quando ancora Colleferro funzionava a pieno regime - all' Ama sono arrivati 40 mila reclami, 12 mila in più di novembre. A Roma non c' è solo un problema di smaltimento, ma anche una cronica inefficienza dell' Ama nella raccolta. Per evitare l' accumularsi dell' immondizia attorno ai cassonetti, da questo mese quasi tutto il personale è stato sottratto dalla mansione "meno urgente" della pulizia delle strade. Il 40% dei mezzi è fuori uso A Prati - un quartiere pieno di platani centenari - nessuno ha ancora raccolto le foglie autunnali. Nei palazzi capitolini si stima che il 40% dei mezzi sia fuori uso, il tasso di assenteismo è schizzato dal 12% al 20%. Solo a dicembre - chissà perché - sono raddoppiati gli inabili al lavoro: da 88 a 166. Di recente la percentuale di raccolta differenziata è scesa al 42%: secondo i piani avrebbe dovuto essere oltre il 55%. Se non si trattasse di un' azienda pubblica foraggiata da lauti trasferimenti, Ama sarebbe fallita da un pezzo: ha cambiato 7 manager in 3 anni e mezzo e non approva un bilancio dal 2016. Poiché molti fornitori - a partire da quelli che gestiscono la raccolta differenziata - non vengono pagati regolarmente, capita sempre più spesso che le gare di appalto vadano deserte. Ora l' azienda è in mano a Stefano Zaghis, molto vicino alla Raggi, un curriculum lungo di esperienze nel marketing e nell' immobiliare, ma non nel settore in cui dovrebbe avere qualche competenza. Negli ultimi giorni in Campidoglio è stata rivista l' ex assessore all' Ambiente Paola Muraro, che, invece, il settore lo conosce bene. Già consulente del Comune, si dovette dimettere dopo essere stata coinvolta in un' inchiesta per truffa a dicembre di tre anni fa. A partire dall' estate, e inevitabilmente dopo la nascita del governo giallorosso, la Raggi è diventata un problema serio per Nicola Zingaretti. Di fronte alla prospettiva di essere travolto dal problema dei rifiuti, il presidente della Regione Lazio ha dovuto darle una mano. Ha minacciato il commissariamento del Comune, un potere che la legge gli attribuisce. Per tamponare l' emergenza dovuta alla chiusura di Colleferro ha chiesto aiuto ad altre Regioni: da questo mese aumenterà l' export di rifiuti verso Lombardia, Puglia, Marche e Abruzzo. Aumenteranno le esportazioni all' estero, ma per arrivarci occorrerà una gara. La svolta sono le due ordinanze - a luglio e novembre scorso - con cui la Raggi è stata costretta a individuare una soluzione strutturale. Per mesi ha tentato di accollare la responsabilità dello smaltimento alla Regione. Eppure la scelta politica su dove individuare i siti idonei dei singoli Comuni spetta ai sindaci: è quanto accaduto in una riunione urgente della Giunta il 31 dicembre. La Raggi ha finalmente deciso: propone una nuova discarica a Montecarnevale, non lontano da Malagrotta, chiusa da Ignazio Marino fra gli applausi. In casa Cinque Stelle è scoppiata la rivolta guidata da Roberta Lombardi. Molti scommettono che la sindaca non avrà il coraggio di andare fino in fondo (la Regione aspetta ancora la comunicazione della delibera), ovvero la discarica a Montecarnevale resterà un impegno sulla carta fino alle elezioni del 2021. Oggi conta la nemesi: al grido "no agli inceneritori" (l' importante è che funzionino quelli altrui) e in attesa di realizzare l' utopia dei rifiuti zero, a Roma si cerca nuovi posti per sotterrarli.

Roma Capitale delle buche Raggi bocciata da 7 su 10. Pier Francesco Borgia, giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Momenti difficili per Virginia Raggi. La sindaca di Roma ha perso la sua persona battaglia (e forse la faccia) nell'indicazione di un luogo dove collocare la nuova discarica della città. L'assemblea capitolina, infatti, ha dato parere negativo alla delibera di giunta che indicava nella località di Monte Carnevale (nel quadrante occidentale della periferia romana, a metà strada tra l'aeroporto di Fiumicino e la vecchia discarica di Malagrotta) il sito adatto per la realizzazione della nuova discarica. E questo nonostante la sua maggioranza sia praticamente «bulgara» e monocolore. Ben 12 i consiglieri che hanno votato contro, mentre in quattro si sono astenuti (altri dieci erano assenti). Soltanto in tre hanno votato in favore della delibera. Nei giorni scorsi era poi uscita anche era apparso un sondaggio dell'Istituto Piepoli che mostrava con evidenza di numeri quanto sia in fase discendente la parabola della Raggi. Come potenziale sindaco (si vota tra 18 mesi), i romani hanno più fiducia in Giorgia Meloni (24,3%) che nell'attuale prima cittadina (17,3%), tallonata a sua volta da Enrico Letta (16,3%) che peraltro non compare spesso in pubblico e che non ricopre alcun incarico politico. Il sondaggio misura anche la percezione del lavoro svolto dalla giunta grillina e il 71% degli intervistati si ritiene insoddisfatto. Tre romani su quattro poi bocciano il lavoro degli assessori. Una Caporetto senza appello. E come ultima «mazzata» all'immagine della sindaca grillina, ecco l'allarme lanciato ieri dai geologi: Roma capitale delle voragini. Solo nel 2019 se ne contavano più di cento. E per avere un termine di paragone basta spostarsi fino a Napoli (città sotterranea per eccellenza), dove nello stesso arco di tempo se ne sono registrate appena venti. «E basta tornare indietro al 2018 per trovare l'anno dei record - ricorda la geologa dell'Ispra Stefania Niso all'AdnKronos -. Numeri che fanno di Roma la Capitale delle voragini con record europeo e forse mondiale». Le emergenze a Roma ormai non si contano più: dai trasporti ai rifiuti, dalla sicurezza al traffico. In un tale situazione viene facile chiedere alla prima cittadina un passo indietro. Il voto dell'aula Giulio Cesare ha fatto usare alla leghista Barbara Saltamartini l'espressione «una donna sola al comando». Una donna e una militante grillina cui da molte parti si consiglia un passo indietro e una rinuncia. Ovviamente la sindaca tira dritto ma l'aria inizia a essere irrespirabile sul colle capitolino. E il nervosismo aleggia come una coltre spessa tanto che anche il marito della sindaca è intervenuto con un post sui social postando nomi e cognomi dei consiglieri capitolini del Movimento che hanno votato le mozioni avanzate da Fratelli d'Italia e Partito democratico per far annullare la delibera di giunta sulla discarica di Monte Carnevale. Insomma una sorta di «lista di proscrizione» a uso interno del Movimento per iniziare a fare i conti. Per vedere chi sono i fedelissimi e quelli che non lo sono più. Forse è già iniziata la campagna elettorale. E la lista, prodotta da Andrea potrebbe essere un punto di partenza per le «primarie» con le quali verranno scelti i prossimi («fedelissimi») consiglieri comunali del Movimento Cinquestelle.

Manuel Bortuzzo: «Non  ero io quello sbagliato  al posto sbagliato. Loro hanno sbagliato vita». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Il 2 febbraio 2019 Manuel Bortuzzo è stato colpito alle spalle da un colpo di pistola, costringendolo sulla sedia a rotelle. Ora, poco più di un anno dopo il nuotatore italiano ripercorre quei momenti tragici raccontando la sua storia in televisione a «La vita in diretta». La chiama «quella notte» senza aggiungere altre parole. Ma non ha rancore nel cuore, soltanto una grande fiducia per il futuro. «Non ero io quello sbagliato, al posto sbagliato al momento sbagliato. Io stavo facendo la mia vita, come qualsiasi altro ragazzo. Sono loro che hanno sbagliato vita. Io non c’entravo niente» ha detto l’atleta romano accolto in studio da un applauso fragoroso. La forza per ricominciare non gli manca, tempo fa in una intervista alla rivista 7 aveva detto: «Tra 10 anni sarò in piedi» e anche il suo libro sulla vicenda già dal titolo, «Rinascere - L’anno in cui ho ricominciato a vivere», fa capire qual è il suo spirito: fiducioso e battagliero. «La parola “rinascere” era quella che poteva racchiudere tutto quello che è successo - ha detto in tv - da quel momento del 2 febbraio in poi. Dal risvegliarsi dal coma al semplice provare a tornare a camminare. Ogni cosa che facevo per me era una rinascita. Alla fine il significato che gli do più spesso è cercare di stare bene ogni giorno. La rinascita è ogni giorno, ogni volta che trovo un motivo di star bene». Il 2 febbraio 2020, a un anno esatto di distanza, il padre Franco ha pubblicato una foto su Facebook per ricordare quella terribile notte di Manuel, con la didascalia: «È passato un anno. Più forti di prima. Daje». Le frasi accompagnano un’immagine del nuotatore che mostra il nuovo tatuaggio con due angeli, simbolo proprio della rinascita.

Manuel Bortuzzo, un anno fa lo sparo che gli ha cambiato la vita. Il papà: «Più forti di prima. Daje». Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Clarida Salvatori. Franco Bortuzzo ricorda l'anniversario con un post su Facebook. È passato un anno da quella tragica notte. Un anno da quando la sua vita è cambiata. La sera prima era un giovane della provincia veneta, appena arrivato nella Capitale con una valigia di sogni, tutti da realizzare tra vasca, piscina e cloro. La mattina successiva, per tutti lui era Manuel Bortuzzo. Colpito per errore da due balordi. Colpito alla schiena, da alcuni colpi di arma da fuoco. che lo costringeranno su una sedia a rotelle. Il primo a ricordare la data spartiacque nella vita di Manuel e della sua famiglia, oggi è papà Franco, in un post sul suo profilo Facebook. «È passato un anno. Più forti di prima. Daje». Parole accompagnate da una bellissima foto di Manuel che mostra il suo nuovo tatuaggio con due angeli. Simbolo della rinascita. Era la notte tra il 2 e il 3 febbraio del 2018 quando in piazza Eschilo, all'Axa-Casal Palocco, tre colpi di pistola raggiungono un 19enne promessa del nuoto italiano. Una pallottola lo colpirà alla schiena, andandosi a conficcare in una vertebra e lo lascerà paralizzato dalla vita in giù. Dopo i due interventi chirurgici e un coma farmacologico durato giorni. Manuel al suo risveglio sorprende tutti. Accetta quello che la sorte gli ha riservato con una forza, una grinta ed un'energia rare. Inizia subito il suo percorso di riabilitazione all'ospedale Santa Lucia, nella Capitale, e torna immediatamente in piscina. Anche per questo il mondo dello sport, e non solo, si mobilita per lui, mostrando solidarietà, vicinanza e attivando anche una raccolta fondi per sostenere il suo percorso. Chi gli ha sparato, subito dopo fugge a bordo di uno scooter. Ma dopo qualche giorno Lorenzo Marinelli, 24 anni, e Daniel Bazzano, 25, si costituiscono. Sono entrambi di Acilia, incensurati ma legati alla criminalità locale. Furiosi per una lite avuta in un pub vicino al luogo dagli spari (forse legata allo spaccio), avevano impugnato una calibro 38 e fatto fuoco su un obiettivo che somigliava a chi li aveva picchiati. «Pioveva, era buio, è stato un errore. Non volevamo sparare a lui», si giustificheranno davanti agli inquirenti. Il pubblico ministero al processo gli contesterà il duplice tentato omicidio aggravato dalla premeditazione, da futili e abietti motivi, ma anche rissa e detenzione abusiva di armi e chiederà per loro 20 anni. Il giudice ne accorderà 16. Anche in questa occasione Manuel si dimostra una persona dal cuore grande e non tradisce rancore per chi lo ha costretto su una sedia a rotelle: «La sentenza non cambia la mia condizione, ma ho tante altre cose a cui pensare, tra cui riprendermi e tornare a camminare- commenta Bortuzzo in un video postato sui social -. La giustizia farà il suo corso a me non importa tanto se gli daranno 16 o 20 anni».

Da roma.fanpage.it il 4 febbraio 2020. È trascorso un anno dalla notte tra il 2 e 3 febbraio del 2019, quando un colpo di pistola ha raggiunto alla schiena Manuel Bortuzzo, mentre si trovava in strada con la fidanzata nel quartiere Axa a Roma. Il nuotatore diciannovenne finito sulle pagine di tutti i giornali per essere rimasto ferito gravemente da uno sparo che gli ha provocato una lesione al midollo spinale, ha celebrato la sua ‘rinascita' con un nuovo tatuaggio. Manuel lo mostra soddisfatto alzando leggermente la manica della t-shirt. L'immagine d'inchiostro ricopre il braccio sinistro: due angioletti che sorreggono un velo. A pubblicarla su Facebook papà Franco, che ha scritto: "È passato un anno. Più forti di prima". Una ‘rinascita' che per Manuel significa uno sguardo positivo verso la vita, sopravvissuto per miracolo al proiettile, per soli 12 millimetri, diversamente avrebbe colpito l'aorta femorale. La giovane promessa del nuoto, che sognava le Olimpiadi, con molta determinazione, ha ricominciato ad allenarsi e sta continuando la sua terapia di riabilitazione con la speranza di poter tornare a camminare.

Raffaella Troili per il Messaggero il 4 febbraio 2020. Due angeli contro il male, che sanno di sfida alla malasorte, che vogliono dire speranza. E lui, più forte del proiettile nella schiena, della paralisi, della vita in salita, della rabbia. È passato un anno da quel tragico sabato sera in cui Manuel Bortuzzo, promessa azzurra del nuoto di 19 anni, venne ferito per sbaglio in piazza Eschilo all'Axa da due giovani di 24 e 25 anni in scooter . «È passato un anno, più forti di prima, daje». Questo il messaggio pubblicato ieri su Facebook dal padre Franco Bortuzzo, perché né lui né suo figlio smettono di stupire per il coraggio e la determinazione. Sul social il signor Bortuzzo che ha seguito passo passo la ripresa eroica del figlio, costretto da quel giorno su una sedia a rotelle, ha postato una foto del figlio che mostra un tatuaggio sul braccio sinistro che raffigura due putti. Lo sguardo fiero del guerriero, Manuel si è fatto tatuare due angeli e li mostra orgoglioso a chi ha seguito la sua tragedia ed è rimasto colpito dalla sua forza di volontà. È tornato in acqua e non molla, non ha perso il sorriso. «È più forte di me sia in acqua che fuori», disse il papà all'indomani della tragedia. Una tragedia assurda: quella notte, tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, dal quartiere San Giorgio di Acilia partì un commando, una spedizione punitiva, a farne le spese il giovane atleta che era di spalle, davanti a un distributore di sigarette, con la fidanzata Martina. S'imbatterono in quei due strafatti che spararono a caso, in sella a uno scooter, gridando «ci prendiamo la piazza». L'agguato era scaturito dopo una lite in un pub dell'Axa con i figli del boss Iovine. Il colpo di pistola alla schiena lesionò il midollo. Manuel si risvegliò, sì, ma senza l'uso delle gambe, a informarlo sempre papà Franco, sempre al suo fianco. E uscì dall'ospedale dopo due settimane, pronto a leccarsi le ferite, anzi a mostrare a tutti la sua voglia di riscatto, di vincere la sfida più dura a cui la vita l'ha messo di fronte. A marzo era in acqua, per la riabilitazione, nel suo mondo preferito. «L'acqua è la mia vita». 

LA RIPRESA. «Sono sempre stato abituato a dare il massimo e l'ho fatto anche in questa circostanza. Non ne potevo più di stare inchiodato a quel letto, di dipendere da qualcun altro in tutto e per tutto». E ha commosso l'opinione pubblica, Roma l'ha abbracciato e riaccolto, in una gara di solidarietà pari alla stima di crescente verso questo giovane che non si è mai arreso. Mai una parola sopra le righe nei confronti di chi la vita gliel'ha rovinata: ci ha pensato il gup di Roma Daniela Caramico D'Auria con una condanna a sedici anni di reclusione nei confronti di Lorenzo Marinelli e Daniel Bazzano. «Ho conosciuto l'abisso della disperazione, e ne sono venuto fuori, ora posso dirlo, sulle mie gambe», ha detto Manuel di recente presentando il suo libro. Non ha smesso di sognare. Vuole tornare a camminare, vuole un figlio. Ieri era al Teatro dell'Opera al concerto per l'apertura delle celebrazioni dei 150 anni di Roma capitale. Intanto a Treviso ha superato l'esame per la patente B speciale ed è tornato a Roma guidando felice i primi cento chilometri. Al suo fianco, un altro leone, papà Bortuzzo. 

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 10 gennaio 2020. «Non m' andava che succedeva... pure per quel poraccio... quello non cammina più. È partito tutto per un "che c...o vuoi"». Intercettato durante un colloquio in carcere, Daniel Bazzano aggiunge l' ultimo tassello di verità all' agguato nel quale Manuel Bortuzzo è rimasto senza colpe paralizzato il 3 febbraio scorso. La rissa che innescò la vendetta sbagliata su di lui nacque dall' ubriachezza di un amico dei due condannati, che nell' Irish pub di piazza Eschilo urlava i cori della Roma e urtava tavoli e sedie. Scatenando così la reazione dei presenti e di un cuoco del locale. La frase è riportata nelle motivazioni alla sentenza del 9 ottobre con cui il gip ha condannato Bazzano a 16 anni in abbreviato assieme a Lorenzo Marinelli per il tentato omicidio del 19enne nuotatore azzurro e della sua ragazza. E, confermata da altre testimonianze portate a processo dal pm Elena Neri, rivela che Bortuzzo non ha rischiato la vita in un regolamento di conti tra bande di spaccio, come ipotizzato finora, ma per una banale lite tra clienti di un locale «ragazzi ben vestiti con capi casual e accento romano». Nessuna attenuante va concessa, secondo il giudice, ai due aspiranti killer: «Deve evidenziarsi - scrive - come nessun particolare tratto positivo possa cogliersi nella loro condotta». La loro confessione «risulta dettata da intenti utilitaristici e non da effettiva resipiscenza» e «la gravità del fatto, l' assoluta superficialità nell' individuare la vittima, la condotta successiva (la fuga, l'incendio dello scooter, la non collaborazione per far ritrovare l' arma, le bugie sulla latitanza, ndr) impone una pena elevata». Il giudice esclude i futili motivi ma riconosce la premeditazione: «Dopo la rissa, in tempi brevi gli imputati maturano il loro disegno criminoso anziché tornare nelle loro abitazioni». Una condotta «incompatibile con il dolo d' impeto e viceversa indice di un radicamento e di una persistenza del proposito criminoso nella loro psiche».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 15 gennaio 2020. È Daniele Ferri uno dei capi della droga a Roma. Ambizioso, spregiudicato e violento, rispecchia lo stereotipo del perfetto narcos in salsa romana. Ferri è uno dei re della coca della Capitale che ieri è stato costretto a deporre la corona. È finito in carcere (7 ai domiciliari) assieme alla sua corte. Una tribù composta da 16 persone pronte a tutto pur di espandersi e avere più soldi e potere. Guadagni stellari «500 mila euro al mese», spiegano gli investigatori, e un diluvio di piombo (sventato) pronto ad abbattersi sui rivali che non chinavano la testa di fronte al boss e ai suoi uomini. Se Roma precipita verso una messicanizzazione del crimine è sicuramente presto per dirlo. Di certo «il tasso di violenza negli ultimi due anni, per il controllo e la conquista delle piazze di spaccio, è aumentato». Parole pronunciate in conferenza stampa dal procuratore capo di Roma, Michele Prestipino. Magistrato che negli anni si è quasi sempre occupato di criminalità organizzata.

I REATI Associazione per delinquere finalizzata al traffico ed allo spaccio di cocaina, hashish e marijuana, aggravata dall' uso di armi. Questi i reati contestati al gruppo che riforniva di droga i quartieri di Monteverde e Montespaccato e stava estendendo i suoi tentacoli verso il comune di Pomezia. Al vertice dell' organizzazione c' era appunto Daniele Ferri, 42 anni. La sua residenza, da vero capo, era una mega villa sulla Portuense: sale arredate con sfarzo, un impianto di sorveglianza con 18 telecamere puntate all' esterno che, tuttavia, non gli sono state utili per evitare l' arresto da parte dei carabinieri di via In Selci. Così come altri accorgimenti, un poliziotto a libro paga (arrestato) e l' impiego di telefonini anti-intercettazione. La «banda del Trullo», secondo quanto accertato dagli inquirenti, aveva un giro d' affari per l' attività di narcotraffico che arrivava anche a mezzo milione di euro al mese. La base operativa era il salone di parrucchieri della madre di Ferri, in via del Monte delle Capre, al Trullo. Lì avvenivano gli incontri e si pianificavano le «attività» anche nei confronti dei gruppi criminali rivali. Il gruppo, secondo quanto è emerso dalle indagini avviate nel 2017, aveva a disposizione un arsenale che utilizzava per minacciare i componenti delle altre organizzazioni e per impossessarsi di zone di spaccio. «Gli diamo una botta...due botte...sta andando a casa...lo lasciamo per terra». Afferma uno degli affiliati in una intercettazione citata dal gip nell' ordinanza di custodia cautelare, annunciando in questo modo la volontà di vendicarsi con una persona verso cui l' organizzazione vantava un credito di droga. L' indagine ha confermato che i nuovi gruppi criminali attivi a Roma facciano un uso spregiudicato della violenza. Un quadro confermato da Prestipino secondo cui i segnali «sono allarmanti» nelle dinamiche utilizzate dalle bande per la riscossione dei crediti legati alla droga. «Torture, violenze feroci - ha spiegato ieri il procuratore - fino ad arrivare al sequestro di persona emergono come una costante: una ferocia sostenuta dalla disponibilità di armi di gruppi organizzati che gestiscono le piazze di spaccio, con un giro d' affari milionari e una concorrenza agguerrita».

Giu.Sca per “il Messaggero” il 15 gennaio 2020. Il boss Daniele Ferri ha ben chiaro i futuri scenari sulla vendita della droga a Roma. Lui vuole rompere gli equilibri in alcune zone, conquistare nuovi territori, accrescere i guadagni. E lo vuole fare nell' unico modo che le leggi del grande crimine ammettono. Con la forza, o con i pugni di uno dei suoi picchiatori o il piombo delle pistole. Lo dice esplicitamente, lo spiega a un membro della banda in una conversazione che è stata intercettata dai carabinieri di via In Selci. «Se vuoi fare la guerra tutto a posto», sostiene Ferri spavaldo di fronte ai suoi uomini. La seconda fase, delineata dall' ambizioso narcos, prevede l' installazione perenne del suo personale sul territorio. Le vedette e i pusher per la vendita al dettaglio del prodotto, la droga: cocaina, marijuana e hashish. Il Ferri-pensiero è racchiuso in una intercettazione degli inquirenti. Una conversazione che descrive perfettamente le mire espansionistiche che il boss stava ponderando.

LA CONVERSAZIONE. «Dal contenuto di alcune particolari conversazioni tra presenti - scrive il pubblico ministero titolare dell' inchiesta, Barbara Zuin, nella richiesta d' arresto - appare chiara la ferma volontà del Ferri di estendere capillarmente la sua organizzazione mediante l' imposizione di nuovi soggetti su nuove piazze di spaccio in modo da affermare il suo predominio territoriale». Ecco il riassunto della conversazione tenuta dal boss con i suoi uomini il nove dicembre del 2017: «Io voglio dire a Carmine (Carmine De Luca) se lui conosce persone di cominciare a mettersi a fare le piazze, che ne so dove conosciamo mettiamo persone, se hai una persona valida lui lo prendiamo gli diamo la robba (la sostanza stupefacente da spacciare) e lo mettiamo sulle piazze queste qua, questa la piazza dal ciccione, prendiamo uno valido lo mettiamo alla piazza qui al Green bar (Green bar gelateria in via del Trullo)». E poi aggiunge: «c' abbiamo un altro valido? Lo mettiamo alla piazza, facciamo tutti pischelli mettiamo tutti in piazzali mettiamo tutti a lavorare con i pezzetti». «Con conseguente aumento dei profitti», annota la procura.

IL CONFLITTO. Di fatto Ferri non si accontentava, semplicemente, di essere un grande fornitore di droga. Il suo obiettivo era diventato duplice: grossista ( lo era già) e anche venditore al dettaglio. «Allora mettemose- continua Ferri nella conversazione intercettata - e che fanno magnano solo loro qui e non si magna più?». «Tale è la determinazione che - si legge nelle carte della procura - all' obiezione di Carmine De Luca dell' eventualità di dover entrare in un conflitto armato con altri concorrenti» che Ferri gli risponde in questo modo: «Se vuoi fare la guerra tutto a posto allora prima spariamogli e poi ci mettiamo i pischelli». «Il Ferri - annota il sostituto procuratore Barbara Zuin - dichiara di volersi assumere tale rischio, fare la guerra».

Una rissa per il calcio prima degli spari a Bortuzzo. Le intercettazioni: «Tutto per un che c... vuoi». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 da Corriere.it. «Non m’andava che succedeva... pure per quel poraccio... quello non cammina più. È partito tutto per un “che c...o vuoi”». Intercettato durante un colloquio in carcere, Daniel Bazzano aggiunge l’ultimo tassello di verità all’agguato nel quale Manuel Bortuzzo è rimasto senza colpe paralizzato il 3 febbraio scorso. La rissa che innescò la vendetta sbagliata su di lui nacque dall’ubriachezza di un amico dei due condannati, che nell’Irish pub di piazza Eschilo urlava i cori della Roma e urtava tavoli e sedie. Scatenando così la reazione dei presenti e di un cuoco del locale. La frase è riportata nelle motivazioni alla sentenza del 9 ottobre con cui il gip ha condannato Bazzano a 16 anni in abbreviato assieme a Lorenzo Marinelli per il tentato omicidio del 19enne nuotatore azzurro e della sua ragazza. E, confermata da altre testimonianze portate a processo dal pm Elena Neri, rivela che Bortuzzo non ha rischiato la vita in un regolamento di conti tra bande di spaccio, come ipotizzato finora, ma per una banale lite tra clienti di un locale «ragazzi ben vestiti con capi casual e accento romano». Nessuna attenuante va concessa, secondo il giudice, ai due aspiranti killer: «Deve evidenziarsi — scrive — come nessun particolare tratto positivo possa cogliersi nella loro condotta». La loro confessione «risulta dettata da intenti utilitaristici e non da effettiva resipiscenza» e «la gravità del fatto, l’assoluta superficialità nell’individuare la vittima, la condotta successiva (la fuga, l’incendio dello scooter, la non collaborazione per far ritrovare l’arma, le bugie sulla latitanza, ndr) impone una pena elevata». Il giudice esclude i futili motivi ma riconosce la premeditazione: «Dopo la rissa, in tempi brevi gli imputati maturano il loro disegno criminoso anziché tornare nelle loro abitazioni». Una condotta «incompatibile con il dolo d’impeto e viceversa indice di un radicamento e di una persistenza del proposito criminoso nella loro psiche».

Quartiere Aurelio nel caos, i commercianti: "Le chiusure della metro ci hanno rovinato". La viabilità nel quartiere Aurelio, nonostante la riapertura della metro di Baldo degli Ubaldi, è in grave affanno. La fermata Cornelia e la Galleria Giovanni XXX sono chiuse e i commercianti già contano le perdite subite...Alessandra Benignetti e Francesco Curridori, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. È una riapertura tra le polemiche quella della metro Baldo degli Ubaldi, nel quartiere Aurelio, nella zona nord occidentale della Capitale. Lo stop di quasi tre mesi per permettere ai tecnici di effettuare la revisione ventennale di ascensori e scale mobili ha messo in ginocchio i commercianti della via. Nel mirino c’è la partenza in ritardo dei lavori, sia nella stazione che ha riaperto i battenti stamattina, sia in quella di Cornelia, chiusa per lo stesso motivo lo scorso 30 dicembre fino a data da destinarsi. “Si sono ridotti all’ultimo minuto e così invece di sospendere parzialmente il servizio hanno dovuto chiudere lo snodo per completare i lavori entro la fine del 2019”, denuncia Roberto, titolare di un bar che si trova proprio di fronte ad una delle uscite della metro. “Ho avuto difficoltà a pagare l’affitto, i fornitori e le bollette – attacca - oggi, finalmente, hanno riaperto, ma io rischio di chiudere l’attività”. “Chi mi risarcisce dei danni subiti?”, si domanda. Il fatturato per lui è calato del 60 per cento. Le stesse lamentele arrivano da Stefano, un edicolante che ci spiega come l’Atac avrebbe dovuto iniziare prima la revisione per garantire l’operatività della stazione. “In questo modo avremmo avuto un danno parziale e, d’altronde, è esattamente quel che stanno facendo ora”, ci spiega. È la stessa Atac, infatti, a far sapere che “l'entrata e l'uscita dei viaggiatori nella stazione sarà al momento consentita solo dall'accesso di via Baldo degli Ubaldi nei pressi di viale di Valle Aurelia". Il motivo è che sono ancora in corso “le attività autorizzative sugli altri impianti e le lavorazioni su un'ultima scala mobile”. In sostanza, dopo 3 mesi di lavoro, sono in funzione soltanto 6 delle 12 scale mobili presenti. Perché la metro sia completamente agibile, insomma, si dovrà aspettare ancora. Secondo Angelo Belli, coordinatore della Lega nel quartiere Aurelio e promotore di una manifestazione di protesta svoltasi due mesi fa, la responsabilità della cattiva pianificazione dei lavori sarebbe della sindaca, Virginia Raggi, che “a marzo, si è attribuita il merito di aver mandato via Metro Spa perché incapace ma, cambiando ditta, ha generato questi ritardi, pur sapendo che ogni vent’anni gli impianti necessitano di una revisione”. “Siamo dovuti scendere in piazza – aggiunge Belli – per ottenere un’accelerazione dei lavori visto che inizialmente i tecnici lavoravano soltanto sei ore al giorno”.

I disagi per la chiusura della metro Cornelia. Gli esercenti sono sul piede di guerra anche a Cornelia dove, per lo stesso motivo, la stazione è chiusa dallo scorso 30 dicembre. Pochi giorni dopo è arrivata anche l’interruzione della galleria Giovanni XXIII e, a breve, sarà il turno anche di un tratto importante di via Aurelia. “Siamo isolati, hanno trasformato la zona in un bunker”, denunciano residenti e commercianti del quartiere che ora si sentono letteralmente tagliati fuori dalla viabilità cittadina. “Questo è uno snodo fondamentale per raggiungere il centro e importanti ospedali come l’Idi, il Cristo Re, il San Filippo Neri e il Policlinico Gemelli - si sfoga la proprietaria del bar Pascucci di piazza Giureconsulti - già questa mattina abbiamo visto la differenza con la riduzione del 50 per cento del passaggio di clientela”. “C’è sicuramente una perdita economica importante”, ci conferma la titolare di un’edicola nella stessa piazza. “Non è questo il modo di gestire la città”, denuncia un’altra barista. E a lamentarsi sono pure i turisti che hanno scelto un hotel o un bed and breakfast in questa zona che dista pochi chilometri dalla città del Vaticano. “Sono annoiati da questa situazione – ci spiega un ambulante - e ci subissano di domande per capire come fare a raggiungere il centro”. I collegamenti sono assicurati da navette sostitutive che seguono il percorso della metro, ma sono spesso zeppe di passeggeri. “Non credo che torneranno molto volentieri dalle lamentele che ho sentito – commenta la stessa edicolante - uscire e trovare tutti questi disagi non invoglia di certo a visitare di nuovo la città”.

La difesa del sindaco Virgina Raggi. Virginia Raggi, dal canto suo, si compiace con un post su Facebook. “In questi mesi abbiamo lavorato per mettere in campo una revisione straordinaria delle scale mobili presenti in stazione – scrive la sindaca - interventi necessari a garantire la massima sicurezza per tutti i passeggeri”. “Operazioni che prima non erano mai state effettuate – ricorda - lavori non più rimandabili e che stiamo portando avanti anche per gli impianti della vicina stazione di Cornelia”. “Siamo consapevoli dei disagi – conclude - ma è nostro dovere verificare e assicurarci che tutti gli standard vengano rispettati nell’interesse di tutti”. Ma il post ha ricevuto centinaia di commenti, quasi tutti critici. “Si chiama manutenzione ventennale -puntualizza un utente - e se nessuno l’ha fatto prima, tesoro mio, è perché quella stazione compie 20 anni quest’anno e quindi era ovvio che andasse fatta ora e non in precedenza”.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 3 febbraio 2020. Un po' psicosi del virus - un po', probabilmente, nuovo espediente a cui ricorrere per schivare il turno - nelle chat dei netturbini dell'Ama la fobia del contagio si moltiplica, col rischio che la raccolta, già tormentata, abbia ulteriori affanni proprio nelle zone dove la comunità cinese di Roma è più radicata, dall'Esquilino al Prenestino. C'è addirittura chi non si presenta al lavoro: «Ci sono assenze per malattia e molti in ferie», annota un operatore nei messaggi interni. «In 8A (la zona di un turno, ndr) qualcuno ha timore di svolgere il servizio nella parte che dà su Via dell'Omo», altra area della Capitale puntellata di attività orientali, dai magazzini ai market. «Qualche timore - si legge ancora in chat - è stato manifestato dai colleghi dello sportello tariffa di Capo d'Africa», dove ogni giorno la gente si mette in coda per pagare le bollette della Tari. L'amministratore unico dell'Ama, Stefano Zaghis, prova a frenare allarmismi e furbizie di chi addirittura cavalca la psicosi del contagio per restare a casa o in ufficio: «Sono in contatto diretto col commissario del governo per l'emergenza, Angelo Borrelli - spiega - Siamo pronti a mettere in campo tutte le misure adeguate a evitare qualsiasi rischio per gli operatori. Anche le Asl hanno escluso pericoli in questa fase. I contatti proseguiranno a 360 gradi», assicura il manager. Del resto gli esperti sanitari hanno già chiarito le modalità con cui il virus si diffonde: con i contatti uomo-uomo. Addirittura sia l'autista che ha accompagnato in macchina la coppia di cinesi contagiati a Roma, sia i camerieri dell'hotel dove alloggiavano, sono tutti risultati negativi al test. Insomma, la notizia dovrebbe rassicurare. Ma tra gli addetti Ama, a quanto pare, non basta. Più d'uno lamenta la carenza di divise: «C'è gente che non ha nemmeno l'uniforme ordinaria», si legge sempre nelle chat. Anche i sindacati si mettono in scia. Alcune sigle hanno scritto proprio all'ad Zaghis con lettere allarmate. «Alla luce degli eventi relativi al Coronavirus vorremmo capire come stiamo affrontando questo fenomeno sempre più diffuso sia in termini di psicosi che di allarmismo tra la comunità aziendale», ha scritto Alessandro Bonfigli, coordinatore regionale della Uiltrasporti. Che menziona le preoccupazioni di chi è «a contatto con i rifiuti all'Esquilino», per chiedere «se c'è disponibilità di presidi sanitari e mascherine nelle nostre scorte». Per la Uil, «dare subito indicazioni» servirebbe a evitare che «qualcuno cavalchi l'onda della psicosi». Onda che, a quanto pare, s'è già sollevata parecchio, mentre ci si augura che episodi così servano a debellare le sacche d'inefficienza ancora presenti all'Ama. 

Coronavirus, netturbini in preda alla psicosi incrociano le braccia. Coronavirus, è psicosi anche tra i dipendenti della muncipalizzata dei rifiuti. E così in molti si mettono in malattia o disertano i turni nei quartieri più a rischio. Bianca Elisi, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Dallo scorso giovedì, giorno in cui il premier Giuseppe Conte ha dato notizia dei primi due casi di coronavirus accertati, entrambi a Roma, in città è scattata la psicosi. Quella che prima era percepita come una minaccia lontana, d'un tratto, si è trasformata in una presenza reale. E così è iniziata la corsa all'acquisto delle mascherine sanitarie, tanto che nelle farmacie romane si è registrato il tutto esaurito. E sono comparsi persino i venditori abusivi che lucrano sulla paura delle gente smerciando mascherine a prezzi spropositati. Il rischio contagio, vanno ripetendo gli esperti in questi giorni di allarme collettivo, è minimo. Ma le rassicurazioni non bastano. Non bastano a convincere la gente comune e neppure gli operatori dell'Ama che, come racconta Il Messaggero, si sarebbero messi in malattia o in ferie proprio per timore di contrarre l'infezione. Sopratutto chi è di turno in quartieri come l'Esquilino, dove la presenza della comunità cinese è più massiccia. Le prove di questa tendenza allarmante sono contenute nelle chat dei dipendenti della municipalizzata dei trasporti, alle quali il quotidiano di via del Tritone ha avuto accesso. "Ci sono assenze per malattia e molti in ferie", annota qualcuno. E ancora, in via dell'Omo, zona Preneste, dove c'è un'alta concentrazione di attività cinesi, "qualcuno ha timore di svolgere il servizio". Una situazione che rischia di affossare ulteriormente il sistema già precario di raccolta dell'immondizia. Per riportare serenità, sul caso è intervenuto anche l'ad di Ama Stefano Zaghis, assicurando che l'azienda è in contatto diretto con il Governo e che al momento i dipendenti sono fuori pericolo. Parole che non sono bastate neppure ai sindacati. In una lettera, infatti, i rappresentanti di categoria hanno espresso tutti i loro timori. "Alla luce degli eventi relativi al coronavirus, vorremmo capire come stiamo affrontando questo fenomeno sempre più diffuso sia in termini di psicosi che d allarmismo tra la comunità aziendale", scrive Alessandro Bonfigli della Uil-trasporti. La richiesta è di fornire a chi opera nelle zone più critiche "presidi sanitari e mascherine". Anche per la Uil servono maggiori indicazioni, per evitare che qualcuno cavalchi il momento. Magari disertando ingiustificatamente il turno di lavoro.

Lorenzo De Cicco per ilmessaggero.it il 17 dicembre 2020. Andamento lento. All’Atac decine di autisti viaggiano al ritmo cantato da Tullio De Piscopo al Sanremo 1988: lento, lento, lento. Piede appoggiato sul freno e avanti adagio: cari passeggeri rassegnatevi ad arrivare in ritardo. Tutto per saltare l’ultimo giro al volante, a fine turno: i conducenti che arrivano tardi al capolinea, quasi sempre dando la colpa al traffico, vengono esentati dal rimettersi in marcia se il tempo stimato per il ritorno supera quello previsto dal servizio. Ecco allora il trucco che tenta gli autisti dei bus: rallentare, «accodarsi» a qualche macchina poco lesta nella parte finale del tragitto, per presentarsi all’ultima fermata oltre il limite fissato dalla tabella di marcia. Rendendo impossibile, a quel punto, il viaggio conclusivo. La trovata è stata scoperta dalla municipalizzata: i report interni svelano che 50 conducenti sono stati sanzionati solo nell’ultimo anno, incastrati dal sistema satellitare montato a bordo dei mezzi. E si tratta solo dei casi più sfacciatamente incongruenti, quando insomma analizzando gli spostamenti col Gps la scusa dell’ingorgo non ha retto. Non perché Roma non soffra di imbottigliamenti vari e assortiti, come testimoniano gli speciali ranking del settore (è noto ormai che quanto a traffico la Città eterna nel mondo sia seconda solo a Bogotà). Ma sulla scorta delle tecnologie più avanzate e del rilevamento della posizione da remoto, la giustificazione non può tenere banco sempre e comunque. Ecco perché Atac ha rafforzato i controlli per questa stramba fattispecie, mettendo nel mirino gli autisti che marciano coi torpedoni a passo d’uomo per lavorare di meno. Anche perché a farne le spese, oltre ai pendolari, è la stessa municipalizzata. Che guadagna col contratto di servizio del Comune in base al chilometraggio. L’amministrazione di Virginia Raggi anche quest’anno ha ripetuto: tocca fare di più. Lo stesso dicono i commissari del Tribunale fallimentare. Occhio allora a chi viaggia al ralenti. Qualche anomalia legata al Gps è stata notata nei «fogli di via», i moduli che gli autisti devono compilare obbligatoriamente per riferire gli spostamenti durante l’orario di servizio. È venuto fuori che le dichiarazioni non sempre coincidevano con quanto rilevato dal satellite: a volte gli autisti annotavano più chilometri di quelli effettivamente macinati. Atac sembra consapevole del problema, tanto che in una relazione riservata, spedita al Campidoglio il 5 novembre, spiega di avere avviato verifiche proprio sulle «divergenze tra rilevazione mediante fogli di via e sistema satellitare (AVM)», si legge nel dossier. Insomma, la partecipata spera che «l’aumento della qualità erogata» non rimanga solo la promessa di carta segnata nei faldoni del piano anti-bancarotta. L’obiettivo, si legge ancora, è «il maggiore comfort per i passeggeri». I quali probabilmente si accontenterebbero di un bus puntuale, che non si accosti alla palina già stracolmo perché prima sono saltate le corse in batteria. Magari perché l’autista giocava col freno.

Lorenzo De Cicco per ''Il Messaggero'' il 5 febbraio 2020. Nella Capitale alle prese col Coronavirus, nessuno nel palazzone che fa da quartier generale all'Atac, sulla Prenestina, ha voglia di scherzarci. Però la battuta, in qualche modo, circola: «Riecco l'epidemia, sarà sempre quella dei vigili a capodanno?». Perché la vicenda di ieri, con i conducenti della ferrovia per Centocelle malati in massa e i romani lasciati a piedi, assomiglia molto al forfait dei pizzardoni del 2014, quando la notte di San Silvestro, per schivare il turno, arrivarono all'ufficio del comandante generale dell'epoca (poco amato dalle truppe) certificati medici in batteria. Un improvviso malanno colpiva tutto il Corpo dei caschi bianchi.  Ora tocca ai macchinisti della linea Termini-Centocelle, la ex Roma-Giardinetti che collega la periferia Est dell'Urbe alla stazione. La ferrovia, gestita dall'Atac, dovrebbe essere riconvertita in tramvia. Con una differenza, per chi guida: lo stipendio da tranviere, a differenza di quello da macchinista del treno, è più leggero. Si passerebbe da 2mila a 1.500-1.600 euro al mese. Ecco perché i conducenti hanno deciso di ammutinarsi con uno sciopero bianco. Anche se in realtà il rischio di perdere soldi in busta paga - e tanto più il pericolo di perdere il lavoro - non sembra davvero mai esistito. La società dei trasporti ha già fatto capire agli interessati di volerli riconvertire a macchinisti della metro, appena il progetto del tram sarà formalizzato, con tutti i permessi ministeriali, attesi per giugno. Addirittura c'è già un accordo che prevede a stretto giro il trasferimento dei primi 7 addetti. Ma a quanto pare non è bastato.

I NUMERI. Ecco allora la protesta selvaggia di ieri: 37 assenti su 43 previsti nei turni (altri 5 erano di riposo, già stabilito). L'86% dei conducenti, in sostanza, non si è presentato al lavoro. Risultato: la ferrovia che trasporta ogni giorno 30mila romani, è rimasta paralizzata per 13 ore. Dalle 5.30, quando avrebbe dovuto partire la prima corsa, alle 6 e quaranta di sera. Proprio nelle ore di punta.

NIENTE SANZIONI. Gli ammutinati? Dovrebbero cavarsela senza nemmeno una multa. L'ufficio del Personale di Atac ha subito attivato i controlli, sono partite anche le visite fiscali. Ma tutti si erano premuniti di un attestato: in 13 avevano il certificato medico, quasi tutti per un'improvvisa «influenza»; altri 15 avevano un referto del dottore in cui si parlava della malattia dei figli piccoli. Altri 6 hanno sfruttato il congedo della legge 104, che in teoria dovrebbe servire ad assistere parenti invalidi o malati. In tre erano assenti per la «donazione del sangue». La municipalizzata dei trasporti sta ancora finendo le proprie indagini, ma dai riscontri che si avevano ieri sera, gli assenti avrebbero tutti una giustificazione. Niente sanzioni.

TERMINI CENTOCELLE. Peraltro, l'assessore alla Mobilità della giunta Raggi, Pietro Calabrese, proprio mentre la partecipata annunciava l'avvio delle ispezioni, già concedeva attenuanti agli assenti. Arrivando a dire, in un video pubblicato su Facebook, che «se 37 dipendenti su 48 si assentano, il problema è serio e non può essere solo una responsabilità dei lavoratori». Insomma, per l'assessore del Campidoglio, la colpa non va data agli assenti in massa, non soltanto almeno. Una beffa per le migliaia di cittadini costretti ad arrangiarsi, senza preavviso. Dopo avere convocato l'Atac e i tecnici dei trasporti a Palazzo Senatorio, sempre Calabrese, «scusandosi con i romani», ha detto che «i lavoratori della Termini- Centocelle avranno la qualifica da macchinisti metro, Atac ha assicurato che saranno garantiti tutti i livelli occupazionali, non c'è alcun presupposto di un nuovo blocco». Insomma, oggi dovrebbero essere tutti guariti. Ma la storia, forse, potrebbe non chiudersi qui: il Codacons ha annunciato che presenterà un esposto per interruzione di pubblico servizio, chiedendo ai magistrati di indagare sul blocco della tratta.

Valentina Lupia per “la Repubblica - Roma” il 31 dicembre 2019. Come se non bastassero Barberini e Baldo degli Ubaldi ancora chiuse e Cornelia off-limits da ieri. Due giorni fa, nel pomeriggio, le scale mobili della centrale stazione della linea A della metropolitana Spagna sono andate in tilt, causando caos e disagi: nel video- testimonianza pubblicato su roma.repubblica.it, si vedono i passeggeri che scendono in banchina camminando su scale mobili ferme. Tra loro, anche bambini. Il blocco è stato riparato dai tecnici dopo alcuni minuti, ma a questo ne sono seguiti altri. Uno in tarda serata, intorno alle 22. Questo guasto sarà pure stato riparato, sì, ma a essere ancora fuori uso, oltre al montascale, sono le scale mobili dal lato del Galoppatoio. E dire che Spagna era stata riaperta lo scorso maggio dopo oltre due mesi di chiusura, sempre per le scale mobili: quando il 23 marzo, il giorno che i gradoni di Barberini ( chiusa da allora) si sono accartocciati, il responsabile di esercizio degli impianti di traslazione aveva deciso di vietare l'uso delle scale mobili. Poiché della stessa tipologia proprio di quelle di Barberini. Decisione che, di fatto, ha significato la chiusura della stazione per intero. Nonostante la fermata sia stata off- limits, dunque, ancora ci sono impianti fuori uso e che si bloccano all' improvviso. A conti fatti, tra metro A, B/B1, C e Roma- Lido, il 10% tra scale mobili, ascensori e montascale è rotto o inutilizzabile: solo sulla linea rossa ci sono 3 stazioni chiuse, 15 con impianti fuori uso e 3 con alcuni cancelli chiusi. Cinque, invece, le stazioni che hanno problemi sulla linea blu, mentre lungo la metro C si contano 5 fermate con ascensori fuori uso e 3 con cancelli chiusi. Cinque fermate con ascensori e scale mobili off- limits sulla Roma- Lido, dove sono anche rotti i pannelli informativi di Lido Centro e, soprattutto, quelli di un sito importante come Ostia Antica. Ieri, poi, poco prima delle 13 il servizio è stato interrotto e sostituito da bus nella tratta Eur Fermi - Laurentina prima, ed Eur Magliana - Laurentina poi, a causa di un guasto a un deviatoio che è stato riparato in meno di un' ora. Il servizio è stato ripristinato alle 13.35 circa. E due giorni fa un 25enne senza fissa dimora è stato arrestato dai carabinieri: nel pomeriggio, dopo aver rubato un cellulare, aveva seminato il panico all' interno della stazione Termini, scappando sui binari della linea B e nella galleria verso Castro Pretorio e costringendo Atac a interrompere il servizio per circa un' ora.

"Ama Roma, tre lavoratori su 10 inidonei": il vertice accusa i dipendenti. L'amministratore Zaghis alla commissione Ambiente dà i numeri del disastro aziendale: nei giorni di festa in servizio solo 1.700 addetti su 5.000, mancano operatori meccanici e autisti. "Roma dovrebbe essere Disneyworld". Cecilia Gentile il 28 gennaio 2020 su La Repubblica. Una Caporetto. I dati della disfatta Ama li fornisce direttamente il suo amministratore unico, Stefano Zaghis, invitato ieri mattina dalla commissione Ambiente presieduta dal consigliere grillino Daniele Diaco. Sono gli uomini e i mezzi i talloni d'Achille della municipalizzata. Il 32% dell'organico risulta inidoneo, una percentuale doppia rispetto all'Amsa, l'azienda dei rifiuti milanese. Nei giorni di festa lavorano solo 1.700 persone invece delle 5.000 impegnate in media nei giorni feriali. Questo ha fatto sì che durante i 16 giorni del periodo natalizio, nei complessivi otto giorni di festa abbiano lavorato in tutto 12mila persone, contro i 33mila dei feriali. Senza contare che dal 2015 al 1 gennaio 2020 sono andate in pensione 710 persone senza essere sostituite. Mancano 40 meccanici, 85 autisti, 300 operatori. "Così non si può lavorare - dice Zaghis - Roma dovrebbe essere scintillante. Ai miei dico che la capitale dovrebbe essere pulita come Disneyworld perché Roma è la Disneyworld della cultura e della bellezza. Ma per farlo servono persone e mezzi sennò non si arriva al risultato. Ama deve lavorare al 100% sette giorni su sette. Roma è l'unica capitale al mondo dove un'azienda di igiene pubblica non è attiva a pieno regime sette giorni su sette. Questa situazione o viene risolta con l'accordo dei sindacati, o la risolvo io coattivamente". Intanto, dalla fine di febbraio i 260 inidonei totali verranno messi a fare gli spazzini di quartiere in periferia. Per riuscire a coinvolgere almeno l'80 per cento del personale nei giorni di festa, Zaghis sta preparando con i sindacati un piano festività che punta ad essere pronto entro marzo e a riproporsi nei prossimi cinque anni, fino al 2024, per la stessa durata del piano industriale che, secondo la prescrizione della Regione Lazio, deve essere licenziato entro il 31 marzo. E veniamo ai mezzi. Entro luglio, assicura l'amministratore unico, saranno operativi 102 nuovi mezzi pesanti, i "Csl", ma anche così Ama sarà a meno della metà dei mezzi necessari per rispondere alle esigenze della capitale. "Perché siamo a Roma, non a Reggio Emilia, come qualcuno credeva in passato", dice Zaghis lanciando una bordata all'ex assessora all'Ambiente Pinuccia Montanari e al suo concittadino Lorenzo Bagnacani, ex presidente di Ama. "Dei 281 mezzi pesanti di cui disponiamo adesso - spiega - 201 hanno più di 10 anni. In Italia l'età media è di 7 anni più 1, in Europa di 5 più 1. Noi siamo come l'Atac". La mancanza di uomini e mezzi compromette la regolarità del servizio (- 1,8% nel 2019 rispetto al 2018). Sempre nel 2019 i servizi pianificati sono stati 144.600, quelli effettivamente erogati 130mila. Poi la parola passa ai municipi, I, II, III, IV, V, VII, IX, XIII, che per bocca dei loro assessori o consiglieri fotografano la situazione dei territori: grandi problemi con le utenze non domestiche, raccolta foglie e spazzamento non effettuati, cassonetti bruciati non ritirati, flop del porta a porta. Zaghis ascolta e prende appunti. Ma è troppa roba. La commissione si aggiorna alla prossima settimana. In chiusura, notizie sul bilancio 2017: l'au lo invierà ai revisori dei conti e al collegio sindacale il 6 febbraio.

Francesco Pacifico per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 31 dicembre 2019. L' Ama rischia di trovarsi domani mattina - il primo giorno dell' anno nuovo, a poche ore dal maxi festa al Circo Massimo con non meno di 50mila persone - con duecento netturbini in meno. A via Calderon de la Barca pensavano di aver fatto tutto nei tempi e nei modi giusti. Da settimane avevano affisso nei depositi gli avvisi per reclutare (in maniera volontaria) quanti più addetti per la raccolta da mettere in strada per il Primo gennaio. Giornata che viene remunerata con uno straordinario di solito superiore al doppio di un turno normale. Salvo poi scoprire, nelle scorse ore, che mancano all' appello almeno 200 operai per il primo turno, destinato all' opera di ripulitura più complessa. Inutile dire che con 200 dipendenti in meno sulla raccolta, la città - già oggi preda in molte sue parti dell' emergenza rifiuti - rischia di risvegliarsi nel nuovo anno in una immensa pattumiera a cielo aperto. Nonostante siano in funzione tutti gli impianti di trattamento e smaltimento i marciapiedi di molti quartieri - come la Rustica, l' Alessandrino o l' Aurelio - ieri erano coperti di sacchetti. Capodanno è storicamente una giornata border line per il servizio rifiuti. Il 31 dicembre la raccolta termina alle 18.30, mentre il giorno dopo il primo turno inizia alle 3.30 del mattino. Senza contare che poche ore prima nella Capitale si è tenuto il concertone del Circo Massimo, chi resta in città si dedica a cene luculliane e Roma è meta di tanti turisti italiani e stranieri. Gente che, tra un bicchiere e l' altro, sporca più del dovuto. Di solito al primo turno partecipano circa 2mila addetti, che devono coprire gli oltre 3.700 chilometri di strade capitoline. Ma ieri i vertici di Ama si sono accorti che rispetto a quanto previsto circa 200 dipendenti domani mattina si daranno indisponibili. La maggioranza di loro ha presentato regolare certificato medico, altri si sarebbero messi in ferie, ma un certo numero di assenze sarebbe legato anche a un organico - complice i prepensionamenti di Quota 100 - mai incrementato. Anche perché non si può assumere nuovo personale fino a quanto l' azionista - cioè il Comune - avrà approvato il bilancio del 2017. Cosa che l' amministratore unico, Stefano Zaghis, aveva promesso di fare entro oggi.

IL PRECEDENTE. Di fronte alle assenze capodannesche la mente corre a quanto successe nel 2015 a inizio anno: il Primo gennaio di allora - complice un duro contenzioso sindacale con la giunta Marino sul contratto decentrato - l' 83,5 per cento dei vigili marcò visita, mentre soltanto 7 conducenti su 24 delle Metro A erano al mattino regolarmente al proprio posto di lavoro. Dalla Uil Trasporti Alessandro Bonfigli però ricorda che «i lavoratori dell' azienda vanno avanti senza alcun sostegno di natura economico o industriale. Si spaccano la schiena, mentre l' azienda, non approvando il bilancio, non affronta il gap di organico. Per piacere, non parlate di fannulloni». Il bilancio, la cui approvazione, potrebbe slittare all' anno prossimo resta un nodo dolente per l' Ama. L' amministratore Zaghis attende gli ultimi pareri legali per risolvere il credito dei 18,3 milioni di euro per i servizi cimiteriali, che l' azionista comune non vuole riconoscere. Intanto, anche per motivare la prima linea, in via Calderon de La Barca si sta studiando di aumentare lo stipendio ai pochi manager rimasti. Notano Natale Di Cola, segretario della Cgil di Roma e del Lazio, e Giancarlo Cenciarelli, leader della Fp Cgil di Roma e del Lazio: «Se la municipalizzata «fosse realmente in stallo e impossibilitata a chiudere il bilancio consuntivo del 2017 sarebbe una brutta fine dell' anno per i lavoratori che peggiorerebbe un clima di incertezza in cui pesano condizioni di lavoro ormai intollerabili».

Andrea Pegoraro per ilgiornale.it il 27 dicembre 2019. Una tessera telefonica del 1997. È stata trovata questa mattina a Roma, nell’area urbana Tiburtino III durante le operazioni di pulizia di un tombino. A darne notizia il sindaco della Capitale, Virginia Raggi in un post su Facebook. L’aspetto grave, rimarcato dal primo cittadino, è che “quel tombino non veniva spurgato da 22 anni”. Raggi spiega che si tratta di una carta prepagata di 10 mila lire, che è stata recuperata a piazza Santa Maria del Soccorso, nel quadrante est di Roma. La tessera era “immersa completamente in uno strato di fango e foglie - evidenzia il sindaco -. È il simbolo della scarsa, e in molti casi assente, manutenzione degli ultimi decenni”. Raggi ricorda che l’amministrazione comunale sta imprimendo una svolta attraverso nuovi investimenti e interventi di prevenzione sulle zone a rischio. E aggiunge che nell’ultimo periodo è stato stanziato 1 milione di euro per realizzare altre operazioni di manutenzione e pulizia in tutta la città. Il primo cittadino continua con gli elogi e dice che il rapporto con la Protezione Civile è ottimo. Inoltre, ricorda che il Campidoglio ha costruito nuove caditoie a via Prenestina, mentre negli scorsi mesi sono state eseguite delle operazioni specifiche su un tratto di via Trionfale, a nord ovest della Capitale. Poi Raggi rimane vaga e spiega che sono in programma altri interventi a viale della Serenissima e via Tiburtina, nella zona est della città. Anche l’assessore alle Infrastrutture, Linda Meleo commenta sulla sua pagina Facebook il ritrovamento della tessera telefonica. L’assessore sembra quasi divertita dall’insolita scoperta. Precisa che non si tratta “di un’antica anfora o di un mosaico romano” e parla di “un interessante reperto archeologico”. Anche Meleo ribadisce che l’amministrazione comunale sta lavorando per recuperare le carenze a livello di manutenzione, accumulate nel corso degli anni. E ricorda che le operazioni di manutenzione e pulizia caditoie in via ordinaria sono state "rafforzate da un nuovo appalto da oltre 1 milione di euro, con cui siamo già intervenuti su diversi punti critici della città - conclude Meleo - e con cui abbiamo in programma nuove azioni, come su via Prenestina e su viale della Serenissima e via Tiburtina". Nel frattempo, Raggi deve risolvere la questione della nuova discarica. A quanto pare sembra che si farà e il Comune dovrebbe indicare il luogo entro la fine del 2019.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. Membri di spicco di clan mafiosi assoldati per intimorire imprenditori concorrenti, per fare recupero crediti e anche per gestire campagne elettorali e garantire visibilità e voti. Sempre con violenza: minacciando gli attacchini di partiti rivali. È con le accuse di estorsione, violenza privata e illecita concorrenza aggravate dal metodo mafioso che Gina Cetrone, ex consigliere regionale del Lazio del Pdl, è finita in carcere insieme al marito Umberto Pagliaroli e a tre esponenti del clan Di Silvio di Latina: il boss Armando, detto Lallà, e i figli Samuele e Gianluca Di Silvio. Ma l'inchiesta, almeno per quanto riguarda la parte politica, potrebbe essere molto più ampia, visto che membri del clan hanno dichiarato di avere svolto gli stessi servizi anche per altri candidati, di varie liste. E da un'intercettazione emerge il possibile sostegno a quella leghista. Nell'ordinanza di arresto il gip Antonella Minunni definisce la Cetrone e il compagno «scaltri e pericolosi», senza scrupoli «nel ricorrere ai Di Silvio per inibire e condizionare l'attività imprenditoriale di un concorrente e per interferire sull'andamento della campagna elettorale». Avevano un tariffario per la cosca: il 50 per cento sul recupero crediti e 25mila euro per garantire la massima visibilità in occasione della corsa a sindaco di Terracina. «Fateve il lavoro vostro e noi famo il nostro, non mi coprite Gina Cetrone sennò succede un casino», le minacce dei boss agli attacchini rivali. «Un patto politico», lo definisce il gip. Il procedimento è un filone della maxinchiesta ribattezzata «Alba Pontina» sul ruolo dei clan nella provincia di Latina e gli arresti sono stati possibili grazie alle dichiarazione di due collaboratori di giustizia, affiliati al clan, e già sotto processo. È stato uno di loro, Agostino Riccardo, a raccontare dal banco degli imputati di avere svolto la campagna elettorale anche per altri candidati, nel 2016. In particolare, si sarebbe occupato, dietro pagamento, dell'affissione dei manifesti politici, garantendo che non sarebbero stati coperti da nessuno. Un servizio, a suo dire, svolto anche per Raffaele Del Prete, che a Latina lavorava per le campagne elettorali dell'europarlamentare Matteo Adinolfi, che nel 2016 era tornato in consiglio comunale sotto le insegne di Noi con Salvini. Una dichiarazione che sembra supportata da un'intercettazione. Il 30 maggio 2016, Riccardo telefona a Gianluca Di Silvio e dice: «Sto a tornà, io faccio Salvini per Latina». A smentire le parole del pentito, l'ufficio stampa della Lega, che sottolineando l'estraneità ai fatti, parla di «vergognose e false illazioni su presunti contatti tra la Lega e la criminalità organizzata a Latina». Mentre Adinolfi ha sempre sostenuto di non avere mai avuto contatti con il clan. Sono comunque le confessioni dei due pentiti - oltre a Riccardo c'è anche Renato Pugliese - a consentire agli inquirenti di tratteggiare uno spaccato di malaffare. La Cetrone - ora vicina al movimento «Cambiamo!» di Giovanni Toti, che però smentisce incarichi affidati alla donna - secondo gli inquirenti stringe il primo patto con il clan di Silvio nell'aprile 2016. Un imprenditore non ha saldato un debito per forniture di vetro fatte dalla società Vetritalia, dell'esponente politica. Lei lo convoca e insieme al marito chiede l'intera cifra, minacciando l'intervento «degli zingari». Poi, entrano in scena Samuele e Gianluca Di Silvio, e Riccardo. Lo costringono ad andare in banca per fare un bonifico da 15mila euro in favore della Vetritalia e si fanno consegnare 600 euro per il disturbo. Lo raccontano entrambi i collaboratori a verbale. «Un'altra estorsione l'abbiamo fatta su incarico di Gina Cetrone - ricorda Riccardo - Mi chiamò quando ero sorvegliato speciale. Poiché avevamo già preso l'appalto dalla politica pensai che fosse qualcosa attinente la politica. Ne parlammo con Armando e lui disse di andare». Poi, parla del tariffario: «Armando ci disse di ribadire che avremmo preso il 50 per cento». In realtà, per quel servizio avevano ottenuto meno soldi: «Lei ci voleva dare mille euro a testa, accettammo perché disse che ci avrebbe fatto guadagnare con la politica». In settembre, invece, il marito della Cetrone, Pagliaroli, avrebbe ingaggiato Pugliese e Riccardo per intimorire la concorrenza: i due hanno raccontato di avere minacciato un operaio che si era messo in proprio nella produzione di vetro, intimandogli di «non allargarsi troppo con l'attività» e di «stare calmo». Poi, avevano chiesto alla vittima, «per il disturbo», duemila euro. Poi, ci sono le accuse relative alla campagna elettorale. Anche in questo caso, dall'inchiesta emerge il tariffario: 10mila euro per l'affissione dei manifesti, altri 10mila per pagare le auto e la colla, 5mila euro «per la visualizzazione», si legge nell'ordinanza. Riccardo, sentito dagli inquirenti nel luglio 2018, ha raccontato che «Cetrone si era lamentata perché la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza bene nei manifesti di Terracina». Una ricostruzione confermata dal racconto di uno degli attacchini intimiditi: «Era di dominio pubblico come la campagna elettorale di Cetrone era sostenuta dagli zingari. Chiesi a Riccardo il motivo per cui erano stati strappati i manifesti elettorali e sostituiti con quelli di Cetrone. Lui mi rispose con arroganza e prepotenza che loro erano gli zingari di Latina e per questo dovevamo lasciarli stare».

Emilio Orlando per leggo.it il 19 febbraio 2020. Vocali inediti. Mai usciti. Intercettazioni uscite direttamente dai telefoni di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. «A quattro e due glieli stiamo a levà tutti. Ha detto che non se pija a sto prezzo perché fa schifo, Vale già stiamo a fa le cose strane che iene hai fatta vede una e ne porti n’altra ancora, nun poi fa cose, lui è svegli, c’ ha i soldi pe poté prende ste cose. Me spieghi a quanto gliela hai messa e quanto se la deve prende ste cose». La conversazione non lascia dubbi. Il tenore è genuino. Luca Sacchi a sua insaputa ed i componenti della sua comitiva consapevoli che andavano ad acquistare droga, sono stati attirati in una trappola. Dalla chat e dai messaggi vocali di WhatsApp, tra Valerio del Grosso e Valerio Rispoli, assassino e pusher, che hanno preceduto l’agguato in cui è stato ucciso Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni assassinato il 23 ottobre scorso alla Caffarella con un colpo di pistola alla testa, appare chiaro lo spessore criminale dell’assassino. Le conversazioni in mano alla procura di Roma, aprono un ulteriore spaccato malavitoso in cui sarebbe maturato l’omicidio. Un delitto premeditato, in piena regola con un piano diabolico ordito dal killer e dal suo complice Paolo Pirino. Qualche ora prima dell’omicidio, Valerio del Grosso e Valerio Rispoli si accordano per tessere una truffa a Giovanni Princi ed Anastasiya Kylemnik su una fornitura della costosissima marjuana californiana detta anche “spruzzata”, che costa 70 euro al grammo. Già in passato del Grosso e Pirino si erano resi responsabili di un episodio analogo nei confronti di due pusher albanesi di San Basilio alle dipendenze del clan Marando. In quell’occasione, dovette intervenire al polizia del commissariato di zona per soccorrere del Grosso che era stato ferito ad un occhio. Le indagini coordinate dal sostituto procuratore Nadia Plastina che hanno permesso si arrestare in poche ore dall’agguato l’assassino sono chiuse ed il prossimo 31 marzo davanti alla prima corte d’Assise del tribunale capitolino inizierà il processo che vedrà alla sbarra oltre agli esecutori materiali anche l’amico di scuola Giovanni Princi, Marcello de Propris con il padre Armando e Anastasiya Kylemnik.

Omicidio Luca Sacchi, arresta una donna: aveva  i documenti di De Propris. Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 da Corriere.it. Otto chili e mezzo di droga in casa e documenti falsi tra cui uno intestato a Marcello De Propris, in carcere per l’omicidio di Luca Sacchi, avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot, pub in zona Appio, a Roma. Questo quanto hanno trovato i poliziotti del commissariato Primavalle in casa di Franca Granata, arrestata per droga ed estorsione.La donna, secondo quanto si apprende, utilizzava l’auto medica per trasporto sangue per spacciare hashish. A denunciarla sono stati alcuni suoi colleghi che non volevano lavorare con lei. Dalle indagini sono emersi collegamenti con la criminalità e in particolare con la famiglia Pelle di San Luca. Secondo quanto si apprende, gli investigatori invieranno un’informativa in procura per quanto riguarda il rinvenimento del documento di Marcello De Propris. Quest’ultimo è in carcere con l’accusa di concorso in omicidio per aver fornito l’arma del delitto a Valerio Del Grosso e Paolo Pirino.

Fulvio Fiano per corriere.it il 22 giugno 2020. Prima condanna nella vicenda legata all’omicidio di Luca Sacchi. Il gup di Roma ha condannato a 4 anni di reclusione Giovanni Princi, amico di infanzia del personal trainer ucciso nell’ottobre scorso davanti al John Cabot pub in zona Appio, accusato del tentativo di acquisto di 15 chilogrammi di marijuana. Il giudice Pier Luigi Balestrieri ha accolto la richiesta della pm Nadia Plastina che contesta a Princi la violazione della legge sugli stupefacenti. Princi, che rimane agli arresti domiciliari, avrebbe fatto, secondo l’ipotesi investigativa, da intermediario assieme alla fidanzata di Luca, l’ucraina Anastasiya, nella trattativa, finita in tragedia, per l’acquisto di un quantitativo di marijuana (15 kg in cambio di 70mila euro) con il gruppo di San Basilio, capeggiato da Valerio Del Grosso, l’autore del colpo di pistola che ha ucciso Luca Sacchi, e dal complice Paolo Pirino. La condanna è sensibilmente più bassa (un terzo circa) di quanto aveva chiesto la procura ma è comunque un primo punto fermo nella vicenda che portò all’omicidio di Luca Sacchi. Il pm Nadia Plastina in tutte le fasi preliminari al processo ha sempre rimarcato la personalità manipolatoria di Princi e la sua determinazione a delinquere come mostrato anche dalla scelta di non collaborare mai alle indagini neanche dopo il suo arresto (ha sempre scelto di non rispondere negli interrogatori di garanzia). Se Anastasiya era affascinata dalla sua capacità “imprenditoriale” tanto da aderirvi con convinzione, un dato che emerge sia dal suo ruolo nella serata che si rivelerà fatale per Luca sia nella scelta di mentire agli inquirenti per nascondere il giro nel quale era coinvolta, Sacchi subiva la personalità dell’ex amico che aveva allontanato da lui e dalla sua famiglia la fidanzata ucraina. Le ultime intercettazioni depositate nel processo madre, che riprende domani, mostrano infatti come il personal trainer fosse partecipe degli affari di Princi e Anastasiya ma cercasse di tenere una distanza di sicurezza da quello che definiva «uno spacciatore di discreto livello». Temendo forse di veder stravolta la sua vita, avvisava Anastasiya: «Va bene farci affari, ma viverci insieme come una famiglia no».

Droga a Roma, la coca bruciata nei bracieri e le vedette che fermano i poliziotti: il video girato da un «falco» nel bunker dello spaccio nella Capitale. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Antonio Crispino. Una settimana con la squadra dei falchi della polizia a San Basilio a Roma da dove sono partiti i killer di Luca Sacchi. «Consigliami un posto tranquillo dove andare quando avrò finito tutto questo» chiede Andrea a Nicolò che è seduto al suo fianco, al volante di una Renault Megan. I vetri sono appannati, l’auto è parcheggiata sul ciglio di una strada circondata dalla campagna. «Me ne andrei all’Aquila , i miei genitori sono di lì. Grossi reati non ce ne sono, un po’ di pentiti a cui fare la guardia ma niente di più”» risponde ad Andrea che ha gli occhi bassi su una chat di Whatsapp dalla quale ogni tanto escono messaggi vocali registrati da un filo di voce romanesca. Si premura che il collega divaghi per stemperare la tensione ma l’orecchio è teso ai messaggi. L’ultimo è questo: «Si stanno a move’, hanno posato la roba e ora hanno acceso il braciere». Andrea sorride compiaciuto mentre Nicolò continua a parlare del terremoto che ha colpito il suo paese, la gavetta a Milano e poi il ritorno nella capitale. Andrea è Proietti, il vice questore aggiunto dei «Falchi» della Polizia. Sono quasi due ore che siamo in appostamento in incognito con i suoi uomini nel quartiere di San Basilio, una roccaforte della droga unica nel suo genere. Uno dei poliziotti ha una telecamera montata addosso e la terrà con sé per una settimana. Proietti ha dato l’ordine a tutte le pattuglie «in colore» (cioè quelle brandizzate Polizia) di restare lontane per non destare sospetti. Chi gli manda i messaggi è Peppe, un agente in borghese. Era il suo giorno di riposo ma da due ore è acquattato sul tetto di un palazzo insieme a un collega. Ci sono sei gradi e tanta umidità. Appena qualche giorno prima era tra quelli che hanno partecipato alla cattura di Paolo Pirino, uno dei due fermati (l’altro è Valerio Del Grosso) responsabili dell’omicidio di Luca Sacchi dopo aver tentato uno scambio soldi/droga. E quella droga veniva da queste strade, quelle che una volta erano il regno dell’ «Accattone», l’Antonio Mancini della Banda della Magliana. L’organizzazione della piazza di spaccio a San Basilio è più raffinata rispetto a quella pur celebre di Tor Bella Monaca. I pusher sui marciapiedi hanno edificato delle baracche munite di bracieri: sono dei grandi bidoni che ardono costantemente legna. Servono per incenerire la droga in caso di blitz della polizia. È talmente alto il guadagno della piazza che le bande criminali preferiscono perdere il carico di stupefacente piuttosto che rischiare che un loro pusher venga arrestato. Durante l’appostamento succede però che una pattuglia dei carabinieri passi con i lampeggianti accesi. Ferma un’auto per controlli. In macchina si mastica amaro perché allerta gli spacciatori che erano sotto osservazione. Ma, al tempo stesso, ci consente di assistere alla trasformazione della piazza. I pusher si disfano della droga e danno l’alleata alle altre piazze, i clienti vengono rimbalzati da un posto all’altro, i portoni di alcune palazzine diventano punto di transito frenetico, per la strada iniziano a circolare le loro auto per il contropattugliamento: affiancano e sbirciano dai finestrini chiunque non abbia una faccia conosciuta. Identificano persino il poliziotto in borghese sceso a piedi in avvistamento. «Chi sei? Uno delle nuove leve?» gli chiedono. Si decide di annullare l’operazione. Recuperiamo i due poliziotti di vedetta su una palazzina di quattro piani poco distante. La rampa di scale è fatiscente, i portoncini di ingresso in legno hanno i segni di un recente sfondamento. Quelli al primo piano sono stati entrambi sigillati dai carabinieri, erano un deposito di droga. Al centro del pianerottolo ci sono le cassette della posta. Si sofferma a osservarle uno dei poliziotti, c’è qualcosa di strano, da un lato sporge troppo. Inizia a tastare, tirare, spingere e magicamente si apre a libro dalla parete; dietro nasconde degli alloggiamenti in ferro: ci sono i pallini di cocaina. A quel punto si monitorano anche le piastrelle a terra. Viene fuori che anche nel corrimano - di forma tubolare - è stoccata droga. Dal lato basso c’è una specie di tappo a vite, lo possono aprire solo gli spacciatori con una chiave che hanno fatto fabbricare su misura. Occorre una settimana per rimettere in piedi tutto il sistema di osservazione. Il punto di riferimento del quartiere è un bar, lo chiamano «La Coltellata». Qui si regolavano i conti tra le bande di narcotraffico. Sarebbe in via Corinaldo ma ormai più nessuno la chiama così. Una delle poche edicole del rione è ricoperta da un enorme graffito di Diabolik, il fumetto, ma per tutti è il simbolo di Fabrizio Piscitelli, l’ultrà della Lazio ucciso il 7 agosto scorso e vero riferimento per i trafficanti. L’altro lo chiamano «il Calabrese», per le sue origini. E dice molto sulla provenienza della droga. Nei giorni successivi i «falchi» della polizia ripetono il blitz. Si controllano le auto e i motorini nei paraggi. Trovano etti di droga negli appartamenti, tra le piante dei giardini pubblici, nelle auto parcheggiate, calamitata in scatole di latta dietro le inferriate dei palazzi, addirittura custodita nel baule di uno scooter all’interno di una piccola cassaforte; ben 407 dosi di cocaina purissima nascoste nel cruscotto di un’auto. Se tagliate bene sul mercato valgono anche 80 euro l’uno: l’equivalente di quasi due anni di stipendio del poliziotto che le ha scovate. Un business su cui pare reggersi l’intera borgata. Basti pensare che in questo primo mese del 2020 la sola squadra dei Falchi ha arrestato diciotto persone per droga. Nel 2019 ne sono state 180, fermate mentre cercavano di trafficare un totale di 36 chili di cocaina, 80 di hashish e 90 di marijuana. E per quello che si vede in strada sembrano anche poche. Insomma, il giorno per raggiungere un «posto tranquillo» per Andrea e i suoi uomini è ancora lontano.

«Pamela Mastropietro drogata dal fidanzato» Il pm: sei anni di carcere. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Giulio De Santis. La Procura accusa il 21enne Andrei Claudiu Nitu di aver spinto l’allora 16enne romana alla tossicodipendenza e alla prostituzione. La ragazza fu uccisa appena fuggita dalla comunità in cui era per disintossicarsi. È stato il fidanzato di Pamela Mastropietro, la 18enne violentata, uccisa e fatta a pezzi a Macerata il 30 gennaio del 2018 da Innocent Oseghale. Un rapporto durato dieci mesi tra settembre 2016 e giugno 2017, periodo durante il quale Andrei Claudiu Nitu, 21 anni, romeno, conduce la ragazza, all’epoca ancora minorenne, sulla strada della droga, anticamera della sua tragica fine. È lui - secondo la Procura che ne ha chiesto la condanna a sei anni e sei mesi di carcere - a cedere eroina a Pamela. Poi tenta di farla prostituire, convincendola ad avere un rapporto intimo con un cliente. La giovane, però, si oppone alla pretesa di Nitu con fermezza. E infine è l’imputato, come ricostruito dall’accusa, che spinge Pamela a rubare da casa apparecchi e oggetti preziosi con l’obiettivo di rivenderli per poi intascare denaro fresco e comprare eroina. Il pm Maria Teresa Geraci ripercorre il rapporto tra la 18enne e Nitu durante la requisitoria, svoltasi nella prima udienza del giudizio abbreviato, il rito con cui l’ex fidanzato ha scelto di farsi giudicare. Le accuse: cessione di sostanze stupefacenti, tentata induzione alla prostituzione di minorenne e circonvenzione d’incapace. Soprattutto è attraverso quest’ultimo reato che il pm descrive il rapporto tra Pamela e l’imputato. La Procura infatti sottolinea che, fino all’ultimo giorno in cui i due sono stati insieme, Nitu si è approfittato della «deficienza psichica di Pamela, in quanto affetta da un disturbo da uso di sostanze stupefacenti in un contesto di disturbo borderline della personalità». Una situazione preoccupante, che fin da subito allarma la famiglia della giovane. È la mamma, Alessandra Verni - rappresentata come parte civile dall’avvocato Marco Valerio Verni - a denunciare Nitu. La madre di Pamela si presenta negli uffici del commissariato San Giovanni undici volte in due mesi. La prima accusa contro il ragazzo la deposita il 24 aprile del 2017. Anche la nonna della 18enne, Giovanna Rita Bellini, corre allo stesso commissariato a denunciare Nitu, arrestato poi per una serie di rapine contro minorenni. Le denunce sono una dimostrazione della sofferenza dei familiari, che tentano in ogni modo di tenere la ragazza lontano dai guai. Nitu e Pamela si conoscono nel settembre del 2016. La giovane, fino a quel momento, non si è mai drogata. Soffre però di disturbo della personalità. E lui, incurante delle sue condizioni, la spinge a provare l’eroina. Lei, all’epoca sedicenne, se ne innamora, lo segue e si fida. Lui si spaccia per un pugile, la induce a rubare oggetti da casa. Una volta è la televisione, dopo il pc, poi il lettore dvd, i gioielli, infine un quadro. Nitu rivende tutto e spesso trattiene i soldi per sé, talvolta ci compra l’eroina per Pamela. Alla fine i genitori riescono ad allontanare la figlia da Nitu. Pamela, a ottobre del 2017, viene ricoverata in comunità per curare i problemi di personalità aggravati dall’eroina. Poi però il 30 gennaio del 2018 si allontana dalla struttura e trova sulla sua strada il nigeriano Oseghale, condannato all’ergastolo per averla violentata, uccisa e infine fatta a pezzi.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 23 giugno 2020. Abusata due volte, il giorno prima di essere drogata, stuprata, ammazzata e fatta a pezzi da altri. Gli uomini che il 29 gennaio del 2018 hanno incontrato Pamela Mastropietro allo sbando e invece di aiutarla ne hanno abusato la faranno franca. Per loro nessun processo. Potrebbe sembrare surreale ma la giustizia ha i suoi meccanismi. Manca la querela della vittima e, in assenza, il procedimento penale va chiuso. L'archiviazione delle indagini è stata sollevata dalla stessa procura di Macerata che aveva indagato sul cinquantenne di Mogliano che aveva dato un passaggio in auto alla ragazza allora 18enne, dopo che si era allontanata dalla comunità Pars di Corridonia, dove era in cura, e sul tassista di origini argentine che l'avrebbe ospitata a casa la notte prima dell'omicidio. Erano accusati di aver avuto intimità con la ragazza approfittando del suo «evidente stato di difficoltà» e di »'minorata difesa». Pamela, però, non li aveva denunciati. L'indomani aveva continuato la sua fuga consegnandosi inconsapevolmente al suo assassino, Innocent Oseghale, nigeriano, poi condannato all'ergastolo. Un orrore giudiziario, una stortura, che va subito corretto secondo lo zio e legale della famiglia, l'avvocato Marco Valerio Verni: «Sostanzialmente la motivazione è il difetto di querela che, essendo maggiorenne, solo Pamela avrebbe dovuto presentare. Nessun altro, né l'amministratore di sostegno, né la nonna o un eventuale curatore speciale, avrebbe potuto farlo se non lei stessa, uccisa però in via Spalato il giorno dopo le violenze». «Eravamo preparati a questo esito - ha continuato - purtroppo la storia di mia nipote ha dimostrato di essere uno sfortunatissimo unicum». Tra l'altro il giudice delle indagini preliminari non sembra aver affatto escluso che Pamela, quel 29 gennaio, potesse essere in condizioni di inferiorità psichica e che queste potessero essere riconoscibili da chiunque l'avesse incontrata, ma ha respinto l'ipotesi che Pamela potesse trovarsi in uno stato tale da configurare il presupposto per una eventuale omissione di soccorso. Omissione, secondo il penalista, che avrebbe, invece, potuto permettere di superare l'ostacolo tecnico sul difetto di querela per lo stupro. Da qui la decisione di rivolgere un appello alle forze politiche affinché colmino il vuoto normativo. È a un passo dalla sentenza a Roma il processo a carico dell'ex fidanzato di Pamela, colpevole di averla avviata all'uso di droghe. Per Andrei Claudiu Nitu quel fidanzato giovane e troppo problematico, poi arrestato per aver compiuto sette rapine ai danni di ragazzini, la procura di Roma ha chiesto la condanna, in abbreviato, a sei anni e sei mesi di carcere per cessione di sostanze stupefacenti, induzione alla prostituzione e circonvenzione di incapace, proprio nei confronti di Pamela allora poco più che sedicenne. Per Pamela Mastropietro l'anticamera dell'inferno si era aperta proprio a Roma, a piazza Re di Roma. Mesi prima che venisse ritrovata nelle due valigie a Macerata.

Da “Libero quotidiano” il 15 ottobre 2020. «Oseghale deve guardarmi negli occhi e indicare i suoi complici». Così Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, la giovane romana violentata, uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio del 2018, in un'abitazione di Macerata. Anche ieri in aula, in occasione della seconda udienza del processo davanti alla corte d'appello di Ancona nei confronti di Innocent Oseghale, la donna ha detto di non credere alla tesi di un solo uomo capace del delitto e dello scempio sul cadavere della figlia e ha sfidato lo spacciatore nigeriano, condannato in primo grado all'ergastolo e per il quale il Pg ha chiesto la conferma della pena.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 17 ottobre 2020. Confermata ad Ancona dalla Corte d'assise d'Appello la condanna all'ergastolo con isolamento diurno di 18 mesi per Innocent Oseghale, 32enne pusher nigeriano, per l'omicidio della 18enne romana Pamela Mastropietro, uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio 2018 a Macerata. Le accuse sono omicidio volontario aggravato della violenza sessuale, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere. "Bravi, grandi". L'applauso di Alessandra Verni, madre della 18enne, ha salutato il verdetto della Corte. Mentre Oseghale stava uscendo dall'aula, scortato dalla polizia penitenziaria, l'uomo ha detto ad alta voce: "Non l'ho uccisa, va bene, capite tutti italiani". "Ci aspettavamo questa sentenza, vista l'aria che tirava", il commento a caldo di uno dei due legali. La difesa ha annunciato il ricorso in Cassazione perche "si sono verificate delle violazioni di legge". La sentenza è arrivata dopo una lunga udienza dedicata in particolare alle arringhe difensive e alle dichiarazioni spontanee dell'imputato. "Non ho ucciso Pamela", ha ribadito Oseghale ammettendo “quasi impassibile di averne sezionato il corpo per disfarsene perche” non entrava in una valigia. "Ero sotto shock, confuso, agitato - ha riferito a proposito del sezionamento del corpo, leggendo un foglio manoscritto tradotto da un interprete dall'inglese - ho fatto una cosa terribile... mi dispiace". Le scuse sono state rispedite al mittente prima dal legale della famiglia, Marco Valerio Verni, zio di Pamela, e poi dalla madre della 18enne romana, sempre presente alle udienze. "Le scuse se le può tenere - ha replicato a margine del processo -. Ha avuto l'ultima possibilità di raccontare la verità e non l'ha fatto. Non gli credo. Andò a comprare la candeggina con un altro, ci spieghi perché...". Il corpo della giovane venne ritrovato il giorno seguente all'interno di due trolley sul ciglio di una strada a Pollenza, vicino Macerata, dove Oseghale l'aveva lasciato. Accolta dunque dai giudici la ricostruzione della procura generale, rappresentata dal pg Sergio Sottani e dal sostituto Ernesto Napolillo: Oseghale uccise Pamela con due coltellate al fegato dopo aver consumato con lei un rapporto sessuale, approfittando dello stato di fragilità della ragazza - con doppia diagnosi borderline e di tossicodipendenza - scappata il giorno prima da una comunità terapeutica e che aveva assunto eroina procurata proprio per il tramite di Oseghale. L'omicidio, secondo l'accusa, sarebbe stato il modo per evitare che lei lo denunciasse. In udienza la difesa ha dato battaglia per respingere le accuse di omicidio e violenza sessuale. I difensori hanno contestato le risultanze medico legali e in particolare il fatto che le due ferite da coltello fossero state inferte quando Pamela era in vita. Il 32enne ha sempre sostenuto che Pamela accusò un malore in casa dopo essersi iniettata eroina e che poi morì: lui, preso dal panico, secondo la sua versione dei fatti, smembrò il corpo solo per disfarsene. Opposta la ricostruzione accusatoria che ha delineato il profilo di Oseghale come di una persona incline a mentire, con particolari abilità medico legali, tanto da fare a pezzi il corpo con modalità uniche al mondo tra i casi di criminologia.

Estratto dell’articolo di Val.Err. per “il Messaggero” il 21 ottobre 2020. Quel suo primo fidanzato, allora diciannovenne, Pamela Matropietro lo aveva incontrato nel 2016, quando aveva solo 16 anni. Tutto sarebbe cominciato da lì. È Andrei Claudiu Nitu, secondo la ricostruzione dell'accusa, che avrebbe trascinato quella ragazzina, fragile e con disturbi di personalità, nel giro della droga, tentando anche di farla prostituire per qualche dose. Una strada senza ritorno, che avrebbe portato, due anni dopo, Pamela alla morte. Uccisa e tagliata a pezzi, il suo corpo rinchiuso in due valigie. Così, dopo la conferma dell'ergastolo per Innocent Oseghale, ieri, è arrivata anche la sentenza per Nitu: il gup di Roma ha condannato con rito abbreviato a tre anni di reclusione e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. L'accusa cessione di sostanze stupefacenti e tentata induzione alla prostituzione. […] Per il pm, approfittando dello stato di disagio e delle difficoltà della ragazza, l'aveva indotta a sottrarre i beni in casa, per venderli e racimolare qualche soldo da spendere in dosi di eroina. […] A presentare la denuncia era stata Alessandra Verni, la mamma di Pamela, dopo aver trovato il cellulare della figlia con dei messaggi inequivocabili nei quali l'allora fidanzato faceva riferimento allo spaccio di eroina. […]

I morti chiedono giustizia, anche se non possono sporgere denuncia. In Italia per il reato di abuso sessuale è previsto l’obbligo della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata uccisa brutalmente, non ha di certo potuto presentare denuncia. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per il crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Michel Emi Maritato il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Pamela Mastropietro, una sorte spietata. L’omicidio della diciottenne nella casa degli orrori di Macerata, culminato con la condanna all’ergastolo di Innocent Oseghale, confermata in corte d’appello, oltre ad aver suscitato la commozione – unita alla riprovazione – di tutto il Paese, pone inquietanti interrogativi. Una ragazza fragile, in difficoltà, della cui debolezza hanno approfittato in molti. Dagli uomini comuni che ha incontrato sulla propria accidentata strada, che non hanno saputo che regalarle denaro al posto di aiuto e comprensione, fino ai violenti spacciatori che ne hanno decretato il supplizio e la morte. Pensiamo al 50enne di Mogliano che le aveva dato un passaggio, intercettandola dopo che si era allontanata dalla comunità di recupero di Corridonia. Oppure al tassista di origine argentina che l’avrebbe ospitata a casa la sera prima del delitto. Nessuno di questi ha pensato alle condizioni di Pamela, sopraffatti dal proprio egoismo di maschi predatori. Se fossero intervenuti per tempo forse la ragazza avrebbe potuto salvarsi dalla furia degli aguzzini nigeriani che su di lei hanno sperimentato quanto di più aberrante possibile: violenza sessuale, omicidio e vilipendio di cadavere. Più di questo non si può. E qui arriviamo ai motivi di sconcerto: nel nostro Paese, per il delitto di abuso sessuale è prevista l’obbligatorietà della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata trucidata e rinchiusa in due valigie, ovviamente non ha potuto denunciare i mostri. Perché esattamente il giorno dopo un mostro l’ha uccisa in un modo orribile. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per questo crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Questa, in sintesi la storia di una ragazza dalla psiche debole, sopraffatta da qualcosa più grande di lei. Non si può tacere, notizie simili non possono passare sotto silenzio. La normativa deve essere adeguata. Se i predatori sessuali di Pamela non sono responsabili per la legge, lo sono per la coscienza morale e la politica sembra sorda e cieca di fronte a tale aberrazione. È evidente come tali previsioni legislative mantengano ancora un’impronta patriarcale ma occorre subito intervenire per colmare il vuoto normativo. Un reato detestabile come l’abuso e la violenza sessuale è punito con pene non commisurate alla gravità dell’evento. Basti pensare allo choc che impedisce alla maggior parte delle donne di denunciare, alla destabilizzazione conseguente a una violenza, che spinge molte di loro in una condizione psicologica devastante. Così, si spiega l’impunità di molti reati, una violenza ulteriore per il genere femminile. E il caso di Pamela, nel novembre 2019 è finito al Parlamento europeo, grazie a un convegno promosso dal gruppo “Identità e Democrazia” in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Proprio in tale circostanza, in cui sono stati sviscerati tutti i retroscena di questo orrendo crimine, si è stabilito un legame tra l’assassinio, l’accanimento sul cadavere della povera diciottenne e la mafia nigeriana, presente ormai in vari paesi del mondo e in Italia, con i suoi delitti e i suoi riti. “Ciò che ha subito Pamela va oltre la violenza contro una donna: è una violenza contro l’umanità intera”, è la convinzione dell’avvocato Marco Valerio Verni, legale della famiglia Mastropietro e zio della ragazza. Per questo il parlamento europeo, così sensibile al rispetto dei diritti umani, dovrebbe battere un colpo, manifestare il proprio disappunto di fronte a tale lacuna legislativa. Basterebbe una direttiva, una raccomandazione, la “moral suasion” (persuasione morale autorevole, ndr) dei rappresentanti Ue perché i Paesi aderenti si adeguino. A condanna comminata, non si può dimenticare la posizione dell’affollato pool di legali del nigeriano, che voleva “difendere l’indifendibile”, secondo quanto dichiarato da Luisa Regimenti, che non ha risparmiato sforzi per smontare tali tesi. Una linea difensiva che, come dichiarò la dottoressa in un’intervista al Secolo D’Italia, era basata “sul nulla, parlando di un quadro probatorio incerto, di destabilizzazione mediatica, di un rapporto intimo consensuale”, arrivando a fornire, nel corso delle udienze, “dati errati e fuorvianti”. Queste, le distorsioni cui si va incontro in un processo che implichi la violenza sessuale. Ne abbiamo avuto fulgidi esempi ma il sacrificio di Pamela non deve restare vano. Deve esserci uno sforzo collettivo da più parti. La politica non può più ignorare tale emergenza.

Marco Della Corte per il Giornale il 29 dicembre 2019. Il padre di Luca Sacchi, Alfonso, ha di recente fatto un'importante dichiarazione agli inquirenti, una confidenza più che altro, che tuttavia fa venire i brividi, in quanto sottolinea il totale menefreghismo da parte di Giovanni Princi (amico di Luca) una vota venuto a conoscenza della morte del giovane. Alfonso Sacchi ha affermato: "Mio cugino Massimo mi ha raccontato che quando hanno dato la notizia della morte di Luca, Giovanni Princi ha detto: "Vabbé, allora se è morto andiamo a farci una birra e un panino, che sto morendo di fame" ". Luca Sacchi, di professione personal trainer, è stato freddato con un colpo di pistola alla testa la sera del 23 ottobre 2019. L'omicidio è avvenuto a Roma durante una compravendita di droga finita male. La testimonianza del genitore di Luca è molto importante per gli inquirenti, in quanto, a detta loro, la presunta reazione di Princi delinea la caratura del giovane "inserito stabilmente in contesti criminali". Lo stesso Princi sarebbe stato colui che avrebbe introdotto la fidanzata di Luca Sacchi, Anastasia Kylemnyk, nel mondo dello spaccio. Come si legge dal settimanale Giallo, pervengono nuove ipotesi inquietanti sulla ragazza. Sempre tramite l'intermediazione di Giovanni, Kylemnyk sarebbe entrata in contatto con un potente e pericoloso criminale, Fabio Casali, un individuo legato allo spaccio di cocaina tra Italia e Sud America. Casali è stato già condannato a 16 anni di carcere e ritenuto, secondo gli inquirenti, il principale intermediario tra i narcos romani e i cartelli colombiani. Una pista che ha ufficialmente aperto un terzo filone investigativo riguardo l'omicidio di Luca Sacchi. Anastasia Kylemnyk sarebbe entrata in contatto con un pericoloso narcotrafficante, Fabio Casali, ago della bilancia tra narcos romani ed organizzazioni criminali del Sud America. Un'evidenza emersa dopo l'esame da parte degli inquirenti sui tabulati telefonici di Giovanni Princi. Quest'ultimo, una decina di giorni prima l'omicidio di Luca Sacchi, aveva contattato lo stesso Casali per poi telefonare subito dopo ad Anastasia. una volta terminata la conversazione con la 25enne, Princi (anche lui con precedenti per spaccio) aveva immediatamente richiamato il narcotrafficante. I messaggi e le telefonate hanno aperto quindi un nuovo filone investigativo sul caso di Luca Sacchi. L'eventuale sicurezza su reali contatti tra Anastasia e Casali sarebbe la conferma che i 70 mila euro trovati addosso alla baby-sitter ucraina, sarebbero serviti per acquistare sostanze stupefacenti e che la ragazza sarebbe stata effettivamente parte integrante del business dello spaccio.

Omicidio Luca Sacchi: «Parte dei soldi nascosti nell’auto di Anastasiya». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Per il tribunale è plausibile che la fidanzata di Luca nascondesse una porzione dei 70mila euro destinati all’acquisto di 15 kg di marijuana. «In assenza di plausibili e lecite spiegazioni, è ragionevole ritenere che nell’auto con cui Anastasiya Kylemnyk era giunta al pub quella sera vi fosse qualcosa da occultare con assoluta urgenza (verosimilmente la restante somma di denaro, oltre a quella occultata nello zaino e mostrata a Rispoli, destinata ai fornitori)». Nell’ordinanza del tribunale del Riesame prende forma il sospetto a lungo ipotizzato che la Citroen C1 gialla della 25enne fidanzata di Luca Sacchi avesse una funzione ben definita nelle dinamiche di compravendita di droga davanti al John Cabot pub all’Appio Latino. È la stessa vettura che lei inizialmente nega di aver utilizzato per arrivare all’appuntamento col suo ragazzo e che il complice della ucraina, Giovanni Princi, si affretta a far spostare dalla scena del delitto, mentre il suo amico lotta in ospedale tra la vita e la morte. Così argomenta il tribunale della Libertà nel respingere le richieste di Princi (chiedeva di passare dal carcere ai domiciliari) e Anastasiya (revoca dell’obbligo di firma): «Illuminante, per capire il motivo di tanta solerzia del Princi nel recuperare l’auto della Kylemnyk, sono le dichiarazioni rese in data 2.11.2019 da Marco Lico (un amico del fratello di Luca, ndr). Quest’ultimo ha riferito che, dopo che era terminata l’operazione cui era stato sopposto Sacchi, Princi gli aveva chiesto di accompagnarlo a recuperare il veicolo di Anastasiya; erano quindi andati con la panda dei Sacchi dove era parcheggiata l’auto della ragazza, nei presi del pub». I giudici continuano riportando uno stralcio del verbale in cui »Lico descrive in maniera precisa i movimenti del Princi: “...Io ho guidato la Fiat Panda dei Sacchi e Giovanni ha preso l’autovetura di Anastasiya. Giovanni mi ha detto di seguirlo e nel punto in cui lui, con l’autovettura Anastasiya, avesse acceso le quattro frecce, io mi sarei dovuto fermare ad attenderlo lì. Io ho seguito la Citroen, con Giovanni a bordo, fino a metà di viale Amelia, poco prima dell’incrocio con vi Gubbio, dove lui ha acceso le quattro frecce delle Citroen e, come concordato, mi sono fermato... Dieci minuti o un quarto d’ora dopo, Giovanni, sempre alla guida della Citroen di Anastasiya, mi ha raggiunto in viale Amelia... Mi ha detto di seguirlo... per fumare una sigaretta... Dopo pochi minuti abbiamo ripreso le rispettive autovetture e con entrambi i veicoli siamo andati all’ospedale San Giovanni...”». Tanto si è ragionato su questo comportamento di Princi (che, unico tra i presenti coinvolti a vario titolo), si era allontanato dalla scena del delitto all’arrivo dei carabinieri. Il Riesame evidenzia dunque che: «Risalta in maniera evidente il lungo lasso di tempo (dieci minuti o un quarto d’ora) nel quale Princi si è allontanato da solo con l’auto della Kylemnyk». Il resto emerge, secondo i giudici, dalle contraddizioni di Anastasiya: «L’indagata prima dice di aver appoggiato lo zaino per far passeggiare il cane (eppure lo ziano conteneva il denaro che le era stato affidato da Princi); poi dice di aver passeggiato con Luca fino a una panchina dove aveva preso una bottiglietta d’acqua dallo zaino. E alla contestazione del gip che le fa notare l’evidente contraddizione (durante l’interrogatorio di garanzia, ndr), la ragazza cambia di nuovo versione e dice che Princi l’aveva richiamata per farle prendere con sé lo zaino. Dunque Princi si fidava a tal punto della Kylemnyk da lasciarla allontanare con i soldi che gli servivano per il suo “impiccetto”». Quest’ultimo è il termine usato dalla 25enne ucraina per provare a liquidare con un «affare di motociclette» la ragione del denaro affidatole dall’amico. Una ennesima bugia che oggi non sta più in piedi. Anzi, il fatto di aver tenuto parte dei 70mila euro promessi ai pusher nascosti nell’auto (mostrando comunque lo zaino pieno di banconote) sembra fornire altri argomenti per sostenere la dimestichezza con cui Princi e Anastasiya conducevano quell’affare. Forse non il primo di questo genere.

Michela Allegri per il Messaggero il 4 febbraio 2020. C'erano altri soldi, oltre a quelli nascosti nello zaino di Anastasia Kylemnyk e rubati di pusher di San Basilio, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. E il sospetto degli inquirenti è che il denaro fosse nella macchina della ragazza, che Giovanni Princi ha spostato in fretta e furia mentre il suo amico Luca Sacchi lottava tra la vita e la morte in ospedale. La notte del 23 ottobre, dopo che Del Grosso aveva sparato in testa a Sacchi per rubare alla sua fidanzata Anastasia uno zaino pieno di banconote, Princi aveva una preoccupazione su tutte: spostare la macchina della Kylemnyk. Tanto da chiedere a un amico di accompagnarlo davanti al pub John Cabot, all'Appio Tuscolano, dove si trovava il veicolo. Quella sera c'era stata una trattativa per la compravendita di 15 chili di erba - condotta da Princi e da Anastasia, per l'accusa - con i due pusher di San Basilio, ora in carcere con l'accusa di omicidio insieme a Marcello De Propris. La cifra pattuita per lo scambio era 70mila euro in contanti. I soldi si trovavano nello zaino della ragazza: erano così tanti che Del Grosso si era ingolosito e aveva deciso di derubare gli acquirenti senza consegnare la droga. Lo spaccio, diventato rapina, era poi sfociato nell'omicidio di Luca. E ora la Procura ha un nuovo sospetto: nello zainetto rosa di Anastasia, probabilmente, c'era solo una parte del denaro. Il resto si trovava nella sua macchina, prontamente spostata da Princi mentre Sacchi moriva all'ospedale San Giovanni. Una ricostruzione condivisa dal tribunale del Riesame, che lo scorso dicembre ha confermato le misure cautelari a carico di Princi - che si trova in carcere - e di Anastasia, che ha l'obbligo di firma. Entrambi sono accusati di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio.

LE BUGIE. Anastasia ha mentito il giorno dell'omicidio, quando ha sporto denuncia sostenendo di essere stata vittima di una rapina e omettendo la questione della droga. Ha raccontato di essere arrivata al John Cabot, luogo dell'appuntamento con i pusher, a piedi. In realtà era arrivata in macchina. La versione di Anastasia non ha convinto nemmeno il gip, quando la babysitter venticinquenne si è sottoposta a interrogatorio di garanzia. Ha dichiarato che Princi le aveva chiesto di tenere una busta dentro allo zaino e di non sapere che all'interno ci fossero molti soldi. Quando le è stato chiesto di spiegare come mai Princi avesse le chiavi della macchina, ha detto: «Ho lasciato lo zaino, Giovanni mi ha chiesto anche le chiavi, mi ha detto: Casomai dopo poggio la busta lì dentro». Per il Riesame, questa dichiarazione è «un inutile tentativo di giustificare la disponibilità da parte di Princi della chiavi»: era stato Princi a riportargliele in ospedale la notte dell'omicidio, «dopo avere spostato il veicolo dal luogo in cui era parcheggiato». I giudici sottolineano che «non è affatto casuale che di tale incombenza si fosse occupato proprio Princi».

DIECI MINUTI SOSPETTI. Viene considerata fondamentale la testimonianza di Marco Lico, un amico di Luca. In ospedale, dopo che era finita l'operazione per cercare di salvare Sacchi, Princi gli aveva chiesto di accompagnarlo a recuperare l'auto. Erano andati con la Panda dei Sacchi fino al pub: «Io ho guidato la Panda e Giovanni ha preso la macchina di Anastasia. Mi ha detto di seguirlo nel punto in cui lui avesse acceso le quattro frecce, io mi sarei dovuto fermare ad attenderlo lì. Ho seguito l'auto fino a metà di viale Amelia, poco prima dell'incrocio con via Gubbio, dove lui ha acceso le quattro frecce e, come concordato, mi sono fermato. Dieci minuti o un quarto d'ora dopo, Giovanni, sempre in auto, mi ha raggiunto in viale Amelia, mi ha detto di seguirlo per fumare una sigaretta. Dopo pochi minuti abbiamo ripreso le rispettive autovetture e siamo andati all'ospedale San Giovanni». Il Riesame sottolinea che «risulta in maniera evidente il lungo lasso di tempo (10 minuti o un quarto d'ora) nel quale Princi si è allontanato da solo con l'auto della Kylemnyk». Un dettaglio considerato sospetto: «In assenza di plausibili e lecite spiegazioni, è ragionevole ritenere che nell'auto con cui la Kylemnyk era giunta al pub quella sera ci fosse qualcosa da occultare con assoluta urgenza, verosimilmente la restante somma di denaro, oltre a quella occultata nello zaino della Kylemnyk, destinata ai fornitori».

Michela Allegri per ilmessaggero.it l'1 febbraio 2020. Era inserita nel buisiness della droga. E ha mentito davanti agli investigatori, mentre il fidanzato era in fin di vita e anche dopo la sua morte. Ha fornito una versione «fantasiosa» e «inverosimile» anche dopo essere stata raggiunta dalla misura cautelare dell'obbligo di firma. Una misura restrittiva che, secondo il tribunale del Riesame, per Anastasia Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, è «appena sufficiente» a mantenere «un controllo per prevenire il pericolo di reiterazione del reato». Nelle motivazioni con cui i giudici hanno respinto la richiesta di revoca dell'obbligo di firma e che hanno anche confermato il carcere per Giovanni Princi, amico di lei e di Sacchi, la ragazza avrebbe svolto un ruolo di primo piano nella trattativa per la compravendita di 15 chili di droga costata la vita al personal trainer di 24 anni. La baby sitter venticinquenne è accusata insieme a Princi di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio. La sera del 23 ottobre avevano appuntamento con i pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino - in carcere per l'omicidio di Sacchi insieme a Marcello De Propris - per acquistare 70mila euro di erba. Il denaro, secondo quanto ricostruito dai carabinieri e dalla pm Nadia Plastina era nascosto nello zaino della ragazza. Del Grosso, dopo avere visto i soldi, aveva deciso di rapinare i compratori: Pirino aveva colpito la Kylemnyk con una mazza e Del Grosso aveva sparato a Sacchi, che aveva reagito alla violenza. Per il Riesame, che il 19 dicembre ha ribadito le misure, «sussiste un concreto pericolo di reiterazione del reato, in ragione delle modalità del fatto e della personalità degli indagati». Un dettaglio è fondamentale: «L'acquisto di ben 15 kg di marijuana denota uno stabile inserimento negli ambienti della droga da parte degli indagati, che evidentemente riforniscono ad una larga clientela». Per i magistrati, infatti, «si tratta di un'attività che certo non è episodica ma che viene svolta con abitualità». Princi era inserito nel giro: aveva 4 utenze cellulari «anche intestate a stranieri», ha consigliato a un cliente di utilizzare un'app criptata e non ha nemmeno voluto dargli il suo numero di telefono. Circostanza «sintomatica di estrema cautela e professionalità, tipica di soggetti abituati a dinamiche criminali». E, sottolineano ancora i giudici, il giovane era in grado di muoversi in maniera «professionale», con «scaltrezza». Per i pm è il regista della trattativa, e anche per il Riesame «è plausibile che abbia avuto un ruolo, se non di leader, di certo di promotore dell'affare». Dopo l'arresto, oltretutto, ha deciso di non rispondere al gip, dimostrando «di non voler interrompere i rapporti con gli ambienti criminali, in prospettiva di futuri affari». Anche per quanto riguarda Anastasia gli indizi sono «gravi». Ha mentito all'inizio, quando ha sporto denuncia raccontando di avere subito una rapina. E ha mentito anche in seguito, fornendo versioni «fantasiose». Ha detto che Princi le aveva chiesto di tenere nello zaino una busta di soldi che gli servivano per acquistare una moto, per «un impiccetto». Aveva anche detto di aver raggiunto il luogo dell'appuntamento, il pub John Cabot in via Mommsen, a piedi. In realtà era arrivata in macchina. E quella stessa macchina era stata spostata da Princi mentre Luca era in ospedale. Anastasia ha giustificato quella bugia dicendo al gip che «quando hanno portato via Luca ero sicura che fosse vivo, ho pensato stupidamente di non volerci mettere in mezzo a questo impiccio di Giovanni». Ma il Riesame sottolinea che la giovane ha continuato a tacere, anche quando Sacchi era morto e «non c'era più motivo di mantenere riserbo». Per i magistrati, l'indagata ha «cercato di sviare le indagini dal vero scopo della sua presenza davanti al pub».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 24 gennaio 2020. «Basta, da ora in avanti faccio quello che voglio», così Anastasia scriveva a Luca Sacchi un mese prima che il proiettile sparato da Valerio Del Grosso uccidesse il bodybuilder. Litigavano, Luca e Anastasia. Ciascuno attribuiva all'altro scorrettezze e Sacchi non si fidava più della fidanzata, adesso sotto inchiesta con l'ipotesi di detenzione ai fini di spaccio. «Stai con uno dei tuoi amanti?», le diceva, mentre lei non sopportava il rapporto tra Luca e la madre: «Quindi tu starai sempre dalla parte di tua madre e mai dalla mia, giusto? - scriveva la ragazza in un messaggio - Se ti dice: scegli o me o lei, tu dirai mammina, vero?». Le chat sono agli atti del fascicolo per omicidio, perché la tragedia che si è consumata davanti al pub John Cabot, lo scorso 23 ottobre, è stata l'epilogo di una trattativa per l'acquisto di droga. Settantamila euro, nascosti nello zaino di Anastasia. Almeno secondo i carabinieri e la procura. Soldi che Valerio Del Grosso e il suo complice, Paolo Pirino, avrebbero voluto prendere senza dare in cambio la merce. Sono le 3 del 9 settembre quando Anastasia chiede a Luca: «Ti va ancora di stare con me? Ti va di amarmi? Non è un gioco o una domanda scontata». Luca risponde di sì e Anastasia continua: «Tu vuoi stare con una come me?». «Una come te?», chiede Luca, e lei ripete: «Una come me». Sacchi risponde: «Dopo la sbroccata di prima ho paura, ma comunque sì, voglio stare con te, tu?».  Anastasia si innervosisce: «E già questa risposta ad una come me, sono sincera, non mi piace per niente, mi fa solo allontanare e penso alle cose che ti ho detto prima. Forse, davvero, potremmo essere degli ottimi amici che si vogliono bene, forse è questo che ci aspetta». Luca risponde: «Basta essere così diretta con me, affronti questo argomento con troppa semplicità, come se non ti toccasse». E lei: «Io se dico queste cose è solo perché tengo un mondo a te e non voglio assolutamente essere un peso per la tua vita, ma una gioia». L'11 settembre Anastasia scrive a Luca: «Sei perfetto in tutto, perché sai frenarmi e invogliarmi allo stesso tempo». Due giorni, alle 18, dopo Luca annuncia alla fidanzata che sta per raggiungerla. E lei: «Non mi rompere, mi hai stufato. Non perché voglio che tu lo sappia, ma d'ora in avanti, te l'avevo già detto, faccio quello che voglio e non una relazione di costrizioni». «Non trattarmi così», ribatte Luca. Ti sto chiedendo solo di rispondermi». E Anastasia: «Ma che c... vuoi dire che io ti tratto come fai te? Che ti perculo davanti agli altri. O che per caso ti mando a casa col rischio che succede qualcosa e io me ne vado perché ho sonno o perché mamma si preoccupa. Penso sempre in primis a te, in cambio ho un co... che mi dice che la mia vita fa schifo e mi sfogo con lui. Sappi che la mia vita ha cominciato a fare schifo da quando ci sei tu». Il 15 settembre è Luca ad essere arrabbiato con Anastasia, le scrive parolacce, perché lei non risponde. «Non posso andare avanti così. Non riesco ad avere parole. Sono arrabbiatissimo con te». E Anastasia: «Ma perché, scusa. Ti ho detto che andavo a casa e sto a casa, perdonami». E lui: «Non mi sono fidato troppo perché eri un po' fatta e avevo paura di qualsiasi cosa». Lei: «Vaffa...» E Luca: «Hai fatto proprio una cazzata grossa come una casa e ti giuro mi ha dato proprio fastidio. Ancora non ho risolto, per un motivo o per l'altro. Certe volte mi scordo, altre non se po' fa'».

Alessia Marani per “il Messaggero” il 27 gennaio 2020. Non sarà tra gli imputati, ma la sua testimonianza, come quella di Valerio Rispoli, sarà fondamentale al processo che si aprirà il 31 marzo per delineare come si sono svolti i fatti nella notte tra il 23 e il 24 ottobre, quando Luca Sacchi è stato ucciso davanti al John Cabot Pub all'Appio Latino. Simone Piromalli, 27 anni, quella sera aveva accompagnato l'amico Valerio Rispoli in via Latina per sincerarsi, per conto del pusher Valerio Del Grosso - altro amico comune ed esecutore materiale del delitto - che i ragazzi dell'Appio avessero i soldi per la compravendita di marijuana. Il gruppo di amici a Casal Monastero aveva già fatto parlare di se, tra scorribande nei condomini e qualche lite animata. «Sì, quella ragazza bionda, Anastasia, ci mostrò la borsa rosa con dentro tutti quei soldi. Con lei, nel luogo dell'appuntamento, c'era anche Luca Sacchi. Quando, un'ora dopo, l'ho rivisto per terra, sanguinante, tra le sue braccia l'ho subito riconosciuto dalla tuta che indossava». Tre mesi dopo, Simone (che non è indagato) riporta alla memoria quei fatti. Il ragazzo è a casa, «sto studiando e tra poco inizia il derby, gioca la Roma e non mi va di parlare più di tanto», dice. Ma quanti soldi c'erano nello zainetto di Anastasia? «L'avete detto, l'avete scritto. Ne sapete più voi giornalisti...». Gli inquirenti sostengono ci fossero settantamila euro, non sono un po' tanti per entrare nella borsa di Nastja? «Non è che alla fine siano troppi, ci stanno, e là dentro c'erano tanti soldi». Simone la sera del 24 ottobre alle 23,30 venne convocato dagli investigatori e di fronte ai poliziotti e ai carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci che hanno portato avanti le indagini, fornì una prima ricostruzione dei fatti. Dopo venti minuti, però, cambiò versione e cominciò a raccontare di come Rispoli gli avesse chiesto di accompagnarlo ai Colli Albani, «dietro un piccolo compenso», a parlare con un ragazzo (Giovanni Princi, ora in carcere) per definire i termini di una cessione di marijuana. «Dopo di allora i carabinieri non mi hanno più richiamato, non sono più stato sentito da nessuno neanche in Procura - spiega Simone -, adesso si andrà a processo, per me vale quello che ho messo a verbale, se necessario lo ripeterò». Rispetto alla versione resa da Rispoli ci sono delle discrepanze su chi fosse presente alla trattativa, per esempio Rispoli (anche lui non indagato) non cita la vittima, Luca. «Forse non se lo ricordava lì per lì, ma c'era, non credo passasse per caso». Simone è rimasto in contatto con Del Grosso (accusato dell'omicidio insieme a Paolo Pirino che lo accompagnò all'Appio per rapinare lo zaino con i soldi e, nell'occasione, sparò a Sacchi) fin dal giorno dell'arresto. «L'amico mio sta male, giura che è pentito». «Ci scambiamo email dal lunedì al venerdì - racconta il ventisettenne - immagino sia sollevato dalla chiusura delle indagini perché così potrà lasciare l'isolamento. Di tutta questa storia, mi spiace per quel ragazzo morto, ma tanto anche per Valerio. Non passa giorno che non dica che si è pentito, è dispiaciuto, davvero non è felice per quello che ha fatto. Io? Continuo la vita mia, quella sera che sono uscito tutto pensavo meno che sarebbe accaduta una tragedia del genere».

Delitto Sacchi, «fu premeditato»: subito a processo anche Anastasiya. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Disposto il giudizio per sei persone. La 25enne ucraina accusata di detenzione e spaccio. In chat chiedeva a Luca: «Ti sembro dottor Jekyll e mister Hyde?». Per la determinazione nel procurarsi il revolver e per il sufficiente lasso di tempo trascorso dalla vista dei 70mila euro nello zaino di Anastasiya Kylemnyk alla realizzazione del piano per la rapina sfociata nel delitto, quello di Luca Sacchi fu un omicidio premeditato. È il presupposto con cui la Procura di Roma, a chiusura delle indagini in meno di tre mesi, ha chiesto e ottenuto il processo immediato per gli assassini del 24enne e per i responsabili dell’affare di droga da cui ne originò l’uccisione lo scorso 23 ottobre al quartiere Appio Latino. Un caso nato come una rapina anomala, complicato dalla difficoltà di ricostruire il quadro di relazioni tra i giovani spacciatori e dalla reticenza di chi, come la 25enne ucraina, da parte lesa è poi passata sul banco degli imputati. Uno sdoppiamento notato in modo quasi profetico anche dal fidanzato: «Ti sembro Dottor Jekyll e Mr Hyde?», gli chiedeva lei in chat il 15 novembre. Del delitto rispondono in concorso Valerio Del Grosso (esecutore materiale), Paolo Pirino (partecipe all’aggressione impugnando una mazza da baseball) e Marcello De Propris (che fornì la pistola ed era a conoscenza del progetto di rapina). I tre sono accusati anche di rapina e possesso d’arma. Con Anastasiya e Giovanni Princi, ritenuto la mente della compravendita e finanziatore dell’acquisto di 15 chili di marijuana con la liquidità di analoghi affari precedenti, condividono invece l’accusa di detenzione e spaccio. Il padre di De Propris, Armando, è accusato del possesso della pistola e della droga che custodiva già stoccata nel garage. La prima udienza si terrà per tutti il 31 marzo in Corte D’Assise. In base alla nuova legge, i tre presunti assassini non possono chiedere il rito abbreviato con relativo sconto a 30 anni e rischiano dunque l’ergastolo. Ottantasette le fonti di prova sottoposte all’esame del gip da parte del pm Nadia Plastina, su indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri. Tra esami tecnici, perquisizioni, testimonianze e sequestri un ruolo decisivo riveste l’intercettazione avvenuta pressoché in diretta dell’omicidio grazie a una indagine già in corso da parte della Squadra mobile, in cui Del Grosso annunciava a De Propris: «Sto con un amico bello fulminato! Ma se vengo a prendeme quella cosa e glieli levo tutti e settanta? ». I sei imputati sono tutti detenuti, a parte Anastasiya che dal 29 novembre si reca in caserma a firmare tre volte a settimana. Dopo le dichiarazioni a caldo sull’innocenza sua e di Luca smentite dai fatti, mai ha voluto commentare, neanche tramite il suo avvocato Giuseppe Cincioni. Ma chi le è vicino la descrive «amareggiata» per i dettagli privati emersi sulla relazione con Luca, «incredula» per l’attenzione mediatica che le è stata riservata e «ansiosa» di farsi processare, certa che, senza il ritrovamento di soldi e droga (di cui però parlano gli stessi protagonisti dell’affare) ha le carte giuste da giocarsi.

Omicidio Sacchi, il 31 marzo a giudizio Anastasiya e altre 5 persone. "Ci fu premeditazione". Il giovane venne ucciso nello scorso mese di ottobre davanti a un pub. Alla sbarra gli esecutori materiali, l'amico d'infanzia Giovanni Princi, Marcello de Propris e il padre Armando. La Repubblica il 24 gennaio 2020. E' fissato per il prossimo 31 marzo davanti alla prima Corte d'Assise di Roma il processo per l'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni, morto la notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot pub, in zona Appio, a Roma,  con un colpo di pistola alla testa. "Fu premeditato", ne sono convinti i pm della Procura di Roma che, a novanta giorni dai fatti, hanno chiesto ed ottenuto il giudizio immediato, rito che consente di portare il procedimento direttamente davanti ai giudici della Corte d'assise saltando l'udienza preliminare, per sei persone, compresa la fidanzata della vittima, la 25enne modella ucraina e babysitter Anastasiya Kylemnyk. Di omicidio e rapina dei soldi contenuti nello zainetto di Anastasiya risponderanno Valerio Del Grosso (autore materiale del delitto) e il complice Paolo Pirino, più Marcello De Propris, che consegnò l'arma. La detenzione di quest'ultima è attribuita ad Armando De Propris, padre di Marcello. Del Grosso e Pirino, inoltre rispondono della detenzione della mazza da baseball usata per aggredire Luca Sacchi e la fidanzata. Ma soprattutto la Procura contesta a  Del Grosso, Pirino e De Propris l'aggravante della premeditazione. Nel capo di imputazione i pm scrivono che Del Grosso e Pirino sono giunti in via Mommsen a bordo di una Smart "entrambi armati, il primo di un revolver calibro 38 fornitogli da Marcello De Propris, e Pirino di una mazza da baseball". A processo anche Anastasiya Klymenyk, fidanzata della vittima, e Giovanni Princi, amico di infanzia di Sacchi e regista della trattativa con i pusher di San Basilio per l'acquisto di 15 chilogrammi di droga poi terminata tragicamente.  Luca Sacchi, personal trainer di 24 anni, muore la notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso davanti al John Cabot pub, in zona Appio, raggiunto alla testa da un colpo di pistola. La procura di Roma impiega tre mesi per chiudere le indagini, ma la svolta arriva subito quando polizia e carabinieri arrestano gli autori dell'omicidio e inseriscono la vicenda in un contesto legato a una compravendita di sostanze stupefacente. Il giorno dopo l'agguato furono fermati Del Grosso e Pirino. Il primo si era nascosto in un residence a Tor Cervara, mentre l'altro aveva trovato riparo sul terrazzo del condominio dove abita. L'auto usata per fuggire viene sequestrata, si cerca ancora la pistola. Gli investigatori, che all'inizio pensavano a un tentativo di scippo conclusosi in tragedia, ipotizzano con il trascorrere delle ore uno scambio di droga non andato in porto. L'autopsia svolta su Luca confermò che la morte era stata causata da un colpo d'arma da fuoco alla testa. I numerosi lividi sulle braccia dimostravano che il giovane aveva cercato di parare il volto dai colpi di mazza da baseball usata dai due aggressori che avevano strappato lo zainetto rosa (con i soldi destinati all'acquisto di marijuana) della fidanzata della vittima, Anastasiya.

La ricostruzione dei pm. Nel provvedimento i magistrati ricostruiscono le fasi dell'aggressione avvenuta in via Mommsen, a pochi metri da un pub. Del Grosso e Pirino si sono avvicinati "alla vittima e alla sua fidanzata Anastasia che aveva uno zaino rosa contenente la somma  di 70 mila euro. Pirino ha colpito la ragazza intimandole di consegnare lo zaino e successivamente ha tentato di colpire Sacchi, che si proteggeva con il braccio riportando due grosse ecchimosi, mentre Del Grosso, alla resistenza dei due fidanzati, ha esploso un colpo di arma da fuoco a distanza ravvicinata in direzione del capo di Luca cagionandogli gravissime lesioni a causa delle quali il giovane è deceduto a distanza di poche ore". I pm di piazzale Clodio hanno deciso di unire all'episodio dell'omicidio anche il segmento di indagini relative alla trattativa per l'acquisto di droga. In questo ambito contestano ad Anastasyia ed altri quattro una serie di violazioni della legge sugli stupefacenti. L'accusa riguarda Princi, Marcello De Propris e i pusher Del Grosso e Pirino. Nel capo di imputazione si afferma che i cinque in concorso tra loro, "Marcello De Propris quale fornitore, Del Grosso e Pirino incaricati della trattativa e della consegna, detenendo 15 chilogrammi di marijuana di buona qualità, si accordavano con Princi e Anastasia per la vendita dell'ingente quantitativo di sostanza stupefacente a favore di questi ultimi. De Propris - scrivono i pm - infatti aveva già confezionato la droga in balle, la ragazza aveva con se nello zaino i 70 mila euro, la cifra convenuta quale prezzo dello stupefacente con consegna fissata per la sera dell'omicidio"

Alessia Marani per il Messaggero il 25 gennaio 2020. Una vita da fantasma in attesa del processo. Incappucciata a più non posso per non farsi riconoscere: il copricapo della felpa calato sulla fronte, poi sopra quello del piumino. La testa bassa per non incontrare lo sguardo pronto a giudicare delle altre persone, quelle poche volte che scende da casa o si incammina fino al parco della Caffarella per portare a spasso i cani. «Anastasia sembra invecchiata di vent'anni all'improvviso, è l'ombra di se stessa», racconta una vicina di casa che l'ha vista crescere nel palazzo dell'Alberone dove vive con la mamma, la sorellina, il patrigno e lo zio. «NON PARLO» Il quartiere è a ridosso della via Appia Nuova, non lontano dall'Appio Latino dove abitava Luca. Poche centinaia di metri che nascondono ormai una distanza abissale: più nessun contatto con la famiglia del 24enne ucciso dai pusher di Casal Monastero a fine ottobre. «Ho incontrato Nastja pochi giorni fa ed era molto che non la vedevo - aggiunge l'inquilina mentre apre il portone di vetro - ho incrociato il suo volto uscendo dall'ascensore. Mi ha messo i brividi perché quasi non la riconoscevo più. Non è più la ragazza luminosa di prima; era scura, triste, mi ha fatto una brutta impressione. Ho dei figli anche io - dice la donna - prima dell'omicidio non avrei mai immaginato che lei potesse essere coinvolta in una brutta storia come questa, ma basta poco perché ragazzi così giovani possano commettere sciocchezze. E, purtroppo, questa volta irreparabile». Sono passati tre mesi dalla morte di Luca. Anastasia Kylemnik, 25 anni, baby sitter di origine ucraina, dopo la chiusura delle indagini di carabinieri e Procura, è formalmente tra gli imputati chiamati a processo in relazione all'omicidio. Deve rispondere di detenzione e spaccio di stupefacenti, era lei secondo l'accusa a tenere nello zaino i soldi che servivano per la compravendita di marijuana, settantamila euro. Dalle chat estrapolate dal telefono del personal trainer è emerso il continuo scambio di messaggi di liti, incomprensioni e battibecchi tra i due, anche nelle settimane prima della tragedia. Ieri Anastasia era in casa: «Hanno chiuso l'inchiesta? E beh? Non ho nulla da dire, ciao», risponde secca al citofono. In casa sono tutti provati. La mamma ultimamente si vede più spesso - spiega un altro vicino - scende nella piazzetta con i cani, saluta, è gentile. Ma è dimagrita tantissimo, ha il volto segnato. Credo che ogni giorno che passa, il macigno di questa vicenda pesi sempre di più, che si stiano rendendo conto di che guaio enorme è successo». Luisa P. ha 85 anni, «sono mamma e nonna - spiega mentre rientra a casa con gli abiti appena ritirati in tintoria - so che questa ragazza abita qui, ma non la conosco. Ho seguito, però, la vicenda e siamo tutti convinti, almeno le persone con cui ho parlato, i commercianti, il parrucchiere, i ristoratori, che la causa di tutto sia questa maledetta droga. E chi si avvicina alla droga sa i rischi che corre e i personaggi in cui potrebbe incorrere. A maggior ragione se ci si mette a spacciare, come pare emergere dalle indagini. Mi spiace per questa ragazza così giovane, si è rovinata lei e il fidanzato non c'è più, ma bisogna stare lontani dalla droga e da certi giri, per cui non può essere giustificata fino in fondo». E Luca? «Mi sembra tanto che quel ragazzo fosse solo tanto innamorato, un po' come il Principe Harry con Meghan Markle, pronto a sfidare tutto per la sua donna».

Giuseppe Scarpa per il Messaggero il 25 gennaio 2020. «Ti sembro dottor Jekyll e mister Hyde?», scriveva Anastasia Kylemnik al suo fidanzato, Luca Sacchi. «Una cifra. Sembra che giochi con i miei sentimenti» ribatteva il 24enne, in uno scambio di messaggi adesso agli atti dell'inchiesta. «Mi hai stufato», diceva l'ucraina in un'altra conversazione. Sms che tracciano una parabola discendete nella relazione tra il personal trainer e la baby sitter a un mese dall'assassinio del giovane fuori dal pub John Cabot, nel quartiere Colli Albani a Roma. La fiducia di Sacchi nei confronti della Kylemnyk era crollata. Il rapporto tra i due ragazzi, negli ultimi tempi, non era più sereno, si era sfilacciato. Sacchi l'accusava di non essersi comportata bene, «sono arrabbiato». La 25enne, invece, non sopportava più la madre di Luca. Un'avversione nei confronti della suocera che la 25enne manifestava in modo chiaro. Era soprattutto Sacchi a chiedere spiegazioni alla fidanzata. La ragazza spesso non rispondeva alle telefonate. Lui domandava e la Kylemnyk non era sempre conciliante. Il 15 settembre, un mese prima del suo assassinio Sacchi scriveva: «Rispondi». «Tutto ok. Mi stavo lavando. Un attimo». Il personal trainer non era troppo convinto della risposta: «Sei una m.... s.......». «Ti giuro», ribatteva lei. Il 24enne era sconsolato e spiegava che «non posso andare avanti cosi». «Sono arrabbiatissimo con te», aggiungeva. Poi, sempre, Sacchi le rappresentava il motivo del suo disappunto. «Non mi sono fidato molto perché eri un po' fatta e avevo paura di qualsiasi cosa». E ancora, «hai fatto una cazzata grossa come una casa. E ti giuro mi ha proprio dato fastidio. Ancora non ho risolto, per un motivo o per un altro, certe volte mi scordo. Altre non se po fa». Il motivo per cui il personal trainer era in qualche modo deluso dal comportamento della fidanzata non viene esplicitato. Tuttavia, da altre conversazioni, emergeva chiara la diffidenza maturata da Sacchi. Tre giorni dopo gli sms tra i due erano di nuovo infuocati. Il tema era sempre lo stesso: «Oggi non so un c.... di te. Non mi dici niente. Sto aspettando, da quando mi sono svegliato, di sentirti». Poi l'accusava di scrivere nella chat di gruppo e di parlare con Giovanni, probabilmente Princi. «Non rispondi mai, parli solo nel gruppo con Gio». «Sto preparandomi tra poco ti chiamo», rispondeva Anastasia. «Per andare dove?», domandava Sacchi. Il 19 settembre il 24enne era preoccupato. La fidanzata non gli rispondeva da quasi un'ora. E lei replicava in questo modo, «non prendeva il cell». Il rapporto tra i due era teso. E i problemi non arrivavano solo dalla mancanza di fiducia che Sacchi nutriva nei confronti della ragazza. Un altro motivo di nervosismo nella coppia riguardava l'astio che la Kylemnyk nutriva nei confronti della suocera. «Quindi tu starai sempre dalla parte di tua madre. E mai dalla mia, giusto?», scriveva la 25enne in uno scambio di messaggi del 15 settembre scorso. E ancora: «Se ti dice scegli me o lei, tu dirai mammina. Vero? Sono seria», chiedeva irritata la baby sitter. «La aiuterò - cercava di spiegare Sacchi - non vuol dire stare dalla sua parte». Una replica che non aveva convinto per niente la Kylemnyk, «non mi hai risposto sincero». E poi, nuovamente, domandava netta: «Lei o me?». «Ma ti rendi conto di cosa mi stai dicendo», gli replicava sconfortato il ragazzo. «Cosa scegli?», insisteva Anastasia. «Bravo figliolo hai scelto», sottolineava ironica la 25enne. «Io non ho scelto nessuno» sosteneva il ragazzo. E aggiungeva «sento solo dei discorsi stupidi». «Ti sembro dottor Jekyll e mister Hyde?», domandava la Kylemnyk. «Una cifra c.... sembra che giochi con i miei sentimenti. Mi stai facendo stare male», spiegava alla fine un amareggiato Sacchi.

Camilla Mozzetti per il Messaggero il 25 gennaio 2020. «Ci sono dei responsabili materiali che meritano di scontare il massimo della pena e poi c'è chi, per la morte di mio figlio, ha una responsabilità morale. Quella persona è Anastasia che si è portava via Luca e ha permesso che accadesse tutto questo». Alfonso Sacchi è nel suo ristorante quando risponde al telefono. Ha da poco saputo dall'avvocato Armida Decina, che lo assiste insieme al collega Paolo Salice, della chiusura delle indagini decretata dalla Procura con la richiesta di giudizio immediato per Valerio Del Grosso, Paolo Pirino, Marcello e Armando De Propris, Giovanni Princi e Anastasia Kylemnyk, tutti coinvolti - a vario titolo - nell'inchiesta sull'omicidio del personal trainer 24enne. «Mio figlio non tornerà più e lei non può capire perché io non lo so spiegare e il dizionario non contempla la parola giusta, quanto inumano sia per un padre sopravvivere al proprio figlio».

Signor Sacchi la prima udienza di fronte alla Corte d'Assise si terrà il prossimo 31 marzo. Cosa si aspetta dal processo?

«Il massimo della pena».

L'ergastolo per Valerio Del Grosso e per il suo complice?

«È il minimo a cui posso ambire. Mio figlio non me lo ridarà nessuno. Se a loro, invece, danno dieci o vent'anni quando usciranno, avranno ancora il tempo per rifarsi una vita. Mio figlio invece no. Luca una vita non se la potrà rifare perché non c'è più. Non posso neanche trovare le parole per spiegare quanto sia devastante perdere un figlio. Tutti i giorni vivo con una pietra sulla bocca dello stomaco ora spero in una condanna giusta per provare ad alleggerire questo magone che, tuttavia, mi porterò dentro per il resto dei miei giorni».

Secondo lei Anastasia è responsabile della morte di Luca?

«È stata lei a scavargli la tomba. Se Nastia non si fosse cacciata nei guai che sono poi emersi, quella sera non ci sarebbe mai stata».

La ritiene responsabile morale?

«Sì, io spero che possano contestarle qualcosa perché è anche lei che ce lo ha portato via. Se era una ragazza perbene, come credevamo, quella sera non sarebbe stata organizzata. Ci siamo fidati di Nastia e abbiamo perso nostro figlio. Penso che quella sera Luca sia andato lì per tirarla fuori da qualche altro casino in cui Nastia si era cacciata e credo anche che quel proiettile non fosse per lui, che se lo è preso per difendere questa ragazza che ha tradito tutti noi».

Nelle chat tra la Kylemnky e suo figlio, emerge una conflittualità costante: lui che non la capisce e prova comunque a trattenerla, lei che lo accusa, addirittura, di preferire la madre.

«Ma le sembra normale dire a un ragazzo scegli tra me o tua madre? Sono due amori differenti; Luca ha provato a farglielo capire, era un ragazzo buono dentro mio figlio. Una volta si confidò con mio nipote e disse: Se la lascio che fine fa?».

Dunque lei è convinto che Luca, scoperto qualcosa di sbagliato, abbia solo provato ad aiutare la sua ragazza?

«Sì, lo penso dopo quello che è emerso. Da dopo l'estate Nastia era cambiata moltissimo».

La famosa estate in cui è ricomparso sulla scena Giovanni Princi.

«Luca le telefonava e lei non rispondeva, le chiedeva ma sei con Gio? E chi è Gio se non Princi? Credo che Luca avesse scoperto o capito degli atteggiamenti sbagliati da parte di Nastia. Anche questa storia della stanza d'albergo ma che stava facendo?».

Ma lei ha capito quest'ultimo aspetto?

«Non l'abbiamo capito ma chissà con chi stava Nastia, Luca quella sera non c'era e ora mi faccio una domanda: ma cosa la prendi a fare una stanza da 28 euro? Per farci cosa?».

Crede che le indagini abbiano chiarito al meglio il contesto che si celava dietro il rapporto tra Nastia e Princi?

«Penso che la Procura abbia fatto un buon lavoro, la prima udienza del processo è tra due mesi circa: un tempo brevissimo rispetto ad altri casi e per questo ringrazio gli inquirenti e il pubblico ministero».

Luca Sacchi, il papà Alfonso a Nastia: eri una figlia, gli hai scavato la fossa. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. «Anastasiya che rientra a casa nostra con Luca, si fionda in camera senza salutarci e sbatte la porta. Questo mi ricordo di lei prima dell’uccisione di mio figlio. Adesso voglio andare al processo e vedere se avrà il coraggio di guardarmi negli occhi. Voglio vederli in faccia gli assassini di Luca, per me sono tutti uguali. Quella sera lei e Munoz lo hanno lasciato solo, lui si è preso una pallottola destinata a loro perché i killer erano andati lì per uccidere qualcuno, ne sono sicuro. Lui è morto per difenderli e loro sono scappati». La resa dei conti sta per arrivare, Alfonso Sacchi lo sa e non vede l’ora di varcare il portone del tribunale.

Che cosa prova oggi per Nastia?

«Che dire, mi fa schifo. Se prima era una figlia, e poi non abbiamo capito il perché dei suoi comportamenti, adesso, dopo aver letto come trattava Luca, mi rendo conto che non ha nemmeno un briciolo di dignità. Oltre al fatto che gli ha scavato la fossa».

Si riferisce agli sms fra loro?

«Anche. Luca non era un mammone, come dice lei, era un ragazzo perbene, educato, sensibile. Pulito. Che ha perfino difeso la madre di Anastasiya dalle offese della figlia. Ma come si è permessa di giudicare il rapporto fra nostro figlio e la sua mamma? Ma chi è?».

Si era accorto della crisi fra Luca e la sua ragazza?

«Sì, dall’estate scorsa era cambiato tutto. Lei era assente, distratta. Aveva un nuovo eroe, un idolo, non so se fosse Princi o qualcun’altro. Lui sì che era davvero fico, così anarchico, con il Vaticano che brucia tatuato su una coscia. Bello, eh? Si è fatta trasportare, non era la giovane a posto che credevamo. Ora scopriamo che era invidiosa della vita normale di Luca, della sua famiglia, e che allo stesso tempo le andava stretta. Chissà che le ha detto la testa, chissà se è la sua vera indole o ha una doppia personalità. Ora però è il momento di difendere Luca, morto per proteggerla».

Cosa si aspetta dai giudici?

«Intanto voglio elogiare la pm Nadia Plastina per come ha condotto le indagini. Temevo che si andasse avanti ben oltre l’estate e invece il 31 marzo c’è già il processo. Il quadro è chiaro: per i killer, e quello che gli ha fornito la pistola, mi aspetto l’ergastolo. Per Anastasiya e Princi una condanna esemplare. Nessuno ci ridarà Luca, ma almeno si alleggerirà il peso che abbiamo sullo stomaco. Quando abbiamo letto del rito immediato ci siamo messi a piangere».

Che Natale è stato per voi?

«Di dolore immenso. Con mia moglie e nostro figlio Federico, che ha dovuto interrompere gli studi, ci siamo seduti a tavola con il vaso che contiene le ceneri di Luca: perché lui è sempre con noi».

Processo Sacchi, gelo tra Anastasiya e la famiglia. La madre: «Uno sguardo di sfida». Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Fulvio Fiano. La distanza tra Anastasiya Kylemnyk e la famiglia Sacchi è ben più ampia dei 32 passi che frappongono tra loro nell’attesa dell’udienza per l’omicidio di Luca. Lei seduta in disparte vicino all’ingresso dell’aula di tribunale dove si celebra l’inziio del processo, loro all’inizio del lungo corridoio al terzo piano della corte d’Appello (scelta come sede per motivi logistici). Non uno sguardo, non un saluto neanche quando, per problemi di collegamento video con i detenuti a Rebibbia, bisogna spostarsi nell’aula propria della corte d’Assise (minori spazi ma linea efficiente) e il corteo di imputati, avvocati, cancellieri, magistrati si sposta assieme verso l’altra palazzina della cittadella giudiziaria. Non è più il tempo della comprensione, tanto meno dell’impossibile perdono dopo le bugie emerse e le parole svelate dalle intercettazioni dei carabinieri. Oggi è il giorno del processo e dopo aver condiviso un pezzo di vita, l’amore per Luca e il dolore per la sua morte la ragazza ucraina e la famiglia del personal trainer sono ora, anche ufficialmente, su sponde opposte: lei imputata, anche se non dell’omicidio, loro — il papà Alfonso, la mamma Tina e il fratello Federico — parte lesa per la perdita del figlio e fratello. Anastasiya, camicetta chiara a fiorellini in tono con colletto bianco, pantalone e golfino nero, capelli biondi legati con una treccia che incorona la parte alta della nuca, è ferma e silente per tutto il tempo in cui è possibile vederla, prima di entrare nell’udienza a porte chiuse. L’avvocato Giuseppe Cincioni respinge ogni domanda, un carabiniere vigila che nessuno le si avvicini. Padre madre e fratello di Luca, tutti in nero, parlano tra loro e aggiornano qualcuno al telefono. Poi, quando l’udienza sta per finire con un nulla di fatto per il tempo concesso alle parti di prendere visione delle nuove carte depositate dalla procura (rinvio al 9 giugno), la signora esce dall’aula e con un gesto quasi di stizza lancia una carta nel cestino dei rifiuti. Marito e figlio la seguono, poi lei si lascia andare a uno sfogo: «In aula ci guardava quasi come una sfida, senza abbassare lo sguardo. Se penso che l’abbiamo accolta in casa e le abbiamo dato nostro figlio mi vengono i brividi. Non credo che abbia mai amato Luca, né che abbia sofferto per la sua morte». Il papà aggiunge: «Per noi è stato un impatto emotivo forte, lei invece è fredda come il marmo. Sembra avere dei tic nervosi ma non mostra emozioni. Bastava un saluto, una parola, sembrava un’estranea. Poteva scriverci privatamente in questi mesi e invece niente». Il processo con rito immediato, saltato a marzo a causa dell’emergenza sanitaria, segna anche il ritorno alla piena attività del tribunale di Roma dopo una settimana di riapertura solo sulla carta (viste le pochissime presenze). All’ingresso di piazzale Clodio, assieme ad avvocati e magistrati, sono ricomparse anche le telecamere delle tv. Davanti alla corte ci sono i tre imputati accusati del delitto, Valerio Del Grosso, Paolo Pirino e Marcello De Propris (il primo autore materiale dello sparo che uccise il personal trainer, il secondo partecipe dell’aggressione per rubare lo zaino con i 70mila che dovevano servire per l’acquisto di 15 chili di marijuana, il terzo accusato in concorso per aver fornito l’arma pur consapevole del piano di rapina). Del Grosso e De Propris (imputato anche suo padre per possesso di armi e droga) erano a Regina Coeli ma per il loro comportamento turbolento sono stati rispediti nelle scorse settimane a Rebibbia. Anastasiya Kylemnyk è allo stesso tempo imputata e parte lesa nella rapina sfociata nel delitto. Secondo l’accusa del pm Nadia Plastina era pienamente partecipe dello scambio illecito ma rimase vittima dell’agguato assieme al suo fidanzato. La ragazza ucraina è tuttora sottoposta all’obbligo di presentarsi in caserma tre volte a settimana e ha scelto di essere processata con rito ordinario senza chiedere sconti. Il prologo di questa udienza è stata infatti la richiesta dei tre presunti assassini di poter accedere al rito abbreviato ( che prevede uno sconto di pena) dato che rispondono anche di altri reati (spaccio, rapina e porto d’armi abusivo) che non sono esclusi da questa possibilità come invece l’omicidio. La richiesta è stata respinta ma potrebbe essere risollevata. L’unico a restare fuori da questo processo è Giovanni Princi, l’amico di Luca e Anastasiya, e ritenuto la vera mente dell’affare mancato. Risponde solo di spaccio e ha visto accolta la sua richiesta di abbreviato.

Omicidio Sacchi, processo rinviato al 9 giugno. Il padre di Luca: "Ci ha ferito la freddezza di Anastasiya". L'udienza davanti alla prima Corte d'Assise per la morte del giovane avvenuta tra il 23 e il 24 ottobre dello scorso anno. In aula anche la fidanzata della vittima, in doppia veste di imputata e parte civile. I genitori di Luca: "Non ci ha degnati nemmeno di uno sguardo". E in una informativa dei carabinieri spuntano altri sms tra cui uno che era stato inviato da Luca alla fidanzata: "Amo', attieniti ai piani". La Repubblica il 18 maggio 2020. "Ci ha fatto male rivedere Anastasia. Così fredda. Non ci ha nemmeno degnato di uno sguardo". A dirlo i genitori di Luca Sacchi in aula oggi per l'avvio del processo sulla morte del giovane davanti alla prima Corte d'Assise di Roma. Luca Sacchi fu ucciso nella notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nella zona di Colli Albani. Presente in aula Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca, coinvolta nella seconda tranche dell'inchiesta, per la violazione della legge sugli stupefacenti in relazione al tentativo di acquisto di 15 chili di droga. L'udienza che si è svolta a porte chiuse nel rispetto delle disposizioni anticovid è stata poi rinviata al 9 giugno "per permettere a tutte le parti di poter visionare gli ultimi atti d'indagine della procura di Roma e per poter rispettare il termine di sette giorni ed eventualmente integrare le liste testimoniali", hanno spiegato i legali della famiglia Sacchi, gli avvocati Armida Decina e Paolo Salice. "Abbiamo ritenuto opportuno associarci alle richieste formulate dai difensori degli imputati, perchè non vogliamo che il processo nasca con falle procedurali. Anastasiya era presente in aula; ha ignorato l'intera famiglia Sacchi. - hanno aggiunto i legali - Siamo rimasti colpiti dalla freddezza che ha dimostrato di avere. La Corte, infine, ha stilato un fitto calendario di udienze per i mesi di giugno, luglio, settembre e ottobre".

"Amo', attieniti ai piani". Ma emergono altri squarci sulla vicenda: "Amo', novità? Amo', attieniti ai piani". Così scriveva il 18 ottobre scorso Luca Sacchi alla fidanzata Anastasiya Kylemnyk, in messaggi citati da una informativa dei carabinieri e depositata dalla Procura nell'ambito del processo.  Al messaggio, scrivono i carabinieri, la ragazza risponde: "ci vediamo dopo". Sacchi quindi invia altri messaggi: "Spero tu faccia come mi hai detto se no ti meno, se scopro che hai fatto le cose senza di me...". E ancora, sempre dall'informativa dei carabinieri, "Cinque giorni prima dell'omicidio avvenuto davanti a un pub a Colli Albani, Luca Sacchi e la fidanzata Anastasiya Klymenyk erano stati a Casal Monastero, quartiere dove vivono i pusher Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, ora a processo per il suo omicidio. Dall'analisi del traffico telefonico emerge che sia il telefono di Sacchi che quello di Anastasya tra le 15.30 e le 16 del 18 ottobre hanno impegnato i ponti ripetitori installati nella zona di Casal Monastero. In base a quanto accertato dai carabinieri nello stesso orario sono state agganciate nella zona le utenze di Del Grosso e Pirino "a dimostrazione che l'incontro tra i due gruppi è verosimilmente avvenuto", scrivono gli inquirenti. E sempre il 18 ottobre, come emerge sempre dall'informativa, dal telefono di Luca Sacchi sono state effettuate su maps ricerche relative al percorso stradale per raggiungere dall'Appio Latino, dove abitavano i due giovani, alla frazione di Casal Monastero.

Il padre di Luca a piazzale Clodio: "Abbiamo un po' di tensione". "Abbiamo un po' di tensione, vediamo che succede", aveva detto il padre di Luca, Alfonso Sacchi, arrivando alla cittadella giudiziaria di Piazzale Clodio. "La prima volta che rivedremo Anastasiya? Noi ci siamo, potrebbe essere la prima volta visto che dalla sera dell'omicidio non l'abbiamo più vista - ha aggiunto - Come famiglia chiediamo che vengano condannati all'ergastolo gli autori materiali dell'omicidio". Il gip lo scorso gennaio, accogliendo la richiesta della Procura di Roma, aveva disposto il giudizio immediato per sei persone, coinvolte a vario titolo nell'inchiesta, compresa la fidanzata della vittima, Anastasiya. Ma alla sbarra non c'è Giovanni Princi, l'ex compagno di classe di Luca Sacchi , accusato di violazione della legge sulla droga, ora ai domiciliari, che sarà processato, invece, con rito abbreviato il 28 maggio prossimo. A processo dunque con rito ordinario ci sono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due ventenni di San Basilio autori materiali dell'aggressione, Marcello De Propris, che consegnò l'arma del delitto, il padre di quest'ultimo, Armando, accusato della detenzione della pistola, e Anastasiya. La Procura contesta a Del Grosso, Pirino e De Propris anche l'aggravante della premeditazione. I tre, insieme con Armando De Propris sono detenuti in carcere mentre è sottoposta a obbligo di firma Anastasiya, che nel processo è anche parte civile per la rapina subita.

Processo Sacchi, agli atti i nuovi sms: "Luca sapeva della droga". In aula depositati dal Ris i nuovi accertamenti sui telefonini. L’amarezza dei genitori del personal trainer ucciso tra il 23 e il 24 ottobre dello scorso anno. In aula anche la fidanzata Anastasiya. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su La Repubblica.it da Francesco Salvatore e Maria Elena Vincenzi. Si apre con un colpo di scena il processo per l'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni, freddato davanti a un pub all'Appio Latino il 23 ottobre scorso. Che l'agguato fosse avvenuto nell'ambito di uno scambio di droga erano noto. L'informativa dei carabinieri del nucleo investigativo depositata al processo rivela che non è stato casuale, né occasionale. Di sicuro, a quello scambio di droga si lavorava da giorni. In questa chiave va letta la visita che la vittima e la sua fidanzata Anastasiya Kylemnyk (imputata per droga e parte civile nel processo che si è aperto ieri) fanno il 18 ottobre, cinque giorni prima dell'agguato, a Casal Monastero, la zona dove vivono i due pusher che hanno ucciso Sacchi, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, e i mediatori che si sono occupati dello scambio, Valerio Rispoli e Simone Piromalli. I telefoni della coppia parlano chiaro: tra le 15.30 e le 16 attaccano le celle del quartiere. In quell'occasione c'è anche uno scambio di messaggi tra i fidanzati: "Amo', novità? Amo' attieniti ai piani", scrive la vittima. La fidanzata taglia corto: "Ci vediamo dopo" . E Luca Sacchi scrive: "Spero tu faccia come mi hai detto se no ti meno, se scopro che hai fatto le cose senza di me...". Nei telefoni ci sono anche le paure dei due ragazzi, le loro preoccupazioni. Sognavano di andare a vivere insieme ma non potevano permetterselo. Per questo avevano pensato di dividere una casa con l'amico Giovanni Princi (anche lui imputato, il suo processo in abbreviato si aprirà il 28 maggio) e la sua fidanzata. Una scelta che Luca non gradiva, sapeva che Princi spacciava. Il 6 settembre scrive a Nastia: "Penso alla nostra situazione ". Lei chiede: "Che situazione? Perché come stiamo? " . "La nostra situazione generale di vita. Sai cosa penso. Penso che io e te non siamo come loro. Loro sono come dire più randagi rispetto a noi ". Anastasiya risponde: "Sì". E Luca chiarisce: "Noi possiamo avere una vita molto più tranquilla per le carte che abbiamo. Loro non hanno la nostra situazione, secondo me. Lavorarci sì, ma viverci insieme come una piccola famiglia no. Lui è uno spacciatore di discreto livello e la polizia è il problema minore. Per lui noi siamo super puliti. E non capisco perché tu vuoi andarci a vivere. Tipo due mesi fa eri diversa, mi pari matta". La compagna risponde: "Amore, io se sto a casa mia, lascia sta che tantissimo sono stata da te, anzi sempre negli ultimi tempi, io un altro anno a casa con loro in questo spazio minuscolo mi vergognerei, devo ancora a 26 anni rientrare in silenzio a casa e non potermi lavare bene perché sennò sveglio qualcuno. Lu', non è che ero diversa, è che se tu mi avessi detto di andare a vivere insieme io e te ci andavamo già due anni fa per me, ma io sto sempre qua a spera' che qualche amica mia me lo proponga ma te ne rendi conto? E tu a dirmi sempre la stessa cosa": "Sì, Amo', ma io sto bene a casa" e io no e da sola dovrei fare la prostituta per mantenermi, ma dai (mi pari matta), sono solo stufa, amo'" . Luca, però, non si convince: "Il problema è che non è una mossa magnifica andare lì con entrambi. Più con lui".

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 19 maggio 2020. Cala un'ombra sul ruolo di Luca Sacchi, 24 anni. Il personal trainer freddato con un colpo di pistola alla nuca la notte del 23 ottobre fuori dal pub John Cabot nel quartiere Appio Latino. Innamorato della sua Anastasia Kylemnyk, 25 anni, fino a difenderla dalla rapina a costo della propria vita e forse, anche, di una porzione di capitale investito. Evidentemente, Sacchi, comprendeva fino in fondo le origini di quella aggressione. Sapeva bene che la sua ragazza, con l'amico Giovanni Princi, stava cercando di acquistare una partita di marijuana pagandola 70mila euro. E dentro quell'affare era coinvolto molto più di quanto si pensasse sino ad oggi. Sacchi conosceva i grossisti della droga Valerio Del Grosso e Paolo Pirino che, a bordo di una smart, stavano andando a consegnare il pacco. Salvo poi cambiare idea, decidere di tenersi la roba e tentare di rubare i soldi. Sacchi li conosceva e, almeno 6 giorni prima che l'uccidessero, li aveva perfino incontrati dalle parti di casa loro, a Casal Monastero. L'informativa depositata ieri a processo, dal nucleo investigativo dei carabinieri, restituisce una fotografia più ampia di quella terribile notte. Ad iniziare dai giorni precedenti: dagli incontri tra Sacchi e Kylemnyk da una parte e i pusher Del Grosso e Pirino dall'altra. I cellulari dei 4 ragazzi si agganciano nella stessa cella telefonica di via Acuto a Casal Monastero, alla stessa ora, tra le 15.30 e le 16.00, dello stesso giorno il 18 ottobre scorso: «a dimostrazione che l'incontro tra i due gruppi - annotano i militari dell'Arma - è verosimilmente avvenuto». Ma c'è di più. Tre ore dopo l'incontro con gli spacciatori il personal trainer e la ragazza scambiano dei messaggi. Il contenuto è di interesse investigativo, sembra rimandare all'organizzazione di un progetto. Probabilmente quello che andrà in porto pochi giorni dopo, in cui Sacchi perderà la vita. «Amo novità? Ti attieni ai piani? », scrive lui. «Sì ci vediamo dopo» la risposta. «Spero tu faccia come mi hai detto - ribatte il 24enne - se scopro che hai fatto le cose a c...., senza me». Ma oltre a questo i carabinieri hanno riversato nell'informativa anche altre conversazioni. Quella datata sei settembre è molto chiara. I messaggi che spedisce il 24enne confermano la sua consapevolezza in merito al nuovo business intrapreso. Lui e Anastasia sarebbero dovuti andare a vivere, in un unico appartamento, con Princi e la fidanzata. Il progetto al personal trainer non piace più, però vorrebbe continuare a fare affari assieme all'amico di cui conosce bene la reale professione. Lo spiega così alla Kylemnyk: «Loro sono più randagi rispetto a noi, noi possiamo avere una vita più tranquilla per le carte che abbiamo. Lavorarci sì, ma viverci insieme come una piccola famiglia no. Lui (Princi) è uno spacciatore di discreto livello e la polizia è il problema minore». Scende il silenzio quando Anastasia varca l'ingresso dell'aula della prima Corte D'Assise. È un attimo. La porta blu in acciaio si chiude dietro le sue spalle. Due carabinieri controllano che nessuno entri. All'interno, oltre ai giudici, sono ammessi gli imputati, i difensori, il pm Nadia Plastina e le parti civili con i genitori e il fratello di Luca Sacchi. Alfonso Sacchi si gira verso l'ingresso quando l'ex ragazza del figlio varca la soglia. Cerca di fissarla. Vorrebbe una spiegazione a quella domanda che da sette mesi non riceve risposta. «Raccontaci la verità». Ma la baby sitter, accusata di spaccio, tira dritta. Ufficialmente, per la Kylemnyk, esiste una sola versione: «Sono stata rapinata». Si è sempre dimentica di dire che la rapina era il frutto di una compravendita, andata male, di stupefacenti, di cui lei sarebbe stata l'acquirente assieme a Princi. E forse anche a Luca.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2020. La distanza tra Anastasiya Kylemnyk e la famiglia Sacchi è ben più ampia dei 32 passi che si frappongono tra loro nell' attesa dell' udienza per l' omicidio di Luca, la prima volta in cui sono a contatto dopo il delitto dell' ottobre scorso. Lei seduta vicino all' ingresso dell' aula dove si celebra il processo, loro all' inizio del lungo corridoio al terzo piano della corte d' Appello (scelta per motivi logistici). Non uno sguardo, non un cenno di saluto neanche quando, per problemi di collegamento video con gli imputati detenuti a Rebibbia, bisogna spostarsi nell' aula propria della corte d' Assise (minori spazi ma linea efficiente) e il corteo di imputati, avvocati, magistrati cammina assieme verso l' altra palazzina della cittadella giudiziaria. Non è più il tempo della comprensione, tanto meno dell' impossibile perdono viste le bugie emerse e le parole, anche offensive, svelate dalle intercettazioni dei carabinieri. Dopo aver condiviso un pezzo di vita, l' amore per Luca e il lutto per la sua morte, la 25enne ucraina e la famiglia del personal trainer sono ora, anche ufficialmente, su sponde opposte: lei imputata, anche se non dell' omicidio, loro - il papà Alfonso, la mamma Tina e il fratello Federico - parte lesa. Anastasiya, camicetta chiara a fiorellini in tono con colletto bianco, pantalone e golfino nero, capelli biondi legati con una treccia che incorona la parte alta della nuca, è ferma e silente per tutto il tempo in cui è possibile vederla, prima di entrare nell' udienza a porte chiuse. Il suo avvocato respinge ogni domanda, un carabiniere vigila che nessuno le si avvicini. Padre madre e fratello di Luca, tutti in nero, parlano tra loro, lo sguardo basso. Poi, quando l' udienza sta per finire con un nulla di fatto per il tempo concesso alle parti di prendere visione delle nuove carte depositate dalla Procura (rinvio al 9 giugno), la signora Tina esce dall' aula e con un gesto quasi di rabbia lancia una carta nel cestino. Marito e figlio la seguono, si confidano e lei si lascia andare a uno sfogo a bassa voce e occhi lucidi: «In aula quella ragazza ci guardava quasi come una sfida, senza abbassare lo sguardo. Se penso che l' abbiamo accolta e le abbiamo dato nostro figlio, mi vengono i brividi. Non credo che abbia mai amato Luca, né che abbia sofferto per la sua morte». Alfonso Sacchi aggiunge: «Per noi è stato un impatto emotivo forte, lei invece è fredda come il marmo. Sembra avere dei tic nervosi ma non mostra emozioni. Bastava un saluto, una parola, sembrava un' estranea. Poteva scriverci in questi mesi e invece niente». Dall' ultima informativa fornita dai carabinieri del Nucleo investigativo al pm Nada Plastina emerge una piena consapevolezza di Luca sugli affari che Anastasiya conduceva con Giovanni Princi: «È uno spacciatore di discreto livello, la polizia è il problema minore», scriveva la vittima alla fidanzata per convincerla ad allontanarsi da lui e per dissuaderla dal progetto di prendere una casa con lo stesso Princi e la sua fidanzata: «Lavorarci sì, ma viverci assieme come una famigliola, no». Lo stesso Sacchi inoltre, in base all' analisi delle celle telefoniche, risulta essersi recato, cinque giorni prima del delitto, a Casal Monastero, il quartiere periferico da dove provengono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due autori materiali del delitto durante la rapina dello zaino nel quale Anastasiya custodiva, secondo l' accusa, 70 mila euro che dovevano servire all' acquisto di 15 chili di marijuana. «Amò, novità? - scriveva Luca lo stesso giorno - Amò, attieniti ai piani. Spero tu faccia come mi hai detto se no ti meno, se scopro che hai fatto le cose a ca... senza di me...».

Emilio Orlando per leggo.it il 21 maggio 2020. Video di bambini che fanno sesso con adulti, filmati pedopornografici che probabilmente venivano immessi nella rete dei pedofili online. È la scoperta choc emersa dall’analisi forense del cellulare di Valerio Rispoli, il diciannovenne protagonista della vicenda che ha portato all’omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer ucciso alla Caffarella il 23 ottobre scorso. Ora Rispoli è indagato per detenzione di materiale pedopornografico e rischia una condanna fino a cinque anni di galera, visto che nello smartphone Huawei modello P10 i carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci hanno individuato «numerosissimi video dal contenuto pornografico ed il alcuni casi, pedopornografico». I filmati che hanno per oggetto sessuale i bambini, sono stati riportati nell’informativa depositata dal sostituto procuratore Nadia Plastina durante l’ultima udienza del delitto Sacchi. Gli inquirenti pensano che questi filmini, riportati nella cartella “video” del telefonino di Rispoli, siano stati diffusi dal giovane attraverso i molteplici canali di pedofilia online, frequentati da reti di maniaci senza scrupoli disposti a pagare qualsiasi cifra per guardare i minorenni in scene di sesso. E cosa c’entra tutto ciò con il caso Sacchi? Gli investigatori stanno lavorando per risalire all’origine dei filmati e capire se gli eventuali proventi illeciti venivano reinvestiti nel narcotraffico. Le indagini hanno evidenziato anche un’anomalia che potrebbe riscrivere la dinamica della maledetta sera dell’esecuzione di Luca e rimettere in discussione la ricostruzione fatta dalla fidanzata Anastasiya Kylemnyk. Dall’analisi dei tabulati della baby sitter ucraina emerge che alle ore 22.57.14 la ragazza ha telefonato a Luca, il quale non ha risposto. Si tratta di una strana chiamata, visto che meno di 5 minuti dopo il ventiquattrenne verrà ucciso e che la ragazza ha sempre raccontato che a quell’ora era insieme al fidanzato.

Omicidio Luca Sacchi, l'ombra della pedofilia: i video sul cellulare usati per finanziare il narcotraffico? Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. Sull'omicidio di Luca Sacchi, il ragazzo ucciso con un colpo di pistola a Roma lo scorso ottobre, una vicenda in cui il ruolo dell'ex fidanzata Anastasiya Kylemnyk non è ancora stato del tutto chiarito, ora si allunga anche l'ombra della pedopornografia. Il tutto emerge a processo con l'analisi forense del cellulare di Valerio Rispoli, 19enne implicato nella vicenda, indagato anche per detenzione di materiale pedopornografico che è stato trovato nel suo smartphone. Video di bambini che fanno sesso con adulti, "numerosissimi video dal contenuto pornografico ed il alcuni casi, pedopornografico" spiegano i carabinieri. I filmati sono stati riportati nell'informativa depositata dal sostituto procuratore Nadia Plastina nel corso della prima udienza del processo. Ma non è tutto, perché gli inquirenti pensanco che questi filmati siano stati diffusi dal giovane attraverso molteplici canali di pedofilia online, disposti a pagare per fruire di queste immagini disgustose. Dunque, secondo gli inquirenti, i filmati avrebbero un ruolo nell'omicidio di Luca Sacchi: gli eventuali proventi illeciti, infatti, potrebbero essere stati reinvestiti nel narcotraffico.

Fulvio Fiano per il Corriere della Sera - Roma il 20 maggio 2020. «Non è vero che Luca incontrò gli spacciatori». Così la famiglia Sacchi, tramite gli avvocati Armida Decina e Paolo Salice prova a cancellare le ombre sul personal trainer, ucciso lo scorso ottobre nella rapina nata durante un acquisto di marijuana. Secondo l' ultima informativa dei carabinieri sul telefono della vittima, il 24enne si recò a Casal Monastero cinque giorni prima del delitto. È lo stesso quartiere da dove provengono i suoi due killer (Paolo Pirino e Valerio Del Grosso) i cui telefoni agganciano le stesse celle di quello di Luca agli stessi orari: «L'incontro è verosimilmente avvenuto», annotano gli investigatori nell' atto depositato al processo dal pm Nadia Plastina. Non è così per i genitori di Luca, il papà Alfonso e la mamma Tina: «Non risulta assolutamente che Luca conoscesse i suoi killer e non vi è mai stato alcun contatto telefonico. In quella zona vi sono scuole di arti marziali e Luca era solito proporsi in queste strutture». La famiglia inoltre accredita la tesi che Luca cercasse di proteggere la sua fidanzata, Anastasiya Kylemnyk, lei sì coinvolta nello spaccio: «Luca - prosegue la nota dei Sacchi - per troppo amore, sembra quasi giungere ad un compromesso, chiedendole di non strafare e di non fare niente senza di lui. E ci ha rimesso la vita». I fatti dicono che la sera del 22 ottobre, alla vigilia del suo omicidio, Luca Sacchi chiese a Giovanni Princi un incontro per parlare «Tutti e quattro». La frase può essere un riferimento alle rispettive fidanzate, visto il progetto di andare a vivere assieme, o al piano per comprare 15 chili di marijuana per 70mila euro, del quale il ragazzo, ormai è chiaro, era a conoscenza: «Lui (Princi, ndr) è uno spacciatore di discreto livello - dice ad Anastasiya -. Lavorarci sì, ma viverci assieme no». E già il 31 ottobre Princi manda ai suoi clienti il nuovo numero. È un telefono intestato a un bengalese: «Ho studiato parecchio i cellulari in questi annetti, ho capito come funzionano le cose, dove tappare e dove lasciare aperto», si vanta. E un mese dopo il delitto è già di nuovo su piazza a spacciare, come emerge dalla chat su Signal con Valerio Rispoli, uno dei mediatori dei pusher, presente anche lui al Cabot pub il giorno dell' omicidio: «Non so proprio come comportamme - gli dice Rispoli in un vocale la sera dopo - , io volevo fa' un lavoro pulito e semplice... Non me la posso portà dietro per sempre 'sta cosa».

Francesco Salvatore e Maria Elena Vincenzi per LA Repubblica - ROMA il 20 maggio 2020. Lunedì in aula non si sono nemmeno salutati i genitori di Luca Sacchi e la sua fidanzata, Anastasiya Kylemnyk. Eppure le chat trovate sul telefonino del 24enne ucciso il 23 ottobre scorso davanti a un pub all' Appio Latino dimostrano che tra la famiglia e la compagna c' era un legame. Uno degli ultimi messaggi è del giorno prima dell' omicidio. Sono le 9 di sera. Luca scrive alla ragazza: " Amo, va a salutare mia madre che sai che poi mi sbrocca". Nell' informativa depositata dall' accusa alla corte d' Assise, i carabinieri hanno analizzato il contenuto dei telefonini sequestrati. Quello che emerge chiaramente è che dietro all' omicidio c' era uno scambio di droga. E che a gestirlo, insieme ai due mediatori Valerio Rispoli e Simone Piromalli, c' era Giovanni Princi. L' amico di scuola di Luca era uno che si dava parecchio da fare. Lo sapeva anche la vittima che, con la fidanzata, lo aveva definito «uno spacciatore di medio livello». Non a caso, i militari del nucleo investigativo, hanno trovato diverse chat e immagini di fogli con nomi e cifre che sembrano una conferma. Prima e dopo la tragedia: stando all' analisi del suo cellulare, il 25 novembre Princi aveva già ripreso a brigare con la droga e già il 2 novembre, a 10 giorni dall' assassinio, la sua fidanzata Clementina Burcea scrive a un' amica « siamo controllati quindi ho cambiato numero e sto evitando chiamate». L' amico di Luca, il cui processo in abbreviato si aprirà il 28 maggio, diceva di sé: « Ho studiato parecchio i cellulari in questi annetti e ho capito come funzionano le cose, come gestirmi un cel ovvero dove tappare dove lasciare aperto». Eppure qualcosa il suo cellulare ha svelato. A partire dal fatto che l' incontro per lo scambio soldi- droga doveva essere due giorni prima. Il 21 alle 8.30 di sera Princi invia un vocale a Valerio Rispoli e gli dice: « Er cliente perché me sto a rompe er cazzo, m' hai fatto troppo incazza', Vale'! Non mi è mai successa una cosa del genere, amo mosso i quintali, poi me becco gente grossa e me fanno 'ste tarantelle a 'st' ora de sera che doveva essece er carico, aho, ma te rendi conto? T' o dico io, organizza 'sto c... de scarico». Princi continua infuriato e usa parole che fanno pensare che i circa 70 mila euro che Anastasiya aveva nello zainetto fossero il frutto di una raccolta tra vari acquirenti: «Anzi oggi te conto i sordi, c' hai un' ora per veni' là, porta ' ste cose, io te porto tutti i sordi, la gente sta a insiste: " oh ma perché non vonno i sordi?" me stanno a di', ed io non so che rispondeje perché non c' è 'na risposta». E Rispoli si preoccupa, parlando con il pusher Valerio Del Grosso, accusato dell' omicidio, gli dice di Princi: « Fidate, che questo è più sveglio de noi, nun è un coglione, perché lui c' ha i sòrdi pe piglia' ' ste cose, noi non semo stati in grado de fallo, fìdate de me». Il 23, giorno concordato per lo scambio, Rispoli suggerisce di andare prima: « Per pigliarsi ' na conferma, ' na sicurezza » . E alle 20.44 di quel giorno digita sulla calcolatrice del suo cellulare: 14X4,55=63,7. Il sospetto è che fosse la stima del prezzo della droga. Quello che è certo è che qualche ora dopo Luca Sacchi veniva colpito da un colpo di pistola alla testa. E il giorno seguente Rispoli si rammarica con Princi: « Non so come comportamme volevo fa' un lavoro pulito e semplice, non ho mai voluto fa' 'ste cose. Questi se meritano veramente cose brutte». E agli amici scrive: « Ma passa sempre pe un furto che glie dici no stavo a fa n' affare, è andato male e c' è rimasto n' amico mio?».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 29 maggio 2020. Il ruolo di regista nella trattativa per la compravendita di droga culminata con l'omicidio del personal trainer Luca Sacchi, rischia di costare a Giovanni Princi una condanna a 6 anni e 4 mesi di reclusione e una multa da 30mila euro. È la richiesta fatta dalla pm Nadia Plastina, titolare del fascicolo, al termine del processo a carico del ragazzo, che ha scelto di essere giudicato con rito abbreviato puntando a ottenere lo sconto di un terzo della pena. L'udienza si è svolta ieri, ma per la decisione del gup sarà necessario attendere fino al 21 giugno. Princi è accusato di avere tentato di acquistare 15 chili di marijuana - per un valore di 70mila euro - dai due pusher di Casal Monastero, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, ora a processo insieme a Marcello De Propris per l'omicidio di Sacchi. I fatti sono del 23 ottobre scorso. Dalle indagini, condotte dai carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci, è emerso che la trattativa sarebbe andata avanti qualche giorno. I potenziali acquirenti, per l'accusa, erano Princi, Sacchi e la sua fidanzata, Anastasia Kylemnyk, finita pure lei sul banco degli imputati per la compravendita. Princi, amico di Luca, avrebbe gestito l'affare. Dall'ultima informativa dei carabinieri emerge che il 18 ottobre, Pirino e Del Grosso potrebbero essersi visti con Sacchi e Anastasia. Un incontro preliminare, secondo gli investigatori, probabilmente organizzato da Princi. Proprio quel giorno, infatti, i cellulari dei quattro ragazzi si sono agganciati alla stessa cella telefonica di via Acuto, a Casal Monastero, tra le 15.30 e le 16.00. Un dettaglio che, per chi indaga, dimostrerebbe che «l'incontro tra i due gruppi è verosimilmente avvenuto». Agli atti dell'inchiesta c'è anche un messaggio audio inviato da Princi a Valerio Rispoli, uno degli emissari di Del Grosso: «Er cliente me sta a rompere. Te lo dico io, organizza sto scarico, oggi te conto i sordi, c'hai un'ora per venire là porta ste c... de cose, io te porto i sordi». Lo step successivo era stato un appuntamento, il 23 ottobre, di pomeriggio, con gli intermediari davanti al pub John Cabot, nel quartiere Appio Latino. Il giovane era insieme a Sacchi e ad Anastasia e aveva mostrato a Rispoli le mazzette di banconote custodite nello zainetto rosa della ragazza. Poi, sul posto erano arrivati gli spacciatori. Quando Del Grosso aveva visto con i suoi occhi che gli acquirenti avevano abbastanza denaro per un acquisto così sostanzioso, aveva architettato un piano: aveva deciso di tenersi sia i soldi che la droga. Aveva quindi chiamato il suo fornitore, Marcello De Propris, che gli aveva prestato la pistola del padre, aderendo al progetto criminale, circostanza che ora gli costa l'accusa di concorso in omicidio volontario. Di fronte al pub dell'Appio Latino, la situazione era degenerata. Pirino aveva colpito Anastasia con una spranga e le aveva rubato lo zaino. Sacchi aveva reagito e, a quel punto, Del Grosso gli aveva sparato in testa. Poi, era fuggito a bordo di una Smart insieme al socio. I pusher erano stati entrambi arrestati il giorno dopo: a denunciare Del Grosso erano stati la madre e il fratello, che avevano saputo da alcuni amici quello che era successo. A incastrare il killer, anche le intercettazioni con De Propris, nelle quali i due parlavano del piano e si accordavano per il ritiro dell'arma. Subito dopo l'arresto, Del Grosso aveva mostrato ai carabinieri dove aveva abbandonato lo zaino di Anastasia e la pistola. Ma i soldi non sono stati trovati. Un mese dopo era finito in manette anche Princi, mentre la ragazza era stata sottoposta all'obbligo di firma. Di fronte al gip si era difesa negando le accuse: ha sempre sostenuto di essere stata rapinata e che non sapeva nulla della trattativa per comprare droga.

Da adnkronos.com il 9 giugno 2020. "Luca sapeva, evidentemente sì, ma non tutto. Sapeva che Anastasiya si era cacciata in qualche brutto guaio ed era andato lì per proteggerla, come faceva sempre". Lo hanno detto Tina e Alfonso Sacchi, i genitori di Luca al termine dell’udienza del processo per l’omicidio del figlio, il personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla testa la notte tra 23 e 24 ottobre scorsi, davanti ad un pub nella zona di Colli Albani a Roma. In aula, davanti alla Prima Corte d'Assise, oggi era presente anche l'ex fidanzata di Luca, Anastasiya, a processo con l’accusa di violazione della legge sugli stupefacenti e allo stesso tempo parte civile in quanto vittima dell’aggressione sfociata poi in omicidio da parte degli autori materiali dell’aggressione, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. "Luca si trovava lì quella sera per cercare di tirar fuori lei dai guai e non per la trattativa di droga. Evidentemente non c'è riuscito", hanno commentato i genitori uscendo dal tribunale.

Giulio De Santis per corriere.it il 9 giugno 2020. Riprende oggi in Corte d’assise il processo per l’omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer 24enne vittima di un’aggressione mortale davanti alla sua fidanzata, Anastasiya Kylemnyk, la notte del 23 ottobre 2019 all’Appio Latino. Anche la giovane ucraina, 26 anni il prossimo 29 giugno, per gli amici Nastia, sarà in aula per la seconda udienza: da una lato come parte civile per l’aggressione subita da Valerio Del Grosso, ritenuto il killer, e dalla sua spalla Paolo Pirino; dall’altra in quanto accusata di spaccio. Anastasiya, finora, è l’unica imputata ad aver risposto al gip il 4 dicembre 2019. Il suo racconto, ritenuto lacunoso e poco plausibile dal gip, apre un interrogativo: dov’è finita la busta con dentro i 70mila euro destinati all’acquisto dei 15 chili di hashish? I soldi e la busta non sono mai stati trovati. Secondo Nastia, sono scomparsi dal suo zaino rosa quando l’ha lasciato a Giovanni Princi, l’amico che per Sacchi era un «discreto spacciatore». Denaro, bisogna ricordare, che spinge Del Grosso a chiedere una pistola per «sfilarglieli tutti e settanta». Arma con cui uccide Luca. Ecco le parole di Nastia: «Luca aveva un appuntamento al pub, credo che si erano accordati (con Princi, ndr). Giovanni stava di fronte al bar, solo. Mi ha chiesto se potevamo tenergli una busta perché doveva vedersi con due persone (Simone Piromalli e Valerio Rispoli, non indagati, ndr) per fare un impiccetto con una moto. La busta non l’ho aperta. Ci ha detto (a lei e a Luca, ndr): ci sono dei soldi. Mi ha messo la busta dentro lo zaino». Il gip le chiede quanto denaro ci fosse: «Era una busta marrone, come quelle per il pane, non l’ho manovrata io», risponde. E prosegue: «I due arrivano, io stavo con la mia cagnolina caciarona e l’ho fatta camminare. Lo zaino l’ho lasciato lì, Giovanni mi ha chiesto le chiavi della mia macchina “caso mai dopo poggio la busta dentro”, mi ha detto». Passa qualche minuto: «Princi mi ha richiamato, mi ha detto “prendi lo zaino”. Ce ne siamo andati con Luca, che aveva il mal di schiena e ci siamo messi su una panchina». Ecco lo snodo cruciale: «Prendo una bottiglietta d’acqua dallo zaino, e non c’era più la busta». Princi, che rischia sei anni e quattro mesi di carcere per spaccio al termine del rito abbreviato, si è ripreso i soldi, stando a Nastia? O è successo altro in quell’intervallo? Dopo qualche istante, l’inferno: «Sono stata aggredita subito, non ho visto i due (Del Grosso e Pirino, ndr), ho sentito solo qualcuno che mi diceva “damme ‘sto ziano”». Chiude Anastasiya: «Quella notte ho omesso la verità ai carabinieri. Ho pensato stupidamente di non volere mettere me e Luca in mezzo a questo impiccio di Giovanni. Di lui, che si faceva qualche cannetta e con noi non ha mai parlato di comprare droga per venderla, ci fidavamo ciecamente».

Val.Err. per “il Messaggero” il 10 giugno 2020. La linea dei genitori di Luca Sacchi non cambia. Per loro, la notte del 23 ottobre, quando un colpo di pistola lo uccide, il figlio si trovava davanti al pub John Cabot, e a un incontro con gli spacciatori, solo per tirare fuori dai guai la fidanzata Anastasia. Lo hanno ribadito ancora una volta ieri, al termine dell'udienza davanti alla Corte d'assise, che dovrà giudicare cinque imputati (in tre sono accusati di omicidio). Sotto accusa, per violazione della legge sugli stupefacenti, c'è anche lei, Anastasia, che figura anche come parte civile, perché quella notte, per sottrarle lo zainetto pieno di soldi (circa 70mila euro), Paolo Pirino l'ha colpita con una mazza da baseball. «Luca sapeva, evidentemente sì, ma non tutto. Sapeva che Anastasia si era cacciata in qualche brutto guaio ed era andato lì per proteggerla, come faceva sempre», hanno ripetuto Tina e Alfonso Sacchi. Ieri hanno assistito all'udienza a porte chiuse: neppure una parola a quella ragazza, che accusano di avere coinvolto Luca in un brutto giro. «Luca si trovava lì quella sera - aggiungono i genitori - per cercare di tirar fuori dai guai lei e non per la trattativa di droga. Evidentemente non c'è riuscito». Agli atti del processo, però, ci sono le testimonianze degli amici e i messaggi tra Anastasia e Luca, dai quali sembra emergere che il ragazzo fosse consapevole della trattativa per l'acquisto di un grosso quantitativo di droga.

L'UDIENZA. Ieri, davanti alla prima corte d'Assise, le difese di Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, accusati di omicidio insieme a Marcello De Propris, hanno sollevato una serie di eccezioni preliminari: la nullità del decreto che dispone il giudizio immediato e la legittimità costituzionale della norma che esclude dal rito abbreviato (a loro non concesso) gli imputati per omicidio. I giudici scioglieranno la riserva sulle eccezioni nella prossima udienza, prevista il 23 giugno. Intanto il 21 giugno arriverà la sentenza per Giovanni Princi, l'amico di Luca accusato di essere il regista e il mediatore nella la compravendita di circa 15 chili di hashish. Una trattativa finita con la morte di Sacchi. Il pm Nadia Plastina ha chiesto una condanna a sei anni e quattro mesi e una multa di 30mila euro.

LA TRATTATIVA. Dagli atti è emerso, però, che Sacchi, amico da anni di Princi, conosceva anche Del Grosso e Pirino. I due killer che, a bordo di una smart, quella sera, avrebbero dovuto consegnare la merce, salvo poi decidere di tenersi la roba e rubare i 70mila euro. Una settimana prima dell'omicidio, infatti, li aveva incontrati a Casal Monastero. Forse un incontro preliminare, secondo gli investigatori, probabilmente organizzato da Princi. Il 18 ottobre scorso, infatti, i cellulari dei quattro ragazzi si erano agganciati tra 15,30 e le 16 alla stessa cella telefonica. «A dimostrazione che l'incontro tra i due gruppi - hanno annotato i carabinieri in un'informativa - è verosimilmente avvenuto».

PRINCI CON LA FIDANZATA. Ma c'è di più. Tre ore dopo l'incontro con gli spacciatori il Luca Sacchi e Anastasia si scambiano dei messaggi. Il contenuto è di interesse investigativo, sembra rimandare all'organizzazione di un progetto. Probabilmente quello che avrebbe dovuto andare in porto alcuni giorni dopo ma che costerà la vita a Luca. «Amo novità? Ti attieni ai piani?», scrive lui. «Sì ci vediamo dopo» la risposta. «Spero tu faccia come mi hai detto - ribatte il 24enne - se scopro che hai fatto le cose a c...., senza me». C'è anche il verbale di un altro amico di Luca, presente al pub la sera del 23 ottobre. Il giovane ha riferito che Anastasia si era allontanata da lui e Luca con lo zaino in spalla e poi era tornata rassicurando il fidanzato: Tutto a posto. Secondo gli investigatori e le altre testimonianze, aveva appena mostrato i 70mila euro ai pusher.

La Vita in Diretta, la rivelazione della mamma di Luca Sacchi: "Anastasiya e Princi, quello sguardo strano che ho notato in vacanza". Libero Quotidiano il 23 giugno 2020. A La Vita in Diretta anche Bianca Furiosi, la mamma di Luca Sacchi. La donna è stata ospite di Alberto Matano dopo la prima condanna legata alla vicenda che ha visto l'uccisione del figlio. "La scorsa estate - racconta mamma Bianca in merito alla condanna a quattro anni di reclusione per Giovanni Princi, amico di Luca, accusato del tentativo di acquisto di 15 chilogrammi di marijuana.- Anastasiya e Princi sono venuti in vacanza con noi. Non mi è mai piaciuto. Ho notato uno sguardo strano tra lei e Princi. Voglio specificare che Princi non era un amico di infanzia, Luca era un ragazzo per bene, lo ha conosciuto l'ultimo anno di scuola". Bianca Furiosi non ha peli sulla lingua e torna a parlare dell'ex fidanzata del figlio, che lei stessa ha ammesso aver trattato come una figlia: "Ha trascorso quattro anni a casa mia, dopo la morte di Luca è sparita. Adesso penso che non le importasse così tanto di lui. Io non ho più un figlio, non posso più vedere un film con lui, non posso più preparargli un piatto".

Omicidio Luca Sacchi, i genitori: "Lui quella sera era lì non per la droga, ma per difendere Anastasiya Kylemnyk". Libero Quotidiano il 09 giugno 2020. "Luca sapeva, evidentemente sì, ma non tutto. Sapeva che Anastasiya si era cacciata in qualche brutto guaio ed era andato lì per proteggerla, come faceva sempre". A parlare sono Tina e Alfonso Sacchi, i genitori di Luca Sacchi, al termine dell’udienza del processo per l’omicidio del figlio, il personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla testa la notte tra 23 e 24 ottobre scorsi, davanti ad un pub nella zona di Colli Albani a Roma. Al centro delle loro attenzioni, ovviamente, Anastasiya Kylemnyk, la bionda dei misteri. "Luca si trovava lì quella sera per cercare di tirar fuori lei dai guai e non per la trattativa di droga. Evidentemente non c'è riuscito", hanno poi commentato i genitori uscendo dal tribunale. In aula  oggi era presente anche l'ex fidanzata di Luca, Anastasiya, a processo con l’accusa di violazione della legge sugli stupefacenti e allo stesso tempo parte civile in quanto vittima dell’aggressione sfociata poi in omicidio da parte degli autori materiali dell’aggressione, Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. Il racconto della ragazza è ritenuto lacunoso e poco plausibile dal gip e apre un interrogativo: dov’è finita la busta con dentro i 70mila euro destinati all’acquisto dei 15 chili di hashish? I soldi e la busta non sono mai stati trovati. "Luca aveva un appuntamento al pub, credo che si erano accordati (con Princi, ndr). Giovanni stava di fronte al bar, solo. Mi ha chiesto se potevamo tenergli una busta perché doveva vedersi con due persone (Simone Piromalli e Valerio Rispoli, non indagati, ndr) per fare un impiccetto con una moto. La busta non l’ho aperta. Ci ha detto (a lei e a Luca, ndr): ci sono dei soldi. Mi ha messo la busta dentro lo zaino". Il gip le chiede quanto denaro ci fosse: "Era una busta marrone, come quelle per il pane, non l’ho manovrata io. Ho preso poi una bottiglietta d’acqua dallo zaino, e non c’era più la busta", ha chiarito la ragazza.

Da leggo.it il 13 giugno 2020. Nuovi dettagli emersi sull'omicidio di Luca Sacchi, il ragazzo di 24 anni ucciso lo scorso ottobre con un colpo di pistola alla testa a Roma. A tornare a parlare del giallo è stata la trasmissione di Rete 4 "Quarto Grado - Le Storie", che ha mostrato degli screenshot salvati sul telefono di Anastasiya Kylemnyk, fidanzata della vittima e coinvolta nell'inchiesta sull'omicidio. Le immagini riportano conversazioni tra dei money-slave, uomini disposti a pagare per essere sottomessi da una padrona che si fa chiamare "Dea Anais". La trasmissione mostra anche delle fotografie di una ragazza mascherata e vestita di pelle e calze a rete, mora e provocante, e si chiede se dietro quelle immagini possa esserci la stessa Anastasiya o se la ragazza avesse salvato quei messaggi proprio perché affascinata da quel mondo e dal denaro che vi circolava. 

Roma, smantellato call center della droga: "Il Covid ci ha fermato un po', ora riprendiamo". Coinvolto anche Pirino, in carcere per l'omicidio Sacchi. La base operativa era San Basilio. I clienti scrivevano a un telefono, attivo dalle 14 alle 2 di notte, ordinavano la droga ("un amico" era una dose, "una mano" 5 grammi) e aspettavano che arrivasse direttamente a casa, consegnata da ragazzi in motorino. Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 18 giugno 2020. Era un call center della droga con consegna a domicilio. Un sistema snello e ben organizzato che fatturava all'incirca 15mila euro alla settimana. I clienti scrivevano a un telefono, attivo dalle 14 alle 2 di notte, ordinavano la droga ("un amico" era una dose, "una mano" 5 grammi) e aspettavano che da San Basilio arrivasse direttamente a casa, consegnata da ragazzi in motorino, anche loro tossicodipendenti in difficoltà economica. Un sistema che è stato smantellato dalla procura di Roma e dal Gico del Nucleo di polizia economico finanziaria che hanno arrestato 7 giovani: 3 in carcere e quattro ai domiciliari. Tra loro c'è anche Paolo Pirino, 22 anni, già in carcere perché accusato di essere, insieme a Valerio Del Grosso, quello che ha ucciso Luca Sacchi. Il gruppo che il gip definisce "estremamente efficace, sia nell'ottica di facilitare la domanda che di ridurre i tempi e i passaggi al fine di soddisfarla, ma anche di minimizzare i rischi", aveva superato lo spaccio di strada. I corrieri, per limitare i rischi, viaggiavano sempre con pochissime dosi, facendo magari più giri. In media si contano tra le 30 e le 50 cessioni al giorno durante la settimane e 80 nei festivi e prefestivi. Proprio come un esercizio commerciale qualsiasi, al termine del lockdown il call center ha inviato un sms alla clientela: : "Ciao bello\a sono lele di San Basilio siamo stati fermi x un po a causa del covid19 comunque da domani alle 14 fino alle 2 di notte risaremo attivi con amichetti a 30 e (mani o tmax a 230) disponibili a raggiungerti dove sei siamo tornati al top top chiamami un abbraccio lele". Tanta astuzia aveva permesso al gruppo, come scrive il gip, di "ritagliarsi uno spazio operativo di tutto rispetto (atteso il giro di clienti ed il "fatturato" della impresa delinquenziale messa in opera) in un contesto già a fortissima presenza criminale di gruppi agguerriti e con superiore caratura malavitosa come il quartiere romano di San Basilio". Nel corso delle indagini, partite nel febbraio 2019 e quindi ben prima dell'omicidio Sacchi, Paolo Pirino si è reso protagonista di un tentativo di investimento di due militari delle Fiamme Gialle che gli avevano intimato l'alt per un controllo: alla guida della sua auto, invece di fermarsi, accelerava tentando di travolgere i due Finanzieri prima di dileguarsi. Il Tribunale di Roma ha disposto la custodia cautelare in carcere nei confronti dei fratelli Samuel e Manolo Billocci e di Pirino e i domiciliari per 4 "corrieri".

Omicidio Sacchi a Roma, Del Grosso in aula: "Non volevo uccidere Luca, nello zaino non c'erano soldi". Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Non volevo sparare e non volevo uccidere Luca". Lo ha detto Valerio Del Grosso, accusato in concorso con Paolo Pirino dell'omicidio di Luca Sacchi, avvenuto il 23 ottobre scorso a Roma testa davanti a un pub nella zona di Colli Albani. "Dopo quanto accaduto non volevo scappare - ha detto rendendo dichiarazioni spontanee al processo che si sta svolgendo a porte chiuse davanti alla Prima corte d'Assise - Sono andato a dormire nell'hotel dove andavo qualche volta quando volevo stare da solo". "Non ho preso soldi, nello zaino non c'erano soldi" ha concluso facendo riferimento alla vicenda della trattativa per l'acquisto di droga.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero - Cronaca di Roma” l'8 luglio 2020. Ha chiesto perdono davanti alla Corte, ma con la convinzione di non meritarlo. Erano giorni che Valerio Del Grosso il ventenne accusato dell' omicidio di Luca Sacchi rimuginava in carcere con quali parole implorare perdono «per aver sparato e ucciso» anche se, a suo dire, «senza volerlo» e senza sapere cosa stesse facendo. Quel momento è arrivato ieri quando ha chiesto la parola davanti alla Corte di Assise e reso spontanee dichiarazioni. «Chiedo perdono anche se so di non meritarlo», ha premesso Del Grosso, «Sono consapevole di avere distrutto la vita di Luca, un ragazzo come me. Sono consapevole di aver distrutto la sua famiglia. So di aver distrutto anche la mia vita e quella di mio figlio. Ma non era mia intenzione uccidere». «Non volevo sparare. Non so perché è partito il colpo», ha precisato, «Era la prima volta che tenevo in mano una pistola. È avvenuto tutto in pochi secondi e in un momento di grande concitazione. C' è stata una colluttazione tra Luca e Paolo Pirino, perché Pirino aveva strappato via lo zaino di Anastasia Kylemnyk. Ho sentito delle persone arrivare alle mie spalle. Era buio. All' improvviso è partito quel colpo». Del Grosso ha tenuto a puntualizzare anche di non aver rubato i settantamila euro contenuti nello zaino di Anastasia per acquistare droga: «Lo zaino era vuoto», ha detto, «C' erano solo 250 euro nel portafogli. Sono i soldi che ho utilizzato per stare in albergo. Il mio soggiorno là potrebbe aver fatto pensare a una fuga. Ma non era mia intenzione scappare. Volevo solo abbracciare per l' ultima volta mio figlio prima di consegnarmi». Dell' omicidio del 23 ottobre scorso ai Colli Albani, Del Grosso (difeso dall' avvocato Alessandro Marcucci) risponde di omicidio volontario, in veste di esecutore materiale, assieme all' amico Paolo Pirino, che lo avrebbe spalleggiato. Sul banco degli imputati anche Marcello De Propris accusato, insieme al padre Armando di aver fornito la calibro 38 usata per il delitto, mentre Anastasia Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, si trova nella doppia posizione di parte civile e di indagata per la questione legata allo scambio di droga da cui sarebbe poi scaturito l' omicidio. Con una serie di testimonianza ieri l' accusa ha ricostruito lo scenario della nottata finita nel sangue. «Ho sentito lo sparo e mi sono girato di scatto. Il ragazzo era a meno di otto metri da me per terra», ha dichiarato Massimo Leardini, l' uomo che primo ha allertato i soccorsi. «Ero là quando all' improvviso ho sentito il colpo di pistola. Quando mi sono voltato ho visto il ragazzo a terra (ossia Luca, ndr) e un altro che poi ho capito fosse Del Grosso, che in tutta calma si è rimesso la pistola in tasca, si è girato, ci siamo guardati in faccia e se n' è andato senza correre, passeggiando come se nulla fosse accaduto». Dalla tranquillità dello sparatore «ho pensato che si fosse trattato di un regolamento di conti» ha spiegato il testimone, «Mentre la ragazza piangeva mi sono avvicinato al ragazzo. Aveva un foro alla nuca». Tra i testimoni anche gli amici del fratello minore di Luca Sacchi, tra cui alcuni minorenni. Due ragazzi, nel corso della deposizione hanno raccontato anche di Anastasia. Uno ha riferito di averla vista colpita da una bastonata. Un particolare che però l' altro non ricordava.

ADELAIDE PIERUCCI per il Messaggero il 10 luglio 2020. IL CASO. L'amico di Luca Sacchi incastra Anastasyia Kylemnyk. Nessun riferimento esplicito sull'affare droga. Ma, in aula ieri, nel processo aperto sull'omicidio del personal trainer, Domenico Marino Munoz, uno degli amici più fidati di Luca pur senza mai pronunciare questioni di soldi e una partita di marijuana, in veste di testimone ha ricostruito il clima di quella notte del 23 ottobre davanti al John Cabot, pochi minuti prima che dalla pistola di Valerio del Grosso partisse il colpo fatale.

RUOLO CHIAVE. Poche parole, espresse in maniera reticente e sofferta, che però non avrebbero lasciato dubbi ai suoi occhi sul ruolo chiave proprio di Anastasyia, la fidanzata di Sacchi, nella probabile compravendita di droga, sfociata in rapina e poi in omicidio.

STRANE PERCEZIONI. «Ho percepito qualcosa di strano quella sera, come se ci si dovesse accordare per qualcosa di illecito - ha raccontato Munoz alla Corte - Anastasyia si è allontanata con uno zaino in mano e quando è tornata ha detto a Luca 'Tutto a posto''. Luca ha annuito. Ho avuto una strana sensazione». Il testimone poi si è soffermato in maniera più lineare sulla fase dell'omicidio. «All'improvviso un ragazzo ha aggredito Anastasyia con un colpo alla testa e uno alla schiena e Luca è intervenuto a sua difesa, spingendolo a terra», ha raccontato.

L'APPUNTAMENTO. «È successo tutto in pochi secondi. Luca si è disinteressato del ragazzo a terra (poi identificato per Paolo Pirino ndr) e ha soccorso la fidanzata. Era chino nel momento in cui sopraggiungeva dal marciapiede, da sette otto metri di distanza, un secondo ragazzo che dopo aver indietreggiato di un paio di passi ha esploso il colpo che ha centrato alla testa Luca». «Quella sera Luca mi aveva dato appuntamento là con Signal», ha precisato Munoz facendo riferimento all'applicazione di messaggistica istantanea che consente di effettuare chat e chiamate vocali crittografate. «Avevamo una chat, io lui e Giovanni Princi», il giovane, che nell'ambito della stessa inchiesta, è stato appena condannato in abbreviato a 4 anni per la compravendita della droga.

DAVANTI ALLA CORTE. Davanti alla Corte d'Assise che vede imputati per omicidio volontario e rapina Valerio Del Grosso e Paolo Pirino e nella doppia veste di parte civile e imputata per detenzione di droga Anastasyia Kylemnyk, ha testimoniato anche il fratello di Luca Sacchi, Federico, per caso quella sera nel pub.

LA CORSA. «Ho visto Princi correre. È stato lui a dirmi di Luca. "Tuo fratello è a terra", mi ha detto. Poi la corsa in ospedale dove Luca è morto. Lì, con Luca in fin di vita, Princi aveva una preoccupazione: andare a spostare la macchina di Anastasyia». «Negli ultimi tempi - ha aggiunto Federico Sacchi - Anastasyia e Luca si erano allontanati. So che discutevano. Invece lei si era avvicinata sempre più a Princi. Avevano buoni rapporti».

CHIESTO IL PERDONO. Nell'ultima udienza aveva chiesto perdono in aula Valerio Del Grosso: «Chiedo perdono anche se so di non meritarlo agli occhi della famiglia», aveva premesso Del Grosso, «Sono consapevole di avere ucciso Luca, un ragazzo come me. Di aver distrutto la sua famiglia. Ma non era mia intenzione uccidere. Non volevo sparare. Non so perché è partito il colpo. Era la prima volta che tenevo in mano una pistola».

Valentina Errante per il Messaggero il 22 settembre 2020. Al processo per la morte di Luca Sacchi, freddato con un colpo alla nuca lo scorso anno davanti al pub John Cabot pub, all'Appio Latino, si torna a parlare dell'incontro del 12 ottobre. Quando, dieci giorni prima del suo assassinio, durante una cessione di stupefacenti finita con l'omicidio, Sacchi aveva accompagnato l'amico Giovanni Princi, adesso a processo, a un incontro con un grossista di droga. Luca era rimasto lontano, come avevano rivelavano le informative. A processo con rito ordinario ci sono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i due ventenni di San Basilio accusati di essere autori materiali dell'aggressione, i due pusher che, sperando di prendere i soldi (70mila euro) custoditi nello zaino della fidanzata di Luca, Anastasja, si sono trasformati in Killer. Marcello De Propris, che avrebbe consegnato l'arma del delitto, il padre di quest' ultimo, Armando, accusato della detenzione della pistola, e infine Princi e Anastasiya, la fidanzata di Luca, coinvolti nella seconda tranche dell'inchiesta, per la violazione della legge sugli stupefacenti in relazione al tentativo di acquisto di 15 chili di droga. In aula, il militare, che il 12 ottobre, dopo avere intercettato Princi, lo aveva seguito all'incontro con il piazzista Fabio Casale, ha riferito di avere identificato anche Sacchi, ma ha confermato quanto già precisato in un'informativa. E cioè che prima dell'intervento dei carabinieri, mentre Princi e Casale discutevano, Sacchi stava a distanza, come se la questione non lo riguardasse. Una circostanza che, per i legali della famiglia conferma l'estraneità di Luca alle vicende di spaccio. «Il teste in aula ha spiegato che Luca è rimasto lontano 2-3 metri ed era totalmente disinteressato a ciò che i due si dicevano: è l'ennesima prova dell'estraneità di Sacchi dal mondo della droga», commentano Armida Decina e Paolo Salice. E ieri in aula è stato sentito anche un acquirente abituale di Princi, che ha rivelato di non conoscere né Luca né Anastasja. Ma nel processo si ricostruiscono anche le fasi successive all'omicidio. «Ho incontrato Valerio Del Grosso il giorno dopo l'omicidio. Ci siamo visti a Tor Sapienza e mi ha detto che la sera prima aveva fatto una sciocchezza, che non pensava di averlo ucciso. Ha detto che non aveva mai avuto un'arma in mano prima e ha mimato il gesto di sparare verso il basso, verso il marciapiede». A parlare davanti alla Corte d'Assise è stato un amico d'infanzia di Del Grosso. «La sera in cui ci siamo incontrati insieme ad altre persone aveva le lacrime agli occhi, stava male - ha detto il testimone in aula - non ce la faceva neanche a parlare, aveva paura a dirlo alla sua famiglia e fui io a dirlo a suo fratello. Io ho consigliato a Del Grosso di consegnarsi alle forze dell'ordine ma la paura lo ha frenato. So che in quel periodo aveva problemi con la ex compagna, era legatissimo al figlio, andava dallo psicologo e assumeva farmaci».

MARCO CARTA per il Messaggero il 24 settembre 2020. Dalle utenze telefoniche intestate a cittadini bengalesi. Ai social criptati come Signal per eludere i controlli. «Sono Giovanni, contattiamoci qua, cancella il vecchio numero». È passata appena una settimana dalla morte di Luca Sacchi e Giovanni Princi è di nuovo operativo sul fronte dello spaccio: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». La vicenda emerge con chiarezza nelle motivazioni della sentenza con cui il giovane 24enne è stato condannato con rito abbreviato lo scorso giugno a 4 anni per aver avuto un ruolo attivo nella compravendita di 15 kg di marijuana che si è conclusa con la morte di Luca Sacchi, l'ex amico di scuola, ucciso dai pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, davanti al John Cabot pub, nel quartiere Appio.

MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA. Per il gup Pier Luigi Balestrieri non ci sono dubbi: Giovanni Princi era ben inserito «nel settore del narcotraffico» e per questo si era «attivato per l'acquisto di un notevole quantitativo di narcotico». E a lui non possono essere concesse le attenuanti generiche. Sia per il suo «non commendevole contegno processuale» ma anche per la sua «proclività a delinquere anche a distanza di pochi giorni dalla tragica morte del Sacchi». Nemmeno il tempo di metabolizzare la morte dell'amico del cuore, insomma. È il 31 ottobre 2019, quando Princi inizia a comunicare attraverso un'utenza intestata a un cittadino bengalese. Anche la sua fidanzata Burcea Clementina utilizza un'utenza intestata a un cittadino del Bangladesh. I due comunicano attraverso Signal, il programma di messaggistica che «permette di impostare la scomparsa a tempo dei messaggi». Ma evidentemente non sono attenti: in uno screenshot si vedono fogli manoscritti riportanti «sigle o nomi e cifre». Poi ci sono i messaggi vocali, datati 25 novembre. La voce è quella di Princi, e l'argomento, secondo gli inquirenti, è chiaro: «la gestione di diverse operazioni di narcotraffico». In uno degli audio si lamenta del mercato: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». In un altro elogia la serietà di un acquirente: «i dry li paga benissimo se sono dry veri, e l'erba la paga bene». Per il gup, la sera dell'omicidio di Luca Sacchi - era la notte tra il 23 e il 24 ottobre 2019 - Princi avrebbe agito «in qualità di acquirente anche per conto della coppia Kylemnyk/Sacchi», detentrice della provvista in denaro necessaria al buon esito dell'operazione, circa 70mila euro, mai trovati. Luca Sacchi avrebbe partecipato alla compravendita, «forse nel ruolo di mero convivente» di Anastasya, con cui Princi «aveva in corso un rapporto di amicizia». Subito dopo l'omicidio, Princi, per il quale il pm Nadia Plastina aveva chiesto una condanna a sei anni e 4 mesi, aveva spiegato così la sua presenza al pub: « ero in attesa che mi raggiungessero due amici, Luca e la sua fidanzata Anastasya».

MARCO CARTA per il Messaggero il 25 settembre 2020. Dalle utenze telefoniche intestate a cittadini bengalesi. Ai social criptati come Signal per eludere i controlli. «Sono Giovanni, contattiamoci qua, cancella il vecchio numero». È passata appena una settimana dalla morte di Luca Sacchi e Giovanni Princi è di nuovo operativo sul fronte dello spaccio: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». La vicenda emerge con chiarezza nelle motivazioni della sentenza con cui il giovane 24enne è stato condannato con rito abbreviato lo scorso giugno a 4 anni per aver avuto un ruolo attivo nella compravendita di 15 kg di marijuana che si è conclusa con la morte di Luca Sacchi, l'ex amico di scuola, ucciso dai pusher di San Basilio Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, davanti al John Cabot pub, nel quartiere Appio.

MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA. Per il gup Pier Luigi Balestrieri non ci sono dubbi: Giovanni Princi era ben inserito «nel settore del narcotraffico» e per questo si era «attivato per l'acquisto di un notevole quantitativo di narcotico». E a lui non possono essere concesse le attenuanti generiche. Sia per il suo «non commendevole contegno processuale» ma anche per la sua «proclività a delinquere anche a distanza di pochi giorni dalla tragica morte del Sacchi». Nemmeno il tempo di metabolizzare la morte dell'amico del cuore, insomma. È il 31 ottobre 2019, quando Princi inizia a comunicare attraverso un'utenza intestata a un cittadino bengalese. Anche la sua fidanzata Burcea Clementina utilizza un'utenza intestata a un cittadino del Bangladesh. I due comunicano attraverso Signal, il programma di messaggistica che «permette di impostare la scomparsa a tempo dei messaggi». Ma evidentemente non sono attenti: in uno screenshot si vedono fogli manoscritti riportanti «sigle o nomi e cifre». Poi ci sono i messaggi vocali, datati 25 novembre. La voce è quella di Princi, e l'argomento, secondo gli inquirenti, è chiaro: «la gestione di diverse operazioni di narcotraffico». In uno degli audio si lamenta del mercato: «quattro e otto già non riesco a vendenne tanta perché è un pezzo commerciale, capito?». In un altro elogia la serietà di un acquirente: «i dry li paga benissimo se sono dry veri, e l'erba la paga bene». Per il gup, la sera dell'omicidio di Luca Sacchi - era la notte tra il 23 e il 24 ottobre 2019 - Princi avrebbe agito «in qualità di acquirente anche per conto della coppia Kylemnyk/Sacchi», detentrice della provvista in denaro necessaria al buon esito dell'operazione, circa 70mila euro, mai trovati. Luca Sacchi avrebbe partecipato alla compravendita, «forse nel ruolo di mero convivente» di Anastasya, con cui Princi «aveva in corso un rapporto di amicizia». Subito dopo l'omicidio, Princi, per il quale il pm Nadia Plastina aveva chiesto una condanna a sei anni e 4 mesi, aveva spiegato così la sua presenza al pub: « ero in attesa che mi raggiungessero due amici, Luca e la sua fidanzata Anastasya».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 13 Ottobre 2020. A incastrarlo è stata una perizia svolta sul suo cellulare: Valerio Rispoli, subito dopo l' omicidio di Luca Sacchi, aveva cancellato le conversazioni più compromettenti. Messaggi tra lui e Valerio Del Grosso, il pusher di Casal Monastero che la sera del 23 ottobre dello scorso anno, al termine di una trattativa per la compravendita di 15 chili di erba, ha sparato al giovane personal trainer uccidendolo. Rispoli era l'intermediario tra gli spacciatori - oltre a Del Grosso c' erano anche Paolo Pirino e Marcello De Propris, tutti accusati di omicidio - e l' amico di Sacchi, Giovanni Princi, regista di quella trattativa finita nel sangue e già condannato a 4 anni per acquisto di stupefacente finalizzato allo spaccio. Il colpo di scena è arrivato nel corso dell' ultima udienza del processo per omicidio: la pm Giulia Guccione ha depositato i risultati della perizia, formalizzando una modifica del capo di imputazione. Rispoli è indagato e, se dovesse venire rinviato a giudizio, potrebbe finire sul banco degli imputati insieme ai killer di Luca e alla sua fidanzata Anastasia Kylemnyk, pure lei a giudizio per acquisto di stupefacente ai fini di spaccio. Con Rispoli è indagato anche Simone Piromalli, presente nel corso della trattativa, ma la sua posizione dovrebbe andare verso la richiesta di archiviazione. Venerdì sarà un' altra udienza importante: verranno sentiti i genitori di Luca.

LE CHAT Per la procura, le conversazioni nel cellulare di Rispoli sono eloquenti, E proprio per questo il giovane avrebbe cercato di eliminarle. I contatti con Del Grosso e con Princi sono frequentissimi. Si parla dell' acquisto di 70mila euro di droga che sarebbe dovuto avvenire davanti al pub John Cabot il 23 ottobre, nel quartiere Appio Latino. Nei messaggi Princi si lamenta per la lentezza dei pusher e cerca di abbassare il prezzo. Il giorno prima dell' omicidio scrive a Rispoli: «Ma non li volete i soldi?». L' intermediario riporta il colloquio a Del Grosso che si attrezza e i fornitori: Armando e Marcello De Propris, padre e figlio. Agli atti è stato depositato un video del 22 ottobre che documenta un incontro tra il pusher e i fornitori davanti a un bar di piazza Coleman, a Tor Sapienza. È presente anche una quarta persona: per l' accusa sarebbe Paolo Pirino, ma i difensori respingono questa ricostruzione. Era stato sempre Rispoli a comunicare a Del Grosso che il gruppetto composto da Sacchi, la Kylemnyk e Princi aveva abbastanza denaro per l' acquisto: i soldi - mai ritrovati - erano nello zaino della ragazza. Il pusher aveva quindi deciso di cambiare i piani: si era fatto prestare una pistola dai De Propris per derubare i ragazzi. Poi, l' omicidio.

LA CASA. Ieri nel corso dell' udienza è stato ascoltato anche l' agente immobiliare che era stato contattato da Anastasia: la ragazza voleva affittare un appartamento insieme a Luca. «Non aveva specificato la tipologia di appartamento - ha detto il teste - è venuta prima da sola e poi con Luca. Il budget era di 900 euro e aveva fatto una proposta mostrando interesse anche per un altro. Quel giorno venne accompagnata da un' altra ragazza». Si trattava della fidanzata di Princi. Dopo l' omicidio, la giovane si è fatta restituire la caparra versata.

Omicidio Sacchi, il testimone: "Del Grosso mi disse che non pensava di averlo ucciso". A raccontare la circostanza durante il processo è un amico dell'imputato: "Mi disse, ho fatto una sciocchezza, gli consigliai di consegnarsi alla giustizia". Francesco Salvatore su La Repubblica il 21 settembre 2020. "Ho incontrato Valerio Del Grosso il giorno dopo l'omicidio. Ci siamo visti a Tor Sapienza e mi ha detto che la sera prima aveva fatto una sciocchezza, che non pensava di averlo ucciso. Ha detto che non aveva mai preso un'arma in mano prima e ha mimato il gesto di sparare verso il basso, verso il marciapiede". A raccontarlo in aula, sentito come testimone, è un amico di Del Grosso, durante il processo davanti alla prima Corte d'assise per l'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer ucciso la notte tra il 23 e il 24 ottobre scorso con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nella zona di colli albani. “La sera in cui ci siamo incontrati insieme ad altre persone aveva le lacrime agli occhi, stava male - ha riferito il testimone - non ce la faceva a parlare, aveva paura a dirlo alla sua famiglia e fui io a dirlo a suo fratello. Io ho consigliato a Del Grosso di consegnarsi alle forze dell'ordine ma la paura lo ha frenato. So che in quel periodo aveva problemi con la ex compagna, era legatissimo al figlio, andava dallo psicologo e assumeva farmaci". Il processo vede alla sbarra per omicidio volontario Del Grosso e Simone Pirino, Marcello e Armando De Propris (figlio e padre) e Anastasia Kylemnik, fidanzata di Sacchi. Secondo il pm Nadia Plastina, Del Grosso e Pirino avrebbero dovuto portare 15 chili di marijuana, messa a disposizione da De Propris, per venderla a venderla a Princi e Kylemnik. Poco prima dello scambio i due giovani di Casal Monastero hanno cambiato idea e hanno deciso di prendersi i soldi senza portare la marijuana. Sono scesi dall’auto con una pistola e una mazza in mano e hanno aggredito Kylemnik, che aveva con sé lo zaino rosa all’interno del quale c’erano i soldi, e Sacchi. Poi del Grosso ha sparato al personal trainer a bruciapelo, mentre quest’ultimo cercava di difendere la sua fidanzata. Intanto i legali della famiglia Sacchi hanno ribadito che Luca era estraneo al giro di droga: "Il carabiniere ascoltato in udienza ha riferito che nel corso dell'incontro avvenuto il 12 ottobre scorso tra un soggetto noto agli inquirenti, perché indagato per traffico di droga, e Giovanni Princi, Sacchi non ebbe alcun ruolo. Il teste ha riferito che Sacchi è rimasto lontano 2-3 metri ed era totalmente disinteressato a ciò che i due si dicevano". Gli avvocati Armida Decina e Luca Salice hanno anche aggiunto: "È nostro interesse far emergere la personalità di Sacchi e, dopo quanto emerso oggi, possiamo serenamente affermare che Luca non c'entrava assolutamente nulla con il mondo della droga".

Omicidio Luca Sacchi, Anastasiya: "Nessuna relazione tra me e Princi, solo amicizia". La fidanzata del ragazzo ucciso il 23 ottobre 2019 davanti a un pub in zona Appio durante uno scambio di droga è imputata per la compravendita di stupefacenti. Ma smentisce l'intesa con l'amico della vittima: "Io ero attaccatissima al mio fidanzato e la mia vita girava intorno a lui". Francesco Salvatore su La Repubblica il 16 ottobre 2020. "Tra me e Giovanni Princi non c'è alcuna relazione sentimentale o intesa. Tra noi c'è solo un'amicizia nata in seguito a quella tra Luca e Princi. Non l'ho mai frequentato o incontrato. Io ero attaccatissima al mio fidanzato e la mia vita girava intorno a lui". Rompe il silenzio Anastasiya Kylemnik, e lo fa in aula con una dichiarazione spontanea al termine dell'udienza nel processo sull'omicidio di Luca Sacchi, il personal trainer di 24 anni ucciso lo scorso 23 ottobre con un colpo di pistola alla testa fuori da un pub vicino alla Caffarella. Imputati per omicidio volontario sono Valerio Del Grosso, Paolo Pirino e Marcello De Propris. L'omicidio, per la procura, è scaturito al termine di uno scambio di droga degenerato in rapina e finito con l'uccisione del personale trainer. Imputati per la compravendita di droga anche Anastasiya Kylemnik, fidanzata di Luca. Era lei a tenere lo zaino all'interno del quale, secondo gli inquirenti, erano contenuti i soldi per pagare la partita di droga che avrebbero dovuto portare Del Grosso e Pirino. "Non ho mai riferito ai genitori di Luca né a lui che mio padre mi maltrattasse - ha continuato con voce tremula - mio padre mi ha accolto e protetto da quando sono qui. E anche tutti questi mesi. È una una roccia. Non mi ha mai maltrattato. Volevo farvi sapere solo questo", ha spiegato Anastasiya dopo che i genitori di Sacchi in aula avevano spiegato di averla accolta in casa perché lei gli aveva riferito che era maltrattata dal patrigno. In aula oggi ha parlato anche Concetta Galati, mamma di Luca Sacchi. "Dal sabato dopo l'omicidio non ho più visto Anastasiya. Mi ha continuato a mandare messaggi 'ti voglio bene' ma non si è più presentata a casa mia. L'ultimo messaggio lo ha mandato a mio marito ma per dirgli che non veniva al funerale per non creare confusione mediatica. Se io fossi stata fidanzata con un ragazzo per 5 anni avrei fatto di tutto per andarci". "Anastasiya dopo la morte di Luca si è allontanata - ha continuato la mamma con la voce rotta dal pianto - una volta mi diceva che stava male la mamma, una volta la sorella e una volta il papà. Poi le indagini sono proseguite e non ci siamo più sentite. Le chiesi il perché non voleva venire, o se fosse stato un consiglio dell'avvocato ma diceva sempre che qualcuno stava male".

Michela Allegri per “il Messaggero” il 10 novembre 2020. Ha assistito alla trattativa per la compravendita di 70mila euro di marijuana che, nell' ottobre dello scorso anno, è costata la vita a Luca Sacchi. E ha ricordato un dettaglio importante per ricostruire i fatti che hanno portato all' omicidio del giovane personal trainer romano: «Ero distante tre o quattro metri, nel gruppo c' erano Valerio Rispoli e Giovanni Princi. Si è avvicinata Anastasia, che aveva uno zainetto rosa. Ho visto estrarre un rotolo di banconote dallo zaino».

Rispoli - indagato per compravendita di stupefacenti - secondo l' accusa era l' intermediario tra i pusher di Casal Monastero - Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, entrambi a processo per omicidio - e il gruppo di Princi - già condannato a 4 anni per droga -, del quale facevano parte anche Luca Sacchi e la fidanzata Anastasia. A raccontarlo è stato Simone Piromalli, ascoltato ieri come testimone nell' ultima udienza del processo per quel delitto, avvenuto a Roma la notte tra il 23 e il 24 ottobre 2019. Piromalli, amico d' infanzia di Del Grosso, studente universitario - «prima studiavo statistica, ora economia» - era stato indagato insieme a Rispoli nel procedimento per violazione della legge sulla droga, ma la sua posizione è stata archiviata nei giorni scorsi. Nel corso delle indagini ha reso dichiarazioni importanti. «Non pensavo potesse succedere una catastrofe quella sera - ha detto in aula, rispondendo alle domande dei pm Nadia Plastina e Giulia Guccione - Rispoli mi chiese di accompagnarlo ad incontrare Princi, avrei potuto avere un piccolo compenso, Del Grosso di solito offriva serate o bottiglie di champagne. Poco dopo sono arrivati Luca e Anastasia e qualcuno ha tirato fuori dallo zaino di lei le banconote, ma non ricordo chi sia stato. Poco dopo è arrivato Del Grosso e ho sentito che discutevano di una trattativa per comprare marijuana». Del Grosso si era poi allontanato, «per andare a prendere l' erba», e in attesa del suo ritorno il gruppo si era spostato al pub John Cabot, all' Appio Latino.  «Io sono entrato per prendere delle birre, mentre ero in fila ho sentito un rumore forte, ho visto un ragazzo in terra e Anastasia china su di lui che gridava. Princi in quel momento ha detto a me e a Rispoli di andare via». Del Grosso, invece di andare a prendere la droga dal suo fornitore Marcello De Propris - anche lui è a processo per concorso in omicidio -, si era fatto prestare una pistola: aveva deciso di derubare i ragazzi senza consegnare la partita di stupefacente. Pirino aveva colpito Anastasia con una mazza e Luca era intervenuto per difendere la ragazza. A quel punto Del Grosso gli aveva sparato, colpendolo alla testa. Poi lui e il socio erano fuggiti. Piromalli ha raccontato anche i momenti successivi: ha detto che Del Grosso, subito dopo l' omicidio, gli aveva telefonato, ma lui non aveva risposto. Il giorno dopo, accompagnato da un' amica, era andato sotto casa sua per prendere alcuni vestiti che gli aveva prestato: «Era molto agitato, mi ha abbracciato e mi ha detto che la sera prima era successo un macello e che lui voleva solo spaventare i presenti, non voleva uccidere nessuno».

Michela Allegri per "il Messaggero" l'11 dicembre 2020. Nuove intercettazioni che sembrano incastrare gli imputati - «volevano usare quella pistola per una rapina» - e misteri che, a distanza di più di un anno dal delitto che ha sconvolto Roma, non sono ancora stati chiariti. Udienza fiume ieri per il processo sull' omicidio di Luca Sacchi, il giovane personal trainer ucciso con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub nel quartiere Appio Latino, al culmine di una trattativa per la compravendita di 70mila euro di erba. Sul banco degli imputati, con l' accusa di omicidio, ci sono Valerio Del Grosso, il pusher di Casal Monastero che nell' ottobre 2019 ha premuto il grilletto, il suo socio Paolo Pirino e Marcello De Propris, il fornitore di stupefacente, che oltre ad avere preparato le dosi da cedere avrebbe anche consegnato a Del Grosso l' arma del delitto: la pistola di suo padre Armando, pure lui a processo per detenzione del revolver e appena condannato per droga. Il primo giallo riguarda proprio l' arma: non è mai stata trovata. E vale lo stesso per il cellulare di Valerio Del Grosso. Ieri in aula è stato sentito luogotenente Pasquale Passante del Nucleo investigativo, sezione Omicidi, che ha ricostruito le tappe delle indagini. Quando i carabinieri erano andati ad arrestare Del Grosso, 24 ore dopo l' omicidio, lui aveva fatto recuperare lo zainetto rosa rubato ad Anastasia Kylemnik, la fidanzata di Sacchi - a processo per la tentata compravendita di droga - e il portafoglio della ragazza. A organizzare la trattativa per l' erba era stato un amico di Luca, Giovanni Princi - già condannato a 4 anni - e quando Del Grosso aveva saputo che gli acquirenti erano disposti a spendere 70mila euro e che il denaro era nello zaino di Anastasia, aveva deciso di derubarli. Ma la rapina si era trasformata in omicidio. Secondo mistero: di quei soldi non c' è ancora traccia. Il bossolo del proiettile che aveva colpito Luca a morte era nascosto in un tombino, mentre la pistola non è mai stata recuperata. Il sospetto è che Del Grosso l' abbia restituito a Marcello De Propris che, intercettato, gli aveva chiesto di ridargli «una tuta». Per i pm, il silenzio di Del Grosso sarebbe un tentativo di coprire Armando De Propris, che ha recentemente patteggiato una condanna a 1 anno e 8 mesi per droga, ma ha passato violento: rapinatore a mano armata, specializzato in assalti a portavalori.

LE CHIAMATE Agli atti ci sono anche intercettazioni inedite ripercorse ieri in aula davanti alla pm Giulia Guccione e che riguardano la fidanzata di Marcello De Propris. Quando il ragazzo è stato arrestato, il 29 novembre, era a casa della giovane. Lei avrebbe tenuto il suo cellulare, evitando di consegnarlo agli inquirenti. Non sapeva che quel telefono era intercettato e lo ha usato per contattare gli amici e raccontare i dettagli di quelle giornate. La pm Nadia Plastina aveva ottenuto che il controllo venisse prorogato. E, in effetti, poco dopo il blitz dei carabinieri la ragazza aveva chiamato un' amica e le aveva detto che De Propris le aveva raccontato che l' arma usata da Del Grosso era di suo padre e che sapeva che il pusher di Casal Monastero l' avrebbe utilizzata per una rapina. Un piano finito nel peggiore dei modi.

Francesco Salvatore per “la Repubblica - ed. Roma” il 23 gennaio 2020. La procura delega indagini alla polizia postale per analizzare il contenuto dello smartphone di Pietro Genovese al fine di verificare se fosse al telefono nel momento in cui ha investito, la notte del 22 dicembre in corso Francia, le due sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Dopo l'avvio delle operazioni peritali finalizzate a ricostruire ogni aspetto dell'incidente - la velocità, il punto d'impatto e il regolare funzionamento del semaforo - il pm Roberto Felici allarga gli accertamenti anche a un aspetto finora rimasto in ombra: l'ipotesi che Genovese, figlio del regista Pietro, possa aver usato il telefono proprio nel momento dell'incidente. Per ora non c'è nessuna testimonianza in questo senso: né i due amici che Genovese trasportava, posizionati ovviamente in un punto di osservazione ottimale per stabilirlo, né i passanti o gli automobilisti, questi ultimi di certo meno attenti a una tale eventualità. Ad ogni modo, per sciogliere ogni dubbio, il magistrato ha chiesto lumi alla polizia per accertare o meno se ci fosse attività nel telefono del 20enne. Un'evenienza che, nel caso fosse accertata, aggraverebbe la posizione del giovane guidatore. Genovese è agli arresti domiciliari dal 26 dicembre con l'accusa di duplice omicidio stradale aggravato dallo stato di ebbrezza alcolica. Dopo l'incidente il ragazzo è stato sottoposto all'alcol test dai vigili urbani del gruppo Parioli e il livello alcolemico si è attestato a 1,4 grammi per litro ( il limite è di 0,5 mentre per un neopatentato, come lui, il valore deve essere zero). Interrogato dal gip Bernadette Nicotra il giovane, sul punto, ha ammesso: " Ero andato ad una festa a casa di un mio amico che rientrava a Roma dal progetto Erasmus. C'erano anche i suoi parenti. Avrò bevuto due tre bicchieri di vino". Quanto alla velocità, invece, il 20enne ha riferito che non stava guidando oltre i limiti: " Ero fermo a una settantina di metri dal semaforo, che era rosso. Quando è scattato il verde sono partito " . I testimoni sentiti sul posto dagli agenti della municipale, invece, hanno riferito che il Suv guidato dall'indagato era lanciato a "gran velocità". La percezione di due di loro è che " la velocità fosse sostenuta " . La quasi totalità, ad ogni modo, concorda sul fatto che Genovese sia passato con il verde. Per il gip, alla luce di quanto accertato in una prima fase, attraversando col rosso le ragazze avrebbero tenuto " una condotta vietata, incautamente spericolata". Quanto al semaforo incriminato - la cui luce pedonale non diventa mai arancione ma si limita a lampeggiare per 3 secondi sul verde, prima di diventare rosso - sono in corso accertamenti sulla regolarità.

Incidente Roma, Pietro Genovese alla guida dell’auto che ha ucciso Gaia e Camilla sotto shock: «Non le ho viste». Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani. La sua famiglia: «Tragedia immensa, siamo distrutti». La sera con la comitiva in un locale lì vicino per festeggiare il ritorno a Roma di un amico, poi l’investimento mortale delle due 16enni guidando, da solo in auto, la sua Renault Koleos a una velocità almeno doppia rispetto al consentito. Si è fermato a soccorrere le giovani. Di fronte al pm Roberto Felici, che lo interroga nel pomeriggio, Pietro Genovese, 20 anni, è ancora sotto choc. Sguardo nel vuoto, poche parole pronunciate a fatica. Ripete: «Non le ho viste». «Un ragazzo distrutto», lo descrive l’avvocato Gianluca Tognozzi. Sua sorella Emma lo difende d’istinto su Instagram: «È stata colpa loro» (il riferimento è all’attraversamento, forse azzardato, delle due vittime, al buio e con la pioggia forte, su una strada a scorrimento veloce), mentre il padre si affida a un comunicato: «Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta, è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre». Come regista, Paolo Genovese ha diretto anche un spot per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sindrome (in alcun modo inabilitante alla guida) da cui è affetto il figlio. Attorno alla loro abitazione, nel quartiere Coppedè, c’è il silenzio di una domenica piovosa. Fino a sera non rientra nessuno. Diplomato al liceo classico Mameli, ai Parioli, Pietro ha sempre avuto una predilezione per i motori.

Pietro Genovese, la sorella Emma: "Siamo distrutti, ma la colpa è stata di Gaia e Camilla". Libero Quotidiano il 23 Dicembre 2019. "È stata colpa loro". Lo scrive così Emma Genovese, sorella di Pietro Genovese, il 20enne figlio del regista Paolo che sabato sera in corso Francia ha travolto e ucciso alla guida del suo Suv le 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Il post su Instagram è un misto di dolore per un tragico incidente e rabbia per la accuse al fratello, a suo dire immotivate anche se sul suo conto pesa anche la positività al test su droga e alcol alla guida (la sorella, a caldo, nega tutto). La dinamica dello schianto però non è ancora chiara: secondo un testimone oculare le due giovanissime avrebbero attraversato la strada di scorrimento veloce con il semaforo pedonale rosso (ipotesi confermata dallo stesso Genovese, pur sotto choc) scavalcando un guard rail. "Vorrei dire una cosa - le parole di Emma Genovese -, non lo dico perché è mio fratello ma lo direi per chiunque, tutta la gente che sta dando la colpa a lui dovrebbe vergognarsi. Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita ieri notte" ma "non accusate se non sapete come sono andate le cose". "La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada (ovviamente non pensando che potesse succedere il peggio) con le macchine sfrecciavano su Corso Francia". Poi un pensiero al fratello, "rimasto sotto la pioggia in lacrime, aspettando i soccorsi e i miei genitori. Siamo distrutti per quelle povere ragazze". 

Roma, Camilla e Gaia falciate e uccise. Il testimone: "Cosa ha fatto il figlio di Paolo Genovese". Libero Quotidiano il 22 Dicembre 2019. Sono Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann le due sedicenni morte a Roma, travolte in zona Ponte Milvio da Pietro Genovese, il figlio del celebre regista Paolo Genovese. Dopo la mezzanotte sono state falciate, le due sono morte sul colpo: Pietro, 20 anni, si è fermato ma ogni soccorso era inutile. Una scena terrificante, straziante, sconvolgente. E ora, riportata da Dagospia, emerge anche una testimonianza impressionante circa quello che è successo questa maledetta notte. Il racconto di un testimone che spiega: "Ero lì e ho visto tutto. Una scena che una persona non deve mai vedere, figuriamoci vivere. Le ragazze volevano attraversare la strada a tutti i costi nonostante il semaforo fosse VERDE per le macchine, NON ERA ROSSO come tutti credono. Volevano attraversare in un punto senza strisce. dove all'altro Iato c'era il guardrail", scrive a Dago il testimone. E ancora, aggiunge: "La macchina della corsia centrale di corso Francia ha rallentato per far passare le ragazze, le quali hanno attraversato correndo, mano nella mano, senza vedere se passavano macchine nella corsia di sinistra, quella vicina al guard rail. La macchina che le ha travolte andava sicuramente veloce, ma la macchina centrale copriva la visuale e quella macchina non poteva vedere che le ragazze stavano attraversando. Sono state catapultate per aria e investite una seconda ed una terza volta da macchine che arrivavano da dietro...", conclude la sua drammatica testimonianza. 

Veronica Cursi e Mauro Evangelisti per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Non le ho viste, sono passato con il verde». Il tonfo, i due corpi delle ragazzine sbalzate in aria dal Suv che aveva appena sterzato e superato un'altra auto che aveva rallentato. Subito dopo Pietro si è fermato, ha pianto, disperato. Aveva investito due ragazzine in corso Francia, arteria irrinunciabile di Roma Nord. È rimasto sotto la pioggia, in attesa dell'ambulanza, della polizia, dei genitori, mentre la sua vita stava cambiando, forse per sempre. Era diretto ad una festa e guidava un Suv della Renault, semidistrutto dopo l'impatto, violento. Ha urlato che non le ha viste, che c'era il semaforo che segnava il verde mentre stava passando.

OSPEDALE. Sotto choc, è stato accompagnato al Policlinico Umberto I, per essere sottoposto ai test di alcol e droga, mentre altre urla si udivano in corso Francia, quelle delle madri delle due sedicenni. In passato Pietro Genovese, 20 anni e il peso che ti porti dietro a causa del cognome celebre di uno dei più importanti registi italiani insieme alle possibilità e a qualche privilegio, era stato fermato e segnalato alla Prefettura per consumo di sostanze stupefacenti. Poco più di una sciocchezza, come succede a tanti ragazzi a quell'età, anche se non dovrebbe accadere. Ma nel tardo pomeriggio, è stato ascoltato dalla Polizia locale dei Parioli, ma ha scelto di non rispondere. Poi, la doccia fredda, la notizia che si comincia a diffondere: dai test, Pietro risulta positivo sia all'alcol, sia agli stupefacenti. Va detto che ancora non si conoscono i valori, solo gli esami oggi preciseranno quantità e sostanze. Ma Pietro ha meno di 21 anni e con i neopatentati il codice della strada è molto più severo, il livello di alcolici deve, ad esempio, essere uguale a zero. Racconta un esperto: se venisse confermato l'uso di droga e alcol, rischia da 8 a 12 anni di reclusione, che potrebbero diventare 18 poiché le vittime sono due. Sono ipotesi, però, che non tengono conto dell'eventuale dimostrazione che le ragazze hanno attraversato con il rosso.

L'INCHIESTA. Pietro Genovese ora è indagato per omicidio stradale, il suo smartphone è stato sequestrato per verificare che non stesse chiamando o messaggiando mentre era alla guida. Ha frequentato il Liceo Mameli ed è un appassionato di musica elettronica, in passato ha anche giocato a rugby nell'Us Primavera. La sua pagina Facebook, aperta, racconta una vita normale, le passioni per le feste in discoteca (i post sul Goa, uno dei club romani più famosi), i viaggi a Cuba e a Mykonos, le foto scherzose con gli amici e anche una, molto bella, che ha scelto anche per il suo profilo su Ask (un altro social popolare tra i giovanissimi): al Museum of Modern Art di New York insieme al padre Paolo, su una iconica scala. «Pietro è un ragazzo molto intelligente, molto in gamba ed esperto di musica elettronica, è stato sfortunato» dicono gli amici che lo difendono. La sorella riassume, probabilmente, ciò che Pietro ha detto ai familiari: «Non aveva bevuto, non aveva fumato, non era al telefono. C'era il verde, ed è passato come è giusto che sia». Ancora: «Stare sotto la pioggia, in lacrime, per strada, su corso Francia, con due ragazze senza vita sull'asfalto, ad aspettare la polizia, l'ambulanza e i miei genitori che sono corsi, è una cosa che distrugge. Siamo distrutti per quelle povere ragazze». Come è arrivato Pietro, che in macchina era da solo, a quel frammento di secondo poco dopo la mezzanotte che è coinciso con lo stesso frammento di secondo, in cui Gaia e Camilla hanno deciso di attraversare, nel buio e nella pioggia battente di corso Francia?

LA CENA. Il ragazzo era stato a una cena a collina Fleming, sempre Roma nord. Se i test saranno confermati, mentre con gli amici ha ascoltato della musica, deve avere bevuto qualcosa e - ma solo i test definitivi potranno confermarlo - fatto uso di sostanze stupefacenti. Come molti a quell'età, quando se ne è andato ha fatto la scelta sbagliata, è salito sul Suv, un Renault Koleos. Era diretto al Treebar, racconta qualche amico, un locale molto frequentato al quartiere Flaminio che da corso Francia dista poco più di due chilometri. È sceso da collina Fleming e si è immesso su quello stradone diviso dal guard raill e caratterizzato da una serie di semafori e pochi attraversamenti pedonali. All'incrocio prima del ponte, è passato, ha premuto il piede sull'acceleratore. Secondo alcuni testimoni c'era il verde per le auto. 

IL REGISTA. M.Ev. per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Un dolore insopportabile» ripete Paolo Genovese, il regista romano che, come pochi altri, nei suoi film sa raccontare storie e ora si ritrova al centro di un dramma. Sa bene che la sua angoscia di padre di un ragazzo che guidava il Suv che ha travolto e ucciso due sedicenni, per quanto profonda, non è paragonabile a quella dei genitori delle vittime. Racconta Genovese, dosando le parole, perché sa anche che è difficile, in tragedie come questa, trovare quelle giuste: «Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta, è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre». Nel suo ultimo romanzo, Il Colibrì, lo scrittore Sandro Veronesi descrive la telefonata nella notte che nessun genitore vorrebbe mai ricevere, quella che ti fa pregare «non a me» mentre continuano gli squilli, se rispondi saprai di avere perso un figlio, trovandoti in una condizione per la quale, in italiano, neppure esiste la parola che la definisca. Ecco, nella notte tra sabato e domenica, la condanna di quella telefonata è toccata ai genitori di Gaia e Camilla, mentre Paolo Genovese e la moglie Federica sono stati raggiunti da un'altra comunicazione che ha scosso le loro vite a pochi giorni dal Natale: Pietro racconta di avere avuto un incidente, Pietro è in corso Francia sotto la pioggia in lacrime. Pietro ha travolto e ucciso due ragazze. Sono corsi, sono andati al fianco del figlio, hanno chiamato l'avvocato, hanno cercato di capirci qualcosa. Quel figlio appassionato di viaggi, musica elettronica e rugby, aveva anche convinto Paolo Genovese a girare uno spot di una campagna sociale sul morbo di Crohn, una malattia dell'intestino. Aveva raccontato il regista in un'intervista: «Mio figlio Pietro soffre di Crohn. Sono sensibile in primis come padre. Quando mi hanno chiesto di poter fare qualcosa a favore delle persone affette da Crohn, ho accolto immediatamente questa richiesta». L'obiettivo era spiegare che comunque si può avere una buona qualità della vita, ma è giusto farsi seguire dai medici. Paolo Genovese, ha 53 anni, è autore di film di grandissimo successo come Perfetti sconosciuti in cui ha raccontato come la tecnologia e gli smartphone hanno cambiato le nostre vite (in tutto il mondo ha avuto un record di remake). Regista di successo già con Immaturi, negli ultimi anni la sua carriera ha raggiunto il culmine. Ha altri due figli, un maschio e una femmina. Proprio la ragazza, sui social, con la generosità di una sorella ha difeso Pietro, raccontato la disperazione della famiglia e il dolore per la morte di Gaia e Camilla, detto che il giovane non aveva bevuto o usato stupefacenti. Pietro ieri è tornato a casa con i genitori, ad attendere le decisioni del pubblico ministero e le controanalisi dei test su alcol e droghe. Sui social, però, come sempre succede, sono spuntati anche i primi haters feroci, qualcuno è andato a scrivere sulla pagina ufficiale di Paolo Genovese: «Tuo figlio ha fatto un bel regalo di Natale a due famiglie». Un altro, impietoso, ha condiviso nei commenti lo screenshot della notizia di un sito sui test del figlio, positivi per alcol e droga. E altri, livorosi, sostengono sbagliando che si stiano coprendo le notizie perché Pietro è il figlio di un personaggio famoso. Altri ancora sono andati sul profilo del figlio scrivendo insulti senza senso come «assassino».

Lorenzo De Cicco per il Messaggero il 23 dicembre 2019. Se avesse potuto scegliere un super-potere, Gaia non avrebbe avuto dubbi: «Cambiare il passato». Così scriveva su Ask.fm, il social che spopola tra i ragazzini, dove si mettono un po' a nudo pensieri e dubbi dell'adolescenza, una domanda alla volta. Ma riavvolgere il nastro non si può. Non può lei, non può chi l'ha investita, non può il papà Edward, carabiniere in congedo ora intermediario assicurativo, che alle quattro di notte, dopo avere riconosciuto la figlia, ha avvisato il resto della famiglia con un sms: «La nostra piccola è volata in cielo». Finlandese, arrivato a Roma a 5 anni da Helsinki, Edward nel 2011 ha perso l'uso delle gambe dopo un incidente in moto. «Queste strade maledette, forse è il karma della famiglia, due incidenti così...», le parole col groppo in gola che riporta la sorella Patricia, la zia di Gaia, mentre varca il portone di via Città di Cascia, Collina Fleming, zona elegante di Roma Nord, dove la ragazza viveva con la mamma. A un chilometro, nemmeno, dalla corsia dello schianto fatale.

I BAGAGLI NELLA CAMERETTA. Racconta la zia Patricia: «Gaia aveva già la valigia pronta, nella sua cameretta, stava per partire con la mamma per le vacanze. Questione di giorni, un viaggio in Europa, per riposarsi, approfittando della pausa dalle lezioni». Il sogno di una vacanza spazzato via a mezzanotte di un sabato prenatalizio, dopo l'ultimo giorno di scuola, tra le pozzanghere e l'asfalto fangoso di Corso Francia. Un guardrail, un Suv che sbuca a tutta velocità, l'impatto, la fine. Niente vacanze, niente di niente. Resta una valigia piena di sogni stroncati. La zia è ancora sconvolta. «Ricordo di avere ricevuto un messaggio alle 4 di notte da mio fratello. Gaia è andata in cielo, c'era scritto. Nella confusione, data l'ora, ho pensato fosse un modo per dire che era partita in aereo, un modo un po' melodrammatico magari. Poi ci siamo sentiti con Edward. E ho capito tutto». Gaia, racconta la famiglia, era una ragazza forte, forte nonostante un vissuto non facile. «I genitori si erano separati quando era ancora piccola - ricorda zia Patricia - poi l'incidente in moto del padre, otto anni fa. Cose che segnano. Lei viveva con la mamma, ma ha sempre avuto la forza di reagire, di trovare il sorriso anche nei momenti più duri». 

«LE DOMENICHE A CASA». Il posto più lontano che aveva visitato, scriveva un anno fa, era Berlino. Ma sognava una vacanza a Miami. Il luogo dove pensava il suo futuro, la sua vita dopo la scuola e forse l'università, però, era un altro: Londra. Anche se «per i prossimi cinque anni penso di restare ancora a Roma». Una vita, per ora, tutta in questo spicchio residenziale della Capitale, quadrante Nord, ma verso il Centro: la scuola al linguistico Gaetano De Sanctis, nella sede di via Antonio Serra, sempre a due passi da Corso Francia, le serate tra i locali chic di Ponte Milvio, la comitiva in zona. Aveva un fidanzatino, Edoardo, diceva di «credere nell'amore a prima vista».

CANOTTAGGIO E PALLAVOLO. Venerdì, la sera prima dell'incidente, era a cena col papà e la nuova compagna di lui al circolo Canottieri Aniene. Lei invece fino all'anno scorso faceva canottaggio per la Tevere Remo, altro circolo storico dell'Urbe. Ora giocava a pallavolo. La sua domenica ideale, raccontava Gaia agli amici dei social, era stare «tutto il giorno a letto». Ieri invece, non c'è potuta stare. Travolta coi suoi sogni da un'auto a mezzanotte. Mano nella mano con la compagna di banco. Lei che scriveva di amare le «corse sotto la pioggia con gli amici».

Alessia Marani per il Messaggero il 23 dicembre 2019. «Prima di domani», scriveva Camilla Romagnoli sui social, era il suo film preferito. La storia racconta di un gruppo di amiche giovanissime che trascorrono una serata di festa insieme ma che poi muoiono in un incidente d'auto. La protagonista, però, l'indomani mattina si risveglia come se nulla fosse, pensando a un brutto sogno. Invece, era solo l'opportunità di rivivere gli ultimi istanti per fare del bene agli altri. Un triste presentimento per Camilla, una delle due sedicenni investite e uccise sabato notte a Corso Francia. Il suo sogno era viaggiare, vedere più posti possibile. «Ricordati di sorridere sempre», ha lasciato scritto su Instagram.

BATACLAN. Dublino le era rimasta nel cuore, Venezia forse era stata la gita più bella, una decina di giorni fa era stata a Firenze. Erano i suoi viaggi del cuore, quelli con la sorella più grande Giorgia, che ha 22 anni, e con mamma Cristina. I viaggi delle «piccole donne» di casa che ogni tanto lasciavano papà Marino a Roma, impegnato nel lavoro di consegne con il furgone, per staccare dalla routine e scoprire insieme luoghi sempre nuovi. Per questo dopo le medie alla Nitti, Camilla aveva deciso di studiare lingue al liceo De Sanctis sulla stessa strada di casa: immaginava un futuro sempre in giro per il mondo e a contatto con persone diverse. Lei che, pure, era timida e riservata, e che raramente usciva per fare tardi la sera. Che aveva l'Iphone accoppiato con quello della sorella maggiore perché a casa sapessero sempre dove si trovasse. Mamma Cristina è una donna apprensiva. Sabato a mezzanotte le aveva mandato un messaggio: «Ma hai visto che ora è?» e lei l'aveva subito tranquillizzata, rispondendole, alla mezzanotte e dieci minuti, che «sto tornando». Poi il silenzio. Cristina chiama la figlia Giorgia che è anche lei in giro con le amiche: «Tua sorella non si vede ancora, ho provato a chiamarla più volte, il telefono squilla ma resta muto. Mi localizzi dov'è?». Giorgia controlla subito: «Mi segnala la posizione a Corso Francia». Poi le balena subito qualcosa per la testa: «Mamma, so che c'è stato un incidente, vai a vedere». Cristina non se lo fa dire due volte. Lei e il marito avevano vissuto altri momenti terribili quando la figlia più grande si trovò a Parigi nella notte della strage al Bataclan. Per un momento avevano temuto il peggio. Poi per fortuna Giorgia stava bene. Invece l'altra notte, Cristina si infila veloce la giacca, esce di casa e sotto la pioggia percorre le poche centinaia di metri che da casa conducono fino a Corso Francia e si ritrova davanti i lampeggianti della polizia locale, il capannello di gente, cerca di farsi largo. «Sono la mamma di Camilla Romagnoli», dice a un vigile che si guarda con un collega e le risponde: «Signora aspetti qua, non si muova». Cristina scopre da sola che la figlia è morta e vuole guardarla per un'ultima volta. Poi con Marino e Giorgia trova ristoro dentro il ristorante T-Bone all'angolo. Il gestore Alessio si accorge di conoscere bene Marino, è l'uomo che consegna loro il salmone la mattina. Lo abbraccia. 

THE E CIOCCOLATO. Il mondo di Camilla che sognava di viaggiare, a sedici anni, in fondo, era ancora tutto là, racchiuso nel reticolo di viuzze tra il quartiere Fleming e Ponte Milvio. Nell'ultimo periodo aveva un fidanzatino, Edoardo. Si era vista anche con lui sabato sera a Ponte Milvio. Una pizza, un gelato in comitiva con gli amici di scuola, senza pensieri, con la scuola appena chiusa per le vacanze di Natale e davanti altri giorni di festa. Invece, ora, mamma Cristina apre la porta di casa per accogliere il viavai di amici e parenti increduli e disperati per l'accaduto: «Lei non c'è più, non è giusto. Dovevo morire io, doveva investire me, non lei a sedici anni. Una vita spezzata, avevamo tanti progetti». 

Incidente Roma, l’ultima serata di Gaia e Camilla. Travolte e uccise sulla strada per casa. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 da Fabrizio Roncone su Corriere.it.. Camilla e Gaia erano felici. Avevano progetti. Avevano 16 anni. A Natale bisognerebbe raccontare solo storie belle. Ma questa scena è delimitata da un nastro di plastica bianco e rosso. Argani, carri attrezzi, traffico deviato. Venti minuti dopo la mezzanotte di sabato. Ai vigili urbani è arrivata una chiamata generica: «Incidente a Corso di Francia». La strada che attraversa Roma Nord. Comincia dove c’è il distributore dell’Agip che il camerata Massimo Carminati, detto «er cecato», aveva trasformato nel suo ufficio e finisce ai Parioli. Due colline ai lati: Vigna Clara e Fleming. Tre semafori e una stradina sulla destra, sotto al cavalcavia dell’Olimpica: trecento metri e sei a Ponte Milvio. Rumore di movida, alcol, droga, luci forti. Qui invece è quasi buio, gran parte della città ormai è sempre più buia, dai lampioni solo un riverbero giallognolo e piove piano, però fino a poco fa pioveva forte: nessun segno di frenata sull’asfalto bagnato, nessun vetro rotto. Solo una Renault Koleos grigio metallizzato con due ammaccature profonde sul cofano, la targa schizzata sul marciapiede, le quattro frecce accese: e — laggiù — due teli bianchi stesi su due corpi. Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann avevano 16 anni e tornavano a casa. Probabile fossero un po’ in ritardo: ma tutti, alla loro età, siamo stati in ritardo. Probabile avessero fretta e fossero distratte: ma tutti, alla loro età, siamo stati distratti. Bisogna stabilire se abbiano attraversato sulle strisce o, piuttosto, come sembra da una prima ricostruzione, abbiano scavalcato il guardrail. C’è un semaforo: e non si capisce se, quando hanno attraversato, fosse verde. Testimonianze confuse, verbali, lampeggianti, arriva il magistrato di turno, arrivano gli amici. Il ragazzo che stanno facendo salire sull’ambulanza è il conducente della Renault: Pietro Genovese, 20 anni; ex studente del liceo Mameli, giocatore di rugby, figlio di Paolo, il regista (due David di Donatello per il film Perfetti sconosciuti). Il ragazzo è sotto shock, gli hanno sequestrato il telefonino per capire se stesse telefonando o spedendo sms, e adesso lo portano al Policlinico Umberto I, dove verrà sottoposto al test che stabilisce se ha bevuto troppo e fatto uso di droga. All’angolo, un famoso ristorante della zona: T-Bone Station. Testimonianza di Alessio Ottaviano, il direttore: «Poco dopo la mezzanotte, abbiamo sentito un grande frastuono. Pensavamo a un tamponamento, in questo tratto di strada corrono sempre tutti. E invece a terra c’erano quelle due ragazze. Un medico di passaggio è sceso dal suo scooter. Poi è arrivata anche l’ambulanza. Tutto inutile». Dicono che Gaia si fosse fermata a mangiare un panino proprio in questo locale con Edoardo, il suo nuovo fidanzatino, dopo una serata trascorsa a pattinare all’Auditorium, e che qui si sia unita a Camilla. Dicono che con loro ci sarebbe dovuta essere anche la loro terza amica, Isabella. In verità dicono tutti un sacco di cose. Albeggia così: tra un certo dolore atroce e quel senso di paura tremendo, perché a quelli che hanno una figlia capita sempre di guardare l’orologio e pensare: ma quando torna? Adesso, in una mattina livida, di vento freddo, i compagni del liceo linguistico De Sanctis portano mazzi di fiori e ricordi. Gaia viveva con la madre Gabriella; il padre Edward, di origini finlandesi, fa il broker assicurativo ed è disabile, per colpa di un incidente con la moto. Camilla viveva a un isolato di distanza. Un’altra famiglia normale, media borghesia: la sorella, raccontano, è disperata e ha come perso la parola. A metà pomeriggio arriva la notizia che Pietro Genovese sarebbe risultato positivo ai primi test alcolici e tossicologici, e saranno perciò necessari ulteriori esami. Il padre Paolo — «Siamo una famiglia distrutta» — si è visto girare la vita con uno squillo di cellulare. È tutto particolarmente agghiacciante: perché quei cellulari che squillavano pieni di segreti e verità terribili erano lo strepitoso plot del film che lo ha reso celebre in tutto il mondo.Comincia la sarabanda degli avvocati. Forse qualche certezza sull’esatta dinamica dell’investimento potrebbe arrivare dalle telecamere del magazzino Standa, che domina quel tratto di strada. Un testimone scrive al sito Dagospia: «Ero lì e ho visto tutto. Le ragazze, mano nella mano, volevano attraversare la strada a tutti i costi, nonostante il semaforo fosse verde, in un punto senza strisce. La macchina della corsia centrale ha rallentato per farle passare, ma ha coperto la visuale a quella che sopraggiungeva nella corsia accanto. Sono state catapultate per aria e investite una seconda ed una terza volta da macchine che arrivavano da dietro...». Dettagli utili per l’inchiesta. Gli amici di Camilla e Gaia hanno però altri dubbi. «Ma secondo te, ora, dove saranno?», chiede Luca. «Forse in cielo, forse no. Però, fidati: sono di certo in un posto fico». Poi Luca comincia a singhiozzare. Sono venuti a legare un Babbo Natale di peluche al guardrail. Ma non è Natale così.

Roma, tragedia a Ponte Milvio: due ragazze di 16 anni investite e uccise da un'auto: l'investitore positivo ad alcol e droga. Si chiamavano Gaia e Camilla. Alla guida della vettura il figlio ventenne del regista Paolo Genovese, che si è fermato a prestare soccorso. E' indagato per duplice omicidio stradale. Sequestrato il cellulare. La madre di una delle vittime: "Doveva uccidere me". Il regista nel pomeriggio: "Dolore insopportabile per loro e i genitori". La testimonianza di un giovane: "Prima frenata, poi sbalzate in aria". Flaminia Savelli il 22 dicembre 2019 su La Repubblica. Stavano attraversando la strada, quando una macchina le ha travolte e uccise. Sono morte cosi Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, due ragazze di appena 16 anni. Il dramma si è consumato ieri notte poco dopo l'una, in pochissimi secondi a Ponte Milvio, lungo corso Francia, tra via Flaminia Vecchia e la rampa di accesso all'Olimpica. Le ragazze sono morte sul colpo: inutili i soccorsi, i medici del 118 infatti non hanno potuto far altro che constatare il decesso. Sul caso indagano ora i vigili urbani del gruppo Parioli. Secondo una prima ricostruzione, le giovani stavano attraversando, per raggiungere un gruppo di amici dall'altra parte della strada quando una Renault le ha investite. I periti e i tecnici della polizia Locale dovranno ora stabilire a che velocità stava viaggiando Pietro Genovese, 20 anni, figlio del regista Paolo, alla guida dell'auto, che sarebbe risultato positivo agli esami alcolemici e tossicologici. Lo si apprende da fonti della polizia locale. A quanto riferito solo ulteriori esami, i cui esiti arriveranno nei prossimi giorni, potranno stabilire i parametri ed il livello di sostanze rinvenute. Il giovane, che si è fermato a prestare soccorso è stato già indagato per duplice omicidio stradale. Sequestrata l'auto e il cellulare. Verranno effettuati accertamenti per stabilire se al momento dell'impatto, il ragazzo stesse utilizzando il telefono. La polizia locale sta ascoltando in queste ore diversi testimoni per cercare di ricostruire con esattezza la dinamica dell'investimento. Al vaglio anche le immagini delle telecamere di zona. Nel pomeriggio arriva anche una dicharazione del regista Paolo Genovese alle agenzie di stampa: "Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre". "Avevamo fatto tanti progetti con Camilla. Non è giusto. Non doveva andare così". A dirlo la mamma di Camilla Romagnoli a chi ha avuto modo di incontrarla dopo l'incidente. Ad andare sul posto nella notte anche il papà e la sorella di Camilla come anche i genitori di Gaia, che era figlia unica. "E' stato il papà, costretto su una sedia a rotelle per un incidente stradale, a riconoscere la figlia", racconta un amico di Gaia.

La testimonianza di un ragazzo. "Ho assistito all'incidente. E' una scena che non dimenticherò mai". A dirlo un ragazzo che è ritornato sul luogo in cui la scorsa notte sono state investite le due ragazze di 16 anni. "Erano al centro della strada, Gaia si è girata verso Camilla e poi è arrivata quella macchina - ricorda - c'è stata la frenata fortissima e l'impatto che le ha sbalzate; l'auto è andata avanti. Poi sono arrivate altre macchine, penso che almeno tre le abbiano colpite". Al momento sembrerebbe tuttavia che ci sia il coinvolgimento di un unico veicolo, guidato dal ventenne Pietro Genovese. "Le ho viste pochi minuti prima dell'incidente. Ci siamo incontrati a ponte Milvio. Erano felici come si sta al primo giorno di vacanza". A raccontarlo un altro amico delle due ragazze. "Erano con degli altri amici ieri sera - ricorda il ragazzo, con le lacrime agli occhi mentre cammina sotto casa di Gaia - era la mia migliore amica, una ragazza splendida, sorridente e sempre pronta ad aiutare gli altri. Camilla era più timida. Si volevano molto bene".

La disperazione dei genitori delle vittime. "Doveva investire me. Non è giusto",  avrebbe ripetuto tra le lacrime la mamma di una delle ragazze, arrivando sul luogo dell'incidente. A riferire queste parole un testimone che aggiunge: "I genitori erano sconvolti". Intanto mazzi di fiori sono stati lasciati su corso Francia, nel punto in cui nella notte sono state investite Camilla e Gaia.  Diverse rose, di colore rosa, sono state adagiate sotto il cavalcavia di via Flaminia Vecchia. Già questa notte poco dopo l'incidente, gli amici delle vittime si erano ritrovate sul luogo dell'incidente.  "Gaia e Camilla erano delle mie compagne di classe. Frequentiamo il liceo classico De Santis. Quando stamattina ho saputo mi sono precipitato qui. E' una tragedia enorme". A parlare un amico delle due ragazze. "Ieri - ha aggiunto - era la prima serata di vacanza vera. Gaia faceva sport, giocava a pallavolo, erano due bravissime ragazze, erano molto amiche. Ieri tornavano a casa dopo aver passato la serata in giro. Qui a corso Francia corrono tutti e spesso passano col semaforo rosso". "Poco dopo la mezzanotte abbiamo sentito un grande frastuono e come me sono usciti anche alcuni clienti dal locale. Pensavamo ad un tamponamento, poi abbiamo visto le due ragazze per terra. La polizia è arrivata dopo pochi minuti, poi è sopraggiunta l'ambulanza ma non c'è stato nulla da fare. Anche un paramedico con lo scooter che passava per caso si è fermato per dare una mano. Sulle dinamiche non possiamo dire nulla, non ho visto. Quella è una strada larga, dritta, dove di notte tutti corrono e che per questo può diventare pericolosa. Bisognerebbe fare qualcosa per obbligare la gente a mantenere una velocità adeguata" racconta Alessio Ottaviano manager del ristorante T-Bone Station a ridosso di corso Francia. "I corpi delle due ragazze erano distanti qualche metro tra loro e lontani dalle strisce". A raccontarlo un residente di Corso Francia che stanotte è arrivato sul luogo dell'investimento in cui sono morte le due sedicenni. "Dalle prime informazioni erano dirette verso Collina Fleming - aggiunge - probabilmente volevano scavalcare il guardrail". "Profondo dolore per la tragica morte di due ragazze, investite questa notte a Corso Francia. Roma si stringe alle famiglie colpite da questa tragedia. È inaccettabile morire così. Aspettiamo che si faccia chiarezza ma guidare in modo responsabile è un dovere". Così su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.

Il dolore dei compagni di scuola. La morte delle due ragazze ha lasciato sgomenta la comunità del liceo classico Gaetano De Sanctis. Su Facebook la preside scrive: "Questa notte Camilla e Gaia del 3 CL della sede di Via Serra sono morte in un assurdo incidente. Si tratta di uno tragico shock per le famiglie e per tutta la comunità del De Sanctis. La preside, il Consiglio di Istituto, i professori, il personale Ata e tutti gli studenti abbracciano, addolorati e attoniti, le famiglie delle due ragazze. Siamo vicini con tutto il nostro affetto anche agli amici e ai compagni di Gaia e Camilla. Non ci sono parole per spiegare quello che stiamo vivendo. Rimangono solo il nostro silenzio e il nostro pianto disperato".

Giovane morto in via Marco Polo. E c'è un'altra vittima della strada: si tratta di un 24enne che all'alba di questa mattina viaggiava a bordo di un motorino quando in via Marco Polo è stato travolto da una macchina. Il conducente, un uomo di 79 anni, si è fermato e ha chiamato i soccorsi ma per il giovane non c'è stato nulla da fare: arrivato in codice rosso al pronto soccorso del Sant'Eugenio è morto poco dopo. I vigili urbani di zona stanno ora indagando per ricostruire la dinamica dell'incidente: hanno già disposto il sequestro della macchina, una Ford Fusion, e del motorino. L'automobilista, già indagato per omicidio stradale, è stato sottoposto ai test di alcol e droga. Sono stati 612 i pedoni morti sulle strade italiane nel 2018, circa due al giorno, con un incremento del 2% rispetto al 2017 e del 7,4% rispetto al 2016. E' il dato dell'Osservatorio Asaps, l'Associazione Sostenitori ed Amici della Polizia Stradale secondo cui, lo scorso anno, i feriti sono stati 20.700: 9.465 uomini e 11.235 donne. La categoria più colpita, quella degli ultra 65enni con 364 vittime mentre la città che ha registrato il maggior numero di decessi è risultata Roma con 59, dieci in più rispetto ai 49 del 2017.

Alcol e guida, l'esperto: “Con un tasso all'1,4 non si è in grado di guidare in sicurezza”. Cosa dice la legge, quali sono i limiti e cosa succede quando si beve troppo. Irma D'Aria il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. Quanto si può bere prima di mettersi alla guida? Dopo l'incidente di Roma, in cui sono rimaste uccise due ragazze sedicenni investite da un ventenne con un tasso alcolemico pari a 1,4 grammi per litro, è bene fare chiarezza sulle leggi e ricordare quanto siano importanti il rispetto delle regole e la prudenza soprattutto in vista delle festività natalizie e del Capodanno in cui per festeggiare si beve un po' di più.

Che cos'è il tasso alcolemico. Quando si parla di tasso alcolemico si intende la concentrazione di etanolo presente nel sangue. Finché si beve a casa propria, è una scelta personale che ricade sulla propria salute, ma quando si beve e poi ci si mette alla guida, allora è diverso perché le conseguenze ricadono anche su altre persone. Si stima, infatti, che in Italia il 40% degli incidenti su strada sia legato all'assunzione di alcol o droghe.

Cosa dice la legge per i giovani e gli adulti. Attualmente la legge stabilisce delle differenze in base all'età. "Al di sotto dei 21 anni e nei neopatentati - spiega Gianni Testino, presidente della Società Italiana di Alcologia e direttore SC Patologia delle Dipendenze ed Epatologia ASL3 - Ospedale San Martino, Genova - la legge prevede che il tasso alcolico alla guida sia zero per cui se un giovane viene intercettato dalle forze dell'ordine anche con concentrazioni molto basse di alcol nel sangue scattano delle sanzioni". Al di sopra dei 21 anni, il limite è 0,5 grammi per litro.

Quantità di alcol e tasso alcolemico. Il tasso alcolemico viene valutato attraverso l'utilizzo dell'etilometro, un apparecchio che attraverso l'espirazione 'misura' indirettamente la quantità di alcol che un soggetto ha nel sangue. La domanda che molti si pongono è quanto si può bere per rimanere al di sotto del valore soglia consentito dalla legge. "Scientificamente - spiega il presidente della Sia - è impossibile rispondere a questa domanda perché ci sono molte variabili ma per avere un'idea basti sapere che ogni unità alcolica contiene circa 12 grammi di etanolo che ritroviamo in media in un bicchiere di birra da 330 ml a 5°, in un bicchiere da vino da 125 ml da 12° oppure in un cocktail da bar o ancora in circa 40 ml di superalcolico. Possiamo stimare che anche con 2-3 bevande alcoliche come quelle che si bevono durante una cena tra aperitivo e vino si possa arrivare a 0,5 grammi per litro".

Cosa succede quando si assume alcol. I 12 grammi di etanolo vengono distribuiti nel sangue: "Una piccola parte viene espulsa con il respiro, un'altra piccola parte viene eliminata con le urine ma la maggior parte viene eliminata attraverso il fegato", spiega Testino. "Un fegato sano impiega quasi un'ora per smaltirli. Se, invece, ci sono problemi come fegato grasso o altre patologie, il tempo di eliminazione aumenta e può essere superiore a 90 minuti". Non tutti sanno, poi, che per legge i bar sono tenuti all'affissione della tabella con i tassi alcolemici: "E' obbligatorio ma spesso si affigge in formato A4 e in bianco e nero e quasi nessuno la nota", avverte Scafato.

Età, peso e cibo: le variabili in gioco. Ma a fare la differenza nell'assorbimento dell'alcol sono anche altre variabili. "Se questi dodici grammi vengono bevuti a stomaco pieno e se si è sovrappeso - precisa Testino - l'assorbimento sarà più lento e si raggiunge il picco di alcolemico in un periodo più lungo. Nelle donne, poi, la capacità del fegato di eliminare l'alcol è del 50% in meno rispetto all'uomo mentre al di sotto dei 20 anni i vari sistemi di eliminazione dell'alcol da parte del fegato sono ancora immaturi e quindi nei giovani anche basse concentrazioni di alcol rimangono in circolo per molto più tempo". 

I sintomi. Al di là dei limiti di sicurezza previsti dalla legge, cosa succede quando si beve e ci si mette alla guida? "Quando si consuma alcol - spiega Emanuele Scafato, Direttore Osservatorio nazionale alcol, Istituto superiore di Sanità e Centro Oms per la ricerca sull'alcol - c'è un'alterazione psico-fisica che è dose-dipendente. In genere, già a bassi dosaggi aumenta la sensazione delle proprie capacità e si riduce la percezione del rischio. Per esempio, già al di sotto degli 0,5 grammi per litro c'è una riduzione della visione laterale di circa il 20%, perdiamo qualche centesimo di secondo nella frenata e quando si imbocca un incrocio non si vede lateralmente proprio perché c'è il campo della visione ridotto anche in funzione dell'età perché al di sotto dei 20 anni l'organismo non è in grado di 'smontare l'alcol'. Questo significa che sarebbe meglio non guidare".

Se si supera il livello di 1,4 grammi/litro. Cosa succede, invece, quando il tasso alcolemico arriva a 1,4 grammi/litro come quello del ventenne che ha travolto le due ragazze di Roma? "E' un tasso molto alto: 1,4 grammi/litro sono all'incirca otto-nove bicchieri di bevande alcoliche e a quell'età crea conseguenze serie perché non si valuta correttamente la distanza, si perde la visione laterale e il coordinamento motorio specie se c'è stata anche l'assunzione di un cannabinoide. Insomma, un tasso alcolemico così rende incapaci di guidare in modo corretto e fa aumentare la probabilità di incidente", commenta Scafato. Cosa consigliare allora ai ragazzi ma anche agli adulti in vista dei brindisi di fine anno? "Se avete bevuto anche solo tre bevande alcoliche - suggerisce l'esperto dell'Iss - aspettate almeno un'ora per bevanda prima di mettervi alla guida oppure se non potete attendere tutto questo tempo, fate guidare qualcun altro". 

Ragazze uccise, lo strazio dei genitori. La madre di Camilla: "Giustizia non vendetta". Il papà di Gaia: "Non ho più ragioni per vivere". Fiori e messaggi per Gaia e Camilla, le due sedicenni investite e uccise nella notte di sabato a corso Francia. E la mamma di Gaia lancia un appello pubblico: "Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni alle forze dell'ordine". La Repubblica il 23 dicembre 2019. "Voglio giustizia, non vendetta". E' quanto ha riferito la mamma di Camilla Romagnoli, una delle due sedicenni investite a Roma nella notte tra sabato e domenica in corso Francia a Roma, al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. "Il padre, la madre e la sorella di Camilla  sono distrutti per quanto accaduto - spiega il penalista -. Una famiglia unita, colpita in modo tragico da questa vicenda. Attendiamo i risultati dell'esame autoptico, verrà svolto un esame esterno delle salme per accertare la dinamica di quanto accaduto". E lo strazio accomuna più famiglie. "Adesso non ho ragioni per andare avanti, lei era la mia forza dopo l'incidente che avevo subito". Così il padre di Gaia Von Freymann, come riferisce il suo legale, l'avvocato Giovanni Maria Giaquinto. "E' molto provato, nel 2011 ha subito un grave incidente in moto, all'Eur, che lo ha costretto sulla sedia a rotelle - spiega il legale - Questa tragedia ha un risvolto ancora più drammatico perché colpisce un uomo già provato duramente. Questa mattina l'ho sentito, gli ho comunicato che oggi pomeriggio verrà svolto l'esame del corpo di Gaia. Questa notte non ha chiuso occhio, è distrutto per quanto accaduto". E la mamma di Gaia lancia un appello pubblico: "Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni alle forze dell'ordine". La donna si era recata subito sul luogo dell'incidente. "E' un iphone 8 rosso, con la cover rossa - ha aggiunto - Gaia quella sera non aveva con sè la borsa, ma aveva tutto in tasca. Chiunque abbia ritrovato effetti personali delle ragazze per favore li riconsegni". Con i volti segnati dalle lacrime e gli occhi nascosti dietro grossi occhiali da sole la mamma di Gaia e i genitori di Camilla anche oggi si sono fermati a lungo a pochi metri dal punto in cui le ragazze sono state travolte.

Pietro Genovese, non solo alcol e cannabis: l'ultimo pesantissimo risultato delle analisi. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019. Con il passare delle ore emergono con maggiore chiarezza i dettagli delle analisi su Pietro Genovese, il 20enne che ha travolto e ucciso a Roma le due 16enni, Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Prima si è appreso che il tasso alcolemico era di 1,4 grammi per litro, quasi tre volte la soglia massima di 0,5 grammi litro, che però per i neopatentati come lui è a zro assoluto. Per spiegarla in termini pratici è come se avesse bevuto un litro e mezzo di vino, o tre litri di birra o mezzo litro di limoncello. Ma nelle ultime ore si apprende anche che il ragazzo è risultato positivo al test della cocaina e della cannabis. Ancora non è però chiaro se fosse sotto l'effetto delle sostanze stupefacenti o se le avesse assunte nei giorni precedenti, per stabilirlo sono necessarie ulteriori verifiche. Per certo, ora, Pietro Genovese rischia l'arresto. La sua vettura, la Reanult Koleos, secondo i rilievi di indagine viaggiava attorno agli 80 chilometri orari.

Da it.notizie.yahoo.it il 23 dicembre 2019. Pietro Genovese, il conducente alla guida della Renault che ha investito le due 16enne in Corso Francia è risultato positivo al test di alcol e droga. Nella tragedia di Ponte Milvio che ha scosso la città di Roma sono morte due giovani ragazze: Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Gli inquirenti stanno ancora cercando di ricostruire l’esatta dinamica di quanto accaduto, ma sono già emersi nuovi dettagli. Il conducente della vettura aveva 20 anni e attualmente è indagato per omicidio stradale. Il suo cellulare, inoltre, è stato sequestrato. Nella notte fra sabato 21 e domenica 22 dicembre due ragazze sono state investite lungo Corso Francia, una strada di scorrimento nota per la movida romana. La tragedia di Ponte Milvio è avvenuto intorno a mezzanotte/l’una tra via Flaminia Vecchia e la rampa di accesso all’Olimpica. Le giovani 16enne stavano attraversando la strada per raggiungere un gruppo di amici, quando la vettura le ha colpite. Soccorse immediatamente dal conducente dell’auto, le due ragazze non ce l’hanno fatta. Camilla e Gaia hanno perso la vita sul colpo e i soccorsi del 118 hanno potuto soltanto constatarne il decesso. Toccherà agli inquirenti stabilire a quale velocità viaggiava Pietro, che è risultato positivo ai test di alcol e droga. Al momento il 20enne sotto choc è indagato per omicidio stradale. Nei prossimi gironi, inoltre, arriveranno i parametri esatti sul livello di sostanze rinvenute nel corpo del ragazzo. Nel frattempo, però, l’auto e il cellulare dik pietro sono stati sequestrati. La Polizia sta analizzando le immagini delle telecamere di sicurezza e sta ascoltando le testimonianze dei passanti per ricostruire i fatti. Inoltre, Paolo Genovese, padre del 20enne alla guida della Renault ha dichiarato: “Il dolore per Gaia e Camilla e per i loro genitori è insopportabile. Siamo una famiglia distrutta è una tragedia immensa che ci porteremo dentro per sempre”.

Sulla terribile vicenda è intervenuta anche Emma Genovese, figlia del regista Paolo e sorella di Pietro, al volante dell’auto che ha investito e ucciso Gaia e Camilla. Proprio la giovane avrebbe postato su Instagram un durissimo sfogo di rabbia per le accuse rivolte al fratello mettendo in dubbio anche le notizie relative alla positività del fratello ad alcol e droga: “Vorrei dire una cosa: tutta la gente che sta dando la colpa a lui dovrebbe vergognarsi. Sono davvero distrutta per quelle due povere ragazze che hanno perso la vita ma non accusate se non sapete come sono andate le cose. La colpa è stata loro che per non fare 5 metri a piedi sono passate in mezzo alla strada con le macchine che sfrecciavano“. Il riferimento di Emma è ovviamente alla versione rilasciata da un testimone, il quale ha riferito che le due amiche avrebbero attraversato la strada con il semaforo pedonale rosso.

Un testimone dell’incidente avrebbe riferito agli inquirenti quando constatato dai suoi occhi: “Ho assistito all’incidente – ha detto il giovane -. Una scena che non dimenticherò mai”. “Erano al centro della strada, Gaia si è girata verso Camilla e poi è arrivata quella macchina – ricorda il ragazzo -. C’è stata la frenata fortissima e l’impatto che le ha sbalzate; l’auto è andata avanti. Poi sono arrivate altre macchine, penso che almeno tre le abbiano colpite”. Un amico delle vittime, invece, ha raccontato: “Le ho viste pochi minuti prima dell’incidente. Ci siamo incontrati a ponte Milvio. Erano felici come si sta al primo giorno di vacanza”. “Erano con degli altri amici ieri sera – ricorda ancora il ragazzo, con le lacrime agli occhi -. Era la mia migliore amica, una ragazza splendida, sorridente e sempre pronta ad aiutare gli altri. Camilla era più timida. Si volevano molto bene”. 

Da ilmessaggero.it il 23 dicembre 2019. Novità sull'incidente di Corso Francia dove hanno perso la vita le sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Un tasso alcolemico dell'1,4 ed esito non negativo per altre varie sostanze stupefacenti: sono i risultati dei test compiuti su Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, indagato a piede libero con l'accusa di omicidio stradale per aver investito e ucciso le due 16enni nella notte tra sabato e domenica a Corso Francia a Roma. Sul passato del 20enne ci sarebbero anche due casi di possesso di droga. Nel pomeriggio intanto, all'istituto di medicina legale dell'università della Sapienza è fissata l'autopsia delle due giovani vittime. Striscione a Corso Francia. «Gaia e Camilla sempre con noi»: è quanto si legge su uno striscione che è stato appeso sul ponte dell'Olimpica a pochi metri dal punto di Corso Francia, a Roma, dove la notte tra sabato e domenica sono state investite e uccise le due ragazze di 16 anni. Ieri c'era stata una processione di amici delle due ragazze, che avevano lasciato fiori e oggetti in ricordo delle vittime.

Liberoquotidiano.it il 24 dicembre 2019. Viene giudicato dagli inquirenti il "testimone chiave" dell'incidente in cui sono morte Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le 16enne travolte e uccise da Pietro Genovese sabato sera a Roma. Si tratta di un ragazzo di 16 anni, T.O., che si trovava alla guida di una minicar al momento dell'impatto su quel maledetto vialone. Sarà presto riconvocato per essere nuovamente ascoltato. Il ragazzo ha però detto chiaro e tondo: "L'uomo alla guida del Suv non poteva evitare le due ragazze, erano fuori dalla sua visuale". T.O. era fermo al semaforo, ma dal lato opposto rispetto al ristorante T-Bone: "Non so perché ma lo sguardo mi è caduto proprio su quelle due ragazzine che all'improvviso - dice -, nonostante il semaforo fosse rosso per i pedoni, hanno cominciato a correre mano nella mano sotto la pioggia per attraversare la strada". Testimonianza che potrebbe un poco alleggerire la posizione di Genovese, già gravemente compromessa: è risultato positivo al test alcolemico e vi sono riscontri positivi circa l'uso di cocaina e cannabis. Il ragazzo ha aggiunto: "L'auto che si era fermata nel tratto centrale copriva completamente la vista al Suv che sopraggiungeva alla sua sinistra, lui è arrivato veloce e quelle due ragazze che correvano gli sono sbucate davanti, non poteva vederle". Una tragedia che si è consumata in pochi, drammatici, istanti: "Non so perché ma, mentre ero fermo, lo sguardo mi era caduto proprio sulle due ragazze, io le ho viste sulle strisce pedonali, le guardavo stringersi la mano e lanciarsi nella corsa e mi chiedevo: ma che fanno, è rosso? Poi la prima auto che frena e il Suv che le ha centrate in pieno e scaraventate a molti metri di distanza. Le ho viste volare via, è stato terribile", ha rimarcato. E ancora: "Molti dicono che non erano sulle strisce perché i corpi erano molto distanti, vicino ai guard-rail, ma per me erano sull'attraversamento pedonale e per loro era rosso, mentre per le auto che andavano verso il Centro, quindi anche per il Suv, era verde", ha concluso. 

Massimo Gramellini per il ''Corriere della Sera'' il 24 dicembre 2019. Abito non lontano dall' autostrada cittadina in cui le adolescenti Gaia e Camilla sono state investite da un ragazzo poco più grande. Ho attraversato decine di volte quell' incrocio: a piedi come loro, o in auto come lui. E mi sono sempre chiesto perché un punto tanto pericoloso, posto al fondo di un lungo rettilineo (quando si trova il semaforo verde sembra di fare il chilometro lanciato), la sera fosse così poco illuminato. Adesso ci si domanda se i riflessi del pilota fossero annebbiati dall' alcol e se le due vittime avessero attraversato fuori dalle strisce e col rosso. Si scoprono echi crudeli del destino nelle storie di famiglia: il padre di una delle adolescenti vive sulla sedia a rotelle dopo un incidente in moto, e quello del ragazzo al volante è il regista del film italiano più premiato del decennio, «Perfetti sconosciuti», in cui una coppia nasconde agli amici la verità su un omicidio stradale. Ma alla fine delle chiacchiere, e delle lacrime, resta la consapevolezza che a evitare l' ennesima tragedia del sabato sera sarebbe bastato un lampione nel posto giusto. Mentre la classe dirigente discorre di macro-riforme e maxi-scenari, io mi accontenterei di vivere in un Paese dove quando un ponte traballa, un argine vacilla o un incrocio trafficato piomba nell' oscurità, il responsabile se ne accorge e provvede. Per migliorare la vita dei cittadini, o almeno per proteggerla, non sempre serve una rivoluzione parolaia al giorno, a volte basterebbe accendere una luce.

Luca Bottura per ''la Repubblica'' il 24 dicembre 2019. Ho pensato ai due corpi che volano per aria. Ho pensato ai genitori, svegliati nel cuore della notte. Ho pensato che la morte in diretta, così esemplare, così a portata di racconto, avrebbe trasformato le vite spezzate in filone giornalistico, ed è normale, ma anche e soprattutto in detonatore dell' odio social. Ho pensato all' altra telefonata, all' altro padre, all' altra madre, che vengono a sapere di loro figlio che cancella altre vite. Ho pensato a quel padre famoso, che mentre realizza la tragedia sa già che i giornali di cui si cibava diventeranno veleno per l' anima. Ho pensato a mia figlia, se fosse successo a lei...Ho pensato a mio figlio, se fosse successo a lui. Ho pensato a tutte le volte che senza alcool in corpo ho percorso quel tratto in auto, convinto a correre dalla strada che ti accoglie, ti chiede di spingere. Ho pensato che poteva capitare a me, di restare piangente al bordo della strada aspettando un' ambulanza che non serviva a niente. Ho pensato che poteva capitare a me, di dovermi fare una ragione di un' ingiustizia così palmare. Ho pensato a tutto questo e mi è venuto da piangere. E non avevo ancora letto i social.

Michela Allegri e Alessia Marani per il Messaggero il 24 dicembre 2019. Pietro Genovese è indagato per omicidio stradale e potrebbe anche rischiare l'arresto. Il suo tasso alcolemico è risultato superiore al limite consentito dalla legge - 1,4 - e il ragazzo è anche risultato positivo all'assunzione di sostanze stupefacenti: oppiacei e cocaina. Se il livello di alcol nel sangue è un dato certo, non è invece sicuro quando il giovane abbia assunto le sostanze, che restano in circolo nel corpo anche per diversi giorni: il ventenne potrebbe averle prese anche molto prima di mettersi al volante sabato notte su Corso Francia. Proprio per avere dati più certi, la Procura ha disposto un supplemento di indagini. Bisogna anche considerare il fatto che dalle prime ricostruzioni effettuate dalla Polizia locale di Roma, Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le due amiche sedicenni di terza liceo, travolte dal Suv guidato dal figlio del regista Paolo, avrebbero avuto un comportamento gravemente colposo, attraversando la strada con il semaforo rosso, in orario notturno, con la visibilità resa ancora più precaria dalla pioggia e in una delle strade più pericolose della Capitale. 

LA RICOSTRUZIONE. Secondo alcuni testimoni avrebbero tentato di scavalcare il guard-rail correndo mano nella mano per darsi velocità e slancio. Stavano facendo tardi e volevano rientrare a casa. Una prima auto che viaggiava sulla centrale delle tre corsie in direzione Parioli ha fatto in tempo a frenare e ad evitarle, ma la Renault Koleos guidata da Genovese, che avanzava alla sinistra della macchina che si era bloccata e le copriva la visuale, se le sarebbe trovate davanti e le ha travolte facendole letteralmente volare via sull'asfalto. Al ragazzo, difeso dall'avvocato Gianluca Tognozzi, la Guardia di Finanza aveva ritirato la patente il primo ottobre perché trovato in possesso di stupefacenti. Gli era stata restituita il 3 dicembre scorso. A suo carico ci sarebbero altre due segnalazioni negli anni precedenti. «Voglio giustizia, non vendetta» ha detto ieri la mamma di Camilla al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. Con i volti segnati dalle lacrime e gli occhi nascosti dietro grossi occhiali da sole la mamma di Gaia Von Freymann e i genitori di Camilla, ieri, si sono fermati a lungo a pochi metri dal punto in cui le ragazze sono state investite. Davanti a loro un grande striscione «Gaia e Camilla sempre con noi» affisso al ponte della tangenziale e decine di mazzi di fiori, stelle di Natale, biglietti e anche un cuscino di peluche a forma di cuore con su scritto «Tvtb». Ora cercano di darsi forza e chiedono giustizia. Disperato il papà di Gaia, Edward, costretto sulla sedia a rotelle da quando ebbe un incidente in moto. «Adesso non ho più ragione di andare avanti nella vita, lei era la mia forza», ha scritto in un messaggio all'avvocato Giovanni Maria Giaquinto. L'uomo è molto provato ed è seguito costantemente dagli psicologi. 

LE PERIZIE. Fondamentali per ricostruire l'esatta dinamica dell'impatto e il luogo dove è avvenuto - se sulle strisce pedonali precedenti i guard-rail o in corrispondenza di essi - saranno gli esami tecnici che dovranno stabilire la velocità a cui viaggiava il Suv di Genovese, valutando anche le posizioni dei corpi sull'asfalto. Le testimonianze sono discordanti. Intanto, due donne avrebbero riferito ai vigili il timore di avere urtato anche loro le ragazze quando erano già a terra passando in auto sul vialone subito dopo l'incidente. La Procura, ieri, ha affidato l'incarico per effettuare l'autopsia sui corpi di Camilla e Gaia. L'atto istruttorio è stato disposto dal pm Roberto Felici, titolare del fascicolo in cui Genovese è indagato per omicidio stradale. L'esame esterno è stato eseguito dal dottor Luigi Cipolloni, ma anche la difesa e le famiglie delle due ragazze - la mamma di Gaia è seguita dall'avvocato Andrea Cavallaro - hanno nominato consulenti di parte. Oggi, i legali delle famiglie chiederanno ai pm il nullaosta per avere le salme e poter quindi fare i funerali. Un Natale dolorosamente listato a lutto. «Non siamo solo agenti ma anche genitori e queste tragedie inevitabilmente ci toccano da vicino ancora di più in un periodo dell'anno che dovrebbe essere di gioia e serenità», ha commentato ieri il comandante della Polizia locale di Roma Antonio Di Maggio invitando a una maggiore prudenza e al rispetto delle regole. 

Michela Allegri e Alessia Marani per il Messaggero il 24 dicembre 2019. Gaia e Camilla sono morte sul colpo: un impatto atroce, che ha causato lo sfondamento del cranio e diverse fratture. Ma anche se dal primo esame esterno effettuato dal medico legale non emergono «segni di trascinamento» provocati da altre auto, agli atti dell'inchiesta ci sono le dichiarazioni di due donne che hanno raccontato alla polizia locale di avere investito pure loro le ragazze, mentre erano stese sull'asfalto di Corso Francia dopo essere state travolte dall'auto guidata da Pietro Genovese. L'impatto con il Suv le ha fatte volare via, sbalzando i corpi a diversi metri di distanza. E, secondo il dottor Luigi Cipolloni, medico legale nominato dalla Procura, potrebbe essere stato proprio questo l'unico colpo fatale. Ma serviranno esami più approfonditi, che verranno effettuati nei prossimi giorni. Perché agli atti del fascicolo coordinato dal procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e dal pm Roberto Felici ci sono anche racconti che rimescolano le carte dell'inchiesta e che forniscono una versione alternativa della dinamica. Un testimone avrebbe detto di avere avuto l'impressione che una delle due ragazze respirasse ancora prima dell'arrivo dei sanitari in ambulanza, che hanno sentito il polso e poi constatato il decesso di entrambe le sedicenni. Ma c'è altro: sui corpi di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann potrebbero essere passate almeno altre due macchine, dopo l'impatto con la Renault Koleos guidata da Genovese. Alcuni testimoni parlano di altre tre, se non cinque auto.

LE CONFESSIONI. Le dichiarazioni più importanti sono quelle di due conducenti, due donne, che sono state già individuate e ascoltate dalla polizia locale. La prima si è fermata subito in strada, la notte stessa dell'incidente. La signora si è accorta di essere passata sopra uno dei due corpi: «Non volevo, mi sono resa conto dopo, non ho capito cosa fossero», ha detto sotto choc ai vigili fermi su Corso Francia per effettuare i primi rilievi sull'asfalto bagnato da ore di pioggia. Un'altra giovane, accompagnata dalla mamma, si sarebbe invece costituita ieri mattina al comando dei vigili del II Gruppo, ai Parioli. Nemmeno lei si era accorta di essere passata con l'auto sopra i corpi ed è andata dritta a casa. Ma ieri, dopo avere letto i giornali, ha capito che sabato notte, attraversando in macchina Corso Francia, forse poteva avere urtato una delle due ragazze. E quindi si è sentita in dovere di raccontarlo agli investigatori, pensando che potesse trattarsi di un'informazione utile. Un dettaglio che potrà aiutare gli inquirenti a chiarire la dinamica dell'impatto, anche se al momento l'unico nome iscritto sul registro degli indagati è quello di Genovese, 20 anni, figlio del regista di Perfetti sconosciuti.

IL CELLULARE. Intanto ieri le madri di Gaia e Camilla sono tornate a Corso Francia, nel luogo dell'incidente. «Voglio giustizia, non vendetta», ha detto mamma Romagnoli. E a due giorni dalla tragedia spunta pure l'incubo degli sciacalli: qualcuno potrebbe avere rubato gli effetti personali delle adolescenti, persi in strada nell'incidente. Di Gaia la famiglia non ha più nulla, neanche lo smarphone rosso che teneva sempre in tasca: dall'altra notte è sparito insieme al portafoglio della ragazza, che conteneva soldi e documenti. E la madre della sedicenne ha fatto un appello: «Chiunque abbia ritrovato il cellulare di mia figlia lo consegni per favore alle forze dell'ordine. È un Iphone 8 rosso, con la cover rossa, purtroppo Gaia quella sera non aveva con sé la borsa, ma aveva tutto in tasca. Chiunque abbia ritrovato effetti personali delle ragazze per favore li riconsegni».

Roma, ragazze investite a Corso Francia: l'investitore rischia l'arresto. Gaia e Camilla morte sul colpo. Il ragazzo alla guida positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti. Federica Angeli il 24 dicembre 2019 su La Repubblica. Gli inquirenti hanno ancora 24 ore di tempo per decidere se arrestare con custodia in carcere oppure mettere ai domiciliari Pietro Genovese, il ventenne che sabato notte, al volante della sua auto, ha travolto e ucciso le due adolescenti romane Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Tertium non datur. Il figlio del noto regista infatti, iscritto nel registro degli indagati per duplice omicidio stradale, non ha superato i test di alcol e droga. Il suo tasso alcolemico è di 1.4: come se avesse bevuto un litro e mezzo di vino o tre litri di birra o mezzo di limoncello. Di più: anche il test della cocaina e quello della cannabis sono risultati positivi. Un neopatentato non può superare il livello 0 e, se avviene, è prevista appunto la misura degli arresti. Sta ora al giudice decidere se disporli a casa oppure in un carcere. Questo a prescindere dalla dinamica che, grazie alla relazione consegnata in procura dai vigili urbani di Roma Capitale, sembra ormai lasciare piccoli margini di dubbio. Gaia e Camilla, sabato notte, hanno attraversato la strada, corso Francia (uno stradone a scorrimento veloce nel cuore di Roma nord), fuori dalle strisce pedonali e a semaforo verde per gli automobilisti. Il suv Renault Koleos di Pietro Genovese arrivava a 80 km orari. "Non mi sono proprio accorto di loro, non le ho viste", ha dichiarato al pm. "La velocità è stata calcolata sulla base del ritrovamento dei corpi delle due vittime sull'asfalto", si legge nella relazione della Municipale. Le due sedicenni vengono travolte e l'impatto le sbalza una a 20 metri e l'altra a 25 dal punto in cui si trovavano per attraversare. Se fosse andato più veloce i corpi delle giovani sarebbero finiti prima sul cofano, poi sul tettino e infine sull'asfalto. "Dalle posizioni dei corpi delle giovani", si ritiene la dinamica essere questa, ribadiscono i vigili. Tanto che, la dichiarazione del giovane investitore di non essersi accorto di loro, conferma la ricostruzione. Così come l'esito dell'autopsia avvenuta ieri pomeriggio sui corpi delle studentesse: "Le ragazze sono morte sul colpo. Non ci sono segni di schiacciamento o trascinamento". Gaia e Camilla non sarebbero quindi state investite da altre auto, ma solo dal suv di Genovese. E la morte è stata provocata proprio dall'impatto violento con l'auto di Pietro. Che trecento metri dopo si ferma. Il cofano è accartocciato e il motore andato in blocco. Lui chiama il padre che lo raggiunge immediatamente sul posto e via via comincia a mettere a fuoco quanto accaduto. "Voglio giustizia, non vendetta" ha detto la mamma di Camilla al suo legale, l'avvocato Cesare Piraino. "Sono distrutti - ha dichiarato il penalista - . Una famiglia unita, colpita in modo tragico da questa vicenda". Così come la famiglia di Gaia e quella di Pietro, il cui padre ieri si è detto affranto per la morte delle ragazze, prima ancora che preoccupato per le sorti giudiziarie del figlio. Al giovane era stata sospesa per 15 giorni la patente lo scorso ottobre per un cumulo punti che aveva sommato (in negativo) con comportamenti alla guida poco corretti: multe per eccesso di velocità, sorpassi quando non era consentito, soste selvagge. Era anche segnalato come "assuntore" di droghe leggere: per tre volte era stato fermato, nel 2016, 2017 e 2019 dalle forze dell'ordine che lo avevano trovato con piccoli quantitativi di stupefacenti per uso personale, durante controlli avvenuti mentre era in strada a piedi. Sabato scorso però le negligenze stradali si sono sommate al consumo di droga. Un mix che ha generato una tragedia indelebile.

Pietro Genovese, indiscrezioni: "Ha lasciato Roma". Ma la posizione si aggrava: le voci dalla procura. Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. La posizione di Pietro Genovese, il 20enne che ha travolto e ucciso Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann a Roma, si aggrava. Non solo il tasso alcolemico pari a 1,4, ma anche tracce di numerosi stupefacenti nel suo sangue, in attesa che nuovi test ne stabiliscano l'entità e il momento dell'assunzione. Il ragazzo rischia l'arresto: ora, si apprende, avrebbe lasciato Roma. L'agenzia di stampa Ansa fa poi sapere che l'atto istruttorio è stato disposto dal pm Roberto Felici, titolare del fascicolo in cui risulta indagato il figlio del regista Paolo Genovese. Nel frattempo la procura di Roma ha affidato l'incarico per effettuare un'autopsia sul corpo delle due sedicenni morte in zona Ponte Milvio. Numerosi i mazzi di fiori lasciati sul punto in cui le ragazze hanno perso la vita. Il padre di Gaia Von Freymann, assistito dall'avvocato Giovanni Maria Giaquinto, ha dichiarato mestamente: "Adesso non ho ragioni per andare avanti, Gaia era la mia forza dopo l'incidente che avevo subito".

Arresti domiciliari per Pietro Genovese responsabile della morte delle due ragazze a Roma. Il Corriere del Giorno il 26 Dicembre 2019. Il Gip ha disposto la misura cautelare per il ventenne Pietro Genovese indagato per duplice omicidio stradale che sabato notte ha travolto e ucciso Camilla Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. I funerali si svolgeranno venerdì alle 10,30, nella chiesa del Preziosissimo Sangue nel quartiere Fleming a Roma. E’ stato tratto in arresto Pietro Genovese, il giovane che nei giorni scorsi al volante di un Suv ha investito e ucciso le due sedicenni romane Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Al termine di una prima serie di accertamenti svolti della Polizia locale di Roma Capitale e sulla base della relazione trasmessa all’Autorità Giudiziaria, sono stati disposti i suoi arresti domiciliari. Sono stati i test sull’assunzione di stupefacenti a convincere i pubblici ministeri a chiedere la misura cautelare. Le indagini hanno accertato che in auto con Genovese c’erano anche due amici che sono già stati interrogati dalla Polizia Locale i quali hanno confermato la versione del ragazzo: “Il semaforo era verde, loro sono sbucate all’improvviso“. Sono stati dunque adottati i provvedimenti attesi nei confronti di Pietro Genovese, iscritto nel registro degli indagati per duplice omicidio stradale e trovato positivo a sostanze stupefacenti, hashish e cocaina, e molto oltre i limiti consentiti per quanto riguarda il tasso alcoolico. La dinamica dell’incidente, ricostruita dagli agenti della Polizia Locale di  Roma Capitale e depositata in procura, non sembra trasparire margini di dubbio. A Genovese era stato concesso un nulla osta temporaneo dal pm Roberto Felici per trascorrere il Natale nella casa di famiglia in Umbria. Adesso sconterà gli arresti domiciliari nella casa a Roma. “Condotta incautamente spericolata” con queste parole il Gip Bernadette Nicotra del Tribunale di Roma definisce il comportamento delle due ragazze, “nella ricostruzione di un incidente stradale, nella sua dinamica e nella sua eziologia, il giudice di merito deve necessariamente tenere conto delle condotte dei singoli utenti della strada coinvolti – si legge nell’ordinanza – per accertarne le responsabilità, determinare l’efficienza causale di ciascuna eventuale colpa concorrente”. “Alla luce di quanto accertato in questa prima fase – scrive ancora il giudice – le due ragazze, in ora notturna, in zona scarsamente illuminata e con pioggia in atto” stavano “attraversando la carreggiata, scavalcando il guard rail, nel momento in cui il semaforo era fermo sulla luce rossa per i pedoni”. Ma questo non attenua la responsabilità di Genovesi al quale  in passato erano stati decurtati punti dalla patente fino alla sospensione. Da qui la misura degli arresti, avendo dimostrato “noncuranza, se non addirittura disprezzo verso i provvedimenti e i moniti dell’autorità amministrativa e di pubblica sicurezza ed è sintomo di una personalità incline alla violazione delle regole” il quale “percorreva una strada all’interno di un agglomerato urbano in un punto caratterizzato dalla presenza di case e locali notturni a velocità elevata e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite consentito” e quindi “pur non avendo voluto cagionare l’incidente” ha violato le regole “di diligenza e prudenza che si richiede a ogni automobilista al fine di scongiurare situazioni di pericolo proprio e altrui“. La misura cautelare serve secondo il giudice, anche ad evitare che Pietro Genovese si metta nuovamente al volante: “La personalità dell’indagato lascia ragionevolmente presumere che il medesimo non si scoraggi dall’usare comunque l’automobile per il solo fatto dell’avere avuta ritirata la patente di guida. Sicchè allo stato al fine di neutralizzare il pericolo concreto ed attuale di reiterazione di condotte analoghe appare necessario limitare la libertà di movimento di Genovese, il quale sebbene incensurato e di età giovane potrebbe mettersi alla guida di autovetture di amici o conoscenti anche senza patente e porre in essere condotte gravemente colpose in violazione delle norme della circolazione stradale compromettendo così la propria e l’altrui incolumità“. Dalle indagini e dalle analisi effettuate su Pietro Genovese emerge che il 20enne alla guida dell’auto che ha travolto le due adolescenti, poco prima dello schianto aveva bevuto: il test alcolemico ha riportato un valore dell’1.4, tre volte superiore a quello consentito per mettersi alla guida (0.5), e ancora di più per un neo patentato (0,0), come nel suo caso, perché il codice della strada non consente assunzione di alcol per chi guida da meno di tre anni. La notizia è stata resa nota proprio in serata mentre stava svolgendo nella parrocchia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore, in via Flaminia Vecchia, una messa di per Camilla e Gaia, iniziata intorno alle 18 alla presenza dei genitori, degli amici e per tutti coloro che le hanno frequentate ed amate. Ci sono tutti i loro i compagni di classe, della 3 CL, del liceo De Sanctis,  e tante persone della zona. Al centro della navata della chiesa, rivolto verso l’altare, un leggio con sopra le foto vicine delle due ragazze e sotto una candela bianca. Strazio nella chiesa riempita di dolore. La notizia dell’arresto di Pietro Genovese si è diffuso immediatamente nella chiesa del Preziosissimo Sangue, alla Collina Fleming, quando si è appena conclusa la veglia di preghiera per Gaia e Camilla. La mamma di Gaia, la signora Gabriella Saracino, attorniata dall’affetto di tanta gente, ha come un tremito: “Gli hanno dato i domiciliari? Meritava sicuramente qualcosa di più, ci ha portato via due angeli, comunque è una buona notizia...” e racconta che  in tutti questi giorni la famiglia dell’investitore non si è mai fatta viva con lei: “Ma va bene così — aggiunge con grande dignità — quel ragazzo rimane un disperato”. Anche il signor Marino Romagnoli il papà di Camilla,  riesce a dire qualcosa mentre sua moglie Cristina, la mamma di Camilla, piange tra le braccia dei familiari: “Non mi cambia niente che l’abbiano arrestato. La verità è che Camilla aveva ancora tanto da darmi e invece adesso siamo ridotti così, non m’importa niente lui, il mio cuore è tutto con Camilla e con Gaia, cosa posso dire? La giustizia va avanti…“. Le indagini procedono e si attendono altre risposte anche dall’analisi del cellulare di Genovese per verificare se al momento dell’ incidente lo stesse utilizzando per parlare o chattare con qualcuno. All’analisi degli investigatori anche le dichiarazioni dei testimoni e le immagini di tutte le telecamere della zona. Al momento l’unica certezza proviene dalle testimonianze di chi ha assistito all’incidente che confermerebbero che Gaia e Camilla abbiano attraversato corso Francia con il semaforo rosso per i pedoni. La chiesa del Preziosissimo Sangue dove questa mattina alle 10. 30, verranno celebrati i funerali congiunti di Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, è piena di gente,  ci sono almeno 300 persone. Il coro canta: “Tu sei bellezza, tu sei purezza, misericordia Gesù”. In chiesa ci sono tutti i compagni di classe delle due ragazze, gli studenti della Terza C del liceo linguistico De Sanctis. Benedetta e Isabella, le amiche del cuore di Gaia e Camilla, appena  sanno dell’arresto di Genovese, scoppiano a piangere. Un pianto mista di rabbia e consolazione. Sono arrivate in chiesa dopo aver finito di preparare i due cartelloni, con le foto e le firme di tutta la classe, che questa mattina verranno sistemati accanto alle bare per poi lasciarli in ricordo ai genitori delle due amiche di scuola. “La tua risata che riempiva la stanza ora ci rimbomba nel cuore“, dice la dedica per Gaia. Quella per Camilla così recita: “E voglio ricordarti come eri, pensare che ancora sorridi”. Il viceparroco don Marco Zaccaretti  durante la veglia invoca la Madonna: “Anche tu Maria perdesti un figlio sulla Croce, ora intervieni, porta subito Gaia e Camilla in Paradiso, le loro mamme sono sconvolte, la loro fede sta vacillando. Aiutale, Maria, a ritrovare il dono della fede”. Questa mattina alle 10,30, nella stessa chiesa del Preziosissimo Sangue al Fleming, saranno celebrati i funerali delle due ragazze. Gaia Von Freymann è nipote dell’avvocato tarantino  Massimo Saracino, figlia di sua sorella Gabriella che vive da tempo a Roma, a cui il CORRIERE DEL GIORNO rinnova le proprie sentite condoglianze. Le due famiglie hanno chiesto rispetto per il funerale: vogliono stringersi nel proprio dolore in chiesa senza telecamere ed Autorità. Le due ragazze  saranno sepolte nel cimitero romano di Prima Porta.

Federica Angeli per la Repubblica il 27 dicembre 2019. (...) L' ordinanza con cui il gip ha deciso per i domiciliari è di 9 pagine e sono sostanzialmente due i motivi che hanno fatto scaturire la misura cautelare: l' alta velocità e la guida in stato di ebbrezza alcolica. Il giudice ha escluso l' aggravante della guida sotto effetto di stupefacenti, pur essendo risultato il ventenne positivo sia alla cannabis che alla cocaina, in quanto «non si sa se l' assunzione dello stupefacente fosse recente». Della droga infatti restano tracce anche se è stata assunta una settimana prima: il narcotest risponde solo alla positività della sostanza nel corpo ma non rivela in quale misura né dà contezza del tempo in cui è stata assunta. Discorso diverso invece per l' alcol, la cui presenza nel sangue era di 1,4 superiore al livello consentito, ovvero zero per un neopatentato. «Vi è la prova della sussistenza alcolica» si legge nell' ordinanza, non solo grazie alla relazione della polizia municipale intervenuta la notte dell' omicidio che di Pietro Genovese ha scritto: «Si palesava in visibile stato confusionale e alito vinoso», ma anche appunto per il referto ospedaliero. Sulla velocità del suv la gip insiste molto nelle nove pagine in cui motiva la scelta degli arresti domiciliari. Riconosce infatti che seppure «le due vittime hanno tenuto una condotta vietata e incautamente spericolata (hanno attraversato col rosso, non sulle strisce, scavalcando il guard rail, di notte e con la pioggia, ndr ) così concorrendo alla causa del sinistro mortale, il conducente del suv ha guidato con imprudenza e imperizia». «La velocità è uno specifico addebito di colpa», scrive, «un' andatura entro i limiti previsti e adeguata allo stato dei luoghi avrebbe verosimilmente evitato le tragiche conseguenze dell' impatto tra il suv e le due povere vittime». In quel tratto di corso Francia la velocità massima consentita è di 50 chilometri orari, secondo i vigili Genovese andava almeno a 80 all' ora. «Una velocità prudenziale» secondo il giudice per le indagini preliminari avrebbe evitato «l' impressionante forza dell' urto» che, a quanto raccontato dall' autopsia, ha ucciso all' istante Gaia e Camilla. Velocità che, sottolinea Bernadette Nicotra, più di un testimone ha descritto: «Ho visto il braccio volare in aria», ha messo a verbale uno di loro. Ma tra i rilievi del giudice c'è anche la condizione della strada: «Sull' incidente ha influito anche un' illuminazione "colposamente" insufficiente». Infine: Genovese, che era in auto con due amici (notizia che si è appresa soltanto ieri), "paga" anche lo scotto dei suoi precedenti di assuntore e possessore di droga e di guidatore poco attento al rispetto delle regole. Il gip infatti sottolinea in un passaggio che le tre volte in cui fu fermato (seppur a piedi e non al volante) aveva droga per uso personale. E che le numerose violazioni al codice della strada (almeno quattro, tra cui anche passaggio con il rosso), che gli avevano fatto perdere punti sulla patente fino alla sospensione per 15 giorni a ottobre, sono elementi non di poco conto nel delineare la personalità del ventenne. 

Pietro Genovese agli arresti domiciliari per una legge assurda. Angela Azzaro il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ieri il Gip ha disposto gli arresti domiciliari per Pietro Genovese, il giovane indagato per duplice omicidio stradale. Non si capisce bene il motivo dell’arresto. Non c’è sicuramente pericolo di fuga: tutti i riflettori sono puntati su di lui e il padre è un famoso regista. Non c’è pericolo di nascondere le prove, molte delle quali, purtroppo, sono lì su quella maledetta strada. Né tanto meno c’è il rischio di reiterare il reato. Il dubbio, molto forte, è che questi arresti siano dettati dal bisogno di tenere a bada i latrati dei media, che da giorni su questa vicenda stanno soffiando sul fuoco del giustizialismo. La terribile morte di Gaia e Camilla, la vita rovinata del giovane sono solo espedienti per aizzare gli animi, spingerli sempre di più sul crinale della vendetta, del linciaggio. È lo stesso crinale che anni fa ha spinto il legislatore ad approvare la legge sull’omicidio stradale. È forse la legge più emblematica di questa ideologia che sta minando lo Stato di diritto: non ci si chiede come risolvere un problema, come far sì che le persone non muoiano più per strada, ma si punta a placare gli animi aumentando le pene o creando nuove fattispecie di reato. Il risultato è sotto i nostri occhi, anche in questi giorni: le morti in strada non diminuiscono, ma aumentano. La legge non solo non funziona da deterrente, ma rischia di dar vita a molte ingiustizie. Pietro Genovese voleva uccidere? Sicuramente no, ha commesso un grave, gravissimo, terribile errore, ma non voleva uccidere. Oggi è considerato alla stregua di un presunto assassino e rischia dieci anni di carcere. Forse proprio questo caso, con la sua esposizione mediatica, ci dovrebbe spingere a riconsiderare la legge sull’omicidio stradale, a fare un passo indietro rispetto al bisogno sempre più impellente di risolvere con il carcere qualsiasi problema. Oggi è il giorno dei funerali di Gaia e Camilla, un giorno di dolore per le due ragazze. Un giorno che dovrebbe essere di silenzio. Ma chi spara su Genovese, chi lo espone a petto nudo nelle foto come ad indicarne la colpa, chi chiede galera e ancora galera, non sta piangendo. Sta solo approfittando di una immensa tragedia. 

Pietro Genovese arrestato, il testimone: «L’ho visto arrivare, andava molto veloce». Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. La notte di domenica scorsa Pietro Genovese correva e aveva bevuto. Guidava senza preoccuparsi di dover «scongiurare i rischi per sé e per gli altri». E «potrebbe farlo ancora», perché già in passato «gli era stata ritirata la patente di guida per violazione al codice della strada». Ecco perché il giudice ha ordinato il suo arresto. Sono quattro i testimoni dell’accusa. Quattro automobilisti che in quella maledetta sera erano su Corso Francia, a Roma, e hanno assistito allo schianto mortale. Hanno visto la tragica sequenza dell’incidente avvenuto poco dopo mezzanotte nel quale hanno perso la vita Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due amiche sedicenni che per tornare a casa hanno scavalcato il guardrail e attraversato con il rosso. «Condotta incautamente spericolata»: così il giudice definisce il comportamento delle due ragazze. Ma questo non attenua la responsabilità di Genovesi che «percorreva una strada all’interno di un agglomerato urbano in un punto caratterizzato dalla presenza di case e locali notturni a velocità elevata e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite consentito» e dunque «pur non avendo voluto cagionare l’incidente» ha violato le regole «di diligenza e prudenza che si richiede a ogni automobilista al fine di scongiurare situazioni di pericolo proprio e altrui».

Il racconto. Racconta Emiliano Annichirico: «Ero alla guida della mia autovettura, stavo procedendo su Corso Francia in direzione fuori città. Il semaforo veicolare di corso Francia era appena diventato verde per entrambe le carreggiate, pertanto l’impianto pedonale era diventato rosso da pochissimi istanti. Ho visto alla mia sinistra due ragazze giovani che procedevano di corsa sulle strisce cercando di attraversare la carreggiata opposta rispetto a quella dove stavo procedendo. Una piccola vettura di colore scuro, credo una smart, era ferma non so se fosse posteggiata o se si fosse arrestata per agevolare il transito dei due pedoni. Rammento che una ragazza più alta era davanti e poco dietro vi era un’altra ragazza un po’ più minuta. Nello stesso momento mi sono accorto del sopraggiungere sulla corsia centrale di corso Francia, direzione centro città, di un’autovettura di grosse dimensioni, un Suv di colore chiaro. L’auto procedeva ad un’andatura esageratamente sostenuta, credo che il conducente abbia tentato di frenare nel momento in cui ha percepito la presenza dei pedoni in quanto la parte anteriore si è lievemente inclinata in basso, malgrado ciò l’impatto è stato inevitabile violentissimo». Versione confermata da altri tre testimoni che ai vigili hanno parlato di «due ragazze che attraversavano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali» e di «un Suv che è arrivato a gran velocità e ha travolto le due ragazze».

Racconta Emiliano Annichirico: «Ero alla guida della mia autovettura, stavo procedendo su Corso Francia in direzione fuori città. Il semaforo veicolare di corso Francia era appena diventato verde per entrambe le carreggiate, pertanto l’impianto pedonale era diventato rosso da pochissimi istanti. Ho visto alla mia sinistra due ragazze giovani che procedevano di corsa sulle strisce cercando di attraversare la carreggiata opposta rispetto a quella dove stavo procedendo. Una piccola vettura di colore scuro, credo una smart, era ferma non so se fosse posteggiata o se si fosse arrestata per agevolare il transito dei due pedoni. Rammento che una ragazza più alta era davanti e poco dietro vi era un’altra ragazza un po’ più minuta. Nello stesso momento mi sono accorto del sopraggiungere sulla corsia centrale di corso Francia, direzione centro città, di un’autovettura di grosse dimensioni, un Suv di colore chiaro. L’auto procedeva ad un’andatura esageratamente sostenuta, credo che il conducente abbia tentato di frenare nel momento in cui ha percepito la presenza dei pedoni in quanto la parte anteriore si è lievemente inclinata in basso, malgrado ciò l’impatto è stato inevitabile violentissimo». Versione confermata da altri tre testimoni che ai vigili hanno parlato di «due ragazze che attraversavano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali» e di «un Suv che è arrivato a gran velocità e ha travolto le due ragazze».

Il giudice esclude l’aggravante dell’assunzione di stupefacenti perché «non è in alcun modo provato lo stato di alterazione psicofisica dovuto all’uso delle droghe infatti le sostanze riscontrate sebbene presenti ben potevano essere state assunte da Genovese in epoca precedente all’incidente». Spiega che «lo stato di ebrezza dell’indagato era tale da diminuire certamente la prontezza di riflessi alla guida, senza tuttavia porre il guidatore in stato di incoscienza». Ma decide di ordinare gli arresti domiciliari «perché sebbene incensurato e di giovane età, potrebbe guidare l’auto di amici o conoscenti anche senza la patente». Nei prossimi giorni è possibile che il suo difensore Gianluca Tognozzi decida di chiedere un interrogatorio. Al momento nessuna decisione è presa ed e proprio il legale a spiegarlo: «Si devono celebrare i funerali di due ragazze di 16 anni, mentre un ragazzo di 20 è ai domiciliari. Per questo fatto non credo ci sia altro da aggiungere altre il dolore».

Gaia e Camilla, l’amico di Genovese: sceso dall’auto lontano dall’impatto. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Sono stato il primo a scendere dalla macchina di Pietro. Mi sono avvicinato alla ragazza che ho trovato subito a terra nel luogo dell’incidente e ho sentito che non respirava più. È stato terrificante. Poi ho alzato lo sguardo e ho visto più avanti il corpo dell’altra giovane. Eravamo tutti sotto choc, ma è vero che sono sbucate all’improvviso. Evitarle era impossibile». Davide Acampora, studente ventenne, era seduto davanti sul suv Renault guidato da Pietro Genovese la notte del 21 dicembre a corso Francia. Dalla sua posizione potrebbe aver visto tutto: l’avvicinamento all’incrocio con via Flaminia, l’utilitaria accanto alla loro auto che si è fermata di colpo sul lato destro della carreggiata, le sedicenni che spuntavano e che venivano travolte dall’amico al volante. Che, come ha sottolineato il gip Bernadette Nicotra nella misura cautelare emessa nei confronti del figlio del regista Paolo Genovese, si è fermato «poco dopo, circa 250 metri più avanti rispetto al luogo dell’impatto e precisamente sopra la rampa d’accesso a via del Foro Italico». Interrogato dai vigili urbani, Acampora ha riferito alcuni particolari di quella serata. «Eravamo andati a una festa con alcuni amici, poi ci siamo rimessi in marcia per tornare a casa. Non avevamo assunto droghe di alcun genere. Avevamo invece bevuto qualcosa, ma Pietro non era certo ubriaco. Dopo l’incidente era sconvolto». Sui sedili posteriori del Koleos condotto da Genovese — che secondo i vigili urbani con la sua patente B poteva guidare quel genere di veicolo — c’era un altro amico, Tommaso Edoardo Luswergh Fornari, anche lui di 20 anni. Come Acampora, è stato interrogato dai vigili urbani e ha fornito la sua versione. Avrebbe visto meno del coetaneo che sedeva davanti a lui. Da allora è chiuso nella sua abitazione vicino piazza Fiume, al Salario, a poche centinaia di metri dalla casa di Acampora e della famiglia dello stesso Genovese, nel suggestivo rione Coppedé, mentre Paolo si trova ai domiciliari nella sua abitazione in via Frattina, in centro. «Adesso non ho voglia di parlare», dice Tommaso senza aprire la porta dell’appartamento al pianterreno. Nell’androne dell’elegante palazzo il portiere accompagna all’uscita i cronisti. Lui e Davide sono stati sentiti come persone informate sui fatti insieme con altri cinque testimoni che da varie angolazioni hanno assistito all’incidente costato la vita a Gaia e Camilla. Ma sarebbero stati loro a scuotere Genovese che dopo l’impatto ancora stringeva il volante del suv e aveva percorso alcune centinaia di metri, imboccando la strada sopraelevata rispetto al punto dell’investimento. «Gli abbiamo detto di fermarsi e tornare indietro», avrebbero riferito i due amici del 20enne, che come prima cosa ha telefonato al padre chiedendo aiuto. A quel punto però la macchina si era bloccata per un guasto e così lui e gli amici sono scesi sulla rampa per raggiungere corso Francia a piedi.

Gaia e Camilla, centinaia di persone ai funerali a Roma. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it. Centinaia di persone, fra queste moltissimi ragazzi e ragazze, stanno partecipando nella chiesa del Preziosissimo Sangue alla Collina Fleming ai funerali di Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, investite e uccise la notte del 21 dicembre scorso da Pietro Genovese mentre attraversavano a piedi Corso Francia. A celebrare le esequie il parroco don Matteo Botto. In segno di lutto i commercianti del quartiere hanno abbassato le saracinesche. Moltissime corone di fiori, insieme con stelle di Natale all’esterno della chiesa, mentre via Flaminia è stata chiusa al traffico dai vigili urbani. In tutta la zona il traffico è impazzito. Alcuni amici delle sedicenni hanno portato fiori nel luogo dell’incidente, altri hanno accolto i compagni di scuola delle giovani del liceo De Sanctis fuori dalla parrocchia e nella navata centrale due foto di Gaia e Camilla sono state poggiate su un leggio. All’esterno rimangono fotografi e cameraman che per desiderio delle famiglie non possono entrare a riprendere i funerali.

Il parroco ai funerali delle due ragazze investite a Roma: "Il senso della vita non è bere e fumarsela". Il Corriere del Giorno il 27 Dicembre 2019. Un rispettoso silenzio ed un mare di lacrime con le foto delle ragazze all’ingresso della parrocchia. Oltre ai familiari centinaia di persone per l’ultimo saluto a Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann nelle loro bare bianche . “Ci sentiamo onnipotenti e poi non riusciamo a seguire le regole base della convivenza. Ci riscopriamo tutti un po’ palloni gonfiati” ha detto il parroco nella sua dura omelia. Il 2 gennaio interrogatorio di garanzia e convalida per l arresto dell’investitore, Pietro Genovese, posto da ieri agli arresti domiciliari. “Siamo abituati a vivere tra tecnologie e innovazione eppure brancoliamo nel buio ed è quello su cui dobbiamo riflettere: su questa ora buia”  ha esordito il parroco don Gianni Matteo Botto nel corso della sua omelia funebre celebrata nella parrocchia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore in via Flaminia Vecchia, a Roma, rimarcando “da giorni ci chiediamo il perché. Ci interroghiamo sull’insensatezza di quanto accaduto. Brancoliamo nel buio. Ecco, quello di oggi é il grande abbraccio che diamo ai genitori di Gaia e Camilla, in questa ora così buia“. Sono state parole forti quelle di don Matteo nella sua omelia : “Il senso della vita, lo aveva chiesto giorni fa Camilla alla sua famiglia. Ecco, magari quando sei sbronzo o sei fatto ti metti a guidare? Questa è la vita? In fondo ci sentiamo onnipotenti e poi non riusciamo a seguire le regole base della convivenza. Ci riscopriamo tutti un po’ palloni gonfiati. Il senso della vita non è bere e fumarsela“. All’ingresso della chiesa sono state collocate due foto delle ragazze. Moltissimi amici e parenti, e i compagni della Terza C del liceo linguistico De Sanctis, classe in cui studiavano Gaia e Camilla. Le due bare bianche di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli le due 16enni travolte e uccise la notte del 22 dicembre da un’auto su corso Francia, erano circondate dal silenzio rispettoso e dalle lacrime versate da migliaia di persone presenti al funerale. I giornalisti come richiesto dalle famiglie, sono rimasti all’esterno del complesso dove si trova la chiesa. Giorgia Romagnoli, la sorella di Camilla ha voluto ricordarla così: “Eri la piccola di casa. Tu che trovavi imbarazzo ogni volta che si parlava di te, non ti piaceva sentirti gli occhi addosso. Ti sentivi imperfetta. E invece si è persa una delle fondamenta della nostra famiglia” continuando “Oggi le nostre notti sono la cosa peggiore della giornata. Tempo fa avevi chiesto a tavola, quale fosse il senso della vita e non ti ho saputo rispondere . Oggi una risposta ce l’ho: il senso della mia vita sei tu“. La messa funebre si è concluse poco prima delle 13 e le  bare all’uscita  dalla chiesa salutate con un applauso interminabile sulle note delle canzoni preferite delle due ragazze: “A te” di Lorenzo Jovanotti e “Ti voglio bene” di Tiziano Ferro. Momenti di dolore straziante per tutti, le serrande dei negozi di via Flaminia  dove sono transitati i feretri di Gaia e Camilla, sono state abbassate in segno di lutto. Il papà di Gaia si è soffermato a lungo  davanti alla bara della figlia accarezzandola, quasi a non volersene distaccare, mente e una parente che ha un malore ed è stata soccorsa e portata via in ambulanza. Al termine della funzione ha preso la parola anche la zia di Gaia: “Camilla e Gaia non ci hanno lasciati. Sono nel vento, nel profumo dei fiori, la loro voce è nel canto degli uccelli. Hanno raggiunto i nostri avi e riposeranno con loro“. E un’amica delle due giovani: “Sedici anni sono troppo pochi per morire, non riesco a crederci. Bisogna vivere il dolore per capirlo. Resterà un enorme vuoto dentro di me, una cicatrice che resterà per sempre” . I genitori di Gaia, Gabriella Saracino e Edward Von Freymann, attraverso il loro legale Giulia Bongiorno hanno dichiarato: “Chi perde il coniuge è vedovo, chi perde i genitori è orfano. Chi, come noi, perde una figlia non ha nemmeno un nome che lo definisca: la morte di un figlio è talmente innaturale da aver reso la nostra condizione indicibile, è letteralmente ‘qualcosa che non può essere detto” aggiungendo  “Anche per questo non abbiamo finora parlato con nessuno e oggi chiediamo rispetto per il nostro dolore e il nostro silenzio. Quando troveremo le parole giuste parleremo, e diremo la nostra sulle tante ricostruzioni che in questi giorni sono state diffuse dai media con troppa leggerezza. Per il momento, invitiamo alla prudenza e alla scrupolosità chi scrive di questa tragedia. Gaia era piena di gioia di vivere, ma era anche matura e responsabile. Ci manca moltissimo. Per questo desideriamo ringraziare chi ha pianto con noi, chi ci ha offerto conforto e sostegno“. Il 20enne Pietro Genovese che le ha travolte ed uccise mentre era alla guida di un Suv, in condizioni non certamente di sobrietà,  da ieri si trova  agli arresti domiciliari, per “omicidio stradale plurimo“. Questa l’accusa con cui è stato arrestato ieri il 20enne che, nella notte tra sabato e domenica scorse, era alla guida dell’auto che ha travolto e ucciso a Roma due sedicenni a Corso Francia, a Roma. Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, che si trova ora ai domiciliari. L’ordinanza gli è stata notificata al termine dei primi accertamenti condotti dalla Polizia Locale di Roma Capitale e in base alla relazione trasmessa alla Procura. La posizione del ragazzo si era aggravata già immediatamente dopo l’incidente mortale costato la vita alle sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freyman. Le analisi alle quali era stato sottoposto, infatti, avevano rivelato un tasso alcolico tre volte superiore al consentito e tracce di sostanze stupefacenti. Nel passato di Genovese secondo quanto emerge dall’ ordinanza del Gip, ci sarebbero anche due episodi di possesso di droga, in relazione ai quali sembra gli sia stata sospesa la patente, restituita solo di recente. A convincere i pubblici ministeri a chiedere la misura cautelare, infatti, ci sarebbe proprio la positività del ragazzo ai drug test.

Ragazze investite a Roma: e se fossi stato tu al posto di Pietro Genovese? Angela Azzaro il 28 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ieri si sono svolti i funerali di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due ragazze investite e morte il 22 dicembre, qualche giorno prima di Natale, a Roma, in un incrocio maledetto su Corso Francia. La foto che vi proponiamo in questa pagina mostra le due facce, contrapposte, di questa lunga settimana: per un verso, anche se non si vede, si intuisce il dolore. I fiori bianchi rimandano alle bare delle due giovanissime donne: il lutto assurdo che ha colpito i genitori, la loro tenera età, la vita piena di promesse e attese che non si potranno più realizzare. È una scena che richiede silenzio, rispetto. La foto però mostra anche altro: le telecamere che incombono come moderni cerberi, la sovraesposizione, un accanimento che non può che infastidire. La morte diventa spettacolo, tv del dolore, processo mediatico. Da giorni i media si occupano del caso, con un’attenzione morbosa che difficilmente si riesce a pensare come partecipazione al lutto. Se così fosse, si sarebbe fatto un passo indietro, si sarebbe regalato alle famiglie coinvolte il silenzio necessario, si sarebbero spente le luci. Almeno una volta, almeno questa volta. Ma lo “show” non può fermarsi, deve andare avanti, a tutti i costi. E alcuni siti web anche di giornali paludati hanno fatto la diretta dei funerali. Qualcuno, sui social, l’ha definita, giustamente, pornografia del dolore. In questa sceneggiatura da film di infima categoria, non poteva mancare “il mostro”, “il drogato” come lo ha definito non un titolo del quotidiano Libero, ma del giornale più venduto a sinistra, La Repubblica. Il quotidiano diretto da Carlo Verdelli ha fatto diventare un’azione – il fatto di aver assunto delle sostanze stupefacenti – l’identità di una persona: la ha inchiodata per sempre allo stigma di “drogato”. È una generalizzazione che nelle scuole di giornalismo ti insegnano a non fare…Pietro Genovese, il ragazzo indagato per duplice omicidio stradale, dall’altro ieri è ai domiciliari. Il gip ha preso la decisione sostenendo che ci sia il rischio di reiterare il reato e ha indicato nell’alta velocità e nel tasso alcolico le cause principali dell’incidente mortale. Il giudice ha escluso l’aggravante della guida sotto effetto di stupefacenti, pur essendo risultato positivo sia alla cannabis che alla cocaina, perché «non si sa se l’assunzione dello stupefacente fosse recente». I domiciliari, con questi elementi e queste motivazioni, appaiono una scelta dettata comunque dalla pressione mediatica e dalla sentenza che “il popolo”, spinto da tv e giornali, ha già emesso: colpevole. Invece il processo va ancora fatto e purtroppo va fatto con la legge assurda sull’omicidio stradale, nata sulla spinta dal populismo penale: l’ideologia che anche papa Francesco ha condannato come uno dei mali della nostra contemporaneità. La brutta legge non ha funzionato da deterrente, non ha spinto i giovani a correre di meno, non ha reso le strade più sicure, le auto meno veloci e non ha spinto la scuola ad insegnare meglio e con maggiore convinzione l’educazione stradale. Ha però raggiunto il suo vero scopo: costruire – a norma di legge – perfetti colpevoli, capri espiatori su cui riversare tutte le colpe, su cui incanalare la rabbia delle persone. Una rabbia – come nel caso di Camilla e Gaia – giusta e comprensibile se espressa dai genitori. Ma il legislatore e la società, proprio in questi casi, dovrebbero avere la forza di capire la rabbia ma di andare oltre, di non farla diventare Stato di diritto. Il gip, nella sua ordinanza con cui ha disposto la custodia cautelare, ha anche detto che le due ragazze non dovevano attraversare quella strada, che hanno avuto una condotta “vietata e spericolata”. Ci sarà un processo che definirà i fatti. Ma tutti sanno che quello è un incrocio temuto e terribile, dove quasi tutte le auto corrono e dove chiunque si poteva trovare lì, in quel momento, e vivere la stessa tragedia. Invece si è preferito sparare (simbolicamente) sul conducente dell’auto, decidere – prima del tempo – la sua colpevolezza che va ancora dimostrata e stabilita dal processo vero e proprio. La fama del genitore, questa volta, non ha giovato al giovane Pietro. In questi giorni abbiamo letto e visto di tutto. Si voleva dimostrare in ogni modo quanto fosse un poco di buono, uno che non poteva non commettere qualcosa di terribile. La foto di lui a torso nudo, mentre beve un drink, andava in questa direzione. Era il ritratto di un giovane baldanzoso e arrogante, perfetto come omicida, seppure involontario. È la foto del prima, che non racconta lo shock, il dolore, la disperazione che lo ha colpito. È così che tentano di raccontarlo i familiari. Ma la società del processo mediatico, della presunzione di colpevolezza, la società del “tutti sono sempre colpe- voli”, non riesce a provare pietà, a identificarsi, e ha deciso: Pietro è il mostro. Ma, se si esce da questa reazione condizionata, forse si riesce a capire che al suo posto ci poteva essere anche uno di noi. E così provare almeno un po’ di pietà.

Ps: Ieri, ai funerali di Gaia e Camilla, durante l’omelia, il prete si è chiesto se “il senso della vita sia guidare sbronzi”, anche lui cadendo nella trappola che riduce una vita, la sua complessità a un episodio.  Quanta distanza dalle parole e dall’insegnamento di Bergoglio!

Veronica Cursi per il Messaggero il 28 dicembre 2019. «Quelle due ragazze sono sbucate all’improvviso, correvano mano nella mano. Mi creda, era impossibile evitarle. Pioveva, era buio, ma ricordo perfettamente cos’è successo: ho visto due sagome apparire dal nulla e poi il corpo di una di loro rimbalzare sopra il cofano». Davide A., 20 anni, studente di Economia dei Parioli, parla con un filo di voce. Spesso si ferma per trattenere le lacrime. Era su quella maledetta macchina la notte del 22 dicembre, seduto al lato passeggero accanto al suo migliore amico Pietro Genovese. Il giovane ora si trova agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio stradale duplice. «Io e Pietro - ripete Davide - ci conosciamo dalle elementari, abbiamo condiviso tutto insieme». Purtroppo, ora, condividono anche quella notte che ha cambiato le loro vite per sempre.

Davide cosa ricorda di quella sera?

«Eravamo appena andati via da una cena a casa di amici al Fleming dove avevamo festeggiato il ritorno di un amico dall’Erasmus. Avevamo bevuto qualche bicchiere di vino, niente di più. Era da poco passata la mezzanotte e avevamo imboccato Corso Francia per andare verso il Treebar al Flaminio».

Quanti eravate in macchina?

«Pietro guidava, io ero seduto accanto a lui e dietro di noi, sul sedile posteriore, c’era un altro nostro amico che al momento dell’incidente però stava mandano un messaggio con il cellulare e dice di non aver visto nulla».

A che velocità andavate?

«Non so, ma anche volendo non avremmo potuto correre. Su Corso Francia era appena scattato il semaforo verde e l’auto era ripartita da poco».

A quel punto cos’è successo?

«Mentre passavamo davanti a una macchina che aveva rallentato alla nostra destra sono sbucate due sagome. Correvano. Credo volessero scavalcare il guardrail per raggiungere l’altro lato della strada. Ricordo di aver sentito un botto tremendo. E di aver visto una di loro sopra il cofano dell’auto. É successo tutto in una frazione di secondo».

Vi siete fermati subito?

«Il tempo di renderci conto di quello che era successo e accostare l’auto sulla destra, poco prima della rampa. Non potevamo inchiodare in mezzo alla strada. Dall’incidente al momento in cui ci siamo fermati saranno passati 5-10 secondi».

E poi cosa avete visto?

«Io sono sceso di corsa dalla macchina e ho visto il corpo di una delle due ragazze per terra, mi sono avvicinato per sentire il battito, non si muoveva. Poco più avanti mi sono accorto che c’era anche l’altra ragazza sull’asfalto. Subito dopo di me sono scesi Pietro ed Edoardo. Le macchine continuavano a camminare, ricordo di aver visto una, forse due macchine investirle di nuovo».

Pietro era ubriaco?

«Aveva bevuto un paio di bicchieri di vino, ma non era ubriaco o drogato: nessuno quella sera aveva fumato canne».

A quel punto avete chiamato i soccorsi?

«Qualcuno che aveva assistito all’incidente aveva già chiamato l’ambulanza, io ho chiamato i miei genitori, gli altri anche: eravamo tutti sotto choc».

Come ha saputo che Pietro era stato arrestato?

«Mi ha scritto un messaggio: “Sto andando in Questura, mi stanno arrestando”. Poi più nulla, sono in contatto con la famiglia».

Pietro aveva ripreso la patente da poco ed era già stato segnalato due volte per possesso di stupefacenti.

«È vero, una volta gli trovarono una canna in macchina e ogni tanto capitava che andasse un po’ veloce, ma non è un pazzo alla guida. E quello che è successo non si poteva evitare».

É più tornato sul luogo dell’incidente?

«Da quella sera sono uscito di casa solo una volta per andare a trovare Pietro: sta malissimo, piange tutto il giorno, siamo molto preoccupati per lui».

Ha mai pensato di contattare le famiglie delle ragazze?

«Ci penso tutti i giorni, ma cosa potrei dirgli? Mi dispiace per quello che è successo? Sono distrutto? Da quella sera, io, Pietro ed Edoardo non dormiamo più, non mangiamo più. Ma siamo vivi. Quando me la sentirò la prima cosa che voglio fare è portare una corona di fiori a Corso Francia. Gaia e Camilla avevano solo pochi anni meno di me. È un dramma per tutti».

Gaia e Camilla, il terzo ragazzo sul Suv di Genovese: «Sono stato io a gridare: fermiamoci». Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Un testimone: «Una delle due vittime ha detto: corriamo, dai che frenano». Esclusa l'ipotesi di una bravata, le due ragazze potrebbero aver tagliato la strada per fare prima. Dal gioco del semaforo (smentito) al telefonino di Genovese: cosa non è chiaro. «Fermiamoci, fermiamoci!». Sul Suv con l’anteriore distrutto che, dopo l’impatto, ha percorso un tratto di corso Francia prima di imboccare la rampa di via del Foro Italico in direzione Parioli, oltre a Pietro Genovese e Davide Acampora c’era anche un altro ragazzo, seduto dietro. È Tommaso Edoardo Luswergh Fornari, 20 anni, studente universitario. È stato lui ad aver gridato all’amico al volante, figlio del regista Paolo Genovese, di bloccare subito la corsa della Renault Koleos con la quale aveva appena investito Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli. L’auto (intestata a una società) aveva riportato gravi danni — secondo alcuni aveva perfino il cofano alzato — ma ha continuato ad avanzare fino a quando si è bloccata, fermata da un guasto o dal sistema di autoprotezione attivato dalla centralina elettronica. Una conseguenza comunque collegata all’incidente appena avvenuto, anche se a stabilirlo sarà la perizia tecnica sulla vettura sequestrata. Fornari non avrebbe visto molto, ma si è messo a urlare. Voleva che gli amici, sotto choc per quello che era appena successo, si fermassero subito. «Non ho assistito direttamente all’incidente, guardavo in basso perché stavo chattando con il telefonino — ha raccontato il ragazzo subito dopo l’incidente —. Però ho sentito il botto, lo schianto. Ho capito che era successo qualcosa di grave. Mi sono messo a gridare. Dovevamo fermarci. Poi non sono sceso dalla macchina, avevo paura di guardare verso la strada. Anche Pietro è rimasto con me, Davide invece è andato a vedere». Attimi drammatici, ora al centro delle indagini dei vigili urbani, in attesa dell’interrogatorio di garanzia al quale il prossimo 2 gennaio Genovese sarà sottoposto dal gip Bernadette Nicotra che lo ha mandato ai domiciliari per omicidio stradale plurimo. La posizione del 20enne, risultato positivo all’alcol — tasso alcolemico tre volte sopra il limite di legge (1,4) — e «non negativo a cocaina e cannabinoidi», come ha già sottolineato lo stesso giudice, potrebbe aggravarsi nel caso dovessero emergere indizi che possano confermare un’ipotesi di tentativo di fuga dal luogo dell’incidente. Fra i personaggi chiave della tragica notte del 21 dicembre scorso c’è però anche un testimone che a quell’ora aspettava l’autobus alla fermata sotto il viadotto dell’Olimpica, sempre su corso Francia. Il giovane è stato il primo a telefonare al soccorso pubblico per chiedere aiuto, perché le ragazze riverse sull’asfalto perdevano molto sangue. È una delle persone che hanno assistito all’incidente. Ma c’è di più: il testimone ha anche riferito di aver udito prima dell’investimento una delle 16enni gridare: «Corriamo, dai che si fermano!», forse dopo che il conducente di una Smart aveva davvero arrestato la marcia sulla corsia di destra di corso Francia per farle passare. Poi però è sopraggiunto il Suv di Genovese — «a gran velocità», per altri testimoni — che le ha colpite in pieno. Sempre secondo il secondo testimone, Gaia e Camilla si trovavano a poche decine di metri da lui, alla sua sinistra. Era buio, a piedi non c’era quasi nessuno, pioveva. Le ragazze tornavano a casa dopo essere state con amici a Ponte Milvio, potrebbero aver tagliato per fare prima — è questa una delle principali ipotesi investigative e un’abitudine sbagliata ammessa da alcuni giovani che frequentano la zona — visto che erano in ritardo rispetto all’orario previsto per il rientro. Quindi nessun gioco o bravata da parte loro nell’attraversare l’arteria ad alto scorrimento, «con l’impianto pedonale diventato rosso da pochissimi istanti», come ha peraltro raccontato un altro testimone in auto. Versione confermata dall’avvocato Cesare Piraino, legale della famiglia Romagnoli, per il quale «è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l’abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato. Stiamo svolgendo le nostre indagini per accertare la verità e abbiamo contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione degli eventi complessi per avere una ricostruzione scientifica dell’incidente».

Da ilmessaggero.it il 29 dicembre 2019. I genitori di Camilla, travolta e uccisa a Corso Francia, a Roma, insieme all'amica Gaia dal suv guidato da Pietro Genovese, sottolineano tramite il proprio legale che «è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l'abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato». Il riferimento è alla videodenuncia pubblicata dal Messaggero in cui si vedono due ragazzini attraversare la pericolosa arteria romana tra le auto che sfrecciano e alle parole di un altro genitore che al nostro giornale ha parlato di questa folle abitudine diffusa tra i giovani. L'avvocato Cesare Piraino, legale dei genitori di Camilla Romagnoli, continua: «Sono profondamente rattristato, prima che come difensore dei signori Romagnoli, come cittadino, per gli interventi in libertà di persone solo incuriosite dal fatto drammatico che ha gettato nella tragedia tre famiglie. Attendiamo con fiducia l'esito delle indagini da parte della Procura della Repubblica». Il legale, infine, precisa «che mai la signora Romagnoli si è espressa nei termini di cui si è letto in qualche notizia di stampa relativamente agli arresti domiciliari di Pietro Genovese; anzi, sin dal giorno dopo il drammatico incidente, la famiglia Romagnoli e in particolare la signora Romagnoli, ha tenuto a ribadire più volte che loro interesse è solo la giustizia e mai la vendetta». «Stiamo svolgendo, compatibilmente con i nostri poteri e nei limiti consentiti, nostre indagini difensive agli esclusivi fini dell'accertamento pieno della verità. Abbiamo anche contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione scientifica degli eventi complessi e drammatici, al fine di avere, quando sarà possibile, una ricostruzione, appunto, scientifica dell'incidente». 

“Davide ha urlato: Pietro fermati. Poi lo schianto, sembrava un automa”.  Il suv di Pietro Genovese, che ha travolto a Corso Francia Camilla Romnagnoli e Gaia von Freymann. Il racconto dei due giovani a bordo dell’auto di Genovese, l’investitore che ha travolto Gaia e Camilla. “Ma non poteva evitarle, sono sbucate all’improvviso. Dopo l’urto ha continuato a guidare per 200 metri”. Federica Angeli e Francesco Salvatore il 29 dicembre 2019 su La Repubblica. "Fermati, ferma: ho sentito gridare questo quasi nello stesso istante in cui ho udito un fortissimo botto alla macchina. Pietro ha continuato a guidare per altri duecento metri circa ma aveva cambiato faccia. Era come un autonoma, non sembrava in sé, anzi sembrava proprio non capire più niente". Sono Tommaso Edoardo Fornari (il passeggero seduto sul sedile posteriore dell'auto di Pietro Genovese) e Davide Acampora (seduto a sul sedile accanto a quello del guidatore) a ricostruire i drammatici momenti che hanno preceduto la morte di Gaia e Camilla, le sedicenni romane travolte e uccise su corso Francia la notte del 22 dicembre mentre attraversavano la strada. Il loro ricordo a caldo è stato trascritto in un verbale che i vigili hanno consegnato alla procura di Roma che ha fissato l'interrogatorio dei due amici di Pietro il giorno dopo il suo. Il ventenne accusato di duplice omicidio stradale con l'aggravante della guida in ebrezza alcolica sarà interrogato il 2 gennaio, i suoi due amici il 3. "Era impossibile evitare quello che è successo - ha detto ai vigili Acampora subito dopo l'incidente - le due povere ragazze sono sbucate all'improvviso. Venivamo da un semaforo verde, non andavamo fortissimo ma avevamo preso velocità quando stavamo all'altezza del semaforo successivo. Eravamo sulla corsia di sorpasso, alla nostra destra ho notato un'auto che ha rallentato, senza capirne il motivo e subito dopo correvano davanti a noi le due ragazze". A quanto dichiarato dall'altro ventenne, Fornari, l'amico che era davanti ha gridato a Pietro Genovese di fermarsi. Lui si era accorto, seppur all'ultimo minuto, delle giovani davanti a loro. Ma è stata questione di un attimo, non di più. Quegli istanti che cambiamo il destino di cinque persone ma che sono davvero frazioni di secondi. Indimenticabili e indelebili, ma pur sempre frazioni di secondi. A credere a questa ricostruzione è stata la gip Bernadette Nicotra che nelle 9 pagine di ordinanza con cui ha disposto i domiciliari di Genovese ha sottolineato "la condotta vietata e incautamente spericolata" di Gaia e Camilla che attraversando il quel modo, a semaforo rosso, di notte e con la pioggia hanno "così concorso alla causazione del sinistro mortale". Un concorso di colpa che stanno tentando di evitare, comprensibilmente, i legali dei genitori di Gaia e Camilla, tanto che a quanto ricostruito da loro (ci sono testimoni pronti a dirlo) le due studentesse sedicenni erano sulle strisce pedonali. Circostanza che, a onor del vero, la giudice ha lasciato in forma dubitativa nell'ordinanza: le ragazze "attraversavano presumibilmente senza far uso dell'attraversamento pedonale" ma "la circostanza non risulta accertata". Sembra invece pacifico che il semaforo era verde per il conducente del suv. Il difensore della famiglia di Camilla Romagnoli, l'avvocato Cesare Piraino ribadisce la discrepanza sull'attraversamento sulle strisce pedonali fra quanto detto dai testimoni ascoltati dagli agenti della polizia municipale. Due persone sostengono che Camilla e Gaia fossero fuori dalle strisce pedonali; una terza che correvano sulle zebre; e una quarta non ha specificato. Poi ci sono quelli che sono certi di averle viste correre mano nella mano sulle strisce e che ora saranno presi a verbale. Per tentare di ricostruire la verità è stato disposto il sequestro delle telecamere di un ristorante che si trova nel punto esatto dell'impatto. L'avvocato Giulia Bongiorno, difensore dei genitori di Gaia Von Freymann, ha nominato un consulente per iniziare indagini difensive.

Alessia Marani per il Messaggero il 28 dicembre 2019. «Lo chiamano il giochino del semaforo rosso e quando mia figlia e la sua amichetta me lo hanno spiegato dopo la morte di Camilla e Gaia, mi sono venuti i brividi. Si tratta di attraversare le due carreggiate di Corso Francia veloci mentre per i pedoni è rosso e per le auto che sfrecciano è verde, sfidando la sorte. Un gioco folle del sabato sera e non solo, in voga tra i giovanissimi di Ponte Milvio. Lo fanno per farsi grandi riprendendosi anche con gli smartphone, creando storie sui social che poi si cancellano nel giro delle 24 ore». A rivelarlo è M. L., 43 anni, un piccolo imprenditore del Labaro, quartiere a nord di Roma, le cui figlie, una sedicenne e l’altra ventenne, il sabato sera frequentano la zona dei locali non distante da Corso Francia. La più piccola è in contatto con la comitiva delle due liceali travolte e uccise una settimana esatta fa mentre attraversavano lo stradone con il semaforo pedonale rosso. L’uomo ha un nodo alla gola mentre parla ma lo fa con coscienza, per mettere sul chi-va-là gli altri genitori, per esortarli a seguire ancora meglio i figli e impedire loro che commettano «qualche altra bravata tanto pericolosa fino alla morte». «Quando domenica mattina - dice l’imprenditore - appresa le terribile notizia ho chiesto a mia figlia più piccola e a una sua amichetta che la sera prima erano state a Ponte Milvio “ma com’è possibile che sia successa una disgrazia del genere?” loro non erano affatto stupite. Anzi, mi hanno risposto: «Ma è il giochino, lo fanno tutti”». Il genitore non sa dire se anche Camilla e Gaia si fossero lanciate su Corso Francia per sfidare la sorte l’altro sabato notte quando il Suv le ha travolte, ma non si sente di escluderlo del tutto. «Quando gliel’ho chiesto a mia figlia, lei mi ha detto che era già andata via da Ponte Milvio a quell’ora, ma ha aggiunto che “lo fanno tutti, sempre”.

Incidente Roma, il regista Paolo Genovese aveva chiesto di incontrare i genitori di Gaia e Camilla. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. Ventiquattr’ore dopo l’incidente di corso Francia, a Roma, il regista Paolo Genovese ha sentito il bisogno di incontrare i genitori delle due ragazze. Un gesto di umanità per il quale il regista si è consigliato con il difensore del figlio Pietro, l’avvocato Gianluca Tognozzi. Nel timore di irrompere goffamente nelle vite straziate dei von Freymann e dei Romagnoli, genitori di Gaia e Camilla, ha chiesto al legale quale fosse il modo migliore per far sentire la propria vicinanza alle famiglie. La conferma di questa circostanza viene ora da entrambi gli avvocati, quello che assiste i Romagnoli, Cesare Piraino, e l’altro, Giovanni Maria Giaquinto, che da poco ha rinunciato ad assistere la mamma di Gaia (al suo posto è subentrata l’ex ministra Giulia Bongiorno): «Il regista — spiega Piraino — avrebbe voluto un incontro ma emotivamente non era il momento adatto, abbiamo risposto che una lettera sarebbe stata la benvenuta». L’incontro, forse, avverrà dopo i funerali. L’interrogatorio di Pietro Genovese — agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio stradale — è stato fissato per il 2 gennaio. In attesa dei nuovi passi dell’inchiesta trapela la volontà della famiglia von Freymann di approfondire alcuni aspetti della dinamica dell’impatto, svolgendo indagini di parte. Tutti i testimoni già ascoltati dalla polizia municipale hanno raccontato che le due ragazze hanno attraversato con il semaforo rosso e non erano sulle strisce pedonali. Su questo aspetto le dichiarazioni sono convergenti e sono confluite nell’ordinanza di misure cautelari: «Le ragazze — dice Jacopo Daliana — hanno attraversato in mezzo alla strada, hanno scavalcato il guard rail cercando di andare verso via Flaminia». Parole che trovano conferma nella ricostruzione di Orlando Townshend: «Alle ore 0.15 circa mi trovavo a bordo della mia macchina, al semaforo di Corso Francia in direzione Flaminia nuova, in corrispondenza del supermercato Conad. Mentre ero fermo al semaforo rosso, notavo due ragazze attraversare la strada in maniera frettolosa incuranti del semaforo rosso quando, ad un tratto, vedevo un’auto di colore grigio che correndo a gran velocità travolgeva le due ragazze». Le famiglie delle vittime non credono a un comportamento incauto delle ragazze. Ma d’accordo con gli altri due, c’è un terzo passante, David Mosche Rubin: «All’altezza dello svincolo della tangenziale notavo due ragazze che attraversavano la corsia in maniera frettolosa senza avvalersi delle strisce pedonali». Per rispondere a tutte le domande che riguardano la dinamica dell’incidente — velocità dell’auto, punto di impatto, attraversamento della strada — i magistrati Roberto Felici e Nunzia D’Elia, hanno intenzione di incaricare un consulente e intanto si preparano all’interrogatorio di garanzia dell’indagato. «Pietro Genovese vuole parlare ma è ancora sotto choc — spiega l’avvocato Tognozzi — decideremo quel giorno se sarà nelle condizioni di rispondere alle domande del gip».

Dagospia il 28 dicembre 2019. Ultimi ciak per “Supereroi”, il nuovo film di Paolo Genovese con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Greta Scarano, Vinicio Marchioni, Linda Caridi ed Elena Sofia Ricci. Il nuovo film del regista di “Perfetti Sconosciuti”, venduto in oltre 40 paesi e con 25 remake in lavorazione, sarà distribuito all’estero da True Colours con il titolo di “Superheroes”. È la storia di una giovane coppia (Borghi e Trinca) che si innamora e lotta per tenere viva la relazione tra tenerezze, discussioni, bugie e segreti. Un dramedy sentimentale sul tempo che passa e gli effetti sulle coppie, che parte da un interrogativo: “Quanti superpoteri deve avere una coppia per resistere al tempo che passa?”. Le riprese del film sono iniziate il 5 settembre scorso. “Supereroi” uscirà nella seconda metà del 2020 distribuito da Medusa che produce con Lotus Production, una società di Leone Film Group.

I genitori delle vittime «La giustizia va avanti è una buona notizia, ma abbiamo perso tutto». Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Caccia. La notizia dell’arresto di Pietro Genovese si sparge nella chiesa del Preziosissimo Sangue, alla Collina Fleming, alle sette di sera, quando è appena finita la veglia di preghiera per Gaia e Camilla. La mamma di Gaia, la signora Gabriella, circondata dall’affetto di tanta gente, ha come un sussulto: «Gli hanno dato i domiciliari? Meritava sicuramente qualcosa di più, ci ha portato via due angeli, comunque è una buona notizia...». La signora Gabriella dice pure che in tutti questi giorni la famiglia dell’investitore non si è mai fatta viva con lei: «Ma va bene così — taglia corto con dignità — quel ragazzo rimane un disperato». Anche il papà di Camilla, il signor Marino, riesce a dire qualcosa mentre la moglie Cristina, la mamma di Camilla, piange tra le braccia dei familiari: «Non mi cambia niente che l’abbiano arrestato — dice Marino Romagnoli —. La verità è che Camilla aveva ancora tanto da darmi e invece adesso siamo ridotti così, non m’importa niente lui, il mio cuore è tutto con Camilla e con Gaia, cosa posso dire? La giustizia va avanti...». La chiesa del Preziosissimo Sangue, dove questa mattina alle 10. 30, verranno celebrati i funerali congiunti di Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, è gremita. Dentro ci sono almeno 300 persone. Il coro canta: «Tu sei bellezza, tu sei purezza, misericordia Gesù». Ci sono tutti i compagni di classe delle due ragazze, gli studenti della Terza C del liceo linguistico De Sanctis. Quando sanno dell’arresto di Genovese, Benedetta e Isabella, le amiche del cuore di Gaia e Camilla, scoppiano a piangere. Sembra, il loro, un pianto di rabbia mista a consolazione. É una notizia che non s’aspettavano: sono arrivate in chiesa dopo aver finito di preparare i due cartelloni, con le foto e le firme di tutta la classe, che questa mattina sistemeranno accanto alle bare per poi lasciarli in ricordo ai genitori delle due amiche di scuola. «La tua risata che riempiva la stanza ora ci rimbomba nel cuore», è la dedica per Gaia. Quella per Camilla recita così: «E voglio ricordarti come’eri, pensare che ancora sorridi». Hanno riempito i cartelloni di foto fatte insieme, di pensieri: «Dolcezza infinita», «Per sempre con noi nei nostri cuori». Don Marco Zaccaretti, il viceparroco, durante la veglia invoca la Madonna: «Anche tu Maria perdesti un figlio sulla Croce, ora intervieni, porta subito Gaia e Camilla in Paradiso, le loro mamme sono sconvolte, la loro fede sta vacillando. Aiutale, Maria, a ritrovare il dono della fede». Oggi, per i funerali, le due famiglie hanno chiesto rispetto: non vogliono in chiesa telecamere nè autorità. Le due ragazze, dice don Marco, saranno sepolte nel cimitero di Prima Porta. Al rientro a scuola, dopo la Befana, ci saranno degli psicologi a supportare i ragazzi della Terza C. «Siamo rimasti in 17, 6 maschi e 11 femmine», dicono Benedetta e Isabella che da domenica scorsa passano la maggior parte del tempo a Corso Francia vicino al luogo dell’incidente, dove fiori e peluche non si contano più. Per l’ultimo dell’anno i compagni della Terza C hanno deciso una cosa: lo passeranno tutti insieme a casa di Cristina, una di loro, alla Collina Fleming. Perché questo, più di ogni altro, è il momento di stare uniti, di non perdersi, di darsi una mano per andare avanti.

L'addio a Gaia e Camilla, parla l'amica Cecilia: "Anche io ho sfidato la sorte su quella strada". La testimonianza di una compagna di scuola: "Tanti ragazzi attraversano Corso Francia fuori dalle strisce rischiando la vita, pensi sempre di farcela". Maria Novella De Luca il 28 dicembre 2019 su La Repubblica. "Vado lì ogni giorno. Accanto a quel guardrail pieno di fiori. Mi siedo e penso a Gaia. Alla mia amica che non c'è più. Ai nostri giorni insieme. E rifletto su quanto siamo incauti noi ragazzi. Perché sì, anche io ho attraversato Corso Francia di notte, correndo, fuori dalle strisce pedonali e con il semaforo verde per le auto. Rischiando la vita". Cecilia ha sedici anni, l'identica età di Gaia Von Freymann, amiche fin da piccole, poi compagne di classe alle scuole medie: "Andavamo alla Nitti, sempre qui, al Fleming". Poi Gaia aveva scelto il liceo linguistico e Cecilia, invece, lo scientifico, al liceo "Farnesina", poco lontano, stesso quartiere, stessi luoghi d'incontro, stesse serate nella movida di Ponte Milvio. Cecilia si ferma davanti alla chiesa, alla fine del funerale. È alta, bella, semplice. "Vorrei che fosse soltanto un brutto sogno", dice.

Cecilia, quindi è vero, attraversare in quel punto così pericoloso è un'abitudine?

"Sì, purtroppo. L'ho fatto anche io. Prendi la rincorsa, scavalchi il guardrail e corri più veloce che puoi dall'altra parte".

Perché? Pochi metri più avanti c'è il semaforo, le strisce pedonali.

"Forse perché abbiamo sedici anni? Per fare più in fretta a raggiungere i tuoi amici, per non fare tardi sulla via del ritorno a casa. O forse e lo so che è stupido, perché è divertente".

Nessuna paura di finire sotto una macchina?

"Pensi sempre che se guardi bene a destra e a sinistra, e corri forte, dall'altra parte ci arriverai".

È una sfida?

"No, è una leggerezza, un azzardo. Finora nessuno dei miei amici aveva avuto un incidente".

Però Gaia e Camilla sono morte.

"Una catena di disgrazie. Che ha coinvolto tre famiglie. Anche quella di Pietro. È vero andava veloce, ma pioveva a dirotto e nessuno su Corso Francia rispetta i limiti di velocità. Noi che abitiamo in questo quartiere lo sappiamo".

Dopo questa tragedia cambierà qualcosa?

"Lo spero. Non si può morire così. Quando quella mattina mia madre mi ha svegliato, dicendomi che Gaia era morta travolta da un'auto su Corso Francia, ho capito subito dove era avvenuto l'incidente. Ho tremato. Sarebbe potuto accadere a me. Vorrei che nessuno togliesse più i fiori e gli striscioni da quel guardarail".

C'è scritto: "Ciao angeli".

"Oggi Gaia e Camilla sono due angeli. Ma è assurdo che debbano morire due ragazze, per insegnare a noi adolescenti a non rischiare la vita".

Forse, però, se Pietro Genovese non fosse andato così veloce...

"Forse Gaia e Camilla si sarebbero salvate. Erano due ragazze serie, sagge, mi chiedo perché non sono andate ad attraversare sulle strisce. E comunque tutti continuano a correre. Il giorno di Natale, mentre ero lì pensando a Gaia e Camilla, una moto ha fatto un'impennata davanti ai miei occhi".

Come vivi il tuo dolore?

"Resterò segnata per sempre, lo so. Con Gaia ho passato anni e anni in classe, nel banco accanto. Continuavamo a uscire insieme. Non è giusto morire a sedici anni, con tutto il futuro davanti. Camilla e Gaia non ci sono più e Pietro avrà il rimorso per sempre. Quella notte sono state distrutte tre vite".

L'ultimo giochino del semaforo: "Correre tra le auto che sfrecciano". Il racconto choc di un padre: "Lo fanno tutti. I ragazzini sfidano la sorte pur di apparire grandi e postare i video sui social". Luca Sablone, Sabato 28/12/2019, su Il Giornale. "Giochino del semaforo". Si chiama così l'ultima sfida che sta spopolando tra gli adolescenti: consiste nell'attraversare "le due carreggiate di Corso Francia veloci mentre per i pedoni è rosso e per le auto che sfrecciano è verde, sfidando la sorte". Una vera e propria follia, in auge tra i ragazzini che rischiano la morte pur di "farsi grandi riprendendosi anche con gli smartphone, creando storie sui social che poi si cancellano nel giro delle 24 ore". A svelarlo è M.L., padre di due figlie di 16 e 20 anni. Quest'ultima - che ha studiato in un liceo di zona - avrebbe confermato l'esistenza di quella che sarebbe "una specie di insensata roulette russa praticata anche di giorno da interi gruppo di ragazzini". All'uomo sono venuti i brividi quando ha appreso la notizia della tragedia che ha coinvolto Camilla e Gaia, ma a rendere il fatto ancora più scioccante è che le sue due figlie non erano affatto sorprese da quanto accaduto: "Anzi, mi hanno risposto: "Ma è il giochino, lo fanno tutti". Io sono rimasto sconvolto da queste parole". Perciò il 43enne, intervistato da Il Messaggero, ha deciso di uscire allo scoperto per "mettere in guardia tutti gli altri genitori, perché i nostri ragazzi adolescenti ci guardano come una sorta di cerberi, dei nemici e spesso siamo gli ultimi a sapere le cose".

"Bravate fino alla morte". Non sarebbe dunque un episodio singolare. Recentemente il passeggero di un auto, che stava passando su Corso Francia a velocità moderata, ha filmato due ragazzini sui 17 anni che - subito dopo aver scavalcato il guard rail centrale - corrono tra le auto che sfrecciano. Il tutto mentre le strisce pedonali sono poco distanti. M.L. mentre parla ha un nodo alla gola, ma decide di continuare a farlo per responsabilizzare anche i genitori: il fine è quello di impedire ai proprio figli di commettere "qualche altra bravata tanto pericolosa fino alla morte". Il padre si è però messo anche nei panni di Pietro Genovese: "È passato con il verde e ha la vita rovinata comunque. Come a lui potrebbe capitare ad altri di vedersi sbucare ragazzini che attraversano la strada correndo, magari solo per gioco". L'uomo ha puntato il dito pure contro i gestori dei locali, che spesso servono da bere alcolici anche ai minorenni: "Sono tanti, mia figlia mi ha spiegato che sui gruppi social delle comitive girava voce che quella sera in pizzeria anche al gruppo di Gaia e Camilla avessero dato alcolici. Se così fosse, è gravissimo".

Incidente Corso Francia: che cos’è il giochino del semaforo rosso. Laura Pellegrini il 28/12/2019 su Notizie.it. Tra i ragazzi che frequentano la zona di movida di Ponte Milvio a Roma è in voga un “giochino del semaforo rosso” che potrebbe aver causato la morte di Gaia e Camilla. Infatti, all’indomani dei funerali delle due giovani 16ennni amiche per la pelle, è emerso un nuovo dettaglio. Un imprenditore intervistato da il Messaggero, infatti, ha spiegato come funziona questo presunti gioco. I ragazzi dovrebbero attraversare la strada correndo con il semaforo rosso mentre le macchine sfrecciano a grande velocità. Mentre si cimentano in quest’impresa alquanto pericolosa, inoltre, i giovani vengono filmati. Il video finisce infine sui social. Un imprenditore di 43 anni intervistato dal Messaggero ha rivelato un dettaglio che si nasconde dietro all’incidente di Corso Francia. “Lo chiamano il giochino del semaforo rosso – ha spiegato – e quando mia figlia e la sua amichetta me lo hanno raccontato dopo la morte di Camilla e Gaia, mi sono venuti i brividi”. Un gioco davvero pericoloso: “Si tratta di attraversare le due carreggiate di Corso Francia veloci – ha proseguito ancora – mentre per i pedoni è rosso e per le auto che sfrecciano è verde, sfidando la sorte. Un gioco folle del sabato sera e non solo, in voga tra i giovanissimi di Ponte Milvio. Lo fanno per farsi grandi riprendendosi anche con gli smartphone, creando storie sui social che poi si cancellano nel giro delle 24 ore”. Anche Cecilia, un’amica di Gaia, ha confessato di divertirsi con quel gioco pericoloso: “Sì, anche io ho attraversato Corso Francia di notte, correndo, fuori dalle strisce pedonali e con il semaforo verde per le auto. Rischiando la vita”. Come si svolge concretamente? “Prendi la rincorsa, scavalchi il guardrail e corri più veloce che puoi dall’altra parte” ha raccontato la 16enne. I ragazzi sanno che è pericoloso, ma lo fanno forse perché è stupido (come dice Cecilia), forse perché è divertente, o forse perché hanno solo 16 anni. “Pensi sempre che se guardi bene a destra e a sinistra e corri forte dall’altra parte ci arriverai” ha aggiunto ancora la ragazza. “Finora nessuno dei miei amici aveva avuto un incidente”.

Faccio un appello agli amici: aiutateci, dissuadete i vostri amici quando stanno per fare una sciocchezza che può costare la vita. Alberto Pellai il 26 dicembre 2019 su Famiglia Cristiana. L’incidente di sabato notte che ha travolto Gaia e Camilla, le due sedicenni romane, rimaste uccise su Corso Francia a Roma, fa entrare noi genitori in uno stato di angoscia che non ha confini. Ogni volta che vediamo figli di altri genitori, ai quali il destino riserva una morte così atroce e assurda, non possiamo non sentirci chiamati in causa ed empatizzare immediatamente con il loro dolore infinito. Se non conosci quello strazio che ti uccide il cuore, quando muore un figlio, puoi solo immaginare quanto tremendo possa essere. Chi lo vive, dice che si fa persino fatica a trovare la forza di continuare a respirare. Ci sentiamo sconvolti perché sappiamo che potrebbe capitare ai nostri figli, in ogni istante. E’ questo il primo pensiero che ci viene in mente. E allora leggiamo senza soluzione di continuità, le notizie che i media ci forniscono per capire se davvero è tutta colpa del destino, oppure se c’è qualche elemento cui possiamo aggrapparci per dire ai nostri figli: “Fate attenzione”, per fornire loro competenze che gli evitino (e ci evitino) l’eventualità più tremenda che la vita può far accadere ad una famiglia: perdere un figlio. La vicenda di sabato notte a Roma è piena di elementi prevenibili, su cui però tutti i protagonisti sono andati via “scialli” (come dicono loro). Le ragazze sono state travolte, perché (sembra, in base a quanto riportato dai media) hanno attraversato col semaforo rosso, in una notte buia e piena di pioggia su una strada caratterizzata dall’alta velocità delle auto che la percorrono. Il ragazzo che le ha travolte era un neopatentato che (sembra, sempre in base a quanto riportato dai media) si trovava al volante dopo aver consumato bevande alcoliche e sostanze ad azione psicotropa. La responsabilità del guidatore perciò sembra accertata e gravissima. La leggerezza con cui le due giovani vittime hanno affrontato un attraversamento stradale sembra essere un co-fattore di non trascurabile importanza che ha contribuito a questa immane tragedia. E’ chiaro che se adesso i protagonisti potessero tornare indietro nel tempo, ognuno di loro rivivrebbe gli eventi del proprio sabato sera in modo completamente differente. Ma il destino quasi mai offre una seconda opportunità. Almeno non in questo caso. Sono più che certo che i genitori dei tre giovanissimi coinvolti abbiano provato nel corso della loro crescita a seminare nei figli tutte quelle informazioni preventive che sabato sera loro hanno sistematicamente disatteso. Da quando un bambino ha 3 anni gli insegniamo a non attraversare col rosso, a fare attenzione quando si muove su una strada affollata. Non c’è mamma o papà che non lo faccia. E quando poi i nostri figli diventano maggiorenni, nessun adulto mette nelle loro mani le chiavi di un’auto, senza aver prima fatto un milione di raccomandazioni. Purtroppo i nostri figli non fanno quello che “sanno”. Il fatto che noi adulti gli diciamo le cose giuste, non è garanzia che loro poi le mettano in atto. Penso che la vera rivoluzione possa avvenire solo se, all’interno del loro gruppo dei pari, ci sono altri amici e amiche che sanno rinforzare il messaggio preventivo promosso in famiglia. Che sanno diventare veri e propri “educatori tra pari”, amplificando il ruolo educativo di noi adulti, che senza tregua e, a volte, con ansia e preoccupazione, continuiamo a fargli ascoltare dalle nostra voce tutto quello che vorremmo fossero in grado di mettere in atto, quando si muovono nel mondo. Per essere educatori tra pari, bisogna credere che la prevenzione è un valore, che la vita è un valore, che la leggerezza di un istante non è tollerabile, nemmeno, appunto, per un solo istante. Bisogna rimanere concentrati su se stessi e sugli altri, bisogna saper alzare lo sguardo su tutto ciò che ci circonda, bisogna avere “vagonate” di quelle che Howard Gardner, definisce “intelligenza intrapersonale” (conosci te stesso) e “intelligenza interpersonale” (conosci gli altri), i due ingredienti cruciali per il successo delle nostre vite. Purtroppo i ragazzi sono “fisiologicamente fragili” rispetto a tutte queste dimensioni. Ma sono anche “culturalmente fragili” rispetto a ciò, perché non sposano i principi della prevenzione, non alzano lo sguardo e sono spesso incitati a sposare fin da giovanissimi la cultura del “chissenefrega”. La sentono decantata in ogni dove. Ma quella sorta di menefreghismo e nichilismo in cui vivono immersi è ciò che poi all’improvviso, genera risvegli terribili. Come quello che abbiamo vissuto tutti, domenica mattina, quando i media hanno cominciato a parlarci di Camilla, Gaia e Pietro. Io metto i loro tre nomi, uno a fianco dell’altro. Anche se Pietro è vivo, sono più che certo che i suoi genitori soffrono dello stesso dolore di quelli di Camilla e Gaia. Mi unisco – e penso di interpretare lo spirito di tutte le mamme e i papà che leggono – anzi, ci uniamo al loro fianco. E dentro a quel dolore che sembra non avere confine, piangiamo con loro. Speriamo che i nostri figli, guardando le nostre lacrime, comprendano che, quando gli diciamo cosa è bene fare e perché, non lo facciamo perché siamo spinti dal desiderio di essere rompiscatole. E speriamo che imparino anche loro ad essere un po’ più “rompiscatole” con se stessi e con i loro amici, ogni volta che, nella leggerezza, assumono un rischio – grande o piccolo che sia – che può valere una vita.

Gaia e Camilla, dal gioco del semaforo (smentito) al telefonino di Genovese: cosa sappiamo. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 da Corriere.it. È passata una settimana dalla morte di Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, le studentesse sedicenni del liceo De Sanctis, alla Collina Fleming, travolte e uccise dal suv guidato da Pietro Genovese, figlio 20enne del regista Paolo, ora agli arresti domiciliari per omicidio stradale plurimo. Il ragazzo, al quale è stato rilevato un tasso alcolemico di 1.4 — tre volte superiore ai limiti di legge — e la positività agli stupefacenti, sarà sottoposto il prossimo 2 gennaio all’interrogatorio di garanzia davanti al gip. Una vicenda che a Roma e non solo, dopo la storia dell’omicidio di Luca Sacchi all’Appio Latino, con la posizione della fidanzata Anastasiya Kylemnyk ancora al vaglio di chi indaga, ha impressionato l’opinione pubblica per il coinvolgimento anche in questo caso di giovanissimi.

Ma cosa si sa di questa vicenda e cosa ancora non è chiaro?

I fatti. Alle 24.30 della notte del 21 dicembre scorso Pietro Genovese sta riaccompagnando a casa i suoi amici e coetanei Davide Acampora e Tommaso Edoardo Luswergh dopo una cena con altri ragazzi. È al volante di una Renault Koleos - per la quale è abilitato alla guida - quando a corso Francia, poco prima del cavalcavia di via del Foro Italico, investe le due ragazze. Gaia e Camilla tornavano invece da ponte Milvio dove avevano trascorso la serata con amici. Pioveva, la visibilità non era ottimale. L’impatto è devastante: colpite in pieno dal suv, le giovani vengono proiettate a decine di metri. Inutili i soccorsi. Genovese percorre ancora 250 metri, poi il suv si ferma da solo, perché fuori uso, sulla rampa che conduce verso via del Foro Italico, direzione Parioli. Le analisi alle quali viene sottoposto al Policlinico Umberto I evidenziano presenza di alcol nel sangue, peraltro già accertato dai vigili urbani che hanno parlato di «alito vinoso» al momento del loro arrivo sul luogo dell’incidente. Sei giorni più tardi, il gip Bernadette Nicotra accoglie la richiesta di arresto del pm Roberto Felici e dispone i domiciliari. Sulla decisione pesano anche i precedenti amministrativi del ragazzo: la patente sospesa a ottobre per trenta giorni dopo essere stato sorpreso con dosi di hashish, ma anche altre due segnalazioni alla guida.

Le versioni. Fin dall’inizio Genovese ha riferito di non aver visto le ragazze e di non averle potute evitare. Ricostruzione confermata dal suo amico Acampora, che gli sedeva accanto sul suv. Dagli accertamenti dei vigili urbani, Gruppo Parioli, è emerso che prima dell’investimento il conducente di un’altra vettura si era invece fermato per far passare Gaia e Camilla già in mezzo alla strada: le giovani avevano cominciato ad attraversare nonostante il semaforo pedonale fosse sul rosso. Non è chiaro a che altezza però: per un testimone si trovavano sulle strisce pedonali, per altri invece all’altezza della rampa per via del Foro Italico (ma in direzione stadio Olimpico), dopo aver scavalcato un basso guard rail. Per il gip Nicotra da una parte le giovani hanno tenuto «una condotta vietata, incautamente spericolata, così concorrendo al sinistro stradale», ma dall’altra Genovese - al quale il gip non contesta comunque l’assunzione di stupefacenti prima di essersi messo al volante - «ha la responsabilità prevalente nella causazione dell’evento stradale mortale. Il giovane ha percorso il tratto interessato omettendo colposamente di osservare la dovuta diligenza e la comune prudenza che si richiede a ogni automobilista». Senza contare che fra i testimoni diretti dell’investimento c’è chi ha riferito che il suv viaggiava «a gran velocità», «verosimilmente di gran lunga superiore al limite massimo consentito (50 km/h)», sottolinea ancora il giudice. In attesa dell’analisi del telefonino sequestrato a Genovese e delle perizie tecniche sull’auto, si indaga anche sul motivo che potrebbe aver spinto la ragazze a non attraversare sulle strisce e con il semaforo verde un’arteria ad alto scorrimento, dove i residenti da tempo richiedono l’installazione di autovelox e dissuasori. Sembra, ma serviranno altri accertamenti, che le ragazze abbiano tagliato a piedi passando sotto la rampa per attraversare corso Francia in direzione della Collina Fleming, dove abitavano, senza arrivare fino alle strisce pedonali. Le indagini su questo punto sono però tuttora in corso. Intanto l’avvocato Cesare Piraino, legale della famiglia Romagnoli sottolinea: «Teniamo a dire che è falso che il gruppo degli amici di Camilla avesse l’abitudine di svolgere quel fantomatico gioco del semaforo rosso di cui qualcuno ha parlato. Abbiamo anche contattato uno dei periti italiani più prestigiosi nella ricostruzione scientifica degli eventi complessi e drammatici, al fine di avere, quando sarà possibile, una ricostruzione, appunto, scientifica del drammatico incidente».

Liana Milella per la Repubblica il 29 dicembre 2019. «C'è solo un' esigenza, fare il processo il più in fretta possibile. Ma ora non si può anticipare la condanna ricorrendo al carcere». È questo il parere del costituzionalista Gaetano Azzariti sull' arresto di Pietro Genovese.

Una misura giusta?

«C'è da tenere presente che le misure cautelari, come gli arresti domiciliari, sono stabilite per esigenze diverse da quelle legate alla pena comminata per i fatti commessi. Sarà il processo a definire le sanzioni penali.

In questo caso più delle misure cautelari, che non possono essere un modo per anticipare la condanna, sarebbe auspicabile un rapidissimo processo, tanto più che non vedo esigenze istruttorie che possano ritardarne lo svolgimento».

Ritiene che non ci siano presupposti per l' arresto?

«Quelli possibili sono tre. Il primo è il pericolo di inquinamento delle prove, e nel caso di un incidente automobilistico come questo gli accertamenti probatori (le analisi del sangue per verificare lo stato del conducente) e i rilievi della polizia stradale, si sono già svolti. Il secondo è il pericolo di fuga che normalmente, nel caso di un incensurato e in assenza di altri indizi che possono far ritenere effettivo il rischio di un allontanamento, non dovrebbero essere ritenuti sussistenti. Infine il terzo presupposto: la reiterazione del reato, che secondo il gip sono alla base della misura adottata. Ma che a me non convince».

Secondo lei non ci potrebbe essere il rischio di ripetere il reato? Un giudice può sentirsela di escluderlo a priori?

«L' opinione del giudice si fonda sul fatto che al giovane era stata ritirata la patente di guida. Non ne conosco le ragioni, ma, a meno che non fosse per un altro incidente automobilistico, non mi sembra che ciò dimostri una propensione a condotte analoghe. Soprattutto mi sembra difficile immaginare, com' è stato riportato, che dopo un trauma del genere un giovane incensurato possa reiterare il reato mettendosi "alla guida di autovetture di amici o conoscenti anche senza patente e porre in essere condotte gravemente colpose in violazione delle norme della circolazione stradale compromettendo così la propria e l' altrui incolumità"».

Non pensa che un omicidio così meriti comunque di tenere il responsabile almeno ai domiciliari?

«Le ripeto che gli arresti domiciliari non possono anticipare la condanna. Un omicidio così merita che il processo sia svolto il più rapidamente possibile per rendere giustizia».

Scatola nera, droga test, telefonini e telecamere: sarà scontro tra perizie. Chi stava in auto con Genovese gli avrebbe urlato di fermarsi dopo il terribile impatto. Stefano Vladovich, Lunedì 30/12/2019, su Il Giornale.  La lettura della «scatola nera», i test tossicologici, le riprese delle telecamere, l’analisi dei telefonini. Sul drammatico incidente in cui hanno perso la vita le 16enni Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann si preannuncia una battaglia legale senza precedenti. Una guerra delle perizie, da quelle disposte dal gip Bernadette Nicotra a quelle ordinate dalle famiglie coinvolte, i Romagnoli, i von Freymann e i Genovese. Pietro, alla guida del grande Suv di papà Paolo, o meglio intestato a una sua società cinematografica, era in grado di vedere in tempo le due adolescenti mentre attraversavano corso Francia? Il suo stato di alterazione psico fisica, vale a dire il vino bevuto con gli amici e le varie droghe assunte, sono state determinanti sui suoi tempi di reazione? E la velocità dell’auto, ben oltre i limiti imposti dal codice e dal buonsenso (pioveva e non si vedeva nulla), era tale da rendere impossibile la frenata? Non solo. Gli esperti della Procura e delle parti coinvolte dovranno dimostrare quanto abbia influito, di fatto, il «cono d’ombra», cioè il buio pesto sulla carreggiata nel punto del drammatico impatto. Anche se, va detto, la Smart guidata da David Rubin Mosche si ferma davanti alle 16enni nonostante ci siano le stesse condizioni stradali, bagnato e buio. In attesa delle dichiarazioni di Genovese, il prossimo 2 gennaio davanti al pm, parlano i passeggeri. Sono i due giovani a dire, urlando, di fermarsi dopo l’urto. Lo avevamo già scritto ieri, a parlare per primo, preso a sommaria informazione dai vigili urbani del gruppo Parioli, è Davide Acampora. Il ragazzo sulle prime non vuole collaborare, probabilmente è sotto choc per l’accaduto, poi racconta di aver visto le due sagome volare in aria e il crossover spegnersi sulla rampa di accesso all’Olimpica. Poi ci sarebbero le parole di Tommaso Edoardo Fornari Luswergh. Dopo una settimana anche Fornari racconta delle urla all’interno dell’auto subito dopo, e non prima, dell’incidente. Dunque Pietro Genovese, sconvolto e poco reattivo a causa della sbronza (il tasso alcolemico era 1,4 mg/litro, tre volte tanto il massimo consentito), non si sarebbe fermato? Voleva fuggire, omettendo il soccorso, nonostante l’urto violentissimo? Di certo non è lui a prestare aiuto per primo, anche se gli agenti lo trovano sul posto quando arrivano. Lo racconta il gestore della bisteccheria di fronte, Alessio Ottaviano, del «T Bone Station». Fornari Luswergh, seduto sul sedile posteriore, sta chattando con il telefono. Sente lo schianto, vede persino il cofano sollevarsi, poi urla anche lui di fermarsi. Tutto inutile. Camilla e Gaia sono morte, gli arti devastati dal forte impatto, il sistema di sicurezza della macchina in pochi istanti si attiva e «spegne» il motore. L’auto ha percorso 250 metri verso lo svincolo della Tangenziale. Secondo un testimone, Emiliano Annichiarico, «l’auto procedeva a un’andatura esageratamente sostenuta, credo che il conducente abbia tentato di frenare nel momento in cui ha percepito la presenza dei pedoni in quanto la parte anteriore si è lievemente inclinata in basso, malgrado ciò l’impatto è stato inevitabile e violentissimo...». I rilievi dei vigili urbani non avrebbero trovato segni di frenata. Nemmeno le immagini delle telecamere piazzate sul marciapiede (troppo lontane) hanno fornito elementi utili alle indagini. Per i due passeggeri della Koleos l’urto sarebbe stato improvviso e inevitabile. Le vittime sarebbero state coperte alla vista dalle altre auto che sopraggiungevano sulla corsia centrale, alla destra di Genovese. Saranno gli esperti, a questo punto, a ricostruire la dinamica esatta. Ancora da stabilire se il 20enne al volante stesse anche lui chattando quando Camilla e Gaia sono state colpite.

Pietro Genovese, il sondaggio di Antonio Noto: "Tolleranza zero" dopo Roma, cosa farebbero gli italiani. Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2019. Le stragi dei ragazzi sulle strade non si ferma e per contrastarle gli italiani chiedono misure più severe e una maggiore informazione per i ragazzi. Secondo il sondaggio di Antonio Noto pubblicato su il Giorno dopo quanto accaduto a Roma, in corso Francia, dove Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, ha travolto e ucciso con il suo suv due ragazze di 16 anni, Gaia e Camilla, rivela che è favorevole al ritiro della patente a vita per chi causa incidenti il 91 per cento degli intervistati mentre è convinto che l'educazione stradale debba essere obbligatoria nella scuola il 68 per cento (16 contrari). Del resto, scrive Noto, "sballo e rischio stanno diventando sempre più comportamenti e abitudini messi in atto dai ragazzi come collante per stare insieme e trascorrere le serate. Quello che è successo in corso Francia a Roma non è un caso isolato. Secondo i dati del'Aci, nel 2019 hanno perso la vita in seguito a incidenti stradali 3.334 persone, in media 9 morti al giorno. Inoltre sempre l'Aci puntualizza che tra i 15 ed i 24 anni sono morti 414 ragazzi, ben il 12,4% di tutte le vittime di incidenti stradali". Dato ancora più allarmante, "è aumentato addirittura del 26% il numero delle vittime di età compresa tra i 15 ed i 19 anni". Per ridurre il numero degli incidenti, secondo gli italiani, "serve una maggiore informazione da fornire ai giovani circa i rischi che corrono nel mettersi alla guida quando si beve o si assumono sostanze stupefacenti". Questa convinzione, continua Noto, "è generata da un dato allarmante: il 40% dei genitori ritiene che i propri figli possano fare uso di alcol e droga. Il timore maggiormente avvertito è la possibilità di un incidente, indicato appunto dal 67%. Se invece si interrogano i giovani sul consumo di alcolici e droghe leggere lo scenario diventa ancora più allarmante: il 64% dichiara che quando trascorre le serate con amici beve abitualmente alcol fino a sentirsi un po' brillo. A questo si aggiunge che il 62% dei genitori ammette di non essere in grado di controllare i figli per proibire assunzioni di alcol o droghe". 

La morte di Gaia e Camilla, l’avvocato dei Romagnoli: “Le ragazze sono passate col verde per i pedoni”. Redazione de Il Riformista il 30 Dicembre 2019. Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due 16enni morte investite a Roma su corso Francia, avrebbero iniziato ad attraversare la strada con il semaforo verde per i pedoni. Ad affermarlo è l’avvocato Cesere Piraino, legale dei genitori di Camilla Romagnoli, in un atto depositato oggi in Procura con cui chiede ai pm di “accertare compiutamente la circostanza“.

Mentre si attende per il prossimo 2 gennaio l’interrogatorio di Pietro Genovese, il 20enne ai domiciliari che ha investito al volante del suo Suv le studentesse, le famiglie delle due vittime stanno provando a smontare l’ipotesi di un attraversamento azzardo di Gaia e Camilla, insistendo sulla responsabilità di Genovese.

IL DOCUMENTO DELL’AVVOCATO – Nell’atto depositato dall’avvocato Piraino si legge che “il semaforo per l’attraversamento pedonale ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell’imminente sopraggiungere del verde per le automobili il caratteristico ‘giallo per i pedoni’ ma prevede che al verde per i pedoni, che dura 26 secondi e mezzo circa, segua soltanto un verde lampeggiante che dura appena tre secondi e 40, a cui segue repentinamente e immediatamente il rosso, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata” scrive il legale. “La circostanza appare determinante sul profilo probatorio – sottolinea- poiché se è vero che il giovane Pietro Genovese sia sopraggiunto su quelle strisce pedonali col verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si sia fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse abbiano iniziato l’attraversamento pedonale con il verde e che si siano imbattute, subito dopo, nel ‘verde lampeggiante’ e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel “rosso” senza poter fare, loro si, null’altro che subire la morte”. “Si chiede e conseguentemente di accertare compiutamente la circostanza il discorso che si ribadisce si ritiene rilevante ai fini probatori e ciò’ all’esclusivo fine dell’accertamento della verità”, conclude il legale.

Incidente Roma, il legale dei genitori: «Gaia e Camilla hanno attraversato regolarmente con il verde». Pubblicato lunedì, 30 dicembre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo e Redazione Online. La ricostruzione del legale dei familiari di una delle 16enni investite apre nuovi scenari: il semaforo pedonale di corso Francia non prevede il giallo. Parla l’avvocata Giulia Bongiorno: «Più rispetto per Gaia e Camilla. Il semaforo pedonale teatro dell’incidente che ha causato lo scorso 21 dicembre la morte di Gaia e Camilla non prevede il giallo per chi attraversa e le ragazze avrebbero iniziato l’attraversamento con il verde per i pedoni. È quanto afferma l’avvocato Cesere Piraino, legale dei genitori di Camilla Romagnoli, la 16enne investita e uccisa a Roma con l’amica Gaia, in un atto depositato lunedì in Procura con cui chiede ai pm di approfondire questo aspetto. Una circostanza definita «determinante sul profilo probatorio» da parte del legale. Il semaforo per l’attraversamento pedonale — ha chiarito l’avvocato — ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell’imminente sopraggiungere» del verde per le «automobili il caratteristico “giallo per i pedoni” ma prevede che al “verde per i pedoni”, che dura 26 secondi e mezzo circa, segua soltanto un “verde lampeggiante” che dura appena tre secondi e 40, a cui segue repentinamente e immediatamente il “rosso”, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata». Secondo il legale, quindi, se è vero che il giovane Pietro Genovese sia sopraggiunto su quelle strisce pedonali con il verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si sia fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse abbiano iniziato l’attraversamento pedonale con il verde e che si siano imbattute, subito dopo, nel «verde lampeggiante» e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel «rosso» senza poter fare, loro si, sull’altro che subire la morte».

Francesco Salvatore per repubblica.it il 30 dicembre 2019. Sarà un processo sulle perizie quello sulla tragedia di corso Francia in cui sono rimaste uccise Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Le perizie della difesa dell'investitore, Pietro Genovese, che proverà a dimostrare che Gaia e Camilla "sono sbucate all'improvviso e che era impossibile evitarle". E quelle dei legali dei familiari delle vittime che proveranno a smentire un azzardo delle ragazze, insistendo sulla responsabilità del giovane automobilista. Una prima carta l'ha già depositata l'avvocato Cesare Piraino, difensore della famiglia di Camilla Romagnoli. È un accertamento tecnico disposto sull'impianto semaforico pedonale in prossimità del punto di attraversamento delle ragazze. Mostra che si passa dal verde al rosso senza il giallo. L'unico avvertimento ai pedoni è un verde che lampeggia per pochi secondi. ""Il semaforo - scrive il legale - per l'attraversamento pedonale ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell'imminente sopraggiungere" del verde per le "automobili il caratteristico 'giallo per i pedonì ma prevede che al 'verde per i pedoni', che dura 26 secondi e mezzo circa, segua soltanto un 'verde lampeggiantè che dura appena tre secondi e 40, a cui segue repentinamente e immediatamente il rosso, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata". Per l'avvocato "la circostanza appare determinante sul profilo probatorio poiché se è vero che il giovane Pietro Genovese sia sopraggiunto su quelle strisce pedonali col verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si sia fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse abbiano iniziato l'attraversamento pedonale con il verde e che si siano imbattute, subito dopo, nel "verde lampeggiante" e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel 'rossò senza poter fare, loro si, sull'altro che subire la morte". In sostanza, secondo l'avvocato, dando per buono che Genovese circolasse con il verde, non è affatto detto che le vittime abbiano attraversato con il rosso. Secondo il legale, infatti, avrebbero iniziato ad attraversare con il verde per loro e lo stop per le auto, ma poi improvvisamente il semaforo avrebbe repentinamente cambiato colore. Si sarebbero trovate così sulla traiettoria dell'auto di Genovese che era nel frattempo ripartito. Tutto in frazioni di secondo, rivelatisi fatali. Lo stesso gip nell'emettere il provvedimento di arresto per Genovese aveva rilevato una discordanza delle testimonianze circa il punto esatto in cui si trovavano le ragazze nel momento in cui sono state travolte. Per un testimone erano sulle strisce, per altri vicino alle strisce. Sono gli stessi che hanno riferito di averle viste scavalcare il guard rail di protezione. Le famiglie delle vittime, attraverso i legali, sono intervenute solo per rimarcare che da parte delle ragazze non vi può essere stato alcun comportamento irresponsabile e gli amici delle vittime sono usciti allo scoperto negando qualsiasi ipotesi di gioco pericoloso. Ora la perizia dell'avvocato Cesare Piraino richiama alla responsabilità, oltre che del conducente dell'auto che ha travolto Gaia e Camilla, anche quella di chi cura la manutenzione della sicurezza sulla strada, scarsamente illuminata e priva di qualsiasi deterrente all'alta velocità. 

Da ilmessaggero.it il 30 dicembre 2019. Rallenta per vedere il luogo del tragico incidente in cui sono morte Gaia e Camilla e tampona un'auto della polizia. È accaduto stamattina a Corso Francia a pochi metri di distanza da dove il suv guidato da Pietro Genovese ha travolto e ucciso Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. La macchina della polizia è finita contro il guardrail centrale. Non si registrano feriti. Alla guida della macchina una 82enne che, a quanto ricostruito, si sarebbe distratta per guardare i fiori lasciati in questi giorni sul punto dello schianto per le due ragazze. 

Valentina Errante e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 30 dicembre 2019. Sarebbero state d'aiuto per ricostruire i momenti del terribile incidente che, la notte del 21 dicembre scorso, è costato la vita a Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, 16 anni appena. Travolte in Corso Francia dal Suv guidato dal ventenne Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, ora ai domiciliari. Ma le immagini raccolte dagli agenti della polizia locale nei sistemi di videosorveglianza di ristoranti, bar e attività commerciali che guardano proprio il luogo del terribile scontro non hanno dato risposta. Nulla che possa aiutare a rimettere insieme, al netto delle testimonianze raccolte, quei secondi drammatici. Gli agenti del II Gruppo Parioli avevano creduto possibile lavorare quel materiale e dare risposte ancor più precise di quelle che comunque sono in parte arrivate dai primi riscontri. Le due sedicenni in base alle analisi sui rilievi compiuti la notte stessa, suffragate da alcune testimonianze non avrebbero attraversato la strada sulle strisce pedonali, ma poco lontano dallo svincolo per il Foro Italico e piazzale Clodio, dove sono state investite dal Suv di Genovese. Il punto dell'impatto dista meno di 40 metri dalle strisce, ma le due sedicenni non avrebbero raggiunto il semaforo attraversando regolarmente, nonostante amici e compagni di scuola, che comunque non erano con loro quella sera, sostengano il contrario. Gaia e Camilla erano sole, si tenevano per mano e stavano rincasando, considerato l'orario e il maltempo. Forse la fretta di tornare a casa le potrebbe aver spinte ad attraversare quando il semaforo per le auto era ancora rosso o era appena diventato verde senza percorrere le strisce zebrate. Sono state travolte, nonostante l'auto alla destra di quella di Genovese vedendole avesse rallentato. Una scena straziante quella a cui hanno assistito alcuni testimoni come un quindicenne Matteo (lo chiameremo così) che le ha viste volare in aria e ricadere sull'asfalto. È stato lui tra i primi a chiamare i soccorsi. Si trovava sullo stesso lato della corsia ma più vicino alle fermate dei bus in prossimità di un altro semaforo, stava aspettando che diventasse verde per passare, quando è diventato suo malgrado un testimone. Ha raccontato tutto ai vigili urbani della polizia locale intervenuti per i rilievi. Il Suv di Genovese è stato trovato fermo all'inizio della rampa per il Foro Italico, a meno di 200 metri dal punto dell'impatto. Aveva perso la targa anteriore, che poi un passante ha raccolto e consegnato alla polizia. Il veicolo era bloccato: per l'impatto il sistema idrico e di benzina si è arrestato spegnendo il motore. Genovese e i suoi due amici sono scesi. Uno di loro, Davide, è andato subito sulle ragazze, l'altro ha aspettato l'arrivo dei soccorsi. «Sono sbucate all'improvviso è stato impossibile evitarle», ha detto il primo, mentre il secondo, Tommaso, avrebbe urlato a Pietro di fermarsi pochi istanti dopo l'incidente. Entrambi dovranno ora ricostruire di fronte agli inquirenti quei terribili minuti nell'interrogatorio del prossimo 3 gennaio, mentre è atteso per giovedì quello di Genovese. Il ragazzo, dopo l'incidente, è stato condotto in ospedale per le analisi del caso che hanno dato esito positivo in merito all'assunzione di alcol: il tasso era di 1,4 a fronte dello zero previsto. Intanto in Corso Francia pare che nulla sia cambiato, salvo i tanti fiori e biglietti lasciati in ricordo delle due sedicenni. Tra attraversamenti selvaggi, compiuti a tutte le ore, sfide tra ragazzi, e tamponamenti. Come quello di ieri mattina tra una Toyota e una punto della polizia. Poco dopo le 12 una signora di 82 anni stava per immettersi su Corso Francia dalla Flaminia Vecchia quando, distratta dai fiori lasciati sul guard-rail per Gaia e Camilla, è andata dritta scontrandosi contro un'auto di servizio del commissariato di polizia di zona. Fortunatamente, né la donna né gli agenti a bordo del veicolo hanno subito lesioni.

Maria Novella De Luca per repubblica.it il 30 dicembre 2019. I lumini, i rosari, i biglietti, le foto, i fiori, i giocattoli. Nella notte gelida il guardrail sembra un altare. Strano altare di strada e di sogni spezzati. Gli adolescenti del sabato notte incappucciati in felpe troppo leggere approdano qui, "ciao fra", "ciao sister", vanno, si fermano, tornano, una birra in mano, una sigaretta, sciamano nelle strade delle loro serate dove ogni passo parla di Gaia e Camilla. Avanti e indietro, vai e torna, nella geografia nota di Ponte Milvio, piazza svenduta al divertimento "giovane" di Roma Nord. "Che fai?". "Penso a loro". Tutto è uguale eppure tutto è diverso nel primo sabato sera del "dopo", accanto ai locali oggi c'è il luogo della strage, l'asfalto bagnato di sangue, i sedici anni di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli che non ci sono più, i vent'anni di Pietro Genovese, che piange chiuso in una stanza, da giorni, dopo averle travolte con il suo Suv sette giorni fa. Una ragazza bionda, Paola, compagna del liceo De Sanctis ha portato la chitarra, i fasci dei fari bruciano i limiti su Corso Francia come se nulla fosse accaduto. "Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po'". "Perché Lucio Dalla?". "Perché dà allegria". Bisogna camminare con loro, con Ludovica, Ettore, Ilaria, Benedetta, Martina, avanti e indietro, dall'altare del guardrail al "baretto di Luciano", dalle nove di sera all'una di notte, macinando passi per capire la loro strana preghiera, il loro canto, il loro omaggio alle amiche scomparse. Ogni passo è un ricordo. Una stazione. Giada: "Ecco qui ci fermavamo, qui ci siamo fatte un selfie, qui eravamo felici, qui abbiamo parlato dei nostri amori". "Non le conoscevo ma sono andata a salutarle", racconta Ludovica, mentre beve una birra nel punto più affollato della movida, un bar senza nome, ma tutti sanno che si chiama Luciano, nome del titolare scomparso un anno fa, istituzione di Ponte Milvio, quando era ancora un quartiere popolare. Però. "Non dovevano attraversare lì, mannaggia, perché l'hanno fatto, che cazzata, poveracce". E Pietro? "Pagherà, è giusto, ma come faceva ad evitarle?". Antonio: "È stata tutta una fatalità, loro fuori dalle strisce, lui che correva, oggi sono andato due volte al guardrail, qui in piazza ci conosciamo tutti, erano due brave ragazze, nulla sarà più come prima". Marina: "Non credo sia giusto mandare in carcere il ragazzo del Suv. Perché, perché Gaia e Camilla hanno sfidato la sorte?". Gli adolescenti sono apocalittici e assoluti, per questo, forse, nella notti gelide di queste vacanze senza allegria continuano a tornare su quel pezzo d'asfalto. Fermi là, a chiedersi perché, obbligati a farsi domande da grandi, la morte, la vita, l'esistenza, l'azzardo. Pellegrinaggio profano, irrituale, ma vero, autentico. Verso mezzanotte la piazza che si affaccia sul Tevere è piena, densa di umidità, il ponte dei lucchetti dei libri di Federico Moccia è invece deserto, gli argini bassi, la corrente forte. Qui da vent'anni il venerdì e il sabato "calano" a bordo di mini-car ragazzini non più soltanto di quel quadrante "antropologico che è Roma Nord, (un tempo ricca, un tempo di Destra, oggi mista, come tutto), ma anche frotte di teenager di altri quartieri. Edoardo, 16 anni: "Succede dopo le due. Arrivano quelli della periferia, ti puntano il coltello e si fanno dare l'iPhone o la catenina". Chissà se sono davvero quelli della periferia. Maria Teresa: "Ho l'obbligo di tornare all'una, a notte fonda ci sono risse e liti tra ubriachi". Le scie livide della movida in una città abbandonata al degrado. Ludovica, Ettore, Ilaria vanno e vengono con il bicchiere in mano, vasche su vasche, in una passeggiata infinita. "Birra, cocktail, non c'è problema, nessun locale chiede i documenti ai minorenni". Un fiume di adolescenti, un fiume di alcol. Ovunque è così nelle piazze romane, da Trastevere a Monti, da Campo dei Fiori a Ponte Milvio. Il guardrail davanti al quale sono stati sbalzati i corpi di Gaia e Camilla è un totem, un luogo votivo, lapide di un periodo della vita che non tornerà più. Come l'ultimo messaggio di Camilla alla mamma: "Ciao, sto tornando a casa". Azzurra e Carmine si tengono abbracciati davanti al cumulo di fiori che appassiscono. Hanno acceso un lumino. Il vento scompiglia i ricordi, non c'è riparo. "Il 22 dicembre è andato via un pezzo di noi. A scuola abbiamo studiato una poesia: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera insonne...". L'abbiamo scritta su un foglio per Gaia e Camilla, speriamo che il vento non se la porti via". Cesare Pavese, 1950. "La verità è che ci serve un posto dove piangere", dice Paola, la ragazza con la chitarra, fazzolettone scout al collo. Nella notte gli ultimi accordi sono quelli di "A te" di Jovanotti. "Era la loro canzone".

Valentina Errante per “il Messaggero” il 31 dicembre 2019. «Altre auto, non so dire quante, travolgevano i due corpi» Il mosaico di testimonianze sulla morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, investite a Corso Francia la notte del 22 dicembre, dal Suv condotto da Pietro Genovese, sono univoche. Almeno su questo punto, smentito invece dall' autopsia, a dimostrazione che soltanto le perizie e ulteriori indagini potranno definire con certezza come sia avvenuto l' incidente. I racconti di chi ha assistito all' impatto sono terribili, ma anche contraddittori. Soltanto due, delle otto persone, che sono state ascoltate dalla Polizia municipale subito dopo l' impatto, dicono che Gaia e Camilla stavano attraversando sulle strisce. La stessa tesi dell'avvocato Cesare Piraino, difensore della famiglia Romagnoli, che però ha già avviato le indagini difensive e rilevato che il semaforo di Corso Francia «non prevede, per avvertire i pedoni dell' imminente sopraggiungere del verde per le automobili, il giallo per i pedoni». Per chi attraversa, ha scritto l' avvocato un' istanza al pm Roberto Felici, al verde che dura 26 secondi e mezzo circa, seguono tre secondi di verde lampeggiante e immediatamente il rosso. Una circostanza determinante: le ragazze sarebbero partite con il verde, ma si sarebbero trovate al centro della carreggiata con il rosso. Un dato è certo: Gaia e Camilla, partite per attraversare in modo cauto, dopo la frenata della prima macchina si mettono a correre, non immaginano che possa arrivarne un' altra, nonostante la strada abbia tre carreggiate.

I TESTIMONI. La testimonianza più significativa è quella dei due passeggeri di una Smart che si trova dietro all' auto che, prima dell' impatto, frena per fare passare Gaia e Camilla, limitando così la visuale di Genovese che arriva da sinistra. L' automobilista che si è fermato è andato via e non è stato rintracciato. «Davanti a noi la strada era libera - ha riferito Moshè David Rubin che con la moglie, Joel Zanzuri, ha assistito all' impatto - più avanti più spostata a sinistra un'autovettura di colore grigio e piccole dimensioni stava marciando molto lentamente». «Avevo appena superato con luce verde il semaforo e stavo procedendo verso i Parioli, mi trovavo sulla corsia di centro. Quella di destra in quel momento era libera. Davanti a noi c' era un' autovettura di colore scuro che si è fermata in maniera brusca poco prima della rampa, anch' io ho rallentato, in quel momento mi sono accorto della presenza di due ragazze che, da destra, all' altezza dell' apice del guard rail che delimita la rampa di immissione su via del Foro Italico, stavano iniziando l' attraversamento a piedi, in un punto in cui non vi sono le strisce. Ho intuito che potesse succedere qualcosa di molto grave, infatti dopo pochissimi istanti è sopraggiunta sulla corsia alla mia sinistra un Suv a velocità sostenuta, che ha investito le due ragazze. Una è rimasta a terra sulla corsia centrale, l' altra sulla corsia di sinistra». La signora Zanzuri conferma: «Ho visto davanti a me, all' altezza della rampa, due ragazze che, tenendosi per mano, si immettevano sulla carreggiata da destra verso sinistra, approfittando del fatto che la corsia di destra di Corso Francia, che conduce ai Parioli, non ci fosse nessuno. A quel punto la piccola auto grigia che ci precedeva ha ulteriormente ridotto l' andatura, non so se abbia frenato, comunque ha diminuito la velocità per agevolare il passaggio delle due ragazze». È a quel punto che Gaia e Camilla si mettono a correre: «Hanno proseguito sulla carreggiata, a questo punto, in maniera frettolosa e incauta, senza accertarsi dell' eventuale sopraggiungere di altri veicoli. Nel momento in cui hanno impegnato la corsia di sorpasso sono state colpite da un' autovettura di grosse dimensioni che viaggiava a velocità sostenuta. Le ragazze sono volate in alto e rovinate al suolo più avanti». E la donna aggiunge: «Era verde per i veicoli a una distanza di circa 150 metri dalle strisce». Sono solo due testimoni a sostenere che le ragazze stessero attraversando sulle strisce: un autista Ncc e il conducente di una minicar, entrambi, però, viaggiavano nell' altra direzione di Corso Francia.

LO SHOCK. A sopraggiungere poco dopo è invece un' altra testimone, Marianna Achilli, che si trova davanti i corpi di Gaia e Camilla e sterza per evitarli: «Ero sulla corsia centrale, un po' spostata a sinistra e stava piovendo leggermente, arrivata in prossimità dell' Olimpica, vedevo due oggetti sulla sede stradale, uno sulla parte destra e un altro lo vedevo proprio sulla mia traiettoria. Sembravano delle buste di plastica, grandi e piene. Immediatamente, per evitare di colpire l' oggetto che avevo davanti sterzavo verso destra. Rallentavo perché mi ero messa paura». La donna si ferma, viene raggiunta da un' altra auto e chi è alla guida le dice che si trattava di due persone e non di buste. «Tremavo per la paura».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 31 dicembre 2019. Il dolore e la disperazione. Paolo Genovese voleva a tutti i costi comunicare con loro, con i genitori di Gaia e Camilla. Voleva incontrarli. Spiegare che il lutto riguarda anche la sua famiglia, condividere l' angoscia che l' ha stravolta. Ma ha compreso quanto la scelta di quei genitori di rinviare l' incontro fosse giusta, opportuna, perché lo strazio ha anche misure diverse. E la sua sofferenza non conosce il tormento che non avrà più tempo. Perché il suo strazio non è paragonabile a quello di chi, in un istante, ha perso tutto. Gaia e Camilla non ci sono più. Pietro è vivo, anche se la sua vita non sarà mai più la stessa. Eppure non è nulla: quel ventenne, che dovrà fare i conti con il peso della responsabilità, non sarà più quello di prima, Ma è vivo. E la vita è tutto. Il regista, che ha scrutato nelle pieghe dell' animo umano, non ce l' ha fatta a rimanere distante, a non dire quanto profondamente si sentisse protagonista del lutto. Fino a dieci giorni fa, quei genitori, avrebbe potuto incontrarli per caso, condividere con loro ansie e preoccupazioni per il futuro incerto dei figli quasi coetanei. Non è andata così. I destini di quei ragazzi si sono incrociati in una notte di pioggia alla vigilia dell' ultimo Natale. Ha scelto di scrivere, Paolo Genovese. Subito dopo quell' impatto, che ha stravolto per sempre la vita dei Romagnoli e dei Von Freymann, ma anche quella della sua famiglia. Ha cercato le parole adatte per manifestare il dolore, la disperazione, la comprensione e la pietà. Per dire l' indicibile.

LA RISERVATEZZA. Un documento intimo che i legali delle giovanissime vittime e l' avvocato della difesa hanno deciso di non diffondere. Una scelta precisa, che non ha nulla a che vedere con il caos mediatico. Raccontare la pena e il supplizio che hanno travolto anche la famiglia del giovane Pietro non è stato facile. Genovese ci ha provato. Non ha paragonato tragedie così diverse, perché il dolore ha una sua altezza che merita rispetto. Ha solo tentato di esserci, con i pochi strumenti che gli sono rimasti, le parole quelle che, con coraggio, avrebbe voluto dire guardando negli occhi quei genitori disperati. La lettera, una pagina e mezzo è stata recapitata alle famiglie di Gaia e Camilla attraverso i legali. L' incontro, prima o poi, ci sarà. Forse in Tribunale, mentre si annuncia una guerra di perizie, perché la realtà e la vita, alla fine, prendono il sopravvento. Pietro, alla guida di quell' auto che non ha frenato, non si dà pace. Eppure suo padre, mentre parla ai genitori di Gaia e Camilla, sa che un futuro è ancora possibile. Loro, invece, quelle sedicenni ingenue, che correvano per tornare presto a casa, non saranno mai donne. Eterne bambine, composte nelle bare bianche dopo quella notte prima dell' ultimo Natale. Genovese, questo, lo sa.

Giulia Bongiorno, avvocato del caso Genovese: "Se lo sono inventati di sana pianta, chi era veramente Gaia". Libero Quotidiano il 30 Dicembre 2019. Quella di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli è una tragedia, "non una fiction". Giulia Bongiorno, ex ministra della Pubblica amministrazione, è da pochi giorni l'avvocato dei genitori di Gaia, la 16enne travolta e uccisa prima di Natale in corso Francia, a Roma, dal suv guidato dal 20enne Pietro Genovese risultato positivo ad alcol e droga. "Non è un videogioco - ammonisce la Bongiorno al Corriere della Sera, nella prima intervista da quando ha assunto la tutela legale del caso -. Ci sono due ragazze morte, due ragazze in carne e ossa, e quattro genitori che, di fronte a quello che sta succedendo, ogni giorno sentono amplificare il proprio dolore". L'accusa è al sistema dell'informazione: "Si va alla ricerca spasmodica di novità, di dettagli a effetto. Proliferano testimoni mediatici che raccontano fatti spesso in contrasto tra loro. E ogni elemento, nonostante le contraddizioni, viene amplificato come fosse la verità. Con conseguenze gravissime". La Bongiorno lancia un appello: "I tempi della giustizia non sono veloci come quelli delle notizie, che magari poi vengono smentite. Allora resistete alla tentazione di trattare queste ragazze come i personaggi di una fiction". "Fioccano commenti gravemente offensivi non solo nei confronti della famiglia, ma anche delle stesse Gaia e Camilla. C'è chi ha addirittura inventato di sana pianta una sorta di roulette russa stradale. O addirittura ha obiettato che le ragazze non avrebbero dovuto stare in giro a quell'ora, che i genitori avrebbero dovuto controllarle". Ma, spiega, Gaia era "una ragazza gioiosa ed entusiasta, ma anche prudente, matura, precisa. Per esempio, rispondeva sempre subito agli sms dei genitori: non tutti i ragazzi lo fanno". "L'unica volta che non lo ha fatto - conclude la Bongiorno - è stato sabato notte. E per questo suo padre ha capito".

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2019. «Non è un videogioco. Ci sono due ragazze morte, due ragazze in carne e ossa, e quattro genitori che, di fronte a quello che sta succedendo, ogni giorno sentono amplificare il proprio dolore».

Giulia Bongiorno ha assunto la difesa dei genitori di Gaia von Freymann, una delle due sedicenni investite a Roma la notte di sabato 21 dicembre. Un caso che sta suscitando un interesse «morboso» nell’opinione pubblica.

Perché?

«È’ accaduta una cosa devastante: chiunque abbia figli non riesce a pensarci senza piangere. Ma questa tragedia si sta trasformando, giorno per giorno, in una fiction».

Cosa intende?

«Si va alla ricerca spasmodica di novità, di dettagli a effetto. Proliferano testimoni mediatici che raccontano fatti spesso in contrasto tra loro. E ogni elemento, nonostante le contraddizioni, viene amplificato come fosse la verità. Con conseguenze gravissime».

Cioè?

«Fioccano commenti gravemente offensivi non solo nei confronti della famiglia, ma anche delle stesse Gaia e Camilla».

Offensivi?

«Si dice che erano incoscienti prendendo per buone voci tutte da verificare e si dà per pacifico che le ragazze abbiano scavalcato il guard-rail, che abbiano attraversato lontano dalle strisce, a semaforo rosso, che siano state mezze pazze, ormai sembra quasi si siano suicidate».

Del guard-rail lo scrive il gip.

«Ma come primissima ipotesi investigativa, è grave spacciarla come dato di fatto oggettivo: le indagini sono in fase ancora embrionale».

Non è andata così, secondo la famiglia?

«La famiglia si è chiusa nel dolore. Ci saranno le perizie, le immagini delle telecamere che si dice siano state sequestrate. E, anche se non si ritrova nella ricostruzione fatta dal gip, la famiglia attende in silenzio. Questo la dice lunga. Invece c’è chi ha addirittura inventato di sana pianta una sorta di “roulette russa” stradale. O addirittura ha obiettato che le ragazze non avrebbero dovuto stare in giro a quell’ora, che i genitori avrebbero dovuto controllarle».

Invece?

«Erano stra-controllate. Gaia poi, da figlia di genitori separati, aveva un doppio controllo: della madre e del padre. Non le avevano comprato il motorino, né la macchinetta. Del resto, dopo l’incidente stradale del padre, che ha perso l’uso delle gambe, lei era terrorizzata dalle strade.

Era una ragazza gioiosa ed entusiasta, ma anche prudente, matura, precisa. Per esempio, rispondeva sempre subito agli sms dei genitori: non tutti i ragazzi lo fanno. L’unica volta che non lo ha fatto è stato sabato notte. E per questo suo padre ha capito».

Prima di essere avvertito?

«Immediatamente. Quando ha visto che non rispondeva si è precipitato lì. E ha capito che a terra c’era lei. Tanto che, a chi bloccava il transito, ha detto: “Fatemi passare, sono il padre”».

Da Andreotti ad Amanda Knox, non è il primo caso di richiamo mediatico che le capita. Perché lo ritiene diverso?

«Qui si va alla ricerca dell’anomalia. La tragica fine delle ragazze è talmente dolorosa da indurre a cercare un comportamento anomalo quasi per concludere che ai nostri figli non capiterà perché non sono così imprudenti. E allora ogni giorno se ne inventa una. Si rincorre l’ultima voce come fosse una prova e si commenta come se fosse vera. Accrescendo ogni giorno il dolore dei genitori».

Però c’è stata anche tanta solidarietà.

«Tantissima da parte della gente comune. Ma ci sono stati anche commenti violenti».

C’è chi ritiene il reato di omicidio incostituzionale.

«Guidare in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti è una condotta grave che non può essere punita con pene leggere. Ma oggi non voglio parlare del ragazzo che era alla guida, voglio solo lanciare un appello».

Che appello?

«I tempi della giustizia non sono veloci come quelli delle notizie, che magari poi vengono smentite. Allora resistete alla tentazione di trattare queste ragazze come i personaggi di una fiction».

La lettera di Genovese ai genitori di Gaia e Camilla: "Dolore immenso". Avrebbe voluto incontrare i genitori di Gaia e Camilla e parlare con loro. Ha scritto invece una lettera di una pagina e mezzo, recapitata alle famiglie dai suoi legali. Valentina Dardari, Martedì 31/12/2019. Paolo Genovese avrebbe subito voluto parlare con i genitori di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due 16enni investite da suo figlio Pietro in Corso Francia, mentre stavano attraversando, di corsa, mano nella mano. Avrebbe voluto guardarli negli occhi e comunicare loro tutta la sua disperazione, il dolore che sente dentro per quelle vite spezzate. Ha capito poi la decisione presa da quelle madri e quei padri di non incontrarlo, almeno per il momento.

La disperazione di Paolo Genovese racchiusa in una lettera. E ha voluto quindi affidare i suoi pensieri e la sua disperazione a una lettera di una pagina e mezzo, che i suoi legali hanno recapitato alle famiglie. Perché in quella tragica notte, tra sabato 21 e domenica 22 dicembre, sono tre le famiglie a essere state distrutte in una manciata di secondi. Gaia e Camilla non ci sono più, è vero, ma anche la vita di Pietro, suo figlio ventenne, non sarà più la stessa. Lui però è vivo. Con il tempo riuscirà forse a continuare a vivere, portando sempre dentro di sé il peso di quella disgrazia. Paolo Genovese è padre, suo figlio ha pochi anni più delle vittime. Si rende conto del dolore immenso che provano in questo momento i genitori di Gaia e Camilla. Non può rimanere distante di fronte al lutto più grave che un genitore possa provare nella sua vita: la perdita di un figlio. Certo non ha voluto paragonare il suo dolore a quello delle famiglie delle due ragazze. Ha solo voluto far sentire che lui c’è, con la sua anima, con le sue parole. Gli avvocati di entrambe le parti hanno deciso di non diffondere il documento. Troppo intimo, troppo personale, che non deve essere sporcato dal rumore mediatico di questi giorni.

Pietro avrà ancora un futuro. Gaia e Camilla no. Paolo Genovese si rende conto che per Pietro ci sarà ancora un futuro, anche se difficile, soprattutto dal punto di vista interiore. Gaia e Camilla invece non potranno più affrontare la vita, confrontarsi con gli altri ragazzi, piangere per amore o per un’amicizia finita. La loro esistenza si è schiantata contro quel Suv, pochi giorni prima di Natale. Non saranno mai donne e mamme. Paolo Genovese si rende conto di tutto ciò. Prima o poi il regista romano incontrerà quei genitori, forse solo in un’aula di Tribunale, dove parleranno perizie, testimoni, l’accusa e la difesa. Tra i genitori di quei tre ragazzi resterà forse un silenzio, più forte e più assordante di mille parole. L’incrocio di uno sguardo che racchiude in sé tutto.

Incidente Roma: la tragedia, la legge, l’alcool e le imprudenze. Antonia Postorivo il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. La morte di due giovanissime ragazze è un dolore immenso. La vita scorrerà ma sarà come morire ogni giorno nel ricordo di Gaia e Camilla. Ecco io credo che per i genitori, per gli amici cari questo è il sentimento del giorno dopo e dei giorni a venire. Alle due vite spezzate si aggiunge una terza vita appesa ad un filo. La vita di colui che era alla guida dell’auto. La vita di un altro giovane che il destino baro ha voluto quella sera, in quell’ora e in quel posto. Inizierà un procedimento e un processo per stabilire la dinamica dell’incidente e le colpe. Tutto questo creerà altro dolore. Un processo che dovrà rendere giustizia alle vittime e ai loro familiari e che dovrà lasciare fuori dalle aule di giustizia la rabbia, il rancore e la professione dei genitori dei protagonisti. Il vuoto lasciato dalle giovani ragazze dovrà convivere con la realtà processuale. Comprendo che sarà difficile far convivere una perdita cosi grande con le logiche giuridiche e con la ricostruzione di quella terribile sera ma, inevitabilmente, tutti questi sentimenti contrastanti tra loro dovranno convivere. Dolore e verità dovranno convivere con una serie di fredde analisi che sembreranno analisi impietose, irrispettose del dolore immenso che si prova ma nessuno si potrà sottrarre alla legge e al rispetto di essa. Corso di Francia, luogo della tragedia, è una strada di Roma grandissima, enorme, un’autostrada dentro il Centro di Roma, priva di adeguata illuminazione e di strisce pedonali visibile, come in tutta Roma ma questa è altra storia. Dalle prime ricostruzione siamo di fronte ad un conducente che guidava in stato di ebbrezza, ad alta velocità con semaforo verde. Gaia e Camilla, dalla ricostruzione dei fatti, stavano attraversando la strada con semaforo rosso per i pedoni, al buio e non sulle strisce pedonali. Ai pedoni che camminano sulla strada è richiesta la stessa attenzione e la stessa diligenza imposte ad automobilisti e a motociclisti, perché la sicurezza stradale è frutto del rispetto collettivo delle norme. È un discorso che interessa non solo la disciplina del traffico, ma anche l’incolumità fisica di tutti gli utenti della strada. Tra questi, quella dei pedoni è la fascia di utenti considerata più debole e quindi oggetto di una particolare attenzione volta a salvaguardarla. Questo però non significa che chi cammina a piedi non debba rispettare delle regole che contribuiscono alla propria sicurezza e a quella di chi circola con un veicolo o con un motoveicolo. Il Codice della Strada prevede regole chiare da rispettare per i pedoni. Camminare su una strada pubblica significa esserne un utente a tutti gli effetti e come tale si è sottoposti a norme e a sanzioni per i trasgressori. Come guidare in stato di ebbrezza e ad alta velocità è gravissimo e chi lo fa se ne assume le gravi conseguenze, Come è giusto che sia e come la legge prevede. Il dolore e la rabbia dovranno fare i conti con la realtà processuale e comprendere che un complesso di situazioni hanno concorso a rendere mortale l’incidente: la velocità, l’assunzione di alcol, ma anche l’imprudenza delle due vittime e la colposa insufficienza dell’illuminazione pubblica. Nulla riporterò Gaia e Camilla in vita ma la ricostruzione dei fatti dovrà avvenire nel rispetto della legge e sarò, come sempre, un misto di ragione e anche di sentimento.

Genovese e la morte di Gaia e Camilla «Sono sbucate e non le ho viste». Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. Oggi l’interrogatorio davanti al gip: il ragazzo nei giorni precedenti ai fatti aveva preso cocaina e hashish, ma era lucido. «Sono sbucate all’improvviso, non le ho viste» ripete Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, dopo l’incidente di corso Francia. È ragionevole pensare che confermi questa versione durante l’interrogatorio di oggi con la giudice per le indagini preliminari, Bernadette Nicotra. Ma non è affatto scontato che risponda. Il ventenne potrebbe infatti avvalersi della facoltà di non rispondere oppure fare una serie di dichiarazioni spontanee, fornendo la propria versione dei fatti senza rispondere alla serie di contestazioni dei magistrati. Tutto dipenderà dalle condizioni psicologiche, visto che da quel 22 dicembre, giorno dell’incidente, il ragazzo versa in un pesante stato confusionale, perennemente in bilico fra pianto e senso di colpa. Comunque vadano le cose, che risponda o meno, Genovese, assistito dal suo difensore Gianluca Tognozzi dovrà fare i conti con i due elementi principali dell’accusa: la questione della velocità di marcia (superiore a quella prevista dal codice della strada) e quella del tasso di alcol nel sangue (pari a 1,4 grammi per litro). Vi sono poi altri due aspetti — la positività a sostanze stupefacenti e l’arresto del Suv — destinati ad entrare nel processo sebbene fino a questo momento non siano state considerate delle aggravanti. Se è certo che nei giorni precedenti il ragazzo aveva consumato sostanze stupefacenti (cocaina, hashish) è anche vero che quando ha investito Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli l’effetto era svanito. Le dichiarazioni di Genovese saranno confrontate con quelle dei suoi amici, Davide Acampora e Tommaso Edoardo Fornari Luswerg che viaggiavano con lui e saranno ascoltati dai magistrati Roberto Felici e Nunzia D’Elia il 3 gennaio. Per la difesa si tratta comunque di una partita complessa, visto che, praticamente, la totalità dei testimoni concorda sull’aspetto della velocità sostenuta alla quale il Suv attraversava il viadotto di corso Francia. Lo sostiene Orlando Townshend che, quella notte, ha assistito alla scena: «A un tratto vedevo un’auto di colore grigio che correndo a gran velocità travolgeva le due ragazze». La conferma arriva da Jacopo Daliana che viaggiava a bordo della sua minicar: «Ho visto una macchina grigia che proveniva a velocità sostenuta da fuori Roma e che investiva una ragazza...». Ma lo confermano con chiarezza anche altri due testimoni: Moshè David Rubin («Dopo pochissimi istanti è sopraggiunto sulla corsia alla mia sinistra, un suv di color grigio chiaro a velocità sostenuta, che ha investito due ragazze scaraventandole più avanti») e sua moglie Joel Zanzuri («Nel momento in cui hanno impegnato la corsia di sorpasso sono state colpite da un’autovettura di grosse dimensioni di colore chiaro che viaggiava a velocità sostenuta, direi circa ottanta chilometri orari»). Per avere dati certi sulla velocità alla quale il suv marciava bisognerà aspettare il risultato della consulenza disposta dai magistrati, ma intanto le indagini degli agenti della polizia municipale vanno avanti per appurare altri aspetti. Si darà una risposta anche alla questione dell’assunzione di sostanze stupefacenti: quella sera, alla cena di rientro dall’Erasmus di un amico, erano state consumate sostanze? Per accertarlo gli investigatori potrebbero decidere di ascoltare chi partecipò alla serata. Stando all’ordinanza di arresto Genovese avrebbe accettato il rischio di un incidente: «Pietro Genovese — scrive la gip — la notte di sabato 22 dicembre scorso percorreva una strada all’interno di un agglomerato urbano, in un punto caratterizzato dalla presenza di case e locali notturni della movida romana, a velocità elevata a tenore degli elementi sopra esposti, e con un tasso di alcol nel sangue superiore al limite consentito, con la conseguenza che in astratto pur non avendo concepito come concretamente realizzabile l’incidente stradale e non averlo in alcun modo voluto, in concreto con la sua condotta si sia rappresentato la possibilità di cagionare un evento non voluto confidando al contempo nelle sue capacità alla guida così da poterlo scongiurare».

Genovese al gip: "Sconvolto e devastato", i legali: "Non è un killer". Il ventenne si è detto sconvolto e devastato per quello che è successo. L’atto istruttorio è durato circa un’ora. Valentina Dardari, Giovedì 02/01/2020 su Il Giornale. “Sono sconvolto e devastato per quello che è successo. Sono sinceramente provato sul piano umano”. Pietro Genovese è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra, che ha disposto il suo arresto dopo la morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, investite in Corso Francia.

Cosa hanno detto gli avvocati della difesa. I suoi avvocati, Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, hanno detto che il ragazzo ha risposto alle domande del giudice, ma sul contenuto dell’atto istruttorio mantengono il più stretto riserbo. Hanno però aggiunto che per il momento non hanno presentato alcuna istanza di attenuazione della misura cautelare. Dovranno ancora decidere su un eventuale ricorso al Riesame. "Questa è una tragedia per tutte e tre le famiglie coinvolte", hanno detto i due legali, "Pietro Genovese non è il killer che è stato descritto e merita rispetto e comprensione come le famiglie delle due ragazze".

Genovese ha pianto durante l'interrogatorio. L’interrogatorio di garanzia ha avuto inizio poco dopo le 14 negli uffici del gip di Roma, Bernadette Nicotra, a piazzale Clodio. Il ragazzo avrebbe pianto più volte durante l’interrogatorio, ricordando quella tragica sera. In diverse occasioni si sarebbe anche fermato per prendere fiato e riuscire a rispondere alle domande che gli venivano rivolte. Come riferito ai giornalisti dall’avvocato difensore Franco Coppi, al termine dell’interrogatorio, il suo assistito “ ha inteso esternare il suo dolore e la sua angoscia al di là di quello che è accaduto. Confidiamo che il suo stato d'animo meriti un minimo di rispetto come meritano il rispetto per il dolore delle famiglie”. Il suo legale si è detto moderatamente realista. Alla domanda se si senta ottimista, il legale ha risposto: “Ottimista? Di natura sono moderatamente realista...”. Riguardo all'interrogatorio ha poi detto: “Sul contenuto dell’interrogatorio non intendiamo parlare per ovvi motivi. Possiamo solo dire che è venuto per rispondere alle domande e ha rappresentato la sua linea di difesa. Ma soprattutto ha inteso esternare il suo dolore e la sua angoscia per quello che è accaduto al di là di quelle che saranno le valutazioni che i giudici potranno fare”. Il legale ha poi sottolineato che Genovese è un ragazzo molto provato da questa esperienza. Ha infine detto di confidare che il suo stato d’animo meriti rispetto così come meritano rispetto i dolori delle famiglie delle due vittime. Sulla dinamica non ha infine voluto dire nulla perché, come sottolineato, sono di vecchia scuola, ritenendo che ciò che è stato detto con il giudice attualmente non possa essere rivelato. Genovese è indagato per duplice omicidio stradale nei confronti delle due 16enni che hanno perso la vita nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso su Corso Francia, all'altezza di via Flaminia Vecchia, nel quartiere romano di Ponte Milvio. L’esatta dinamica dell’incidente mortale non è ancora stata del tutto chiarita. Alcuni testimoni avrebbero detto che Genovese andava a velocità sostenuta. Lo stesso ragazzo aveva affermato di essere passato con il verde e di non aver visto le due giovani, sbucate all'improvviso dal nulla. Questa versione era stata confermata anche dall'amico che era a bordo del Suv.

Investite su Corso Francia, Pietro Genovese al gip: "Sono sconvolto e devastato". Acquisiti video semaforo. L'interrogatorio del 20enne accusato di omicidio stradale plurimo per la morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, travolte nella notte tra il 21 e il 22 dicembre: "Sono partito con il verde". I difensori: "Non è un killer, merita rispetto". La Repubblica il 2 gennaio 2020. "Sono sconvolto e devastato per quello che è successo. Sono sinceramente provato sul piano umano". E' quanto ha detto, in base a quanto riferito dai suoi difensori, Pietro Genovese, il ventenne figlio del regista, agli arresti domiciliari da una settimana per il duplice omicidio stradale delle due sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Assistito dagli avvocati Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, il ventenne è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra, che ha disposto il suo arresto. L'incidente nel quale hanno perso la vita le due 16 enni è avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso su Corso Francia, all'altezza di via Flaminia Vecchia, nel quartiere romano di Ponte Milvio. "Sono partito con il semaforo verde", ha ribadito Genovese davanti al gip. Il giovane ha risposto alle domande ricostruendo tra le lacrime la notte dell'incidente. Prima la serata a casa di amici per festeggiare il ritorno di un amico dall'Erasmus e poi il rientro percorrendo Corso Francia dove Genovese ha detto di essere ripartito con il semaforo verde. Intanto i pm di Roma hanno acquisito i video depositati nei giorni scorsi dal legale dei genitori di Camilla Romagnoli. I due video, uno di cinquanta secondi e l'altro di un minuto e 26 secondi, riprendono il funzionamento dei semafori pedonali dove è avvenuto il tragico investimento. Nell'atto messo a disposizione del pm Roberto Felici, l'avvocato Cesare Piraino afferma che il semaforo pedonale non prevede il giallo per chi attraversa e le ragazze avrebbero iniziato l'attraversamento con il verde per i pedoni. "Questa è una tragedia per tutte e tre le famiglie coinvolte. Pietro Genovese non è il killer che è stato descritto e merita rispetto e comprensione come le famiglie delle due ragazze", hanno detto gli avvocati di Genovese, al termine dell'interrogatorio di garanzia. "Il nostro assistito ha risposto alle domande del giudice, - hanno aggiunto i legali - ma sul contenuto dell'atto istruttorio manteniamo il più stretto riserbo". "Al momento - hanno detto ancora - non abbiamo presentato alcuna istanza di attenuazione della misura cautelare. Rifletteremo anche su un possibile ricorso al Riesame".

Da ilmessaggero.it il 2 gennaio 2020. Incidente a Corso Francia, Pietro Genovese oggi è stato interrogato per circa un'ora dal gip nell'interrogatorio di garanzia. Il 20enne è agli arresti domiciliari con l'accusa di omicidio stradale plurimo per avere investito e ucciso nella notte tra il 21 e 22 dicembre scorso le due studentesse sedicenni Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli su Corso Francia a Roma. Genovese, accompagnato dai suoi difensori gli avvocati Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra che il 26 dicembre scorso ha disposto nei suoi confronti gli arresti domiciliari. A termine dell'interrogatorio di Pietro Genovese è l'avvocato Franco Coppi a parlare: «Pietro Genovese è affranto, prova dolore e angoscia per quanto avvenuto, per la morte delle due giovani ragazze. Nessun commento sulla dinamica dell'incidente». «Sono sconvolto e devastato per quello che è successo». È quanto ha detto, in base a quanto riferito dai suoi difensori, nel corso dell'interrogatorio di garanzia davanti al gip durato circa una ora. «Pietro Genovese non è il killer descritto, merita rispetto - dicono i suoi difensori -. È una tragedia per tutte e tre le famiglie». «Non le ho viste, sono passato con il verde». Pietro Genovese, la sua versione su quella sera del 21 dicembre, quando ha investito e ucciso Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, l’ha ripetuta già tante volte, tra le lacrime, subito dopo l’impatto e nei giorni successivi. Senza darsi pace su quanto fosse accaduto.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 3 gennaio 2020. Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli avrebbero attraversato con il verde. È questo ciò che ritiene il legale della famiglia Romagnoli, l'avvocato Cesare Piraino. Il penalista, per avvalorare la sua tesi, ha prodotto due video che riprendono il funzionamento dell'impianto semaforico della zona in cui è avvenuto l'incidente. Questo materiale adesso è stato acquisito dalla procura, ed è entrato a far parte del fascicolo del pubblico ministero. Si tratta dei primi risultati dell'attività di indagine difensiva svolta sul teatro della tragedia avvenuta poco dopo la mezzanotte tra il 21 e il 22 dicembre a Roma, nella zona di Corso Francia. I due filmati, uno di cinquanta secondi e l'altro di un minuto e 26 secondi, riprendono il funzionamento del semaforo pedonale dove è avvenuto l'investimento da parte di Pietro Genovese alla guida del suo Suv. Nell'atto messo a disposizione del pm, l'avvocato Piraino sostiene che quell'impianto non prevede il giallo per chi attraversa e che le ragazze avrebbero iniziato l'attraversamento con il verde per i pedoni.  «Il semaforo per l'attraversamento pedonale - scrive il penalista nell'atto finito sulla scrivania del sostituto Roberto Felici - ha una peculiarità obiettiva: non prevede, per avvertire i pedoni dell'imminente sopraggiungere del verde per le automobili, il caratteristico giallo per i pedoni, ma prevede che al verde per i pedoni, che dura 26 secondi e mezzo, segua soltanto un verde lampeggiante che dura appena tre secondi e 40 centesimi, cui segue repentinamente e immediatamente il rosso, sempre per i pedoni e contestualmente dopo un secondo circa, sopraggiunge il verde, cioè il via libera, per le automobili della carreggiata». Per i legali, che hanno nominato periti in vista di esami tecnici irripetibili anche sulla velocità con cui viaggiava il suv, «la circostanza appare determinante sul profilo probatorio poiché se è vero che Genovese è sopraggiunto su quelle strisce pedonali col verde e la macchina a fianco, nel frattempo, si è fermata per far passare le ragazze, è certo che le stesse hanno iniziato l'attraversamento pedonale con il verde e che si sono imbattute, subito dopo, nel verde lampeggiante e quindi, dopo appena tre secondi e mezzo, nel rosso, senza poter fare, loro sì, null'altro che subire la morte». Un punto fondamentale per sostenere l'accusa di duplice omicidio stradale a carico di Genovese è stabilire, senza alcun margine di errore a quale velocità stava viaggiando il suv. Per questo gli investigatori attendono l'esito della perizia cinematica. Ma anche la difesa del ragazzo ha nominato un consulente di parte, così come le famiglie delle sedicenni. Un testimone importante è un ragazzo (amico di Genovese), che viaggiava nel sedile anteriore del suv che ha travolto le due studentesse del Liceo Gaetano De Sanctis. Il ragazzo ha spiegato «che anche volendo non avremmo potuto correre. Su Corso Francia era appena scattato il semaforo verde e l'auto era ripartita da poco». È questa una dichiarazione acquisita dai pm. Ma dovranno essere effettuate indagini più approfondite anche su un altro punto. Il ventenne aveva bevuto - il suo tasso alcolemico era di 1,4 - ma le analisi hanno rilevato nel suo corpo anche la presenza di cocaina e oppiacei, circostanza che ha spinto la procura a contestare un'aggravante specifica. Aggravante che, invece, non è stata riconosciuta dal gip: nell'ordinanza si legge che non è stato possibile stabilire quando fossero state assunte le sostanze e, quindi, non è assolutamente certo che il ventenne le avesse consumate prima di mettersi al volante.

Ilaria Del Prete per leggo.it il 2 gennaio 2020. Dopo i funerali di Gaia e Camilla non si arresta la discussione attorno all'incidente in Corso Francia a Roma, in cui le due amiche 16enni hanno perso la vita investite dall'auto di Pietro Genovese. A tornare sull'argomento, pur senza nominarlo direttamente, è Barbara Palombelli attraverso un post sul suo profilo Facebook. La giornalista parla  - "da antropologa e persona non ipocrita" -  dei riti d'iniziazione, quelle prove di coraggio e irresponsabilità tipiche del passaggio dall'infanzia all'età adulta. E se da un lato ripercorre le sue bravate adolescenziali, dall'altro punta un dito contro i genitori di oggi: «Vedo tante ragazze e tanti ragazzi, privati dall’ansia dei genitori delle sfide classiche (moto, sci, avventure) che si ritrovano poi a sfidare la morte in altri modi». Questo il post completo pubblicato da Barbara Palombelli su Facebook: «Torno, da antropologa e da persona spero non ipocrita, al tema di queste settimane. Ero una scellerata, correvo in moto senza l’età e senza casco, passavo col rosso, con i miei cugini scendevamo in bici contromano la salita di Anzio, prendevamo il gommone e ci tuffavamo col motore acceso, nell’euforia degli anni Sessanta gli zii cacciatori ci facevano sparare e ci imponevano prove di coraggio...Potrei continuare all’infinito: da piazza Euclide su Corso Francia sulle Laverda 750...Non mi sono mai drogata e non ho mai bevuto ma quando potevo, come tutti gli adolescenti del mondo, sfidavo la morte per iniziare la vita...Sono più umile di tanti di voi e credo di essere soltanto una fortunata sopravvissuta...Purtroppo vedo tante ragazze e tanti ragazzi, privati dall’ansia dei genitori delle sfide classiche (moto, sci, avventure) che si ritrovano poi a sfidare la morte in altri modi... si chiudono in casa (i maschi) smettono di mangiare o mangiano troppo (le femmine) o facendo altro...La verità è che al rito di iniziazione non si sfugge!!! Auguri e vi prego: basta ipocrisie!!!!»

Travolte e uccise a Roma, disposta consulenza su velocità e punto dell'impatto. Ai magistrati interessa ricostruire la dinamica dell'incidente stradale costato la vita alle 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli nella notte tra il 21 e il 22 dicembre. La Repubblica il 03 gennaio 2020. Una consulenza tecnica che ricostruisca la dinamica dell'incidente stradale costato la vita alle 16enni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, uccise a Corso Francia la notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso dal suv guidato dal 20enne Pietro Genovese. È questo il prossimo passo istruttorio che il procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e il pm Roberto Felici, riuniti questa mattina per oltre un'ora, intendono fare. L'incarico tecnico, con i relativi quesiti, non è stato ancora affidato. Ai magistrati interessa accertare la velocità con cui procedeva il veicolo e, in assenza di segni di frenata, il preciso punto di impatto tra il mezzo e le vittime per capire se quest'ultime si trovassero o no sulle strisce pedonali. La procura, preso atto che non ci sono telecamere in zona che abbiano ripresa la scena, intende sentire nei prossimi giorni anche il ragazzo che sedeva accanto al figlio regista oltre all'automobilista della Smart che, invece, ha fatto in tempo a fermarsi consentendo alle ragazze di attraversare la strada. All'attenzione dei pm anche i video girati dai legali delle parti offese e relative al funzionamento dei semafori.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 5 gennaio 2020. Saranno necessari almeno due mesi perché periti e consulenti di parte facciano chiarezza sulla dinamica dell'incidente di Corso Francia dove, nella notte tra il 21 e il 22 novembre, sono rimaste uccise Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann. Gli incarichi saranno affidati già questa settimana e dovrebbero stabilire, in primo luogo, a quale velocità viaggiasse l'auto guidata da Pietro Genovese, il ventenne che le ha travolte. Gli accertamenti sarebbero assai più semplici se la Renault Koleos, intestata a una concessionaria della provincia di Milano e in comodato d'uso a Pietro Genovese, il regista, papà del ragazzo, fosse dotata di una scatola nera, circostanza che non è ancora stata verificata. Rimangono comunque alcuni punti oscuri, ma anche su questi la relazione degli ingegneri, che saranno nominati dal procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e dal pm Roberto Felici, dovrebbe fare chiarezza. Tra questi il luogo esatto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato: la maggior parte dei testimoni riferisce che non fossero sulle strisce e che il semaforo segnasse il verde per le auto. In campo scenderanno ingegneri, fisici e ricostruttori tecnici, sia per conto della procura che delle parti. La polizia municipale ha già verificato che, sul luogo dell'incidente, non c'erano tracce di frenata. E, del resto, lo stesso Pietro Genovese, nel corso dell'interrogatorio davanti al gip Bernadette Nicotra, che il 26 dicembre ha disposto per il ragazzo i domiciliari, ha riferito di essersi accorto delle due sedicenni solo dopo l'impatto. I calcoli, per stabilire la velocità di marcia del Suv, ora sotto sequestro, non potranno quindi basarsi sui segni rimasti sull'asfalto, ma, partendo dal tipo di danno sull'auto, dal punto in cui sono stati sbalzati i corpi e anche dal luogo esatto in cui si è fermata la Renault dopo l'impatto, indicheranno la velocità dell'auto al momento del drammatico incidente. I tecnici terranno anche conto delle testimonianze. Il margine di approssimazione nei calcoli e nella ricostruzione della dinamica dell'incidente, sarebbe praticamente nullo se nella Koleos, immatricolata nel 2018 e guidata da Genovese, fosse stata installata una scatola nera. Lo strumento previsto nei modelli di auto più moderni, in caso di incidente, rileva l'accelerazione massima, il tipo di crash, il luogo in cui si è verificato e l'ultima velocità rilevata oltre alle accelerazioni ed alle decelerazioni. Non solo, al data base centrale vengono inviati anche i dati sullo storico delle marce inserite nel corso del tempo.  Dati preziosissimi per la ricostruzione, che potrebbe raccontare esattamente quanti metri prima dell'impatto l'auto fosse ripartita dal semaforo e quale velocità avesse raggiunto. Gli inquirenti, però, non sanno ancora se la Renault fosse dotata di scatola nera. Secondo la maggior parte delle testimonianze, Gaia e Camilla non avrebbero attraversato sulle strisce pedonali, ma ad alcuni metri dal semaforo verde per gli automobilisti. Per di più, in un punto con scarsa visibilità, in piena notte e mentre pioveva. Centrale è però il video, oramai acquisito agli atti su richiesta dell'avvocato Cesare Piraino difensore dei Romagnoli. Dalle immagini risulta chiaro come, nel punto di attraversamento per i pedoni, il semaforo non segni mai il giallo, ma solo una brevissima intermittenza di verde che un secondo dopo si trasforma in rosso. Gli inquirenti, oltre a Davide, uno dei ragazzi che viaggiava con Genovese sulla Koleos, potrebbero risentire anche l'uomo che guidava la Smart e marciava dietro all'auto che ha frenato vedendo le due ragazzine. La macchina ha coperto la visuale di Genovese, che ha superato a sinistra, e di Gaia e Camilla che, rassicurate vendendola ferma, anziché procedere con cautela, sono scattate in una corsa.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2020. Non chiede l' annullamento della misura cautelare Pietro Genovese. I difensori rinunciano all' udienza davanti ai giudici del Tribunale del Riesame. Il ventenne romano che, la notte tra il 21 e il 22 novembre, ha travolto con la sua auto le sedicenni Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann mentre attraversavano di corsa Corso Francia, hanno deciso di affidarsi al proseguo delle indagini della procura per dimostrare l' impossibilità di evitare l' impatto dopo essere regolarmente partito col verde dal semaforo. Un' indagine che si dimostra delicata. E che ieri ha messo il primo punto fermo. Il procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e il pm Roberto Felici hanno affidato a un esperto in infortunistica stradale, l' ingegnere Mario Scipioni, la perizia che dovrebbe chiarire la dinamica dell' incidente.

LA PERIZIA. Un accertamento irripetibile a cui parteciperanno anche i consulenti di tutte le parti processuali, ossia dell' indagato e dei familiari delle vittime. Nel frattempo è stato accertato che la Renault Koleos guidata da Genovesi era sprovvista di scatola nera. La perizia collegiale quindi diventerà ancora più cruciale. Al consulente tecnico è stato chiesto - presa visione del veicolo, dello stato dei luoghi, dei rilievi effettuati dalla polizia locale di accertare quale fosse la velocità e il punto d' urto, la corsia percorsa, la sincronizzazione delle lanterna semaforica pedonale e veicolare. Ma anche accertare le condizioni di visibilità al momento del sinistro. Uno degli snodi dell' inchiesta resta la velocità. La circostanza della velocità contestata come aggravante dalla procura era stata respinta dal giudice che pure per il giovane ha disposto i domiciliari proprio perché non accertata. Gli esiti della maxiperizia si conosceranno tra un paio di mesi. Ci si aspettava che gli accertamenti fossero più semplici se appunto la Renault Koleos, intestata a una concessionaria della provincia di Milano e in comodato d' uso a Pietro Genovese, il regista, papà del ragazzo, fosse dotata di una scatola nera, circostanza ora esclusa. Un altro punto oscuro resta il luogo esatto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato. La maggior parte dei testimoni riferisce che non fossero sulle strisce e che il semaforo segnasse il verde per le auto.

GLI ACCERTAMENTI. La polizia municipale ha già verificato che, sul luogo dell' incidente, non c' erano tracce di frenata. E, del resto, lo stesso Pietro Genovese, nel corso dell' interrogatorio davanti al gip Bernadette Nicotra, che il 26 dicembre ha disposto per il ragazzo i domiciliari, ha riferito di essersi accorto delle due sedicenni solo dopo l' impatto. I calcoli, per stabilire la velocità di marcia del Suv, ora sotto sequestro, non potranno quindi basarsi sui segni rimasti sull' asfalto, ma, partendo dal tipo di danno sull' auto, dal punto in cui sono stati sbalzati i corpi e anche dal luogo esatto in cui si è fermata la Renault dopo l' impatto, indicheranno la velocità dell' auto al momento del drammatico incidente. Intanto in città cresce la preoccupazione per il gioco del semaforo rosso. Attraversare giorno e notte lontano dalle strisce pedonali. Una scena che si è riproposta pochi giorni fa anche in viale Angelico, tra liceali. 'Voglio fare come Camilla e Gaia'', ha detto uno studente mentre attraversava col semaforo rosso. Un gioco pericolosissimo. Anche se è più probabile che le due giovani non avessero azzardato volutamente a rischio la strada, ma solo sottovalutato i rischi. Le tre famiglie, quella di Genovese e dei Romagnoli e dei von Freymann, ognuno col proprio dramma, restano atterrite nel dolore. Gli accertamenti serviranno solo a calcolare l' imprevedibilità di una disgrazia, fatta di attimi e combinazioni, ed errori che lievitano in tragedie, purtroppo per le due ragazze senza chance.

Omicidio stradale, le differenze tra Pietro Genovese e Alice Nobili. Frank Cimini il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. L’eccesso di informazione finisce per disinformare soprattutto quando ci sono mille pesi e mille misure. Sull’omicidio stradale di corso Francia a Roma i giornaloni si stanno sbizzarrendo a fornire un diluvio di particolari anche saccheggiando dai profili social dei protagonisti e celebrando un vero e proprio processo mediatico. Voglio ricordare qui un altro omicidio stradale che invece fu secretato dalla procura di Milano e dai media. A ottobre del 2018 Alice Nobili figlia di due magistrati Alberto Nobili e Ilda Boccassini investì e uccise in viale Montenero un medico. Il capo dei vigili urbani ex responsabile della polizia giudiziaria della procura intervenne personalmente sul luogo dell’incidente e non è credibile che lo faccia per tutti i sinistri. Non venne eseguito l’alcol test che fanno a tutti i comuni mortali. L’indagine affidata a un pm sostituto procuratore quindi sottoposto dei due aggiunti fu blindata e non si è saputo più nulla. Abbiamo avuto a che fare con una vicenda da nomenklatura tipo Unione Sovietica che non fa certo onore né alla procura e nemmeno ai giornali che spesso quando ci sono di mezzo i magistrati chiudono un occhio e l’altro pure. Come è accaduto di recente per i mutui agevolati concessi dalla banca di Bari insieme agli scoperti fino al 26 per cento e come è successo per il silenzio calato sul “mercato delle vacche” dell’estate scorsa. Ed è di quel Csm che si chiede l’intervento adesso a tutela del procuratore Gratteri al quale nessuno spiega che il suo incarico non comporta pure quello di redattore capo nei quotidiani del mandamento giudiziario.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 22 gennaio 2020. Trenta giorni oggi. I fiori sono ancora lì, come le dediche, i peluche lasciati dagli amici ma anche da semplici passanti, cittadini del quartiere, profondamente toccati dalla tragedia che si è portata via in un soffio, un mese fa, la vita di due sedicenni. Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann disegnate su un muro, mentre si tengono per mano, guardano ancora Corso Francia e lo vedono uguale a come era la notte del 22 dicembre. Dopo che attraversando la strada non sulle strisce pedonali sono state travolte dal Suv di Pietro Genovese. In questa porzione di Roma nord che sembra ancora «un'autostrada», «i pedoni, soprattutto di sera o durante la notte, complice anche il minor traffico continuano ad attraversare con il rosso o in mezzo alla strada», commenta Marilena di fronte all'edicola di Corso Francia. «Vivo qui vicino, in via Flamina e lo vedo quello che succede ancora come se la morte di quelle due povere ragazze non fosse avvenuta». «Se la gente non fa attenzione devono provvedere, Comune o Municipio o non so chi altro, a bloccare questo sistema», rincara Giovanni uscendo dall'Ovs. Che fine hanno fatto le rassicurazioni di amministratori e assessori pronunciate per voce del Comune o del XV Municipio per rendere più sicuro Corso Francia? Finora è arrivato un autovelox di quelli mobili per controllare la velocità dei veicoli nell'attesa che facciano la loro comparsa i decreti prefettizi per dar seguito all'istallazione di quelli fissi (una trentina in città, compreso un apparecchio in Corso Francia). Come fanno sapere dal II e dal XV Gruppo dei vigili urbani i controlli, almeno sulle auto, sono aumentati. Il dispositivo per stanare coloro i quali premono sull'acceleratore, seppur mobile, viene attivato quasi giornalmente per diverse ore. È collocato a metà del ponte per chi entra in città dalla Cassia o dalla Flaminia. E per i pedoni indisciplinati? Tra i guard-rail crescono le erbacce e la gente continua a scavalcarli. Le barriere non sono arrivate. Nonostante, all'indomani dell'incidente, dal Campidoglio garantivano studi di fattibilità per impedire i salti o gli attraversamenti indisciplinati. Per quanto riguarda i semafori, invece, anche dopo le osservazioni sulla ristrettezza dei tempi per l'attraversamento sollevate dai legali di una delle due sedicenni, il Comune ha fatto sapere che il tempo per i pedoni è corrispondente alle normative vigenti. Specificando, tuttavia, come gli apparecchi di Corso Francia rientrano in un piano di ammodernamento precedente alla morte di Gaia e Camilla. Un progetto che prevede la sostituzione dei vecchi impianti con dispositivi più moderni, dotati della luce gialla e del count-down che sarà finanziato al più presto con 450 mila euro. La cifra servirà per cambiare non solo i semafori di Corso Francia ma anche quelli di altre ottanta strade di Roma. Il Consiglio del XV Municipio ha approvato, il 17 gennaio, un documento condiviso da tutti i gruppi nel quale si chiedono misure urgentissime a Palazzo Senatorio soprattutto per frenare i pedoni. Intanto sono in partenza degli incontri per i ragazzi incentrati sulla sicurezza stradale. La scorsa settimana un primo appuntamento si è tenuto alla scuola Nitti alla presenza dei genitori di Gaia e Camilla, nel prossimi giorni, con l'ausilio del II e XV Gruppo della polizia locale, ne saranno organizzati degli altri nelle scuole e nell'oratorio della chiesa del Preziosissimo Sangue al Fleming dove questa sera si terrà la messa del trigesimo per Gaia e Camilla.

La madre di Gaia, uccisa dal Suv: ponte pedonale in corso Francia. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. I ragazzi ce la fanno. Non serve il passo svelto, ma è imperativo che sia regolare. Altrimenti quei quaranta metri davanti alle auto pronte a scattare non bastano nemmeno a loro. Per chi è più in là con gli anni, invece, le mamme con i passeggini, chi trascina un trolley o le buste della spesa, i 30 secondi di verde riservati ai pedoni dai semafori su corso Francia sono appena sufficienti. Ci sarebbe l’appendice del verde lampeggiante. Ma, cronometro alla mano, concede solo altri tre secondi prima che diventi rosso. Un conto alla rovescia che mette ansia solo a guardare l’omino che si accende cinque volte a intermittenza prima sparire: chi non coglie l’attimo per sfruttare i 30 secondi iniziali, corre il rischio di ritrovarsi all’improvviso in mezzo alla strada, con auto e moto che sopraggiungono. Dalla notte fra il 21 e il 22 dicembre scorsi, dalla tragica fine di Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, le sedicenni travolte e uccise dal Suv guidato da Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, positivo all’alcoltest e finito ai domiciliari, sotto accusa ci sono anche i semafori di corso Francia, strada — e «autostrada» — simbolo di Roma nord, che collega i Parioli con Cassia e Flaminia. I vigili urbani sono in attesa di una delega dalla Procura per accertare il corretto funzionamento almeno dell’impianto all’incrocio con via Flaminia, vicino al quale — secondo la Municipale — Gaia e Flaminia sono state investite, e se i tempi del verde pedonale siano giusti. Intanto alla richiesta degli abitanti di installare autovelox fissi (da Natale i vigili urbani hanno posizionato quelli mobili, facendo multe a raffica) ha fatto seguito la proposta dei lettori del Corriere della Sera, sulla rubrica di Paolo Conti «Una città, mille domande» in Cronaca di Roma, di un ponte pedonale per salvaguardare chi attraversa. Qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi che possa essere dedicato a Gaia e Camilla. Cento i firmatari per ora, compresa la madre di Gaia, Gabriella Saracino, anche lei residente in zona. All’iniziativa, si aggiunge oggi — sempre sul Corriere Roma — quella di due architetti, Alessandra De Cesaris e Alessandro Franchetti Pardo, che vanno oltre, con il progetto di un sottopasso per riqualificare il quartiere. Con una rivelazione: nel 2010 il loro progetto «Percorso Francia», ultimato nell’ambito di un concorso bandito dall’Ordine degli ingegneri, fu presentato al XX Municipio. Da allora è rimasto in un cassetto. Come del resto l’adeguamento della durata del verde e del rosso ai semafori di corso Francia, tenendo presente comunque che il Codice della strada prevede che quelli pedonali lampeggino almeno per tre secondi in un tratto dove il limite di velocità è 50 chilometri orari. Come sull’«autostrada» dove Gaia e Camilla hanno perso la vita. Ma se da un punto di vista formale non ci sarebbe da eccepire — sarà l’indagine a confermarlo —, basta osservare cosa accade nei cinque attraversamenti fra il viadotto di via del Foro Italico e via di Vigna Stelluti per rendersi conto che lamentele e segnalazioni dei residenti, ormai decennali, se non più datate, sono condivisibili: 33 secondi in tutto per percorrere a piedi 40 metri non sono sempre sufficienti e possono mettere a rischio i pedoni.

Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'11 febbraio 2020. La chiusura è scattata alle 22 di ieri sera dopo l'annuncio dei giorni scorsi e in Corso Francia si è tornati alla notte tra il 21 e il 22 dicembre quando persero la vita - investite dal Suv di Pietro Genovese - le due sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Gli agenti del XV gruppo Cassia hanno circoscritto il luogo dell'incidente dove nella notte i vari periti di parte - insieme al ctu Mario Scipione nominato dal pm Roberto Felici - hanno provveduto a compiere rilievi importanti. Lo stradone dove le persone continuano ad attraversare senza regole è stato chiuso al traffico veicolare nel tratto compreso tra via Luigi Bodio e il viadotto Ponte Flaminio per permettere così la superperizia. L'Atac da parte sua ha contributo a rendere possibile la ricostruzione, deviando sei linee di autobus. In strada una società di Firenze nominata dalla madre di Gaia ha compiuto le analisi con un laser scanner. «Il dispositivo - spiegavano gli architetti - è servito a registrare il contesto per riprodurlo poi in 3D». Nella superperizia di ieri sono stati impegnati sei periti, tra cui un ingegnere aerospaziale. Nel dettaglio, a compiere le misurazioni - tra cui quelle sul semaforo di Corso Francia - sono stati il perito nominato dalla Procura, quello per la famiglia di Camilla, due per quella di Gaia e un altro, infine per Genovese, figlio del regista Paolo. Tutti hanno compiuto le stesse analisi che saranno poi utilizzate in tribunale partendo dai rilievi effettuati nella notte della tragedia dai vigili del II gruppo Parioli. «Questi rilievi sono serviti a prendere le misure per confrontarle con quelle rilevate dalla polizia la notte dell'incidente - spiegavano i periti - Sono state individuate le posizioni statiche raggiunte dai corpi dopo l'investimento, verificati i capisaldi della polizia, le condizioni di visibilità e sono state scattate diverse fotografie». Misurazioni, in sostanza, che serviranno a definire il punto di impatto tra il Suv e le due sedicenni con l'obiettivo di capire se le ragazzine stessero scavalcando il guard-rail centrale con il semaforo verde per le auto, come hanno riportato finora più testimoni, oppure fossero poco distanti dalle strisce pedonali. Più fattori sono stati presi in considerazione e su questi si baseranno le nuove proiezioni che, raccolte ieri notte, saranno riportate su pc e analizzate. Su Corso Francia non dovrebbero tenersi altri esami mentre - confermano i periti - si svolgerà una seconda analisi sull'auto di Genovese dopo la prima, condotta alcune settimane fa nel deposito di Settebagni, che ha visto l'impiego di un drone. Le perizie potranno proseguire fino al 7 marzo, ultimo giorno previsto per le analisi salvo prolungamenti decisi dal pm. Chi ieri sera è passato su Corso Francia ha pensato che ci fosse stato un nuovo incidente. «Poi abbiamo capito - spiegavano alcuni passanti - che non era così e abbiamo tirato un sospiro di sollievo». La morte di Gaia e Camilla ha provato molti cittadini che abitano in questa zona di Roma. I periti scrupolosamente hanno ognuno avuto il tempo di compiere i propri rilievi, la strada è stata riaperta al traffico dopo circa due ore: alle 24. Ad essere conteggiati, anche i tempi dell'impianto semaforico che di fatto dà 36 secondi totali di tempo ai pedoni per attraversare una carreggiata di 18 metri: 30 secondi di luce fissa verde, quasi 4 secondi di lampeggiante e 2 secondi luce rossa fissa per pedoni e automobili. Proprio il semaforo era entrato nel mirino di alcuni legali che ritenevano troppo breve il tempo totale per l'attraversamento. Il Comune di Roma ha sempre specificato che la tempistica era regolare aggiungendo che si sarebbe provveduto alla sostituzione degli apparecchi ma non a causa dell'incidente. L'ammodernamento dei semafori di Corso Francia rientra in un progetto più ampio iniziato già nel 2014 per la sostituzione di oltre mille semafori in città con dispositivi più moderni dotati del count-down e del suono. Per procedere con i lavori ora il Campidoglio deve isolare all'incirca 400 mila euro per acquistare i nuovi semafori da istallare su Corso Francia. Oggi alle 17, a Ponte Milvio, ci sarà una fiaccolata in ricordo delle due sedicenni.

C. R. per “il Messaggero” il 12 febbraio 2020. Quando il gruppo compatto e coeso raggiunge il murales che raffigura Gaia e Camilla mentre si tengono per mano, in Corso Francia le voci smettono di far rumore. È il tempo della preghiera e delle lacrime che ancora oggi - a quasi tre mesi dalla tragedia - scendono dagli occhi di molti. Proprio lì davanti le due sedicenni sono state investite la notte tra il 21 e il 22 dicembre dal Suv di Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, mentre provavano ad attraversare la strada fuori dalle strisce. E ieri, dopo la super-perizia della notte precedente che è servita ai consulenti delle famiglie delle due ragazze, Romagnoli e Von Freymann, e a quella di Genovese, per ricalcolare le misure, le distanze, acquisire materiale fotografico e immortalare la scena con un laser-scanner per ricostruirla poi in 3D, molti amici, parenti, semplici cittadini e compagni di scuola, hanno preso parte alla fiaccolata che è partita da Ponte Milvio. Alla testa i genitori delle due vittime, con il papà di Gaia costretto da un'invalidità alla sedia a rotelle che teneva in mano come tutti gli altri una candela. «Ci mancano tanto, troppo», ha sussurrato più di un amico mentre il corteo ha attraversato il piazzale sotto la Torretta del Valadier, percorso via Flaminia fermandosi poi nel punto dove permangono i fiori, i peluche, le dediche e le foto lasciate in ricordo delle due ragazzine. «Saremo tanti a ricordare i nostri piccoli angeli» aveva scritto su Fb la mamma di Gaia annunciando la fiaccolata di ieri che da Corso Francia è arrivata nella chiesa dove si sono celebrati i funerali delle due sedicenni. «Resteranno sempre con noi, nei nostri cuori», ha ripetuto più di un partecipante mentre l'inchiesta prosegue. Nei prossimi giorni saranno svolte altre perizie, tra cui una seconda sull'auto di Genovese, ferma nel deposito di Settebagni. I consulenti - guidati dal Ctu del tribunale Mario Scipione - avranno tempo fino al prossimo 7 marzo per acquisire materiale e svolgere ulteriori analisi. Poi le conclusioni a meno che il pm Roberto Felici non autorizzi un supplemento di perizie laddove vengano richieste.

Perizia sulla morte di Gaia e Camilla, dubbi sui freni dell’auto. Gli esperti vogliono capire perché il sistema di sicurezza non ha funzionato. Nominato dalla procura un ingegnere esperto di infortunistica stradale. Michele Di Lollo,  Giovedì 05/03/2020 su Il Giornale. Un fatto tragico avvenuto a Roma una manciata di giorni prima di Natale. S’indaga ancora sull’incidente avvenuto a Corso Francia la notte tra il 21 e il 22 dicembre. In quell’occasione morirono due sedicenni: Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann. Si allungano i tempi per la superperizia che potrebbe chiarire una volta per tutte la dinamica dello schianto. Resta uno snodo chiave da appurare, scrive il Messaggero: i sensori radar proteggi pedoni dell’auto guidata dal ventenne Pietro Genovese erano attivi? E se lo erano, allora perché non hanno funzionato nonostante il tentativo del conducente di arrestare il mezzo? Per stabilirlo è stato nominato dalla procura un ingegnere esperto di infortunistica stradale. Si chiama Mario Scipioni e ha bisogno di chiarimenti dai tecnici della società costruttrice che per quel Suv ha ottenuto grandi riconoscimenti proprio per i sistemi di sicurezza. Un punto cruciale per accertare se non fossero funzionanti, oppure disattivati o, infine, non entrati in funzione per un guasto. Il sistema di frenata di emergenza autonoma, infatti, non si è attivato. In assenza della scatola nera sarà un elemento centrale per accertare l’approccio alla guida del conducente che aveva ripreso la marcia appena scattato il semaforo verde. La perizia sulla dinamica dell’incidente era attesa per domani, così come concordato col procuratore aggiunto, Nunzia D’Elia, e il pm, Roberto Felice. Un accertamento irripetibile a cui stanno partecipando anche gli altri consulenti delle parti processuali, cinque in tutto, considerati i due nominati dall’indagato e i tre dei familiari delle vittime. Qualcosa però è già chiaro. È stato accertato che la Renault Koleos guidata da Genovesi era sprovvista di scatola nera. La perizia quindi diventerà ancora più cruciale. Al consulente tecnico era stato chiesto di accertare quale fosse la velocità e il punto d’urto, la corsia percorsa, la sincronizzazione delle lanterne semaforica pedonale e veicolare. Ma anche accertare le condizioni di visibilità al momento del sinistro. Il fulcro, così, rimane la dinamica. Ci si aspettava che gli accertamenti fossero più semplici, se appunto il Suv fosse dotata di una scatola nera, circostanza adesso esclusa. Un altro punto oscuro resta il luogo esatto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato. La maggior parte dei testimoni riferisce che non fossero sulle strisce pedonali e che il semaforo segnasse il verde per le auto, così come riferito da Genovese e da uno dei due amici in auto con lui. Il ragazzo, intanto, resta ai domiciliari. La difesa non ha chiesto l’annullamento della misura cautelare.

G.D.S. per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 16 marzo 2020. La notte dell' impatto mortale in cui hanno perso la vita Gaia e Camilla i freni d' emergenza con riconoscimento pedoni della Renault Koleos che ha investito le due 16enni sarebbero stati disattivati. L' ipotesi è all' esame del consulente della Procura, l' ingegnere Mario Scipione, nominato dal pm Roberto Felici per ricostruire la dinamica dell' incidente avvenuto tra il 21 e il 22 dicembre a corso Francia. È bene subito precisare che la disattivazione non ha rilevanza penale perché il codice della strada non impone di tenere attivi i freni d' emergenza con riconoscimento pedoni. Pertanto anche se Pietro Genovese, 20 anni, indagato con l' accusa di duplice omicidio stradale, li avesse spenti, non avrebbe commesso alcuna violazione. Tuttavia stabilire se fossero (o meno) in funzione è essenziale per capire cosa è successo quella sera. Perché qualora la consulenza dovesse accertarne la disattivazione, la domanda che si porrebbe è: la tragedia sarebbe stata evitabile con il riconoscimento pedoni in funzione? Va ricordato che dai rilievi effettuati dai vigili del II gruppo Parioli non risulta alcun segno di frenata. E va aggiunto come la sera del dramma Genovese - ai domiciliari dal 26 dicembre - è stato trovato positivo all' alcoltest con un valore di 1,4, quasi tre volte il limite consentito. I freni d' emergenza di solito vengono disattivati per avere una guida scorrevole, poiché se sono attivi rendono la guida poco fluida. La questione è una delle ragioni per cui l' ingegner Scipione - consulente della Procura anche nel caso della morte di Claudio Salini, deceduto in un incidente il 30 agosto del 2015 - ha chiesto e ottenuto una proroga per la consegna della relazione finale. Il deposito, fissato al 7 marzo, è slittato a inizio aprile. E non è escluso che la pandemia da coronavirus comporti un' ulteriore richiesta di proroga, qualora emergesse la necessità di un quarto confronto tra il consulente del pm, la difesa di Genovese, figlio del regista Paolo, e le famiglie delle due giovani vittime. Confronto che, in questo momento, non potrebbe tenersi per via del divieto di assembramento imposto dal decreto del governo per contenere l' emergenza sanitaria. I nodi della ricostruzione sono due: la velocità tenuta quella sera da Genovese e il punto d' impatto. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono emerse delle divergenze con significativi scostamenti tra la difesa e le parti offese: pertanto sarà fondamentale cosa scriverà nel merito il consulente della Procura perché la sua conclusione indirizzerà le scelte del pm. Su dove esattamente sia avvenuto l' incidente invece non filtra alcuna anticipazione.

Maria Elena Vincenzi per "la Repubblica" il 7 aprile 2020. Gaia e Camilla non erano sulle strisce e sono sbucate dal buio. Era difficile vederle, soprattutto per un' auto che correva. E stata depositata in procura la consulenza del perito del pubblico ministero sull' incidente in cui, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso hanno perso la vita, a Roma, le sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. A travolgerle, su corso Francia, grande arteria a nord della citta, Pietro Genovese, ventenne figlio del regista Paolo. La relazione arrivata ai pm conferma la velocita, ma parla anche di concorso di colpa. Ovviamente bisognerà chiarire in quale percentuale, anche sulla base dei calcoli e della perizia sul mezzo. Perchè, questa la tesi dei pm, l' incidente avrebbe comunque potuto essere evitato se la macchina fosse andata piano e se Genovese non avesse bevuto. Ma la consulenza potrebbe alleggerire la posizione a processo (e quindi la futura pena) del ragazzo che, dal 26 dicembre, e ai domiciliari con l' accusa di duplice omicidio stradale: il tasso di alcol nel suo sangue era superiore ai limiti (lo era anche quello di stupefacenti ma non gli e stato contestato perchè non si può dire con certezza se li avesse assunti quella notte). Per studiare bene cosa e accaduto quella tragica notte a pochi giorni dal Natale, il perito nominato dal procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e dal sostituto Roberto Felici, aveva anche chiesto l' autorizzazione ad alcune prove sul posto. L' undici febbraio scorso, i vigili hanno chiuso corso Francia, di notte, per lasciare ai periti (erano presenti anche quelli delle parti, ossia le famiglie delle vittime e dell' indagato) la possibilità di fare tutte le verifiche in loco, cercando di ricreare la stessa scena. Tante le attrezzature usate tra cui anche un dispositivo per ricostruire la scena in 3D e per fare chiarezza sulle divergenti testimonianze raccolte dai vigili del II gruppo quella notte e durante le indagini. C' era infatti chi sosteneva che le adolescenti avessero attraversato sulle strisce e chi, invece, diceva che avevano scavalcato il guardrail in un tratto buio e dove non era previsto l' attraversamento pedonale. E ora, dopo meno di due mesi, la relazione e arrivata a piazzale Clodio. Gli elementi da analizzare sono molti. Certo, c' e il dato del concorso di colpa. Ma in un processo in cui l' ingegneria e i calcoli matematici la faranno da padroni, un peso avrà anche il rispetto dei limiti di velocita: la consulenza dice che sono stati superati. Genovese, anche durante il suo interrogatorio di garanzia, al giudice ha raccontato di aver colpito le ragazze poco dopo essere ripartito da un semaforo rosso. E che, quindi, la sua velocita non era sostenuta. Ma per l' esperto il Suv andava veloce. Tanto che la procura, che con questa perizia considera chiuse ormai le indagini, nei prossimi giorni chiederà il giudizio immediato per Genovese.

Giulio De Santis per il ''Corriere della Sera - Roma'' l'11 aprile 2020. La notte fra il 21 e il 22 dicembre scorso, Pietro Genovese non si è fermato dopo aver investito e ucciso Gaia e Camilla. Dopo averle travolte, ha proseguito per altri 200 metri la sua corsa con il suv che si è poi fermato solo per la rottura del motore sulla rampa della via Olimpica, in direzione Salaria. Un comportamento che ha convinto il pm Roberto Felici a contestare una nuova accusa al 20enne, ipotizzata fin dall' inizio dai vigili urbani: la violazione dell' obbligo di fermarsi in caso d' incidente. Reato che aggrava la posizione del ragazzo, figlio del regista Paolo Genovese. L' articolo 189 del Codice della Strada prevede una pena compresa fra sei mesi e tre anni di reclusione. Il giovane è già indagato con l' accusa di duplice omicidio stradale. Fino a ieri rischiava fra gli otto ai sedici anni di carcere, adesso qualcosa di più.

Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica - Edizione Roma” il 9 aprile 2020. L’accusa è di duplice omicidio stradale. Pietro Genovese sfrecciava su Corso Francia ai 90 all' ora quando, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre scorso, ha travolto e ucciso le sedicenni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Sono questi i dettagli contenuti nel capo di imputazione con il quale, la procura ha chiesto il giudizio immediato per il figlio 20enne del regista Paolo Genovese. Il rito prevede di andare direttamente al dibattimento, saltando l' udienza preliminare: il fascicolo arriverà direttamente al giudice che potrà fissare la data di inizio del processo. Ora Franco Coppi e Gianluca Tognozzi, difensori del giovane che sta agli arresti domiciliari dal 26 dicembre, hanno quindici giorni per decidere il da farsi perché questo nuovo reato ha pene altissime, che vanno dagli 8 ai 16 anni (visto che le vittime sono due). Per di più c' è l' aggravante dell' alcol: le analisi dei vigili del II Gruppo su Genovese hanno rilevato che quella sera aveva bevuto. Nel suo sangue c' erano anche tracce di sostanze stupefacenti, ma questo non gli è stato contestato perché non era possibile definire con certezza in che data le avesse assunte. La richiesta firmata dal procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e dal pubblico ministero Roberto Felici, evidenzia anche che Gaia e Camilla quella sera hanno attraversato con il rosso.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 15 aprile 2020. Pietro Genovese non poteva vedere Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann prima del tragico impatto del 21 dicembre scorso su Corso Francia. E le due ragazze, vittime dell'incidente, non potevano vedere l'auto in arrivo. Sono le conclusioni di Mario Scipione, il perito nominato dal procuratore Roberto Felici, per stabilire la dinamica della tragedia. A consentire la ricostruzione, oltre alle testimonianze e ai calcoli eseguiti sull'auto, sono state le immagini catturate dalla telecamera del Compro oro all'altezza del civico 137 di corso Francia. L'apparecchio immortala la scena 47 metri prima del punto di impatto. E riprende, prima della Renault guidata da Genovese, un'altra auto bianca, che viaggiava a velocità sostenuta. Un testimone racconta che quella vettura ha rischiato di investire le due ragazze che attraversavano fuori dalle strisce pedonali, a circa 15 metri, e con il semaforo rosso per i pedoni. E con quella manovra ha chiuso la visuale per chi era dietro. Subito dietro c'era l'auto di Genovese, che era partita con il semaforo verde qualche decina di metri prima. Per il perito, sarebbe bastato un secondo e mezzo di ritardo per evitare l'impatto: se il ragazzo, ai domiciliari dal 26 dicembre per omicidio stradale, l'avesse affiancata, anziché superarla, avrebbe visto Gaia e Camilla. Scrive il perito: «È evidente che nelle fasi antecedenti due secondi dall'impatto, né Genovese né i pedoni potevano reciprocamente avvistarsi». E aggiunge: «L'impianto semaforico che regolava l'area di intersezione tra corso Francia e via Flaminia non consentiva il transito simultaneo dei veicoli diretti dal Gra verso Roma centro (Genovese) e dei pedoni, che provenivano dal lato Ponte Milvio ed erano diretti verso la collina Fleming (Gaia e Camilla)». Smentita dunque l'ipotesi che su quel semaforo non ci fosse il giallo per i pedoni, anzi è stato accertato che per due secondi sia i pedoni che i veicoli avevano il rosso. Si legge nella perizia: «Il Genovese era soggetto al verde veicolare per 52 secondi, al giallo per quattro secondi e al rosso per 34 secondi. I pedoni erano soggetti al verde pedonale per 26 secondi al giallo per quattro secondi e al rosso 60 secondi». Secondo il perito, l'impatto avviene vicino all'inizio del guardrail che separa le due carreggiate «a circa 18 metri e 14 metri rispettivamente dall'inizio e dalla fine del passaggio pedonale posto nell'intersezione con via Flaminia». Le telecamere di sorveglianza del Compro oro, «riprendevano Genovese iniziare lo spostamento dalla corsia centrale verso quella di sinistra per superare un veicolo bianco rimasto ignoto che lo precedeva nella corsia centrale». Secondo le conclusioni della procura che ha chiesto per Genovese il giudizio immediato, l'impatto si è verificato ad una velocità di circa 90 chilometri orari, in un'area sufficientemente illuminata fino all'inizio della rampa della tangenziale. «In conclusione si legge nel documento Genovese poteva scorgere la presenza dei pedoni solo dopo avere affiancato l'autovettura ignota e quindi la sua mancata reazione a fronte della situazione di pericolo è compatibile con l'avvistamento della Romagnoli e della von Fryedmann in un tempo nell'ordine di un intervallo psicotecnico in orario notturno che la letteratura scientifica quantifica in poco più di un secondo». Anche la velocità avrebbe avuto incidenza sull'impatto «che non si sarebbe verificato scrive ancora Scipioni - se Genovese avesse viaggiato a 50 chilometri orari». In questo caso, calcola il perito, l'automobile sarebbe arrivata 1,5 secondi dopo sul luogo dell'impatto. E le due ragazze avrebbero avuto il tempo di concludere il loro pericoloso attraversamento notturno lontano dalle strisce pedonali.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2020. Guidava oltre i limiti di velocità consentiti su quel tratto di strada (90 km orari anziché 50). Aveva bevuto (il test alcolemico ha rilevato 1,4 grammi per litro). E stava spedendo un messaggio WhatsApp con il cellulare. La posizione di Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, si è aggravata in seguito all' ultima informativa della polizia postale depositata in Procura. Genovese, accusato dell' omicidio stradale plurimo di Camilla Romagnoli e Gaia von Freymann, è stato arrestato (domiciliari) lo scorso 26 dicembre. Nei suoi confronti il procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e il pm Roberto Felici hanno già chiesto il processo con rito immediato, senza passare per l' udienza preliminare. Le certezze dei magistrati si sono consolidate con l' ultima informativa depositata dagli investigatori. Informativa nella quale si documenta come Genovese, in quei secondi che hanno determinato l' impatto (era mezzanotte e mezza) stesse maneggiando il cellulare, spedendo quattro immagini e un video ad alcuni indirizzi WhatsApp. Di questa circostanza non si era minimamente fatto cenno durante il colloquio con il giudice per le indagini preliminari che lo aveva ascoltato durante l' interrogatorio di garanzia. In quell' occasione, assistito dai difensori Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, Genovese aveva offerto la propria versione dei fatti sforzandosi di attenuare le proprie responsabilità. Tra le altre cose aveva sostenuto che quella notte lungo il viadotto di corso Francia, la velocità era contenuta e se erano stati superati i 50 chilometri orari, era stato di pochissimo, essendo appena ripartita la vettura dopo una sosta davanti al semaforo rosso. La perizia del consulente della Procura, Mario Scipioni, gli aveva dato torto. Secondo l' expertise del tecnico Genovese viaggiava a una velocità di 90 chilometri orari, un dato accertato attraverso una complessa analisi sui vistosi danni riportati dall' automobile. Nessun dubbio, dunque, che la notte fra il 21 e il 22 dicembre Genovese abbia agito con «imprudenza, imperizia e negligenza» marciando, non completamente lucido a una velocità non consentita. Come non vi sono dubbi che Gaia e Camilla stessero correndo lungo la carreggiata, procedendo - scrive Scipioni - a una velocità pari a 3,5 metri al secondo (fra i 12,5 e i 17,3 chilometri orari). L' esperto è riuscito, nel corso di una complessa simulazione e con l' aiuto delle telecamere di un «Compro oro» e di un distributore di benzina nei pressi, a individuare il punto dell' impatto, all' altezza del civico 177 di Corso Francia. «L' impatto - è scritto nella perizia - si verificava fra il frontale dell' autovettura e i fianchi dei pedoni e si concretizzava nella corsia sinistra di Corso Francia in direzione Roma centro, nei pressi dell' inizio del guardrail posto a separazione delle due carreggiate». Definitivo il giudizio dello stesso esperto: «La velocità di marcia della Renault - scrive ancora nella sua perizia - ha avuto un' incidenza causale con l' incidente stradale: il sinistro non si sarebbe verificato se Genovese avesse marciato alla velocità massima di 50 chilometri orari».

Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 23 aprile 2020. Pietro Genovese stava usando lo smartphone quando ha investito in corso Francia Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, la notte del 22 dicembre scorso. A mezzanotte e 27 minuti esatte, nell' orario in cui le due 16enni sono state travolte e sbalzate per oltre 30 metri su corso Francia, Genovese stava trafficando su WhatsApp, l' applicazione di messaggistica istantanea. Ha selezionato quattro immagini e un video e li ha inviati a uno o più destinatari. Un' azione che è durata diversi secondi. A dirlo è l' informativa della polizia postale, allegata agli atti d' indagine, che ha ricostruito per filo e per segno l' attività del cellulare nei minuti a ridosso del momento in cui è avvenuto l' incidente. La procura a questo punto contesta a Genovese, per il quale è stata fatta richiesta di giudizio immediato, anche l' articolo 173 del codice della strada, ovvero il divieto di usare il telefono durante la marcia. Si complica ulteriormente, dunque, la posizione del 21enne, figlio del regista Paolo Genovese. L' accusa del pm Roberto Felici è di duplice omicidio stradale aggravato: viaggiava oltre il limite dei 50 chilometri orari (90, dice la consulenza), con un tasso alcolemico nel sangue di 1,4 grammi per litro ( il limite per tutti è di 0,5 e deve essere pari a 0 per i neopatentati) e con in mano il cellulare. Tra le contestazioni aggiuntive c' è anche quella di non essersi fermato subito ma solo 180 metri dopo l' investimento. La Koleos di Genovese dopo l' impatto con le giovani vittime è andata avanti per un bel pezzo e si è bloccata sulla rampa della Tangenziale (in direzione Salaria), perché non più marciante. Solo allora il giovane è ritornato indietro sul punto dell' incidente, insieme ai due amici che erano nell' auto. Quindi ha aspettato l' arrivo della polizia municipale, per poi sottoporsi agli esami di rito. Motivo, questo, per cui non gli viene contestata l' omissione di soccorso ma solo una violazione specifica del codice della strada. Tornando al cellulare, stando a quanto ricostruisce la polizia postale, Genovese lo stava usando proprio nel minuto preciso in cui ha investito Camilla e Gaia. Prima ha selezionato le quattro fotografie e il video - a mezzanotte, 27 minuti e 30 secondi - e poi ha inviato i file attraverso WhatsApp, a mezzanotte, 27 minuti e 49 secondi. Un' azione, quindi, durata in totale 19 secondi. Quanto alla dinamica, la consulenza dell' ingegnere Mario Scipione, incaricato dal pm, ha appurato che il semaforo nei pressi del quale le Gaia e Camilla stavano attraversando era funzionante. Che Genovese è passato con la luce verde e che il punto in cui le Camilla e Gaia sono state prese dista dalle strisce pedonali 18 e 14 metri ( a seconda che lo si calcoli dall' inizio o dalla fine delle zebre). La difesa di Genovese e quelle di Camilla e Gaia ( l' avvocato Cesare Piraino per i Romagnoli e gli avvocati Franco Moretti e Giulia Bongiorno per i Von Freymann) hanno incaricato a loro volta dei consulenti per ricostruire la dinamica: a processo ci sarà battaglia.

"Pietro Genovese era al telefono quando investì Gaia e Camilla". L'informativa sul terribile incidente avvenuto lo scorso 22 dicembre che ha visto coinvolte le due 16enni Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann: "Pietro Genovese stava usando WhatsApp". Marco Della Corte, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Pietro Genovese era al telefono nel momento in cui ha investito Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann, la notte del 22 dicembre 2019. Al momento dell'impatto avvenuto in corso Francia a mezzanotte e 27 minuti, Pietro stava utilizzando Whatsapp, la nota app di messaggistica istantanea. Per essere più precisi, il figlio del regista Paolo Genovese aveva selezionato 4 immagini e un video inviandoli ad uno o più destinatari. Un'azione della durata di diversi secondi, che purtroppo sono stati fatali alle due 16enni, infine decedute. A rendere noto questo retroscena, che aggrava ulteriormente la posizione di Pietro Genovese, è l'informativa della polizia postale, allegata gli atti di indagine. Gli inquirenti hanno ricostruito i minuti a ridosso della morte delle due ragazze. Dopo di ciò, è stata fatta richiesta di giudizio immediato nei confronti di Pietro, contestandogli, inoltre, l'articolo 173 del codice della strada, che vieta in maniera chiara e insindacabile l'utilizzo del cellulare durante la marcia.

Pietro Genovese, la sua posizione si aggrava ulteriormente. La posizione del 21enne Pietro Genovese, figlio del regista Paolo (noto per film quali Immaturi - Il viaggio e Tutta colpa di Freud) si aggrava ancora di più. Il pm Roberto Felici ha accusato il giovane di duplice omicidio stradale aggravato. La sera dell'uccisione di Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann, Pietro Genovese viaggiava oltre il limite dei 50 chilometri orari. La consulenza parla di 90 chilometri orari. Nel corpo del 21enne c'era un tasso alcolemico inaccettabile per poter stare alla guida: 1,4 grammi per litro, mentre il limite consentito dalla legge è 0,5 e 0 per i neopatentati. Ora si viene a sapere che Genovese stava usando lo smartphone poco prima dell'impatto che ha portato alla morte le due 16enni. Tra le contestazioni c'è anche quella di non essersi fermato subito, ma soltanto 180 metri dopo il luogo del duplice investimento. Insomma, l'auto di modello Koleos, appartenente a Pietro Genovese, è andata avanti per un bel pezzo di strada dopo l'impatto con Gaia e Camilla, fermandosi sulla rampa della tangenziale, in direzione Salaria, per poi fermarsi in quanto non più marciante. Solo allora il giovane, in compagnia di due amici che si trovavano con lui in macchina, ha deciso di tornare indietro per capire la situazione. Ha dunque atteso l'arrivo della polizia municipale, per essere sottoposto agli esami previsti in tal caso. Tornando al cellulare, secondo quanto scoperto dagli inquirenti, Pietro Genovese lo statava usando nell'istante in cui è avvenuto l'impatto con le due 16enni. Mentre era alla guida dell'auto ha selezionato 4 immagini e un video per poi spedirli tramite Whatsapp ad uno o più utenti. L'azione è iniziata 00:27:30 per terminare a 00:27:49, ben 19 secondi

Francesco Salvatore e Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica - Cronaca di Roma” il 25 aprile 2020. Aveva detto di essere appena ripartito da un semaforo rosso. Eppure sfrecciava ai 90 all' ora. Aveva chiarito di essersi fermato dopo l' impatto. E invece a fermarsi è stata la sua macchina. E in più aveva bevuto, guardava il cellulare e il saldo dei punti sulla sua patente era 0. C' è tutto questo nelle carte depositate dalla procura insieme alla richiesta di immediato per Pietro Genovese, 21enne figlio del regista Paolo, accusato del duplice omicidio stradale di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, avvenuto la notte tra il 21 e il 22 dicembre a corso Francia.

La patente a 0. Le indagini della polizia municipale del II Gruppo descrivono un ragazzo che, appena patentato, ha avuto da subito qualche problema col rispetto delle regole stradali. Nel suo interrogatorio con il gip, Genovese dice di aver perso tutti i punti per un passaggio con il rosso e una guida senza cintura: la licenza gli era stata restituita il 3 dicembre. Gli atti però di violazioni ne elencano quattro, di cui due mancati stop al rosso. In più, il 21enne è stato fermato con hashish per due volte, una nel 2016 e una nel 2019 con sospensione della patente. Lui stesso dice al giudice di dover rifare l' esame. Il semaforo Sempre durante il suo interrogatorio, il 2 gennaio, il ragazzo ha raccontato di essere ripartito dal rosso all' incrocio tra corso Francia e via Flaminia. Ricostruzione che è stata smentita dalle telecamere e dal perito della procura: quel semaforo era verde per Genovese, era rosso quello prima. Proprio per questo, il suo Suv viaggiava ai 90 all' ora: aveva avuto tempo per riprendere velocità.

Il cellulare. Il procuratore aggiunto Nunzia D' Elia e il sostituto Roberto Felici contestano come aggravante all' indagato l' uso dello smartphone alla guida, come rilevato da un accertamento della polizia postale che ha evidenziato come, a mezzanotte, 27 minuti e 30 secondi e come abbia selezionato foto e video che, poi, ha spedito via Whatsapp. Diciannove secondi in tutto che lo avrebbero distratto dalla guida e che sarebbero stati fatali. Questa ricostruzione, però, viene smentita dal consulente della difesa.

L' omissione di soccorso. I pm accusano il 21enne anche di non essersi fermato subito dopo l' impatto, ma di aver imboccato la rampa della tangenziale: «proseguiva la corsa per circa 180 metri prima dell' arresto del veicolo non più marciante », si legge nel capo di imputazione. La sua macchina, infatti, per un sistema di autoprotezione, si è fermata dopo l' impatto. Anche su questo, la ricostruzione del giovane era stata diversa: « Ho provato a frenare - aveva detto al gip - però comunque mi ritrovo in mezzo a corso Francia e all' inizio neanche sapevo cosa era successo, perché l' ho capito dopo che erano ragazze... Dopo l' urto io mi accosto sulla destra, però quando premo il freno mi accorgo che la macchina sta frenando e andando contemporaneamente da sola, non rispondeva ai comandi... Le mie opzioni erano o andare addosso al guardrail o andare in quella rampetta, finché ho detto magari si fermerà, però non si fermava, quando a un certo punto ho spento proprio io con la chiave».

Il Capodanno e l' università. Agli atti c' è anche il permesso concesso dal giudice al ragazzo, che sta ai domiciliari dal 26 dicembre, di poter passare il Capodanno in casa con la fidanzata. Non solo: Pietro Genovese può anche uscire per frequentare l' università.

Roma, ragazze morte a Corso Francia: Pietro Genovese a processo l'8 luglio. Il Messaggero Martedì 12 Maggio 2020. Il gip di Roma ha disposto il giudizio immediato per Pietro Genovese, accusato di omicidio stradale plurimo per avere investito e ucciso nella notte tra il 21 e 22 dello scorso dicembre le due studentesse sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli su Corso Francia a Roma. Per il giovane, figlio del regista Paolo Genovese, il processo inizierà l'8 luglio davanti all'ottava sezione penale. E stata così accolta la richiesta della Procura per il giudizio immediato. La super perizia aveva dimostrato che Pietro Genovese non poteva vedere Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann prima del tragico impatto del 21 dicembre scorso su Corso Francia. E le due ragazze, vittime dell'incidente, non potevano vedere l'auto in arrivo. A consentire la ricostruzione, oltre alle testimonianze e ai calcoli eseguiti sull'auto, sono state le immagini catturate dalla telecamera del Compro oro all'altezza del civico 137 di corso Francia. L'apparecchio immortala la scena 47 metri prima del punto di impatto. E riprende, prima della Renault guidata da Genovese, un'altra auto bianca, che viaggiava a velocità sostenuta. Un testimone racconta che quella vettura ha rischiato di investire le due ragazze che attraversavano fuori dalle strisce pedonali, a circa 15 metri, e con il semaforo rosso per i pedoni. E con quella manovra ha chiuso la visuale per chi era dietro. Subito dietro c'era l'auto di Genovese, che era partita con il semaforo verde qualche decina di metri prima. Per il perito, sarebbe bastato un secondo e mezzo di ritardo per evitare l'impatto.

Roma, l'omicida delle due 16enni chiede il rito abbreviato. I legali di Pietro Genovese hanno depositato la richiesta di rito abbreviato per il loro assistito, per il quale la procura era riuscita ad ottenere il giudizio immediato, con processo in programma il prossimo 8 luglio. Federico Garau, Giovedì 04/06/2020 su Il Giornale. Accusato di omicidio stradale plurimo, per aver travolto ed ucciso due studentesse di 16 anni nella nottata tra il 21 ed il 22 dicembre del 2019, ora l'imputato Pietro Genovese punta al rito abbreviato: questa la richiesta depositata nelle scorse ore a Roma dai suoi difensori, e sulla quale dovrà esprimersi un nuovo giudice. Quella terribile notte, il 20enne si trovava al volante del suo suv e stava rincasando dopo aver festeggiato il ritorno di un amico dall'Erasmus. A bordo del mezzo stava attraversando Corso Francia quando, giunto all'altezza di via Flaminia Vecchia (all'interno del quartiere romano di Ponte Milvio), prese in pieno le due sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli causandone la morte. Pietro Genovese, figlio del regista Paolo, sentito dagli inquirenti subito dopo il drammatico episodio, aveva inizialmente dichiarato di non essersi reso conto di nulla. Durante l'interrogatorio di garanzia tenuto dinanzi al gip del tribunale di Roma Bernadette Nicotra, il 20enne aveva ammesso le proprie colpe. "Sono sconvolto e devastato per quello che è successo", queste le parole del giovane dinanzi al giudice, come riferito dai suoi legali e riportato da "Rai News". Tra i singhiozzi e le lacrime raccontò la sua versione, sostenendo di essere partito con il semaforo verde. Delle affermazioni che sono state sottoposte al vaglio grazie anche all'ausilio di due filmati ripresi da alcune videocamere di sorveglianza installate nei pressi del luogo della tragedia. Grazie ai video è stato possibile comprendere al meglio la tempistica dei semafori pedonali: a quanto pare, quantomeno per quanto riguarda quello di Corso Francia, non vi sarebbe il giallo. Non si tratta, comunque, degli unici aspetti di cui tener conto nel terribile incidente. Gran parte ha il fatto che l'imputato, al momento dei rilievi effettuati dalle forze dell'ordine, sia risultato positivo all'alcoltest, con un tasso tre volte superiore rispetto a quello consentito dalla legge. L'etilometro aveva rilevato infatti una concentrazione di alcol nel sangue pari a 1,4 grammi per litro. Altro aspetto da tenere in grande considerazione, ovviamente, la velocità con la quale il giovane stava percorrendo Corso Francia, decisamente più elevata del limite previsto in quel tratto stradale secondo quanto riferito da alcuni testimoni. "A un tratto vedevo un’auto di colore grigio che correndo a gran velocità travolgeva le due ragazze", aveva spiegato Orlando Townshend raccontando quei terribili momenti. Mentre proseguivano le indagini, la procura di Roma era riuscita ad ottenere il giudizio immediato, con processo fissato per il prossimo 8 luglio. I legali di Pietro Genovese hanno invece inoltrato richiesta di rito abbreviato, su cui si pronuncerà un nuovo giudice: a quest'ultimo anche il compito di fissare l'udienza nelle prossime settimane.

Mic. All. per “il Messaggero” il 5 giugno 2020. La prima udienza è prevista l' 8 luglio, ma un'anticipazione c'è già: Pietro Genovese, ai domiciliari da Natale e finito a processo per omicidio stradale plurimo aggravato, per avere investito Gaia Romagnoli e Camilla von Freymann lo scorso 21 dicembre, ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato. Una richiesta formulata dai suoi difensori, gli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi, che ora dovrà essere valutata dal gip e che, in caso di accoglimento, garantirebbe tempi processuali più rapidi e anche la riduzione di un terzo della pena. Il dibattimento, comunque, ruoterà intorno alla perizia disposta dalla procura per accertare la dinamica dell' incidente avvenuto a Corso Francia, in cui persero la vita le due sedicenni. A consentire la ricostruzione, oltre alle testimonianze e alle misurazioni eseguite sull' asfalto, sono state le immagini catturate dalla telecamera del Compro oro all' altezza del civico 137 di Corso Francia.

LA TELECAMERA. Nel documento redatto dall' ingegner Mario Scipione si legge che sarebbe bastato un secondo e mezzo di ritardo per evitare l' impatto. Prima di immortalare la Renault guidata da Genovese, la telecamera riprende infatti un' altra auto bianca che viaggia a velocità sostenuta. Un testimone ha raccontato che anche quella vettura avrebbe rischiato di investire le due ragazze mentre stavano attraversando la strada quando il semaforo per i pedoni era rosso. La stessa vettura, sottolinea il perito, avrebbe ostruito la visuale per chi era dietro, cioè per l' auto di Genovese. «È evidente che nelle fasi antecedenti due secondi dall' impatto, né Genovese né i pedoni potevano reciprocamente avvistarsi», si legge nella perizia. E ancora: «L' impianto semaforico che regolava l' area di intersezione tra corso Francia e via Flaminia non consentiva il transito simultaneo dei veicoli diretti dal Gra verso Roma centro (Genovese) e dei pedoni, che provenivano dal lato Ponte Milvio ed erano diretti verso la collina Fleming (Gaia e Camilla)». In conclusione, il giovane «poteva scorgere la presenza dei pedoni solo dopo avere affiancato l'autovettura ignota» e, quindi, la sua mancata reazione in una situazione di pericolo è compatibile con l' avvistamento delle sedicenni in poco più di un secondo. Anche la velocità sostenuta avrebbe però influito in parte sull' impatto, che forse si sarebbe evitato se, scrive ancora Scipione, «la Renault avesse viaggiato a 50 chilometri orari». Intanto ieri l'avvocato Cesare Piraino, legale della famiglia di Camilla Romagnoli, ha depositato la consulenza di parte, dalla quale emergerebbe che le ragazze stavano attraversando sulle strisce pedonali. Una ricostruzione esclusa dalla perizia della procura e dalle numerose testimonianze, oltre che dai video delle telecamere.

Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 15 giugno 2020. Pena troppo bassa «non corrispondente alla gravità del fatto commesso, avuto riguardo del grado di colpa e dell'entità del danno cagionato». La procura respinge la richiesta di patteggiamento a 2 anni e 6 mesi per Pietro Genovese, il 20enne figlio del regista Paolo che il 22 dicembre ha investito in corso Francia le due 16enni Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann. Stando al parere espresso dal pm Roberto Felici non possono essere concesse le circostanze attenuanti legate alla giovane età, richieste dai legali di Genovese nella loro istanza, per via della sua condotta di vita: «Dovendo in particolare valorizzarsi negativamente, oltre alla condizione di assuntore di droghe leggere - scrive il pm - il fatto che lo stesso fosse incorso in ripetute trasgressioni al codice della strada, tanto da vedersi azzerato il proprio bagaglio di punti patente». Per il pm, il fatto che Genovese abbia avuto problemi con le droghe leggere e sia incappato in molte violazioni stradali sono motivi, quindi, per non concedergli sconti. In più, secondo il magistrato, anche l'offerta di risarcimento non sarebbe adeguata: «Quanto all'offerta di risarcimento (che comunque sarebbe a titolo di acconto), si osserva che il contratto assicurativo non risulta essere stipulato dall'imputato, per cui l'intervento risarcitorio non sarebbe a lui ricollegabile». Per la procura, quindi, un fatto del genere non può definirsi con un patteggiamento, e in più con la sospensione condizionale della pena, visto che in caso di duplice omicidio colposo la condanna può arrivare fino al triplo.

MORTE INVESTITE: GENITORI, SOFFERENZA MA CREDIAMO IN GIUSTIZIA. (ANSA il 13 luglio 2020) - "Per noi è una sofferenza che si rinnova tutti i giorni. Il fatto che Genovese non fosse in aula un po' ci ha deluso, speravamo almeno di poterlo guardare negli occhi. Comunque siamo sereni e crediamo nella giustizia". Lo affermano le madri di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le due 16enni investite ed uccise nel dicembre scorso in corso Francia a Roma dall'auto guidata da Pietro Genovese, al termine della prima udienza del processo che si svolge con rito abbreviato davanti al gup Gaspare Sturzo. L'imputato è accusato dalla Procura di omicidio stradale plurimo. Il giudice ha respinto la richiesta della difesa di ascoltare il conducente della smart che la notte del 22 dicembre frenò per far passare le due ragazze poi travolte dal suv guidato dal Genovese. "Nessuna sentenza potrà lenire questa tragedia, siamo qui non per spirito di vendetta ma per avere giustizia", ha aggiunto l'avvocato Giulia Bongiorno legale del padre di Gaia. All'esterno del tribunale erano presenti amiche e amici delle due minorenni che hanno esposto uno striscione con la scritta: "Siamo con voi". Il processo è stato aggiornato al prossimo 28 settembre.

MORTE INVESTITE: ASSOCIAZIONE VITTIME PARTE CIVILE A PROCESSO.  (ANSA il 13 luglio 2020) - L'Associazione italiana familiari e vittime della strada onlus (Aifvs) è stata ammessa come parte civile nell'ambito del processo sulla morte di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann, le due 16enni investite e uccise nel dicembre 2019 in corso Francia a Roma dall'auto guidata da Pietro Genovese. Oggi si è svolta la prima udienza del processo che si svolge con rito abbreviato davanti al gup Gaspare Sturzo. L'imputato è accusato dalla Procura di omicidio stradale plurimo. L'associazione, presieduta da Alberto Pallotti, è stata ammessa dal giudice quale parte civile, nonostante il parere sfavorevole del pm. Nel corso dell'udienza, il giudice ha respinto la richiesta, avanzata dai legali dell'imputato, relativa al rito abbreviato condizionato all'audizione di un nuovo testimone. E' stato invece deciso il rito abbreviato secco. Le prossime udienze si terranno il 28 settembre, con la requisitoria del pm, il 16 e il 23 ottobre. Il 30 ottobre, a meno di un anno dall'incidente, dovrebbe esserci l'udienza finale con la sentenza da parte del gup. Il legale dell'associazione nazionale Familiari e vittime della strada onlus, l'avvocato abruzzese Walter Rapattoni, parla di "grande soddisfazione per l'ammissione dell'associazione a parte civile, cosa - sottolinea - che non era affatto scontata. Faremo sentire la nostra voce nel processo".

GIULIO DE SANTIS per il Corriere della Sera il 16 luglio 2020. Nuovi guai per Pietro Genovese, il 21enne figlio del regista Paolo sotto processo con l'accusa di omicidio stradale per aver investito e ucciso le sedicenni Gaia e Camilla il 22 dicembre del 2019 in corso Francia, la strada a scorrimento veloce che collega la zona Nord della Capitale con il centro storico. Il giovane, agli arresti domiciliari dal 26 dicembre scorso, è stato segnalato dai carabinieri al gip Bernadette Nicotera per gli «schiamazzi e la musica tenuta a tutto volume» provenienti dalla sua abitazione mentre era in compagnia di amici. L'episodio risale al pomeriggio dello scorso 22 maggio. Va premesso che Genovese può ricevere persone a casa, su disposizione del giudice, già dal 17 gennaio scorso benché sia detenuto agli arresti domiciliari. Quel giorno ai militari della caserma Salaria arriva alle 18.30 una telefonata dal condominio nel quartiere Coppedè dove vive Genovese: i condomini, infastiditi, segnalano quella che a loro sembra una festa in pieno svolgimento nella casa del ragazzo. I carabinieri conoscono la situazione in cui si trova il figlio del regista, sanno che è un detenuto a tutti gli effetti, seppure con una misura che non gli impone il divieto assoluto di evitare di frequentare persone. E decidono di bussare alla porta dell'appartamento per verificare se abbia violato le prescrizioni. Arrivati all'ingresso del complesso, a piazza Mincio, i militari appurano che la segnalazione è fondata. La musica è effettivamente ad alto volume, tanto che si riesce ad ascoltarla dall'ingresso della palazzina, in strada. A quel punto citofonano a casa di Genovese. Il giovane li fa accomodare. Non è solo in casa. Durante i controlli emerge che il ragazzo è in compagnia di due amici che quel giorno erano andati a trovarlo. I carabinieri inviati a verificare la situazione li identificano: uno è Davide Acampora, l'amico seduto accanto a Genovese la notte dell'incidente mortale. I genitori del ragazzo, Paolo e Federica, invece non sono in casa. Il giovane, per dimostrare che non sta violando le prescrizioni previste dal gip nel provvedimento che gli ha consentito di trascorrere la custodia cautelare preventiva a casa, mostra ai militari l'ordinanza che lo autorizza a ricevere persone esterne alla cerchia familiare. Ma i carabinieri «riprendono» comunque Genovese, lo invitano ad abbassare il volume della musica e a evitare per il futuro condotte che possano arrecare fastidio ai vicini. Il controllo, molto accurato vista la delicatezza della situazione, dura un'ora. Alle 19.30 i militari lasciano l'appartamento e, non appena rientrano in caserma, scrivono la relazione di servizio, che poi inviano al gip. Che non ha disposto ulteriori restrizioni. E, dopo il 22 maggio, non risultano altre segnalazioni. Oltre alla possibilità di ricevere amici, Genovese, dal 13 gennaio, può uscire per andare all'Istituto europeo di design dove studia comunicazione. Lunedì è cominciato il rito abbreviato: il 21enne è accusato di duplice omicidio stradale. Secondo l'accusa, quando ha ucciso Gaia e Camilla andava a 90 all'ora, stava girando un video col telefonino e aveva un tasso alcolico tre volte più alto del consentito. Il ragazzo non si è presentato in udienza. Anche i genitori hanno scelto di non esserci. In aula c'erano invece la mamma di Gaia, Gabriella Saracino, e i genitori di Camilla, Cristina e Marino Romagnoli. Che si sono lamentati proprio per l'assenza del ragazzo e per la lontananza della sua famiglia.

 Genovese: “Non ho visto Camilla e Gaia, la mia vita è distrutta”. I genitori: “Una recita””. Il Dubbio il 28 settembre 2020.Parla il ragazzo accusato di omicidio stradale: “Non volevo uccidere nessuno e non volevo scappare”. Ma la mamma di Camilla: “Non ha neanche chiesto perdono”. Il pm chiede 5 anni. “Non ho visto le ragazze, ricordo di essere partito col semaforo verde. Non volevo uccidere nessuno e non volevo scappare”. Iniziano così, con  queste parole, le dichiarazioni spontanee in aula Pietro Genovese durante l’udienza in rito abbreviato in cui è imputato per omicidio stradale plurimo per l’incidente avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 dello scorso dicembre a Corso Francia a Roma, in cui sono rimaste uccise le due studentesse sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Poi Genovese ha concluso: “La mia vita è distrutta”.Per Genovese il pm Roberto Felici ha chiesto poi una condanna a 5 anni. L’auto guidata da Genovese andava a velocità sostenuta, pioveva, le due vittime, Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli, morirono sul colpo. Il 20enne, figlio del regista Paolo Genovese, subito dopo l’impatto provò a soccorrere le vittime, ma per loro non c’è stato nulla da fare. Il giovane, sotto shock, venne portato in ospedale per accertamenti e analisi, risultando positivo ai test alcolemico-tossicologici. “Sono profondamente delusa dalle dichiarazioni rese in aula da Pietro Genovese, sembrava che stesse recitando a memoria un copione gia’ scritto, lui era indifferente a quello che e’ successo, non si e’ neppure girato una volta verso di noi che gli stavamo dietro”. E’ lo sfogo di Cristina, la mamma di Camilla Romagnoli. Parlando con l’avvocato di parte civile Cesare Piraino, la donna ha espresso tutto il suo dispiacere per quanto dichiarato dall’imputato: “Avrebbe potuto chiedere perdono e non lo ha fatto. Si e’ limitato a dire che era affranto per quanto accaduto”. Dello stesso tenore l’avvocato Piraino: “Genovese poteva anche risparmiarsi di ricostruire la dinamica dell’incidente, come ha fatto oggi. Ha detto delle cose false che non stanno in piedi assolutamente”.

Giulio De Santis per il "Corriere della Sera" il 17 ottobre 2020. Pietro Genovese, ieri, non era in aula alla seconda udienza del processo in cui è imputato di duplice omicidio stradale per aver investito e ucciso Gaia e Camilla la notte del 22 dicembre 2019. Assenza che ha sottratto il ragazzo - per cui sono stati chiesti cinque anni di carcere nel rito abbreviato lo scorso 28 settembre - al "j' accuse" rivoltogli contro dai legali di parte civile. «Genovese ancora non ha mostrato alcun segno di contrizione», ha esordito l'avvocato Cesare Piraino, che rappresenta la famiglia di Camilla Romagnoli. «Le sue affermazioni sono disseminate di sette bugie», è stato l'affondo ancora più duro dell'avvocato Giulia Bongiorno, che assiste il papà di Gaia, scoppiato in lacrime quando sono state ricordate le ferite subite dalla figlia nell'impatto. Tre ore di udienza durante le quali le parti civili hanno ripercorso le fasi cruciali del dramma davanti al gup Gaspare Sturzo. I rilievi sul comportamento del 21enne avanzati dai legali svelano come i genitori di Gaia e Camilla sembrino credere poco a quanto sostenuto nella scorsa udienza dall'imputato - difeso dagli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi - che ha dichiarato come la sua vita sia ormai distrutta. In quell'occasione Genovese, figlio del regista Paolo, si è difeso affermando di non aver visto le due 16enni e di non essere scappato. Dichiarazioni fatte a pezzi dall'avvocato Bongiorno: «Ha investito le due ragazze andando a 90 all'ora come una pallottola impazzita: la macchina si è fermata sulla rampa, molto dopo il punto l'incidente». Il giovane infatti è anche accusato di aver guidato al doppio della velocità consentita e ubriaco, di aver inviato video mentre era al volante, di non essersi fermato dopo l'investimento. A fornire un ritratto di Genovese potrebbe essere il suo telefono, come osserva l'avvocato Piraino: «Dentro c'erano foto di pasticche, altre ritraenti cocaina, in una Genovese fuma una canna la sera in cui riprende la patente sospesa due mesi prima». Sulla dinamica l'avvocato Bongiorno ha rimarcato come «nelle indagini ci sia un errore clamoroso. Gaia e Camilla sono state investite sulle strisce pedonali. Lo dimostra il rinvenimento della targa della macchina di Genovese proprio sulle strisce. Ma il luogo dell'impatto è stato collocato più avanti per uno sbaglio compiuto quella sera dalle forze dell'ordine». Anche l'avvocato Piraino osserva come «la presenza della targa sulle strisce è stata scoperta mesi dopo. La consulenza dell'accusa non ha potuto esaminare quest' aspetto».

Val.Err. per “il Messaggero” il 24 ottobre 2020. «L' evento era imprevedibile e non evitabile». Si sarebbe basata su questi due concetti, ieri, l' arringa di Gianluca Tognozzi, che, insieme al professore Franco Coppi, difende nel processo con rito abbreviato Pietro Genovese, il giovane imputato dell' omicidio stradale di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Secondo Tognozzi, nella notte, tra il 21 e il 22 dicembre dello scorso anno, quando le due sedicenni sono morte nel violentissimo impatto con il Suv in corso Francia, Genovese non poteva prevedere che le due ragazze, in quella notte di pioggia, attraversassero con il rosso, fuori dalle strisce pedonali, in una strada a scorrimento veloce. Non solo, Tognozzi è partito dalla perizia disposta dal pm Roberto Felici, che per l' imputato ha chiesto una condanna a cinque anni. In base agli accertamenti, il Suv del ragazzo viaggiava a velocità molto sostenuta e le due vittime si sarebbero salvate se Genovese, partito con il verde dal semaforo che precede la rampa per piazzale Clodio, non avesse spinto il piede sull' acceleratore. Ma per l' avvocato non è così. L'ARRINGA Tognozzi avrebbe contestato le conclusioni. I tecnici hanno sottolineato che né Gaia e Camilla potevano vedere il Suv in arrivo, né l' imputato poteva accorgersi delle due ragazze. La visibilità, è stato riconosciuto, era ostruita da un' auto (non è mai stato identificato il conducente) che era arrivata pochi secondi prima, il conducente aveva frenato accorgendosi delle sedicenni che attraversavano e riuscendo ad evitarle. È l' auto che Genovese supera da sinistra, travolgendo Gaia e Camilla che continuano la loro corsa. Tognozzi avrebbe sottolineato, come dal video della telecamera di una pompa di benzina agli atti dell' inchiesta, emerga che proprio quell' auto, prima di evitare le ragazze, fosse partita insieme al Suv appena scattato il verde al semaforo. Eppure è arrivata prima, dunque viaggiava a velocità maggiore rispetto a quella dell' imputato. E, nonostante questa circostanza, è riuscita a frenare. Genovese, insomma, secondo l' avvocato, non si sarebbe accorto e avrebbe travolto le ragazze, anche se avesse viaggiato a 50, anziché a 90 chilometri orari, perché non poteva vederle. La sentenza del processo è prevista per venerdì prossimo, quando il professor Franco Coppi concluderà la difesa. Genovese che, nel giorno della requisitoria, ha reso dichiarazioni spontanee, intanto è ai domiciliari dallo scorso 26 dicembre.

Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 26 ottobre 2020. Il cadavere di Gaia è stato investito e trascinato per quindici metri in avanti rispetto a quello di Camilla. Lo spostamento, avvenuto dopo l' impatto mortale, è stato fatto da una macchina diversa (e ignota) oppure dall' auto guidata da Pietro Genovese la notte dell' impatto mortale del 22 dicembre del 2019 su corso Francia. La circostanza è emersa nelle consulenze della difesa del 21enne figlio del regista, Paolo Genovese, e delle parti civili rappresentate dalle famiglie delle sedicenni rimaste uccise nell' incidente. Entrambe le relazioni sono state depositate dopo la consulenza finale dell' accusa, dove invece lo spostamento di Gaia non è esaminato perché non rilevato dal medico legale della procura. Lo spostamento è, pertanto, un fatto considerato certo almeno per difesa e parti civili. Che, però, danno interpretazioni contrapposte al trascinamento di Gaia in merito alla dinamica dell' incidente per cui Pietro Genovese rischia 5 anni di carcere con l' accusa di duplice omicidio stradale, aggravato dal tasso alcolico quasi tre volte superiore al limite riscontrato nel sangue del ragazzo e dalla velocità di 90 chilometri orari, quasi doppia rispetto ai limiti previsti su corso Francia. Questa è la ricostruzione dei difensori di Genovese, gli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi: lo spostamento in avanti di Gaia compiuto dall' auto di Genovese o da un' altra macchina dopo l' impatto con la Renault guidata dal ventunenne - rilevato dal medico legale Fabio Marinelli, nominato dal ragazzo - conferma «l' inevitabilità dell' urto» lontano dalle strisce pedonali, mentre le due giovani attraversano con il semaforo per loro rosso, come scrive il consulente di parte, Marco Marcon. Per cui Genovese avrebbe tenuto una velocità media di circa 70 chilometri orari. Diversa la spiegazione dei legali delle famiglie di Gaia e Camilla, gli avvocati Giulia Bongiorno, Franco Moretti, Cesare e Roberta Piraino: il trascinamento del corpo di Gaia dimostra che le ragazze sono state investite sulle strisce pedonali, passando con il semaforo per loro verde. La conclusione si fonda sull' assunto che Genovese colpisce Gaia e Camilla alla velocità di 90 chilometri orari, come per altro stabilito dalla consulenza del pm. A quest' andatura, secondo le modalità di calcolo applicate anche dall' accusa, un corpo termina a circa 50 metri di distanza dal punto d' investimento. Secondo le parti civili, Gaia e Camilla attraversano sulle strisce pedonali, vengono colpite dall' auto di Genovese e sbalzate una accanto all' altra a 50 metri di distanza, poi passa una seconda macchina e trascina in avanti il cadavere di Gaia, come accertato da Fabrizio Ciprani, medico legale della Polizia scelto dalle parti civili. A conferma di questa ricostruzione, ci sarebbe il ritrovamento della targa della Renault di Genovese sulle strisce pedonali. Se l' ingegner Mario Scipione, consulente dell' accusa, avesse redatto la relazione considerando il trascinamento di Gaia, avrebbe cambiato conclusioni? Scrive Scipione: «Si esclude l' investimento sulle strisce pedonali di Gaia senza alcuna interazione con altri veicoli». La sentenza è prevista il 30 ottobre. 

Periti dal giudice 5 ore senza chiarire i dubbi. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2020. Nella prima delle udienze supplementari dispose dal giudice, nuovo esame di tutte le prove tecniche sull’investimento da parte di Pietro Genovese. Cinque ore di udienza non bastano a chiarire tutti i dubbi «tecnici» sull’investimento di Gaia e Camilla, le 16enni travolte dall’auto di Pietro Genovese lo scorso dicembre su corso Francia. Nell’inedita sede dell’aula bunker di Rebibbia, scelta dal gup Gaspare Sturzo per motivi logistici, era fissato ieri il primo dei due capitoli dell’istruttoria supplementare disposta dallo stesso giudice per approfondire gli elementi che potenzialmente mettono in discussione la perizia depositata agli atti. Tanti gli elementi analizzati a partire da quello forse più controverso, ossia il fatto che Gaia Von Freymann sia stata o meno colpita e trascinata da una seconda auto dopo l’impatto con la Renault Koleos del 21enne figlio del regista cinematografico. Su questo punto ruota la possibilità di stabilire con certezza se le ragazze fossero sulle strisce o più avanti lungo la direzione percorsa da Genovese. Il medico legale Cipolloni ha escluso il secondo impatto, respingendo le obiezioni sostenute dalle foto che mostrano i segni sul corpo e i vestiti di Gaia compatibili con uno schiacciamento di pneumatici. Dal canto suo il perito cinematico Scipioni ha riconosciuto che il video da lui prodotto per ricostruire quei momenti (nel quale le ragazze non sono sulle strisce) va considerato come una simulazione e che un eventuale secondo investimento farebbe collocare con certezza le ragazze sulle strisce. Nè d’altra parte nella sua elazione tiene conto del successivo ritrovamento della targa in corrispondenza dell’attraversamento, spiegando che ne era a conoscenza ma che trattandosi di un oggetto leggero potrebbe essere stato spostato. Restano sul punto le forti perplessità degli avvocati delle parti civili, tra le quali l’avvocato Cesare Piraino incassa la conferma di quanto lui stesso aveva portato all’attenzione della corte, ossia che il semaforo pedonale fosse sprovvisto di luce gialla, passando direttamente dal verde lampeggiante al rosso. Quanto all’impossibilità di Genovese di vedere le ragazze perché coperto da un’altra auto alla sua destra, il perito accoglie la ricostruzione dei difensori Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, ma ritiene decisiva l’alta velocità di Genovese, che a 50 chilometri orari avrebbe comunque avuto 3,5 secondi per frenare. Nella prossima udienza spazio al riascolto di alcuni testimoni.

Fulvio Fiano per corriere.it il 19 dicembre 2020. Otto anni di condanna per Pietro Genovese. Il 21enne figlio del regista cinematografico Paolo è stato riconosciuto colpevole di duplice omicidio stradale per l’investimento mortale di Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, le due 16enni travolte un anno fa su corso Francia a Roma. Il pm aveva sollecitato una condanna a 5 anni. La sentenza è stata pronunciata al temine del processo celebrato con rito abbreviato, dunque già scontata di un terzo. «Siamo contenti per la sentenza ma dispiace sinceramente per il ragazzo», il commento a della mamma di Gaia, Gabriella Saracino.

Il procedimento. La richiesta del pm Roberto Felici è stata ribadita, nell’aula bunker di Rebibbia dopo che il gup Gaspare Sturzo aveva disposto nelle scorse settimane l’audizione di alcuni testimoni dell’incidente e riesaminare le consulenze tecniche già depositate alle luce di nuovi elementi emersi. In particolare la possibilità che almeno una delle due ragazze sia stata colpita da una seconda auto che ne avrebbe spostato il corpo più avanti. Un dato decisivo per capire se le due amiche fossero sulle strisce quando attraversarono.

La vicenda. Alla guida della Renault Koleos il 21enne andava a una velocità doppia rispetto a quella consentita su quel tratto di strada, con un tasso alcolemico di tre volte oltre i limiti e secondo l’accusa stava inviando un messaggio dal suo telefono. Anche su questo aspetto si è incentrato il processo. La difesa degli avvocati Gianluca Tognozzi e Franco Coppi ha puntato invece sulla impossibilità di Genovese di evitare le due ragazze, anche a una velocità inferiore, perché coperto da un’altra auto alla sua destra. Genovese ha fatto dichiarazioni spontanee nel corso del processo per ribadire che ha aspettato il verde per attraversare l’incrocio, che le due ragazze sono spuntate di corsa all’improvviso lontane dalle strisce pedonali e che non ha provato a fuggire. In aula anche i genitori delle due ragazze.

Grazia Longo per “la Stampa” il 20 dicembre 2020. Piange Pietro Genovese, 20 anni, alla lettura del dispositivo che lo condanna, in rito abbreviato con lo sconto di un terzo della pena, a 8 anni di carcere per omicidio stradale plurimo. Il figlio del famoso regista Paolo piange e si domanda come sia possibile che il giudice gli abbia inflitto tre anni in più di quanto avesse chiesto la procura. Ma molte sono le cause che hanno giocato contro di lui, che quasi un anno fa, la notte tra il 20 e 21 dicembre, alla guida del suo Suv ha travolto e ucciso le due amiche sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli in corso Francia. Innanzitutto, l' elemento che ha innalzato gli anni della pena risiede nella convinzione del giudice che le due adolescenti attraversarono la strada sulle strisce pedonali. Mentre, invece, secondo la procura c' era stato un concorso di colpa. L' aspetto delle ragazze sulle strisce pedonali è stato confermato da alcuni testimoni e dal fatto che la targa del Suv è stata ritrovata più indietro rispetto all' automobile. Elementi emersi durante un supplemento di indagini voluto proprio dal gup Gaspare Sturzo che ha stabilito il verdetto. Tra le aggravanti, già ribadite dal pm Roberto Felici, c' è poi il fatto che Genovese (agli arresti domiciliari dal 26 dicembre scorso), mentre guidava di ritorno da una cena a casa di un amico, avesse bevuto (il tasso alcolemico era di 1,4, quasi il triplo del limite consentito per legge) e procedesse ad oltre 90 chilometri mentre il limite era di 50 chilometri orari. Inoltre stava usando il cellulare per inviare un messaggio ed è risultato «non negativo» a sostanze stupefacenti, nonostante da poco avesse riottenuto la patente, che gli era stata sospesa in automatico dopo che era stato trovato in possesso di hashish. Durante il processo Pietro Genovese ha rilasciato dichiarazioni spontanee per ribadire che anche la sua vita è finita quella drammatica notte perché non voleva uccidere nessuno e che prima dello schianto era appena ripartito con il semaforo verde, ma un' auto di fronte gli ostruiva la vista. Alla lettura del dispositivo, con cui è stata disposta anche una provvisionale di 180 mila euro in favore di ciascun genitore, le mamme delle due giovanissime vittime hanno dichiarato commosse: «Un grande dolore ma anche una grande vittoria per noi. Le bambine non torneranno più a casa ma abbiamo avuto la soddisfazione dell' assenza del concorso di colpa. Le ragazze hanno attraversato sulle strisce, con il verde pedonale, i nostri avvocati sono stati bravissimi a dimostrare ciò. Non ci aspettavamo una sentenza così». Opposto, ovviamente, il parere degli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi, difensori di Genovese: «La sentenza non rispecchia quello che è emerso dagli atti, soprattutto rispetto al rosso pedonale. Comunque tutte le sentenze si rispettano e le motivazioni ci daranno conto del ragionamento del giudice. Il dramma di Pietro lo ha manifestato lui stesso durante il processo, la morte di Gaia e Camilla ha cambiato per sempre la sua vita e non pensa ad altro da quel giorno. E con la pena irrogata vede tutto ancora drammaticamente più buio».

Giu.Sca. per “il Messaggero” il 20 dicembre 2020. «E adesso cosa succede?» Scoppia in un pianto disperato Pietro Genovese, si porta le mani sul viso alla lettura della sentenza che lo condanna, in primo grado, a otto anni di carcere. Il 21enne figlio del regista cinematografico Paolo è riconosciuto colpevole di duplice omicidio stradale aggravato delle due sedicenni Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli. Gli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi cercano di consolarlo. La situazione è difficile. A pochi metri di distanza scorrono altre lacrime, il risultato è accolto con favore dalle famiglie delle due vittime. Lo stesso giudice Gaspare Sturzo durante la lettura del dispositivo si commuove. Pietro Genovese esce a testa bassa e spiega: «Alla mia disperazione per la morte delle ragazze si aggiunge altra disperazione, non mi aspettavo una pena cosi severa» commenta. È frastornato. Lo stesso pubblico ministero Roberto Felici aveva avanzato una pena più mite, 5 anni. Non si aspettava una decisione del genere. Per il 21enne valgono sempre le stesse considerazioni che aveva rappresentato di fronte al giudice lo scorso settembre quando, durante la sua deposizione aveva sostenuto di non aver «visto le ragazze, ricordo di essere partito col semaforo verde. Non volevo uccidere nessuno e non volevo scappare. Poi aveva concluso dicendo che «la mia vita adesso è distrutta». A quelle parole, dopo l' udienza del 28 settembre, aveva replicato la madre di Camilla Romagnoli, «sono profondamente delusa dalle dichiarazioni rese in aula da Pietro Genovese, sembrava che stesse recitando a memoria un copione già scritto, lui era indifferente a quello che è successo, non si è neppure girato una volta verso di noi che gli stavamo dietro. Avrebbe potuto chiedere perdono e non lo ha fatto. Si è limitato a dire che era affranto per quanto accaduto». Ieri, dopo la sentenza ad otto anni le parole della stessa donna erano in parte differenti: «la condanna di un ragazzo, anche se ha tolto la vita a mia figlia, non riesce a farmi piacere». Ieri però non è stato solo Genovese a rimanere sorpreso per la decisione del gup Gaspare Sturzo. Anche gli stessi difensori hanno ascoltato meravigliati la lettura del dispositivo. La loro tesi difensiva si poggiava anche sul concorso di colpa delle vittime, che sarebbero state imprudenti nell' attraversamento. Non avrebbero utilizzato le strisce e sarebbero passate con il rosso pedonale. Una dinamica, evidentemente, non accolta dal giudice: «Per quanto ci riguarda la sentenza non rispecchia quello che è emerso dagli atti, soprattutto rispetto al rosso pedonale. Comunque tutte le sentenze si rispettano e le motivazioni ci daranno conto del ragionamento del giudice». Così hanno spiegato fuori dal carcere di Rebibbia gli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi. «Il dramma di Pietro lo ha manifestato lui stesso durante questo processo, la morte di Gaia e Camilla ha cambiato per sempre la sua vita e non pensa ad altro da quel giorno - aggiungono i due legali Coppi e Tognozzi- evidentemente con la pena irrogata vede tutto ancora drammaticamente più buio».

Vita e morte nella Roma dei non luoghi: Corso Francia, l’Eur, il Gra. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Polito. La cosa più incongrua nella tragedia di Corso Francia a Roma è che le due ragazze corressero tenendosi per mano. Una scena così, due adolescenti mano nella mano che tornano di fretta a casa nella notte, è talmente delicata, letteraria, che uno se la immagina altrove. Se lo immagina in un piccolo borgo, tra i vicoli e le case, in un bel quartiere residenziale, tra i giardini e i condomini. Non su un’autostrada, forse dopo aver scavalcato un guardrail, ai piedi di uno svincolo, nel buio che ormai avvolge la città eterna, di fronte a un semaforo che passa dal verde al rosso, neanche l’attimo di respiro di un giallo, solo tre secondi e mezzo di verde lampeggiante per raggiungere l’altra sponda. Quando Marc Augé, antropologo francese, si inventò alla fine del Novecento la metafora dei «non luoghi» (non-lieux) non poteva immaginare quanto calzante sarebbe stata per posti come Corso Francia. Il non luogo è l’opposto di un luogo «antropologico». Non ha cioè quelle caratteristiche di identità storica, di occasione di relazioni, di affermazione identitaria che hanno i luoghi tradizionali come piazze, monumenti, boulevard, teatri. I non luoghi sono posti destinati al solo transito di esseri umani, sistemi nevralgici di facilitazione e accelerazione della circolazione e del consumo, che non implicano nessuna forma di relazione personale, dove i corpi si sfiorano e basta, quando non si cozzano, si schiacciano, si investono. Un’autostrada è un non luogo, come un centro commerciale, un parcheggio, uno svincolo, un aeroporto, una stazione di servizio, le scale mobili di una metropolitana, un McDonald’s. Eppure proprio questi posti della «surmodernità», di una modernità super-iper, sono diventati i «nuovi» luoghi sociali delle nostre metropoli, i palcoscenici della nostre vite e di quelle dei nostri figli. Di Corso Francia avremmo dovuto capire già tutto negli anni 90, quando Federico Moccia scrisse il suo best-seller, Tre metri sopra il cielo. Perché mai, altrimenti, i giovani di Roma avrebbero cominciato a imitare la fiction e a chiudere i lucchetti dei loro amori su Ponte Milvio, gettando la chiave nel Tevere, se non per trasformare quel non luogo in un luogo, caricandolo di storia e di relazioni? L’amministrazione comunale, diligentemente ma evidentemente ignara delle teorie di Marc Augé, tagliò tutto con le tronchesi. Rimase però la movida dei ragazzi di Roma Nord, che per raggiungere quel ponte dai quartieri bene di Vigna Clara e Collina Fleming, roccaforti delle «finte bionde» dei film dei Vanzina, devono prima oltrepassare quella specie di linea rossa, di confine d’asfalto, che è Corso Francia. Attraversandolo. Della mutazione d’uso di quella strada ci aveva detto qualcosa anche la più clamorosa inchiesta sulla mala romana degli ultimi anni, «Mafia Capitale», quando scoprì che il fascio-boss Carminati teneva udienza, riceveva clientes e dispensava business proprio nel distributore di benzina di Corso Francia, trasformato in «studio professionale». Da tempo ormai la Roma magnifica del passato, imperiale o rinascimentale, barocca o neoclassica, ha smesso di fare da sfondo alle vicende reali dei romani, e ai loro fatti di cronaca. Il punto di svolta lo colse all’inizio del Novecento Pirandello, nel Fu Mattia Pascal, quando ne decretò il triste destino: «I Papi ne avevano fatto — a loro modo, s’intende — un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere». Da allora è il degrado a interpretarne al meglio lo spirito. In un suo saggio — Il secchio di Duchamp — Maria Cristina Storini documenta con efficacia questa discesa agli inferi dei non luoghi anche nella letteratura: i quartieri periferici de I ragazzi di vita e di Una vita violenta di Pasolini nel dopoguerra, fino all’Idroscalo di Ostia, dove la realtà imitò la finzione per dare la morte al poeta; il villaggio residenziale al dodicesimo chilometro della Cassia, dove lo scrittore «cannibale» Niccolò Ammanniti ambienta Fango; una discarica di Saxa Rubra per Benzina di Elena Stancanelli; il Grande Raccordo Anulare, metafora sublime di una città che ha preso a girare su sé stessa, settanta chilometri di moto circolare, immortalato in Sacro GRA, il documentario di Gianfranco Rosi che vinse il Leone d’oro a Venezia. Per il semplice fatto di essere un posto di passaggio, il non luogo attira come nessun altro gli scarti della nostra vita e dei nostri consumi. L’immondizia ne distingue il paesaggio. E infatti il cumulo di cose consumate in fretta e restituite alla metropoli che le ha generate è oggi la vera cartolina di Roma. Questo spiega anche l’apparente mistero dei gabbiani in una città senza mare: «I gabbiani sono parassiti, vivono di spazzatura. Roma accoglie tutti. E non perdona nessuno», ha scritto Melania Mazzucco. Virginia Raggi ci ha messo del suo, ma questa è la storia di una città usata come un portacenere ben prima di lei. «D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà» (ancora Pirandello). È come se la città antica, quella dei luoghi dotati di storia e identità, si fosse un po’ alla volta estraniata dalla vita dei romani, consegnandosi al turismo mordi-e-fuggi che sta facendo la fortuna della piccola borghesia redditiera della movida e dei bed&breakfast, e trasforma così interi rioni in nuovi non luoghi. C’è forse qualcosa nella gloria stessa di capitale a portare la città eterna verso questo esito così incongruo. Prendiamo l’Eur, magnifico esempio di architettura fascista ma oggi terra di nessuno traversata da un’altra autostrada, la famigerata Cristoforo Colombo, dove i motociclisti sbandano e muoiono sull’asfalto sollevato dalle radici dei pini. È un acronimo che sta per «Esposizione Universale Roma». Fu cioè costruito per un avvenimento che non avvenne, previsto per il 1942, soppiantato dalla guerra. Lo stesso Lungotevere, oggi arteria di traffico perennemente infartuata e totalmente assorbita nel centro cittadino, deve essere stata in passato qualcosa di paragonabile a un non luogo, se i killer di Mussolini lo scelsero come posto ideale per l’agguato mortale a Giacomo Matteotti. Roma sembra insomma non essere in grado di digerire la modernità, di crescere insieme con essa, come tante altre metropoli; produce piuttosto, sul suo splendido corpo, brutte escrescenze nelle quali la vita degli abitanti inevitabilmente si incista e si degrada. Lasciamone la spiegazione finale di nuovo al nostro Pirandello, uno dei tanti romani di elezione, italiani di ogni dove che questa città l’hanno scelta per viverci e amarla: «Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca... Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuole più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato a le spalle del Campidoglio». E ogni tanto, per crudeltà, spezza la vita e i sogni di due adolescenti.

·        Succede a Latina.

Latina, le collusioni mafiose di Lega e Fratelli d'Italia. Nella città laziale, feudo storico della destra, i clan hanno messo le mani sulla politica. Facendo eleggere chi volevano, gestendo voti, garantendo affissioni intoccabili, muovendo galoppini. Andrea Palladino il 28 gennaio 2020 su L'Espresso. Giorgia Meloni non ne aveva dubbi. Scandiva le parole: «A Latina possiamo contare obiettivamente su quella che è forse una delle migliori classi dirigenti di Fratelli d’Italia». Era il 2014, elezioni europee. Il cavallo di razza che appariva accoppiato con il suo nome sui manifesti elettorali era Pasquale Maietta. Un vero mito a sud di Roma. Commercialista di successo, da sempre il primo degli eletti a destra, patron del Latina, squadra che sfiorò, all’epoca, la serie A. Calcio, affari e politica. Giorgia Meloni guardava Maietta compiaciuta, scambiando sorrisi: «Lo dico da un anno, perché non ti prendi anche la Roma?». Dal 2013 era diventato un politico di primo piano a livello nazionale. Giorgia si fidava talmente tanto da affidargli il portafogli, nominandolo tesoriere del partito alla Camera dei deputati. Era l’ascesa, apparentemente inarrestabile, dell’enfant prodige della destra. Poi venne uno tsunami. Giudiziario, sconvolgente. Di quella classe dirigente che poco prima la leader di Fratelli d’Italia portava come esempio è rimasto poco. Maietta, terminato il mandato, è finito agli arresti, con l’accusa di essere il “perfetto stratega” di un complesso sistema di riciclaggio che partiva da Latina per arrivare a Lugano. Non in una fiduciaria svizzera qualsiasi, ma nello studio SMC Trust, il “family office” presieduto da Max Spiess, subentrato nella carica al più noto Giangiorgio Spiess, l’avvocato tutore degli interessi di Licio Gelli nel Canton Ticino. Il vero salotto che conta nel mondo finanziario internazionale, da sempre Gotha impenetrabile. Soldi, tantissimi soldi, un tesoro che passava attraverso il Latina calcio, controllato da patron Maietta, utilizzato - secondo la procura - come una enorme lavatrice di denaro “di dubbia provenienza”. L’alleanza tra l’ex tesoriere di Fratelli d’Italia e il trust svizzero, che durava, secondo le indagini, dal 2007, era consolidata e ben oliata.

Pasquale Maietta. Quello che per gli investigatori era “un gruppo organizzato di soggetti che forniscono in modo stabile e professionale consulenza e servizi per il riciclaggio di fondi di provenienza illecita” aveva un terminale molto lontano dai salotti ovattati di Lugano. Le radici del potere del “sistema Latina” affondano sulla riva di uno dei tanti canali della bonifica, a Campo Boario. Case basse, leoni lucidi di ceramica, il kitsch e i cavalli da corsa lasciati a pascolare nei campi sportivi comunali. È il mondo di sotto, il regno dei Di Silvio-Ciarelli. Clan Sinti, parenti diretti dei più noti Casamonica, arrivati in terra pontina nel dopoguerra, negli anni '90 hanno preso il controllo del narcotraffico sottraendo il territorio di Latina ai casalesi e imponendo alla città il loro modo di comandare. Taglieggiando, occupando pezzi di quartieri, sparando e uccidendo, quando serviva. «Se pijamo Littoria», dicevano in alcune intercettazioni del 2010. Hanno fatto di più - stanno raccontando oggi alcuni collaboratori di giustizia - prendendosi soprattutto la politica. Gestendo voti, garantendo affissioni intoccabili, muovendo galoppini. Diventando la batteria elettorale dei nostalgici del Boia chi molla.

Brigata Littoria. Latina vuol dire destra, da sempre. Basta mettere in fila i nomi dei gruppi degli ultras della squadra di calcio: “Falange”, “Brigata Littoria”, “Commando”. Per anni governata da un sindaco con un passato nei “Ragazzi di Salò”, Ajmone Finestra, venne definita da Gianfranco Fini “il laboratorio politico” nazionale. Latina era un simbolo con il parco comunale intestato ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, e l’edificio nel cuore della città chiamato “M”, per la sua forma, omaggio al duce in epoca fascista. Oggi Latina vuol dire Lega. Il travaso degli ex missini, di quella classe politica cresciuta attorno al mito di Littoria e di “quando c’era lui”, è stato massiccio. Il crollo - giudiziario, politico - dell’enfant prodige di Fratelli d’Italia è stato il vero motore dell’assalto alla diligenza di Matteo Salvini. Certo, contava il marchio, in quello che in questa terra appare oggi più come una sorta di franchising politico che una vera e propria struttura di partito. Il dato certo è che i quadri di Matteo Salvini hanno quasi tutti un passato nero, in alcuni casi nerissimo. Orlando Tripodi, fino al 2016 in Forza nuova, è diventato il capogruppo leghista in Consiglio regionale, dopo aver perso sonoramente le elezioni comunali con una lista civica. L’ex An Matteo Adinolfi in quello stesso anno è passato alla Lega, guadagnando un posto in consiglio comunale, per poi essere eletto deputato europeo nelle ultime elezioni del 2019. Proviene dalla destra - il sindacato UGL - anche Claudio Durigon, deputato della Lega e responsabile del dipartimento lavoro del partito. Ma è il sentiment quello che conta nella città, nella antica Littoria.

Claudio Durigon. La base della destra a Latina ha radici profonde nella squadra di calcio. E nei clan di Campo Boario. È questa la terra di mezzo dove - secondo le indagini - si incontrano politica, tifoserie e manovalanza criminale. Gruppi ultras duri, ascoltati, nel 2014, mentre nella loro sede preparavano spranghe di ferro da portare in trasferta. Pronti, quando serviva, a spostare voti. Il Latina fino al 2017 è stato il regno assoluto di Pasquale Maietta. E del suo amico di sempre, Costantino “Cha cha” Di Silvio, uno dei primi esponenti dei clan a finire agli arresti. Aveva un ruolo di primo piano, sempre presente nelle trasferte, pronto ad accompagnare le autorità nella tribuna Vip. In città lo conoscevano come l’amico fedele dell’ex tesoriere di Fratelli d’Italia, che lo accompagnava spesso nello struscio tra i negozi del centro.

Il fantasma dei Di Silvio. Negli ultimi mesi nel feudo della destra laziale, per sentire parlare di politica, conviene affacciarsi nell’aula del Tribunale, ascoltando le testimonianze nel processo chiamato “Alba pontina”, istruito dalla Dda di Roma. L’accusa per i membri del clan è pesante, associazione mafiosa. Alcuni imputati sono già stati condannati con rito abbreviato nei mesi scorsi e oggi il dibattimento principale sta diventando una sorta di schermo gigante dove scorre la storia della città. Una presenza asfissiante, fatta di piccole e grandi estorsioni: «Non era necessario usare le armi - ha raccontato un collaboratore - non c'era bisogno perché ormai la gente sapeva che ti sparavano». Bastava il nome per abbassare la testa. Quando, nel 2015, scattò la prima operazione contro il clan Sinti, accadde qualcosa di mai visto. Un senso di liberazione sembrò attraversare al città. La sera degli arresti - che colpirono anche l’amico fidato di Maietta, “Cha cha” Di Silvio, oggi in carcere - una folla andò in corteo verso la Questura. Dal portone si affacciarono gli agenti della squadra mobile e i due poliziotti che avevano cambiato le sorti della città, il questore Giuseppe De Matteis (oggi a Torino) e chi aveva condotto le indagini, Tommaso Niglio. Vennero simbolicamente abbracciati, quel sistema di potere stava iniziando a sgretolarsi. L’ascesa dei Di Silvio - e la loro potenza - nasceva da una alleanza, profonda, che durava da anni. Visibile a tutti, ma coperta dal silenzio. Dopo aver preso in mano il narcotraffico nel capoluogo, il clan aveva la necessità di entrare in qualche maniera nell’economia visibile. Non avevano, tra i loro uomini, chi era in grado di far girare il denaro, di ripulirlo, di farlo tornare visibile. L’alleanza con la classe imprenditoriale e con alcuni commercialisti li rese forti, in grado di penetrare i salotti buoni della città.

Il suicidio dell’avvocato. Mancavano due giorni al Natale del 2015 quando l’avvocato di Latina Paolo Censi, già presidente della Camera penale, si toglie la vita nel suo studio. La squadra mobile tra le sue carte trova la traccia che porterà ad una svolta nelle indagini sul Latina calcio e su Pasquale Maietta: «Dei fogli di un Block notes strappati, gettati al secchio e sui quali erano riportate diverse parole che, collegate tra loro, evidenziavano l'esistenza di uno scenario inequivocabile», scrivono i magistrati nell’ordinanza di custodia cautelare che, nel 2018, porterà in carcere l’ex tesoriere di Fratelli d’Italia. In particolare due erano i riferimenti che colpirono gli investigatori: “Svizzera” e “Riciclaggio”. Due anni dopo uno degli uomini di fiducia del clan Sinti di Latina, Renato Pugliese, figlio illegittimo di “Cha cha” Di Silvio, inizia a collaborare. Ricostruisce il potere di quel mondo dove convivevano pezzi di politica, commercialisti scaltri e manovalanza criminale. Ricorda anche quel suicidio del 23 dicembre 2015, dando elementi importantissimi: «Riccardo Agostino (altro membro del clan, anche lui oggi collaboratore di giustizia, ndr) mi diceva che dietro la morte di Censi ci fosse una questione di soldi in Svizzera, circa 50-60 milioni di Maietta». Le successive indagini, con rogatoria in Canton Ticino, sono riuscite a ricostruire il percorso solo di una parte di quel tesoro. I primi racconti di Pugliese escono sui giornali il 26 aprile dello scorso anno. Tre giorni dopo, nella notte tra il 29 e il 30 aprile sulle chat WhatsApp frequentate anche da ultras del Latina calcio appare un video. È Cha cha Di Silvio, il padre del collaboratore, che gira nudo su un risciò a Milano Marittima, gridando «Come la va onorevole?», riferendosi, evidentemente, a Pasquale Maietta. Il video era stato girato cinque anni prima, secondo le ricostruzioni dei giornali locali, durante una trasferta del Latina. Un messaggio ben chiaro, il segno che il “sistema Latina” si è solo immerso.

La batteria elettorale. Le indagini non si sono fermate alla pista Svizzera. La collaborazione di Pugliese apre scenari inediti. Che arrivano fino al mondo politico di oggi, sfiorando i dirigenti passati dalla destra dura alla Lega di Matteo Salvini.

Salvini e Tripodi. L’attuale sindaco della città, Damiano Coletta, cardiologo, eletto con una lista civica quando la destra crollò dopo le prime indagini, non ha nessun dubbio. Esiste un “sistema Latina”: «Abbiamo dovuto ricostruire l’intera macchina amministrativa, ricreare le procedure, non è stato facile». Ha provato, da primo cittadino, a chiedere aiuto a Salvini ministro dell’Interno il 29 settembre del 2018. Il leader della Lega stava per arrivare in città, per un comizio in un terra dove il consenso cresceva. Coletta ha chiesto un incontro, formalmente, per consegnare una nota dove raccontava come per il capoluogo pontino non si poteva più parlare solo di infiltrazione della mafia, ma di gruppi autoctoni, «non senza la compiacenza o almeno la colpevole disattenzione della classe politica». Tutto era pronto, ma due ore prima dalla Prefettura cancellano l’incontro. Salvini arriva in città, ignorando quella richiesta di aiuto, e sul palco fa salire un volto che Damiano Coletta conosceva bene, Orlando Tripodi, oggi capogruppo della Lega in consiglio regionale. Era uno dei suoi avversari nel 2016, esponente dell’estrema destra prima di entrare nel partito di Salvini. Ed è uno dei tanti nomi entrati nel racconto del figlio di “Cha cha”, Renato Pugliese: «La campagna elettorale per Tripodi l’ha fatta Giancarlo Alessandrini con Sabatino Morelli e qualcuno che frequentava la curva», ha raccontato ai magistrati.

Fabio Rampelli e Giorgia Meloni. Quel gruppo era una sorta di batteria elettorale composta da ultras ed esponenti delle famiglie Sinti, i Morelli. I clan, nel 2016, si erano divisi i candidati della destra come si fa con una piazza di spaccio, racconta Pugliese: «Noi abbiamo fatto la campagna per Noi con Salvini (…) allora avevamo l'incarico dell’attacchinaggio». Il figlio di “Cha cha” operava nella politica insieme a un altro esponente dei clan, Agostino Riccardo, che ha iniziato a collaborare poco dopo. E in aula Riccardo ha aggiunto altri particolari, altri nomi del mondo politico della destra. Partendo dall’elezione di Maietta nel 2013. L’ex tesoriere di FdI alla Camera risultò il primo dei non eletti ed entrò solo per la rinuncia di Fabio Rampelli, presente anche in altri collegi.

Matteo Adinolfi e Matteo Salvini. Una scelta politica, ha sostenuto il vicepresidente della Camera. Un’imposizione dei clan, ha raccontato Agostino Riccardo: «L’onorevole Rampelli fu minacciato per dimettersi». Il racconto del collaboratore attraversa gli ultimi anni della politica pontina, segnata da una sorta di passaggio del testimone. Prima l’appoggio a Maietta e Fratelli d’Italia, poi l’azione dei Di Silvio si sarebbe spostata sulla Lega: «In queste (elezioni) più recenti avevamo un candidato particolare, Adinolfi, il commercialista. Lo incontrammo nella sede di Noi con Salvini», ha dichiarato in aula il 7 gennaio scorso, citando per la prima volta l’eurodeputato della Lega. E potrebbe essere solo l’inizio di nuove inchieste. Tanti omissis coprono, ancora oggi, molti verbali.

SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Molise…che non esiste.

Il Molise si prende la rivincita: il New York Times lo incorona «meta dell’anno». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Candida Morvillo. Il New York Times mette il Molise fra le 52 mete da visitare nel 2020 ed è la rivincita della Regione che ha il record negativo in tutte le classifiche sul turismo, oltre che su natalità, disoccupazione, spopolamento. Finora, la fama non era granché. «Il Molise non esiste» è addirittura un refrain complottista che gira sul web con teorie strampalate, tipo che sia un luogo immaginario, «creato da uno stupratore e spacciatore per attribuire i suoi misfatti ai mitologici molisani». Un video del 2015 intitolato «Il Molise non esiste» ha oltre 1.600.000 visualizzazioni su Youtube e anche Maurizio Crozza si è esibito in una gag sul tema. Sono inafferrabili anche i dati sul turismo: nel 2017, le notti trascorse in albergo sarebbero state 42.197 per l’Eurostat e 131 mila per Confartigianato. In generale, le presenze sono circa 450 mila l’anno e, come rileva l’Istat, solo l’8 per cento sono di stranieri. Invece, a sorpresa, per il New York Times, il Molise è 37esimo nella lista delle mete imperdibili. Prima è Washington, settima la Sicilia, 51esima Urbino. Il Molise, si spiega, piace perché è incontaminato e vi sopravvive l’Italia autentica. Piace per il Parco Nazionale, dove si avvistano gli orsi, e per quello del Matese, con i suoi laghi. Piace la ‘Ndocciata di Agnone, una processione di alte torce, o il festival Carrese di Ururi, un palio di buoi e cavalli. Il quotidiano americano raccomanda di visitare anche il sito archeologico di Saepinum, che ha «terme e un foro che rivaleggiano con Roma, ma senza la folla», e caldeggia i tratturi della transumanza, ora diventate patrimonio dell’Unesco, e la Transiberiana d’Italia, un trenino anni ‘20, che va fra paesaggi mozzafiato. Meritano una segnalazione anche le spiagge di sabbia bianca di Termoli e Campomarino, il castello di Campobasso e la cattedrale di Isernia. L’assessore al Turismo Vincenzo Cotugno, eletto nel 2018, guarda al futuro con ottimismo: «Abbiamo varato il Piano Strategico per Turismo e Cultura e un bando da 20 milioni per progetti di microricettività, siamo una terra di piccoli borghi. E abbiamo ricevuto un finanziamento da 220 milioni di cui 130 per valorizzare i tratturi». Critici i trasporti: l’aeroporto non c’è; a Campobasso e Isernia arrivano solo treni regionali; un’autostrada che colleghi quelle di Tirreno e Adriatico è giusto un desiderio. Intanto, Cotugno punta al turismo di ritorno: «Abbiamo 305mila molisani qui e un milione nel mondo». Il più celebre è Robert De Niro: i nonni erano di Ferrazzano e il divo aveva detto «se vince Trump, torno in Molise», ma non s’è ancora visto. Non torna neanche il cantante Tony Dallara, nato a Campobasso ed emigrato a Milano bambino: «Ci sono andato solo quando ho finanziato il restauro della Madonna del Monte. Da allora, m’invitano sempre a cantare», racconta, «ma non mi fanno mai una vera offerta né ammettono, cuore in mano, che non possono pagare». L’ex magistrato Antonio Di Pietro, invece, è tornato a vivere a Montenero di Bisaccia: «Ne sono innamorato, arriva il vento dal mare e vedo i monti della Maiella, ma posso starci perché mi guadagno il pane fuori: se dovessi campare dell’olio che produco, non vivrei. Capisco i giovani che se ne vanno». Una soluzione per far sopravvivere l’amato Molise lui l’avrebbe: «Sono per sole sette o otto regioni, più competitive nel mondo globalizzato: al Molise serve il coraggio di riunificarsi con l’Abruzzo». Insomma, affinché il Molise che non esiste torni ad esistere, bisognerebbe abolirlo, ma comunque ha senso visitarlo.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Napoli.

Mezzanotte a Napoli, scugnizzi giocano a pallone in piazza del Plebiscito: “Il coprifuoco è una sciocchezza”. Ciro Cuozzo e Francesca Sabella su Il Riformista il 7 Novembre 2020. Piazza del Plebiscito. È da poco passata la mezzanotte. C’è una pandemia e c’è un coprifuoco che impone di rientrare nelle proprie case alle 22. Venti tra ragazzini e ragazzine, tra i 15 e i 18 anni, giocano a pallone tra le colonne della piazza, altri sono seduti sui muretti delle colonne che costeggiano la piazza principale della città, dove affaccia la Prefettura. Urlano qualche frase in napoletano e giocano a fare i grandi con una sigaretta tra le mani. Non vanno a scuola da inizio marzo scorso se si considerano le poche settimane comprese tra fine settembre e inizio ottobre. Si devono accontentare della didattica a distanza ma non tutti, ammettano, di seguirla. Luigi ha diciotto anni e ci racconta: “Non me ne frega del coprifuoco, o si chiude tutto oppure io non lo rispetto, non ha senso. Il virus lo posso prendere anche la mattina”. Non ci credono, non hanno paura e non sanno filtrare le informazioni che ricevono dall’esterno. Rabbia o comprensione? Non spetta a noi dirlo. Maurizio ha quindici anni, ammette subito che la scuola non è il suo forte, e che sogna di fare il pizzaiolo, poi parla del virus: “È un’influenza normale e loro fanno la tragedia”. Ma le persone stanno morendo… “Sì ma a marzo c’erano le bare nei furgoni militari (Bergamo, ndr) poi per due mesi il virus non si è visto più, è sparito, mi sembra strano”. E il coprifuoco è una restrizione che non viene capita né accettata. Poi parliamo anche di politica. Annarita ha quindici anni e vuole dirci qualcosa su De Luca e il Governo. “Non sanno comandare né fare le regole – dice – morivano tutti prima, ora quindici giorni senza cure e stanno bene, non può passare stando solo a casa. Poi hanno sbagliato a chiudere tutto, già l’economia sta come sta. Spero che ci saranno altre rivolte a Napoli”. Proteste, virus, coprifuoco, ognuno ha la sua opinione e la dice utilizzando gli strumenti che ha a disposizione. Martina, sedici anni e capelli lunghissimi soffre le restrizioni perché “voglio essere libera, voglio la mia libertà” e non ha nessuna intenzione di restare dentro casa. Gaia, 15 anni, anche lei è in strada e ripete lo stesso ritornello: “Non ho paura di prenderlo di notte, perché lo posso prendere pure la mattina”. Per circa un’ora i ragazzini parlano con noi del coronavirus, del costo eccessivo dei tamponi privati, delle attese estenuanti se ti rivolgi al medico di base per prenotare il tampone. Sono consapevoli di violare le regole. I loro genitori li lasciano fare, non sono preoccupati dell’ora tarda e delle restrizioni in vigore. All’una arrivano tre volanti della polizia. Sfrecciano per la piazza e si dirigono verso la comitiva che inizia a correre verso le stradine in salita che portano a Pizzofalcone e al Pallonetto. Uno di loro viene fermato dagli agenti. Gli altri, nascosti dietro ai muretti, cercano di capire se l’amico ha preso la multa (sanzione minima 400 euro), poi appena le volanti vanno via ritornano sotto le colonne. E’ circa l’1.30 e piazza del Plebiscito continua a vivere perché “il coprifuoco è una sciocchezza“.

Ecco come la polizia locale è andata in crisi. Francesca Sabella su Il Riformista l'8 Novembre 2020. «Serve una legge speciale per Napoli. La polizia municipale è in trincea. La situazione è drammatica, all’appello mancano più di mille agenti, quelli in servizio non hanno mascherine e devono lavorare anche se in attesa dell’esito del tampone». A raccontare la vita degli uomini in divisa è Annibale De Bisogno, segretario regionale della Uil Fpl con delega al Comune di Napoli. L’organizzazione del lavoro della polizia locale è di competenza dell’amministrazione guidata dal sindaco Luigi de Magistris. Palazzo San Giacomo è tra i Comuni che investono meno in ordine pubblico e sicurezza e il sistema dei controlli e delle assunzioni fa acqua da tutte le parti. Il Covid non ha fatto altro che esasperare una situazione già difficilissima che oggi è definitivamente sfuggita di mano fino a diventare intollerabile per vigili e residenti. Il personale è ridotto all’osso e monitorare una città come Napoli è praticamente impossibile. «Il Comune, grazie all’incompetenza del sindaco, è in predissesto – spiega De Bisogno – Di conseguenza le assunzioni devono passare per la commissione interministeriale che gestisce il suo piano di rientro che, vedendo i conti in rosso del Comune, gli permette di assumere solo 50-100 persone che non bastano certo a coprire le carenze di personale che ci sono». Sì, perché la giunta arancione, in nove anni di amministrazione, ha accumulato un debito di circa quattro miliardi di debito e, nel frattempo, ha anche dimezzato i dipendenti. «Nove anni fa Palazzo San Giacomo aveva 14mila dipendenti, oggi ne ha 5.100 – sottolinea il segretario regionale della Uil Fpl – Tra questi tagli mille sono stati operati tra i caschi bianchi e oggi ci troviamo a fronteggiare una situazione tragica e fuori controllo». Per avere chiaro il quadro della situazione basta osservare i numeri. Con un milione di abitanti, Napoli è la terza città d’Italia per densità abitativa; qui, in servizio, ci sono al momento solo 1.450 vigili che devono svolgere più di venti attività tra controlli, verifica dell’osservanza delle norme stradali, gestione delle manifestazioni e lavoro d’ufficio. «Dobbiamo tener conto che dei 1.450 agenti in servizio adesso – spiega De Bisogno – almeno 100 sono impegnati in attività interne negli uffici del comando centrale di via de Giaxa, 120 si occupano della gestione delle multe e almeno 20 per ogni sezione (Napoli ne ha 25) lavorano all’interno degli uffici». In strada a svolgere attività di controllo e sicurezza pubblica, e adesso anche a verificare il rispetto delle regole anti-Covid, ci sono solo 800 agenti. «Questo, però non vuol dire che a Napoli ci sono contemporaneamente 800 agenti in servizio – sottolinea De Bisogno – perché si lavora sulla base di turni e, a conti fatti, in strada ci sono 150 agenti per volta». Poco più di cento caschi bianchi in una città con un milione di abitanti, proprio così. Ma non è finita qui. I malcapitati costretti a lavorare perennemente in una situazione ai limiti del possibile non sono per niente tutelati dal Comune, anzi. «L’amministrazione non ha mai fornito mascherine o gel igienizzanti agli agenti – dice De Bisogno – Il protocollo di sicurezza impone l’utilizzo della mascherina Ffp2, a Napoli hanno a disposizione quella chirurgica e il gel devono comprarlo da soli. Avevamo chiesto delle visiere protettive e solo il 10% degli agenti l’ha ricevuta, per non parlare delle volanti che andrebbero sanificate a ogni cambio di turno e che invece vengono disinfettate ogni quattro giorni». In queste condizioni il rischio di contrarre il Covid è altissimo. «Il mese scorso, in una sezione composta da circa 100 agenti – racconta De Bisogno – si sono verificati casi di Coronavirus. Abbiamo chiesto di sottoporre tutti al tampone. Il Comune ha dato l’ok ma ha anche deciso che, in attesa di conoscere l’esito del test, avrebbero dovuto continuare a lavorare». Il risultato? Trenta contagiati tra i caschi bianchi e chissà quanti tra i cittadini. Sembra il report delle condizioni di un Paese del terzo mondo. Invece no, è quello di Napoli, messa in ginocchio dal virus e dalla sua stessa amministrazione comunale. «L’unica soluzione sarebbe quella di assumere nuovi agenti – conclude De Bisogno – L’ultimo concorso c’è stato nel 2010, recentemente abbiamo assunto 140 ragazzi ma il loro contrato scadrà il prossimo mese e, se non si interviene, la situazione diventerà insostenibile». Ieri, intanto, si è riunito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza; presenti, tra gli altri, il sindaco e il comandante della polizia locale Ciro Esposito. All’ordine del giorno i controlli anti-Covid: una guerra che Napoli affronta con armi spuntate.

Risorse per la polizia municipale, dalla giunta de Magistris solo pochi spiccioli. Francesca Sabella su Il Riformista il 5 Novembre 2020. La pandemia ha acceso i riflettori non solo sulla rete sanitaria delle regioni ma anche su quella della polizia locale, chiamata a effettuare i controlli per il rispetto delle regole istituite dal Governo nazionale e dalla Regione sui limiti agli spostamenti o sugli orari del coprifuoco. Quanto investono, quindi, i Comuni in ordine pubblico e sicurezza? Il Comune di Napoli davvero poco: 78,05 euro pro capite. Il capoluogo partenopeo finisce così agli ultimi posti della classifica stilata da Openpolis ed è molto lontano dalla spesa sostenuta dal Comune più virtuoso: Firenze investe in sicurezza e ordine pubblico 147,05 euro pro capite, seguita da Milano e Venezia con una spesa di 143,93 euro pro capite per la città lombarda e 143,93 per il capoluogo veneto. In fondo alla lista, invece, c’è Messina che investe solo 54,71 euro pro capite per questa voce di bilancio. I dati sulla spesa dedicata all’ordine pubblico e alla sicurezza fanno riferimento al 2019, quando l’emergenza Coronavirus e i conseguenti provvedimenti restrittivi non erano altro che la trama di un film distopico. Al momento non sono ancora disponibili i dati aggiornati. Certo è, comunque, che non tutti i Comuni erano preparati allo stesso modo per affrontare l’emergenza e la conseguente mole di lavoro per la polizia locale. La difficoltà del Comune di Napoli nel gestire le conseguenze sociali del virus è venuta fuori in fretta, quando in città c’erano pochi controlli ed è stato necessario l’intervento dell’esercito, o durante le proteste scoppiate pochi giorni fa dopo l’annuncio di un probabile lockdown, quando è esplosa la rabbia dei manifestanti. In questi mesi di emergenza in tutti i territori del Paese è stata massiccia la presenza in strada delle forze di polizia locale. Non è un caso, infatti, che già a marzo il capo della polizia di Stato, Franco Gabrielli, abbia emanato una circolare con cui si riconosce l’indennità di ordine pubblico anche per la polizia locale. Secondo l’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni italiani, nel 2018 erano attivi in Italia oltre 60mila operatori di questo corpo di competenza degli enti comunali. Questi ultimi indicano le spese relative all’ordine pubblico e la sicurezza in due voci: “polizia locale e amministrativa” e “sistema integrato di sicurezza urbana”. La prima comprende i servizi di polizia municipale e locale, al fine di garantire la sicurezza anche in collaborazione con altre forze dell’ordine. Questo significa che si investe per la prevenzione e la repressione dei comportamenti illeciti, in un ampio raggio di ambiti, sul territorio di competenza dell’ente. Non sono incluse le spese della polizia provinciale. Il “sistema integrato di sicurezza urbana” include, invece, le attività a supporto del comparto, come i piani e i programmi connessi all’ordine pubblico e alla sicurezza, la predisposizione e l’attuazione della normativa o la promozione della legalità del diritto alla sicurezza. L’Anci, inoltre, considera quattro ambiti principali di polizia: amministrativa, stradale, di sicurezza e giudiziaria. Per presenze e attività, le categorie più importanti sono le prime due. Per quanto riguarda la polizia amministrativa, l’attività più importante dal punto di vista quantitativo è rappresentata dai controlli anagrafici (il 64,7% del totale degli interventi). Seguono a distanza gli accertamenti nell’ambito del commercio (20,9%) e ambientali (10,6%). Sono minoritari gli interventi nell’urbanistica (1,6%), nell’anticontraffazione (1,2%) e i trattamenti sanitari obbligatori (1,0%). Le attività della polizia stradale sono invece quelle che, tradizionalmente, la popolazione lega all’immaginario dei vigili urbani. Si tratta di interventi di controllo, azioni sanzionatorie, accertamenti di illeciti, rilevazioni di incidenti stradali o ritiro dei documenti. La polizia di sicurezza, invece, si occupa principalmente di interventi di ordine pubblico e identificazione dei cittadini stranieri. Quella giudiziaria. infine, si concretizza negli atti formali, come le denunce, gli arresti, le informative ad altre autorità, i sequestri penali e le indagini.

Napoli, con la giunta de Magistris periferie fuori controllo. Francesca Sabella su Il Riformista il 6 Novembre 2020. A Napoli, nel mese di ottobre, gli agenti della polizia municipale hanno fermato e controllato 14.751 persone, tra le quali 5.900 erano a bordo di un veicolo, ed elevate 119 contravvenzioni. I destinatari delle multe non hanno rispettato il distanziamento, l’orario del coprifuoco oppure non indossavano la mascherina. Nel mirino degli agenti anche i locali commerciali: 2.349 i ristoranti e i bar controllati, 193 i verbali rifilati a esercenti che non rispettavano la distanza di sicurezza e gli orari di chiusura. Quasi mille i controlli relativi alla sanificazione degli spazi e all’utilizzo del termo scanner, appena cinque i gestori multati. I controlli, finalizzati a verificare l’osservanza delle misure anti-Covid via via disposte dal governo Conte e dalla Regione, sono stati condotti soprattutto nelle cosiddette “zone bene” di Napoli e cioè tra Vomero, Chiaia, lungomare, via San Pasquale e Posillipo, oltre che tra centro storico, piazza Garibaldi e piazza Nazionale. Qui, fin dall’inizio della pandemia, la presenza di agenti della polizia locale è stata piuttosto massiccia. Tutte gli altri quartieri della città tuttavia, sembrano spariti dai radar dei caschi bianchi. Il motivo è presto detto: la polizia locale non dispone di risorse sufficienti, soprattutto in termini di personale. «È impossibile pensare di monitorare tutte le zone della città – spiega il generale Ciro Esposito, comandante della polizia locale di Napoli- Siamo pochi e cerchiamo di tenere sotto controllo soprattutto le zone della movida, quelle nelle quali il rischio di assembramento è più alto». Riflettori ancora una volta accesi, dunque, sulla mancanza di agenti e sulla difficoltà di gestire e controllare una città così grande e complessa come Napoli. «Attualmente in servizio ci sono 1.450 uomini della polizia municipale – fa sapere il generale Esposito – ma la pianta organica ne prevede 2.300». Già prima dell’inizio della pandemia mancavano all’appello quasi mille agenti, poi il virus ha fatto il resto. «Il Covid ha colpito 38 agenti – racconta il comandante – e 250 sono al momento in quarantena fiduciaria. Prima dell’emergenza, con un concorso indetto dalla Regione, abbiamo assunto 140 agenti, ma il loro contratto scadrà il mese prossimo. È evidente che abbiamo bisogno di personale». Certo, con questi numeri si fa quel che si può e, ovviamente, ciò che decide il sindaco o chi da quest’ultimo viene incaricato di seguire le vicende della polizia locale. La legge 65 del 1986, d’altra parte, assegna al primo cittadino o a un soggetto da lui delegato il compito di organizzare il lavoro della polizia locale impartendo le direttive e vigilando sull’espletamento del servizio. Ancora una volta viene da chiedersi se l’amministrazione guidata da Luigi de Magistris stia organizzando sapientemente i controlli anti-Covid. Già, perché al virus non piace passeggiare soltanto tra i baretti e il Vomero, ma anche frequentare le periferie. Queste ultime rientrano tra le zone più colpite dal Coronavirus. La settima municipalità San Pietro, Miano e Secondigliano è quella più giovane di Napoli e, nel mese di ottobre, è stata anche quella che ha registrato il più alto numero di contagi. Eppure, da quelle parti, dei controlli non c’è nemmeno l’ombra. «Qui la polizia municipale non c’era prima e non c’è adesso – racconta Vincenzo Strino, esponente dell’associazione no-profit Larsec, da sempre in prima linea per la riqualificazione del territorio di Miano, Secondigliano e San Pietro a Patierno – I controlli mancano completamente, la settima municipalità è terra di nessuno e l’emergenza Covid è completamente fuori controllo». Nelle scorse settimane la situazione è stata denunciata più volte, ma pare che nessuno abbia dato peso alle segnalazioni. «Questa parte della città – dice Strino – è dimenticata da tutti. Noi rappresentiamo una realtà a parte. C’è una parte di Secondigliano che rispetta le regole e un’altra che vive come se il virus non esistesse, senza mascherina e in continui assembramenti». Ma nella Napoli lontana dal luccichio e dai salotti chic, non si scende in strada solo per divertimento, ma anche per istinto di sopravvivenza. «Qui il virus si è diffuso a macchia d’olio perché la gente, se non esce per lavorare, muore di fame – racconta Strino – Così moltissimi asintomatici hanno continuato a lavorare a nero. La sensazione è che lo Stato faccia regole senza tener conto della disperazione che vivono diversi quartieri della città. Qualcuno lo ha dimenticato, ma Miano, Secondigliano e San Pietro a Patierno, come tanti altri quartieri periferici, fanno pure sempre parte di Napoli».

L'accusa. Le spese pazze di de Magistris tra rimborsi e staffisti. Francesca Sabella Il Riformista il 7 Ottobre 2020. «Il Comune di Napoli spende una cifra fuori dal mondo e che esula da qualsiasi ragionevolezza per il funzionamento degli organi istituzionali. Servirebbe subito una riforma che controlli le assunzioni e i rimborsi ai membri dello staff». È dura la critica di Michele Saggese, ex assessore della giunta Iervolino, sugli esborsi sostenuti da Palazzo San Giacomo. Napoli, infatti, è il Comune italiano che spende di più per i suoi organi istituzionali: 96,74 euro pro capite. Le spese per gli organi istituzionali si riferiscono all’amministrazione, al funzionamento e al supporto agli organi esecutivi e legislativi dell’ente. Comprendono gli esborsi relative all’ufficio del capo dell’esecutivo (ufficio del sindaco), gli organi legislativi e di governo a tutti i livelli dell’amministrazione, il personale consulente, amministrativo e politico assegnato agli uffici del primo cittadino e del corpo legislativo, oltre alle attrezzature materiali di cui questi uffici si dotano. Nel caso di Napoli, inoltre, la spesa include anche i costi legati al funzionamento delle municipalità. Il dato è riferito al 2018 ed è il più recente tra quelli disponibili, proviene dalla Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap) ed è stato elaborato da Openpolis. Napoli spende il doppio di Venezia, il triplo di Milano e 26,2 milioni in più rispetto a Roma, pur avendo 1,9 milioni di abitanti in meno rispetto alla Capitale e circa 400mila meno di Milano. Numeri che fanno strabuzzare gli occhi, sembrano appartenere a un Comune florido, che gode di ottima salute sul piano economico-finanziario e ha le casse piene. La realtà, tuttavia, è ben diversa considerato che il disavanzo del Comune di Napoli ammonta a circa quattro miliardi. Sembra evidente che i conti non tornano, vengono spesi troppi soldi e soprattutto vengono spesi male. E vista la condizione della città, dei trasporti pubblici, del verde abbandonato, della gestione dei rifiuti, viene da chiedersi: ma questa spesa non può essere limitata o diversamente gestita? È così necessaria e produttiva? «Certo che no – risponde Saggese – Parliamo del 10% della spesa corrente,che è di un miliardo e mezzo di euro. Roma, per fare un esempio, spende circa il 4% per gli organi istituzionali, eppure la spesa corrente della Capitale ammonta a tre miliardi di euro. Praticamente, è una follia quella commessa dal Comune di Napoli». Analizzando la spesa di Palazzo San Giacomo appare chiaro che molto denaro viene sborsato per gli stipendi degli staffisti, cioè di coloro che entrano a far parte dello staff del sindaco, di un assessore o di un consigliere senza passare per un concorso ma perché vengono semplicemente scelti e, dunque, collaborano con un amministratore sulla base di un rapporto fiduciario. Il numero degli staffisti è veramente eccessivo e stride con quello dei dipendenti comunali che, invece, sono sempre meno. Basta guardare come funzionano gli uffici di Palazzo San Giacomo per rendersi conto della carenza di personale. «Il sindaco de Magistris ha uno staff pletorico. La Iervolino aveva tre o quattro persone nel suo staff – ricorda Saggese – mentre l’attuale sindaco ne ha 22. Mi sembrano davvero troppe, soprattutto se consideriamo i loro stipendi e le modalità poco chiare con le quali vengono assunti. Così come sarebbe necessario approfondire le modalità di assunzione dei consiglieri comunali nelle aziende private». I consiglieri comunali cui fa riferimento l’ex assessore percepiscono stipendi da dirigenti che sfiorano i 10mila euro mensili, ma anche su questi meccanismi ci sono più ombre che luci. «Capita spesso – spiega Saggese – che si facciano assumere a due giorni dalle elezioni o che chiedano all’azienda per la quale lavorano di aumentare il loro stipendio: tanto, alla fine, quella spesa sarà compensata da un sostanzioso rimborso versato dal Comune. Ecco, tutto questo andrebbe rivisto». In che modo? «Innanzitutto approvando una riforma che controlli questi rimborsi – dice l’ex assessore – Allo stato attuale, per rimborsare un’azienda per lo stipendio versato a un suo dipendente che ricopra anche una carica istituzionale nell’ambito del Comune, ci si basa sull’ultimo stipendio percepito. Basterebbe guardare lo stipendio nell’arco di un anno e stabilire così l’entità del rimborso. Si andrebbe a eliminare un meccanismo che sfiora la truffa. E poi mi sembra doveroso controllare e rivedere il numero degli staffisti». Già, servono davvero tutte queste persone? «No – conclude Saggese – e basta vedere i risultati del loro lavoro: non mi sembra che la città abbia un’amministrazione e servizi efficienti. Piuttosto, quei soldi dovrebbero essere investiti per trasporti, manutenzione e verde che versano in condizioni a dir poco pietose».

Le spese folli. Il Comune di Napoli e il paradosso affissioni: ci rimette invece di guadagnarci…Francesca Sabella su Il Riformista il 12 Ottobre 2020. Le affissioni pubblicitarie rappresentano una delle maggiori fonti di reddito per i Comuni italiani. Chi vuole pubblicizzare la propria azienda o il proprio prodotto utilizzando suolo pubblico deve pagare una tassa al Comune, niente di più semplice. In una corretta gestione delle entrate nelle casse comunali e nell’ottica di un’amministrazione pubblica chiamata a lavorare per il bene della collettività, questa voce di introiti rappresenta un vantaggio per i cittadini. Ebbene, quanto guadagna Palazzo San Giacomo dalle pubblicità sparse in ogni angolo della città? Niente, anzi, ci rimette pure. Le affissioni pubblicitarie, invece di rappresentare una fonte di reddito per il Comune, costituiscono incredibilmente un costo: tre milioni devoluti ai concessionari per un milione e mezzo di introiti. Per quanto riguarda il Cosap (il canone di occupazione suoli e spazi pubblici), in intere aree della città si registrano un’evasione e un’elusione pressoché totali; in altre zone, invece, gli importi da versare risultano irrisori. Si pensi che il Comune di Napoli incassa un settimo del Comune di Torino, a fronte di un suolo occupato molto più esteso. Ennesima prova di un’amministrazione fallimentare che in dieci anni ha messo in ginocchio la città, buttando fiumi di denaro e restituendo ai cittadini servizi scadenti se non inesistenti. Ma come mai il Comune di Napoli invece di guadagnare dalle affissioni pubblicitarie ci perde? «Per circa 10 anni, fino al 2015, tutte le attività di gestione afferenti alle pubblicità e alle affissioni erano affidate alla Elpis, una società partecipata del Comune – spiega Gaetano Brancaccio, avvocato e presidente dell’associazione culturale Mario Brancaccio – Questa società, chiaramente, avrebbe dovuto incassare le tasse sulla pubblicità, invece non ha centrato gli obiettivi e ha presentato al Comune perdite consistenti anziché guadagni. Parliamo del 2011». Guardando i dati pubblicati sul sito del Comune e quindi accessibili a tutti, nel 2013 il Comune perdeva il 79% degli introiti che avrebbe dovuto ricevere dalle pubblicità. Numeri che fanno rabbrividire se si pensa a quante cose per la città si sarebbero potute fare con una corretta gestione delle affissioni e, soprattutto, con un’amministrazione trasparente. Nel 2015, poi, tutta la gestione delle affissioni pubblicitarie è passata alla Napoli Servizi. Altro scatafascio. Palazzo San Giacomo paga alla società che si occupa di gestire tantissimi servizi un prezzo altissimo per la gestione e la riscossione delle imposte sulla pubblicità. Questa riscossione, però, non avviene o avviene solo in parte. E il Comune continua a rimetterci invece di guadagnarci. «Credo che ci sia un problema politico e amministrativo – sottolinea Brancaccio – Evidentemente si è scelto di privilegiare la ripresa del settore pubblicitario senza badare troppo alla gestione contabile. Il tutto appare poco chiaro, come poco chiaro era il progetto Monumentando, opaco al punto che la mia associazione ha fatto una causa durata quattro anni per dimostrare l’illegalità di quell’azione». Il progetto cui fa riferimento Brancaccio nasceva a Palazzo San Giacomo nel 2013 con l’intento di restaurare 27 monumenti cittadini di grande pregio. Con un’apposita deliberazione, la Giunta comunale aveva avviato la procedura per la ricerca di uno sponsor per la realizzazione dei restauri. L’operazione fu affidata alla Uno Outdoor s.r.l., alla quale fu assegnata pure la gestione degli interventi di restauro e della scelta delle imprese che avrebbero dovuto farli. Quindi, durante il restyling dei monumenti, erano previsti maxi manifesti pubblicitari per coprire le impalcature. Chiaramente, una pubblicità su un monumento storico al centro della città avrebbe avuto un costo enorme. «Precisamente, così come rilevato dai listini della società privata Uno Outdoor, chi voleva fare pubblicità per esempio sulle torri aragonesi in Via Marina avrebbe dovuto pagare fino a 200mila euro al mese – fa sapere Brancaccio – Il Comune non li ha incassati per anni in cambio dei restauri che, tuttavia, non sono mai avvenuti o non sono avvenuti nella misura promessa. Una situazione allucinante che ci ha portato, infatti, a vincere la causa». Palazzo San Giacomo ha perso, quindi, decine di milioni di euro in questi anni e la cosa più grave è che a oggi il Suap (Sportello unico per le attività produttive) non ha idea di quanti soldi stia guadagnano – o, meglio, perdendo – il Comune di Napoli a causa della gestione “imprecisa” delle affissioni pubblicitarie. Non è dato sapere. Nel frattempo la città sopravvive a fatica e ci si chiede come si potrà uscire da questa situazione sulla quale pesa un disavanzo di svariati miliardi di euro.

La città allo sbando. Comune di Napoli allo sbando, ecco quanto costa una macchina che non funziona. Francesca Sabella su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Con 96,74 euro pro capite, Napoli è il comune italiano che spende più di ogni altro per gli organi istituzionali. È ciò che emerge dall’analisi condotta da Openpolis sui numeri del 2018. Dietro il capoluogo campano figurano Venezia, con una spesa di 44,4 euro per abitante, meno della metà dell’esborso che si registra nel capoluogo campano. Bari si piazza al terzo posto con una spesa pro capite di 40,4 euro. Anche in fondo alla classifica figura una città del Sud: si tratta di Messina che per i suoi organi istituzionali spende 15,08 euro per abitante. I dati mostrano la spesa pro capite per cassa riportata nell’apposita voce di bilancio. Ma torniamo a Napoli. La città amministrata dal sindaco Luigi de Magistris fa segnare la spesa più alta, in termini assoluti, tra le maggiori città italiane. Parliamo di 93,4 milioni di euro l’anno, una cifra nettamente superiore a quelle registrate a Roma (67,9), Torino (34,2) e Milano (34,1). Ovviamente, spese maggiori o minori per gli organi istituzionali non implicano giocoforza una gestione positiva o negativa. E va anche sottolineato come, troppo spesso, i Comuni non inseriscano le spese relative a un determinato ambito nella voce di bilancio a essa specificamente dedicata. Fatto sta che, per la città di Napoli, all’interno della voce di spesa vengono considerati anche i costi per le municipalità e non solo per le attività della struttura centrale che ha sede a Palazzo San Giacomo. Ed è altrettanto evidente che a costi di funzionamento degli organi istituzionali tanto elevati, sia in valore assoluto che per abitante, non corrisponda un’altrettanto alta qualità dei servizi offerti a cittadini e imprese. Dai trasporti alla gestione rifiuti, dalla manutenzione alla cura dei giardini pubblici, senza dimenticare la gestione del patrimonio pubblico, tutti i principali servizi offerti dal Comune sono scadenti e comportano a residenti, ospiti e imprenditori forti disagi. E allora la domanda nasce spontanea: l’esborso per il funzionamento degli organi istituzionali di Napoli è sacrosanto? Tutti quei soldi sono spesi bene? Il Riformista ha chiesto un parere a chi ben conosce la macchina comunale partenopea. «Per organi istituzionali – spiega Bernardino Tuccillo, in passato assessore comunale al Patrimonio – si intendono consiglieri comunali, assessori e figure che consentono il funzionamento e l’attività del Comune nelle sue varie articolazioni, comprese le municipalità. Ma la spesa di 96,74 euro pro capite è comunque stratosferica. Sarebbe interessante calcolare quanto impattano gli staffisti, ormai presenti in numero impressionante, e le spese relative ai rimborsi alle aziende delle quali numerosi consiglieri comunali risultano dipendenti». Tuccillo, infatti, solleva un’altra questione: «Spesso – sottolinea l’ex assessore – le aziende fanno assunzioni pro forma ai probabili consiglieri comunali, nella consapevolezza che poi, quando questi saranno eletti, il comune rimborserà i loro compensi. Tale fenomeno a Napoli è esponenzialmente alto, ma anche qui avremmo bisogno di dati precisi che al momento non sono disponibili. A prescindere da tutto ciò, non si può non notare la sproporzione tra le spese per il funzionamento degli organi istituzionali a Napoli e quelle che caratterizzano le altre grandi città». Come si potrebbe procedere? «Sarebbe opportuno – conclude Tuccillo – che la Procura della Corte dei Conti indagasse soprattutto sui rimborsi alle aziende che danno lavoro ai consiglieri comunali e sul numero esorbitante di staffisti. È del tutto evidente come tutto ciò non si traduca affatto in arricchimento della qualità dei servizi offerti a cittadini e imprese». Queste spese, d’altro canto, hanno inevitabilmente inciso sul bilancio del Comune soprattutto negli ultimi anni: è un caso che il deficit di Napoli si sia praticamente quintuplicato negli ultimi dieci anni, passando dagli 800 milioni registrati nel 2010 alla cifra-chic di circa quattro miliardi di cui si è parlato in occasione dell’approvazione del rendiconto del 2019?

Il sangue resta solido. San Gennaro fallisce il miracolo, non si scioglie il sangue: cosa vuol dire. Redazione su Il Riformista il 16 Dicembre 2020. Il "miracolo" della liquefazione del sangue di San Gennaro non si è rinnovato. Il prodigio del santo protettore di Napoli era atteso questa mattina, ultima delle tre date annuali nelle quali tradizionalmente si ripete, ma al termine della messa celebrata alle 9 presso il Duomo di Napoli l’abate della Cappella di San Gennaro, Vincenzo De Gregorio, ha annunciato il non verificarsi del miracolo. “Quando abbiamo preso la teca dalla cassaforte il sangue era assolutamente solido e rimane assolutamente solido”, ha spiegato l’abate. La teca sarà riportata nella Cappella alle 12, per essere ripresa nuovamente alle 16.30. Alle 18:30 quindi sarà celebrata una nuova messa con la speranza per i fedeli napoletani di poter assistere all’annuncio dell’avvenuto miracolo, in memoria dello scampato pericolo di Napoli dall’eruzione del Vesuvio del 1631. Quest’anno le celebrazioni si sono svolte sull’altare maggiore del Duomo a causa del Coronavirus, per poter garantire il distanziamento previsto dalle norme anti-Covid, impossibile da mantenere all’interno della più piccola Cappella di San Gennaro, gestita dalla Deputazione San Gennaro. Poche anche le persone presenti in cattedrale o all’esterno, proprio a causa dell’emergenza sanitaria legata al virus. Da ‘tradizione’ nelle occasioni in cui non si è sciolto il sangue sono avvenute sventure per la città di Napoli e non solo: nel settembre del 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale, nel 1973 l’epidemia di colera nel capoluogo campano, mentre nel 1980 il drammatico terremoto che devastò l’Irpinia.

Marino Niola per “la Repubblica” il 17 dicembre 2020. Faccia gialla, dacci un segno. Liberaci dal virus". Ma ieri san Gennaro ha detto no. E il suo sangue è rimasto irrigidito nell' ampolla. Gettando un' ombra scura sul morale di tanti, credenti e no. Perché il miracolo più famoso del mondo è sempre stato letto come una profezia. Un pronostico sul futuro che, il "vero dio di Napoli", come lo chiamava Alexandre Dumas, scrive a lettere scarlatte. Il prodigio si ripete tre volte all' anno, il 19 settembre, giorno del martirio. Il primo sabato di maggio in ricordo della traslazione delle spoglie da Pozzuoli alle catacombe napoletane. E il 16 dicembre, anniversario della spaventosa eruzione vesuviana del 1631, quando la nube ardente che precipitava sulla città si arrestò davanti alle sante reliquie portate in processione. Questo sangue che rivive periodicamente è da sempre oggetto dell' interpretazione popolare che dai tempi e modi della liquefazione trae auspici positivi o negativi. Cosa che dava molto fastidio agli intellettuali illuministi, come Voltaire, indignati da quest' uso superstizioso della fede che finiva per trasformare il santo in uno "spione di Dio". Un display dell' ira divina. Per certi versi questo fenomeno ai confini della realtà somiglia molto a un antico oracolo, tant' è che richiede sempre una decodifica, come i responsi della Sibilla. Non a caso ieri il cardinale uscente, Crescenzio Sepe, dopo l' ultima esposizione infruttuosa della giornata ha fornito una lettura equilibrata, da buon pastore che rassicura il suo gregge spaventato. «L' importante è sentirci uniti», ha detto. Ma la vox populi non si è sentita affatto rassicurata. E si è affrettata a riepilogare i miracoli negati del passato. A cominciare dal 1940, quando il mancato scioglimento coincise con l' entrata in guerra dell' Italia. Mentre nel settembre 1973, il sangue rimase solido e meno di un mese dopo il colera presentò il conto ai partenopei. E infine il 1980 quando al silenzio del martire seguì il terremoto che il 23 novembre devastò la Campania e la Basilicata. Devozione o superstizione? La soglia fra le due è davvero sottile. Ma in ogni caso non diminuisce il valore sociale e politico del patrono. Di fatto san Gennaro è un santo civico, un totem identitario che come tale appartiene a credenti e non credenti. Lo conferma il fatto che a custodire le preziose ampolline sono il sindaco della città e una deputazione composta da 11 laici nominati dal Ministero dell' Interno. In realtà questo è un teatro del sacro, che consente a tutti di mettere in scena paure, ansie e speranze. E mai come adesso, in piena pandemia, un segno dall' alto sarebbe stato maledettamente importante. Se non altro avrebbe fatto da placebo.

Marco Ciriello per “il Messaggero” il 17 dicembre 2020. Non bastava il Covid: ora c' è anche il sangue di San Gennaro che non si scioglie. Domenico Rea diceva che il popolo napoletano era stato così dentro la storia e così maltrattato, deriso e beffato, che ha finito per uscire dal tempo, creando una città-nazione eterna, dove la legge va da San Gennaro alla cabala. San Gennaro è sempre stato il più prossimo dei potenti e quello con la soglia più vicina al mondo che contava, in poche parole uno di famiglia andato a stare bene, anche se passando per una tribolazione. L'attesa eri, al termine di una lunga giornata di preghiera, la teca con l' ampolla è stata riposta nella cassaforte della Cappella del Tesoro, tra la delusione dei fedeli. «Vogliamo fare un atto di vera e profonda devozione al nostro Santo Gennaro, siamo uniti nel suo nome. È lui che ci aiuta a vivere, a testimoniare la fede, e anche se il sangue non si scioglie non significa chissà che cosa», ha detto il cardinale Crescenzio Sepe, che a breve lascerà la Diocesi di Napoli. Attraverso il sangue di quel corpo passava e passa l' identità napoletana. Il cambio di stato del sangue, quel momento di scioglimento, è lo stesso che hanno vissuto gli antenati della città: attesa, emozione, sguardo all' ampolla, è un riconoscimento nel sangue che diventa identità: nello spazio e nel tempo, e che sancisce, nella storia, l' essere napoletani. È un rito che si ripete tre volte l' anno, e oltre a ribadire l' essere e la sua riconferma, dice anche come: se con gioia o con dolore. Lo scioglimento del sangue è un privilegio e un prodigio che avviene mediante una materia viva e che si ripete nel tempo, mentre i miracoli avvengono, generalmente, una volta sola. Invece, lo scioglimento del sangue è una finestra spazio-temporale che diventa dialogo, un sistema comunicante con quello vulcanico del Vesuvio: il sangue si scioglie, la lava resta a posto suo; il sangue non si scioglie, la lava che sia vera o sotto altre forme: colera, occupazioni, guerre devasta tutto. Oltre a Gennaro, a Napoli sciolgono o scioglievano il sangue anche Santa Patrizia, Sant' Alfonso Maria de' Liguori, San Lorenzo, Santo Stefano e San Luigi Gonzaga. E, con tanto sangue in circolo non potevano mancare i custodi-collezionisti di quel sangue, come il canonico Nicola Tozzi che aveva radunato nella sua casa di Materdei una collezione di sangui di dodici santi, come racconta Francesco Palmieri ne L' incantevole sirena che raccoglie tutte le vicissitudini del sangue napoletano: macellazioni, conservazioni e venerazioni. Gli studiosi Alfano e Mitrano dalla modalità del fenomeno ricavarono una scala: 1) ottimo; 2) buono; 3) mediocre; 4) sfavorevole; 5) pessimo; 6) nullo. È sfavorevole lo scioglimento avvenuto in tre ore. È pessimo se avviene dopo più di tre ore. Nullo se il miracolo non avviene. Con questi criteri hanno incrociato calamità e grandi lutti a Napoli dal 1661 al 1947 con: epidemie (e ci siamo), rivoluzioni (magari), invasioni (con Napoli che diventa Hong Kong?), siccità (economica), morte di arcivescovi, guerre (urbane, già fatto), piogge disastrose (quindi una crescita delle dirette di De Luca), carestie (e ci siamo), eruzioni del Vesuvio e terremoti (sarebbero un carico pesantissimo), morte di persone reali e pontefici (in questo caso in ritardo sulla marcatura di Maradona ma è normale trattandosi di Diego). Dei tre prodigi annuali quello più presagente è a settembre col 94%, seguito da questo di dicembre con l' 89%, segue maggio con solo il 36%. Percentuali preoccupati, soprattutto quest' anno, con un pandemia in corso, che nel terzo appuntamento lo scioglimento non c' è stato: creando sconcerto. Quello del sangue è un prodigio che moltiplica le discussioni, che porta alla parola e alla parodia, sia quelle degli studiosi delle religioni, sia quelle del popolo, come le parenti di San Gennaro che vantano un diritto speciale: residenti nella zona del Molo piccolo, facevano di cognome Januario e rivendicano una appartenenza che porta a delle vere e proprie esplosioni emotive, preghiere e invettive che culminano in: «Oh Guappone de la nosta Santa Fede, Fa a faccia tosta cu la SS. Trinità». Poi ci sono i dialoghi cinematografici, meno irruenti, come quello di Nino Manfredi in Operazione San Gennaro che gli promette Eusebio e un parco tematico in cambio del permesso di derubarlo. Quelli intimo-teatrali di Massimo Troisi e Lello Arena: una disputa agli occhi del Santo, usato per vincere al lotto dal secondo e deriso dal primo; e, infine, quelli musicali, su tutti l' invo-canzone Faccia gialla di Pino Daniele che gli chiede di salvare pure «'e fessi». Scartati i potenti, ai napoletani non rimane che il Santo, col quale dialogare e al quale domandare, per questo nessuno si preoccupa se il prodigio è vero o no, se le pietre di Pozzuoli hanno raccolto il sangue o meno, l' importante è l' atto, 'o sangue. Come capisce Curzio Malaparte nel finale di Kaputt. Dopo tanto sangue della Seconda guerra mondiale, torna a Napoli e viene investito dalla corsa dell' intera città che sembra andare verso il Duomo, anelando il sangue e il suo prodigio, che poi è il cambiamento.

I misteri di San Gennaro: I luoghi della prima liquefazione e l’insospettabile legame con un grande poeta. Amedeo Junod Il Riformista il 14 Settembre 2020. Il nostro viaggio alla scoperta della Napoli insolita e misteriosa prosegue risalendo l’antica Via Antiniana. All’altezza dell’attuale Via Salvator Rosa e continuando lungo Via Conte della Cerra, riscopriamo i luoghi storicamente legati al passaggio del Santo. Una lapide discosta, spesso ignorata da passanti e turisti, reca memoria del primo miracolo storicamente documentato di liquefazione del sangue del patrono, siamo nel 1389, quando durante il trasporto delle reliquie di Gennaro le ampolle del sangue si urtarono, originando la prima liquefazione. Meglio conosciuta della lapide commemorativa, è la Chiesa di San Gennaro ad Antignano, anche nota come “la piccola Pompei”, luogo di culto del Vomero e tappa obbligata per chiunque volesse ripercorrere le tappe significative del martirio e della trasposizione delle reliquie del Santo. Alcuni storici, nel corso dei secoli hanno azzardato un’ipotesi che lascia sbalorditi: negli stessi luoghi dove oggi sorge la lapide, sarebbe infatti sepolto il sommo poeta Virgilio. Non è certo infatti che le spoglie di Virgilio riposino a Piedigrotta, dove risiede il mausoleo ufficiale che ospita i corpi del poeta latino e di Giacomo Leopardi. Quello che è certo è che il ruolo simbolico che Virgilio ha ricoperto per la città di Napoli in epoca pagana, riporta molte similitudini con il culto del martire Gennaro. Ritenuto mago oltre che poeta, Virgilio veniva consultato dalla città come un nume tutelare, in grado di difendere il popolo partenopeo da pestilenze e carestie e di assicurargli, tramite la sua protezione, un fulgido avvenire. Ai suoi poteri è attribuita addirittura la comparsa della grotta che collegava il centro a Pozzuoli, e che avrebbe in seguito evitato ai pellegrini di dover superare le colline lungo il percorso sacro che giunge fino al Rione Terra. Le reliquie del martire, dopo la sua morte, furono invece trasportate lungo la via “per colles” (letteralmente “lungo le colline”), ritenuta più sicura, passando per l’attuale Via Terracina, fino al luogo dove oggi sorge il Santuario intitolato al Santo, dove esiste un culto ancora forte, alimentato continuamente da folle di devoti fedeli. La sovrapposizione dei culti non ebbe però vita facile, soprattutto nel  medioevo, quando il papato intervenne per restituire il primato del culto di Gennaro, rigettando il culto pagano per Virgilio nei cassetti della Storia.

Da affaritaliani.it il 7 settembre 2020. A due settimane dalle elezioni Regionali arriva una brutta notizia per il presidente della Campania Vincenzo De Luca, è stato iscritto nel registro degli indagati con le accuse di falso e truffa. Un’indagine - si legge su Repubblica - rimasta segreta. Perfino quando, a ridosso del lockdown, De Luca è stato convocato negli uffici del pubblico ministero per un interrogatorio. E, assistito dal suo avvocato, ha scelto di rispondere a tutte le domande e di fornire la sua lettura dei fatti. Falso e truffa, le ipotesi di reato. Sulle quali la Procura guidata da Gianni Melillo dovrebbe chiudere le valutazioni a breve. Uffici dai quali trapela, tuttavia, un rigoroso no comment. Una vicenda di agevolazioni e presunti favoritismi destinati a quattro "suoi" storici autisti. Che De Luca, con distinti decreti, avrebbe fatto trasferire da Salerno alla Regione. I quattro vigili- autisti erano inseriti come membri dello staff delle relazioni istituzionali, pur essendo privi di formazione, curriculum e specializzazioni.

De Luca conferma l'inchiesta su di lui e attacca Nappi, che lo denunciò. Il governatore dopo la rivelazione di "Repubblica" scrive su Facebook: "Indagano da tre anni". La Repubblica il 07 settembre 2020. In una conferenza stampa di prima mattina a Salerno, davanti alle domande dei cronisti sull'inchiesta nei suoi confronti rivelata da "Repubblica", non si era voluto esprimere. Limitandosi ad allargare le braccia e ad andar via. Ma a fine mattina il governatore rompe il silenzio sull'indagine che lo vede indagato per truffa e abuso. Lo fa con un post su Fb. Si legge: "Si apprende della tempestiva scoperta che da tre anni è aperta una indagine sull'organizzazione dell'Ufficio di segreteria del Presidente della Regione Campania. L'indagine - dovuta - è partita da un esposto di un ex assessore regionale (ex Forza Italia, ora leghista) che mentre era assessore si faceva dare incarichi per centinaia di migliaia di euro dall'azienda regionale dei trasporti EAV (indagate, indagate...)". E qui attacca chi lo denunciò. "L'indagine triennale verte su questo interrogativo: gli autisti che a turno accompagnano il Presidente della Regione, erano solo autisti o facevano anche lavoro di segreteria? - aggiunge - Nel frattempo si comunica che l'organizzazione dell'Ufficio di segreteria della Presidenza attuale, rispetto a quella precedente, ha comportato un risparmio di 84.000 euro l'anno". E qui si coglie una difesa rispetto alle accuse mosse. "Buon lavoro a tutti - conclude - E per il resto, non perdere tempo e non farsi distrarre", conclude con quello che ormai è il suo slogan. Ma al di là del post sarà adesso la magistratura a fare le sue valutazioni sull'inchiesta.

De Luca indagato: ha favorito i suoi quattro autisti? LeIene News il 07 settembre 2020. La Procura indaga sul governatore della Campania, ricandidato alle prossime elezioni del 20-21 settembre, per abuso d'ufficio e truffa: i suoi 4 autisti sarebbero stati assunti in Regione con un ruolo per cui non avrebbero i requisiti. Nel 2015 Paolo Calabresi aveva beccato Vincenzo De Luca sull'auto blu mentre percorreva una strada contromano per arrivare prima a casa. Le indagini sono partite proprio da un incidente contromano nel 2017. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca sarebbe indagato per abuso d'ufficio e truffa: avrebbe favorito i suoi 4 autisti personali, assumendoli in Regione nello staff delle relazioni istituzionali anche se privi dei requisiti necessari. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato nel 2015 di alcune "brutte abitudini" nell’uso dell’auto blu nel servizio di Paolo Calabresi che potete rivedere qui sopra. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca si è ricandidato per le elezioni regionali del 20-21 settembre. Le indagini di oggi sono partite proprio da un incidente stradale del 2017 in cui uno dei sui quattro autisti di De Luca ha investito con l’auto di servizio, proprio mentre guidava contromano, una giovane  in scooter. Le indagini, a partire dall’incidente contro lo scooter, avrebbero verificato anomalie nel ruolo assegnato in Regione agli autisti che avrebbe garantito loro un’indennità di 4.600 euro lordi l’anno. La procura, che a quanto risulta aveva già convocato mesi fa De Luca ottenendo la sua versione dei fatti, ora si appresta a chiudere le indagini per le quali non sarebbe esclusa l’ipotesi di archiviazione. Noi de Le Iene avevamo beccato nel 2015 De Luca sull’auto blu, con uno dei suoi autisti alla guida, mentre stava percorrendo una strada in divieto d’accesso. Il Governatore De Luca, con una storia su Faceebok, ha replicato alle notizie giornalistiche di queste ore:"“Si apprende della tempestiva scoperta che da tre anni è aperta una indagine sull'organizzazione dell'Ufficio di segreteria del Presidente della Regione Campania. L'indagine triennale verte su questo interrogativo: gli autisti che a turno accompagnano il Presidente della Regione, erano solo autisti o facevano anche lavoro di segreteria?  Nel frattempo si comunica che l'organizzazione dell'Ufficio di segreteria della Presidenza attuale, rispetto a quella precedente, ha comportato un risparmio di 84.000 euro l'anno”.

Marco Conti per “il Messaggero” l'8 settembre 2020. L' indagine risale a tre anni fa, gli inquirenti sostengono che si va per l' archiviazione, ma il tritacarne si è mosso lo stesso, ovviamente in campagna elettorale. Stavolta tocca al presidente della regione Campania Vincenzo De Luca difendersi. La vicenda, nata da un esposto di un consigliere regionale leghista, riguarda le modalità con cui quattro vigili urbani di Salerno sono diventati membri della segreteria del governatore. L' ipotesi di reato - avanzata nel 2017 - è falso e truffa e, poco prima del lockdown, lo stesso De Luca si era recato dai magistrati a dare la propria versione dei fatti. Un atto su cui i magistrati stanno facendo da tre anni chiarezza, mentre il legale di De Luca, l' avvocato Andrea Castaldo, sostiene che i quattro decreti firmati dal presidente di regione rientrano nell'ambito di «una riorganizzazione che ha consentito un risparmio di spesa rispetto alla precedente amministrazione». E quindi, a suo giudizio, sarebbe sbagliato parlare di vigili promossi. Lo stesso Castaldo chiede di «evitare ogni strumentalizzazione in considerazione del momento elettorale prossimo. Non vi è alcuna novità processuale» rispetto al 2017. Secondo quanto si apprende, comunque, gli inquirenti starebbero valutando anche la possibilità di archiviare l' indagine e che dunque potrebbe non avere un esito processuale. Il diretto interessato non sembra scomporsi più di tanto. Ieri mattina, ha partecipato a un convegno a Salerno e, interpellato dai giornalisti, ha allargato le braccia con un «no comment». Poche ore dopo un post su Facebook dal titolo straordinario scoop giornalistico nel quale De Luca parla con ironia «della tempestiva scoperta che da tre anni è aperta una indagine sull' organizzazione dell' Ufficio di segreteria del Presidente della Regione Campania», e attacca senza citarlo l' ex assessore Severino Nappi, autore della denuncia nei suoi confronti. Poi conclude ricordando che «l' indagine triennale verte su questo interrogativo: gli autisti che a turno accompagnano il Presidente della Regione, erano solo autisti o facevano anche lavoro di segreteria? Nel frattempo si comunica che l' organizzazione dell' Ufficio di segreteria della Presidenza attuale, rispetto a quella precedente, ha comportato un risparmio di 84.000 euro l' anno. Buon lavoro a tutti. E per il resto, non perdere tempo e non farsi distrarre». A stretto giro la replica di Nappi («il guappo di cartone, che riveste il ruolo di presidente della Regione ancora per pochi giorni, non ha neanche il coraggio di nominarmi esplicitamente perché sa che il mio nome è immacolato») e di Valeria Ciarambino, candidato presidente dei 5 Stelle per la quale «De Luca è il primo degli impresentabili». Il candidato governatore del centrodestra, Stefano Caldoro, pur ricordando il suo garantismo, spiega che la vicenda evidenzia politicamente «il modello del clan De Luca, a prescindere dalle vicende giudiziarie: lui favorisce solo gli amici, poi rispettando o meno la legge lo deciderà la magistratura». Sulla linea grillina anche il sindaco di Napoli De Magistris che da buon magistrato evita di entrare nel merito delle indagini, ma attacca comunque il presidente della regione Campania: «Non c' è bisogno di questa vicenda per marcare il mio distanziamento politico ed etico da De Luca». «L'apertura di un'indagine sul Governatore De Luca, per l' ipotesi di abuso d' ufficio - sostengono due deputati del Pd di Base Riformista Alessandro Alfieri e Andrea Romano - è un atto dovuto a seguito delle denunce presentate da esponenti politici locali del centrodestra. Che la destra campana la utilizzi ora come strumento di campagna elettorale non solo è un meschino atto di sciacallaggio ma conferma l' assenza di veri argomenti politici nella campagna elettorale della destra».

Procure alle urne. Inchiesta su De Luca, a pochi giorni dalle urne la procura prova a inquinare le elezioni. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Eccola lì: è arrivata giusto in tempo la notizia di una indagine sul governatore della Campania Vincenzo De Luca, accusato non si sa esattamente di che cosa, comunque di avere affidato a dei vigili urbani degli incarichi che non spettavano loro. Pare che De Luca per questo lavoro extra (lavoro di segreteria) li abbia anche pagati, e questo fatto che li abbiamo pagati (circa 250 euro netti al mese) aggrava ulteriormente la sua posizione. Una cosa è far lavorare gratis qualcuno, una cosa ben più grave è pagarlo, seppure con una cifra, francamente, molto modesta. Intendiamoci bene: l’accusa non è di averli pagati poco, è di averli pagati. L’indagine che riguarda De Luca è vecchia di tre anni, ma tre anni fa la notizia non avrebbe avuto grande valore perché De Luca era stato eletto da poco governatore della Campania e non c’erano elezioni in vista. È del tutto inutile far sapere all’opinione pubblica di una indagine contro un esponente della politica se non ci sono elezioni in vista. Si rischia di sprecare l’avviso di garanzia. In questo caso le cose sono state fatta con grande avvedutezza: la notizia è stata diffusa al momento giusto, dodici giorni prima delle elezioni nelle quali De Luca è candidato alla riconferma alla presidenza della Regione. Il governatore, come gli capita spesso con le cose della vita, l’ha presa a ridere. Ha ironizzato sui tre anni di tempo per diffondere la notizia, ha ironizzato sul merito del reato (nientedimenoché falso e truffa) e ha a sua volta lanciato accuse. Precisamente ha sostenuto che l’indagine partirebbe da una denuncia di un ex assessore regionale, Severino Nappi, ex Forza Italia e attualmente leghista, il quale – secondo De Luca – avrebbe fatto cose pessime quando era assessore e guadagnato dei soldi ottenendo vari incarichi dall’azienda regionale dei trasporti. Chissà se è vero. Una cosa certamente è vera: che i nostri rappresentati politici non sanno mai resistere alla tentazione, quando sono colpiti dal giustizialismo, di reagire con metodi giustizialisti. Nessuno sfugge, a quanto pare: neppure un politico anomalo e anticonformista come De Luca. Qui finisce la questione giudiziaria. Tutto lascia credere che alla fine, come spesso succede, l’indagine verrà archiviata. Finisce la questione giudiziaria e si apre la questione politica. Con questa domanda: è un caso, un puro caso, che la notizia dell’indagine su De Luca sia venuta fuori proprio ora? Per quali vie “Repubblica” – che l’ha pubblicata per prima – è venuta in possesso di questa notizia, che fin qui era stata tenuta, come è giusto che sia, riservata? C’è stata una fuga di notizie? Da dove è partita questa fuga di notizie, da Palazzo di Giustizia? Perchè questa fuga di notizia è avvenuta proprio alla vigilia immediata delle votazioni per il nuovo consiglio regionale? All’ultima domanda si può dare la risposta che si vuole. Alle prime domande la risposta è semplice semplice: no, non è un caso; la fuga di notizie c’è stata; la fuga di notizie parte da palazzo di Giustizia. Ora è abbastanza probabile che questa ennesima interferenza della magistratura in campagna elettorale non avrà conseguenze. Perché i sondaggi dicono che il vantaggio di De Luca sui suoi avversari è così ampio da non dover temere gli inquinamenti giudiziari. Sarebbe stato ben più grande se qualcosa del genere fosse avvenuto (e speriamo che non avvenga nei prossimi giorni) in Regioni come la Toscana o la Puglia, dove l’esito elettorale è ancora in bilico. Ma questo non toglie nulla alla gravità dell’interferenza. Contro la quale, purtroppo, non si può fare quasi nulla. La magistratura non ha mai considerato un problema l’abitudine dei suoi Pm di intervenire nelle campagne elettorali. Anzi, lo considera un modo di esercitare il proprio compito, tenendo sotto controllo i candidati e influenzando in qualche modo la “popolazione onesta”. Un po’ l’attuazione del famoso “resistere, resistere, resistere” che fu lo slogan lanciato dal Procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, quando teorizzava che il compito della magistratura non fosse quello di giudicare le persone sospette di qualche reato ma invece quello di difendere il profilo etico della società. Del resto, la magistratura, in questa sua interpretazione del proprio ruolo, si è sempre trovata un alleato insospettabile: la politica. Già, da quando la magistratura è entrata in politica i partiti politici invece di unirsi per difendersi dall’invasione e rivendicare la propria autonomia, hanno fatto a turno a schierarsi coi magistrati. Quando finiva sotto accusa uno del centrosinistra era la destra a tifare per i giudici, e viceversa. Con poche eccezioni (i radicali, un piccolo nucleo di Forza Italia, un minuscolo gruppetto di esponenti garantisti della sinistra). Il risultato è stato il mani libere ai Pm. Anche ieri è stato così. L’ex Pm de Magistris, che non ha avuto molta fortuna in magistratura e ora fa il politico e il sindaco di Napoli, ha rilasciato dichiarazioni polemiche con De Luca. Ha detto di non conoscere il merito dell’inchiesta ma che tra lui e De Luca c’è una grande distanza etica. Ha detto così: ‹‹Distanza etica››. Io, quando sento queste parole, mi spavento. Penso a certe idee della politica di settanta o ottanta anni fa, che produssero tanti disastri e che pensavo -speravo – fossero state definitivamente superate. Macché. Son sempre lì: vivissime. L’idea di mettere l’etica (la propria) davanti al diritto e alla politica è sempre la tentazione più grande.

Il prezzo che si paga cedendo ai forcaioli. De Luca, Caldoro e le inchieste a orologeria. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista l'11 Settembre 2020. Cedere al giustizialismo ha un prezzo, spesso molto alto. Ne sa qualcosa Stefano Caldoro che contende la poltrona di presidente della Campania a Vincenzo De Luca. In un’intervista a Real Inside Magazine, il leader del centrodestra regionale si è scagliato contro i giudici che avrebbero condizionato la sua campagna elettorale: «Non c’è dubbio che la magistratura ha compiuto un’azione di una violenza inaudita nei confronti di Forza Italia e di gran parte del suo gruppo dirigente». Il riferimento è all’inchiesta condotta dalla Dda di Napoli che, a giugno, ha portato all’arresto dei tre fratelli del senatore Luigi Cesaro, uomo forte del centrodestra campano a sua volta indagato per la riqualificazione dell’ex Cirio di Castellammare. Queste vicende hanno spinto la Lega, alleata di Forza Italia, a pretendere la cancellazione degli indagati o di persone loro vicine dalle liste per le regionali. E così Armando Cesaro, figlio di Luigi e consigliere regionale uscente, ha confermato sì l’appoggio a Caldoro ma non si è ricandidato. Tutto ciò rende necessaria una riflessione sugli effetti che l’azione della magistratura produce sulle vicende politiche locali. Le conseguenze determinate dalle inchieste giudiziarie sulla campagna elettorale del centrodestra sono state dirompenti soprattutto per la tempistica. La svolta nell’inchiesta sui Cesaro, relativa a fatti risalenti al 2016, è infatti arrivata proprio quando le forze politiche erano impegnate nella selezione dei candidati. Caldoro ha fatto bene a sottolinearlo, parlando dell’inchiesta come di un «terremoto» ed evidenziando come essa abbia «generato la scelta delle candidature, i passi indietro, i passi di lato». E non si può negare che le iniziative dei pm si siano finora rivelate assai più devastanti per il centrodestra che non per il centrosinistra, sebbene anche quest’ultimo sia diventato bersaglio di critiche feroci dopo che Repubblica ha annunciato il coinvolgimento del governatore De Luca in un’altra inchiesta della Procura di Napoli. A “costringere” Cesaro jr. a farsi da parte è stato il leader leghista Matteo Salvini, espressione di quel giustizialismo becero che lo accomuna più agli avversari del Movimento Cinque Stelle che non agli alleati di Forza Italia. Caldoro sconta gli effetti della strategia salviniana, cioè della ricerca del consenso attraverso la crocifissione di chiunque sia coinvolto in vicende giudiziarie. Sarebbe cambiato qualcosa se Cesaro jr. avesse avuto la possibilità di candidarsi? Questo potremo dirlo dopo le votazioni del 20 e 21 settembre. Ma è innegabile che la presenza in lista di un punto di riferimento di Forza Italia come lui avrebbe rafforzato il partito e l’intera coalizione. Non bisogna dimenticare, infine, la stella sotto la quale è nata questa campagna elettorale. Ad aprirla, di fatto, sono state le false notizie circa il presunto commissariamento dell’Asl Napoli 1, diffuse dal M5S e da organi di informazione a quest’ultimo vicini. È proseguita prima con la vicenda Cesaro e poi con l’inchiesta su De Luca, a quanto pare prossima all’archiviazione. Tutti polveroni che, a parte alimentare la voglia di manette di qualcuno, non hanno finora prodotto risultati apprezzabili, rivelandosi poco più di voci infondate o comunque non in linea con i fatti. Il risultato è presto detto. Lanciata come un coltello contro De Luca, la notizia del presunto commissariamento dell’Asl napoletana si è rivelata un boomerang per i grillini. Rischia di sortire lo stesso effetto la notizia dell’inchiesta sullo staff del governatore che, se dovesse essere archiviata, minerebbe la credibilità di chi l’ha usata per speculare politicamente, cioè della Lega. In entrambi i casi, a uscirne rafforzato sarebbe De Luca. Visto? Il giustizialismo è un’arma da maneggiare con cura.

La giustizia da riformare.  Campania, così la magistratura ha condizionato la politica. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Settembre 2020. «Nella nostra storia le vicende giudiziarie hanno condizionato la politica, e non solo quella. Mi ritrovo con quanto detto dal giurista Sabino Cassese: il potere giudiziario è diventato un nuovo potere. Un potere alternativo, e ciò dovuto anche al fatto che nel frattempo si è indebolita la funzione della politica». Il professor Luigi Musella, docente di Storia contemporanea all’università Federico II di Napoli, accetta di compiere con il Riformista una riflessione su come inchieste e processi hanno finito per interferire sul corso della storia e della storia politica del nostro territorio e su come spesso processi e inchieste vengono strumentalizzati. «La politica ha perso il suo ruolo all’interno della società civile – aggiunge il professor Musella – Se paragoniamo gli anni Sessanta agli anni Novanta, è evidente che nel tempo, all’interno della cultura delle persone comuni, è venuta meno l’importanza della politica che, indebolendosi, ha subìto gli effetti della profonda trasformazione del sistema economico e del processo di globalizzazione che ha fortemente ridotto il ruolo degli Stati-nazione. Mentre un tempo l’economia aveva molto bisogno dell’aiuto e dell’intervento dello Stato, la globalizzazione ha depotenziato il ruolo dello Stato rispetto all’economia riducendo l’importanza della politica». Restringendo il campo sullo scenario campano, da Tangentopoli alla maxi-inchiesta sul ciclo dei rifiuti in Campania si arriva alle più recenti indagini su politici e amministratori pubblici, e da ultima – in ordine di tempo – l’inchiesta che vede indagato il presidente della Regione Vincenzo De Luca e di cui è stata diffusa la notizia proprio in questi giorni di campagna elettorale per le regionali, nonostante l’inchiesta risalga a tre anni fa. «Più che le indagini o il processo in sé è l’uso che se ne fa nell’opinione pubblica», spiega Musella sottolineando come i condizionamenti arrivino anche dai riflessi esterni delle vicende giudiziarie. «Quanti processi – ricorda – sono iniziati con enormi scandali e si sono risolti sul piano giudiziario dopo moltissimi anni e con poco o nulla di fatto, ma dopo che il politico è stato comunque delegittimato di fronte all’opinione pubblica». Sullo sfondo di illegalità vere o presunte, si staglia poi un problema culturale. Di qui l’indebolimento della politica, la compressione dei diritti, strumentalizzazioni ed esercizi di potere. «Il problema culturale c’è e non solo nella politica, c’è nell’intera società civile, anche in Campania – sottolinea il professor Musella – Ci sono debolezza, disinteresse per la cosa pubblica, scarsa attenzione ai problemi reali. Anche nei giovani, basti pensare agli anni Cinquanta e Sessanta. Allora la cultura era ritenuta la premessa per la politica, non si poteva concepire un’azione o un impegno senza conoscere i fatti sui quali si voleva intervenire. Ora invece non è più così. Ora imperversano populismo e moralismo – aggiunge il docente di Storia contemporanea – A partire dalla fine degli anni Settanta, di fronte a un indebolirsi delle idee, si è sviluppato un moralismo fine a se stesso. Ma la morale è una premessa, non può essere un contenuto della politica. La politica dovrebbe essere laica, non moralista, e mi riferisco alla politica di destra come di quella di sinistra». Il professor Musella parla di «decadenza culturale a tutti i livelli», di una crisi sociale e culturale «che è sotto occhi di tutti». L’argine della legalità diventa sempre più labile, il potere giudiziario assume potere, i processi sono spettacolarizzati. Quali proposte? «Intanto servirebbe quello che di cui parlavano i vecchi politici – risponde Musella – Ridare dignità alla politica intesa in senso alto, con competenza, efficienza e nuove idee. Perché un altro limite della classe politica italiana è quello di ragionare come se il mondo si fosse fermato a quarant’anni fa, cosa che non è possibile. Bisogna abbandonare la filosofia personalistica e individualistica, spesso anche troppo clientelare. La politica – conclude Musella – deve tornare a essere capace di compiere un’analisi laica e strutturale del Paese e deve ritrovare dignità, solo così il potere giudiziario, come altri poteri, verrebbero ridimensionati».

Marino Niola per “Robinson – la Repubblica” il 21 agosto 2020. «Ecco la Sirena! In quel momento la porta si aprì e sulla soglia apparvero quattro valletti in livrea recando un enorme pesce adagiato in un immenso vassoio d' argento massiccio. Tutti guardammo il pesce, e allibimmo. Un debole grido d' orrore sfuggì dalle labbra di Mrs. Flat, e il Generale Cork impallidì. Una bambina, qualcosa che assomigliava a una bambina, era distesa sulla schiena in mezzo al vassoio, sopra un letto di verdi foglie di lattuga, entro una grande ghirlanda di rosei rami di corallo». La Sirena bollita è la scena madre de La pelle, il rutilante e controverso romanzo di Curzio Malaparte, ambientato a Napoli nei giorni della liberazione. È un trattamento d' urto narrativo, che corre sul discrimine fra storia e mito, fra orrore e stupore, tra grottesco e picaresco. La pensata di mettere in maionese Partenope, la leggendaria fondatrice di Neapolis, è un colpo di genio. Perché fa di quell'essere con due nature, la metafora destabilizzante di una città che ha il disincanto negli occhi e l' iperbole sulle labbra, la misura nella mente e la trafittura nel cuore. La tana perfetta di un popolo che ha l' esagerazione nel genoma. Un dna barocco in un corpo senza tempo. Servito su un piatto d' argento agli Americani, che si mangiano la città e al tempo stesso temono il contagio delle anime diffuso da quella dependance di Sodoma e Gomorra. In realtà Malaparte dà parole nuove ad un antico modo di guardare Napoli, ad una consolidata convenzione rappresentativa di questa metropoli mediterranea. Suggerita proprio dalla brulicante umanità che la sovrappopola, dalla densità concitata e recitata, dalla promiscuità sofferente, dalla natura bella e impassibile, dal relativismo etico e dal rigorismo materialistico. Che da Boccaccio a Goethe, da Walter Benjamin ad Anna Maria Ortese, fino ai servizi giornalistici dei nostri giorni, alimenta l' immagine di un umano troppo umano. Virale ma anche vitale. Dal canto suo, l'autore stesso oscilla tra la fascinazione negativa di questo eccesso di umanità e l' esaltazione del suo antidoto, prodotto dalla comunità. Stretta in un corpo a corpo venefico e salvifico, tenuta insieme da una sorta di collante solidaristico, di secrezione indulgenziale prodotta dal suo organismo di Sirena, in cui miseria e nobiltà, perversione e redenzione, colore e furore trovano un teatralissimo equilibrio. « Lo so, Jack - dice Malaparte al colonnello Hamilton, mentre si calano negli inferi partenopei - lo so che vuoi bene a questo povero, infelice, meraviglioso popolo. Nessun popolo sulla terra ha sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la sua miseria. Cristo era napoletano ». Affiora l' immagine di una Napoli contaminata ma non dannata, un abisso di abiezione innocente, una tenebra illuminata da un sole impudico, di cui il maledetto toscano offre una descrizione di un nero scintillante, come un velluto di Velázquez. Il chiaroscuro della sua scrittura, ci rivela una wunderkammer di lambiccatissime nequizie. Che ha qualcosa di sconciamente barocco. Le rasoiate con le quali apre il ventre di Napoli, eviscerando la Sirena con estetizzante oggettività da antico anatomista, si intrecciano in una funambolica autofiction, con l' autore che invade il campo della sua scrittura, trasformandosi in personaggio. Che si narra nell' atto di narrare. Del resto, diceva Leo Longanesi, Malaparte vorrebbe essere lo sposo a ogni matrimonio e il morto a ogni funerale. Come nell' episodio delle parrucche bionde con cui le segnorine, coprono il pube perché «Negroes like blondes» (ai neri piacciono bionde). «La ragazza andò a sedersi sulla sponda del letto, si alzò la sottana, e allargando le gambe si mise la " parrucca" sul pube. Era una cosa mostruosa, pareva veramente una parrucca, quel ciuffo di peli biondi che le coprivano tutto il ventre e le scendevano fino a mezza coscia. L' altra ragazza rideva, dicendo «For negros, for american negros ten dollars each. Not expensive. Buy one!". Anche le donne hanno perso la guerra». Ma a fronte di questo sbubbonare di veleni vecchi e nuovi, l' antica pietas della città continua a produrre anticorpi sociali, alimentati da una inesausta munificenza del cuore. Come quella di Consuelo Caracciolo, la principessa che si spoglia dei suoi abiti sfarzosi per rivestire la nudità di una ragazza del popolarissimo quartiere del Pallonetto, morta sotto le bombe. E che la nobildonna fa distendere sul tavolo delle cerimonie del suo sontuoso palazzo di Pizzofalcone. «La giovinetta giaceva nuda mentre Consuelo, sollevandole la testa con la mano, le pettinava con l' altra i lunghi capelli neri. A un tratto Consuelo si tolse gli scarpini di seta, le calze e con gesti rapidi e lievi ne vestì la morta. Poi si tolse il giubbetto di raso, la gonna, la sottoveste. Si spogliava lentamente, aveva il viso pallidissimo, gli occhi illuminati da uno strano, fermo bagliore. E molti s'inginocchiavano pregando, come davanti a un' immagine sacra o a qualche miracolosa Madonna di cera». Eppure, in quella Pizzofalcone senza bastardi, dove la principessa recita le sue personali opere di misericordia - visitare gli infermi, vestire gli ignudi, seppellire i morti - quest' eco misericordiosa è tornata a risuonare tra i vicoli anche nei giorni del lockdown. Agli angoli delle strade, accanto alle immagini di Madonne con sette spade nel cuore, dai balconi penzolavano cesti pieni di viveri con cartelli scritti da mani abituate a maneggiare la penna «Chi può dia. Chi ha bisogno prenda». Insomma, La pelle rivela proprio nella pietà una disposizione atavica di questa " Napoli- tana", che resta un' enciclopedia vivente dell' umano, nella vertigine delle sue altezze e nel fondo tartareo delle sue bassezze. Forse perché remotamente assuefatta all' emergenza, avvezza all' indulgenza, di casa nello stato di eccezione, rotta alle infiammazioni e sopravvissuta alle epidemie. Ecco perché Napoli gestisce sempre i suoi vizi con leggerezza, le sue virtù con grazia e la sua miseria con generosità, come si addice ad un' antica capitale della carità. E le ultime parole de La pelle ci aiutano a capirne le ragioni, svelandoci l' arcano di una pietà senza eccezioni, che abbraccia enti e viventi. Con Malaparte che guarda il Vesuvio e ripete come un mantra « Pietà, pietà. Pietà anche per te!».

Gli sprechi della giustizia: a Napoli decine di milioni di euro buttati in inchieste flop. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Quanto costa la giustizia? La domanda è frequente e rispondere non è facile perché la giustizia è un servizio da valutare non solo in chiave strettamente economica, ma anche attraverso una valutazione che tenga conto dei diritti da tutelare e della loro soddisfazione. Ma, si sa, su quest’ultimo fronte la situazione non è sempre rosea, i tempi lunghi delle indagini, quelli biblici dei processi finiscono per diventare un onere, e se quando arriva la giustizia è pure in ritardo finisce per diventare un costo inutile, del quale si fatica a vedere l’utilità. Quanto costa allo Stato e quindi ai cittadini la giustizia? Quanto si spende per indagare su fatti che sono o si sospettano possano essere reato? Il bilancio sociale della Procura, voluto dal procuratore Giovanni Melillo in un’ottica di trasparenza, risponde a questa domanda tirando le somme di un anno di indagini. Le inchieste costituiscono una parte delle voci di costo della giustizia ma una parte importante se si considera che proprio quello delle indagini è il momento clou da cui prende il via un inter giudiziario. Indagare è un lavoro che richiede tempo e soldi. Il Riformista si è già occupato di quanto costa intercettare telefonate, incontri e chat (ormai non c’è indagine senza l’uso del trojan). In un anno, nel 2019, si sono spesi più di 12 milioni di euro in intercettazioni. A questa voce bisogna aggiungere poco più di 60mila euro per viaggi, oltre 300mila euro per svolgimento incarico e circa 40mila euro per spese varie. Poi ci sono le indennità: quasi 16mila euro per trasferte; 366mila euro per la custodia di beni sottoposti a sequestro; due milioni e 786mila euro per i vice procuratori onorari. E ancora, i compensi per gli ausiliari del magistrato (due milioni e 275mila euro in un anno), per i consulenti tecnici di parte (2.269 euro), per interpreti e traduttori (poco più di 75mila euro). E infine oneri previdenziali (121mila euro), Iva (oltre tre milioni di euro) e altro. Si arriva a un totale di circa 21 milioni e 500mila euro: meno del passato, ma comunque una cifra blu. Sono inclusi i costi per le spese correnti di funzionamento e di gestione della struttura, per la cancelleria, i registri, le stampanti, libri e periodici, fotoriproduzione di atti, moduli e documenti, quelli per gli spostamenti (carburante, pedaggi, manutenzione ordinaria e straordinaria delle auto) e il costo per il materiale informatico che in media è di 1.398 euro per ogni magistrato. Ma quanti fascicoli vengono aperti in un anno? Quante nuove indagini vengono avviate e quante di quelle pendenti vengono concluse? Dal bilancio della Procura di Napoli si scopre che nel 2019 ci sono state 36mila nuove indagini con indagati noti che si sono sommate alle oltre 34mila pendenti, e 45mila sono state le inchieste concluse nell’anno. Quanto al cosiddetto Modello 44, indagini contro ignoti, si sono registrati 63mila casi in aggiunta ai 37mila pendenti e sono stati 71mila quelli conclusi. Prevalgono, nel bilancio, i casi in cui il pubblico ministero ha presentato al giudice una richiesta di archiviazione. Nel 2019, 22.123 indagini con indagati noti sono confluite in azione penale e 17.799 procedimenti chiusi con archiviazione, mentre 5.421 con altre definizioni. Più numerose sono state inoltre le archiviazioni per le indagini contro ignoti: 55.773 inchieste archiviate e 8.051 definite. A fronte di maggiori spese per le intercettazioni, nelle indagini dei pm napoletani c’è stato, nell’ultimo anno, un sensibile calo di collaboratori di giustizia. Nella relazione sul bilancio annuale si fa riferimento a “scelte di razionalizzazione e affinamento nell’impiego dell’istituto in parola adottate dall’ufficio”, sta di fatto che gli aspiranti collaboratori sono sempre numerosi ma forse sono sempre meno attendibili se, stando ai numeri, nel 2019 si sono registrate 56 richieste di intento collaborativo ma sono state solo nove le proposte per attivare il programma di protezione.

Procura di Napoli, i Pm non badano a spese: le intercettazioni costano 12 milioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Giugno 2020. «I napoletani si dividono tra quelli che ha già intercettato e quelli che lo saranno”, si vocifera in ambienti giudiziari, tra il serio e l’ironico, a proposito di un magistrato della Procura del Centro direzionale. Sarà… Sta di fatto che per le intercettazioni si sono spesi in un anno oltre 12 milioni di euro, poco più dell’anno precedente, includendo nella somma i costi per il traffico di telefonate da captare, il noleggio delle apparecchiature usate anche per le intercettazioni ambientali e informatiche, le acquisizioni di tabulati, la videosorveglianza e la localizzazione di ciascun indagato. A pesare di più su queste voci è il dato relativo alle attività di intercettazioni telefoniche, attività che in Procura a Napoli raggiunge in media, ogni anno, un costo di poco superiore ai 7 milioni di euro. Le indagini nelle quali si fa più ampio ricorso allo strumento delle intercettazioni sono quelle che riguardano reati di camorra o sospette collusioni (8.538 casi sugli oltre 10.959 procedimenti nel 2019), mentre 2.276 sono state le indagini per reati comuni e 145 quelle per terrorismo. Da tempo si discute dell’utilità delle intercettazioni come strumento investigativo e ampio e delicato è il dibattito sull’invadenza e le storture che questo strumento è capace di generare. Proprio in queste settimane, poi, se ne fa un gran parlare perché le intercettazioni hanno alzato il velo sui retroscena della cosiddetta “Magistratopoli” e le vicende che riguardano Palamara e il Csm. Il tema divide le opinioni, ma analizzando la questione sulla base dei dati e le statistiche indicati nel bilancio sociale che la Procura di Napoli ha realizzato su iniziativa del procuratore Giovanni Melillo e con la collaborazione dell’Università Federico II si ha la dimensione di quanto le intercettazioni, decisamente più di altri strumenti investigativi, incidano sul sistema giudiziario. Oltre la metà del totale delle spese di giustizia riguarda le attività tecniche di captazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, ambientali o di tipo informatico. Telefonate, dialoghi e chat sono spiati in quasi tutti i casi che finiscono all’attenzione dei pubblici ministeri che conducono un’inchiesta penale su fatti considerati di particolare gravità, come quelli in materia di traffici di droga, criminalità organizzata, reati contro la pubblica amministrazione. Spetta a ciascun pubblico ministero la responsabilità di governare di volta in volta l’impiego delle intercettazioni, non è scelta che può essere adottata dalla polizia giudiziaria né ovviamente delle imprese che finiscono il servizio. La nuova disciplina in materia stabilisce “un costante, tempestivo controllo degli esiti delle captazioni dei flussi di comunicazione e delle prospettive delle indagini”, oltre a “una costante attenzione alle esigenze dei soggetti coinvolti”. Per le intercettazioni telefoniche i pm napoletani devono servirsi di aziende fra quelle selezionate sulla base di una serie di fattori (fatturato, trasparenza nella composizione societaria, rispetto dei requisiti e delle norme) e autorizzate a installare server nei locali a disposizione della Procura per l’ascolto delle conversazioni captate. Più delicato e complesso è il discorso sulla riservatezza rispetto ai contenuti delle intercettazioni e sulla loro integrità. In Procura a Napoli ci si regola in questo modo: le registrazioni vengono trasferite dai server di ascolto ad appositi apparati di storage, di cui le aziende presenti in sala ascolto devono dotarsi nel momento in cui i server raggiungono il limite di capienza. Inoltre, la polizia giudiziaria delegata all’attività di ascolto può avere accesso alle tracce foniche contenute nei server o negli apparati di storage, durante il corso delle indagini e alla fine del loro svolgimento, ad attività di intercettazione conclusa e fino alla scadenza del trentesimo giorno successivo alla chiusura delle operazioni, e oltre questo termine solo su autorizzazione del pubblico ministero titolare del procedimento in cui le attività di intercettazione sono avvenute. Mentre i consulenti informatici e quelli incaricati delle trascrizioni delle conversazioni captate, alla scadenza del termine previsto per il loro incarico o comunque per il deposito della relazione tecnica, devono sottoscrivere una dichiarazione per attestare che non conservano più alcuna copia delle intercettazioni né i dati personali di chi viene a qualunque titolo citato nelle conversazioni esaminate.

Ritratto di Luigi de Magistris, Pm fallito che ha rovinato Napoli. Marco Demarco de il Riformista il 5 Giugno 2020. Ci sono partiti personali e persone-partito. De Magistris è tra queste, ma guai a sottovalutarlo. È sopravvissuto a Di Pietro che lo candidò alle europee dieci anni fa. Ha vinto su Renzi che voleva farlo a pezzi, riuscendo a farsi rieleggere sindaco a Napoli. Ora tiene botta a De Luca, e ce ne vuole. E l’altro giorno ha evitato l’ennesima sfiducia in Consiglio comunale pur non avendo più una sua maggioranza. Come si spiega tanto galleggiamento a fronte di una carriera di magistrato e di politico per molti versi rovinosa? Quando si parla di de Magistris è inutile girarci intorno: il tema vero è questo. A differenza di Leonardo Di Caprio in Prova a prendermi di Spielberg, deve ancora trovare il suo Tom Hanks capace di bloccarne la corsa. Europarlamentare lo è diventato quando ha dovuto buttare via la toga, per evitare che il Csm lo cacciasse dalla magistratura per come aveva accusato Mastella e indagato Prodi senza peraltro che mai nulla venisse poi provato. E in quel caso avvalorò la tesi secondo cui un magistrato non diventa di parte perché si candida, ma perché è già diventato di parte nell’esercizio delle sue funzioni. Ora, invece, pur non avendo più i numeri, può continuare a fare il sindaco grazie a una fitta rete di veti incrociati nella quale sono rimasti impigliati un po’ tutti: dai pentastellati agli stessi deluchiani. In questo caso confermando che in quanto a sugherismo – l’arte di rimanere a galla – è ormai diventato un professionista. Il fatto è che nell’uomo convivono moltitudini. Per cui, proprio quando sembrava ad un passo dal capolinea, in una città stremata dalla sua amministrazione, con i servizi in panne, la cassa vuota, il patrimonio ingestito e i debiti alle stelle, eccolo riemergere di colpo. Per fare cosa? Quello che gli riesce meglio: fiutare la rissa, buttarsi a capofitto, come ha fatto col caso Di Matteo e le intercettazioni di Palamara; e alzare polveroni creando suggestive relazioni con ciò che gli è successo nella vita precedente, quella di pm. In sostanza, lasciando intendere che se c’è una giustizia assoluta, lui ne è ancora l’espressione, mentre lo Stato è solo il riflesso di una discutibile legalità. Quando si definisce “ribelle” è a questo che allude: al primato della Giustizia sulla Legalità. Che poi è un modo per fare sempre come gli pare. Ora sta puntando tutto sul grande complotto: naturalmente dello Stato ai suoi danni. E si sente come un’Antigone vittima di due Creonte. La mette così: «Mi hanno fatto fuori (da magistrato), perché fino a quando indagavo su Berlusconi mi facevano l’applauso; come cominciai a indagare a sinistra mi fecero: ma che fai, indaghi anche a sinistra?». E via con i nomi: Nicola Mancino, ex presidente, del Csm, e Giorgio Napolitano, al Quirinale all’epoca dei fatti. Cioè al tempo di “Toghe lucane” e di “Why not”, le inchieste che, a partire dalla Calabria più profonda, dove de Magistris faceva appunto il pm, avrebbero dovuto trasformare l’Italia da così a così, liberandola da massonerie deviate e oscure trame politico-affaristiche. Ma davvero era il pm che racconta? Una buona risposta porta la firma di una sua vittima: Agazio Loiero. Assolto per “Why not” in primo grado, condannato in appello, definitivamente assolto in Cassazione, il due volte ministro ed ex governatore calabrese, una volta ripresosi dalla botta giudiziaria, lo ha dipinto così in un libro di qualche anno fa. «Quasi tutte le sue inchieste non hanno avuto successo. Toghe lucane: 30 indagati, 30 proscioglimenti». E il mitico esordio come pm, quando perse contro un morto? Il perfido Loiero ricorda bene. I figli di Antonio Lo Torto, deceduto dopo essere stato rinviato a giudizio, pur di riscattare l’immagine del padre affrontarono l’udienza preliminare. E qui il Gup prosciolse (alla memoria) il de cuius. Il libro si chiude con la frase con cui Grillo, dopo averlo sostenuto come parlamentare europeo, lo liquida di brutto: «Di errori ne ho commessi molti, ma uno dei più imbarazzanti è stato Luigi de Magistris». Era successo che, di fronte a una querela di Mastella, l’euroeletto aveva invocato – proprio lui – l’immunità parlamentare. Solo l’inizio di una lunga catena di contraddizioni: non ultima quella tra un abito mentale da giustizialista manettaro e una vocazione festaiola, da mojito salviniano. De Magistris era questo ed è di questo, al netto delle critiche, che ha nostalgia. Tanto più ora che non può ricandidarsi a sindaco o tornare a indossare la toga; che ignora quale sarà la sua prossima dimensione, se alla Regione o altrove; e che tra lui e il Pd non si sa chi è il gatto e chi la volpe, ma che di sicuro, direbbe Bennato, si sono messi in società: almeno per eleggere Sandro Ruotolo alle suppletive per il Senato e poi chissà, magari per ridimensionare l’onnipotente De Luca. A proposito. Il sindaco se n’è stato buono buono per tutta la prima parte della quarantena nazionale, e a differenza dei colleghi che andavano con la fascia tricolore per strada a raccomandare il distanziamento fisico, ha preferito concedere tutta la scena al governatore regionale; e con la scena, neanche a dirlo, anche il lavoro sporco, i divieti, le minacce di intervenire col bazooka e gli insulti ai cinghialoni beccati in strada in tenuta da jogging. Poi, però, passato il peggio, è venuto fuori come in crisi di astinenza: gli mancava la visibilità perduta. Ed è stato un crescendo: ospite di Mara Venier, poi di Giletti, poi ancora di Giletti. Proprio come ai bei tempi, quando Santoro e Ruotolo se lo portavano dietro da una trasmissione all’altra per polemizzare ora con Mastella ora con Briatore. Era un duellante. Un Don Chisciotte della moralità pubblica. E a Napoli divenne un Masaniello con la bandana, dimostrando che l’esercizio televisivo può aiutare a modellare il personaggio che è in te. È stata proprio questa aura “ribelle”, unita a una forte carica “dadaista”, cioè irrazionale, istintiva, contemplativa, ma anche gratuita e arbitraria, che gli ha fatto vincere due volte le elezioni a Napoli. Chi lo ha votato sapeva bene che era un’altra cosa rispetto ai sindaci di prima, Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino. Ma è lecito credere che dopo decenni di emergenze, dal colera alla crisi dei rifiuti passando per il terremoto e le continue faide di camorra, la città disillusa volesse piuttosto un agitatore politico. Qualcuno capace fare lo sgambetto alle solite gerarchie politiche e all’intero sistema di potere della sinistra storica. Napoli aveva voglia di buttare tutto all’aria e de Magistris è capitato a fagiolo. E ora? Ora gli umori della città sono cambiati, i tempi sono tornati a incupirsi e il modello di una città tutta ricreazione e commercio, ora che i turisti latitano, non regge più. Ma il sindaco punta sui giovani che vogliono uscire dal Panopticon deluchiano. E se gli altri tardano a “ripensare” Napoli, lui è lì, pronto per le prossime elezioni regionali. E per un altro copione.

Antonio Scolamiero per corriere.it il 4 febbraio 2020. Insolita vicenda quella accaduta a Bacoli, nel Napoletano, dove un matrimonio ha destato scalpore nella piccola comunità flegrea. Una coppia di sposi emiliani, nei giorni scorsi ha deciso di pronunciare il fatidico sì in una delle perle della costa flegrea, centro alle porte di Napoli e ricco di monumenti. Tra questi c’è la Casina Vanvitelliana, un suggestivo casino di caccia ubicato su un’isoletta del Lago Fusaro. Fu adibito alla residenza degli ospiti illustri della corte borbonica, come Francesco II d’Asburgo-Lorena, che qui soggiornò nel maggio 1819. All’interno dell’edificio furono accolti pure Wolfgang Amadeus Mozart, Gioachino Rossini e, più recentemente, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

La Casina Vanvitelliana. Oggi il monumento fa parte di un comprensorio turistico ed è molto visitato e utilizzato anche per cerimonie, come quella della coppia emiliana che ha fatto regolare richiesta all’amministrazione comunale. Tutto bene fino a quando la cerimonia non si è conclusa. All’uscita della coppia, gli invitati anziché utilizzare come da tradizione il riso, hanno lanciato ai nei sposi tortellini. Sì, proprio così tortellini, il piatto tipico della tradizione emiliana. Una bizzarria che potrebbe anche passare, se non fosse per il fatto che il regolamento comunale impone a chi lo utilizza di ripulire alla fine dell’evento. E così non è stato. I successivi visitatori del complesso monumentale hanno trovato in terra la pietanza.

L’amarezza del sindaco di Bacoli. Una cosa che non è andata giù al sindaco di Bacoli, Josi Gerardo Della Ragione che ha dedicato un post sul suo profilo Facebook alla vicenda. «Buona vita ai civilissimi sposi bolognesi che, dopo aver celebrato il proprio matrimonio alla Casina Vanvitelliana, hanno lasciato questo spettacolo indecoroso. Come se il Real Casino Borbonico fosse il loro porcile. Con tortellini lanciati sul basolato d’ingresso, e non raccolti», esordisce il primo cittadino, che rincara la dose: « Fatto ancora più grave se si considera che oggi (domenica per chi legge), con la prima “Domenica gratis al museo”, il Sito Monumentale del Fusaro è visitato da un fiume ininterrotto di turisti». «Saranno multati con la sanzione massima - conclude Della Ragione — che spediremo direttamente in Emilia Romagna. Ah, dimenticavo. Oltre al pagamento del verbale, attendiamo anche la bomboniera».

Caffè sospeso, Pulcinella e babà, a Macron Napoli piace così. E a noi pure. Emilia Missione de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Avrebbero potuto buttarla tutta sulla cultura. E invece, almeno un po’, l’hanno buttata in caciara. Anzi, in folklore. E bene hanno fatto. L’arrivo in città di Emmanuel Macron è uno di quegli eventi che richiede l’abito buono, elegante, il migliore anche quando il migliore, come direbbe Totò, “il migliore non c’è”. E allora va bene il caffè sospeso, la visita ai pulcinella di Lello Esposito e anche la signora che fuori al Teatro San Ferdinando al presidente del Consiglio Conte dice, lamentando il fatto che il quartiere sia solitamente sporco e abbandonato: «Jamm, ve voglio bene. Nun’ tenimm nu controll pe’ nient». Rinunciando alla tappa angioina nella Basilica di Santa Chiara, che pur sarebbe stata culturalmente coerente, Monsieur le Président si presta a fare da sponsor a un po’ di quella napoletanità da cliché troppe volte snobbata ma che proprio ora, con l’emergenza Coronavirus pronta a falcidiare le prenotazioni dei turisti, potrebbe tornare utile alla città alle prese con la sua sopravvivenza quotidiana. E proprio su questo punto il presidente si appresta a rispondere, al giornalista che gli chiede se chiuderà le frontiere con l’Italia, un secco «No». Il presidente Emmanuel Macron è arrivato in città poco dopo le 13 e subito si è diretto verso la prima tappa del suo minitour napoletano, la casa di Eduardo De Filippo, il Teatro San Ferdinando. Ad attenderlo, insieme al presidente del Consiglio Conte e al sindaco di Napoli Luigi de Magistris, lenzuola bianche appese ai balconi degli edifici circostanti per protestare contro la scarsa attenzione del Comune al quartiere, solitamente lasciato all’incuria mentre ieri, per l’arrivo del presidente francese, era stato tirato a lucido. Ma gli abitanti del quartiere, tra i due interlocutori presenti, il sindaco e il presidente del Consiglio, preferiscono quest’ultimo. Il sindaco, tanto, non se ne occupa. Poi l’arrivo del presidente francese, che seda la protesta. «Sono felice di essere a Napoli, una città che amo profondamente. Il teatro di Eduardo mi ha sempre accompagnato», dice Macron che proprio al drammaturgo napoletano deve l’incontro con la moglie Brigitte, sua insegnante quando al liceo mise in scena l’Arte della commedia. La delegazione italo francese si sposta quindi all’interno del teatro, dove il presidente visita le sale e ammira l’esposizione permanente con gli oggetti appartenuti a Eduardo e agli attori del teatro napoletano. Qui il sindaco dona a Macron una maschera di Pulcinella, creazione proprio di Lello Esposito. «La cosa più bella che mi ha detto Macron? – dice il sindaco -. Il fatto di aver battuto la mano sul cuore quando l’ho ringraziato per le parole belle che ha detto, cioè che ama Napoli e i napoletani». Da qui, poi, il presidente francese si è spostato verso il centro storico per la visita alla Cappella Sansevero. Una breve passeggiata nei dintorni di piazza San Domenico Maggiore e un bagno di folla dove Macron, abbandonando la sua jupitérien hauter, ha incrociato passanti, turisti e curiosi con cui ha scambiato qualche saluto. Prima della visita alla cappella, una veloce incursione a sorpresa nella boutique a palazzo Di Sangro dello scultore Lello Esposito. Subito dopo il presidente ha ripreso il programma stabilito con la visita al Cristo velato. Infine, prima di dirigersi a Palazzo Reale per l’inizio del vertice, Conte e Macron hanno fatto tappa nella storica pasticceria Scaturchio dove, come nella più classica delle tradizioni, hanno ordinato caffè, babà e ministeriale. E, per non uscir fuori dalle usanze locali, Conte ha pagato tre caffè sospesi, un’usanza che ha poi spiegato al presidente francese. Completato il tour, Conte e Macron si sono spostati a Palazzo Reale dove, dopo le foto di rito con i ministri italiani e francesi, sono iniziati i lavori del vertice. «Non è un caso se Stendhal diceva che ci sono due capitali in Europa: Napoli e Parigi. Sono molto lieto di essere in questa città», ha detto il presidente Macron durante la conferenza stampa e ha poi aggiunto: «Lamartine diceva che la migliore vista sul mare si vedeva dalla baia di Napoli, e la migliore vista sulla terra dai Pirenei. Molti altri sono stati affascinati da Napoli. Questa città ha sempre ispirato i grandi, e io ringrazio per quanto fatto da Eduardo per il teatro napoletano e italiano». Il vertice si chiude con un lungo, lunghissimo elenco di impegni che i due governi, nel patto di Napoli, si impegnano a portare avanti. E ce n’è per tutti: sanità, Fincantieri, Tav, Libia,cambiamento climatico, istruzione, Siria…

Napoli per me è una città perduta, non ci metto piede da almeno vent’anni. Francesco Damato su Il Dubbio il 5 marzo 2020. La Napoli che da bambino, raggiungendola di sera in auto con i miei genitori dalla Puglia, mi sembrava una donna con una collana di luci al collo. Per quanto legatovi da ricordi di famiglia e di studio, ho smesso di andare a Napoli da una ventina d’anni: in particolare da quando, incolonnato in auto a un semaforo sulla strada che costeggia il porto, fui rapinato di un orologio in pieno giorno. Un ragazzo all’incirca dell’età di quello che è stato ucciso in questi giorni da un carabiniere in borghese non ebbe bisogno di puntarmi un’arma, né vera né finta. S’infilò col busto nel mio finestrino dove avevo appena ritirato il braccio sinistro dopo avere spazientemente raddrizzato lo specchietto laterale che mi era stato spostato per la seconda volta lungo la stessa strada, sempre incolonnato nel traffico di punta. E ingaggiò una lotta selvaggia con le mani di mia moglie che, sedutami accanto, cercava di impedirgli, graffiandone il viso, di sfilarmi l’orologio dal polso, senza il timore di vedersi sfilare pure il suo. La scena si svolse sotto gli sguardi indifferenti dei conducenti delle altre auto, tutti fermi al semaforo, di lato e di dietro. E si concluse a tutto vantaggio del rapinatore, ladro, o come diavolo andava chiamato in gergo penale. Che mi lasciò sulla portiera impolverata tracce che consentirono di lì a poco al custode del garage d’albergo dov’ero appena arrivato la ricostruzione precisa dell’accaduto, nonché l’assegnazione del numero d’ordine. Era la decima – dico, decima- rapina di quella giornata, probabilmente eseguita dallo stesso ragazzo e da chi l’aveva aiutato, dall’altra parte della strada, facendolo saltare sul motorino per fuggire. Durante quel mio ultimo soggiorno a Napoli, in galleria e a due passi dalla sede del Mattino, dove tanti anni prima il mitico direttore Giovanni Ansaldo mi aveva paternamente consegnato qualche libro da recensire per soddisfare la mia voglia di giornalismo e mettermi alla prova, ebbi un’illuminante chiacchierata con un amico, ex collega di studi, che aveva intrapreso la carriera di magistrato ed era salito abbastanza in alto, e a rischio, per andare in giro scortato. Ebbene, ad un certo punto il discorso cadde sulla mia disavventura di rapinato o derubato, sempre come preferite. E mi venne un’idea che non mi sono più tolto dalla testa pensando a Napoli e alla sua non gioventù ma fanciullezza rubata, con tutti quei ragazzi – come l’Ugo che ci ha appena rimesso la vita- abituati, aiutati, incoraggiati, coperti e quant’altro dalle loro famiglie a delinquere, scommettendo sulla capacità o padronanza di nervi del malcapitato di turno, disarmato o armato e lucido abbastanza per prendere la mira giusta, sparando alle gambe e non al torace o alla testa, pur avendo di fronte in quel momento solo quegli obiettivi, e non potendosi sporgere più di tanto dal finestrino. L’idea che mi permisi di esporre – povero e ingenuo giornalista ch’ero, e sono rimasto anche in età molto appetibile, a quanto sembra, ai coronavirus che vagano ormai per tutto il mondo, o quasi era ed è quella di privare della patria potestà i genitori che non sanno o non vogliono esercitarla. O la esercitano alla rovescia, per insegnare a rubare o a devastare gli ospedali e non a studiare o lavorare, spesso trasmettendo ai figli i loro sciagurati mestieri. A costoro i figlioli andrebbero tolti e affidati – dicevo e penso ancora- a mani più avvedute e davvero soccorrevoli. Non l’avessi mai pensato e detto. Il mio amico magistrato mi guardò torvo come se non ci fossimo mai conosciuti e frequentati. Poi, calmatosi, cominciò a spiegarmi – secondo lui- le ragioni per le quali non ci si poteva né doveva intromettere negli affari familiari degli altri. Se lo facessimo – mi disse a un certo punto parlando al plurale, come per nome e per conto di tutti i suoi colleghi di toga ci sterminerebbero tutti. Non si salverebbe nessuno, aggiunse per rafforzare e al temo spesso chiudere il suo ragionamento. La Napoli che da bambino, raggiungendola di sera in auto con i miei genitori dalla Puglia, mi sembrava una donna con una collana di luci al collo; la Napoli che avevo scambiato per un santuario quando mia madre mi ci portò piena d’ansia e di speranza quasi miracolosa per farmi guarire da una malattia che nessuno aveva prima di allora saputo diagnosticare; la Napoli che al primo anno di Università mi aveva fatto scoprire e ammirare maestri di diritto come Antonio Guarino e Francesco De Martino, le cui lezioni di storia del diritto romano erano semplicemente un incanto, diversamente dalle prove che poi il suo autore mi avrebbe dato come segretario del Partito Socialista, quello del “mai più al governo con la Dc senza l’appoggio dei comunisti”; la Napoli che mi aveva già tradito con la storia giudiziaria del mio amico Tortora facendo comunque in tempo a rimediarvi con l’assoluzione che Enzo meritava, sia pure troppo tardi perché lui se la potesse godere davvero; quella Napoli mi sembrò in galleria, di fronte alla paura del mio amico magistrato di morirvi nell’uso del buon senso, davvero e definitivamente perduta. E non vi ho più messo piede.

Alcol e canne, le folli notti dei giovani nel centro storico di Napoli: “Beviamo per stare bene”. Tra alcol e canne, così molti giovani passano le notti dei fine settimana nel centro storico di Napoli. Agata Marianna Giannino, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. “Beviamo due o tre drink per stare bene”. Simona ha 20 anni. Nei fine settimana passa le sue serate nel centro storico di Napoli. “Solitamente beviamo qui, perché qui ci incontriamo con gli amici, ci divertiamo. Beviamo, ma senza esagerare”, dice. È ferma con altri tre coetanei in piazza Bellini. È passata la mezzanotte e il cuore di Napoli pulsa di vita notturna. Frotte di ragazzi si radunano nelle piazze diventate mete predilette per la movida. Si muovono tra baretti e locali notturni che si fanno la concorrenza puntando sul prezzo di cicchetti e birre. “Fanno bene. Incitano a bere. Nei fine settimana ci sta ad andare nei bar, quindi è meglio che costano di meno”, dice Francesco, studente, 18 anni, che si è trasferito a Napoli dalla Basilicata. Francesco è uno di quei giovani che passa le serate dei weekend a bere tra i locali del centro. “Dai 3 ai 7 drink in una serata”, dice. “Fino a quando non finiscono i soldi”, aggiunge l’amico. Tra i giovani che nei weekend passano le notti tra piazza Bellini, piazza San Domenico Maggiore, Largo San Giovanni Maggiore, i Banchi Nuovi e i Quartieri Spagnoli, sono pochi quelli che tra le mani non hanno una birretta o un cocktail alcolico. Fabrizio ha 27 anni, è in compagnia di amici in piazza Bellini: “Ci riuniamo con gli amici, beviamo una birra e facciamo due chiacchiere”. “Mi è capitato di vedere intorno a me ragazzi che fanno uso di droghe leggere, come la cannabis. Non la condivido pienamente, però neanche la condanno. Le droghe pesanti invece le condanno. Ogni tipo di abuso fa male”. Secondo lui chi esagera lo fa “per dimostrare di essere alternativo agli altri, anticonformista”. E se c’è chi riesce a controllarsi, limitando il consumo di alcol e il fumo a quello della sigaretta o a qualche tiro da uno spinello, tra i giovani del popolo della notte sono in molti quelli che si divertono decidendo di superare il limite. Una tendenza, questa, che allarma molti genitori. “Piace un po’ a troppe persone secondo me. Il fumare non è un optional… Cioè, la canna è l’emblema del relax. La canna con la birretta il sabato sera sta entrando ormai a far parte del budget di noi giovani”, è l’idea di Francesco, che ammette senza problemi di essersi anche messo alla guida da sbronzo. “È quasi una costante che si vada a prendere qualcosa, ma non è necessariamente una cosa negativa”, ritiene Enrico, 20enne che da un anno vive a Napoli. “Cioè la canna ormai fa proprio parte di me. Non dico che non riesco ad apprezzare un posto, però non lo riesco ad apprezzare allo stesso modo se non so come condire la situazione. È come dire la rucola e il grana con la tagliata…la birra e la canna. Io è il primo anno che sto a Napoli, ma anche nella mia città ho sempre avuto le stesse abitudini, con la differenza che non bevevo. Con i miei amici non bevevo a Matera, sono arrivato qui, i ragazzi di 20 anni generalmente bevono, e ho iniziato a bere anche io, non tanto. Alle fine uno Spritz costa un euro”. Il prezzo vantaggioso degli alcolici non frena certamente i giovani consumatori. “Noi beviamo un po’ di più in base al prezzo a cui viene venduto l’alcol – sostiene Francesco -. Cioè, se uno spritz veniva venduto a 5 euro io ne prendevo 4 con 20 euro. Ne prendiamo 5 perché costano 1 euro l’uno”. Se i locali alzassero i prezzi, afferma che berrebbe di meno. In piazza San Domenico Maggiore è quasi l’una quando dei ragazzi impegnati in un gioco alcolico ancora creano baccano per festeggiare. Tra le mani hanno diverse bottiglie, e a terra hanno lasciato decine di lattine di birra. Delle serate passate a bere restano le bottiglie di birra svuotate e bicchieri in cui dei cocktail è rimasto solo l’odore dall’alcol e una cannuccia sporca. Vengono abbandonati ovunque nelle notti dello svago. Si vedono ammucchiati sui tavolini, lasciati sulle auto in sosta, a terra, intorno a contenitori strabordanti di immondizia, mentre assembramenti di giovani occupano le strade e le piazze davanti ai baretti. L’ordinanza del sindaco di Napoli che vieta la vendita di alcol da asporto e di bevande in vetro e lattina a partire dalla mezzanotte sembra che continui ad essere infranta. In via Mezzocannone addirittura ci sono distributori che vendono birre in bottiglie di vetro h24. E se per ubriacarsi bastano pochi euro e un giro in centro, anche le sostanze stupefacenti sono a portata di mano. Lo spaccio è dietro l’angolo. Se in alcune piazze risulta più discreto, ci sono dei posti dove dei pusher si aggirano in continuazione tra i giovani. A largo San Giovanni Maggiore lo spaccio è sotto gli occhi di tutti. Si compra e si arrotola. Risse, atti vandalici, aggressioni, inciviltà sono all’ordine del giorno. L’anarchia e il malaffare hanno portato alla chiusura da gennaio scorso di un noto locale del posto, il Kesté. “Chiudere è stato difficile, denunciare quello che succede ancora di più. Ci sono vite in ballo. E la gente gioca a fare gossip, senza rendersi conto di quanto stia accadendo”, scrive su Facebook il titolare, Fabrizio Caliendo, presidente dell’associazione dei locali notturni napoletani che da tempo denuncia l’abbandono in cui versa il centro storico, dove si fa fatica anche a gestire un locale notturno. La svendita di alcol, molto spesso di pessima qualità, la concorrenza spietata tra i locali, l’assenza di una gestione istituzionale della vita notturna che lascia ampi spazi di manovra alla criminalità e allo spaccio, stanno penalizzando molti gestori. “È una impresa non da poco chiedere agli altri di mettersi nei miei di panni, e capire quando dico ‘io non ce la faccio più in questo modo’. Ma ognuno – è il suo sfogo sui social - pensa al proprio piccolo orticello, mentre io sto cercando di sollevare una serie di problemi che ricadono sulle vite quotidiane di tante persone, tanti imprenditori, cittadini e lavoratori. Non c'è normalità, non c'è legalità, si naviga "a vista". Il Kesté è un luogo simbolo, da 20 anni è lì che resiste sotto le bordate di criminalità e istituzioni incapaci. La camorra avanza, le persone per bene arretrano”. Sui problemi legati all’abuso di alcol e all’uso di sostanza stupefacenti da parte dei giovani della movida, Caliendo non si rende disponibile a un’intervista. Ritiene che la questione sia culturale e che si stia strumentalizzando il problema dell’abuso dell’alcol da parte dei giovani, che la narrazione che se ne sta facendo sui giornali stia solo creando vittime tra gli esercenti che gestiscono locali notturni e che non risolva il problema. Per accendere i riflettori sull’abbandono del centro storico di Napoli si è reso promotore di una fiaccolata che si terrà il prossimo 28 febbraio, una “via Crucis” lungo i luoghi del degrado. 

Da “la Stampa” il 23 febbraio 2020. Adesso, proprio adesso, il cingolato da 130 tonnellate si avvicina alla casa della signora Anna De Martino. «L' indirizzo preciso era complicato da ricordare, ma io non lo dimenticherò mai. Viale della Resistenza, Lotto LM, isolato A2, quarto piano, interno 503, la Vela verde di Scampia. Io ci ho vissuto gli anni più felici della mia vita». L' escavatore ha un braccio meccanico e una pinza che può arrivare fino a 52 metri di altezza nel cielo azzurro. Oggi è il giorno più volte annunciato. Non si torna indietro. Sta per incominciare la demolizione del simbolo architettonico del degrado italiano. Questo casermone dentro a una periferia separata da tutto, fatta di povertà, di spaccio e di camorra, ma anche di coraggio e di lotte popolari, di giardini curati, di vicinanza e sogni che adesso commuovono la signora De Martino. «Devo dire la verità, per me è stato bellissimo abitare lì dentro, siamo arrivati nel 2003 e ci hanno fatto andare via ad aprile del 2019 quando è iniziata la bonifica. Sono orgogliosa di essere di Scampia». La signora De Martino ha 53 anni e racconta dei suoi quattro figli, nati tutti al quarto piano: Rosa, Angela, Domenica e Consiglia. Ha fatto un unico viaggio nella sua vita per andare ad abitare per un breve periodo in un' altra periferia, quella di Torino. Ma poi è tornata. «Il giorno più felice della mia vita è stato il 29 dicembre 2014. Quando è nato mio nipote Vincenzo, che è arrivato prima di Ciro e prima anche di Gennaro. E dopo l' ospedale, ce ne siamo venuti qui io, mia figlia e lui. Abbiamo festeggiato il capodanno e siamo stati bene». Ogni tanto tira fuori dalla borsa un fazzoletto di carta da un pacchetto azzurro marca «Napule», si asciuga gli occhi e guarda in alto per vedere se la ruspa si muove già. «Certo, c' erano dei piccoli problemi lì dentro. La casa non funzionava tanto bene. Faceva freddo, entrava l' acqua e così la cucina e le camere erano umide. Ma i problemi ci stanno dappertutto, e noi qui almeno eravamo insieme. Abbiamo un comitato di quartiere stupendo, ragazzi che si fanno in quattro per tutti noi delle Vele. Non ci hanno mai abbandonato». Mentre lo dice, intorno a lei, una selva di telecamere è puntata sul braccio meccanico e su quella pinza che dovrà intaccare pezzo per pezzo il palazzo: la demolizione durerà 40 giorni. E dietro alle telecamere, ci sono gli studenti dell' Istituto Melissa Bassi e del Galileo Ferraris. Luigi Savio, 19 anni, prende la parola: «Gli abitanti di Scampia per anni sono stati vittime di pregiudizi. Tutti hanno diritto a tre cose nella vita: lavoro, casa e salute. Siamo tutti uguali, vogliamo una vita dignitosa». Gli studenti applaudono e protestano perché l' altro giorno due compagni di scuola si sono sentiti male in classe. «L' aria era irrespirabile per colpa dell' ennesimo incendio appiccato nel campo rom, abbiamo bisogno di controlli dell' inquinamento più tempestivi», dice il professore Evaristo Cicatiello. Il cingolato si avvicina ancora di più. Sembra quasi che stia prendendo le misure per non sbagliare il primo colpo. Arrivano quelli del comitato popolare, tocca a Omero Benfenati: «La pinza dà il morso al mostro di cemento. Abbiamo ricordi belli qui, anche se è stata un' infanzia non tanto normale. Le Vele di Scampia sono diventate un marchio negativo per come sono state descritte. Ma ora noi stiamo raccontando un' altra storia, ed è la storia di una lotta che dura da quarant' anni, la storia del nostro comandante Vittorio Passeggio che con questo megafono in mano ci ha dato l' esempio. Questa è una storia di dignità e di riscossa popolare». Sul piccolo palco allestito davanti al cantiere sale il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. «È una giornata bella per Napoli, e io penso per l' intero Paese. Non so quanti possano capire cosa significhi rimanere a vivere in queste case mantenendo la dignità e l' onestà, quando la narrazione mondiale ti vuole far vivere nell' equazione che le Vele sono uguali alla camorra. Noi sappiamo perfettamente che la camorra c' è a Napoli, c' è a Scampia come negli altri quartieri, così come le mafie sono in tutta Italia. Ma io credo che oggi sia doveroso ringraziare queste persone che, lasciate nel degrado per tanti anni, hanno lottato per una Napoli migliore». La signora De Martino guarda in alto. Le figlie sono al suo fianco. Vivono adesso nell' ultima vela rimasta in piedi, che verrà trasformata in un ufficio pubblico alla fine del progetto di riqualificazione del quartiere. Ci sono voluti anni per abbattere, chissà quanti altri per costruire. Ma la trasformazione del quartiere è in atto. «È un giorno triste, ed è un giorno bello», dice la signora De Martino. «Felice perché qui costruiranno case nuove per noi e per quelle persone che ne hanno diritto, ma è triste perché una parte di noi sta andando via. In questa torre eravamo come una famiglia, ci volevamo bene, ci aiutavamo l' uno con l' altro». Ci siamo. Sono le 11.30 di giovedì 20 febbraio 2020. Il gruista avvicina la pinza al quintultimo piano. C' è un silenzio emozionante di attesa. Un tempo lungo, sospeso. Telecamere, telefonini, persone anche sui tetti a guadare: tutto pronto. E poi succede un miracolo. La pinza spacca il cemento, i calcinacci si sbriciolano a mezz' aria, e nessuno applaude, nessuno fiata. «Lo sente questo silenzio?», dice la signora De Martino. «Questa non è una festa. Ma una parte della nostra vita che se ne va. Festeggeremo quando costruiranno le case nuove per noi».

Abbattute le Vele a Scampia: l’utopia, la realtà e la fiction. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Dovevano essere un simbolo di sviluppo della periferia, moderno e a misura d’uomo, ma si sono trasformate nell’emblema del degrado che alimenta il crimine organizzato. Dici Scampia e pensi alle piazze di spaccio, senti parlare delle Vele (di cui oggi sono iniziate le operazioni di demolizione) e vedi la scenografia di Gomorra. E’ quasi inevitabile, a dispetto delle migliaia di cittadini onesti costretti a vivere in una zona che non è mai stata ciò che qualcuno aveva promesso che fosse, e a convivere con la camorra che al nome di quel quartiere ha legato un pezzo della sua triste fama. Equazione troppo facile ma ormai ineludibile: come mafia e Corleone, ‘ndrangheta e San Luca, o Africo. E non per colpa della letteratura, dei film o delle serie tv, se qualche colpa bisogna proprio cercare; semmai di chi per decenni non è stato in grado di invertire la rotta. La faida sanguinosa e terribile che di quel sobborgo ha preso il nome ha acquisito una notorietà e perfino un’epica che nulla toglie alla sua e negatività, fino a diventare l’archetipo della ferocia camorristica che non solo uccide le persone ma violenta la convivenza civile. Ma prima ancora di interrogarsi su questo ingiusto sinonimo, c’è da chiedersi perché in una periferia dove si annunciava rinascita è stato possibile sviluppare solo incuria e abbandono. Da parte delle istituzioni, soprattutto, che non hanno saputo o voluto accompagnare quel progetto futuristico con finanziamenti, infrastrutture e presenze necessarie a farlo crescere. Invece c’è stato il vuoto, e nel vuoto ha preso piede il crimine organizzato che sa sostituirsi allo Stato in ogni sua forma. Presentandosi alle persone come una conseguenza naturale se non – peggio ancora – come un surrogato utile a soddisfare i bisogni primari lasciati senza risposta. A cominciare da lavoro e assistenza, che tradotto in una realtà prevalentemente povera significa semplicemente soldi, vale a dire ciò che il crimine riesce ad accumulare e distribuire come e a chi vuole. In primo luogo grazie al traffico di droga. Non c’è bisogno di troppi sociologismi per risalire ai motivi per cui quelle strutture architettoniche avveniristiche ispirate nientemeno che alle visioni di Le Courbusier e Kenzo Tange, due dei più grandi urbanisti del Novecento, siano finite per essere associate con maggiore e quasi automatica frequenza ai nomi veri dei boss del clan di Lauro, o a quelli immaginari delle fiction come Genny Savastano e Ciro Di Marzio. E’ il destino di un quartiere chiamato anche Centosessantasette (dal numero della legge degli anni Sessanta che doveva regolare l’edilizia popolare residenziale), dove le premesse e le promesse tradite hanno lasciato campo libero all’illegalità divenuta sistema. Anzi Sistema, come viene chiamato l’insieme dei traffici organizzati della camorra. Capaci di usurpare il nome di un territorio e inquinare anche la vita quotidiana dei cittadini onesti e incolpevoli, costretti a subire la cattiva reputazione legata alla simbologia, oltre al degrado. Ecco perché l’abbattimento può diventare un’occasione di riscatto. Con la speranza che non sia l’ennesima occasione perduta.

Da fanpage.it il 5 novembre 2020. Due ragazzi, uno dei quali ancora minorenne, sono stati fermati dai carabinieri per la morte di Simone Frascogna, il giovane di 19 anni ucciso a coltellate ieri sera, 3 novembre, sul corso Umberto I a Casalnuovo, in provincia di Napoli. I due sarebbero stati rintracciati grazie alle telecamere di videosorveglianza della zona, una delle quali è puntata proprio sul punto del ferimento mortale, nel centro del comune del Napoletano. Intanto, ancora grazie agli occhi elettronici, emergono nuovi particolari sull'aggressione sfociata in omicidio. Mancavano pochi minuti alle 22 e Simone, appassionato di grafica e di arti marziali, era uscito con un amico di un anno più piccolo, era già sulla via del ritorno a casa. Una prima telecamera riprende l'automobile del 19enne in via Vittorio Emanuele, mentre procede a velocità media. L'auto degli aggressori, una Smart, compare subito dietro: resta incollata ma non supera, come se li stesse inseguendo. L'altra registrazione acquisita dai carabinieri è quella della telecamera sul corso Umberto I, nel luogo dell'aggressione. In quel nastro c'è tutto: dall'arrivo della vittima a quello dell'ambulanza, che avrebbe raggiunto Casalnuovo soltanto parecchi minuti dopo. All'attenzione degli investigatori una cinquantina di secondi di video, attimo più, attimo meno. Si vede la prima automobile, quella guidata da Simone Frascogna, che accosta sul lato della strada. La Smart la supera e accosta a sua volta subito più avanti, come in un normale parcheggio. Scendono tre giovani, non è chiaro se un quarto sia rimasto in automobile. E parte subito l'aggressione: il terzetto si avvicina all'automobile di Simone, il 19enne e l'amico 18enne scendono e comincia la rissa. Immagini confuse, poi Simone si accascia a terra tenendosi la mano sul fianco, mentre gli aggressori si infilano nella Smart e schizzano via. La segnalazione ai carabinieri è arrivata alle 22, pochi minuti dopo, parla di persone ferite in strada. Simone e l'amico sono ancora a terra quando la pattuglia raggiunge il corso Umberto: il 19enne è stato colpito da 4 coltellate, sferrate in pochissimi secondi, tutte tra addome e torace; l'amico è stato pugnalato due volte al fianco. Simone Frascogna è deceduto durante il trasporto in ospedale, il 18enne è stato medicato al Cardarelli e dimesso in giornata. L'ipotesi che tiene maggiormente banco è che Simone e l'amico avessero litigato con gli altri ragazzi poco prima, motivo per cui i carabinieri stanno cercando le loro tracce anche in altre telecamere della zona.

"Non si può perdere la vita così". Simone ucciso da quattro coltellate, due giovani fermati: “Non la passeranno liscia”. Redazione su Il Riformista il 4 Novembre 2020. Ci sono due giovani, uno dei quali minorenne, fermati dai carabinieri per l’omicidio del 19enne Simone Frascogna e per il ferimento dell’amico 18enne. Indagini lampo dei carabinieri dopo la brutale aggressione avvenuta nella serata di martedì 3 novembre lungo il corso Umberto I di Casalnuovo (Napoli). I due giovani sarebbero stati rintracciati grazie alle telecamere di videosorveglianza presenti nel comune partenopeo. Lo stesso primo cittadino Massimo Pelliccia nel pomeriggio aveva annunciato importanti risvolti investigativi. “Il cerchio si sta stringendo, non la passeranno liscia. Il Comune di Casalnuovo si costituirà parte civile. Assicuriamo alla giustizia chi ha ammazzato Simone” ha scritto il sindaco sui social. La vittima, che frequentava un istituto tecnico ed era appassionato di arti marziali, si trovava in auto con un amico quando è stato raggiunto da un’altra vettura con altri coetanei, presumibilmente tre, a bordo. Non sono ancora chiari i motivi dell’aggressione. Simone è stato colpito con quattro fendenti al torace mentre il 18enne con due coltellate al fianco. Erano da poco passante le 22 e nonostante il trasporto al pronto soccorso del Cardarelli Frascogna è deceduto poco dopo. L’amico è stato assistito dai sanitari e dimesso con 15 giorni di prognosi. I militari dell’Arma di Castello di Cisterna hanno acquisito le telecamere degli impianti di videosorveglianza e ascoltato la testimonianza del 18enne e di altre persone presenti al momento dell’aggressione. “Non si può perdere la vita così!!!”, si legge su un bigliettino firmato da “una mamma” posizionato accanto ad un mazzo di fiori deposti sul marciapiede del Corso Umberto I di Casalnuovo dove si è consumata la brutale aggressione a meno di un’ora dal coprifuoco previsto per le 23. Secondo alcune testimonianze l’ auto dei due ragazzi era stata inseguita da quella degli aggressori, che sono riusciti a bloccarla proprio al Corso Umberto, davanti ad un negozio di abbigliamento. Un omicidio che ha scosso i cittadini di Casalnuovo che da tempo segnalano episodi di violenza tra gruppi giovanili lamentando la scarsa presenza di controlli sul territorio. Chi conosce la vittima lo descrive come un bravo ragazzo. Sono tanti in queste ore i commenti di cordoglio e di vicinanza alla famiglia. “Non si può morire così. Ormai la sera in strada non ci sono controlli e questi episodi si ripetono sempre più spesso” commenta un residente.

 “Ci sta sfidando, accosta”, Simone ucciso mentre difende l’amico: la confessione dei tre aggressori. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Novembre 2020. Morire per uno sguardo di troppo, per un precedente litigio tra comitive, per uno sciocco diverbio avvenuto poi in strada. Morire perché mentre stavi difendendo il tuo amico, già ferito da un fendente, e stavi avendo la meglio perché praticavi arti marziali, vieni raggiunto da diverse coltellate al fianco sinistro e al torace da chi in quel momento era in una posizione defilata. Un gesto da vigliacchi quello commesso dal 18enne che a 24 ore dall’omicidio di Simone Frascogna, avvenuto martedì 3 novembre intorno alle 21.30 lungo il corso Umberto I di Casalnuovo (Napoli), ha confessato tutto ai carabinieri del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna.

IN TRE IN UNA SMART – Si chiama Domenico Iossa jr, originario di Acerra e di professione carrozziere, il giovane sottoposto a fermo con l’accusa di omicidio doloso e tentato omicidio, in concorso con dure ragazzini (B.C. e T.F. di 16 e 17 anni). Secondo quanto ricostruito dai militari, nelle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Nola, in sinergia con la Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni, i tre, così come emerso dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza, viaggiavano a bordo di una Smart di colore bianco quando si è verificato un diverbio, per motivi di viabilità, con la vittima 19enne e l’amico (il 18enne Luigi Salomone) che si trovavano in una Ford Fiesta. Una discussione animata nel corso della quale Iossa jr si sarebbe vantato di alcune parentele “pesanti” nel campo della malavita.

IL GESTO FRAINTESO – Dopo lo scontro verbale, a far scattare l’aggressione è stato un gesto mal interpretato. Simone ha infatti accostato sulla sinistra, parcheggiando la propria auto nei pressi dell’abitazione di un amico in attesa che scendesse. La circostanza però è stata interpretata come un atto di sfida da parte dei tre che non hanno esitato a fermarsi assaltando la Ford Fiesta. Simone e l’amico 18enne erano ancora all’interno della vettura quando è avvenuta l’aggressione. Il primo a finire nel mirino è stato l’amico Luigi che ha ricevuto una coltellata da Iossa. A quel punto è intervenuto Simone che ha provato in tutti i modi a difendere il 18enne. Nella colluttazione fisica stava avendo la meglio prima di subire diverse coltellate rivelatesi poi fatali.  Frascogna morirà di lì a poco, subito dopo l’arrivo al pronto soccorso del Cardarelli. Salomone ha riportato una prognosi di 15 giorni. Le tempestive e compiute indagini dei carabinieri, hanno portato in poche ore non solo all’identificazione dei responsabili ma anche alle loro rispettive confessioni rese innanzi ai magistrati ed agli investigatori, alla presenza dei difensori. Iossa è stato condotto presso il carcere di Poggioreale, i due minori invece al Centro di Prima Accoglienza ai Colli Aminei. “Presi. I tre balordi che hanno ucciso Simone e ferito il compagno sono stati tutti fermati. Adesso sia fatta giustizia. Nessuno può morire a 19 anni, da mani assassine. Il giorno dei funerali sará lutto cittadino” ha commentato il sindaco di Casalnuovo Massimo Pelliccia.

LA FIACCOLATA – In serata (giovedì 5 novembre) è in programma una fiaccolata per la legalità in memoria di Simone. L’appuntamento è alle 21 in piazza Municipio. “Ci teniamo al rispetto assoluto del decreto. E’ importante mantenere le distanze e indossare la mascherina” fanno sapere gli organizzatori.

IL PRECEDENTE – Un omicidio che ha scosso i cittadini di Casalnuovo che da tempo segnalano episodi di violenza tra gruppi giovanili lamentando la scarsa presenza di controlli sul territorio. Lo scorso 6 settembre si è verificata un’altra brutale aggressione: vittima un ragazzo di 21 anni accoltellato più volte, tra cui alla gola, da un coetaneo per motivi di natura passionale. Alla base dell’aggressione, scattata al termine di una festa di compleanno, c’era una ragazza contesa. La vittima è stato salvato dai medici al termine di un intervento durato circa sette ore all’ospedale Villa Betania di Acerra. Il responsabile, un 21enne, è stato arrestato pochi giorni dopo dai carabinieri.

L’ultimo saluto a Simone, il parroco: “Ucciso come Willy, ambulanza dopo mezz’ora”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'8 Novembre 2020. “Non si può pensare che un ragazzo scende da casa e nn torna più”. Le parole del vescovo di Acerra, Antonio Di Donna, al funerale di Simone Frascogna, il 19enne ucciso a coltellate a Casalnuovo, sono pesanti come macigni. Ci sono circa 400 persone per ultimo saluto al ragazzo presso la chiesa Maria SS Annunziata di Licignano, frazione di Casalnuovo. All’esterno amici con palloncini bianchi e magliette con la foto della vittima. Parenti, amici e tutta la comunità di Casalnuovo si sono stretti questa mattina intorno alla famiglia. “Quella di Simone è una famiglia onesta, lavoratrice – ha continuato Di Donna – Non chiediamo vendetta ma certezza della pena e giustizia veloce. Simone era un giovane studente che sognava di diventare cantante rapper, amava le arti marziali. Non è possibile che ambulanza arriva dopo mezz’ora, certo il momento è difficile ma non si può aspettare così tanto. Chi ha assistito non ha fatto niente, ha ripreso scena col cellulare, una cosa stupida che si sta diffondendo sempre di più”. “Non è possibile che in un territorio ci sono così pochi controlli – ha detto il vescovo di Acerra – Bisogna passare da indignazione a riflessione. Non sprechino questa morte, non ci limitiamo solo all’indignazione”. E ha accostato la vicenda di Simone a un’altra giovane vita strappata prematuramente alla vita per mano violenta, Willy Monteiro Duarte, il 21enne di origine capoverdiana ucciso di botte a Colleferro il 6 settembre 2020. “Ricordiamo Willy, esempio nazionale di violenza gratuita per difendere un amico. Abbiamo problema più urgente del recovery fund e dell’emergenza coronavirus. Non ci sono più anticorpi in questa società, c’è solo deserto”.

LA RICOSTRUZIONE DEI FATTI – Simone è stato ucciso con 4 coltellate la sera del 3 novembre a Casalnuovo, in provincia di Napoli. Il ragazzo era uscito con un amico, il 18enne Luigi Salomone, per una tranquilla serata con gli amici. All’improvviso, intorno alle 21.30, c’è stato uno scontro verbale per motivi di viabilità con un’altra auto al cui interno viaggiava Domenico Iossa jr, originario di Acerra e di professione carrozziere. Reo confesso di aver ucciso a coltellate Simone, è stato sottoposto a fermo con l’accusa di omicidio doloso e tentato omicidio, in concorso con dure ragazzini (B.C. e T.F. di 16 e 17 anni) che erano in auto con lui. Secondo quanto ricostruito dai militari, nelle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Nola, in sinergia con la Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni, i tre, così come emerso dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza, viaggiavano a bordo di una Smart Forfour di colore bianco quando si è verificato un diverbio, per motivi di viabilità, con la vittima 19enne e l’amico che si trovavano in una Ford Fiesta. Una discussione animata nel corso della quale Iossa jr si sarebbe vantato di alcune parentele “pesanti” nel campo della malavita.

Dopo lo scontro verbale, a far scattare l’aggressione è stato un gesto mal interpretato. Simone ha infatti accostato sulla sinistra, parcheggiando la propria auto nei pressi dell’abitazione di un amico in attesa che scendesse. La circostanza però è stata interpretata come un atto di sfida da parte dei tre che non hanno esitato a fermarsi assaltando la Ford Fiesta. Simone e l’amico 18enne erano ancora all’interno della vettura quando è avvenuta l’aggressione. Il primo a finire nel mirino è stato l’amico Luigi che ha ricevuto una coltellata da Iossa. A quel punto è intervenuto Simone che ha provato in tutti i modi a difendere il 18enne. Nella colluttazione fisica stava avendo la meglio prima di subire diverse coltellate rivelatesi poi fatali. Frascogna morirà di lì a poco, subito dopo l’arrivo al pronto soccorso del Cardarelli. Salomone ha riportato una prognosi di 15 giorni.

LE CONFESSIONI – Le tempestive e compiute indagini dei carabinieri, hanno portato in poche ore non solo all’identificazione dei responsabili ma anche alle loro rispettive confessioni rese innanzi ai magistrati ed agli investigatori, alla presenza dei difensori. Iossa è stato condotto presso il carcere di Poggioreale, i due minori invece al Centro di Prima Accoglienza ai Colli Aminei.

La fiaccolata per Simone, il dolore della mamma: “Ero per il perdono ma i vostri figli sono bestie”. Amedeo Junod su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Il dolore di una madre costretta a piangere la morte del proprio figlio è un sentimento indescrivibile, insopportabile, verrebbe da dire contro natura. Ma la signora Frascogna non lo nasconde, questo dolore, e usa parole forti per condividerlo con un’intera comunità, la Casalnuovo delle persone perbene che ieri è scesa in piazza per una fiaccolata in memoria di Simone, il giovane diciannovenne barbaramente ucciso a coltellate da coetanei, pochi giorni fa, per futili motivi, mentre riaccompagnava un suo amico a casa, in una sera come tante presto rivelatasi fatale. Parole dettate dal dolore e dalla rabbia accumulata in queste ore da parte della mamma di Simone. Duro il messaggio rivolto alla mamma di Domenico Iossa, il 18enne che ha sferrato diverse coltellate a Simone. “Hai pianto fuori alla caserma, qualcuno da dietro ha detto ‘ti aspetterò leone‘: se eri una mamma buono lo portavi tu dai carabinieri. Ero per il perdono ma i vostri figli sono bestie”. La confessione dei colpevoli, formalizzata da poche ore, non basta a placare la rabbia e l’indignazione per una morte insensata, per una scarica di violenza criminale partita da uno sguardo di troppo, da una lite stradale come tante, resa immane tragedia da una gioventù deteriore e perduta che non rappresenta la vera anima di Casalnuovo, un tempo famosa per essere un polo della moda partenopea, non un luogo di violenza. C’è anche il desiderio di prendere le distanze da una subcultura criminale, nelle parole, nei tanti messaggi e nello sguardo delle centinaia di persone che hanno partecipato alla fiaccolata. “Simone è anche nostro figlio” recita uno striscione di alcune mamme. Qualcuno si lascia andare ad esternazioni di rabbia e vendetta, ma proprio il padre di Simone, con quello sguardo da bambino, così simile a quello del figliolo scomparso, a placare gli animi e a ricalibrare il turbinio di sentimenti dolorosi in un discorso di pace e di civiltà: “Questo è un paese meraviglioso, e la comunità che stasera è scesa in piazza dimostra che ci sono moltissimi giovani che credono nei giusti valori e sono pronti a manifestare contro la violenza. Casalnuovo non è questa!”. Qualcuno si lascia andare: “Devono marcire in galera!”. La piazza applaude, ma il papà di Simone con un autocontrollo e una saggezza che ha solo chi ha visto l’abisso, ricorda che spesso il carcere è solo una palestra per criminali, e si augura che in questo caso, fatta piena giustizia, l’istituzione penitenziaria possa fungere realmente da percorso rieducativo.

“Pronto a pagare, anche io non vivo più”, il killer di Simone scrive alla famiglia del ragazzo che ha ucciso. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Novembre 2020. “Io sottoscritto Domenico Iossa junior, nato ad Acerra, in relazione a quanto ho commesso la sera del 3 novembre 2020 voglio dire che da quella sera anche io, per un verso, non vivo più”. Domenico Iossa dal carcere di Poggioreale dove è stato portato dopo aver confessato l’omicidio di Simone Frascogna, 19 anni, a Casalnuovo, ha scritto una lettera di scuse alla famiglia del ragazzo che ha ucciso con 4 coltellate. “Non vi sono parole per farvi comprendere come io stia male, non riesco a sopportare il peso di avere tolto la vita a un giovane ragazzo come me. Non ho mai commesso reati in vita mia, ho sempre lavorato da quando avevo 13 anni, il mio amore era ed è fare il carrozziere. Ormai anche io non vivo più dentro di me”. Domenico è stato sottoposto a fermo con l’accusa di omicidio doloso e tentato omicidio, in concorso con due ragazzini (B.C. e T.F. di 16 e 17 anni) che sono invece stati portati al Centro di Prima Accoglienza ai Colli Aminei. Secondo quanto ricostruito dai militari, nelle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Nola, in sinergia con la Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni, i tre, così come emerso dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza, viaggiavano a bordo di una Smart Forfour di colore bianco quando si è verificato un diverbio, per motivi di viabilità, con la vittima 19enne e l’amico (il 18enne Luigi Salomone) che si trovavano in una Ford Fiesta. Una discussione animata nel corso della quale Iossa jr si sarebbe vantato di alcune parentele “pesanti” nel campo della malavita. Dopo lo scontro verbale, a far scattare l’aggressione è stato un gesto mal interpretato. Simone ha infatti accostato sulla sinistra, parcheggiando la propria auto nei pressi dell’abitazione di un amico in attesa che scendesse. La circostanza però è stata interpretata come un atto di sfida da parte dei tre che non hanno esitato a fermarsi assaltando la Ford Fiesta. Simone e l’amico 18enne erano ancora all’interno della vettura quando è avvenuta l’aggressione. Iossa conclude la lettera con le sue sentite scuse per la famiglia di Simone: “Voglio chiedere pubblicamente scusa alla famiglia di Simone, vi chiedo immensamente scusa, vorrei tanto tornare indietro e non fare ciò che invece ho fatto. Ho sbagliato e sono pronto a pagare, sono tre giorni che non mangio e che non bevo perchè non riesco sopportare il peso di avere tolto la vita ad un mio coetaneo. Chiedo ancora scusa alla famiglia di Simone. Io, non ho mai scelto una vita di strada”. Durante una fiaccolata a Casalnuovo in memoria di Simone, la mamma del 19enne ucciso, aveva rivolto parole dure alla mamma di Domenico: “Hai pianto fuori alla caserma, qualcuno da dietro ha detto "ti aspetterò leone": se eri una mamma buono lo portavi tu dai carabinieri. Ero per il perdono ma i vostri figli sono bestie”.

Spari al rapinatore 17enne: l'agente ora è indagato. L'accusa è eccesso di legittima difesa. Un atto dovuto prima dell'autopsia del giovane morto. Redazione, Martedì 06/10/2020 su Il Giornale. Eccesso colposo di legittima difesa. È il reato che la procura di Napoli contesta al poliziotto che all'alba di domenica ha ucciso Luigi Caiafa, un ragazzo di 17 anni, nel tentativo di sventare una rapina in via Duomo, all'angolo con via Marina, a Napoli. Si tratta di un atto dovuto, in previsione dell'autopsia sul corpo della vittima, che si terrà forse già questa mattina, nel giorno della convalida del fermo del complice, Ciro De Tommaso, 18 anni, accusato di rapina, di porto d'arma per un coltello rinvenuto in tasca e per ricettazione dello scooter rubato nel corso della rapina mortale. Sarà il gip Gabriella Bonavolontà a decidere su quanto disposto dal pubblico ministero di turno, Valentina Sincero, per quest'ultimo, figlio dell'uomo conosciuto come Genny 'a carogna. All'alba di domenica Caiafa aveva perso la vita, colpito da due proiettili esplosi dalla pistola di un agente della sezione Falchi della squadra mobile. Da un primo esame esterno, secondo quanto si è appreso, i colpi avrebbero raggiunto Caiafa frontalmente nella parte alta del tronco. La rapina è stata commessa in via Duomo, all'angolo con via Marina ai danni di tre ragazzi a bordo di una Mercedes Classe A. In base alla ricostruzione, sarebbe stato De Tommaso a puntare una pistola replica, ma priva del tappo rosso, alla testa del ragazzo che era alla guida dell'auto. Sotto minaccia i tre hanno ceduto in tutto 150 euro e due telefoni cellulari. La pistola è stata anche puntata contro i poliziotti intervenuti, dopo che si erano qualificati. De Tommaso deve rispondere anche di ricettazione, perché era alla guida di uno scooter rubato, sottratto a un ventenne nel corso di una rapina un mese fa e di possesso di armi, perché aveva anche in tasca un coltello a serramanico con una lama di 7 centimetri. Per lui, secondo il pm, sussistono le esigenze cautelari «per la personalità criminale significativa» e ciò si evince «dalle modalità della condotta, che si è rilevata notevolmente allarmante», in quando De Tommaso e Caiafa «si erano preventivamente organizzati per commettere la rapina a bordo di uno scooter rubato». Il padre Genny 'a Carogna è un ex capo ultrà del Napoli diventato famoso il 3 maggio 2014 per le tensioni durante la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina quando morì il tifoso Ciro Esposito. Sta scontando una condanna a 10 anni di carcere per traffico internazionale di stupefacenti e dal 2019 ha deciso di collaborare con la giustizia.

L'indagine del centro Res Incorrupta. Quattro giovani su dieci tornano a delinquere, servono strategie mirate. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Su un campione di 423 ragazzi napoletani destinatari del provvedimento di estinzione del processo per messa alla prova, 176 si sono resi protagonisti da maggiorenni di altri reati. La percentuale di recidivi tra giovanissimi a Napoli è del 41,6%. Un dato allarmante che spinge a domandarsi cosa si può fare per invertire questa tendenza, per salvare giovani vite da destini di galera o di morte. Il dato è emerso dallo studio condotto dal centro di ricerca Res Incorrupta dell’università Suor Orsola Benincasa a fine 2019 su richiesta della Commissione parlamentare antimafia. È una delle fotografie più aggiornate della realtà dei minori a rischio in città. Giovani che sono tanti e sempre più condizionati da contesti familiari e ambientali. Quando non è l’arruolamento vero e proprio nelle fila di clan della camorra, è l’ambiente della microcriminalità ad assorbirli, influenzarli, portarli su strade dalle quali è quasi sempre difficile tornare indietro. La giustizia ripartiva è uno strumento utile per contrastare il fenomeno della delinquenza minorile ma non basta. «Ci troviamo di fronte a dati scoraggianti – spiega la criminologa Simona Melorio, che ha curato la ricerca – La messa alla prova non riesce a essere un argine effettivo rispetto alla commissione di altri reati. Dobbiamo renderci conto del fatto che Napoli e le zone di criminalità organizzata sono ambienti particolari per cui richiedono specifici interventi. Dove ci sono quartieri che sono da tempo conquista di clan, serve un intervento ancora più specifico». Per la criminologa è importante puntare su «spazi di ascolto e di osservazione più lunghi», su «interventi personalizzati per ogni ragazzo». «Ogni percorso deve tener conto dell’indagine socio-ambientale e dei fattori di rischio del territorio – aggiunge l’esperta, citando il caso di Luigi Caiafa, protagonista del più recente fatto di cronaca che ha riacceso a Napoli il dibattito sui minori a rischio – Luigi era in una situazione di messa alla prova, ma lavorava nella pizzeria accanto casa e quindi in qualche modo rimanda all’interno del suo territorio, continuava ad avere rapporti con il suo gruppo amicale che poteva essere anche un gruppo deviante. È su questo che dobbiamo cominciare a ragionare». «Non sto dicendo – chiarisce – che bisogna togliere i ragazzi dal loro ambiente e portarli altrove, però l’intervento di messa alla prova richiederebbe un’attenzione più lenta, più lunga, uno spazio di osservazione maggiore, che possa garantire un accompagnamento costante del ragazzo perché dalla nostra ricerca è emerso che la messa alla prova rimane spesso un’esperienza che non ha contatto con la realtà». Per molti ragazzi finisce per essere una sorta di vacanza, e i problemi tornano quando si ritorna alla vita di sempre. «I ragazzi sono sempre molto bravi ad accogliere tutti gli stimoli. Sicuramente è a loro vantaggio terminare il percorso e vedere estinto il reato, ma spesso sono sinceramente coinvolti – racconta Melorio – Poi però, quando le attività finiscono e i ragazzi rientrano nel loro ambiente, se intorno ad essi non si è costruita una rete, se non si è lavorato con le famiglie, se non si è individuato il problema nella rete amicale è difficile immaginare che questi ragazzi siano del tutto cambiati, con una nuova pelle. Spesso il rientro alla normalità comporta il dismettere i panni nuovi e rimettere i panni vecchi». Ed ecco, dunque, la necessità, secondo l’esperta, di un potenziamento della rete di assistenza sociale territoriale, di spazi di ascolto, di percorsi più mirati.

L'opinione dell'esperto. Troppi giovani tornano a delinquere, perché? Giacomo Di Gennaro su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. È sempre spiacevole commentare fatti di cronaca che investono giovani vite che si spezzano in realtà urbane sempre più critiche. La morte del 17enne Luigi Caiafa, sorpreso dalla polizia a compiere una rapina insieme con un complice, lascia sgomenti non solo perché è l’ennesima morte di un giovane la cui dinamica rimanda inevitabilmente ad aspetti che attengono le modalità con cui si realizza il controllo del territorio, ma ancor più invoca una riflessione più accurata sugli itinerari di riabilitazione e risocializzazione previsti dal nostro ordinamento minorile. Luigi aveva già incrociato l’autorità giudiziaria e si era avvalso dell’istituto della messa alla prova, introdotto nel 1988. Come sanno gli addetti ai lavori, la misura costituisce un superamento della concezione afflittiva della pena ed è stata una grande innovazione introdotta per riformare il processo penale minorile in un’epoca in cui il dibattito culturale e teorico, nonché le prassi operative, oscillavano ancora tra la necessità di un ordinamento giuridico che non derogasse dalla punizione del minore quale responsabile di un reato e l’esigenza di bilanciare la punizione con un approccio impostato al principio riabilitativo, alla tutela del minore e dei suoi fondamentali diritti. La decisione che guida in generale l’autorità giudiziaria pure di fronte a un reato grave (magari un omicidio o uno stupro o una rapina a mano armata) è la rieducazione e risocializzazione del minore nel presupposto, anche se non sempre valido, che l’immaturità presente possa essere corretta ovvero guidata verso uno sviluppo rispettoso dei limiti imposti dalla convivenza civile e dalla contemporanea volontà di restituire alla società una persona responsabile. Non ho contezza del reato commesso in precedenza da Luigi ma non ha importanza, tant’è che il fatto di essere titolare della misura di messa in prova lascia intendere che il giudice ha ritenuto che vi potessero essere, ad esito del progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, forti margini di intervento sulla persona offrendo l’opportunità di collocarlo per un periodo presso una comunità e consentendo altresì l’acquisizione di una significativa esperienza formativa per imparare un mestiere. Luigi, infatti, è stato impegnato per un certo periodo in una pizzeria. Durante il periodo di prova, dunque, il minore può svolgere attività di volontariato, riprendere gli studi, lavorare, svolgere un apprendistato. Insomma, la tendenza è offrire opportunità ed esperienze alternative che spesso sono estranee alla biografia di persone contigue ad ambienti di devianza grave o che l’unico mondo che conoscono ed esperiscono è costituito dalla marginalità sociale e dall’esclusione. Ma nonostante l’investimento di operatori sociali, giudici e dei servizi della giustizia minorile il risultato non è sempre positivo. L’interrogativo è innanzitutto questo: cosa sappiamo dell’efficacia di tale misura? Quali limiti presenta un quadro normativo pensato per una devianza minorile che nel frattempo è molto cambiata? Come è stato possibile che Luigi da un lato abbia mostrato interesse ad apprendere un mestiere e manifestare desiderio di affrancarsi da relazioni ed esperienze che l’hanno portato comunque davanti a un tribunale penale e, dall’altro, si sia accompagnato a un amico o abbia avuto come sodale un giovane un pò più grande ma il cui legame genitoriale non rimanda certo ad una biografia di santità? Ovviamente, se qualcuno si aspetta di leggere degli esiti valutativi a livello nazionale su misure come la messa alla prova o l’irrilevanza del fatto o il perdono giudiziale, resterà deluso. Infatti, pur a distanza di oltre trent’anni dall’approvazione da parte del legislatore, il Dipartimento della Giustizia minorile (tranne che nel 2003 per un limitato campione) non si è mai posto il problema di capire se i tassi di recidiva o di ricaduta criminale fossero alti o bassi per ognuna delle misure previste dal processo penale e dall’ordinamento di cui sopra. Abbiamo, adesso anche per Napoli, ricerche limitate ad aree giurisdizionali e purtroppo quella napoletana presenta i più alti tassi di recidiva e ricaduta criminale sia rispetto a quelle poche aree dove gli studi sono stati condotti che rispetto alla media nazionale. Perché? Innanzitutto, perché la qualità della devianza e della devianza grave nel contesto metropolitano risente della forte presenza dei gruppi organizzati e delle storie familiari di camorra. Poi perché a Napoli la “periferia”, la marginalità, è nel cuore della città, non solo ai margini dell’area metropolitana. In più, i servizi di welfare sono un disastro e se non ci fossero tanti gruppi e associazioni di volontariato che operano con programmi seri sarebbe ancora peggio. In più c’è un problema di formazione sia degli operatori sociali che di quanti operano nelle comunità di accoglienza. Non c’è sinergia tra esse, non si fa aggiornamento e i profili professionali sono spesso deboli e con competenze limitate. Si può andare avanti così? Quanti Luigi conteremo ancora?

Minori e devianza. Ragazzi a rischio sono 5mila, pesa la povertà educativa. Viviana Lanza Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Ogni anno in Campania si contano in media 5mila ragazzi, tra i 12 e i 18 anni, identificati e riaffidati ai genitori o condotti in comunità di recupero per episodi di disagio e devianza, atti di bullismo, risse. Circa 250 sono quelli che affrontano percorsi rieducativi, 150 quelli affidati a comunità, circa 70 quelli detenuti nei centri di accoglienza per minori per accuse relative a reati penalmente rilevanti. Sono un mondo, delicato e complesso al tempo stesso. Dietro ognuno di loro c’è una diversa storia di povertà e disagio, di abbandono e sofferenza, di criminalità e mancanza di alternative. Nel 40% dei casi hanno abbandonato la scuola troppo in fretta e così la povertà culturale diventa uno dei fattori che alimenta il fenomeno della criminalità minorile. L’altro fattore è la camorra, presente e diffusa anche nelle vite dei più piccoli attraverso legami familiari o amicizie di quartiere. A rischio sono quindi i figli dei camorristi, i figli degli affiliati, i boss in erba, i giovani che si armano per fare stese e rapine a mano armata. A queste realtà se ne affiancano però anche altre, non meno pericolose: sono le cosiddette baby gang, quelli della violenza anche senza motivo, degli accoltellanti e delle risse in strada, delle aggressioni a tutte le ore del giorno ad opera di ragazzini che spesso non hanno nemmeno l’età imputabile. «La vicenda di Luigi Caiafa e l’attuale virulente connotazione del complesso fenomeno della criminalità minorile impongono di rivedere sia il ruolo dello Stato nella capacità educativa del minore sia le strategie di contrasto al fenomeno della devianza», commenta l’avvocato Gennaro Demetrio Paipais, esperto in diritto minorile, presidente dei giovani penalisti di Napoli e promotore di iniziative per il recupero dei minori a rischio. «Se, nonostante i buoni propositi di reinserimento sociale, il giovane diciassettenne aveva optato per un percorso alternativo non può non segnalarsi un corto circuito nel sistema educativo. È pertanto improcrastinabile – aggiunge – l’attuazione di politiche sociali proiettate al rafforzamento della formazione, del lavoro e più in generale dell’inclusione in favore di minori, soprattutto dei territori a rischio, con l’auspicio che il disagio familiare o territoriale non si traduca in devianza».

Troppi giovani tornano a delinquere, perché? In questa ottica, l’Unione Giovani Penalisti ha sollecitato un incontro/confronto alla Camera dei deputati tra i componenti delle Commissioni Infanzia e Adolescenza, Giustizia, Lavoro e Difesa nonché con le istituzioni nazionali e locali e con il terzo settore, al fine di tratteggiare un itinerario correttivo dei minori a rischio di esclusione. Intanto a Napoli, venerdì, si riuniranno i garanti territoriali delle persone private della libertà. L’assemblea sarà presieduta dal garante della Campania, Samuele Ciambriello. Parteciperanno, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralìa, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. Sarà una due giorni di confronti e dibattiti sui vari aspetti della funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata, del reinserimento sociale e dell’accoglienza delle persone private della libertà.

Pochi progetti. Il futuro dei giovani napoletani? Vale 40 centesimi…Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Tra le città italiane più disposte a investire in politiche giovanili non c’è Napoli. Il capoluogo partenopeo è relegato agli ultimi posti della classifica, con una spesa di soli 40 centesimi pro capite (l’ultima è Venezia con 5 centesimi, la prima è Messina con una spesa di 9,43 euro). Il dato emerge da una ricerca di Openpolis che ha analizzato la spesa pro capite per cassa riportata nelle voci di bilancio dei Comuni italiani con più di 200mila abitanti. È vero che spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia ma è anche vero che più si investe in mezzi e risorse e più si può sperare di garantire servizi efficienti. E pertanto colpisce che la spesa per politiche giovanili sia così bassa in una città dove invece più servirebbero politiche per i giovani, se è vero che criminalità minorile e devianze sono frutto di degrado e assenza di opportunità e la disoccupazione è una piaga da anni. Secondo i dati della ricerca aggiornati al 2018, a Napoli, con i suoi circa 970mila abitanti, la spesa per politiche giovanili è stata di poco più di 380mila euro, pari, come dicevamo, a 40 centesimi pro capite. Poco se paragonata alla spesa di Torino, che conta circa 880mila abitanti e nel 2018 ha investito oltre 2milioni e 680mila euro, cioè 3,04 euro pro capite, o a Milano dove, a fronte di quasi un milione e 400mila abitanti sono stati spesi quasi 2 milioni e 900mila euro (2,1 euro pro capite). Quando si parla di investimenti in politiche giovanili si parla di spese da destinare ad attività per l’autonomia e i diritti dei giovani, per sportelli di informazione, per iniziative ed eventi, seminari e corsi, per associazionismo e volontariato. Poco più di 380mila euro possono bastare per organizzare politiche efficaci per i tanti giovani di Napoli? Difficile pensare che non si possano destinare più fondi a sostegno di bambini e ragazzi che rappresentano una fetta di popolazione tutt’altro che irrilevante. Gli abitanti da zero a 17 anni di età a Napoli rappresentano circa il 18% della popolazione, una fetta importante dunque, che evidenzia il paradosso tutto napoletano: Napoli è prima, tra le città italiane, per numero di cittadini minorenni ma è tra le ultime per politiche sui giovani. Eppure i ritorni di simili investimenti sarebbero enormi, sul piano della sicurezza e della legalità, della società e dell’economia. Nell’annuale rapporto sul benessere sociale, l’Istat ha messo in evidenza che istruzione e conoscenza non agiscono soltanto come fattore protettivo per l’acceso e la permanenza nel mercato del lavoro in posizioni più coerenti con le conoscenze possedute, meglio retribuite e più appaganti, ma «sono anche una chiave che dà accesso – si legge nel rapporto – a una pluralità di aspetti del benessere individuale: consentono di vivere più a lungo e con condizioni di salute migliori, ma anche di attivare il valore aggiunto delle reti soprattutto per quanto riguarda le attività culturali e quelle di partecipazione, ad esempio nel volontariato». Inoltre istruzione e formazione del capitale umano sono un vettore primario di promozione sociale. Consentono anche di creare relazioni. “Fare rete”: quante volte abbiamo sentito questa espressione, quante volte la si è usata per indicare una soluzione ai cronici problemi della città commentando fatti tragici. È accaduto anche in questi giorni, dopo la morte di Luigi Caiafa ucciso a 17 anni da un politicizzo intervenuto per sventare una rapina. Rete di servizi sociali, rete di relazioni, rete di sostegno a famiglie e lavoro. «I vantaggi delle risorse relazionali – si legge ancora nel rapporto – si estendono oltre i confini dell’individuo e della sua famiglia, stimolano il senso di appartenenza, promuovono il senso civico e favoriscono la fiducia interpersonale e verso le istituzioni con effetti importanti sulla società nel suo complesso». E allora non resta che sperare che per i giovani si investa di più anche a Napoli.

Napoli, una città a mano armata. Marco Demarco su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Tutto si può dire di de Magistris, tranne che sia un sindaco-sceriffo. Sarebbe perciò fuori luogo aspettarsi da lui atteggiamenti, per capirci, alla De Luca. Non va dimenticato, poi, che il contrasto alla criminalità, in particolare a quella organizzata, non rientra nei compiti istituzionali di un primo cittadino. Detto questo, però, e prima di arrivare al punto, rileggiamo insieme alcune dichiarazioni riportate ieri dai giornali, in particolare dal Corriere del Mezzogiorno e da Repubblica che ha segnalato il tema della violenza a Napoli anche con un titolo sulla prima pagina nazionale. Sono tutte dichiarazioni di alti rappresentanti dello Stato, di autorità che, per ovvie ragioni, sanno di cosa parlano. Cominciamo. Marco Valentini, prefetto: «La violenza della microcriminalità di Napoli non la vedo in altre città italiane. Qui si ricorre all’uso delle armi anche per rubare un tablet». Ancora Valentini: «Bisogna lavorare molto sul tema delle armi da fuoco. Il circuito illegale è rintracciabile: qualcuno conserva le pistole con la matricola abrasa. Noi dobbiamo capire da dove arrivano e dove vengono tenute. Di armi, a Napoli, ce ne sono troppe». Franco Gabrielli, capo della polizia: «Dopo il lockdown, in un contesto generale che vedeva i reati di sangue sempre marginalizzati, con una curva decrescente degli omicidi, le realtà napoletana e foggiana hanno rappresentato delle eccezioni, nel senso che si è continuato a sparare e a morire ammazzati, seppure in una percentuale minore». Luigi Riello, procuratore generale: «Noi magistrati non dobbiamo controllare la criminalità puntando solo ai piani alti. C’è il problema delle armi. Anche un giovane deve capire che a una condotta criminale segue una rigorosa risposta dello Stato. Tuttavia, deve essere fatto di più sul piano delle bonifiche sociali, e questo appartiene ad altre istituzioni». Ancora Riello: «Le periferie, che sono state negli ultimi periodi il brodo di coltura di questa violenza giovanile, sono diventate una pattumiera sociale». E ora ecco come il sindaco ha commentato tutto questo. «Quando la città è piena di persone e di cultura – ha detto de Magistris – il crimine fa un passo indietro. Adesso, invece, c’è il rischio che quel passo indietro diventi un passo avanti». Ancora de Magistris: «Devo dare atto a magistratura e forze dell’ordine di aver fatto un lavoro enorme, ma storicamente c’è un problema sulle armi in circolazione, e adesso si è ripreso anche a sparare. Dal prefetto ci aspettiamo analisi e risposte». Il punto è. Queste risposte e queste analisi devono venire solo dal prefetto? Al di là delle responsabilità istituzionali, non c’è una sensibilità civile più complessiva da mettere in campo? Come mai, allora, l’allarme sullo stato della città – uno stato, come si è visto, assolutamente particolare – è stato lanciato dal prefetto e non anche dal sindaco che invece ha dato l’impressione di essere stato preso in contropiede? Cosa vuol dire l’avverbio “storicamente” utilizzato proprio dal sindaco a proposito delle troppe armi in circolazione? È un modo per diluire l’emergenza nel tempo? Per dire: sì, il problema c’è, però…? Giusti, inoltre, i riferimenti alla cultura come deterrente e alla città svuotata dal Covid. Ma non è forse vero che a Napoli il giovane Arturo è stato aggredito prima del lockdown; che una guardia giurata è stata uccisa in un agguato; e che le “stese” ci sono state anche quando il virus ancora non c’era? Non c’è, nella periodizzazione che piace al sindaco, l’eco di una excusatio non petita? E per essere chiari fino in fondo: sul tema delle periferie diventate pattumiere, chi deve dare una risposta? Il prefetto? E se è così, l’anno prossimo eleggiamo un sindaco o un prefetto?

Funerali vietati per il baby-rapinatore ucciso da un poliziotto. L’ultimo saluto a Luigi Caiafa, fiaccolata e fuochi d’artificio: “Fuori le telecamere, vogliamo giustizia”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'8 Ottobre 2020. “Fuori le telecamere e giustizia per Luigi“. Questo il messaggio degli amici del 17enne ucciso da un poliziotto alle 4.30 di domenica 4 ottobre nel corso di una rapina. L’ultimo saluto a Luigi Caiafa è stato dato la scorsa notte con una fiaccolata partita da piazzetta Forcella e proseguita lungo Corso Umberto e la parte bassa di via Duomo, fino all’ingresso del Porto, zona non molto distante da dove il giovane e il suo complice, Ciro De Tommaso, 18 anni, hanno commesso la rapina (con una pistola a salve priva di tappo rosso) finita poi in tragedia. Circa un centinaio gli amici di Luigi che hanno sfilato per le strade del centro di Napoli ricordandolo e chiedendo giustizia. Su uno striscione c’era la scritta “fuori le telecamere” nel tentativo di chiarire meglio la dinamica della rapina mortale. Sono stati fatti volare in cielo palloncini bianchi e azzurri e all’ingresso del Porto una batteria di fuochi ha salutato Luigi i cui funerali, celebratisi i forma privata questa mattina, sono stati vietati dal questore Alessandro Giuliano sia per motivi di ordine pubblico che per i presunti legami che il 17enne (arrestato per droga in passato, stava seguendo i corsi inseriti nel piano di reinserimento sociale stabilito dai giudici che gli avevano concesso la messa alla prova) e la sua famiglia (il padre è agli arresti domiciliare sempre per droga) avrebbero con la criminalità organizzata. L’autopsia effettuata nella giornata di ieri, mercoledì 7 ottobre, ha appurato come Luigi Caiafa sia stato ucciso da due colpi di pistola. Un proiettile lo avrebbe colpito allo zigomo, fuoriuscendo dal collo, un altro, quello probabilmente mortale,  lo ha raggiunto alle spalle fuoriuscendo dall’addome. Saranno gli accertamenti balistici a chiarire meglio la dinamica. Nei giorni scorsi la Procura di Napoli ha dato l’ok a pubblicare le immagini relative alla rapina lanciando poi un appello: “Si invita chiunque sia in grado di rendere informazioni utili a contattare il più vicino ufficio di Polizia” si legge nella nota diffusa dalla Questura di Napoli. Nelle immagini si vedono i due baby rapinatori affiancare con lo scooter, risultato poi rubato nelle scorse settimane, la Mercedes Classe A e minacciare gli occupanti con una pistola (che poi risulterà essere a salve) per farsi consegnare soldi e altri oggetti di valore. Sono le 4.26 di domenica mattina e in quel frangente arriva un’auto civetta della polizia. A bordo ci sono tre Falchi della Squadra Mobile. Uno resta alla guida, gli altri due scendono. Il primo poliziotto, così come si vede nelle immagini, si protegge dietro la vettura dopo essersi visto puntare la pistola contro. Non spara perché dal video non emerge la fiammata del colpo d’arma da fuoco. A sparare è l’altro collega che si ritrova anche lui la pistola puntata contro mentre i due baby-rapinatori cercano di guadagnare la fuga. I due agenti – secondo quanto appreso dal Riformista – hanno sentito più volte Caiafa, alla guida dello scooter rubato, intimare a De Tommaso di sparare contro il “guardio”. Sono frazioni di secondi che hanno portato l’agente, ora indagato per eccesso colposo di legittima difesa (un atto dovuto in attesa dell’autopsia), a premere il grilletto e sparare. Caiafa e De Tommaso erano vicinissimi e i proiettili, due quelli accertati, hanno centrato il 17enne.

LA REFURTIVA – Dall’indagine è emerso che, oltre alla pistola a salve, priva del tappo rosso di riconoscimento, i due avevano anche a disposizione un coltello, trovato in possesso del figlio di “Genny a’ carogna”, lungo 18 centimetri, con una lama da 7 centimetri. I due, dietro la minaccia della pistola, si erano appena impossessati di 100 euro, di tre Iphone e anche di un borsello, appartenente a un quarto giovane, in quel momento non presente, contenente i suoi effetti personali e le chiavi di una costosa Porsche Cayenne. Gli inquirenti della Procura contestano a De Tommaso anche la rapina aggravata e la ricettazione dello scooter.  Nelle dichiarazioni spontanee rese davanti al Gip di Napoli, De Tommaso ha ammesso la rapina ma ha riferito di non aver mai puntato la pistola “scenica” contro gli agenti.

Luigi Caiafa e Ugo Russo: vittime del degrado che devasta Napoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Chi giovedì lo ha visto piegato sulle ginocchia e intento ad allineare, con impegno e la meticolosa precisione di chi vuole fare bene, le mele raccolte nel campo dell’azienda agricola di Chiaiano dove la Regione Campania ha finanziato un corso di formazione per ragazzi provenienti da comunità di recupero, stenta a credere che Luigi sia lo stesso ragazzo finito cadavere sull’asfalto di via Duomo, ucciso nella notte tra sabato e domenica da un proiettile esploso da un poliziotto intervenuto per sventare una rapina. Chi ha visto Luigi negli ultimi mesi frequentare con costanza le lezioni settimanali da giardiniere, dopo quelle da pizzaiolo, e darsi da fare per imparare ad usare gli attrezzi e tenere pulite le aiuole di una piazza di Bagnoli, fatica a pensare che fosse in giro per le vie della città, di notte, su un motorino rubato e con una pistola anche se giocattolo. La realtà fa accavallare i ricordi e lascia emergere le contraddizioni. Quelle che hanno segnato la vita di Luigi, continuano a segnare le vite di altri ragazzi napoletani e sono la maledizione di questa città dove i contorni non sono mai netti, dove le periferie non le trovi solo ai margini ma anche in centro, dove i confini sono sfocati e le omissioni sono sempre troppe. E hai voglia a dire che è colpa delle istituzioni, del ragazzo ucciso, del poliziotto che ha sparato, delle famiglie, della società. La storia di Luigi, come quelle di Ugo Russo, Davide Bifulco, Mario Castellano e tanti altri giovani finiti all’obitorio per un tentativo di rapina o per evitare un posto di blocco, ricordano che a Napoli non è sempre facile stabilire dove sta il bene e dove il male, che può essere invece molto facile passare dalla ragione al torto e dal torto alla ragione, che la verità non sta sempre nel mezzo e le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere. «Era un ragazzo con una maschera di ferro fuori ma fragile come un cristallo», scrive su Facebook Domenico, uno degli educatori di Luigi. «Era un ragazzo solare e socievole, al corso si impegnava, si vedeva che voleva riscattarsi», ricorda Serena Capozzi, educatrice della cooperativa Il Quadrifoglio presso cui Luigi Caiafa stava seguendo i corsi inseriti nel piano di reinserimento sociale stabilito dai giudici che gli avevano concesso la messa alla prova. Una volta difese un ragazzo vittima di razzismo, e se c’era da dare una mano non si tirava mai indietro. Eppure l’altra notte era con un complice a fare una rapina: 100 euro e tre iPhone presi a tre giovani in auto sotto la minaccia di una pistola giocattolo. Ora il complice è in stato di fermo e oggi affronterà l’udienza di convalida, il poliziotto che ha sparato è indagato per eccesso colposo di legittima difesa come da prassi, e di Luigi restano solo i ricordi e il sogno spezzato di lasciare Napoli e aprire una pizzeria tutta sua. Forcella e il contesto dove è nato e cresciuto gli stavano addosso come una zavorra. Succede a tanti: sognano in grande ma poi si ritrovano a fare i conti con il degrado del loro ambiente, con la scuola abbandonata troppo in fretta (il 40% dei giovani che finiscono in comunità di recupero non hanno la terza media), con un genitore in carcere o un parente nella criminalità organizzata, con i giri in motorino fino a notte fonda, con i soldi per scarpe e orologi griffati da recuperare, anche a tutti i costi.

A Napoli lo Stato per vincere ha perso: ha seppellito i clan che sono stati sostituiti dalle bande. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Sono guaglioni a miez’a via. Figli di una Napoli che partorisce la prole direttamente sul marciapiede, in una nuttata fatta per non passare, prossima a un’alba che è una beffa: così vicina ed eternamente irraggiungibile. Vittime, vittime, vittime: i tentati rapinatori, i poliziotti, i mancati rapinati. Uguali pur essendo diversi, uniti da un appuntamento tragico alle quattro e mezza di mattina, che se stai lì, a quell’ora, la tua vita è in bilico, qualunque sia la giacca che indossi. A Napoli lo Stato ha realizzato il paradosso perfetto: per vincere ha perso. Ha spazzato via i clan con migliaia di arresti e sepolture carcerarie e non ha saputo creare un mondo normale, le opportunità. Ha lasciato che i clan venissero sostituiti dalle bande, dall’anarchia di una malavita stracciona. E Napoli è passata dall’immoralità alla amoralità, la camorra si è trasformata in gomorra e le pistole, a volte finte, sono finite in mano ai bambini: che non c’è un meglio o un peggio, un prima o un dopo. È tragedia sempre, solo con meno speranza, con vie d’uscita ridotte. Luigi guidava il motorino e Ciro stava dietro, la versione della Polizia è che abbiano tentato di rapinare tre ragazzi che avevano appena parcheggiato la macchina. I Falchi della squadra mobile sono intervenuti: Ciro ha puntato la pistola, un poliziotto ha sparato. A terra, faccia alla luna, è rimasto Luigi. La pistola è risultata finta, ma questo non cambia le cose, e non ci saranno piazze piene a chiedere verità, si lascerà urlare una madre in solitudine, la mamma di un ragazzino di 17 anni che non è più figlio della città, ne sta cercando una migliore fra le nuvole. Ha raggiunto Ugo, che per un rolex è morto uguale a 15 anni, qualche mese fa. Staranno insieme ai tanti bambini di Napoli che nella vita hanno fatto da tappeto all’asfalto. Staranno insieme ai morti del passato, che campavano qualche anno in più perché i clan comandavano e i Falchi le pistole le usavano raramente: la camorra era orribile ma restava un fatto da grandi. I bambini, per quel paradosso perfetto della vittoria-sconfitta, non si azzardavano a salire sui motorini di notte, e nemmeno uno soprannominato Carogna si sarebbe lasciato sfuggire il figlio dal controllo. C’era una legge dei fuorilegge, ignobile non buona, ma che aveva una breccia in cui potersi infilare e mutare il destino, si poteva oltrepassarla per costruirle contro qualcosa di buono. La speranza di salvare. Lo Stato ha eliminato i prodotti della disperazione, ha lasciato intatte le ragioni del disagio, e ogni bottega che chiude, ogni saracinesca che si abbassa, ogni porta sbarrata in faccia al bisogno, è una banda che nasce, un cane arrabbiato che si scioglie: infrange un patto sociale tradito. Oggi il terreno è senza punti di riferimento, la malavita è nebbia: l’attraversi e si riforma alle spalle. Napoli non lo ha più un Eduardo che la porti sul palcoscenico, le note di Pino Daniele non li bazzicano i vicoli, il genio di Maradona è sostituito dalla burocrazia dell’ASP. La città nemmeno si è accorta che un bambino è mancato, Napoli è una madre distratta, se accenni alla rapina non pensano a quella in cui Luigi è volato giù dallo scooter: scattano, imprecando, riferendosi al Napoli che non ha giocato a Torino e temono che gli venga rapinata la partita. Luigi è morto perché Napoli, il Sud, non sanno fare le rivoluzioni: i meridionali si agitano un poco per poter dire, dopo, che si stava meglio quando si stava peggio. Per poter fare le restaurazioni, campo in cui sono campioni imbattibili. Luigi è morto perché tutti capissero quanto Napoli sia andata a fondo, con quelli che si aggrappano sulle salite aristocratiche e non le sentono le urla dei bambini, giù nei quartieri.

Il figlio coinvolto nella rapina durante la quale è morto il complice 17enne. Chi è Genny a’carogna, l’ex capo ultras del Napoli e collaboratore di giustizia scaricato dalla famiglia. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. Gennaro De Tommaso è conosciuto ai più come Genny a’Carogna. È salito agli onori della cronaca nella notte della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina del 2014. Il capo ultràs della Curva A degli azzurri – appartenente al Gruppo Mastiffs – mediò in quell’occasione con dirigenti, forze dell’ordine e calciatori. Era il 3 maggio 2014. Quel pomeriggio il tifoso del Napoli Ciro Esposito venne ferito mortalmente da alcuni colpi di pistola all’esterno dello stadio Olimpico di Roma. La Cassazione, per quell’omicidio, ha condannato a 16 anni l’ultras romanista Daniele De Santis il 25 settembre del 2019. Il giorno della finale, il ferimento di Esposito – che morì dopo oltre 50 giorni in ospedale – causò scontri e tensioni. I tifosi napoletani imposero il silenzio anche dei sostenitori viola come condizione per giocare la partita. Fecero il giro del mondo le immagini di a’Carogna con la maglietta “Speziale libero” (il tifoso del Catania condannato per l’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti avvenuto il 2 febbraio 2007 durante gli scontri nel derby con il Palermo) a cavalcioni della balaustra della curva Nord dello Stadio Olimpico. Quando il capitano del Napoli Marek Hamsik gli assicurò che Esposito era in vita, all’ospedale, De Tommaso rispose: “Se menti ti vengo a pigliare”. Dopo quasi un’ora di stop arrivò l’ok per il calcio d’inizio. L’impressione fu che a permettere la finale fosse stato proprio il capo ultràs. In tribuna erano presenti i vertici del calcio italiano e il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ai funerali di Ciro Esposito, De Tommaso era a Scampia alla testa dei tifosi. In seguito fu destinatario di un Daspo di 8 anni. Gennaro De Tommaso è figlio di Ciro De Tommaso, in passato affiliato al clan Misso del Rione Sanità. A’Carogna è stato arrestato e condannato a 20 anni per associazione a delinquere, resistenza a pubblico ufficiale e traffico internazionali di stupefacenti. De Tommaso fu accusato di essere a capo di un traffico internazionale di cocaina tra Napoli, il Sudamerica e Amsterdam. Nel marzo 2019 è diventato collaboratore di giustizia. In Appello ha ricevuto quindi uno sconto di pena a 9 anni con concessione dei domiciliari. Una notizia che a Forcella, il quartiere del centro storico di cui è originario, non è stata ben accolta. “Disconosco mio figlio. Se era ommo, si faceva la carcerazione per la droga e si stava zitto. Quello che sta dicendo sono tutte palle. Nun sape niente”, disse il padre, citato da Il Corriere della Sera. La famiglia dell’ex capo ultràs continua a vivere nello stesso quartiere di Napoli. Il pentimento di De Tommaso venne criticato anche da alcuni ambienti degli ultras. Nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 2020 il figlio di Gennaro De Tommaso, Ciro, è stato arrestato. Il 18 è stato sorpreso nell’atto di compiere una rapina da alcuni poliziotti appartenenti al gruppo dei Falchi. Nell’episodio ha perso la vita il 17enne Luigi Caiafa, complice di De Tommaso, ferito mortalmente dai colpi di un’arma da fuoco.

"Mio figlio ha sbagliato e ha pagato caro". Il papà di Ugo dai carabinieri: “Voglio verità. Se non credessi nello Stato mi sarei buttato giù”. Redazione su Il Riformista il 6 Marzo 2020. “Solidarietà e sostegno ai carabinieri”. E’ il testo presente sul cartello che aveva tra le mani Vincenzo Russo, papà di Ugo, il 15enne ucciso nella notte di domenica 1 marzo da un militare libero dal servizio nel corso di un tentativo di rapina. Vincenzo ha accolto l’invito di Gianni Simioli, conduttore della “Radiazza” su radio Marte e del consigliere ragionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli partecipando al flash mob che questa mattina, venerdì 6 marzo, si è tenuto davanti alla Caserma Pastrengo, sede del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli, dove poche ore dopo la morte di Ugo due persone in sella a uno scooter hanno esploso diversi colpi d’arma da fuoco. “HA SBAGLIATO MA VOGLIO VERITA'” – “Io, mia moglie e i miei figli vogliamo soltanto la verità per la morte di Ugo. Lui ha sbagliato e ha pagato caro, non voglio giustificare il suo gesto ma questo non deve più capitare perché è un dolore troppo forte” ha spiegato Vincenzo ai giornalisti presenti. L’uomo ha ribadito la propria fiducia nello Stato annunciando di voler trasformare la rabbia e il dolore per la morte del figlio in aiuto per i giovani a rischio.

“CREDO NELLO STATO” – “Senza carabinieri, polizia, guardia di Finanza, senza lo Stato in generale ci ritroveremmo in piazza con le frecce come gli indiani, saremmo tutti prede e predatori” osserva aggiungendo: “Io credo nello Stato anche perché in caso contrario dovrei solo salire su un terrazzo e buttarmi giù”. A chi gli chiede se la sua presenza al flash mob sia una provocazione all’Arma, Vincenzo chiarisce: “Sono stato invitato in diretta Radio dal consigliere Borrelli e da Simioli. Non si tratta di nessuna provocazione”. Poi sulla devastazione del pronto soccorso spiega: “C’è chi addirittura ha sostenuto che siamo stati io e mia moglie ad organizzare tutto, radunando persone con l’intenzione di sfasciare l’ospedale”.

“NON SAPEVO DELLE RAPINE” – Intanto l’autopsia sul corpo di Ugo è stata effettuata alle 14 al Secondo Policlinico di Napoli. “Non sappiamo ancora quando si faranno i funerali” chiarisce il genitore ricordando poi quei drammatici attimi: “Quando mi hanno chiamato e mi hanno detto che avevano sparato a Ugo, pensavo fosse stato vittima di qualche stesa o di una rissa tra ragazzi. Se avessi saputo che mio figlio andava in giro a fare le rapine, sarei andato a prenderlo in strada”.

“LAVORAVA PER 50 EURO A SETTIMANA” –  Vincenzo racconta che “a Ugo imponevo di andare a lavorare, ha fatto il barista per 50 euro a settimana dalle 8 di mattina alle 8 di sera. Poi il fruttivendolo. Quando si lamentava per gli orari e la paga gli davo un altro 50 euro a settimana. Poi ha iniziato a fare il muratore, lavorava alla giornata. Era molto forte fisicamente, più forte di me”.

LA FEDINA PENALE – In questi giorni sono stati più volte sottolineati i precedenti con la giustizia (come rapinatore) del papà di Ugo: “Chi ci condanna a prescindere in base al nostro passato ha il veleno in corpo. Non si può parlare così sulla morte di un ragazzo di 15 anni” ha precisato prima di negare qualsiasi contatto con il carabiniere 23enne che ha ucciso suo figlio: “Non c’è stato nessun contatto con il carabiniere che ha ucciso Ugo. Non lo abbiamo  mai sentito. La famiglia del suo amico (il complice di 17 anni finito in Comunità, ndr) viene tutte le sere a casa mia e piangiamo insieme”.

Carabiniere “dispiaciuto” per omicidio 15enne. Il papà: “Non era una rapina ma una ragazzata”. Redazione su Il Riformista il 2 Marzo 2020. Si dice “dispiaciuto” per la morte del 15enne ma “sereno e fiducioso nella giustizia”. Queste la parole, filtrate attraverso il suo legale (Enrico Capone), del carabiniere di 23 anni che nella notte tra sabato e domenica ha ucciso con un colpo di pistola al torace e uno al collo Ugo Russo, nel corso di un tentativo di rapina del Rolex che il militare indossava. La vittima, che si trovava in compagnia di un complice di 17 anni (sottoposto a fermo di indiziato di delitto dalla procura per i Minorenni di Napoli per la tentata rapina), impugnava un’arma scenica ma di ferro, circostanza questa che avrebbe potuto trarre in inganno il giovane carabinieri. Secondo il legale, l’atteggiamento del 23enne, entrato nell’Arma da pochi mesi e in servizio a Bologna,  è stato “impeccabile”. Il militare ha raccontato – stando alla versione diffusa dal Comando Provinciale dei carabinieri di Napoli – di essersi ritrovato una pistola puntata alla testa e nel tentativo di difendere anche la sua fidanzata, presente in quei drammatici momenti, ha deciso di sparare.

OMICIDIO VOLONTARIO – Al momento risulta indagato omicidio volontario ma la sua posizione potrebbe cambiare dopo l’esito dell’esame autoptico sul corpo del 15enne. Da chiarire la traiettoria dei proiettili, soprattutto del secondo, esploso probabilmente mentre il giovane rapinatore era girato. Le indagini sono condotte dal Reparto operativo sotto il coordinamento del pm Simone De Roxas, del pool diretto dal procuratore aggiunto Rosa Volpe. Gli investigatori sono a lavoro anche per identificare le persone che dopo il decesso del 15enne hanno devastato il pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini.

OROLOGIO E CATENINA D’ORO ADDOSSO – Il 15enne aveva addosso un altro orologio Rolex e una catenina. A trovarli, negli indumenti della giovane vittima, sono stati i medici del pronto soccorso dove il ragazzo, esanime, è stato portato dopo essere stato colpito.

“UNA RAGAZZATA” – La famiglia di Ugo è assistita dall’avvocato Antonio Mormile. Non si dà pace Vincenzo Russo, il padre della vittima. L’uomo, già noto agli archivi di polizia, chiede giustizia per il figlio. Spiega che il carabiniere gli ha sparato mentre era di spalle dopo un primo colpo al torace che gli avrebbe fato fare un balzo di diversi metri.  “Una volta finito a terra si è rialzato per scappare, ma a quel punto il militare gli ha puntato la pistola contro sparando una seconda volta e colpendolo alla nuca mentre Ugo era di spalle”. Secondo il genitore del 15enne, il militare avrebbe poi provato a inseguire il complice, esplodendo un terzo colpo d’arma da fuoco che non è andato a bersaglio. “E’ stata un’esecuzione a tutti gli effetti e per questo deve essere condannato”. In una intervista video al Corriere.it, Vincenzo Russo minimizza il tentativo di rapina: “Non voleva davvero farla, era una ragazzata. Se uno va a fare una rapina non lascia il tempo di far prendere la pistola a chi la subisce”. I parenti di Ugo si associano al dolore del genitore: “Nessuno dice che Ugo era un santo ma così non si può morire. Se uno sbaglia va punito con l’arresto non con la morte”.

L'intervista. Ucciso da carabiniere, Giovanni Bifolco: “Ugo giustiziato come Davide, noi vittime dello Stato”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Marzo 2020. Davide Bifolco e Ugo Russo. Sono entrambi figli dei luoghi abbandonati dallo Stato. Il primo ucciso a 16 anni nel Rione Traiano, la notte del 5 settembre 2014, al termine di un inseguimento con una gazzella dei carabinieri. Davide, insieme ad altre due persone, era in sella a uno scooter che non si fermò all’alt dei militari e venne successivamente speronato. Tentò la fuga a piedi e, mentre era a terra, venne raggiunto da un proiettile al petto partito dalla pistola d’ordinanza di un carabiniere, all’epoca poco più che trentenne. Davide non era armato, era su un “mezzo” senza assicurazione e con a bordo, secondo la tesi degli investigatori, un ragazzo (Arturo Equabile) ricercato per reati contro il patrimonio. Il militare che lo ha ucciso nel 2018 è stato condannato in Appello a due anni con pena sospesa per omicidio colposo. Ugo Russo, nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli (zona periferica, quindi abbandonata, del centro di Napoli) è stato ucciso a 15 anni domenica 1 marzo. A sparare un carabiniere libero dal servizio nel corso di un tentativo di rapina. Ugo, che impugnava una pistola scenica di ferro e – secondo quanto accertato successivamente da medici e forze dell’ordine – era già in possesso di un orologio d’oro e una catenina, voleva impossessarsi del rolex che il giovane militare di 23 anni (in servizio da pochi mesi a Bologna) aveva al polso. Così si è avvicinato alla Mercedes, ha puntato la pistola contro il carabiniere, che si trovava in auto con la fidanzata, provocando la reazione di quest’ultimo. Tre i proiettili partiti in rapida successione dalla sua arma d’ordinanza. Il primo ha raggiunto Ugo al torace, il secondo alla nuca, il terzo, rivolto contro il complice di 17 anni, non è andato a bersaglio. Il militare, originario dell’area flegrea di Napoli, è al momento indagato per omicidio volontario in attesa che l’autospia, gli esami balistici e le eventuali immagini della telecamere di videosorveglianza chiariscano la dinamica di quanto accaduto. Dopo la morte di Ugo si sono vissute scene di ordinaria follia: dal pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini sfasciato da parenti e amici della giovane vittima agli spari all’esterno del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli ad opera di due persone a bordo di uno scooter. Davide e Ugo sono vittime di uno Stato assente, che in questi giorni, così come sei anni fa, si mostra in passerella solo nella fase iniziale, annunciando provvedimenti, interventi, soluzioni, salvo poi ritirarsi lasciando sempre più allo sbando la vita di chi abita in zone sfortunate della città. Sei anni dopo l’uccisione di suo figlio, Giovanni Bifolco aspetta ancora il risarcimento da parte dello Stato. Nel frattempo ha scontato da pochi mesi una vecchia condanna per furto ed è orgoglioso del successo internazionale di “Selfie“, il docu-film realizzato da Agostino Ferremte candidato ai prossimi David di Donatello. Giovanni – attraverso il Riformista – manda un messaggio alla famiglia di Ugo, consigliando loro di andare avanti provando a trasformare “il dolore in possibilità per le persone, soprattutto i minori, che sono a rischio. Perché lo stato è l’elefante e noi siamo la formica.  La perdita di un figlio – spiega – è una ferita che non guarirà mai, vi consiglio di essere forti e di andare avanti trasformando il dolore in possibilità per le persone, soprattutto i minori, che sono a rischio. Perché lo stato è l’elefante e noi siamo la formica”. Per Giovanni “siamo tutti responsabili per la morte di Ugo, io in primis. Sapevo che sarebbe successo un episodio del genere. E’ stato ammazzato, giustiziato, così come è avvenuto con mio figlio, anche se si tratta di due situazioni differenti: Davide era su un motorino senza assicurazione che non si è fermato a un posto di blocco, lui è andato a fare una rapina. Entrambi però sono morti di Stato”. Il carabiniere che ha ucciso suo figlio Davide, che il mese prima dell’omicidio non partì per il ritiro con le giovanili del Padova perché litigò con il suo talent scout, è stato condannato dove una lunga querelle giudiziaria a due anni con pena sospesa. “La cosa che mi fa più soffrire è che alla fine queste persone non pagheranno nulla. Aldrovandi, Budroni, Mangarini, tutti questi morti nessuno li ha pagati. Chi ammazza deve pagare, sia se si tratta di camorra che di Stato. Se tu spari una persona una prima volta, non puoi mirare alla testa la seconda volta. Paradossalmente la famiglia Bifolco è diventata carnefice dello Stato, è come se noi avessimo ammazzato il carabiniere”. “C’è una mafia all’interno dei carabinieri, della polizia, della guardia di Finanza. Non si può fare solo repressione” chiosa duramente Bifolco che racconta la sua ultima vicenda giudiziaria: “Per un reato di 12 anni fa, mi notificarono una condanna definitiva a 9 mesi e 27 giorni. Sono stato 3 mesi nel carcere di Secondigliano a Napoli, poi ho finito di scontare tutto ai domiciliari. Non ho avuto nessuna pena alternativa perché sono stato definito elemento pericoloso. Il motivo? Ho diverse denunce per oltraggio e minaccia a pubblico ufficiale. I miei sfoghi contro le forze dell’ordine sono diventati minacce per loro, io invece ero solo arrabbiato e deluso da quanto accaduto a mio figlio”. Giovanni vive da sempre nel rione Traiano, frazione del quartiere di Soccavo, dove lo Stato è quasi inesistente. “Qui mancano strutture, palestre, oratori. Viviamo in luoghi abbandonati dalle Istituzioni. In periferie si chiudono scuole anziché aprirle, non vengono offerte alternative ai ragazzi. Per questo – spiega – non ci dobbiamo porre il problema sul perché Ugo ha commesso la  tentata rapina, ma sul perché lo Stato abbandona questi giovani“. Dal lavoro che non c’è a un’idea, tutta particolare, sui reati minori: “Se non c’è impiego una famiglia come fa ad andare avanti? I piccoli delinquenti sono la Cassa del Mezzogiorno perché senza loro si fermano gli avvocati, gli uscieri, i giudici, i falegnami, i fabbri (perché noi scassiniamo le porte). ‘Se ci fermiamo noi – mi disse un mio compagno di cella –  finisce l’economia del mondo’. Poi se vogliamo pure pensarla in chiave religiosa: Gesù sulla croce ha salvato il ladrone (Barabba, ndr)”.

Vicenda Ugo Russo ci insegna che armi a tutti non portano sicurezza ma follia. Alberto Cisterna su Il Riformista il 4 Marzo 2020. Caro Direttore lei ha ragione quando, nell’editoriale di ieri, ha invitato tutti a sospendere ogni giudizio, a evitare di dar fiato alla propaganda partigiana che vorrebbe, sempre comunque e a qualunque costo, che ci si schierasse a sostegno del giovane carabiniere o dell’adolescente rapinatore ucciso a Napoli. Schierarsi così, puramente e semplicemente, senza conoscere la dinamica della tragedia, senza un’autopsia e senza una perizia balistica; schierati per puro pregiudizio. Pochi mesi or sono il medesimo dramma, quasi il medesimo dramma, si è consumato a Roma a parti invertite. Un altro carabiniere, anche lui in abiti civili e anche lui dopo essersi qualificato, e un altro giovane che lo avrebbe accoltellato ferocemente e senza una ragione. Il processo è appena iniziato a Roma e, anche questa volta, una partigianeria congenita spacca l’opinione pubblica, evoca buchi neri, giustifica o crocifigge senza sapere con esattezza cosa sia successo. Due morti, due giovani vite spezzate. Anzi quattro giovani esistenze sfregiate e mutilate. Carnefici e vittime, a quella età, si distinguono a stento solo dalle mani sporche di sangue. Le strade sono luoghi pericolosi. A Roma come a Napoli. L’idea del baby rapinatore mezzo camorrista accresce l’eccitazione dei seguaci della giustizia sommaria, gratifica la convinzione che a farsi ragione da sé i cattivi hanno tutto da perdere, rafforza l’idea che armando i cittadini la sicurezza aumenterà e i malvagi, la prossima volta, ci penseranno bene prima di aggredire qualcuno. Ma, a ben guardare, quella di Napoli è una triste vicenda in cui un cittadino “carabiniere” – e, quindi, solo per questo in possesso in un regolare porto d’armi – ha aperto il fuoco per difendere oggetti di sua proprietà da un giovanissimo rapinatore che aveva una pistola giocattolo. Poiché manteniamo fede all’impegno che ci è stato chiesto di non prendere posizione sull’accaduto, confermiamo che è giusto attendere per comprendere cosa sia capitato. Ma tutto ciò non esime dal ricordare quante critiche ebbero a sollevarsi prima e dopo l’approvazione della legge sulla legittima difesa e quanto forte sia stata e sia ancora la spinta – soprattutto da parte di alcuni settori della politica – a rendere ancora più liberi la circolazione e l’uso delle armi. Non esistono statistiche ufficiali che ci dicano quante persone restino uccise o ferite per legittima difesa in Italia: bisogna attendere lunghi e complessi processi per stabilirlo, appunto. Quel che sappiamo, però, è che un giovane carabiniere, ben addestrato, colto di sorpresa dall’aggressione di un rapinatore ha sparato tre colpi di pistola. Il fatto che l’arma fosse una replica, che il rapinatore avesse 15 anni, che la rapina avrebbe fruttato pochi spiccioli non sono però il contorno della vicenda, ma ne rappresentano – paradossalmente – l’essenza più cupa e ammalorata. La tragedia di Napoli, la doppia tragedia di Napoli, dovrebbe essere evocata ogni qualvolta si soffia sul terreno della paura e si invoca il ricorso alle armi come la strada principale per la difesa personale dal crimine. Se un giovane carabiniere, con tutto il suo bagaglio di prontezza di riflessi e con tutta il suo accurato addestramento, ha aperto il fuoco in una condizione come quella di Napoli, c’è da chiedersi cosa accadrebbe se quelle pistole finissero disinvoltamente nelle mani di panciuti commercianti o di sprovveduti tabaccai. Lo Stato ha il dovere di proteggere, anche con le armi, la vita dei propri cittadini da ogni atto violento. Ma un identico dovere non è previsto per la difesa della proprietà privata la cui protezione con la forza è consentita dal codice penale (art.53) solo se si sta commettendo una rapina a mano armata. Quel giovane carabiniere avrebbe forse potuto sparare, dopo una ponderata decisione frutto del suo addestramento, se fosse stato in servizio e fosse intervenuto a difesa di qualcuno, ma avendo difeso sé stesso in quel momento era un cittadino qualunque e ha consumato il dramma di un cittadino come tanti altri. Ed è a quell’uomo di ogni giorno, pacifico e impaurito, baldanzoso e impacciato, laborioso e guardingo che occorre volgere lo sguardo oggi in questi giorni di sbigottimento e di tristezza. Certo aspettiamo di sapere com’è andata, caro Direttore, ma nel frattempo quel sangue versato aiuti a comprendere quanto pericolosa e tragica sia la strada delle armi dispensate con generosità a tutti.

Luigi Caiafa, il 17enne morto per una pistola finta. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. È morto a 17 anni Luigi Caiafa, all’alba del quattro ottobre fra le vie di Napoli, durante un tentativo di rapina, ucciso da un colpo di pistola da uno dei poliziotti intervenuti sul posto. La dinamica di quanto avvenuto resta però ancora da chiarire. Pare che Caiafa fosse in compagnia di Ciro De Tommaso; con il volto coperto dal casco, avrebbero minacciato tre persone – con una pistola che si è in seguito rivelata un giocattolo – intimando di consegnare loro denaro e cellulari. Poi l’intervento dei Falchi della polizia e la morte del giovane. Il ragazzo, figlio di Ciro Caiafa, in passato ritenuto elemento di spicco dei Mazzanti-Terracciano del Centro storico, a ottobre dello scorso anno era stato arrestato a seguito di un blitz antidroga, ma aveva ottenuto la messa alla prova. «Voleva lasciare Napoli per avere un futuro diverso. Chiedo verità e giustizia sulla morte di mio figlio, voglio sapere come e perché è stato ammazzato», fa sapere la madre. Aveva ammesso le proprie responsabilità per quelle dosi di cocaina in tasca ed era stato mandato in una comunità di recupero che aveva ottenuto il permesso di lasciare, per intraprendere un percorso formativo, di lavoro e di riabilitazione. Ma cosa ci faceva lì Luigi? Secondo la versione ufficiale Caiafa era in sella a uno scooter rubato per compiere una rapina insieme a De Tommaso, figlio dell’ex narcotrafficante Gennaro De Tommaso. Alcuni parenti del ragazzo ucciso raccontano una storia diversa e dicono: non è detto che Luigi stesse facendo una rapina, era lì per incontrare alcuni conoscenti. E poi quell’ultimo incontro, dieci giorni fa, con don Antonio Carbone, il sacerdote della comunità per minori di Torre Annunziata dove il giovane era ospite, che racconta: «Mi ha detto poco convinto “don Antò tutto bene”…».

Il guappo e il militare: dove sta il bene e dove il male. Morte del ragazzino, piangiamo Ugo senza mettere alla gogna il carabiniere

Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Marzo 2020. Il carabiniere che nella notte tra sabato e domenica ha sparato e ha ucciso un ragazzino che lo stava rapinando ora è accusato di omicidio volontario. È un ragazzo di 23 anni. La vittima della sua rivoltella è un ragazzino di 15 anni: si chiamava Ugo Russo. Gli amici di Ugo nella notte di sabato hanno dato l’assalto al pronto soccorso e poi c’è stata una protesta anche davanti alla caserma dei carabinieri dove si era rifugiato lo sparatore. Come sono andate precisamente le cose lo stabiliranno i magistrati. Bisognerà aspettare l’autopsia e controllare se c’è qualche ripresa buona delle telecamere. Il carabiniere ha sparato tre colpi. Il primo al petto, poi ha sparato ancora due volte, alla testa e al collo. Probabilmente ha avuto paura, ha avuto molta paura, non gli era mai successa una cosa così, oppure un misto di paura e di sicurezza nei suoi mezzi di militare. Il carabiniere giura di essersi qualificato, prima di sparare, e di avere avuto la certezza che il ragazzino aveva messo il colpo in canna, facendo scorrere il carrello della sua beretta, e poi ha detto che la beretta gli era stata puntata alla tempia. La beretta, si è saputo più tardi, era finta. Ugo faceva la faccia feroce da guappo, ma non aveva un’arma. Ha puntato la finta beretta alla tempia, o l’ha solo mostrata? Ha fatto scorrere il carrello per far paura al ragazzotto che si trovava davanti a lui? Vedremo, vedremo. Per ora abbiamo solo due testimonianze. Quella del carabiniere e quella dell’amico di Ugo, un ragazzetto di appena due anni più grande, 17, che guidava il motorino con il quale è stata tentata la rapina. Più o meno le cose sono andate così. Il motorino si è fermato vicino ad un’auto che stava parcheggiando. Ugo Russo è sceso con la finta pistola in mano e si è avvicinato al guidatore. Aveva già visto che aveva un rolex al polso e gli ha detto di slacciarsi l’orologio e di consegnarglielo. Il guidatore dice di aver reagito anche per proteggere la sua ragazza, che stava sul sedile a fianco. Avrebbe gridato: “Sono un carabiniere!”. Senza ottenere nulla. E allora avrebbe risposto all’aggressione facendo fuoco. Una volta e poi altre due. Secondo l’altro testimone, cioè il ragazzo che stava sul motorino, e che ora è accusato di tentata rapina, Ugo non avrebbe puntato la pistola alla tempia, e il carabiniere avrebbe sparato prima al petto, ma il colpo non è stato mortale, anzi Ugo sarebbe riuscito a rialzarsi e a scappare verso il motorino, e a questo punto sarebbero arrivati i due colpi decisivi che lo hanno abbattuto e ucciso. Il ragazzo dice che il carabiniere avrebbe sparato anche contro il motorino, e che lui è scappato via ed è andato a cercare riparo a casa della nonna. Molte di queste circostanze potranno essere accertate già dalle prime indagini. Quanti colpi ha sparato il carabiniere, in che posizione si trovava il ragazzo quando è stato colpito dagli spari che lo hanno ucciso. Altri dettagli importanti sarà più complicato accertarli, se non ci sarà l’aiuto delle telecamere. Per esempio sarà difficile sapere se effettivamente Ugo abbia puntato la pistola alla tempia del carabiniere. Ugo era un ragazzo della Napoli povera e malavitosa. Da quel che si capisce, anche il carabiniere. Che era solo un po’ più grande di lui, e qualche anno fa era andato a cercare al Nord un lavoro. Si era sistemato a Bologna, nell’Arma, e l’altra sera era a Napoli per una vacanza. Per una maledettissima vacanza. Mentre Ugo aveva deciso di dedicare qualche ora a fare il guappo, il ragazzo della mala. In tasca gli hanno trovato un rolex e una catenina d’oro: probabilmente prima di incontrare la morte aveva fatto un’ultima rapina. Era un baby rapinatore abituale? Il padre dice di no, giura che era un ragazzo perbene, come il suo amico. Noi non lo sappiamo. Ci colpisce solo quel particolare, molto infantile, della fuga del suo amico a casa della nonna a cercare protezione. Non è da “uomo grosso”. È da piccirillo. Mi chiedo se è lecito piangere Ugo. Io credo di sì. Il ragazzino Ugo ucciso a revolverate. Il guappo Ugo, il figliolo Ugo, il piccolo Ugo, Ugo il ribelle, il disperato, il rapinatore, forse lo studente, il fidanzato, il nipotino. Si può piangerlo senza giudicarlo? Si può dire che non è giusto che un ragazzetto che ha appena finito le scuole medie sia scannato in mezzo alla strada da un carabiniere? A me viene da dirlo. E poi si può evitare di linciare il carabiniere? Io, personalmente, penso che abbia fatto una cosa orribile a sparare. Stavano per rubargli un orologio, giusto? Un orologio sul piatto della bilancia e la vita di un ragazzo sull’altro piatto: dove pende la bilancia? Si può chiedere che questo carabiniere non sia messo alla gogna da nessuno? Dovrà pagare caro questo errore commesso a 23 anni, di notte, impaurito o stupidamente inorgoglito dall’avere un revolver? Lo pagherà, tranquilli, lo pagherà tutta la sua esistenza, perché nessuno gli leverà mai di mente il ricordo di quei trenta secondi assurdi nei quali ha levato la vita e la speranza a un ragazzino. Ci penserà da solo a pagarla. Magari noi evitiamo di ergerci a giudici, a censori, a giusti, a gente proba che sa dove sta il bene e il male. Guardate la storia di Ugo e del carabiniere e ditemi se qualcuno, in buonafede, sa dirmi dove è il bene e dove è il male… 

Inseguito da poliziotto dopo rapina, urla: “Sparami lota”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 3 Marzo 2020. Armato di pistola e con il volto coperto da uno scaldacollo e da un cappello di lana, ha fatto irruzione domenica sera (1 marzo) all’interno del Carrefour di via Solario al Vomero facendosi consegnare da due dipendenti i soldi presenti nelle casse, circa 1500 euro. Erano le 20.30 e tra i pochi clienti presenti c’era anche un poliziotto libero dal servizio che ha provato a inseguire il malvivente all’esterno del supermercato, rovinando i piani del rapinatore solitario che aveva parcheggiato poco distante uno scooter. Durante la fuga a piedi – secondo quanto riferito da alcuni testimoni al Riformista – il malvivente, probabilmente a conoscenza di quanto successo la notte precedente, quando un carabiniere ha ucciso a colpi d’arma da fuoco un ragazzino di 15 anni intento a rubargli un Rolex, ha ripetuto più volte in modo provocatorio la stessa espressione: “Sparami lota“. Parole che non hanno intimorito l’agente che, tuttavia, non è riuscito ad acciuffarlo, anche perché durante l’inseguimento ha rischiato di essere investito da un’automobile che transitava nelle traversine comprese tra piazza Medaglie d’Oro e via Piscicelli. Il rapinatore è riuscito così a dileguarsi lungo i giardinetti di via Ruoppolo ed è attualmente ricercato dalla polizia. Sul posto sono intervenuti gli agenti dell’Ufficio Prevenzione Generale della polizia, oltre al responsabile territoriale sicurezza Carrefour Nino Giudice e al responsabile guardie di sicurezza “Sicuritalia” Enzo Nugnes. Quest’ultimi infatti, ispezionando l’area esterna al supermercato, hanno notato uno scooter parcheggiato e a poca distanza, nascosto parzialmente sotto a un’auto in sosta, uno zaino. All’interno erano presenti indumenti e un paio di scarpe probabilmente riconducibili al rapinatore. Quest’ultimo, con il passare delle ore, sarebbe stato identificato dagli agenti di polizia ed è attualmente ricercato.

La piccola Napoli che ha ucciso Ugo Russo. Errico Novi su Il Dubbio il 4 marzo 2020. Era una capitale. È diventata periferia. Con una politica sempre più marginale e persino una camorra senza vertici né strutture. Una città nuova, diversa, ma spesso minima anche nei buchi neri che risucchiano la vita di un quindicenne. Napoli non c’è più. È un’altra città. Altra da come la si immagina. È diversa nel suo splendore, sfiorito e rinato allo stesso tempo. È stravolta nelle sue piaghe, solo in apparenza uguali a loro stesse. Se non si crede alla diversità di Napoli non si capisce la tragedia di Ugo Russo. Non ci si dà una logica per un quindicenne che gioca con la pistola. Non basta, a spiegare tutto, l’eventuale eccesso — o addirittura impulso omicida, se venisse dimostrato — del carabiniere che lo ha ucciso. Napoli nei giorni scorsi si è trovata a contemplare l’ologramma consunto di un suo vecchio e sanguinario re, Raffaele Cutolo, malato e riemerso dopo anni dal buio del 41 bis. Ha riscoperto per un attimo il suo passato di morte. A inizio anni Ottanta la capitale del Mezzogiorno si trovò lacerata dalla più feroce guerra fra eserciti del crimine che la storia del Dopoguerra ricordi: la Nco del “professore” e la Nuova famiglia dei Nuvoletta, degli Alfieri e di Bardellino. Furono anni di sangue, lutti, ferocia e soggezione dello Stato. Non si poteva che assistere inermi. Prevalse la fazione più giovane e, pur nell’instabilità delle logiche malavitose, Napoli conobbe un consolidarsi di alcune potenti famiglie camorriste: oltre agli Alfieri e ai Galasso, padroni in provincia ma influenti ovunque, anche i Nuvoletta, i Polverino e poi via via verso l’epicentro della metropoli i Contini, i Giuliano di Forcella, Misso alla Sanità. Tiranni del bronx criminale che si fecero guerre spietate, ma che pure erano orientati da un animalesco ordine. Se paragonato con quel passato di sangue, la Napoli di oggi è quasi una città bonificata dai lupi. Grandi boss non se ne vedono, la statistica degli omicidi di camorra è lontana dalle medie spesso prossime ai 200 di un quarto di secolo fa. Persistono grandi enclave dell’antistato come a Scampia e i mille tentacoli del riciclaggio fra il Vomero e il Rettifilo, ma non esiste alcuna direzione strategica del crimine inteso come esercito in armi: esiste solo l’anarchia. Nell’anarchia germoglia la microdelinquenza, anzi la microdevianza. Ugo Russo non era un ragazzo segnato, lo è il contesto in cui la devianza giovanile è pratica ordinaria. Ma tutto questo cosa c’entra con il grande epicentro del crimine e della violenza camorrista che Napoli è stata fino a alla faida di Scampia dei primi anni Duemila? C’entra poco, come c’entra poco con la Napoli dei ministri onnipotenti che negli anni Ottanta ha convissuto con l’underground criminale di Cutolo e Alfieri. La guerra camorrista di allora era un alibi per una politica potente che non poteva mantenere tutte le sue promesse. L’anarchia da banditismo molecolare di oggi è il riflesso di un’anarchia politica in cui la scena nazionale, a Napoli, non offre più alcuna proiezione di sé. I soli leader riconoscibili, de Magistris e De Luca, sono due figure nettamente isolate dal contesto nazionale. Non si trova un senso alla morte di Ugo. E si fatica a trovarlo anche a quel ventre molle che Napoli non smette di avere. Ma forse il solo significato possibile è in questa condizione anarcoide e ormai periferica, marginale. Priva di poteri criminali veri e stabili, ma priva anche di un potere politico capace di radicarsi. Napoli non è più capitale. È una meravigliosa e inquietante città di periferia, alle propaggini remote dello Stivale. Non vive né di sogni industriali come l’Italsider e le fabbriche che un tempo appestavano la Zona Orientale, né di grandi provvidenze pubbliche. Sopravvive di turismo, del turismo molecolare dei bed and breakfast. Non ha più il ceto medio dinamico e clientelare di trent’anni fa. Non ha più alcun ceto medio. Fra l’aristocrazia dei patrimoni (ereditari o di opaca origine) e il sottoproletariato immerso nell’illegalità, esiste solo un unico indistinto ceto intermedio, che confonde popolari e borghesi. Vivono tutti di ciò che resta: l’accoglienza turistica diffusa, appunto, il solito impiego pubblico e un tessuto di microimprese larvale e incerto, con punte di eccellenza e grandi improvvisazioni. Napoli è insomma diventata piccola. Ancora grande nelle sue tragedie, ma spogliata di abitanti (rispetto al 1991 ne ha persi quasi 300mila, circa un quarto), di intelligenze, di giovani, di insediamenti produttivi. È una città quasi solo turistica, come certi luoghi del Sud della Spagna, Marbella per esempio, ma senza poterselo davvero permettere vista la pressione demografica comunque imponente, se si considera l’hinterland. È deprivata del suo passato, grande e terribile, del potere politico e del potere criminale. È diventata nuova, diversa, ma spesso minima anche nei buchi neri che risucchiano la vita di un quindicenne, tradito dall’illusione di una pistola finta.

Da "ilmessaggero.it" l'1 marzo 2020. Un 16enne napoletano, Ugo Russo, è morto durante un tentativo di rapina a un carabiniere. Il ragazzo stato ferito da colpi di pistola alla testa e al torace ed è morto in ospedale a Napoli dopo il tentativo di salvarlo da parte dei medici. Il minore era stato soccorso questa notte da un'ambulanza del 118 in via Generale Giordano Orsini, nella zona di Santa Lucia. Con lui c'era anche un complice che si è costituito durante la notte. È stato ritrovato il motorino in sella al quale si trovava Ugo Russo. Abbandonato dal complice 17enne, fermato per rapina, è ora sotto sequestro. La sparatoria sarebbe iniziata quando un carabiniere fuori servizio di 23 anni (impiegato nel bolognese), in auto con la fidanzata, è stato aggredito dal giovane rapinatore che, travisato, pistola in pugno e assieme a un complice, ha puntato l'arma contro il carabiniere che stava parcheggiando, per rubargli l'orologio Rolex. Da una prima ricostruzione, il militare avrebbe spiegato di aver sentito "scarrellare" la pistola del rapinatore. A quel punto ha preso la sua arma, sparando contro il bandito. Le sue condizioni del ragazzo erano apparse subito molto gravi per le ferite d'arma da fuoco riportate. Il 16enne trasportato all'ospedale Vecchio Pellegrini era stato ricoverato nel reparto di Rianimazione ma è deceduto a causa della grave compromissione delle sue funzioni vitali. L'area del pronto soccorso del presidio della Pignasecca è stata letteralmente assalita da familiari e amici del minore che, dopo la notizia della morte del 16enne, sono entrati in ospedale e hanno devastato computer, macchinari, barelle e presidi medici. Sul posto è intervenuta la Polizia di Stato. Spari contro la caserma dei carabinieri. Una domenica mattina da far west. Ben quattro i colpi di pistola esplosi alle 4 del mattino all’esterno della caserma Pastrengo, sede del comando provinciale dei carabinieri a Napoli, subito dopo la morte del 16enne. Sono stati avvistati due ragazzi in sella a uno scooter che hanno esploso i colpi in aria all’esterno della Pastrengo, all’interno della caserma dei carabinieri dove erano state portate alcune donne parenti del presunto complice del minorenne. Gli spari potrebbero essere stati esplosi come manifestazione di violenza contro l’Arma, ma anche e soprattutto contro le donne dell’altro ragazzino invischiato nella rapina, ritenendolo responsabile di non aver protetto il 15enne. L'arma del ragazzo-bandito era una pistola finta, replica in metallo di una Beretta. Era una replica di una pistola vera, in metallo e del tutto simile a quella in uso alle forze dell'ordine, fanno sapere i carabinieri, quella utilizzata dal minorenne ucciso la notte scorsa da un militare in abiti civili durante un tentativo di rapina a Napoli. Le stesse fonti rilevano che era uguale al modello Beretta 92. Le indagini sono condotte dal Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del Comando provinciale dei carabinieri. Ascoltato dai carabinieri il complice 17enne. Provengono entrambi dai Quartieri Spagnoli i due ragazzi coinvolti a Napoli nel tentativo di rapina ad un carabiniere in abiti civili finito in tragedia con la morte di uno dei due giovani - Ugo Russo, 16 anni - mentre l'altro, un 17enne, è stato ascoltato per diverse ore dai carabinieri nella sede del Comando provinciale oggetto di un raid con l'esplosione nella notte di quattro colpi di pistola diretti verso il passo carraio della caserma di Via Morgantini, nel centro della città. Sono al lavoro il pm e gli investigatori del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del Comando provinciale. Il carabiniere, si ipotizza, potrebbe essere indagato per omicidio; un atto dovuto, si afferma in ambienti investigativi, per consentire lo svolgimento degli accertamenti 'irripetibili e garantitì che devono essere compiuti in questi casi mentre per il 17enne, presunto complice, ci sono gli elementi per valutare l'ipotesi di tentativo di rapina. Dinamica simile a omicidio carabiniere di Foggia. La dinamica del ferimento di Ugo Russo, morto all'alba di oggi dopo esser stato colpito dal carabiniere che aveva tentato di rapinare, è simile, secondo fonti investigative, a quella dell'uccisione, il 13 aprile scorso, di Vincenzo Carlo Di Gennaro, il 46enne maresciallo maggiore dei Carabinieri ucciso a colpi di pistola da Giuseppe Papantuono durante un controllo a Cagnano Varano (Foggia). Il 67enne, già noto alle forze dell'ordine, fece fuoco contro il vicecomandante della stazione locale dei carabinieri dopo essersi avvicinato all'auto di servizio dove la vittima si trovava insieme al collega 23enne Pasquale Casertano per una segnalazione di lite in famiglia. «Questa notte, dopo il decesso di un sedicenne arrivato in pronto soccorso con ferita da arma da fuoco, il pronto soccorso del presidio ospedaliero dei Pellegrini è stato devastato dai familiari e amici del ragazzo. Un fatto gravissimo per il quale esprimo solidarietà a tutti i nostri dipendenti che ancora una volta sono stati vittime di insulti e minacce, e ancora una volta hanno continuato, nonostante tutto, a prestare assistenza ai pazienti». A stigmatizzare con forza quanto avvenuto nel corso della notte è il direttore generale dell’ASL Napoli 1 Centro Ciro Verdoliva, che durante il sopralluogo all’ospedale della Pignasecca ha constatato gli ingenti danni ad arredi e attrezzature e l’assenza di condizioni igienico-sanitarie conseguenziale ai fatti accaduti. «Sono stato costretto - dice - a chiudere il Pronto Soccorso. Quanto è accaduto ha di fatto creato condizioni che impediscono lo svolgimento delle attività assistenziali di emergenza in condizioni di sicurezza, sia per i pazienti che per gli operatori». Dalle 7.30 l’ASL Napoli 1 Centro ha dovuto dichiarare la sospensione del servizio di pronto soccorso al presidio ospedaliero dei Pellegrini, iniziando contestualmente il trasferimento di otto pazienti presenti al Pronto Soccorso nei reparti dello stesso presidio ospedaliero ovvero - con ausilio del Servizio 118 - in altri ospedali cittadini. Vista l’importanza che tale Presidio Ospedaliero riveste nell’ambito della rete cittadina, i tecnici sono già a lavoro per ripristinare le attività assistenziali al più presto. «La morte di un quindicenne è sempre e comunque una tragedia. Ma è inaccettabile che sia stato devastato, tanto da dover sospendere l'attività, il pronto soccorso dell'ospedale Vecchio Pellegrini di Napoli. Medici e infermieri devono lavorare in serenità per poter curare pazienti in emergenza». Così su Facebook il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, in merito a quanto accaduto in città la notte scorsa. «Ho più volte chiesto con forza che vi sia più vigilanza negli ospedali e nei pronto soccorso - aggiunge - La situazione negli ospedali è già alquanto complicata e mai come di questi tempi è necessaria sicurezza totale. Basta».

Il carabiniere si difende: "Temevo ci volessero uccidere". Il militare continua a dire di essere stato minacciato con la pistola alla tempia. La procura di Napoli ha avviato l’inchiesta per cercare di chiarire quanto avvenuto. Valentina Dardari, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. Il carabiniere che a Napoli ha sparato al 15enne Ugo Russo, uccidendolo, continua a difendersi asserendo: “Temevo ci volessero uccidere”. Ha detto di essere stato minacciato con la pistola alla tempia e di essersi subito qualificato. E, solo dopo aver sentito la pistola scarrellare, di aver sparato, per salvare se stesso e la sua fidanzata. I familiari del giovane rapinatore accusano invece il militare di avergli sparato alle spalle. L’inchiesta della procura di Napoli, guidata dal procuratore capo Giovanni Melillo, e del nucleo investigativo dell' Arma, dovrà fare luce su quanto realmente accaduto quella tragica notte. Per prima cosa sarà importante l’autopsia sul corpo del ragazzo. Oltre alla visione dei filmati registrati dalle telecamere di sicurezza presenti nel quartiere dove è avvenuto il fatto, e la ricostruzione balistica dei tre colpi di pistola. Melillo ha sottolineato che è fondamentale mantenere un “atteggiamento di ponderazione”.

Il carabiniere non avrebbe sparato alle spalle. Sembra comunque che da un primo esame sul corpo della vittima, il carabiniere abbia detto la verità affermando di non aver sparato alle spalle. Il foro presente dietro la testa sarebbe infatti d’uscita e non di entrata. Come riportato da La Stampa, il padre del ragazzo avrebbe detto: “Io non lo so se Ugo abbia puntato o meno la pistola alla tempia di quel carabiniere. Conosco mio figlio per come è a casa con noi, ma quando è fuori come si fa? Non vado mica dietro a lui. Il carabiniere gli ha sparato alle spalle. È stata un' esecuzione, qualsiasi cosa abbia fatto Ugo, perché sparare così?”. Per il momento il carabiniere è indagato per omicidio, non si sa ancora di quale natura. In base agli elementi raccolti ieri, domenica 1° marzo, nella mattinata di oggi, la procura deciderà se si tratta di omicidio volontario o colposo con eccesso di legittima difesa. L’avvocato Gaetano Mormile, legale della famiglia della vittima, ha chiesto l’acquisizione dei video delle telecamere di sicurezza. Il militare, ufficiale di pubblica sicurezza 24 ore al giorno, era corretto avesse la pistola d’ordinanza in ogni momento, e a intervenire in caso di necessità o pericolo. Le indagini della procura stanno indagando anche su quanto avvenuto in seguito.

Il pronto soccorso devastato. Conoscenti e parenti della vittima hanno devastato il pronto soccorso dell’ospedale e alcuni proiettili sono stati sparati contro la caserma del comando provinciale dei carabinieri. “Quanto accaduto stanotte e Napoli, fra rapine, ospedali devastati e sparatorie contro la caserma dell' Arma, descrive uno scenario impensabile in un Paese moderno che voglia dirsi civile. Dove delinquenti armati sono giunti con l'indescrivibile arroganza di una criminalità fuori controllo” ha detto Valter Mazzetti, segretario generale dell' Fsp Polizia di Stato. Le reazioni politiche. Matteo Salvini, leader della Lega, ha detto: “Quando muore un ragazzo è sempre un dramma, ma nessuno può attaccare un carabiniere che, aggredito, ha reagito per difendere la sua vita e la sua fidanzata. Solidarietà a medici e infermieri del pronto soccorso”. Secondo il parere di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, le forze dell’ordine non sono sufficienti, ci vuole l’esercito e una legge speciale. Anche Mara Carfagna, vicepresidente della camera, ha osservato che “la situazione dell' ordine pubblico a Napoli è fuori controllo. Troppi ragazzi senza speranza e prospettive cadono nelle mani della criminalità”. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca del Pd, ha chiesto un posto di polizia all’ospedale Pellegrini. 

Napoli, il 16enne ucciso e il racconto del carabiniere: «Mi puntava la pistola, ho sparato tre volte». Pubblicato domenica, 01 marzo 2020 su Corriere.it da Fulvio Bufi. È un ragazzo pure lui, ed era tornato per passare qualche giorno con i parenti e la fidanzata, non certo per ammazzare qualcuno. Ha ventitré anni e lavora in una caserma in provincia di Bologna il carabiniere che l’altra notte ha ucciso con due colpi di pistola il sedicenne Ugo Russo, che lo stava minacciando con un’arma, rivelatasi poi finta, e voleva farsi consegnare l’orologio. Probabilmente quando il carabiniere ha sparato contro il giovanissimo rapinatore è stata la prima volta che lo ha fatto al di fuori delle esercitazioni di tiro, perché la divisa la indossa da pochissimo. Ha concluso il corso di addestramento nemmeno tre mesi fa e quella emiliana è la sua prima destinazione, così come, con il grado di carabiniere semplice, è al primo gradino della scala gerarchica militare. È stato lui stesso a chiamare i colleghi e a chiedere di fare arrivare subito una ambulanza. Poi li ha seguiti alla caserma Pastrengo, sede del comando provinciale di Napoli, dove durante la notte qualcuno avrebbe poi sparato quattro colpi di pistola contro uno degli ingressi in segno di sfida all’Arma, e dove, prima del raid, un gruppo di donne provenienti dai Quartieri spagnoli ha improvvisato un rumorosissimo picchetto, urlando insulti contro i carabinieri in generale e lui in particolare. Prima dell’arrivo del pubblico ministero, il giovane militare ha dovuto chiedere a un legale di fiducia di raggiungerlo alla Pastrengo, infatti sin dalla prima deposizione è stato ascoltato in qualità di indagato, anche se il reato per cui la Procura intende procedere verrà stabilito soltanto oggi, sulla base delle testimonianze raccolte e dei rilievi sul luogo della sparatoria e degli altri accertamenti fatti ieri dai carabinieri. Visibilmente scosso, il ventitreenne ha ricostruito davanti al magistrato le fasi della tragedia. Ha riferito di essere stato aggredito mentre era in auto con la fidanzata e stava cercando un parcheggio in via Generale Orsini, una strada a ridosso del lungomare. All’improvviso si è ritrovato accanto lo scooter con i due rapinatori, e quello che stava seduto dietro, appunto Ugo Russo, gli avrebbe puntato la pistola alla tempia ordinandogli di consegnare il Rolex che aveva al polso. In un primo momento il giovane carabiniere avrebbe provato ad accelerare sperando di riuscire ad allontanarsi e sottrarsi così alla rapina, ma la sua auto si trovava già in una posizione dalla quale non avrebbe potuto immettersi nuovamente sulla strada. Inoltre, ha riferito il militare, ha avuto la chiara percezione che l’aggressore avesse inserito il colpo in canna, facendo scorrere il carrello posto sulla parte superiore della pistola. Soltanto a questo punto avrebbe deciso di reagire, non prima, però, di essersi qualificato, sperando in questo modo che i rapinatori desistessero. Poi ha estratto la pistola d’ordinanza e ha fatto fuoco. Tre i proiettili esplosi, di cui due hanno colpito Ugo Russo. Il primo al petto, il secondo al capo, con il foro di entrata rilevato alla base del collo. Al carabiniere ha espresso solidarietà Salvini («Nessuno può attaccare un carabiniere»), mentre il viceministro dell’Interno Crimi parla di «tragedia immane da qualsiasi punto di vista».

Un “bravo ragazzo” non punta pistole alla tempia. Giù le mani dal carabiniere! Emanuele Ricucci su Il Giornale il 2 marzo 2020. Ma cosa cazzo si pretende a puntare una pistola alla testa a qualcuno? Seriamente c’è bisogno di affermare “io sto con il carabiniere”? Realmente c’è in giro un dibattito, come un virus, che vede i pro e i contro il carabiniere? Ma veramente le caserme dei Carabinieri, nei luoghi delicati, non hanno postazioni mitragliera con una M249 carica colpo in canna pronta a tirare 473829 colpi al minuto verso chi spara alla caserma? Domande. Inutile pianto greco. La forza di dover stare qui a dimostrare che le foglie sono verdi come atto rivoluzionario. Oggi il carabiniere ha ucciso un quindicenne domani un trentenne, dopo domani un quarantenne. Anche quello è il suo lavoro. Anche questa è la normalità. Brutale fanghiglia sotto le scarpe del giorno italiano. Comunque questo non andrebbe bene. Non andrebbe giù lo stesso a questo girone infernale di strilli e capricci, nel Paese in cui si reclama legge e un omicida, che non indossa nessuna divisa, si becca quattro anni di galera per un morto ammazzato. Un ragazzo problematico, emarginato, deve essere aiutato, non ucciso. Ma se ti punta una pistola in faccia, pronto a spararti, può essere ammazzato. E forse, quella pistola non era mossa dall’emarginazione, ma dalla consapevolezza del suo agire. Specie se quel ferro era puntato in faccia a un carabiniere, che per altro stava rapinando. Quella pistola finta che, però, il quindicenne voleva risultasse vera. Ogni azione piccola porta a un’ineluttabile verità. Il suono dell’assenza, ben più forte di quella di uno sparo. L’assenza di una famiglia che poteva risparmiargli l’inferno e che poteva prendersi cura di lui, anziché distruggere un ospedale. Perché tanti figli dei vicoli dei Quartieri spagnoli, o di quei quartieri simbolo del limite civile di tutta Italia, hanno superato il baratro sputando sangue e paura; ce l’hanno fatta a guardarsi allo specchio, a reinventarsi, ripensarsi, dedicarsi la vita. E hanno schivato come ganci e montanti di una pericolosa montagna di muscoli, le rapine, le sparatorie, la coca, le puttane e le puttanate. Come Fabio Pisacane, calciatore del Cagliari, sulla cui esperienza è uscito un libro di Franco Esposito. E come tanti altri che hanno emarginato l’emarginazione, contro tutto e contro tutti. Viene da sé il vero virus del nostro tempo: l’assenza degli uomini. Purtroppo non si tratta di aver demolito, con la postmodernità, i modelli di autorità. Siamo giunti oltre. Qui si tratta di condannare persino chi è posto lì per difendere la nostra sicurezza. Condannarlo sempre, dubitarne sempre, aumentare lo stress e la pressione sempre, pretendendo, da quell’uomo in divisa, l’impotente controfigura del soldatino di piombo. Per il capriccio di un uomo folla in mutande sul divano. Pertanto, banalmente: cosa avrebbe dovuto fare un Carabiniere rapinato con una pistola, vera o finta, in faccia? Ah, vero: fare la fine di Mario Cerciello Rega. Giusto… Indagate i giardinieri per aver tagliato il prato. Indagate i gelatai per aver servito crema e pistacchio. L’ennesima storia di tristezza all’italiana nell’Italia ridicola, che non termina mai di umiliare se stessa, fotocopia sbiadita di un Paese maturo. Neanche più il coraggio trasgressivo della delinquenza di dover affrontare la morte per vocazione, quella che sa che si può morire. Neanche più il buon senso di evitare lo scatenarsi della tempesta emotiva della curva nazionale. Neanche più l’idea che ad aver ammazzato il quindicenne non sia stata la mano di un carabiniere, ma l’assenza dello Stato, di lavoro, di una formazione, di un’educazione, la disabitudine alla legalità, la sterilità della famiglia. In certe terre, lo Stato e il malessere di vivere non s’incrociano mai. E quando lo fanno, il più delle volte, si sparano addosso.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 marzo 2020. Giovanissimo rapinatore napoletano, Ugo Russo, 15 anni, ucciso a pistolettate da un carabiniere di 23 anni. Una storia incredibile avvenuta nel capoluogo campano, resa ancora più assurda dall' epilogo al pronto soccorso, dove il ragazzino era stato portato dopo la sparatoria che lo aveva colpito: i familiari e i parenti della vittima hanno devastato per rabbia il reparto ospedaliero, chiedendo giustizia. Quale giustizia? Saperlo. I fatti sono ingarbugliati. Tentiamo di fare chiarezza. Il militare dell' Arma fuori servizio è fermo in auto con la fidanzata nella zona di Santa Lucia. Si avvicina Russo con la rivoltella spianata (che poi si rivelerà un giocattolo) e intima all' uomo al volante di consegnargli il Rolex che stringe al polso. Il rapinato avverte il malavitoso: occhio che sono un carabiniere. Il giovinetto se ne infischia e insiste nella sua intimidazione, finché il servitore dello Stato, minacciato, estrae la propria arma e fa fuoco tre volte. Russo, raggiunto dai proiettili alla testa, stramazza e viene trasportato nella struttura sanitaria. Niente da fare: muore. A questo punto scoppia un casino infernale. I congiunti del morto, convinti sia stato commesso un sopruso, distruggono tutto ciò che possono. Una protesta violentissima. Data l' età del loro caro, sono persuasi che questi dovesse essere risparmiato dal tutore dell' ordine, il quale forse prima di premere il grilletto sarebbe stato obbligato a consultare i documenti di colui che gli voleva sottrarre l' orologio. Non hanno tenuto conto che se uno punta a rapinarti, non ti importa la sua data di nascita e reagisci con i mezzi di cui disponi. In altre parole, un bandito, per quanto adolescente, dovrebbe sapere che aggredire un cittadino comporta il rischio di subirne una reazione le cui conseguenze se sono tragiche, pace amen. Non possiamo rimproverare il militare dell' Arma perché non si è fatto sopraffare dal ragazzo. Chi viene aggredito ha il diritto di difendersi come può. Le proteste dei genitori del giovanotto sono comprensibili sul piano umano, non su quello della logica. I nostri figli che prendono una brutta piega continuiamo ad amarli, ma non è lecito giustificarli se commettono un delitto grave quale una rapina e ci rimettono la vita. Chi diventa criminale sappia che tra gli incerti del mestiere c' è una pallottola in testa. 

Ragazzino ucciso da carabiniere durante rapina, il militare ha sparato 3 volte: “Giustizia”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Marzo 2020. Un ragazzo di 15 anni è stato ucciso la scorsa notte a Napoli da un carabiniere di 23 anni libero dal servizio durante un tentativo di rapina. La vittima, Ugo Russo, originaria del quartiere Materdei (il 10 aprile avrebbe compiuto 16 anni), è deceduta all’ospedale dei Pellegrini dove era arrivato in condizioni disperate trasportato dagli operatori del 118. Il tentativo di rapina al militare è avvenuto intorno alle due di notte in via Generale Orsini, nel quartiere Santa Lucia, a pochi passi da lungomare napoletano. Il giovane, armato di pistola e con il volto coperto dal casco e dallo scaldacollo, sarebbe stato colpito da più proiettili, tra cui uno alla testa. Il decesso ha provocato la rabbia di parenti e amici che nel frattempo erano arrivati nel presidio ospedaliero di Montesanto. Si sono vissuti momenti di forte tensione, con il pronto soccorso che è stato letteralmente devastato obbligando il manager dell’Asl Napoli 1 Centro, Ciro Verdoliva, a disporne la chiusura momentanea dalle 7.30 di questa mattina.

LA RICOSTRUZIONE – Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, il 15enne, armato di pistola e con il volto travisato con scaldacollo e casco, giunto in via Generale Orsini con uno scooter guidato da un complice, ha tentato di rapinare l’orologio a un 23enne, che si trovava a bordo della propria auto, in compagnia di una ragazza.

IL MILITARE HA SPARATO 3 VOLTE – La vittima, Carabiniere in servizio in provincia di Bologna, sotto la minaccia dell’arma puntatagli alla tempia, dopo essersi qualificato, ha esploso tre colpi con la pistola d’ordinanza, ferendo il 15enne, che è deceduto poco dopo in ospedale. Le indagini sono in corso, coordinate dalla Procura della Repubblica di Napoli, con il Pubblico Ministero che è intervenuto sul posto, e affidate ai Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Napoli.

SPARI FUORI AL COMANDO – Nella notte, mentre in caserma si costituiva un ragazzo di 17 anni definitosi complice del 15enne ucciso dal militare, quattro colpi di pistola sono stati sparati ad altezza d’uomo contro la sede del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli, vicino al passo carraio. Ad agire  due persone a bordo di uno scooter. Lo si apprende da fonti investigative. Sul posto è intervenuta anche la polizia.

CONTROLLI INTENSIFICATI – “Si informa che in seguito al grave episodio di devastazione del pronto soccorso del Presidio Ospedaliero dei  Pellegrini che si è verificato stanotte, il Prefetto di Napoli, Marco Valentini, ha contattato il Direttore Generale dell ASL Napoli 1 centro, da cui dipende il Presidio  stesso,  e la Direttrice  del pronto soccorso,  esprimendo la  solidarietà sua personale e delle Istituzioni  ai medici, ai pazienti ed al personale del nosocomio ed assicurando a piena collaborazione delle Forze dell’ordine per l’ espletamento di adeguati  servizi di vigilanza, che sono stati immediatamente  disposti. Inoltre, in relazione all’esplosione di colpi d arma da fuoco all’ esterno del Comando provinciale Carabinieri di Napoli, il Prefetto ha disposto l’ intensificazione dei servizi di controllo del territorio e di vigilanza ad obiettivi sensibili”.

I FAMILIARI: “GIUSTIZIA” – “Voglio giustizia per mio figlio. Lavorava, era un bravo ragazzo. E me lo hanno ammazzato. Qualunque cosa stesse facendo, non vale una vita umana”. È lo sfogo a Repubblica di Vincenzo Russo, il padre del ragazzino ucciso dal carabiniere libero dal servizio. La famiglia di Ugo è assistita dall’avvocato Antonio Mormile.

IL MANAGER DELL’ASL – “Questa notte, dopo il decesso di un sedicenne arrivato in pronto soccorso con ferita da arma da fuoco, il pronto soccorso del presidio ospedaliero dei Pellegrini è stato devastato dai familiari e amici del ragazzo. Un fatto gravissimo per il quale esprimo solidarietà a tutti i nostri dipendenti che ancora una volta sono stati vittime di insulti e minacce, e ancora una volta hanno continuato, nonostante tutto, a prestare assistenza ai pazienti“. A stigmatizzare con forza quanto avvenuto nel corso della notte è il direttore generale dell’ASL Napoli 1 Centro Ciro Verdoliva, che durante il sopralluogo all’ospedale della Pignasecca ha constatato gli ingenti danni ad arredi e attrezzature e l’assenza di condizioni igienico-sanitarie conseguenziale ai fatti accaduti.

LA NOTA DELL’ASL – Con riferimento a quanto in oggetto questa notte, a seguito del decesso di un giovane ferito da arma da fuoco (U.R., 10.04.2004) il PS del P.O. dei Pellegrini è stato devastato dalla rabbia dei parenti; nel corso del sopralluogo eseguito alle ore 7,00, constatato danni ad arredi e attrezzature nonché l’assenza delle condizioni igienico-sanitarie tali da non permettere lo svolgimento delle attività assistenziali di emergenza in sicurezza sia per i pazienti che per gli operatori, alle ore 7,30 abbiamo dichiarato la sospensione del servizio di Pronto Soccorso P.O. dei Pellegrini. A seguito di tale “sospensione” è iniziato il trasferimento di n°8 pazienti presenti al Pronto Soccorso nei reparti dello stesso presidio ospedaliero ovvero – con ausilio del Servizio 118 – in altri ospedali cittadini.

Sono già iniziate le attività necessarie a ripristinare quanto prima possibile l’attività di Pronto Soccorso tenuto conto dell’importanza che tale Presidio Ospedaliero riveste nell’ambito della rete cittadina. Vogliamo esprimere la nostra solidarietà e la nostra vicinanza a tutti gli operatori sanitari che, questa notte, hanno subito aggressioni fisiche e insulti e che, nonostante tutto, hanno continuato a garantire l’assistenza ai pazienti”.

Il padre del baby ladro ucciso: "Qualunque cosa ha fatto, non doveva morire". Il padre del 15enne se la prende con il carabiniere: "Si è distrutto la vita pure lui". E difende il figlio morto: "Era un grande lavoratore incensurato". Luca Sablone, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. "Vi dico che quel carabiniere lo ha voluto ammazzare. Ha sparato alle spalle. Da ora in poi, mia moglie ed io vivremo per questo signore e per gli altri nostri 3 figli. Non vogliamo vendetta, ma deve essere fatta giustizia". Così Vincenzo Russo commenta le dinamiche che hanno portato alla morte del figlio, il 15enne ucciso a Napoli dopo aver tentato di rapinare un carabiniere. Il padre del baby ladro si è detto certo della sua tesi, secondo cui il militare avrebbe sparato con l'intenzione di togliere la vita al ragazzo: "Con i miei occhi, in ospedale, ho visto che era stato colpito da un proiettile al petto. Il dottore mi ha detto che il secondo lo aveva raggiunto dietro alla testa. Ci sono le telecamere, vadano a vedere i filmati". Nell'intervista rilasciata a La Repubblica, il giovane è stato descritto come un grande lavoratore: "Aveva lasciato la scuola dopo la terza media. Lavorava, ma davvero, non per finta: muratore, barista, garzone in salumeria e poi da un fruttivendolo". L'adolescente era stato inserito in un progetto dagli assistenti sociali, eppure era andato a commettere una rapina: "Voglio innanzitutto sottolineare che era incensurato. Potrebbe anche aver commesso una stupidaggine, ma qualsiasi cosa abbia fatto, non vale la vita di un ragazzo di 15 anni". L'uomo ha voluto chiarire che la sua "non è una famiglia di delinquenti".

"Il carabiniere si è rovinato la vita". Vincenzo Russo però in passato ha avuto dei problemi con la giustizia: "Avevo problemi di tossicodipendenza, ma dal 2004 ho chiuso tutti i conti con la giustizia". Adesso per vivere usufruisce del reddito di cittadinanza e nel frattempo aspetta il pagamento dell'ultimo mese di una borsa lavoro: "Siamo una famiglia a posto. Il mio primo figlio era un po' una testa calda ma adesso lavora, i piccoli vanno a scuola". Ugo è morto in ospedale, al Pellegrini, dove i parenti hanno devastato il pronto soccorso mettendolo fuori uso: "L'ho visto anche io ma non so chi sia stato. Però, mettetevi nei panni delle persone del quartiere, avevano saputo che un ragazzo di 15 anni era stato ucciso in quel modo". L'uomo ha visto suo figlio per l'ultima volta alle ore 21.00 prima della morte: "Era dal barbiere, si stava tagliando i capelli. Gli ho detto che con la madre saremmo andati a mangiare un panino". Lo ha poi rivisto alle 6.00 di ieri mattina: "Aveva la testa fasciata, provavano a rianimarlo, ma non c'era nulla da fare". Infine Vincenzo ha parlato anche del carabiniere, ora indagato per omicidio: "Questa tragedia cambierà per sempre la nostra vita. E anche quella dell'uomo che ha sparato. Se ha un cuore, si è distrutto la vita pure lui". 

Il papà del 15enne ucciso: “E’ stata un’esecuzione, aveva un colpo alla nuca”. Silvia Mancinelli su Il Dubbio l'1 marzo 2020. La disperazione e la rabbia del padre di Ugo Russo, il ragazzo ucciso dal carabiniere a Napoli. “Quando alle 6 di questa mattina ci hanno detto che mio figlio era morto, sono corso da lui a prendermi il suo ultimo calore. Adesso è già freddo. Aveva la benda in testa, un colpo a bruciapelo sul petto, aveva il fuoco addosso. E’ stato centrato da un primo proiettile al petto, ma l’altro era dietro alla nuca”. Così, all’Adnkronos, Vincenzo Russo, papà di Ugo, il 15enne di Napoli ucciso nella notte da un carabiniere durante un tentativo di rapina. “Io non lo so se Ugo abbia puntato o meno la pistola alla tempia di quel carabiniere – continua – Conosco mio figlio per come è a casa con noi, ma quando è fuori come si fa? Non vado mica dietro a lui”. La certezza di quel colpo alla nuca Vincenzo spiega di averla dai racconti di chi per primo lo ha soccorso: “Dopo il colpo a bruciapelo sul petto – racconta il padre del 15enne – il carabiniere ne ha esploso un secondo quando Ugo, volato in avanti di tre, quattro metri, si è rialzato e stava ormai allontanandosi. Ne sono sicuro perché ha un secondo proiettile dietro la testa, non alla fronte come dicono. Quelli che lo hanno visto soccorrerlo, mi hanno detto che in ambulanza gli tenevano la mano dietro la testa per tamponare il sangue, che davanti era pulito”. E sul 23enne militare, ora indagato per omicidio, dice: “Questo è sceso a Napoli per fare la guerra. E’ stata una esecuzione – incalza Vincenzo Russo – qualsiasi cosa abbia fatto Ugo, perché sparare così?”. “So bene che anche il carabiniere è un ragazzo – continua il papà della vittima – che possa aver avuto paura. Dico però una cosa: dopo il primo proiettile sparato al colpo, giustificato dallo spavento, perché non ha approfittato per andarsene? Voleva fare l’eroe e bloccarlo per arrestarlo? Perché, allora, non sparargli a una gamba? In testa no, in testa è un’esecuzione. Secondo me è sceso già consapevole di fare questa cosa, c’è premeditazione. Sa come si vive a Napoli, è sceso armato perché voleva fare Rambo, si è portato la pistola -continua – questo ragazzo tiene la guerra in capa”. A Vincenzo e a sua moglie, oggi, restano “tre figli da portare avanti – dice – e il dolore nel cuore. Siamo distrutti, mia moglie non riesce nemmeno a parlare, io ho trovato la forza perché voglio giustizia. La devono smettere – prosegue Vincenzo Russo – anche se hanno la divisa devono pagare, non si devono aiutare uno con l’altro. Spero solo che la magistratura si metta una mano sulla coscienza e faccia le indagini come le deve fare, che vedano la dinamica”. Sul pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini di Napoli, devastato per la rabbia dopo la morte di suo figlio, spiega: “Ho chiesto scusa per quello che hanno fatto in ospedale, io ero vicino alla salma di mio figlio, non potevo sapere. Dico però che viviamo in un contesto difficile, in pronto soccorso ci sono medici bravi e medici arroganti, poliziotti bravi e poliziotti arroganti: uno scaldato di testa può avere ‘sta reazione ma nemmeno gli voglio dare colpa. Voglio dire, avrei potuto farlo anche io se al posto di mio Ugo ci fosse stato un altro figlio di famiglia che conosco e magari avessi trovato una persona arrogante. Siamo distrutti, è morto bambino”. 

Quelle rapine in serie del papà della vittima. Luca Fazzo, Martedì 03/03/2020, su Il Giornale. Il documento porta la data del 28 giugno 2018, e costringe a leggere diversamente la tragica storia di Ugo Russo, il ragazzo napoletano ucciso sabato notte durante il tentativo di rapina a un carabiniere. Il documento aiuta a capire il contesto, il percorso umano e familiare che ha portato un adolescente a infilarsi nell'impresa che lo ha portato alla morte. Perché il documento, firmato dalla Procura generale di Milano, riguarda il padre di Ugo: Vincenzo Russo. trentotto anni, l'uomo che in questi giorni ha raccontato davanti alle telecamere il suo strazio. Ma che la Procura di Milano accusa di essere un professionista dello stesso tipo di rapine costate la vita a suo figlio. Non ha dovuto guardare lontano, il povero Ugo, per cercare un esempio sbagliato da imitare. L'impresa che la Procura di Milano attribuisce a Vincenzo Russo è la fotocopia - più organizzata, più professionale - di quella che sabato suo figlio realizza a Napoli. Il 24 settembre 2013 in via Ripamonti, nel capoluogo lombardo, l'auto di un avvocato viene accostata da uno scooter che gli urta lo specchietto, poi il guidatore si ferma e accusa l'avvocato di avergli fatto male alla mano. Appena l'avvocato abbassa il finestrino, arriva un altro scooter, il passeggero lo colpisce al volto e gli strappa una Audermars Piguet da 40mila euro. Nel pomeriggio dello stesso giorno, dall'altra parte di Milano viene messa a segno un'altra rapina identica. La Volante si mette alla caccia degli autori, intercetta due scooter, li insegue. Uno dei motocicli si schianta. A bordo c'è Vincenzo Russo, il padre di Ugo. Viene portato in ospedale, indagato dalla Volante per entrambi i colpi. La sua fotografia viene mostrata all'avvocato rapinato al mattino: che lo riconosce senza ombra di dubbio. «É lui». Ai poliziotti che gli chiedono conto della sua presenza a Milano, Russo spiega di essere disoccupato e di essere salito al nord per cercare di vendere dei profumi. Ma non vengono trovate tracce né di flaconi né di boccette. E dalla banca dati della polizia saltano fuori altre condanne già ricevute dall'uomo per imprese analoghe. Per la Procura, Vincenzo Russo fa parte delle batterie di napoletani che salgono a Milano per i «colpi dello specchietto». E nella richiesta di rinvio a giudizio gli viene contestata la «recidiva reiterata e specifica». Russo chiede di essere ammesso al rito abbreviato: e il 28 maggio 2018 viene assolto, il giudice non crede al riconoscimento effettuato dall'avvocato rapinato. Ma la Procura generale non si arrende e attraverso il sostituto Massimo Gaballo presenta ricorso contro l'assoluzione. Gli elementi contro il padre di Ugo, scrive il pg, sono «chiari, univoci, concordanti». C'è il riconoscimento da parte della vittima, «assolutamente certo ed esente da qualsiasi indecisione o dubbio», ma non solo. Ad incastrarlo, secondo l'accusa, c'è lo scooter, quello con cui si è schiantato nel pomeriggio mentre scappava dalla Volante. «Conferma ulteriore della responsabilità del Russo si rinviene dai filmati e dal sequestro del motorino () si allegano due fotogrammi dai quali emerge in maniera evidente che il ciclomotore sequestrato al Russo è lo stesso ciclomotore utilizzato dal rapinatore n. 1 nella rapina in via Ripamonti». Ora ci sarà l'appello. Ma Vincenzo Russo ha altre angosce con cui fare i conti.

Napoli, ucciso a 15 anni. Il papà: “Anche noi siamo morti”. Le Iene News il 3 marzo 2020. È stato ucciso in un tentativo di rapina a un carabiniere. Ugo Russo è morto così a 15 anni a Napoli lo scorso fine settimana. Mentre sono ancora in corso le indagini, Giulio Golia ha incontrato la famiglia del ragazzo, distrutta dal dolore. “Anche noi siamo morti. Io e mia moglie, i nostri figli erano tutti molto legati. Io ho un altro figlio di 5 anni che non sa che il fratello è morto”. Parla a Le Iene Vincenzo Russo, il papà di Ugo, il ragazzo di 15 anni ucciso da un carabiniere che ha reagito a un tentativo di rapina a Napoli nella notte tra sabato e domenica. Giulio Golia ha incontrato i familiari straziati dal dolore. Ci rivelano che un fratello di Ugo ancora non sa della sua morte: “La sera gli dico Vieni a dormire con papà e lui mi risponde ‘No, voglio dormire con mio fratello Ugo’. Lui non sa che Ugo non c’è più. Lo sanno tutti quelli che ci stanno giudicando? Lo devono perdere anche loro un figlio? Io non lo auguro a nessuno”, dice papà Vincenzo. Il suo sfogo è quello di tutta la famiglia Russo: “Ci giudicano perché alle 3 di notte stiamo per strada. Non voglio giudicare nessuno, al Nord vivono in un’altra maniera. Noi abbiamo un’altra cultura, questa è la nostra”, spiega Vincenzo. “Qua abitano anche i figli di carabinieri. A 15 anni in mezzo alla strada alle 2 di notte di sabato ci sono anche loro non solo i figli dei pregiudicati”, aggiunge il cugino. Vincenzo parla anche della dinamica della tragedia in cui è avvenuta la morte del figlio. In base a una prima ricostruzione Ugo era in compagnia di un amico di 17 anni. Insieme avrebbero tentato di rapinare un 23enne. Non sapevano che avevano davanti un carabiniere fuori servizio. Ugo avrebbe avuto in mano una pistola (poi risultata giocattolo, ma priva del tappo rosso). Impaurito da quell’arma che sembrava vera, il carabiniere fuori servizio stano alle prime tesi avrebbe preso la sua pistola d’ordinanza e ha sparato. Sarebbero partiti dei colpi che hanno ucciso il ragazzo. “Non sto dicendo che mio figlio ha sbagliato o non ha sbagliato. Anch’io fossi stato carabiniere e uno vicino a me avesse puntato la pistola… Noi come diciamo a Napoli? Morte tua, vita mia”, dice il papà di Ugo. Non accetta però come è avvenuto lo sparo da parte del carabiniere. “Ti sparo, se mi viene paura, ti sparo. Ti ho sparato in petto, mi sono difeso… Invece mio figlio è stato sbalzato. È stordito, si è alzato per scappare. Ma se è per difesa, non gli sparo in testa”, questo ci dice papà Ugo. In un primo momento l’accusa per il carabiniere sarebbe stata per eccesso di legittima difesa, poi modificata in omicidio volontario, ma potrebbe cambiare di nuovo una volta chiuse le indagini, allo stato in corso. Invece per il 17enne, il presunto complice del ragazzo morto, il gip avrebbe confermato il fermo e avrebbe disposto il collocamento in comunità.

Dagospia il 6 marzo 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Avessi davanti il carabiniere che ha ucciso mio figlio non saprei cosa dire. Non avrei il coraggio di guardarlo negli occhi. Se avesse il coraggio di dire la verità…perché secondo me non la dice, la verità”. Così a La Zanzara su Radio 24 Vincenzo Russo, il padre di Ugo Russo, il ragazzo di 15 anni rimasto ucciso a Napoli durante un tentativo di rapina a un carabiniere. Perché un ragazzo di 15 anni va in giro con una pistola?: “Ha fatto uno sbaglio enorme, grosso.  Per me è una ragazzata, che ne saccio io. Come la vogliamo definire, tu come la definisci? Un ragazzo di 15 anni, che non tiene precedenti, bello come ‘o sole, tre lavori fatti. Noi lo abbiamo messo dall’assistente sociale, doveva fare un corso da pizzaiolo, ma di che stiamo parlando?”. Ma aveva in tasca un Rolex e una catenella, frutto probabilmente di un’altra rapina: “E’ uscita la denuncia di questa cosa, che è stata fatta una rapina? Magari il Rolex era di mio figlio. La collanina è sua, un regalo della sua ragazza”. Cosa pensi della devastazione al pronto soccorso?: “Li condanno. Hanno sbagliato”. Lei c’era, c’erano anche i parenti di Ugo abbiamo letto. C’erano tuoi parenti?: “Sicuramente, chi sta dicendo che non è vero”. C’eri anche tu?: “Non ti posso rispondere, vado da Giletti domenica sera per rispondere a Borrelli, il consigliere che ha detto che facciamo tanti figli senza amore, lui infanga solo Napoli. Ma io non mi posso fermare adesso. Devo tirare fuori tutta la mia forza, perché altrimenti ci distruggono. Per voi è solo uno di meno, uno di meno. Così fate voi coi napoletani”. Ma che dici?: “Non vi rimangiate le parole. Nun me fermo chiuù, deve morire Vincenzo Russo per fermarlo”. Tu hai commesso dei crimini, tuo figlio faceva una rapina. La colpa sarà anche dell’ambiente dove è cresciuto: “Allora, a casa mia si rispettano le regole. Tu della vita nostra non puoi sapere niente. Vieni a casa mia”. Tu hai rispettato la legge, le regole?: “No, mai. Però faccio rispettare la legge a casa mia. Chillu che facci io, i miei figli nun l’hanno fatto. Io bado ai figli miei. Io non gli ho insegnato a fare le rapine”. Hai rotto qualche cosa anche tu al pronto soccorso?: “Vuoi sapere che ho rotto io? Si, allora aspetta domenica. Ma voi  siete malvagi. Tu hai il veleno nel corpo”. Ma puntare la pistola in testa a una persona  è un gesto criminale, non sono ragazzate: “Cioè a 15 anni sono già criminali? A 15 anni ci sono anche dei criminali? Tu a 15 anni hai mai fatto niente di illegale?”. No, niente risponde Cruciani. “Neanche uno spinello ti sei fatto?”. Io no, risponde ancora Cruciani, ma che c’entra. Senti, hai visto che molti stanno col carabiniere anche sui social?:  “Pure io sto con i carabinieri. Sto con la polizia, con la finanza. Se non ci fossero le forze dell’ordine ci mangeremmo gli uni con gli altri, saremmo come nel Medioevo, saremo prede e predatori. Io sto con i carabinieri, ma con quello no. Ha sparato il primo colpo? L’ha buttato il figlio mio a quattro metri di distanza? Gli poteva fare ancora male? No. Se non lo voleva arrestare lo faceva fuggire, invece ha avuto un colpo da una calibro 9 per 21, lo voleva per forza sfidare. Questo non vi vuole entrare in testa, non volete capire perché siamo napoletani, ci volete distruggere ma non mi fate più niente, la mia vita è finita qui”. Come campi adesso?: “Col reddito di cittadinanza, 890 euro. Perché non abbiamo niente, niente”. Vuoi il carabiniere condannato?: “Voglio la verità”. Che significa? Tu hai detto che è stata un’esecuzione: “Sì, per me è stata un’esecuzione. Ma tu, voi siete dei vigliacchi. Perché non volete dire che ha sbagliato a sparare altri colpi. Sei un vigliacco, sei un vigliacco. Non hai le palle”. Non sai nemmeno tu com’è andata?: “No, non lo so. Ma tu sei un vigliacco. Il carabiniere per me ha sbagliato, ha sparato un primo proiettile al petto che ha sbalzato mio figlio quattro metri avanti, poi stava scappando ed è arrivato un secondo proiettile dietro la nuca. Per me il primo proiettile, il carabiniere è da giustificare, ha fatto bene, a fatt buono in napoletano, gli altri che lo hanno ammazzato no” 

"Mio figlio ha sbagliato e ha pagato caro". Il papà di Ugo dai carabinieri: “Voglio verità. Se non credessi nello Stato mi sarei buttato giù”. Redazione de Il Riformista il 6 Marzo 2020. “Solidarietà e sostegno ai carabinieri”. E’ il testo presente sul cartello che aveva tra le mani Vincenzo Russo, papà di Ugo, il 15enne ucciso nella notte di domenica 1 marzo da un militare libero dal servizio nel corso di un tentativo di rapina. Vincenzo ha accolto l’invito di Gianni Simioli, conduttore della “Radiazza” su radio Marte e del consigliere ragionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli partecipando al flash mob che questa mattina, venerdì 6 marzo, si è tenuto davanti alla Caserma Pastrengo, sede del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli, dove poche ore dopo la morte di Ugo due persone in sella a uno scooter hanno esploso diversi colpi d’arma da fuoco.

“HA SBAGLIATO MA VOGLIO VERITA'” – “Io, mia moglie e i miei figli vogliamo soltanto la verità per la morte di Ugo. Lui ha sbagliato e ha pagato caro, non voglio giustificare il suo gesto ma questo non deve più capitare perché è un dolore troppo forte” ha spiegato Vincenzo ai giornalisti presenti. L’uomo ha ribadito la propria fiducia nello Stato annunciando di voler trasformare la rabbia e il dolore per la morte del figlio in aiuto per i giovani a rischio.

“CREDO NELLO STATO” – “Senza carabinieri, polizia, guardia di Finanza, senza lo Stato in generale ci ritroveremmo in piazza con le frecce come gli indiani, saremmo tutti prede e predatori” osserva aggiungendo: “Io credo nello Stato anche perché in caso contrario dovrei solo salire su un terrazzo e buttarmi giù”. A chi gli chiede se la sua presenza al flash mob sia una provocazione all’Arma, Vincenzo chiarisce: “Sono stato invitato in diretta Radio dal consigliere Borrelli e da Simioli. Non si tratta di nessuna provocazione”. Poi sulla devastazione del pronto soccorso spiega: “C’è chi addirittura ha sostenuto che siamo stati io e mia moglie ad organizzare tutto, radunando persone con l’intenzione di sfasciare l’ospedale”.

“NON SAPEVO DELLE RAPINE” – Intanto l’autopsia sul corpo di Ugo è stata effettuata alle 14 al Secondo Policlinico di Napoli. “Non sappiamo ancora quando si faranno i funerali” chiarisce il genitore ricordando poi quei drammatici attimi: “Quando mi hanno chiamato e mi hanno detto che avevano sparato a Ugo, pensavo fosse stato vittima di qualche stesa o di una rissa tra ragazzi. Se avessi saputo che mio figlio andava in giro a fare le rapine, sarei andato a prenderlo in strada”.

“LAVORAVA PER 50 EURO A SETTIMANA” –  Vincenzo racconta che “a Ugo imponevo di andare a lavorare, ha fatto il barista per 50 euro a settimana dalle 8 di mattina alle 8 di sera. Poi il fruttivendolo. Quando si lamentava per gli orari e la paga gli davo un altro 50 euro a settimana. Poi ha iniziato a fare il muratore, lavorava alla giornata. Era molto forte fisicamente, più forte di me”.

LA FEDINA PENALE – In questi giorni sono stati più volte sottolineati i precedenti con la giustizia (come rapinatore) del papà di Ugo: “Chi ci condanna a prescindere in base al nostro passato ha il veleno in corpo. Non si può parlare così sulla morte di un ragazzo di 15 anni” ha precisato prima di negare qualsiasi contatto con il carabiniere 23enne che ha ucciso suo figlio: “Non c’è stato nessun contatto con il carabiniere che ha ucciso Ugo. Non lo abbiamo  mai sentito. La famiglia del suo amico (il complice di 17 anni finito in Comunità, ndr) viene tutte le sere a casa mia e piangiamo insieme”.

Appello alla famiglia di Ugo, la mamma di vittima baby gang: “Ora salviamo i ragazzi”. Maria Lusia Iavarone de Il Riformista il 7 Marzo 2020. Cara Mamma di Ugo, mi rivolgo a te, da mamma a mamma, perché ti immagino in questo momento distrutta. Io so cosa significa essere chiamata e correre in un ospedale dove tuo figlio è in fin di vita. A prescindere dalla ragione per la quale sia lì in quel momento. Non ti sei mostrata molto alle telecamere, non ne hai trovato giustamente il tempo, c’è a stento spazio per un dolore che è incontenibile. Eppure, Mamma di Ugo, sento il desiderio di rivolgermi a te in questo momento per abbracciarti idealmente, per dirti che noi mamme, a volte, anche in un immenso dolore dobbiamo trovare il modo di fare la differenza, soprattutto se abbiamo altri piccoli da crescere. Mi riferisco ai fratellini di Ugo, a cui sarai chiamata a mostrare l’altra faccia di questa disgrazia. Se Ugo purtroppo oggi non c’è più dobbiamo tutti imparare la lezione che ne viene, cambiando una mentalità, incidendo anche su quegli amici, su quei parenti, su quei conoscenti che direttamente o indirettamente non hanno impedito che Ugo sbagliasse. Se tu, forte della tua sofferenza, potessi spiegare loro che proprio quella violenza abituale, condivisa, accettata come “normale” è proprio ciò che ha divorato la vita di tuo figlio sarebbe per tutti quanti un grande segnale di speranza. Sono sicura che lui da lassù lo vorrebbe per sé e per i suoi compagni di scorrerie che forse meritano di essere salvati anche grazie al sacrificio di Ugo. Questo, credimi, ti darebbe un grande conforto ed una maggiore pace interiore e lenirebbe un po’ di quei sensi di colpa che ciascun genitore ha quando capisce di non essere riuscito a proteggere il proprio figlio pretendendo che rincasi prima la sera, costringendolo ad andare a scuola l’indomani mattina, limitandogli un po’ di più l’uso del cellulare o chiedendogli come mai ha quelle scarpe o quel giubbotto firmato che di certo non gli hai acquistato. Vorrei sinceramente manifestarti la mia vicinanza con animo scevro da giudizio perché la giustizia non può essere invocata soltanto quando subiamo un torto ma innanzitutto praticata assicurando una vita più giusta a chi ci vive accanto.

Ucciso da carabiniere, Giovanni Bifolco: “Ugo giustiziato come Davide, noi vittime dello Stato”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Marzo 2020. Davide Bifolco e Ugo Russo. Sono entrambi figli dei luoghi abbandonati dallo Stato. Il primo ucciso a 16 anni nel Rione Traiano, la notte del 5 settembre 2014, al termine di un inseguimento con una gazzella dei carabinieri. Davide, insieme ad altre due persone, era in sella a uno scooter che non si fermò all’alt dei militari e venne successivamente speronato. Tentò la fuga a piedi e, mentre era a terra, venne raggiunto da un proiettile al petto partito dalla pistola d’ordinanza di un carabiniere, all’epoca poco più che trentenne. Davide non era armato, era su un “mezzo” senza assicurazione e con a bordo, secondo la tesi degli investigatori, un ragazzo (Arturo Equabile) ricercato per reati contro il patrimonio. Il militare che lo ha ucciso nel 2018 è stato condannato in Appello a due anni con pena sospesa per omicidio colposo. Ugo Russo, nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli (zona ‘periferica’, quindi abbandonata, del centro di Napoli) è stato ucciso a 15 anni domenica 1 marzo. A sparare un carabiniere libero dal servizio nel corso di un tentativo di rapina. Ugo, che impugnava una pistola scenica di ferro e – secondo quanto accertato successivamente da medici e forze dell’ordine – era già in possesso di un orologio d’oro e una catenina, voleva impossessarsi del rolex che il giovane militare di 23 anni (in servizio da pochi mesi a Bologna) aveva al polso. Così si è avvicinato alla Mercedes, ha puntato la pistola contro il carabiniere, che si trovava in auto con la fidanzata, provocando la reazione di quest’ultimo. Tre i proiettili partiti in rapida successione dalla sua arma d’ordinanza. Il primo ha raggiunto Ugo al torace, il secondo alla nuca, il terzo, rivolto contro il complice di 17 anni, non è andato a bersaglio. Il militare, originario dell’area flegrea di Napoli, è al momento indagato per omicidio volontario in attesa che l’autospia, gli esami balistici e le eventuali immagini della telecamere di videosorveglianza chiariscano la dinamica di quanto accaduto. Dopo la morte di Ugo si sono vissute scene di ordinaria follia: dal pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini sfasciato da parenti e amici della giovane vittima agli spari all’esterno del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli ad opera di due persone a bordo di uno scooter. Davide e Ugo sono vittime di uno Stato assente, che in questi giorni, così come sei anni fa, si mostra in passerella solo nella fase iniziale, annunciando provvedimenti, interventi, soluzioni, salvo poi ritirarsi lasciando sempre più allo sbando la vita di chi abita in zone sfortunate della città. Sei anni dopo l’uccisione di suo figlio, Giovanni Bifolco aspetta ancora il risarcimento da parte dello Stato. Nel frattempo ha scontato da pochi mesi una vecchia condanna per furto ed è orgoglioso del successo internazionale di “Selfie“, il docu-film realizzato da Agostino Ferremte candidato ai prossimi David di Donatello. Giovanni – attraverso il Riformista – manda un messaggio alla famiglia di Ugo, consigliando loro di andare avanti provando a trasformare “il dolore in possibilità per le persone, soprattutto i minori, che sono a rischio. Perché lo stato è l’elefante e noi siamo la formica.  La perdita di un figlio – spiega – è una ferita che non guarirà mai, vi consiglio di essere forti e di andare avanti trasformando il dolore in possibilità per le persone, soprattutto i minori, che sono a rischio. Perché lo stato è l’elefante e noi siamo la formica”. Per Giovanni “siamo tutti responsabili per la morte di Ugo, io in primis. Sapevo che sarebbe successo un episodio del genere. E’ stato ammazzato, giustiziato, così come è avvenuto con mio figlio, anche se si tratta di due situazioni differenti: Davide era su un motorino senza assicurazione che non si è fermato a un posto di blocco, lui è andato a fare una rapina. Entrambi però sono morti di Stato”. Il carabiniere che ha ucciso suo figlio Davide, che il mese prima dell’omicidio non partì per il ritiro con le giovanili del Padova perché litigò con il suo talent scout, è stato condannato dove una lunga querelle giudiziaria a due anni con pena sospesa. “La cosa che mi fa più soffrire è che alla fine queste persone non pagheranno nulla. Aldrovandi, Budroni, Magherini, tutti questi morti nessuno li ha pagati. Chi ammazza deve pagare, sia se si tratta di camorra che di Stato. Se tu spari una persona una prima volta, non puoi mirare alla testa la seconda volta. Paradossalmente la famiglia Bifolco è diventata carnefice dello Stato, è come se noi avessimo ammazzato il carabiniere”. “C’è una mafia all’interno dei carabinieri, della polizia, della guardia di Finanza. Non si può fare solo repressione” chiosa duramente Bifolco che racconta la sua ultima vicenda giudiziaria: “Per un reato di 12 anni fa, mi notificarono una condanna definitiva a 9 mesi e 27 giorni. Sono stato 3 mesi nel carcere di Secondigliano a Napoli, poi ho finito di scontare tutto ai domiciliari. Non ho avuto nessuna pena alternativa perché sono stato definito elemento pericoloso. Il motivo? Ho diverse denunce per oltraggio e minaccia a pubblico ufficiale. I miei sfoghi contro le forze dell’ordine sono diventati minacce per loro, io invece ero solo arrabbiato e deluso da quanto accaduto a mio figlio”. Giovanni vive da sempre nel rione Traiano, frazione del quartiere di Soccavo, dove lo Stato è quasi inesistente. “Qui mancano strutture, palestre, oratori. Viviamo in luoghi abbandonati dalle Istituzioni. In periferie si chiudono scuole anziché aprirle, non vengono offerte alternative ai ragazzi. Per questo – spiega – non ci dobbiamo porre il problema sul perché Ugo ha commesso la  tentata rapina, ma sul perché lo Stato abbandona questi giovani“. Dal lavoro che non c’è a un’idea, tutta particolare, sui reati minori: “Se non c’è impiego una famiglia come fa ad andare avanti? I piccoli delinquenti sono la Cassa del Mezzogiorno perché senza loro si fermano gli avvocati, gli uscieri, i giudici, i falegnami, i fabbri (perché noi scassiniamo le porte). ‘Se ci fermiamo noi – mi disse un mio compagno di cella –  finisce l’economia del mondo’. Poi se vogliamo pure pensarla in chiave religiosa: Gesù sulla croce ha salvato il ladrone (Barabba, ndr)”.

La nonna di Ugo: “Era già ferito, doveva arrestarlo e non sparargli di nuovo”. Il Dubbio il 2 marzo 2020. La nonna del 16enne ucciso a Napoli da una carabiniere chiede giustizia. “Non doveva ucciderlo, era già ferito, l’avrebbero arrestato. Adesso vogliamo giustizia”. Così, parlando con l’Ansa, la nonna, Patrizia, e due zie, Luciana e Raffaella, di Ugo Russo, il 16 enne (e non 15enne come si era appreso) ucciso da un carabiniere durante un tentativo di rapina. Secondo i parenti Ugo sarebbe stato prima colpito da un proiettile al braccio e poi al torace ed al capo. Il ragazzo aveva lavorato come muratore fino ad un mese fa. “Mio nipote – dice la nonna, Patrizia – dormiva qui da me molto spesso” e mostra un divano-letto alle sue spalle. “Era iscritto al primo anno dell’ Istituto Serra, ma non frequentava molto. Voleva lavorare, ed aveva fatto prima il fruttivendolo e poi, fino a un mese fa, il muratore”. Racconta la zia Raffaella: “Se gli dicevano qualcosa diventava rosso. Non si drogava, era contrario”. Disoccupato, dopo lavori precari, Ugo sarebbe stato “tirato in un brutto giro”, ma non era un delinquente”. “Voleva andare a fare il pizzaiolo a Londra voleva andarsene. Qui non c’ è lavoro”, dice la nonna. “Da due-tre giorni, Ugo stava tornando a casa tardi. E io gli dicevo stai attento ai compagni, tu ci farai piangere…. Ma era ferito ad un braccio, il Carabiniere non doveva spararargli ancora. Adesso vogliamo giustizia”.

Napoli, ucciso a 15 anni per una rapina: “Il fratellino non sa che è morto”. Le Iene News il 4 marzo 2020. È stato ucciso in un tentativo di rapina a un carabiniere. Ugo Russo è morto così a 15 anni a Napoli lo scorso fine settimana. Mentre sono ancora in corso le indagini, Giulio Golia ha incontrato la famiglia del ragazzo, distrutta dal dolore. “Non voglio giudicare nessuno, al Nord vivono in un’altra maniera. Noi abbiamo un’altra cultura, questa è la nostra”. Tra le lacrime si sfoga Vincenzo Russo, papà di Ugo, il ragazzo di 15 anni ucciso da un carabiniere che ha reagito a un tentativo di rapina a Napoli nella notte tra sabato e domenica. In base a una prima ricostruzione Ugo era in compagnia di un amico di 17 anni. Insieme avrebbero tentato di rapinare un 23enne. Non sapevano che avevano davanti un carabiniere fuori servizio. Ugo avrebbe avuto in mano una pistola (poi risultata giocattolo, ma priva del tappo rosso). Impaurito da quell’arma che sembrava vera, il carabiniere fuori servizio stando alle prime tesi avrebbe preso la sua pistola d’ordinanza e ha sparato. Sarebbero partiti tre colpi: due vanno a segno e colpiscono Ugo al petto e alla testa. “Gli hanno tolto la vita a 15 anni a mio nipote”, dice la nonna che proprio poche ore prima è stata con lui. Hanno passato la giornata come un normale sabato non sapendo che quello era l’ultimo che avrebbero passato insieme. “Non lo vedrò più”, continua a ripetersi la donna. Ora può solo stringersi ai ricordi. “Anche noi siamo morti. Io e mia moglie, i nostri figli erano tutti molto legati. Io ho un altro figlio di 5 anni che non sa che il fratello è morto”, dice Vincenzo Russo. Ci rivela così che un fratello di Ugo ancora non sa della sua morte: “La sera gli dico ‘Vieni a dormire con papà’ e lui mi risponde ‘No, voglio dormire con mio fratello Ugo’. Lui non sa che Ugo non c’è più”. Il papà commenta anche quello che è successo: “Non sto dicendo che mio figlio ha sbagliato o non ha sbagliato. Anch’io fossi stato carabiniere e uno vicino a me avesse puntato la pistola… Noi come diciamo a Napoli? Morte tua, vita mia”. Non accetta però come è avvenuto lo sparo da parte del carabiniere. “Ti sparo, se mi viene paura, ti sparo. Ti ho sparato in petto, mi sono difeso… Invece mio figlio è stato sbalzato. È stordito, si è alzato per scappare. Ma se è per difesa, non gli sparo in testa”, aggiunge Vincenzo. Secondo i genitori il colpo che ha colpito Ugo sarebbe stato sparato alle spalle. La dinamica è ancora tutta da verificare. “All’ospedale ce lo hanno fatto accarezzare ancora caldo. L’ultimo calore, l’ultimo odore che aveva addosso ce lo siamo preso io e mia moglie”, racconta Vincenzo. “Mio figlio era un angelo voleva fare un corso per pizzaiolo con gli assistenti sociali di Napoli. Guadagnava 50 euro come barista, 70 con il fruttivendolo e 10 come muratore”. Si è detto che addosso Ugo avesse un’altra catenina e un rolex, forse refurtiva di un’altra rapina. “Gliel’aveva regalata la fidanzata. Un altro rolex non lo so. Se gliel’hanno trovata, avrà fatto un’altra rapina”. Proprio oggi sono emerse le dichiarazioni dell’amico di 17 anni che era con Ugo. Dal suo racconto pare che volessero qualche soldo in più per andare a ballare. In un primo momento l’accusa per il carabiniere sarebbe stata per eccesso di legittima difesa, poi modificata in omicidio volontario, ma potrebbe cambiare di nuovo una volta chiuse le indagini, allo stato in corso. Invece per il 17enne, il presunto complice del ragazzo morto, il gip avrebbe confermato il fermo e avrebbe disposto il collocamento in comunità.

COSA C'È DIETRO. Ugo Russo ucciso dal carabiniere a Napoli. La Iavarone: "Era già noto ai servizi sociali, e suo padre..." Libero Quotidiano il 2 Marzo 2020. "Era conosciuto ai servizi sociali". La verità su Ugo Russo, il 15enne uccido da un carabiniere a Napoli dopo aver tentato una rapina, arriva da Maria Luisa Iavarone, docente partenopea conosciuta anche in tv per il suo impegno sociale. Oltre al fatto di cronaca, drammatico, ha destato scalpore la reazione dei familiari della vittima, protagonisti di un vero e proprio blitz militare in ospedale per "vendicarsi" della morte del ragazzo. "Grande sostegno ai medici e agli operatori sanitari del Pellegrini - spiega intervistata da Radio CRC -. Lì ho trovato uno spiegamento di forze, energie, enorme. Erano tutti a supporto dei colleghi, cercando di ripristinare al più presto il pronto soccorso. Sono arrivati prima in 30, poi sono arrivati ad un centinaio, sfondando la porta del pronto soccorso a spallate, distruggendo tutto e provocando anche delle fiamme. Una scena apocalittica consumata sotto gli occhi di pazienti anche in codice rosso. Mi dispiace moltissimo, naturalmente, per il ragazzo, ma mi dispiace anche molto per quel giovane carabiniere, che vedrà anche la sua vita spezzata". "Conosco la sensazione che ha provato la mamma, ti senti del tutto devastata emotivamente e paralizzata, quindi non comprendo come una devastazione emotiva paralizzante possa concludersi con un episodio del genere - prosegue -. C'è stata una rappresaglia in stile Narcos, come se lo Stato fosse un clan rivale. Chi pensa di andare a sparare sotto la caserma dei Carabinieri è un imbecille e un deficiente. La cosa grave è che pensi di poterlo fare. Dietro questa brutta storia, di un ragazzo che viveva una vita abbandonata, tu, genitore, ti scrolli di dosso ogni responsabilità? Il padre lascia delle dichiarazioni, a caldo, assurde. Il padre afferma che era probabile che il figlio stesse facendo una rapina. Io non credo che sia una giustificazione che il ragazzo facesse quattro lavori a nero, alla sua età doveva andare a scuola e fare sport, essendo ancora nell'età dell'obbligo. Conosco parroci che denunciano alcuni ragazzini ai servizi sociali, che intervengono quando ormai i ragazzi hanno superato l'età dell'obbligo. Ugo era già stato sanzionato ai servizi sociali, e il padre, che afferma di essere ormai lontano dal delinquere, si vede che non ha imparato nulla". 

Napoli, il 15 enne aveva fatto un altro colpo. Indagato il carabiniere. Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Titti Beneduce. La Procura di Napoli ha iscritto nel registro degli indagati, con l’accusa di omicidio volontario, il carabiniere di 23 anni che la notte tra sabato e domenica scorsi, a Napoli, ha sparato contro un 15enne armato di una pistola (risultata una replica di quelle vere priva del tappo rosso) con la quale stava tentando di rapinargli l’orologio. Il 15enne, colpito due volte dall’arma del militare, è deceduto per le gravi ferite riportate. La vittima era con un 17enne che è stato fermato con l’accusa di tentata rapina. Per il reato di rapina è già stato invece iscritto al registro degli indagati il complice diciassettenne della vittima. Le indagini hanno inoltre appurato che il minorenne aveva poco prima compiuto almeno un’altra rapina. Addosso i medici dell’ospedale gli hanno trovato un Rolex e una catenina d’oro.Se da un lato il padre dell’adolescente difende il figlio definendo il gesto «una ragazzata» e se gli amici del morto avevano danneggiato i locali del pronto soccorso, numerose sono state nel corso della giornata le manifestazioni di solidarietà nei confronti del militare. Sui social è partito anche l’hashtag #iostoconilcarabiniere. Anchhe il ministro dell’ambiente Sergio Costa pur rammaricandosi per la morte del giovane ha detto che «era un rapinatore».

Grazia Longo per “la Stampa” il 3 marzo 2020. «Non avevamo i soldi per andare a ballare, per questo abbiamo deciso di fare la rapina». Ecco la spiegazione fornita dal complice diciassettenne di Ugo Russo, 15 anni, ucciso a Napoli sabato notte da un carabiniere fuori servizio a cui aveva puntato una pistola alla tempia. Il militare, 23 anni, in servizio a Bologna, era nel capoluogo campano in malattia. Ora è indagato per omicidio volontario. Le indagini La ricostruzione di quella notte ruota intorno a tre punti chiave: autopsia, esame balistico dei colpi di pistola, analisi delle immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona. Si è poi scoperto che la pistola era in realtà una replica in metallo della Beretta, in grado quindi di scarrellare, tanto che quando il militare ha sentito il rumore del colpo in canna ha temuto per la sua vita e quella della sua fidanzata e ha reagito sparando. Sul resto rimangono, invece, versioni discordanti sulle quali solo la soluzione dei tre punti chiave potrà offrire un contributo decisivo. Anche se, per restare nel campo delle parole, un peso hanno anche quelle non dette, ovvero le omissioni nel racconto del complice della vittima. Cerchiamo di capire perché. «Mi dispiace per il ragazzo morto e per il dolore della sua famiglia, ma io ho sparato per difendermi nel rispetto della legge e mi sono qualificato prima di farlo - racconta il carabiniere attraverso il suo avvocato, Enrico Capone - . Sono fiducioso nel lavoro dei magistrati e convinto che otterrò giustizia». Mentre il complice di Ugo, arrestato per rapina su ordine della Procura dei minori di Napoli, e difeso dall' avvocato Mario Bruno, sostiene che il carabiniere non si è presentato come tale. «Era seduto in macchina e ha fatto finta di togliersi il Rolex che Ugo gli voleva prendere e invece ha tirato fuori la pistola e ha sparato. Ugo ha avuto come un rimbalzo, poi si è girato verso di me e quello gli ha sparato un' altra volta. Poi ha sparato pure verso di me ma io sono scappato con il motorino». I dubbi Questo diciassettenne racconta la verità? Il carabiniere sostiene di no: «Il rapinatore a cui ho sparato solo per difendere me e la mia fidanzata si era affacciato dal finestrino. Mentre il complice era rimasto sullo scooter distante, come ha fatto dunque a sentirmi così lontano?». Ma, al di là delle opposte versioni, va sottolineato che il diciassettenne su tanti altri aspetti della vicenda non parla. Dice di non sapere. A partire dal fatto che Ugo aveva in tasca un Rolex e una collanina d' oro, probabile refurtiva di un' altra rapina andata a segno, fino al motorino con la targa clonata usata per la rapina. Le indagini serviranno anche a definire esattamente la contestazione del reato al carabiniere. «Per ora è omicidio volontario, un atto dovuto» precisa il procuratore Giovanni Melillo. Ma potrebbe subentrare l' eccesso della legittima difesa.

Rapinatore 15enne ucciso a Napoli, la confessione del complice: “Volevamo soldi per la discoteca”. La pista di un altro colpo: il ragazzino aveva in tasca un Rolex e una collanina. Il carabiniere che ha sparato è indagato per omicidio volontario. Il legale: " Dispiaciuto per il ragazzo, piena fiducia nella magistratura". Dario Del Porto e Conchita Sannino il 03 marzo 2020 su la Repubblica. Prima la rapina, poi la discoteca. L'avevano immaginato così, il loro sabato sera, il quindicenne incensurato Ugo Russo e l'amico di quasi due anni più grande. Gli servivano i soldi "per andare a ballare" , così avevano individuato la Mercedes e l'avevano seguita fino in via Generale Orsini. Lo ha raccontato agli investigatori F., l'altro minorenne fermato dalla Procura dei Colli Aminei con l'accusa di tentata rapina aggravata. F. compirà tra due mesi, a maggio, 17 anni. Non va a scuola, non svolge attività sportive, non ha occupazioni o passioni che non siano la strada e la caccia al denaro. Il resto è cronaca di questi giorni. Avvistata la vettura, Russo era sceso dal motorino con il volto coperto da casco e scaldacollo. Impugnava un'arma finta, ma simile a una " Beretta" originale. E il colpo è finito in tragedia. Nella macchina c'era un carabiniere libero dal servizio in compagnia della fidanzata che, sotto la minaccia della pistola puntata, ha reagito uccidendo Ugo. Adesso il militare, che ha 23 anni e lavora a Bologna, è indagato con l'ipotesi di omicidio volontario. Tre colpi sparati con l'arma d'ordinanza, ed è ovviamente la sua prima volta fuori dalle esercitazioni: quel militare era appena entrato in servizio, dallo scorso novembre. In questa fase, l'iscrizione rappresenta un atto dovuto, anche a tutela del carabiniere, in vista dell'autopsia e degli accertamenti che dovranno fare piena luce sulla vicenda. "Al momento è prematuro azzardare qualsiasi ipotesi o dichiarazione sul reato di cui dovrà rispondere il mio assistito visto che c'è un'indagine in corso e non c'è ancora nulla. È ancora tutto da accertare " , afferma Enrico Capone, il legale del carabiniere, a sua volta figlio di un brigadiere in servizio in una caserma cittadina. Aggiunge l'avvocato: "Siamo dispiaciuti per la morte del ragazzo, così anche la famiglia del carabiniere è sotto choc per quanto avvenuto. Ma siamo assolutamente tranquilli e soprattutto fiduciosi nell'operato della magistratura". Le indagini sono condotte dal Reparto operativo dell'Arma guidato dal colonnello Alfonso Pannone, sotto il coordinamento del pm Simone De Roxas, del pool diretto dal procuratore aggiunto Rosa Volpe. Anche il procuratore Giovanni Melillo segue personalmente il caso. Oggi il diciassettenne, assistito dall'avvocato Mario Bruno, comparirà davanti al giudice per l'udienza di convalida del fermo. Era stato lui, ha spiegato nel primo interrogatorio, a procurare la targa contraffatta apposta sul motorino e la pistola priva di "tappo rosso". Il giovane però ha escluso di aver commesso insieme a Ugo un'altra rapina prima di aggredire il carabiniere. Eppure, in tasca, Russo aveva un altro orologio di valore e una collanina, ritrovati dai sanitari dell'ospedale Vecchio Pellegrini, dove il ragazzo è arrivato già in gravissime condizioni. Ora si indaga per individuare la provenienza di quegli oggetti. Il quindicenne è stato raggiunto da due colpi di pistola, uno al torace e l'altro dietro al collo. Assistiti dall'avvocato Antonio Mormile, i familiari di Ugo chiedono giustizia e accusano: "Il carabiniere gli ha sparato una prima volta al corpo. Una volta finito a terra si è rialzato per scappare - sostiene Vincenzo Russo, il papà del ragazzo ma a quel punto il militare gli ha puntato la pistola contro sparando una seconda volta e colpendolo alla nuca mentre Ugo era di spalle. Poi ha inseguito l'altro ragazzo sparando ancora, ma mancando l'obiettivo". L'autopsia e i filmati della videosorveglianza della zona consentiranno di chiarire la dinamica del fatto. Il militare ha finto di slacciare il cinturino, poi ha estratto l'arma di ordinanza e ha sparato. Il carabiniere ha spiegato di essersi qualificato prima di sparare. Ma anche su questo punto, la versione dei diciassettenne è diversa, perché il giovane dice di non aver sentito il militare qualificarsi. Con Ugo a terra, il carabiniere ha poi chiamato il 112 e il 118. Il suo complice invece si è dato alla fuga. Come Russo, anche il suo amico non ha precedenti penali, mentre il padre ha avuto in passato guai con la giustizia. Abita nella zona del Pallonetto di Santa Lucia, ma dopo il fatto si è rifugiato a casa della nonna, ai Quartieri Spagnoli. Domenica mattina, F. ha fatto perdere le proprie tracce fino alle 13.30, quando gli investigatori lo hanno rintracciato insieme al padre. Non va a scuola e quando, durante il primo interrogatorio, gli hanno chiesto come trascorra le sue giornate, ha risposto candidamente: " In strada " . A fare cosa? "Niente". Cioè ? "Niente".

Il complice di Ugo Russo ai pm: "Ci servivano i soldi per la disco". Decreto di fermo per il 17enne, complice del 15enne che ha tentato di rapinare un carabiniere. Secondo il pm, i soldi della rapina sarebbero serviti ai due per andare a ballare. Francesca Bernasconi, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Volevano recuperare i soldi per andare a ballare. Sarebbe questo il movente della tentata rapina compiuta a Napoli ai danni del carabiniere 23enne. Ugo Russo e il complice 17enne avevano preso di mira l'automobilista con un Rolex al polso, senza immaginare che si trattasse di un militare armato. Secondo quanto riporta il Corriere del Mezzogiorno, il movente emerge dal decreto di fermo nei confronti del 17enne emesso dal pm minorile. L'udienza di convalida è fissata per questa mattina. Il ragazzo è accusato di tentata rapina. Secondo il pm, "non ci sono dubbi" sulla partecipazione del 17enne al tentativo di rapina "che era nato dal desiderio di procurarsi del denaro per andare a ballare (movente condiviso anche dal complice deceduto)". Secondo il pm, i due ragazzi avevano individuato la vittima e avevano seguito l'auto, nell'intenzione di sorprendere l'uomo durante le manovre di parcheggio. E così è stato: Ugo Russo si era avvicinato all'auto e, puntando una pistola (poi rivelatasi finta) alla tempia del carabiniere, gli aveva intimato di sfilarsi l'orologio. Ma il militare 23enne aveva reagito, sparando al 15enne, poi morto in ospedale per le gravi ferite. Per il pm sussisterebbero anche il pericolo di reiterazione del reato e quello di fuga dell 17enne. La reiterazione sarebbe giustificata dal fatto che la pistola e lo scooter con targa falsa erano suoi: "La detenzione di tali beni chiarisce che il minore aveva preparato gli strumenti di azione programmando la rapina e tanto dimostra la certa probabilità di reiterazione", si legge nel documento. Inoltre, come avrebbe ammesso lui stesso, non frequenta la scuola e spesso trascorre le giornate per strada. Il pericolo di fuga, invece, sarebbe giustificato dalla difficoltà nel ritracciare il giovane, dopo gli eventi: il 17enne si era recato prima dalla nonna, per poi recarsi in un'altra abitazione. "Resta il fatto - scrive il pm - che i familiari del minore, contattati più volte al telefono, non fornivano indicazioni utili per rintracciarlo e questi non era raggiungibile. Appare chiaro che vi è stata una interruzione dei contatti con l' autorità dalla notte del delitto fino alle 13.30, quando la polizia giudiziaria recuperava il minore con il padre". Proprio questi eventi indicherebbero il pericolo di fuga, "se il minore venisse messo in libertà". Secondo quanto riporta AdKronos, il ragazzo che accompagnava Ugo Russo avrebbe ripercorso gli eventi di quella notte, raccontando: "Guidavo il motorino, ma non è mio. Mi sono fermato a due, tre metri dalla macchina del ragazzo, Ugo è sceso, gli ha chiesto l'orologio, lui ha fatto il gesto, come per sfilarselo, e a quel punto ha sparato. Ma no, non ha detto di essere un carabiniere". Poi ha aggiunto: "Un primo colpo ha raggiunto Ugo al petto tanto da farlo sbalzare indietro. Si è girato per tornare verso di me. Il secondo proiettile, però, lo ha preso alla testa. Altri due colpi sono stati esplosi, credo verso di me e infatti sono scappato via". 

Simone Di Meo per “la Verità” il 4 marzo 2020. Volevano andare in discoteca, e per questo hanno deciso di rapinare un giovane a bordo di una Mercedes che sfoggiava un bell' orologio mentre era impegnato a parcheggiare. Mai immaginando che, dalla pista da ballo, sarebbero passati uno all' obitorio e l' altro a una comunità di recupero. Ugo Russo e il complice F. D. C., 17 anni, dovevano portare a termine un colpo facile facile, nella notte tra sabato e domenica, nella zona di Santa Lucia, a poche decine di metri dalla sede della Regione Campania. Solo che quel giovane con la faccia sbarbata e l' aria innocua era un carabiniere in abiti civili, in compagnia della fidanzata, che ha fatto fuoco per difendersi. Ammazzando il primo e mettendo in fuga il secondo. È stato proprio F. D. C., che ieri si è visto convalidare il decreto di fermo dal gip del Tribunale dei minorenni di Napoli per tentata rapina aggravata in concorso, a raccontare al pubblico ministero i minuti precedenti la tragedia. «Ci servivano i soldi per il locale», ha biascicato al magistrato. «E così abbiamo deciso di fare la rapina». Ricostruzioni parziali di uno scenario investigativo a più voci in cui lo stesso giovane è al tempo stesso indagato e testimone. «Le indagini sono finalizzate a capire in quale maniera siano stati esplosi i colpi d' arma da fuoco da parte del carabiniere (indagato per omicidio volontario) e stabilire se i colpi sono stati esplosi in una condizione di legittima difesa per se stesso e la ragazza che stava con lui, se per cercare di evitare che gli venisse sottratto l' orologio, o se la sua reazione sia stata eccessiva», ha riassunto il legale del ragazzo, Mario Bruno. Il giovane F. D. C. dovrà iniziare un percorso di recupero lontano da Napoli e probabilmente riprendere gli studi. «Doveva frequentare il primo anno delle superiori ma ha deciso di lasciare. Stava cercando lavoro ma non lo trovava. È difficile trovarlo», ha aggiunto il legale provando ad accreditare l' immagine di un giovane vittima dei meccanismi della società. Sui social, F. D. C. sfoggia però foto con pose da duro e un vistoso orologio prezioso. Un modello che ricorda quello ritrovato, nelle tasche del jeans di Russo, dai medici dell' ospedale al momento del decesso. Un Rolex di cui i familiari del giovane non hanno saputo spiegare la provenienza, e che probabilmente rappresentava il bottino di un precedente raid. Insieme all' accessorio era stata rinvenuta pure una collanina d' oro di cui però il papà di Ugo, Vincenzo Russo, una sfilza di precedenti ma nessun rapporto con la camorra, ha rivendicato titolarità. «Era di mio figlio, non l' aveva rubata», ha giurato. Sempre i genitori di Ugo, ieri hanno voluto prendere le distanze dalle selvagge aggressioni che si sono verificate nel pronto soccorso dell' ospedale Pellegrini la notte della rapina. «Siete tutti dispensati dai fiori», ha detto il padre tramite l' avvocato Antonio Mormile rivolgendosi agli amici e ai parenti «vi chiedo di donare 1 euro al Pellegrini per ogni fiore che avreste portato a mio figlio». Che cosa sia successo quella sera, in corsia, non è però ancora chiaro. «Io e i miei familiari pensavamo a Ugo, non a danneggiare l' ospedale». L' inchiesta sulla devastazione è tuttora in corso, e si attende l' acquisizione dei filmati delle telecamere all' ingresso della struttura per identificare e denunciare gli autori. Al Pellegrini, proprio quella notte, è deceduta una donna di 39 anni, Irina, ridotta in fin di vita dal compagno. I genitori di lei, che attendevano in rianimazione l' arrivo dei medici, sono stati spintonati e calpestati dai criminali che hanno sfasciato computer e barelle. Al capezzale di Irina, in quelle fasi, nessuno era presente perché tutti - camici bianchi e infermieri - erano impegnati a bloccare la furia disumana di bestie scatenate. E lei è morta tra le urla, da sola. Il carabiniere indagato per omicidio volontario si prepara comunque alla battaglia giudiziaria. «Le indagini accerteranno che il comportamento del mio cliente è stato impeccabile», ha spiegato l' avvocato Enrico Capone, legale del militare. «È molto provato e dispiaciuto per l' accaduto: parliamo di una persona deceduta che ha solo 15 anni. Ci sono sentimenti contrastanti in lui, sofferenza per l' accaduto ma anche serenità e fiducia nell' operato dell' autorità giudiziaria». Riguardo all' imputazione contestata al suo cliente, l' omicidio volontario, l' avvocato Capone ha spiegato che «durante le indagini vengono ipotizzati dei reati ma solo successivamente si acclara se sussistono o meno, oppure se ne sussistono altri. C' è un' indagine in corso e siamo fiduciosi in merito all' esito delle attività investigative che confermeranno l' esito impeccabile del comportamento del mio assistito». Intanto, sul fronte del lavoro inquirente, c' è da rilevare lo scoop messo a segno ieri dal giornalista Giuseppe Pizzo di Chi l' ha visto? che è riuscito a identificare un terzo testimone oculare della rapina. Un uomo che ai microfoni della trasmissione Rai ha raccontato di aver sentito tre colpi di pistola. «Come ho visto quello in macchina (il carabiniere, ndr) prendere la pistola sono scappato». Potrebbe essere la sua versione quella che farà chiarezza una volta per tutte.

Rapina per andare in discoteca, il papà di Ugo: “Niente fiori, date soldi all’ospedale”. Redazione de Il Riformista il 3 Marzo 2020. Ha chiesto scusa per quello che ha fatto spiegando che quella rapina l’avevano pianificata per “racimolare soldi e andare a ballare”. Così davanti al Gip del Tribunale dei Minori il 17enne, complice di Ugo Russo, il ragazzo di 15 anni ucciso nella notte tra sabato e domenica, poco prima dell’una, da un giovane carabiniere di 23 anni nel corso di un tentativo di rapina del Rolex che il militare, libero dal servizio e in compagnia della fidanzata, indossava quella sera.

SOLDI PER L’OSPEDALE – Il fermo è stato convalidato con il 17enne, incensurato come la vittima, che al momento si trova in comunità. Risulta indagato per omicidio volontario il carabiniere che ha premuto tre volte il grilletto. In attesa che nei prossimi giorni venga svolta l’autopsia sul corpo di Ugo Russo, il papà ha invitato tutti a dispensare dal portare fiori “per mio figlio” consigliando di fare “invece una offerta all’ospedale dei Pellegrini a titolo di ristoro per quanto accaduto subito dopo la sua morte”. Il riferimento è al pronto soccorso devastato da familiari e amici della giovane vittima, circa una ventina di persone, subito dopo appresa la notizia del decesso. Le indagini sono condotte dal Reparto operativo sotto il coordinamento del pm Simone De Roxas, del pool diretto dal procuratore aggiunto Rosa Volpe. Gli investigatori avrebbero già identificato alcuni soggetti che domenica notte hanno danneggiato il pronto soccorso. Vincenzo Russo ha poi spiegato che la collanina che Ugo aveva in tasca, quando è morto (ritrovata insieme a un Rolex dal personale medico in ospedale), era di sua proprietà e non il risultato di una rapina commessa poco prima. “Tante foto lo dimostrano” ha aggiunto il genitore.

VERTICE IN PREFETTURA: “TELECAMERE AL PRONTO SOCCORSO”  – Intanto in mattinata si è svolta in Prefettura una riunione tecnica di coordinamento interforze presieduta dal prefetto Marco Valentini con la partecipazione dei vertici provinciali delle Forze dell’ordine per l’analisi dei fatti accaduti nella notte di domenica 1 marzo scorso. Uno dei temi maggiormente affrontati è quello relativo alla devastazione del Pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini e ai colpi di arma da fuoco esplosi contro la caserma Pastrengo, sede del Comando provinciale dei Carabinieri di Napoli. Circostanza questa che ha dato luogo a due ipotesi di indagini: la prima relativa a una intimidazione contro i militari dell’Arma per l’omicidio del 15enne, la seconda porta invece gli investigatori a tenere aperta la pista dell’intimidazione al 17enne che in quel momento si trovava all’interno degli uffici dei carabinieri e ritenuto “responsabile” di aver “mandato avanti” l’amico più piccolo. Nel corso dell’incontro è stata programmata l’intensificazione del controllo del territorio da parte delle Forze dell’ordine attraverso operazioni congiunte, mirate e straordinarie ad alto impatto, che si svolgeranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane in diverse aree cittadine. E’ stato inoltre verificato lo stato di attuazione del cronoprogramma per l’installazione dei sistemi di videosorveglianza presso le sale di pronto soccorso e a bordo delle ambulanze nonché dei collegamenti telefonici punto a punto tra le strutture sanitarie e le sale operative delle Forze di polizia. A tale riguardo, il Prefetto ha convocato una riunione per lunedì 9 marzo, che fa seguito al precedente incontro del 7 gennaio scorso, con tutti i Direttori generali delle Aziende Sanitarie Locali e gli altri interlocutori istituzionali interessati per l’aggiornamento e la verifica delle  misure adottate al fine di contrastare il fenomeno delle aggressioni presso i presidi ospedalieri. Il 12 marzo è invece in programma il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica volto al coordinamento e all’approfondimento di tutte le iniziative formative, educative e di carattere sociale  per la prevenzione ed il contrasto della devianza giovanile.

Inseguito da poliziotto dopo rapina, urla: “Sparami lota”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 3 Marzo 2020. Armato di pistola e con il volto coperto da uno scaldacollo e da un cappello di lana, ha fatto irruzione domenica sera (1 marzo) all’interno del Carrefour di via Solario al Vomero facendosi consegnare da due dipendenti i soldi presenti nelle casse, circa 1500 euro. Erano le 20.30 e tra i pochi clienti presenti c’era anche un poliziotto libero dal servizio che ha provato a inseguire il malvivente all’esterno del supermercato, rovinando i piani del rapinatore solitario che aveva parcheggiato poco distante uno scooter. Durante la fuga a piedi – secondo quanto riferito da alcuni testimoni al Riformista – il malvivente, probabilmente a conoscenza di quanto successo la notte precedente, quando un carabiniere ha ucciso a colpi d’arma da fuoco un ragazzino di 15 anni intento a rubargli un Rolex, ha ripetuto più volte in modo provocatorio la stessa espressione: “Sparami lota“. Parole che non hanno intimorito l’agente che, tuttavia, non è riuscito ad acciuffarlo, anche perché durante l’inseguimento ha rischiato di essere investito da un’automobile che transitava nelle traversine comprese tra piazza Medaglie d’Oro e via Piscicelli. Il rapinatore è riuscito così a dileguarsi lungo i giardinetti di via Ruoppolo ed è attualmente ricercato dalla polizia. Sul posto sono intervenuti gli agenti dell’Ufficio Prevenzione Generale della polizia, oltre al responsabile territoriale sicurezza Carrefour Nino Giudice e al responsabile guardie di sicurezza “Sicuritalia” Enzo Nugnes. Quest’ultimi infatti, ispezionando l’area esterna al supermercato, hanno notato uno scooter parcheggiato e a poca distanza, nascosto parzialmente sotto a un’auto in sosta, uno zaino. All’interno erano presenti indumenti e un paio di scarpe probabilmente riconducibili al rapinatore. Quest’ultimo, con il passare delle ore, sarebbe stato identificato dagli agenti di polizia ed è attualmente ricercato.

Dagospia il 3 marzo 2020. Frase shock di Angelo Ciocca europarlamentare della Lega sui genitori del ragazzo di Napoli ucciso durante la rapina: “i genitori dovrebbero suicidarsi”. Durante la puntata di Mattino 5 andata in onda questa mattina l’europarlamentare Angelo Ciocca discutendo in maniera accesa con Sara Manfuso si riferisce così ai parenti di Ugo Russo.

Luca Fazzo per ilgiornale.it il 3 marzo 2020. Il documento porta la data del 28 giugno 2018, e costringe a leggere diversamente la tragica storia di Ugo Russo, il ragazzo napoletano ucciso sabato notte durante il tentativo di rapina a un carabiniere. Il documento aiuta a capire il contesto, il percorso umano e familiare che ha portato un adolescente a infilarsi nell'impresa che lo ha portato alla morte. Perché il documento, firmato dalla Procura generale di Milano, riguarda il padre di Ugo: Vincenzo Russo. trentotto anni, l'uomo che in questi giorni ha raccontato davanti alle telecamere il suo strazio. Ma che la Procura di Milano accusa di essere un professionista dello stesso tipo di rapine costate la vita a suo figlio. Non ha dovuto guardare lontano, il povero Ugo, per cercare un esempio sbagliato da imitare. L'impresa che la Procura di Milano attribuisce a Vincenzo Russo è la fotocopia - più organizzata, più professionale - di quella che sabato suo figlio realizza a Napoli. Il 24 settembre 2013 in via Ripamonti, nel capoluogo lombardo, l'auto di un avvocato viene accostata da uno scooter che gli urta lo specchietto, poi il guidatore si ferma e accusa l'avvocato di avergli fatto male alla mano. Appena l'avvocato abbassa il finestrino, arriva un altro scooter, il passeggero lo colpisce al volto e gli strappa una Audermars Piguet da 40mila euro. Nel pomeriggio dello stesso giorno, dall'altra parte di Milano viene messa a segno un'altra rapina identica. La Volante si mette alla caccia degli autori, intercetta due scooter, li insegue. Uno dei motocicli si schianta. A bordo c'è Vincenzo Russo, il padre di Ugo. Viene portato in ospedale, indagato dalla Volante per entrambi i colpi. La sua fotografia viene mostrata all'avvocato rapinato al mattino: che lo riconosce senza ombra di dubbio. «É lui». Ai poliziotti che gli chiedono conto della sua presenza a Milano, Russo spiega di essere disoccupato e di essere salito al nord per cercare di vendere dei profumi. Ma non vengono trovate tracce né di flaconi né di boccette. E dalla banca dati della polizia saltano fuori altre condanne già ricevute dall'uomo per imprese analoghe. Per la Procura, Vincenzo Russo fa parte delle batterie di napoletani che salgono a Milano per i «colpi dello specchietto». E nella richiesta di rinvio a giudizio gli viene contestata la «recidiva reiterata e specifica». Russo chiede di essere ammesso al rito abbreviato: e il 28 maggio 2018 viene assolto, il giudice non crede al riconoscimento effettuato dall'avvocato rapinato. Ma la Procura generale non si arrende e attraverso il sostituto Massimo Gaballo presenta ricorso contro l'assoluzione. Gli elementi contro il padre di Ugo, scrive il pg, sono «chiari, univoci, concordanti». C'è il riconoscimento da parte della vittima, «assolutamente certo ed esente da qualsiasi indecisione o dubbio», ma non solo. Ad incastrarlo, secondo l'accusa, c'è lo scooter, quello con cui si è schiantato nel pomeriggio mentre scappava dalla Volante. «Conferma ulteriore della responsabilità del Russo si rinviene dai filmati e dal sequestro del motorino () si allegano due fotogrammi dai quali emerge in maniera evidente che il ciclomotore sequestrato al Russo è lo stesso ciclomotore utilizzato dal rapinatore n. 1 nella rapina in via Ripamonti». Ora ci sarà l'appello. Ma Vincenzo Russo ha altre angosce con cui fare i conti.

La rabbia della colpa e il silenzio del sacrificio. Domenico Ferrara il 3 marzo su Il Giornale. “Con ferma determinazione, esemplare iniziativa e insigne coraggio, presente in abiti civili per indagini di polizia giudiziaria all’interno di un ufficio postale, non esitava ad affrontare due malviventi sorpresi in flagrante rapina e, senza fare uso dell’arma in dotazione per non compromettere l’incolumità delle numerose persone presenti, riusciva a immobilizzare uno di loro. Aggredito proditoriamente alle spalle da altro rapinatore, ingaggiava una violenta colluttazione, nel corso della quale veniva attinto da un colpo d’arma da fuoco. Benché gravemente ferito, tentava di porsi all’inseguimento dei malfattori in fuga prima di accasciarsi esanime al suolo. Fulgido esempio di elette virtù militari e altissimo senso del dovere, spinti fino all’estremo sacrificio”. Con questa motivazione, il 14 maggio del 2009 a Marco Pittoni fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Il tenente Marco Pittoni, il 6 giugno 2008, si trovava, insieme ad un collega, all’interno dell’ufficio postale di Pagani (Salerno) quando in esso irruppero tre rapinatori. Pittoni non indossava la divisa. Era in borghese. Non esitò un attimo e intimò ai rapinatori di arrendersi. Uno di loro, un 17enne appartenente al clan Gionta di Castellammare di Stabia, non lo ascoltò. Aprì immediatamente il fuoco contro i due carabinieri. Il tenente Marco Pittoni venne colpito da due proiettili, alla gola e all’addome. Morì all’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore dopo un intervento chirurgico. In queste ore sui social circola la sua foto e la sua storia. Inevitabile il parallelismo con la vicenda di Napoli. Si dice che all’epoca i familiari non distrussero alcuno ospedale. Vero. Si dice che non ci furono interviste tv in cui a squarcia gola si inveiva contro l’assassino e si gridava vergogna. Vero. Si dice che non ci furono talk o dibattiti sulla legittima difesa. Vero anche questo. Si dice che nessuno sparò, neanche per protesta, alla casa in cui vivevano i delinquenti. Tutto vero. Ma tutto prevedibile. Il silenzio del sacrificio. Perché nel mondo dell’Arma, che poi altro non è che il mondo della legalità, regnano la compostezza, il senso del dovere, la dignità. È un mondo che purtroppo non fa notizia, che spunta nei trafiletti dei giornali. “Ha fatto il suo dovere e purtroppo è morto”, è il massimo della disquisizione. Poi ripercorri quello che è successo a Napoli giorni fa e il mondo agli occhi di alcuni si capovolge. Un carabiniere, anche lui senza divisa, con una pistola alla tempia puntata da un rapinatore di 15 anni viene indagato. Perché ha sparato, per come ha reagito, perché ha ucciso. La caserma dei carabinieri è stata circondata e presa di mira. I genitori come reazione hanno devastato un pronto soccorso. Per rabbia. Contro lo Stato, pensano loro, incapace di garantire un futuro a loro figlio. Uno Stato che compie ingiustizie, che non “circoscrive” una semplice rapina. Ma la loro è la rabbia della colpa. Cieca, in ogni senso. La rabbia inconscia che cela le mancanze dei genitori incapaci di porsi un’unica sensata domanda: “Perché ho fallito con mio figlio?”. La stessa rabbia che probabilmente avrebbero nutrito i genitori del 17enne che ha premuto il grilletto contro il tenente Marco Pittoni. “Io sono un carabiniere”. Quella frase pronunciata in modo ben distinto è lettera morta. L’ha pronunciata anche il carabiniere 23enne indagato per l’omicidio di Ugo Russo. Ma non è servita a nulla. Restano solo la rabbia della colpa e il silenzio del sacrificio.

Ugo, ucciso a 15 anni e le vite bruciate nei vicoli di Napoli. Roberto Saviano su La Repubblica il 03 marzo 2020. Ugo Russo, 15 anni. Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, dopo una tentata rapina con una pistola giocattolo a Santa Lucia, quartiere in agonia da decenni, da quando è finito il contrabbando di sigarette che lo aveva reso “la Fiat di Napoli”. Da un lato i palazzi della burocrazia, i condominii borghesi, dall’altro il quartiere popolare, che arranca tra affitti ai turisti e disoccupazione cronica. È l’alchimia della città che costringe a vivere vicini ricchi e poveri, magistrati e criminali, onesti lavoratori e disonesti, laureati e persone che a stento hanno un diploma di terza media. Tutti insieme a tifare Napoli negli stessi bar, a giocare a pallone nelle stesse piazze: figli della borghesia e figli della strada. Un’origine comune del proprio sentire che è svanita in quasi tutte le capitali occidentali e che invece a Napoli resiste, rendendola speciale: l’uomo si affanna a creare barriere ma poi ci pensano le strade e le piazze, l’accesso al mare e la comune minaccia del mansueto Vesuvio ad azzerare tutto, a rendere la vita fluida, vera, promiscua, comune. Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, colpito da un carabiniere fuori servizio che doveva essere la “vittima” a cui sottrarre il bottino e che invece diventa il carnefice. Ugo Russo non sapeva che il 23enne a bordo della Mercedes e con il Rolex al polso era un carabiniere: come avrebbe potuto? Era Ugo a essersi travestito da cattivo; era lui a dover fare paura, anche se con una pistola giocattolo. Non poteva immaginare che si sarebbe trovato di fronte un carabiniere che avrebbe impugnato un’arma, che avrebbe sparato e ucciso. Questa è una tragedia di cui Napoli è responsabile. Questa è una tragedia di cui siamo responsabili tutti noi che ci occupiamo e preoccupiamo di ciò che accade al Sud, di ciò che accade a Napoli. Questa è una tragedia che dimostra, senza possibilità di smentita, che abbiamo fallito ancora e che dobbiamo cambiare passo. “Noi non siamo Gomorra!” sento ripetere all’infinito. Ma Gomorra è la descrizione di un sistema economico: quando manca tutto, investimenti, opportunità, istruzione, lavoro, risorse, imprese, quando le infrastrutture lottano con la perenne mancanza di fondi, lì c’è Gomorra. Gomorra non è sinonimo di camorrista; essere Gomorra non significa impugnare armi, minacciare, spacciare, uccidere. E non essere Gomorra non significa indignarsi, incazzarsi, ma lavorare per curare, non smettere di cercare l’antidoto al veleno, creare un sentiero, non il nulla, non la devastazione, non l’incuria, non le macerie. Ugo Russo era iscritto a un istituto tecnico che non frequentava. Non si può a 15 anni, a Napoli, lasciare la scuola. Se lasci la scuola, in generale, avrai più difficoltà ad avere accesso a un lavoro dignitoso, ma se poi in un contesto economicamente depresso lasci la scuola, se a Napoli lasci la scuola, sei fottuto, perché perdi l’unica opportunità che avrai nella vita per non essere schiavo non solo delle organizzazioni criminali, ma soprattutto del lavoro nero e mal retribuito, schiavo di datori di lavoro senza scrupoli che approfittano della disperazione per pagare poco e pretendere tutto. E dove non c’è lavoro, dove non ci sono opportunità, dove c’è dispersione scolastica, dove andare a scuola e istruirsi è considerato un lusso, o una perdita di tempo, dove non ci sono risorse per riportare a scuola i minorenni che decidono di abbandonare gli studi senza altra prospettiva, senza alcuna alternativa alla strada, proprio lì c’è Gomorra. E c’è nella peggiore delle derive possibili perché nessuno aveva mai pensato che oltre Gomorra potesse esserci qualcosa di peggio. Chissà, mi sono chiesto, se di Ugo Russo si ricorderà qualche assistente sociale. Chissà se qualcuno si era premurato di capire perché Ugo avesse lasciato la scuola. E mentre scrivo so che, oltre alla famiglia, oltre agli amici, c’era chi pensava a Ugo, chi a Ugo ancora ci pensa e immagino non riesca a darsi pace per quello che è successo. L’Associazione Quartieri Spagnoli Onlus posta su Facebook una foto di Ugo impegnato, credo, in attività laboratoriali. Insieme alla foto c’è un verso straziante di Dietrich Bonhoeffer: “Oh, se sapessi dov’è la strada che torna indietro, la lunga strada per il paese dei bambini”. La foto ritrae Ugo bambino, quando tutto era ancora possibile. Prima di abbandonare la scuola, prima di crescere pensando che puoi solo ottenere strappando ad altri ciò che vuoi, perché altri strappano e strapperanno a te ciò che vogliono. E non ci accorgiamo che tutto questo è davvero troppo perché possa gravare su famiglie che non ce la fanno, su associazioni di volontari che aiutano perché sanno che manca tutto? Non ci accorgiamo che serve aiuto vero, costante, perenne? Sembra una banalità, ma dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, dai 3 almeno fino ai 14 anni bambini e ragazzi devono stare a scuola, perché solo standoci, vivendola, decideranno di non abbandonarla, di continuare quel percorso, che poi è l’unico che può generare emancipazione dai contesti più difficili. La conoscenza è un diritto che abbiamo, un diritto inalienabile e gratuito, un diritto a cui non dobbiamo rinunciare. Un diritto che dobbiamo pretendere e per cui dobbiamo lottare. La conoscenza è padre e madre di tutti i diritti. Se non c’è conoscenza non esiste consapevolezza di ciò che siamo, di ciò che potremmo essere, di ciò che vogliamo o che non vogliamo essere. Senza conoscenza non c’è passato e non c’è futuro, ma solo le necessità del momento. Senza conoscenza siamo prede anche se ci travestiamo da carnefici. Quando finalmente daremo alla scuola l’importanza vitale che merita, con soldi veri e non parole, capiremo che pronto soccorso e ambulanze sono di tutti e che non vanno devastati, che vanno anzi presidiati, protetti, soprattutto oggi che stiamo tutti insieme vivendo un momento delicato per la diffusione del coronavirus. A Napoli c’è un sentire comune che però non ci consente di comunicare davvero. C’è diffidenza da un lato, paura dall’altro; manca una lingua comune che va cercata, imparata ed esercitata sui banchi di scuola. Napoli è una città che ama guardarsi in uno specchio deformante per vedersi normale. Napoli è La cupa di Mimmo Borrelli, un capolavoro mostruoso, opera teatrale di un genio disperato. Napoli è città avvelenata, come la cava di Giosafatte ’Nzamamorte, dove tutti sono in guerra con tutti. Napoli è Giosafatte ’Nzamamorte e cioè un padre che non riesce a fare il padre, è città immobile anche se sembra in continuo movimento. Napoli è Maria delle Papere, ragazza ingenua, cieca, quasi ferina. Napoli è Tummasino Scippasalute, che rovina la vita degli altri solo perché è la sua vita a essere stata compromessa per prima e per sempre. «Noi non siamo Gomorra» e mentre lo diciamo, abbiamo dimenticato cos’è Gomorra e quindi abbiamo dimenticato cosa non vogliamo essere: un cancro che si nutre del sangue dei suoi ragazzi e delle sue ragazze, e degli errori che non hanno soluzione.

Maurizio Patriciello per Avvenire il 3 marzo 2020. Breve come il tuo nome è stata la tua vita, Ugo. Quindici anni per sempre, un leggero battito d' ali, un sussurro appena. Quasi la stessa età del venerabile Carlo Acutis. Sono certo che in paradiso Carlo ti sarà venuto incontro, magari ti avrà spiegato che nessun uomo ha il diritto di fare male a un altro uomo, ma solo il dovere di amarlo. Che ti è successo, Ugo? Dov' è che si è inceppato il processo educativo cui avevi diritto? Per favore aiutaci a capire, da soli rischiamo di girare a vuoto, di ripetere le solite, insopportabili, frasi a effetto, a fare e farci inutilmente male. Vogliamo andare a fondo, scavare nei meandri del mondo giovanile, della camorra napoletana, della delinquenza minorile, perchè la tua morte non sia vana. Per poter tendere una mano ai tanti ragazzini di Napoli e dintorni che domani notte usciranno di casa con la pistola in tasca per commettere lo stesso inaudito errore che hai commesso tu. Credimi se ti dico che in tante case della nostra città si sta piangendo la tua scomparsa. Domenica, in chiesa, abbiamo pregato per te, per la tua famiglia, per il giovane che ti ha colpito. La tua morte, purtroppo, non ha niente di eroico e questo ci fa male. La tua è stata una morte tragica sotto ogni punto di vista. Chi ti aveva messo in mano quell' orribile pistola, Ugo? Avevate, tu e chi era con te, agganci con 'amici' più grandi di età? Nessuno ti aveva detto, Ugo, che rapinare, oltre a essere un peccato grave, è un reato che può costare caro? Nessuno ti aveva mai parlato del carcere minorile dove finiscono i ragazzi che come te cadono nella trappola della delinquenza? Qualcuno ti aveva avvertito dei pericoli nascosti in ogni azione disonesta? A quindici anni la vita è tutta da scoprire. È bella, unica, preziosa, ma anche tanto fragile, la vita che, purtroppo, tu hai potuto assaporare appena. La tua famiglia, alla notizia che eri volato via, ha sfasciato il Pronto Soccorso dell' ospedale dove medici e infermieri avevano fatto di tutto per salvarti. Atti illogici, violenti, inutili, stupidi, dannosi. Risultato: strumenti indispensabili per diagnosticare e curare malattie rovinati, personale ospedaliero impaurito, pazienti terrorizzati. Queste cose non si fanno. Per queste azioni blasfeme non ci sono né ci potranno essere giustificazioni. Una doppia orribile pagina di cronaca è stata scritta quella notte. Credo che anche tu, Ugo, da lassù, sei rimasto orripilato da tanta gratuita brutalità. I napoletani sono stanchi di queste sceneggiate oscene. Come sarebbe bello, Ugo, se tutti insieme ci dessimo da fare per tornare alla normalità. Come sarà bello il giorno in cui la gente potrà passeggiare per la città senza correre il rischio di essere rapinata, o addirittura uccisa per errore, durante una sparatoria tra clan rivali, come accadde alla tua coetanea, Annalisa Durante. Abbiamo bisogno di sognare il giorno in cui i ragazzini si comporteranno da ragazzini senza scimmiottare i gesti e gli atteggiamenti del boss del suo quartiere. Dobbiamo affrettare il giorno in cui sottoscrivere un' alleanza vera tra genitori, scuola, chiesa, adulti responsabili, società civile e politica. Per il bene dei ragazzi come te. Con le lacrime agli occhi e il cuore a lutto, mi domando: chi ha ucciso Ugo Rossi? A sparare, è vero, è stato il carabiniere che avrebbe voluto derubare. Ma la vita di questo quindicenne cresciuto troppo in fretta è stata falciata da chi aveva precisi doveri verso di lui e non li ha adempiuti. Ognuno, allora, abbia il coraggio di fare l' esame di coscienza. A cominciare da chi scrive, passando per la sua famiglia, il suo quartiere, la sua scuola, la sua città. Addio, Ugo. Addio, piccolo uomo.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2020. L'argomento è il malvivente napoletano di 15 anni che ha cercato di rapinare un carabiniere che poi, per difendersi, gli ha sparato, ammazzandolo, dopodiché è successo che alcuni «parenti» e gentaglia varia hanno devastato il pronto soccorso dove era ricoverato il ragazzo. Il carabiniere è formalmente indagato, addirittura per omicidio volontario, i parenti e i devastatori no. Anticipo di giudizio: io preferirei il contrario, anzi, da garantista gradirei che parenti e devastatori passassero qualche giorno a Poggioreale con la facoltà di non farli uscire sinché non abbiano pagato i danni. Invece sono lì che rilasciano interviste. I devastatori, gli incivili, sapete che cosa chiedono? «Giustizia». Non hanno capito una cosa: giustizia è già stata fatta. E giustizia non è ammazzare a bruciapelo chiunque tenti uno scippo: giustizia è sapere (essere educati a sapere) che se vai in giro a fare rapine, può finire così, prima o poi finirà così, e il fatto che uno abbia 15anni non è un motivo per cui non lo sappia: è un motivo, soprattutto a Napoli, per cui lo sappia tre, dieci, mille volte, e lo impari come imparavano i bambini che nella scuola di una volta riscrivevano sempre la stessa frase alla lavagna. Ma chi dovrebbe insegnarglielo? I genitori, quelli che devastano gli ospedali? I genitori di un figlio che a 15 anni è in giro a mezzanotte, anche perché tanto non va più a scuola? I genitori che non sanno che l' orologio e la catenina del figlio sono frutto di altri colpi, di altre rapine? Ma ripartiamo da lontano, molto lontano. L' altra sera si stava guardando "Zerozerozero", la nuova fiction nata «da un' idea di Roberto Saviano» il quale ormai, è bene ripeterlo, è considerato il maggior responsabile della riqualificazione d' immagine della camorra, del vivere senza Stato sin da bambini, delle centinaia di ragazzini che sfilavano per il casting di "Gomorra" quarta serie, dei tagli di capelli e dei tatuaggi ispirati ai vari attori, in sostanza di questa griffe culturale dove i camorristi sono belli, forti, uccidono e non hanno paura di essere uccisi, senza esempi positivi o figure sane, senza mai polizia, e dove, la sera dopo che c' è stata una puntata del serial - l' ha ammesso anche De Magistris - aumentano le "stese", ossia le sparatorie delle baby gang: fuoco contro tutto e tutti, senza un senso preciso. Basti che, in tal senso, il magistrato napoletano Federico Cafiero de Raho - che avviò l' inchiesta "Spartacus", da cui prese le mosse la saga di Saviano - è stato tra i primi a criticare il serial perché «quel racconto ha innescato un fenomeno di adesione molto forte». L'altra sera si stava guardando "Zerozerozero", dicevamo, ed è scappata la frase: «Sembra Napoli». Invece era Monterrey, in Messico, e, al di là dello squallore del paesaggio fatto di incuria e brutture varie, lì non c' erano i camorristi bensì i narcos, che pure condividono lo stesso core business. Ma a ricordare Napoli era un' altra cosa: i ragazzini. Sembravano gli stessi ragazzini, in scooter senza casco, spavaldi, emozionati e ansiosi all' idea di aderire a un importante cartello criminale, e, nell' attesa, divertiti nel fare apprendistato facendo piccole rapine. È inutile che i napoletani di buona estrazione s' incazzino: Napoli resta un pezzo di Sudamerica in Europa, un posto dove è ancora prudente levarsi l' orologio costoso dal polso (più di marca che costoso: non è che i ragazzini capiscano di orologi) e dove in certe zone è meglio non passare, perché i quartieri cosiddetti malfamati sono davvero malfamati, e dove, anche solo sul lungomare, mentre si è rilassati con la propria ragazza, può arrivare uno spacconcello abituato a essere «duro» e non tirarsi indietro neppure se ti qualifichi come carabiniere. Ergo: tra persone normali, un commento sul 15enne che ha cercato di rapinare un carabiniere che poi l' ha ammazzato, coi "parenti" a devastare il pronto soccorso, beh, un commento non servirebbe. È già nei fatti. Non c' è nulla che tu possa aggiungere alla capacità di (in)comprensione di questi poveretti che crescono così, e delle loro famiglie che li hanno cresciuti così. Il punto di vista prevalente, probabilmente, è che a questo ragazzino è andata di sfiga: proprio un carabiniere, doveva beccare. Peggio: un carabiniere fresco di nomina, magari uno ancora convinto che se uno ti punta la pistola alla tempia (quella che risulta essere una pistola) difendersi è il minimo. Un carabiniere che non è ancora diventato un sociologo o un pedagogo criminale, non ancora convinto che se ti rapinano con una pistola, a Napoli, dovresti fare finta di niente e fare discorsi di antropologia urbana. È andata così. C' è una coppia romanticamente appartata sul lungomare vicino a Santa Lucia. Arrivano due ragazzetti in scooter con una pistola finta ma non riconoscibile come tale e i due puntano all' orologio di lui. Parentesi: furti del genere, a Napoli, ce ne sono due miliardi al giorno, e certo non finiscono sui giornali. Prima di altro, il carabiniere si qualifica come tale, ma quelli se ne fregano: sarà una balla, e poi: da quando gli sbirri fanno paura? In Gomorra la polizia non si vede, non esiste, i camorristi muoiono perché s' ammazzano tra di loro. La pistola è puntata alla tempia, l' auto è parcheggiata in modo da non riuscire a svicolarsi, poi un rumore metallico (forse la finta carica della finta pistola) che induce il carabiniere a reagire anche per proteggere la sua ragazza, infine c' è una successiva dinamica in cui c' è un carabiniere che fa il carabiniere e c' è una pistola che fa quello per cui gli è stata data: sparare, difendere, offendere: se poi non ucciderà, molto meglio. È andata male: era nel conto. Ma il conto lo paga il ragazzino, lo pagano quelli come lui, lo paga la gentaglia inferocita che a bordo di auto e scooter (un centinaio di persone) ha invaso un pronto soccorso che serve a curare la gente, magari la gente ferita dagli agguati camorristici, curare anche il ragazzetto arrivato ancora vivo e subito intubato: ma quelli invece hanno devastato tutto, hanno sfasciato le attrezzature mediche e i computer, divelto il mobilio ospedaliero, persino tentato di sfondare i vetri blindati lanciandogli contro gli estintori, hanno spinto e minacciato i sanitari, un medico ha cercato riparo in un reparto Osservazione dove già si era radunata la maggior parte del personale terrorizzato. Hanno dovuto chiudere il pronto soccorso, mandare altrove gente che stava male. Flagranza di reato. In galera, dovevano andare.  A Napoli c' è un problema di società civile modesta e stritolata tra signorie in declino e furbismo piccolo borghese. Difendiamo chi resiste. Difendiamo le forze dell' ordine. Difendiamo i Signori del pronto soccorso (Signori, sì, con la s maiuscola) dai plebei del piagnisteo, del vittimismo, dell' autocommiserazione, della tendenza palese a de-responsabilizzare anche un rapinatore 15enne capace di intendere e di rapinare.

Quindicenne ucciso a Napoli, l’educatrice "La sua morte è una sconfitta di tutti". Eleonora lavora da anni con i ragazzi dei Quartieri spagnoli e tra questi c'era il giovane rapinatore: "Il timore è che Ugo diventi una bandiera "contro" un quartiere, che questa storia produca rabbia e non soluzioni. Ci sono tanti ragazzi che crescono e muoiono nel niente: si dovrebbe parlare ora di come dare loro opportunità reali". Anna Laura De Rosa il 04 marzo 2020 su La Repubblica. "La morte di Ugo è stata una mazzata per noi educatori, c'è un'ondata emotiva molto forte. Un gran dolore. Veniva spesso nella sede dell'associazione a 11 anni e poi di nuovo 2 anni dopo durante un progetto contro la dispersione scolastica. Era un ragazzino come tanti, neanche di quelli più agitati. Li chiamiamo "mullechelle" (mollichine) perché sono fragili, facili da soffiare via dal tavolo quando "non servono più". La sua morte ha scatenato commenti feroci, ma dovrebbe suscitare tristezza più che odio. Il timore è che Ugo diventi una bandiera "contro" un quartiere, che questa storia produca rabbia e non soluzioni. Ci sono tanti ragazzi che crescono e muoiono nel niente: si dovrebbe parlare ora di come dare loro opportunità reali". Eleonora è un'educatrice dell'associazione Quartieri spagnoli onlus, che si occupa con impegno e passione da anni delle fasce sociali più deboli. Ogni pomeriggio svolge attività didattiche e ludiche, realizza con i colleghi progetti per bambini e ragazzi della zona, laboratori anche in piazza Montecalvario per avvicinare tutti. Dopo la morte del 15enne che ha tentato di rapinare un carabiniere puntandogli alla testa una pistola giocattolo mentre era in auto con la fidanzata, la onlus ha salutato il ragazzo ucciso con una frase di Dietrich Bonhoeffer: "Oh, se sapessi dov’è la strada che torna indietro, la lunga strada per il paese dei bambini. Ciao Ugo"

Chi era Ugo? "Era molto timido, stava sempre sulle sue, aveva pochi rapporti stretti. Era affascinato dalla Madonna dell'Arco e partecipava a laboratori di attività manuali: lavorava la cartapesta. Abitava proprio di fronte all'associazione e la frequentava anche con suo fratello. Era un ragazzo di quartiere con tutte le difficoltà che questo comporta: viveva in una famiglia con 4 figli e in disagio economico, aveva una situazione complessa alle spalle. Ma Ugo non era come lo dipingono, non faceva il criminale per vivere".

Ma ha tentato di rapinare quel carabiniere..."Non era la sua indole, non mi sarei mai aspettata una cosa del genere. Forse viveva uno sbandamento, 15 anni sono un'età difficile, "fetente", di sfida al mondo per tutti. I miei li ho vissuti in un contesto protetto, per lui è andata diversamente. So che aveva una pistola giocattolo e questo forse insinua il dubbio che non facesse rapine nella vita: mostra la sua ingenuità. Ho letto tanto odio verso di lui, abbiamo dimenticato l'umanità".

È una vicenda che ha sconvolto, ci sono vite distrutte. "Un dramma. Per tutti. Anche per il carabiniere che ha solo 23 anni, è terribile quello che è successo. Il mio lavoro abitua a non giudicare, le cose le osservo da vicino, le vivo. Mi conceda una citazione: non c'è giustizia, solo diversi gradi di ingiustizia".

Lo vive come un fallimento? "La nostra è una scommessa su centinaia di ragazzi, i frutti si raccolgono dopo anni. Non posso sapere come va finire perché il futuro di un bambino non dipende solo da noi ma da quello che succede nella vita dopo di noi, dalle possibilità di accedere a una formazione reale, di trovare un lavoro.

Tutto questo clamore è faticoso: si parla tanto ma bisognerebbe allargare lo sguardo al welfare, trovare misure per sostenere le famiglie davvero. Cosa c'è per i ragazzi di un intero quartiere? Niente. Dietro Ugo ci sono Genny, Emanuele, Gianni e tanti che stanno cercando un motivo, una strada, e che forse non hanno tutti gli strumenti che dovrebbero avere". 

Dagospia il 4 marzo 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Per me due sono le vittime. Il carabiniere ed il ragazzo. Non mi sento di stare dalla parte del carabiniere o del ragazzo. Però penso che la reazione del giovane carabiniere è stata un poco eccessiva, infatti è accusato di omicidio volontario”. Lo dice Pietro Ioia, il garante dei detenuti per il Comune di Napoli e anche lui ex detenuto, a La Zanzara su Radio 24. Si doveva fermare prima?: “Si, si, al primo colpo al petto si poteva fermare. E poi noi sappiamo com’è questa città, come si fa a camminare con un Rolex in coppa o’ braccio, insomma, sai che più o meno puoi subire una rapina. Tu sei carabiniere. Devi sapere queste cose. Io col Rolex al braccio a Napoli non ci cammino”. Ma non si può dare la colpa al carabiniere, dai: “No, la colpa al carabiniere no, però…Il punto fondamentale è che col Rolex al polso a Napoli non giri.  Guarda che il sindaco ha fatto un’ordinanza proprio per i turisti col Rolex da anni. Lasciate il Rolex in albergo e mettete l’orologio di plastica”. Sembra che a Napoli c’è una parte della città che si schiera dalla parte del ragazzo: “Lì c’è consenso solo per l’età del ragazzo, ma nel cuore nostro sappiamo che il ragazzo ha sbagliato. Perché il guaglione teneva 15 anni, porca miseria. Non si può morire così a 15 anni a Napoli”. Era meglio se il carabiniere lasciava la pistola a casa non essendo in servizio?”: “Per me si. Era meglio se lasciava a casa la pistola e l’orologio. Sappiamo com’è Napoli. Senza Rolex non succedeva”.

Francesco La Licata per “la Stampa” il 2 marzo 2020. Chi ha avuto l' onere di dover raccontare le contraddizioni e le ferite del nostro Sud, martoriato da lacrime e sangue e da una violenza spesso divenuta incontenibile e indecifrabile, più volte si è trovato a dover riferire della rabbia irrazionale che esplode davanti al corpo massacrato di uomini, donne e bambini vittime di una violenza generata da altra violenza. Scorrendo le notizie provenienti dal quartiere Santa Lucia, a Napoli, abbiamo avuto la sensazione di rivedere un film già visto più volte: un ragazzo, poco più di un bambino, che arriva in ospedale ferito da due colpi di pistola e non ce la fa. Muore prima che i medici possano fare qualcosa per salvarlo. Contemporaneamente la sala del pronto soccorso si riempie di familiari, amici e vicini di casa: donne urlanti e disperate, uomini pieni di rabbia e risentimento. Tanto risentimento rivolto verso chiunque, in quel momento, viene visto come una «controparte»: i medici perché non hanno saputo salvare il ragazzo, gli infermieri e le «divise» perché considerati un impedimento fisico all' ultimo abbraccio col proprio caro. E' una scena che abbiamo vissuto tante volte durante il peregrinare tra le disgrazie: a Napoli come in Calabria o in Puglia, a Palermo e nella Sicilia dei mille delitti. La rabbia prevaleva sempre o per scaricare la frustrazione per il «danno» subìto o addirittura per strappare ciò che veniva considerato un diritto negato da una burocrazia in quel momento incomprensibile: non poter portare subito a casa il corpo su cui piangere. Quante sale mediche abbiamo visto devastare nel tentativo di evitare la permanenza in camera mortuaria di un parente morto. Si arrivava a dover fare intervenire in massa polizia e carabinieri. Eppure lì prevaleva la pietà. Qualcosa di diverso sembra essere accaduto, invece, ieri a Napoli. La devastazione del pronto soccorso dov' è morto Ugo Russo si allontana dalla collera dolorosa per imboccare la pericolosa china della quasi «rivendicazione» di un diritto alla ricerca di una giustizia fai da te. Come valutare, altrimenti, la «stesa» immediatamente messa in atto dalla malavita a Santa Lucia? I motorini che si impennano e i giovani guappi che sparano in aria passando davanti alla caserma dei carabinieri «Pastrengo» non hanno nulla a che vedere col dolore dei familiari di Ugo. Tant' è che lo stesso padre della vittima, Vincenzo, ha dovuto «chiedere scusa» per quello che è avvenuto in ospedale. Ma è proprio la reazione di Vincenzo Russo che presta il fianco ad una riflessione amara che deve andare oltre il dolore per la morte di un ragazzino. Mentre, infatti, la zia difende il nipote arrivando a sostenere - contro l' evidenza - che Ugo «aveva paura delle armi» e «non rubava», il padre fa un ragionamento più sottile che tende a «legittimare» l' errore del figlio come una cosa da uomini: «Io non lo so perché non ero con mio figlio, ma, ammettendo che stesse facendo una rapina, è giusto che tu, carabiniere, lo uccidi?» E, secondo il suo concetto di legalità, aggiunge: «Sparagli a una gamba o fallo scappare». Come se il rapinatore e il carabiniere (tra l' altro un ragazzo di 23 anni) fossero attori di una «normale lite». E, alla fine, Vincenzo Russo chiude con la consueta richiesta di giustizia, sorvolando sul fatto che la società civile ha già messo in moto l' unico sistema per cercarla, quella giustizia. Il carabiniere è stato indagato per eccesso colposo di legittima difesa e le indagini diranno se basta.

Non è l'Arena, baby-rapinatore ucciso a Napoli: il dottore del pronto soccorso racconta l'orrore subito. Libero Quotidiano il 1 Marzo 2020. A Napoli, un carabiniere in borghese ha ucciso un ragazzo di 15 anni, Ugo Russo, reagendo a un tentativo di rapina: cercava di rubargli il Rolex, ha estratto la sua pistola e ha aperto il fuoco. Uccidendolo. Un caso che sconvolge l'Italia e il capoluogo campano. Un caso che è stato trattato anche nel corso della prima parte di Non è l'Arena, la trasmissione della domenica sera di Massimo Giletti su La7. E a Non è l'Arena è stato intervistato il dottore che ha assistito il giovane quando è stato portato al pronto soccorso. Quel pronto soccorso che, dopo la notizia della morte, è stato devastato da amici e familiari del quindicenne. E il dottore racconta proprio quei momenti, terrificanti: "Il caos - spiega - è scoppiato subito dopo la notizia della morte. Sono arrivati un centinaio tra amici e parenti, abbiamo subito anche violenza verbale". 

Melina Chiapparino per “il Messaggero” il 2 marzo 2020. «Sembrava uno scenario di guerra». Questo è stato il primo pensiero di Antonio Marano, medico dell'ospedale Vecchio Pellegrini, quando, sabato notte, i suoi occhi si sono riempiti di immagini mai viste prima. «Il pronto soccorso è stato completamente devastato racconta il 51enne napoletano - una folla di persone inferocite ha sfasciato tutte le attrezzature mediche e i computer, divelto il mobilio ospedaliero e persino tentato di sfondare i vetri blindati lanciandogli contro gli estintori». Durante l'esplosione del raid vandalico che non ha risparmiato spintoni e minacce ai sanitari, il dottore ha cercato riparo nel reparto di Osservazione Breve, una stanza in fondo al pronto soccorso dove si era radunata la maggior parte del personale ospedaliero. «Siamo rimasti uniti tra noi e ci siamo concentrati nell'area dove erano ricoverati alcuni pazienti che non volevamo lasciare soli- racconta Lucia Sica, operatrice socio sanitaria sentivamo un gran trambusto, urla e pianti così forte che sembrava di stare in guerra». Il racconto dei sanitari descrive una vicenda che, inizialmente, non faceva presagire una tale esplosione di violenza ma, fin dai primi istanti, ha «fatto saltare tutti i protocolli e le regole che disciplinano un pronto soccorso» commenta Marano. «L'ospedale è stato allertato verso l'una dell'arrivo di un codice rosso - racconta il camice bianco - quando il 118 ci ha consegnato il minore, le sue condizioni cliniche erano critiche e lo abbiamo immediatamente intubato per assisterlo in Rianimazione». «L'ambulanza è arrivata insieme a decine di scooter e ad altre auto che hanno riversato nell'ospedale un centinaio di persone - ricorda Lucia - c'erano molti agenti di Polizia ma almeno metà di quella folla oceanica è entrata nel pronto soccorso, accerchiando medici e operatori». «Il ragazzo è stato sottoposto a una Tac per valutare i danni cerebrali provocati dai colpi d'arma da fuoco - continua Marano - la speranza era di stabilizzarne le condizioni per trasferirlo in un reparto di Neurochirurgia come avevamo comunicato ai familiari che avevano occupato il pronto soccorso ma sembravano semplicemente agitati». «Quando il rianimatore ha comunicato che il ragazzo non ce l'aveva fatta, si è scatenato l'inferno», continua Marano che descrive solo gli attimi iniziali del raid «durato oltre mezz'ora». «Appena abbiamo visto esplodere quella folla di persone in una rabbia cieca, noi sanitari siamo andati a rifugiarci nella stanza dell'Osservazione Breve, dove c'erano alcuni pazienti ricoverati - spiega il medico - il pronto soccorso è stato invaso da uomini e donne di tutte le età, persino anziani e minori che tentavano di distruggere qualsiasi cosa gli capitasse sottomano». «Gli oggetti venivano lanciati in aria, i computer sradicati, tutte le attrezzature mediche sfasciate racconta Lucia - molti urlavano frasi contro la polizia e alcuni gridavano che saremmo dovuti stare noi al posto del 15enne morto». «Sono stato strattonato da una donna che mi aveva sentito suggerire di far uscire i poliziotti dal pronto soccorso e credeva stessi cacciando i familiari - prosegue il 51enne in realtà, ero convinto che facendo allontanare gli agenti, anche quella folla, inferocita con la polizia, sarebbe uscita e forse avremmo potuto evitare la devastazione del pronto soccorso». «Non ci siamo resi conto del grado di distruzione e violenza avvenuto tra le mura ospedaliere, fino a quando siamo usciti dalla stanza dove ci eravamo messi al riparo», spiega Marano che insieme a Lucia e agli altri sanitari si era rifugiato nell'Osservazione Breve. «Improvvisamente le grida, i pianti e tutto il trambusto, causato dalla distruzione del mobilio e dei macchinari è finito - racconta Lucia - ci siamo affacciati sulla porta che comunica con il pronto soccorso e abbiamo visto una scena da guerriglia civile, quasi un campo di battaglia di fronte al quale siamo rimasti immobili per qualche secondo». La folla di persone inferocite si era spostata verso l'obitorio, una volta saputo del trasferimento della salma del minore. «Mi è venuto da dire che siamo un popolo senza speranza - confessa il medico - ma è durato pochi secondi come la paura, che è svanita subito, ripensando a quel giuramento di Ippocrate che ci ha consacrato ad una missione a cui non rinuncerei mai».

 Uccisa di botte dal marito, donna muore a Napoli durante la devastazione del pronto soccorso. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 2 Marzo 2020. Era ricoverata da qualche giorno la donna deceduta nella notte tra sabato e domenica all’ospedale dei Pellegrini dopo essere stata picchiata dal marito. La sua scomparsa è passata in secondo piano perché, in quelle ore nel pronto soccorso del presidio ospedaliero della Pignasecca, i parenti e gli amici del 15enne ucciso da un carabiniere nel corso di un tentativo di rapina hanno sfasciato tutto, seminando il panico tra i presenti. La donna, una ucraina di 39 anni, era ricoverata in gravissime condizioni dopo le percosse subite dal coniuge che le avevano provocato lo spappolamento di fegato e milza. Condizioni poi degenerate con il passare delle ore con i medici che non hanno potuto fare nulla per frenare l’emorragia addominale. Il decesso è avvenuto nel reparto di Rianimazione dove era stato trasferito anche il 15enne Ugo Russo, poi morto in quelle stesse ore. La brutale aggressione è stata denunciata ai carabinieri che procedono nelle indagini. “E’ incredibile come l’attenzione in questi giorni si sia concretata solo sulla morte di Ugo Russo, che era sì un ragazzo giovane ma è stato protagonista di un’attività criminale, uno che ha tentato una rapina” commenta il consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli. “Invece una donna vittima di violenze è morta nel silenzio, nell’indifferenza generale. I parenti di questa donna, che la notte di sabato 29 febbraio si trovavano in ospedale, sono stati spintonati dai familiari e amici di Russo, si sono ritrovati nel caos causato da chi ha preferito aggredire i medici piuttosto che fare un mea culpa sulla tragica fine del ragazzo. Si tende a dare spazio e solidarietà sempre più spesso ai carnefici e sempre meno alle vittime”.

Napoli, ospedale Pellegrini: vittima di femminicidio muore durante il raid degli amici del 15enne ucciso. Il Pronto soccorso riparte dopo la devastazione. In quei momenti moriva Irina, giunta in fin di vita per il pestaggio del suo compagno. Irene De Arcangelis il 3 marzo 2020 su la Repubblica. Spaccano tutto, urlano, distruggono. Rubano, anche. Scompare una barella, una sedia a rotelle viene portata all'esterno e scaraventata contro la saracinesca di un bar. Tra gli sgomenti presenti al raid di massa per la morte del giovane Ugo Russo, quindici anni, ci sono i genitori di Irina, 39 anni, morta in quegli istanti al pronto soccorso dopo essere stata pestata a sangue dal suo compagno. Femminicidio che passa sotto silenzio superato dall'enfasi della folle aggressione. Stroncati dal dolore i genitori di Irina, all'esterno della Rianimazione, vengono spintonati, buttati per terra. Minuti di violenza incontenibile dai mille dettagli, tutti ora racchiusi in un fascicolo della Procura. Ipotesi di reato: devastazione. Perché questo è successo. Il pronto soccorso del Pellegrini è stato devastato, distrutto, derubato. Con una sola nota positiva dell'intera vergognosa vicenda: c'erano le telecamere al triage e al pronto soccorso. Occhi elettronici che hanno cominciato a funzionare da appena qualche settimana e che hanno ripreso tutto dall'alto. Volti visibili di uomini e donne, molti adulti. "Hanno funzionato eccome, hanno funzionato benissimo. Hanno ripreso molto bene quanto accaduto", spiega il direttore generale della Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva. Così anche se probabilmente la barella rubata non verrà mai ritrovata, già esistono dei responsabili per quella devastazione, ora da identificare, mentre tuona il ministro della Salute Roberto Speranza: " È inaccettabile la devastazione di un pronto soccorso. Lo è sempre. Ma nei giorni in cui tutte le strutture sanitarie del paese sono chiamate a fronteggiare l'emergenza coronavirus, lo è ancora di più. Ho chiamato il direttore dell'ospedale Pellegrini e il direttore del pronto soccorso per testimoniare la vicinanza del governo e di tutto il Paese e offrire tutto il sostegno necessario a ripristinare la struttura, appena possibile. Dobbiamo prenderci cura di chi si prende cura di noi". Intanto però il pronto soccorso del Pellegrini è risorto in tempi record, grazie all'intervento di tutto il personale sanitario in servizio e quello fuori turno per risistemare le cose e permettere che l'ospedale tornasse a lavorare. Messaggio chiaro: non riuscirete a distruggerci. " Non è stato facile - dice il responsabile del pronto soccorso Emilio Bellinfante - Ma nessuno si è tirato indietro. C'eravamo tutti". Non prima però di una manifestazione con gli striscioni di solidarietà e il flash mob organizzato dal consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli. Sulle scale del pronto soccorso la scritta: "Giù le mani. Il personale del pronto soccorso non si tocca". E ancora: " Basta violenza in pronto soccorso". I partecipanti - medici, infermieri, lo stesso direttore Verdoliva e la direttrice sanitaria Maria Corvino - avevano cartelli con le scritte: "Chi devasta un ospedale devasta la salute di tutti i cittadini". Intanto lo sdegno per quanto accaduto arriva da più parti. A cominciare dal procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho: " Il nostro sguardo - commenta - deve andare alla devastazione del pronto soccorso, che è un avamposto in favore dei cittadini: intervenire in quel modo, in gruppo, con danneggiamenti e minacce, è certamente una manifestazione criminale. Purtroppo non sono espressioni isolate nel territorio napoletano. Come se le istituzioni siano diventate il nemico da abbattere. Forse è questo il profilo che va approfondito " . Cafiero de Raho si sofferma anche sul tema dei presidi di polizia: "Una volta c'erano ma poi, mancando le risorse, la protezione non si è potuta mantenere e c'è stata l'esigenza di sopprimerli. Ma è evidente che di fronte a fatti criminosi di questa gravità, che si ripetono, andrà ripensata la presenza di forze dell'ordine nei presidi sanitari. Quindi ripristiniamo innanzitutto gli organici delle forze dell'ordine". Tema su cui batte anche il senatore Pd Paolo Siani: " Occorre un presidio delle forze dell'ordine nei pronto soccorso degli ospedali. Ho svolto questo lavoro fino a due anni fa e so quanto è pericoloso. Prometto, pertanto, il mio massimo impegno per tutelare chi lavora ogni giorno a contatto con situazioni di emergenza ".  

(ANSA il 9 marzo 2020) Tensioni con le forze dell'ordine questa mattina a Napoli durante il corteo funebre organizzato per Ugo Russo, il ragazzo di 15 anni ucciso mentre tentava di rapinare un carabiniere libero dal servizio. La polizia ha fermato il corteo, in seguito alle disposizioni del decreto sul coronavirus e le decisioni del cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, con la sospensione di tutte le cerimonie. Una bara bianca portata a spalle per le strade di Napoli: era questo l'obiettivo di parenti ed amici del 15enne. Obiettivo riuscito in parte. Dopo il divieto di celebrare il funerale del ragazzo, amici e parenti dalle prime ore del mattino sono partiti dall'abitazione del giovane e hanno trasportato il feretro per alcune centinaia di metri. Dietro i genitori, poi uno striscione con la scritta 'Verità e giustizia per Ugo', palloncini bianchi e magliette con il suo volto. Quando il corteo stava per imboccare la centrale via Roma si è trovato davanti un cordone di polizia che ne ha bloccato l'accesso. Dopo qualche momento di tensione gestito dai responsabili delle forze dell'ordine ed i parenti, la bara è stata messa nel carro funebre, seguito da un motorino con a bordo i genitori del ragazzo, ed il corteo si è sciolto. Per Ugo quindi benedizione della salma nella cappella del cimitero.

A Napoli i funerali di Ugo, il 15enne ucciso per una rapina: corteo bloccato. Le Iene News il 9  marzo 2020. Si sono celebrati stamattina a Napoli i funerali in forma privata di Ugo Russo, il 15enne rimasto ucciso per un tentativo di rapina a un carabiniere fuori servizio. Le forze dell’ordine hanno bloccato il corteo per il mancato rispetto delle nuove norme per il contenimento del coronavirus. Giulio Golia ha intervistato i familiari. “Ciao Ugo per sempre ragazzo. Con rabbia e con amore”. È lo striscione che ha accompagnato il corteo per i funerali del 15enne ucciso in un tentativo di rapina a Napoli. Anche stamattina non sono mancate le polemiche. Gli agenti della polizia hanno cercato di bloccare il corteo partito con striscioni, palloncini bianchi e foto del giovane dai Quartieri Spagnoli. Anche qui è in vigore la sospensione delle cerimonie civili e religiose fino al 3 aprile disposta per contenere l’emergenza coronavirus. Le forze dell’ordine hanno bloccato gli amici che stavano portando a braccio la bara bianca. Da quello che si apprende sarebbero iniziate le proteste che hanno portato a disperdere il corteo. I funerali si sono svolti in forma privata nella chiesa dei Sette Dolori a Montecalvario. C’era anche il papà di Ugo, lo abbiamo conosciuto nel servizio di Giulio Golia che vi riproponiamo qui sopra. “Non voglio giudicare nessuno, al Nord vivono in un’altra maniera. Noi abbiamo un’altra cultura, questa è la nostra”, dice Vincenzo Russo. Con lui abbiamo provato a ricostruire che cosa sia accaduto la notte tra il 29 febbraio e il 1 marzo in attesa degli sviluppi dalla Procura. In base a una prima ricostruzione Ugo era in compagnia di un amico di 17 anni. Insieme avrebbero tentato di rapinare un 23enne. Non sapevano che avevano davanti un carabiniere fuori servizio. Ugo avrebbe avuto in mano una pistola (poi risultata giocattolo, ma priva del tappo rosso). Impaurito da quell’arma che sembrava vera, il carabiniere fuori servizio stando alle prime ricostruzioni avrebbe preso la sua pistola d’ordinanza e ha sparato. Sarebbero partiti almeno tre colpi: due vanno a segno e colpiscono Ugo al petto e alla testa. “All’ospedale ce lo hanno fatto accarezzare ancora caldo. L’ultimo calore, l’ultimo odore che aveva addosso ce lo siamo preso io e mia moglie”, racconta Vincenzo. “Mio figlio era un angelo voleva fare un corso per pizzaiolo con gli assistenti sociali di Napoli. Guadagnava 50 euro come barista, 70 con il fruttivendolo e 10 come muratore”. Dopo il nostro servizio non sono mancate le polemiche per le parole del papà di Ugo. Tantissime persone sono solidali con il carabiniere di 23 anni che ha subìto il tentativo di rapina. Giulio Golia ha provato a intervistarlo, ma essendo indagato per omicidio volontario non è stato autorizzato a parlare. Sono in corso le indagini della Procura partite proprio dalla sua testimonianza e da quella dell’amico che accompagnava Ugo. Dal suo racconto pare che volessero qualche soldo in più per andare a ballare. In un primo momento l’accusa per il carabiniere sarebbe stata per eccesso di legittima difesa, poi modificata in omicidio volontario, ma potrebbe cambiare di nuovo una volta chiuse le indagini, allo stato in corso. Invece per il 17enne, il presunto complice del ragazzo morto, il gip avrebbe confermato il fermo e avrebbe disposto il collocamento in comunità.

I ragazzi del Sud, dalle baby gang di Napoli ai profughi di Idlib. Gioacchino Criaco de Il Riformista il 6 Marzo 2020. Mentre il mondo dei sani e dei giusti è impegnato a lapidare il coronavirus, a Idlib il popolo dei bimbi è in marcia per sfuggire alla morte, a Napoli l’esercito dei bambini si fa la guerra. Forse tutto il popolo del Sud, di quello nostro e del Sud degli altri, ha sbagliato a partire, continua a sbagliare: generazioni per cui il mondo era a una distanza notevole, lunga quanto le molte ore necessarie per raggiungere Milano e puzzolente come l’umanità in travaglio la polvere dei freni e la nafta di un treno colmo di vita in cerca di futuro. Si partiva di sera e ci si svegliava intirizziti dal freddo d’inverno o soffocati dal caldo della bella stagione. Il mondo era distante per i ragazzi passati, spiato in qualche varietà o nelle sequenze di uno sceneggiato trasmessi da una televisione senza colori. Era un pianeta difficile da raggiungere, mitizzato dai racconti di chi c’era già stato e se ne tornava indietro su una macchina nuova. Sapeva di buono, di speranza e lo si sognava a occhi aperti. Raggiungerlo, per i più, significava agguantare una laurea o un lavoro sicuro, cose sulle quali si costruiva un progetto che prometteva di essere per sempre; per alcuni voleva dire soldi veloci, una scalata sociale a prescindere da regole morali e legali. Poi, pian piano il mondo si è mosso, a quelli che sono cresciuti dopo gli è arrivato a tiro di schioppo. Oggi il mondo i ragazzi ce l’hanno davanti agli occhi, lo vedono a colori in televisione, col mouse se lo girano in un attimo in lungo e in largo. La terra la guardano da ogni angolazione e il pianeta non gli riserva più sorprese. Ce l’hanno in casa il mondo e non lo sognano più, non corrono dietro alle sue promesse. I ragazzi del sud hanno certezze che dicono che le speranze sono finite e anche se per arrivare a Roma o oltre ci metti meno tempo, le lauree servono a poco e i posti di lavoro lasciano niente in tasca e fanno svanire il domani. Sono finiti i sogni e i progetti non si possono più fare. Precario, provvisorio è il vocabolo che si sentono dire se avanzano pretese. Anche per gli uccelli da preda il mondo è diverso, lo sanno già che pallottole e manette arriveranno in fretta a spezzare vite giovanissime, e le remore anziché crescere svaniscono nella desolazione di una botta di vita, che è meglio il fuoco di un lampo che la tenue luce di una brace. I bambini del Sud sono già morti, prima dei loro coetanei di Napoli che muoiono ora, si sono massacrati sulla strada per Milano, per un Occidente qualunque: eppure erano passati per le piazze, per i circoli anarchici, per le camere del lavoro. Avevano dentro la forza enorme della ribellione, venivano da famiglie povere in cui non c’era né pane né mafia. Perché la loro rabbia non smuovesse lo stagno di una società immobile bisognava metterli sulla strada dell’autodistruzione. Le mafie sono state l’insegnante migliore, mortale. Molti dei bambini di una Napoli passata, che mordevano la polvere delle strade di quartieri tristemente noti, erano passati dagli oratori, dai centri sociali, hanno assaggiato i rudimenti della rivoluzione, prima di mangiare pane e camorra. Adesso sono in troppi per mandarli a morire tutti quanti fuori. Una camorra stracciona gli insegna a macellarsi in casa. I resti se li prende lo Stato a tenere nutrita la schiera dei morti al 41bis. I bimbi del sud si scannano perché il popolo dei furbi gli costruisce autostrade che portano al mattatoio, e i giusti si sentano sempre più giusti. E uno Stato e dei buoni veri, sotto Roma non sono mai scesi a costruire strade diverse. Mentre i puri di condotta scagliano sassi ai mostri caduti, a Napoli dei bambini cattivi si sfregiano a vicenda con un numero esorbitante di pallottole, a dimostrazione che sono piccoli anche riguardo alla perizia balistica. Lo fanno perché l’unica certezza che hanno è quella di essersi infilati in un mondo a parte, che con quello normale si incontrerà solo per un funerale, un dibattito televisivo, una pagina di giornale o un film di genere.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 24 febbraio 2020. È il giornalista Sandro Ruotolo, candidato espresso da una inedita convergenza tra il Pd e il movimento DemA che fa capo al sindaco de Magistris, il nuovo senatore scelto con le elezioni suppletive che si sono svolte ieri nel collegio Napoli 7. Ruotolo ha raccolto circa il 50 per cento dei consensi e ha largamente distanziato il candidato dei 5 Stelle Luigi Napolitano e Salvatore Guangi, indicato da Forza Italia, Fratelli d' Italia e Lega. «Ora la sinistra torni a occuparsi delle periferie» è stato il suo primo commento. Per il giornalista - sotto scorta per le minacce ricevute dalla camorra - intorno alla sua elezione può «aprirsi un laboratorio» che consenta alle forze di centrosinistra di allargarsi e schierarsi, insieme alla società civile, contro la destra sovranista». Le suppletive napoletane saranno però ricordate soprattutto per la scarsissima affluenza alle urne, che hanno fatto rimpiangere quelli, pur sempre miseri, di precedenti consultazioni. Al rilevamento di mezzogiorno il dato era fermo al 2,77 per cento, per arrivare al 7,29 alle 19 e fermarsi con appena due punti percentuali in più, al definitivo 9,52. In ogni caso va precisato che non tutti i napoletani sono stati chiamati a votare, ma solo quelli di tredici quartieri, per un totale di 357.299 elettori, mentre le sezioni aperte sono state 444 su 883. L' ultimo dato rilevato alla chiusura delle urne alle 23, parla di appena 34.000 persone che hanno scelto di andare alle urne. In particolare pare che abbiano dato una risposta appena migliore gli attigui quartieri collinari del Vomero e dell' Arenella, dove il sindaco de Magistris può contare da sempre su una base elettorale piuttosto consistente e dove maggiormente è stata fatta attività di campagna elettorale da parte dello schieramento di sinistra, con gazebo presenti lungo le strade dello shopping e incontri con il candidato Ruotolo. Per tutti gli schieramenti queste suppletive avrebbero dovuto rappresentare, oltre alla conquista di un seggio in Senato, anche un test in vista delle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale e per l' elezione del successore del governatore De Luca (che potrebbe succedere a se stesso). Con questi numeri e con questo enorme disinteresse da parte dei napoletani, però, difficile che si possano fare valutazioni politiche adeguate all' importanza dell' appuntamento della prossima primavera. Al massimo ci sarà da valutare il dato dell' astensione e cercare argomenti validi per evitare che anche quando ci sarà da mettere in piedi il governo regionale, la città capoluogo risponda con queste percentuali di votanti. Ci sarebbe poi la questione dell' alleanza Pd-DemA in ottica comunali. Ma mancano ancora due anni.

Ruotolo vince a Napoli e va in Senato cantando “Bella ciao”. Il Dubbio il 24 febbraio 2020. Il giornalista ha ottenuto il 48.5% dei voti il centrodestra il 24% e i5S il 22.4% . Bassissima l’affluenza. In un clima surreale e intonando “Bella Ciao”, Sandro Ruotolo ha festeggiato la vittoria nelle elezioni suppletive di Napoli per il seggio al Senato. Ruotolo ha vinto con una lista di sinistra che metteva assieme, tra gli altri, Pd e il movimento Dema del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il quale ha sottolineato che si è trattato di un “voto contro il sovranismo ed il populismo di una destra estrema a trazione leghista. Questo è il nostro canto: ‘O partigiano portami via… Anche se affluenza bassissima alle urne è una nostra grande vittoria, insieme a chi ha ritenuto di puntare su un uomo perbene che unisce e non divide. Sconfitta la destra. Ruotolo porterà al Senato la Napoli autonoma e fiera di questi anni. Un baffo antifascista!”. Ruotolo ha ottenuto il 48,45% dei voti, seguito dal candidato di centrodestra Salvatore Guangi(24,06%), Luigi Napolitano del M5S (22,47%). Molto bassa l’affluenza che si è fermata al 9,52% per un totale di 34mila votanti su 357.299 elettori. Ruotolo prenderà il posto del senatore scomparso del M5S Franco Ortolani. 

Napoli, Ruotolo eletto senatore. Affluenza sotto il 10 per cento. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Fulvio Bufi. È il giornalista Sandro Ruotolo, candidato espresso da una inedita convergenza tra il Pd e il movimento DemA che fa capo al sindaco de Magistris, il nuovo senatore scelto con le elezioni suppletive che si sono svolte ieri nel collegio Napoli 7. Ruotolo ha raccolto oltre 16 mila preferenze (pari al 48,4% dei voti) e ha largamente distanziato il candidato dei 5 Stelle Luigi Napolitano e Salvatore Guangi, indicato da Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. «Ora la sinistra torni a occuparsi delle periferie» è stato il suo primo commento. Per il giornalista — sotto scorta per le minacce ricevute dalla camorra — intorno alla sua elezione può «aprirsi un laboratorio» che consenta alle forze di centrosinistra di allargarsi e schierarsi, insieme alla società civile, contro la destra sovranista». Le suppletive napoletane saranno però ricordate soprattutto per la scarsissima affluenza alle urne, che hanno fatto rimpiangere quelli, pur sempre miseri, di precedenti consultazioni. Al rilevamento di mezzogiorno il dato era fermo al 2,77 per cento, per arrivare al 7,29 alle 19 e fermarsi con appena due punti percentuali in più, al definitivo 9,52. In ogni caso va precisato che non tutti i napoletani sono stati chiamati a votare, ma solo quelli di tredici quartieri, per un totale di 357.299 elettori, mentre le sezioni aperte sono state 444 su 883. L’ultimo dato rilevato alla chiusura delle urne alle 23, parla di appena 34.000 persone che hanno scelto di andare alle urne. In particolare pare che abbiano dato una risposta appena migliore gli attigui quartieri collinari del Vomero e dell’Arenella, dove il sindaco de Magistris può contare da sempre su una base elettorale piuttosto consistente e dove maggiormente è stata fatta attività di campagna elettorale da parte dello schieramento di sinistra, con gazebo presenti lungo le strade dello shopping e incontri con il candidato Ruotolo. Le elezioni suppletive si sono rese necessarie a causa della scomparsa lo scorso novembre del senatore dei Cinquestelle Franco Ortolani, eletto nel 2018. Per tutti gli schieramenti questo voto avrebbe dovuto rappresentare, oltre alla conquista di un seggio in Senato, anche un test in vista delle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale e per l’elezione del successore del governatore De Luca (che potrebbe succedere a se stesso). Con questi numeri e con questo enorme disinteresse da parte dei napoletani, però, difficile che si possano fare valutazioni politiche adeguate all’importanza dell’appuntamento della prossima primavera. Al massimo ci sarà da valutare il dato dell’astensione e cercare argomenti validi per evitare che anche quando ci sarà da mettere in piedi il governo regionale, la città capoluogo risponda con queste percentuali di votanti. Ci sarebbe poi la questione dell’alleanza Pd-DemA in ottica comunali. Ma mancano ancora due anni.

Chi è Sandro Ruotolo, il vincitore delle elezioni suppletive di Napoli. Cecilia Lidya Casadei il 24/02/2020 su Notizie.it. Da molti definito come uno dei giornalisti d’inchiesta più autorevoli d’Italia, Sandro Ruotolo è il vincitore delle elezioni suppletive 2020 di Napoli tenutesi per il posto lasciato vacante dal compianto Franco Ortolani. Da sempre impegnato nel raccontare storie scottanti e in inchieste giudiziarie su realtà italiane scomode come quelle della mafia, Ruotolo vive da anni sotto scorta. Presidente dell’Unione cronisti della Campania per meriti, Sandro Ruotolo si è battuto per la tutela dei giornalisti della provincia di Caserta e ha chiesto un incontro operativo in merito a questo tema presso il Ministero dell’Interno di Roma. In prima linea anche a Bologna, durante la manifestazione delle Sardine, per sottolineare l’impegno civile a difesa di legalità e libertà. Sostenuto dai sui colleghi, Ruotolo perdura nella sua battaglia a favore del giornalismo di qualità e si è impegnato in prima linea per rappresentare la Federazione della Stampa Italiana in quel di Malta durante le indagini sull’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, oggetto di una sua video inchiesta che è stata utilizzata come documento per risalire ai mandanti del crimine avvenuto nel 2017. Sandro Ruotolo vive sotto scorta (dopo l’annuncio della revoca a febbraio 2019) da diversi anni a seguito delle minacce ricevute dal capo del clan dei casalesi: Michele Zagaria. L’uomo si trova ancora in carcere in quanto sotto processo perché pare abbia continuato a fare da burattinaio anche dietro le sbarre. Dopo la diffusione di una inchiesta del cronista sulla “Terra dei Fuochi” e traffico illecito di rifiuti in Campania, Michele Zagaria venne intercettato in carcere mentre proferiva le seguenti parole: “O’ vogl’ squartat'”. Ruotolo, dalla sua, ha dichiarato che tale presa di posizione dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini sarebbe stata rassicurante per la camorra.

Suppletive Senato 2020: data e candidati. Domenica 23 febbraio 2020 i residenti nelle circoscrizioni di Napoli hanno votato per un nuovo rappresentate in Senato. A concorrere per il posto, accanto a Sandro Ruotolo ci sono stati Luigi Napolitano (M5s); Salvatore Guangi (Fi, Fdi, Lega); Giuseppe Aragno (Potere al Popolo); Riccardo Guarino (Rinascimento Partenopeo).

Da “Libero quotidiano” il 28 febbraio 2020. «Quando facevo il giornalista avevo chiesto la radiazione di Feltri dall' ordine dei giornalisti, per le sue parole su Camilleri e per i suoi comportamenti sull' omofobia». Così, a "Un Giorno da Pecora", su Rai Radio1, Sandro Ruotolo, neo senatore del centrosinistra, eletto alle suppletive di Napoli di domenica scorsa. «La mia petizione», ha aggiunto Ruotolo, «ha avuto 104 mila firme su change.org». Qui sotto, la replica di Vittorio Feltri.

Risposta di Vittorio Feltri. Meraviglioso Sandro Ruotolo. Dice di essere un giornalista: non me ne ero mai accorto. Si lagna perché Libero ha scritto che lui è stato eletto senatore con i consensi del condominio, poco più del 3 per cento dei votanti: la dimostrazione che la sua fama è rionale. Egli ha dichiarato a Un giorno da pecora, programma radiofonico di successo, di aver chiesto la mia radiazione poiché, in morte di Camilleri, pubblicai un articolo in cui esprimevo la mia opinione sul commissario Montalbano, che mi ha un po' stufato. Inoltre per lui sarei omofobo, e questa è una balla. Non importa. Ruotolo afferma di aver raccolto 104 mila firme a sostegno della sua richiesta di scacciarmi dall' Albo. Complimenti, per avere tante adesioni ha avuto bisogno di me. Peccato che per ottenere il seggio a Palazzo Madama si sia dovuto accontentare di una spruzzatina di crocette. Sandro, vai a nasconderti. La tua voglia di cancellarmi dalla professione profuma di fascismo. Vedo che stai migliorando.

Con la vittoria di Ruotolo esce sconfitto il riformismo meridionalista. Marco Demarco de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. Entra Ruotolo, esce il riformismo meridionalista. Nel Pd è così che vanno le cose. Dentro il giornalista figlio di Santoro e Samarcanda, il nipotino di quella Rai piazzaiola e protopopulista di Curzi, il Kojak della terza rete, e fuori una lunga tradizione di storia e cultura politica che risale ad Amendola, Napolitano, Chiaromonte, Valenzi, Geremicca e giù giù fino a Umberto Ranieri, ormai quasi messo alla porta di un partito alle prese con una radicale mutazione identitaria. Per ironia della sorte, poi, la rottura si è simbolicamente perfezionata proprio l’unica volta in cui il Pd napoletano ha vinto un’elezione da quando è nato. Vale a dire alle suppletive di domenica scorsa per il Senato, quando a votare è andato solo un napoletano su dieci, un vero e proprio infarto della rappresentanza. “Roba da urlo di Munch”, ha commentato lo storico Paolo Macry. E invece la sera dello spoglio , forte del 48,45% dei consensi, ma debole del 4% reale dell’elettorato, Ruotolo ha addirittura intonato “Bella ciao” e tutta la sinistra ha cantato con lui. Dunque, è vero, a Napoli ha vinto il candidato del Pd scelto tra i più organici al sistema politico-culturale del sindaco di Napoli, e tutti hanno messo insieme le particelle subatomiche di una sinistra-sinistra priva della propria componente liberale: hanno catturato i voti in fuga dal Movimento 5 stelle e ne hanno presi più di un centrodestra confuso, diviso e rinunciatario. Sarebbe però assai curioso, visti i numeri assoluti, calarsi in una sorta di microfisica del voto e ignorare del tutto, come i vincitori vorrebbero, la realtà prevalente. Che è quella, appunto, di un clamoroso flop politico. Che vittoria alle urne è – si chiede ancora Macry – quando nessuno va alle urne? A proposito: che fine hanno fatto le tanto celebrate sardine con tutto il loro carico di entusiasmo e di retorica partecipazionista? Disperse nel tratto Bologna-Napoli? Proprio a partire da Napoli, si delineano così due rivolte per nulla convergenti. Da una parte, quella degli astensionisti consapevoli contro l’oligarchia politica che ha preferito candidature di comodo a strategie più meditate. Dall’altra, quella di segno antiliberale orgogliosamente cavalcata dalla sinistra meridionale di Ruotolo; la sinistra di de Magistris che governa sommando disavanzi e disservizi e colleziona censure della Corte dei conti e condoni della maggioranza rossoverde; quella di Orlando, il vice di Zingaretti, che del Pd napoletano è ormai il dominus e delle precedenti sconfitte è da tutti ritenuto il responsabile “da remoto”; la sinistra del gruppo di intellettuali che ruota intorno al ministro Provenzano, coautori di un piano decennale per il Sud da più parti indicato come di sovietica impostazione. Due rivolte. Due mondi. Il punto è però che l’altra rivolta, quella astensionista, è priva di sponde politiche. Viceversa, potrebbe giocare un ruolo decisivo se solo qualcuno decidesse di rappresentarla sotto la bandiera del riformismo. Ma chi? Renzi e Calenda che alla fine, con tanto di pinza al naso, hanno sostenuto il candidato con la bandana di de Magistris? Tuttavia, una ritirata su questo fronte al Sud lascerebbe di fatto campo libero a quella che comincia a delinearsi come una vera e propria Visegrad alle vongole, per quanto paradossale un simile paragone possa apparire. Un’alleanza che in un Sud privo di sindaci come Beppe Sala (Milano) e Giorgio Gori (Bergamo) e di governatori come Stefano Bonaccini (Emilia Romagna), cioè di amministratori in pace con la modernità e fortemente legittimati, non potrà che svilupparsi su un terreno ormai segnato. In sostanza, quello del risentimento verso lo status sociale del Nord, dell’affidamento esclusivo alla spesa pubblica, dell’assistenzialismo preferito all’efficienza dell’amministrazione, del giustizialismo ammantato da una apparente correttezza politica, della retorica catastrofista su una borghesia totalmente asservita al potere criminale, del sospetto senza limiti e senza speranza sulle relazioni e le capacità dell’imprenditoria privata. I segni di questa rivoluzione antiliberale e antimodernista nel Sud del Paese ci sono già tutti. Vanno dal già siglato patto tra Pd e de Magistris per l’elezione di Ruotolo all’annunciato viaggio del ministro Provenzano nei piccoli centri delle zone interne; un viaggio in compagnia non di progettisti e imprenditori, ma del poeta paesologo Franco Arminio, e dunque tutto all’insegna del localismo, del nativismo, e del populismo delle tradizioni e dell’identità intoccabili: un’operazione di solito criticata se di marca leghista, esaltata – a quanto pare – se di produzione sudista. La vittoria di Ruotolo alle suppletive rafforza questa prospettiva. Il forte astensionismo lascia spazio alla costruzione di un’alternativa.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 2 febbraio 2020. Ci sono ragazzini in certi quartieri napoletani destinati a fare e farsi male. I protagonisti di questa storia finora hanno fatto male, qualcuno anche due volte in due giorni. Ma proprio per l' insistenza e la facilità dimostrate nel ricorrere alla violenza, è facile prevedere che prima o poi si faranno anche male. Inevitabilmente. Ma per ora sono carnefici, non vittime. Sono in quattro, hanno tra i quindici e i sedici anni e adesso hanno addosso una accusa di lesioni dalla quale dovranno difendersi in un processo, anche se la Procura minorile non ne ha disposto l' arresto. La vittima è un ragazzo come loro: stessa età, stesso quartiere. La differenza è che questo va in giro con una borsa sportiva perché gioca a calcetto e i quattro, invece, non hanno bisogno di borse: hanno un bagaglio piccolo, per portarsi dietro il coltello a serramanico appena comprato mettendo ognuno una quota di pochi euro, basta la tasca di un giubbotto. Il ragazzino con il borsone e la tuta e i quattro con i cappucci e il coltello percorrono la stessa strada, il corso Garibaldi, alla stessa ora, le sette di sera, dello stesso giorno, il 16 gennaio. Il primo sta tornando a casa dall' allenamento, gli altri stanno cercando l' occasione per mostrare i muscoli e soprattutto la lama. Quando si incrociano uno del gruppetto urta il borsone, forse per caso, forse di proposito. Basta questo a far scattare l' aggressione: quattro contro uno, pugni, calci e coltellate. Poi la fuga, passando nel raggio di ripresa della telecamera di un negozio che li inquadra di spalle ma in maniera abbastanza chiara da dare ai carabinieri un punto di partenza. Il resto lo fanno le indagini, che in due settimane portano all' identificazione di uno e poi degli altri tre. Quattro geni del crimine che hanno pure conservato il coltello, non hanno cancellato dai cellulari la chat in cui commentano l' aggressione, continuano a indossare gli stessi vestiti di quella sera, perfettamente riconoscibili nelle immagini registrate. Durante le perquisizioni gli indizi si accumulano uno dopo l' altro. Poi ci sono gli interrogatori del pm Emilia Galante Sorrentino, e in tre ammettono tutto, confessando anche la storia del coltello appena acquistato e della irrefrenabile voglia di usarlo subito. Eppure nessuno dei quattro ha alle spalle una mini-storia criminale. Vanno tutti a scuola, alle superiori, e almeno uno anche con discreto profitto. Eppure avrebbero potuto ammazzare un coetaneo, se solo quei fendenti avessero preso una traiettoria diversa. Esattamente come quell' altro gruppetto di minorenni che nel dicembre di due anni fa in via Foria - un' altra strada del centro di Napoli - accoltellarono Arturo, il diciassettenne diventato suo malgrado famoso per essere riuscito miracolosamente a sopravvivere alle profonde ferite al collo, a pochi centimetri dalla carotide. Ragazzini votati a far male come fosse un gioco. Un gioco che per almeno due di quelli di corso Garibaldi si ripete, seppure con altre modalità, esattamente ventiquattr' ore dopo l' aggressione al sedicenne. Quei due sono stati identificati anche tra i teppisti che si vedono nel video girato la sera del 17 gennaio nel Borgo di Sant' Antonio (duecento metri dalla strada dell' aggressione), quando un manipolo di ragazzini respinse a sassate la polizia che voleva impedire i falò in strada organizzati arbitrariamente per la festa del santo. Tiravano pietre e ridevano, così come il giorno prima accoltellavano e ridevano.

Fabrizio Geremicca per il ''Corriere del Mezzogiorno'' il 5 febbraio 2020. Ida Francioni, la dirigente della scuola Vanvitelli, che è al Vomero, riduce di sessanta minuti l’orario giornaliero per chi frequenta a tempo pieno e pubblica giovedì scorso un avviso nel quale motiva la sua iniziativa con la mancanza di bidelli e lavoratori socialmente utili. La mamma di un bimbo di nove anni, Cinzia O., architetto e funzionaria dell’Ato 2, non ci sta e, come annunciato venerdì 24 alla preside, lunedì scorso per protesta passa a prendere al solito orario – le sedici - il figlio. Lo fotografa nell’androne interno della scuola, nei pressi della portineria. Pubblica su facebook l’immagine ed un post nel quale sostiene che il piccolo sia stato lasciato dalla preside «sdraiato sulle scale dell’androne al freddo per una ora». E tanto serve ad incassare solidarietà sui social. C’è l’avvocato che «si mette a disposizione» e c’è il signore che invita a «sputare in faccia alla preside». Ieri mattina, martedì, la mamma, che nel frattempo aveva ricevuto una telefonata da un assessore regionale che conosce, ottiene un appuntamento all’ufficio scolastico regionale e racconta il suo punto di vista ad un ispettore. Nel pomeriggio, poi, si presenta di nuovo alle sedici alla Vanvitelli, ma trova i carabinieri, allertati dalla dirigente scolastica, e gli assistenti sociali. Torna a casa con una denuncia per abbandono di minore. Tutto nasce, si diceva, dalla decisione della preside di tagliare di un’ora la giornata scolastica degli allievi che pranzano a scuola. Si passa da 40 a 35 ore settimanali dal 27 gennaio e presumibilmente fino al 28 febbraio. La dirigente scrive nella nota pubblicata sulla pagina internet della Vanvitelli che l’ufficio scolastico regionale ha ridotto i collaboratori scolastici da 16 a 14 e che l’interruzione del servizio svolto dalla Manital ha fatto venire meno altri sei addetti che si occupavano di vigilanza e pulizia. Con l’organico a disposizione – sostiene - non è in grado di garantire la sicurezza dei 1250 bimbi che frequentano il circolo didattico, distribuiti su tre plessi, se non attraverso la riduzione dell’orario settimanale del tempo pieno da 40 a 35 ore. Cinzia O., però, è di tutt’altro parere. «La dirigente – dice - avrebbe potuto adottare soluzioni alternative. C’è una persona che resta a scuola e presta servizio nel pomeriggio per attività che si pagano extra. Si sarebbe potuta impiegare per garantire l’orario fino alle sedici». Accusa inoltre la preside di aver punito il bimbo per vendicarsi di lei: «Lunedì avrebbero potuto tenerlo nella saletta di lettura. La sua maestra era a scuola, nella segreteria, ma non l’hanno voluto fare stare lì. Me lo hanno messo a terra appositamente». Conclude: «La mia è una battaglia per il diritto allo studio. Avrei potuto chiedere a mia suocera di passare a prendere mio figlio alle quindici, ma non ho voluto. Ho spiegato i motivi al mio bimbo e lui ha capito. È un combattente». Francioni replica: «Strumentalizzare un bambino è sempre sbagliato. La signora avrebbe potuto e dovuto protestare diversamente senza coinvolgerlo. Io, peraltro, ho adottato l’unica soluzione possibile per garantire la sicurezza dei miei alunni dopo aver praticato ogni possibile strada per risolvere la questione della mancanza di organico. La sicurezza viene prima di tutto e per fortuna la stragrande maggioranza dei genitori dei nostri allievi lo capisce». Conclude: «Da parte mia non c’è stata nessuna volontà di mortificare il bimbo e certo non è rimasto da solo. Era all’interno della scuola in attesa della mamma e sotto la vigilanza di un adulto. Sto valutando se denunciare chi ha scritto falsità e mi ha insultato». 

Illegalità e abbandono, arrivano i controlli e il mercato storico sparisce. Rimosse le bancarelle che occupavano abusivamente il suolo, nello storico Borgo Sant'Antonio Abate è sparito il tradizionale mercato rionale. Agata Marianna Giannino, Giovedì 06/02/2020 su Il Giornale.  Una famiglia allargata, che riusciva a convivere tra diverbi e sotto il peso di abusivi e illegalità. Così tra i commercianti viene raccontata quella che era la vita nel tradizionale mercato del borgo di Sant’Antonio Abate. Oggi, la fiera all’aperto che contraddistingueva quella zona storica, che a Napoli viene chiamata "Buvero" e le cui prima tracce risalgono al 1400, è sparita. Via Sant’Antonio Abate è sgombra. Da circa una settimana si mostra in tutta la sua larghezza. È completamente libera, ma è deserta. Fino a qualche giorno fa i negozi allargavano le loro esposizioni all’esterno. Occupavano la strada pubblica con i loro banconi pieni di prodotti da vendere. Le bancarelle si allargavano fino a ridurre l’area pedonale a un vicoletto dove gli avventori si muovevano facendo lo slalom tra carretti abusivi e venditori di sigarette di contrabbando. Dopo i controlli a tappetto eseguiti dalla forze dell’ordine qualche giorno fa, il borgo ha cambiato faccia, è irriconoscibile, il mercatino storico rionale non c’è più. Polizia di stato, carabinieri, guardia di finanza e municipale invasero l’area mercatale il 29 gennaio scorso. Scandagliarono ogni negozio, ogni bancarella. Rilevarono diversi illeciti e scoprirono armi e sigarette di contrabbando. Per occupazione abusiva di suolo pubblico elevarono 44 sanzioni amministrative. Scoprirono 8 venditori ad esercitare abusivamente attività commerciale. Contestarono 15 contravvenzioni per affissioni pubblicitarie abusive e 2 per mancato possesso delle certificazioni sanitarie. In due botteghe sequestrarono 33 chili di alimenti esibiti senza certificato di tracciabilità: ai titolari è stata sospesa la licenza e dovranno pagare una sanzione di oltre 4 mila euro. All’interno di una piccionaia furono rinvenute delle armi: un’ascia, una doppietta a canne mozze con matricola abrasa e 58 cartucce di vario calibro. Furono scovati e sequestrati 200 chili di tabacchi lavorati esteri, 5 motocicli abbandonati, 3 motocarri utilizzati come deposito, 8 banchi per vendita di frutta e abbigliamento e un cantiere adibito a smaltimento illecito di amianto. Furono inoltre denunciate 10 persone per la manomissione di contatori dell’Enel e 4 per allaccio abusivo alla rete elettrica e idrica. Un silenzio anomalo investì il borgo durante i controlli delle forze dell’ordine. Un silenzio che a distanza di pochi giorni risulta rotto solo dal vociare dei negozianti che all’esterno dei loro locali e negli angoli di via Sant’Antonio Abate ragionano sull’accaduto e sulle attuali condizioni del mercato. “Cosa hanno concluso? Hanno penalizzato solo noi che abbiamo attività regolari, perché l’illegalità qui non si è mai fermata”, sbotta qualche esercente. Oggi, nel borgo incastonato tra piazza Carlo III e la piazza di Porta Capuana, ad occupare via Sant’Antonio Abate sono rimasti solo banchetti di fortuna che espongono decine di sigarette di contrabbando e, dietro, delle donne che in coppia sembrano occuparsi della vendita. Sul mercato del borgo pesa l’illegalità, atavicamente. Ma anche un abbandono istituzionale. “Qui – ammette un vecchietto guardandosi intorno – al 50 % è tutto illegale, è stato sempre così”. “E se non ci sono mai controlli – riflette - chi fa qualcosa di illegale lo ripete il giorno dopo”. Che i controlli siano assenti lo riferiscono anche le decine di negozianti con cui abbiamo parlato: “Si ricordano di noi solo quando succede qualcosa di eclatante”. Una decina di giorni prima dell’ultimo intervento massiccio delle forze dell’ordine, nel piazzale che apre al borgo da via Carbonara, una banda di giovani aggredì gli agenti del reparto mobile della polizia intervenuti sul posto in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, quando a Napoli gruppi di ragazzini fanno a gara a chi riesce a accendere il fuoco più alto nel proprio rione. I commercianti intervistati condannano quell’episodio. Qualcuno ne dubita, ma molti ritengono che i recenti controlli a tappeto delle forze di polizia siano conseguenti a quella vicenda. Si interrogano sui motivi e sugli effetti di quello che hanno vissuto come un intervento straordinario delle forze di polizia, proprio perché per loro i controlli rappresentano un evento raro. “Qui non ne fanno mai”, affermano. “Eppure – dice uno di loro - noi commercianti abbiamo bisogno di controlli, perché qui se viene l’abusivo e riesce a piazzare la frutta a un prezzo più basso perché non paga le tasse, io, che le pago, per andare avanti sono costretto a vendere allo stesso prezzo. Noi i controlli li vogliamo”. C’è stato un tentativo in passato di regolarizzare il mercatino, che dal 2012 è un centro commerciale all’aperto, ma è risultato vano. “Presentammo un progetto, ma è stato tutto bloccato. Partendo da quel progetto sono state recuperate altre zone di Napoli, come il mercatino dei Vergini nel rione Sanità. Qui, invece, non si è fatto più nulla”, racconta Lello, che nel borgo ha un negozio di intimo. Qualcuno tra i commercianti lo considera portavoce di una categoria che non è rappresentata da alcuna associazione. “Noi vogliamo pagarla l’occupazione del suolo”, afferma insieme ad altri negozianti del posto. Il gruppo riconosce senza indugio che da circa dieni anni con i loro banchetti invadevano abusivamente la strada pubblica. "Noi vogliamo pure pagare, ma non ce ne danno la possibilità", riferiscono. C'è chi racconta di aver presentato richiesta più di dieci anni fa e di non aver mai ottenuto una risposta, nonostante i solleciti. Manca una gestione del mercato, e su questo sembrano tutti d’accordo. Una organizzazione servirebbe a farlo risorgere e a riportare un po’ di ordine, perché nell’anarchia e in assenza di controlli, risulta difficile anche la convivenza tra gli esercenti, che ogni mattina sono costretti a combattere con gli ambulanti abusivi, con l’abbandono e con chi tenta di battere la concorrenza spostando la sua bancarella qualche centimetro più avanti, provando a sopravvivere in un caos che può condurre un mercato storico rionale solo nel baratro. 

Napoli, la casa di Totò sfigurata da rifiuti e negligenza. Una discarica di rifiuti deturpa la casa di Totò a Napoli. Situata in un palazzo diroccato nel rione Sanità, l'abitazione resta inaccessibile. Agata Marianna Giannino, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Se non ci fosse quell’immagine del volto di Totò sulle pareti diroccate, sembrerebbe una delle tante case del rione Sanità. Le finestre da cui Antonio De Curtis si affacciava sono senza imposte da tempo: l’appartamento dove il principe della risata è cresciuto è un cantiere fermo e non c’è più nulla che lo ricordi, se non gli omaggi del suo popolo che abbelliscono l’esterno. “Fu qui nella via Santa Maria Antesaecula, una delle più antiche strade della vecchia Napoli, che il 15-2-1898 nacque il principe Antonio De Curtis, il nostro Totò”, recita una targhetta di marmo apposta nel 1978 sul muro del civico 109 dalle Associazioni riunite di San Vincenzo Ferreri. All’interno, superato il cortile, diventa un’impresa capire qual è stata la casa delle origini di Totò. Senza una guida, bisogna arrivarci per intuizione: tra gli appartamenti ammodernati nei decenni, l’unico dotato di un vecchio portone è quello che si incontra al primo livello della salita. Le scale portano i segni del tempo. Sono quelle dove Totò passava. Calpestare le mattonelle in rovina del ballatoio rievoca quell’immagine di Totò trasmessa dai suoi film, dalle sue battute. La casa è chiusa, inaccessibile al pubblico. Nessun simbolo, nessuna scritta indica che quella è stata l’abitazione di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Anni fa la acquistarono dei privati all’asta. Nelle loro dichiarate intenzioni quell’appartamento dovrebbe diventare un centro culturale, ma la ristrutturazione è ferma da molto. Diverse le battaglie legali che hanno dovuto intraprendere per abusi trovati nell’appartamento quando ne hanno ottenuto la proprietà. Poi, nel corso della ristrutturazione, sono subentrati problemi di agibilità. E se dentro questo è lo stallo, fuori la situazione non è diversa. Sono delle stampe attaccate ai muri dei vicoli del rione che tracciano la strada per la casa di Totò. Arrivati a destinazione, lo spettacolo è indegno: vicino all’opera che rappresenta il volto di Totò con la sua bombetta a coprire il capo, una discarica di rifiuti speciali dissacra quel monumento e lo appesta con il tanfo che emana. “Quando arrivano i turisti la prima cosa che fotografano è la spazzatura, per far vedere cosa c’è sotto la casa di Totò, e questo è brutto per chi abita qua”, dice con rammarico un residente. Vicino a dei cassonetti sempre straripanti di sacchetti, allineati proprio sotto quella che è stata l’abitazione di Totò, c’è l’abitudine di depositare ingombranti e altri scarti di lavorazione. Un luogo simbolo di Napoli deturpato dall’inciviltà e dall’abbandono, ma anche dalla negligenza di istituzioni che, se poco possono fare per le questioni che riguardano strettamente la privata proprietà, non sembra che si siano attivati per gestire il flusso di turisti che comunque, anche in quelle condizioni, riesce ad attirare quel posto magico denudato delle sue origini, ed è lapalissiano che non si stia riuscendo a garantire un minimo di decoro dove vive l’anima di chi ha fatto la storia di Napoli e del cinema. C’è poca voglia di parlare tra i residenti di via Antesaecula: “Lo facciamo da anni e non è servito a niente, qui non è cambiato nulla”, affermano alcuni uomini del posto assembrati vicino ai bassi e negli angoli dei vicoletti. “Noi che possiamo fare? Qua il sabato e la domenica, durante i ponti, ne vengono a centinaia di turisti. Rimangono delusi per la spazzatura, per la casa disastrata e chiusa. Vengono qua e trovano un relitto”, afferma uno dei pochi residenti che si è prestato a un’intervista. Ad approfittare del pellegrinaggio dei turisti è solo un abusivo che all’ingresso del palazzo ha allestito una bancarella con i souvenir di Totò. La sorveglia a distanza. Seduto in buona compagnia all’esterno di un basso dirimpetto dice che il venditore non c’è e chiede: “Dovete comprare qualcosa?”. Chissà cosa avrebbe pensato Totò, osservandolo da qual balcone da cui, imitando la sua gente, iniziò a forgiare la sua arte.

Napoli, a piazza Cavour tra rifiuti e accampamenti. Giardinetti usati come discarica dove trovano riparo dei senzatetto, senza fine il degrado di piazza Cavour a Napoli. Agata Marianna Giannino, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. Bagno pubblico all’aperto, dormitorio per senzatetto e discarica di rifiuti. Così continua a presentarsi piazza Cavour. Nonostante gli sporadici interventi eseguiti fino ad oggi dal Comune per riportarla ad uno stato di decoro, la piazza situata a pochi passi dal centro storico di Napoli e a ridosso del Museo archeologico nazionale proprio non riesce a scrollarsi di dosso il degrado che la affligge da tempo. Solo nelle ultime settimane gli operatori di Asìa hanno provveduto a rimuovere i rifiuti dai giardini e dalla fontana del Tritone circondata dai giacigli dei senzatetto. Alle spalle della metropolitana, però, le aiuole restano invase dai rifiuti. A sporcarle sono principalmente i resti lasciati sul terreno al termine di notti passate all’aperto da chi non ha un tetto. Tra letti improvvisati fatti di cartoni e coperte c’è chi si ferma per impellenti bisogni di cui resta traccia evidente agli occhi e all’olfatto. Ci sono valigie, maglie, bottiglie di birra e bustoni pieni che sembrano conservare qualcosa a chi in quello stesso posto deve ritornare a dormire al calare del buio. Dietro una pianta è nascosta una bicicletta per bambini. Il fetore di urina è forte. L’andirivieni di tossicodipendenti a caccia di qualcosa in mezzo a quel pattume è continuo. Poco più avanti a imbrattare la piazza sono i rifiuti lasciati dagli incivili che usano una strada costellata di negozi come discarica di rifiuti, anche speciali. Li abbandonano sui marciapiedi e intorno ai cassonetti e finiscono per ostruire il passaggio ai pedoni. I marciapiedi in alcuni punti sono completamente occupati da ingombranti, materiale di risulta e altra immondizia. Negli spazi verdi della piazza non è raro vedere qualcuno che espleta bisogni fisiologici davanti a tutti. Nei giardinetti bivaccano diversi soggetti senza fissa dimora, la maggior parte proviene da Paesi dell’Europa dell’est, qualcuno è nordafricano. Da una settimana una coppia si è accampata davanti alla sede di un’associazione. Due materassi sono circondati da borse e valigie piene di indumenti. Poco più avanti c’è una delle due fermate della metropolitana che si trovano in piazza Cavour. “Abbiamo chiamato l’Asìa e non sono venuti”, ha detto Rosa, una volontaria dell’organizzazione, che si sto muovendo per provare a risolvere il problema, “che è igienico, ma anche di coscienza – sottolinea – perché noi siamo un’associazione di volontariato, aiutiamo le persone del Terzo mondo, e mi pare assurdo che poi non aiutiamo quelli vicino a noi”. Le condizioni di degrado della piazza hanno spinto alcuni commercianti ad attivarsi per mantenerla pulita. Angelo da qualche mese gestisce un bar in un chioschetto situato nei giardinetti. “Ci sono molti extracomunitari - afferma - senzatetto, tante persone incivili che buttano molta spazzatura nella zona. Siamo noi che abbiamo delle attività che stiamo ripulendo un po’ l’area, facendo dei sopralluoghi di giorno e di notte, perché né l’Asìa, né il Comune di Napoli, né Napoli Servizi ci stanno danno una mano. È una zona abbandonata. Tutto quello che si vede è fatto dai pochi commercianti che hanno aderito a quest’iniziativa”. “Prima era peggio”, racconta una residente, per la quale “sembra che ci sia una sorta di ripresa, nonostante – aggiunge – ci siano topi in continuazione”. “La sera – rivela - qui non si può stare perché ci sono topi che girano cercando cibo”. Alle sue spalle si apre quella che dovrebbe rappresentare un’area giochi per i bambini. Più di un anno fa fu vandalizzata. Oggi c’è qualche cavalluccio a molla su una pavimentazione antitrauma danneggiata e, attorno, rifiuti e disperazione.

Clochard e pure un centro sociale nella galleria "gioiello" di Napoli. Ancora fermo il rilancio della Galleria Principe di Napoli. Chiusi e vuoti quasi tutti i locali assegnati a imprenditori e associazioni. Disagi per la presenza di senzatetto che trovano ricovero sotto i porticati. Agata Marianna Giannino, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. “Vedo i pavimenti lucidi, puliti. C’è ordine. Questa galleria è bellissima, però non c’è niente, non c’è animazione. È morta”, commenta Adriana. Sta passeggiando con il marito nella Galleria Principe di Napoli. Il complesso monumentale, nato nella seconda metà del diciannovesimo secolo, da tempo attende un rilancio. I locali sono stati assegnati in concessione d’uso a imprenditori e associazioni risultati vincitori di un avviso pubblico indetto dal Comune di Napoli nel 2015. Ma sono ancora quasi tutti chiusi e deserti. Un tempo ospitavano principalmente uffici comunali. Su alcuni ci sono ancora le vecchie insegne dei vigili urbani e della tesoreria comunale. Sbirciando dalle vetrate, si vedono stanze vuote, impalcature di sostegno, e - dove c’è - dell’arredamento impolverato. Un paio di locali sono occupati abusivamente: delle bandiere rosse marcano gli spazi di cui si è impossessato un centro sociale dal 2013. Nando Cirella è uno dei pochi commercianti già operativi in galleria. Da un paio di anni gestisce un bar vicino all'ingresso che si apre su piazza Museo Nazionale . “Si è perso un po’ di tempo perché, prima, un gruppo di imprenditori assegnatari si è tirato indietro. Poi, c’è stata la chiusura che ha ritardato ulteriormente l’avvio delle attività. Ora dipende tutto dagli imprenditori”, ha raccontato. Rimasta inaccessibile per un anno in seguito alla caduta di calcinacci, la Galleria Principe è stata riaperta al pubblico solo a giugno scorso, al termine di lavori di messa in sicurezza costati al Comune di Napoli circa 60 mila euro. Da allora le sue pareti sono coperte da una rete di protezione. L’opera, oggi, risulta avvolta da un silenzio desolante. A sorvegliarla ci pensano i custodi della Napoli Servizi, società partecipata del Comune di Napoli. Aprono i cancelli alle 7 e li chiudono alle 8 di sera. Capita che debbano affrontare ragazzini che giocano a pallone o persone che entrano con le bici. Problemi ne incontrano spesso al momento della chiusura, quando devono far uscire alcuni dei senzatetto che trovano riparo sotto la volta di vetro e ferro. “Qualcuno, a volte, è ubriaco e non vuole andare via”, ha rivelato Mariano Cosacchi. “Qualche collega – ha poi raccontato - è stato aggredito e si è dovuto difendere. Anche se chiamiamo le forze dell’ordine, o non hanno macchine a disposizione o non hanno la possibilità di venire, oppure, per le loro condizioni lavorative, arrivano con un po’ di ritardo. Il più delle volte ce la dobbiamo risolvere noi la faccenda con i senza fissa dimora”.

Sono decine i senzatetto che di notte trovano ricovero sotto i porticati della galleria. Di mattina i loro giacigli spariscono. Gli operatori dell’Asìa passano a rimuoverli e gli addetti della Napoli Servizi provvedono alla pulizia. Qualche clochard può succedere che resista allo sgombero e che si fermi a dormire anche in pieno giorno sotto un ammasso di coperte. La presenza dei clochard causa non pochi disagi ai commercianti. “Dalla mattina alla sera fanno ciò che vogliono e il degrado aumenta. Tutti i loro bisogni, anche fisiologici, li fanno per strada. Tutti i loro averi (coperte, vestiti) li lasciano per strada. Poi, purtroppo, è tutta gente che beve”, afferma Nando Cirella. “È capitato - racconta l’esercente - che un senzatetto facesse i suoi bisogni fisiologici davanti a tutti. E le persone rimanevano scandalizzate. Ci chiedevano perché succedesse una cosa del genere al centro di Napoli”. Cirella è il commerciante che di recente ha segnalato la presenza di topi in galleria con una foto finita sui giornali. Ritiene che ad attirarli siano gli avanzi di cibo lasciati a terra dai senza fissa dimora. Sul suo smartphone conserva le immagini che documentano lo scempio che si consuma ogni giorno sotto a quei porticati dove passano tanti turisti. Di fronte c’è il Museo archeologico nazionale di Napoli. “Nei miei contenitori della raccolta differenziata - riferisce - fino a qualche tempo fa io mi trovavo i cartoni con le rimanenze che una pizzeria distribuiva ai senzatetto. Li buttavano senza toccare niente”. Sono tante le associazioni e i privati cittadini che ogni sera arrivano per distribuire pasti ai senzatetto. Ma, secondo quanto riportano i commercianti del posto, molti di quegli alimenti finiscono a terra, spesso intatti, creando problemi di decoro e igienici. “Il problema è nel sovraffollamento di associazioni e privati che qui provano ad aiutare queste persone in difficoltà, perché talvolta il cibo diventa troppo e si finisce per imbrattare i porticati. L’ente che poi si occupa della pulizia, la mattina inizia alle 6 e ci vogliono un po’ di ore per pulire tutto quello che è successo la sera prima. Con i vestiti poi può accadere anche qualcosa di più grave, perché si mettono anche a venderli qua fuori”, riferisce Mimmo, che in un locale all’ingresso della Galleria Principe organizza dal 2017 concerti di musica napoletana. La sua associazione ha ottenuto uno dei locali assegnati con l’avviso pubblico del 2015. Paga 830 euro al mese e ogni sera si trova ad accogliere gli avventori in questo scenario. Il pubblico che gremisce la sua sala solitamente è costituito da molti turisti, tanti sono stranieri. “Va bene che le associazioni vengano – sostiene - ma anche quello va gestito”.

Maria Pirro per ilmattino.it il 24 gennaio 2020. Dimenticate «Ammore e malavita». Il «Mafia tour» è una proposta che punta al business e niente più, non è la sceneggiata napoletana da film dei Manetti Bros. Dietro, non c'è filosofia. Lo ha ideato un ragazzo che ha girato mezzo mondo, su suggerimento di un avventore americano incontrato nella pizzeria con la porta crivellata dai proiettili dove ha lavorato, una volta rientrato. Èdunque un affare, almeno tentato, per guadagnare di più. Pubblicizzato online con una formula spietata, diventata marchio all'estero, proprio per renderlo «unico». Con tappe nel centro storico, a Forcella e nei Quartieri Spagnoli. E un valore aggiunto, in questo caso millantato: la giovane guida che accompagna su richiesta i visitatori, finora sette stranieri, scrive su TripAdvisor che «è cresciuta nel sistema». Altri annunci in italiano e in inglese si trovano su Airbnb (che in serata lo rimuove) e siti specializzati: tanto basta a scatenare le polemiche e a spingere i familiari delle vittime innocenti dei clan a parlare di «sfregio». Con il sindaco Luigi De Magistris che avvisa: «Le organizzazioni criminali non possono diventare attrazioni turistiche». Ma il Cicerone-finto-gangster che, alle 16, in piazza Garibaldi è pronto a mostrare le zone un tempo pericolose, nemmeno si rende conto di aver creato un caso. Si schermisce, è pentito per quella frase: «Mica faccio parte del sistema, e non lo esalto, mostro solo come funziona, per quello che si può vedere e senza mettere a repentaglio il portafoglio di nessuno...». Così il tour prende il via alla stazione. Vittorio Cuomo, la guida, indica subito un blindato dell'esercito. «Tutta la città è più sicura», dice con convinzione. Poi il 26enne chiarisce la differenza tra mafia e camorra («All'estero non fanno distinzioni, per questo l'iniziativa si chiama Mafia tour») e sostiene che «qui i clan danno fastidio a tutti, anche ai piccoli, cosa che non accade nei paesi siciliani, perché la popolazione è più numerosa». Ci sono, insomma tante, troppe bocche da sfamare. E non manca, sotto la statua di Garibaldi, qualche cenno all'unità di Italia con indicazione esatta della data. L'itinerario prosegue tra i vicoli, nell'ex mercato della Maddalena, un simbolo della centrale del falso. «Alle vendite provvedono gli immigrati, i capi locali non ci mettono la faccia», sostiene Cuomo, che in via Annunziata tira dritto tra cumuli di rifiuti ed entra a Forcella, dove è raffigurato Maradona su un muro, e il giovane ricorda i rapporti tra il calciatore con i rais degli anni Ottanta. Passa vicino a una bancarella che vende sigarette di contrabbando senza notarla, spiega che «non avvengono più tanti omicidi, ma le stese: gli avvertimenti». Supera poi la biblioteca dedicata ad Annalisa Durante, vittima innocente di uno scontro tra clan, e ammette di non sapere che quello spazio è un luogo di rinascita gestito dal papà della 14enne, una delle voci d'indignazione che si leva per l'iniziativa. Ad Airbnb il sindaco chiede la rimozione dell'annuncio e riporta un verso di de André per dire: «Dal letame nascono i fiori, dalla mafia nasce solo morte». All'indirizzo del portale scrive pure Flavia Sorrentino, a nome dello sportello Difendi la città: «La dignità è lesa», accusa. «Chi vuol lucrare vendendo un'immagine stereotipata di Napoli, legata alla camorra, dovrebbe vergognarsi», afferma il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli. Per le associazioni attive nei quartieri inseriti nell'itinerario, Forcella e le altre zone indicate «sono altro». «È fuori luogo promuovere visite turistiche per riscoprire le orme della malavita e del malaffare», interviene Antonio Lucidi, vicepresidente de L'Altra Napoli -. Qualcosa sta cambiando, ma non tutti se ne sono accorti». «L'intento non è offensivo o forse è la cronaca che offende?», replica Cuomo che argomenta: «Come fanno al tg, racconto cosa è accaduto e cosa accade. Rispondo alle domande della gente, a quello che vuole sapere. E parlo anche del picco di denunce e di come la città è cambiata in meglio». E, se i clan finiscono pure al centro di documentari internazionali, «perché io che vivo in città non posso guadagnare 25 euro?» Il giovane decide comunque di modificare l'annuncio sul web, che è solo l'ultima sua trovata per sbarcare il lunario. «Dopo il Boat tour e il Vespa tour», spiega. Vittorio, in realtà, è un pizzaiolo, un emigrante di ritorno. «Ho vissuto in Australia, negli Stati Uniti, e in tanti altri posti», riferisce, mostrando lo smartphone come prova, e un'email che dimostra che è in procinto di ripartire per lavorare in una compagnia aerea. «Sono incensurato, altrimenti non mi avrebbero preso», precisa il ragazzo di San Giovanni a Teduccio che proviene da una famiglia di infermieri. Ma papà, il boss, «non sa nulla dell'iniziativa». 

Leandro Del Gaudio per "Il Mattino" il 19 gennaio 2020. Fanno marcia indietro di fronte alla sassaiola di ragazzini, di fronte al lancio di pietre e bastoni. Decidono di non caricare il gruppetto di minorenni (alcuni dei quali addirittura under 14), di lasciare la zona con il passo del gambero, nello schiamazzo generale, tra le risate di scherno e le urla di vittoria degli stessi piccoli teppisti. È accaduto due notti fa nel cuore del Borgo di Sant'Antonio, dove ogni anno si ripete la vergognosa scena dei fuocarazzi, con cataste di legno date alle fiamme. A svelare cosa è accaduto tra venerdì e sabato notte, un video postato su facebook, che immortala la scena finale, quando la polizia ha già gettato acqua sul legno, impedendone la combustione e si trova a incassare la sassaiola dei ragazzini. Una fuga di fronte ai teppisti in erba? Prova a fare chiarezza il questore di Napoli Alessandro Giuliano: «Posso solo complimentarmi con i miei uomini per la straordinaria prova di freddezza e sangue freddo dimostrata in quei momenti. Condivido la scelta di non caricare un gruppetto di ragazzini, che nel frattempo sono stati tutti identificati e denunciati. Tirare pietre e bastoni contro la polizia è inaccettabile, chi si è reso responsabile di questi comportamenti ne risponderà di fronte alla giustizia». Ma cosa replica il questore di fronte alla ritirata di agenti in tenuta antisommossa? Non appaiono beffardi i cori di vittoria e le risate generali di un gruppetto di scalmanati contro agenti in divisa? Spiega ancora il questore: «C'è un prequel che non si vede nel video diffuso dai social: la polizia era già intervenuta a impedire le fiamme, bagnando le cataste di legno, come in altre zone della città. A quel punto l'operazione era terminata, non si poteva certo immaginare una carica di decine di agenti contro alcuni ragazzini. Ora le indagini sono in corso, tutti i responsabili saranno perseguiti penalmente». Un video choc, che sembra raccontare la Napoli della «paranza dei bambini» di Roberto Saviano. Un documento decisamente ad effetto, scovato e postato su facebook dal giornalista e consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli, che commenta così: «È questa la Napoli di domani? Fuori dal contesto in cui vivono i protagonisti di questa inaccettabile ribellione quale spazio e quale funzione potranno mai occupare e svolgere? Occorre fermarli, cresciuti in ambienti criminali siano tolti alle famiglie e rieducati nei luoghi giusti». Hanno i capelli rasati, scimmiottano slogan da stadio, si sentono padroni del vicolo. Tra di loro c'è chi fa un video con il cellulare, magari un po' deluso per non aver potuto immortalare l'ennesimo «fuocarazzo», grazie all'intervento preventivo delle forze di polizia. In modo inconsapevole fornisce con quel documento un assist formidabile agli inquirenti. Identificati alcuni teppisti, sono tutti della zona, tra di loro c'è chi appartiene a famiglie in odore di camorra.

Non è l'Arena, Tina Rispoli da Massimo Giletti attacca Roberto Saviano: "E' un pazzo, una persona malata". Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Tina Rispoli, ospite con il marito Tony Colombo da Massimo Giletti a Non è l'arena su La7, attacca pesantemente Roberto Saviano: "Questa è una persona malata, un depresso, ragazzi questo è un pazzo, io ci sto mettendo la faccia. Questo non fa altro che raccontare Gomorra, quello che legge dai giornali". E' un fiume in piena la donna e il conduttore cerca di arginarla: "Non potete definirlo come lo definite voi, è un narratore di realtà". Quindi la Rispoli sbotta e rincara: "Ma quale realtà? Non ce la facciamo più a sopportarlo. Dal 2004 sta raccontando sempre la stessa storia. Abbiamo capito". La Rispoli fa parte di una famiglia di Napoli che avrebbe forti legami con la camorra, tanto che lei e le sue sorelle hanno sulle braccia il tatuaggio con il guanto da boxe che dimostrerebbe l'appartenenza al clan "boxer". E' stata sposata con Gaetano Marino, noto personaggio legato alla camorra, ucciso con 13 colpi di pistola a Terracina, 7 anni fa. La vedova è poi convolata a nozze col cantante neomelodico napoletano, Tony Colombo, che sarebbe stato presente a tutte le feste organizzate dallo stesso clan.

Non è l'arena, domanda sulla camorra di Massimo Giletti, Tina Rispoli e Tony minacciano di lasciare lo studio. Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Tensione in studio tra Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, e i suoi due ospiti, Tony Colombo e Tina Rispoli. Lui dopo una domanda sulla camorra minaccia di lasciare lo studio: "Me ne vado. E' una vergogna associare la camorra alla mia vita, solo perché deve fare audience. Parliamo onestamente", dice mentre prende per mano la moglie per abbandonare la trasmissione. "Sì ma voi dovete rispondere a delle domande", ribatte il conduttore. La Rispoli fa parte di una famiglia di Napoli che avrebbe forti legami con la camorra, tanto che lei e le sue sorelle hanno sulle braccia il tatuaggio con il guanto da boxe che dimostrerebbe l'appartenenza al clan "boxer". E' stata sposata con Gaetano Marino, noto personaggio legato alla camorra, ucciso con 13 colpi di pistola a Terracina, 7 anni fa. La vedova è poi convolata a nozze col cantante neomelodico napoletano, Tony Colombo, che sarebbe stato presente a tutte le feste organizzate dallo stesso clan. 

Nozze trash tra Tony Colombo e Tina Rispoli, licenziati i cinque trombettisti della Penitenziaria. La Repubblica il 21 gennaio 2020. L'amministrazione penitenziaria ha disposto il licenziamento dei cinque ispettori trombettisti appartenenti alla banda musicale della Polizia penitenziaria che lo scorso 27 marzo, a Napoli, suonarono alle cosiddette nozze trash tra il cantante neomelodico siciliano Tony Colombo e la vedova del boss della camorra Gaetano Marino, Tina Rispoli. La decisione è giunta a quasi dieci mesi dal matrimonio tra Colombo e la Rispoli. I cinque ispettori della Polizia Penitenziaria, tutti residenti in Campania, erano componenti la Banda Musicale del Corpo, che ha sede a Portici (Napoli), nella più antica scuola di formazione d'Italia della Penitenziaria. Vennero immortalati in una serie di video, girati dai fan e postati sui social, mentre suonavano la tromba in occasione del pomposo matrimonio. A coinvolgerli, verosimilmente dietro compenso, fu un'agenzia che organizza eventi. Le immagini delle nozze, che ritraevano anche i trombettisti all'opera, divennero subito virali sul web e risultarono determinanti per incastrare gli ispettori a cui qualche giorno dopo le nozze vennero sequestrati gli strumenti e comunicata la sospensione in via cautelativa da parte del Dap che poi avviò gli accertamenti. Le nozze sollevarono un vespaio di polemiche e fatto anche scattare una indagine della Procura Antimafia partenopea, in particolare sul concerto andato in scena il giorno prima (il 26 marzo) in piazza del Plebiscito. Una esibizione registrata nell'apposito ufficio del Comune di Napoli come un flash mob ma, secondo gli investigatori, senza averne le caratteristiche. Il festoso corteo nuziale, con tanto di carrozza bianca trainata da cavalli, quel 27 marzo, bloccò letteralmente il traffico lungo corso Secondigliano.

Il sindacato: "Sia da monito". "Siamo certamente dispiaciuti per i destinatari dei provvedimenti e per gli effetti che da essi ne conseguiranno. Nel contempo siamo certi che quanto accaduto possa fare da monito per tutti gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria". Così, in una nota, il presidente dell'Uspp Giuseppe Moretti, e il segretario campano Ciro Auricchio, commentano il licenziamento dei cinque ispettori della Polizia Penitenziaria componenti la banda musicale del Corpo. "Chiediamo alla signora Tina Rispoli - aggiungono i sindacalisti - di smetterla di prendere in giro i napoletani riguardo il ruolo del marito, elemento di spicco della criminalità organizzata di Secondigliano, finito nel carcere di Poggioreale, tra il 2004 e il 2005, con l'accusa di associazione camorristica". In relazione alle indagini della Procura di Napoli sul concerto di piazza Plebiscito, registrato al Comune come flash mob, che ha preceduto il matrimonio tra Colombo e la Rispoli, Moretti e Auricchio auspicano che "si faccia presto luce sulle responsabilità inerenti alle autorizzazioni concesse dal Comune". Tornando alla vicenda dei licenziamenti degli ispettori-musicisti, componenti della banda del Corpo della Polizia Penitenziaria, Moretti e Auricchio ricordano l'impegno quotidiano del sindacato "per la tutela della dignità professionale dei poliziotti penitenziari che espletano con senso di responsabilità ed onore le loro funzioni pubbliche. Il corpo di polizia Penitenziaria, alla pari delle altre Forze di polizia, contribuisce a garantire l'ordine e la sicurezza per la collettività, assicurando la corretta esecuzione delle misure restrittive della libertà personale ed operando spesso in condizioni ostili ed in assenza di adeguate risorse ma con diligenza, competenza e professionalità".

"Giù le mani dal pisolino al lavoro". E gli autisti napoletani fanno sciopero. La protesta per la sospensione di un collega colto in flagrante. Luca Fazzo, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Giù le mai dal pisolino, diritto inviolabile del lavoratore, garanzia costituzionale di rinnovata solerzia del dipendente: che tanto più farà bene la sua parte quanto più si sarà riposato a sufficienza. É questa la battaglia che avrebbe visto scendere in sciopero una sessantina di conducenti dell'Anm, l'azienda di trasporti pubblici del Comune di Napoli, mobilitati in difesa di un collega punito per avere esercitato la facoltà di pennichella. Ad incastrare il dormiglione, secondo quanto riferisce ieri il Corriere del Mezzogiorno, è una indagine interna decisa dai vertici dell'Anm che mandano una squadra di ispettori in uno dei principali depositi di mezzi dell'azienda, il Brin. Qualche voce, pare, aveva segnalato che non tutti gli addetti al deposito, ed in particolare gli autisti del turno di notte, lavoravano con l'alacrità pretesa dall'azienda. E gli ispettori si trovano di fronte alla più vistosa delle conferme: una stanza chiusa a chiave con lucchetto, in cui erano stati piazzati una scrivania, una poltrona, un paio di sedie e soprattutto un divano. L'ideale per una sosta ristoratrice. Un giro per il deposito, ed ecco che gli ispettori individuano un conducente che per una passeggiata nel mondo dei sogni si è accontentato del posto di guida. Lo svegliano, lo denunciano. E arriva la sospensione. Peccato che l'appisolato non sia un autista qualunque ma un dirigente di un combattivo sindacato di base, molto in vista tra i colleghi. E pochi giorni dopo, sessantatrè colleghi del sospeso non escono per Napoli con i loro automezzi, lasciando a piedi centinaia di rassegnati passeggeri. Gli scioperanti giurano che i motivi della protesta erano altri. Ma autisti intervistati dal quotidiano assicurano: l'obiettivo era salvare il collega sognatore.

Dagospia il 28 dicembre 2019. Valerio Cappelli per il Corriere della sera - articolo del 9 dicembre 2013. A casa De Simone è Natale tutto l'anno. All'ingresso troneggia un presepe settecentesco per tutti e dodici i mesi. Roberto De Simone è un blocco unico di artista, ora compositore, ora studioso (ha appena pubblicato Cinque voci per Gesualdo, «travestimento in musica e teatro» su Gesualdo da Venosa). Col suo eloquio forbito, ti racconta del suo presepe fatto di «figure modellate a mano che sembrano eseguite rozzamente, questa non definizione delle forme conferisce ai pastori una sacralità non realistica, estranea alla perdita di valori religiosi». È un presepe a spirale, quasi una visione dantesca, alla cui sommità domina la strage degli innocenti, «che nei presepi successivi fu abolita dalla buonista morale borghese. Qui, vede, c'è la crudeltà della strage che dalla cima scende in basso, nella scena delle lavandaie, testimoni della verginità di Maria. Un misto di angelicità e demonismo, un presepe concepito come le Stazioni della sofferenza di Cristo». È solo all'inizio della Casa-museo di De Simone, che ha compiuto 80 anni ma dice che «non c'è niente da festeggiare, semmai da commemorare. La situazione napoletana è tragica, il territorio è devastato dagli sversamenti di rifiuti tossici. E poi Napoli è una città culturalmente invivibile. Ho perseguito la cultura alternativa e popolare, sono stato cacciato, messo nell'angolo, dalla sinistra e dalla destra». Un rapporto lacerato fin dagli Anni 50, il «laurismo», la Democrazia cristiana, il socialismo, Bassolino e «il bassolinismo». Ha criticato il restauro del San Carlo e la nuova acustica, «il vertice del teatro ha risposto che è la fissazione di un vecchio pazzo. Quando ero io direttore artistico, feci abbattere le canne fumarie nascoste dietro le colonne della facciata del teatro, locali usati come sale di banchetto ad uso privato, non si sa con quale funzione culturale. La mia denuncia fu insabbiata». Ma la gente ama De Simone, lo considera uno di famiglia, sente la sua passione intellettuale così lontana dalle istituzioni e così vicina a un'idea di cultura popolare calata nella vita reale. A piccoli passi, aiutandosi col bastone, divenuto suo compagno di vita. De Simone ci fa strada nel salotto. Nell'angolo, quasi dimenticato, appare uno strumento per musica da strada, pezzo unico dell'800, è l'arpa popolare di Viggiano, «diatonica, senza pedali, con corde originali di budello». In un'altra stanza, ecco una raccolta di oggetti devozionali sulla religiosità popolare, «sculture fatte a mano, senza quelle caratteristiche che i collezionisti amano: ex voto sotto campane di vetro, pitture sacre, anime purganti in legno raccolte dai robivecchi, sono re, cardinali, una specie di danza macabra, rappresenta l'elemento centrale della religiosità campana. La biblioteca, i copioni teatrali, le stampe, le pitture sulla decorazione di San Gennaro, sulla morte di San Pietro martire, sui miracoli di Sant'Antonio». De Simone non crede in maniera ortodossa, diciamo che ha una idea «funzionale» della fede: «La religiosità è l'elemento fondante della cultura popolare. Non si può concepire la tradizione se non si fonde la religiosità popolare con il quotidiano. E nelle feste convivono il presente e il passato, la ricerca sul folclore. Nella mia vita ho cercato di coniugare l'oralità e la scrittura, la meta-storia e la storia, poggiando sulla componente improvvisatrice del canto, una vena estemporanea difficile da riprodurre, che richiede una conoscenza specifica del linguaggio sul campo...». De Simone e la sua anarchia intellettuale («non mi sono formato né su Croce né su Gramsci»), l'artista a cui si deve la Pergolesi Renaissance (ora vorrebbe riscoprire Jommelli), l'autore della Gatta Cenerentola: «Ma lo sa che fu finanziata dalla Regione Emilia-Romagna e non dalla mia Campania?». De Simone l'artista del popolo che viene dal popolo, «mio padre era suggeritore a teatro, mia madre faceva sapone di contrabbando». E questa vecchia foto in bianco e nero sul tavolo? «L'ho ritrovata da poco, Olimpia, la sorella di mio nonno, faceva la medium ed era anche attrice». Sorride col suo sorriso disarmato: «Un'accesa bolscevica».

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Succede in Puglia. 

Da Pasolini a Checco Zalone. I migliori film ambientati in Puglia. Tg24 Sky il 2 agosto 2020.

1/10. "Il Vangelo secondo Matteo" (Pier Paolo Pasolini, 1964). Pasolini avrebbe voluto girare tra Israele e Palestina, nei luoghi originali del Vangelo, ma l'idea si rivelò impraticabile e indusse il regista a scegliere l'Italia del Sud. Numerose scene sono ambientate in Puglia: Ginosa, Massafra, Manduria, Castel del Monte, Santeramo e Gioia del Colle: nella foto il castello in cui fu girato l'episodio di Erode e Salomè. 

2/10. "Nostra Signora dei Turchi" (Carmelo Bene, 1968). Quando ancora il Salento non era il vacanzificio di oggi, Carmelo Bene scelse Otranto per ambientarci questo racconto medievale che s'intreccia con l'introspezione psicologica del protagonista. Un film sperimentale, oggettivamente complicato, "impermeabile a ogni tipo di interpretazione logica o razionale" (Morandini), che definisce la grandezza dell'artista originario di Campi Salentina, in provincia di Lecce.

3/10. "Polvere di stelle" (Alberto Sordi, 1973). Le disavventure di una compagnia di comici di avanspettacolo nell'Italia del Sud liberata dagli americani: gran parte del film è ambientata a Bari, con tante scene nello splendido Teatro Petruzzelli e in esterni (qui, per esempio, siamo in Piazza dell'Ogeditria, pieno centro storico con magnifica vista sul mare).

4/10. "Io speriamo che me la cavo" (Lina Wertmuller, 1992). Il romanzo di Marcello D'Orta era ambientato ad Arzano, provincia di Napoli, ma la regista - a quanto pare, anche per alcune "difficoltà produttive" con alcuni personaggi vicini agli ambienti della malavita napoletana - scelse il borgo antico di Taranto per le riprese del film con Paolo Villaggio.  Qualche variazione sul tema rispetto al libro, specialmente nei paesaggi che Villaggio può ammirare dalla finestra di casa: si vede l'Ilva, si vede il mare.

5/10. Negli anni Duemila il regista barese Alessandro Piva ha avuto successo con un paio di film ambientati a Bari Vecchia, molto apprezzati e citati dai suoi concittadini: "Lacapagira" (1999), recitato interamente in dialetto, e "Mio cognato" (2003), con Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio parenti che più diversi non si può, alle prese con un'avventura notturna nella parte vecchia della città: la scena della sosta per fare pipì davanti allo Stadio San Nicola illuminato è un piccolo cult.

6/10. "La terra" è uno dei film più "pugliesi" di Sergio Rubini, nativo di Grumo Appula (Bari) e autore di molti film ambientati nella sua regione. In questa pellicola del 2006 il milanese Fabrizio Bentivoglio torna nel suo paese d'origine, Mesagne (Brindisi), e si ritrova invischiato in una storia losca di corruzione e usura. Ambientato nei veri luoghi del film: in questa scena si riconosce per esempio la Chiesa Matrice di Mesagne.

7/10. La moda del Salento, esplosa ormai da una ventina d'anni, ha portato numerosi registi a girare a Lecce e dintorni, affascinati dallo splendido mare e dalle meraviglie del Barocco locale. Di entrambe le cose è pieno per esempio "Mine vaganti" (2010), in cui Ferzan Ozpetek ambienta a Lecce una storia di segreti familiari. Il regista di origini turche ambienterà a Lecce anche il successivo "Allacciate le cinture" (2014).

8/10. Anche Matteo Garrone ha scelto la Puglia per ambientare i suoi due film più magici e fantastici, "Il racconto dei racconti" (2015), girato tra Castel del Monte, Gioia del Colle, Mottola e Statte, e "Pinocchio" (2019), ambientato tra Altamura, Ostuni e Polignano a Mare, dove sono state girate le scene con il pescecane.

9/10. "Odio l'estate" (Massimo Venier, 2020). Il ritorno a buoni livelli di Aldo, Giovanni e Giacomo dopo un decennio di appannamento arriva sulle coste del Salento, per l'esattezza a Otranto, in una commedia estiva molto più profonda della media, con tante citazioni, un po' di nostalgia e la bella colonna sonora di Brunori Sas.

10/10. In una rassegna dei più famosi film ambientati in Puglia non possono certo mancare quelli di Checco Zalone, dominatore dei botteghini italiani da almeno un decennio. C'è sempre un po' di Puglia in ogni suo film, da "Cado delle nubi" fino al recente "Tolo Tolo" (2020), la cui prima parte è ambientata a Gravina di Puglia, dove il protagonista coltiva il progetto un po' ambizioso di aprire un ristorante di sushi.

Regionali 2020, i curricula dei candidati Presidenti: le loro vere competenze. Il Corriere del Giorno il 20 Settembre 2020. i due candidati più “forti” in competizione sono già stati entrambi presidenti della Giunta Regionale, e si ricandidano, e quindi i cittadini hanno già degli indicatori e strumenti per poter valutare se hanno amministrato la Regione pugliese, bene o male. Con il voto di oggi 20 e domani 21 settembre i cittadini pugliesi decideranno a chi consegnare il timone della guida della Regione Puglia. Nessuno ha sinora spiegato agli elettori quali sono i veri poteri del Presidente che andranno ad eleggere. A partire dalla riforma costituzionale del 1999 con cui è stata decisa la sua elezione diretta e con la modifica del Titolo V del 2001, il Presidente eletto che guida una Regione di fatto incide pesantemente sulle vite di tutti noi.

I poteri del Presidente. Il bilancio regionale della Puglia vale 14 miliardi. Un bilancio che all’80% viene speso per la Sanità che significa poter decidere quali ospedali aprire e quali chiudere, chi metterne alla guida, se, quando e come potenziarli per ridurre i tempi di attesa o allargare gli accreditamenti agli operatori ed imprenditori della sanità privata, quali servizi sociosanitari garantire sul territorio, ed infine chi deve ricevere i soldi per la ricerca. Subito dopo c’è il trasporto pubblico locale il cui funzionamento dipende dalle gare indette per selezionare le società che lo devono gestire, come vengono definite le tratte di percorrenza, i trasferimenti dei finanziamenti ai Comuni (metro e gomma) o alle società che gestiscono i treni regionali. La Regione finanzia il sostegno alle imprese, alle start up, all’agricoltura e agroalimentare, decide gli incentivi al commercio, artigianato, turismo, finanzia i corsi di riqualificazione professionale, e la formazione per chi non fa il liceo o gli istituti tecnici. Decide le politiche di contrasto alla povertà e offre i servizi di collocamento lavoro con l’incrocio della domanda e dell’offerta. Spetta alla Regione decidere come spendere i finanziamenti europei: quello del Fondo sociale, quello per lo sviluppo regionale e dell’agricoltura. E in ballo ci sono miliardi di euro. Ha competenza sulle valutazioni di impatto ambientale, sul controllo della qualità di aria e acque, autorizzazioni alle bonifiche, leggi urbanistiche, condizioni di accesso e finanziamento dei servizi sociali, compresa l’edilizia popolare.

I requisiti di un candidato. Dovrebbe essere scontato che i candidati posseggano competenze ed esperienze riconosciute e imprescindibili. Sicuramente sono questi i principali requisiti: alta reputazione, ottimo titolo di studio, nessuna pendenza con la giustizia, conoscenza profonda della macchina politica e amministrativa, zero conflitti di interesse. Tutto ciò in pratica vuol dire aver fatto almeno il sindaco di una grande città (non di un piccolo paese) o aver già gestito organismi complessi, e in entrambi i casi prodotto risultati noti. Per quanto riguarda la Puglia, i due candidati più “forti” in competizione sono già stati entrambi presidenti della Giunta Regionale, e si ricandidano, e quindi i cittadini hanno già degli indicatori e strumenti per poter valutare se hanno amministrato la Regione pugliese, bene o male. Contro Michele Emiliano (Pd) il centrodestra in Puglia ha schierato Raffaele Fitto (Fratelli d’Italia), laureato in Giurisprudenza, già deputato, ministro per gli Affari regionali, eurodeputato, ma anche presidente della Puglia dal 2000 al 2005. Per il M5S è scesa in campo per la seconda volta Antonella Laricchia, 34 anni, laureanda in architettura, guida turistica, volontaria per la Pro loco, dopo le elezioni regionali di maggio 2015 quando si era candidata alla presidenza risultando il secondo candidato più votato. Da allora è capogruppo del movimento in Consiglio regionale. Per Italia Viva ha corso Italia Viva, laurea in Giurisprudenza, consulente strategico nel campo delle Risorse Umane e del  Ivan Scalfarotto Management, deputato dal 2013, tre volte sottosegretario, oggi agli Esteri.

Le Regioni al voto. Delle sei Regioni che vanno al voto, tre non hanno conosciuto l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra: Veneto (centrodestra), Toscana e Marche (centrosinistra). Oggi 13 Regioni sono amministrate dal centrodestra, 6 dal centrosinistra e 2 (Valle d’Aosta e Provincia autonoma di Bolzano) da partiti regionalisti. Ormai da anni, il risultato elettorale delle Regionali è considerato anche un banco di prova per la tenuta del Governo. Massimo D’Alema perdendo alle Regionali del 2000 per 8-7 contro il centrodestra, si dimise da presidente del Consiglio, definendolo un «atto di sensibilità politica». A quel tempo il centrosinistra guidava comunque 8 regioni, 2 in più rispetto ad oggi. Nel 2005 fu una sconfitta ancora più rovinosa, pari 12 a 2, che portò Silvio Berlusconi a procedere a un rimpasto di governo. A causa delle regionali sarde del 2009 Walter Veltroni si dimise da segretario nazionale del Pd, mentre il Governo Conte grazie a quelle emiliano-romagnole dello scorso gennaio ha tirato un sospiro di sollievo. ’articolo 51 della Costituzione stabilisce che «Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», ovvero aver compiuto 25 anni per i deputati e 40 per i senatori. Ci sono poi vigenti delle cause di incompatibilità (doppi incarichi) e ineleggibilità (condanne con interdizione dai pubblici uffici), incandidabilità (legge Severino). Non è prevista una norma che imponga di accedere alle alte cariche dopo aver percorso tutte le tappe: consiglio di zona, comunale, regionale, parlamento. Così come non è richiesta la produzione di risultati oggettivi nel corso della propria attività politica, tantomeno di aver svolto con successo mansioni di alta responsabilità nel caso di reclutamento dalla società civile. I partiti hanno da tempo abdicato alla responsabilità di formazione della propria classe dirigente, candidando spesso soggetti privi di esperienze adeguate, oppure scommettendo sull’impatto mediatico di volti noti. In politica ai nostri giorni non contano i requisiti richiesti in qualunque altro settore, e poco importa ai partiti se da loro poi dipendono le sorti di un Paese.

Il ritratto del governatore della Puglia. Chi è Michele Emiliano, lo sceriffo pugliese "larger than life". David Romoli su Il Riformista il 23 Settembre 2020. “Metti a Cassano”. Dopo 16 anni quello spot elettorale è ancora un modello di comunicazione politica. Giusto un anziano di Bari, con famiglia intorno, che guarda la partita in tv ed esorta l’allora allenatore della nazionale Trapattoni a far giocare la stella emergente, il barese Antonio Cassano. Solo alla fine l’invito a votare il candidato sindaco del centrosinistra, Michele Emiliano. I baresi, nel 2004 «misero a Emiliano» a sorpresa come a sorpresa, contro i desiderata del vertice del Pd, Emiliano si era imposto come candidato. Sembrò l’inizio di un’impetuosa onda. L’anno dopo Nichi Vendola sfidò a propria volta la leadership del centrosinistra, vinse le primarie e poi le elezioni a presidente della Puglia. A Milano un altro outsider, Pisapia, diventò sindaco. Di quello squadrone di sindaci e presidenti di Regione che sembravano destinati a rovesciare come un guanto la sinistra politica è rimasto in campo solo, lui, Michele Emiliano, trionfatore due giorni fa in Puglia. Per i tipi come lui gli americani hanno una definizione precisa, Larger than Life, perché la vita stessa fatica a contenerne l’esuberanza. Nel caso di Emiliano, classe 1959, il ritratto è anche fisicamente attagliato, un metro e 90 per 120 kg, rumoroso, effervescente, imprevedibile, ingovernabile, impermeabile a qualsivoglia disciplina di partito o coalizione. Emiliano gioca in proprio e non lo nasconde. Figlio di un calciatore diventato poi imprenditore, buon giocatore di basket e ovviamente abile col pallone. Era in squadra con Franco Giordano, futuro segretario di Rifondazione e allora grande promessa del calcio barese. Dovevano essere una coppia ben strana: Emiliano gigantesco, Giordano piccolo e scattante. «Mi copriva le spalle» ricorderà anni dopo il rifondatore. Laureato in giurisprudenza, avvocato per pochi mesi, Emiliano passa poi alla magistratura all’inizio dei ‘90, prima ad Agrigento con Rosario Livatino, poi all’antimafia di Brindisi, incaricato delle indagini sulla Sacra Corona Unita. Un giudice insomma? Macché. Lui, anche se non ha mai lasciato la toga e ha continuato a figurare per decenni come “in aspettativa”, ci tiene a far sapere che quello che gli piace fare è il magistrato, senza dover poi giudicare. Un magistrato d’azione, di quelli che ai tempi di Wyatt Earp avrebbero sfoggiato uno stellone gigante: uno sceriffo insomma. Quando nel 2018 una sentenza della Cassazione lo costringe a scegliere tra la toga in aspettativa nell’armadio e la tessera del Pd non ci pensa su due volte e straccia la tessera. Sin dall’inizio della nuova carriera di uomo politico, l’ex magistrato sfodera il suo stile. Comunicazione diretta, lui e il popolo senza fronzoli e corpi intermedi e se sembra proprio lo stile tipico del populismo poco male. Quel che conta è che funzioni e in effetti funziona. Quanto a coerenza con le assicurazioni più solenni, il sindaco precorre i tempi, anticipa l’abitudine ormai universale a fare il contrario di quanto promesso e garantito. Giura che non sarà mai segretario del Pd pugliese, la cosa proprio non gli interessa. Nel 2007 diventa appunto segretario. Strilla che la presidenza di Regione è quanto di più distante dai suoi interessi e dai suoi desideri. Nel 2015, dopo essere stato per due volte primo cittadino barese, si candida alla guida della Regione vince e succede Nichi Vendola come “governatore”. Lo “scandalo delle cozze” del 2012 non ne mina la popolarità. Regalo della famiglia Degennaro, palazzinari vicini al Pd, e anche se le cozze sono tante da richiedere l’uso della vasca da bagno per contenerle tutte la polemica è infondata e pretestuosa. Ma col clima giustizialista imperante anche per reggere a una simile accusa priva di sostanza ci vuole stazza e quella a Michelone certo non difetta. Neppur le critiche per essersi tenuto come addetta stampa la moglie arrivano a destinazione. Emiliano si limita a scrollare le spalle: «È la migliore addetta stampa che mi è capitata e dovrei farne a meno solo perché mi sono innamorato». Quando alla guida del Pd arriva Renzi le scintille diventano incendio. Per una volta il magistrato che non ama giudicare, giudica e condanna: «È un venditore di pentole». Quando il governo decide la proroga sino a esaurimento dei giacimenti delle trivelle il fronteggiamento finisce a botte. Emiliano è tra quelli che chiedono il referendum contro la legge voluta dal suo segretario ma il quorum non viene raggiunto. Poi si schiera contro il premier nel referendum costituzionale e, dopo la sconfitta e le dimissioni da premier di Renzi, si candida, perdendo, a segretario del Pd. Non che sperasse di vincere. La mossa a effetto gli serve a rinsaldare le posizioni nella regione che è sempre più “sua”. Fa a lungo fronte comune con i futuri scissionisti di Bersani e D’Alema ma all’ultimo si tira indietro. Nessuno può negargli un sicuro fiuto. All’inizio di quest’anno sgomina la concorrenza nelle primarie e con il 70% dei consensi si candida a succedere a se stesso. Lo danno tutti per sconfitto. Lo stellone da sceriffo di cui si fregia, come il collega campano De Luca, sembra in declino inarrestabile. De Luca sconfigge la sorte che pareva segnata grazie al Covid. Emiliano in apparenza no. Lo continuano a dare tutti per sconfitto sino alla sera prima del voto. Lui non si perde d’animo, accumula una quantità di liste da raccolta di figurine, largheggia in prebende. Quando si arriva alla conta è la vera sorpresa: vince facile e di molte lunghezze. Un presidente di Regione del Pd e del centrosinistra? Ecco su questo, come nel caso di De Luca, è lecito nutrire dubbi. Emiliano, come il campano, risponde solo ed esclusivamente a Michele Emiliano. Lo “scandalo delle cozze” del 2012 non ne mina la popolarità. Regalo della famiglia Degennaro, palazzinari vicini al Pd, e anche se le cozze sono tante da richiedere l’uso della vasca da bagno per contenerle tutte la polemica è infondata e pretestuosa. Ma col clima giustizialista imperante anche per reggere a una simile accusa priva di sostanza ci vuole stazza e quella a Michelone certo non difetta. Neppur le critiche per essersi tenuto come addetta stampa la moglie arrivano a destinazione. Emiliano si limita a scrollare le spalle: «È la migliore addetta stampa che mi è capitata e dovrei farne a meno solo perché mi sono innamorato». Quando alla guida del Pd arriva Renzi le scintille diventano incendio. Per una volta il magistrato che non ama giudicare, giudica e condanna: «È un venditore di pentole». Quando il governo decide la proroga sino a esaurimento dei giacimenti delle trivelle il fronteggiamento finisce a botte. Emiliano è tra quelli che chiedono il referendum contro la legge voluta dal suo segretario ma il quorum non viene raggiunto. Poi si schiera contro il premier nel referendum costituzionale e, dopo la sconfitta e le dimissioni da premier di Renzi, si candida, perdendo, a segretario del Pd. Non che sperasse di vincere. La mossa a effetto gli serve a rinsaldare le posizioni nella regione che è sempre più “sua”. Fa a lungo fronte comune con i futuri scissionisti di Bersani e D’Alema ma all’ultimo si tira indietro. Nessuno può negargli un sicuro fiuto. All’inizio di quest’anno sgomina la concorrenza nelle primarie e con il 70% dei consensi si candida a succedere a se stesso. Lo danno tutti per sconfitto. Lo stellone da sceriffo di cui si fregia, come il collega campano De Luca, sembra in declino inarrestabile. De Luca sconfigge la sorte che pareva segnata grazie al Covid. Emiliano in apparenza no. Lo continuano a dare tutti per sconfitto sino alla sera prima del voto. Lui non si perde d’animo, accumula una quantità di liste da raccolta di figurine, largheggia in prebende. Quando si arriva alla conta è la vera sorpresa: vince facile e di molte lunghezze. Un presidente di Regione del Pd e del centrosinistra? Ecco su questo, come nel caso di De Luca, è lecito nutrire dubbi. Emiliano, come il campano, risponde solo ed esclusivamente a Michele Emiliano.

 Michele, il furbo "populista istituzionale" campione di trasformismi e sfacciataggine. Dalemiano, renziano e ora filo-grillino: il più disinvolto a cambiare casacca. Giuseppe Marino, Martedì 22/09/2020 su Il Giornale. «Sono un populista istituzionale». Dice di sé Michele Emiliano. Entrambe le cose, prese separatamente, sono vere: è un populista ed è dentro le istituzioni. Da decenni. Emiliano non ne è uscito mai dai palazzi, nemmeno quando ne è uscito. Nel 2003 mollò l'incarico di sostituto procuratore a Bari lasciando alla deriva l'inchiesta su Massimo D'Alema (per poi candidarsi nel partito di Massimo D'Alema) senza mai lasciare la magistratura, incurante delle molli reprimende del Csm. Il suo regno su Bari, dopo il mandato da pm, i due da sindaco e ora il secondo da presidente della Regione, pare non aver mai fine. Certo, c'è la vocazione populista ante litteram, ma a Emiliano non si può certo negare il fiuto per le alleanze giuste. Lesto a mollare D'Alema quando la sua stella era al tramonto è saltato sul cavallo di un Matteo Renzi nella sua fase più populista, quando si atteggiava a rottamatore proprio di D'Alema, è stato altrettanto lesto a sganciarsi dal leader di Rignano, passando sul sentiero a lui più congeniale, quello che corre parallelo al treno dei grillini. È in questa fase che Emiliano ha davvero costruito il suo capolavoro: è riuscito a dipingersi come il leader più anticasta all'interno del Pd mentre costruiva la sua forza mettendo insieme tutto il notabilato pugliese più radicato nel potere. Tutto tranne Raffaele Fitto, ex baby prodigio della politica pugliese, ex governatore della Regione, ma anche erede della tradizione politica di famiglia, visto che il papà Salvatore è stato a sua volta presidente di Regione in epoca democristiana. Emiliano, incurante del suo fisico imponente, è riuscito a saltare ogni ostacolo inciampandoci sopra e rialzandosi con disinvoltura. Come la volta che, mentre si dipingeva come implacabile magistrato chiamato a moralizzare la politica, giocò d'anticipo e si autodenunciò per aver accettato in dono una vasca piena di pregiati frutti di mare di cui sono rimaste nella memoria collettiva cinquanta cozze pelose, per i baresi una prelibatezza sublime, ricevuti in dono a sua insaputa da un re degli appalti alla cui figlia Emiliano aveva appaltato un posto da assessore. E lui che fa? Organizza una conferenza stampa mostrando tutti i regali che ha ricevuto e si dà del «fesso ma onesto»: «Ho avuto l'arroganza di un ragazzino nel gestire il ruolo del sindaco di Bari però sono una persona perbene». In parole povere: non mi dimetto. E in fondo è questa la forza di Emiliano: non essendo uno che possa passare inosservato, ha fatto di una ostentata teatralità la sua forza, un modo per far dimenticare la disinvoltura nei rapporti con i potentati, la trasversalità delle alleanze, la vaghezza dei programmi politici. E i fallimenti: pochi giorni fa, in piena campagna elettorale, ha ritirato fuori dal cassetto un bando di finanziamento per 800 giovani agricoltori bocciato dal Tar. Lo ha riproposto e ha incassato una nuova bocciatura, lasciando a terra le aziende che contavano su quei fondi europei. E lui? Come sempre: è inciampato goffamente e si è rialzato come se nulla fosse. Come la volta che improvvisando a favore di telecamera un balletto folk è inciampato e si è rotto il tendine d'achille. Si sa che è il punto debole dei guerrieri possenti. E lui ha rimediato cancellando il video della goffa caduta con un'immagine ancora più forte: lui sorridente in canottiera populista nel letto d'ospedale. Chi, anche nel Pd, lo vedeva già caduto in questa nuova prova elettorale avrebbe dovuto ricordarsi di com'è bravo a rialzarsi.

Michele Emiliano: tra posto fisso e messaggi Whatsapp, una riconferma "sporca" in Puglia. Libero Quotidiano il 21 settembre 2020. La Puglia resta nelle mani di Michele Emiliano che, a dispetto degli exit poll che lasciavano immaginare un serrato testa a testa con Raffaele Fitto da risolvere all’ultimo voto, è riuscito ad avere la meglio con una percentuale attorno al 47% (+8 punti sull’avversario). La campagna elettorale in Puglia è stata dura e non priva di polemiche: Emiliano ha temuto fortemente di perdere la poltrona di governatore e, scrive Il Giornale, ha deciso di giocare una partita “sporca” pur di ottenere la riconferma. Le mosse elettorali non sono infatti passate inosservate: prima il bonus matrimoni, poi a sette giorni dal voto Emiliano ha partecipato ad una cerimonia per la stabilizzazione di 200 precari della sanità assunti a tempo determinato in un’azienda che lavora sotto l’ala della Regione. Il tutto corredato anche da una cerimonia con consegna di pergamena del “posto fisso”. Infine nella giornata di domenica, con le urne ancora aperte, è iniziato a circolare con insistenza sui telefoni dei pugliesi un messaggio intestato ad Emiliano che invita esplicitamente al voto disgiunto: “Vota il consigliere che ti piace, che sia di destra o 5 Stelle non importa, la cosa fondamentale è che il voto per il presidente sia per Emiliano”. A quanto pare tutto ciò ha dato i suoi frutti. 

Michele Emiliano, messaggio Whatsapp in Puglia: "Vota destra o 5S, basta che voti me governatore". Libero Quotidiano il 20 settembre 2020. La denuncia di Marco Bentivogli, attivista di Azione che ha un grande peso per Carlo Calenda, è di quelle davvero importanti. “Stando mandando questo via Whatsapp a tutti in Puglia”, ovvero un messaggio con il faccione di Michele Emiliano che invita al voto disgiunto. Evidentemente il governatore uscente e i suoi sostenitori sono pronti a tutto pur di non perdere la regione in favore di Raffaele Fitto, il candidato voluto da Giorgia Meloni. “Vota il consigliere che ti piace - si legge nel Whatsapp - che sia di destra o 5 Stelle non importa, la cosa fondamentale è che il voto per il presidente sia per Michele Emiliano”. “Quando vedi queste cose - è il commento di Bentivogli - capisci che la politica è morta. Non basta la terapia intensiva bisogna rovesciare il tavolo”. Purtroppo per Bentivogli e Calenda, però, il loro candidato non ha speranze di vittoria: Ivan Scalfarotto è accreditato intorno al 3%, quindi solo Fitto può strappare la Puglia dalle mani di Emiliano. 

Regionali, Michele Emiliano e le pesanti accuse di Raffale Fitto: "Campagna elettorale farsa e falsa, cosa spunta sul governatore". Libero Quotidiano il 21 settembre 2020. Michele Emiliano nel mirino per aver presumibilmente violato il silenzio elettorale. Dopo la denuncia di Marco Bentivogli, attivista di Azione, arriva quella dell'avversario, Raffaele Fitto. "Ci consola - scrive il candidato del centrodestra per la presidenza della Regione Puglia su Facebook - solo la consapevolezza di essere alle battute finali di una campagna elettorale farsa e falsa". E ancora: "Emiliano, unico candidato presidente ad aver rotto il silenzio elettorale inviando ai giornalisti dichiarazioni propagandistiche con tanto di video allegato, si difende accusandomi ma dicendo il falso. E siccome a ogni nostra dichiarazione, al contrario delle sue, noi parliamo con fatti alleghiamo le inserzioni a pagamento di cui allegano screenshot della Ad Library di Facebook che dimostrano che sono state interrotte manualmente entro la mezzanotte di venerdì 18 settembre scorso, come dimostrato dagli screenshot allegati del nostro Business Manager interno che rappresenta il pannello di controllo ufficiale dell’attività pubblicitaria digitale su Facebook di Raffaele Fitto". Non solo, perché Fitto mostra anche gli screenshot inviati dalla segreteria del governatore dem. Qui - è questa l'accusa - "appare evidente come le inserzioni siano tutte in stato inattivo e come invece quelle di Emiliano siano tutte in stato attivo. Non solo, a conferma della nostra correttezza c’è che non abbiamo, pur potendo, utilizzato i social, al contrario suo, per continuare a fare propaganda".

Michele Emiliano diventa "Cetto La Qualunque". Il Corriere del Giorno il 17 Settembre 2020. Emiliano protagonista di… “Emilianamente”.nel cartellone portato a Bari questa mattina dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, per sostenere la candidatura di Raffaele Fitto a presidente della Regione Puglia. Ameno di 72 ore dal voto per le elezioni regionali in Puglia di domenica e lunedì prossimi, nel corso di un appuntamento elettorale a Bari, per sostenere la candidatura unitari del centrodestra a sostegno di Raffaele Fitto nella corsa per conquistare la guida della Regione Puglia Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ha attaccato la campagna elettorale di Michele Emiliano il governatore uscente e candidato del centrosinistra che insegue la fuga in avanti di Raffaele Fitto con qualche punto di vantaggio. “E stomachevole ed intollerabile quello che abbiamo visto nell’ultimo mese, figlio di una politica che pensa di possedere le istituzioni e che la clientela possa essere l’unica soluzione possibile” ha detto la Meloni. La leader di Fdi ha criticato con forza le attività di propaganda ( o meglio, di voto di scambio) di Emiliano nelle ultime settimane di campagna elettorale verso il voto: “L’8 agosto abbiamo avuto il bando per 1129 assunzioni all’Arpal, – ha detto la Meloni – il  27 agosto sono state annunciate assunzioni per centinaia di infermieri. Il 7 settembre era stato fissato il concorso per altri 557 infermieri ma poi è stato rinviato per evitare problemi legati ai contagi Covid ” ricordando che “il 14 settembre vi è stata la stabilizzazione di 200 precari cup con un evento a Taranto assieme alle famiglie e ai candidati. Le persone hanno firmato i contratti davanti ad Emiliano“, sottolineando con sarcasmo “come se andassero a baciare un anello al dito“. “In tutto questo abbiamo un signore come Pierluigi Lopalco – ha attaccato ancora la leader di Fratelli d’ Italia – già a capo della task force epidemiologica covid – pagato 120mila euro l’anno dai pugliesi e ora candidato capolista che va in giro a fare i comizi. Voglio ricordare che ai malati oncologici sono arrivati biglietti elettorali con allegato un invito per partecipare a un convegno su tumori e covid. Su questo abbiamo depositato una interrogazione parlamentare e io scriverò direttamente al Garante della privacy. Tutto questo è vergognoso ed intollerabile in una Puglia costretta sotto scacco da una classe politica che non avendo idee sulla crescita ha come unica soluzione la clientela” concludendo “Abbiamo combattuto a mani nude contro un esercito potentissimo“. Al termine della conferenza stampa, sono state posizionati due manichini con Emiliano, svelati da Giorgia Meloni, Raffaele Fitto e Marcello Gemmato coordinatore regionale pugliese di Fratelli d’ Italia, che raffiguravano in primo piano di “Cetto La Qualunque” il personaggio politico interpretato in un film del 2011 sulla “malapolitica” dall’attore Antonio Albanese, ma la sua faccia è stata trasformata con i lineamenti di Michele Emiliano. Il tormentone del film "Qualunquemente", è diventato "Emilianamente" con di promessa di “1000 assunzioni, anzi…2000!”. Un’iniziativa “per aiutare Emiliano a chiudere la campagna elettorale” ha commentato sarcasticamente la Meloni, fra le risate ed i flash di tutti i presenti alla conferenza stampa. Raffaele Fitto, dopo aver ringraziato Giorgia Meloni e gli altri leader di partiti della coalizione di centrodestra per il sostegno ricevuto fin dall’inizio della campagna, ha evidenziato ancora una volta le sue differenze rispetto a Emiliano: “Rispetto al solito abbiamo invertito la tendenza che vuole normalmente la presentazione del programma all’inizio. Lo abbiamo svelato alcuni giorni fa ed è stato frutto di incontri e ascolto con i pugliesi. Nei prossimi 5 anni la Regione Puglia dovrà essere moderna ed efficiente per dialogare con le altre realtà europee e soprattutto favorire lo sviluppo e il lavoro per i giovani“. Fitto si è soffermato nuovamente sulla questione del Piano ospedaliero che nel 2005 lo vide sotto attacco quando era governatore: “Non esiste nessun ospedale che io abbia chiuso con il mio piano. La gente deve conoscere la verità. Lo dicono le nostre tre delibere. Poi c’è una vulgata demagogica che punta a dire una cosa esatta”. In conclusione una battuta sulla chiusura dei comizi e sul comizio drive-in di Emiliano nel parcheggio dello stadio San Nicola: “Io faccio la mia campagna elettorale pugliese e sarò nei comuni a stringere le mani dei cittadini. Le americanate le lasciamo agli altri”. 

Giuseppe Marino per Il Giornale il 14 settembre 2020. Xylella, crac della Popolare di Bari, cassa integrazione record all' ex Ilva. Ce ne sarebbero di validi motivi per dubitare delle chance del governatore uscente della Puglia di essere rieletto. Ma il segnale più significativo arrivo dal quantitativo di colpi proibiti messi a segno da Michele Emiliano nel tentativo di recuperare. «Segnali di disperazione», li chiama Mauro D' Attis, commissario di Forza Italia in Puglia. Lo stile dell' ex pm farebbe arrossire «O' comandante» Achille Lauro e le sue scarpe spaiate in pegno agli elettori. In Sicilia si vota in 61 Comuni a ottobre e l' assessore alla Salute Ruggero Razza ha messo al bando fino ad allora i concorsi per evitare che la sanità venga strumentalizzata in campagna elettorale. In Puglia, a sette giorni dal voto, Michele Emiliano riunisce in un teatro a Taranto 200 precari della Asl per firmare i contratti di assunzione senza concorso. Due giorni fa ha discusso in un appuntamento elettorale in piazza a Brindisi, presente il sindaco Pd e il direttore generale della Asl, l' internazionalizzazione di alcuni servizi promettendo di «stabilizzare» gli addetti, mentre l' Arpal, agenzia del Lavoro pugliese, mette a bando mille posti a un mese dal voto. Ma è la sanità, in epoca di Covid, il principale terreno di campagna elettorale per Emiliano, al punto da mettere in lista tra i candidati a suo sostegno anche il virologo Pier Luigi Lopalco, lo stratega anti virus pagato con 120mila euro dalla Regione. E il dottore ha avuto il buon gusto di dimettersi solo il 27 agosto. Lopalco, tra l' altro, è inciampato in un altra mossa di pessimo gusto: i suoi «santini» elettorali sono stati spediti ai malati di cancro. Una pagina oscena che ha attirato critiche anche da Giorgia Meloni: «Vogliamo sapere chi ha tirato fuori le liste dei malati oncologici. È un reato diffonderli». Coincidenza, tra i sostenitori di Emiliano figura anche il responsabile di un' associazione che si occupa di lotta ai tumori. Ma la vera chicca è l' annuncio del governatore dell' istituzione di un bonus da 1.500 euro per i novelli sposi in terra pugliese, ufficialmente per «sostenere l' industria del wedding». Stanziamento: 30mila euro. Praticamente una «busta» omaggio del governatore a venti coppie. A luglio la promessa di finanziamenti extra «causa Covid» alle feste patronali. Ma non basta: il timore di perdere la Puglia sta mettendo in fibrillazione la sinistra anche a Roma. Oggi mezzo governo sarà a Taranto per nominarla «capitale del Green new deal» e il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato (senza che esistano atti) che la crisi finanziaria della sanità pugliese è finita, mentre Palazzo Chigi promette investimenti per produrre in Puglia i dirigibili. Per gonfiare il consenso di Emiliano bisogna inventarsele proprio tutte.

Dalle assunzioni alla "busta" per gli sposi. Così Emiliano tenta di comprarsi l'elezione. Il governatore stanzia fondi per le nozze e assume precari senza concorso. Giuseppe Marino, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale. Xylella, crac della Popolare di Bari, cassa integrazione record all'ex Ilva. Ce ne sarebbero di validi motivi per dubitare delle chance del governatore uscente della Puglia di essere rieletto. Ma il segnale più significativo arrivo dal quantitativo di colpi proibiti messi a segno da Michele Emiliano nel tentativo di recuperare. «Segnali di disperazione», li chiama Mauro D'Attis, commissario di Forza Italia in Puglia. Lo stile dell'ex pm farebbe arrossire «O' comandante» Achille Lauro e le sue scarpe spaiate in pegno agli elettori. In Sicilia si vota in 61 Comuni a ottobre e l'assessore alla Salute Ruggero Razza ha messo al bando fino ad allora i concorsi per evitare che la sanità venga strumentalizzata in campagna elettorale. In Puglia, a sette giorni dal voto, Michele Emiliano riunisce in un teatro a Taranto 200 precari della Asl per firmare i contratti di assunzione senza concorso. Due giorni fa ha discusso in un appuntamento elettorale in piazza a Brindisi, presente il sindaco Pd e il direttore generale della Asl, l'internazionalizzazione di alcuni servizi promettendo di «stabilizare» gli addetti, mentre l'Arpal, agenzia del Lavoro pugliese, mette a bando mille posti a un mese dal voto. Ma è la sanità, in epoca di Covid, il principale terreno di campagna elettorale per Emiliano, al punto da mettere in lista tra i candidati a suo sostegno anche il virologo Pier Luigi Lopalco, lo stratega anti virus pagato con 120mila euro dalla Regione. E il dottore ha avuto il buon gusto di dimettersi solo il 27 agosto. Lopalco, tra l'altro, è inciampato in un altra mossa di pessimo gusto: i suoi «santini» elettorali sono stati spediti ai malati di cancro. Una pagina oscena che ha attirato critiche anche da Giorgia Meloni: «Vogliamo sapere chi ha tirato fuori le liste dei malati oncologici. È un reato diffonderli». Coincidenza, tra i sostenitori di Emiliano figura anche il responsabile di un'associazione che si occupa di lotta ai tumori. Ma la vera chicca è l'annuncio del governatore dell'istituzione di un bonus da 1.500 euro per i novelli sposi in terra pugliese, ufficialmente per «sostenere l'industria del wedding». Stanziamento: 30mila euro. Praticamente una «busta» omaggio del governatore a venti coppie. A luglio la promessa di finanziamenti extra «causa Covid» alle feste patronali. Ma non basta: il timore di perdere la Puglia sta mettendo in fibrillazione la sinistra anche a Roma. Oggi mezzo governo sarà a Taranto per nominarla «capitale del Green new deal» e il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato (senza che esistano atti) che la crisi finanziaria della sanità pugliese è finita, mentre Palazzo Chigi promette investimenti per produrre in Puglia i dirigibili. Per gonfiare il consenso di Emiliano bisogna inventarsele proprio tutte.

Da iltempo.it il 13 settembre 2020. Uno che fa dodici ricorsi per l’Ilva e li perde tutti è una sega come politico e una schiappa come magistrato». Lo ha affermato Carlo Calenda, in occasione di una manifestazione a Bari a sostegno della candidatura alla presidenza della Regione Puglia di Ivan Scalfarotto, riferendosi a Michele Emiliano. «Mentre mia moglie stava male Emiliano ha detto che eravamo amici del cancro» ha aggiunto Calenda. «Il Pd ci dice perché fate perdere la sinistra e non votate Emiliano? Noi diciamo: perché fate scomparire la sinistra e non votate Scalfarotto?» tuona ancora il leader di Azione. «Scalfarotto è una persona di prim’ordine, andrebbe votato solo perché è riuscito a mettere me e Renzi insieme. In Puglia si confrontano due populismi con accenti diversi ma che nella sostanza sono la stessa cosa - sottolinea - non possiamo pensare che fare politica significa votare Emiliano, io sono stato funestato da ministro con la questione legata ai 211 ulivi da espiantare». Non è mancata la stoccata a Renzi. «Il governo di Renzi è stato il più riformista degli ultimi 40 anni, ho una sorta di dolore personale a vederlo al governo con il Movimento 5 stelle». «Ci vuole molto coraggio per andare contro il governo regionale più trasformista e incapace di gestire la cosa pubblica con rispetto, dignità e onore che abbia il Paese in questo momento. Michele Emiliano ha utilizzato il consenso dal primo giorno all’ultimo attraverso gli strumenti più vecchi della politica». Lo ha affermato Matteo Renzi, in occasione di una manifestazione a Bari a sostegno della candidatura alla presidenza della Regione Puglia di Ivan Scalfarotto. «Candidarsi contro di lui -ha proseguito l’ex premier- sembrava impossibile: perché c’era un modo per avere il voto utile e ci sarebbe stato dentro Carlo Calenda e Ivan Scalfarotto e il voto utile era chiedere un passo indietro a Michele Emiliano e candidare Teresa Bellanova: non l’ha fatto per egoismo, ambizione, egocentrismo. Michele Emiliano ha utilizzato ogni giorno il palazzo della Regione, e lo sta facendo anche adesso, per fare esattamente l’opposto di quello che noi riteniamo serva in politica: avere molto coraggio. Cor habeo, avere un cuore, avere una dimensione umana». «Governano insieme a livello nazionale ma qui non hanno avuto il coraggio di sostenere Michele Emiliano. Come dovrebbe fare Emiliano, se non è riuscito a convincere neanche Renzi, Bellanova, Di Maio, Conte, la Bonino e Calenda, a convincere i pugliesi di essere stato un buon governatore. Si sono vergognati persino loro a sostenerlo». Lo ha detto Giorgia Meloni a Bari, al comizio del centrodestra per Raffaele Fitto presidente della Regione.

Da ''la Gazzetta del Mezzogiorno'' il 17 settembre 2020. C'è chi, come l'assessore regionale allo sviluppo economico Mino Borraccino, parla senza mezzi termini di «giornata storica» e c'è pure chi, invece, grida alla strumentalizzazione da campagna elettorale. Circa 200 lavoratori del Cup e dei servizi informatici ieri al teatro Fusco hanno sottoscritto i contratti a tempo indeterminato con la Sanitaservice. «Un grande risultato, per la nostra comunità - dice l'assessore Borraccino - un momento di svolta sul fronte delle garanzie e della dignità per tutti i lavoratori della Sanità, coinvolti nella stabilizzazione e, al contempo, un segnale forte per il nostro sistema sanitario. Dietro a questo risultato, ci sono stati mesi e mesi di lavoro e di grande impegno. Siamo perciò soddisfatti nel comunicare il raggiungimento di un obiettivo strategico e fondamentale per me e per tutto il Governo regionale. Cancelliamo, con questa firma, il precariato e le incertezze occupazionali per questi lavoratori che oggi possono guardare con maggiore fiducia e serenità al loro futuro. È il frutto di un meticoloso e lungo lavoro politico e amministrativo, iniziato circa due anni fa. Un atto dovuto - conclude Borraccino - ai tanti lavoratori che garantiscono, con il loro impegno e la loro abnegazione, ogni giorno, il funzionamento del Sistema Sanitario pugliese, recentemente anche messo duramente alla prova dalla grave emergenza Covid-19. Intendiamo proseguire su questa strada per internalizzare anche i lavoratori impegnati in altri importanti servizi in tutte le Asl della Puglia». «Nella settimana del voto, presso il Teatro Fusco di Taranto - dice invece l'on. Gianfranco Chiarelli, vice segretario regionale della Lega - vengono sottoscritti i contratti di assunzione di oltre duecento dipendenti che verranno stabilizzati a tempo indeterminato presso i servizi ausiliari Asl, ovvero nella società in house Sanità Service, aggirando i concorsi. Se i dipendenti del Cup sono stati stabilizzati ci sono quelli del 118 che dovranno aspettare che la promessa si realizzi dopo il voto». «Il fatto grave» denuncia Chiarelli «è che accanto a Emiliano, a consegnare le pergamene del posto fisso ci sono anche i suoi consiglieri e assessori regionali ricandidati, che da giorni si vantano di queste internalizzazioni per racimolare voti. Addirittura alcuni di loro hanno organizzato incontri elettorali con i neoassunti accreditandosi il lavoro fatto per internalizzarli. Tutto pubblicizzato dagli stessi candidati su Facebook, come se tutto questo fosse normale». Conclude Chiarelli: «Se una cosa del genere l'avesse, non dico fatta, ma anche solo pensata il centrodestra sarebbe certamente intervenuta la Magistratura. Non dopo le elezioni, come con le sponsorizzazioni delle primarie di Emiliano, o rinviando sine die processi che forse a qualcuno avrebbero impedito la candidatura, ma immediatamente, intervenendo sull'esito delle elezioni. Noi della Lega non aspetteremo la magistratura per deplorare questo squallido modo di fare politica. Per questo la Lega non parla solo agli amici degli amici, ma si rivolge a tutti i cittadini e ai pugliesi che vogliono cambiare questo modo di fare dopo 15 anni di malgoverno del centro sinistra».

L’Emiliano disperato. Il Corriere del Giorno il 15 Settembre 2020. La campagna elettorale di Emiliano: una valanga di precari assunti a una settimana dal voto. Soldi a pioggia. Bonus offerti anche a chi si sposa. I vertici di aeroporti, acquedotto, agenzia del lavoro, agenzia dei rifiuti, ASL, che operano come se fossero dei comitati elettorali. È uno spettacolo vergognoso, squallido. Il centrodestra urla allo scandalo, e la sinistra, Pd in testa e LeU a strascico, fa finta di non vedere e commentare dei metodi che se li avesse utilizzati Berlusconi o chiunque della destra, tutti i sinistrorsi avrebbero urlato alla vergogna, al voto di scambio e al danno erariale.

Viaggio nel “sistema” Emiliano. Per il magistrato in aspettativa da 15 anni, nonostante una sanzione disciplinare del Csm, pur di strappare sul fil di lana una riconferma alla presidenza della Regione Puglia, sempre più in bilico, vale tutto, ma proprio senza limiti, sconfinando nell’illegalità e voto di scambio per qualche voto in più , in questa Puglia in bilico. Michele Emiliano si spaccia per uomo di sinistra ma in realtà proviene da una famiglia di “fascistoni” baresi, e gli vanno bene anche i nostalgici ed i camerati. La conferma arriva dall’apparizione di Emiliano sul palco accanto a Pippi Mellone il sindaco del comune di Nardò, in provincia di Lecce, uno con la fama di duro, che ama ancora oggi il saluto romano, il quale qualche settimana fa, prima di riempire di suoi seguaci la lista “Emiliano sindaco di Puglia” aveva manifestato apertamente da che parte stare dichiarando “Chiudiamo l’Anpi di Lecce, è un pericolo per la democrazia”. Un eccesso imbarazzante quello di Emiliano che per combattere l’alleanza di centro destra imbarca dei nostalgici “fascistoni”. Emiliano, “compagno” e “camerata”, uomo di destra o di sinistra a seconda della convenienza, gestore del potere in Puglia con un’arroganza mai vista con il suo fare sfrontato, eccessivo, dall'”atteggiamento” strabordante e spudorato. Ieri a Taranto, circondato dalla corte di adepti del Pd, accanto a Michele Mazzarano, l’ex capogruppo del PD in consiglio regionale, che gli aveva assunto il suo fido autista ed il fratello di Emiliano a spese del gruppo PD a spese dei cittadini pugliesi, è apparso in un teatro comunale dove la direzione dell’ ASL Taranto aveva convocato (in maniera irrituale duecento dipendenti di società private che lavoravano per il CUP degli ospedali di Taranto, allettati dal sottoscrivere un contratto-truffa di assunzione. Dipendenti di società privati convocati uno ad uno, calpestando ogni norma di Legge di privacy, a cui è stato fatto sottoscrivere il contratto senza che avessero la possibilità di leggerlo preventivamente e di sapere cosa stessero accettando in quel momento. Un contratto in cui era contenuta una clausola che prevedeva la decadenza di quello che stavano firmando, in caso di “sospensiva” del TAR, come ad esempio è accaduto all’ ASL Foggia e la società inhouse SANITA’ SERVICE. O come è accaduto all’ ASL Brindisi costretta da una sentenza del Consiglio di Stato, a restituire i dipendenti alla precedente società per cui provenivano. Tutto ciò con la scusa di un risparmio (inesistente !) di un milione di euro per ogni ASL provinciale. Su tutte le SanitàService pugliesi pendono vari ricorsi al TAR contro le internalizzazioni che guarda caso sono arrivate alle porte delle elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale di Puglia. Posti di lavoro spacciati come “nuove assunzioni” quando invece queste persone erano già assunte nelle rispettive società di origine e provenienza. Quindi una fantomatica nuova occupazione in realtà pari allo “ZERO“. I millantati “precari”… di Taranto vengono assunti con contratti flessibili a poco meno di una settimana dal voto , presso la società in house Sanità Service, senza passare per alcun concorso. Accanto al governatore uscente, nel corso dell’evento al Teatro Comunale Fusco, ecco apparire consiglieri comunali in corsa per le regionali , assessori, molti dei quali ricandidati, portaborse coi santini elettorali in mano e lo smartphone nell’altra pronti a riempire i social di foto. In campagna elettorale al Sud, non serve neanche spiegarlo: un posto fisso in famiglia di questi tempi, vale oro della serie: “vota a fai votare” . E non c’è nemmeno da aspettare la seconda scarpa dopo il voto. Operazione analoga a quella avvenuta un paio di giorni fa a Brindisi . Il luogo di “scambismo” elettorale è quello della sede della ASL locale. Alla presenza anche del sindaco e del direttore generale i dipendenti della SanitàService  firmano l’assunzione. Roboanti come sempre le dichiarazioni Michele: “Abbiamo liberato tanti lavoratori precari dall’incubo che la politica li ricatti ogni volta che devono essere riassunti. In tutta la Puglia stiamo stabilizzando migliaia di persone, un risultato che ci eravamo posti come obiettivo e che abbiamo raggiunto”. Ricatti di cui non c’è ombra alcuna. Ed è proprio così, a pochi giorni dal voto tutte le “SanitàService” della Puglia diventano comitati elettorali di Emiliano in tutta la regione, giusto in tempo per partecipare alle manifestazioni elettorali. Un bluff in linea al sogno promesso alle giovani coppie pugliesi, che potranno sposarsi, anche in un periodo di crisi tormentato come questo pieno di ristrettezze, sostenendo che tanto “ci pensa Miché”. Ed eccolo, alcune settimane fa, capelli scomposti al vento, pronto ad annunciare un bonus da 1500 euro per tutte le coppie che decidono di sposarsi. Ecco il sentimento di “Michelone” : “L’allegria e la gioia che il vostro amore scatena nel vostro cuore è anche la nostra” seguito dalle dure logiche della politica economica: “La misura si chiama Wedding Travel Industry e ha come obiettivo quello di sostenere la filiera del settore wedding”. Per fortuna la combattiva e coerente Antonella Laricchia, candidata alla guida della Regione Puglia per il Movimento Cinque stelle, dopo aver spulciato la delibera della giunta Emiliano, ha evitato che si creassero le file di spose davanti ai negozi di abiti matrimoniali, ha segnalato e contestato che la somma stanziata era solo di 30mila euro, quindi esclusivamente capiente a stento per quindici coppie fortunate in un territorio di oltre 4 milioni di abitanti. Una vecchia storia, già vista durante il precedente doppio mandato di Vendola, in questo Sud eternamente uguale a se stesso, con lo stesso luogo comune, cioè la Sanità, terreno utile dove raccogliere voti. Nella “rete” di Michele Emiliano è cascato anche il professor Luigi Lopalco, chiamato a coordinare la task force regionale anti Covid , profumatamente pagato con 140 mila euro al mese, e subito dopo catapultato in lista. A Lopalco ha presentato il simbolo e la sua candidatura a Bari accanto a Fabrizio D’Addario, che proviene dal centrodestra e ora è l’amministratore unico della SanitaService di Bari, la società che fornisce personale e servizi alle ASL baresi, che la giunta Emiliano, appunto ha deciso di internalizzare. Anche Taranto l’austero professore, ha trovato un efficiente organizzatore di incontri elettorali nel direttore generale della ASL Taranto. Una fotocopia di quanto avvenuto a Bari. Per questo uso spregiudicato del potere di Emiliano utilizzando i soldi della Regione durante la campagna elettorale è venuto fuori il finimondo, con più di qualche incidente di percorso. Una paziente oncologica di Bari ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una lettera di invito ricevuta da Lopalco, a partecipare a un convegno dal titolo “Pandemia e tumori”, una busta al cui interno avrebbe trovato anche il “santino” elettorale di Lopalco. “Vedete un po’ cosa ci si inventa per ottenere voti dei pazienti oncologici. Io mi vergognerei” dice Giorgia Meloni leader di Fratelli d’ Italia ha annunciato persino un’ interrogazione parlamentare per l’uso di elenchi sensibili, in quanto soggetti alla tutela dei propri dati sensibili, in poche parole della privacy. È uno spettacolo vergognoso, squallido. Il centrodestra urla allo scandalo, e la sinistra, Pd in testa e LeU a strascico, fa finta di non vedere e commentare dei metodi che se li avesse utilizzati Berlusconi o chiunque della destra, tutti i sinistrorsi avrebbero urlato alla vergogna, al voto di scambio e al danno erariale. A noi giornalisti liberi ed indipendenti corre obbligo documentare la illegalità del metodo: mancanza di etica, uso spregiudicato del potere “pubblico” ai fini propaganda politica, eccessiva leggerezza e disinvoltura sulla gestione dei cordoni della borsa pubblica. Fermiamoci solo agli ultimi tempi: 250mila euro stanziati per le Ecofeste Pugliesi, 120 mila euro stanziati alla società Aeroporti di Puglia per “servizio di ricognizione e analisi dei fabbisogni lavorativi e delle competenze del personale”. Per poi analizzare il capitolo assunzioni e concorsi: il 1° settembre pubblicato un avviso per il reclutamento di 65 collaboratori amministrativi a tempo “determinato” nella ASL Bari, l’11 settembre è stata la volta dell’Agenzia regionale dell’Agricoltura che ha varato un concorso per 110 unità di “personale amministrativo”, uno per 110 unità di “esecutore operaio”, ed uno per 25 posti categoria B3. Alla Regione Puglia per ogni settore Emiliano ha varato un’ agenzia Regionale che in questi anni sono state la ricompensa in linea di massima, offerta dal governatore uscente ad esponenti del centrodestra per convincerli a cambiare sponda politica e sostenerlo elettoralmente . Alla guida dell’Arpal, carrozzone pieno di soldi che si occupa di lavoro, Emiliano ha “piazzato” Massimo Cassano, molto impegnato in campagna elettorale, con un lungo passato in Forza Italia, poi sottosegretario con il Nuovo Centrodestra di Alfano. E guarda caso proprio in questi giorni alle porte delle elezioni del 20 settembre si sta svolgendo un “maxi concorso” dai criteri di selezione abbastanza generici per oltre 900 posti. Anche all’Arif, l’ agenzia regionale per la difesa del suolo, le assunzioni sono un gioco da ragazzi (per quelli “schierati”) attraverso un “corso-concorso” di 30 ore, una specie di tesina, per incanto ecco dei posti di lavoro nel “pubblico”. Emiliano in poche parole vorrebbe assumere mezza Puglia. Prima che diventi troppo lunga anche con consulenze, incarichi e nomine dei cda, ricapitoliamo la situazione: 14 liste con comunisti, democristiani, e fascisti, compresa la qualunque. Aeroporti, acquedotto, agenzia del lavoro, sanità, società che operano e lavorano servizievoli per “Michelone” Emiliano come dei veri e propri comitati elettorali addetti alla distribuzione di posti di lavoro. Resta da vedere se, come qualcuno prevede, e noi auspichiamo accada molto presto, qualche magistrato indipendente scopra qualcosa di illecito. Nel frattempo l’operazione di scambio di voto politico è sin troppo palese e vergognoso nel tentativo di difendere la sinistra adottando i metodi che invece a parole si vorrebbero negare. In definitiva da un magistrato “dormiente” da 15 anni come Michele Emiliano, condannato dal Csm, a questo punto ci si può aspettare di tutto e di più !

Da "il Giornale” l'1 ottobre 2020. Nel Pd si erano girati tutti dall' altra parte fischiettando. Qualcuno invece ha preso la cosa sul serio: saltano le assunzioni «elettorali» che Michele Emiliano aveva trasformato in uno scandaloso show: i 220 candidati al posto pubblico chiamati uno alla volta sul palco di un teatro di Taranto per sedersi di fronte al governatore uscente una settimana prima del voto che l' avrebbe poi riconfermato. Ieri ai 220 è arrivata una lettera dalla Asl: il Consiglio di Stato ha sospeso tutto. Usati a fini elettorali e mazziati.

Il Consiglio di Stato congela le “stabilizzazioni” elettorali dell’ ASL Taranto (o PD ?) Il Corriere del Giorno l'1 Ottobre 2020. La decisione del Consiglio di Stato è stata recepita da SanitaService la società in house dell’ Asl Taranto, che con una imbarazzante comunicazione di poche righe sul sito istituzionale e sui social. Adesso Borracino, Emiliano, Rossi, Santoro, non parlano, non fiatano. L’ex-assessore Borracino contattato telefonicamente dal nostro Direttore, non risponde! Come aveva anticipato il nostro Direttore in una sua “diretta” sui socialnetwork, vi era più di qualche problema e poca sicurezza sul “teatrino” elettorale politico imbastito dal PD a Taranto con la complicità del direttore generale dell’ ASL Taranto, il Consiglio di Stato ha ribaltato il parere del TAR di Lecce, accogliendo l’istanza della società Sds, presentata tramite l’avvocato Luigi Nilo, sospendendo l’esecutorietà della sentenza del Tar appellata, fino alla discussione collegiale . La decisione del Consiglio di Stato è stata recepita dall’ Asl Taranto, con una imbarazzante comunicazione di poche righe sul sito istituzionale e sui social, che ha comunicato a seguito del decreto emesso dal Consiglio di Stato il 29 settembre scorso e ricevuto ieri, che “è temporaneamente differita l’internalizzazione dei servizi informatici e Cup. Pertanto, è altresì rinviata la decorrenza delle assunzioni del personale ex Sincon e Sds all’esito della Camera di Consiglio fissata per il 15 ottobre“. Nel provvedimento del Consiglio di Stato si legge che “dalla sequenza degli atti emergerebbe una comunicazione del 22 settembre 2020 di cessazione anticipata del servizio all’1 ottobre, laddove la proroga della delibera tecnica fino al 31 ottobre 2020 faceva salva la cessazione anticipata previo avviso di 15 giorni, che nella fattispecie non sarebbe quindi rispettato“. Una decisione quella del massimo organo della Giustizia Amministrativa, più che prevedibile ed in linea a quella precedente relativa alla stessa problematica dell’ ASL di Foggia. Nel caso del ricorso presentato separatamente dalla SDS e dalla SINCON (le due società tarantine che gestiscono i CUP-centro unico di prenotazione dell’ ASL Taranto) contro il respingimento del Tar di Lecce del ricorso promosso dalla SDS Srl, contro le internalizzazioni del personale attraverso la società «in house» Sanitaservice Taranto. All’atto della decisione del TAR Lecce, immediatamente Borracino aveva emesso un prematuro comunicato stampa dai toni trionfalistici: ” Respinto dal Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia il ricorso promosso dalla SDS Srl, società che gestisce il CUP della ASL di Taranto, contro le internalizzazioni del personale attraverso la Sanitaservice.Avanti tutta, quindi, verso la internalizzazione che sarà effettiva a partire dal 1° ottobre, così come previsto dai contratti firmati da oltre 200 lavoratori nei giorni scorsi.Dai giudici amministrativi la conferma della correttezza del percorso amministrativo seguito dalla Regione Puglia“. Adesso Borracino, Emiliano, Rossi, Santoro, non parlano, non fiatano. Tutti zitti ! Incredibilmente l’ex-assessore Borracino contattato telefonicamente dal nostro Direttore, non risponde! La sceneggiata elettorale sul palcoscenico nel “teatrino” comunale Fusco di Taranto presidiato dal PD jonico che convocò il 14 settembre scorso i 203 lavoratori della SDS e della SINCON per firmare, senza alcuna preventiva lettura dei contratti di assunzione con Sanitaservice Taranto, società in-house dell’ ASL Taranto alla presenza del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, dell’assessore Mino Borracino e del consigliere regionale Michele Mazzarano. Incredibilmente per ironia della sorte, entrambi i consiglieri regionali Borracino e Mazzarano ritenuti dei “fedelissimi” di Michele Emiliano non sono stati rieletti. Presente al “teatrino” anche il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, il quale adesso di ora in ora inizia a porsi più di qualche dubbio sulla stabilità della sua giunta comunale. Non è che quel teatro non porti molto bene…???

La sinistra pugliese allo sbando. L’igienista Pier Luigi Lopalco diventa il focus delle regionali pugliesi, perchè Emiliano uscente lo vuole alla Sanità. Gravissima poi l’apertura di Emiliano agli islamici con l’abbattimento dei simboli cristiani. Carlo Franza il 24 agosto 2020 su Il Giornale. E’ un viso quello di Lopalco che ha impazzato per mesi  sui media nazionali. Adesso se ne  capisce bene il perché. Non sappiamo se sia stato Emiliano presidente della Regione Puglia a innamorarsi di Lopalco o se viceversa sia stato Lopalco ad innamorarsi di Emiliano. Sta di fatto che la figura di Pier Luigi Lopalco, l’epidemiologo leccese chiamato dal presidente Michele Emiliano a coordinare la task force pugliese nel pieno dell’emergenza coronavirus, si accinge a diventare il focus delle imminenti regionali pugliesi. Tutto già segnato e disegnato, tutto preordinato.  Da quando si è fatta avanti la voce di una sua candidatura per il centrosinistra (ed è inevitabile che, in caso di vittoria, gli spetterà quella delega alla Sanità che Emiliano ha da tempo avocato a sé), il centrodestra, Forza Italia in testa, urla allo scandalo. Beh, diciamo subito, e lo abbiamo anche scritto sul nostro giornale a suo tempo, che messi insieme tutti questi epidemiologi non hanno dato granchè a risolvere il temuto Coronavirus. Ad iniziare da Lopalco che tentava di inserirsi nel panorama nazionale, sperando di superare Galli, Tarro o altri. Alla fine Michele Emiliano ha contagiato eccome Pier Luigi Lopalco, il virologo che ha seguito tutte le fasi della pandemia tranquillizzando i pugliesi residenti e non -ecco perché in questi giorni d’agosto 2020 il Salento è preso d’assalto- e spopolando nei talk televisivi sull’andamento dei contagi, sicchè anche lui cercando visibilità  non ha resistito alle sirene della politica e sarà in una delle liste per le regionali pugliesi. Il governatore gli ha di fatto affidato le chiavi della sanità pugliese, -settore per la verità da circa quindici anni allo sbando-, trovando forse l’assessore che non ha mai voluto da quando ha cominciato la sua avventura di governo alla Regione ben cinque anni fa, dopo lo sfacelo dell’ex presidente Nichi Vendola. “È di sicuro una possibilità”, sussurrano dall’entourage di Emiliano alle prese con la composizione delle liste e soprattutto a costruire candidature forti. Come quella di Lopalco, che da pugliese è tornato da Pisa dettando spesso l’agenda della pandemia fra specialisti collegati da remoto o in chat. E se Emiliano è apparso in questi mesi con il piglio di mostrarsi Presidente di Regione come Zaia (Veneto) o Fontana (Lombardia) lo si deve anche a lui che ha fatto una certa comunicazione. Il professor Lopalco non si sbilancia. Ma la sua popolarità non può che far bene alla presunta crisi di consensi che fioccano ormai su Emiliano, alle strette  da quando il centrodestra si è unito formalmente sulla candidatura dell’amico Raffaele Fitto, politico ben più noto e con un fiuto irreprensibile, mentre si sa  che nel centrosinistra i renziani corrono da soli, e sono  soprattutto contro Emiliano. E i 5 Stelle non ne vogliono sapere, per ora, di fare la stampella per arrotondare la percentuale che basterebbe a Emiliano per affrontare in sicurezza l’appuntamento con le urne a settembre. Il centrodestra lo sa bene, anzi benissimo. Da tempo Emiliano azzardava l’ipotesi che il docente di igiene all’Università di Pisa e responsabile per le emergenze epidemiologiche della Regione Puglia potesse fare il salto in politica. Troppo in giro con Emiliano, nei suoi tour che avevano poco di istituzionale ma molto di elettorale. E tutto ciò lo sanno e lo hanno ribadito sia il coordinatore regionale di Forza Italia, Mauro D’Attis, che il suo vice Dario Damiani: “Centoventimila mila euro non per coordinare le misure anti Covid, ma evidentemente per farsi campagna elettorale con i soldi di tutti gli ignari cittadini pugliesi: la candidatura del professor Lopalco nelle liste di Emiliano è l’ultimo atto di un film che abbiamo iniziato a vedere qualche settimana fa”.   Vi dirò  che Emiliano sta prendendo le contromisure per andare all’assalto del centrodestra, contromisure che  serviranno a ben poco perché i pugliesi sono sfiniti e ne hanno le scatole piene di tutta questa specie di sinistra che ha ridotto questa regione alla fame e alla miseria;  ha fatto sapere Emiliano  di aver approvato in giunta uno schema di disegno di legge per introdurre la doppia preferenza di genere nella legge elettorale pugliese, sollecitata dal premier Giuseppe Conte alle Regioni inadempienti e da quasi tutti i partiti in consiglio regionale; infatti qui nel parlamentino regionale è guerriglia continua. Raffaele Fitto, in qualità di eurodeputato del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia, ingaggiando una lunga diatriba a distanza con Lopalco sul numero di tamponi effettuati, ritenuto troppo basso, a un certo punto aveva lanciato frasi sibilline, sostenendo come l’epidemiologo, nelle sue repliche, avesse “messo in evidenza più doti da politico che da scienziato”. Circolava il sospetto che Lopalco –dal punto di vista del centrodestra– si stesse comportando come una sorta di stampella di Emiliano, in prospettiva elettorale. Il caso si è fatto reale, perchè Massimo Gramellini, vicedirettore del Corriere della Sera, nella sua rubrica “Il caffè” con uno stile sospeso tra il serio e il faceto ha colpito Lopalco, eccome.  Gramellini non è stato l’unico a punzecchiare Lopalco, e quest’ultimo ha voluto rispondere usando la sua pagina Facebook. Ha praticamente confessato la sua discesa in campo: “Per la stima e l’affetto che nutro per Gramellini, non posso non accogliere l’invito alla riflessione che lui lancia. Con uno stile, devo dire, che finalmente è transitato dalla melassa al peperoncino”, esordisce. “Breve precisazione: mai detto che le mascherine non servono, così mai profetizzato sciagure conseguenti alla movida. Basta leggere i virgolettati e non solo i titoli degli articoli per capire il senso delle mie dichiarazioni. Non solo la politica, ma anche quello del giornalista è un mestiere complicato”. “Ma veniamo al punto – prosegue -: io, come Gramellini, sono sempre stato convinto che il mestiere della politica sia complicato, faticoso, serve un talento specifico e, soprattutto, serve la scuola. Scuola che nella notte dei tempi era tenuta dai partiti. Sono ormai decenni che le scuole di partito sono chiuse. Dove sono dunque i professionisti della politica? dove si sono formati? Nella famosa Università della Vita?”. “Allora, mio caro Gramellini, affrontiamo la realtà. Almeno nell’attesa che il vento distruttivo dell’antipolitica si sciolga così come si è alzato. Nel frattempo non ci trovo nulla di male nel fatto che un professionista ponga le proprie competenze al servizio della comunità mettendosi in gioco con la puerile ambizione di poter cambiare le cose. Se l’alternativa fosse Moro o Berlinguer, il problema non si porrebbe. Ma di Moro e Berlinguer – dice – in giro se ne vedono ben pochi”. Non è detto che un professore di Igiene sia un bravo Assessore alla Sanità, niente di scontato, ne è un esempio pratico l’Azzolina ministro della Pubblica Istruzione che in quel ministero -da professoressa- ha praticamente messo in crisi la cultura e l’insegnamento del nostro paese. Mille strali su Emiliano che vorrebbe ricandidarsi alla Regione; sarà bene che torni a fare il magistrato a Bari. Perché, l’ultima di questi giorni – un vero e proprio schiaffo agli italiani e ai pugliesi-  il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ben pensato di rilanciare il turismo. Come? Elargendo ben 90mila euro per il turismo islamico. Poveri pugliesi, ritrovarsi ancora fra le braccia di Emiliano. Dio ce ne scampi e liberi.  E ai pugliesi dico, toglietevelo di torno, voltate pagina. Carlo Franza

I “voltagabbana” della politica pugliese. Il Corriere del Giorno il  18 Agosto 2020. Un tema vecchio e ben noto quello degli “opportunisti” pronti a salire sul carro del vincitore. Incredibilmente la Costituzione difende il diritto di un politico a passare da uno schieramento all’altro, vietando espressamente il “vincolo di mandato“, rendendo possibile il trasformismo imperante sotto gli occhi degli elettori. Alla Camera dei Deputati nella corrente legislatura vi è stato un cambio di casacca alla settimana, e nonostante il Covid ed il blocco delle attività parlamentari e politiche il fenomeno dei voltagabbana è sistematicamente aumentato, ben 119 cambi di gruppo politico dall’ inizio della legislatura, 29 cambi dal gennaio 2020, e 16 dall’inizio del Coronavirus, con il 12,6% dei parlamentari che hanno cambiato sponda, alcuni anche con un triplice salto! L’analisi della girandola di poltrone è impietoso. Nel 2018 il M5S contava 330 parlamentari diventati 294, con la fuga quindi di 36 parlamentari. fra questi, da ricordare l’ultima fuoriuscitadel deputato pugliese Paolo Lattanzio, in contrasto con i colleghi pugliesi, in quanto sostenitore di un’alleanza con il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Prima di lui, ma per altri motivi vi era stata l’uscita della parlamentare tarantina (e collega giornalista) Rosalba De Giorgi passata al Gruppo Misto.

Salvatore Caiata, dal M5S al Maie e quindi a Fratelli d’ Italia. Ancor prima delle precedenti elezioni politiche l’imprenditore Salvatore Caiata, presidente del Potenza Calcio, e candidato a marzo 2018 nelle liste del M5S, dal quale era stato espulso (a ma liste depositate) in quanto coinvolto in un’inchiesta giudiziaria che lo coinvolgeva come indagato per riciclaggio, venendo prosciolto nel successivo agosto, a seguito di archiviazione. Caiata eletto nel collegio Basilicata1-Potenza si iscrisse dapprima nel Gruppo Misto, per poi passare al MAIE (Movimento Associativo Italiani Estero) guidato da Riccardo Merlo, di cui era diventato coordinatore abbandonato dopo un anno per ritornare al gruppo Misto. Ma la girandola non è finita, con l’ultimo trasferimento di Caiata al gruppo di Fratelli d’ Italia nel maggio del 2019. Ma Caiata non è stato l’unico “grillino” a passare alla corte di Giorgia Meloni. A fargli “compagnia” … il deputato Davide Galantino, eletto nel collegio plurinominale Puglia1 con il M5S, anch’egli protagonista di un triplice salto di casacca ! Inizialmente nel luglio 2019 Galantino ha lasciato il gruppo grillino, passando al Misto, per poi approdare tre mesi dopo, nell’ottobre dello stesso anno al gruppo di Fratelli d’ Italia.

Alessandra Ermellino dal M5S al Gruppo Misto. “Non vado via dal M5s ma dalle persone che si sono impossessate di un progetto tradendo le speranze di 11 milioni di cittadini”, ha spiegato la deputata “grillina” Alessandra Ermellino eletta in Parlamento per la prima volta nel maggio 2018 e membro della commissione Difesa della Camera, che lo scorso giugno ha lasciato il Movimento 5 Stelle dopo anni di militanza. Infatti, prima di vincere le "Parlamentarie" e candidarsi alle Politiche, nel 2013 si era presentata come aspirante consigliera comunale a Crispiano, suo paese natale, tra le fila della lista che sosteneva l’allora candidato Sindaco, Umberto Marchetti. Nel 2017 si candida al Comune di Taranto nella lista pentastellata ottenendo appena 86 voti, senza riuscire ad essere eletta. Di qui il salto in lungo…in Parlamento alle Politiche del 2018.

Ma la “regina” di tutti i trasformismi in Puglia senza alcun dubbio è stata la deputata Vincenza Labriola, eletta nelle Politiche del 2013 nelle liste del M5S, l’anno successivo alla sua imbarazzante performance di candidata consigliere comunale al Comune di Taranto, dove raccolse un solo voto nella lista del M5S. La Labriola eletta alla Camera dei Deputati insieme al collega Alessandro Furnari passò dopo solo tre mesi insieme al suo collega al Gruppo Misto, per poi diventare “azzurra” nel giugno 2017 dimenticandosi…. di aver scritto nel 2013 su Facebook che “con Berlusconi l’Italia è nel Medioevo“. Ma per un posto nel “listino bloccato” e quindi rielezione assicurata in Parlamento, si fa questo ed anche altro…

L’ex coordinatore pugliese di Forza Italia, Luigi Vitali “transfuga” nella Lega. Altro degno rappresentanti del trasformismo il senatore Luigi Vitali, ex coordinatore regionale pugliese di Forza Italia, salvatosi dopo essere stato bocciato dai suoi elettori nel collegio uninominale, vedendo eletto anch’egli nel “listino bloccato”. Ma poco dopo il suo ingresso in Senato, Vitali si è allontanato da Forza Italia, aderendo in un primo momento al Movimento politico “Cambiamo” facente capo al governatore ligure Toti, per poi avvicinarsi alla Lega, dove secondo fonti informate starebbe per aderire ufficialmente.

Raffaele Fitto e Gianfranco Chiarelli. Ma Vitali è in buona compagnia, anche se fuori dal Parlamento. E’ il caso dell’attuale vice coordinatore regionale pugliese della Lega, il martinese Gianfranco Chiarelli. che alle elezioni Politiche del 2013 venne eletto nelle liste del Popolo della Libertà (in quota Fitto) per poi passare in Forza Italia. Nel maggio 2015, Fitto in disaccordo con le scelte politiche di Berlusconi abbandonò Forza Italia, con una pletora di seguaci al seguito fra cui Chiarelli, e diede vita pochi mesi dopo, a novembre, ad un nuovo movimento politico, “Conservatori e Riformisti” che aderì al Gruppo Misto della Camera e Senato. Alle ultime elezioni politiche del 2018 Chiarelli si è ricandidato, questa volta nella lista di Noi con l’ Italia, ma non è stato rieletto venendo sonoramente “bocciato” persino nella sua stessa cittadina di Martina Franca in provincia di Taranto. Ma il trionfo del “trasformismo” è avvenuto la scorsa estate quando Chiarelli dichiarava pubblicamente di sostenere la candidatura alle Europee di Raffaele Fitto ( Fratelli d’ Italia), mentre nel frattempo aveva fatto entrare i due suoi più diretti collaboratori , Conserva e Pulito, nella Lega a Martina Franca, per farne ingresso lui stesso successivamente ufficialmente all’indomani del successo leghista alle elezioni europee 2019, nella speranza di poter ottenere un posto nel listino “bloccato” del Carroccio alle prossime elezioni Politiche.

Massimo Cassano e Michele Emiliano. Un altro “campione” di trasformismo al contrario è Massimo Cassano, un ex-giovane democristiano, entrato in Forza Italia a Bari nel 1988 diventandone vice-coordinatore regionale. Nel febbraio 2013 viene eletto Senatore con il Popolo della Libertà per “migrare” dopo solo 9 mesi nel Nuovo Centro Destra guidato da Angelino Alfano, di cui diventò coordinatore pugliese nel 2014. Ma anche in questo caso, per una “poltrona” si può passare da destra sinistra, e così è stato quando a febbraio 2014 viene nominato sottosegretario di Stato al Lavoro nel governo guidato da Matteo Renzi. Candidatosi alle Elezioni europee del 2014 nella circoscrizione Italia meridionale nella lista Ncd-Udc pur ottenendo 18.800 non venne eletto, ma nel dicembre 2016 viene riconfermato Sottosegretario sempre nel governo di centrosinistra con premier Paolo Gentiloni che era subentrato a Renzi. Cassano nel marzo 2017, con lo scioglimento del Nuovo Centro Destra , confluisce in Alternativa Popolare, da cui pochi mesi dopo, a luglio, annunciando le proprie dimissioni dall’incarico di Sottosegretario al Ministero del Lavoro, per rientrare in Forza Italia, ed approdare alla fine fra i “nominati” di Michele Emiliano che lo ha “piazzato” come commissario all’ Arpal. Della serie: una poltrona a qualsiasi costo!

Un tema vecchio e ben noto quello degli “opportunisti” pronti a salire sul carro del vincitore. Incredibilmente la Costituzione difende il diritto di un politico a passare da uno schieramento all’altro, vietando espressamente il “vincolo di mandato“, rendendo possibile il trasformismo imperante sotto gli occhi degli elettori. Cosa faranno i pugliesi alle Regionali 2020 ? Resteranno impassibili ad assistere a questi cambi di casacca pur di conquistare un seggio in consiglio regionale, in attesa di capire come, quando e soprattutto chi votare alle prossime politiche. Liste e partiti permettendo.

Le manovre dietro le quinte del centro destra pugliese. Il Corriere del Giorno il 23 Agosto 2020. I “voltagabbana” della politica pugliese. Tutti i retroscena delle Elezioni regionali in Puglia. Quello che nessuno vi racconta….! 2a puntata. Come anticipato nei giorni scorsi dal nostro giornale, venendo subito “fotocopiato” dal quotidiano barese fallito (leggasi La Gazzetta del Mezzogiorno) , Luigi Vitali di Francavilla Fontana (Brindisi) ex coordinatore di Forza Italia , da molti ritenuto l’artefice della sonora sconfitta fitta elettorale alle ultime politiche dei berlusconiani in Puglia, risultato “trombato” dagli elettori nel suo collegio elettorale uninominale alle ultime elezioni politiche del 2018, è stato ripescato grazie al listino “bloccato”, dopo essere approdato nel movimento “Cambiamo” (guidato dall’ attuale governatore ligure Giovanni Toti) è ormai approdato con la Lega, dove può contare su un forte rapporto di amicizia con il senatore Roberto Marti, un ex-fedelissimo di Raffaele Fitto, eletto nel 2013 nelle liste di Forza Italia-Popolo delle Libertà, successivamente passato a novembre del 2017 armi e bagagli alla Lega Salvini che gli ha garantito l’elezione in Senato.

Luigi Vitali ex coordinatore di Forza Italia. La forsennata campagna acquisti della Lega in Puglia, sicuramente non è frutto della migliore delle strategie, come dimostra il recente ingresso dell’ ex eurodeputato del Partito popolare europeo, Marcello Vernola, 59enne, a fine anni degli anni Novanta Presidente della Provincia di Bari e poi esponente del Popolo delle libertà il quale che l’anno scorso venne indicato come un possibile candidato in Puglia del partito di Matteo Renzi.

Marcello Vernola e Matteo Salvini. Vernola è indagato per reati fiscali dal pm Giuseppe Dentamaro, della Procura di bari in un’inchiesta è partita da un accertamento tributario effettuato dai finanzieri del capoluogo regionale che ha portato alla luce un’evasione fiscale milionaria da parte della Cei- Consorzio Energetico Italiano srl di Bari e della Velga srl, società del quale il neo-acquisto leghista è stato presidente del Consiglio di Amministrazione dal 2014 al gennaio 2020, società che di recente ha trasferito la sua sede a Roma, comparendo tra i destinatari del sequestro preventivo eseguito dalla Guardia di Finanza per una contestata evasione fiscale da 15,2 milioni di euro.

Matteo Salvini e Giovanni Toti, presidente uscente della Regione Liguria. Il gruppo del governatore regionale ligure Giovanni Toti è presente in Parlamento dove ha costituito la componente «Cambiamo» all’interno del gruppo misto a Palazzo Madama, grazie all’adesione di Gaetano Quagliariello con Paolo Romani un ex-“fedelissimo” di Silvio Berlusconi, (grazie al suo rapporto di amicizia ed affari con Paolo Berlusconi) e Massimo Vittorio Berretti, hanno raggiunto un accordo con Raffaele Fitto ottenendo un candidato per provincia nei partiti dell’area di centrodestra. Federica De Benedetto, imoprenditrice con la passione della politica, a soli 14 anni militava in Azione Giovani e militato in AN–Alleanza Nazionale fino al suo scioglimento, nel 2014 si era candidata nelle file di Forza Italia alle Elezioni Europee ottenendo ben 19.800 preferenze, è ritornata “a casa” come scrive sulla sua pagina Facebook candidandosi in provincia di Lecce, ottenendo un posto nella lista di Fratelli d’Italia della provincia salentina, dove dovrà confrontarsi con Erio Congedo (consigliere regionale uscente ed esponente dell’ala “meloniana” ed Antonio Gabellone ex presidente della provincia di Lecce, ritenuto un fedelissimo di Raffaele Fitto.

Gianfranco Chiarelli. La lista più deludente della Lega in Puglia, è sicuramente quella di Taranto, dove i candidati raccattati dal vice coordinatore regionale Gianfranco Chiarelli, anch’egli un ex-fedelissimo di Raffaele Fitto, non è riuscita ad attrarre e candidare alcun esponente di peso, ma soltanto prevalentemente collaboratori di Chiarelli, un ex amministratore locale della provincia jonica. Fra i candidati reperiti da Chiarelli compare persino un ex-consigliere comunale di Taranto (eletto nel 2012 con At6-Giancarlo Cito) , tale Giovanni Ungaro il quale nel gennaio 2019 (leggi QUI) a seguito di un’indagine della Guardia di Finanza per aver truffato circa 28.000 al Comune di Taranto a seguito di una assunzione simulata, è stato spedito a processo dalla Procura di Taranto. Ungaro nel 2015 si era candidato alle Regionali nelle liste dei Popolari appoggiando la candidatura a presidente della Regione Puglia di Michele Emiliano. Una presenza a dir poco imbarazzante nella Lega, dove il governatore del Veneto Luca Zaia ha escluso dalle candidature due consiglieri regionali uscenti per aver richiesto ed incassato il bonus Covid19 di appena 600 euro….praticamente nulla rispetto ai 37.900 euro che secondo la Procura di Taranto e le Fiamme Gialle avrebbe truffato ai contribuenti.

Luca Zaia, governatore della Regione Veneto. La differenza è che in Puglia la Lega non conta su esponenti del livello di Zaia. Non a caso il candidato presidente alla Regione Puglia dei “salviniani”, Nuccio Altieri, bruciato dalla più forte ed autorevole candidatura di Raffaele Fitto, ha un “pedigree” e peso elettorale alquanto deludente, infatti non è sceso in campo candidandosi alle Regionali. Altieri ha iniziato la sua avventura politica nel 2000 come addetto stampa del sottosegretario alla Difesa Massimo Ostillio (UDEUR-Clemente Mastella). Entrato in Forza Italia è stato consigliere provinciale a Bari sino al al 2009, e dal 2009 al 2014 è stato vicepresidente della Provincia di Bari. Successivamente alle Politiche del 2013 si è candidato nel barese con il PdL-Popolo della Libertà alla Camera dei Deputati risultando il secondo dei non eletti. Nel settembre 2014, in seguito alle dimissioni di  Antonio Leone eletto come membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, Altieri è diventato “per grazia ricevuta” deputato della XVII Legislatura. Nel 2015 abbandona Forza Italia e aderisce al movimento Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto (che è stato anche suo testimone di nozze) successivamente ribattezzato Direzione Italia.

2013 – Nuccio Altieri ed il suo testimone di nozze: Raffaele Fitto. Nel novembre 2017 abbandona Fitto e passa a Noi con Salvini, movimento politico, emanazione della Lega Nord presente nel mezzogiorno d’Italia. Alle ultime elezioni politiche del 2018 ha riprovato ad entrare in Parlamento candidandosi (in quota Lega) alla Camera dei Deputati nel collegio elettorale uninominale di Monopoli  sostenuto dalla coalizione di centro-destra ma anche questa volta non è stato eletto.

·        Succede a Bari.

Quando la levatrice si mise alla guida di una 600 celeste. Maria Caravella e la vita di ostetrica a Santeramo in Colle. Maria Caravella il 14 Settembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Alcuni giovani braccianti, in via Roma, facevano capannella davanti a un bar, dove aspettavano che qualche caporaletto del posto arrivasse in cerca di manovalanza. «Arasm trmind jnd a machn na femn»! Peppino aveva visto la seicento celeste della levatrice in partenza e aveva fatto notare al suo amico Erasmo che a condurre l’automobile era una donna, cosa inconsueta in un piccolo paese. I due chiamarono gli amici del bar e insieme si diressero verso la seicento, per osservare meglio la guidatrice, ridacchiando e sgomitando in modo beffardo, mentre la levatrice stava per dirigersi a far visita alle sue pazienti nelle campagne circostanti. Seduta sul sedile posteriore c'era Isa la figlia di Maria una bambina di circa otto anni, che alla vista di quel gruppo di birbanti quasi sprofondò dal sedile posteriore sul tappetino, per sfuggire agli sguardi incuriositi di quegli insolenti giovinastri. Maria c'era abituata e non ci faceva più caso. Lei era infatti l'unica donna in paese a guidare. La levatrice, minuta, con una cascata di riccioli neri e gli occhi celesti, era una donna saggia e laboriosa che aveva fatto sempre di necessità virtù. A Santeramo in colle e nei paesi vicini, ormai era considerata l'ostetrica più brava ed affidabile ma per guadagnarsi questa posizione aveva dovuto fare molti sacrifici. Per lei la vita non era stata facile. Suo padre era andato via a soli 52 anni per una polmonite, all’epoca non esisteva la penicillina. Oltre lei che aveva appena13 anni, aveva lasciato Cecchina di 9 anni, Rosina di 17 anni e Arcangelo di quasi 19, apprendista falegname, che all'improvviso si era ritrovato capofamiglia. Rosina era andata a servizio a Bari presso una famiglia facoltosa. Cecchina e Maria spesso invece, si recavano con la mamma in campagna per aiutarla a lavorare la terra, unico loro modesto sostentamento. Il lavoro nei campi era duro e non offriva all'epoca prospettive, Maria sognava una vita diversa. Amava molto i bambini e ammirava tantissimo Iannina, una donna alta e robusta, con un gran fazzolettone annodato sulla testa, che nel paese aiutava le donne a partorire. Allora non si andava a scuola per diventare ostetrica. Questo lavoro era affidato a delle praticone dette mammane. Molte erano le carenze igieniche, spesso le donne morivano di parto e tanti erano i bambini che non riuscivano a sopravvivere, oppure nascevano con gravi malformazioni dovute all’uso scorretto del forcipe. Maria pensava che l'unico modo per sconfiggere la miseria e conquistare un futuro migliore fosse studiare. Ne parlò con sua madre Isabella, ma la donna non avendo alcuna disponibilità economica le consigliò di affiancare Iannina e diventare anche lei una mammana. Maria però non ci stava, il suo sogno era frequentare la scuola da ostetrica. Ne parlò allora con Rosina, che già lavorava in città, sua sorella tramite la famiglia dove era a servizio, trovò per Maria vitto e alloggio e un piccolo compenso in danaro con cui finanziare gli studi. La ragazza doveva convivere con una signora anziana, senza parenti, assisterla e aiutarla nelle faccende domestiche.

Antonio Decaro è il sindaco più popolare d'Italia: a Bari oggi sarebbe eletto con il 70 per cento. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Cenzio Di Zanni. Antonio Decaro è il sindaco più popolare (e gradito) d'Italia. A certificarlo è l'esito della Governance Poll 2020, l'indagine sul livello di gradimento dei presidenti di 18 Regioni e dei sindaci di 105 città capoluogo di provincia realizzata per 'Il Sole 24 Ore del Lunedì' dall’istituto Noto Sondaggi. Il primo cittadino di Bari e presidente dell’Anci, l'Associazione nazionale dei Comuni italiani, guida la classifica seguito dal collega di Messina, Cateno De Luca, e dai sindaci di Genova, Marco Bucci, e di Bergamo, Giorgio Gori, entrambi ex aequo sul terzo gradino del podio. Decaro è stato riconfermato sindaco del capoluogo pugliese nel  giugno 2019 con oltre 114 mila voti, pari al 66 per cento delle preferenze. A poco più di un anno dalla proclamazione come cinquantesimo sindaco di Bari, se si votasse oggi, Decaro supererebbe il bottino di voti raccolto 13 mesi fa. Secondo gli analisti di Noto Sondaggi, anche sotto la spinta dell'emergenza Covid-19, il sindaco porterebbe a casa il 70 per cento dei voti. Come Luca Zaia, che è il governatore regionale più gradito in base alla classifica del Sole 24 Ore.  "Indipendentemente dal sondaggio sento l'affetto dei miei concittadini. Il risultato ovviamente mi rende felice, però non è un risultato personale ma di una squadra che lavora insieme da tanto tempo e, se mi permettete, è un risultato della città". Lo ha detto Decaro, commentando la classifica. "Per i sindaci in prima linea, se guardate i risultati del sondaggio - ha detto Decaro - i dati di fiducia sono tutti alti, perché i sindaci si sono impegnati in prima persona come fanno sempre, sono i terminali più esposti della Repubblica, come dice il presidente Mattarella, siamo le istituzione di prossimità, quelle più vicine ai bisogni, alle difficoltà, ma anche ai sogni dei nostri concittadini. Questo fanno i sindaci: stanno vicini alla loro comunità e cercano di tenerla insieme e questo è un momento importante per tenere insieme le nostre comunità".

Bari, è morto il vescovo emerito Giuseppe Matarrese. Aveva 86 anni. Esponente di una delle famiglie più in vista di Bari, è stato alla guida della diocesi di Frascati dal 1989 al 2009. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Giugno 2020. Lutto nella famiglia Matarrese di Bari. Questa sera è venuto a mancare Mons. Giuseppe Matarrese. Aveva 86 anni. Esponente di una delle famiglie più in vista di Bari (è fratello di Antonio e Vincenzo, esponenti di rilievo del calcio italiano, e dell'imprenditore edile Michele) ed originario di Andria, è stato vescovo di Frascati dal 1989 al 2009.

A dare la notizia è stato il nipote Salvatore sulla pagina Facebook: «Per me è stato una presenza forte, una certezza, un riferimento etico, morale. Mi ha voluto bene e gli ho voluto un gran bene. Vivrà per sempre nel mio cuore e nel cuore della mia famiglia per quel che mi ha donato ed insegnato. Addio zio Peppe. Sei sempre stato uno zio speciale». Nato ad Andria il 3 giugno 1934, Mons. Matarrese fu ordinato presbitero il 15 marzo 1959. Eletto alla sede vescovile di Frascati l'11 novembre 1989, fu ordinato vescovo il 16 dicembre 1989. Divenne emerito il 2 luglio 2009.

«Don» Antonio Matarrese, impresa, politica e calcio: il giro del mondo in 80 anni. Ottant’anni tra impresa, calcio e politica, l'imprenditore barese si racconta alla Gazzetta. Michele De Feudis il 4 Luglio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Ottant’anni tra impresa, calcio e politica. Antonio Matarrese, deputato della Dc per cinque legislature, poi presidente della Lega, della Figc, vicepresidente della Uefa e della Fifa si racconta alla Gazzetta del Mezzogiorno.

Che Puglia era quella nella quale è iniziato il suo percorso di impegno pubblico negli anni settanta?

«Era una Puglia che si vantava di avere una classe di imprenditori eccellenti e coraggiosi con amministratori locali e uomini politici rappresentanti il Governo Nazionale con i quali vi era un rapporto di rispetto e fiducia. E la Puglia cresceva».

I primi passi nell’azienda di famiglia…

«L’azienda di famiglia che faceva capo al suo fondatore mio padre Salvatore, cresceva anch’essa con la fattiva ed esaltante partecipazione dei miei primi due fratelli ingegnere Michele, Vincenzo e successivamente con l’ingresso dell’ingegnere Amato. Il mio impegno fu quello di mettere in pratica l’esperienza di dottore commercialista acquisita in un grande studio di Roma; la ditta individuale veniva trasformata in Società per Azioni tra i fratelli».

Nacque allora l’appellativo di «Kennedy» di Puglia.

«Era indubbiamente esagerato ma inorgogliva noi tutti e credo anche buona parte della Puglia».

La politica: come nasce la prima candidatura?

«Nel marzo del 1976 l’allora presidente Aldo Moro chiese a mio padre di mettere in lista uno dei figli per sostenere l’allora partito della Democrazia Cristiana. Fui scelto io per la mia specifica predisposizione alle pubbliche relazioni. Con la prima candidatura fui eletto tra i primi della lista. Se c’è il mio nome devo vincere, disse allora mio padre».

Il suo rapporto con il presidente Giulio Andreotti?

«Con la morte di Moro la mia collocazione fu vicina al presidente Andreotti ma soprattutto perché era un grande tifoso di calcio e soprattutto della Roma. In quel periodo ero presidente della Lega Calcio. Ad Andreotti feci la mia prima telefonata appena eletto presidente della Lega il 10 marzo 1982, il suo commento: “è una buona cosa”».

Cosa rimpiange della Prima Repubblica?

«La grande saggezza e coscienza politica frutto di grandi battaglie che partivano dal dopoguerra. L’Italia è diventata grande grazie e quegli uomini tra i quali qualcuno ha dato anche la vita».

Rilevò nel 1977 il Bari del professor Angelo De Palo.

«Nell’estate del 1977 ero in vacanza con la mia famiglia e sentii alla radio che era morto il prof. De Palo: dissi a me stesso chissà che fine farà ora il calcio a Bari. Dopo alcuni mesi con al braccio la signora De Palo attraversavamo il terreno di gioco con lo stadio Della Vittoria pieno ed i tifosi in piedi e noi ci dicemmo che ci tremavano le gambe».

La sua presidenza è negli annali per il «Bari dei Baresi» e per il calcio avanguardistico di Enrico Catuzzi. Che ricordi conserva di quel periodo?

«Catuzzi è una figura incancellabile nella mia storia calcistica e in tutta quella della società del Bari Calcio. Aveva semplicità e correttezza e era dotato soprattutto di una serenità che ha fatto di lui uno dei nostri migliori allenatori della nostra storia biancorossa».

Senza la vicenda di Punta Perotti, la sua famiglia avrebbe proseguito a gestire il club?

«Noi tutti e soprattutto mio fratello Vincenzo avevamo puntato molto a fare della nostra Bari una delle più grandi città italiane. L’abbattimento di Punta Perotti ha demolito i nostri sogni e ha procurato a mio fratello Vincenzo un grandissimo dolore, che ha contribuito non poco alla sua morte».

Chi ha commesso errori che non perdona sulla vicenda dell’abbattimento?

«La storia di Punta Perotti ormai la conoscono tutti ed anche in tutta l’Italia. Il libro su Punta Perotti scritto da mio fratello Michele chiarisce ampiamente e dà le giuste spiegazioni. Tutti quelli che hanno agito e si sono esaltati sulla tragedia della nostra famiglia e in gran parte della città di Bari si facciano un proprio esame di coscienza e si diano le dovute risposte. Ciò non toglie che forse anche noi ci siamo trovati impreparati di fronte a questi tremendi avvenimenti».

È stato tra deus ex machina dei mondiali di Italia 90. Se Italia-Argentina non fosse stata disputata al San Paolo di Napoli, racconteremmo un altro torneo?

«Una operazione esaltante quella di Italia ’90. Ancora oggi se ne parla con rispetto e la gente per strada mi chiede notizie. La sconfitta con la squadra di Maradona - con il quale parecchi napoletani hanno festeggiato - ha lasciato una ferita che ancora oggi non si richiude».

Con quale grande campione ha conservato il rapporto più intenso?

«Con Paolo Rossi con il quale in questi ultimi tempi ho avuto occasione di incontrarmi non per motivi calcistici».

Lo stadio San Nicola di Bari è stato negli anni del suo impegno ai vertici del calcio italiano e mondiale palcoscenico di appuntamenti d’eccezione. Quale fu il più difficile da «portare» in Puglia?

«L’avvenimento più difficile da portare a Bari è stata la finale di Champions e non dimentico la domanda che mi fu rivolta dall’allora direttore della Gazzetta dello Sport Candido Cannavò: come mai questo tipo di finale che normalmente si gioca nelle più grandi città europee è arrivata a Bari? La mia risposta fu: perché Bari è la mia città».

Nel suo itinerario ha avuto sempre un ruolo centrale la sua famiglia (suo fratello Vincenzo prese il suo posto con determinazione nella presidenza del Bari calcio). Quanto ha contato la coesione della comunità familiare nelle tappe più impegnative?

«La coesione delle comunità familiare contribuisce alla crescita del paese. La nostra coesione è stata un vanto, ora dopo la scomparsa di due dei miei fratelli stiamo lavorando ad un nuovo tipo di coesione nel rispetto e nella tradizione di un grande uomo chiamato Salvatore Matarrese».

Nel Circolo tennis di Bari le sue sfide mattutine con l’amico di sempre Michele Giura sono ricordate un cult. Chi ha vinto l’ultima partita?

«Purtroppo, da parecchi anni, a queste sfide ho dovuto rinunciare con Michele Giura. Ora, lui sta approfittando che non gioco per vincere con gli altri quelle partite che non vinceva con me . Speriamo che non legga queste mie esagerazioni (sorride, ndr)».

I progetti in cantiere per i prossimi cento anni?

«Continuare ad impegnarmi a essere utile per la grande famiglia Matarrese, per il calcio nazionale ed internazionale, per la gente che ancora mi vuole bene e per tutti quelli che quando passano e mi riconoscono mi chiamano don Antonio (spero che mio fratello Vescovo dal cielo mi perdoni.

Estratto dell’intervista di Michele Pennetti ad Antonio Matarrese per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2020.

[…] Presidente del Bari, della Lega e della Federcalcio. Vicepresidente di Fifa e Uefa. Qual è l'esperienza più bella che ha vissuto da dirigente di alto livello?

«Essere a capo della Figc e del calcio italiano per tanti anni. Anche la guida del Bari mi ha emozionato molto».

[…] Tra i supplementari e i rigori di Italia-Brasile, finale mondiale del 1994 a Pasadena, cosa fece? Pregò?

«Ero frastornato. Però il peggio stava solo per arrivare. Dopo il rigore sbagliato da Roberto Baggio i giocatori, tutti, indistintamente, piangevano. Paolo Maldini uscì dagli spogliatoi e mi invitò a consolare i suoi compagni. In realtà dovevamo consolarci a vicenda».

E tra i supplementari e i rigori di Italia-Argentina, semifinale dei Mondiali del 1990 a Napoli, cosa pensò?

«Nulla e non voglio nemmeno pensarci oggi, a 30 anni di distanza. Quella è una ferita che ancora non si rimargina».

Chi le ha insegnato più calcio?

«Tre straordinari presidenti: Dino Viola, Paolo Mantovani e Silvio Berlusconi. E il Cavaliere, oltre a conoscere la materia, si è sempre distinto per la sua umanità».

Che tipo era Sepp Blatter?

«Il più cinico, abile e intraprendente manager calcistico. Ha amato la Fifa più di se stesso».

La partita che mette in cima alla lista delle gioie?

«La finale dei Mondiali di Spagna nel 1982. Rappresentò il mio esordio da presidente della Lega e vicepresidente della Figc».

E quella che vorrebbe non si fosse mai disputata?

«Devo ripetermi. Italia-Argentina del 1990».

Chi è stato il giocatore che ha amato di più?

«Nessuno, sa perché? Da presidente della Federcalcio m' imponevo di non fare preferenze fra gli azzurri».

Con quale allenatore ha avuto maggiore feeling?

«Arrigo Sacchi. Uomo e commissario tecnico eccezionale, ma anche faticoso, lucido e leale».

È vero che quando venne assegnata la finale di Coppa dei Campioni del '91, e le chiesero «perché Bari?», lei rispose «perché è la mia città»?

«La finale del San Nicola tra Stella Rossa e Marsiglia ha fatto storia. Nel calcio, e non solo, quando si ha il potere bisogna esercitarlo. Altrimenti significa che non lo meriti».

[…] Come ha vissuto i mesi del lockdown?

 «Scappavo di casa all'alba, andavo a correre vicino al mare. Tentavo di non farmi riconoscere. Un paio di volte la polizia mi ha beccato, ma mi ha pure perdonato».

Qual è il suo più grande rimpianto?

«Non essere tornati dagli Stati Uniti con la Coppa del Mondo sull'aereo».

[…] Il calcio italiano risalirà ai massimi livelli mondiali?

«Il destino del nostro calcio è stare sempre ai massimi livelli. Succederà di nuovo, parola di prossimo 80enne».

Bari, «Comune restituisca subito i suoli di Punta Perotti: il parco è abusivo». La richiesta dei liquidatori della Sudfondi. Giovanni Longo il 17 Novembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il "Parco della Legalità" a Punta Perotti potrebbe avere i giorni contati. Ironia della sorte, visto il nome con il quale e noto, il giardino pubblico quasi di fronte alla spiaggia di Pane e Pomodoro molto frequentato dai baresi (Dpcm permettendo), sarebbe persino abusivo. I liquidatori della Sudfondi, un tempo ammiraglia del Gruppo Matarrese e ormai in liquidazione soprattutto a causa delle conseguenze economiche legate a doppio filo con la nota e complicata vicenda giudiziaria, hanno intimato al Comune la restituzione immediata dei suoli privati. Via tutto, compreso lo smantellamento di giostre, pista ciclabile, attrezzature, giardino, tensostrutture. Si arricchisce di un nuovo tassello il dossier sui palazzi demoliti nel 2006 dall’allora sindaco Michele Emiliano che aziono il detonatore. Parte dei detriti e delle macerie sono ancora li sotto. Le conseguenze di quel botto si riflettono ancora oggi. Venerdì scorso i liquidatori giudiziari, avvocato Flora Caputi e dottor Vito Lisi, chiamati dai giudici a gestire la società in liquidazione, hanno inviato una Pec al Comune di Bari, al sindaco Antonio Decaro e al direttore generale Davide Pellegrino, questi ultimi chiamati a gestire, non c’è che dire, un’eredità piuttosto pesante visto che la vicenda affonda le radici ai primi anni Novanta...

Punta Perotti, la stima dei periti: 144 milioni di danni per abbattimento palazzi. La bozza di consulenza tecnica disposta dalla Corte di appello più di un anno fa nel giudizio per risarcimento danni. la somma è al netto dei 37 milioni già risarciti dopo la sentenza della Corte europea. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Ottobre 2020. Ammontano a 144 milioni di euro i possibili danni che il Comune di Bari, Regione Puglia e Ministero dei Beni culturali potrebbero essere chiamati a risarcire alla società Sudfondi dei costruttori Matarrese per la vicenda di Punta Perotti, i palazzi costruiti sul lungomare di Bari e abbattuti nel 2006 perché ritenuti abusivi nonostante l'assoluzione degli imputati che hanno poi chiesto il risarcimento dei danni. E’ la stima fatta dai consulenti tecnici nominati dalla Corte d’Appello di Bari - la prof.ssa Gabriella De Giorgi, docente di diritto amministrativo dell'Università del Salento ed urbanista, l'ing. Raffaele dell'Anna, anche lui di Lecce, e il dott. Franco Botrugno, commercialista di Brindisi - dinanzi alla quale pende da anni il contenzioso, e si riferisce ai costi sostenuti dalla società per realizzare gli immobili poi demoliti. La somma di 144 milioni di euro è contenuta nella bozza di consulenza trasmessa alle parti, i difensori della società e i tre enti costituiti nel giudizio, i quali adesso hanno 45 giorni per fare osservazioni. La relazione finale, che dovrà tener conto anche delle eventuali osservazioni, sarà depositata in Corte d’Appello a gennaio. I giudici hanno già fissato per il 14 aprile 2021 l’udienza nella quale dovranno decidere sulla richiesta di risarcimento. Se cioè condannare Comune, Regione e Ministero a pagare alla società quei 144 milioni di euro, a vent'anni dall’inizio del contenzioso, quando cioè i palazzi e suoli furono confiscati. Una somma che, se riconosciuta, servirà a ristorare integralmente anche tutti i creditori della società Sudfondi, che proprio oggi, assistita dagli avvocati Vincenzo Chionna e Michele Lobuono e dallo studio Pellecchia, ha ottenuto dal Tribunale di Bari l’omologa del concordato, evitando così il fallimento. Nel provvedimento, infatti, si legge che "l'eventuale esito positivo dei contenziosi pendenti, primo fra tutti il giudizio risarcitorio in Appello, andrà ad incrementare l'attivo concordatario», cioè il pagamento dei debiti. A quanto si apprende i 144 milioni di euro calcolati dai consulenti tecnici, comprendono i costi sostenuti dalla società per la progettazione dei palazzi, i pagamenti di Ici e oneri di urbanizzazione, gli oneri finanziari e parte dei costi di esecuzione dei lavori. La somma è al netto dei 37 milioni di euro già risarciti dalla Cedu per il mancato godimento dei suoli a seguito della confisca. In primo grado, nel 2014, il Tribunale di Bari aveva rigettato la richiesta di risarcimento avanzata dalla società ritenendo che la somma liquidata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo comprendesse già tutti i danni. La Corte di Appello ha poi riaperto la partita, accogliendo la richiesta fatta dalla società di disporre una consulenza tecnica che quantificasse i costi, e quindi i danni patiti per l'abbattimento. Questo non significa ancora che quelle somme, così come quantificate, saranno riconosciute come danni e quindi risarcite, perché la parola fine la metteranno i giudici tra qualche mese.

Addio ad Aresta, fu dirigente del Pci a Bari e direttore della casa editrice «De Donato». Aveva 75 anni. Il cordoglio del sindaco Decaro. Michele De Feudis il 07 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. È morto a Roma a 75 anni l’intellettuale e giornalista Giancarlo Aresta, uno dei protagonisti della politica barese degli Anni ‘70. Aresta, nato a Terlizzi, è stato segretario del Pci di Bari, consigliere comunale e consigliere d’amministrazione dell’Istituto autonomo case popolari. È stato dirigente della cooperativa del quotidiano comunista «il manifesto» ed è stato direttore della casa editrice De Donato, fucina della «école barisienne», la corrente culturale della sinistra meridionale della quale fecero parte tra gli altri Beppe Vacca, Mario Santostasi e Franco De Felice. È stato nel Pci fino al 1989, poi non ha condiviso la svolta di Achille Occhetto e ha scelto di rimanere su posizioni vicine a quelle di Ingrao. Aresta lascia la moglie, Alba Sasso, ex parlamentare dell’Ulivo, e le figlie Marinella e Francesca. «Giancarlo - ricorda alla «Gazzetta» Peppino Caldarola - era un personaggio straordinariamente novecentesco, un timido classico capace di diventare estroverso , preparatissimo e di una serietà da leggenda. Nasceva giovane assistente di ispanistica del professor Vittorio Bodini. Era una vera promessa, ma si innamorò della politica, del Pci e dell'editoria». Poi un aneddoto: «Nel 1969 occupammo a Bari la fabbrica del Calzaturificio del Sole, per difendere i diritti dei piccoli ciabattini rimasti senza lavoro. A quella lotta dedicammo un reportage per «La Sinistra», allora diretta da Lucio Colletti...».

IL CORDOGLIO DI DECARO - «Bari perde un altro protagonista della vita politica amministrativa del suo recente passato: Giancarlo Aresta. Già docente universitario e direttore della casa editrice De Donato, fine intellettuale, giornalista e opinionista, sempre in prima linea per il pluralismo e la libertà di stampa». Lo afferma il sindaco di Bari, Antonio Decaro, in una nota di cordoglio per la scomparsa dell’intellettuale pugliese. «Giancarlo oltre al suo impegno, autorevole e appassionato, in consiglio comunale, negli anni Ottanta - afferma Decaro - sarà ricordato per le sue analisi profonde sulle dinamiche sociali e le trasformazioni della rappresentanza politica. La sua smisurata passione politica, la sua capacità di analisi, la sua coerenza e l’impegno militante lo portarono ad essere dirigente del Partito comunista, di cui è stato segretario nella nostra città negli anni difficili della contrapposizione ideologica». «Consigliere comunale, attento e sensibile alle evoluzioni della società barese, fu uno dei protagonisti delle prime esperienze di governo cittadino affidate alle formazioni laiche e di sinistra. Alla moglie Alba Sasso, alle figlie Marinella e Francesca e a quanti l’hanno conosciuto e amato - conclude Decaro - a nome mio personale e della comunità barese, giungano le espressioni del nostro profondo cordoglio e affetto».

Bari, in 40mila per il Papa: la giornata di Francesco in 3 minuti. Si è conclusa la visita del Pontefice nel capoluogo pugliese: ecco il video con tutti i momenti salienti della mattinata di Bergoglio in Puglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2020. È andato via pochi minuti prima delle 13, decollando in elicottero, dopo aver stretto la mano al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: Papa Francesco ha concluso la sua giornata barese, cominciata questa mattina alle 8.30. «Buongiorno a tutti voi. Io vorrei ringraziarvi perché so che voi avete aiutato, state aiutando con le vostre preghiere i pastori. Perché le preghiere sono la forza della comunità cristiana. I pastori pregano a anche dovevano lavorare in questi giorni di riflessione. Ma si sono sentiti aiutati e sostenuti dalla vostre preghiere». Lo ha detto papa Francesco salutando la folla dei fedeli riunita dinanzi alla Basilica di San Nicola, a Bari, in attesa della sua uscita dopo l'incontro con i vescovi del Mediterraneo. «Questo lavoro di apostolato della preghiera è importante - ha affermato il Pontefice -. Non dimenticate, pregare per la Chiesa per i pastori, sempre. E ora preghiamo la Madonna: lei ha pregato tanto, sempre, accompagnando la Chiesa». Hanno intonato il canto «Shalom, pace a te» per accogliere Papa Francesco i fedeli che erano in attesa sul sagrato della Basilica di San Nicola a Bari.Il Papa, che ha incontrato i vescovi del Mediterraneo, ha benedetto e salutato i fedeli in piazza, invitandoli a pregare con lui recitando l’Ave Maria. «Lunga vita a Papa Francesco» urla qualcuno dalla piazza. Il Santo Padre a bordo della Papa mobile sta ora raggiungendo piazza Libertà per la messa e l’angelus, dove ad attenderlo c'è anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, già arrivato a Bari. Papa Francesco, proveniente dalla Basilica di San Nicola dove ha incontrato i vescovi del Mediterraneo, è arrivato in 'papamobile' in Corso Vittorio Emanuele II, nello spiazzo dove celebrerà la messa, seguita dall’Angelus, appuntamenti conclusivi di questa sua visita a Bari. Il Pontefice è stato accolto dalla folla festante lungo il Corso.

Papa a Bari, l'attesa dei fedeli sul Corso: spunta qualche mascherina anti-Coronavirus. «Se vogliamo essere discepoli di Cristo, se vogliamo dirci cristiani, questa è la via. Amati da Dio, siamo chiamati ad amare; perdonati, a perdonare; toccati dall’amore, a dare amore senza aspettare che comincino gli altri; salvati gratuitamente, a non ricercare alcun utile nel bene che facciamo». Lo ha detto papa Francesco nell’omelia della messa celebrata in Corso Vittorio Emanuele II, a Bari. «E tu puoi dire - ha proseguito -: Ma Gesù esagera! Dice persino: Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano (Mt 5,44); parla così per destare l’attenzione, ma forse non intende veramente quello. Invece sì, intende veramente quello. Gesù qui non parla per paradossi, non usa giri di parole. È diretto e chiaro. Cita la legge antica e solennemente dice: Ma io vi dico: amate i vostri nemici. Sono parole volute, parole precise». «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano. È la novità cristiana. È la differenza cristiana», ha affermato Francesco. «Sull'amore verso tutti non accettiamo scuse, non predichiamo comode prudenze - ha continuato -. Il Signore non è stato prudente, non è sceso a compromessi, ci ha chiesto l’estremismo della carità. È l’unico estremismo cristiano, lecito: l’estremismo dell’amore». «Amate i vostri nemici. Ci farà bene ripetere a noi stessi, oggi dopo la messa, queste parole e applicarle alle persone che ci trattano male, che ci danno fastidio, che fatichiamo ad accogliere, che ci tolgono serenità. Amate i vostri nemici», ha ribadito. 

CON 120 ANNI DI STORIA. Bari, la Gazzetta dichiarata bene culturale. ll Soprintendente archivistico e bibliografico della Puglia, Annalisa Rossi, ha dichiarato di interesse storico particolarmente importante l’archivio de La Gazzetta del Mezzogiorno. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2020. La Gazzetta del Mezzogiorno bene culturale. Il Soprintendente archivistico e bibliografico della Puglia, professoressa Annalisa Rossi, ha dichiarato di interesse storico particolarmente importante l’archivio de La Gazzetta del Mezzogiorno. In particolare si legge nel decreto firmato dal Soprintendente, il marchio La Gazzetta del Mezzogiorno costituisce il «precipitato simbolico del sedime archivistico testimoniato dall’archivio di impresa». Con la ratifica di questa dichiarazione, l’archivio viene sottoposto alla disciplina del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42, ossia al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il «marchio rappresenta la sintesi immateriale e preziosa in quanto costituita dal valore generato dalla testata». L’atto deliberativo della professoressa Rossi, al termine di una lunga ricognizione nella sede centrale e nelle sedi periferiche della Gazzetta, costituisce un motivo di orgoglio e di soddisfazione per tutti coloro che nel corso di 133 anni hanno contribuito a fare del nostro giornale il principale quotidiano di Puglia e Basilicata. Inoltre, i vincoli e gli obblighi stabiliti dal Soprintendente potrebbero incidere anche sul futuro assetto del giornale (ora in esercizio provvisorio affidato a una doppia curatela fallimentare, per Edisud e Mediterranea). Nell’ampia documentazione a supporto della sua decisione, la professoressa Rossi ripercorre la storia del giornale e indica nell’Archivio una fonte straordinaria e pressoché inesauribile di garanzia della sopravvivenza futura della testata, testimoniandone i valori e il percorso evolutivo. «Sul territorio nazionale non vi è al momento - scrive la dottoressa Rossi - un’altra testimonianza così completa e integra né altrettanto identificabile al contesto territoriale di riferimento fino a potervisi con la voce di una grande parte del Paese». L’intervento di tutela è collegato a una doppia motivazione: in primo luogo la salvaguardia e la consegna al futuro dell’integrità del marchio e la salvaguardia di un patrimonio di conoscenza ancora tutto da esplorare. Numerosi sono gli obblighi cui si dovrà attenere il proprietario o il detentore dell’Archivio. Riportiamone alcuni: la conservazione della documentazione descritta dalla Sovrintendenza; la richiesta di autorizzazione, alla Soprintendenza, per lo spostamento anche temporaneo dell’Archivio; la comunicazione dell’eventuale trasferimento della proprietà dell’Archivio; la messa in sicurezza del materiale. Tra gli obblighi figura anche quello di «concordare con la Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Puglia ogni iniziativa futura attinente all’adozione e all’uso temporaneo e stabile del marchio La Gazzetta del Mezzogiorno, anche con riferimento alla definizione di ulteriori piani industriali, da definire coerentemente con la qualifica di “bene culturale” sua propria, non quale limitazione sulle prerogative del bene inteso in quanto tale, ma controllo di natura pubblicistica dello stesso». Nella relazione tecnico-scientifica al decreto di venerdì 18 settembre, la Soprintendenza ribadisce che «il complesso dei beni rilevati e descritti nel corso dei numerosi sopralluoghi dimostra l’indubbia rilevanza dell’Archivio della Gazzetta, inteso come complesso unito e inscindibile per la storia meridionale e nazionale, e per il futuro del Mezzogiorno, nella cui prospettiva risalta il valore identitario del marchio. L’intero complesso, articolato nelle sue componenti, costituisce una universitas rerum inscindibile, che rinviene il suo valore testimoniale dall’intimo intreccio tra l’archivio di prodotto, il materiale librario, l’archivio editoriale, la documentazione preparatoria e amministrativa, il marchio e i beni strumentali di produzione, conferenti al marchio una valenza generativa e vitale, attivabile nella prospettiva del futuro dell’organizzazione produttiva».

Hanno ragione Travaglio ed Emiliano: i giornalisti a Taranto vengono comprati dalla pubblicità! Antonello De Gennaro il 29 Settembre 2020 su Il Quotidiano di Taranto. Il Presidente della Regione Puglia Emiliano disse : “Vedrete che nonostante le bombe che ho tirato, domani non troverete quasi nulla sui giornali, anche perché mi dicono che Mittal, come prima faceva Riva, ha una forte attività pubblicitaria su tutti i media e quindi… Poveri media, sono tutti sull’orlo della chiusura: se fanno arrabbiare uno dei pochi inserzionisti coi soldi poi che succede, chiudono tutti? Queste sono le condizioni nella quale la democrazia italiana si trova, in particolare qui a Taranto“. Era il 1 maggio del 2016 quando Marco Travaglio dal palco del concertone organizzato dall’ associazione “Cittadini Liberi & Pensanti” pontificava sulla libertà di stampa, elogiando i suoi giornalisti del Fatto Quotidiano (fra cui il collaboratore Francesco Casula) che avevano realizzato un inserto su Taranto per il giornale da lui diretto, senza alcun condizionamento, “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità““. Successivamente ricordare su queste vecchie “abitudini” di certa stampa , come scriveva il nostro giornale lo scorso 27 novembre 2018, fu il Governatore della Regione Puglia Michele Emiliano, che intervenendo a Taranto a un incontro organizzato sull’immunità penale per i gestori dell’ILVA (prevista dai decreti legge dei Governi succedutisi), non ha risparmiato accuse ai giornali incurante che a moderare il dibattito seduto accanto a lui ci fosse Mimmo Mazza, il  vicepresidente dell’Assostampa di Puglia, il quale negli ultimi tempi sul quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno si è ammorbidito arrivando a scrivere e firmare un editoriale “Se muore l’ Ilva a Taranto, muore l’ Ilva“, dopo aver in passato auspicato per anni la chiusura dello stabilimento siderurgico tarantino. Emiliano prendendo la parola aggiunse : “Vedrete che nonostante le bombe che ho tirato oggi – continuò il Presidente della Regione – domani non troverete quasi nulla sui giornali, anche perché mi dicono che Mittal, come prima faceva Riva, ha una forte attività pubblicitaria su tutti i media e quindi… Poveri media, sono tutti sull’orlo della chiusura: se fanno arrabbiare uno dei pochi inserzionisti coi soldi poi che succede, chiudono tutti? Queste sono le condizioni nella quale la democrazia italiana si trova, in particolare qui a Taranto“. Di fronte a tali accuse, fu a dir poco imbarazzante il totale silenzio del giornalista-sindacalista Mimmo Mazza, il  vicepresidente dell’Assostampa di Puglia, che era seduto accanto a lui. Ma quella volta all’improvviso, contrariamente a quanto accaduto con Marco Travaglio, sono intervenuti “il gatto e la volpe” (come li chiamano i giornalisti pugliesi non allineati) e cioè l’ Ordine dei Giornalisti di Puglia e l’ Assostampa di Puglia (che notoriamente viaggiano a braccetto…)  che emisero un comunicato congiunto, che stranamente…. però non compare sul sito dell’ Ordine pugliese, e venne pubblicato solo sul sito del sindacato dei giornalisti (aderenti) pugliesi. Ve lo riproponiamo: “Il presidente della Regione, Michele Emiliano, non smette mai di sorprendere. A Taranto, parlando delle attività dello stabilimento siderurgico Arcelor Mittal, ha pronunciato parole irriguardose verso la dignità dei giornalisti pugliesi. “Vedrete – aveva detto Emiliano – che domani non troverete quasi nulla sui giornali, anche perché mi dicono che Mittal, come prima faceva Riva, ha una forte attività pubblicitaria su tutti i media. Poveri media, sono tutti sull’orlo della chiusura: se fanno arrabbiare uno dei pochi inserzionisti coi soldi, poi che succede, chiudono tutti?”. Il presidente Emiliano ha mancato un’altra buona occasione per tacere e magari occuparsi di altro di più concreto. Egli si può lamentare di tante cose, ma non che gli manchi spazio e considerazione su giornali, tv e siti web. Ma, ovviamente, non è questo il punto in discussione. “Il punto è un altro ed è molto grave – continuava la nota sindacale –  Emiliano manca profondamente di rispetto quando insinua che le testate pugliesi si farebbero condizionare dalla pubblicità di Mittal. Insinua, insomma, una sorta di prostituzione intellettuale e professionale che piegherebbe le scelte delle redazioni alla pubblicità commissionata dalle grandi imprese. Un’espressione che è analoga a quella adoperata dall’ex deputato 5 Stelle Alessandro Di Battista, il quale ha assimilato i giornalisti a delle prostitute“. “ Pochi giorni fa, il presidente Emiliano è sceso in piazza – proseguiva la nota dell’ Assostampa di Puglia – per solidarizzare con i giornalisti contro gli epiteti pronunciati dai 5 Stelle. In quell’occasione disse ai cronisti che “voi siete compagni di lavoro nel controllo democratico di quello che accade”. Oggi si dimentica di quella frase e diventa egli stesso l’autore di frasi ingiuriose. Emiliano, dovrebbe ricordare, per di più, che una mozione approvata dal Consiglio regionale due settimane fa impegna lui, la sua giunta e i consiglieri pugliesi a censurare “le affermazioni denigratorie e ingiuriose” a danno dei cronisti. Si attenga a quell’impegno ed eviti dichiarazioni prive di senso, ne guadagnerà in considerazione. Non difenda la libertà di stampa a giorni alterni e soprattutto si astenga, nelle prossime occasioni, di mostrare una solidarietà che oggi ha dimostrato di non provare”. Chissà cosa direbbe oggi Marco Travaglio se scoprisse che il suo collaboratore Francesco Casula definisce pubblicamente suo “maestro” il giornalista Mimmo Mazza e non si accorge e tan tomeno si occupa giornalisticamente, del fiume di denaro (siamo arrivati a 30 mila euro in pochi mesi) che il Comune di Taranto ha elargito per “markette” giornalistiche a Radio Cittadella la “semiclandestina” (dati gli ascolti) radio della Curia Arcivescovile di Taranto, attraverso una società, la Edizioni Joniche s.r.l.s, con sede in via Regina Elena, 42 – 74123 a Taranto, costituita di recente proprio dal Mazza il quale ne detiene il 50% delle azioni, mentre nel frattempo è caposervizio della redazione della di Taranto Gazzetta del Mezzogiorno sotto contratto di esclusiva giornalistica. A proposito, sapete chi intervista sempre il sindaco Melucci ? Ca va sans dire Mimmo Mazza! Ventimila euro di soldi dei contribuenti elargiti dal sindaco Melucci alla società del Mazza, la Edizioni Joniche s.r.l.s, amministrata da tale Ignazio Stasi , a lungo stretto collaboratore di uno dei due fratelli Cardamone, (editori falliti dell’emittente tv locale Studio 100), per aderire al progetto editoriale “PartecipiAmo Taranto”, che gli uffici del sindaco definiscono “un piano strutturato e capillare dedicato a tutte le novità che riguardano il futuro della città, passando per il lavoro del Civico Ente”. Il progetto del Mazza che ha “appassionato” il sindaco di Taranto nello specifico, come si legge nella determina si compone dei seguenti punti: Ma evidentemente i vertici dell’ Assostampa di Puglia, sempre pronti ad attaccare il nostro giornale e direttore, nascondendosi dietro l’ “esimente sindacale” e fiancheggiati dal comitato di redazione della Gazzetta del Mezzogiorno , hanno la memoria corta o il prosciutto sugli occhi e si lamentano e protestano soltanto quando ricordiamo loro il memorabile titolo “La Mazzetta del Mezzogiorno” pubblicato anni fa dal quotidiano La Repubblica allorquando venne arrestato un direttore del quotidiano barese! Per non parlare poi del “distratto” e “silenzioso” Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, presso il quale risulta un procedimento disciplinare nei confronti del Mazza avviato a seguito di un esposto del Consiglio Nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti nei confronti del giornalista di San Marzano “reo” di aver “minacciato” epistolarmente (come sua abitudine) il Consiglio Nazionale di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti. Cosa diranno adesso l’ Assostampa di Puglia, il CdR della Gazzetta del Mezzogiorno ed il Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia ? A loro ricordiamo qualcosa, e cioè quanto previsto e contemplato dalla Carta dei Doveri del Giornalista: Ma non solo, con l’occasione poniamo pubblicamente alcune domande alla collega pensionata Tea Sisto, attuale presidente del Consiglio di Disciplina in Puglia, che abbiamo cercato invano di contattare, in quanto risulta irreperibile anche presso l’ Ordine pugliese:

1.    è deontologicamente corretto farsi pagare “uno spazio quotidiano all’interno del palinsesto con conduzione in studio ospiti, collegamenti, interviste ed approfondimenti sulle attività dell’amministrazione comunale di Taranto, in onda dal lunedì al venerdì per n.2 mesi”?

2.    è deontologicamente corretto farsi pagare per realizzare “postazioni sul luogo dell’evento e i nostri inviati si occuperanno di realizzare interviste ai protagonisti e nel backstage“.

3.    è deontologicamente corretto farsi pagare per realizzare un piano “editoriale” che prevede anche la diffusione attraverso il sito internet e i canali social dell’emittente. Clip video, notizie, foto, annunci, resoconti, interviste e curiosità su tutti affrontati e on demand per tutti gli utenti.

4.    chi sono i giornalisti che lavorano per la società del “sindacalista” Mazza ? Sono tutti assunti e regolarmente retribuiti secondo CNLG?

Arriveranno delle risposte? Adesso di questa vicenda se ne occuperanno il Consiglio Nazionale di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti, la Direzione Generale Affari Civili del Ministero di Giustizia ed il Tribunale di Bari, dato il conflitto d’interessi in essere con il Consiglio di Disciplina pugliese attualmente indagato dalla Procura di Bari a seguito di una mia denuncia, e quindi il nostro esposto dovrà essere assegnato ad un altro ordine territoriale. Abbiamo rintracciato telefonicamente la Sisto ma si è rifiutata di risponderci e molto maleducatamente non solo ci ha chiuso il telefono in faccia, bloccandoci anche su WhatsApp, ma addirittura ha oscurato la visione del suo profilo Facebook ! Cosa avrà mai da nascondere? E questa giornalista pensionata dovrebbe occuparsi di far rispettare la disciplina ai giornalisti pugliesi ? Ma per favore ….!

Il Tribunale ha deciso: la Gazzetta del Mezzogiorno deve cessare l’attività il 20 novembre. Il Corriere del Giorno il 4 Novembre 2020. il provvedimento firmato dal giudice dr.ssa Simone, presidente del collegio della sezione fallimentare del tribunale di Bari, giudice delegato della procedura spiega che “la prosecuzione è stata autorizzata nei limiti della sostenibilità economica” mentre i curatori hanno segnalato che invece ad oggi, la gestione continua a perdere 6-8 mila euro al giorno , producendo un ulteriore passivo per circa 240mila euro al mese. La sezione fallimentare del Tribunale di Bari ha deciso e disposto la cessazione dell’esercizio provvisorio alla data del 20 novembre prossimo per Edisud, la società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno, che era stata dichiarata fallita nel giugno scorso per perdite stimate in oltre 46 milioni di euro. I giudici motivano nel provvedimento che i curatori fallimentari nell’ultima relazione depositata lo scorso 15 ottobre, “pur evidenziando il progressivo ridimensionamento dei costi, hanno segnalato che nei prossimi mesi la situazione è destinata a peggiorare in modo considerevole“. L’esercizio provvisorio infatti era stato disposto solo “in considerazione del grave danno derivante dall’interruzione dell’attività aziendale per i dipendenti e la comunità che usufruisce dei servizi” come evidenziato dalla Procura di Bari nell’istanza di fallimento. Il nuovo provvedimento firmato dal giudice Raffaella Simone, presidente del collegio della sezione fallimentare del tribunale di Bari, e giudice delegato della procedura, spiega che “la prosecuzione è stata autorizzata nei limiti della sostenibilità economica” mentre i curatori fallimentari Michele Castellano e Gabriele Zito  hanno segnalato che invece ad oggi, la gestione continua a perdere 6-8 mila euro al giorno , producendo un ulteriore passivo per circa 240mila euro al mese.

Imbarazzante a questo punto il comunicato del Comitato di Redazione del giornale fallito, che si aspetta ed auspica “che a breve il tribunale fallimentare emani un provvedimento che consenta la prosecuzione dell’attività anche dopo il 20 novembre e fino a quando ci sarà una nuova proprietà stabile. Due sono le urgenze: che il giornale resti in edicola e che siano salvaguardati i posti di lavoro“. Qualcuno evidentemente non ha spiegato a questi signori che un Tribunale può e deve solo applicare le norme di legge, e certamente non può e non deve tantomeno piegarsi ai “dictat” ed annunci sindacali. Nel provvedimento si dà atto che “salvo un lieve miglioramento entro la fine di ottobre, per incassi di competenze dei mesi di luglio e agosto, nei prossimi mesi la situazione è destinata a peggiorare in modo considerevole“. Anche perchè ad esempio perdere 240 mila euro in 4 mesi, costituisce un ulteriore milione di euro di perdite. Di qui la giusta decisione adottata di cessare l’esercizio provvisorio. La storia societaria della Edisud è piena di enormi sprechi e perdite milionarie (nonchè di un vertiginoso calo delle vendite e della pubblicità), sulla quale cui i pm Lanfranco Marazia e Luisiana Di Vittorio con il coordinamento del procuratore facente funzione Roberto Rossi hanno cercato di fare luce e giustizia. L’inchiesta per la bancarotta della Gazzetta del Mezzogiorno delegata dalla Procura di Bari al Nucleo di polizia economico- finanziaria della Guardia di Finanza, si incrocia con le indagini sui crac della Banca Popolare di Bari e del Gruppo Fusillo, in quanto coinvolge degli aumenti di capitale della Edisud spa, effettuati da alcuni soci proprio con i soldi della Popolare, ma anche di eventuali e possibili distrazioni di denaro, che hanno portato le due società (compresa la Mediterranea, proprietaria della testata e concessionaria per la pubblicità) ad accumulare debiti per 46 milioni. La Procura di Bari a seguito alla luce della disastrosa situazione finanziaria emersa a maggio ha chiesto il fallimento di Edisud e Mediterranea disponendo perquisizioni a giugno nella sede delle società e nei confronti di Franco Capparelli, (uomo di fiducia dell’ex editore Mario Ciancio di Sanfilippo ) ex direttore di entrambe le aziende ed al momento unico iscritto nel registro degli indagati. La vicenda penale a sua volte si è incrociato con le sentenze di fallimento firmate a giugno dal Tribunale Fallimentare civile di Bari. Per far sopravvivere il giornale, entro il 20 novembre dovrebbe essere perfezionata la procedura relativa al fitto del ramo d’azienda, il cui bando sarà pubblicato a breve, probabilmente oggi stesso. Sarebbero quattro gli imprenditori che a seguito dell’ istanza di fallimento depositata a giugno, hanno chiesto al Tribunale di accedere alla documentazione di Edisud, per verificare la possibilità di prendere il posto dei curatori, a loro volta subentrati ai commissari. Sono la Tosinvest del Gruppo Angelucci (che in passato è stato già socio al 30% e ha più volte tentato di acquistarne tutte le quote); il Gruppo Ladisa, dell’omonima famiglia di imprenditori baresi; la Cisa spa di Massafra di Antonio Albanese (attualmente a processo e plurindagato) imprenditore abituato a rilevare aziende fallite ; l’ Ecologica Spa di Vito Miccolis. Al bando potrebbe partecipare persino la cooperativa costituita dai giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno, ma molto dipenderà dai requisiti di garanzia economica imposta dal Tribunale, soprattutto dalla forza economica necessaria che si richiederà. Una forza che difficilmente i giornalisti potrebbero avere.

Ecco perchè diventa sempre più difficile salvare la Gazzetta del Mezzogiorno. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 9 Novembre 2020. L’ unico vero compito del Tribunale Fallimentare del Tribunale di Bari e dei curatori nominati è quello di tutelare i creditori che avanzano oltre 50 milioni di euro, importo che costituisce la massa fallimentare, così come unico dovere dei curatori è quello di rispettare le procedure previste dal diritto fallimentare, che non prevede ed include il parere dei sindacati. I lettori di questo giornale che ho la fortuna, il piacere e l’onore di dirigere da oltre 6 anni mi perdoneranno, ma mi tocca soffermarmi a parlare e ragionare pubblicamente sulla crisi che ha portato alla prossima chiusura fissata del quotidiano barese per il prossimo 20 novembre dai curatori del Tribunale di Bari, sezione fallimentare. La mia analisi, lo confesso è sofferta, perchè io alla Gazzetta del Mezzogiorno ci sono pressochè nato e cresciuto, in quanto mio padre vi è stato a lungo caporedattore della sede di Taranto sotto la direzione “storica” ed autorevole di quel grande giornalista che è stato Oronzo Valentini. Quindi nonostante gli attacchi violenti ricevuti quest’estate dal CdR , le ridicole denunce ricevute da uno squallido personaggio che cerca di usare la propria tessera sindacale come arma (inutile) o causa esimente (per scappare dalle proprie responsabilità penali in Tribunale, che avevano come fine supremo quello di far sequestrare la nostra testata) è doveroso occuparci di raccontare e commentare questa profonda irreversibile crisi aziendale. I giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno nei giorni scorsi hanno manifestato pubblicamente “forti perplessità rispetto all’attuale fase della procedura fallimentare della Edisud spa, società che edita il quotidiano leader di Puglia e Basilicata, di cui è stata recentemente sancita l’interruzione dell’esercizio provvisorio che dal 15 giugno, data della dichiarazione di fallimento, ha garantito la regolare uscita in edicola“. E’ divertente leggere l’autocelebrazione “quotidiano leader” quando non realtà non lo è più da molto tempo, altrimenti non sarebbero falliti.

Sarebbe interessante verificare se i giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno sappiano di procedura fallimentare più loro dei curatori fallimentari nominati dal Tribunale. Perchè in questo caso hanno sbagliato mestiere, e spiegherebbe ancora meglio come mai il giornale si è ridotto a vendere qualche migliaio di copie in un bacino di lettori di oltre 7milioni e mezzo di potenziali lettori, cioè i cittadini di Puglia e Basilicata. Secondo i giornalisti la sopravvivenza della “Gazzetta” sarebbe legata agli esiti di un bando per l’affitto del ramo di impresa della Edisud che, ad un sommario esame, contiene non solo grossolani refusi e omissioni di documenti fondamentali, ed a loro dire “clausole che non garantiscono – anzi forse scoraggiano – la più ampia partecipazione dei soggetti che pure si sono dichiarati interessati a rilevare la testata”. A loro dire sarebbe stato previsto dal bando della curatela fallimentare “poco tempo disponibile per chi volesse tentare, tramite un accordo con le Rappresentanze Sindacali, di circoscrivere il perimetro del ramo di azienda da affittare, e del mancato accordo tra la curatela Edisud e la curatela della Mediterranea, società proprietaria della testata “La Gazzetta del Mezzogiorno”, essa pure fallita” cioè in poche parole secondo il CdR della Gazzetta i sindacati dovrebbero avere voce in capitolo in una procedura fallimentare. Qualcosa di inaudito! I giornalisti della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO sostengono che “non intendono in alcun modo interferire con le prerogative che la Legge Fallimentare affida al Tribunale e agli organi della procedura e sono ben consci che l’obiettivo di una procedura concorsuale è la soddisfazione dei creditori” aggiungendo che hanno tuttavia “l’obbligo di segnalare che dalla procedura sarebbe ragionevole attendersi un esito – quale che sia – capace di garantire la continuità dell’informazione prodotta dalla Gazzetta negli ultimi 133 anni“. La Federazione nazionale della Stampa italiana e le Associazioni della Stampa di Puglia e Basilicata “sostengono la protesta della redazione della Gazzetta del Mezzogiorno. Per questo – si legge in una nota – tornano a chiedere chiarezza ai curatori fallimentari. La fine dell’esercizio provvisorio, fissato al 21 novembre prossimo, e il bando per l’affitto della testata rischiano, vista anche l’esiguità del tempo a disposizione, di avere come unico effetto la sospensione sine die delle pubblicazioni del quotidiano” Per il sindacato, si tratterebbe di “un epilogo tragico sotto il profilo occupazionale, che priverebbe l’informazione meridionale di uno storico e autorevole pilastro. In questa fase drammatica tutti devono dimostrare senso di responsabilità. A cominciare dai curatori di Edisud spa e Mediterrenea spa, chiamati a porre le basi per assicurare alla Gazzetta del Mezzogiorno un futuro degno della sua storia e ai lavoratori certezze e garanzie occupazionali. È necessario che tutti si mobilitino“.  In realtà unico compito del Tribunale è quello di tutelare i creditori che avanzano oltre 50 milioni di euro, importo che costituisce la massa fallimentare, così come unico dovere dei curatori è quello di rispettare le procedure previste dal diritto fallimentare, che non prevede ed include il parere dei sindacati. Quello che i sindacati non spiegano però nel loro solito inutile comunicato sindacale è chi dovrebbe ripianare le ulteriori perdite maturate nel periodo di esercizio provvisorio. Noi auguriamo alla storica testata di continuare nella sua attività giornalistica, riuscire a recuperare credibilità attraverso una maggiore diffusione nella vendita di copie in edicole. Anche perchè senza fare del giornalismo di interesse dei lettori, non si va da nessuna parte.

Le menzogne della Gazzetta del Mezzogiorno e dell’ Assostampa Puglia. Antonello de Gennaro il 14 Agosto 2020 su Il Corriere del Giorno. Ancora una volta mi vedo costretto a difendermi, giornalisticamente e legalmente dalle diffamazioni, menzogne e calunnie del sindacato giornalistico pugliese e dei loro “sodali” della Gazzetta del Mezzogiorno, dopo le infamanti accuse pubblicate oggi a firma del Comitato di Redazione e dell’ Assostampa di Puglia, il cui presidente Bepi Martellotta ed il suo vice Mimmo Mazza lavorano entrambi nel giornale barese “fallito“. E’ dal 1 giorno delle nostre pubblicazioni online che il sindacato dei giornalisti chiede la nostra chiusura, persino il sequestro giudiziario, manifestando una palese ignoranza legale, in quanto una testata giornalistica non può essere posta sotto sequestro. Secondo la Suprema Corte, un giornale online può essere assimilabile al concetto più ampio di “stampa” e “soggiace alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l’attività di informazione professionale diretta al pubblico”. Gli ermellini aggiungevano inoltre che “Il giornale online, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa”. A stabilirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione, con una sentenza depositata dalle Sezioni Unite penali. Una testata giornalistica pubblicata sul web non può dunque essere mai oggetto di sequestro preventivo per reato di diffamazione a mezzo stampa, così come è già previsto per le edizioni cartacee. E’ strumentale e falso che il sottoscritto abbia definito il giornale barese come la”Mazzetta del Mezzogiorno” perchè “i giornalisti della gloriosa Testata sarebbero abituati a prendere mazzette“. Il riferimento, invece contrariamente a quanto si vuol fare credere dai vari sindacalisti all’opinione pubblica, era (ed è stato più volte ricordato in diverse dirette anche precedenti) ad uno “storico” titolo pubblicato dal quotidiano La Repubblica, in occasione dell’arresto di un direttore della “gloriosa Testata“: la Gazzetta del Mezzogiorno. Come mai non hanno protestato a suo tempo? Le aggressioni legali, epistolari, verbali compiute dal “sindacalista” Mimmo Mazza nei confronti del sottoscritto, utilizzando la sua veste (si fa per dire…) di vice presidente dell’ Assostampa di Puglia, usando persino il suo legale difensore, i suoi collaboratori, sua moglie Sabrina Brescia attualmente sotto processo penale per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del sottoscritto, per danneggiare la mia attività professionale e quella editoriale del giornale da me diretto, non merita alcun commento ma solo tante tante querele e citazioni per danni. Gli “amici”… sindacalisti dimenticano di scrivere e raccontare che in realtà sotto processo per “violazione del segreto istruttorio” ci sono Giuseppe De Tommaso, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno per “violazione del segreto istruttorio” insieme al collaboratore di Taranto, Vittorio Recapito che segue la cronaca giudiziaria, dinnanzi al Tribunale di Bari, processo per il quale il sottoscritto è “parte offesa“. Gli “amici”… sindacalisti dimenticano di scrivere e raccontare che il loro amico e sodale Mimmo Mazza, violando il Codice Deontologico, che loro richiamano nei miei confronti, proprio mentre la Gazzetta del Mezzogiorno lottava per non chiudere cessare le proprie pubblicazioni, e mentre invitava i lettori a sostenerla mediante l’ acquisto di più copie in edicola e di fare pubblicità, pur avendo un contratto di esclusiva con il giornale barese , ha costituito nel febbraio 2019 a Taranto la società EDIZIONI JONICHE srls, dall’imponente capitale sociale di 500 euro (ah…quale grande investimento imprenditoriale sul territorio jonico !!!) della quale il Mazza come risulta documentalmente detiene a proprio nome il 50% delle azioni, come vi documentiamo nella visura camerale pubblicato sotto (vedi pag. 4). La società partecipata dal Mazza, dopo appena un mese dalla sua costituzione, ha incassato nel maggio 2019 la bellezza di 10mila euro di pubblicità dal Comune di Taranto per Radio Cittadella, emittente semiclandestina (nel senso che non la sente praticamente nessuno!) di proprietà della Curia Arcivescovile di Taranto attraverso la Fondazione Cittadella della Carità. Combinazione vuole che Mazza che si autodefinisca “cronista giudiziario” ma all’improvviso diventa “giornalista politico” ed intervista il Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci ! Il nostro amico Pinuccio inviato di Striscia la Notizia a questo punto direbbe : “coincidenzeeee” !!!! Soldi incassati dal Comune di Taranto, distratti potenzialmente anche dalle possibili ulteriori entrate pubblicitarie della Gazzetta del Mezzogiorno, che è bene ricordare esce in esercizio straordinario per non cessare le pubblicazioni e si regge solo sulle vendite ed incassi pubblicitari, affidate in favore del Mazza e dalla sua società (priva peraltro di un reale ufficio e di una vera sede legale) ad un attività editoriale concorrente alla Gazzetta. In passato sempre per delle operazioni pubblicitarie che definire “markette” è dir poco, il Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia (attualmente indagato dalla Procura di Bari a seguito di mia denuncia) aveva lasciato prescrivere il procedimento intrapreso nei confronti del Mazza. Guarda caso, nel collegio giudicante…coincidenza della vita… c’era proprio Vittorio Ricapito ed un altro collaboratore barese della gazzetta del Mezzogiorno ! Come mai oggi la Gazzetta non racconta ai propri lettori che il loro caro amico-sodale-sindacalista Mimmo Mazza è sottoposto a procedimento disciplinare a Bari, su istanza del Consiglio Nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti, per aver egli “minacciato” come nel suo consueto modus operandi anche il Consiglio Nazionale di Disciplina? Lasciatemelo dire, cari lettori, pubblicamente, ed anche di rivolgermi al CdR della Gazzetta e dell’ Assostampa di Puglia: ma voi il nostro Codice Deontologico lo avete mai letto ? Nei fatti sembrerebbe di no, E sopratutto perchè non ne chiedete l’applicazioni nei confronti del vostro caro “amico-sodale” Mazza, con la stessa foga con cui attaccate e minacciate il sottoscritto? E dove eravate quando Marco Travaglio del palco del Concertone del 1 Maggio a Taranto, disse sul palco davanti a decine di migliaia di persone che “i giornalisti di Taranto non sono liberi in quanto comprati dalla pubblicità“ ? Cosa è peggiore : farsi dare del “markettaro“, o giudicare un quotidiano usando una delle parole più comuni nella politica e nell’informazione televisiva come “merda“, termine del resto che in tv si usa citare per augurare ogni successo ad una trasmissione-programma televisivo? E cosa dire poi di quando Mazza minacciava via mail la società Terna spa, nostro inserzionista pubblicitario da anni, come da me comprovato documentalmente nel processo che ci vede contrapposti con il sindacalista in questione a Roma, millantando l’intervento punitivo e mediatico dell’ Ordine dei Giornalisti e dell’ Assostampa di Puglia, nei confronti della società elettrica qualora avesse continuato ad essere nostro inserzionista pubblicitario ? E’ questo forse il concetto di concorrenza, di rispetto per il lavoro giornalistico altrui, per il rispetto del diritto d’impresa, radicato nei sindacalisti della Gazzetta del Mezzogiorno ? E’ questa la libertà di stampa che chiedete a gran voce pur di non restare disoccupati, ginuflettendovi con il cappello in mano dinnanzi alla politica (leggasi: Conte, Boccia, Emiliano ecc.)? Sarebbe molto interessante sapere se i giornalisti che si sentono offesi, hanno mai fatto chiarezza su chi siano stati i loro colleghi ad essere lautamente e profumatamente pagati come consulenti dalle Ferrovie Sud Est, e magari svelare e rendere noto anche chi siano stati quei giornalisti accorsi alla corte di Michele Emiliano per riferirgli che lo stavano indagando, invece di scriverlo sul proprio giornale! Potrei continuare a lungo, ma preferisco farlo nelle opportune sedi giudiziarie dove i responsabili dell’ennesimo volgare e strumentale attacco sindacale nei miei confronti verranno chiamati a rispondere. Sono tutti quesiti questi a cui nessuno di voi del CdR della Gazzetta e dell’ Assostampa di Puglia avrete mai il coraggio di rispondere pubblicamente e spiegarlo magari a quei quattro gatti che ancora vi leggono (appena 9.000 copie vendute al giorno in Puglia e Basilicata, in un bacino di 6 milioni di potenziali lettori). Vorrà dire che lo farete davanti ai giudici. Molto presto.

La vertenza "Gazzetta del Mezzogiorno" non si è ancora risolta: il messaggio della redazione ai lettori. Il Corriere del Giorno il 16 Febbraio 2020. E’ incredibile leggere i dati pubblici di diffusione e verificare che la Gazzetta del Mezzogiorno a dicembre 2018 ha venduto appena 14.244  copie in una bacino di lettori (Puglia e Basilicata) di oltre 5 milioni di persone. Con un comunicato del CdR pubblicato ieri il quotidiano siculo-barese si è rivolta ieri ai propri lettori: “Cari Lettori, dopo un lungo silenzio torniamo a parlarvi in prima persona della “Gazzetta” per dirvi che nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore, si decide la sopravvivenza del vostro e nostro giornale. Negli ultimi mesi abbiamo scelto di dedicare ogni energia per garantire un’informazione sempre più completa e allo stesso tempo condurre in silenzio e con spirito di sacrificio una lunga e difficile trattativa per contribuire a costruire il futuro della testata. Ma neanche questo senso di responsabilità è bastato“. Il comunicato così continua: “La «Gazzetta» è affidata a una gestione commissariale dall’ottobre del 2018, a seguito dell’inchiesta giudiziaria per presunto concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Mario Ciancio Sanfilippo, azionista di maggioranza dell’Edisud spa, società editrice del giornale. Ricordiamo che la testata, in ogni sua articolazione, è totalmente estranea al merito dell’inchiesta condotta dalla Procura di Catania, che ha chiesto e ottenuto il sequestro-confisca anche del pacchetto azionario della Edisud. In questi lunghi mesi abbiamo accettato il taglio delle nostre retribuzioni per consentire al nuovo consiglio di amministrazione di riequilibrare i conti. Analogo sforzo è stato compiuto dagli altri lavoratori del giornale. In questo modo il nuovo Cda, nominato dal Tribunale di Catania, ha potuto mettere a punto un concordato a garanzia dei creditori della Edisud spa“. “Questo lungo e faticoso percorso rischia di fermarsi all’ultimo miglio: la Edisud potrebbe ritirare la procedura di concordato in assenza delle indispensabili garanzie finanziarie. Sarebbe una brusca frenata che interromperebbe il difficile percorso di risanamento dell’azienda e di rilancio dell’iniziativa editoriale“. “A pagare il conto di questo stallo, alla fine, perdendo il giornale, saremmo noi lavoratori e le comunità di Puglia e Basilicata alle quali ogni giorno continuiamo a dedicare tutto il nostro impegno. Abbiamo sentito il dovere di informarvi, oggi, anche per evitare una beffa: prolungare il silenzio potrebbe far credere che la crisi del giornale sia risolta. In verità, in questi mesi abbiamo sempre ritenuto che il nostro lavoro fosse dar voce alle difficili storie del Mezzogiorno, non utilizzare queste pagine per parlare di noi”. Il comunicato-appello sindacale  così conclude:  “Adesso conta una sola cosa: fare presto. Per anni le imprese e la società civile delle nostre regioni hanno potuto contare sulla «Gazzetta», ora è il giornale che ha bisogno di sostegno. E non è più tempo di tavoli politici perché i tempi della politica non sono più conciliabili con i nostri. In queste ore i giornalisti stanno dialogando con i consiglieri di amministrazione nominati dal Tribunale di Catania, con l’azionista di minoranza dell’Edisud, il prof. Valter Mainetti, nonché con tutti gli interlocutori in grado di scongiurare la scomparsa di una delle più autorevoli voci del panorama editoriale italiano e meridionale in modo particolare.Vi diamo appuntamento a breve, cari Lettori. Non lasceremo nulla di intentato e siamo pronti a difendere con ogni mezzo a nostra disposizione il valore accumulato dalla «Gazzetta» in quasi 133 anni di storia.“ E’ inutile dirvi che il nostro giornale fa il tifo per la permanenza in edicola dalla Gazzetta del Mezzogiorno, così come si augura che vengano persi meno posti di lavoro possibili, anche se per mandare avanti un’azienda editoriale, sopratutto inutilmente mastodontica come quella del quotidiano barese, saranno necessari dei tagli drastici. Noi tifiamo per la Gazzetta della Mezzogiorno, nonostante le diffamazioni subite , nonostante le rettifiche da noi richieste non pubblicate, nonostante le “porcate” pseudo giudiziaire attuate da un loro giornalista impegnato nell’attività sindacale in Puglia, il quale ha chiesto per oltre 20 volte nelle proprie denunce alla magistratura di sequestrare il nostro giornale  (!!!) manifestando i propri noti limiti di competenza giuridica e giudiziaria e quindi di ignoranza specifica, in quanto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sancito con una propria sentenza del 2015  che non si può sequestrare una testata affermando che “non può essere sottoposta a sequestro preventivo una testata giornalistica telematica”! Parliamo dello stesso giornalista , cioè Mimmo Mazza, che con i suoi articoli diffamava la collega Caterina Bagnardi del quotidiano Taranto Buona Sera sostenendo che si fosse impossessata di fondi pubblici per l’editoria truffando lo Stato. Circostanza questa falsa e tendenziosa, che è stata smentita dal Tribunale competente. Chiaramente Mazza non ha mai chiesto scusa alla Bagnardi e tantomeno mai rettificato il suo articolo. Alla faccia del Codice Deontologico…..Lo stesso Mazza che nonostante sia vincolato da un contratto di esclusiva con la Gazzetta del Mezzogiorno, si è aperto nei mesi scorsi una società (priva di uffici e personale regolarmente contrattualizzato) di cui detiene il 50% delle quote, con cui fa l’editore ed il concessionario della pubblicità di Radio Cittadella a Taranto, di proprietà della Fondazione Cittadella della Carità, che oppone ogni tentativo di accesso agli atti amministrativi per nascondere i propri rapporti con Mazza ed i suoi “compagni di merende”. E guarda caso la Gazzetta del Mezzogiorno è diventata a Taranto molto più morbida ed “amica” degli inserzionisti di Radio Cittadella. A partire dal Comune di Taranto che ha subito stanziato 10mila euro di pubblicità (per la prima volta nella sua storia) . Coincidenze? Per non parlare poi dei molteplici collaboratori della Gazzetta che lavorano per enti, sindacati, società private ecc. in aperto conflitto di interesse ? E cosa fa il direttore del giornale barese per controllare questo vergognoso scempio deontologico dinnanzi al quale l’ Ordine dei Giornalisti e l’ Assostampa di Puglia tacciono in maniera “omertosa”? Con l’occasione lo chiediamo apertamente e pubblicamente al CdR della Gazzetta: è così che volete salvare il vostro giornale ? Come pensate di recuperare le decine di migliaia di lettori che avete perso in questi anni e che continuate a perdere giorno dopo giorno ancora oggi? E’ incredibile leggere i dati pubblici di diffusione e verificare che la Gazzetta del Mezzogiorno a dicembre 2019 ha venduto appena 14.244  copie perdendo 3mila copie rispetto allo stesso mese del 2018, in un bacino di lettori (Puglia e Basilicata) di oltre 5 milioni di persone. E solo chi fa questo lavoro sa quanto sia importante anche pubblicitariamente il mese di dicembre per i giornali! Comunque sia il nostro augurio è che presto tutto ciò possa finire trovando un editore serio, un nuovo direttore responsabile autorevole e capace di fare una bella “pulizia” interna di giornalisti e poligrafici inutili ed improduttivi. E’ solo così che si può salvare la Gazzetta del Mezzogiorno.  Non con i sit-in inutili e  patetici, i pellegrinaggi verso il “Palazzo” a Roma  ginuflettendosi ai politici. Un giornale indipendente deve restare libero, lontano ed indipendente dal potere politico. Quello che vince è il mercato, con le sue regole e norme. Chi decide l’importanza e la qualità di un giornale è il lettore quando va in edicola o si collega online. Cercate di mettervelo in testa una volta per tutte, cari colleghi della Gazzetta del Mezzogiorno . In bocca al lupo.

I giornalisti: «Ecco le cause di difficoltà della nostra "Gazzetta"». Cari Lettori, non c'è più tempo. Stiamo vivendo giorni drammatici per effetto di eventi che mettono in discussione l'esistenza stessa del giornale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Febbraio 2020. Cari Lettori, non c'è più tempo. La Gazzetta Del Mezzogiorno vive giorni drammatici per effetto di eventi che mettono in discussione l'esistenza stessa del giornale. La società editrice Edisud spa il 19 febbraio scorso ha rinunciato al concordato in bianco, procedura che le permetteva di evitare il fallimento. Il concordato si fondava su due presupposti: un piano di sanguinosi tagli al costo del lavoro giornalistico e poligrafico e la presenza di garanzie finanziarie per 14 milioni di euro. Queste ultime erano state promesse dalla Banca Popolare di Bari, ora non più in condizione di mantenere gli impegni dopo l'inchiesta giudiziaria sull'istituto di credito e il successivo commissariamento. Nell'ultimo anno e mezzo abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per difendere il giornale e non ci riferiamo solo al sacrificio economico della nostra retribuzione falcidiata. Ci siamo opposti in tutti i modi a scelte editoriali e manageriali che si sono rivelate inutili e in alcuni casi dannose, esattamente come avevamo pronosticato. Scelte compiute in una inquietante continuità con la gestione già platealmente dissennata del periodo precedente al sequestro-confisca operato dal Tribunale di Catania il 24 settembre 2018. A Catania è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa Mario Ciancio Sanfilippo, proprietario del pacchetto di maggioranza della Edisud. In nessun modo la "Gazzetta" è coinvolta nel merito dell'inchiesta siciliana, della quale subiamo solo le conseguenze economiche e gestionali. Questa vicenda ha tanti protagonisti. Gli ultimi sono Angelo Bonomo, Luciano Modica, Fabrizio Colella, Claudio Sonzogno, Valter Mainetti. Ma anche Franco Capparelli. E pure il gruppo editoriale che fa capo al presidente della Fieg, Riffeser. E adesso Giampaolo Angelucci. Proviamo a presentarveli uno alla volta. Angelo Bonomo e Luciano Modica sono i commissari siciliani nominati dal Tribunale di Catania a gestire la "Gazzetta". Lo hanno fatto per i primi sei mesi del loro incarico in accordo con Franco Capparelli, già direttore generale nominato da Ciancio Sanfilippo fin dal 2012. La loro ricetta per risolvere i problemi economici del giornale era di dimezzare in modo lineare gli stipendi dei lavoratori. Proposta alla quale ci siamo opposti. A fatica abbiamo ottenuto dalle autorità giudiziarie di Catania la sostituzione di Capparelli: alla sua gestione dobbiamo consulenze tanto costose quanto ininfluenti e altre decisioni di analogo tenore. Ora nel cda dell'Edisud siedono, con Bonomo, il commercialista barese Fabrizio Colella e Claudio Sonzogno in rappresentanza, quest'ultimo, del socio di minoranza Valter Mainetti. E proprio Mainetti, uomo d'affari impegnato nel settore immobiliare, era pronto a prendere il controllo della Edisud una volta andato a buon fine il concordato, ritirato invece solo una settimana fa. Che cosa succede adesso? Mainetti, informalmente, si è impegnato a garantire con un milione di euro la gestione ordinaria per le prossime settimane, con l'obiettivo di ripresentare il concordato in tempi stretti. Confindustria Puglia e Confindustria Basilicata si sono impegnate nel rispondere all'appello di formare una cordata di imprenditori locali che offra le famose garanzie per 14 milioni di euro venute meno con il commissariamento della Banca Popolare di Bari. Ma c'è un altro fronte e lo ha aperto Giampaolo Angelucci, imprenditore nazionale del settore sanitario ed editore di Libero, de Il Tempo e di alcuni quotidiani locali tra Umbria, Lazio e Abruzzo. Angelucci aveva già presentato nel gennaio del 2019 una offerta di acquisto di ramo di azienda: si proponeva per rilevare la testata in cambio di 12 milioni di euro e dell'assorbimento di quasi tutta la forza lavoro del giornale. La sua offerta – alla quale il Tribunale di Catania non diede seguito - è stata ripresentata il 17 febbraio 2020 ma con condizioni mutate in peggio: con 5 milioni di euro propone di acquistare la testata, il sito internet e l'archivio storico per editare la "Gazzetta" con 30 giornalisti (a fronte degli attuali 74 in due regioni) e 4 poligrafici. Un'offerta migliorabile a fronte di un piano editoriale condiviso con la redazione, ha reso noto lo stesso Angelucci, informalmente, nel corso di un incontro. La sua proposta (formalmente avanzata dalla società Tosinvest) è ora sul tavolo di Colella, Bonomo e Modica. Evidentemente in concorrenza con i propositi di Mainetti (formalmente rappresentati dalla società Denver). E non sappiamo se nei prossimi giorni possano manifestarsi ulteriori cordate non necessariamente a sostegno del salvataggio della Edisud, bensì finalizzate all'acquisizione della sola testata e dei beni necessari alla pubblicazione di un giornale con 133 anni di storia. In questa narrazione vi abbiamo parlato di scelte manageriali inutili e dannose. L'elenco è lungo e doloroso e parte dai primi anni Duemila, con l'insensato investimento di 11 milioni di euro per una rotativa acquistata in anni in cui i centri stampa venivano chiusi in tutta Italia: doveva servire per stampare anche altri prodotti commerciali, nessun manager della Edisud negli ultimi 20 anni è riuscito in questa impresa. In compenso non sono mancate le generose consulenze, alcune ancora in corso, a dispetto dei sacrifici chiesti a quasi tutti i lavoratori del giornale. Quasi. Perché per qualcuno dei quadri amministrativi lo stipendio è rimasto, inspiegabilmente, praticamente intatto. Magari sull'esempio del consiglio di amministrazione di Edisud che il 19 luglio 2019 contestualmente all'avvio delle procedure di concordato deliberava anche compensi per se stesso (protagonisti Bonomo e Modica) per 180mila euro. Inutile e dannoso è stato chiudere le redazioni di Brindisi, Matera e da ultimo Barletta. Inspiegabile è stato lasciare la sede di proprietà di viale Scipione l'Africano a Bari e spendere 200mila euro l'anno per l'affitto di due piani in piazza Moro, continuando naturalmente a pagare le spese fisse del palazzo abbandonato. Scelte che nessun buon padre di famiglia farebbe, altro che manager. E anche questo è accaduto durante la gestione Capparelli. Autolesionista è stato accorpare le edizioni: pubblicare le pagine di Foggia e Barletta come di Taranto, Brindisi e Lecce in fascicoli promiscui, ha disorientato lettori e inserzionisti. Per questa scelta, la redazione – anche in disaccordo con il direttore Giuseppe De Tomaso – si è fermamente, quanto vanamente, opposta. Nella nostra vicenda, nonostante tutto, non è mai uscito di scena neppure Franco Capparelli, tuttora alla guida della società Mediterranea, incaricata della raccolta pubblicitaria ma praticamente inoperosa da due mesi in attesa di un passaggio di mano con la concessionaria di proprietà del presidente della Federazione editori, Andrea Riffeser Monti.

Ci fermiamo qui. Ma prendiamo l'impegno con voi Lettori di tenervi aggiornati su una vicenda che mantiene ancora profili di opacità e che mette a serio rischio la sopravvivenza del giornale. Ci aspettiamo che chi – a Catania, a Bari ma anche a Roma - ha la responsabilità di un bene collettivo come la "Gazzetta", prenda finalmente decisioni costruttive per scongiurare il peggio. Non è più tempo di tattiche sterili. Ribadiamo la nostra ferma volontà a difendere il vostro e nostro giornale con tutti gli strumenti legali e sindacali a nostra disposizione. 

Così è stato depotenziato il valore della «Gazzetta». L'ultimo taglio annunciato è quello dell'abbonamento all'agenzia di stampa Ansa, una fonte di informazioni verificate, la cui disdetta è stata allontanata solo di un mese. IL COMITATO DI REDAZIONE de La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Febbraio 2020. Cari Lettori, non c'è più tempo. La vostra e nostra "Gazzetta" è ogni giorno più debole e invece di ricevere sostegni e potenziamenti, subisce tagli ai rami produttivi e nevralgici. Ma noi non ci arrendiamo a una logica perversa che implica i risparmi sul prodotto giornalistico, ovvero il cuore di un giornale. Che pensereste di un ristorante stellato che decide di rinunciare allo chef, dimezzare la cucina e aumentare lo stipendio alla cassiera? Bene, è esattamente quello che succede nel giornale del quale adesso si denunciano conti in rosso, come se il deficit fosse frutto di un destino avverso. L'ultimo taglio annunciato è quello dell'abbonamento all'agenzia di stampa Ansa, considerato ormai un lusso: solo dopo una giornata di trattative la disdetta è stata allontanata di un mese. Ma l'Ansa, per una redazione, è una fonte di informazioni verificate, non un capriccio. E siamo certi che tale valutazione è condivisa anche da Claudio Sonzogno, consigliere di amministrazione (in rappresentanza del socio di minoranza Valter Mainetti), con un prestigioso passato alla direzione di importanti agenzie di stampa economiche, sia pure concorrenti della stessa Ansa. La notizia ci è stata comunicata dal direttore Giuseppe De Tomaso e ieri, sempre tramite il direttore, ci è stata notificata la proroga. Ma non siamo riusciti a risalire alle responsabilità di questa decisione. Nel momento in cui scriviamo, non sappiamo di chi è la paternità di una scelta a dir poco avventata e di cui necessariamente bisognerà chiedere conto. Dunque a pagare è ancora la parte produttiva della "Gazzetta". Nel segno di una soprendente continuità con un passato che non passa, in una situazione in cui tutto cambia per non cambiare niente. Colpire la redazione (ma anche i poligrafici) è stata l'attività sistematica di Franco Capparelli, dal 2014 direttore generale della Edisud nominato dall'editore siciliano Mario Ciancio Sanfilippo, azionista di maggioranza della società editrice sottoposto a provvedimento di sequestro-confisca delle azioni nell'ambito di una inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. I contenuti dell'inchiesta condotta dalla Procura di Catania, non hanno niente a che fare con l'attività della Gazzetta del Mezzogiorno. Il provvedimento di sequestro del Tribunale di Catania è datato 24 settembre 2018. A cavallo di questa data, l'azienda condotta da Capparelli disponeva di costosi consulenti di sua fiducia, che si muovevano su auto di lusso, godendo di rimborsi spese per soggiorni in prestigiose residenze alberghiere a Bari. Contemporaneamente, tuttavia, la società non ottemperava a importanti versamenti dovuti per legge. Fin dal 2017, ben prima del sequestro, non sono state versate le quote del trattamento di fine rapporto dei dipendenti. E nemmeno i contributi previdenziali, le imposte e i crediti verso fornitori e banche. Dall'ottobre del 2018 la responsabilità legale della Edisud è passata nelle mani di Angelo Bonomo e Luciano Modica, nominati dal Tribunale di Catania. Di fronte a una gestione come sopra descritta, i due commissari hanno deciso di farsi affiancare proprio da Franco Capparelli. Senza che la lettura dei libri contabili turbasse questa scelta. E che cosa raccontano le carte a disposizione dei commissari fin dai primi giorni? Dal 2017 al 2018 il patrimonio netto è calato di ben 13 milioni di euro, con perdite nell’utile di esercizio passate da -3,9 milioni del 2017 a -16,8 milioni del 2018. Come evidenzia la relazione del Collegio sindacale, verbalizzata a Catania il 9 luglio 2019, si tratta di una perdita “fortemente influenzata dalla svalutazione di partecipazioni” per circa la metà (8,1 milioni). Dunque non perdite dovute alla crisi dell’editoria, al calo delle copie vendute o del fatturato pubblicitario. Da un anno all’altro sono stati lasciati pressocché invariati gli altri debiti (con i fornitori e con le banche) ma tra il 2017 e il 2018 sono aumentati quelli nei confronti dello Stato (debiti tributari, passati da 3,4 a 5,5 milioni) e degli Enti previdenziali (da 4,8 a 6,4 milioni). Le partecipazioni in imprese controllate si sono svalutate, in un solo anno, da 27,4 milioni a 19,7 milioni (a conferma di quanto evidenziato dal Collegio sindacale), con il valore delle immobilizzazioni finanziarie sceso complessivamente da 28,3 a 20,2 milioni di euro. Insomma, i tecnicismi contabili raccontano una verità: la società guidata da Capparelli, nell'anno e mezzo precedente al sequestro, ha appesantito i bilanci in maniera esponenziale e non certo per una crisi di vendite delle copie o dei ricavi pubblicitari. Capparelli resta in sella fino all'estate del 2019, a quasi un anno dal sequestro, quando solo dopo una pressante insistenza dei giornalisti della "Gazzetta" esce di scena dalla Edisud per volontà del Tribunale di Catania. Ma uscito dalla porta è rientrato dalla finestra, posto alla presidenza della società Mediterranea, controllata dalla Edisud e incaricata di una raccolta pubblicitaria che registra negli ultimi mesi un calo vertiginoso ben superiore alle medie del settore. E, come se non bastasse, la Mediterranea è anche la "cassaforte" del giornale detenendo la proprietà del bene più prezioso: la testata "La Gazzetta Del Mezzogiorno", il marchio storico di un giornale che dopo 133 anni non merita di essere smembrato come sta accadendo dal 2012, favorendo di fatto la concorrenza. La Mediterranea fino a questi giorni si è occupata della raccolta pubblicitaria anche per il Corriere del Mezzogiorno, dorso locale del Corriere della Sera. E proprio il Corriere del Mezzogiorno dedica nuove pagine al territorio di Matera subito dopo la chiusura della redazione materana della "Gazzetta". Stesso schema per Barletta: il nostro giornale chiude il presidio redazionale sul territorio del Nord Barese e il quotidiano la Repubblica inaugura pagine di cronaca specifiche per quell'area. I giornalisti della "Gazzetta" hanno l'orgoglio di aver raccontato per decenni le vicende di quei territori. Evidentemente è un sentimento che non appartiene a Franco Capparelli, Angelo Bonomo e Luciano Modica. 

«Gazzetta», ecco le decisioni che hanno aggravato la crisi. Fnsi: il tempo è scaduto. «Ci siamo opposti, finché abbiamo potuto, a tutte le scelte gestionali che si sono rivelate puntualmente scellerate. Alcune delle quali sono state anche segnalate alle autorità giudiziarie». La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Febbraio 2020. Cari Lettori, non c'è più tempo. E lo abbiamo spiegato a coloro che in queste ore si stanno interessando e anche appassionando alle vicende che potrebbero portare la "Gazzetta" a una chiusura. Ipotesi contro la quale lotteremo con tutte le nostre forze e con quelle di chi vorrà condividere questa difficile prova. Nell'ultimo anno e mezzo abbiamo accettato responsabilmente (insieme ai poligrafici) di fare la nostra parte per contribuire all'equilibrio dei conti e alla sostenibilità dell' Edisud, la società editrice. Abbiamo accettato sacrifici economici importanti, anche se inspiegabilmente alcuni quadri amministrativi godevano di una condizione di miglior favore e alcuni manager e consulenti ritiravano lo stipendio pieno spostandosi in auto di lusso con rimborsi a pie' di lista, a spese di una azienda descritta come in difficoltà. Raccontiamo questi dettagli solo per offrire un quadro completo della situazione, non per vittimismo. Ma nell'ultimo anno e mezzo abbiamo anche fatto altro, e lo rivendichiamo con orgoglio: ci siamo opposti, finché abbiamo potuto, a tutte le scelte gestionali che si sono rivelate puntualmente scellerate. Alcune delle quali sono state anche segnalate alle autorità giudiziarie. Nell'ultimo anno e mezzo l'Edisud è stata affidata, dal Tribunale di Catania, in forma commissariale ai consulenti siciliani Angelo Bonomo e Luciano Modica che da subito hanno continuato ad avvalersi di Franco Capparelli, direttore generale nominato fin dal 2014 da Mario Ciancio Sanfilippo, il cui pacchetto azionario di maggioranza della società è sottoposto dal 24 settembre 2018 a sequestro-confisca per effetto di una imputazione per concorso esterno in associazione mafiosa (inchiesta nella quale la "Gazzetta" è totalmente estranea). Il peso dei debiti pregressi ha portato la società a chiedere un concordato prenotativo, poi ritirato il 19 febbraio scorso al Tribunale fallimentare di Bari. Per evitare il fallimento serve un impegno concreto del socio di minoranza Valter Mainetti: venuto meno il sostegno finanziario della Banca Popolare di Bari, Mainetti deve decidere nelle prossime settimane se garantire una nuova procedura con proprie sostanze o rinunciare definitivamente. L'alternativa sarebbe l'ingresso nella procedura di nuovi imprenditori, in sostegno o in concorrenza con Mainetti. Ma il tempo stringe. L'imprenditore ed editore Giampaolo Angelucci ha formulato una proposta di acquisto di ramo di azienda (vuole comprare con 5 milioni testata, sito web e archivio storico) che assorbe solo 30 giornalisti, proposta che scade il 17 marzo prossimo. Se qualcuno è interessato, è il momento di farsi avanti: troverà una redazione viva, agguerrita e con una esperienza invidiabile, ancora protagonista e leader sul territorio. Il quadro si completa con la complessa vicenda della raccolta pubblicitaria, linfa vitale per qualunque giornale. Ne è incaricata la società Mediterranea, controllata dalla Edisud. Inspiegabilmente la Mediterranea ha sempre promosso la raccolta pubblicitaria locale anche per i concorrenti del Corriere del Mezzogiorno. Ha deciso di chiudere lo sportello al pubblico per annunci, inserzioni e necrologie, notevoli fonti di guadagni certi in un settore commerciale dove la "Gazzetta" è monopolista sul territorio. Infine, ha stretto accordi con il gruppo editoriale Riffeser-Monti (di quell'Andrea Riffeser presidente della Federazione editori) per cedere l'incarico della raccolta pubblicitaria. A condurre la Mediterranea è Franco Capparelli, lasciato alla presidenza della società da Bonomo e Modica anche dopo che il Tribunale di Catania, su insistenza dei giornalisti della "Gazzetta" ha rimosso Capparelli dai suoi incarichi in Edisud. Scelta incomprensibile, poiché gli ha consentito di continuare a gestire i flussi di cassa indispensabili alla vita del giornale. Il futuro di Mediterranea è strategico per il futuro della "Gazzetta": detiene la proprietà del marchio "La Gazzetta Del Mezzogiorno" e del palazzo di via Scipione l'Africano, abbandonato dal 2014 per occupare due piani in affitto in piazza Moro a 200mila euro l'anno. Nel frattempo per la sede storica, sottoposta a due ipoteche, è stato firmato un contratto preliminare di vendita, concluso il quale, Edisud e Mediterranea potrebbero fondersi. Il futuro di queste due società sembra indissolubilmente legato alla sopravvivenza del giornale, che non può morire in un'aula di tribunale dopo 133 anni di storia.

SOLIDARIETA' DA PARTE DI RAFFAELE FITTO - «La Gazzetta del Mezzogiorno ogni mattina è parte dei miei riti quotidiani. Lo è stata, lo è, e confido lo sarà. Seguo con attenzione la vertenza e sono vicino al direttore, ai giornalisti e ai poligrafici». Così esprime solidarietà sui social ai lavoratori del quotidiano pugliese il co-presidente del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia, Raffaele Fitto.

Caso Gazzetta, la Fnsi «chiama» tribunale Catania e Mainetti: il tempo è scaduto. Il giornale affidato a un lento declino per mancanza di scelte gestionali e il socio di minoranza non manifesta i suoi propositi mentre altri editori/imprenditori sarebbero disposti a salvare la Testata. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Febbraio 2020. «E' tempo di prendere decisioni sul futuro della Gazzetta del Mezzogiorno, principale organo di informazione di Puglia e Basilicata. Il Tribunale di Catania e il socio di minoranza di Edisud, Valter Mainetti, hanno il dovere di esprimersi con chiarezza sul destino del giornale e di tutti i lavoratori che sino ad oggi hanno consentito ai pugliesi e lucani di avere un giornale di riferimento che vanta 133 anni di storia». Così la Federazione della Stampa italiana e le Associazioni regionali di Stampa di Puglia e Basilicata sulla vicenda kafkiana in cui si trovano da oltre un anno i giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno, dopo che all'azionista di maggioranza, l'editore Mario Ciancio Sanfilippo, sono state poste sotto sequestro con confisca le quote societarie della Edisud, nell'ambito di un'inchiesta della Procura della Repubblica di Catania per presunto concorso esterno in associazione mafiosa. «Dal 24 settembre 2018 lo Stato, attraverso il Tribunale e gli amministratori giudiziari nominati, ha assunto la gestione del giornale. L'obiettivo di avviare un processo di risanamento ha già comportato enormi sacrifici per tutti i lavoratori, ai quali non sono nemmeno state versate, in alcune mensilità, le retribuzioni. Ora, con il ritiro della domanda di concordato presso il Tribunale di Bari – prosegue il sindacato dei giornalisti - si mandano per aria tutte le misure che avrebbero dovuto garantire un futuro alla testata, ai giornalisti e a tutti coloro che vi lavorano. E' dunque responsabilità dello Stato rispondere quanto prima a questa paradossale inversione di rotta, così come è dovere della società Denver, che fa capo all'imprenditore Mainetti, chiarire una volta per tutte se intende proseguire nella procedura annunciata tramite investimenti e garanzie finanziarie. Diversamente, si aprano le strade ad altre possibili offerte di acquisto, che pure sono in campo, in modo da consentire quell'operazione di salvataggio che la gestione commissariale non è stata in grado di svolgere». «Il tempo è scaduto - ribadiscono Fnsi e Associazioni regionali di Stampa -.  In questi mesi, nonostante gli accordi sindacali subito raggiunti con il Comitato di Redazione per la tutela dei posti di lavoro dei giornalisti, si è temporeggiato sin troppo nella presentazione del piano concordatario rendendo vana la possibilità di sostegno da parte della Banca Popolare di Bari, perché nel frattempo l'istituto di credito è stato commissariato. Inoltre, insieme agli ulteriori sacrifici richiesti ai lavoratori, è stato avviato un discutibile e affrettato piano editoriale che ha comportato la chiusura di altre redazioni e la riduzione dell'informazione nei territori pugliesi e lucani tramite l'accorpamento delle edizioni. Si aggiunga lo stallo delle attività in cui sembra versare la società di raccolta pubblicitaria, Mediterranea, in attesa di un annunciato passaggio di consegne. Così facendo, in assenza di iniziative serie e immediate da parte dei custodi giudiziari di Catania e dei responsabili amministrativi, il rischio del fallimento è alle porte. I giornalisti hanno il diritto, una volta per tutte, di sapere se è questo il destino che li aspetta o se – entro le scadenze indicate dal Tribunale di Bari – saranno messe in campo altre misure».

La Procura di Bari chiede il fallimento della Edisud spa, società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno. Il Corriere del Giorno il 15 Maggio 2020. L’editore Ciancio, che ha la quasi totalità delle azioni, ha disertato ancor una volta l’assemblea confermando il suo disimpegno dalla gestione editoriale della Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura della Repubblica di Bari ha chiesto il fallimento della Edisud, la società editrice del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno. Lo riferisce sul proprio sito lo stesso quotidiano, spiegando che “con l’istanza depositata in tribunale, il procuratore aggiunto Roberto Rossi ha chiesto altresì la concessione dell’esercizio provvisorio. La prima udienza è stata fissata il 9 giugno”. “La decisione è arrivata in concomitanza con l’assemblea dei soci che è andata deserta. A mancare l’appuntamento strategico ieri, – come si legge sul sito della Gazzetta del Mezzogiorno – è stata la famiglia Ciancio Sanfilippo , proprietaria della quasi totalità delle azioni della Spa, alla quale spettava nominare il nuovo Consiglio di amministrazione. Mossa prevedibile, dopo l’annuncio di volersi disimpegnare dalla gestione del giornale attraverso una procedura di liquidazione, che non si è potuta comunque realizzare”. La Edisud s.p.a. era finita sotto gestione commissariale il 24 settembre del 2018 a seguito di un provvedimento della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Catania che aveva disposto il sequestro di beni per 150 milioni di euro dell’editore Ciancio indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel marzo scorso la decisione della Corte di appello di Catania che ha restituito i beni all’editore ritenendo la non sussistenza alcun legame con la mafia. A fine aprile, dopo il rigetto di una istanza della Procura di Catania per il congelamento del dissequestro in attesa del ricorso in Cassazione, la Gazzetta del Mezzogiorno – insieme ad altri beni- è tornata definitivamente nella disponibilità dell’editore. Nei giorni successivi, però, Ciancio – intervenuto tramite un suo delegato all’assemblea del 4 maggio che avrebbe dovuto nominare il novo organo gestionale dopo le dimissioni del CdA in gestione commissariale – ha contestato la validità della seduta per un vizio di forma rinviando l’appuntamento. Nelle more ha fatto sapere di voler mettere in liquidazione la società. Di qui il rinvio al 14 maggio e l’ennesima seduta a vuoto dell’assemblea. Attualmente la società è gestita dal Cda «uscente» (ri)nominato dal Tribunale di Catania dopo le dimissioni presentate anche del presidente del Collegio sindacale al quale – in base al codice civile – sarebbe stata affidata la gestione ordinaria della società in base.

Gazzetta, parlano i giornalisti: «Questo giornale non chiude: noi riuniti in coop». «Il giornale resta in edicola. Noi ci impegniamo a riferirvi, con la massima puntualità, ogni notizia relativa all'inchiesta, attraverso il giornale cartaceo e le nostre pagine web». La Redazione de La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2020. Dopo la richiesta di fallimento della Edisud, società editrice de La Gazzetta del Mezzogiorno, testata con 133 anni di storia, giunta ieri da parte della Procura della Repubblica di Bari e con la relativa istanza depositata in tribunale, il Pm ha chiesto altresì la concessione dell'esercizio provvisorio dell'attività. La prima udienza è stata fissata il 9 giugno, mentre il prossimo 25 maggio è prevista l'udienza per prendere atto della rinuncia al concordato in bianco presentato a luglio dalla società su «avallo» del socio di minoranza, l'editore Valter Mainetti, che ha fatto un passo successivamente un passo indietro. La parola ora passa direttamente ai giornalisti della Gazzetta: Cari lettori e inserzionisti del giornale, La Gazzetta Del Mezzogiorno non è fallita e non chiude. La "Gazzetta" non potrà fallire. Non è un gioco di parole ma vogliamo solo sottolineare che le indagini avviate dalla magistratura riguardano l'attività della Edisud Spa, società editrice che ha gestito la testata negli ultimi anni, nelle sue diverse articolazioni. Se ci sono responsabilità, saranno gli organismi giudiziari a stabilire in capo a chi ricadono. Il giornale resta in edicola. Noi ci impegniamo a riferirvi, con la massima puntualità, ogni notizia relativa all'inchiesta, attraverso il giornale cartaceo e le nostre pagine web. A proposito, vi ricordiamo che il nostro e vostro giornale è ancora accreditato di 500mila lettori quotidiani (dato Audipress pre-Covid19) e il sito web ha raddoppiato gli utenti passando a marzo da 156mila a 396mila utenti (dato Audiweb testate on line). Ecco la ragione della nostra affermazione iniziale. La Gazzetta non chiude. La "Gazzetta" siete Voi lettori, della carta e del web. E siete tanti, tantissimi. La "Gazzetta" siete Voi inserzionisti che ci affidate i messaggi pubblicitari sapendo di poter raggiungere una vasta e sicura platea di qualità, che sceglie di informarsi attraverso il giornalismo professionale. La Redazione, proprio in questa fase, si impegna a onorare il proprio ruolo con sempre maggiore impegno e a farsi garante verso Voi lettori e inserzionisti. Intendiamo vivere le procedure giudiziarie avviate come lo spunto per una nuova pagina di storia tutta da scrivere, da protagonisti. Ieri l'assemblea di redazione ha deciso di costituire una cooperativa di giornalisti, che nel volgere di pochi giorni, sarà pronta a cogliere ogni occasione offerta dalla legge e dal mercato con la certezza di poter mantenere vivo il giornale, voce della Puglia e della Basilicata.La Redazione

Gazzetta, editore decide la liquidazione della società. Giornalisti: «Beffa mortale». La replica di Ciancio: non ho scelta. Con una mossa a sorpresa l'editore sta esplicitando il suo totale disinteresse per la Gazzetta. E in giornata rilascia una dichiarazione: cedo gratuitamente il complesso aziendale. Il Comitato di Redazione de La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Maggio 2020. Nuova puntata nella restituzione della Edisud Spa, editrice della «Gazzetta», a Mario Ciancio Sanfilippo. A seguito delle dimissioni del Consiglio di amministrazione e del Collegio sindacale, senza che la famiglia Ciancio avesse nominato i nuovi organi (eccependo un difetto di forma nella convocazione dell’assemblea societaria) e dopo la decisione del Tribunale di Catania di prorogare il cda dimissionario per far eseguire all'editore le nomine di propria competenza previste dalla legge, Ciancio Sanfilippo ha comunicato la volontà di porre in liquidazione la società editrice del giornale.

Di seguito il comunicato del Cdr della Gazzetta. Vergogna. Mario Ciancio Sanfilippo ha gettato la maschera del vecchio gentiluomo siciliano per rivelare il volto del comandante che abbandona la nave nella tempesta. Anzi, che insieme con i sui eredi la porta sugli scogli prima di scendere. Con una mossa a sorpresa dietro l'altra, l'editore sta esplicitando il suo totale disinteresse per la "Gazzetta". L'ultima è di ieri, quando ha dichiarato al cda uscente la volontà di porre in liquidazione la società editrice del giornale, quella Edisud Spa di cui ha tenacemente chiesto la restituzione al Tribunale di Catania, evidentemente con l'unico scopo di riabilitare – legittimamente – la sua immagine dopo le imputazioni per presunto concorso esterno in associazione mafiosa, in un processo peraltro ancora in corso. Ci eravamo illusi che diciotto mesi di battaglie legali lo avessero motivato a dimostrare all’Italia intera che la famiglia Ciancio Sanfilippo era pronta a ripartire. E ci eravamo illusi non sulla base di una ingenua e astratta fantasia. Negli ultimi diciotto mesi noi lavoratori della «Gazzetta» (giornalisti, poligrafici e quasi tutti gli amministrativi) abbiamo accettato pesanti sacrifici: tagli progressivi e strutturali alle buste paga, intere mensilità perdute nel calderone dei debiti societari, quote ingenti di contributi e trattamento di fine rapporto nella stessa fornace debitoria. E questo dopo che per tutti gli anni della gestione Ciancio abbiamo comunque subìto stati di crisi, prepensionamenti, contratti di solidarietà e riduzioni di stipendio che puntualmente ci venivano prospettati come manovre indispensabili e definitive «per mettere i conti in sicurezza». E il tutto a fronte di un impegno professionale sempre crescente. Pensavamo che la tenacia dell'editore nel rivolere indietro il giornale si potesse sposare con la fiducia dimostrata dai lavoratori nell'accettare sacrifici al buio. Che cosa c'è di peggio che tradire la fiducia di chi ha creduto sulla parola? A questo punto si incastrano perfettamente tutti i pezzi del mosaico. La situazione debitoria accumulata dalla Edisud ben prima del sequestro imposto dal Tribunale di Catania nell'ambito dell'inchiesta su Mario Ciancio Sanfilippo, conferma - alla luce degli ultimi atti - la consapevolezza da parte dell'azionista di quanto facevano i manager da lui nominati a cominciare da Franco Capparelli. Ora serve nuova luce per capire come si siano inspiegabilmente deteriorati i bilanci degli ultimi anni, così come restano inesplicabili alcune scelte gestionali. Non volevamo credere a quel che vedevamo: un editore che assiste incurante alla distruzione di un giornale come pochi ce ne sono in Italia per storia, diffusione e radicamento nel proprio territorio. Adesso abbiamo capito che non era solo noncuranza. Era consapevole avallo e forse il tempo ci rivelerà anche a quale disegno risponde questa sistematica demolizione. Abbiamo il dovere di dirlo ai nostri Lettori e a tutti i protagonisti sociali e istituzionali di Puglia e Basilicata. Abbiamo, anche, il dovere di dire agli imprenditori pugliesi e lucani, ai quali la «Gazzetta» ha sempre dato voce e visibilità, che questo accade quando si consente che le risorse della propria terra finiscano in mani estranee. Un discorso che vale tanto per il nostro giornale, quanto per altri valori e istituzioni nevralgiche della società nella quale si ambisce a prosperare. L'immediata e primaria conseguenza della volontà della famiglia Ciancio Sanfilippo di porre in liquidazione la «Gazzetta» è intanto l'aggravamento della situazione economica della società editrice. In questo aggravamento, si inserisce anche l'inevitabile disordine organizzativo e a seguire la mancanza di governance nella quale il giornale è proiettato. Questi tre fattori comportano giorno per giorno - e adesso ancor di più - un ulteriore progressivo peggioramento del pregiudizio dei diritti dei creditori. Cari Lettori, l'ultima cosa che vorremmo fare noi giornalisti e lavoratori della «Gazzetta» sarebbe decretare la morte del quotidiano dei pugliesi e dei lucani. E, invece, abbiamo la sgradevole sensazione di venire spinti verso questa macabra beffa: essere presi per sfinimento dopo quasi due anni di battaglie legali - con sordi veri e sordi che, forse, non volevano neanche sentire - affinché la parola «fine» la scrivano coloro che condividono con voi l'amore per il giornale. E, invece, c'è chi sta dimostrando di volerlo solo gettare via come un fazzoletto usato.

La replica dell'editore Mario Ciancio Sanfilippo. Mario Ciancio Sanfilippo «non intende entrare in polemica con il Comitato di redazione del giornale la Gazzetta del Mezzogiorno, ribadendo di avere il massimo rispetto per i tanti lavoratori della testata, ma non può astenersi dal replicare con fermezza ad alcune gravi inesattezze, inconcepibili per professionisti che hanno l'obbligo di informare correttamente i lettori, e ad una gratuita aggressione nei confronti della sua persona». Lo afferma in una dichiarazione l’editore del quotidiano. «Il Consiglio di amministrazione, composto in origine da professionisti di nomina giudiziaria, non è uscente - aggiunge Mario Ciancio Sanfilippo - ma pienamente in carica per una precisa disposizione di legge e non per 'decisione del Tribunale di Catanià, che nulla ha deciso al riguardo. I soci di Edisud S.p.A, nel rispetto delle norme del codice civile, ed avendo preso atto della circostanza evidenziata chiaramente dagli attuali amministratori in ordine alla acclarata dichiarata mancanza di continuità aziendale, hanno chiesto agli stessi amministratori di convocare l’assemblea straordinaria per l'obbligatoria ed inevitabile presa d’atto di quanto sopra e per la messa in liquidazione della società». Mario Ciancio Sanfilippo «afferma e ribadisce» che «la restituzione delle imprese e dei beni è la naturale conseguenza dei trancianti provvedimenti della Corte di Appello di Catania che ne hanno riconosciuto l’estraneità a contesti criminali o comunque contaminati da ambiti illeciti». «Mario Ciancio Sanfilippo - prosegue la nota - pur avendo sostenuto con oltre 30 milioni di euro lo sviluppo e il consolidamento del giornale, garantendo durante la propria gestione la puntuale corresponsione delle retribuzioni a giornalisti e poligrafici, si è dovuto arrendere alla crisi della testata ed ha messo gratuitamente a disposizione il complesso aziendale che la ricomprende, con ogni connesso cespite. Nessun soggetto, tuttavia - sottolinea - a livello locale o nazionale, ha manifestato serio interesse per l'acquisizione ed il rilancio di detti beni». Mario Ciancio Sanfilippo ribadisce che «onorerà le proprie personali esposizioni verso il sistema bancario dando fondo ad ulteriori risorse e quindi sono altri quelli che dovrebbero vergognarsi della loro latitanza, della loro insensibilità e della loro solidarietà di facciata» e informa che «ulteriori interventi dal tono ingiurioso e diffamatorio come quelli in riscontro formeranno oggetto di azione giudiziaria a tutela del proprio diritto all’onorabilità ed al rispetto».

IL MINISTRO BOCCIA: «È UN PEZZO DI STORIA E LA STORIA NON SI LIQUIDA» - “La Gazzetta del Mezzogiorno per noi pugliesi, per i lucani, per il mezzogiorno intero è un pezzo rilevante della storia dell’ultimo secolo; ‘il giornale’ per molti nostri nonni, genitori e per le famiglie con una storia centenaria che dà voce alla vita del Sud. Non si può liquidare una testata che rappresenta un pezzo rilevante del Paese e dell’informazione del Mezzogiorno senza pensare che dentro ogni pagina vi siano storie, famiglie, professionisti. La storia non si liquida! Esprimo la massima solidarietà a tutti i lavoratori della Gazzetta del Mezzogiorno; chi ha commesso errori in questa vicenda dovrà darne conto. Faremo di tutto per creare le condizioni migliori per tutelare l’editoria territoriale in crisi”. Così il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia.

Parla Ciancio Sanfilippo: «La cessione della Gazzetta e la gestione del giornale». L'editore della Gazzetta: «ho già messo tutte le mie partecipazioni, che costituiscono la stragrande maggioranza del capitale sociale di EDISUD, gratuitamente a disposizione di chiunque voglia, con intenti ed impegni seri, rilevare il giornale». Mario Ciancio Sanfilippo il 18 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Ho letto con grande attenzione ed interesse il fondo del Direttore del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, Giuseppe De Tomaso, sul tema della crisi del giornale e dell’istanza proposta dalla Procura della Repubblica di Bari per far dichiarare il fallimento della società editrice EDISUD spa ed ho deciso di interrompere il silenzio che mi ero imposto per non alimentare ulteriormente la scomposta e, per molti versi, farneticante teoria di commenti, ispirata dai “nuovi strumenti della comunicazione che stanno alla democrazia come una pornodiva sta alla verginità”, come li definisce il Direttore, al quale mi lega una lunga consuetudine di grande stima. Il commento di De Tomaso ne fornisce una efficacissima sintesi allorquando afferma “una democrazia-democrazia si fonda su una stampa di qualità, che fa la differenza, non su un’orgia di like e di selfie, di insulti e di insinuazioni, in cui si rincorrono odio e autocelebrazione, bufale e maldicenze”. Ed io, nella mia lunga storia di editore, ho sempre garantito autonomia ed indipendenza a tutti i giornalisti che hanno lavorato per i miei giornali, mai facendo mancare ogni concreto sostegno per consentire loro di esprimersi in piena libertà. Ma il fondo di De Tomaso mi consente di fare mio il titolo dell’altro articolo a corredo delle altre informazioni sulla vicenda: «Gazzetta, rischio di manovre speculative. Sull’ultimo bilancio della Edisud il peso delle svalutazioni» poiché ho già messo tutte le mie partecipazioni, che costituiscono la stragrande maggioranza del capitale sociale di EDISUD, gratuitamente a disposizione di chiunque voglia, con intenti ed impegni seri, rilevare il giornale, laddove il “peso delle svalutazioni”, indicate nel bilancio 2018, appartiene alle decisioni di amministratori estranei alla mia persona, alla mia famiglia e alle mie società.

La replica del Cdr all'editore Ciancio: «La crisi della Gazzetta? Giornalisti prime vittime». La redazione: «Pronti ad andare avanti insieme ai lettori». Il Comitato di Redazione il 19 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Mario Ciancio Sanfilippo, sulla prima pagina di ieri della «Gazzetta», ha deciso di interrompere per la seconda volta il silenzio che si era imposto. La prima volta, il 3 maggio scorso, ha confermato il suo disimpegno come editore del giornale; sulla prima pagina di ieri, oltre a ribadire il disimpegno, ha aggiunto di non avere responsabilità sull'ultimo bilancio della Edisud Spa, il consuntivo 2018. Operazioni e responsabilità rispetto alle quali la redazione è estranea e vittima, avendone subìto tutte le possibili conseguenze. A stabilire se le cose sono nei termini enunciati dall’editore, saranno le autorità giudiziarie chiamate a prendere decisioni sullo stato dei conti della stessa Edisud e della controllata Mediterranea Spa. In entrambe le società hanno un peso decisivo i manager indicati nei consigli di amministrazione proprio dalla famiglia Ciancio Sanfilippo: sono gli stessi che negli anni antecedenti il sequestro del 24 settembre 2018 (poi annullato il 24 marzo 2020 dal Tribunale di Catania) a carico dell'azionista siciliano, hanno messo in atto sistematiche azioni di taglio delle retribuzioni di giornalisti e poligrafici come unica forma di attività gestionale. Sono stati, inoltre, protagonisti di iniziative inutili quando non dannose per le sorti della testata. Sono gli stessi manager che, sempre negli anni di piena responsabilità della famiglia Ciancio Sanfilippo, non hanno versato le dovute quote di contributi previdenziali. Senza contare il mancato pagamento delle collaborazioni alla rete dei corrispondenti di Puglia e Basilicata. Fa piacere, anche se sorprende, intuire che adesso l'azionista prenda le distanze da quel management, la cui massima espressione è Franco Capparelli tuttora presidente della società Mediterranea e a lungo consigliere di amministrazione e direttore generale della Edisud sia sotto il controllo di Ciancio Sanfilippo sia durante i primi sei mesi di gestione commissariale affidata dal Tribunale di Catania ai professionisti siciliani Angelo Bonomo e Luciano Modica. Ma in tutta questa vicenda, ben oltre le righe scritte da Mario Ciancio Sanfilippo, resta una sola realtà: le vittime sono La Gazzetta Del Mezzogiorno, i giornalisti, i lavoratori tutti e i Lettori che chiedono solo di poter continuare ad essere informati dal giornale di Puglia e Basilicata. Chiarito questo, siamo già proiettati verso il futuro: le attestazioni di stima e le sia pur informali manifestazioni di concreto interesse arrivate da più parti, sono per noi il segno che il passato è già nel campo dell'accertamento delle responsabilità. Siamo proiettati a fare la nostra parte per scrivere le pagine future: ben presto sarà pronta la nostra cooperativa per cogliere ogni occasione di sviluppo e gestione. Comunque continueremo a lavorare e a portare ogni giorno la «Gazzetta» in edicola. Il Comitato di Redazione.

Marco Antonellis per affaritaliani.it il 29 maggio 2020. La Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Puglie e Basilicata, con 133 anni di storia e mezzo milioni di lettori al giorno è alla vigilia del fallimento. Lunedì 25 maggio il Tribunale di Bari ha preso atto della rinuncia al concordato preventivo da parte del socio di minoranza Denver srl, che fa indirettamente capo all’imprenditore-editore Valter Mainetti. Spiazzato dal forfait della Banca Popolare di Bari - commissariata dalla Banca d’Italia- che avrebbe dovuto sostenere finanziariamente l’operazione, e dalla cordata disertata dagli imprenditori locali,  Mainetti spiega in questa intervista genesi ed epilogo del suo intervento nel quotidiano pugliese.

Che cosa l’ha spinta ad entrare nella Gazzetta del Mezzogiorno?   

“Da diversi anni, il Gruppo Sorgente, attraverso Musa Comunicazione e altre società correlate è presente nel campo editoriale. Per questo motivo, nel 2016, i soci dell’epoca (famiglia Ciancio di Catania 70% e famiglia Curci di Bari 30%), con l’intervento della Banca Popolare di Bari, mi hanno contattato perché interessati al rilancio del progetto imprenditoriale La Gazzetta del Mezzogiorno. Pertanto, con il sostegno finanziario della Popolare di Bari che già aveva in pegno il 30% del capitale della Edisud (Gazzetta) di proprietà della famiglia Curci, il Gruppo Sorgente ha rilevato il 30% della Edisud dalla Barieditrice (ex Gruppo Fusillo), per il tramite della Denver Consulting, allora controllata da Musa International Private Equity Fund LP”.

Quali sono stati i rapporti col socio di controllo, l’editore siciliano Mario Ciancio Sanfilippo?

“Anche se eravamo preoccupati per la gestione erano sostanzialmente buoni, finchè nel giugno-luglio 2018, la famiglia Ciancio, ha deliberato l’aumento del capitale sociale, riducendo la partecipazione della Denver Consulting S.r.l.  dal 30 al 2 %. È pendente il litigio societario fra le parti. Di poi, come è noto, la famiglia Ciancio ha subìto il sequestro del suddetto pacchetto di controllo della Edisud, con l’intervento del custode – amministratore giudiziario dr. Angelo Bonomo di Catania, che è divenuto anche presidente del Cda della Edisud.”

Com’è nata l’iniziativa del Concordato preventivo?

“A causa delle copiose perdite d’esercizio, allo scopo di pervenire al riequilibrio almeno del conto economico della Edisud, la Banca Popolare di Bari, che ha sempre offerto e promesso il proprio sostegno finanziario, e il Dott. Bonomo hanno chiesto alla Denver di prender parte all’aumento del capitale sociale della Edisud, per evitare il default. Pertanto, alle suddette condizioni, essendo nostro interesse di non essere egemoni nella “Gazzetta”, ma in cordata con altri imprenditori, in data 16 maggio 2019, la Denver ha dichiarato la propria disponibilità ad intervenire in salvataggio della Edisud, subordinando l’intervento a precise garanzie e soprattutto alla condizione di essere integralmente sostenuta e garantita dalla Banca Popolare di Bari e di trovare una cordata di validi imprenditori.” 

Perché la situazione è precipitata?

“Nell’imminenza del deposito degli allegati di legge (piano di concordato e.t.c.) relativi alla domanda di concordato preventivo proposta dalla Edisud presso il Tribunale di Bari, ormai con una discreta ottimizzazione del conto economico della Gazzetta, la Banca Popolare di Bari è stata commissariata e gli amministratori straordinari hanno bloccato il finanziamento necessario per la sostenibilità del Piano. Di conseguenza la Edisud ha dovuto rinunciare al concordato preventivo”.

Non ha cercato delle alternative?

“Nonostante il forfait della Banca Popolare di Bari, il Gruppo Sorgente si era dichiarato disponibile, sempre alla condizione dell’aggregazione di altri imprenditori, a proseguire il proprio intervento nella Gazzetta e anche le Confindustrie di Puglia e Basilicata avevano lanciato sul giornale un appello ai loro soci per partecipare. Purtroppo, non è stato possibile formare una cordata, malgrado il Gruppo si fosse reso disponibile ad intervenire per il 25-30% dell’importo. La disponibilità di altri imprenditori c’era stata, ma solo in parte e non sufficiente a raggiungere l’importo necessario. Inoltre, di recente è stato dissequestrato il pacchetto di maggioranza (98%) della Edisud di proprietà della famiglia Ciancio, che ha subito optato per l’anticipato scioglimento e la messa in liquidazione della Edisud.”

Si potrebbe pensare ad un nuovo concordato?

"Perché no?"

Dissequestrati beni dell'editore Mario Ciancio, ma la Procura può sempre opporsi. Il Corriere del Giorno il 24 Marzo 2020. La Corte d’appello afferma però qualcosa di poco piacevole per Ciancio e cioè come tra “Cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di “vicinanza/cordialità”. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo che era stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra i beni dissequestrati anche le società che controllano i quotidiani La Sicilia e  La Gazzetta del Mezzogiorno,  e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. Secondo la Corte d’appello il decreto impugnato “va conseguentemente annullato” come scrivono i giudici nelle 113 pagine delle motivazione della sentenza d’appello, “non può ritenersi provata l’esistenza di alcuni attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese”. Inoltre secondo il collegio giudicante della Corte di Appello di Catania “non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale” né “è risultata accertata e provata alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto il suo nucleo familiare potevano disporre la liquidità utilizzate nel corso del tempo“. Il decreto della Corte d’appello di Catania che dispone il dissequestro totale dei beni, entra nel merito delle vicende legate alla realizzazione di centri commerciali, del Pua e di vari investimenti sottolineando che in tutti i casi «non è emerso alcun rapporto tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra». E che lo «“schema trilatero” ipotizzato tra “politica-mafia-imprenditoria” resta una mera ipotesi investigativa priva di idonei contenuti probatori» e, inoltre, “in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore» della mafia. La Corte d’appello afferma però qualcosa di poco piacevole per Ciancio e cioè come tra «Cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di “vicinanza/cordialità”» dopo che la mafia ha «imposto un «rapporto di protezione» con «il pagamento da parte della vittima del “pizzo”» per «garantire al “protetto” la possibilità di continuare a svolgere la propria attività senza “rischi” e senza il pericolo di subire “atti ostili” nei confronti di un imprenditore che «viene poi considerato “amico”». Il sequestro finalizzato alla confisca per beni stimati in complessivi 150 milioni di euro era stato chiesto dalla Procura Distrettuale Antimafia di Catania ed eseguito il 24 settembre del 2018 dai Carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania nell’ambito del processo per concorso esterno all’associazione mafiosa in cui l’imprenditore è imputato, a seguito di una prima archiviazione del Gip successivamente annullata dalla Corte di Cassazione. La Procura Generale di Catania  può presentare reclamo in Cassazione contro il decreto della Corte d’appello, iniziativa che secondo fonti del palazzo di giustizia catanese viene data per scontata e sicura e chiedere quindi ad un altro collegio giudicante, il “congelamento” dell’esecutività del dissequestro, che di fatto farebbe tornare tutto sotto sequestro.  

Dissequestrati i beni di Ciancio Sanfilippo: «Non c’è prova che abbia aiutato la mafia». Il Dubbio il 25 marzo 2020. Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado vi è la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore siciliano. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo che era stato deciso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado vi è la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore e imprenditore. Tra i beni dissequestrati anche le società che controllano i quotidiani La Sicilia e Gazzetta del Mezzogiorno e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. «Mario Ciancio Sanfilippo non è pericoloso e il suo patrimonio è proporzionato alle entrate quindi la Corte annulla la confisca», ha commentato l’avvocato Carmelo Peluso, difensore dell’editore catanese. Le aziende del gruppo – un patrimonio dal valore di oltre 150 milioni – fino ad oggi sotto amministrazione giudiziaria, tornano dunque nelle mani dell’imprenditore. Un patrimonio lo ricordiamo di oltre 150 milioni di valore.Secondo la Corte d’appello di Catania, presieduta da Dorotea Quartararo, il decreto impugnato deve essere annullato in quanto «non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese». Secondo il Tribunale di primo grado, invece, ci sarebbe stato uno stabile «contributo» alla famiglia mafiosa catanese. Secondo i giudici di prevenzione di secondo grado, invece, «non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale», in quanto non è risultata accertata e provata «alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto e il suo nucleo familiare potevano disporre di liquidità utilizzate nel corso del tempo». Con l’articolato provvedimento di quasi 120 pagine, la Corte catanese ha affrontato tutti i temi del processo Ciancio, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle compravendite dei terreni sui quali sono sorti o sarebbero dovuti sorgere alcuni centri commerciali.«Con il provvedimento adottato oggi – affermano gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti – la Corte di Appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive da sempre sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso. Con la pronuncia sulla inesistenza di una sperequazione tra i redditi conseguiti e il patrimonio della famiglia Ciancio – sottolineano i legali – la Corte ha censurato anche il presupposto su cui il Tribunale aveva fondato la confisca dei beni, confermando la validità della minuziosa opera di ricostruzione reddituale e le puntuali osservazioni contenute nella consulenza tecnica del dottor Giuseppe Giuffrida, validamente collaborato dal dottore Fabio Franchina». Si chiude così il lungo periodo di amministrazione giudiziaria, cominciato il 24 settembre 2018, periodo, che, secondo Fnsi e le Associazioni regionali di Stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata «ha acuito i problemi delle testate producendo gravi ripercussioni sull’organizzazione delle redazioni, sugli organici e sulle retribuzioni di giornalisti e maestranze. Adesso è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale» concludono le organizzazioni sindacali.

Catania, restituiti beni a editore Ciancio: dissequestrata anche la Gazzetta del Mezzogiorno. Cdr: «Fine incubo di 18 mesi». Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado anche la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore e imprenditore. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Marzo 2020. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo e dei suoi familiari che era stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Secondo i giudici di secondo grado il decreto impugnato dai legali dell’editore e imprenditore «va annullato» perché, scrivono nelle 119 pagine della decisione motivata, «non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato in favore di Cosa nostra catanese». Inoltre "non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale" né «alcuna sproporzione tra i redditi legittimi di cui Mario Ciancio Sanfilippo e il suo nucleo familiare potevano disporre e beni mobili e immobili a loro riferibili». Tra i beni interessati dal provvedimento, oltre a conti correnti e immobili, vi sono il quotidiano 'La Sicilia', la maggioranza delle quote della 'Gazzetta del Mezzogiorno' di Bari, due emittenti televisive regionali, 'Antenna Sicilia' e 'Telecolor' e la società che stampa quotidiani Etis. Per la Fnsi e le associazioni della stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata «si chiude un lungo periodo di amministrazione giudiziaria» e «adesso è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale».

Un atto di giustizia, un fattore di serenità. «Con il provvedimento adottato oggi - sottolinea il collegio di difesa - la Corte di appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun "contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso"».

NESSUN RAPPORTO CON COSA NOSTRA - Il decreto della Corte d’appello di Catania che dispone il dissequestro totale dei beni, entra nel merito delle vicende legate alla realizzazione di centri commerciali, del Pua e di vari investimenti sottolineando che in tutti i casi «non è emerso alcun rapporto tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra». E che lo «schema trilatero ipotizzato tra "politica-mafia-imprenditoria" resta una mera ipotesi investigativa priva di idonei contenuti probatori» e, inoltre, "in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore» della mafia. La Corte d’appello sottolinea come tra «cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di vicinanza/cordialità» dopo che la mafia ha "imposto un rapporto di protezione» con «il pagamento da parte della vittima del pizzo» per «garantire al protetto la possibilità di continuare a svolgere la propria attività senza rischi e senza il pericolo di subire atti ostili nei confronti di un imprenditore che «viene poi considerato amico». Pagamenti che l’editore ha sempre smentito.

IPOTESI CASSAZIONE E CONGELAMENTO DISSEQUESTRO - Il sequestro finalizzato alla confisca per beni stimati in complessivi 150 milioni di euro era stato chiesto dalla Procura Distrettuale ed eseguito il 24 settembre del 2018 dai carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania nell’ambito del processo per concorso esterno all’associazione mafiosa in cui l’imprenditore è imputato, dopo una prima archiviazione del Gip poi annullata dalla Corte di Cassazione. Contro il decreto della Corte d’appello di Catania la Procura generale può presentare reclamo in Cassazione e chiedere, ad un altro collegio giudicante, il congelamento dell’esecutività del dissequestro.

COMITATO DI REDAZIONE: SPERIAMO SIA FINE DI UN INCUBO - Il comitato di redazione, nell’apprendere la decisione della Corte d’Appello di Catania, oltre a compiacersi per la positiva soluzione della vicenda che ha riguardato il dott. Mario Ciancio Sanfilippo, editore della Gazzetta del Mezzogiorno, esprime l’auspicio che la decisione di dissequestro dei giudici siciliani ponga una volta per tutte la parola fine a un incubo durato ben diciotto mesi. Tanti ne sono passati dal sequestro disposto dalle Misure di prevenzione del Tribunale di Catania, nelle cui maglie, com’è ormai noto, è finita anche la Gazzetta, la cui unica colpa era di appartenere a un imprenditore che oggi torna legittimamente a disporre dei propri beni. Diciotto mesi nei quali tutti i dipendenti della Gazzetta del Mezzogiorno hanno lottato tra mille difficoltà, lavorando anche senza retribuzione, pur di non mancare al quotidiano appuntamento in edicola con i Lettori di Puglia e Basilicata. Diciotto mesi nei quali il Comitato di redazione, supportato dalle Associazioni della stampa di Puglia e Basilicata e dalla Federazione nazionale della stampa italiana, oltre che da una eccezionale squadra di professionisti, ha incontrato tutti i possibili interlocutori istituzionali e imprenditoriali, pur di garantire la sopravvivenza di un quotidiano forte di 133 anni di vita. Un lavoro di trattative lunghe, estenuanti e a momenti anche demoralizzanti, aggravato dalla lentezza dei tempi burocratici dettati dalla gestione commissariale voluta dal Tribunale di Catania. Duole constatare che questa vicenda si risolva positivamente solo oggi, in un momento drammatico non solo per la vita del Paese, ma in una condizione di emergenza planetaria che, se da un lato rende ancor più prezioso e necessario il ruolo dell’Informazione, dall’altro rende difficoltoso il lavoro dei giornalisti e la diffusione della carta stampata. La Gazzetta del Mezzogiorno torna nel patrimonio e nella disponibilità di Mario Ciancio Sanfilippo con un accordo di drastici tagli del costo del lavoro già sottoscritto tra le parti sociali e la gestione commissariale e un piano di concordato già predisposto, presentato al Tribunale di Bari e poi ritirato per mancanza di garanzie finanziarie dalla Denver di Walter Mainetti, socio di minoranza della Edisud SpA. Alla luce di tutto ciò che è accaduto dal momento del sequestro ad oggi, i giornalisti della Gazzetta si augurano adesso di poter continuare a fare il proprio lavoro con maggiore serenità, confidando nella presenza di un editore vero, col quale poter dialogare e confrontarsi non solo sulla salvaguardia dei livelli occupazionali, ma anche e soprattutto sul futuro di una delle testate più antiche e prestigiose dell’Italia meridionale.

IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI -  Con l’articolato provvedimento di quasi 120 pagine, la Corte catanese ha affrontato tutti i temi del 'processo Cianciò, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle compravendite dei terreni sui quali sono sorti o sarebbero dovuti sorgere alcuni centri commerciali. La Corte ha affrontato punto per punto tutti i temi trattati nel decreto del Tribunale e i relativi motivi di impugnazione proposti dai difensori, concludendo che "non può ritenersi provata l'esistenza di alcun fattivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa Nostra catanese"». Lo scrivono in una nota i legali dell’imprenditore ed editore, gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti. «Conseguentemente - aggiungono i penalisti - i giudici di appello hanno affermato che non sussiste alcuna forma di pericolosità sociale che possa consentire l’applicazione di una misura di prevenzione, né personale, né patrimoniale». «Con il provvedimento adottato oggi - osserva il collegio di difesa - la Corte di Appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive da sempre sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun 'contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso'. Con la pronuncia sulla inesistenza di una sperequazione tra i redditi conseguiti e il patrimonio della famiglia Ciancio - sottolineano i legali - la Corte ha censurato anche il presupposto su cui il Tribunale aveva fondato la confisca dei beni, confermando la validità della minuziosa opera di ricostruzione reddituale e le puntuali osservazioni contenute nella consulenza tecnica del dottor Giuseppe Giuffrida, validamente collaborato dal dottore Fabio Franchina».

LE PAROLE DI FNSI - «Il dissequestro dei beni di Mario Ciancio Sanfilippo, fra cui rientrano anche i quotidiani La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari e La Sicilia di Catania e le emittenti Telecolor e Antenna Sicilia, disposto dal tribunale di Catania, restituisce la gestione delle testate al loro editore». Lo afferma il sindacato dei giornalisti, in una nota congiunta della Fnsi e delle Associazioni regionali della Stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata. «Si chiude così il lungo periodo di amministrazione giudiziaria, cominciato il 24 settembre 2018 - spiega il sindacato - che ha acuito i problemi delle testate producendo gravi ripercussioni sull'organizzazione delle redazioni, sugli organici e sulle retribuzioni di giornalisti e maestranze. Adesso - conclude - è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale».

L'AUSPICIO DI LONGO VICE PRES. CONSIGLIO REGIONALE - “Nel quotidiano bollettino di notizie tragiche e drammatiche, una speranza di ripartenza - per i giornalisti, i poligrafici, i lavoratori tutti e le intere comunità pugliese e lucana - arriva dal dissequestro della Gazzetta del Mezzogiorno. Temo sia presto per cantare vittoria, ma uno dei più importanti quotidiani del Sud finalmente, dopo mesi di Purgatorio, può vedere una luce in fondo al tunnel. Paragonare la carta stampata, se di qualità, a quell’ingorgo di notizie che, soprattutto in questo drammatico momento, è ampiamente rappresentato in Rete, non solo è controproducente per la formazione del pensiero dei lettori-fruitori, ma è assolutamente dannoso. Da qui la necessità e il dovere per una Puglia che vuole guardare al futuro, di difendere con le unghie e senza remore, le migliaia di copie quotidiane che la Gazzetta del Mezzogiorno ci consegna regolarmente anche in questo momento complesso. La Gazzetta in quest’ambito deve restare baluardo della verità e sostegno a quella nuova ed essenziale visione di modernità, e tutti i pugliesi e i lucani hanno il diritto dovere di lottare affinché, anche in seguito alle notizie giunte da Catania, questo patrimonio comune possa ripartire verso ambiziosi traguardi”.

LA NOTA DI LOSACCO (PD) - “Mi auguro che il dissequestro della Gazzetta del Mezzogiorno e degli altri beni dell’editore Ciancio disposta dalla Corte d’Appello di Catania possa consentire allo storico quotidiano pugliese di allontanare definitivamente il rischio di chiusura e di riprendere pienamente il proprio ruolo di guida dell’informazione regionale. Come non ci siamo mai stancati di ripetere in questi mesi, è impensabile un panorama informativo della Puglia e del Mezzogiorno senza la Gazzetta. Speriamo quindi che da qui possa ripartire, per continuare a scrivere nuove pagine della sua storia, sempre al servizio del territorio e della buona e libera informazione.” Lo scrive in una nota il deputato barese del Pd, Alberto Losacco.

La Gazzetta del Mezzogiorno è fallita. Il Corriere del Giorno il 15 Giugno 2020. Il Tribunale chiaramente ha dovuto emettere due sentenze separate per ognuna delle due società Edisud e Mediterranea, dichiarato il fallimento «provato lo stato di insolvenza», causato da una “forte prevalenza dei costi rispetto ai ricavi” e per Edisud “esposizioni debitorie superiori a 40 milioni di euro” mentre a carico della Mediterranea “debiti complessivi superiori a sette milioni di euro” per la società Mediterranea. Nel frattempo qualcuno aveva provato ad impossessarsi del marchio LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO depositandolo stranamente lo scorso 22.05.2020. Il collegio giudicante della IV sezione civile del Tribunale di Bari presieduto dalla dott.ssa Raffaella Simone ha dichiarato oggi il fallimento di Edisud e Mediterranea, rispettivamente società editrice e proprietaria della testata giornalistica La Gazzetta del Mezzogiorno, disponendo al tempo stesso l’esercizio provvisorio, dunque assicurando la continuità dell’attività di impresa per consentire la regolare uscita del giornale. Il Tribunale Fallimentare di Bari hanno quindi recepito ed accolto la richiesta avanzata dalla Procura di Bari un mese fa rappresentata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi che coordina l’inchiesta sulle società fallite, che hanno accumulato complessivamente debiti per circa 50 milioni di euro. Nominati i curatori per le due società: per la Edisud prof. Michele Castellano e dott. Gabriele Zito; per la società Mediterranea è anche proprietaria dell’immobile della sede di via Scipione l’Africano e concessionaria per la raccolta pubblicitaria, nominati l’ Avv. Paola Merico e dott. Rosario Marra. La dr.ssa Simone presidente del collegio giudicante ha così motivato la sua decisione: “La prosecuzione dell’attività imprenditoriale, finalizzata all’esclusione del danno grave per i dipendenti e la comunità che usufruisce dei servizi editoriali potrebbe risultare non negativa anche per i creditori, potendosi fondatamente presumere che l’interruzione dell’attività riduca il valore del complesso aziendale, che, in costanza di esercizio, potrebbe essere più favorevolmente collocata sul mercato“. Motivazione pressochè identica si legge nel provvedimento sul fallimento della Mediterranea, a firma della giudice Paola Cesaroni, che chiarisce come l’esercizio provvisorio serve ad “evitare nell’immediato l’interruzione della pubblicazione della testata giornalistica“. Il Tribunale chiaramente ha dovuto emettere due sentenze separate per ognuna delle due società Edisud e Mediterranea, dichiarato il fallimento «provato lo stato di insolvenza», causato da una “forte prevalenza dei costi rispetto ai ricavi” e per Edisud “esposizioni debitorie superiori a 40 milioni di euro“ mentre a carico della Mediterranea “debiti complessivi superiori a sette milioni di euro“ per la società Mediterranea. L’esercizio provvisorio concesso alla Mediterranea è stato motivato dal Tribunale fallimentare per “evitare nell’immediato l’interruzione della pubblicazione della testata giornalistica». Il Tribunale ha quindi fissato udienze per le adunanze dei creditori per l’esame dello stato passivo per i prossimi 24 e del 26 novembre 2020.

La registrazione “abusiva” del marchio LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. Nel frattempo abbiamo scoperto qualcosa di insolito. E cioè che qualcuno, lo scorso 22 maggio 2020, in pieno periodo pre-fallimentare (e quindi soggetto a revocatoria) ha provato a registrare ed impossessarsi del marchio de LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO che sinora non era mai stato registrato. Lasciamo volentieri alla magistratura ed ai curatori della società MEDITERRANEA proprietaria delle testata giornalistica accertare la legittimità di tale registrazione.

Gazzetta, da Tribunale Bari via libera all'esercizio provvisorio: «Giornale deve continuare pubblicazioni». Conte: «Costante attenzione del Governo». Il presidente della sezione: l'interruzione dell'attività riduce il valore del complesso aziendale. Nominati i curatori per la Edisud (società editrice) e la Mediterranea (proprietaria della Testata)). La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Giugno 2020. Il Tribunale di Bari - IV sezione civile - ha dichiarato il fallimento di Edisud Spa e Mediterranea, rispettivamente società editrice e proprietaria della Testata La Gazzetta del Mezzogiorno, disponendo al tempo stesso l'esercizio provvisorio, dunque assicurando la continuità dell'attività di impresa per consentire la regolare uscita del giornale. I giudici (il collegio è stato presieduto dalla dott.ssa Raffaella Simone) hanno così accolto la richiesta avanzata dalla Procura un mese fa (procuratore aggiunto Roberto Rossi con i sostituti Lanfranco Marazia e Luisiana Di Vittorio, che coordinano l’inchiesta sulle società) e hanno nominato i curatori per le due società: prof. Michele Castellano e dott. Gabriele Zito per Edisud; avv. Paola Merico e dott. Rosario Marra per Mediterranea (la società è anche proprietaria dell'immobile della sede di via Scipione l'Africano e concessionaria per la raccolta pubblicitaria). Dagli accertamenti della Procura di Bari, Mediterranea ed Edisud avrebbero accumulato complessivamente debiti per circa 50 milioni di euro. Sono state fissate alle udienze del 24 e del 26 novembre 2020 le adunanze dei creditori per l’esame dello stato passivo dinanzi ai giudici delegati. «La prosecuzione dell'attività imprenditoriale, finalizzata all'esclusione del danno grave per i dipendenti e la comunità che usufruisce dei servizi editoriali - scrive il giudice Simone, estensore della sentenza di Edisud - potrebbe risultare non negativa anche per i creditori, potendosi fondatamente presumere che l'interruzione dell'attività riduca il valore del complesso aziendale, che, in costanza di esercizio, potrebbe essere più favorevolmente collocata sul mercato». Analoga motivazione si legge nel provvedimento di Mediterranea, a firma del giudice Paola Cesaroni, laddove chiarisce come l'esercizio provvisorio serve ad «evitare nell’immediato l’interruzione della pubblicazione della testata giornalistica».

FNSI: ora possibile rilancio, da Governo tutela - «La sentenza di fallimento di Mediterranea ed Edisud, proprietaria ed editrice della Gazzetta del Mezzogiorno, chiude la stagione delle gestioni allegre e scriteriate. La decisione del Tribunale di Bari di concedere l'esercizio provvisorio va salutata con favore perché scongiura l'interruzione delle pubblicazioni e pone le basi per il rilancio della testata, a partire dalla redazione, e per la tutela dell'occupazione». Lo affermano, in una nota, Fnsi e Associazioni regionali di Stampa di Puglia e Basilicata. Bepi Martellotta Presidente Associazione della Stampa di Puglia. «L'auspicio è che, ora, il Governo assuma con celerità ed efficacia ogni decisione utile a tutelare i posti di lavoro della Gazzetta del Mezzogiorno, accompagnando - tramite il tavolo con la Fnsi già insediato dal Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio - l'iniziativa avviata dai giornalisti per tutelare l'informazione in Puglia e Basilicata e affiancando, con strumenti normativi ordinari, il lavoro che i curatori fallimentari sono chiamati a portare avanti, rimediando agli errori sin qui commessi e per consentire la tutela del pluralismo e dell'informazione in due fondamentali regioni del Mezzogiorno. Fnsi e Associazioni regionali di Stampa continueranno a lavorare, senza clamori e rifuggendo da ogni forma di protagonismo, al fianco delle colleghe e dei colleghi per tutelare l'occupazione e difendere il pluralismo dell'informazione nel Mezzogiorno».

Premier Conte: «Costante attenzione per il giornale» - La notizia della dichiarazione di fallimento delle società Edisud e Mediterranea, rispettivamente editore e proprietario della "Gazzetta Del Mezzogiorno", storica testata pugliese con oltre 130 anni di attività, è rimbalzata anche negli Stati Generali in corso a villa Pamphili a Roma. A quanto si e' appreso, il segretario generale della FNSI, Raffaele Lorusso, ne ha riferito al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. "Conte ha assicurato che la Gazzetta del Mezzogiorno ha l'attenzione costante del presidente del Consiglio e che il Governo è già impegnato per salvaguardare la testata e l'occupazione.

Caso Gazzetta, dalla politica ai sindacati coro unanime: salvare la Testata. I messaggi di solidarietà del ministro Bellanova, del governatore Emiliano e dell'eurodeputato Fitto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Giugno 2020. Si susseguono le note di solidarietà e augurio da parte della politica pugliese e nazionale dopo la pubblicazione della sentenza di fallimento per le società Edisud e Mediterranea, che rispettivamente editano e sono proprietarie della testata dello storico giornale pugliese la Gazzetta del Mezzogiorno. Il tribunale di Bari ha però concesso la continuità aziendale, nominando i curatori fallimentari. Ministro Bellanova: «Non devono pagare i lavoratori per le responsabilità altrui» -  «Una cosa è certa. Non possono essere le lavoratrici e i lavoratori della Gazzetta del Mezzogiorno, giornalisti e poligrafici, a pagare per responsabilità di altri. La tutela del lavoro prima di tutto, perché questa testata nazionale così importante per i territori meridionali possa continuare a garantire ampia e buona informazione ed essere, come è stata finora, presidio di democrazia nell’interesse delle comunità territoriali. La fase che si apre oggi con la dichiarazione da parte del Tribunale di Bari del fallimento, largamente annunciato, per EdiSud e Mediterranea, ma contemporaneamente con la concessione dell’esercizio provvisorio della società, è delicatissima e va attentamente monitorata». Lo afferma la ministra per le Politiche agricole, Teresa Bellanova. «Ed è importante - aggiunge - quanto scrive il comitato di redazione della Gazzetta che parla di testata gloriosa e azienda sana rimarcando la professionalità di chi ci lavora quotidianamente e ha garantito fino a questo momento la regolare presenza del giornale nelle edicole. Tutti snodi che adesso assumono ancor di più particolare rilievo e valore e potranno essere determinanti per il futuro della testata e il progetto di rilancio». «Con l’attenzione garantita finora - conclude - continuerò a seguire ogni sviluppo futuro perché la Gazzetta del Mezzogiorno viva». Le parole del governatore Emiliano - «Una buona notizia c'è: la comunità pugliese non sarà privata della voce della Gazzetta del Mezzogiorno». E’ il commento del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, dopo la pubblicazione della sentenza di fallimento per le società Edisud e Mediterranea, che rispettivamente editano e sono proprietarie della testata dello storico giornale pugliese. Il tribunale di Bari ha però concesso la continuità aziendale, nominando i curatori fallimentari. «La Regione - evidenzia Emiliano - rimane a disposizione dei lavoratori, giornalisti e poligrafici, e dei loro rappresentanti per accompagnare in questo frangente il giornale verso una soluzione definitiva che permetta la salvaguardia del lavoro e del patrimonio democratico e culturale rappresentato dalla Gazzetta. Tutti gli strumenti che la Regione potrà utilizzare per la sopravvivenza e il rilancio della testata saranno messi a disposizione della curatela fallimentare e di qualunque soggetto con seri progetti industriali ed editoriali che intenda proseguire nella strada intrapresa oltre 130 anni fa». Il commento di Fitto - «La sentenza di fallimento di Mediterranea ed Edisud, le due società proprietaria ed editrice de La Gazzetta del Mezzogiorno, per quanto dolorosa segna la fine di anni e anni di crisi dello storico quotidiano della Puglia e del Sud. Ma non la chiusura, la decisione del Tribunale di Bari di concedere l’esercizio provvisorio consentirà la continuità delle pubblicazioni». Lo afferma il copresidente del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia, Raffaele Fitto. «Nell’attesa che i curatori portino al termine il loro lavoro a tutela dell’occupazione e quindi dell’informazione - prosegue - che i giornalisti trovino forme e modi per poter salvaguardare non solo il loro lavoro ma la stessa continuità della storica testata, e che le Istituzioni, senza protagonismi inutili, contribuiscano a trovare soluzioni invito i lettori a far sentire la loro vicinanza e il loro sostengo alla Gazzetta acquistandola tutti i giorni, nel nostro piccolo tutti possono contribuire a salvare un patrimonio storico-culturale pugliese». Longo: è finito il tempo delle improvvisazioni - «Il tempo delle improvvisazioni, delle pacche sulle spalle, delle parole vuote a riempire sterili comunicati stampa, è terminato. Lo chiedono a gran voce milioni di pugliesi e lucani stringendosi ai giornalisti ed ai lavoratori tutti della Gazzetta del Mezzogiorno». Lo dichiara il vicepresidente del Consiglio regionale pugliese, Peppino Longo, in merito alla notizia del fallimento di Edisud e Mediterranea. Questi fallimenti «sono una sconfitta per tutti - sostiene - ma soprattutto per chi ama fare impresa con passione, dedizione e onestà e per chi ama e difende il sacrosanto diritto ad una giusta informazione. E sono una sconfitta per una classe dirigente locale, sempre pronta a intervenire al fianco di chi con enormi sacrifici sta affrontando questi giorni tempestosi, ma sempre altrettanto incapace di fare concretamente qualcosa. Il governo nazionale e le istituzioni locali hanno il dovere di difendere con le unghie non solo i livelli occupazionali, ma anche quello straordinario patrimonio storico e culturale che appartiene certamente a tutti gli italiani». «Devo purtroppo ammettere - conclude - che troppi in questa vicenda, limitandosi a banali passerelle, non sono riusciti a cogliere il profondo valore che la Gazzetta ha per tutta la società». 

CGIL: SI CONCLUDE TRISTE PAGINA DI STORIA - La Cgil Puglia e la Slc Puglia augurando buon lavoro ai curatori nominati sia di Edisud che di Mediterranea «dichiarano la propria disponibilità da subito a iniziare una serie di incontri che possano dare un minimo di stabilità ai lavoratori e garantire un futuro solido e concreto rispetto a un passato scriteriato vissuto fino a oggi». «Con la sentenza di fallimento di Mediterranea e Edisud proprietaria ed editrice della Gazzetta del Mezzogiorno - scrivono Giuseppe Gesmundo, segretario generale Cgil Puglia e Nicola Di Ceglie, segretario generale Slc Cgil - si conclude una tragica e triste storia di tutti i lavoratori poligrafici e giornalisti del quotidiano, La decisione del tribunale di Bari di concedere l'esercizio provvisorio permette quantomeno la continuità di pubblicazione del giornale e fa tirare un sospiro di sollievo a tutti i lavoratori che ormai vivono da tempo nell'indecisione più totale. Sono ormai mesi che poligrafici e giornalisti lavorano non sapendo se ci sia una luce in fondo al tunnel o no, non sanno le prospettive che ci possono essere, non sanno soprattutto se il loro lavoro sarà servito o no per il futuro del giornale». «Ci auguriamo che il tavolo per la Gazzetta del Mezzogiorno insediato dal dipartimento dell'editoria grazie al sottosegretario Martella con Cgil, Cisl e Uil Fnsi e che ha visto la partecipazione del governatore Emiliano e dei ministri Bellanova e Boccia possa essere ripreso per dare soluzioni concrete a tutti lavoratori».

Il sindacato Uil Puglia: Sentenza dà speranza - «A questo punto facciamo appello alla politica affinché vari norme immediate che accompagnino, senza traumi, il difficile percorso che si schiude con la dichiarazione di fallimento, e all’imprenditoria, in particolare quella locale, nella speranza che sappia e voglia cogliere le grandi opportunità che si profilano dietro la procedura fallimentare, tutelando i posti di lavoro e rilanciando il una testata con un brand tuttora fortissimo e dalle enormi potenzialità nei territori di riferimento». Lo affermano Franco Busto, segretario generale della Uil Puglia, e Vito Gemmati, segretario generale della Uilcom regionale, commentano la sentenza del Tribunale di Bari che ha dichiarato il fallimento della Edisud spa, società editrice de 'La Gazzetta del Mezzogiorno', e della Mediterranea s.p.a., proprietaria della testata. «Si tratta - evidenziano i sindacalisti - di una sentenza che, seppur dolorosa e drammatica, potrebbe avere risvolti positivi e celare segnali di speranza per tutte le lavoratrici ed i lavoratori del giornale, in particolare per i poligrafici, che scontano, già dal 2013, tagli pesantissimi alle loro retribuzioni e che sono stati duramente colpiti dalla spending review attuata dagli amministratori giudiziari». «Accogliendo la richiesta di esercizio provvisorio formulata dalla Procura della Repubblica - proseguono - il Tribunale del capoluogo ha dimostrato nei fatti di avere a cuore non soltanto una testata storica, con oltre 133 anni di attività a servizio delle regioni di Puglia e Basilicata, ma anche le sorti dei circa 150 lavoratori, fra poligrafici e giornalisti, trascinati, senza alcuna responsabilità, sin dalla data del sequestro giudiziario per confisca, a settembre 2018, in un incubo ancora senza un epilogo». «Ora - concludono Busto e Gemmati - bisogna concentrare le forze per rilanciare con ogni mezzo la Gazzetta». 

Aggiudicata la gestione per 8 mesi della Gazzetta del Mezzogiorno al Gruppo Ladisa di Bari. Antonello De Gennaro il Il Corriere del Giorno il 19 Novembre 2020. Sulla base di quanto era previsto nel bando di gara, adesso la Ledi, società del gruppo Ladisa ha tre giorni per riprendere le pubblicazioni della Gazzetta del Mezzogiorno , che da domani dovranno essere sospese, e 15 giorni per firmare il contratto. Vengono a galla però delle strane coincidenze fra Ladisa ed Emiliano. Un’investimento quello del gruppo barese per avere “stampa amica” ? Come era facilmente prevedibile è arrivata un’ unica offerta per la gestione dei prossimi 8 mesi, cioè sino al 31 luglio 2011 , presentata dalla società Ledi s.r.l. ( Gruppo Ladisa) controllata dagli imprenditori della ristorazione Sebastiano e Vito Ladisa, notoriamente molto “vicini” a Michele Emiliano. Per dovere di cronaca giornalistica infatti dobbiamo ricordare che Emiliano e Vito Ladisa  sono indagati dalla Procura di Torino (a cui la Procura di Bari ha inoltrato il fascicolo per competenza territoriale) per un pagamento non effettuato da Emiliano alla società di comunicazione Eggers di Torino che curò la su campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017 quando il governatore pugliese si candidò alla segreteria nazionale contro Matteo Renzi ed Andrea Orlando. (tratto dal quotidiano La Repubblica)

Fra i particolari che emerse dall’indagine che aveva condotto nell’aprile 2019 le Fiamme Gialle negli uffici della Presidenza della Regione Puglia per acquisizione di documenti e dati e nella stessa azienda Ladisa, i cui uffici sono stati perquisiti perché nell’inchiesta è indagato l’amministratore Vito Ladisa, era stata propio la “vicinanza” con il governatore Emiliano. Come scriveva il quotidiano La Repubblica nella sua edizione barese “La Gdf era alla ricerca di “finanziamenti, contributi regionali, contratti di appalto, delibere e determine” e di documenti relativi alla registrazione nelle scritture contabili della fattura dell’ottobre 2017, dell’importo di circa 59 mila euro, emessa dall’agenzia di comunicazione torinese Eggers 2.0 nei confronti di Ladisa”. La perquisizione della Guardia di Finanza portò anche a sequestro di documenti. Il sospetto degli inquirenti è che ci sia un collegamento tra il pagamento della Ladisa di una fattura alla Eggers (che vantava un credito nei confronti di Emiliano di cui aveva curato la campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017, senza essere stata pagata ” ) e eventuali rapporti di lavoro delle aziende pugliesi che hanno poi pagato quel debito e la Regione Puglia. I finanzieri stanno ricostruendo, infatti, anche i rapporti tra l’imprenditore barese con il presidente Emiliano nonché con alcuni dei suoi collaboratori e con il titolare della società di comunicazione, Pietro Dotti. Nel provvedimento del gip di Bari Antonella Cafagna su richiesta del procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e del sostituto Savina Toscani, della Procura di Bari comparivano i nomi dei cinque indagati: oltre ad Emiliano, accusato di “abuso d’ufficio“, “induzione indebita a dare o promettere utilità” e “concorso in reati tributari”  appunto quello di Vito Ladisa. Coincidenze ? La gestione provvisoria per 8 mesi dei Ladisa si svolgerà in attesa dell’asta fallimentare, dove si faranno i veri “giochi” per determinare il futuro del giornale barese, motivo per cui onestamente viene da sorridere nel leggere i soliti patetici trionfali…. comunicati sindacali. “Sarà, inoltre, necessario rimboccarsi immediatamente le maniche per mettere a punto un piano industriale di rilancio che assicuri sostenibilità, tuteli l’occupazione valorizzando le professionalità e faccia crescere l’offerta informativa del giornale” scrivono in una nota congiunta, la FNSI-Federazione Nazionale della Stampa italiana e le Associazioni regionali di Stampa di Puglia e Basilicata: “Va potenziato il legame della testata con i singoli territori della Puglia e della Basilicata, che le gestioni del passato hanno mortificato e impoverito“. I Ladisa grazie alla loro offerta hanno evitato per solo per i prossimi 8 mesi il licenziamento degli 147 dipendenti, che hanno non poche responsabilità nel fallimento del giornale con una massa di oltre 50 milioni di euro dei debiti. Qualcuno dovrebbe ricordare ai sindacati che il giornale lo scrivono i giornalisti, e che i lettori comprano in edicola i quotidiani per leggere delle notizie di loro interesse. Se le vendite sono calate, scendendo a circa 10 mila copie al giorno (in un bacino di oltre 6 milioni e mezzo di potenziali lettori), non è certo colpa di chi gestiva il giornale, cioè l’editore, ma a parer mio di chi lo scriveva e confezionava giornalisticamente. A partire dall’attuale Direttore Giuseppe De Tomaso che si era dimesso, convinto di potersene andare in pensione, e rientrato poche ore dopo dietro la sua scrivania quando si è accorto che non poteva ottenere la pensione! Non vogliamo certamente difendere l’editore Mario Ciancio di Sanfilippo, che qualcuno ha dimenticato, è stato a lungo presidente della FIEG la Federazione Italiana degli Editori dei Giornali, ma soltanto auspicare che un buon approfondito esame di coscienza dovrebbero farlo per primi i giornalisti della Gazzetta a partire dal loro direttore Giuseppe De Tommaso , plurindagato attualmente sotto processo penale a Bari, e quel giornalista-sindacalista che si è fatto una società privata (come documentato da questo giornale) per “arrotondare” le proprie entrate sottraendo potenziali entrate pubblicitarie alla Gazzetta del Mezzogiorno dirottate a Radio Cittadella una semi-sconosciuta emittente radiofonica in quel di Taranto. L’aggiudicazione all’esito della scadenza del bando cui è pervenuta una sola offerta, è stata correttamente gestita dai curatori fallimentari della procedura, il prof. Michele Castellano ed il dott. Gabriele Zito, che hanno dovuto “battagliare” persino con la Sovraintendenza di Bari che voleva avere voce in capitolo, è avvenuta alla presenza dell’amministratore unico della società del Gruppo Ladisa, il dott. Franco Sebastio, ex procuratore capo a Taranto, e successivamente assessore alla legalità del Comune di Taranto salvo essere poi vergognosamente “rottamato” e rimosso dal suo incarico dal Sindaco Rinaldo Melucci che gli ritirò la delega assessorile senza alcun valido motivo, mandandolo a casa. La società del Gruppo Ladisa è stata assistita nell’intera operazione (che è consistita nel presentare un’offerta) dagli advisor legali prof. avv. Vincenzo Vito Chionna e prof. avv. Michele Lobuono oltre che dagli advisor lavoristici avv. Gianni Di Cagno e avv. Fabio Di Cagno (legali dello Studio Polis di Bari ) e dall’advisor finanziario  dott. Ignazio  Pellecchia “scongiura l’estinzione del più antico e seguito quotidiano di Puglia e Basilicata oltre che il licenziamento di 147 dipendenti che sarebbe ineluttabilmente conseguito alla cessazione dell’esercizio provvisorio fallimentare già decisa  dal tribunale a decorrere dal 20 novembre 2020” scrive oggi la Gazzetta del Mezzogiorno sul suo sito online.

Martella: ora si costruiscano le condizioni per il rilancio del giornale. “Abbiamo seguito fin dall’inizio e costantemente la vicenda della Gazzetta del Mezzogiorno e salutiamo con favore l’aggiudicazione del bando per il fitto di ramo d’azienda e il raggiunto accordo sindacale che garantirà la continuità delle pubblicazioni di questa storica testata. La Gazzetta del Mezzogiorno rappresenta una realtà importante nel panorama editoriale e dell’informazione nazionale. Continueremo a seguire l’evoluzione della vicenda in vista del termine di luglio previsto per la vendita della testata, confidando che questo tempo serva a costruire le condizioni per il rilancio del giornale”. scrive in una nota Andrea Martella Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria e all’Informazione. Sulla base di quanto indicato nel bando, adesso la Ledi ha tre giorni per riprendere le pubblicazioni della Gazzetta del Mezzogiorno , che da domani dovranno essere sospese, e 15 giorni per firmare il contratto. Ma quello che vi abbiamo raccontato, state tranquilli sulla Gazzetta del Mezzogiorno e sui comunicati sindacali, non lo leggerete. I soldi a volte, sopratutto per chi è affamato, non puzzano…

Crac Bari Calcio: la procura chiede il processo per gli ex-amministratori. Il Corriere del Giorno il 13 Febbraio 2020. La Procura contesta ad alcuni degli indagati, tra i quali gli ex parlamentari Salvatore e Antonio Matarrese e De Bartolomeo,  il concorso nella bancarotta per condotte omissive, per non aver cioè impedito l’evento-fallimento nonostante fossero a conoscenza della situazione debitoria. La Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per il reato di bancarotta fraudolenta nei confronti dei sei ex componenti del Consiglio di amministrazione e amministratori pro-tempore dell’Associazione sportiva Bari Calcio spa, fallita nel marzo 2014. Richiesto il processo per l’ex onorevole Antonio Matarrese che è stato anche presidente Figc, nella sua qualità di vicepresidente vicario del CdA del Bari dal 2010 al 2011, l’ex parlamentare Salvatore Matarrese, consigliere della società sportiva dal 2002 al 2011, suo cugino omonimo, ad dal 2002 al 2010 e consigliere fino al 2011, gli ex amministratori unici Claudio Garzelli e Francesco Vinella e  Domenico De Bartolomeo, componente del CdA del Bari calcio dal 2008 al 2011 ed attuale presidente di Confindustria Puglia. Le indagini della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dalla pm Bruna Manganelli, hanno accertato che gli imputati anziché pagare i debiti tributari dal 2009 al 2013 , avrebbero pagato gli stipendi dei calciatori, garantito “tramite pegno” un finanziamento ottenuto dalla Banca Popolare di Bari per un milione di euro, coperto il saldo dello scoperto del conto acceso presso lo stesso istituto di credito e pagato altri debiti per ulteriori 5 milioni di euro, facendo così crescere i debiti col fisco del 70% arrivando fino a 55 milioni di euro. Secondo la Procura di Bari gli indagati pur in presenza di un’ingente debito con l’Erario, a in seguito vrebbero “posto in essere molteplici condotte depauperative del patrimonio societario in favore della società controllante “Salvatore Matarrese srl“ e della «Servizi sportivi srl» (coordinatrice dell’attività di marketing e merchandising del marchio «A.S. Bari S.p.A.») quantificate in ulteriori 12,5 milioni di euro, causando un indebitamento che ha aggravato in modo irreversibile lo stato di dissesto della società calcistica, destinandola così al fallimento”. La Procura contesta ad alcuni degli indagati, tra i quali gli ex parlamentari Salvatore e Antonio Matarrese e De Bartolomeo,  il concorso nella bancarotta per condotte omissive, per non aver cioè impedito l’evento-fallimento nonostante fossero a conoscenza della situazione debitoria.

Bari, lo scandalo BpB all'anno giudiziario: «Travolto un sistema di potere». Il presidente Franco Cassano sulla vicenda giudiziaria che ha coinvolto gli ex vertici dell'istituto bancario barese. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Febbraio 2020. «Un intero sistema di potere ne è uscito travolto» e, «comunque vada, il tessuto economico-finanziario della città non sarà più lo stesso». Lo ha detto il presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario di Bari, con riferimento alla vicenda giudiziaria in cui è coinvolta la Banca Popolare di Bari, che ieri ha portato all’arresto di tre persone, tra cui l’ex presidente Marco Jacobini e suo figlio Gianluca, ex codirettore dell’istituto di credito. «L'avventura della Banca popolare di Bari - ha rilevato Cassano - ha valenza simbolica per la storia di questa città e non solo», e «riveste una situazione umana drammatica: 70mila soci, oltre duemila dipendenti e tantissimi piccoli risparmiatori, anche pensionati, vivono momenti dolorosi». Cassano ha poi evidenziato «la sollecitudine della risposta giudiziaria, sia di quella penale con le indagini attivate dalla Procura di Bari su plurime ipotesi delittuose che ieri hanno condotto alle custodie cautelari, sia di quella civile che ha visto la Corte di Appello nel settembre 2019 assumere approfondite decisioni, confermative delle sanzioni irrogate dalla Consob nei confronti della Banca e dei suoi dirigenti, decisioni peraltro ancora non definite».

A Foggia lo Stato combatte la mafia - La provincia di Foggia sta vivendo una «fase delicata», nella quale «lo Stato e la criminalità si fronteggiano in una partita decisiva per il controllo del territorio e della società civile». Lo ha detto il presidente della Corte d’appello di Bari, Franco Cassano, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario.

«La pressione della malavita foggiana sulla società civile si è fatta più stringente - ha rilevato Cassano - con il ricorso continuo agli atti di intimidazione violenta, da quando la risposta dello Stato è intervenuta in modo severo». «Nella provincia di Foggia si registrano ancora eventi che destano allarme e preoccupazione» ha aggiunto il presidente secondo il quale «la criminalità organizzata foggiana mantiene la sua struttura federale a base familistica, caratterizzata dalla coesistenza di più batterie in conflittualità endemica tra loro». «In capo agli esponenti del sodalizio mafioso foggiano - ha sottolineato - grava sempre il dovere di corrispondere gli stipendi agli associati, come il dovere di assistere economicamente i sodali detenuti e le loro famiglie». «Ebbene - ha concluso - da quando lo Stato è intervenuto in modo severo, con arresti e operazioni che hanno ristretto l’area di manovra delinquenziale, le necessità economiche delle batterie sono cresciute, per l’aumento dei sodali detenuti e delle famiglie da sostenere».

La crisi del Csm - «La magistratura non è estranea al processo di deperimento democratico del Paese. Lo scandalo delle nomine e degli eventi che hanno travolto nei mesi scorsi il Csm hanno innescato una crisi senza precedenti». Lo ha detto il presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario di Bari. «L'inchiesta di Perugia - ha aggiunto - ha segnalato una salto di qualità negativo rispetto a criticità da tempo emerse, che hanno prodotto un progressivo scollamento tra la magistratura e l’istituzione consiliare, aprendo un varco pericoloso, nel quale sono cresciuti sentimenti di rivolta contro l’intero funzionamento della rappresentanza».

«La mancanza di un ruolo autorevole dei gruppi associativi all’interno del Consiglio - ha concluso - può agevolare le logiche di potere personale. Occorrerebbe allora rilanciare il ruolo di luoghi di elaborazioni culturali collettive, tradizionalmente proprio dei gruppi associativi».

Shoah - «Oggi non si esita a recuperare i temi della xenofobia, del razzismo antisemita, del suprematismo bianco e della sopraffazione, mentre per le strade i neofascisti assaltano omosessuali ed immigrati. A Brescia la porta di una chiesa è stata imbrattata con la svastica, e nel giorno della Shoah, vicino Cuneo, abbiamo rivissuto la vergogna della scritta 'Juden hier', mentre il 15% degli italiani dichiara di non credere alla verità della Shoah. Si va perdendo memoria, e con essa ogni freno». Lo ha detto il presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario, riferendosi a scritte nazista e svastiche recentemente apparse sui muri di diverse città d’Italia, compreso quello della cattedrale di Andria. Cassano ha ricordato che «a seguito di indagini svolte dalla Procura è stata disposta la chiusura della sede cittadina di Casapound e che sono decine le persone indagate per ricostituzione del disciolto partito fascista, oltre che per le lesioni procurate ai manifestanti di un corteo tenutosi il 21 settembre 2018». «Non sfugge che la più grande crisi industriale del Paese, legata alla fuga dell’impresa Arcelor Mittal dall’ex Ilva di Taranto, sia stata arginata, in mancanza di un qualsivoglia progetto politico, solo dalla minaccia dell’intervento giudiziario». Lo ha detto il presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, parlando della vicenda ex Ilva in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Bari. La provincia di Foggia sta vivendo una «fase delicata», nella quale «lo Stato e la criminalità si fronteggiano in una partita decisiva per il controllo del territorio e della società civile». Lo ha detto il presidente della Corte d’appello di Bari, Franco Cassano, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. «La pressione della malavita foggiana sulla società civile si è fatta più stringente - ha rilevato Cassano - con il ricorso continuo agli atti di intimidazione violenta, da quando la risposta dello Stato è intervenuta in modo severo». «Nella provincia di Foggia si registrano ancora eventi che destano allarme e preoccupazione» ha aggiunto il presidente secondo il quale «la criminalità organizzata foggiana mantiene la sua struttura federale a base familistica, caratterizzata dalla coesistenza di più batterie in conflittualità endemica tra loro».

«In capo agli esponenti del sodalizio mafioso foggiano - ha sottolineato - grava sempre il dovere di corrispondere gli stipendi agli associati, come il dovere di assistere economicamente i sodali detenuti e le loro famiglie». «Ebbene - ha concluso - da quando lo Stato è intervenuto in modo severo, con arresti e operazioni che hanno ristretto l’area di manovra delinquenziale, le necessità economiche delle batterie sono cresciute, per l’aumento dei sodali detenuti e delle famiglie da sostenere».

Polo giustizia - «Gli interessi sono enormi e sappiamo che ci attendono difficoltà crescenti, di ogni tipo, via via che la situazione si farà plausibile». Lo ha detto il presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, durante l'inaugurazione dell’anno giudiziario, facendo riferimento al progetto di realizzazione del nuovo Polo unico della Giustizia di Bari. «Una questione che ci affligge e ci mortifica» ha detto Cassano, ricordando che «molti mesi sono trascorsi dalla stipula del secondo protocollo, nel luglio 2019, senza che sia accaduto alcunché». «Dal ministero - ha aggiunto - giungono ora segnali rassicuranti e un continuo sostegno lo sta dando il sindaco di Bari. L’opera da progettare è immane, di oltre 125.000 metri quadrati e il suo costo ingente, si procederà per lotti e i tecnici si metteranno a breve al lavoro». «Siamo esausti - ha concluso - ma dobbiamo confidare che questa città, la cui immagine cresce nel Paese, e la sua comunità di giuristi possano avere degli uffici giudiziari dignitosi».

Le parole del procuratore generale della Repubblica di Bari  - «L'inchiesta che ha condotto all’arresto di due magistrati ha disvelato l’esistenza di un sistema di malagiustizia» nel Distretto della Corte d’appello di Bari. Lo ha detto il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Bari, Anna Maria Tosto, nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, con riferimento all’indagine della Procura di Lecce sul «sistema Trani» nella quale sono coinvolti l’ex gip Michele Nardi, in carcere per corruzione in atti giudiziari, e l’ex pm Antonio Savasta (ai domiciliari e per il quale ieri è stata chiesta la condanna a 10 anni). Per Tosto «se (quel sistema di malagiustizia, ndr) ha potuto originarsi e operare è stato anche a causa delle connivenze, degli imperdonabili silenzi, dell’indifferenza consumata ai danni della collettività e dei tanti magistrati che invece hanno lavorato, e lavorano, nel rispetto del giuramento di fedeltà pronunciato all’inizio del loro mandato». «A gennaio 2020, nel giro di pochi giorni, si sono susseguiti sul territorio di Foggia una serie di atti intimidatori: tempistica e destinatari degli attentati denunciano che si tratta della reazione rabbiosa alla progressiva inarrestabile rivendicazione della scelta di legalità e di coraggio che ormai viene dalla società civile». Lo ha detto il procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. «Le migliaia di persone in marcia alla manifestazione di Libera - ha ricordato - costituiscono un sostegno morale imbattibile per quanti finalmente hanno scelto di testimoniare, di denunciare, di collaborare». Tosto ha evidenziato che quella foggiana è «una mafia che somma in sé il familismo della 'ndrangheta e la ferocia della camorra cutolina, capace però di evolvere e, dunque, moderna nella progressiva infiltrazione nei settori nevralgici dell’imprenditoria locale». «Una mafia - ha concluso - che ha raggiunto i suoi obiettivi attraverso un uso capillare, sistematico dell’estorsione. Il delitto più odioso perché non aggredisce solo il patrimonio, annulla la libertà delle vittime e così ne mortifica la dignità, ne condiziona la vita».

Meno omicidi più indagini per mafia - Nel distretto di Corte di Appello di Bari, dal giugno 2018 al luglio 2019, sono quasi dimezzati i procedimenti per omicidio volontario (da 85 a 45, dieci dei quali hanno come vittima una donna) e molto diminuite le denunce per reati di terrorismo (da 20 a 8), ma sono aumentate quelle per estorsione (da 870 a 1.011) e quasi raddoppiati i procedimenti per reati di mafia (da 40 a 74). Sono alcuni dei dati contenuti nella relazione presentata in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Bari. Dalla lettura dei dati emerge anche una diminuzione degli omicidi stradali (da 120 a 94), delle rapine (da 1.729 a 1.301) e delle bancarotte fraudolente (da 170 a 157). Sono invece aumentati i procedimenti per riduzione in schiavitù (da 15 a 26), per pedofilia e pedopornografia (da 64 a 86) e stalking (da 1.191 a 1.223). «Un dato interessante ai fini del dibattito politico - ha sottolineato il presidente della Corte di Appello, Franco Cassano - è quello concernente il numero dei reati commessi da cittadini stranieri, in evidente decremento (da 5.234 denunce a 3.689). Nel settore civile, la relazione rileva un aumento del 21% a Bari dei ricorsi per divorzio congiunto, in calo del 10% a Foggia, mentre «le controversie in materia di lavoro si connotano per la loro peculiarità qualitativa, con particolare riguardo al contenzioso in materia di pubblico impiego e nei confronti del Miur».

Avvocate pagate la metà rispetto ai colleghi - Un «inaccettabile gap di genere, con le avvocate che guadagnano meno della metà dei colleghi uomini" è stato evidenziato dal presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari, Giovanni Stefanì, nel suo intervento in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario. Ammonta a 13.721 euro il reddito medio conseguito dalle avvocate pugliesi nel 2017 contro i 30.103 degli avvocati, una differenza di 16.382 euro, «segno - ha detto Stefanì - che nella professione forense pugliese la sensibilizzazione per favorire la parità di genere a livello retributivo non sta sortendo effetti». Stefanì ha inoltre evidenziato «l'indecoroso trattamento riservato agli avvocati nel patrocinio a spese dello Stato, con compensi decurtati del 50% e liquidati dopo quattro anni circa». Nel suo intervento il presidente degli avvocati baresi ha toccato anche i temi della riforma della prescrizione, "sciagurata e inaccettabile», e dell’edilizia giudiziaria «al collasso», auspicando a questo proposito che «l'accelerazione impressa dal Ministero della Giustizia alla partita relativa al nuovo polo giudiziario possa essere il viatico all’avvio di procedure concrete volte alla realizzazione dell’opera in tempi ragionevolmente brevi». Sullo stesso argomento si è soffermato il presidente della giunta distrettuale dell’Anm di Bari, Giuseppe Battista, chiedendo «informazioni concrete su atti e tempi». Con riferimento alla vicenda di Trani, relativa a un giro di tangenti che ha coinvolto due magistrati, Battista, facendo «autocritica», ha detto che «dobbiamo reprimere ogni tentazione di collusione col potere politico ed economico».

Bari, sindaco Decaro denuncia festa clan. Rimosse le luminarie in via Nicolai. «Ogni 2 febbraio fuochi artificio, spari e luminarie, ora basta». La Gazzetta del Mezzogiorno l'01 Febbraio 2020. «Pare che a Bari, da qualche tempo, ci sia una nuova "festa". Ogni anno, il 2 febbraio, una famiglia vicina ad uno dei clan mafiosi della città, mette in scena una sorta di festeggiamento in onore del capostipite, appropriandosi di un pezzo di città, con precisione di un isolato di via Nicolai, organizzando una parata con tanto di istallazione di luminarie, il passaggio di una banda, lo sparo di fuochi d’artificio e altre attività che lascerebbero pensare ad una vera e propria festa di paese. Peccato si tratti di un rito totalmente illegale, che richiama le pratiche e la cultura mafiosa, che tutti i cittadini per bene della nostra città non possono accettare né tollerare». Lo scrive su Facebook il sindaco di Bari, Antonio Decaro, sottolineando che si sta "recando in Questura per presentare formale denuncia della cosa». «Farò in modo che in quella strada, domenica - prosegue - a vincere sia lo Stato, la città di Bari e tutti i cittadini per bene». «Poi - aggiunge - non importa se troveranno un modo per sparare qualche fuoco pirotecnico in qualche isolato lì vicino, per provare ad affermare la loro presenza». «Il 2 febbraio 2020 - conclude - su quell'isolato di via Nicolai ci sarà la città di Bari, non la festa di un clan».

La rimozione delle luminarie. Dopo la denuncia presentata ieri sera dal sindaco di Bari, Antonio Decaro, intenzionato a interrompere la «festa che ogni 2 febbraio una famiglia vicina ad uno dei clan mafiosi della città mette in scena in onore del capostipite», è in corso lo smontaggio delle luminarie in via Nicolai, dove ogni anno si ripete il rito.

La zona, a quanto si apprende, è presidiata dalle forze dell’ordine. E mentre le luminarie vengono smontate una signora urla «vergognatevi». Una dei componenti della famiglia che organizzerebbe la festa, ha pubblicato su Facebook un post in cui difende la 'tradizionè, spiegando che «il 2 febbraio è il giorno della candelora (festa liturgica) pertanto ogni famiglia devota la festeggia nel modo in cui crede...». La signora precisa che in «via Nicolai da secoli questa tradizione si svolge» all’aperto «con fedeli, gente bisognosa, bambini vestiti da carnevale» e «addirittura un parroco che svolge la liturgia ed infine benedice la statua».

L'appello di Emiliano: Bisogna togliergli tutti gli spazi - «Decaro ha fatto benissimo. Bisogna togliergli tutti gli spazi. Anche una festa, se ha carattere criminale, peraltro con degli spari non autorizzati, non è possibile. Se proprio uno vuole festeggiare qualcosa lo faccia in silenzio, non per strada, a casa sua e senza rompere le scatole a nessuno». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, a margine della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario di Bari, commentando la decisione del sindaco Antonio Decaro di denunciare e interrompere quella che ha definito una «festa che ogni 2 febbraio una famiglia vicina ad uno dei clan mafiosi della città mette in scena in onore del capostipite». «Il sistema giudiziario - ha detto Emiliano - non può vivere senza il contesto della società, ecco perché la Regione Puglia investe 13 milioni di euro sui programmi di educazione alla legalità dei bambini, e consente alle scuole, alle parrocchie, alle associazioni sportive di parlare di mafia e di emancipare i nostri piccoli dalla pedagogia dei gruppi mafiosi».

Bari, un frate benedice il rito del clan vietato dal sindaco. La Curia si dissocia: "Turba la coscienza della città". Il rituale si è compiuto comunque con la partecipazione di persone del quartiere, i palloncini, i fiori, le note della banda e qualche petardo esploso nella mattinata, come segno di sfida. Gino Martina il 02 febbraio 2020 su La Repubblica. Un Padre nostro che mette in imbarazzo la curia barese. E' quello recitato da un frate nel rituale religioso della famiglia Sedicina nel rione Libertà di Bari. Un rituale legato alla festa della Candelora ma che nella realtà, come ha denunciato in questura il sindaco Antonio Decaro, rappresenta una manifestazione con precisi codici mafiosi. "Un religioso in modo improvvido si è reso presente alla cerimonia non autorizzata e vietata dal sindaco. La Curia e il vescovo condannano l'episodio che turba gravemente la coscienza civile e religiosa di tutti". Il frate, nonostante le polemiche e l'intervento di polizia, carabinieri e vigili urbani per far rimuovere le luminarie, impedire la processione con la banda e l'esplosione dei fuochi d'artificio, senza alcuna autorizzazione, ha benedetto la statua e fatto recitare ai partecipanti della cerimonia nell'androne del palazzo di via Nicolai, la preghiera più cara ai fedeli cattolici assieme all'Ave Maria. "Affidarsi a Dio con la consapevolezza che la nostra vita è affidata a Dio" e la "Benedizione è dire il bene degli altri" ha recitato il frate prima dell'applauso e la musica della banda. Parole e partecipazione condannate senza mezzi termini da don Francesco Preite, parroco del Redentore, non solo una chiesa e un oratorio, ma anche un presidio di legalità e speranza per i giovani del quartiere. "Non posso credere che quel frate - racconta amareggiato - non sia a conoscenza di ciò che vuol dire quel rito, che codici abbia. La sua partecipazione è deprecabile e sconfortante. Rischia di rovinare un lavoro quotidiano, complesso e difficile, soprattutto con le nuove generazioni, la parte più sensibile del Libertà. Dopo le prese di posizione del sindaco e del questore, che hanno fatto ben capire cosa ci sia dietro certe manifestazioni, è incomprensibile come si possa esserne complici. Ciò che accade lì non è dissimile dallo schiaffo ricevuto dalla giornalista del Tg1 Mariagrazia Mazzola due anni fa dalla moglie del boss". Il rituale, comunque, si è compiuto, non come avrebbero voluto gli organizzatori, ma con la partecipazione di persone del quartiere, i palloncini, i fiori, le note della banda e qualche petardo esploso nella mattinata, come segno di sfida.

Gino Martina per bari.repubblica.it il 3 febbraio 2020. Un Padre nostro che mette in imbarazzo la curia barese. E' quello recitato da un frate nel rituale religioso della famiglia Sedicina nel rione Libertà di Bari. Un rituale legato alla festa della Candelora ma che nella realtà, come ha denunciato in questura il sindaco Antonio Decaro, rappresenta una manifestazione con precisi codici mafiosi. "Un religioso in modo improvvido si è reso presente alla cerimonia non autorizzata e vietata dal sindaco. La Curia e il vescovo condannano l'episodio che turba gravemente la coscienza civile e religiosa di tutti". Il frate, nonostante le polemiche e l'intervento di polizia, carabinieri e vigili urbani per far rimuovere le luminarie, impedire la processione con la banda e l'esplosione dei fuochi d'artificio, senza alcuna autorizzazione, ha benedetto la statua e fatto recitare ai partecipanti della cerimonia nell'androne del palazzo di via Nicolai, la preghiera più cara ai fedeli cattolici assieme all'Ave Maria. "Affidarsi a Dio con la consapevolezza che la nostra vita è affidata a Dio" e la "Benedizione è dire il bene degli altri" ha recitato il frate prima dell'applauso e la musica della banda. Parole e partecipazione condannate senza mezzi termini da don Francesco Preite, parroco del Redentore, non solo una chiesa e un oratorio, ma anche un presidio di legalità e speranza per i giovani del quartiere. "Non posso credere che quel frate - racconta amareggiato - non sia a conoscenza di ciò che vuol dire quel rito, che codici abbia. La sua partecipazione è deprecabile e sconfortante. Rischia di rovinare un lavoro quotidiano, complesso e difficile, soprattutto con le nuove generazioni, la parte più sensibile del Libertà. Dopo le prese di posizione del sindaco e del questore, che hanno fatto ben capire cosa ci sia dietro certe manifestazioni, è incomprensibile come si possa esserne complici. Ciò che accade lì non è dissimile dallo schiaffo ricevuto dalla giornalista del Tg1 Mariagrazia Mazzola due anni fa dalla moglie del boss". Il rituale, comunque, si è compiuto, non come avrebbero voluto gli organizzatori, ma con la partecipazione di persone del quartiere, i palloncini, i fiori, le note della banda e qualche petardo esploso nella mattinata, come segno di sfida.

Bari, l'Ordine degli psicologi e i 500 voti fantasma: contestate le elezioni. Faro su 500 schede annullate: la decisione spetta al Ministero della Salute. Il consiglio nazionale: va commissariato. Massimiliano Scagliarini il 29 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Candidature contestate, voti fantasma, scrutatori che si dimettono. L’Ordine degli psicologi della Puglia finisce nella bufera: il Consiglio nazionale, con il presidente Fulvio Giardina, ha chiesto al ministero della Salute di disporne il commissariamento, mentre alcuni candidati hanno fatto ricorso al Tribunale di Bari per annullare le elezioni che a novembre hanno portato alla proclamazione come presidente di Vincenzo Gesualdo, ex assessore comunale di Bitonto, già numero due dell’Ordine regionale. La relazione del presidente Giardina ricostruisce una serie di possibili irregolarità nelle procedure di voto, culminate nell’annullamento di circa 500 voti espressi per corrispondenza sul totale di circa 1.900 (a fronte di 5.700 iscritti). Una procedura un po’ bizantina rende infatti possibile il voto tramite raccomandata, che nella prassi si traduce nel ruolo di alcuni delegati che si occupano di raccogliere in busta chiusa i voti e di portarli al seggio elettorale dove, però, qualcosa non ha funzionato. La relazione dell’Ordine nazionale ricostruisce una situazione piuttosto burrascosa. A partire dalla candidatura del presidente uscente Antonio Di Gioia, presentata nonostante il professionista avesse già raggiunto il limite dei due mandati e quindi ritirata «non senza polemiche». «La segreteria del Consiglio territoriale - è detto nel documento - è stata chiusa durante le operazioni elettorali, impedendo così sia il ritiro che la consegna dei plichi per il voto postale», che la presidente di seggio prima rifiutava e poi accettava, salvo poi dimettersi: «La presidente di seggio nominata in sostituzione di quella dimissionaria - prosegue la relazione ha ritenuto “inaccettabili” i plichi per il voto postale che erano stati a suo tempo ritirati». Un pasticcio, appunto, perché lo stesso Consiglio nazionale dell’ordine - dopo le rimostranze di alcuni iscritti - ha chiesto una serie di chiarimenti, invitando più volte Di Gioia a sospendere le operazioni. Invece l’Ordine di Bari è andato avanti con la proclamazione degli eletti che nel frattempo si sono anche insediati e hanno eletto presidente Gesualdo, psicologo della Asl di Bari: interpellato dalla «Gazzetta», non ha voluto fornire spiegazioni. Gli avversari (sconfitti) sono sul piede di guerra per quei 500 voti non accettati a fronte di uno scarto con i vincitori di poco più di 200 voti. «I delegati al ritiro del plico erano poche persone, tutte chiaramente identificabili», dice Giuseppe Vinci, il candidato presidente della lista Altra Psicologia che, insieme ad altri colleghi, ha fatto ricorso al Tribunale ordinario (con l’avvocato Luigi Paccione di Bari). «Il rischio gravissimo - dice - è che questa vicenda sia classificata come una bega degli psicologi, quando invece siamo di fronte a un problema di legalità». La decisione spetta ora al ministero della Salute. [m.s.]

Archiviata indagine su Michele Emiliano: non fu abuso d’ufficio. Il Corriere del Giorno il 12 Giugno 2020. La gip Antonella Cafagna del Tribunale di Bari ha scagionato il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano per le designazioni nel cda di InnovaPuglia, sostenendo che non aveva alcun dovere di verifica perché spettava agli interessati dire la verità. Incredibile! Dopo la brutta notizia della conclusione dell’indagine per corruzione, per Michele Emiliano presidente della Regione Puglia, ne arriva una buona nell’ambito dell’inchiesta in cui il presidente era indagato per “abuso d’ufficio” insieme al dirigente regionale Nicola Lopane. La gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna ha accolto l’ archiviazione, richiesta dal pm Chiara Giordano, motivando che ” Le nomine di Francesco Spina e Alessandra Lopez nel Consiglio di amministrazione di InnovaPuglia, da parte del presidente della Regione, Michele Emiliano, sono state legittime” . L’ omissione c’è stata ma è stata commessa da Spina, che non ha dichiarato di essere Sindaco di Bisceglie e di avere in corso contenziosi con la Regione Puglia, inducendo la giunta regionale in errore. Una decisione discutibile, che di fatto legittima la circostanza di non verificare la legittimità di una nomina pubblica. L’indagine era scaturita a seguito di una delega della Corte dei Conti pugliese affidata alla Guardia di Finanza , che aveva acceso un faro sulle società in house della Regione tra le quali InnovaPuglia. Gli accertamenti avevano fatto emergere che su proposta di Emiliano la giunta regionale lo scorso 28 luglio 2017 aveva nominato il cda di InnovaPuglia, costituito dal presidente Fabrizio D’Addario e dai consiglieri Alessandra Lopez e Francesco Spina. In base alla Legge Severino queste nomine erano condizionate all’acquisizione di documentazione che comprovasse l’assenza di cause di inconferibilità e incompatibilità. Spina aveva presentato la propria documentazione il 2 agosto 2017, omettendo però di indicare che all’epoca era ancora sindaco di Bisceglie e che aveva in atto contenziosi civili con la Regione Puglia a causa di incarichi legali svolti diversi anni prima. Qualcosa che non poteva essere ignota alla Giunta regionale ed in particolare ad Emiliano. Secondo la Guardia di Finanza per questo motivo non avrebbe potuto assumere l’incarico nella società InnovaPuglia, il cui statuto prevede che l’intero consiglio di amministrazione detenesse poteri gestionali. Una questione che invece Spina aveva pensato di bypassare con una dichiarazione inviata alla Regione il 16 agosto 2017, cioè dopo che la nomina era diventata esecutiva, in cui dichiarando di essere sindaco di Bisceglie, si impegnava contestualmente a non assumere deleghe o poteri di rappresentanza in Innova Puglia. L’ ANAC a cui si erano rivolti i consiglieri regionali del Movimento5 Stelle, che sostenevano l’illegittimità delle nomine, ha escluso a luglio 2019 che la nomina di Spina fosse incompatibile, basandosi sulla precedete motivazione espressa dalla stessa Autorità anticorruzione nel gennaio 2017, con la quale veniva individuato come “amministratore” di enti soltanto i presidenti che detenevano deleghe gestionali e gli amministratori. Invece nel caso di Spina, era tutto in regola in quanto si trattava di un semplice consigliere di amministrazione. Né aveva ribadito l’Anac si poteva fare riferimento alle controversie giuridiche di Spina con la Regione Puglia risalenti al 2012. La richiesta di archiviazione della Procura si basa sulla delibera Anac ma anche per le dichiarazioni testimoniali di alcune persone informate sui fatti fra le quali la segretaria della giunta regionale Carmela Moretti, (all’epoca dei fatti n.d.r. ), le dipendenti Amelia Dilonardo ed Eleonora De Giorgi , che hanno riferito come il nome di Spina fosse stato proposto da Emiliano dopo un’istruttoria effettuata da un funzionario. Per la pm Chiara Giordano nonostante Emiliano era certamente consapevole del fatto che Spina guidava il Comune di Bisceglie di cui era Sindaco, “si può dubitare che ritenesse sussistente la causa di inconferibilità ” sulla base della circostanza che la giunta regionale aveva dato ai tre neo-consiglieri di amministrazione nominati, un termine di 15 giorni per chiarire le loro posizioni. La pm barese nella sua richiesta di archiviazione in favore di Emiliano scrive che “Per ritenere che Emiliano abbia commesso un abuso d’ufficio, bisognerebbe dimostrare il concorso nel reato di falso commesso da Spina” . Una valutazione accolta integralmente dalla gip Cafagna che a sua volta ha ribadito che “la nomina dei consiglieri risultava sottoposta a sospensiva, in attesa dell’acquisizione delle dichiarazioni sull’incompatibilità“. Secondo le magistrate baresi è responsabilità del sindaco di Bisceglie di “omettere un’informazione dovuta e rilevante ” grazie alla quale “la nomina diventava efficace“. Secondo la Gip Cafagna, Michele Emiliano non aveva alcun dovere di verifica perché spettava agli interessati dire la verità ! Incredibile. Per la pm Giordano l’ex primo cittadino di Bisceglie ha commesso il reato di falso e per questo motivo la sua posizione processuale non è stata archiviata. La magistrata sostiene nella sua accusa che le cause intentate al Comune di Bisceglie, nel giugno 2017, siano state strumentali a provocare la sua decadenza da sindaco “in vista dell’assunzione dell’incarico a InnovaPuglia”, nomina questa subordinata all’acquisizione di documentazione sull’incompatibilità. Ancora una volta la magistratura barese fa “cartello” con delle decisioni che sanno di incredibile. Della serie : “cane non morde cane“. Ma per fortuna non tutti i magistrati la pensano ed operano nello stesso modo.

Nomine nella sanità in Puglia, chiuse le indagini: sotto inchiesta Emiliano, i Cera e Ruggieri. Pubblicato mercoledì, 10 giugno 2020 da La Repubblica.it. La Procura di Foggia ha chiuso l'inchiesta che coinvolge il governatore Michele Emiliano, il consigliere regionale Napoleone Cera e il padre Angelo (ex parlamentare dell'Udc) nonché l'assessore regionale al Welfare Salvatore Ruggieri. I reati ipotizzati sono tentata concussione per tutti e quattro gli indagati mentre i due Cera rispondevano anche di concorso in induzione indebita a dare o promettere utilità. I presunti illeciti - stando alle indagini della guardia di finanza - sarebbero stati commessi nell'ambito di alcune nomine della sanità, per assunzioni ai consorzi di bonifica e per una gara dell'Asl di Foggia. Sugli addebiti mossi, il presidente della Regione, Michele Emiliano, ha sempre dichiarato la sua totale estraneità.  "Prendiamo atto con rispetto delle determinazioni della Procura di Foggia - ha dichiarato l'avvocato di Emiliano, Gaetano Sassanelli - anche se abbiamo la tranquillità che ci deriva dall'avere già dalla nostra parte la decisione di un Giudice che ha respinto l'ipotesi accusatoria addirittura anche a livello di gravi indizi; soglia decisamente inferiore a quella necessaria per una ipotetica condanna in un eventuale giudizio". La notizia è stata accolta con serenità anche dal consigliere Cera, che su facebook ha commentato: "Finalmente una buona notizia. Stamattina mi hanno notificato la conclusione delle indagini per la vicenda giudiziaria che mi ha riguardato.  Cosa nota come nota era il fatto che arrivasse la comunicazione di chiusura.  Ora però si faccia presto ad accertare e fare chiarezza su una vicenda della quale sono totalmente estraneo avendo agito sempre nell'interesse collettivo. Sono un uomo delle Istituzioni e come tale ho piena fiducia nell'operato della magistratura".

La Procura di Foggia chiede il processo per Michele Emiliano ed i Cera. Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2020. La Procura di Foggia ha disposto la notifica dall’avviso di conclusioni delle indagini che coinvolge anche il presidente della Regione Puglia. I reati ipotizzati sono tentata concussione per tutti e quattro gli indagati mentre i due Cera rispondevano anche di concorso in induzione indebita a dare o promettere utilità. Chiusa l’inchiesta della Procura di Foggia che riguarda il governatore Michele Emiliano, il consigliere regionale Napoleone Cera e suo padre Angelo ex deputato dell’Udc, e l’assessore regionale al Welfare Salvatore Ruggieri. I reati ipotizzati dalla Procura sono di “tentata concussione” per tutti e quattro gli indagati mentre i Cera rispondevano entrambi anche di concorso in induzione indebita a dare o promettere utilità. Secondo gli accertamenti emersi alla luce delle indagini della Guardia di Finanza gli illeciti contestati sarebbero stati commessi nell’ambito di alcune nomine della sanità, per assunzioni ai consorzi di bonifica e per una gara dell’ ASL Foggia. L’ipotesi dell’accusa nella vicenda che coinvolge Emiliano, è che il consigliere regionale Napoleone Cera, insieme al padre Angelo, ex parlamentare Udc avrebbero assicurato il loro appoggio a Francesco Miglio candidato alla carica di sindaco di San Severo, voluto e “caldeggiato” da Michele Emiliano in cambio della nomina del commissario della Asp di Chieuti ad un uomo di loro “fiducia”. La Procura della Repubblica di Foggia con un comunicato stampa ha reso noto che “I finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari, su disposizione di questo Ufficio, al termine di una complessa e prolungata attività di indagine hanno eseguito un provvedimento di avviso di conclusione delle indagini, ex art. 415 bis c.p.p., nei confronti di:

Cera Angelo (Esponente del partito politico UDC e ex parlamentare della Repubblica italiana, padre di Cera Napoleone)e Cera Napoleone (Consigliere Regionale della Regione Puglia):

(.) per l’ipotesi di reato di cui agli artt. 81 co. 2, 110, 56 e 319 quater c.p., in ragione di pressioni che si sarebbero tradotte in tentativi di induzione indebita a dare o a promettere utilità esercitati dai Cera nei confronti degli amministratori del CONSORZIO PER LA BONIFICA DELLA CAPITANATA, al fine di ottenere l’assunzione, presso l’Ente, di alcune persone. Tali condotte non avrebbero sortito però l’effetto voluto dai Cera proprio in conseguenza della ferma opposizione da parte degli stessi amministratori del Consorzio;

(.) per l’ipotesi di reato di cui agli artt. 110 e 319 quater co. 1, per un presunta induzione indebita a dare o promettere utilità, esercitata dai Cera nei confronti del Direttore Generale della ASL Foggia, Dr. Vito Piazzolla, tesa a bloccare o comunque sospendere il processo di affidamento alla società “Sanitàservice ASL FG Srl” dell’attività di Centro Unico di Prenotazione (C.U.P.). Tale condotta avrebbe provocato il mancato avvio del C.U.P. che, internalizzato nell’ambito della ASL Foggia, avrebbe prodotto un sensibile risparmio di spesa pubblica. I Cera avrebbero, nella circostanza, avvantaggiato una società di servizi sulla quale avrebbero potuto influire, soprattutto, in termini di assunzioni di personale dipendente;

(.) per l’ipotesi di reato di cui agli artt. 110 c.p. e all’art. 86 co. 2 D.P.R. 570/1960, in ragione dell’ipotizzato ottenimento della posizione lavorativa di una persona molto vicina a  Rosalia BISCEGLIA, consigliere comunale di Manfredonia (FG), in cambio del voto da parte di quest’ultima a favore di un candidato sostenuto da Angelo e Napoleone CERA, in occasione dell’elezione del Consiglio Provinciale di Foggia ( Il voto per il consiglio provinciale Foggia si è tenuto in data 03/02/2019 n.d.r.)

(.) per l’ipotesi di reato di cui agli artt. 81 co. 2, 110, 319 in relazione ad un ipotizzato accordo corruttivo con Michele Emiliano, finalizzato a condizionare la procedura di nomina, da parte del Presidente della Regione Puglia, del commissario dell’ASP (Azienda pubblica di Servizi alla Persona) “CASTRIOTA E CORROPPOLI”.

Angelo e Napoleone CERA. In proposito, Angelo e Napoleone CERA, anche mediante l’intervento di Salvatore Ruggeri, Assessore regionale al Welfare – Politiche di Benessere Sociale e Pari Opportunità, Programmazione Sociale ed Integrazione Socio-Sanitaria, hanno manifestato al Presidente della Regione Puglia, dott. Michele Emiliano, la propria disponibilità a sostenere nell’ambito delle elezioni amministrative comunali candidati di espressione di quest’ultimo, in cambio dell’interessamento per la designazione ai vertici dell’ASP “CASTRIOTA E CORROPPOLI” di un soggetto indicato dai medesimi Cera, quale contropartita per l’appoggio elettorale garantito.

Piazzolla Vito (Direttore Generale della ASL di Foggia) per l’ipotesi di reato di cui agli artt. 81, co. 2, 319 quater co. 2, 323 c.p., in quanto il Direttore Generale della ASL di Foggia avrebbe assecondato alle richieste avanzate dai Cera, in violazione di obblighi di legge, e disposto il blocco o comunque la sospensione del processo di affidamento alla società “Sanitàservice ASL Fg Srl” dell’attività di gestione del C.U.P. dell’ASL di Foggia. L’iter di internalizzazione all’ASL sarebbe stato prossimo alla definizione e avrebbe comportato per la stessa ASL di Foggia vantaggi in termini di risparmio di costi. Ma la condotta del Pubblico Ufficiale non avrebbe permesso ciò ed anzi avrebbe consentito un ingiusto profitto a favore della stessa società di servizi vicina ai Cera sulla quale, come detto, gli stessi avrebbero potuto influire.

Bisceglia Rosalia Immacolata (Consigliere Comunale di Manfredonia) per l’ipotesi di reato di cui all’art. 86 co. 2 D.P.R. 570/1960 per voto di scambio.

Michele Emiliano (Presidente della Regione Puglia)  Salvatore Ruggeri (Assessore al Welfare della regione Puglia) per l’ipotesi di reato di cui agli artt. 81 co. 2, 110 e 321 c.p. in ragione di un ipotizzato accordo corruttivo tra Michele Emiliano ed Angelo e Napoleone CERA. In sostanza, il Presidente della Regione Puglia avrebbe acconsentito (in termini di sola promessa) a rinunciare ad una autonoma valutazione e a una imparziale comparazione degli interessi in gioco, con particolare riferimento alla individuazione del soggetto maggiormente idoneo a svolgere le funzioni di Commissario dell’ASP (Azienda pubblica di Servizi alla Persona) “CASTRIOTA E CORROPPOLI”, nonché ad utilizzare la propria discrezionalità per assecondare interessi di parte e non esclusivamente l’interesse della Pubblica amministrazione, per ricevere una ipotizzata utilità consistente nell’appoggio elettorale (ovvero 1.700/2.00. voti) e la presentazione di liste di candidati a supporto di Cera Angelo e Cera Napoleone a vantaggio del candidato sindaco di San Severo, Francesco Miglio, soggetto vicino al Presidente della Regione. In relazione all’esecuzione dell’accordo corruttivo, Salvatore Ruggeri (Assessore al Welfare della regione Puglia) sarebbe stato soggetto consapevole dei desiderata dei Cera e per questo si sarebbe posto da tramite tra i Cera e Michele Emiliano. Il decreto successivamente non veniva sottoscritto dal Presidente Emiliano e, pertanto, l’accordo corruttivo sarebbe rimasto consumato nei termini della promessa.

Si precisa che, durante la fase di indagini preliminari, è stata concessa agli indagati  l’opportunità di poter fornire chiarimenti in ordine alle ipotesi investigative oggetto di contestazione  nelle forme e nei tempi previsti dal codice di procedura penale vigente, nel pieno rispetto del diritto di difesa, costituzionalmente garantito. Tale facoltà non è stata  volutamente esercitata dagli indagati nel pieno rispetto delle loro legittime prerogative difensive. Il G.I.P., pur riconoscendo nei fatti oggetto di indagine la sussistenza in astratto della fattispecie corruttiva, ha tuttavia precisato che non risultava sufficientemente provata l’esistenza dell’accordo corruttivo tra il dott. Michele Emiliano e i Cera; tale pronuncia è stata in ogni caso oggetto di impugnazione presso il Tribunale del Riesame di Bari che ancora non ha deliberato in merito. Peraltro, l’ormai prossima scadenza del termine delle indagini preliminari non consentiva di attendere ulteriormente la pronuncia del citato Tribunale. E’ inoltre doveroso precisare che, successivamente alla pronuncia del Giudice per le indagini preliminari in argomento, sono state da questa Procura delegate all’articolazione del citato Nucleo P.E.F. competente per la repressione dei reati contro la Pubblica Amministrazione (Gruppo Tutela Spesa Pubblica – Sezione Anticorruzione) ulteriori mirate attività d’indagine atte a corroborare e supportare l’impianto probatorio già acquisito in ordine alle ipotesi di reato formulate nei termini indicati dal G.I.P. nei passaggi motivazionali contenuti all’interno del provvedimento cautelare in argomento.

La Procura Foggia chiede l’archiviazione per Emiliano. Il Corriere del Giorno il 25 Settembre 2020. L’accusa rivolta a Emiliano dalla Procura foggiana si sorreggeva sulle intercettazioni telefoniche: “Quell’Asp la voglio io, visto che non ho preso un cazzo di niente” diceva Napoleone Cera al telefono. Nell’ordinanza veniva prima riportato un sms che Emiliano inviava il 5 marzo ad Angelo Cera (“Mi raccomando a San Severo”) e poi un dialogo intercorso il 6 marzo tra Napoleone Cera e il presidente della Regione, con il primo che informa il governatore che “Ruggeri dovrebbe portare una cosa in giunta”, cioè “l’Asp di Chieuti”. Emiliano rispondeva: “va bene”. La Procura di Foggia ha chiesto l’archiviazione del procedimento a carico del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, accusato di corruzione contestato in concorso con Angelo e Napoleone Cera, padre e figlio e rispettivamente ex parlamentare e consigliere regionale pugliese dell’Udc, e dell’assessore al Welfare della Regione Puglia Salvatore Ruggieri. La richiesta di archiviazione a firma del pm Marco Gambardella, riguardava l'ipotesi di reato relativa alla nomina, in realtà mai avvenuta, del commissario dell’Asp (l’Azienda pubblica di Servizi alla Persona) Castriota e Corropoli di Chieuti. La Procura ha commentato Emiliano “ha avanzato richiesta di archiviazione per l’ipotesi di reato che mi vedeva indagato con altre 3 persone, per insussistenza del fatto. E ciò in conseguenza degli elementi correttamente e lealmente acquisiti dalla Procura a seguito di attività difensiva. Ho dedicato tutta la mia vita alla difesa della legalità, prima da magistrato, poi da sindaco e ora da presidente di Regione. Ricoprendo ruoli istituzionali è inevitabile essere sottoposti a verifica da parte della magistratura“. “E proprio in quel lavoro della magistratura – ha aggiunto Emiliano – sta la garanzia di tutti i valori in cui credo. Ecco perché invito tutti ad avere fiducia nella Giustizia“. Adesso l’ultima parola spetterà al giudice delle indagini preliminari. Emiliano era sospettato di aver acconsentito, in termini di sola promessa perché il decreto di nomina non fu mai firmato, «a rinunciare – scriveva la Procura di Foggia – ad una autonoma valutazione e a una imparziale comparazione degli interessi in gioco, con particolare riferimento alla individuazione del soggetto maggiormente idoneo a svolgere le funzioni di commissario dell’Asp, nonché ad utilizzare la propria discrezionalità per assecondare interessi di parte e non esclusivamente l’interesse della pubblica amministrazione, per ricevere una ipotizzata utilità consistente nell’appoggio elettorale, 1.700/2.000 voti, e la presentazione di liste di candidati a supporto dei Cera a vantaggio del candidato sindaco di San Severo, Francesco Miglio, vicino al presidente della Regione“. L’assessore Ruggeri era accusato di aver fatto da tramite tra i Cera e Emiliano. Il procedimento prosegue per le altre ipotesi di reato contestate ai Cera, al direttore generale della Asl di Foggia Vito Piazzolla e alla consigliera comunale di Manfredonia, Rosalia Immacolata Bisceglia, nei confronti dei quali si ipotizzano, a vario titolo, i reati di voto di scambio, abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità e tentata concussione. La richiesta di archiviazione per il presidente della Regione Puglia è stata depositata il 22 settembre, il giorno dopo le elezioni. Secondo l’avvocato Gaetano Sassanelli del Foro di Bari, difensore di Emiliano, “la Procura ha intenzionalmente atteso il voto per depositare la richiesta di archiviazione per evitare che fosse strumentalizzata a fini elettorali e per evitare che influenzasse il voto“. L’accusa rivolta a Emiliano dalla Procura foggiana si sorreggeva sulle intercettazioni telefoniche: “Quell’Asp la voglio io, visto che non ho preso un cazzo di niente” diceva Napoleone Cera al telefono. Nell’ordinanza veniva prima riportato un sms che Emiliano inviava il 5 marzo ad Angelo Cera (“Mi raccomando a San Severo“) e poi un dialogo intercorso il 6 marzo tra Napoleone Cera e il presidente della Regione, con il primo che informa il governatore che “Ruggeri dovrebbe portare una cosa in giunta”, cioè “l’Asp di Chieuti“. Emiliano rispondeva: “va bene“. 

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 30 dicembre 2019. Il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, è inquilino della famiglia che avrebbe contribuito all' affondamento della Banca Popolare di Bari. Stiamo parlando della schiatta dei Fusillo, alle cui imprese, è l' accusa dei pm, l' istituto di credito pugliese avrebbe continuato a erogare prestiti, nonostante queste fossero già in crisi. Al momento del commissariamento della Popolare le società della dinastia di costruttori sono risultate esposte per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito (stimate in 400 milioni di euro) aperte negli anni. Il gruppo, già in grave difficoltà, avrebbe ottenuto un ultimo finanziamento di 40 milioni ancora nel marzo del 2019. Il prestigioso appartamento dei Fusillo è (…) al quinto piano di un palazzo con una bellissima facciata in stile liberty, con annesso garage. È un open space di almeno 150 metri quadrati (misura 9,5 vani catastali) con grandi e luminose finestre, nel cuore del quartiere Umbertino, un' area centrale delimitata dal lungomare e da corso Cavour che nel Novecento i baresi definivano «il miglio dei teatri». Perché, proprio a due passi dall' abitazione di Emiliano, c' è il Petruzzelli ma, all' epoca, c' erano anche il Kursaal, il Margherita e l' Oriente. Quest' ultimo, già di proprietà dei Fusillo e citato nelle carte giudiziarie, è oggi un elegante hotel e si trova nello stesso isolato di casa Emiliano, ma sul lato opposto. Il governatore è entrato nella sua attuale dimora con contratto d' affitto nel gennaio 2018. Prezzo pattuito: 1.200 euro al mese (un ottimo prezzo per zona e metratura) che Emiliano paga ogni trimestre bonificando 3.600 euro alla Ambasciatori immobiliare Srl, con sede legale a Noci, azienda controllata al 100% dal Maiora Group, di cui detengono la metà delle quote Vito, Emanuele e Giovanni Fusillo, mentre l' amministratore è Giacomo, figlio di Vito. I quattro sono attualmente indagati per bancarotta insieme con due amministratori e un funzionario della Popolare. Il governatore, oltre all'affitto a questi signori, paga anche 250 euro al mese di spese condominiali. È stata la portavoce di Emiliano, Elena Laterza, a precisare, con trasparenza e velocità, che «il contatto per l' affitto è avvenuto tramite l' amministratore della società Ambasciatori, signor Vito Fusillo». (...) I bilanci di questa e di altre società dei Fusillo sono finiti sotto osservazione nell' ambito di un' inchiesta denominata «operazione Kant» che ha portato i finanzieri dentro agli uffici della Popolare di Bari già l' estate scorsa. Durante le indagini sono state perquisite la Maiora (quella che possiede il 100% delle quote della Ambasciatori immobiliare) e la Fimco, destinatarie di 140 milioni di euro di credito da parte dell' istituto di credito barese. Le due società, una volta incassato il denaro, avrebbero distratto beni e fatto istanza per accedere al concordato preventivo (la Procura ha invece chiesto il fallimento e il 13 gennaio è prevista l' udienza presso il Tribunale fallimentare). Tra le cessioni che, secondo gli inquirenti, destano «forte sospetto» quelle di due complessi alberghieri di lusso e dell' ex hotel Ambasciatori di Bari, «oggetto di trasformazione in unità immobiliari ad uso residenziale e commerciale»: operazioni che, per i magistrati, avrebbero portato al dissesto della Fimco e della Maiora. In particolare i beni intestati alla Maiora sarebbero stati distratti in favore della Logistica Sud, sempre dei Fusillo (anche per questa società la Procura ha chiesto il fallimento), e da qui sarebbero stati trasferiti in un fondo con sede a Gibilterra. Tornando a Emiliano, la vicenda della casa (...) ne ricorda un' altra raccontata da Massimiliano Scagliarini sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel 2012. Il giornalista scoprì che un altro costruttore, Lorenzo De Santis, aveva dato in affitto una casa di 118 metri quadri a Emiliano al prezzo di 1.000 euro al mese più spese condominiali. Successivamente De Santis venne nominato dall' allora sindaco vicepresidente, in rappresentanza del Comune, della Fiera del Levante. In realtà il primo cittadino firmò un 4 più 4 con De Santis, ma la casa venne ceduta nel 2011 ad un altro proprietario. Per questo l' imprenditore disse al cronista per dissipare le polemiche sulla sua nomina: «Tecnicamente non sono più il padrone di casa del sindaco [] Mandarmi in Fiera credo sia stato un riconoscimento alle mie qualità manageriali». I rapporti tra Emiliano e gli imprenditori pugliesi sono al centro anche di un' inchiesta giudiziaria: il governatore è indagato con l' accusa di abuso d' ufficio, induzione indebita (per questo reato è sotto inchiesta anche il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi) e concorso in emissione di false fatture per operazioni inesistenti, per aver spinto, stando a quanto sostiene l' accusa, due società, «entrambe in rapporti con la Regione Puglia per finanziamenti, contributi e concessione di servizi» a pagare due fatture da 24.000 e 59.000 euro per un debito con la Eggers 2.0, agenzia di comunicazione che curò la campagna elettorale del governatore per le primarie Pd del 2017.

La Regione Puglia “trema”: la Procura adesso indaga sui finanziamenti pubblici concessi al gruppo Fusillo. Il Corriere del Giorno il 27 Ottobre 2020. La Regione Puglia ha contribuito con fondi pubblici alla costruzione della masseria Il Melograno con un finanziamento a fondo perduto di 1,4 milioni di euro, di di ulteriori 7 milioni di euro per la realizzazione del porto turistico Cala Ponte rispetto ai 25 spesi in totale. Contributi questi a fondo perduto che hanno costituito un importante e fondamentale sostegno economico-finanziario per le attività svolte alle società dell’imprenditore Fusillo che da diversi anni versavano in grosse difficoltà e sofferenze finanziarie. Nel corso delle indagini delegate dalla Procura di Bari alla Guardia di Finanza sulla bancarotta delle società Fimco e Maiora sono emersi anche i fondi pubblici concessi dalla Regione Puglia alle società del costruttore Vito Fusillo utilizzati per la realizzazione della masseria Il Melograno a Monopoli e del porto turistico Cala Ponte di Polignano a Mare in provincia di Bari. L’inchiesta in questione ha portato all’interdizione dell’imprenditore Vito Fusillo insieme a Marco Jacobini ex presidente della Banca Popolare di Bari, disposta dal tribunale di Bari lo scorso 29 settembre, con ordinanza di arresti domiciliari dei rispettivi figli, Giacomo Fusillo e Gianluca Jacobini. La Regione Puglia ha contribuito con fondi pubblici alla costruzione della masseria Il Melograno con un finanziamento a fondo perduto di 1,4 milioni di euro, di di ulteriori 7 milioni di euro per la realizzazione del porto turistico Cala Ponte rispetto ai 25 spesi in totale. Contributi questi a fondo perduto che hanno costituito un importante e fondamentale sostegno economico-finanziario per le attività svolte alle società dell’imprenditore Fusillo che da diversi anni versavano in grosse difficoltà e sofferenze finanziarie. Difficoltà finanziarie che erano condizionate e conseguenti alle spericolate operazioni concertate con i vertici della Banca Popolare di Bari. Il Nucleo di polizia economico- finanziaria della guardia di finanza di Bari ha ricostruito minuziosamente e dettagliatamente numerose operazioni e giri di milioni di euro da una società all’altra del Gruppo Fusillo, acquisti e vendite di immobili tramite fondi esteri, cessioni di quote, operazioni delle quali Vito Fusillo ha fornito chiarimenti in alcuni interrogatori e nelle diverse memorie consegnate alla Procura. Nel corso dell’ultimo interrogatorio avvenuto lo scorso 6 ottobre dinnanzi alla Gip Luigia Lambriola , firmataria delle ordinanze cautelari, ed al pm Lanfranco Marazia coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi, Vito Fusillo ha parlato a lungo sulla questione dei finanziamenti pubblici.”L’operazione della Regione era a fondo perduto — ha detto il costruttore — e finanziava l’albergo e i servizi del porto: gli uffici, il bar, il deposito“. Per il Melograno, invece la Regione aveva finanziato quasi interamente la sua ristrutturazione. Più o meno un anno fa qualcuno aveva esercitato delle pressioni su Fusillo affinché lo vendesse, esattamente come era accaduto per l’immobile di via delle Muratte, adiacente alla Fontana di Trevi di Roma, che venne svenduto a un immobiliarista, non a caso finanziato sempre dalla Banca Popolare barese. Per evitare di dover sottostare a queste pressioni che arrivavano dalla Popolare, Fusillo chiese nel maggio 2019 alla nipote di reperirgli la documentazione attestante che la masseria Il Melograno, essendo realizzata in parte con fondi pubblici, non poteva essere alenata mediante una cessione, ma doveva restare di proprietà della Soiget, la società di suo figlio Giacomo Fusillo. L’imprenditore Vito Fusillo è stato molto preciso e dettagliato nel corso del suo interrogatorio sulla questione finanziamenti pubblici e la relativa documentazione sequestrata dalla Fiamme Gialle nel corso delle perquisizioni è adesso oggetto di verifiche ed accertamenti . Il consulente informatico nominato dalla Procura di Bari ha iniziato oggi a svolgere tutti gli accertamenti tecnici irripetibili sui telefoni e computer degli otto indagati Marco e Gianluca Jacobini, Vito e Giacomo Fusillo, Nicola Loperfido ex dirigente della Banca Popolare di Bari, Vincenzo Giacovelli, Salvatore Leggiero, Girolamo Stabile , ma anche su alcuni supporti informatici di proprietà di Giulia Bruni e Amalia Alicino (cioè le rispettive mogli di Marco e Gianluca Jacobini), che sarebbero stati utilizzati dai mariti. La Gip Luigia Lambriola ha respinto la richiesta di incidente probatorio sui dispositivi avanzata dai difensori degli Jacobini, ma tali richiesta hanno comportato che gli atti relativi ai contenuti di telefoni e computer non potessero essere depositati per le udienze del Riesame. Ieri infatti è stata discussa la richiesta di annullamento dell’ordinanza cautelare per l’ex dirigente Loperfido , il “re” dei dirigenti della Popolare di Bari che Gianluca Jacobini chiamava “the King”, per significare il suo potere all’interno dell’istituto, come sostenuto anche dalla procura barese. Gianluca Jacobini, ex condirettore generale della Banca popolare di Bari, attualmente agli arresti domiciliari per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta difeso dagli avvocati Mario Malcangi e Guido Carlo Alleva, lo scorso 6 ottobre si è avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto subito nell’ambito dell’inchiesta sul crac del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci. Con la stessa accusa è stato sottoposto a interdizione suo padre Marco Jacobini, ex presidente dell’istituto di credito barese. Secondo le indagini della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dal procuratore facente funzione Roberto Rossi , la Banca Popolare di Bari si sarebbe di fatto resa complice del fallimento delle società del gruppo Fusillo, concedendo continui sconfinamenti ingiustificati sui conti correnti e linee di credito così aggravando ulteriormente il passivo delle società, di fatto gestendo buona parte delle sue operazioni finanziarie, comprese cessioni di immobili, che in circa 10 anni ne hanno portato al crac di Fusillo. Dinanzi alla gip Luigia Lambriola e al pm Lanfranco Marazia, aveva risposto per circa un’ora alle domande Nicola Loperfido, agli arresti domiciliari dal 29 settembre per il reato di “concorso in bancarotta fraudolenta”, nell’ambito dell’indagine della Procura di Bari e difeso dall’avvocato Nicola Quaranta, ex responsabile della Direzione Business della Banca popolare di Bari, all’epoca dei fatti gestore per conto della banca degli affidamenti concessi al gruppo Fusillo spiegando di non avere avuto più contatti con i vertici dell’istituto di credito dopo le proprie dimissioni nel 2018 , che ha cercato di chiarire la propria posizione con riferimento alle esigenze cautelari, riservandosi di sottoporsi ad un nuovo interrogatorio sulle accuse a proprio carico, dover esaminato e studiato i 72 mila atti che compongono l’inchiesta.

Bari, Nunzia Caputo e le sue orecchiette sui canali del The New York Times. La Puglia per la seconda volta sarà presente al «New York Times Travel Show 2020» dal 24 al 26 gennaio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Gennaio 2020. Quando è scoppiata la querelle sulle orecchiette vendute a Barivecchia senza denominazione di provenienza, il New York Times, che nel 2019 aveva inserito la Puglia fra le 52 destinazioni da non perdere per un viaggio, ha preso a cuore la faccenda, dando con ironia merito all’autenticità di questa tradizione. E sui canali del «Travel Show» del The New York Times è stato pubblicato un video con una delle protagoniste più famose della città vecchia, Nunzia Caputo, che esalta la bellezza della Puglia. E proprio Nunzia volerà alla volta di New York, insieme al sindaco Antonio Decaro, e allo staff di Pugliapromozione guidato da Luca Scandale, dirigente del Piano Strategico del Turismo con Aldo Patruno, direttore del Dipartimento Cultura e Turismo, per proporre la lavorazione live delle orecchiette nello stand della Puglia al Travel Show al quale la Puglia partecipa per il secondo anno consecutivo, dal 24 al 26 gennaio, dopo aver acquisito lo scorso anno il riconoscimento come Best New Exhibitor 2019. La Puglia, inoltre, affascinerà i visitatori con una doppia esibizione del tenore pugliese Aldo Caputo. Il tutto allietato da degustazioni di tipicità e pregiati vini offerte da Casillo Group e dall’Associazione Puglia in Rosè, in collaborazione con l’Assessorato all’Agricoltura e allo Sviluppo rurale della Regione Puglia. Con loro, anche dieci operatori pugliesi. «Per il mercato USA la Puglia rappresenta un luogo di relax, capace di coniugare mare, itinerari artistici e culturali e proposte enogastronomiche – commenta l’Assessore Loredana Capone - Gli Stati Uniti sono cresciuti moltissimo negli ultimi anni, con un vero e proprio raddoppio negli arrivi dal 2010 a oggi e un trend in costante crescita che li posiziona come il primo mercato turistico extra-europeo della Puglia. La partecipazione al Travel Show sarà un’ottima occasione per incontrare tantissimi operatori della Travel industry, giornalisti, influencer e blogger».  Il The New York Times Travel Show, giunto alla 15ma edizione, è un evento organizzato dal The New York Times e rappresenta il più importante momento pubblico di comunicazione delle destinazioni turistiche del Nord America. La manifestazione, che si terrà a New York dal 24 al 26 di Gennaio 2020, presso il Jacob Javits Center, ospiterà più di 30 seminari dedicati al settore turistico con più di 30 eventi culturali e la partecipazione di 150 esperti, offrendo l'opportunità di entrare in contatto con più di 11.750 giornalisti e operatori del settore e circa 25.000 potenziali viaggiatori. La partecipazione della Regione Puglia, per il secondo anno consecutivo, con uno spazio brandizzato Puglia di 36mq proprio all'ingresso, permetterà di rafforzare la crescente popolarità e l’appeal della Puglia all'interno del mercato USA con una importante presenza su tutti i canali di comunicazione del New York Times. «Questa è per Bari una straordinaria occasione di promozione turistica ma anche di crescita. Questa è l'occasione per dire al mondo e per dire a noi stessi che dobbiamo fare il grande salto, tutti insieme, investendo sulle nostre tradizioni e sulla nostra identità, proposte in chiave moderna e attrattiva. Le orecchiette di Bari vecchia hanno fatto il giro del mondo e tra qualche giorno approderanno nella "grande mela – commenta il Sindaco di Bari, Antonio Decaro - A New York non porteremo solo la nostra pasta ma porteremo un'esperienza, quella dei sapori delle nostre eccellenze   enogastronomiche, quella della nostra manualità, quella delle nostre tradizioni preservate dalle persone che ogni giorno accolgono migliaia di turisti e li fanno entrare nelle loro vite e nelle loro case». GLI APPUNTAMENTI - Numerosi gli appuntamenti previsti per la delegazione pugliese: la visita della famosa Star Tv statunitense Lidia Bastianich nello spazio Puglia, l’incontro con il Console Generale di Italia a New York, Francesco Genuardi; l’incontro con le Comunità pugliesi a New York e la visita alla Chiesa di San Nicola di Bari a Ground Zero. Con una notevole performance e un trend in costante crescita gli Stati Uniti d’America si affermano come il primo mercato turistico extra-europeo della Puglia. Dai dati dell’Osservatorio Turistico di Pugliapromozione emerge che con 78,5mila arrivi e 208mila presenze gli Stati Uniti d’America hanno conquistato, nel 2019, il quarto posto della graduatoria regionale dei mercati esteri per numerosità degli arrivi e il sesto per presenze/pernottamenti. L’incremento rispetto all’anno precedente è stato rispettivamente del +18% e del +15%; dal 2015 al 2019 i pernottamenti in regione sono cresciuti del +83%. Le potenzialità, quindi, sono straordinarie per la Puglia, anche perché gli arrivi che si concentrano a settembre (18% delle presenze annuali), ottobre (17%), giungo (14%) e maggio (13%). Ad attrarre i turisti statunitensi in Puglia sono soprattutto il patrimonio culturale e Unesco (21%), l’offerta enogastronomica (19%), i borghi, le masserie e i paesaggi rurali (12%), la notorietà dei prodotti e dei circuiti dell’olio e del vino (8%). Sono i dati che emergono dai questionari somministrati a 500 turisti statunitensi (su 20mila questionari complessivi del 2019/20) negli Infopoint della rete regionale. Il 41% dei turisti Usa ha prenotato il proprio viaggio autonomamente on line mentre ben il 45% ha fatto ricorso ad agenzie di viaggi. Il 30% ha noleggiato un‘auto per muoversi all’interno della Puglia. Il 76% dei viaggiatori ha un’età superiore ai 46 anni, si tratta di un pubblico adulto e colto che ricerca in Puglia attrattori naturali e culturali e nuove esperienze, in particolare enogastronomiche. Il 9% degli intervistati ha già visitato la Puglia in passato. PUGLIA, META PREFERITA - Cresce anche l’attenzione del mercato Usa verso il settore Wedding e Luxury e aumentano di anno in anno le star che, scegliendo la Puglia per le proprie vacanze, ne hanno ampliato la fama planetaria (Bono Vox, Madonna, i rampolli Sutton, Justin Timberlake e Jessica Biel, Emily Ratajkowski e molti altri). E i media americani più prestigiosi mostrano una grande attenzione per la Puglia; il solo New York Times le ha dedicato una decina di articoli nel 2019. 

Bari, Nunzia delle orecchiette vola a New York con il sindaco. Dopo il caos legato al sequestro della "pasta abusiva". Fulvio Colucci il 19 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Partirà pure alla conquista dell’America, ma intanto Nunzia Caputo - papessa delle orecchiette a Bari vecchia - non si scompone e non rinuncia a recitare il Rosario alle tre di pomeriggio: «Chiudo la porta un attimo, ti dispiace? Poi entri e parliamo». Via Arco basso ha appena smaltito il mattutino tran tran di turisti, curiosi, appassionati della pasta fatta in casa diventata totem, feticcio, monumento culturale, oggetto di polemiche dopo il sequestro dello scorso novembre di tre chili di orecchiette in un ristorante. Signore o no, mancava l’etichetta di tracciabilità e la legge è legge. Dopo qualche giorno, addirittura il New York Times parlava di «crimine di pasta», salvo ora far entrare le orecchiette in Usa dal prestigioso ingresso del Travel Show, la fiera che lo stesso giornale organizza nella Grande Mela. A New York ci andrà veramente Nunzia Caputo con il sindaco Antonio Decaro la prossima settimana, dal 24 al 26 gennaio, ospite nello stand della Puglia al Travel Show. «Agli americani - spiega Nunzia - insegnerò l’arte delle orecchiette: l’impasto di semola, integrale, al grano arso. La pazienza di prepararle “girate col pollice”, come si fanno in tutta la Puglia, semplificando il lavoro che, invece, a Bari e solo a Bari prevede tutti e due gli indici quando allunghi la pasta». «Per Bari è un’occasione straordinaria, il grande salto. Le orecchiette - dichiara il sindaco Decaro commentando l’iniziativa - fanno il giro del mondo: sapori, manualità, tradizione». Il primo cittadino vuol pescare il jolly in America e intanto, nel pomeriggio di luce livida e nuvole basse, Nunzia si presta ai selfie docile e paziente, ma ci spiega, meglio di un assessore, che «Bari vecchia è stata aiutata dal risanamento. Da allora siamo stati invasi dai turisti. Cominciano ad arrivare dal giorno della festa di San Nicola. Qui c’era tanta criminalità e oggi la situazione è cambiata. Sono venuti Dolce e Gabbana, Mogol, Virginia Raggi. Le orecchiette sono state l’esca giusta». Intorno a Nunzia e alle altre 11 signore-vestali della tradizione pastaia, una piccola folla si muove. È un po’ l’indotto dell’orecchietta: spostano i tavelìire, le spianatoie dove si forma l’impasto, la massa trasformata in magia attraverso l’antico, paziente, rito di preparazione per trascinamento; gestiscono le foto dei visitatori davanti alla porta di casa; organizzano persino agenda e orari delle interviste. Insomma un «bisinìss» di dimensioni imprenditoriali crescenti. Se, però, credete che Nunzia si senta una star sbagliate di grosso: «Sono una massaia e a pensare che devo fare dieci ore di volo con il sindaco Decaro per andare a New York mi viene da ridere. Sono stata al Palazzo della Cultura di Varsavia in Polonia a spiegare e fare le orecchiette. Sono stata a Roma, a Milano, alla trasmissione di Antonella Clerici. Ma resto - racconta Nunzia Caputo - la bambina che a sei anni ha imparato a lavorare la pasta da nonna Nardina, con estrema pazienza. Quella che ha conosciuto l’amore davanti a una spianatoia, quando cadde un’orecchietta e la raccolse mio marito Leonardo, il mio cavaliere, mentre passava da via Arco basso. Fu amore a prima vista, un colpo di fulmine». Nunzia andrà in America. «Però fammi dire una cosa: mi è rimasto il desiderio di insegnare a fare le orecchiette nelle scuole. La tradizione si sta perdendo e secondo me i ragazzi dovrebbero mettere le mani sulla pasta e non sui telefonini. Una professoressa era interessata, ma mi disse: prepara un progetto. Ma che progetto posso preparare io? Io preparo le orecchiette, i progetti devono farli loro. Io ci sono».

Nunzia volerà in Usa per raccontare e insegnare l’arte delle orecchiette agli americani. Il suo viaggio negli States ricorda la trasvolata di Italo Balbo del 1933. A bordo di un’orecchietta - in fondo un disco volante - si può conquistare il mondo.

La Puglia e le sue orecchiette sbarcano a New York: grande successo al Travel Show 2020. Emiliano: «La Puglia promuove sé stessa con autenticità e identità culturale che fanno la differenza in un turismo massificato». Decaro: «Bari a New York si racconta nella sua autenticità tra cultura e tradizioni». La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Gennaio 2020. Puglia come «destinazione enogastronomica»: si è concentrata su questo aspetto l'attenzione dei giornalisti americani nel primo giorno del 'New York Times Travel Show' al quale il tacco d’Italia partecipa con una delle rappresentanti più famose dell’arte delle orecchiette fatte in casa, Nunzia Caputo, che da anni impasta farina a Bari vecchia, deliziando turisti e residenti. Proprio l’antica abilità di fare le orecchiette a mano è finita di recente sulla prima pagina del New York Times: dopo il sequestro di pochi chili di orecchiette in un ristorante a Bari, alle quali mancava la tracciabilità perché provenivano dalle abitazioni delle signore baresi, il quotidiano americano aveva titolato 'Pasta crime'. Al 'Travel Show', che si terrà a New York fino al 26 gennaio, partecipano Pugliapromozione, il sindaco di Bari Antonio Decaro, e Nancy Dell’Olio che è ambasciatrice della Puglia nel mondo. Oggi, dopo la proiezione del video 'Bari never end’alla stampa, Decaro ha spiegato che «quella descritta è la realtà». «Questo - ha aggiunto - accade a Bari e in tutte le città della Puglia. Bari è storia, è il suo mare, è il suo cibo di cui abbiamo voluto portare a New York uno dei suoi prodotti più famosi; Bari è i suoi teatri, è la sua gente sempre ospitale, che ti accoglie in casa e ti guida nei vicoli della città vecchia. E Bari non finisce mai». Dalle 16, ora locale, inizierà a New York il laboratorio nello stand della Regione Puglia, nel corso del quale Nunzia dimostrerà dal vivo come fare le orecchiette. Nella mattinata newyorkese il sindaco di Bari ha incontrato, assieme alla delegazione Pugliese, il Console Italiano a New York Francesco Genuardi, al quale ha donato, a nome di tutta la città due riproduzioni di foto d'epoca del nostro paese, personalizzate dalle artiste molesi Pasqua Ressa e Marinella Sorino.

Da Molfetta «Nonna Maddalena» è la regina della pugliesità nel New Jersey. La donna, 83 anni, prepara le orecchiette per gran parte dei molfettesi emigrati negli Usa. Matteo Diamante il 25 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In questi giorni sta facendo tanto parlare il viaggio a New York della «regina» delle orecchiette, la signora Nunzia, volata negli States per rappresentare la Puglia al New York Times Travel Show. Un'autentica novità per gli americani e soprattutto un'ottima vetrina per l'intera Puglia. Eppure nel New Jersey le orecchiette le conoscono in tanti e sanno perfettamente come si fanno. Tutto questo grazie alla cospicua presenza di pugliesi e di molfettesi presenti intorno alla zona dell'ormai celebre città di Hoboken, turisticamente apprezzata dai newyorkesi. E' li che vive nonna Maddalena, 83 anni, emigrata negli Usa nel 1977 e oggi bisnonna. Molfettese doc, non ha mai dimenticato le tradizioni del suo paese ed è ancora in grado di deliziare tutta la sua famiglia con i piatti tipici di Molfetta. Sa fare, rigorosamente a mano con coltello e tavola in legno, le orecchiette come in poche oltre Oceano. Con l'aiuto, ai fornelli, del genero Daniel Altilio, circondata dalle nipoti e dalla piccola pronipote Evelyn, non è raro gustare a casa sua un ottimo sugo di salsa fresca ed anche le cime di rape con salsiccia: due differenti e tipici sapori molfettesi. Recentemente proprio ad Hoboken, grazie all'instancabile lavoro di Roberto Pansini, dell'associazione Oll Muvi (più conosciuta con I love Molfetta), è stata organizzata una pregevole iniziativa chiamata «una domenica in famiglia». Insieme con nonna Maddalena e ai componenti della Società Madonna dei Martiri sono state realizzate le famose orecchiette, con una particolarità in più: le tre orecchiette «giganti» chiamate «La sórtë», la «Frëttùnë» e «u Calcëngùle», rispettivamente il matrimonio, la fortuna economica e la fregatura. Il «made in Italy», in questo caso «made in Puglia» continua ad essere apprezzato nel nord America. Lo ha ricordato, lunedì scorso, in prima serata, anche «Little Big Italy», la trasmissione televisiva condotta da Francesco Panella. Si è parlato di Molfetta, delle tradizioni pugliesi e di tutto quello che gira intorno alla Madonna dei Martiri, patrona della città e dei suoi emigranti. Intanto un pezzo di Molfetta sarà presente sino a domani nel padiglione della Regione, con Puglia Promozione, al New York Times Travel Show. Si tratta di Authenticpugliatours, il tour operator molfettese impegnato nell'attività di promozione e valorizzazione degli itinerari ed esperienze autentiche pugliesi. Fondata dal giovane molfettese Vincenzo De Laurentiis nel 2018, Authenticpugliatours è stato presente all'«Hoboken Italian Festival» e in questo nuovo anno avvierà accordi con diverse università americane, per portare in Puglia gruppi di studenti a visitare le bellezze del nostro territorio, facendo visitare chiese, musei, e feste patronali.

·        Si vota a “Ad Minchiam”.

Regione Puglia: iniziano i problemi di Michele Emiliano. Il Corriere del Giorno il 31 Ottobre 2020. Non sono state poche le novità dell’ultim’ora: sono aumentati i consiglieri della maggioranza, saliti da 27 a 29 che hanno conseguito la riduzione dei componenti della minoranza scesi da 23 a 21, nonchè l’elezione inaspettata di alcuni candidati che accedono in consiglio al posto di altri che credevano di avere l’elezione in tasca. Il nuovo consiglio regionale pugliese appena proclamato dalla Corte d’appello di Bari rischia di uscire trasformato dai ricorsi, rendendo difficili le operazioni del presidente Michele Emiliano nella composizione della nuova giunta regionali. Non sono state poche le novità dell’ultim’ora: sono aumentati i consiglieri della maggioranza, saliti da 27 a 29 che hanno conseguito la riduzione dei componenti della minoranza scesi da 23 a 21, nonchè l’elezione inaspettata di alcuni candidati che accedono in consiglio al posto di altri che credevano di avere l’elezione in tasca. Si tratta di Sergio Blasi, Teresa Ciccolella e Domenico De Santis del Pd, Vito De Palma di Forza Italia e Giacomo Conserva della Lega con quest’ ultimo che spera di poter rientrare in consiglio al posto di Raffaele Fitto, che rinuncerà alla sua elezione per rientrare a Bruxelles al Parlamentare Europeo. Al loro posto sono entrati in consiglio Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea del Pd, Peppino Longo di Con, Francesco La Notte e Mario Pendinelli eletti nella lista Popolari con Emiliano. Cambiamenti questi che stanno rendendo non facili le decisioni di Emiliano per definire la sua compagine di giunta. “È in atto una riflessione alla luce dello stravolgimento da parte della Corte d’appello — viene commentato da fonti della presidenza — Il presidente si è preso 48 ore di tempo per decidere ”. Fra i problemi sul tavolo di Emiliano resta sospeso l’eventuale sostegno del gruppo M5Stelle che al momento sembra non essere disponibile ad un accordo con la maggioranza guidata dal rieletto governatore , mentre un’ altro punto interrogativo non indifferente è quello del ruolo dai Popolari. Il movimento coordinato da Massimo Cassano un’ex “forzista”  è l’unica forza politica uscita rinforzata dalla proclamazione fatta dalla Corte d’appello, crescendo da sei a sette consiglieri. Nasce da queste problematiche la rivendicazione avanzata dai Popolari di ottenere due assessorati in giunta, uno per Sebastiano Leo ed un altro per Gianni Stea, che di ora in ora diventa sempre più pressante. In tal caso diminuirebbero le poltrone di assessore da destinare a delle donne. Ad oggi gli assessori dati per sicuri sono Pierluigi Lopalco alla Salute e Donato Pentassuglia all’Agricoltura, così come dovrebbe essere riconfermato al Bilancio il foggiano Raffaele Piemontese, mentre Alessandro Delli Noci dovrebbe diventare assessore allo Sviluppo economico. Molto più complicato al momento definire il quadro delle deleghe da assegnare alle consigliere elette. Loredana Capone molto probabilmente andrà a ricoprire il ruolo di presidente del Consiglio Regionale. Non è ancora stato identificato l’assessore che dovrebbe rappresentare tutto il mondo di sinistra ex-vendoliana che non è riuscita ad eleggere neanche un consigliere. Emiliano è in attesa di ricevere un nome da parte dell’ex governatore Nichi Vendola. Ma sopra queste ragionamenti incombe pesantemente un’incognita non indifferente, e cioè i ricorsi amministrativi al TAR Puglia in fase di deposito contro i conteggi e la proclamazione della Corte d’appello. Sono ben cinque quelli che verranno depositati dai candidati. Domenico De Santis, uno degli esclusi, così esterna su Facebook la sua posizione: ” Sono molto determinato ad andare a fondo a questa vicenda e capire come sia possibile che oltre 15 mila preferenze non siano sufficienti a farmi essere la vostra voce in Regione“. Ulteriori tre ricorsi sono dei candidati della lista di Senso Civico, che pur avendo superato la soglia del quattro per cento, non ha ottenuto alcun seggio in consiglio, ed il suo leader Alfonso Pisicchio, assessore regionale uscente, assicura una dura battaglia: “La proclamazione è un frullato. Le nostre ragioni saranno oggetto di un ricorso puntuale che dimostrerà questa enorme contraddizione“. Anche Forza Italia è pronta ai ricorsi: “La decisione ci penalizza. C’è bisogno di un’operazione-verità“. Ed a Brindisi in casa Lega si avanzano molti dubbi sulla regolarità e legalità della posizione di Conserva quale primo dei non eletti.

 

Elezioni in Puglia: "Lopalco in lista con Emiliano". E il centrodestra va all'attacco. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Alla fine Michele Emiliano ha contagiato Pier Luigi Lopalco. Il virologo che ha seguito tutte le fasi della pandemia, tranquillizzando i pugliesi e spopolando nei talk televisivi sull'andamento dei contagi, non ha resistito alle sirene della politica e sarà in una delle liste per le regionali. Il governatore gli ha di fatto affidato le chiavi della sanità pugliese, trovando forse l'assessore che non ha mai voluto da quando ha cominciato la sua avventura di governo alla Regione cinque anni fa. Sulla scelta dello scienziato come consulente per l'emergenza, del resto. gli apprezzamenti erano stati bipartisan. Almeno all'inizio. " È una possibilità " , sibilano dall'entourage di Emiliano alle prese con la composizione delle liste e soprattutto a costruire candidature forti. Come quella di Lopalco, che da pugliese è tornato da Pisa dettando spesso l'agenda della pandemia fra specialisti collegati da remoto o in chat. Se Emiliano è apparso in questi mesi più isituzionale del solito, lo si deve anche a lui. Il professore, intanto, non si sbilancia. Ma la sua popolarità non può che far bene alla presunta crisi di consensi che attribuiscono a Emiliano da quando il centrodestra si è unito formalmente sulla candidatura di Raffaele Fitto e nel centrosinistra i renziani corrono da soli, ma soprattutto, contro Emiliano. E i 5 Stelle non ne vogliono sapere, per ora, di fare la stampella per arrotondare la percentuale che basterebbe a Emiliano per affrontare in sicurezza l'appuntamento con le urne a settembre. Il centrodestra lo sa. Da tempo azzardava l'ipotesi che il docente di igiene all'Università di Pisa e responsabile per le emergenze epidemiologiche della Regione Puglia potesse fare il salto in politica. Troppo in giro con Emiliano, nei suoi tour che avevano poco di istituzionale ma molto di elettorale. E lo hanno ribadito il coordinatore regionale di Forza Italia, Mauro D'Attis, e il suo vice, Dario Damiani: "Centoventimila mila euro non per coordinare le misure anti Covid, ma evidentemente per farsi campagna elettorale con i soldi di tutti gli ignari cittadini pugliesi: la candidatura del professor Lopalco nelle liste di Emiliano è l'ultimo atto di un film che abbiamo iniziato a vedere qualche settimana fa " . Di certo c'è che Emiliano sta prendendo le contromisure all'assalto del centrodestra. Ieri, per esempio, ha fatto sapere di aver approvato in giunta uno schema di disegno di legge per introdurre la doppia preferenza di genere nella legge elettorale pugliese, sollecitata dal premier Giuseppe Conte alle Regioni inadempienti e da quasi tutti i partiti in consiglio regionale. Dove nel frattempo continua la guerriglia. Anche ieri è saltato il numero legale: è accaduto quando l'ex assessore all'Agricoltura, Leonardo Di Gioia, ha presentato un emendamento per bloccare le procedure concorsuali delle agenzie regionali - in primis l'Arpal, che si occupa di politiche del lavoro - per evitare implicazioni elettorali. Se ne riparlerà perciò la settimana prossima.

Regionali Puglia, Lopalco: «Io candidato? Non ho ricevuto alcuna offerta concreta». Così l’epidemiologo risponde alle voci di una sua candidatura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Luglio 2020. «Non ho ricevuto nessuna offerta concreta», così il professore Pierluigi Lopalco, epidemiologo e capo della task force pugliese per l’emergenza Coronavirus, risponde alle voci che lo vorrebbero candidato alle prossime Regionali in Puglia in una lista civica a sostegno dell’attuale governatore, Michele Emiliano.

Lopalco candidato con Emiliano, FI attacca: campagna elettorale con i soldi dei pugliesi. «Se arriverà un’offerta ci rifletterò», aggiunge. La possibilità che Lopalco possa candidarsi ha provocato la reazione delle opposizioni, in particolare Forza Italia ha criticato il suo eventuale impegno diretto in politica. L’accusa che viene rivolta al professore, e indirettamente a Emiliano, è di voler «sfruttare l’esposizione mediatica» degli ultimi quattro mesi.

Puglia, per le Regionali nelle liste Pd scoppia il caso Gentile. EMILIANO: «QUALCUNO TEME CHE SI CANDIDI» -  «Nel 2004 quando si parlava della mia candidatura a sindaco di Bari, Raffaele Fitto (ell'epoca governatore pugliese di Fi, ndr) mi scrisse due lettere nelle quali mi ricordava che ero un magistrato e quindi non avrei dovuto candidarmi. Mi fece capire con quelle lettere che temeva che io mi candidassi. La stessa cosa sta succedendo con il professor Lopalco. Evidentemente qualcuno ha timore che il professore si candidi». Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha raccontato l’aneddoto a margine della inaugurazione del nuovo centro trasfusionale del Policlinico di Bari, rispondendo ai giornalisti sulla indiscrezione relativa alla candidatura alle regionali dell’epidemiologo Pierluigi Lopalco, coordinatore scientifico della task force pugliese per l'emergenza Covid 19. «Alla seconda lettera di Fitto - ha continuato Emiliano - risposi 'presidente, ciò che io non avevo capito, e cioè che sono già il sindaco di Bari, e che devo solo avere il coraggio di mettermi in aspettativa e di candidarmì. Senza quelle lettere di Fitto - ha concluso - probabilmente io non ci sarei mai candidato, perché non avrei maturato quei sentimenti di passione e anche di consapevolezza che lui mi trasmise».

Tra Lopalco e realtà. Da corriere.it Massimo Gramellini l'11 luglio 2020. L’unico dubbio era se sarebbero entrati prima in politica. o nei reality. I divi del Covid hanno scelto la strada più facile: l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, con quel pizzetto telegenico da Lenin delle ampolle, s’accinge a candidarsi nella lista di Emiliano in Puglia per aiutarlo a resistere alla seconda ondata di Fitto, con l’obiettivo di garantire il distanziamento sociale almeno nelle urne. Già mi pregusto gli slogan: «Più tamponi per tutti» e «Per una politica delle mani pulite, anzi disinfettate».

Qualche povero di spirito rinfaccerà al professor Lopalco certe perplessità, poi rientrate, sull’utilità delle mascherine, e quella profezia, fortunatamente sbagliata, sui ragazzi della movida milanese che entro la metà di giugno avrebbero contagiato i loro genitori. Ma si tratta di macchie trascurabili, destinate a sciogliersi sotto i raggi della Scienza. Non date retta agli ultimi fessi come il sottoscritto, i quali pensano che la politica sia un mestiere complicato che va appreso da giovani in apposite scuole di partito e poi affinato per tutta la vita. Molto meglio affidarsi a chi non ne sa nulla, come stiamo facendo da quasi trent’anni con splendidi risultati. In fondo, nel passaggio dal camice alle istituzioni, i virologi non potranno comportarsi peggio di attori, giornalisti e venditori di bibite. Adesso che Lopalco ha preso il virus, aspettiamoci una pandemia: Zangrillo sindaco di Milano, Ilaria Capua agli Esteri e Burioni al Quirinale tra due corazzieri in mascherina.

Tony Damascelli per ''il Giornale'' il 10 luglio 2020. Il virus porta voti. È quello che si augura Lopalco Pier Luigi, l'epidemiologo che ha coordinato l'emergenza del Covid19 in Puglia. I risultati eccellenti, la situazione mai emergenziale, i contagi tenuti sotto controllo, hanno portato l'illustre medico professore ad occupare, come molti altri suoi sodali, i dibattiti televisivi, raggiungendo una popolarità giustificata e riscontrata nei fatti. Va da sé, che seguendo le buone (?) abitudini di questo nostro Paese, la politica ha sentito profumo di tartufo bianco e dunque Emiliano Michele, governatore, più portato allo studio delle cozze pelose, ha capito che Lopalco sarebbe l'uomo giusto al momento giusto. Essendo, l'Emiliano medesimo, in ritardo, almeno nei sondaggi, rispetto al Raffaele Fitto candidato dell'opposizione, l'ex magistrato si è ritrovato in mano il jolly per vincere al banco. Lopalco scende in campo per debellare un altro pericoloso virus, Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega messe assieme possono infettare la terra di Puglia, meglio ricorrere al vaccino del Piddì, di facile e immediata reperibilità. Pier Luigi Lopalco è in piena campagna elettorale, si è presentato alla Festa delle musica, con chitarra appresso, la festa era organizzata ovviamente dalla Regione Puglia governata dell'Emiliano di cui sopra, l'imprevedibile rockettaro Lopalco ha raccolto applausi ma ha invitato al rispetto delle distanze di sicurezza sanitaria. Tra l'altro lo stesso epidemiologo ha annunciato che prima di ottobre non sarà possibile riportare il pubblico negli stadi di football. Però si presume che sarà importante radunare il popolo del centrosinistra per la consultazione elettorale. Ovviamente l'opposizione si oppone, l'onorevole D'Attis commissario regionale di Forza Italia, denuncia l'operazione con la quale verrebbero utilizzati e sperperati i denari pubblici per la candidatura del professore brindisino di Mesagne, residente in Toscana a Pisa. La battaglia si preannuncia aspra. La pandemia continua a mettere paura, la mascherina protegge da eventuali contagi. Intanto il virus della politica utilizza uomini in maschera per allungare la carriera.

Quel retroscena sui virologi: "Molti fremono per fare politica". Pierluigi Lopalco, consulente della Regione Puglia per l'emergenza Covid-19, ha manifestato interesse per la possibile candidatura alle Regionali con il centrosinistra. Ma non è l'unico...Gabriele Laganà, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. Tra voci e smentite, la possibile candidatura di Pierluigi Lopalco, attuale consulente della Regione Puglia per l'emergenza Covid-19 e nome da inserire nelle liste di Michele Emiliano per le prossime elezioni regionali in Puglia, ha scatenato polemiche. Al Pd, i cui consensi a livello nazionale non sono poi così soddisfacenti e che a settembre dovrà difendere la Regione che ha amministrato negli ultimi 5 anni, avere dalla sua parte una figura molto popolare può solo fare del bene. Del resto, Lopalco ha ottenuto buoni risultati nella gestione della pandemia in Puglia ed è un personaggio che anche "bucato lo schermo". Ma la possibile candidatura con il centrosinistra è, al momento, smentita dal diretto interessato. "La mia candidatura per le Regionali in Puglia è una voce, circolata in certi ambienti. A me non è arrivata nessuna proposta ufficiale dal presidente Emiliano, con cui non ho parlato in questi giorni. Nessuna decisione è stata presa. Se arriverà un'offerta ci rifletterò", ha affermato l'epidemiologo dell'Università di Pisa. Lopalco è apparso decisamente infastidito per le accuse piovute sui social di aver sfruttato il suo ruolo di consulente per trarne vantaggi personali: "Sono stupidaggini". L'epidemiologo, però, non chiude la porta ad un suo impegno politico. "In questi giorni – ha spiegato - ho discusso molto con alcuni amici su cosa significhi, per chi viene dalla società civile, impegnarsi in politica spesso si fanno dichiarazioni dicendo appunto che la società civile deve prendere posizione". "E allora – ha sottolineato - mi chiedo chi più degli scienziati può dare un vero significato a questa parole? Abbiamo le conoscenze e sappiamo fare il nostro lavoro, se ci sono le condizioni di una reale possibilità di cambiamento - conclude - la scienza deve mettersi a disposizione della politica". Lopalco potrebbe non essere l'ultimo ad unire lavoro nel campo medico ad impegno politico. Ad ammetterlo è Massimo Clementi, virologo dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che all'Adnkronos Salute ha affermato di vedere "altri colleghi che hanno atteggiamenti che preludono ad una discesa in campo. Fremono per fare politica". Clementi precisa che il caso di Lopalco, epidemiologo "che conosco molto bene, perché sia insieme nel Patto per la scienza", andrebbe "contestualizzato il suo impegno politico in un ambito locale dove peraltro sta già lavorando come consulente per l'emergenza Covid-19". "Diverso- puntualizza il virologo- dal caso di alcuni colleghi che invece flirtano con la politica nazionale". Secondo Clementi, il desiderio di medici o scienziati di fare politica "è legittimo" ma "poi può essere imbarazzante se uno fa avanti e indietro". Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università di Milano, sempre all'Adnkronos Salute vede con favore un eventuale ingresso in politica del "collega e amico" Pierluigi Lopalco e spiega che "questa emergenza Covid ha messo in evidenza l'importanza dell'impegno di ognuno di noi ricercatori. E come Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) ho toccato con mano l'importanza di dar voce alla società civile". Pregliasco pensa che "dalla società civile, e dalla scienza, possano arrivare nuove prospettive e nuove forze che possono contribuire all'autorevolezza delle istituzioni". "Insomma- ha aggiunto il virologo- la politica potrebbe solo arricchirsi con innesti della società civile, e se Lopalco deciderà di impegnarsi gli faccio i miei migliori auguri". Sempre all’Adnkronos Salute, Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia antinfettiva (Sita), commenta con favore le voci di una candidatura di Lopalco alle prossime elezioni regionali in Puglia al fianco di Michele Emiliano. "Stimo molto Pierluigi Lopalco ed è libero di fare quello che vuole. Se come medico si vuole mettere il proprio sapere al servizio della politica, che poi vuol dire essere al servizio dei cittadini, non vedo cosa ci sia di male. Come scendono in politica avvocati o imprenditori non c'é niente di male se un epidemiologo decide di fare politica", ha specificato Bassetti. Quest’ultimo ha affermato di rispettare le scelte dei colleghi che vogliono fare politica "anche se io non lo fare mai. Credo che un medico o un ricercatore che decidono di impegnarsi in questo settore, come hanno fatto nella loro carriera professionale, possano essere solo una guadagno per la collettività". "Se Lopalco sarà candidato- ha aggiunto- a lui va un grande in bocca al lupo. Certo, non è come fare il medico. Occorre prendere i voti, elaborare un programma e fasi eleggere". Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell'ospedale San Raffaele di Milano, dichiara all'Adnkronos Salute che"la politica, mai come in questa situazione, ha bisogno di buon senso e di impegno civile con l'obiettivo di formare una vera classe dirigente. Ciò detto, sono contentissimo che questo tipo di impegno non mi riguardi". Il professore ammette di essere "felice e sereno perché questo tipo di impegno non riguarderà mai la mia persona" e spiega che "il Servizio sanitario nazionale ha urgente bisogno di una politica efficace, guidata dalla competenza tecnica". Se i colleghi di Lopalco sono sostanzialmente favorevoli ad un impegno in politica dell’attuale consulente della Regione Puglia per l'emergenza Covid-19, diverso è il discorso per i rappresentati dei partiti. Il primo duro attacco contro l’esperto è partito da Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, che in una nota ha affermato: "La notizia della candidatura del virogolo Pierluigi Lopalco nelle liste di Emiliano è scandalosa. Lopalco è consulente del governatore pugliese per l'emergenza Covid ed è assurdo che mentre è lautamente retribuito con i soldi dei cittadini adesso ne chieda anche i voti". "Oltretutto- ha aggiunto l’azzurra- e questo vale tanto per Emiliano quanto per Lopalco, è intollerabile si cavalchi la sovraesposizione mediatica dovuta a questa crisi sanitaria ed economica a fini politici ed elettorali. È vero che al peggio non c'è mai fine, ma ragioni di buongusto oltre che di opportunità imporrebbero un ripensamento da parte del virologo".

Puglia, pochi medici di famiglia: «Avranno più pazienti». Si sale da mille a 1300 assistiti. Massimiliano Scagliarini il 30 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Entro il 2025 è previsto il pensionamento di metà degli attuali 3mila medici di famiglia oggi in servizio in Puglia, che saranno rimpiazzati da non più di 1.500 nuovi professionisti. Una vera e propria emergenza che esiste a livello nazionale: in attesa dell’incremento del numero delle specializzazioni bisogna intervenire con soluzioni tampone. E la Regione lo ha fatto, aumentando il rapporto ottimale di assistenza primaria. Da oggi, in Puglia, ci sarà un medico di famiglia ogni 1.300 abitanti, contro i 1.000 attuali. È una decisione che potrebbe avere effetti soprattutto negli agglomerati urbani più piccoli, perché nelle città i medici di famiglia sono quasi sempre massimalisti (cioè hanno raggiunto il tetto dei 1.500 assistiti): il meccanismo prevede infatti una forbice in cui 1.000 è il punto medio, e si può andare da un minimo di 500 a un massimo di 1.500 assistiti. Ma oggi a fronte di 3.300 medici di medicina generale previsti in pianta organica (dal calcolo del quorum 1.000 abitanti vengono esclusi i ragazzi fino a 14 anni) ci sono circa 300 zone carenti, cioè non assegnate, e i bandi delle Asl ogni anno riescono a coprire solo circa il 30% delle sedi vacanti. E questo avviene perché non ci sono medici disponibili, in quanto le zone carenti sono spesso poco appetibili dal punto di vista economico: ci sono sedi (anche nel Barese, vedi ad esempio Cassano e Bitetto) che sono scoperte da 5-6 anni perché ai pochi medici disponibili conviene puntare su zone in cui possono avere un maggior numero di assistiti e meno problemi logistici. In alcune aree del Gargano, ad esempio, ci sono medici di famiglia che dovrebbero avere competenza anche su 3-4 paesi, con le intuibili difficoltà. «Con l’aumento del rapporto ottimale di assistenza - spiega Nicola Calabrese, vice-segretario nazionale della Fimmg (il sindacato dei medici di base) - abbiamo spostato in avanti, in termini almeno teorici, il deficit di risorse umane. Questo ci permette di fare un ragionamento più ampio: solo l’aumento delle borse per la specializzazione permetterà di avere una soluzione definitiva». E dunque, aumentando il numero di assistiti, «riusciamo a sostenere il default, non avremo carenze in termini di assistenza e potremo ragionare su modelli di organizzazione avanzati. Ci saranno disagi per i cittadini? No, e comunque l’alternativa è non dargli proprio il medico, perché non ce ne sono più». Nel 2025 - in base a uno studio delle organizzazioni di settore - è infatti previsto il picco della «gobba» dei pensionamenti, figlia dell’effetto «pletora» degli anni ‘80 quando fu anche sancita l’incompatibilità tra medico dipendente e medico convenzionato. Ci sarà, insomma, un vero e proprio ricambio generazionale. In Puglia dal 2014 al 2023 si stima il pensionamento di 2.200 medici (a prescindere dal ruolo), a fronte di 1.200 nuovi ingressi nella professione. Oggi la maggior parte dei medici in servizio è nata tra il 1958 e il 1961, dunque andrà in pensione al massimo tra il 2026 e il 2029. Anche la Regione ritiene che l’ampliamento del rapporto ottimale fosse l’unica soluzione possibile, e che non ci saranno conseguenze sull’assistenza. Il numero di pazienti in carico oggi ai medici di base - spiegano dall’assessorato alla Salute - garantisce una ampia possibilità di scelta agli assistiti.

Vuoi aiuto dalla Regione? Rinuncia alle cure: il paradosso in Puglia. Le famiglie costrette a non farsi rimborsare alcuni trattamenti indispensabili per i figli autistici per non perdere l'assegno di cura. Roberta Grima, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. Ancora una volta in Puglia, i cittadini sono “costretti” a scegliere fra due diritti. Non siamo a Taranto dove bisogna decidere tra lavoro e salute, ma a Barletta, dove chi è affetto dal disturbo dello spettro autistico, è chiamato a optare se fare riabilitazione o ricevere l’assegno di cura, perché non autosufficiente. In realtà a dover prendere una decisione è il familiare, nella maggior parte dei casi costretto a lasciare il lavoro per seguire il proprio figlio.

Una rinuncia troppo grande per un figlio autistico. Ne sa qualcosa Vito, papà di un bambino autistico e che ad aprile scorso, ha sottoscritto al direttore generale dell’asl di Andria, una rinuncia per il proprio figlio, al rimborso per il trattamento riabilitativo Aba, da parte della Regione. La prestazione é specifica proprio per il disturbo dello spettro autistico, ma Vito ha preferito rinunciare all’indennizzo e pagare il trattamento completamente di tasca propria, per poter usufruire dei venti punti che vengono attribuiti e che rappresentano il requisito minimo, per l’ammissione all’assegno di cura: 1000 euro al mese. Soldi che servirebbero alla famiglia, per coprire almeno in parte le diverse sedute riabilitative (non solo Aba) che il piccolo ha quotidianamente.

Un rimborso che non copre totalmente le spese. "L’anno scorso – dice Vito – solo per le sedute ABA, ho speso circa 8000 euro l’anno. C’è chi spende anche 10mila euro e più, soldi che le famiglie devono anticipare e che solo una volta presentate le fatture all’Asl di competenza, vengono rimborsate a fine anno". E pure in percentuale, in base alla disponibilità dell’Asl: "A volte c’è stato riconosciuto un rimborso del 30%, altre volte del 50%, è variabile. "Vedersi però tolto per questo rimborso, venti punti, con il rischio di perdere l’assegno di cura destinato ai non autosufficienti, ha spinto me e mia moglie a rinunciare al finanziamento Aba, che adesso paghiamo di tasca nostra - aggiunge - Oltre alle altre attività come terapia in acqua e ippoterapia, che aiutano questi ragazzi. Solitamente richiedono un rapporto individuale con l’operatore, per questo sono trattamenti anche molto onerosi". Si parla infatti di 50 euro a seduta per il metodo Aba per una durata di 45 minuti. Se il paziente ha un autismo grave, le sedute devono essere almeno tre volte a settimana, tenuto conto che lo specialista indica che prima si interviene e più trattamenti si fanno, migliori risultati si ottengono.

35 milioni per 8000 aventi diritto. Oltre al danno la beffa: non solo le famiglie come quella di Vito, sono "costrette" di fatto, a pagarsi di tasca propria le varie terapie riabilitative per poter ottenere l’assegno di cura, ma non c’è neanche la certezza di averlo. Questo perché la valutazione per accedere al sussidio si basa su un punteggio complessivo che tiene conto di altri fattori: disagio familiare, condizione lavorativa ed economica della famiglia. "Se il paziente ha prestazioni domiciliari in corso, non rimborsate, allora parte con venti punti - spiega Vito - Se invece ha già un finanziamento come il buono servizio per accedere nei centri privati diurni, il Red o trattamento riabilitativo finanziato (proprio come l’Aba) i venti punti non sono attribuiti e matematicamente si è esclusi dall’assegno di cura, pur avendone diritto. È una lotta tra poveri, una corsa per ottenere quanto ci spetta. Ma "i fondi sono pochi", ci dicono da anni dalla Regione". Che ha stanziato per l’anno 2018 – 2019, 35 milioni di euro a fronte di 8000 richieste ammissibili. Vito Montanaro, direttore del dipartimento regionale della salute, ha chiarito che anche con il nuovo bando che si dovrà presentare per il 2020 - 2021 nei prossimi mesi, sono previste le stesse regole, per cui le famiglie si vedranno ancora una volta costrette a scegliere tra assegno di cura o prestazione rimborsata o buoni servizio. Le condizioni quindi valgono per tutti i pugliesi con un familiare gravemente non autosufficiente. Rita per esempio, che vive nella provincia di Lecce con due bambini, ha rinunciato all’assegno di cura per poter mantenere il finanziamento regionale dei buoni servizio, che le consentono di portare il più grande dei due bambini, al centro specializzato in autismo, dove fare terapia. "Anche se mio figlio ha una grave non autosufficienza per il disturbo che accusa e quindi rientrerebbe tra gli aventi diritto all’assegno di cura, ho deciso di rifiutarlo – spiega Rita - Non riuscirei a pagare l’intera retta presso la struttura dove va il piccolo, che oggi viene pagata in parte dal sistema regionale".

4500 pugliesi gravemente non autosufficienti senza assegno di cura. Una coperta troppo corta – come disse già qualche anno fa l’assessore regionale al welfare, parlando del fondo per le non autosufficienze – che ha visto 14.789 domande in Puglia per l’assegno di cura, di queste solo 8000 sono risultate ammissibili, ma 3500 sono di fatto le famiglie che hanno ricevuto l’assegno, mentre altre 4500 persone aventi diritto, sono state escluse dal finanziamento. Ma non solo. "Ci sono trattamenti come l’Aba e non solo, inseriti nei Lea e come tali obbligatoriamente da garantire all’utenza - spiega Vito - Se il sistema sanitario pugliese non è in grado di assicurare quei trattamenti che i cittadini devono pagare presso privati, è giusto che rimborsi". Inoltre l’assegno di cura per gli autistici, nasce dal fondo nazionale per le gravi non autosufficienze come la Sla e la Sma e patologie affini che, dal 2016, comprendono anche il disturbo dello spettro autistico. Tanto è vero che il bando pugliese per l’assegno di cura, non prevede una incompatibilità tra assegno di cura e rimborso Aba, ma di fatto esclude chi lo riceve, non riconoscendo quel punteggio di 20, requisito minimo per accedere tra gli ammessi al finanziamento. “Nel frattempo però – aggiunge Rita – la Regione oltre a obbligarci di fatto a ciniche scelte, ci impone dei tagli, come ha fatto con mio figlio, che da un mese all’altro, non ha potuto più avere quel rapporto con l’operatore uno a uno, fondamentale per chi ha un disturbo dello spettro autistico. L’operatore individuale ha un costo di 80 euro al giorno che le famiglie non ce la fanno a sostenere. Ragazzini come mio figlio che, durante le crisi, sbattono la testa contro il muro, non sono bambini che si possono lasciare e gestire insieme ad altri. Però l’Asl ci ha detto da un giorno all’altro: 'Non possiamo più pagarvi il servizio uno a uno'. La Regione non mi sovvenziona più alcun tipo di servizio, se non la terapia di base, non mi dà accesso ad altri fondi come appunto l’assegno di cura. Ma in una famiglia, dove lavora necessariamente solo un individuo, perché l’altro come me è costretto a stare con il bambino autistico, come devo fare?".

“Impegno continuativo con Pd viola le regole delle toghe” La Cassazione, conferma la sanzione del Csm a Emiliano. Il Corriere del Giorno il 14 Maggio 2020. Ennesima sconfitta per governatore pugliese contro il verdetto del Csm che nel 2019 lo ha ritenuto ‘colpevole’ di aver violato le regole e i ‘paletti’ sui giudici che scendono in politica. La Suprema Corte di Cassazione ha respinto il suo ricorso. Confermata dalle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione la sanzione disciplinare dell’ammonimento inflitta dal Csm a Michele Emiliano, magistrato fuori ruolo, attuale governatore uscente della Regione Puglia per il suo impegno continuativo nel Pd e per l’iscrizione al partito “dem”. La Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato da Emiliano avverso il verdetto del Csm che nel 2019 che accogliendo la richiesta della Procura Generale della Cassazione, lo aveva ritenuto responsabile e quindi “colpevole” di aver violato le regole e i “paletti” sui giudici che scendono in politica, ed in particolare di violato il divieto di iscriversi ad un partito, che vale anche per i fuori ruolo, previsto dalla legge 109 del 2006 sugli illeciti disciplinari delle toghe. Le Sezioni unite civili della Cassazione con la loro sentenza 8906/2020 hanno contestato all’ex magistrato di aver preso la tessera di un partito, svolgendo un’attività «partecipativa e direttiva in forma sistematica e continuativa». La Suprema corte nella sua decisione ha ricordato, che la sezione disciplinare del Csm, aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale, rispetto alla norma che consente ai magistrati, collocati fuori organico per motivi elettorali, di partecipare alla vita politico-amministrativa candidandosi alle elezioni, e di assumere nel caso di elezione i ruoli, sanzionando al tempo stesso le condotte legate all’essenza di quei ruoli, come l’iscrizione ad un partito. Dubbi che la Corte Costituzionale aveva risolto negando l’illegittimità. La scelta adottata dal legislatore con il Codice deontologico delle toghe è, infatti, il frutto di un bilanciamento tra il riconoscimento dei diritti fondamentali del cittadino-magistrato a manifestare le proprie idee, anche di natura politica, e la tutela del principio di indipendenza e imparzialità della magistratura. Il primo è riconosciuto a patto che venga esercitato «con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni comportamento di rilevanza pubblica del magistrato». Gli ermellini hanno negato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di Emiliano , che la tessera del Partito Democratico fosse “coessenziale” alla candidabilità ad alcune cariche, poiché prevista dallo Statuto del Pd, come dal codice etico e dal regolamento quadro dei ”dem”. La Suprema corte infatti, evidenzia e sottolinea, che i partiti politici sono associazioni private non riconosciute, e i vari regolamenti interni, per la loro natura privatistica, non possono costituire fonti di diritto, ma restano espressione della loro autonomia. Senza contare che aderendo alla tesi del ricorso, la norma disciplinare dovrebbe ogni volta ”adattarsi” e al deliberato dei vari partiti politici. Il divieto di iscrizione non si può considerare in contraddizione con la possibilità, riconosciuta al magistrato eletto in Parlamento, di iscriversi ai “gruppi parlamentari”, che hanno a differenza dei partiti una natura istituzionale e non privata. Concludendo i giudici di legittimità hanno evidenziato e valorizzato il dato dell’imparzialità, questo sì in contrasto con la stessa definizione di partito. Il Costituente e il legislatore non vogliono che il magistrato abbia la tessera di un “partito”, perché sarebbe percepito dai cittadini come “uomo di parte”, e affinché «l’esercizio della giurisdizione non possa essere inteso come strumento di lotta politica». L’adesione ad un partito secondo i giudici della Suprema Corte implica il parteggiare per la sua supremazia sugli altri. La Cassazione ha precisato che la partecipazione ai partiti politici, è un illecito disciplinare, solo se sistematica e continuativa. È quindi escluso qualunque automatismo sanzionatorio, motivo per cui il Csm deve valutare di volta in volta se la partecipazione ha il carattere previsto dalla legge.

Primarie Puglia, Emiliano è il candidato governatore con oltre 70%. In 80mila al voto. Gli sfidanti: «Uniti batteremo la destra». I dati non ancora definitivi. Il commento del governatore uscente: «Da domani inizia la battaglia per la Puglia». La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Gennaio 2020. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha vinto le primarie del centrosinistra con il 70,4% dei voti (56.773), seguito dal consigliere regionale Fabiano Amati (14,3%, 11.559 voti), dall’europarlamentare del Pd Elena Gentile (12,1%, 9.753) e dal sociologo Leonardo Palmisano (3,1%, 2.532). «Il freddo e la pioggia non hanno fermato i pugliesi, non hanno fermato la coalizione della Puglia che è il nome che la nostra coalizione, la nostra alleanza assume da oggi. Siamo pugliesi e ci siamo uniti nella democrazia partecipata attraverso le primarie con migliaia e migliaia di cittadini che hanno messo su una giornata meravigliosa di democrazia ancora una volta». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, commentando la sua vittoria alle primarie del centrosinistra. «Il primo grazie va ai pugliesi. Questo popolo meraviglioso - ha detto - mi ha insegnato a fare il sindaco e mi sta insegnando a fare il presidente della Regione. Penso che qui ci sia qualcosa di diverso dal resto del mondo. I pugliesi sono diversi, sono andati a votare il 12 gennaio, ha cominciato pure a piovere oggi pomeriggio. Ora lo possiamo dire, il risultato era abbastanza scontato e quindi perché sono andati a votare? Più che per far vincere qualcuno, lo hanno fatto per testimoniare per tutti noi, hanno fatto un atto di testimonianza. Sono usciti di casa per dire “io sto qua”. Una cosa così non succede da nessun’altra parte. Questa cosa è bellissime ed è una poesia della politica che va conservata». "Il secondo grazie va ai volontari e il terzo a Leonardo Palmisano, Elena Gentile e Fabiano Amati. Penso che loro - ha concluso - renderanno migliore anche me, perché tutte le critiche che mi hanno fatto durante questa campagna per le primarie le ho ascoltate tutte con grande attenzione». GLI SFIDANTI - Dopo il successo del governatore uscente Michele Emiliano che alle primarie del centrosinistra in Puglia ha incassato ieri il 70,4% dei consensi con 56.773 voti, i suoi tre sfidanti - l’ex europarlamentare del Pd Elena Gentile, il consigliere regionale del Partito democratico, Fabiano Amati e il sociologo Leo Palmisano (indipendente) - sono "pronti a lavorare tutti insieme» in vista delle regionali in primavera «al fine di contrastare la destra». «Con il mio risultato, di cui sono molto contenta - ha detto Gentile (12,1%, 9.753) - sarò a disposizione della coalizione perché io voglio vincere, perché sento di poter rappresentare un pezzo di società che chiede un’attenzione differente rispetto al passato: donne, terzo settore, le tante persone che non ce la fanno, i ragazzi e le ragazze di questa regione a cui dobbiamo restituire la speranza di un futuro». «Michele Emiliano ha dimostrato di avere consenso - ha aggiunto - e quindi siamo in campo, con la stessa forza e determinazione di sempre, per non consentire alla destra di scippare questa regione al centrosinistra». «Ci mettiamo al lavoro per incontrare coloro che ci hanno sostenuto - ha detto Palmisano (3,1%, 2.532) - per capire se abbiamo la forza per coagulare questo consenso e farlo crescere in una lista. Per quanto mi riguarda è fuori di dubbio la nostra adesione alla coalizione. Una ventata di aria pulita che deve spazzare le nubi del sovranismo che incombono sul cielo della regione Puglia». «Prendo atto del risultato - ha commentato Amati (14,3%, 11.559 voti) - le primarie servivano a decidere il candidato presidente del centrosinistra ed è stato deciso che sarà Michele Emiliano. Ora tutti a lavoro per il voto di primavera». «Bisogna tenere larga la coalizione - ha concluso Amati - e coinvolgere chi non ha partecipato, perché il dato sull'affluenza ha un significato imponente e quindi tutti a lavoro per evitare che la destra possa vincere». I VOTANTI - Hanno votato in totale 80.608 persone. I dati si riferiscono a 234 seggi sui complessivi 248. Il segretario regionale del Pd, Marco Lacarra, ha espresso «evidente soddisfazione per il risultato straordinario della partecipazione. Quando parlavo di una ipotesi di 50mila votanti era perché c'era preoccupazione rispetto ad un clima che era stato invelenito anche al nostro interno. La competizione c'è stata e la partecipazione è stata assolutamente inaspettata. Abbiamo superato i dati del congresso del Pd di un anno fa, abbiamo superato gli 80mila votanti». Lacarra ha evidenziato che «le primarie si sono svolte con una regolarità straordinaria, non ci sono state contestazioni o situazioni ambigue. Una vera festa di partecipazione, il punto di partenza per una campagna elettorale difficile. Oggi non abbiamo vinto niente, abbiamo il candidato presidente che sfiderà il centrodestra. Da domani partiamo con la campagna elettorale. Quello che è accaduto fino ad oggi viene archiviato, l'obiettivo è tenere dentro questa coalizione anche tutti coloro che non hanno condiviso il percorso e il metodo con una sola finalità: sconfiggere il centrodestra per evitare che la Puglia torni indietro. Abbiamo bisogno di tutti, anche di coloro che hanno espresso scetticismo in queste settimane». In realtà una tendenza al calo c'è ma l’astensione di massa del popolo pugliese del centrosinistra dalle primarie non c'è stata.  La soglia dei 50mila voti, prudenzialmente indicata alla vigilia dallo stesso segretario regionale de Pd, Marco Lacarra, è stata superata già nei rilevamenti del pomeriggio. Alle 17 erano oltre 55.700 i cittadini andati a votare (alle precedenti analoghe consultazioni del 2014 alla stessa ora erano stati oltre 77mila) per scegliere il candidato alla presidenza della Regione. 

AFFLUENZA IN CALO RISPETTO AL 2014 - Sull'affluenza (nel 2014 votarono in 134mila) considerata fondamentale anche per valutare la forza della coalizione in vista delle regionali di primavera, hanno probabilmente pesato le polemiche che hanno accompagnato la campagna elettorale condotta tutto sommato in sordina, il disimpegno dei renziani di Italia Viva e di alcune associazioni e movimenti di area. E probabilmente anche il fatto che la vittoria di Emiliano in questa fase non è mai sembrata in discussione malgrado forti dissensi interni alla sua stessa maggioranza. L’invito a disertare le urne era arrivato in primis dalla ministra pugliese renziana, Teresa Bellanova, che aveva parlato di «primarie farsa» annunciando il disimpegno di Italia Viva, e accusando Emiliano di una «gestione del potere opaca e divisiva». Ma un disincentivo alla partecipazione era arrivato anche dell’ex governatore Nichi Vendola, che in una intervista aveva parlato di primarie «fiction». È prevedibile che l’esito del voto, che quasi certamente porterà alla vittoria di Emiliano, non spegnerà le polemiche interne almeno fino a che resteranno vuote le caselle dei candidati delle altre forze politiche alle regionali pugliesi. I 5Stelle sceglieranno a breve con la consultazione on line il proprio candidato. E' invece ancora in stallo la situazione nel centrodestra dove da tempo l’ex ministro berlusconiano ed ex governatore (sconfitto nel 2005 da Vendola), Raffaele Fitto, approdato a Fratelli d’Italia e sostenuto da Giorgia Meloni, resta bloccato ai box perchè parte della Lega pugliese si oppone alla sua candidatura. Tra gli esponenti salviniani locali, infatti, ci sono diversi ex alleati di Fitto che temono di trovarsi in un vicolo cieco in caso di vittoria dell’ex governatore. ASSUNTELA MESSINA (SENATRICE PD) - «Una bella festa di partecipazione. Grandissima soddisfazione. Oltre 80mila  presenze in Puglia rappresentano la volontà dei Pugliesi di contribuire fattivamente alla vita politica», ha commentato la senatrice Assuntela Messina - Presidente PD Puglia -.  Oltre il 70 per cento di preferenze per il Presidente Emiliano testimoniano una storia della coalizione che, nel segno della continuità, intende lavorare per un ulteriore salto di qualità della Puglia . Michele Emiliano è il candidato in grado di frenare l’onda sovranista, unitamente al sempre maggiore impegno e responsabilità che tocca a tutti noi interpretare. Con La tenacia, la determinazione e l’entusiasmo per le “buone battaglie”, in nome dell’ Amore per la nostra Terra. Con Michele Emiliano, la Puglia non si ferma». 

ALBERTO LOSACCO (ONOREVOLE PD) - «Per la quarta volta consecutiva, il candidato governatore del centrosinistra è stato individuato da circa centomila elettori attraverso le primarie», commenta il deputato barese del PD, Alberto Losacco. «Da stasera noi abbiamo il nostro candidato, scelto attraverso una bellissima giornata di partecipazione democratica. La destra invece è in attesa di conoscere i risultati dell’Emilia - Romagna e della Calabria, perché la Puglia è solo una tessera nel mosaico di equilibri che nulla c’entrano con l’interesse della nostra regione. È una differenza abissale, di metodo e di sostanza, che mai quanto stasera vale la pena ricordare. Il merito è dei nostri elettori che ogni volta mostrano una generosità, un impegno e una passione davvero incredibili. Da oggi tutto il popolo del centrosinistra sarà con forza e lealtà accanto a Michele Emiliano candidato governatore».

Primarie in Puglia: vince Michele Emiliano. I candidati del partito democratico erano quattro: Michele Emiliano, Elena Gentile, Leonardo Palmisano e Fabiano Amati. Ora il presidente dovrà prepararsi per le prossime elezioni regionali. Emanuela Carucci, Domenica 12/01/2020 su Il Giornale. Sarà Michele Emiliano il candidato per il partito democratico alle prossime elezioni regionali che si terranno in primavera. Il governatore ha vinto le primarie del Pd con oltre 53mila voti, in netto vantaggio rispetto agli sfidanti. Sulla locandina delle primarie c'era uno slogan forte e chiaro: "Programmiamo il futuro insieme" e con questa promessa si erano candidati per le primarie del Pd in Puglia il presidente della Regione Michele Emiliano, l'ex parlamentare europeo Elena Gentile (7.435 voti), lo scrittore ed etnografo Leonardo Palmisano (2.281 voti) ed il consigliere regionale Fabiano Amati (9.368 voti). Trecento i seggi aperti in tutto il tacco d'Italia dalle ore 8 fino alle ore 20 e poi è iniziato lo spoglio. Un dato importante è stato dettato dall'affluenza alle urne. Claudio Cesaroni, coordinatore organizzativo delle primarie, ha espresso "grande soddisfazione" per il numero di elettori che si è recato alle urne durante le dodici ore no stop. "Abbiamo sfondato il muro dei 50 mila alle 17", ha commentato. "Siamo in grado come coalizione, con un metodo di lavoro, di portare non solo volontari per organizzare tutto questo, ma di mettere da parte attriti tra vari partiti e varie forze politiche e di dare voce e partecipazione ai cittadini". Nel 2014, quando alle primarie venne designato come candidato Michele Emiliano, poi eletto presidente della Regione nel 2015, si recarono complessivamente al voto quasi 140mila cittadini. Oggi, invece, i voti sono stati 80mila, in netto calo rispetto alle precedenti elezioni. Ogni elettore si è recato nel seggio del proprio quartiere di residenza e ha esibito un documento di identità lasciando un contributo di un euro per coprire le spese organizzative del partito democratico. Hanno potuto scegliere il proprio candidato preferito anche gli studenti fuorisede, i migranti, i sedicenni e chi non poteva spostarsi per motivi di salute dopo essersi registrati sul sito web "primariepuglia2020. it". Certo la corsa alle elezioni ha messo in evidenza ancora una volta la crepa profonda che già da tempo aleggia nel centrosinistra. Mentre Emiliano teneva incontri in tutte le città pugliesi, "Italia Viva" col ministro Teresa Bellanova nei giorni scorsi aveva annunciato che non avrebbe partecipato alle primarie mentre il senatore dei dem, Dario Stefano, che gareggiò con Emiliano cinque anni fa, ha attaccato il governatore pugliese. E come se non bastasse, sempre nei giorni scorsi, è arrivato il commento sulle primarie 2020 dell'ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, che le ha definite "una fiction". Nonostante, però, le accuse, soprattutto del ministro Bellanova che ha definito quella di Emiliano "una gestione del potere opaca e divisiva", il presidente della Regione Puglia ce l'ha fatta e ora dovrà vedersela con gli altri candidati (ancora non si conoscono i nomi) per la corsa alle elezioni regionali. Come detto, queste saranno in primavera e, in un unico giorno i pugliesi voteranno per le regionali e per le amministrative.

Puglia, Renzi al Pd: il nostro candidato non è Emiliano. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Non aveva partecipato alle primarie del centrosinistra che si sono tenute domenica scorsa. Ed era già un segnale. Adesso Italia viva, in Puglia, prende ancora più nettamente le distanze dal Pd. In particolare da Michele Emiliano. Ad annunciarlo è stato il fondatore Matteo Renzi, a «L’aria che tira» su La7. «In Puglia il Pd appoggerà Emiliano. Guardo la storia e dico: la Puglia di Emiliano — spiega Renzi, elencando tuti i problemi pugliesi che sono diventati anche nazionali — è l’emblema di una alleanza culturale tra il grillismo e quella parte di sinistra che io non amo troppo. Su Ilva, Emiliano diceva che noi ammazzavamo i bambini, quando in realtà l’unico obiettivo era rimettere a posto quell’acciaieria e dare benefici alla città di Taranto. Poi c’è Tap: se vuoi la copertura energetica devi portare il gas. E la Xylella. E poi la Popolare Bari, che secondo loro non doveva essere trasformata in spa (come aveva deciso il suo governo, ndr). Per questo in Puglia, non so se vinceremo o perderemo, avremo un candidato diverso da Emiliano e da Fitto, un candidato che non farà campagna elettorale contro ma farà campagna elettorale per la Puglia». La presa di distanza da Emiliano diventa ancora più evidente quando Renzi fa il paragone con la sua regione. «In Toscana, invece, c’è il candidato presidente Eugenio Giani che è una persona molto seria, un riformista, e noi staremo con Eugenio Giani. Il punto vero è: noi siamo con chi fa le cose serie e dà posti di lavoro e non sussidi e redditi di cittadinanza». Nessun nome, per ora, per la Puglia. «Il candidato — chiosa Renzi — lo annunceremo a febbraio, dopo le elezioni regionali in Emilia. Ma non sarà la Bellanova, che fa bene il ministro».

Regionali, Teresa Bellanova candidata per il centrosinistra? Ipotesi non smentita. La ministra renziana dal palco di Italia viva si scaglia contro il governatore pugliese. Leonardo Petrocelli il 03 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Al Sud serve un cambio di classe dirigente. Quando diciamo no a Emiliano non ne facciamo una questione personale, facciamo una valutazione politica. Quando diciamo no a Emiliano diciamo no al trasformismo, no alla demagogia, no al peggiore notabilato meridionale». È un durissimo attacco quello che la ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova, ha lanciato - qualcuno dice da candidata in pectore - al governatore pugliese Michele Emiliano dall’Assemblea nazionale di Italia viva. Il partito renziano, infatti, ha più volte chiarito che proporrà, alle regionali pugliesi, un proprio nome alternativo al governatore uscente. E la Bellanova ci mette il carico puntando sui temi più caldi: siderurgico («Taranto è stata inquinata quando l’acciaio era di Stato»), sanità, rifiuti e, soprattutto, agricoltura con particolare attenzione ai 142 milioni di euro del Psr non utilizzati della Regione. Si tratta, insomma, di dissodare il terreno prima dell’affondo finale: «Cari amici del Pd - incalza la ministra - , volete sostenere il buongoverno di Bonaccini che le risorse le ha consumate o volete stare con la concezione proprietaria di Emiliano? Noi contrapponiamo a Emiliano un impianto riformista perché il Mezzogiorno ha bisogno del riformismo, perché cosi non può continuare a vivere». A rimorchio anche il coordinatore Ettore Rosato che sentenzia: «Con Emiliano si perde». La posizione di Italia Viva, insomma, è chiara: se salta la candidatura dell’attuale governatore (cosa però improbabile a così breve distanza dal voto di maggio) allora sarà possibile sedersi a un tavolo e ragionare su un nome condiviso, su un’intesa ampia che coinvolga tutti, dal centro a sinistra. Diversamente, Italia viva, con Azione di Carlo Calenda e +Europa, farà la propria mossa con un nome alternativo. La Bellanova, insomma, prova la «spallata», su mandato di Matteo Renzi. L’ex premier toscano, infatti, starebbe riconsiderando la possibilità di spendere proprio la senatrice nella battaglia pugliese a meno che non si riesca a rimuovere «l’ingombrante» ostacolo Emiliano. Il problema principale di Italia viva, infatti, è nell’individuazione della candidatura più idonea: le voci si rincorrono e spaziano dall’opzione politica (Scalfarotto o, appunto, Bellanova) a quella imprenditoriale con particolare attenzione al settore agricolo, spesso in frizione con il governatore uscente. Le prossime ore saranno decisive. Nel frattempo, però, l’intervento della Bellanova ha attirato le ire degli ex renziani, rimasti nel Pd. È il caso del presidente del consiglio comunale di Trani, Fabrizio Ferrante, componente della direzione nazionale dem: «Cara Teresa - scrive su Fb -, quando ti chiedevamo di candidarti alle primarie per dare una possibile alternativa al centrosinistra ti sei data latitante, ora dici che non è una questione personale (ma di fatto lo è) e si corre il rischio di perdere con un’altra candidatura. Non si fa politica così, che male abbiamo fatto per subire questo? Perché ci vuoi esporre al rischio di far vincere Salvini in Puglia? Quello stesso Salvini che dici di combattere a Roma lo vuoi agevolare proprio nella tua terra?». L’accusa da parte dem è infatti sempre la stessa: una spaccatura a sinistra finirebbe fatalmente per agevolare una vittoria dei conservatori. Italia viva rilancia, a sua volta, invitando gli alleati (romani) a cambiare cavallo a tre mesi dal voto. Attimi di stallo prima della tempesta.

ABATERUSSO: «BELLANOVA STA CON SALVINI» - «La ministra Bellanova, invece di governare e spiegare cosa ha fatto lei in tanti anni di governo, ci dice che farà campagna elettorale insieme a Salvini per far perdere il centrosinistra in Puglia. Lei ed il suo dante causa hanno disastrato il Pd, il centrosinistra, l’Italia e adesso, invece di chiedere scusa, pretendono di dare lezioni sul buongoverno». Lo afferma in una nota il segretario regionale di Articolo Uno in Puglia, Ernesto Abaterusso. Ieri la ministra ha ribadito che Italia Viva non sosterrà il governatore uscente Michele Emiliano, rieletto dal centrosinistra candidato alla presidenza della Regione. «Peraltro - aggiunge Abaterusso - lei che parla di notabili, dalla Puglia è scappata e si è rifugiata nel porto sicuro dell’Emilia-Romagna pur di conservare lo scranno parlamentare. E da lì lavora per tentare di consegnare la Puglia a Salvini, come da volontà del suo capo». «Non ci riuscirà - conclude - perché il suo odio smisurato le ricadrà addosso, ma il suo atteggiamento merita solo una parola: vergogna».

Primarie in Puglia: scoppia il caso delle casse vuote. Sono stati 80mila gli elettori che hanno versato un euro il 12 gennaio scorso, ma in cassa non ci sono 80mila euro. Il segretario regionale del Pd, Marco Lacarra: "I soldi ci sono!" Emanuela Carucci, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. "Non c'è nessun fatto scandalistico" tuona al telefono Marco Lacarra, segretario regionale del partito democratico in Puglia. È la sua risposta perché " è una settimana che siamo sui giornali". Ma qual è il "fatto scandalistico" a cui fa riferimento il deputato barese? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro. Il 12 gennaio scorso si sono tenute le primarie della coalizione del centro sinistra in Puglia. Come sappiamo a uscirne vittorioso è stato il governatore Michele Emiliano che sarà, quindi, in primavera il candidato per le prossime elezioni regionali. Ma il punto non è questo. Chi ha deciso di recarsi ai seggi e votare nei circoli del Pd doveva dare un contributo minimo di un euro. Alle urne si sono recati 80mila elettori. Pertanto, se la matematica non è un opinione, nelle casse del partito democratico ( o meglio, della coalizione), ci sarebbero dovuti essere almeno 80mila euro. Così, però, non è. Stando ad un articolo uscito sul quotidiano regionale "La Gazzetta del Mezzogiorno" pare che nelle casse dell'associazione "Primarie di Puglia" che ha organizzato l'iniziativa siano arrivati meno di 16mila euro. L'inchiesta è partita dai circoli del Comune di Laterza, in provincia di Taranto. "Per quanto riguarda Laterza è un falso problema" ci tiene a sottolineare a ilGiornale.it Gianfranco Lopane, sindaco di Laterza, eletto nelle fila del Pd e oggi a capo di un'amministrazione di liste civiche. "Sono andate a votare 1003 persone e il comitato organizzatore delle primarie a Laterza ha consegnato tre giorni dopo il 12 gennaio un bilancio con le quote in entrata e in uscita per cui il versamento che è stato fatto al comitato provinciale ha riguardato la differenza tra le entrate e le uscite. Trattandosi, le primarie, di un percorso democratico, hanno dei costi, come ad esempio la tipografia, lo speakeraggio per informare la cittadinanza della possibilità di votare. Quindi noi abbiamo versato la differenza tra i 1003 euro incassati e le spese di gestione delle stesse primarie, nè più nè meno. Per esempio nel kit che abbiamo ricevuto per svolgere le primarie c'erano mille schede e solo due manifesti, ma per far partecipare la gente ci vuole qualcosa in più". "Sono stato al circolo di "Libertà" a Bari, - fa eco Lacarra - sono venute a votare 1040 persone e in cassa c'erano 1050 euro (l'offerta dei partecipanti al voto era libera da 1 euro in su, ndr), sono stati tolti 500 euro circa per l'affitto della sede "L'officina degli esordi" (l'affitto veniva 400 euro più iva per un totale di circa 490 euro). È chiaro che poi sono tornati al comitato organizzatore 500 euro circa e non mille. Questo non significa che qualcuno si è rubato 500 euro, ma sono serviti per pagare la sede. Le persone non si possono tenere per strada, tra l'altro è inverno e fa freddo, non si potevano allestire dei gazebo per strada e quindi in molti casi si è dovuto prendere in affitto una sede per poter svolgere le primarie del 12 gennaio.". A sollevare il problema è stato Claudio Cesaroni, presidente dell'associazione che ha organizzato le primarie in tutta la regione, che ha chiesto alle federazioni provinciali del Pd di sollecitare il versamento delle quote. "Ci sono dei circoli che vorrebbero trattenerli, le federazioni vorrebbero la quota, gli altri partiti giustamente dicono 'li vogliamo pure noi' perché c'è la crisi e questo dovrebbe confortare la gente comune perché i partiti che prima direttamente navigavano nell'oro perché arrivavano soldi, anche illeciti. Da un po' di anni a questa parte, invece, i soldi illeciti non ce li hanno più" ha rassicurato il segretario regionale del Pd, Lacarra. "In cassa credo ci siano già circa 40mila euro. - continua il segretario regionale - Non è che mancano dei soldi, si sta discutendo su che destinazione dare a questi soldi". Sarà, fatto sta che oggi pomeriggio si incontrerà la commissione per fare un bilancio della situazione. Solo con le carte alla mano si potrà davvero tirare una linea e capire se mancano o no dei soldi. La questione dei soldi (pare ci siano degli ammanchi anche nelle province di Foggia e Lecce) rischia però, di diventare "una pietra d'inciampo" parafrasando le parole di Elena Gentile, ex parlamentare del Pd e tra i candidati alle primarie che aspetta la riunione della commissione di bilancio. "Se in un Comune non c'è coincidenza tra il numero di votanti e l'importo raccolto durante le primarie, si annulla quel seggio. Questo è quello che dice il regolamento. Bisogna aspettare che tutti i Comuni presentino il bilancio delle entrate e delle uscite. Spero che le cose siano state fatte in regola, poi mi pronuncerò." ha concluso l'altro candidato alle primarie passate, Fabiano Amati. Insomma, per quanto le primarie siano state "un bel momento di democrazia", come le ha definite il sindaco di Laterza, Gianfranco Lopane, se i conti non dovessero tornare, il posto tanto ambito dal presidente della Regione, Michele Emiliano, potrebbe iniziare a tremare e il centrosinistra, in Puglia, potrebbe non avere ancora un candidato per le prossime Regionali.

Primarie centrosinistra, i conti non tornano: in cassa solo 16mila euro. I circoli Pd non versano i contributi dei militanti. Amati: «Voti e soldi devono coincidere». Massimiliano Scagliarini il 25 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Alle primarie pugliesi del centrosinistra che domenica 12 hanno incoronato il governatore uscente Michele Emiliano hanno partecipato circa 80mila elettori. Non gratis: il regolamento prevedeva un contributo di almeno un euro. Ma nelle casse dell’associazione Primarie di Puglia che ha organizzato l’iniziativa, ad oggi, sono arrivati meno di 16mila euro. Circa il 20%: la gran parte dei circoli del Pd che hanno ospitato i seggi, specie nel Foggiano e nel Leccese, sono infatti in rivolta perché vogliono tenersi i soldi. Il problema è stato sollevato già la scorsa settimana dal presidente dell’associazione, il segretario socialista Claudio Cesaroni, che ha scritto alle federazioni provinciali del Pd per sollecitare il versamento di quanto dovuto. Non è tanto una questione di soldi in sé: al momento del voto, infatti, è stata rilasciata una ricevuta con i dati fiscali dell’associazione, che dovrà dunque rendicontare quanto incassato. In questo momento non è in grado di darlo. Cesaroni conferma di non essere in grado, ad oggi, di dire quanto è stato effettivamente incassato: «Stiamo provvedendo - dice - e ci vorrà del tempo. A Bari e Brindisi hanno tutti pagato, ma a Foggia per esempio ci sono circoli in cui il contributo non è stato chiesto». E ci sono anche situazioni strane: a Sannicandro di Bari, per esempio, è stato aperto un secondo seggio «clandestino» che raccoglieva i voti «a scopo statistico», cioè senza prendere i soldi ma senza nemmeno che i dati fossero riversati agli organizzatori. Sulla questione dei contributi stanno lavorando sia il segretario regionale del Pd, Marco Lacarra («Alcune federazioni stanno raccogliendo i soldi dai circoli», dice) che il parlamentare Ubaldo Pagano, con l’obiettivo di completare la rendicontazione. Nei circoli, però, la situazione è in fermento. Da Lecce ad esempio fanno sapere che i soldi incassati sono stati spesi per pagare il fitto di alcune sale di albergo, oltre che per i rimborsi ad alcuni volontari. «Se dall’incasso delle primarie, detratte le spese vive, sono rimasti 200 euro - dice il segretario di un circolo di Foggia - non vediamo perché quei soldi debbano andare a Bari e non debbano essere usati per l’attività politica sul territorio». Il rischio è che la questione del denaro possa ora trasformarsi in un problema politico. «Ho già avvertito da giorni - dice Fabiano Amati, uno dei tre sfidanti del governatore Michele Emiliano - che per convalidare il voto serve una convergenza tra voti e versamenti. Per questo motivo ho chiesto i dati e attendo che mi siano inviati». Ma i veleni colpiscono a ogni livello: l’organizzazione aveva stabilito che i quattro candidati versassero duemila euro a testa di fondo cassa, ma a metterli sono stati soltanto Emiliano e l’ex europarlamentare Elena Gentile. Leo Palmisano è stato esentato perché ha fatto presente di non avere alle spalle né eletti né organizzazioni di partito. E così resta Amati: «Non ho pagato perché ho chiesto prima di vedere i versamenti degli altri, che non mi sono stati mostrati. E comunque, trattandosi di fondo cassa, era solo un anticipo che doveva poi essere coperto e restituito». LA REPLICA DI AMATI -  Il consigliere regionale del Pd, Fabiano Amati, arrivato secondo alle primarie con cui il 12 gennaio il centrosinistra ha scelto Michele Emiliano quale candidato presidente della Regione Puglia, chiede a tutti i circoli del Partito democratico di versare al comitato organizzatore le somme raccolte con i contributi degli elettori, cioè circa 80mila euro, «per controllare la validità» della consultazione. Amati, riferendosi al fatto che non tutti i circoli hanno effettuato i versamenti, ricorda che «il regolamento prescrive che le somme raccolte devono sostanzialmente combaciare con il numero dei votanti: spero si tratti di un semplice ritardo, altrimenti la consultazione sarebbe nulla». «Non c'è nessuna malafede e nessun problema di regolarità - sottolinea il segretario del Pd Puglia, Marco Lacarra - ad ogni voto corrisponde il versamento di almeno un euro. La discrepanza è dovuta al fatto che ci sono circoli che non hanno eseguito il versamento oppure hanno trattenuto una parte delle somme per coprire i costi. La situazione economica dei circoli politici è davanti agli occhi di tutti, c'è chi fa fatica a pagare le bollette». Per effettuare i versamenti c'è tempo fino a venerdì prossimo, quando l’associazione che ha organizzato le primarie si riunirà per chiudere il bilancio. «Tutto risulta regolare e certificato». Lo dichiara in una nota il comitato organizzativo delle primarie con cui il centrosinistra il 12 gennaio scorso ha decretato la ricandidatura del governatore uscente Michele Emiliano alle prossime regionali di primavera in Puglia. Il comitato «vuole sgombrare il campo da qualsiasi equivoco in merito alla polemica delle ultime ore sul versamento dei contributi raccolti in occasione del voto», che non corrisponderebbero al numero dei votanti. «La trasparenza e la correttezza delle operazioni di voto - spiegano dal comitato - sono un presupposto delle primarie che tutta la macchina organizzativa si è impegnata a garantire». "I due comitati provinciali che sono in ritardo con le rendicontazioni, anche a causa dell’alto numero di Comuni che raccolgono - aggiungono - sono impegnati nel trasmettere al più presto la documentazione. Ogni seggio era presidiato da rappresentanti di almeno due candidati, tutte le operazioni di spoglio e trasmissioni dati sono state pubbliche e le decisioni al tavolo organizzativo sono sempre state prese in maniera unanime, anche dal delegato di Amati». Quest’ultimo, consigliere regionale del Pd arrivato secondo alle primarie, ha chiesto di "controllare la validità» della consultazione.

Emiliano vince le primarie (a spese dei pugliesi!). Il Corriere del Giorno il 13 Gennaio 2020. Alle primarie a livello regionale hanno partecipato meno di 60mila persone, quasi la metà dei 149 mila della scorsa tornata. Infatti hanno votato soltanto 56.773 votanti alle primarie del centrosinistra in Puglia sui 1.684.000 aventi diritto al voto alle prossime Elezioni Regionali in Puglia. Un risultato  più che deludente Soltanto 56.773 votanti hanno votato ieri alle primarie del centrosinistra in Puglia sui 1.684.000 aventi diritto al voto alle prossime Elezioni Regionali in Puglia. Un risultato  più che deludente per Michele Emiliano,  sopratutto se confrontato ai 793.831 voti ricevuti nel 2015 grazie ai quali venne eletto Presidente della Regione Puglia.  Alle primarie a livello regionale hanno partecipato in circa  80mila persone, quasi la metà dei 149 mila della scorsa tornata. Emiliano che  ha incassato ieri il 70,4% dei consensi sui 56.773 votanti , sconfiggendo i suoi tre sfidanti – l’ex europarlamentare del Pd Elena Gentile, il consigliere regionale del Partito democratico, Fabiano Amati e il sociologo Leo Palmisano (indipendente) – i quali adesso di dicono “pronti a lavorare tutti insieme” (ma qualcuno gli crede ?)  in vista delle regionali in primavera “al fine di contrastare la destra”. “Con il mio risultato, di cui sono molto contenta – ha detto la Gentile (12,1%, 9.753 voti ) – sarò a disposizione della coalizione perché io voglio vincere, perché sento di poter rappresentare un pezzo di società che chiede un’attenzione differente rispetto al passato: donne, terzo settore, le tante persone che non ce la fanno, i ragazzi e le ragazze di questa regione a cui dobbiamo restituire la speranza di un futuro” aggiungendo “Michele Emiliano ha dimostrato di avere consenso  e quindi siamo in campo, con la stessa forza e determinazione di sempre, per non consentire alla destra di scippare questa regione al centrosinistra“. “Prendo atto del risultato – ha commentato Fabiano Amati (14,3%, 11.559 voti) – le primarie servivano a decidere il candidato presidente del centrosinistra ed è stato deciso che sarà Michele Emiliano. Ora tutti a lavoro per il voto di primavera“. “Bisogna tenere larga la coalizione – ha aggiunto – e coinvolgere chi non ha partecipato, perché il dato sull’affluenza ha un significato imponente e quindi tutti a lavoro per evitare che la destra possa vincere“. Il consigliere regionale Amati è stato il più suffragato sia nella città di Brindisi che in provincia , nonostante il sindaco Rossi abbia sostenuto apertamente il governatore Emiliano. Sono stati 4.729 i voti conquistati nel brindisino dal consigliere regionale fasanese Fabiano Amati contro i 3.755 di Michele Emiliano. Nella provincia di Taranto dove i votanti sono stati solo 8738 Emiliano ha infatti conquistato 5767 preferenze, contro le 1450 di Elena Gentile, le 1082 di Fabiano Amati e le 385 di Leonardo Palmisano. Tra i voti registrati nel versante occidentale della provincia, emerge il contributo ricevuto del sindaco di Laterza,  Gianfranco Lopane, che ha consentito ad Emiliano di ricevere su 1003 votanti e ben 941 preferenze. Seppure con un’affluenza decisamente più fredda (solo 161 votanti) nel Comune di Castellaneta quasi la totalità delle preferenze sono state per Emiliano, con il PD cittadino che ha palesemente disertato le primarie, affidando a Facebook tutto il suo malcontento in virtù di un chiacchierato “asse politico” tra il sindaco Giovanni Gugliotti ed Emiliano. Le dichiarazioni di Palmisano (3,1%, 2.532 voti): “Ci mettiamo al lavoro per incontrare coloro che ci hanno ostenuto  per capire se abbiamo la forza per coagulare questo consenso e farlo crescere in una lista. Per quanto mi riguarda è fuori di dubbio la nostra adesione alla coalizione. Una ventata di aria pulita che deve spazzare le nubi del sovranismo che incombono sul cielo della Regione Puglia“. Non c’è stato solo Michele Emiliano nelle primarie del centrosinistra. A Canosa di Puglia, appena dietro il governatore, si è piazzato a sorpresa lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio.(non candidato !)  a cui sono arrivati ben 63 i voti su 197 !  Una protesta singolare scelta da alcuni elettori per indicare il loro desiderio di un nome diverso da quelli proposti per chiedere una nuova stagione della politica a sinistra . Le schede, naturalmente, sono risultate nulle. I risultati finali: Amati 5, Gentile 13, Palmisano 3, Emiliano 109, Carofiglio 63. Quattro le altre nulle. Ma nella Bat vi sono state anche altre sorprese, come a Margherita di Savoia, uno dei più piccoli centri della Bat, dove  alle urne si sono presentati più elettori di quanti hanno votato nella città di Barletta. Un fenomeno legato all’attivismo del primo cittadino, Bernardo Lodispoto che ha sostenuto Emiliano tra proclami e scivoloni. Come lo spot nei panni di un mafioso. I votanti alle primarie del centrosinistra nel 2010 per la scelta del candidato alla presidenza della Regione tra Vendola e Boccia  erano stati 200.000; 134.000 nel 2015 tra Emiliano, Minervini e Dario Stefàno; nel 2020 solo 80.000 votanti dichiarati dal Pd, quindi  negli ultimi 10 anni c’è stato un calo di votanti di 120.000 persone, in percentuale del 120 per cento. Facendo un raffronto tra i votanti alle primarie del centrosinistra e i votanti alle elezioni ‘vere’ occorre segnalare che nel 2010 i votanti alle primarie (200.000) rappresentarono circa il 19,29 % (sul valore assoluto dei votanti la coalizione di centrosinistra 1.036.638). Nelle primarie del 2015 i votanti furono 134.000 (elezioni votanti per centrosinistra 793.831 con percentuale circa del 17 per cento); alle ultime primarie nel 2020 i votanti 80.000. Quindi ne consegue che se  la percentuale rimane intorno al 20%, gli elettori per il centrosinistra saranno circa 400.000 a fronte di circa  4.000.000 aventi diritto al voto. Nessuno però ricorda l’utilizzo spregiudicato che ha fatto Emiliano del suo ruolo e delle strutture (persone) comprese della Regione Puglia utilizzate ( a spese quindi dei contribuenti pugliesi) in questa campagna per le primarie, dove nessuno dei concorrenti del governatore uscente si è mai soffermato a ricordare tutte le inchieste della magistratura che coinvolgono Michele Emiliano. Il presidente della regione Puglia Michele Emiliano è indagato insieme al suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e tre imprenditori due di un’azienda barese che avrebbe finanziato con 65mila euro parte della campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017 e un altro, titolare dell’agenzia di comunicazione, creditrice della somma, che curò quella campagna. a seguito dell’indagine svolta Guardia di Finanza di Bari, coordinata dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno,  dalla Procura di Bari. L’inchiesta riguarda una fattura da 65mila euro pagata da due imprenditori baresi a un’agenzia di comunicazione che aveva curato la sua campagna elettorale per le primarie nazionali del Pd del 2017. I reati contestati a vario titolo sono “induzione indebita a dare o promettere utilità”, “abuso di ufficio” e false fatture. Nell’ambito dell’indagine, i finanzieri baresi hanno acquisito documentazione nella sede della Presidenza della Regione Puglia.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Foggia.

Foggia, dopo fallimento denuncia “favoritismi” in Tribunale: inchiesta archiviata. La vicenda, scrive Repubblica di Bari, parte da quanto esposto da un farmacista foggiano "che ha prima ha denunciato" i fatti " per poi "opporsi alla richiesta di archiviazione del pm De Nozza", sostituto procuratore di Lecce. Stato Quotidianoil 3 Marzo 2020. “Le relazioni del giudice sarebbero state successive alle sue decisioni“. E’ quanto appurato (fonte Repubblica di Bari) dal sostituto procuratore di Lecce, Milto De Nozza, relativamente a un’indagine della Guardia di Finanza relativa a un presunto caso di “corruzione in atti giudiziari nel tribunale di Foggia”. Come riporta il testo di Repubblica, “il giudice” avrebbe “instaurato relazioni” con “alcune curatrici fallimentari a cui sono stati dati incarichi dallo stesso tribunale“. Per la Procura di Lecce non si è in presenza di un “illecito penale”, con analisi relative solo a una presunta “violazione di regole deontologiche”. Gli accertamenti su ipotetiche violazioni nella deontologia spetterebbero ora al Consiglio superiore della Magistratura. La vicenda, scrive Repubblica di Bari, parte da quanto esposto da un farmacista foggiano “che ha prima ha denunciato” i fatti ” per poi “opporsi alla richiesta di archiviazione del pm De Nozza”, sostituto procuratore di Lecce. Come riportato da Repubblica, nel testo a firma di Chiara Spagnolo “La storia nasce dalle procedure fallimentari che hanno coinvolto due farmacie di Foggia e intreccia le cause civili con le indagini penali”. “Il titolare dei due esercizi ha ritenuto che quelle procedure fossero viziate” da ipotetiche “irregolarità“. Da qui la denuncia di “tutti i magistrati che se ne sono occupati, prima a Foggia e poi a Bari“. Come riporta Repubblica di Bari sono “undici le persone” che sono state “iscritte nel registro degli indagati (tra magistrati – alcuni in servizio alla Corte d’Appello di Bari – commercialisti e avvocati), accusate a vario titolo di corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio“. Indagato anche l’uomo che ha denunciato i fatti, accusato di “calunnia”. Le indagini sono state svolte dalla Guardia di Finanza “che ad inizio dicembre (2019,ndr) ha depositato l’informativa finale, che ha portato il pm a chiedere l’archiviazione della vicenda”. Per i finanzieri non sono emersi “episodi corruttivi in capo ai magistrati”. Al contrario, il farmacista potrebbe essere stato “vittima di un raggiro da parte del suo amico, finto intermediario”. La Procura di Lecce ha stabilito che dai presunti rapporti tra giudice e curatrici, “in momenti successivi rispetto ai decreti di nomina”, non sono “scaturiti atti illegittimi”, nè si sarebbero “creati favoritismi”.

Foggia, tirocinio migranti in procura e polemiche: "Sono risorse". Il procuratore della Repubblica difende con orgoglio il progetto nato tramite una convenzione attivata con la cooperativa sociale Medtraining. Un'operazione a costo zero che non graverà sulle casse del Ministero: "Probabilmente estenderemo convenzione al Tribunale". Federico Garau, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Accoglienza ed integrazione a Foggia, sono quattro gli stranieri ad essere inseriti come tirocinanti e quindi distribuiti in alcuni uffici della procura della Repubblica. Un periodo formativo della durata di tre mesi, estendibile complessivamente fino a sei, durante il quale i protagonisti svolgeranno dei compiti solitamente legati alle figure dei commessi od a quelle degli ausiliari. Ad essere incluso tra i primi nel progetto, come riportato da "Foggia Today", è il libico di 32 anni Haytem, che già da un mese svolge delle mansioni presso l'Ufficio dibattimento. Dalla Costa D'Avorio proviene Kouyate, 34 anni, che gestisce la movimentazione fascicoli, mentre dal Marocco arriva Abdel, affidato all'Ufficio di trattamento informatico degli atti processuali ed all'Archivio. "Mi piace questo lavoro. Grazie alla Repubblica Italiana, grazie a tutti", riferisce il 38enne alla stampa locale. L'ultimo arrivato nel gruppo di tirocinanti, con mansioni relative allo smistamento degli atti, è il 59enne Achab. Un progetto di integrazione, questo, attivato dalla stessa procura della Repubblica tramite una convenzione con la cooperativa Medtraining, che gestisce alcuni Sprar nella provincia foggiana. "Il migrante, grazie ad una sapiente opera di integrazione, è una risorsa per lo Stato. Colmano un vuoto di organico dei nostri uffici. Contiamo di poter estendere il numero di partecipanti. I tirocinanti sono stati formati, informati dei rischi e sono state stipulate le assicurazioni", sostiene con entusiasmo il procuratore della Repubblica di Foggia Ludovico Vaccaro, a cui fa eco il dirigente amministrativo Antonio Toziani. "Probabilmente estenderemo questa convenzione anche al Tribunale", annuncia. "Perché l'iniziativa adottata dal Procuratore è importante per il messaggio culturale ma anche per il contributo che i tirocinanti possono fornire alle cancellerie. Abbiamo delle forti scoperture di organico". Un'operazione importante anche per contenere i costi, dato che si parla di tirocini formativi che non peseranno sulle casse dell'ente, trattandosi di una possibilità concessa tramite i percorsi di integrazione del progetto Sprar. Percorsi di formazione, dunque, gratuiti che già la cooperativa Medtraining ha proposto in altre aziende, come ribadisce il presidente Carmine Spagnuolo, che precisa: "Fare un tirocinio in procura introduce un elemento di rottura e di cambiamento, perché ha un impatto fortissimo in relazione alla rappresentazione sociale degli immigrati soprattutto in questo territorio. Mette in discussione gli stereotipi. Noi siamo abituati a vedere le persone che raggiungono il nostro territorio, migranti e rifugiati, soltanto a certi livelli della scala sociale. Per noi è strano vedere un infermiere di colore. A meno che non sia un calciatore, tutto il resto provoca una dissonanza cognitiva. Questa è la sfida più interessante. È un'operazione di rottura e di coraggio". Il tutor di riferimento Roberto Ginese punzecchia invece chi ha avanzato delle critiche: "Forse non si capisce il senso di quello che si fa. Da oggi in questa squadra Stato entrano anche i migranti, anche loro fanno parte dello Stato, sebbene a qualcuno forse dia fastidio. Ci aiutano nelle funzioni di base".

Nel silenzio di Anzano, il paese simbolo del comunismo del malessere. Emigrazioni, ritorni, nuove fughe. Tante serrande chiuse. Un bar dove si gioca a carte, un ex postino, un ex operaio, un maresciallo preoccupato. Viaggio sui monti Dauni, in un luogo sempre più vuoto, naufrago in mezzo alla Puglia. Franco Arminio il 07 febbraio 2020 su L'Espresso. Sono stato tante volte ad Anzano. È a mezz’ora da casa mia, è un paese ideale per illustrare la situazione che stanno vivendo oggi i paesi. Alcune volte neppure ci sono arrivato ad Anzano, mi sono fermato due chilometri prima, nella frazione di Mastralessio che si incontra sulla strada. Oggi non ho fatto nessuna pausa. La pasticceria è chiusa, nella piccola piazzetta non c’è più la fontana. Chiuso anche il bar. L’unico segno di vita sono alcuni panni stesi. Arrivo ad Anzano e parcheggio la macchina vicino all’edificio del Comune. Gli edifici comunali sono brutti in quasi tutti i paesi italiani. Spesso sono edifici realizzati negli ultimi cinquant’anni da architetti che cercano di farsi notare.

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Taranto.

L’ANNIVERSARIO. Taranto, i 50 anni della Concattedrale di Gio Ponti (che sembra una nave a vela). Peppe Aquaro su Il Corriere della Sera l'8/12/2020.  L’edificio era il frutto del sodalizio tra il celebre architetto e il vescovo Motolese. Che in quegli anni di boom economico e scempi edilizi riuscì a inaugurare 43 chiese. Questa è anche la storia di un archistar (ma negli anni ’60 del secolo scorso non le chiamavano ancora così) abbastanza visionario, e dell’arcivescovo che riuscì ad inaugurare ben quarantatré chiese in poco meno di trent’anni. Parliamo di Gio Ponti e di don Guglielmo Motolese. Siamo agli inizi degli anni ’60, e anche a Taranto, città dell’incontro tra i due, è scoppiato il boom economico. Si costruisce ovunque: i dipendenti dell’allora Italsider si trasferiscono nella Città dei due mari da ogni zona della Puglia, della Calabria e della Basilicata. La Città Vecchia ed il Borgo ottocentesco non bastano più: nel rione Montegranaro Italia, laddove c’era l’erba, presto sarà un susseguirsi di palazzoni da dieci, undici piani. Più o meno tutti uguali. E con una dignità estetica per nulla rivoluzionaria: scartabellando tra gli uffici del Catasto, si trova quasi sempre il 1967 come anno definitivo di costruzione. In mezzo a questa «Terza Taranto», frutto dell’espansione della città verso la nuova zona orientale, sorgerà, appunto, la Concattedrale di Ponti e Motolese. La strana coppia viene evocata proprio in questi giorni, in occasione dei primi 50 anni della Concattedrale «Gran Madre di Dio», consacrata il 6 dicembre del 1970, dieci anni dopo la posa della prima pietra dell’allora Italsider, al quartiere Tamburi. Ed oggi, tra Coronavirus e polemiche, che a Taranto si protraggono da anni a causa dell’ex Ilva — se sia preferibile la salute al profitto o viceversa —, non è certo un buon periodo per festeggiare. Però, nel caso della Concattedrale, così chiamata perché esisteva, e c’è tuttora, una Cattedrale, quella romanica di San Cataldo, patrono dei tarantini, siamo di fronte a un capolavoro dell’architettura del Novecento, che merita di essere celebrato. Alla «Vela», definizione data dallo stesso Ponti alla facciata principale della chiesa — se osservata da lontano, infatti, dall’immensa via Dante, che termina appunto col prospetto della Concattedrale, appare proprio una nave, le cui vele, bianchissime, quasi dei ricami nel cielo azzurro, sono pronte per essere spiegate — è dedicata una mostra, «Gio Ponti e la Concattedrale Taranto 1970-2020. Il sogno di una città, il sogno dei suoi cittadini e il sogno di Guglielmo e di Giovanni». Purtroppo, l’inaugurazione dell’esposizione, in programma negli spazi del Museo Diocesano, è stata rinviata a causa dell’emergenza sanitaria. È in programma anche un convegno internazionale, «Gio Ponti e la Concattedrale Taranto 1970-2020. Protagonisti, liturgia, tutela e valorizzazione», previsto per la prossima primavera e patrocinato dall’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei, oltre che da numerose università e dagli Ordini professionali della Provincia di Taranto. Intanto, un libro, pubblicato recentemente, Gio Ponti e la Concattedrale di Taranto. Lettere al committente Guglielmo Motolese (1964-1979), a cura di Vittorio De Marco (Silvana Editore), e, per i più fortunati, una passeggiata sul posto, possono aiutare a capire la bellezza del progetto. Magari riascoltando, mentre si salgono i gradini che conducono alla Concattedrale, le parole dello stesso Ponti: «Ho pensato due facciate. Una, la minore, salendo la scalinata, con le porte per accedere alla chiesa. L’altra, la maggiore, accessibile solo allo sguardo e al vento: una facciata per l’aria, con ottanta finestre aperte sull’immenso, che è la dimensione del mistero… Altrimenti dove si dovrebbero sedere gli angeli?». Bella domanda. Di quelle che piacciono tanto ai bambini. Provando a rispondergli, diremmo che oggi, finalmente, quei deliziosi cherubini potrebbero infilare i loro piedi angelici nelle vasche d’acqua antistanti la Concattedrale, recuperate in queste ultime ore. Del resto, il tarantino Gio Ponti (il Comune di Taranto gli ha conferito la cittadinanza onoraria) aveva immaginato la sua opera come una nave con le vele spiegate che si specchiava nelle acque del Mar Ionio. Un altro angelo, più importante dei suoi pari, l’Arcangelo Gabriele dell’Annunciazione a Maria, lo dipinge lo stesso Ponti sull’altare maggiore della Concattedrale, la cui bellezza è puntellata anche dalla maniacale artigianalità del grande architetto. Lo si capisce superata la soglia dell’edificio sacro. L’architetto progetta e disegna tutti gli elementi d’arredo della chiesa: dalle panche agli altari, compresi gli originali fonti battesimali a forma di conchiglia. A proposito, sarà sicuramente vero che, grazie all’aiuto di Monsignor Guglielmo Motolese («suo protettore e padre conciliare», si legge nella mostra che verrà) Ponti «Conferisce ad ogni singolo elemento liturgico progettato un definito significato e un preciso messaggio pastorale». Ma c’è sicuramente dell’altro. Qualcosa di talmente unico e a volte spiazzante che sarà colto (o scopiazzato) più in ambito laico che religioso. L’archistar che non sapeva di esserlo, negli interni della Concattedrale suggerirà, attraverso accostamenti di tonalità decisamente borghesi (che non è sempre una brutta parola) a soluzioni stilistiche tipiche di una villa al mare, la progettualità futura per la città. Come è andata a finire? Per la verità, non benissimo. Basterebbe entrare in una qualsiasi delle altre chiese inaugurate in quegli stessi anni per capirlo.

 

RELAZIONE A FINI DI GIUSTIZIA

Per la Procura della Repubblica

Presso il Tribunale di Potenza

 

Del Dr Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/63 ed ivi residente alla Via A. Manzoni, 51 74020 Avetrana Ta Tel. 0999708396 Cell. 3289163996 Email giangrande.antonio@alice.it

 

Sono un noto saggista d’inchieste e presidente di un sodalizio antimafia ed antiusura denominato Associazione Contro Tutte le Mafie. In questa veste sono destinatario di varie segnalazioni. Nei miei libri riporto solo le questioni attendibili, quali quelle prese in considerazione da interrogazioni parlamentari o articoli di stampa credibili di giornali nazionali.

Per quanto riguarda i procedimenti esecutivi giudiziari le anomalie riscontrate sono:

·         Procedimenti esecutivi spesso attivati in virtù di usura bancaria non rilevata per circolari interne agli uffici giudiziari.

·         Affidamento degli incarichi del procedimento di amministrazione e vendita dei beni pignorati senza rotazione o con qualità superiore ai soliti avvocati o commercialisti potentati, con omertà dei loro colleghi mai nominati. Amministrazione senza controllo, infruttuosa e senza soluzione di continuità, che prosciuga i beni in conto di spese ed onorari.

·         Acquisti pari o al di sotto del “Prezzo Vile” da parte di “Cartelli organizzati con liquidità immediata” (vedi Lecce processo Canasta), che spesso rivendono ai prestanome dei precedenti proprietari, o da parte dei magistrati dello stesso Foro in conflitto di interessi (vedi Tempio Pausania). Spesso i giudici titolari sono corrotti per agevolare tali prassi.  

·         Acquisti riservati solo per alcuni per mezzo di pubblicazioni false od omissive.

Per quanto riguarda queste anomalie in tutte le parti Italia si sono accesi i riflettori giudiziari: meno che a Taranto.

Si fa presente che, a fronte della mia attività di scrittore d’inchiesta e di esercente provvisorio l’attività forense, in qualità di praticate abilitato, i magistrati ed avvocati, quali commissari di esame di avvocato di Lecce, prima, e presso altre sedi, poi, mi hanno bocciato artificiosamente per ben 17 anni. Tutti i compiti visionati, sempre con lo stesso voto (25), risultavano non corretti, ma dichiarati tali: letti in due minuti (occorrenti almeno oltre 10 minuti) e senza glosse o correzioni. Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, da me attenzionato perché coinvolto nella vicenda Ilva, ha respinto i miei ricorsi avversi, simili ed uguali ad altri che sono stati accolti. Le mie denunce presentate a Potenza, per competenza, sono risultate tutte lettera morta.

Inoltre, alcuni magistrati di Taranto, per intimorirmi, hanno presentato denuncia per calunnia e diffamazione nei miei confronti, il cui esito a Potenza si è concluso con un ovvio nulla di fatto.

Tutti coloro i quali, in tema di Aste truccate a Taranto, si sono rivolti a me per avere ristoro di giustizia, pur non potendo esercitare, li ho indirizzati presso:

l’Avv. Anna Maria Caramia con studio legale in via S. Caterina 1/c a Massafra. Tel 0998804688 email avv.annamariacaramia@gmail.com e anna.caramia@hotmail.com.

Lo stesso avvocato è a conoscenza dei fatti di molteplici vittime del “Sistema Taranto” essendo lei stata l’avvocato delle vittime. Lei in persona, o le vittime da ella rappresentate, hanno presentato innumerevoli denunce presso il Tribunale di Taranto e presso il Tribunale di Potenza, ove vi fosse responsabilità dei magistrati. Tutto rimasto lettera morta.

In questo modo ella stessa è diventata vittima, come me senza tutela giudiziaria, di ritorsioni ed intimidazioni. Specialmente ella da parte del  giudice Pietro Genoviva.  Chi è Genoviva? Genoviva è il giudice che ha definito la condotta di quell’avvocato penalmente rilevante e che ritiene, assieme ai coniugi Delli Santi persone che “tentano di condizionare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale attraverso lo strumento della denuncia contro i giudici”. 

Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi.

Ad oggi l’avv. Anna Maria Caramia, stante l’astio di Taranto, il silenzio di Potenza su Taranto e di Salerno su Potenza, ha presentato una denuncia penale a Napoli su Salerno, recapitandola a piedi percorrendo 300 km con immenso clamore mediatico. Ha scritto un libro e lo presenta fisicamente in tutte le città d’Italia, parlando della situazione d’illegalità e di omertà in cui si versa in queste zone.

Io personalmente su Taranto ho conosciuto direttamente e indirettamente i casi dei denuncianti esecutati attraverso articoli di stampa, di giornalisti lucani e non locali, o di interrogazioni parlamentari.

·         Procedimenti esecutivi spesso attivati in virtù di usura bancaria non rilevata per circolari interne agli uffici giudiziari.

Da tener conto che fino a poco tempo fa, prima dell’arresto del Procuratore Capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Carlo Maria Capristo, il suo predecessore era il dr Aldo Petrucci, che a Lecce aveva adottato le circolari contestate sull’usura bancaria.

·         Affidamento degli incarichi del procedimento di amministrazione e vendita dei beni pignorati senza rotazione o con qualità superiore ai soliti avvocati o commercialisti potentati, con omertà dei loro colleghi mai nominati. Amministrazione senza controllo, infruttuosa e senza soluzione di continuità, che prosciuga i beni in conto di spese ed onorari.

E’ il caso dei consulenti Paolo D’Amore e Valentina Valenti. Sarebbero tra i cinque consulenti che hanno collaborato costantemente con il giudice Martino Casavola. D’Amore in 7 anni avrebbe ricevuto 238 incarichi, 34 l’anno, quasi 3 al mese. Un’enormità. Scrive ancora nel suo esposto il signor Angelo Delli Santi: “Naturalmente, anche questa circostanza è stata denunciata al tribunale di Potenza e, manco a dirlo, anche questa volta Potenza ha ignorato.” Sembrerebbe che tra alcuni magistrati, consulenti, periti, avvocati ci siano legami parentali e amicali più o meno stretti. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto.

Per questo motivo anche a Taranto si augura lunga vita professionale al Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, anche perché il pensiero corre ai custodi giudiziari nominati per lo spegnimento degli impianti ILVA. Si pensi un po’, prendendo spunto da quanto suddetto ed adottando i criteri di liquidazione del GUP, quanto a questi sarà riconosciuto come compenso?

·         Acquisti pari o al di sotto del “Prezzo Vile” da parte di “Cartelli organizzati con liquidità immediata” (vedi Lecce processo Canasta), che spesso rivendono ai prestanome dei precedenti proprietari, o da parte dei magistrati dello stesso Foro in conflitto di interessi (vedi Tempio Pausania). Spesso i giudici titolari sono corrotti per agevolare tali prassi.  

·         Acquisti riservati solo per alcuni per mezzo di pubblicazioni false od omissive.

Tonino Scarciglia di Oria, vive a Roma, a cui veniva chiesto “un fiore da ventimila euro”…L’audio pubblicato, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice. Quella conversazione risale al febbraio del 2014, ma i fatti cui si fa riferimento sono tuttora oggetto di contenzioso. L’imprenditore, due anni prima avrebbe subito due aggressioni o più precisamente, come egli dice: “Hanno tentato di uccidermi”. Fatto sta che in una delle due aggressioni il signor Tonino ha perso la vista all’occhio destro. Nella conversazione pubblicata, emergerebbe un tentativo di concussione da parte del curatore il quale afferma di parlare in nome di un giudice delle esecuzioni fallimentari. L’imprenditore, per non avere più fastidi, e chiudere la faccenda, dovrebbe “offrire un fiore” da ventimila euro. L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci (Manduria/Oria) . Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

Bufera mediatica su un avvocato manduriano. Un noto avvocato manduriano Franco De Laurentiis, è finito suo malgrado nell’occhio del ciclone mediatico per una vicenda avvenuta due anni fa quando fu oggetto di un esposto presentato da un imprenditore di Oria presunta vittima di un sistema di aste fallimentari truccate. L’avvocato in questione, nominato curatore di un fallimento, aveva avuto a che fare con l’oritano interessato ad acquisire una proprietà agricola sulla quale rivendicava il diritto di usucapione. La trattativa non andò in porto e l’imprenditore presentò una serie di esposti contro il curatore e la giudice del tribunale fallimentare accusandoli di tentata corruzione. Per quelle accuse l’avvocato manduriano è stato sotto inchiesta conclusa con la richiesta di archiviazione. Anche il suo ordine professionale che lo aveva sottoposto a procedure disciplinari, ad aprile scorso ha chiuso il fascicolo con un’altra archiviazione. L’altro ieri, nuovo scossone: l’imprenditore di Oria, intervistato da Telenorba, ha rinnovato le accuse nei confronti dell’avvocato rendendo inoltre pubblico un video registrato di nascosto nello studio legale di Manduria nel 2014. Dalla registrazione, prodotta parzialmente, non emergerebbe con chiarezza nessun tentativo di concussione da parte dell’avvocato le cui uniche parole registrate si riferiscono ad una proposta transattiva tesa a definire la questione a favore dell’acquirente che avrebbe potuto prendere possesso del bene a cui teneva versando la somma di ventimila euro. Diversa invece la tesi dell’oritano che nell’intervista a Telenorba aveva raccontato di essere stato vittima di una richiesta concussiva di ventimila euro da dare alla giudice del fallimento.

Attinente al procedimento fallimentare de quo fa parte il caso di Roberto Ditaranto. 

Roberto Ditaranto di Sava vive a Parma. Perché il signor Ditaranto vive con lo status di fallito da oltre 30 anni? Uno dei motivi? Gli hanno detto che non riescono a vendere la sua porzione di masseria cosiddetta “Li Cicci” (Manduria/Oria) “perché non ci sono acquirenti”. E’ vero che non ci sono acquirenti? L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci. Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. L’imprenditore interessato all’acquisto della porzione di bene del signor Ditaranto sarebbe stato anch’egli ostacolato nel suo legittimo scopo. Da circa 20 anni sta provando a regolarizzare la sua posizione, ma sarebbe stato vittima di “sabotaggi” anche attraverso perizie false e vendite a prezzo vile di terreni, ad altre persone, insistenti nel perimetro della Li Cicci. La domanda è: siamo proprio sicuri che la vicenda del signor Di Taranto dura da 30 anni perché il curatore non aveva acquirenti a cui vendere? Anche Roberto Ditaranto, come tanti altri cittadini ha denunciato curatore e giudice tarantini al tribunale di Potenza.

Ha perso un’azienda agricola, un’azienda di sistemi di sicurezza, una casa e ora, anche il rischio di perdere l’abitazione di Parma dove vive. Da 31 anni va avanti così, per una vicenda da cinquanta milioni di lire cominciata nel 1984. Una procedura interminabile che, non gli ha consentito di riabilitarsi come imprenditore. Anzi, ha travolto l’intera famiglia, in particolare i figli i quali si sono visti serrare il futuro da una giustizia eterna. Eppure, le procedure fallimentari, anche le più complesse, dovrebbero durare non più di sette anni. Roberto Ditaranto, imprenditore di Sava, 60 anni, ora vive in Emilia. La solita trafila dei “destinati al fallimento”. Prima ti concedono un mutuo, poi fanno di tutto per evitare che lo paghi, magari ci si mette di mezzo anche la finanziaria di turno con le solite truffe. O qualcuno che ti propone di fare delle cose illegali, ma tu ti opponi e allora sono guai. Hai una bella masseria, un’azienda avviata, un appartamento e qualcuno li vuole ad ogni costo. Niente di più facile a Taranto. Ti puntano ed entri nel tritacarne della giustizia, anzi dell’ingiustizia, dove la sezione fallimentare del tribunale sembra essere, per molti “falliti”, il girone infernale delle procedure a ostacoli. Tu cerchi di difenderti. Fai di tutto, nonostante i raggiri di cui sei stato vittima, per agevolare l’iter di vendita dei tuoi beni, sperando che la tua condizione di “fallito” duri il meno tempo possibile, per riabilitarti e ricominciare. Invece, no. Loro ti tengono sulla graticola fin quando serve. Anche più di trent’anni, come in questo caso. Allora l’angoscia ti avvolge, il mondo intorno ti tratta come un essere inutile, uno stupido onesto, un presuntuoso che non ha voluto chinare la testa. Avverti l’impotenza di fronte all’ingiustizia, quell’ingiustizia che indossa il mantello scuro della legalità. E pensi ad un’unica via d’uscita: il suicidio. Perché il signor Ditaranto vive con lo status di fallito da oltre 30 anni? Uno dei motivi? Gli hanno detto che non riescono a vendere la sua porzione di masseria cosiddetta “Li Cicci” (Manduria/Oria) “perché non ci sono acquirenti”. E’ vero che non ci sono acquirenti?

Forse la risposta è nella nostra inchiesta del 4 novembre scorso. Potremmo scrivere un libro sulla vicenda del signor Ditaranto, magari noioso, pieno di codici e codicilli della procedura fallimentare. Potremmo raccontare delle presunte false perizie. Potremmo raccontare delle denunce, degli esposti, delle suppliche inviate a decine di autorità. Avremo tempo, la nostra inchiesta continua. Qui però, ci interessa fare luce su un episodio inquietante che oggi sembra dipanarsi con una conferma dei dubbi già espressi quando abbiamo iniziato le nostre inchieste sulle aste fallimentari a Taranto e sulle archiviazioni facili a Potenza: esiste un sistema di corruzione intorno alle procedure delle aste fallimentari nel tribunale jonico? Il caso del signor Ditaranto sembra essere collegato alla vicenda di cui ci siamo occupati nel novembre dello scorso anno, con un articolo corredato da un video. In quel video c’è una conversazione che farebbe emergere un tentativo di concussione da parte di un curatore fallimentare il quale afferma di parlare in nome di un giudice delle esecuzioni. L’imprenditore, per ottenere ciò che chiede da qualche tempo, dovrebbe “offrire un fiore” da ventimila euro. Quella conversazione risale al febbraio 2014, ma in un altro audio risalente al dicembre 2014, l’imprenditore in questione torna sulla vicenda chiedendo al suo interlocutore: “Perché devo dare 20mila euro, perché?” Dunque, il tira e molla sul “fiore” da quanto tempo dura?

Se due più due fa quattro e se il tribunale di Potenza la smette di archiviare. L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci. Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. L’imprenditore interessato all’acquisto della porzione di bene del signor Ditaranto sarebbe stato anch’egli ostacolato nel suo legittimo scopo. Da circa 20 anni sta provando a regolarizzare la sua posizione, ma sarebbe stato vittima di “sabotaggi” anche attraverso perizie false e vendite a prezzo vile di terreni, ad altre persone, insistenti nel perimetro della Li Cicci. La domanda è: siamo proprio sicuri che la vicenda del signor Di Taranto dura da 30 anni perché il curatore non aveva acquirenti a cui vendere? La risposta è nelle mani della magistratura. Anche Roberto Ditaranto, come tanti altri cittadini ha denunciato curatore e giudice tarantini al tribunale di Potenza. Chissà se anche in questo caso si procederà a “facile” archiviazione.

Intanto un uomo e la sua famiglia sono allo stremo. Ecco la rabbia di Roberto. Penso a voce alta, ma l'obiettivo del curatore qual 'è? Quello di chiudere la procedura come per Legge, entro cinque o massimo sette anni! E se il curatore è incosciente di essere incosciente, dietro di lui c'è anche un giudice, c'è anche un presidente del Tribunale. (…) Io non ho potuto esercitare la mia professione quella di progetti di sistemi di sicurezza a livello militare essendo fornitore di fiducia del Ministero Difesa (…) Ma che diritto hanno di inchiodare una vita, di portare le persone a pensare di farla finita! Io nel 2000 ho fatto diversi salvataggi di aziende, ma non ho potuto accettare incarichi di amministratore delegato perché quei disonesti hanno tenuto in piedi questa procedura, finché rimane aperta sono segnalato dappertutto. Io ho avuto la fortuna di avere tanta forza, competenza e di arrivare dove sono arrivato. Ma tante persone si sarebbero già suicidate al posto mio. (…) E poi, se io mi devo raccomandare per avere un mio diritto, allora andrò via dall'Italia. Non devo usare le raccomandazioni per ottenere un mio diritto come per Legge altrimenti è finita. Anche la mia casa di Parma sta andando all'asta nonostante ho prodotto 2 denunce di usura, 1 denuncia di querela di falso, 1 denuncia di estorsione. Dal 2009 per mezzo del fallimento aperto anche i miei due figli, hanno passato e stanno passando i guai, tanti guai. Mia moglie poi, è disperata. Aiutatemi. Michele Finizio su "Basilicata 24", Martedì 14/02/2017.

Alfonso Notarnicola e Filomena Altamura di Palagiano, marito e moglie da una vita. Sulla soglia degli 80 anni lui, quasi 75enne lei. Come da copione, Alfonso e Filomena, finiscono nel tritacarne delle procedure fallimentari del tribunale di Taranto, per non aver pagato alcune rate di mutuo. Come da copione, le loro proprietà, tutte, vanno all’asta. L’ultima, che riguarda un immobile del valore di mercato di poco meno di circa 1 milione e 300mila euro, è aggiudicata al prezzo vile di 275 mila euro.

Alfonso Notarnicola e Filomena Altamura, marito e moglie da una vita. Sulla soglia degli 80 anni lui, quasi 75enne lei. Vivono (si fa per dire) a Palagiano in provincia di Taranto. Nel corso della loro vita di duro lavoro e di sacrifici non avrebbero mai immaginato di finire, un giorno, per essere trattati dallo Stato come stracci da cucina. Accanto al dolore per aver perso ogni proprietà, compresa la casa dove abitavano, si è aggiunta una delusione, profonda, di quelle che fanno male. La delusione di una Giustizia ingiusta, che trasforma il cittadino in carta da sgabuzzino e lo tratta come carne da macello. Come da copione, Alfonso e Filomena, finiscono nel tritacarne delle procedure fallimentari del tribunale di Taranto, per non aver pagato alcune rate di mutuo. Come da copione, le loro proprietà, tutte, vanno all’asta. L’ultima, che riguarda un immobile del valore di mercato di poco meno di circa 1 milione e 300mila euro, è aggiudicata al prezzo vile di 275 mila euro. Niente di che, ormai è sempre così, gli articoli del codice per cui non si possono svendere gli immobili oltre determinati limiti di valore, a Taranto, ognuno li interpreta a soggetto. I coniugi Notarnicola sono stati espropriati di tutti i loro beni per pagare debiti, che forse nemmeno sono reali, nella misura indicata dalle banche, con interessi verosimilmente usurai, senza tenere in minimo conto il valore dei beni e quello del debito. Infatti, con quella vendita, il debito non è estinto. Niente di che. E’ la prassi. Quei beni sarebbero stati venduti ai soliti personaggi che lucrano sulle disgrazie altrui. Una specie di club degli affari sulle aste, in cui si affacciano persone per bene e personaggi di dubbio calibro morale. Una vicenda emblematica la racconta lo stesso Alfonso in un suo esposto alla Procura della Repubblica tarantina: …“anche noi abbiamo da dire qualcosa in merito alle cosiddette turbative d’asta! Infatti, in un recente passato… io, Notarnicola Alfonso, ho reso informazioni presso la caserma dei carabinieri di Massafra per evidenziare che il citato signor "OMISSIS" (che è stato arrestato per ben due volte nell’anno 2016) aveva richiesto anche a me del denaro per evitare che la mia proprietà fosse venduta (e inizialmente, anche in riferimento alle prime vendite, avendo paura di perdere la proprietà, all’insaputa di tutti, gliene ho anche dato denaro, in diverse tranche, se mal non ricordo circa una ventina di mila euro; poi quando ho capito che comunque non mi poteva garantire nulla e che la mia proprietà non solo restava all’asta, ma veniva venduta, non gli ho dato più nulla: e lì ho perso tutto). Ricordo che il signor Putignano ‘sapeva ben vendere’ il proprio intervento per evitare che le aste fossero aggiudicate e, in particolare, ricordo che in un’occasione lo stesso ebbe a dire: “ma cosa credete che tutto ciò che mi date è a me? Io devo accontentare quelli di Taranto”; ora chi siano quelli di Taranto non mi compete saperlo, quello che so è che devo lottare per difendermi, ma mai avrei creduto di dovermi difendere dallo Stato”. Il sognor "OMISSIS", sappiamo chi è, noto esponente di un clan malavitoso locale, non sappiamo chi sarebbero “quelli di Taranto”.  Anche se la curiosità si fa sempre più rodente. Sin qui, nulla di nuovo. Abbiamo raccontato di peggio. Ciò che appare nuovo, in questo ennesimo caso di “vite all’asta”, è il trattamento subito dalla famiglia Notarnicola da parte dell’Istituto Vendite Giudiziarie. Trattamento che potremmo sintetizzare con una sola frase: cacciati illegalmente da casa, ingannati a più riprese, privati dei più elementari diritti umani. Michele Finizio su “Basilicata 24” Venerdì 05/05/2017.

Angelo Salvatore Delli Santi e Maria Giovanna Benedetta Montemurro. “E che c’entra… noi le case mica le regaliamo... e comunque il prezzo base è più che sufficiente, noi vendiamo anche e sino a euro 20.000,00!” Questa è la risposta che il giudice delle esecuzioni avrebbe dato alla signora Giovanna Montemurro, o meglio alla figlia di lei: … “Al che mia figlia gli evidenziava che in base all’ultima ordinanza di vendita, da lui (il giudice Martino Casavola) firmata, il valore del bene si era di molto abbassato, scendendo al di sotto della metà, con la conseguenza che pur vendendo la nostra casa, nemmeno i debiti si sarebbero coperti (debiti che nel frattempo erano fortemente lievitati); (…). Mi risulta che, a quel punto, il magistrato rispondeva così: “E che c’entra… noi le case mica le regaliamo... e comunque il prezzo base è più che sufficiente, noi vendiamo anche e sino a euro 20.000,00”. Eppure, scrive la signora Montemurro nel suo esposto, non si poteva procedere all’asta perché il prezzo fissato come base, pari a euro 49.800,00, era inferiore al limite minimo di legge, ossia il limite della metà del valore del bene espropriando, così come determinato dallo stesso Tribunale. In questo caso il prezzo stabilito è pari a euro 118.000,00, per cui la metà sarebbe stata al massimo euro 59.000,00. Quindi non si poteva procedere all’asta poiché il prezzo base non avrebbe potuto consentire un ragionevole soddisfacimento delle ragioni dei creditori, anche tenuto conto dei costi della procedura esecutiva. Purtroppo il giudice dell’esecuzione – scrive la signora Montemurro - ha venduto la nostra casa all’asta durante l’udienza del 26 maggio 2016, con un tempismo sospetto.

Emergono nuovi particolari episodi che lascerebbero stupefatto anche un novellino del diritto. Insomma vizi e violazioni di norme sarebbero all’ordine del giorno delle procedure fallimentari gestite dal tribunale di Taranto. Andiamo a vedere. Paiano, è giudice delle esecuzioni. Denunciato sia dal signor Delli Santi, sia dalla moglie di questi, Giovanna Montemurro, per abuso d’ufficio e non solo. La denuncia della signora Montemurro pende al tribunale di Potenza. Logica vorrebbe, ma soprattutto il Diritto, che un giudice si astenga se ha “causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori”. Nella giostra della sezione fallimentare del tribunale civile di Taranto, questa norma non sembra avere ospitalità. Infatti, il dottor Paiano nonostante le denunce a suo carico, in qualità di giudice ha deciso più istanze presentate dai coniugi Delli Santi, naturalmente rigettandole tutte. Eppure egli sa, lo sanno tutti, che è stato denunciato dalla signora Montemurro il 24 giugno 2016, e verosimilmente egli sa, e tutti lo sanno, che è stato denunciato anche dal signor Delli Santi il 23 settembre 2016. Nel primo caso l’accusa è di abuso d’ufficio, nel secondo caso si ipotizza addirittura l’associazione per delinquere tra magistrati, curatori, consulenti, banche. I coniugi Delli Santi chiedevano con opposizione formale l’estinzione della procedura esecutiva, per vizi procedurali e violazioni delle norme. Opposizione rigettata, la casa viene aggiudicata. Si opponevano all’aggiudicazione, perché ritengono che siano state violate la legge e la procedura. Niente da fare, opposizione rigettata. La signora Montemurro si oppone anche allo sgombero con ulteriore atto. Niente da fare, anche questa opposizione è rigettata. Il giudice, da loro denunciato, agisce come se nulla fosse. Per la verità Paiano aveva chiesto l’astensione, ma il presidente del tribunale non ha autorizzato. Lo stesso presidente, però, aveva autorizzato il giudice Martino Casavola ad astenersi da quel procedimento, per evidente inimicizia con l’avvocato dei Delli Santi. Chissà, l’inimicizia è causa di astensione, le denunce al contrario non autorizzano l’astensione. Il tribunale di Taranto sarebbe un vero e proprio laboratorio di giurisprudenza “creativa”. I coniugi Delli santi, tramite il loro avvocato Anna Maria Caramia, in data 23 dicembre 2016, presentano un reclamo contro il provvedimento di rigetto del giudice Paiano. Chi decide su quel reclamo? Un collegio di tre giudici tarantini. Chi è il presidente di quel collegio? Il giudice Pietro Genoviva.  Chi è Genoviva? Niente di che. Semplicemente ha il dente avvelenato contro l’avvocato dei coniugi Delli Santi, l’avvocato Anna Maria Caramia. Lo stesso avvocato di tanti altri cittadini falliti e finiti nelle maglie del tribunale di Taranto. Genoviva è il giudice che ha definito la condotta di quell’avvocato, penalmente rilevante e che ritiene i coniugi Delli Santi persone che “tentano di condizionare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale attraverso lo strumento della denuncia contro i giudici”.  Servirebbe un dentista sopra le parti. Come già detto, la signora Giovanna Montemurro il 24 giugno 2016 denuncia il giudice Andrea Paiano alla Procura della Repubblica di Potenza (procura competente a giudicare i magistrati tarantini). In quella denuncia è richiamata espressamente l’istanza di sequestro preventivo dell’immobile poi aggiudicato all’asta. Su questa istanza la procura di Potenza non si esprime. Si esprime però, e stranamente, sulla denuncia del signor Angelo Delli Santi, quella del 23 settembre 2016, con una decisione di “non luogo a provvedere”. Strano anche che una denuncia, quella di Delli Santi, contro la procura potentina finisca nelle mani dei magistrati di Potenza, cioè nelle mani del giudice denunciato. Eppure, quella denuncia è stata indirizzata a tutti tranne che, giustamente, alla procura di Potenza. Procura che è la stessa a iscrivere la notizia di reato che la riguarda a modello 45 (Registro degli atti non costituenti notizia di reato). Eppure la denuncia di Angelo Delli Santi è gravissima, altro che notizie non costituenti reato! Perché nessuno si è mosso per fare almeno una verifica sulle dichiarazioni del denunciante? Macché! Il giudice denunciato decide per se stesso: “Non luogo a provvedere”. Si autoassolve. E se il signor Delli Santi ha torto nel denunciare collusioni tra giudici tarantini e potentini, se il signor Delli Santi ha torto nel denunciare un “sistema criminale di gestione delle aste fallimentari”, perché non è destinatario di una denuncia per diffamazione o calunnia da parte dei giudici potentini e tarantini? Perché non viene arrestato per le sue gravi e infondate accuse? Michele Finizio, martedì 21/02/2017 su "Basilicata 24".

“…l’asta va avanti anche quando si tratta di vendere case abitate dagli invalidi”. La signora Montemurro ha presentato ricorso con richiesta di tutela cautelare, alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato avrebbe ricevuto il fascicolo il 25 maggio e lo stesso giorno il giudice Andrea Paiano ha rigettato la richiesta. Il giorno successivo, il 26 maggio, ha provveduto all’aggiudicazione, in maniera se non illegittima quanto meno poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di un immobile adibito ad abitazione occupata da due anziani quasi ottantenni. Non c’è da meravigliarsi. E’ ancora la signora Montemurro a parlare: Messo di fronte al rischio che io e mio marito, ormai anziani, finissimo in mezzo alla strada, anche alla luce del diritto comunitario, così come applicato dalla Corte di Giustizia, secondo cui l’abitazione di residenza deve essere tutelata, il giudice (in questo caso Martino Casavola) si limitava a precisare che dovevamo ringraziare per essere rimasti nella casa per trent’anni e che il fatto che la casa fosse abitata da due anziani a nulla rilevava e che l’asta andava comunque avanti, e va avanti anche quando si tratta di vendere case abitate dagli invalidi. Però! Chi compra la casa all’asta dei Montemurro? Lo chiediamo alla signora Giovanna. “A quanto mi risulta l’unico offerente per l’asta è stato un certo signor Di Napoli Pasquale. Di lui so soltanto che è imparentato, essendone verosimilmente il figlio, con il signor Di Napoli Giovanni, con precedenti per associazione per delinquere di stampo mafioso, e attualmente in carcere per l’episodio del triplice omicidio di Palagiano del 2014, ove fu ucciso anche un bambino di tre anni. Sembrerebbe che, prima dell’evento omicidiario e dell’arresto, il signor Giovanni Di Napoli lavorasse con il figlio Pasquale, nella ditta di quest’ultimo, in Massafra”. Da quanto abbiamo appreso segnaliamo la circostanza che Giovanni Di Napoli avrebbe legami con il clan mafioso dei Putignano di Palagiano.

Il clan mafioso e le aste pilotate. Pasquale Putignano, 67enne membro dell’omonimo clan il cui capo sarebbe il fratello Carmelo, detto “Minuccio”, venne arrestato il 5 aprile 2016 perché aveva chiesto soldi a un imprenditore agricolo per pilotare un asta. Il Putignano è stato nuovamente arrestato il 3 novembre 2016 per gli stessi fatti: estorsione e turbativa d’asta. Nel corso del tempo, i carabinieri hanno avuto modo di accertare nuove condotte delittuose, della stessa specie e con lo stesso "modus operandi", in danno di imprenditori agricoli dell'agro di Palagiano e Palagianello. Il 67enne, secondo quanto emerso dalle indagini, minacciava di pilotare l'aggiudicazione di beni sottoposti a vendita giudiziaria di alcuni imprenditori agricoli, sottoposti a procedure esecutive immobiliari ed intenzionati a riacquistarne la proprietà, millantando di poter allontanare ogni possibile concorrente. Il palagianese, per la "sua opera persuasiva" – dicono gli inquirenti- pretendeva dai malcapitati l'ingiusta consegna di una somma di denaro, quale compenso per il proprio intervento, facendosi promettere ulteriori somme di denaro in caso di favorevole esito delle aste giudiziarie, presso il Tribunale di Taranto. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

di recente a quanto risulta agli interroganti, la signora Maria Giovanna Benedetta Montemurro, presso il tribunale di Taranto, ha incardinato una procedura di opposizione avverso l'esecuzione immobiliare n. 168/1986 R.G.E., tentando di far valere molteplici ragioni a sua tutela. Nel ricorso, tra i tanti motivi di opposizione, invocando il "decreto Banche" (rectiusdecreto-legge n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2016), la signora Montemurro ha anche dedotto che il giudice non poteva procedere all'aggiudicazione atteso che, nella fattispecie, il prezzo di vendita era inferiore al limite della metà e che erano stati esperiti tentativi di vendita oltre il numero consentito dal citato decreto-legge. Effettivamente il recente decreto-legge n. 59, andando a completare il quadro normativo disciplinante la materia, non ha trascurato proprio i profili di tutela delle parti, creditrice e debitrice, soprattutto al fine di evitare che la vendita avvenga oltre determinati limiti e per un tempo indefinito;

la vendita al "prezzo vile", ovvero al prezzo lontano da quello di mercato, danneggia sia il debitore che lo stesso ceppo creditorio (con il rischio concreto di vendere le case e non soddisfare nemmeno le ragioni dei creditori) e pare anche certo che, indipendentemente dalle modalità di vendita (con incanto o senza), dal sistema delle norme che presidiano le esecuzioni immobiliari può ricavarsi che la vendita non possa avvenire ad un prezzo inferiore al limite della metà del valore del bene espropriando, così come stabilito dal tribunale ai sensi dell'art. 568 del codice di procedura civile;

tuttavia, nonostante l'apparente e verosimile fondatezza del ricorso proposto dalla signora Montemurro, il giudice dell'esecuzione ha rigettato le sue ragioni, peraltro in circostanze di tempo così rapide da destare, a parere degli interroganti, non poca inquietudine: il ricorso è stato presentato alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato ha ricevuto il fascicolo il 25 maggio (perché lo ha "ereditato" da altro magistrato che ha inteso astenersi); nella medesima data del 25 maggio il magistrato ha rigettato la tutela cautelare chiesta dalla Montemurro; solo il giorno successivo, ovvero il 26 maggio, ha provveduto all'aggiudicazione, a giudizio degli interroganti in maniera se non illegittima quanto meno in modo poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di espropriare un immobile adibito ad abitazione;

considerato che a quanto risulta agli interroganti:

la signora Montemurro, ritenendo di non avere ricevuto alcuna tutela in sede civile, con atto del 24 giugno 2016, ha adito il giudice penale ed ha denunciato non solo il giudice dell'esecuzione, ma anche il "sistema" aste presso l'organo di giustizia. Nel suo esposto, tra l'altro, ha lamentato che presso il tribunale jonico: vi è l'orientamento di vendere all'asta, con poca o nessuna tutela per le parti; vi è poca turnazione dei magistrati, che gestiscono le aste ed anche degli ausiliari di questi ultimi; vi sarebbe prassi di vendere anche al limite di 20.000 euro, indipendentemente da quello che è il valore del bene espropriando, con la conseguenza che, a suo dire, alla fine, risulterebbero "pagati" solo i costi delle procedure;

la signora Montemurro non è l'unica ad aver lamentato condotte discutibili e inclini alle banche (solitamente creditrici procedenti) ed alle espropriazioni in genere da parte dei magistrati del tribunale tarantino, di volta in volta chiamati ad intervenire in questioni relative alle opposizioni alle aste immobiliari, in sede sia di cautela che di merito. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Maria Spera. “E’ in utile che continuate a pagare tanto il terreno sarà venduto... c'è già il compratore”. (Negli esposti archiviati che risalgono a sei anni fa) Così parla al telefono un funzionario della SGC, società delegata alla riscossione del credito vantato dalla Bnl nei confronti della signora Maria Spera. E ancora: “Non continuate a pagare altrimenti saranno tutti soldi gettati... se non pagate la penale il terreno sarà venduto il 29 novembre”. Il funzionario al telefono sa benissimo che la signora Spera non può e comunque non deve pagare alcuna penale. La vendita di quelle proprietà è stata pianificata da tempo. Un piatto succulento per chiunque. Un patrimonio che qualcuno vorrebbe comprare con quattro soldi. In questa vicenda, le violazioni di legge, gli abusi, e persino l’usura sono drammaticamente evidenti. La signora Spera lo spiega nel suo esposto: “la somma che ho preso a mutuo nel 1990, dalla Bnl, era pari a 500 milioni di lire corrispondenti a € 258.228,45; la somma che alla data della conversione del pignoramento ho reso (novembre 2007) è pari a €. 400.000,00; la BNL, secondo i conteggi depositati in giudizio all’udienza di conversione (29.11.2007), mi ha chiesto ancora €. 491.013,91 (oltre spese successive); la SGC, in virtù del decreto ingiuntivo 566/2003, che trae origine dallo stesso mutuo, consacra in un titolo definitivo e non più caducabile la somma di € 408.834,30 oltre interessi di mora dal 2003…; tutto ciò comporta, ulteriormente, che a fronte di un mutuo di circa € 258.000,00 oggi esistono titoli per ottenere coattivamente circa € 1.500.000,00. Insomma, la BNL e la SGC agiscono entrambe per l’intero credito rinveniente dal mutuo e non ognuna di esse per una parte dello stesso credito. E’ come dire: Caio deve 100 a Mevio, Mevio cede i 100 a Sempronio, Mevio e Sempronio agiscono entrambi congiuntamente… Caio non è più debitore di 100 ma di 200! Insomma, una illegittima duplicazione di titoli esecutivi. C’è già il compratore, chi sarebbe? Signora Spera, chi sarebbe il compratore? Le condotte di tutte le parti coinvolte in questa storia, oltre ad avermi danneggiata ingiustamente, erano oggettivamente finalizzate a favorire probabilmente il ricco imprenditore locale Antonio Albanese, notoriamente interessato ad acquistare il terreno di mia proprietà e generalmente avvezzo agli acquisti all’asta. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Altra vicenda molto sintomatica della pervicace chiusura dei giudici di Taranto rispetto alla tutela da accordare agli esecutati e falliti è quella della signora Maria Spera (procedura esecutiva n. 590/1994 R.G.E del tribunale di Taranto). Vicenda che, nonostante non si sia ancora conclusa, ha registrato non poche forzature, con grave danno economico, psicologico e morale dell'esecutata. Addirittura la signora Spera ha lamentato un'illegittima duplicazione di titoli esecutivi, con cui l'intero suo patrimonio risulta ancora bloccato: 1) la procedura n. 590/1994 R.G.E., che si basa sul titolo esecutivo "mutuo fondiario" e che vede quale bene pignorato un terreno di 24 ettari (terreno a cui sarebbe interessato un facoltoso imprenditore locale, già socio di Emma Marcegaglia); 2) un decreto ingiuntivo, che si basa sullo stesso e medesimo debito, decreto con il quale è stato ipotecato l'intero restante patrimonio immobiliare della signora Spera. La vicenda, a giudizio degli interroganti, è tanto più inquietante se si pensa che il debito originario contratto dalla signora nel 1990 era a pari a 500 milioni di lire (corrispondenti a circa 258.000 euro) e la signora, alla data del 2007, ne aveva già restituiti 400.000 euro (corrispondenti a circa 800 milioni di lire);

ad oggi la signora Spera, nonostante il pignoramento del terreno, sottostimato dal tribunale di Taranto in poco più di 400.000 euro (somma che sarebbe più che capiente rispetto all'eventuale debito residuo, ove ne residuasse, visto che circa 400.000 euro sono stati già resi dalla signora alla Banca nazionale del lavoro), ha l'intero suo patrimonio ipotecato, in virtù dell'altro titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo), emesso per lo stesso ed unico debito (che così è consacrato in 2 distinti titoli esecutivi). Pertanto, se la signora volesse vendere qualcosa per pagare eventuali residui debiti, non potrebbe farlo (e nemmeno è in condizione di onorare le esose tasse sulla proprietà, se non con gli aiuti dei figli);

la signora Spera ha riferito agli interroganti che, decorsi 10 anni dall'iscrizione dell'ipoteca sul suo patrimonio, in virtù del decreto ingiuntivo, nell'assenza di atti esecutivi (perché nel frattempo la procedura è andata avanti per la vendita del terreno pignorato sulla base del titolo esecutivo "mutuo fondiario"), ha chiesto la cancellazione dell'ipoteca, anche ritenendo la perenzione del decreto ingiuntivo, ma in risposta ha ottenuto dal tribunale tarantino il rigetto della sua legittima istanza (procedura n. 3291/2014 R.G. del tribunale). La questione pende in appello (causa n. 536/2014 R.G. della Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto), ma la signora Maria Spera ritiene che incontrerà ancora l'illogico ed illegale ostacolo;

considerato, inoltre, che:

la signora Maria Spera ha riferito agli interroganti di aver presentato, presso il tribunale di Potenza (competente a valutare gli esposti nei confronti dei magistrati di Taranto), denuncia penale nei confronti dei magistrati ed ausiliari che, a suo parere, avrebbero male esercitato la funzione giurisdizionale, causandole danni; ma anche a Potenza ha dovuto prendere atto che, anziché ottenere tutela, ha solo registrato l'astio del pubblico ministero e la pessima sua azione. Allo stato la signora Spera, esecutata dal 1994, non ha ottenuto, né dai giudici di Taranto né da quelli di Potenza, la tutela che le leggi le garantirebbero ma che la magistratura (chiamata ad applicarle) le ha negato;

la vicenda è già balzata agli onori della stampa (sul settimanale tarantino "Wemag" del 12 novembre 2010) ed è stata anche oggetto di un'altra interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei deputati nel 2010 (4-07339 a firma dell'on. Zazzera dell'IdV, Legislatura XVI);

ad avviso degli interroganti, circostanza molto inquietante è quella per cui, sempre in danno della signora Spera, né la magistratura jonica (sia in sede civile che penale) né quella potentina (in sede penale) hanno inteso accertare l'usura che la signora stessa ha lamentato esserle stata applicata. Usura che è poi emersa nell'ambito di una causa civile sempre dinanzi al tribunale tarantino, in occasione di una consulenza di ufficio redatta (causa n. 7929/2009 R.G. del tribunale di Taranto);

. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Vitoantonio Bello. Vitantonio Bello ha lamentato una tenace chiusura della magistratura jonica rispetto all'asta immobiliare in suo danno (n. 593/2011 R.G.E. del tribunale di Taranto), non ottenendo tutela nonostante le molteplici procedure incardinate e nonostante, in qualche provvedimento giurisdizionale, il magistrato estensore abbia riconosciuto la fondatezza della doglianza da lui sollevata. La banca concede un mutuo a chi evidentemente non può sostenerlo. Perché? Alla domanda risponde il signor Vitoantonio Bello, di Massafra: Forse perché sin dall’inizio hanno deciso di prendersi la mia casa. Nel caso di Bello l’asta immobiliare riguarda la casa dove vive con moglie e due figli minori, un anno e cinque anni di età. In questo caso la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l’esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il signor Bello e la banca, seppure l’istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro, e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso. In questo caso il giudice dell'esecuzione è Francesca Zanna. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Nella vicenda del signor Bello, la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l'esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il medesimo e la banca, se pure l'istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro (e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso). A parere degli interroganti, nella stessa statuizione, vi sarebbe anche un'abnorme legittimazione della concessione abusiva di credito. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". I cittadini vessati sono convinti di essere finiti nelle maglie di un “sistema” che fa affari intorno alle aste. Avvocati, periti, magistrati, consulenti, funzionari di banche, faccendieri e malavitosi si coalizzerebbero per aggredire i patrimoni delle povere vittime, spesso inconsapevoli dell’esito, già deciso, delle loro vicende giudiziarie. Loro traccerebbero i percorsi giudiziari avvalendosi dei soliti periti che sottostimano il valore degli immobili, per raggiungere l’obiettivo della vendita a basso prezzo, ricavando percentuali sull’affare aggiudicato ai soliti compratori o ai loro prestanome. E se qualcuno dovesse, a valle del tracciato giudiziario, partecipare a un asta già assegnata a monte a Tizio, a quel qualcuno viene “amichevolmente” consigliato di ritirarsi dalla partita oppure gli viene offerto del denaro. Tutto avverrebbe, come scrive il signor Delli Santi nel suo esposto, nella certezza dell’impunità. “Tanto a Potenza archiviano”. “Il principio di rotazione dei consulenti sarebbe rispettato soltanto per molti, con pochi e marginali incarichi, ma non per alcuni, che si contano sulle dita di una mano, ai quali sarebbero affidati grossi incarichi in grande quantità. E’ il caso dei consulenti Paolo D’Amore e Valentina Valenti. Sarebbero tra i cinque consulenti che hanno collaborato costantemente con il giudice Martino Casavola. D’Amore in 7 anni avrebbe ricevuto 238 incarichi, 34 l’anno, quasi 3 al mese. Un’enormità. Scrive ancora nel suo esposto il signor Angelo Delli Santi: “Naturalmente, anche questa circostanza è stata denunciata al tribunale di Potenza e, manco a dirlo, anche questa volta Potenza ha ignorato.” Sembrerebbe che tra alcuni magistrati, consulenti, periti, avvocati ci siano legami parentali e amicali più o meno stretti.

Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24": L’estrema difesa dei cittadini: Chiedere aiuto al tribunale di Potenza. Le storie qui raccontate sono soltanto un frammento di una lunga narrazione che riguarderebbe molti altri casi. La narrazione di abusi, falsi ideologici, strafalcioni procedurali, usura e raggiri che hanno seminato e stanno seminando molte vittime. Sarebbero decine i cittadini che hanno denunciato i giudici, ma anche periti e custodi giudiziari tarantini, al tribunale competente di Potenza. Per ottenere cosa? Improbabili, eppure sorprendenti archiviazioni. Tra i casi più eclatanti quello della signora Spera finito, come altri, nelle mani del pm di Potenza Anna Gloria Piccininni. Spera denuncia il giudice delle esecuzioni di Taranto, Martino Casavola e il Ctu, Paolo D’Amore, per i reati di abuso d’ufficio, omissione in atti d’ufficio, falsa perizia o interpretazione. La Procura di Potenza chiede l’archiviazione sulla base delle sole dichiarazioni del custode, avvocato Fabrizio Nastri che doveva essere indagato. Tutto a posto. La signora Spera fa opposizione alla richiesta di archiviazione. Opposizione accolta dall’allora giudice per le indagini preliminari Luigi Barrella che dispone ulteriori indagini. Piccininni chiede nuovamente l’archiviazione. La signora Spera fa opposizione alla seconda archiviazione. Il gip Michela Tiziana Petrocelli dispone l’archiviazione, ma dispone anche che il Nastri sia indagato. E così via, per tutte le denunce contro i magistrati, i consulenti tecnici, i curatori, i periti del tribunale di Taranto. Eppure le denunce presentate dai cittadini sembrerebbero molto circostanziate e ricche di dettagli. Chissà. Non a caso dodici senatori del Movimento Cinque Stelle, nel settembre scorso, hanno presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per sapere, tra l’altro, “se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza…”. Staremo a vedere.  

Stefano Buonsanti. ". Usurato dalle banche e costretto al fallimento, finisce nelle maglie delle procedure di vendita all’asta. Un’altra voce contro il tribunale di Taranto. Stefano Buonsanti, imprenditore edile, ginosino, riesce appena a trattenere le lacrime, mentre ci racconta la storia, assurda, paradossale come tante altre vissute da molti cittadini della provincia tarantina. Il signor Stefano lavorava bene, guadagnava anche bene. Fino a quando un intreccio “mortale” tra avvocati e direttori di filiali bancarie, giudici del tribunale, lo costringe alla miseria. E’ il 1998 quando il presidente dell’allora Cassa Rurale e Artigiana (ora Banca di Credito Cooperativo) di Ginosa dice al signor Buonsanti: “Da oggi in poi devi morire”. Da quel momento, infatti, l’imprenditore non ha più pace. Gli vengono revocati tutti i fidi in tutte le banche. Intanto aveva contratto mutui con le stesse banche a tassi usurai, fino al 23 per cento di interessi. I committenti per lavori da centinaia di milioni di vecchie lire, si tirano indietro e revocano i contratti. Il signor Buonsanti capisce che una rete “mortale” lo ha imprigionato in un destino che lo porterà a perdere tutti i suoi beni. E siamo ai giorni nostri. Stefano Buonsanti ci racconta di aste pilotate, di vendite illegittime, di opposizioni alle vendite sempre rigettate dal giudice Martino Casavola. Questo giudice compare spesso nelle denunce dei cittadini al tribunale di Potenza, oltre che nei racconti di altre persone sottoposte a procedimenti fallimentari. E’ di pochi giorni fa, il 25 novembre scorso, la denuncia dell’imprenditore contro il Giudice tarantino e alcuni avvocati, depositata al tribunale di Potenza. Buonsanti fa rilevare nella sua denuncia due episodi da egli ritenuti perseguibili penalmente. Il fatto riguarda la vendita all’asta di un locale commerciale in pieno centro storico di Ginosa per il quale era stata nominata custode la moglie dell’imprenditore. Il giudice ha ritenuto di surrogare il custode nominando in sostituzione l’avvocato già delegato alla vendita dell’immobile. Buonsanti, tramite il suo legale, ricorre contro il provvedimento di sostituzione chiedendone la revoca. Ricorso rigettato. Il giudice, nell’ambito del procedimento fallimentare, ordina la comparazione delle parti per il giorno 19 dicembre 2016, ma nel frattempo, in data 12 ottobre 2016, l’immobile viene venduto e aggiudicato. A chi? A persone che sembrano lavorare saltuariamente, quindi con un reddito, almeno apparentemente, povero. A quanto viene ceduto l’immobile? A 25mila euro. Eppure il valore stimato era pari a 120mila euro. “Insomma – ci dice Buonsanti – questa è una delle tante aste pilotate al cento per cento, spero che il tribunale di Potenza indaghi sul serio, anche se so che altre denunce di altri cittadini sono finite archiviate”. In questi anni l’imprenditore ha subito aggressioni verbali, umiliazioni, che lo hanno ridotto allo stremo psicologico. Ci racconta di strani personaggi malavitosi aggirarsi intorno alle aste, di strane procedure che finiscono con l’aggiudicazione di beni immobili a gente che non sembra avere le mani pulite. Buonsanti è convinto: “Quel giudice è corrotto”. Noi, naturalmente non possiamo approvare la sua convinzione. Fino a prova contraria quel giudice è immacolato. Da quando ci stiamo occupando di queste vicende che coinvolgono il tribunale tarantino e il tribunale di Potenza, abbiamo ricevuto molte segnalazioni, anche anonime, di persone che hanno vissuto vicende controverse nel “calvario” delle procedure fallimentari a Taranto e delle archiviazioni “facili” a Potenza. Michele Finizio, giovedì 1/12/2016 su "Basilicata24".

Caterina Cuscito. Mettono all’asta un immobile a Palagiano, ma nell’avviso scrivono Palagianello. Un errore? Macché. L’hanno fatto apposta. Ma come è possibile? Il curatore avrebbe dato una risposta che, nel girone circense infernale dei procedimenti fallimentari a Taranto, non fa una grinza: “Se avessimo scritto Palagiano, ci sarebbe stata la fila di persone”. Ma che risposta sarebbe? L’interesse del curatore dovrebbe essere di avere una fila di compratori che garantisce più offerte e magari la vendita ad un prezzo più alto della base d’asta. Roba da denuncia. Infatti, la signora Caterina Cuscito, vittima protagonista del fattaccio, ha presentato un esposto-denuncia alla procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto, il 28 gennaio scorso. La signora Cuscito è un'ex commerciante che ha dovuto fare i conti con la crisi e con la solita banca. Prima gli espropriano la casa, poi mettono all’asta due locali commerciali e un’auto rimessa a Palagiano (Taranto). Però, il curatore nell’avviso scrive Palagianello (Taranto). Indicare una località al posto di quella effettiva di collocazione dei beni all’asta è certamente un vizio di procedura, ma probabilmente è anche un reato. E sì. Perché la signora Cuscito legittimamente si sente truffata. La “fila delle persone” avrebbe fatto alzare il prezzo dell’immobile con un probabile vantaggio per Caterina: il ricavo di una somma residuata dalla vendita, dopo aver pagato il creditore. Questa possibilità è svanita, perché i locali sono stati venduti, a chissà chi, ad un prezzo chissà quale, a Palagiano e non a Palagianello. I compratori, dal canto loro, dovevano essere informatissimi circa la collocazione dei beni. Insomma, alla sezione fallimentare del tribunale di Taranto, le procedure sono delle vere e proprie processioni di povere vittime che non sanno più a che santo votarsi. I pescecani, invece, sanno benissimo a chi rivolgersi. A proposito anche in questo caso il giudice delle esecuzioni è sempre uno del "giro". Gli stessi del fiore da 2omila euro, del caso Delli Santi, del caso Roberto Di Taranto, della vicenda Buonsanti, gli stessi in moltissime procedure contestate. Gli stessi più volte denunciati al Tribunale competente di Potenza che archivia. Anche i curatori, gira e rigira, sono sempre gli stessi giostrai della disperazione. Alla prossima puntata, tra qualche giorno, un altro caso che riguarda direttamente il tribunale di Potenza. Michele Finizio, sabato 18/02/2017 su "Basilicata 24".

Caterina Cuscito è un’ex commerciante che ha dovuto fare i conti con la crisi e con la solita banca. Prima le espropriano la casa, poi mettono all’asta due locali commerciali e un’autorimessa. La signora Caterina ritiene di aver subito espropriazione per oltre il doppio del valore dei debiti… ed oggi è senza un soldo e senza tetto, la sua residenza è in auto con la roba che l’accompagna. E i debiti sono ancora da saldare. E’ sempre la stessa storia nel tribunale di Taranto: beni venduti a prezzo vile, procedure fallimentari che durano da oltre 30 anni, persone dichiarate fallite per tutta la vita, senza alcuna possibilità di provare a rialzarsi. Tentativi di concussione, acquirenti di beni all’asta sempre i soliti in odore di criminalità. Ce ne siamo occupati più volte con la nostra inchiesta “Vite all’asta”. Storie di cittadini vessati, finiti nel tritacarne delle procedure fallimentari, “puniti e torturati” dallo Stato che dovrebbe difenderli. Per le nostre inchieste siamo stati denunciati, ma noi non molliamo. L’audio della telefonata che pubblichiamo fornisce il senso della disperazione di una donna 50enne, Caterina Cuscito, vittima del “sistema” tarantino delle aste. La donna, disperata, chiama il suo avvocato per chiedere aiuto. "Basilicata 24" scrive il 14 marzo 2018.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”.

Legislatura XIII Ramo: Camera Tipo Atto: Interrogazione a risposta scritta Numero atto: 4/19855 Data di presentazione: 24-09-1998 Seduta: 411 Presentatore Nichi Vendola Destinatari Ministero di Grazia e Giustizia e Ministero del Tesoro e del Bilancio e della Programmazione Economica Risposta del Governo Oliviero Diliberto 13-07-1999

Testo della Interrogazione. Ai Ministri di grazia e giustizia e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. - Per sapere -  premesso che:

sempre più frequentemente, negli ultimi anni, alla Procura di Lecce sono pervenuti esposti di cittadini che denunciavano un comportamento usurario da parte di istituti di credito, che grazie alla capitalizzazione degli interessi avrebbero fatto lievitare talvolta oltre il 100 per cento annuo i tassi su finanziamenti e scoperti di conto corrente;

alla fine del 1995 il Procuratore della Repubblica aggiunto presso la procura di Lecce, dottor Aldo Petrucci, responsabile per i reati in materia finanziaria, inviava ai pubblici ministeri della stessa procura una circolare tecnica di chiarimento (n.72244/95) sulla valutazione nel calcolo degli interessi;

nella suddetta circolare si ribadiva l'assoluta liceità della capitalizzazione degli interessi e si affermava in modo alquanto singolare la seguente tesi: "a parità di capitale finanziario, di interessi dovuti e di durata del finanziamento il calcolo del tasso effettivo attraverso il regime dell'interesse semplice offre sempre un risultato superiore a quello ottenuto attraverso il regime dell'interesse composto (cioè con la capitalizzazione degli interessi); un finanziamento della durata di tre anni che preveda un capitale finanziato pari a 1.000.000 e il pagamento di 300.000 lire di interessi avrà un tasso effettivo del 10 per cento secondo il regime dell'interesse semplice e del 9,1 per cento secondo l'interesse composto";

questa tesi ha evidentemente l'obiettivo di dimostrare che l'applicazione dell'interesse composto è per il cliente più conveniente rispetto a quella dell'interesse semplice, mentre – come facilmente riscontrabile con la semplice consultazione di tutta la letteratura scientifica sul tema - è vero il contrario;

risulta che tale circolare abbia influenzato presso la Procura di Lecce l'esito di procedimenti penali aperti nei confronti di responsabili di Istituti di Credito per il reato di usura;

in particolare, il 25 gennaio 1996 il pubblico ministero Giovanni Gagliola ha richiesto l'archiviazione di una denuncia per usura presentata nei confronti di Fernando Venturi, già titolare della Banca Venturi (ora Credito Romagnolo), da un cliente a cui era stata applicata la capitalizzazione trimestrale degli interessi sul proprio conto corrente;

in tale richiesta di archiviazione si affermava che "Il consulente del pubblico ministero ricostruiva integralmente il rapporto di conto corrente de quo e calcolava nella misura del 131 per cento circa annuo" il tasso d'interesse applicato dalla banca;

nella medesima richiesta il pubblico ministero, affermando la legittimità della capitalizzazione degli interessi, precisava: "Su questa linea si pone la posizione dell'ufficio di procura nel suo complesso (vedi relazione del procuratore aggiunto in atti), dalla quale posizione complessiva questo pubblico ministero non vede ragione di discostarsi";

risulta che anche successivamente all'entrata in vigore della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha fissato il limite del tasso usurario nella misura del "tasso effettivo globale medio aumentato della metà", la procura di Lecce non abbia mutato la linea e la giurisprudenza indicate nella succitata circolare;

il settimanale Il Mondo del 12 giugno 1998 ha riferito che il 30 aprile scorso il procuratore aggiunto, Aldo Petrucci, ha richiesto l'archiviazione per infondatezza di un esposto presentato dalla signora Anna Maria Presicce nei confronti della Banca Venturi di Copertino (oggi Rolo), corredato da una perizia secondo cui la banca avrebbe applicato un interesse medio annuo dell'85 per cento;

nel 1997, cioè in data successiva all'emanazione della legge che ha determinato i criteri per la fissazione del tasso usurario, sono state presentate alla procura di Lecce 90 denunce per usura nei confronti di banche, contro le 50 del 1996;

nonostante questa situazione l'unica condanna pronunciata recentemente dal tribunale di Lecce in seguito a uno dei pochissimi rinvii a giudizio disposti dalla procura risulta essere quella nei confronti del banchiere Attilio Megha, già amministratore della Banca Leuzzi e Megha (ora assorbita dalla Banca del Salento), per aver applicato interessi superiori al 36 per cento, come ha riferito il 18 luglio scorso il Quotidiano di Lecce:

quali provvedimenti si intendano adottare per garantire il rispetto delle norme vigenti in materia di tassi usurari in aree depresse del Paese particolarmente colpite dal fenomeno, come la Puglia, anche nel caso in cui nell'attività usuraria siano coinvolti istituti di credito;

se non ritengano necessaria una verifica, attraverso l'uso dei poteri ispettivi, sul comportamento della procura della Repubblica di Lecce in relazione alla grande quantità di esposti presentati da cittadini e imprenditori nei confronti delle banche per il reato di usura e al corrispondente gran numero di archiviazioni richieste. (4-19855)

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719.

BUCCARELLA , AIROLA , DONNO , LEZZI , PETROCELLI , SANTANGELO , GIARRUSSO , FUCKSIA , CASTALDI , TAVERNA , PUGLIA , CAPPELLETTI , MANGILI , BLUNDO , BOTTICI - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

tramite l'atto di sindacato ispettivo 4-06370 (pubblicato il 21 settembre 2016), il primo firmatario della presente interrogazione segnalava le criticità occorse nell'ambito delle procedure fallimentari e di esecuzione immobiliare presso il Tribunale jonico, ed anche la chiusura della magistratura potentina competente a valutare gli esposti presentati contro i colleghi tarantini, e chiedeva al Ministro in indirizzo di disporre ispezione presso i Tribunali di Taranto e Potenza al fine di verificare la fondatezza dei fatti indicati. L'interrogazione inoltre enumerava molteplici suicidi-omicidi dovuti alla crisi ed alla facilità con cui viene tolta agli italiani la prima casa, con la conseguenza di spingere anche le persone anziane a covare e a realizzare azioni estreme di morte; inoltre, nell'atto sono contenute indicazioni, per difetto, dei casi occorsi a quella data;

dal mese di settembre 2016 ad oggi, altri casi di suicidi-omicidi si sono purtroppo verificati, imponendo la necessità di un intervento immediato e drasticamente risolutorio;

considerato che:

risulta agli interroganti che il 23 settembre 2016, il signor Angelo Salvatore Delli Santi avrebbe depositato presso la Questura di Taranto una denuncia penale (inviata per conoscenza anche al Ministro) in cui, premettendo il suo stato di fallito ed esecutato da ben 30 anni, avrebbe lamentato che presso il Tribunale di Taranto esistono meccanismi che creerebbero un sistema finalizzato ad espropriare i falliti ed esecutati, sistema da lui addirittura definito come "criminale, consolidato stabile ed efficace". Inoltre, nell'esposto, il signor Delli Santi avrebbe lamentato fortemente l'esistenza di una rete di collegamenti tra i Tribunali di Taranto e di Potenza, per cui, a suo dire, le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370;

la gravità dei fatti è stata evidenziata in un articolo pubblicato in data 4 novembre 2016 dalla redazione on line di "Basilicata24" che, descrivendo il "sistema" illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto il video di una conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricava che il citato ausiliario del magistrato avrebbe richiesto all'imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo, con il magistrato stesso, presso il quarto piano del Tribunale di Taranto;

a parere degli interroganti, i fatti descritti dal citato articolo e dalla conversazione registrata sono molto gravi sia sotto il profilo delle eventuali responsabilità dei magistrati interessati che sotto quello delle conseguenze, anche estreme, ricadenti sull'utenza e sulla collettività, determinando umiliazione ed affievolimento delle garanzie democratiche, che rischiano di essere annullate da una giustizia negata e mercificata;

considerato inoltre che:

i fatti descritti nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370, relativi alle questioni occorse ai signori Montemurro, Bello e Spera, contengono dettagliate indicazioni di casi in cui, a detta degli stessi, si sarebbero evidenziate forzature nelle maglie del diritto, sostanziale e processuale, con evidente vulnus della giustizia;

risulta agli interroganti che tali episodi non sarebbero isolati e di ciò il signor Delli Santi, nel suo esposto del 23 settembre 2016, fornisce un'indicazione analitica, elencando casi di sua conoscenza, in cui si sarebbero verificate evidenti e macroscopiche violazioni di legge;

a parere degli interroganti, si pone come improrogabile la necessità di verificare i fatti, non potendo accettare che i cittadini vivano con la convinzione dell'esistenza di dubbi meccanismi nell'applicazione del diritto e, indi, nel funzionamento del "sistema giustizia" di Taranto;

risulta agli interroganti che numerosi media stiano affrontando le problematiche emerse, soprattutto alla luce del video pubblicato da "Basilicata24";

a parere degli interroganti si ricava che vi sia sfiducia nella giustizia, anche dal fatto che la citata signora Spera, i cui fatti sono dettagliatamente indicati nell'atto di sindacato ispettivo citato, ha espresso il timore di non ottenere tutela nemmeno nelle questioni ancora pendenti, a causa di quello che ha definito come "andazzo allegro" dei magistrati tarantini;

risulta agli interroganti che la signora Spera riferirebbe essere pendente una sua questione in grado di appello relativamente all'ipoteca che grava i suoi beni da oltre 13 anni, nonostante ella ritenga di aver versato addirittura più somme di quelle eventualmente di debenza e nonostante l'usura subita e non sanzionata (causa n. 536/2014 R.G. Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto);

considerato altresì che risulta anche agli interroganti che sia stata già disposta, e programmata nel mese di gennaio 2017, un'ispezione presso il Tribunale e la Procura di Taranto, che verterebbe su alcune delle problematiche afferenti alla gestione delle procedure presso le sezioni di esecuzione immobiliare e fallimenti;

considerato infine che a giudizio degli interroganti tali critiche situazioni impongono che sia disposta un'ispezione, senza ritardo, presso tutti gli organi di giustizia che abbiano trattato le questioni evidenziate, nonché quelle indicate nell'atto di sindacato ispettivo citato, in particolare presso il Tribunale e la Procura di Taranto, sezione distaccata della Corte di appello di Taranto, e presso il Tribunale e la Procura di Potenza,

si chiede di sapere:

se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive presso gli organi deputati all'applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;

se l'ispezione programmata per gennaio 2017 riguardi i fatti e fascicoli relativi i signori Spera, Bello, Montemurro e Delli Santi, ovvero se non si intenda estenderla anche a tali situazioni.

Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Buccarella, Airola, Taverna, Donno, Bertorotta, Puglia, Cappelletti, Serra, Giarrusso, Paglini, Santangelo, Bottici -

Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

si apprende da un articolo apparso su "TarantoBuonaSera", del 13 luglio 2016, che a Taranto ci sarebbero quasi 750 case all'asta, con altrettante famiglie destinate a perdere la propria casa, che nella maggior parte dei casi è proprio quella di abitazione;

la crisi che ha colpito il Paese sta incrementando il fenomeno delle aste immobiliari, soprattutto conseguenti all'impossibilità, da parte dei cittadini, di onorare i mutui contratti (senza sottacere delle tante abusive concessioni di finanziamento, da parte degli istituti bancari, che vanno ad aggravare situazioni fortemente compromesse dalla recessione);

purtroppo, non mancano anche conseguenze estreme, come i suicidi ed anche gli omicidi-suicidi di interi nuclei familiari, ad opera di persone ritenute perbene e tranquille, ma che, nella morsa della crisi, non ravvisando vie di soluzione (nemmeno in conseguenza di azioni giudiziarie, che spesso non risultano loro favorevoli), compiono tali deprecabili atti, e i numeri depongono per un vero olocausto di italiani;

dall'Osservatorio suicidi per la crisi economica, gli interroganti hanno rilevato che negli ultimi 4 anni, ovvero tra il 2012 e il 2015, si sono verificati 628 suicidi, in media uno ogni 2 giorni. Ecco alcuni casi, verificatisi solo negli ultimi 12 mesi, balzati agli onori delle cronache: l'omicidio-suicidio di Boretto: agosto 2016, Albina Vecchi, 71 anni, uccide il marito Massimo Pecchini, 77 anni, e poi si uccide perché la loro casa è andata all'asta; 30 maggio 2016, Stefano, pescatore genovese di 55 anni tenta il suicidio perché senza lavoro da mesi, da quando gli era stata sequestrata l'imbarcazione con la quale usciva in mare, e, sfrattato dalla sua abitazione, era costretto ad occupare abusivamente un alloggio del Comune; marzo 2016, Sisinnio Machis, imprenditore di 58 anni, si è suicidato a Villacidro dopo il pignoramento della propria casa; gennaio 2016, Maurizio Palmerini, cinquantenne di Vaiano, frazione di Castiglione del Lago (Perugia), ha ucciso i suoi figli, Hubert di 13 e Giulia di 8 anni, a coltellate e ferito la moglie, poi si è tolto la vita; gennaio 2016, dopo il suicidio del signor Guarascio per aver subito lo sfratto, i deputati dell'Assemblea regionale sciliana del Movimento 5 Stelle comprano la casa andata all'asta e la restituiscono alla sua famiglia; dicembre 2015, un imprenditore si impicca a Lodi perché la sua casa viene messa all'asta;

risulta, inoltre, agli interroganti che presso il tribunale di Taranto, al quarto piano dedicato alle aste immobiliari, si sarebbero imposte prassi non del tutto conformi alla legge (come quella di vendere i beni pignorati anche al "prezzo vile", favorendo gli "avvoltoi" di turno e, verosimilmente, la stessa criminalità) a cui si aggiunge la tendenza a prestare maggiore attenzione alla prosecuzione delle esecuzioni immobiliari, piuttosto che alla tutela ed alle garanzie dei soggetti esecutati o falliti;

sempre presso il tribunale di Taranto, sarebbero diversi i cittadini ad aver lamentato abusi e violazioni di legge da parte dei magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento dei loro diritti;

di recente a quanto risulta agli interroganti, la signora Maria Giovanna Benedetta Montemurro, presso il tribunale di Taranto, ha incardinato una procedura di opposizione avverso l'esecuzione immobiliare n. 168/1986 R.G.E., tentando di far valere molteplici ragioni a sua tutela. Nel ricorso, tra i tanti motivi di opposizione, invocando il "decreto Banche" (rectiusdecreto-legge n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2016), la signora Montemurro ha anche dedotto che il giudice non poteva procedere all'aggiudicazione atteso che, nella fattispecie, il prezzo di vendita era inferiore al limite della metà e che erano stati esperiti tentativi di vendita oltre il numero consentito dal citato decreto-legge. Effettivamente il recente decreto-legge n. 59, andando a completare il quadro normativo disciplinante la materia, non ha trascurato proprio i profili di tutela delle parti, creditrice e debitrice, soprattutto al fine di evitare che la vendita avvenga oltre determinati limiti e per un tempo indefinito;

la vendita al "prezzo vile", ovvero al prezzo lontano da quello di mercato, danneggia sia il debitore che lo stesso ceppo creditorio (con il rischio concreto di vendere le case e non soddisfare nemmeno le ragioni dei creditori) e pare anche certo che, indipendentemente dalle modalità di vendita (con incanto o senza), dal sistema delle norme che presidiano le esecuzioni immobiliari può ricavarsi che la vendita non possa avvenire ad un prezzo inferiore al limite della metà del valore del bene espropriando, così come stabilito dal tribunale ai sensi dell'art. 568 del codice di procedura civile;

tuttavia, nonostante l'apparente e verosimile fondatezza del ricorso proposto dalla signora Montemurro, il giudice dell'esecuzione ha rigettato le sue ragioni, peraltro in circostanze di tempo così rapide da destare, a parere degli interroganti, non poca inquietudine: il ricorso è stato presentato alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato ha ricevuto il fascicolo il 25 maggio (perché lo ha "ereditato" da altro magistrato che ha inteso astenersi); nella medesima data del 25 maggio il magistrato ha rigettato la tutela cautelare chiesta dalla Montemurro; solo il giorno successivo, ovvero il 26 maggio, ha provveduto all'aggiudicazione, a giudizio degli interroganti in maniera se non illegittima quanto meno in modo poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di espropriare un immobile adibito ad abitazione;

considerato che a quanto risulta agli interroganti:

la signora Montemurro, ritenendo di non avere ricevuto alcuna tutela in sede civile, con atto del 24 giugno 2016, ha adito il giudice penale ed ha denunciato non solo il giudice dell'esecuzione, ma anche il "sistema" aste presso l'organo di giustizia. Nel suo esposto, tra l'altro, ha lamentato che presso il tribunale jonico: vi è l'orientamento di vendere all'asta, con poca o nessuna tutela per le parti; vi è poca turnazione dei magistrati, che gestiscono le aste ed anche degli ausiliari di questi ultimi; vi sarebbe prassi di vendere anche al limite di 20.000 euro, indipendentemente da quello che è il valore del bene espropriando, con la conseguenza che, a suo dire, alla fine, risulterebbero "pagati" solo i costi delle procedure;

la signora Montemurro non è l'unica ad aver lamentato condotte discutibili e inclini alle banche (solitamente creditrici procedenti) ed alle espropriazioni in genere da parte dei magistrati del tribunale tarantino, di volta in volta chiamati ad intervenire in questioni relative alle opposizioni alle aste immobiliari, in sede sia di cautela che di merito;

consta agli interroganti che anche il signor Vitantonio Bello abbia lamentato una tenace chiusura della magistratura jonica rispetto all'asta immobiliare in suo danno (n. 593/2011 R.G.E. del tribunale di Taranto), non ottenendo tutela nonostante le molteplici procedure incardinate e nonostante, in qualche provvedimento giurisdizionale, il magistrato estensore abbia riconosciuto la fondatezza della doglianza da lui sollevata. Nel caso di Bello l'asta immobiliare ha ad oggetto la casa ove vive con moglie e due figli minori (di anni 5 ed uno), a tal punto il signor Bello avrebbe anche interessato della sua vicenda la Presidenza della Repubblica e quest'ultima, di rimando, la Prefettura di Taranto;

sempre nella vicenda del signor Bello, la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l'esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il medesimo e la banca, se pure l'istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro (e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso). A parere degli interroganti, nella stessa statuizione, vi sarebbe anche un'abnorme legittimazione della concessione abusiva di credito;

altra vicenda molto sintomatica della pervicace chiusura dei giudici di Taranto rispetto alla tutela da accordare agli esecutati e falliti è quella della signora Maria Spera (procedura esecutiva n. 590/1994 R.G.E del tribunale di Taranto). Vicenda che, nonostante non si sia ancora conclusa, ha registrato non poche forzature, con grave danno economico, psicologico e morale dell'esecutata. Addirittura la signora Spera ha lamentato un'illegittima duplicazione di titoli esecutivi, con cui l'intero suo patrimonio risulta ancora bloccato: 1) la procedura n. 590/1994 R.G.E., che si basa sul titolo esecutivo "mutuo fondiario" e che vede quale bene pignorato un terreno di 24 ettari (terreno a cui sarebbe interessato un facoltoso imprenditore locale, già socio di Emma Marcegaglia); 2) un decreto ingiuntivo, che si basa sullo stesso e medesimo debito, decreto con il quale è stato ipotecato l'intero restante patrimonio immobiliare della signora Spera. La vicenda, a giudizio degli interroganti, è tanto più inquietante se si pensa che il debito originario contratto dalla signora nel 1990 era a pari a 500 milioni di lire (corrispondenti a circa 258.000 euro) e la signora, alla data del 2007, ne aveva già restituiti 400.000 euro (corrispondenti a circa 800 milioni di lire);

ad oggi la signora Spera, nonostante il pignoramento del terreno, sottostimato dal tribunale di Taranto in poco più di 400.000 euro (somma che sarebbe più che capiente rispetto all'eventuale debito residuo, ove ne residuasse, visto che circa 400.000 euro sono stati già resi dalla signora alla Banca nazionale del lavoro), ha l'intero suo patrimonio ipotecato, in virtù dell'altro titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo), emesso per lo stesso ed unico debito (che così è consacrato in 2 distinti titoli esecutivi). Pertanto, se la signora volesse vendere qualcosa per pagare eventuali residui debiti, non potrebbe farlo (e nemmeno è in condizione di onorare le esose tasse sulla proprietà, se non con gli aiuti dei figli);

la signora Spera ha riferito agli interroganti che, decorsi 10 anni dall'iscrizione dell'ipoteca sul suo patrimonio, in virtù del decreto ingiuntivo, nell'assenza di atti esecutivi (perché nel frattempo la procedura è andata avanti per la vendita del terreno pignorato sulla base del titolo esecutivo "mutuo fondiario"), ha chiesto la cancellazione dell'ipoteca, anche ritenendo la perenzione del decreto ingiuntivo, ma in risposta ha ottenuto dal tribunale tarantino il rigetto della sua legittima istanza (procedura n. 3291/2014 R.G. del tribunale). La questione pende in appello (causa n. 536/2014 R.G. della Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto), ma la signora Maria Spera ritiene che incontrerà ancora l'illogico ed illegale ostacolo;

considerato, inoltre, che:

la signora Maria Spera ha riferito agli interroganti di aver presentato, presso il tribunale di Potenza (competente a valutare gli esposti nei confronti dei magistrati di Taranto), denuncia penale nei confronti dei magistrati ed ausiliari che, a suo parere, avrebbero male esercitato la funzione giurisdizionale, causandole danni; ma anche a Potenza ha dovuto prendere atto che, anziché ottenere tutela, ha solo registrato l'astio del pubblico ministero e la pessima sua azione. Allo stato la signora Spera, esecutata dal 1994, non ha ottenuto, né dai giudici di Taranto né da quelli di Potenza, la tutela che le leggi le garantirebbero ma che la magistratura (chiamata ad applicarle) le ha negato;

la vicenda è già balzata agli onori della stampa (sul settimanale tarantino "Wemag" del 12 novembre 2010) ed è stata anche oggetto di un'altra interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei deputati nel 2010 (4-07339 a firma dell'on. Zazzera dell'IdV, Legislatura XVI);

ad avviso degli interroganti, circostanza molto inquietante è quella per cui, sempre in danno della signora Spera, né la magistratura jonica (sia in sede civile che penale) né quella potentina (in sede penale) hanno inteso accertare l'usura che la signora stessa ha lamentato esserle stata applicata. Usura che è poi emersa nell'ambito di una causa civile sempre dinanzi al tribunale tarantino, in occasione di una consulenza di ufficio redatta (causa n. 7929/2009 R.G. del tribunale di Taranto);

considerato infine che:

i fatti lamentati, per quanto gravi, non sono isolati. Gli interroganti hanno preso atto anche di un'intervista fatta dalla televisione locale "Studio 100" a varie persone esecutate, che avrebbero descritto il quadro inquietante e ricorrente al quarto piano del tribunale di Taranto, destinato appunto alle esecuzioni e ai fallimenti: si racconterebbe di prassi illegali che, pur denunciate, non vengono sanzionate, di "avvoltoi" che si avvicinano agli esecutati, estorcendo denaro per rinunciare all'acquisto, per poi acquistare all'udienza di vendita successiva, con ulteriore ribasso del prezzo e aggravio di danno per le povere vittime;

a giudizio degli interroganti la delicatezza dell'argomento, sia per le gravose conseguenze sulle persone, che per i dubbi di opinabile esercizio della funzione giurisdizionale, impone interventi urgenti e forti,

si chiede di sapere:

se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti correttivi a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;

se, nell'ambito delle attività ispettive, il Ministro in indirizzo non ritenga di dover verificare: la sussistenza delle condotte descritte, con particolare riguardo ai rapporti con le banche e le società di recupero crediti, ai fini dell'eventuale adozione di provvedimenti sanzionatori da parte delle autorità competenti; se corrisponda al vero che, presso il tribunale di Taranto, si celebrano aggiudicazioni di immobili anche al di sotto della metà del loro valore, e comunque in violazione delle norme di legge;

se esista un obbligo di turnazione dei magistrati nelle sezioni di esecuzione immobiliare e fallimentare e, in caso positivo, se lo stesso venga rispettato presso il tribunale di Taranto e se il medesimo obbligo sussista rispetto ai consulenti e ausiliari vari.

Dr Antonio Giangrande

Conte, Emiliano e l’ ospedale S.Cataldo: una “prima pietra” bis. Ma il cantiere non parte. Il Corriere del Giorno il 13 Ottobre 2020. La stessa scenetta Emiliano l’ha fatta sempre prima delle elezioni per inaugurare l’unico pronto soccorso di Taranto, che nonostante il taglio del nastro è ancora chiuso e i pazienti aspettano ammassati sulle barelle per strada. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Renato Perrini, punta il dito contro la messinscena di questa mattina. “Mancano 400 giorni all’apertura dell’ospedale SanCataldo questo il cronoprogramma del presidente Emiliano tre giorni prima del voto, durante l’ennesima inaugurazione farlocca visto che ora a poco meno di 1 mese ripete la stessa scenetta accanto al premier Conte e mi chiedo: chissà se la "prima pietra" è sempre la stessa! La stessa scenetta Emiliano l’ha fatta sempre prima delle elezioni per inaugurare l’unico pronto soccorso di Taranto, che nonostante il taglio del nastro è ancora chiuso e i pazienti aspettano ammassati sulle barelle per strada”. “Allora visto che oggi siamo esattamente a 375 giorni all’apertura dell’ Ospedale San Cataldo, – continua Perrini – quando mettiamo la seconda pietra e facciamo partire veramente il cantiere? Possibile che dobbiamo spettacolarizzare rendendo un set fotografico ciò che riguarda la salute dei cittadini di Taranto che di un ospedale efficiente hanno maledettamente bisogno?” “Non solo, oggi per la visita di Conte – aggiunge Perrini – venuto a inaugurare la Facoltà di Medicina, che per il momento ha solo la sala d’ingresso – la ASL di Taranto ha provveduto in un solo giorno a effettuare tamponi nasofaringei a tutti gli iscritti alla nuova facoltà. Mi chiedo: ma viene fatto per tutti gli studenti anche delle altre Facoltà? O solo a quelli che dovevano incontrare Conte? Gli stessi tamponi che ancora oggi reclamano tantissimi tarantini, contatti stretti di positivi quarantenati in casa senza tampone“. “Un contact tracing che nella nostra provincia conta ancora pochissimi test (non più di 150 al giorno), mentre nel resto delle province pugliesi se ne fanno 4mila. Un numero ancora troppo basso e non più giustificabile con la scusa fornita da Emiliano e Lopalco che dicono di non sapere a chi farli. Senza contare che mentre tutta Italia consiglia di aumentare i test, il nostro futuro assessore alla Sanità, Lopalco, parla di “dittatura del tampone“. “Per questo siamo l’ultima regione d’Italia e l’ultima provincia per numero di Test effettuati – conclude Renato Perrini – Eppure ora sta venendo fuori la drammatica verità: i positivi purtroppo ci sono, se solo si cercano. “E allora si potrebbe iniziare con il testare tutti gli operatori sanitari che ogni giorno lavorano in ospedale e sono a contatto con i pazienti. Ormai sappiamo da mesi che non basta misurare la febbre, poiché molti sono asintomatici. Se fossero stati effettuati i tamponi nella Rsa di Ginosa, forse, non sarebbero morti gli anziani che non sono riusciti a sopravvivere al virus. Purtroppo quando si tratta della salute delle persone le narrazioni edulcorate servono a poco…”

Il CSM espelle all’unanimità Nicola Russo dai giudici di pace. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2020. Secondo il Csm “provvedimenti adottati dal Russo sono abnormi e comunque fondati su gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza. Al riguardo, va evidenziato che i provvedimenti in questione recano lunghe ed abbondanti motivazioni in parte scarsamente comprensibili, fondate su argomentazioni giuridiche di assoluta superficialità”. Era il 28 giugno 2012 quando tutt’Italia scopri l’esistenza di tal Nicola Russo, che all’epoca dei fatti si presentava e dissertava sui socialnetwork come il presidente del Codacons (carica che da sempre è ricoperta dall’ avv. Carlo Rienzi). Sui siti di tutt’ Italia apparve la notizia (falsa) che grazie al Tar del Lazio, il Taranto Calcio avrebbe giocato l’anno successivo in serie B. Ma in realtà era solo una “bufala“, che adesso verrebbe definita un fake news messo in circolazione dal sito di un’emittente locale e ripresa dal Corriere del Mezzogiorno , edizione pugliese del Corriere della Sera, che per qualche ora aveva fatto sognare i tifosi rossoblù. Secondo la falsa notizia, il Tar aveva accolto il ricorso presentato dall’avvocato tarantino Nicola Russo dell’associazione “Taranto futura” e dall’associazione “Taranto Vola” e restituito ai pugliesi i sei punti di penalizzazione inflitti per i ritardi nei pagamenti degli stipendi. Sulle pagine del sito blunote.it, parlò uno dei protagonisti, della figuraccia che coprì di ridicolo l’intera comunità dei tifosi jonici: l’avvocato Nicola Russo: “Mi dispiace – diceva Russo – non volevo finisse in questa maniera. Ci ho sperato, mi sono illuso e adesso, chiaramente, sono molto amareggiato. Ma rifarei tutto, perchè Taranto è una città martoriata e bistrattata che va difesa da tutto e tutti. Rifarei ogni passo, non mi pento di nulla. Le critiche? A me, sinceramente, interessava solo il risultato, il resto è cattiveria pura…”. Ma la Lega Pro aveva subito smentito, per voce del direttore generale Francesco Ghirelli: “E’ una cosa che non esiste, chi ha seguito la vicenda mi dice che non è stata emessa nessuna sentenza del Tar. Qualche mente fantasiosa ha messo in giro questa notizia, forse inventata, di sicuro frutto della fantasia di qualcuno“. A distanza di qualche anno, Russo, torna a far parlare di sè, nel frattempo diventato giudice di pace a Taranto, a seguito della sua espulsione decretata all’unanimità dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, sia dal ruolo che dalle funzioni di giudice di pace presso il Tribunale di Taranto, con delle valutazioni sul suo operato che definire imbarazzanti è a dir poco imbarazzante! Adesso Nicola Russo dopo il fallito tentativo di salire agli onori delle cronache con le sue attività, fortemente criticate dal Csm, che ha definito i suoi “provvedimenti abnormi, con gravi violazioni di Legge, tanto da denotare un’inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie e comunque da compromettere il prestigio delle funzioni attribuitegli”. Russo nei suoi recenti ultimi atti da pseudo-giudice di pace…definiva i decreti Legge 9/2020, 11/2020, 18/2020, 23/2020 e 30/2020, “promulgati e resi operativi dl Presidente della Repubblica Prof. Dott. Sergio Mattarella, Organo incompetente e privo di poteri, eletto da Parlamentari nominati illegittimamente e privi di capacità giuridica nell’esercizio di tale funzioni“. Incredibilmente Russo nella sua memoria difensiva dinnanzi al Consiglio Giudiziario di Lecce, sosteneva che aveva “sindacato il provvedimento del Presidente del Tribunale di Taranto (dr.ssa Anna De Simone, facente funzione n.d.a) ritenendolo viziato da numerose violazioni di Legge e rappresentava anche di aver presentato denuncia alle Procure di Roma e Catanzaro“. Secondo il Csm anche il contenuto dei messaggi pubblicati sulla pagina Facebook del Russo “appare meramente confermativo della carenza di equilibrio del magistrato onorario” aggiungendo che i “provvedimenti adottati (dal Russo – n.d.a.) sono abnormi e comunque fondati su gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza. Al riguardo , va evidenziato che i provvedimenti in questione recano lunghe ed abbondanti motivazioni in parte scarsamente comprensibili, fondate su argomentazioni giuridiche di assoluta superficialità“. E per tutto ciò e molto altro ancora , il Csm ha deliberato che è conseguita “la revoca dell’interessato dall’incarico ricoperto“. E quindi da oggi Nicola Russo non è più un giudice di pace. Per fortuna della giustizia, che a volte è giusta e trionfa anche su chi si reso spesso protagoniste di ripicche ed ingiustizie, utilizzando il proprio precedente incarico per ripicche e vendette “personali”.

Celebrò le udienze nonostante il blocco, il Csm revoca l’incarico al Giudice di Pace: «Carenza di equilibrio e decisioni abnormi». Taranto, Nicola Russo aveva negato l’emergenza Covid. Simona Musco su Il Dubbio il 17 settembre 2020. Il Csm ha revocato l’incarico di giudice onorario di pace a Nicola Russo, in servizio a Taranto, reo di aver disapplicato i decreti del Consiglio dei ministri sulla gestione dell’emergenza, decidendo di celebrare le udienze, nonostante i rischio per la salute e le indicazioni contrarie del presidente del Tribunale. Una decisione presa a seguito di una lunga istruttoria e una “lotta” interna al Tribunale giocata a colpi di provvedimenti, motivata dalla «carenza di equilibrio» dimostrata da Russo e da «provvedimenti abnormi». Tutto è partito dal provvedimento emesso dal giudice il 12 maggio, quando ha deciso di disapplicare la delibera del Cdm datata 31 gennaio – con la quale veniva proclamato lo stato d’emergenza – affermando che nella provincia di Taranto, in ragione del basso numero di contagi e dell’avvento della stagione estiva, era possibile trattare i processi penali pendenti, «stabilendo la celebrazione a porte chiuse di 15 procedimenti ad udienza, ad intervalli di 30 minuti ed in ordine di anzianità di iscrizione a ruolo». Provvedimento per il quale il presidente del Tribunale ha diffidato il giudice di pace, innescando, così, una serie di contestazioni reciproche. Russo, infatti, ha contestato al Presidente «una discutibile interferenza amministrativa», alla quale si è visto rispondere con una segnalazione alla Corte d’Appello di Lecce, alla quale il Presidente ha sottoposto elementi di gravi criticità «in ordine alla indipendenza ed all’equilibrio del giudice di pace, per violazioni delle norme sull’incompatibilità e di doveri deontologici». A ciò si aggiungevano interviste e commenti su Facebook con i quali Russo ribadiva, con «eccentriche affermazioni», il proprio punto di vista sul Covid, con riferimenti al suo ruolo di giudice. Russo ha poi nuovamente disapplicato i decreti legge del Governo, contestando anche «l’incompetenza» del Presidente della Repubblica a promulgarli, in quanto «organo incompetente e privo di poteri, eletto da parlamentari nominati illegittimamente e privi di capacità giuridica nell’esercizio di tali funzioni». Da qui la valutazione della Corte d’Appello prima e del Csm poi: Russo non sarebbe in possesso dell’equilibrio necessario per svolgere il proprio ruolo, anche per aver negato al Presidente del Tribunale «poteri organizzativi», ritenendo «di poter autonomamente disciplinare l’organizzazione delle udienze», ostinandosi nella loro celebrazione «pur a fronte del gravissimo rischio per la salute del personale addetto all’ufficio del Giudice di pace di Taranto, degli avvocati e dell’utenza» e arrogandosi un sindacato di costituzionalità che «spetta esclusivamente alla Corte costituzionale».

L’incredibile storia del magistrato Nicola Russo, sbattuto in prima pagina ma è un omonimo. Viviana Lanza su Il Riformista il  17 Settembre 2020. Ha lo stesso nome e cognome e fa lo stesso lavoro del protagonista di una vicenda giudiziaria che da quasi tre anni è all’attenzione della cronaca e dell’opinione pubblica. Coincidenza, si direbbe, se non fosse che a causa di questa omonimia Nicola Russo, magistrato stabiese in servizio alla Corte di Appello di Napoli, si ritrova la propria foto affiancata agli articoli che parlano di Nicola Russo magistrato (ora sospeso) del Consiglio di Stato, indagato e da pochi giorni condannato per corruzione in atti giudiziari. E da quasi tre anni, Nicola Russo, giudice della Corte di Appello di Napoli, deve giustificare l’equivoco non tanto con chi lo frequenta da sempre ma con chi lo conosce poco o da poco tempo, con chi incontra per lavoro o per motivi istituzionali. Da quasi tre anni vive una situazione kafkiana. Ha scritto alle redazioni dei giornali, dei tg e dei siti web che sono incorsi nell’errore, il problema è che lo fa da quasi tre anni e ancora ci sono testate che ripetono l’errore. «Possibile?», si chiede. «Ci sono giornali che hanno fatto la rettifica ma è evidente che questa non è servita nemmeno a loro visto che hanno ripetuto l’errore». Per non parlare del web, dove ci sono diversi link con la foto sbagliata. «Tra l’altro hanno scelto una mia foto con la scritta Libera sullo sfondo. È una foto scattata durante una giornata in memoria delle vittime delle mafie a cui ho partecipato. Sono attivista di Libera da quando è nata. Vedere quell’immagine usata per errore è tra le cose che fa più male a me e fa male a Libera», racconta. In magistratura al 1997, Russo ha svolto tutti i ruoli della funzione penale di giudice. Nel corso della sua carriera si è occupato di processi delicati, come quello che vedeva coinvolti Silvio Berlusconi e Walter Lavitola per la vicenda legata alla compravendita di senatori, e di processi su criminalità organizzata e narcotraffico tanto da essere consulente della Commissione parlamentare Antimafia e aver svolto missioni all’estero, soprattutto in Sudamerica, per spiegare l’organizzazione delle nostre mafie e collaborare alla creazione di modelli legislativi antimafia. Per quattro anni ha fatto parte del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, occupandosi della formazione di magistrati provenienti da tutta Italia. «Svolgo una funzione pubblica, inizio seriamente a preoccuparmi per le tante volte che questo errore è capitato. Non mi interessa accumulare risarcimento ma è un meccanismo che devo fermare», dice il giudice Russo spiegando il motivo che lo ha spinto a difendersi legalmente e denunciare il caso al Garante della privacy. «Io – osserva – ho gli strumenti culturali e giuridici per difendermi ma chi non li ha come fa? Il web ti schiaccia». In questi anni sono stati tanti gli imbarazzi e disagi causati da questo errore: «Addirittura – aggiunge – mi sono arrivate per due volte notifiche di atti di citazione da parte delle società che ritenevano di aver subito le sentenze manipolate dal giudice sotto accusa e ho dovuto mandare comunicazione alle cancellerie, altrimenti rischiavo di essere coinvolto anche nelle cause civili». I ricordi sono ancora più amari quando si affrontano i risvolti più personali: «Una volta inviarono sul cellulare dei miei figli un messaggio con la pagina del giornale che pubblicava la mia foto accanto all’articolo sull’altro Nicola Russo. Non si può continuare così».

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto alla sbarra.

Condannato ex presidente Ordine Avvocati Taranto. Il Corriere del Giorno il 28 Novembre 2020. L’istanza di patteggiamento dei difensori di Esposito si era scontrata con il parere negativo della pubblica accusa, motivo per cui si è ritornati in camera di consiglio dove il pm aveva richiesto la sua condanna a due anni e mezzo. La decisione del giudice Ruberto ha stabilito la condanna di Esposito a due anni con il beneficio della sospensione della pena. L’ex presidente dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, avvocato Angelo Esposito è stato condannato dal giudice Benedetto Ruberto a due anni con il beneficio della sospensione della pena, grazie alla scelta di rito abbreviato nel processo in cui era imputato chiamato a rispondere del reato di peculato aggravato, a seguito della denuncia a suo carico per aver utilizzato i fondi dell’ Ordine per spese personali. La somma, quantificata inizialmente 240.000 euro e rideterminata ieri in 184.000 euro, che all’ avvocato Esposito ha parzialmente restituito versando 100mila euro nel corso del procedimento inducendo l’ Ordine degli Avvocati di Taranto a ritirare la costituzione di parte civile da parte dell’Ordine . I difensori di Esposito nella loro arringa hanno evidenziato come l’ex presidente sin dal primo momento avesse manifestato l’intenzione di verificare la contabilità dei dodici anni del suo mandato e di rifondere eventuali pagamenti non riconosciuti. Esposito ha ha optato per il rito abbreviato che gli ha consentito di ottenere una pena più leggera grazie anche alla concessione delle attenuanti concesse dal giudice che lo ha condannato a due anni e sospensione della pena. La condanna è stata in linea con la richiesta di patteggiamento avanzata in passato dagli avvocati Fausto Soggia e Paolo Tata, difensori dell’ avvocato Angelo Esposito, i quali subito dopo la sentenza hanno annunciato appello. L’istanza di patteggiamento dei difensori di Esposito si era scontrata con il parere negativo della pubblica accusa, motivo per cui si è ritornati in camera di consiglio dove il pm aveva richiesto la sua condanna a due anni e mezzo. La decisione del giudice Ruberto ha stabilito la condanna di Esposito a due anni con il beneficio della sospensione della pena.

Condannato l’avv. Aldo Carlo Feola per gli insabbiamenti degli esposti contro gli avvocati di Taranto.

 

Melucci & Occhinegro amministratori pubblici o nuovi “prenditori”di soldi pubblici? Antonello De Gennaro il 3 Luglio 2020 su Il Corriere del Giorno. Abbiamo fatto qualche ricerca fra i documenti pubblici presenti online ed abbiamo scoperto qualcosa di molto interessante ed altrettanto vergognoso per Melucci ed Occhinegro, i quali dovrebbero avere secondo noi il dovere “morale” di dimettersi dalle loro cariche pubbliche. E di seguito leggerete e capirete il perchè. Nella notte appena trascorsa il Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci ed il suo socio-assessore Ubaldo Occhinegro devono aver dormito poco, per far sparire da Internet tutte le pagine del sito bottega-aurea.it della loro creatura: Bottega Aurea una società a responsabilità limitata con 50mila euro di capitale sociale, al momento non interamente versato.

La società BOTTEGA AUREA ARCHITECTURE & MASTERPLANNING s.r.l. ha sede legale a Milano in via Libero Temolo n.4, presso la società REGUS una società inglese che affitta uffici attrezzati, e fornisce domiciliazioni societarie, ed ha come amministratore unico il socio di maggioranza (con il 51% delle quote) il sindaco di Taranto: Rinaldo Melucci! Dall’esame del sito internet di Bottega Aurea si legge (tradotto in italiano) “…il team è nato dalla combinazione di differenti e multidisciplinari esperienze di vari studi di architettura e ricerche, costole (spin off) dello Studio MUA (studio di architettura di Occhinegro e della moglie Micaela Pignatelli – n.d.r. ) e del NFRG – New Fundamentals Research Group, affiliato al Dipartimento di ingegneria ed architettura del Politecnico di Bari (Dicar)”.

L’ associazione NFRG è stato fondata nel 2014 dall’architetto Giuseppe Fallacara che ne è anche il Presidente. Recentemente (dal 1 aprile 2020) Fallacara è professore ordinario di progettazione architettonica presso il Dicar del Politecnico di Bari., e risultava indicato come componente del “team” di Bottega Aurea, come si leggeva nel sito internet dei “furbetti” Melucci ed Occhinegro prima che questa notte lo oscurassero, per poi riattivarlo “purgato” questo poneriggio. Da noi contattato l’ arch. Fallacara ci ha però dichiarato di non aver mai avuto alcuna rapporto di lavoro con la società Bottega Aurea, smentendo quanto pubblicato sul sito dei “furbetti” tarantini, avendo appreso soltanto attraverso il nostro colloquio telefonico di questo pomeriggio, di essere stato inserito a sua insaputa nel cosiddetto “team” della società a scopo di lucro di Melucci & Occhinegro. Peraltro il neo-prof. Fallacara ci ha precisato che “svolge esclusivamente attività universitaria e di ricerca senza alcun scopo di lucro, non avendo nè la Partita Iva , nè partecipazioni, quote o titolarità di studi professionali”. Una dichiarazione che però contrasta da quanto risulta anche dal sito dello Studio Mua (dell’ assessore Occchinegro e di sua moglie) dove l’ Arch. Fallacara viene indicato come “consulente” ! Anche in questo caso non sapeva??? Abbiamo quindi scavato fra i documenti pubblici presenti online ed abbiamo scoperto qualcosa di molto interessante ed altrettanto vergognoso per Melucci ed Occhinegro, i quali dovrebbero avere secondo noi il dovere “morale” di dimettersi dalle loro cariche pubbliche. E di seguito leggerete e capirete il perchè.

I RAPPORTI CON IL POLITECNICO DI BARI. Delibera di giunta comunale n. 111 del 15 maggio 2020 (e quindi successiva, alla costituzione della società tra i due), avente ad oggetto “approvazione dello schema di Accordo Quadro per il sostegno delle attività didattiche, di ricerca, presso la sede di Taranto del Politecnico di Bari, nonché per lo studio, la valorizzazione e la fruizione delle aree sottoutilizzate e dismesse di rapporto tra la città e i suoi mari“. La delibera viene proposta dalla Direzione Gabinetto Sindaco, relatore il Sindaco Melucci, e votanti lo stesso primo cittadino ed il suo “socio”-assessore Occhinegro i quali si sono ben guardati dall’astenersi come prevede ed impone per Legge il TUEL cioè il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. Venendo al merito dell’accordo quadro, tra Politecnico di Bari e A.C.T. cioè l’ Amministrazione Comunale di Taranto, tra i vari punti dell’oggetto, balza all’occhio quello di cui alla lettera g) che richiama agenda Onu 2030, che è tra i punti “cardine” dello sbandierato Ecosistema Taranto che veniva riportato espressamente nel sito di Bottega Aurea in relazione alla descrizione del profilo del “cofondatore Melucci” (che notte tempore è stato fatto scomparire dal web). La lettera g) disciplina “la elaborazione di proposte di riqualificazione urbana ed architettonica, con attenzione nei riguardi delle identità architettoniche consolidate che possano permettere alla amministrazione comunale di accedere ai finanziamenti pubblici “. L’accordo quadro indica quale responsabile del progetto il Sindaco Melucci e due commissioni: una commissione “tecnica” in cui per il Comune di Taranto è membro il Sindaco ed una commissione “operativa” nella quale per il Comune di Taranto è membro l’assessore Occhinegro e per il Politecnico di Bari l’architetto Fallacara. Gli architetti Occhinegro e Fallacara sono soci dell’ associazione no-profit NFRG – New Fundamentals Research Group. che ha indirizzo e sede presso Politecnico di Bari – DICAR – in via Via Orabona. Ancora e come sempre solo “coincidenze”.?

I RAPPORTI CON LO STUDIO MUA. Sul sito internet dello studio MUA (cioè dell’ Occhinegro e di sua moglie) è pubblicato il progetto del MUDIT (Masseria Solito) del Comune di Taranto, per cui Occhinegro ha prima avuto incarico per la progettazione percependo 40mila euro, e successivamente è diventato “assessore” dapprima all’Urbanistica dal luglio 2018 al maggio 2019 e successivamente ai Lavori Pubblici dall’agosto 2019 a tutt’oggi. Ma Occhinegro come si evince da video del 4 giugno pubblicato sulla pagina Facebook di Ecosistema Taranto , che potete vedere sopra con i vostri occhi. continua ad occuparsi del MUDIT. Qualcuno può ancora credere che si tratti di pure coincidenze ? O è solo “spirito di corpo (e cassa) familiare” ??? L’architetto Ubaldo Occhinegro risulta essere iscritto all’albo Architetti dell’Ordine di Taranto con studio in Taranto alla via Cavallotti 4, come si evince da Albo e da suo CV. Lo stesso indirizzo che guarda caso viene indicato come sede secondaria di BOTTEGA AUREA s.r.l. come risulta dalla visura camerale. Da evidenziare che il sito internet della Società BOTTEGA AUREA ARCHITECTURE & MASTERPLANNING s.r.l. , risulta privo di qualsiasi contatto telefonico , ed il cui contenuto è tutto uno sfoggio di progetti mai realizzati! Chissà che ci facevano a Pasqua in Arabia Saudita il sindaco Melucci e l’assessore Occhinegro,(sperando che non si sapesse nulla !)??? Ma Ubaldo Occhinegro non poteva fare a meno di autoincensarsi da solo su Twitter ! Melucci senza la “staffista”….ha qualche problema sui social !

Lecito a questo punto farsi qualche domanda, a cui nessuno risponderà mai. Eccole:

è normale che un Sindaco ed un Assessore in carica costituiscano una società a scopo di lucro?

se era è legittimo e quindi legale… perchè il Sindaco Melucci ed il suo assessore Occhinegro hanno oscurato notte tempore i contenuti del sito della loro nuova “creatura” milanese, salvo poi riattivarlo nel tardo pomeriggio odierno ?

quale indipendenza di giudizio potrebbero avere queste commissioni tutte “tarallucci & vino” fatte fra il Comune di Taranto ed il Politecnico di Bari?

cosa aspettano Melucci ed Occhinegro a dimettersi ? Non basta loro vedere cosa sta accadendo in Puglia negli ambienti giudiziari, che stanno indagando e processando una valanga di amministratori pubblici?

cosa aspetta il Sindaco Melucci a spiegare come mai ha trattenuto per sè la delega all’ urbanistica, senza avere alcuna competenza specifica?

cosa aspetta l’attuale Procuratore Aggiunto (facente funzione di reggente) della Procura di Taranto, Maurizio Carbone, ad aprire delle approfondite indagini anche a Taranto sul voto di scambio, sulle connessione politiche-massoniche che infestano la vita pubblica?

con che indipendenza e trasparenza può indagare la Procura di Taranto, quando il suo pm “anziano” dr.ssa Filly Di Tursi ha un marito commercialista, il dr. Raffaele Amodio che non solo è stato recentemente nominato quale presidente del collegio sindacale di CTP Taranto, ed è titolare di uno studio di contabilità che aveva ottenuto una consulenza per la contabilità generale per 87.000 euro dell’ AMIU, società inhouse ( municipalizzata) del Comune di Taranto, oltre ad essere anche componente del collegio Sindacale del Consorzio Interfidi di Taranto, attualmente sotto indagine, con una stanza sigillata dalla Guardia di Finanza ? Per non parlare poi dell’incarico affidato sempre da CTP Taranto all’ avv. Paola Portacci moglie del pm. Enrico Bruschi.

Come farà la Procura di Taranto ad indagare sul Comune di Taranto e CTP di Taranto, senza alcun imbarazzo? Senza correre il rischio di fughe di notizie, o possibili omissioni ed inquinamento delle indagini. Ah saperlo.

I triangoli dei conflitti d’ interesse del Comune di Taranto. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2020. Un oceano di conflitti d’interessi. O forse per i faccendieri del Comune jonico, sono solo “fortuite coincidenze”? Una cosa è certa : una Procura della repubblica seria, scrupolosa ed attenta alla luce di quanto abbiamo scoperto farebbe delle dovute indagini. Ma forse al posto della Procura di Taranto, potrebbe occuparsene Potenza per indagare a questo punto anche sulla mancate indagini tarantine…e sui conflitti d’interesse che collegano alcuni magistrati degli uffici giudiziari di Taranto all’ Amministrazione Comunale di Taranto. In questa vita si perdona tutto, tranne dire la verità. Ecco perchè il nostro giornale viene osteggiato da un piccolo sindaco neofita eletto per opera e virtù dello spirito santo. Una maggioranza composta da scambisti e politicanti allo sbaraglio, che vive di quei quattro soldi dei compensi comunali , non avendo molti di loro dei redditi ed un lavoro certo. Un Comune che compra i ben noti “pennivendoli” (chiamarli giornalisti è un’offesa alla nostra professione) con mancette e markette pubblicitarie, potendo contare sulla disperazione editoriale che attanaglia una città che negli ultimi 6 anni ha visto chiudere due quotidiani (Taranto Oggi, ed il “Corrierino” di Puglia e Lucania), una tv (BlustarTv) , ed anche fallire la tv storica Studio 100, ed il quotidiano regionale (La Gazzetta del Mezzogiorno). Nei giorni scorsi nelle mie dirette abbiamo avviato un’inchiesta sugli “affari” e conflitti d’interesse che coinvolgono sindaco Rinaldo Melucci ed il suo nuovo socio-assessore Ubaldo Occhinegro, che viene celebrato dai soliti quattro affaristi e dirigenti a libro paga del Comune di Taranto come se fosse un’ “archi- star”…. mentre invece è signor “nessuno“, come certificato dal Ministero dell’ Università e Ricerca (noto anche come MIUR)! Basta leggere i commenti della commissione per rendersi conto in che mano sta la città! Per non parlare di un sindaco “last minute” come Rinaldo Melucci indicato dal Pd jonico come la sua 4a scelta, il quale prima di candidarsi era un anonimo agente di servizi portuali dalle gesta imprenditoriali sfortunate come i bilanci della sua ex-società Melucci Shipping s.r.l (ora trasformata in Meridian Shipping srl) sempre in passivo, i suoi soci equivoci (in particolare uno, noto evasore fiscale ligure) di cui ci siamo già occupati in passato. Una volta eletto Melucci cedette le sue quote della Melucci Shipping, salvo poi aprire una nuova ditta individuale con cui ha continuato ad operare gestendo il transito e la sosta di alcune navi da crociera della Tui da Taranto, mettendo a disposizione dei crocieristi mezzi pubblici di trasporto dell’ AMAT (società del Comune di Taranto) per passare il loro tempo libero della sosta nel capoluogo jonico. Ma il “sosia” del sergente Garcia (come ormai Melucci viene chiamato a Taranto ) non si è accontentato di vendere servizi portuali ed allora ha costituito una società operante, Bottega Aurea s.r.l. nel settore della progettazione urbanistica, ma questa volta con sede legale a Milano, e sede secondaria nello studio tarantino dell’ architetto-assessore Occhinegro. Guarda caso tutti i soci, consulenti e collaboratori dello Studio Mua, la società dell’architetto Micaela Pignatelli, sono confluiti nella Bottega Aurea di Melucci & Occhinegro, iniziando a prendere consulenze su consulenze profumatamente pagate dal Comune di Taranto, e tutto ciò nel silenzio stridente del Consiglio Comunale di Taranto, ed imbarazzante della Procura di Taranto che sembra essere tornata “dormiente” ancor più di prima, convivendo nel conflitto d’interesse di alcuni magistrati che hanno i rispettivi coniugi coinvolti nella attività societarie di società partecipate dal Comune di Taranto, una vicenda questa di cui si occuperà molto presto il Consiglio Superiore della Magistratura! Nel 2016 l’ architetto Occhinegro con il raggruppamento di professionisti “Cellini” ha partecipato (nel team era puntualmente presente anche l’ architetto Stigliano) al concorso di idee “open Taranto” per la riqualificazione della città vecchia nell’ambito del CIS. Il progetto non risulta tra i vincitori, ma si concretizza un altro conflitto di interessi in quanto adesso l’architetto-assessore Occhinegro da assessore si troverà a gestire la fase operativa della progettualità Cis per la riqualificazione urbana della città vecchia, quanto meno per gli studi di fattibilità tecnica! Da una nostra ricerca abbiamo scoperto anche l’esistenza anche di un incarico del Comune di Taranto all’architetto Fiorella Occhinegro che secondo fonti locali sarebbe la cugina dell” architetto-assessore, con un incarico di “Redazione del progetto definitivo/esecutivo per la realizzazione di playground nella Città di Taranto Progetto “quartieri in Gioco”” per l’importo di 20.500,00 euro. Avremmo voluto fare delle verifiche anagrafiche sulla apparente parentela fra l’assessore-architetto e la signora Occhinegro, ma purtroppo all’ Ufficio Anagrafe del Comune di Taranto non è possibile accedere “causa Covid-19“, così violando la Legge ed interrompendo un pubblico servizio. Nel curriculum vitae pubblico dell’ architetto Marco Stigliano risulta dichiarato di aver ricoperto incarico nel 2019 ad Urban center – Comune di Taranto, nonchè componente del “Team di progetto” della società Bottega Aurea (di Melucci & Occhinegro) insieme al prof. Fallacara anch’egli destinatario di svariati incarichi ricevuti dal Comune di Taranto, con il quale é socio della NFRG (di cui è socio anche Occhinegro – n.d.a. ) , figura come consulente dello Studio Mua (architetto-assessore Occhinegro e consorte). Abbiamo trovato nell’Albo Pretorio del Comune di Taranto una determina di liquidazione incarico in favore di Stigliano per l’ Urban Center. Totale incarico euro 9.979,00. L’architetto è peraltro destinatario anche di svariati altri incarichi ed altre consulenze ricevuti dal Comune di Taranto. L’architetto Giuseppe Fallacara risulta a sua volta incaricato come “Presidente di commissione” per la gara relativa ai progetti del waterfont del Mar Piccolo, ma il suo incarico stranamente… non compare sull’ Albo Pretorio del Comune di Taranto ma l’abbiamo trovato sul sito della Gazzetta Amministrativa. Un altro bel conflitto d’interessi. O forse per i faccendieri del Comune jonico, sono solo “fortuite coincidenze” ? Una cosa è certa : una Procura della repubblica seria, scrupolosa ed attenta alla luce di quanto abbiamo scoperto farebbe delle dovute indagini. Ma forse al posto della Procura di Taranto, potrebbe occuparsene Potenza per indagare a questo punto anche sulla mancate indagini tarantine…e sui conflitti d’interesse che collegano alcuni magistrati degli uffici giudiziari di Taranto all’ Amministrazione Comunale di Taranto.

Giancarlo Cito: «Taranto non mi ha dimenticato». L'ex parlamentare: il feeling resta. Più che negli uomini ho fiducia negli animali. Alberto Selvaggi il 28 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Onorevole, e la chiamo così perché avendo frequentato quella Camera nella legislatura XIII come Giancarlo Cito, il titolo per consuetudine resta. Con o senza vitalizio.

«Pensione è il termine esatto, non vitalizio. Ma io più che deputato della Repubblica italiana, incarico che ho ricoperto dal 1996 al 2001, mi sento soprattutto sindaco di Taranto, fratello della gente. Insomma, una persona che si è impegnata andando in strada al fianco degli altri cittadini per il fatto semplice che ha a cuore i problemi. Siano le buche per le strade, siano le aree deturpate e abbandonate, gli uffici comunali se per caso non lavorano come dovrebbero. Insomma, questioni semplici, concrete, quelle che avete visto, che hanno cambiato Taranto, durante il mio mandato di sindaco».

Sindaco? Fenomeno, direi. Penetrato come un bulldozer nei media che allora erano già le nostre coscienze.

«Beh certamente ho fatto un grande casino, in senso buono, ma il messaggio di cui sta parlando lei si è creato sulla base di fatti veri».

Un sindaco in rivoluzione permanente, come si diceva in altri tempi. Da quel ’93 in cui entrò in Municipio e anche dopo quando guidò chi lo detenne.

«Ci sarà un motivo per il quale ancora oggi la gente mi ferma per strada. E parlo anche di giovani».

Mi vengono in mente il Movimento giovani AT6, la sua ex emittente-partito della quale è rimasta soltanto la sigla politica. Bazooka d’etere con cui centrava i nemici, spesso in dialetto tarantino.

«Vado orgoglioso di quello che ho fatto. Ho lasciato 17 miliardi di lire nelle casse del Comune il primo anno di mandato e il secondo sette. Davo 500.000 lire ai poveracci e ai disabili un milione. Mi domando quanta gente conosca l’attuale primo cittadino, quanto vada per le vie».

Ricordo il suo pappagallo, Paco, se non erro, che le urlava «Ci-tooo» mentre a lui gridava lei.

«Eh, è morto. È stato un vero amico come tutti gli animali, dato che degli uomini a volte puoi fidarti e a volte molto meno. Adesso invece del pappagallo ho il gatto, e poi da un’altra gatta sono nati i gattini».

Ho il gatto pure io. E come amico ha un pappagallo a pile che ripete ciò che gli si dice.

«Non ci siamo capiti: io di gatti ne ho cinque, mica uno. Solo che adesso una ha partorito cuccioletti. Quindi dobbiamo badare un po’ a tutti».

Se il pennuto è perso, sono rimasti i suoi must «Ciccio bello», «qua non ste scritt’ Jocond’ ‘mbrond», «a ca’st t’ tocc’ a scì», che si perpetuano nei video di rapper tarantini.

«Sì, mi hanno detto che internet sta pieno di cose mie, canzoni, filmati e tutto il resto, anche se io non vado molto di computer e telefonini, non ho confidenza».

Tuttavia mantiene un certo profilo ancora adesso, vedi la rissa sfiorata tempo fa durante le proteste di alcuni del Tamburi per l’Ilva.

«Spettava agli industriali sanificare e rendere vivibile l’area a loro spese. Questo io l’ho sempre detto».

E dire che faceva il pompiere, prima di diventare imprenditore edile e poi televisivo, e infine politico, che fa lo stesso.

«Beh, precisamente… (uàaa uàaa!, si ode un lungo suono di sirena)… Un momento, aspetti, non la sento più… Ecco, sta passando, non sono i pompieri, è un’ambulanza, che quando la sento mi vengono i brividi… Allora dicevo, sì sono stato pompiere, come ausiliario e ho salvato delle persone qua a Taranto, ricevendo l’encomio dal ministero dell’Interno. Ho continuato su concorso lavorando all’allora Raffineria Shell».

È sempre stato un movimentista. Menti fini scrivono che ha anticipato quanto è poi diventato identitario della Repubblica presente, dalla politica mediatica alle traversate marine, affrontate in ultimo da Beppe Grillo, ronde, populismo. Guidò in senso antipadano una Marcia su Mantova perfino.

«Sono stato l’unico ad attraversare a nuoto lo Stretto di Messina e ho fatto 50 chilometri da Campo Marino al Ponte girevole».

Sì, unto di grasso di foca come un cotechino e con «In culo alla balena» stampato sulla maglietta.

«Eh-eh-eh, mi passavano appresso i delfini, pure qualche pescecane. Nella corsa a sindaco di Milano arrivai quinto su 15, battendo candidati come Nando dalla Chiesa e Veronica Pivetti. Taranto era tra il quinto e il sesto posto fra le città più vivibili, portai l’Università e la Biblioteca. Dopo è crollata sotto quota cento. Io ero il terzo sindaco più amato d’Italia».

Fra un po’ è il suo compleanno, se ricordo bene.

«Il 12 agosto faccio 75. Gli anni passano per tutti, la regola vale anche per il sottoscritto. Per fortuna la pandemia l’ho attraversata senza problemi».

Che pensa del coronavirus? Esiste? In parte esiste? Crede in tesi complottiste come molti che hanno radici nella destra?

«Certamente bisogna tutelarsi e dobbiamo ringraziare se rispetto a quello che è accaduto al Nord da noi è stato niente. Ma sono ugualmente convinto che si è giocato su una forma di terrorismo psicologico. Quasi quasi ci hanno danneggiato più nella mente che nel fisico. Hanno esagerato e adesso penso che sia il momento di finirla con la psicosi e di tornare a vivere».

Anche lei però, onorevole ex sindaco, ha propensione per l’estremismo. Ha parlato di «negre vestite alla loro maniera» in sedi di immigrati zona via Principe Amedeo, con vicina moschea. Si dice nere, così mi hanno detto.

«Non sono razzista. Noi identificavamo gli immigrati, quando c’ero io, impronte e tutto, ma per la sicurezza. Tutto qui. Credo semplicemente che gli sbarcati vadano aiutati a casa loro, soprattutto quando qui non forniscono identità certa e non rispettano le regole».

Difatti ricordo un marocchino sul Lungomare che nel vederla strabuzzò gli occhi: «Cittooo, Cittooo», schizzando via come una saetta. Sua figlia Antonella s’è candidata con Forza Nuova, il che, mi dicono, sarebbe riprovevole.

«Bah, si tratta di un episodio inutile, non ha senso parlare di roba vecchia».

Cito però è contro sempre. Nel ’79 venne espulso dal Msi perché sconfinava dalla linea.

«E che vuol dire? Quando c’è una realtà che non va bene, la si evidenzia, uno si distacca: che c’entra l’estremismo con questo?».

La chiamarono «sindaco col manganello» perché ne fornì i suoi agenti.

«Sì, ‘nghép. Erano mazzette di segnalazione».

Tra l’altro dimenticarono un piccolo particolare: gli agenti di polizia municipale sono da sempre muniti di pistole semiautomatiche calibro 9, maschi e femmine, per regolamento.

«Appunto, pensi di che preconcetti campano questi».

Però lei collerico è. Nel passato recente ha mandato a quel paese mezzo pianeta da Domenica Live con Barbara d’Urso, su Mattino 5, da La Zanzara con Parenzo alle sue reti Tbm e Super 7.

«E se uno ti invita in trasmissione per infangare e non per farti un’intervista, quale altra reazione si può avere se non difendersi?».

«Pò!» (lo sputo), come faceva lei su At6: chiamate 099 7302535. Su Mediaset il dialogo è degenerato perché la accusavano di pretendere il vitalizio da deputato negatole dopo le condanne che la portarono in cella.

«È una situazione complessa, non c’è ancora un pronunciamento. E poi vuole sapere quanto prendevo? Questo: 2088 euro al mese».

Però la reclusione è stata proficua, pur nella tragedia.

«Mi sono laureato in Scienze giuridiche. In diritto costituzionale mi hanno dato 27. In carcere veniva la commissione d’esame a bella posta per me».

Da sindaco geometra a laureato onorevole.

«Suona diverso».

La Marina smentisce la Confcommercio Taranto ed i soliti “ventriloqui”. Il Corriere del Giorno il 6 Giugno 2020. Le procedure d’acquisto di generi alimentari della Marina Militare sono aderenti alla normativa europea e nazionale l’istruttoria (amministrativa e non giudiziaria n.d.r.), citata nell’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno, in realtà è stata avviata automaticamente dall’ANAC a seguito di un’istanza presentata da due Ditte che peraltro non erano neanche partecipanti alla procedura di affidamento! Con una nota stampa, sollecitata anche da una richiesta ufficiale di chiarimenti avanzata dal CORRIERE DEL GIORNO, l’Ufficio Pubblica Informazione della Marina Militare ha emesso ieri una nota ufficiale che riportiamo integralmente di seguito. “La Marina Militare tiene a precisare che l’acquisto di derrate alimentari si basa su disposizioni regolamentate da Decreti Legislativi e Ministeriali ben noti agli operatori di settore, che privilegiano, come sancito dal D.M. 25.7.2011 del Ministero dell’Ambiente circa l’obbligo di adozione dei Criteri Minimi Ambientali, l’incremento degli standard qualitativi del servizio offerto a favore del personale, prevedendo ampio ricorso alla produzione biologica e a prodotti IGP, DOP e STG (Specialità Tradizionale Garantita) in percentuali minime ben definite. La procedura in esame, condotta in ambito comunitario, ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. n. 50/2016, suddivisa in trentacinque lotti, finalizzata in Accordi Quadro con un unico operatore economico per ciascun lotto, ai sensi dell’art. 54, comma 3 del citato D.lgs. 50/2016, recepisce le modalità di acquisizione e le tipologie dei generi alimentari prevedendo ampio ricorso alla produzione biologica e a prodotti IGP, DOP e STG. Nello specifico, per i settori merceologici citati nei sopra menzionati articoli, il para 6.3.1 dell’allegato 1 al citato D.M., prevede, sintetizzando che frutta, verdure e ortaggi, legumi, cereali, pane e prodotti da forno, pasta, riso, farina, patate, polenta, pomodori e prodotti trasformati, formaggio, latte UHT, yogurt, uova, olio extravergine devono provenire:

per almeno il 40% espresso in percentuale di peso sul totale, da produzione biologica;

per almeno il 20% espresso in percentuale di peso sul totale, da “sistemi di produzione integrata” (con riferimento alla norma UNI 11233:2009), da prodotti IGP, DOP e STG.

La Carne deve provenire per almeno il 15% in peso sul totale, da produzione biologica, per almeno il 25% in peso sul totale, da prodotti IGP e DOP.

Il Pesce deve provenire per almeno il 20%, espresso in percentuale di peso sul totale, da acquacoltura biologica o da pesca sostenibile.

“Ne consegue che una compiuta comparazione – continua la nota – tra gli Accordi Quadro e i precedenti strumenti negoziali adottati a livello locale non può essere effettuata esclusivamente sul prezzo di alcuni articoli, ma deve includere anche pertinenti valutazioni sulle caratteristiche merceologiche dei prodotti e sulle condizioni di esecuzione”. “La procedura di affidamento per tutte le basi M.M. conclusa in data 20.1.2020 senza alcun ricorso ai competenti Tribunali Amministrativi Regionali avverso l’aggiudicazione – è stata effettuata nella massima trasparenza e conformemente alle norme in vigore. In particolare, con riferimento all’inciso di cui all’articolo del 3.6.2020 circa una presunta “pubblicazione semi-nascosta del bando”, si precisa che i bandi di gara sono stati pubblicati sulle Gazzette Ufficiali dell’Unione Europea ed Italiana, sul sito ufficiale della Marina Militare e su 16 quotidiani nazionali e locali. Gli Accordi Quadro discendenti dai bandi di gara sono stati sottoposti, con esito positivo, al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti. La procedura di affidamento della Marina Militare era stata effettuata conformemente alle prescrizioni del D.lgs. n. 50/2016 con pubblicazioni del relativo bando di gara pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea 2019/S 169-412460 in data 03.09.2019 e successiva rettifica 2019/S 172-419725 in data 06.09.2019; sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – 5^ Serie Speciale n. 106 in data 09.09.2019; sul sito informatico della Marina Militare, di Acquisti in rete PA, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell’A.N.AC.; e per estratto, su 16 quotidiani a carattere nazionale e locale (tra i quali “La Gazzetta del Mezzogiorno-Edizione Brindisi” e “La Gazzetta del Mezzogiorno-Edizione Taranto”) . La procedura di cui trattasi si è conclusa in data 20.1.2020 e avverso l’aggiudicazione non è stato avanzato ricorso ai competenti Tribunali Amministrativi Regionali. Guarda caso è stata proprio l’ edizione locale della Gazzetta del Mezzogiorno (Salento – Brindisi, Lecce e Taranto) del giornale pugliese che sta “cavalcando” le pressioni della Concommercio Taranto, il cui presidente Leonardo Giangrande guarda caso…. è socio della Supercentro s.p.a. attività commerciale nel settore della distribuzione alimentare controllata da Paolo Michele Macripò zio del giornalista Mimmo Mazza, caposervizio della redazione di Taranto , autore e firmatario degli articoli con cui si ipotizzano delle illegalità nell’aggiudicazione da parte della Marina Militare degli appalti in questione. Peraltro l’istruttoria (amministrativa e non giudiziaria n.d.r.), citata nel medesimo articolo a firma del Mazza, è stata avviata automaticamente dall’ANAC a seguito di un’istanza presentata da due Ditte che peraltro non erano neanche partecipanti alla procedura di affidamento! L’ANAC quindi rispettando le procedure previste dalle disposizioni del proprio Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici, ha soltanto richiesto alla Marina Militare di fornire elementi di riscontro a quanto rappresentato dagli operatori commerciali che non hanno neanche gareggiato…Per quanto alla “mozzarella pugliese”, essa fa parte di un elenco di generi aggiuntivi (ma obbligatori in determinate percentuali in ottemperanza ai citati Criteri Ambientali Minimi) il cui prezzo di riferimento va confrontato con prodotti merceologici delle analoghe categorie IGP, DOP e STG. In ogni caso, il listino integrato nel contratto offre molteplici alternative di generi analoghi.

A quando adesso il prossimo articolo della Gazzetta del Mezzogiorno “telepilotato” ? Sempre che non chiuda per il prossimo imminente fallimento della testata, scesa ai minimi storici non solo per autorevolezza ma anche per diffusione, vendendo solo 14mila copie al giorno fra la Puglia e Basilicata in un bacino di circa 5 milioni di cittadini ivi residenti.

Taranto, mense della Marina: l'Anac apre fascicolo. Nel mirino il maxi-appalto per oltre 32 milioni di euro. Mimmo Mazza il 03 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Finisce sotto i riflettori dell’Autorità nazionale anti-corruzione la procedura sul bando di gara - gestito dagli uffici di Roma - per la fornitura di derrate alimentari per le mense della Marina Militare. La vicenda, sollevata dalla Gazzetta e poi rilanciata da Confcommercio Taranto, alla prova dei fatti si sta rivelando un vero e proprio bagno di sangue economico per le casse pubbliche, con prodotti pagati a peso d’oro, come dimostrano le mozzarelle pugliesi per le quali è spuntata dai listini l’astronomica cifra di 17 euro al chilo. Nel corso del tempo sono emerse varie criticità. Il primo scontro fu sulla difficoltà di trovare il bando sui consueti canali. «La gara, suddivisa in trentacinque lotti, e finalizzata alla conclusione di accordi quadro con un unico operatore economico per ciascun lotto, riguarda l’appalto - replicò però la forza armata dopo l’articolo pubblicato dal nostro giornale - per la fornitura di derrate alimentari a favore delle mense della Marina Militare a gestione diretta e mista (nelle aree di Taranto, Brindisi, Sardegna, Venezia, Sicilia, Roma e La Spezia). La procedura utilizzata, al fine di assicurarne la massima pubblicità, è pienamente in linea con le disposizioni di legge». A Confcommercio erano pervenute numerose segnalazioni da parte degli operatori del settore alimentare in merito alle procedure del bando di gara per la fornitura di derrate alimentari per le mense a gestione diretta/mista della Marina Militare. In particolare, numerose furono le richieste di chiarimenti portate all’attenzione dell’amministrazione aggiudicatrice, aventi ad oggetto la manifesta difficoltà, anzitutto di sapere delle procedure in considerazione e poi di reperire la documentazione di gara; traducendosi, di fatto, nell’impossibilità, per molte imprese, di partecipare agli iter amministrativi in argomento. Per 17 lotti, l’appalto è stato aggiudicato alla Ricci srl Forniture Alimentari di Cesenatico, partecipante unica per ben 10 dei 17 lotti, per un valore complessivo di oltre 32 milioni di euro, con un ribasso bassissimo, in ordine dell’1-2 per cento. La pressoché totale assenza di concorrenza ha fatto sì che l’esiguo ribasso operato dall’operatore risultato vincitore sta comportando l’obbligo per la Marina Militare di acquistare prodotti a prezzi sensibilmente superiori a quelli soliti ed a quelli che sarebbero risultati da un normale confronto concorrenziale che sarebbe stato sicuramente garantito da una regolare pubblicazione degli avvisi nell’apposita sezione dedicata agli accordi quadro. Un report riservato di un reparto di Taranto, ad esempio, segnala un aumento della spesa che oscilla, per i vari lotti, tra il 20 e il 110%, fatto che comporterà a breve una considerevole riduzione del quantitativo di merce ordinabile, con significative ripercussioni sulla qualità del servizio offerto ai commensali. Una parte consistente dell’appalto riguarda, d’altronde, la fornitura di prodotti ittici surgelati/freschi, verdure surgelate, semilavorati per la sede di Taranto della Marina Militare, un appalto storicamente molto ricercato dalle ditte tarantine che però, questa volta, non hanno partecipato alla gara perché - fu detto all’epoca - il relativo bando non era stato visibile nel link solitamente usato dalla forza armata nella sezione dedicata del proprio sito web, ovvero appunto i cosiddetti accordi quadro, ma, invece, in un’altra sezione (ma la Marina, lo ribadiamo, ha rivendicato il rispetto delle norme). Il ricorso al sub-appalto è vietato dal disciplinare di gara ma nei giorni scorsi sarebbero spuntati diversi contratti di fornitura con aziende già appaltanti della Marina. Ora l’Anac ha deciso di vederci chiaro, aprendo formalmente una istruttoria con la quale chiede alla Marina Militare e al Ministero della Difesa chiede chiarimenti sulle modalità di pubblicazione del bando, sullo stato attuale della procedura di affidamento, sulle determinazioni della stazione appaltante in ordine ai lotti non aggiudicati, sullo stato dell’esecuzione del servizio e la regolare esecuzione da parte degli aggiudicatari di più lotti.

Taranto, le mani degli ex «Sacra Corona Unita» sulle riprese del film prodotto da Fandango. Il produttore di Rubini chiarisce: non sapevamo della loro presenza sul set. Mimmo Mazza il 05 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Compariranno oggi in videoconferenza dinanzi al gip Edoardo D’Ambrosio i sette tarantini finiti in carcere l’altra mattina nell’ambito dell’inchiesta della Guardia di Finanza denominata «Tabula Rasa». I militari delle Fiamme Gialle ritengono di aver sgominato un sodalizio criminale di stampo mafioso, operante nella provincia jonica, dedito al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, al contrabbando di tabacchi. Le indagini hanno accertato che i due fratelli Tonino e Aldo Sambito, già appartenenti allo storico sodalizio criminale di stampo mafioso «Sacra Corona Unita», hanno proseguito negli ultimi anni l’attività criminale nell’area tarantina unitamente ad altri sodali. Tra i capi di imputazione, c’è l’imposizione alla casa cinematografica Fandango - che aveva realizzato le riprese del film «Il Grande Spirito» di Sergio Rubini per alcune settimane a Taranto - la guardiania a cura dei propri sodali dei mezzi e delle attrezzature utilizzate. La Fandango in una nota precisa di aver «operato come sempre nel pieno rispetto della normativa e delle procedure, in assoluta buona fede e ottemperando alle indicazioni delle autorità locali, senza in alcun modo prevaricare diritti di terzi e/o corrispondere a chicchessia illecite dazioni di denaro o altre utilità, né tantomeno cercare o sollecitare contatti con esponenti della criminalità organizzata locale». La società di Domenico Procacci fa sapere, inoltre, che «dalle prime verifiche interne è emerso che, tra le centinaia di persone ingaggiate sul set, due di queste risultano tra coloro che sono stati arrestati nell’ambito dell’operazione citata. Dei rapporti tra queste persone e il clan Sambito apprendiamo solo ora dalle notizie di stampa. Restiamo a disposizione della autorità giudiziaria per qualunque approfondimento ritenessero necessario».

Mafia, 11 arresti a Taranto: imposero "protezione" per il film di Sergio Rubini. All'associazione criminale sarebbero stati affidati diversi compiti dalla casa di produzione. Fandango: "Noi abbiamo sempre agito nel rispetto della legge e in buona fede". La Repubblica il 3 giugno 2020. La Guardia di Finanza di Taranto, a conclusione di indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura di Lecce, ha eseguito un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 11 indagati, di cui 8 persone finite in carcere. Nell'indagine risultano inoltre 46 indagati. Il provvedimento rappresenta l'epilogo dell'operazione "Tabula Rasa" che ha sgominato un sodalizio criminale di stampo mafioso, operante nella provincia jonica, dedito al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, al contrabbando di tabacchi. La "forza intimidatrice" della presunta associazione mafiosa capeggiata dai fratelli tarantini Antonio e Cataldo Sambito secondo gli inquirenti è testimoniata anche dall'aver indotto la casa cinematografica Fandango di Roma a rivolgersi al sodalizio per ottenere il servizio di guardiania a mezzi e attrezzature durante le riprese del film "Il grande spirito" per la regia di Sergio Rubini con attori protagonisti lo stesso Rubini e Rocco Papaleo. La casa di produzione avrebbe chiesto e ottenuto, "tramite un proprio rappresentante esterno, il contatto telefonico - è detto nell'ordinanza di custodia cautelare - di Sambito Antonio (in quanto riconosciuto essere il referente della criminalità organizzata per il quartiere Tamburi), al quale venivano avanzate tutte le richieste necessarie per la realizzazione del film: guardiania delle attrezzature di proprietà della casa di produzione, messa a disposizione di aree comunali ove effettuare le riprese, aree di parcheggio dei mezzi aziendali, l'interlocuzione con i proprietari e/o amministratori di condomini degli edifici interessati alle riprese televisive". Il clan, in cambio "sia di denaro che di un controllo monopolistico del reclutamento delle comparse", garantiva "la piena realizzazione di quanto richiesto", tra cui, si aggiunge nell'ordinanza, "la piena acquiescenza dei proprietari degli edifici sui cui lastrici solari dovevano essere svolte le riprese, assicurate anche mediante l'uso della minaccia". In tal modo veniva assicurata, spiega ancora il gip,  "la pacifica interlocuzione con altre famiglie criminali, esponenti di spicco di diversa area territoriale, per le riprese da effettuare in una zona diversa dal quartiere Tamburi; e la perimetrazione (abusiva per non essere stato emesso alcun provvedimento dal parte del comune di Taranto), mediante l'utilizzo di transenne, di ampie aree comunali ove venivano allocati i mezzi della produzione ovvero le attrezzature per l'allestimento del set cinematografico". La Fandango, nel corso delle riprese del film "Il Grande Spirito" di Sergio Rubini girato a Taranto, ed in particolare nel quartiere Tamburi "ha operato come sempre nel pieno rispetto della normativa e delle procedure, in assoluta buona fede e ottemperando alle indicazioni delle autorità locali, senza in alcun modo prevaricare diritti di terzi e/o corrispondere a chicchessia illecite dazioni di denaro o altre utilità, né tantomeno cercare o sollecitare contatti con esponenti della criminalità organizzata locale". La società di Domenico Procacci lo precisa rispetto alla notizia dell'operazione "Tabula Rasa" che ha portato agli arresti. "Dalle prime verifiche interne è emerso che, tra le centinaia di persone ingaggiate sul set, due di queste risultano tra coloro che sono stati arrestati nell'ambito dell'operazione citata. Dei rapporti tra queste persone e il clan Sambito apprendiamo solo oggi dalle notizie di stampa. Restiamo a disposizione della autorità giudiziaria per qualunque approfondimento ritenessero necessario". L'associazione criminale capeggiata dai due fratelli, grazie all'incontrastata egemonia esercitata nel quartiere Tamburi di Taranto, esercitava un significativo controllo sulle attività lecite del territorio jonico preservando così l'egemonia dell'associazione mafiosa di origine. In un'altra occasione, nel 2018, invece è stato acclarato il procacciamento di voti in occasione delle consultazioni elettorali indette per le elezioni comunali del capoluogo. La forza dell'associazione ha trovato evidenza anche nel vedere il capo indiscusso assunto in un'azienda pubblica nonostante i rilevantissimi precedenti penali, ricoprendo, di fatto, mansioni superiori a quelle spettanti in modo da poter ottenere, in soli 10 anni, una progressione dal I al VI livello, assumendo potere anche nei confronti delle società private di cui condizionava le scelte in forza dell'incarico ricoperto, oltre che della riconosciuta pericolosità criminale.

Così i Sambito controllavano il “loro” territorio. Taranto Buonasera giovedì 04 Giugno 2020.  Anche la produzione del film di Sergio Rubini si sarebbe rivolta al gruppo malavitoso. “Non facevamo toccare i cristiani buoni! Non facevamo toccare i cristiani. Il quartiere deve stare pulito, i cri­stiani buoni non devono essere toccati…non li devono toccare! Il quartiere deve stare sempre… poi mò…Eh… mò le nuove gene­razioni… cioè uno dice va bene, ma chi me la fa fare. E uno si ritira, e uno si ritira, però dico­no quelli l’importante è che non ci pestano i piedi…”. Parole di Antonio Sambito. Una visione da capo del territorio, quella che emerge dall’ordinanza di custo­dia cautelare alla base dell’ope­razione Tabula Rasa. Come si legge nelle oltre trecento pagine dell’ordinanza, Antonio Sam­bito faceva riferimento al grup­po di uomini che capeggiava come “la paranza mia” e tra i suoi grattacapi c’erano anche i cosiddetti “cani sciolti”, “gua­gliuncelli” non legati a consor­terie strutturate, che conosceva­no i boss del territorio solo per la loro fama, ma non ‘de visu’, e che però quando, trovandosi al loro cospetto, apprendevano chi fossero, subito rientravano nei ranghi. Che i Sambito fossero “punto di riferimento” nel terri­torio dei Tamburi gli inquiren­ti lo argomentano raccontando anche un episodio, quello rela­tivo alla “guardiania per una casa di produzione cinemato­grafica impegnata a Taranto”. Siamo nel 2017, il film è quel­lo diretto da Sergio Rubini, Il Grande Spirito. Secondo quan­to ricostruito dagli investigatori e riportato dall’ordinanza: “La casa di produzione si rivolgeva direttamente ad Antonio Sanbi­to sia per un servizio di guar­diania delle attrezzature di scena che per ottenere la dispo­nibilità di taluni spazi pubblici cittadini aggirando le dovute autorizzazioni comunali”. Ri­cordando quanto accaduto anni addietro in Città Vecchia, con il famoso episodio di tentata estorsione ai danni della troupe di Lina Wertmuller, è sempre il gip D’Ambrosio a scrivere che, a seguito di quella vicenda “emergeva come fosse prassi consolidata da parte delle Case di Produzione rivolgersi a per­sone in grado di poter fornire loro una sorta di copertura in taluni quartieri ad alto tas­so criminale”. E Sambito “era stato indicato – verosimilmente da terze persone, allo stato non individuate – come persona in grado di ‘fornire assistenza’ sia per la ricerca di siti idonei alle riprese da effettuare, che per poter contattare le persone (proprietari, capi condòmini ed amministratori di immobili di zona) allo scopo di consentire l’accesso ai lastrici solari degli immobili dai quali poi sarebbe­ro state girate le scene”. Sam­bito stesso avrebbe ‘delegato’ il suo braccio destro Claudio Pu­gliese che in una intercettazio­ne dice “…loro mi pagano per la sicurezza loro, sui Tamburi, eh! [] io devo stare con loro per tutta la girata del film… questo è scontato”. Proprio ‘l’indotto’ del film sarebbe uno tra gli epi­sodi che “avrebbero fomentato l’astio tra il clan Sambito ed il gruppo di Nicola De Vitis” an­nota il gip che poi rileva come “allorquando nascevano delle criticità gli uomini della Pro­duzione si rivolgevano al clan, in persona di Claudio Puglie­se”. Il gruppo criminale – scrive ancora il giudice D’Ambrosio – avrebbe provveduto “a sgom­brare e transennare tratti di strada, allo scopo di consentire ai mezzi della produzione di po­ter parcheggiare ed allestire il set per le riprese sostituendosi molto spesso alla locale Am­ministrazione comunale che, in tale modo, non veniva per nulla interessata per la richie­sta – pur obbligatoria – dei vari permessi ed autorizzazioni che potessero consentire la chiusu­ra temporanea di tratti di stra­da, e la deviazione dei flussi di traffico veicolare”. “Appariva quindi evidente come, nel caso di specie, il gruppo Sambito si sia sostituito alle Amministra­zioni statali nella gestione di attività ad esse istituzionalmen­te demandate e la cui surroga­zione costituisce certamente un atto di abuso ma allo stesso tempo un’affermazione di pote­re soprattutto agli occhi della popolazione residente che così ne può riconoscere l’autorevo­lezza” scrive il gip. La casa di produzione del film non è oggetto di indagine.

"Quelli di Manduria non sanno niente", l'oscura intercettazione nell'inchiesta "Tabula rasa". Tra le numerosissime intercettazioni ambientali trascritte nelle 350 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Edoardo D’Ambrosio, ce n’è solo una che tira in ballo personaggi manduriani. La Voce di Manduria sabato 06 giugno 2020. Cosa ha legato esponenti della criminalità organizzata tarantina coinvolti nell’inchiesta “Tabula rasa” con Manduria? C’era un ponte tra la città Messapica e il sodalizio criminale di stampo mafioso, operante nella provincia jonica scompaginato dalla Guardia di Finanza di Taranto che mercoledì scorso ha notificato 11 ordinanze di custodia cautelare firmati dal gip del Tribunale di Lecce su richiesta della Direzione distrettuale antimafia della Procura salentina, nei confronti di altrettanti pregiudicati tarantini, due dei quali ritenuti far parte della sacra corona unita? Tra le numerosissime intercettazioni ambientali trascritte nelle 350 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Edoardo D’Ambrosio, ce n’è solo una che tira in ballo personaggi manduriani di difficile identificazione. A pagina 103 è riportato il dialogo tra Claudio Pugliese, tra gli arrestati del blitz delle fiamme gialle e tra i maggiori indiziati, e un altro personaggio non indagato nell’inchiesta. L’oggetto della conversazione riguarda una gara della Sud Est per la guardiania notturna. Il compito è quello di contrastare i continui furti di cavi elettrici che avvengono lungo la rete ferroviaria. I due personaggi intercettati che sono alle dipendenze della Poligal, società affidataria del servizio in questione, scoprono che la nuova gara è stata aggiudicata da un’altra ditta. L’uomo chiama il pregiudicato Pugliese e lo informa che «la Poligal» ha perso l’appalto dei cavi! «L’appalto dei cavi! Siamo rimasti tutti senza lavoro, non sto scherzano eh! Non sto scherzando!», dice il primo a Pugliese che rimane interdetto pensando ad uno scherzo. Ma l’interlocutore insiste specificando che tutto era avvenuto quella mattina e che allo stato era solo lui a saperlo. A questo punto della telefonata viene fatto cenno a misteriosi manduriani interessati anche loro alla vicenda. A parlare è il collega del pregiudicato arrestato. Il militare addetto alla intercettazione trascrive così quel dialogo concitato: «Ehhhh, è successo tutto stamattina, qua vicino a me sta Davide, sta Alberto, lo sappiamo solo noi di Taranto, quelli di Manduria non sanno niente … stiamo fuori, da domani non si lavora più, Clà, la verità, non sto scherzando eh, non è uno scherzo». La telefonata risale a febbraio del 2018. Dopo quella conversazione, scrivono gli investigatori, «sarebbe emerso che alcuni ex dipendenti della Poligal avrebbero organizzato una serie di sabotaggi delle linee di pertinenza di Ferrovie Sud Est, site in agro di Statte, con l'intento di screditare la nuova impresa di vigilanza vincitrice della gara d'appalto del gennaio 2018, allo scopo di far rientrare nel servizio la società “La Multiservizi” (ex Poligal) e conquistare nuovamente il loro posto di lavoro». Chi erano quindi i manduriani che avrebbero dovuto sapere la notizia perché interessati all’esito della gara? Che ruolo avrebbero nell’affare? Semplici dipendenti o soci in affari della società di vigilanza? Per comprendere l’importanza di sapere di più su questo possibile «filo rosso» che collegherebbe Manduria con la malavita tarantina, serve tracciare il profilo criminale dei protagonisti della telefonata in cui si fa riferimento ai «manduriani». Claudio Pugliese, scrive il gip, «con ruolo di organizzazione in quanta uomo di massima fiducia dei fratelli Antonio e Cataldo Sambito (ritenuti affiliati alla Scu, Ndr), con il compito di sovrintendere, esercitando pregnante potere di direzione ed organizzazione, alle attività illecite della consorteria nel quartiere Tamburi, dedita al traffico organizzato di sostanze stupefacenti, al contrabbando di tabacchi lavorati esteri ed al controllo del territorio, perseguito anche con condotte minacciose ed attraverso il possesso di armi».

“Monnezzopoli bis”. Ecco le nuove accuse della Procura di Taranto alla “cricca” di Tamburrano ed Albanese. Antonello De Gennaro l'11 Settembre 2020 su Il Corriere del Giorno. Ecco l’avviso di conclusione d’indagine del secondo troncone dell’inchiesta T-Rex della Guardia di Finanza che hanno portato in carcere l’ex-presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano ed altre 6 persone. E questa volta esce finalmente fuori il nome della “gola profonda” che contribuì al tentativo di danneggiare le indagini della Guardia di Finanza: l’ imprenditore Antonio Albanese, “patron” della CISA spa di Massafra. Era il 19 marzo 2019 quando il CORRIERE DEL GIORNO, fu l’ unico organo d’informazione a rivelare fra il silenzio omertoso della “cricca giornalistica” tarantina a libro paga, il coinvolgimento del noto imprenditore di Massafra, Antonio Albanese meglio noto a Massafra con il soprannome “Surgicchio“ (citato peraltro anche negli atti) nell’ inchiesta “T Rex” condotta dalla Guardia di Finanza di Taranto su delega della Procura di Taranto. Il nome è “pesante” non solo fisicamente e finanziariamente, distribuendo pubblicità palese ed occulta ai quotidiani locali ed i siti web tarantini che si guardano bene dal farne il nome, venendo “riforcillati” dalla pubblicità delle sue aziende, come la CISA spa di Massafra e l’ Hotel Casa Isabella di Mottola in provincia di Taranto. Quel nome il CORRIERE DEL GIORNO come i nostri lettori ben sanno, non hanno mai avuto problemi a farlo non avendo mai ricevuto pubblicità o finanziamenti da Albanese, a partite dalla vicenda della scomparsa del boschetto di Massafra. Un giornalista della redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno tale Mimmo Mazza (il cui nome compare negli atti dell’inchiesta, citato dai finanzieri, per la sua vicinanza alla “cricca della spazzatura” n.d.a.) arrivò in passato con un suo “articoletto”  ad accusare “Striscia la Notizia” di cercare audience , amplificando la storia del boschetto massafrese scomparso, una scomparsa che… piccolo particolare aveva consentito al suo “amico” Albanese di ottenere un’autorizzazione necessaria per il raddoppio dello stabilimento Appia Energy (51% Gruppo Marcegaglia, 49% Gruppo Cisa) . Coincidenze ? Per la Procura di Taranto, tutto ciò è sembrato proprio più che una coincidenza, ed Albanese è finito sotto processo! Non a caso il pm Mariano Buccoliero, ha ottenuto il processo nei confronti nei confronti dell’imprenditore Albanese, quale rappresentante legale della società Appia Energy, insieme a Luigi Traetta dirigente dell’ufficio di Urbanistica del Comune di Massafra, ed i verificatori  Saverio Riccardi e Anna Cecca verificatori incaricati dal Consiglio di Stato.  Albanese nel processo sul “boschetto” scomparso è chiamato a rispondere del reato di “distruzione di bellezze naturali” (art. 734 C.P)  e di “falso ideologico” (art. 479 C.P) in concorso con gli altri indagati coinvolti. Autorizzazione che è stata revocata in autotutela dall’ente pubblico in questione. Adesso Albanese dovrà rispondere di accuse molto gravi, mosse dal pm Enrico Bruschi e dall’aggiunto Maurizio Carbone, che partono dal reato di “favoreggiamento” (art. 378 c.p.), a quello di “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio” (art. 326 c.p.), “concorso in reato continuato” (art. 81 c.p.), e “concorso di persone nel reato” (art. 110 c.p.). E non solo. “Surgicchio” dovrà rispondere anche di “corruzione per reato contrario agli atti d’ufficio” (art. 326 c.p.) svolti dal finanziere Giuseppe Marzella, beneficiario di un consistente sconto …. di 50mila euro sull’acquisto di una villetta a Massafra, cedutagli dalla CISA s.p.a. , oltre che anche in questo caso di “concorso in reato continuato” (art. 81 c.p.), e “concorso di persone nel reato” (art. 110 c.p.). Non a caso il nostro giornale non è mai stato smentito, non ha mai ricevuto alcuna richiesta di rettifica ai sensi di Legge sulla stampa da nessuno dei “protagonisti” di queste vicende processuali, compreso Albanese. E quindi continuiamo a fare come sempre informazione libera ed indipendente. Tonino Albanese aveva un “finanziere” di fiducia, intimo amico di suo cognato, tenente colonnello in servizio a Bari con cui passano le vacanze insieme con le rispettive mogli, che prestava servizio in sala ascolto (dove vengono effettuate le intercettazioni n.d.r.) e così in grado di dare informazioni vitali alla “cricca della spazzatura“. E’ questo il motivo che ha indotto i suoi superiori e la magistratura ad indagare l’imprenditore e il maresciallo della Fiamme Gialle (ora trasferito) Giuseppe Marzella per rivelazione di segreto istruttorio e corruzione. Ma non solo. L’imprenditore massafrese secondo le accuse della Procura ha venduto giugno 2017 al finanziere Marzella un immobile per la somma di 210mila euro mentre secondo gli accertamenti dell’accusa, il valore reale dell’immobile era di 258mila euro. Un “risparmio” del 20% , per circa 50 mila euro, come verificato e contestato dagli investigatori che ritengono che quei 48mila euro in meno sarebbero il premio che Albanese avrebbe riconosciuto a Marzella per ottenere delle informazioni sensibili e preziose. Dagli atti dell’ inchiesta si legge infatti che quel risparmio sarebbe servito a Marzella per “porsi a disposizione di Albanese Antonio per compiere atti contrari ai doveri d’ ufficio ed inerenti alle funzioni ed al servizio e per rivelare ad Albanese Antonio il contenuto di atti di indagine nella sua qualità di maresciallo in servizio presso il Comando Provinciale della Guardia di Finanza”. Secondo i finanzieri che lavorano sull’inchiesta T-Rex, il maresciallo Marzella avrebbe rivelato a Tonino Albanese notizie riservate sull’indagine e sulle intercettazioni telefoniche nei confronti di Martino Tamburrano e degli altri, l’imprenditore avrebbe poi riferito tutto a Roberto Natalino Venuti uomo di fiducia della società bresciana Linea Ambiente s.r.l.. Il maresciallo Marzella infatti, come si evince dagli atti d’inchiesta “violando i doveri inerenti alle funzioni ed al servizio ed abusando della sua qualità, riferiva ad Albanese Antonio che, a sua volta, lo riferiva a Venuti Roberto Natalino, che erano in corso intercettazioni telefoniche ed ambientali nei confronti del suddetto Venuti Roberto Natalino e di Lonoce Pasquale, cosi aiutandoli ad eludere le investigazioni dell’autorità“. Tutto ciò è emerso da una serie di intercettazioni. A partire dalla prima del 12 luglio 2018, quando Pasquale Lonoce informava l’ex presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano di aver aver avuto un incontro il giorno prima con il Venuti il quale «in stato di agitazione gli aveva riferito testualmente che sono stato, dice, mi ha fermato Tonino Albanese… state… stai attento, io te lo sto dicendo che tu, il Presidente e Pasquale Lonoce, siete intercettati, eh”. La chiusura delle indagini della Procura è stata notificata anche a Federico Cangialosi (ex Presidente dell’ AMIU Taranto) ed a Cosimo Natuzzi (dirigente di AMIU Taranto) , i quali rispondono delle accuse di aver turbato d’accordo con il Tamburrano la regolarità della gara per l’affidamento del servizio integrato di igiene urbana ed ambientale al Comune di Sava favorendo la società Universal Service snc di San Marzano di Giuseppe, riconducibile alla famiglia Lonoce. Ma tutto ciò è stato vanificato successivamente anche dal tempestivo e provvidenziale annullamento in autotutela dell’aggiudicazione illegittima della gara, da parte del sindaco di Sava avv. Dario Iaia, il quale era assolutamente estraneo al giro di “mazzette” e quindi non a conoscenza di quanto invece stava accadendo alle sue spalle a danno dell’ Amministrazione comunale guidata. Fra i destinatari dell’ avviso di conclusione delle indagini della Procura compare anche il sindaco di San Marzano Giuseppe Tarantino, ex parlamentare di Forza Italia il quale, poco prima della sua elezione come sindaco, avrebbe dato un lungo elenco di persone da assumere (ottenendo prima e dopo la campagna elettorale il voto dei neo assunti) all’imprenditore Lonoce, il quale gestiva per l’ amministrazione comunale guidata da Tarantino il servizio di raccolta rifiuti. Ed adesso per la “cricca della spazzatura” un nuovo processo è dietro l’angolo.

 “Operazione Tabula Rasa”. La Finanza arresta 11 persone a Taranto per associazione mafiosa. Il Corriere del Giorno il 3 Giugno 2020. Arresti operati dalla Guardia di FInanza per associazione mafiosa, traffico di droga, e scambio di voto politico-mafioso L’operazione appena conclusa testimonia come la Finanza nonostante l’attuale contesto emergenziale, continui a dedicare la massima attenzione al contrasto delle organizzazioni criminali, anche di matrice mafiosa, a tutela dell’ economia legale della provincia tarantina. Tutti i politici ed i dirigenti comunali coinvolti e collusi con la mafia tarantina. Le Fiamme Gialle del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto guidate dal Tenente Colonnello Marco Antonucci , a conclusione di indagini di polizia giudiziaria coordinate dal pm Milto De Nozza  Procura della Repubblica di Lecce – Direzione Distrettuale Antimafia, hanno eseguito nella mattinata un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 11 persone indagate, di cui 8 sono state tradotte in carcere, ed 1 posto agli arresti domiciliari, e 2 con obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria. Il provvedimento, emesso dal G.I.P. dr. Edoardo D’Ambrosio del Tribunale di Lecce, rappresenta l’epilogo dell’operazione “Tabula Rasa” che ha consentito di sgominare un sodalizio criminale di stampo mafioso, operante nella provincia jonica, dedito al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, al contrabbando di sigarette estere, attività perpetrate anche attraverso la detenzione illecita di armi e munizioni. Gli arresti sono stati eseguiti a Taranto, principalmente nei quartieri Tamburi e Tramontone. Nel corso delle indagini è stata accertato che due fratelli tarantini, Antonio e Cataldo Sambito rispettivamente di 49 e 51 anni anni,  (difesi dall’ avv. Salvatore Maggio del foro di Taranto) già appartenenti allo storico sodalizio criminale pugliese di stampo mafioso denominato “Sacra Corona Unita”, hanno proseguito negli ultimi anni l’azione delittuosa nell’area tarantina unitamente ad altri sodali, avvalendosi di una nuova forma di intimidazione, non più predatoria e violenta, ma silente e simbiotica rispetto al contesto sociale di riferimento. Oltre ai fratelli Sambito, sono stati arrestati i pregiudicati Claudio Pugliese. 48 anni, ed Angelo Lupoli, (ai quali viene contestato il reato associativo 416-bis.), Giuseppe Gentile di 42 anni,  Giovanni Giuliani di 53 anni, Luca Guarino di 44 anni, Emanuele Raffo di 44 anni, Domenico Salamina di 31 anni. Agli arresti domiciliari Cosimo Simonetti. L’associazione mafiosa aveva dimostrato di saper imporre la propria presenza anche nei confronti di esponenti di altri clan storici del capoluogo ottenendone il riconoscimento, anche in maniera violenta, nei casi in cui alcuni comportamenti erano stati valutati come irrispettosi . L’attività investigativa svolta dalla Fiamme Gialle ha consentito poi di svelare come la compagine criminale, capeggiata dai due fratelli Sambito, grazie alla loro incontrastata egemonia malavitosa esercitata nel quartiere Tamburi di Taranto, esercitasse un significativo controllo sulle attività lecite del territorio jonico preservando così l’egemonia dell’associazione mafiosa di origine. In tale direzione è stato infatti accertato, in un caso, che la compagine criminale aveva imposto alla società di produzione cinematografica “Fandango” del produttore Domenico Procacci di origini pugliesi, in occasione delle riprese del film “Il grande spirito” di Sergio Rubini,  che aveva effettuato per alcune settimane le riprese di un film a Taranto – la guardiania dei mezzi e delle attrezzature utilizzate a cura dei propri sodali malavitosi . Al gruppo malavitoso era stato affidato, inoltre, il compito di controllare le aree comunali ove effettuare le riprese, individuare le aree di parcheggio, interloquire con gli abitanti dei condomini interessati dalle esigenze di scena pattuendo i compensi da erogare a titolo di ristoro per evitare contrattempi per la produzione. Domenico Procacci, fondatore della Fandango si difende: “Di tutto questo noi non sapevamo nulla. Abbiamo sempre rispettato e chiesto che le regole si rispettassero. Non abbiamo pagato nulla sotto banco tanto che quelle persone erano state assunte per cifre basse tra l’altro. C’erano state indicate, uno lavorava come netturbino, non sapevamo che fossero alla criminalità“. Il Gip nella sua ordinanza scrive che:   “La casa di produzione e tutto il personale ad essa collegata sono state, di fatto, sottomesse alla gestione del clan Sambito, ovviamente per quanto attiene la dei rapporti con la locale società, per mezzo dell’opera prestata da Pugliese che di esso ne rappresenta il  sul territorio”.  Il pregiudicato Claudio Pugliese non si preoccupava minimamente per il timori dei responsabili della produzione cinematografica: “Vabbè non ti preoccupare di chiedere o non chiedere!! Andiamo e le giriamo, capito? Non c’è problema là”. Secondo il Gip dr. Edoardo D’Ambrosio è evidente come “il gruppo Sambito si sia sostituito alle Amministrazioni statali nella gestione di attività ad esse istituzionalmente demandate e la cui surrogazione costituisce certamente un atto di abuso ma allo stesso tempo un’affermazione di  potere soprattutto agli occhi della popolazione residente che così ne può riconoscere l’autorevolezza”. Il clan aveva a disposizione a suo piacimento abitazioni private facendo leva “sull’ampia disponibilità del territorio su cui esercitano la propria forza”. A fronte di tali servigi il clan riceveva compensi in danaro nonché il controllo monopolistico del reclutamento delle comparse, cosa che sortiva l’effetto di accrescere il prestigio e la fama del sodalizio sul territorio tarantino. In un’altra occasione, nel 2017, invece è stato acclarato il procacciamento di voti in occasione delle consultazioni elettorali indette per le elezioni comunali del capoluogo jonico a sostegno dell’ex-consigliere comunale Filippo Illiano (vicino al gruppo politico che faceva capo all’ ex-presidente della Provincia Martino Tamburrano) che risulta iscritto nel registro degli indagati. Il clan mafioso tarantino, Sambito alle ultime elezioni amministrative 2017 si era notoriamente “speso” ed attivato anche per sostenere le liste del consigliere comunale Pietro Bitetti, che si era candidato inutilmente a Sindaco di Taranto, dopo alle precedenti elezioni regionali del 2015 i mafiosi arrestati avevano appoggiato l’attuale assessore comunale di Taranto Gianni Cataldino (esponente del gruppo Bitetti). Ma il clan mafioso spaziava ad ampio raggio ed alle successive elezioni Politiche del 2018 aveva deciso di sostenere elettoralmente due candidate di Forza Italia: la dipendente del Gruppo CISA di Massafra, Stefania Fornaro candidatasi alla Camera, e Maria Francavilla la moglie di Martino Tamburrano, ex presidente della Provincia di Taranto. Entrambe le candidate, che potevano contare sul sostegno economico del patron della CISA, Tonino Albanese, nonostante un ampio consenso in numero di voti ricevuti dalle famiglie mafiose nel quartiere Paolo VI, non riuscirono ad essere elette. La forza dell’associazione ha trovato evidenza anche nel vedere il capo indiscusso assunto all’ AMIU società municipalizzata del Comune di Taranto nonostante i rilevantissimi precedenti penali, ricoprendo, di fatto, mansioni superiori a quelle spettanti in modo da poter ottenere, in soli 10 anni, una progressione dal I al VI livello, assumendo potere anche nei confronti delle società private di cui condizionava le scelte in forza dell’incarico ricoperto, oltre che della riconosciuta pericolosità criminale. Numerosi sono stati i reati contestati al sodalizio criminale. In particolare, hanno gestito la movimentazione di sostanze stupefacenti del tipo “cocaina” ed “hashish“, maturando dei crediti che, in taluni casi, venivano riscossi anche mediante l’uso delle armi e della forza. Con riferimento a tale traffico illecito, nel corso dell’indagine sono stati effettuati numerosi sequestri, soprattutto nella fase della cessione in “panetti” a svariati clienti, alcuni dei quali tratti anche in arresto. I militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto guidati dal comandante provinciale Col. Dell’Anna, hanno effettuato poi consistenti sequestri di sigarette di contrabbando sia in un deposito gestito dal sodalizio, che a carico di taluni clienti ai quali gli stessi erano stati ceduti ; nel corso delle indagini è stata rinvenuta e sequestrata dalle Fiamme Gialle anche una pistola con matricola abrasa. Sono state infatti accertate la detenzione illegale di armi comuni da sparo, l’esplosione di colpi di arma da fuoco in luogo pubblico e la detenzione illecita di munizionamento. E’ stato registrato anche un episodio di danneggiamento di linee ferroviarie finalizzato a screditare l’operato di una società di vigilanza che aveva ottenuto l’appalto sulla linea ferroviaria Martina Franca – Taranto a discapito della società in cui era impiegato un membro del clan. Le attività investigative hanno portato alla segnalazione complessiva all’Autorità Giudiziaria di 46 soggetti che risponderanno con diversi livelli di responsabilità di vari reati, in primis, nei casi più gravi, del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, finalizzata oltre che al traffico di sostanze stupefacenti ed al contrabbando di sigarette estere, anche alle estorsioni in danno di piccoli imprenditori locali e all’imposizione di servizi di guardiania. Gli interrogatori di garanzia si svolgeranno in audio-video conferenza a partire dalle 9 di domani venerdì 5 giugno.

E’ Rosa Anna Depalo il nuovo presidente del Tribunale di Taranto. Il Corriere del Giorno il 13 Maggio 2020. Eletta con 15 voti ricevuti dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, prevalendo sull’altro candidato dott. Scardia (6 voti a suo favore) destinatario di altra proposta della Commissione. La dottoressa Depalo, attuale Presidente della Sezione GIP e GUP del Tribunale di Bari, è stata nominata questa mattina dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, con 15 voti a suo favore, presidente del Tribunale di Taranto, prevalendo sull’altro candidato dott. Scardia (6 voti a suo favore) destinatario di altra proposta della Commissione, ed anche sulla candidatura della dr.ssa Anna De Simone, che aveva sinora svolto le funzione di Presidente facente funzione del Tribunale jonico. I due candidati uscivano dal voto della Commissione conferimento uffici Direttivi del Consiglio Superiore della Magistratura, rispettivamente con 4 voti a favore della dr.ssa Depalo ed 1 solo in favore del dr. Scardia. Nel corso della lunga carriera Rosa Anna Depalo ha ricoperto una varietà di funzioni, non solo ordinarie – occupandosi sia del settore civile che di quello penale -, ma anche specializzate, nella specie minorili. In particolare, dopo il prescritto periodo di tirocinio, tra il dicembre 1987 e il maggio 1990 è stata in servizio al Tribunale di Melfi, ove ha svolto ogni tipo di funzione, civile (compresa l’agraria, la volontaria giurisdizione e le esecuzioni), di lavoro (in grado di appello) e penali (quale giudice istruttore e del giudice del dibattimento). Quindi sino al maggio 2000 è stata giudice al Tribunale per i Minorenni di Bari, ove si è occupata sia del settore civile che di quello penale, per poi prestare servizio al Tribunale di Bari, ove ha svolto le funzioni di GIP/GUP. Dal febbraio 2009 all’aprile 2014 ha ricoperto l’incarico direttivo di Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, ove ha trattato tutti gli ambiti della giurisdizione minorile, civile (anche presiedendo tutti i collegi tabellarmente previsti) e penale (presiedendo il Tribunale della libertà e quello di sorveglianza, nonché, all’occorrenza, i collegi dibattimentali). Dall’aprile 2014 è Presidente della Sezione G.I.P./G.U.P. del Tribunale di Bari. Adesso andando a ricoprire il ruolo del predecessore Franco Lucafò andato in pensione il 31.12.2018 , la De Palo dovrà guidare l’ufficio del Tribunale di Taranto, che consta di una pianta organica costituita – oltre che dal Presidente – da 5 Presidenti di sezione e da 53 giudici, oltre 29 giudici onorari. Il Presidente della Corte di Appello di Bari, nel parere attitudinale espresso sull’operato della dr.ssa De Palo agli atti del Csm, si esprimeva in termini altamente elogiativi, così rilevando: “l’esame dei provvedimenti acquisiti… dimostra ottima preparazione giuridica sia sostanziale che processuale, capacità dì sintesi e di enucleazione delle questioni rilevanti ai fini della decisione, chiarezza espositiva e completezza di valutazione, sia in fatto che in diritto, nonché rigore argomentativo. Dalla lettura dei suddetti provvedimenti si desume in particolare la profonda conoscenza delle problematiche concernenti il diritto minorile, che vengono risolte con grande senso di equilibrio, dimostrando una profonda conoscenza, per un verso, delle carte processuali e, per altro verso, dello stato della giurisprudenza e della dottrina sulla materia … Di ottimo livello è la capacità del magistrato in esame non solo di organizzare il proprio lavoro ma anche di organizzare e di dirigere l’ufficio da lei presieduto …. Come si desume dai dati statistici comparativi che lo riguardano, la produzione del magistrato in esame è senz’altro rimarchevole tenuto presente che il medesimo ha svolto principalmente le funzioni direttive di presidente del tribunale per i minorenni di Bari… Nonostante la gravosità del ruolo direttivo di presidente del tribunale per i minorenni ricoperto, il magistrato in esame, come già riferito innanzi, ha dimostrato particolari impegno e sensibilità per le 86 esigenze dell’ufficio sia assegnando a sé medesima plurimi settori di attività (presidenza dei collegi civili, del tribunale della libertà e di quello di sorveglianza) sia sobbarcandosi alla sostituzione di colleghi impediti quando necessario …”. Anche nell’esercizio delle precedenti funzioni semidirettive, quale presidente della sezione gip-gup del Tribunale di Bari, la dott. Depalo secondo il Csm, ha dimostrato un’elevatissima capacità organizzativa. Va sul punto richiamato il parere formulato in data 19.9.2018 ai fini della conferma, richiamato dal parere attitudinale, nel quale si legge che “la dott. Depalo ha dimostrato …. particolari meriti ed attitudini nello svolgimento delle funzioni semidirettive di Presidente di Sezione G.i.p./G:u.p. presso il Tribunale di Bari, riuscendo a dare impulso concreto allo smaltimento delle pendenze ed a gestire ed organizzare in modo efficiente e trasparente l’attività giudiziaria espletata. Nel corso del quadriennio ha dato prova di notevoli capacità organizzative e, pertanto, si può formulare una valutazione di piena idoneità della dott.ssa Rosa Anna Depalo a proseguire nelle funzioni semidirettive di Presidente di sezione. Il magistrato è in possesso di una preparazione tecnico-giuridica al di sopra della media nonché di una notevole esperienza maturata attraverso l’esercizio di varie funzioni giudiziarie“. Nel profilo della dott.ssa Depalo secondo il Consiglio Superiore della Magistratura l’esercizio delle funzioni direttive si associa all’esercizio attuale, da quasi cinque anni, delle funzioni semidirettive, quale presidente della sezione gip/gup di un Tribunale di grandi dimensioni quale quello di Bari. Pertanto si è confrontata nella funzione semidirettiva, con le problematiche organizzative di un ufficio ordinario, peraltro complesso come quello di Bari. E anche in questo caso si è distinta per la capacità di adottare soluzioni organizzative che hanno portato a risultati eccellenti in termini di abbattimento delle pendenze e di gestione dei flussi. 

Francesco Loscalzo per l'ANSA il 20 maggio 2020. Induzione indebita a promettere o dare utilità: è l'accusa contro il procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, agli arresti domiciliari nell'ambito di un'inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente sui magistrati jonici. Capristo avrebbe cercato, secondo l'accusa, di indurre una giovane pm di Trani (dove era stato Procuratore), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva la "bambina mia" - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito, anche lui magistrato, all'epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo - che respinge ogni accusa - sono finiti ai domiciliari l'ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l'accusa dell'induzione indebita. E' indagato anche l'ex procuratore della Repubblica di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d'ufficio perché con le sue azioni avrebbe provato a "procurare l'impunità" di Capristo. A Trani - sempre secondo l'accusa - Capristo avrebbe creato negli anni un suo "club di fedelissimi": per il gip di Potenza, Antonello Amodeo, tale legame sarebbe anche "di natura affaristica, ossia orientato a privilegiare gli interessi personali dei suoi componenti". Dalle indagini, cominciate circa un anno fa e che fanno riferimento ad episodi accaduti tra l'aprile 2017 e l'aprile 2019, è emerso che i cinque uomini arrestati, "in concorso", avrebbero cercato di convincere la pm Curione a perseguire per usura una persona, così gli imprenditori avrebbero potuto ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge per le persone "usurate". Scivittaro si presentò nell'ufficio della pm Curione "a nome e per conto" di Capristo per chiedere di portare avanti il processo.  La giovane pm però si rifiutò e inviò una relazione di servizio al procuratore Di Maio, che decise allora di trattare direttamente il procedimento contro Capristo, chiedendone l'archiviazione. Ma "in ragione dell'infondatezza della richiesta", la Procura generale di Bari avocò a sé l'inchiesta e la trasmise per competenza alla Procura di Potenza. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono accusati di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico: gli investigatori hanno scoperto che in alcune centinaia di casi l'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore.  Attraverso il suo legale, l'avvocato Angela Pignatari, Capristo ha negato "recisamente ogni addebito" e ha "rivendicato la legalità, la dignità e il rispetto della funzione da sempre esercitati nel suo ruolo professionale e nella sua vita privata". Stamani sono stati perquisiti anche gli uffici della procura di Taranto: "Si tratta di fatti - ha specificato il procuratore aggiunto, Maurizio Carbone - che non riguardano l'attività del nostro ufficio, che continua il suo operato con il massimo impegno e con la serenità di sempre".

Corruzione in atti giudiziari, ai domiciliari  il Procuratore di Taranto Capristo. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Virginia Piccolilo. Il Procuratore della Repubblica di Taranto, Nicola Maria Capristo, è agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Lo stesso provvedimento è stato eseguito a carico di un ispettore della Polizia in servizio nella Procura tarantina e di tre imprenditori della provincia di Bari. L’inchiesta, cominciata un anno fa, è portata avanti dalla Procura della Repubblica di Potenza. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l’ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l’accusa, gli indagati avrebbe compiuto «atti idonei in modo non equivoco» a indurre un giovane sostituto presso la Procura di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito - l’inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono «gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso»: l’ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva «incombenze» per conto del Procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale.

Taranto, arrestato Procuratore capo Capristo: tentò di «aggiustare inchiesta». Indagato anche ex capo pm Trani. Ai domiciliari anche tre imprenditori e un ispettore di Polizia. L'indagine grazie alla denuncia di un giovane pm. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2020. Il procuratore di Taranto, il barese Carlo Maria Capristo è stato arrestato questa mattina nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Potenza, insieme ad altre quattro persone, tutte accusate per induzione indebita (art. 319 quarter) per aver tentato interferire con una inchiesta della Procura di Trani dove Capristo non operava più da qualche anno. Oltre all'alto magistrato sono finiti ai domiciliari un ispettore di Polizia, Michele Scivittaro, e tre imprenditori operanti nella provincia di Bari, i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Indagato a piede libero anche il successore Di Maio, ex Procuratore di Trani, per abuso d’ufficio e favoreggiamento. Secondo l'accusa, gli imprenditori avrebbero approfittato del loro legame con il capo della Procura di Taranto «per indurre un giovane sostituto della Repubblica in servizio nel tribunale di Trani - si legge in un comunicato del Procuratore di Potenza, Francesco Curcio - a perseguire in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto, la persona che loro stessi avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici ed i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati». Un disegno sfumato a seguito dell'opposizione del giovane pm ad «aggiustare» il processo, da qui la denuncia dello stesso sostituto che ha collaborato all'indagine consentendo all'inchiesta di culminare con le misure cautelari di oggi. Capristo e Scivittaro sono stati ritenuti responsabili di truffa aggravata per aver "falsificato" la documentazione attestante la presenza lavorativa dell'ispettore di Polizia presso la Procura di Taranto. Il procuratore, da quanto emerso, controfirmava le presenza del poliziotto e i suoi straordinario "mai prestati": anziché lavorare a Taranto era a casa. Capristo, un anno fa, era stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Messina nell'ambito di una inchiesta legata al (presunto) falso complotto ai danni dell'Eni: una vicenda complessa - per la quale un ex pm dei Siracusa ha patteggiato 5 anni di reclusione - che incrocia anche la Procura di Trani, sempre nel periodo in cui Capristo era capo dell'ufficio inquirente del tribunale del nord barese. Le accuse a carico di Di Maio si riferiscono agli atti da lui eseguiti dopo aver avuto una relazione di servizio dal sostituto Silvia Curione «in ordine alle pressioni ricevute da un ispettore di Polizia (Michele Scivittaro) a nome di Capristo». L’accusa di favoreggiamento - secondo la Procura della Repubblica di Potenza - si sostanziò nelle scelte di Di Maio di "procurare l’impunità di Carlo Maria Capristo», tenendo alcuni "comportamenti omissivi», cioè non verificando se il Procuratore di Taranto fosse coinvolto nella vicenda del processo a carico di una persona estranea all’accusa di usura. Di Maio è stato recentemente trasferito dopo una sentenza del Consiglio di Stato su ricorso dell'attuale procuratore Renato Nitti. «La bambina mia": così il Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo - da stamani agli arresti domiciliari - si riferiva alla pm di Trani, Silvia Curione (ora in servizio a Bari) parlando con gli imprenditori che volevano un processo per usura a carico di una persona. Capristo - secondo l’accusa della Procura della Repubblica di Potenza - utilizzava l’immagine «bambina mia» per dimostrare a Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo «di avere autorità sulla Curione», che, invece, manifestò una «ferma opposizione» al tentativo di «aggiustare» il processo. La stessa Curione inviò una relazione all’allora Procuratore di Trani, Antonino Di Maio, raccontando che l’ispettore di Polizia, Michele Scivittaro, collaboratore di Capristo, era andato da lei per indurla a portare avanti l’accusa. Di Maio - secondo la ricostruzione degli investigatori - agì per «procurare l'impunità» di Capristo. Successivamente però la Procura generale di Bari avocò a sé l’inchiesta e la trasmise per competenza a Capristo alla Procura di Potenza. «Respingo ogni accusa": così, attraverso il suo legale, Angela Pignatari, il Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, ha commentato l'ordinanza agli arresti domiciliari a suo carico. Capristo «nega recisamente - ha aggiunto Pignatari  - ogni addebito e rivendica la legalità, la dignità e il rispetto della funzione da sempre esercitati nel suo ruolo professionale e nella sua vita privata». «Dalla lettura delle imputazioni riportate sul decreto di perquisizione notificato, si evince che trattatasi di contestazioni per fatti che non riguardano l'attività del nostro ufficio, che continua il suo operato con il massimo impegno e con la serenità di sempre». Lo sottolinea in una nota il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone, in merito all’inchiesta della procura di Potenza che ha portato agli arresti domiciliari l’attuale procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, già procuratore a Trani. «Questa mattina - precisa Carbone - ho doverosamente comunicato a tutti i sostituti della Procura che è stata eseguita presso gli uffici del Procuratore Capristo una perquisizione su disposizione della Procura di Potenza che, a quanto appreso da notizie giornalistiche, ha anche dato esecuzione ad una ordinanza di applicazione degli arresti domiciliari nei suoi confronti». Carbone spiega di «aver sentito la necessità» di riferire l'accaduto ai sostituti della procura ionica «nell’attesa di conoscere maggiori notizie sulla vicenda giudiziaria» e «nel doveroso rispetto delle attività di indagine in corso».

Arresto cautelare per il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo. Antonello De Gennaro il 19 Maggio 2020 su Il Corriere del Giorno. L’attuale vicenda “pugliese” scatenata dalla Procura di Potenza, a parer nostro puzza più come un “regolamento di conti” fra le varie correnti della Magistratura, che come un vero scandalo giudiziario. Ed ancora una volta dietro le quinte del Consiglio Superiore della Magistratura vengono fuori lottizzazioni. Dalle 8:30 di questa mattina il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo si trova agli arresti domiciliari, ordinanza emessa dal Gip dr. Antonello Amodeo del Tribunale di Potenza su richiesta della Procura di Potenza che ha avviato un’indagine su Capristo, sulla quale emergono più di qualche dubbio e perplessità. L’inchiesta su Capristo ha origine da un fascicolo di indagine della Procura di Trani, aperto quando il Procuratore si era trasferito a Taranto. Secondo l’accusa Capristo avrebbe cercato di esercitare pressioni su un magistrato di Trani Silvia Curione, per condizionare l’esito di indagini su episodi di sua diretta competenza.  Sempre secondo la Procura di Potenza, che ha iniziato le indagini un anno fa avrebbe fatto pressioni sulla pm Trani, “abusando della qualità di procuratore della Repubblica di Taranto, superiore gerarchico del marito della pm Curione, ossia di Lanfranco Marazia che a Taranto prestava servizio come pm”. La procura lucana sostiene un’ipotesi giudicaria secondo la quale Capristo avrebbe rappresento alla Curione che avrebbe potuto “esercitare a fini ritorsivi le sue prerogative”, persino ostacolando la carriera del marito, “visto che aveva già dimostrato nel 2017 di essere capace di farlo”. Ma incredibilmente nell’ordinanza non emerge alcun riscontro probatorio di tale ipotesi accusatoria. Nel comunicato del Procuratore di Potenza Francesco Curcio si fa riferimento a delle presunte pressioni di Capristo “per indurre un giovane sostituto della Repubblica in servizio nel Tribunale di Trani a perseguire in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto, la persona che loro stessi avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici ed i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati”. Il giovane magistrato, cioè la dr.ssa Silvia Curione secondo la Procura di Potenza, non solo si sarebbe opposto fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia – ha stabilito unilateralmente l’inchiesta della procura lucana – non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Oltre al magistrato Capristo sono finiti agli arresti domiciliari anche l’ ispettore di Polizia di Stato Michele Scivittaro, originario di Bitonto distaccato presso la Questura di Taranto come autista e scorta di Capristo sin dai tempi in cui ricopriva la carica Procuratore capo della repubblica presso il Tribunale a Trani, ed i fratelli Cosimo, Gaetano e Giuseppe Mancazzo, imprenditori della provincia di Bari, imparentati con un alto ufficiale della Guardia di Finanza distaccato al comando generale, il Colonnello Antonio (Antonello) Mancazzo. Secondo la Procura di Potenza, Capristo e Scivittaro sono “gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso” in quanto secondo gli inquirenti l’ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa ed avrebbe svolto «incombenze» per conto del Procuratore. Al magistrato Silvia Curione della Procura di Trani secondo le accuse a carico del procuratore capo di Taranto, sarebbe stato chiesto (ma non da lui direttamente n.d.r.) di indagare una persona per usura, facendole temere ritorsioni sul marito Lanfranco Marazia, anch’egli magistrato in servizio alla Procura di Taranto, dunque alle dipendenze di Capristo. Stamani sono state eseguite perquisizioni anche carico di altre persone e anche l’attuale capo della procura di Trani Antonino Di Maio , che è indagato per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. La procura di Potenza sospetta che Di Maio non verificò il coinvolgimento del procuratore di Taranto dopo aver ricevuto dalla giovane pm una relazione di servizio della giovane pm in ordine alle pressioni ricevute dall’ispettore Scivittaro «per conto di Capristo». Incredibilmente per la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura sulla nomina di Di Maio a Procuratore della Repubblica di Trani, il Consiglio di Stato ha nuovamente sconfessato e ritenuto nulla la deliberazione con la quale, il 13 febbraio 2019, il plenum del Csm aveva ribadito la nomina di Di Maio, originario di Catania, al vertice della Procura tranese, quale successore di Carlo Maria Capristo. Di Maio aveva ottenuto la maggioranza dei voti, prevalendo sul collega concorrente Renato Nitti, pubblico ministero a Bari, che si era già rivolto ai giudici amministrativi del TAR impugnando la prima decisione del Csm risalente all’aprile 2017, che però a gennaio 2018 rigettò il suo ricorso. In secondo grado, il 3 ottobre 2018, il Consiglio di Stato aveva accolto parzialmente il ricorso del pm barese avverso la sentenza del Tar, ritenendo che il provvedimento di nomina da parte del Csm fosse affetto da un vizio di legittimità. In poche parole il giudici di Palazzo Spada avevano ritenuto che Di Maio non avesse titoli sufficienti per diventare procuratore. Ci sono alcuni particolari di questa inchiesta che destano più di qualche perplessità, a partire dalla discutibile competenza della Procura di Potenza sulla vicenda giudiziaria in questione. Infatti secondo delle nostre qualificate fonti già ai vertici della Suprema Corte, gli eventuali fatti imputati a Capristo e Di Maio si sarebbero verificati presso la Procura di Trani (“locus commissi delicti“) sul cui operato è competente la Procura di Lecce e non certo quella di Potenza che sarebbe stata invece competente in caso di eventuali reati d’ufficio accaduti a Taranto, che allo stato dei fatti non risultano. Peraltro l’attuale procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, originario di Polla è di fatto un “facente funzione”, e non ha di fatto realmente tale qualifica, in quanto la sua nomina alla guida della procura lucana, effettuata dal CSM grazie all’ennesima gestione “politicizzata“, che si era manifestata nell’indicazione raggiunta all’ unanimità dalla 5a Commissione del CSM (Incarichi Direttivi) è stata revocata dalla sentenza emessa dal Consiglio di Stato lo scorso gennaio- . Nel marzo 2019 il collegio, presieduto dal giudice Carmine Volpe, accolse il ricorso presentato da Laura Triassi, pubblico ministero di Potenza. Nel suo ricorso, la Triassi si era opposta alle valutazioni compiute tra la fine del 2017 e inizio 2018 dal Consiglio Superiore della Magistratura, che decise di assegnare l’incarico a Curcio. Ma c’è di più. Infatti il Consiglio di Stato oltre a quella di Curcio , ha confermato anche l’annullamento delle nomine di Raffaello Falcone (come Procuratore aggiunto a Napoli) e Annamaria Lucchetta (Procuratore capo di Nola), confermando quindi la sentenza del Tar del Lazio. Tutti e tre magistrati erano stati nominati insieme a Curcio, nella stessa seduta, dal Csm. Il magistrato Francesco Curcio non è nuovo ad indagini dal clamore mediatico, come quelle sulla “P4” a Napoli, che all’esito del giudizio si sono dissolte come neve sotto al sole. Come l’archiviazione per Mauro Moretti, all’epoca dei fatti amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, indagato per favoreggiamento. O come la decisione della II sezione penale della Corte d’Appello di Napoli che ha assolto l’ex parlamentare del Pdl Alfonso Papa dalle accuse contestategli proprio Curcio nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli ‘P4’ sulla presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell’ambito della pubblica amministrazione italiana e della giustizia. Papa, ex magistrato è stato il primo parlamentare per il quale la Camera ha autorizzato la custodia in carcere è stato condannato in primo grado dalla I sezione penale del Tribunale di Napoli a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Con la sentenza Papa venne assolto da tutti i reati contestati (Legge Anselmi, corruzione, concussione, ricettazione, rivelazione di segreto e favoreggiamento). Papa, durante le otto ore di interrogatorio di garanzia per il suo ingiusto arresta difendendosi dall’ accusa di aver rivelato il segreto delle indagini, fece il nome di tre magistrati, fra i quali proprio quello del pm Francesco Curcio, titolare (con il collega Henry John Woodcock) proprio delle indagini sulla “P4”. Papa durante il faccia a faccia con il gip e i pm raccontò che, «in un incontro del dicembre 2010 con Italo Bocchino», il vicepresidente di Fli lo avrebbe invitato a stare in guardia dal momento che era finito sotto inchiesta. Bocchino gli avrebbe inoltre raccomandato di non sottovalutare la vicenda (già nota attraverso i giornali) perché aveva saputo dal pm Francesco Curcio, «che si trattava di una cosa sera». Alla domanda, “come lo sai“, Bocchino avrebbe risposto, aggiunge Papa, «che Curcio era amico suo». Circostanza che il pm Curcio negò, pur non entrando ovviamente nel merito della vicenda processuale, avendo spiegato anche al suo procuratore capo che aveva visto «per la prima volta Bocchino nel febbraio del 2011» quando lo ascoltò come teste. Papa citò l’ episodio di un pranzo in campagna in casa di un giornalista, al quale entrambi erano presenti. L’ ex pm racconta: «Mi avvicinai al procuratore», dicendogli che era a conoscenza dell’ inchiesta che lo riguardava e assicurandogli che si trattava di cose false. Lepore si sarebbe limitato a fare una risata. Lo stesso procuratore dichiarò a Repubblica. «Certo, ci fu quel pranzo. C’ erano anche altri magistrati. Ricordo bene Papa, sapevo che lo avrei trovato lì e mi consultai con i miei pm, decidemmo che era meglio che ci andassi per non insospettirlo. Ed è vero che non dissi una parola». L’attuale vicenda “pugliese” scatenata dalla Procura di Potenza, a parer nostro puzza più come un “regolamento di conti” fra le varie correnti della Magistratura, che come un vero scandalo giudiziario. Ed ancora una volta dietro le quinte del Consiglio Superiore della Magistratura vengono fuori lottizzazioni.

Arrestato il Procuratore di Taranto Capristo: pressioni per indirizzare indagini. Inchiesta partita dalle accusa di una pm di Trani: "Capristo mi chiamava 'bambina mia'''. Arrestati anche 3 imprenditori e un ispettore di polizia: avrebbero indotto la pm e indagare per usura una persona. Indagato anche il procuratore di Trani. Giuliano Foschini il 19 maggio 2020 su La Repubblica. Il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo è agli arresti domiciliari su ordine della procura di Potenza. L’inchiesta nasce da un fascicolo della procura di Trani, aperto quando Capristo già si era trasferito a Taranto. E sulla quale, secondo la ricostruzione, avrebbe comunque provato a fare pressioni per indirizzarne l’esito. Il Procuratore cercò di indurre il pm di Trani, Silvia Curione, a perseguire ingiustamente una persona per usura facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura di Taranto. Curione denunciò: "Capristo mi chiamava 'bambina mia'''. Anche il Procuratore di Trani, Antonino Di Maio, è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l'ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbe compiuto "atti idonei in modo non equivoco" a indurre la pm di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito l'inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono "gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso". L'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale.

Arrestato il Procuratore di Taranto Capristo: pressioni per indirizzare indagini. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 da La Repubblica.it. Il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo è agli arresti domiciliari su ordine della procura di Potenza. L’inchiesta nasce da un fascicolo della procura di Trani, aperto quando Capristo già si era trasferito a Taranto. E sulla quale, secondo la ricostruzione, avrebbe comunque provato a fare pressioni per indirizzarne l’esito. Il Procuratore cercò di indurre il pm di Trani, Silvia Curione, a perseguire ingiustamente una persona per usura facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura di Taranto. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l'ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbe compiuto "atti idonei in modo non equivoco" a indurre la pm di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito l'inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono "gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso". L'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale.

Carlo Maria Capristo, arrestato il procuratore capo di Taranto. Le accuse: tentata induzione, truffa e falso. ‘Pressioni per indirizzare indagini dei pm di Trani’: altre 4 persone ai domiciliari. Il magistrato si trova ai domiciliari per un'inchiesta della procura di Potenza (competente per i reati compiuti dai pm del capoluogo ionico): secondo l'accusa ha cercato di condizionare l'indagine di un pubblico ministero di Trani, dove guidava la Procura prima del suo trasferimento a Taranto. Stesso provvedimento per altre 4 persone, tra cui un poliziotto. Indagato Antonio Di Maio, il successore di Capristo alla guida della Procura di Trani. di P.G. Cardone e F. Casula il 19 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Cercarono di convincere un giovane magistrato della Procura di Trani a chiudere le indagini per usura e avviare il processo contro un imprenditore, senza che ce ne fossero i presupposti e solo perché gli interessati avevano un obiettivo ben preciso: ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge conseguiti dallo status di vittime di usura. Motivo per cui avevano già provveduto a denunciare il malcapitato imprenditore. Il pm, però, si è ribellato. Ha detto no al ricatto e ha raccontato tutto alla sua procura. Che, però, ha incredibilmente chiesto l’archiviazione. Il fascicolo, avocato dalla Procura generale di Bari, è stato trasmesso per competenza funzionale alla Procura di Potenza, che un anno fa ha avviato le indagini. Oggi la svolta: tutti arrestati con le accuse a vario titolo di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, falso e truffa. Tra i protagonisti di questa vicenda, però, ci sono nomi molto pesanti: c’è il Procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (ex capo della Procura di Trani), l’ispettore di polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto (e parte della scorta di Capristo) e tre imprenditori della provincia di Bari, i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Tra gli indagati, inoltre, anche il magistrato Antonino Di Maio: per il successore di Capristo a Trani, le accuse sono di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. Vale la pensa ricordare che quella di Trani è la stessa procura in cui operavano i magistrati Savasta e Nardi, arrestati per corruzione nei mesi scorsi per vicende diverse. I cinque arrestati di oggi sono stati posti ai domiciliari dal nucleo di polizia economica-finanziaria di Potenza, dall’aliquota di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e dalla squadra mobile del capoluogo lucano. Il provvedimento cautelare è stato emesso dal gip del tribunale di Potenza su richiesta della procura guidata da Francesco Curcio. Contestualmente sono state effettuate anche perquisizioni nelle case degli indagati e anche nell’abitazione del procuratore Di Maio a Roma. Il procuratore Carlo Maria Capristo e Scivittaro, inoltre, sono “gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso”: secondo l’accusa, anziché lavorare presso la Procura o per il suo ufficio, era presso il proprio domicilio o si occupava di adempiere a incombenze personali o sbrigava faccende d’interesse di Capristo. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la Procura di Potenza, “con l’avallo del procuratore Capristo che controfirmava le sue presenze in servizio e gli straordinari mai prestati”. Per Capristo è una nuova tegola giudiziaria dopo l’accusa di abuso d’ufficio mossa dai magistrati di Messina nell’inchiesta sul “sistema Siracusa“, una presunta organizzazione che secondo l’accusa era in grado di pilotare le decisioni del Consiglio di Stato, ma anche di aggiustare le richieste provenienti da magistrati e politici. Anche i fatti siciliani che coinvolgono il capo degli inquirenti tarantini, riguardano il periodo in cui Capristo era procuratore di Trani. Si tratta del famoso depistaggio sull’inchiesta Eni: nel capoluogo tranese era infatti giunto uno degli esposti anonimi redatti dall’avvocato siciliano Piero Amara per mettere in piedi una sorta di depistaggio delle indagini sull’Eni per le tangenti versate dal colosso petrolifero in Nigeria. Per i giudici messinesi, Capristo avrebbe inviato l’esposto anonimo non ai colleghi di Milano, competenti su quella vicenda, ma a Siracusa dove l’allora pubblico ministero Giancarlo Longo, che ha patteggiato una condanna per corruzione e associazione a delinquere, su input di Giuseppe Amara, fratello di Piero e legale esterno dell’Eni, aveva messo in piedi un’indagine priva di qualunque fondamento con il solo scopo di intralciare l’inchiesta milanese in cui è coinvolto anche l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. 

Il procuratore di Taranto Capristo finisce in manette: “Voleva incastrare un innocente”. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Due pm, moglie e marito, contro i rispettivi capi. È una vicenda dai contorni molto torbidi quella che ha portato ieri mattina all’arresto del procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, del suo autista e di tre imprenditori della provincia di Bari. Per loro l’accusa è quella di induzione indebita. Indagato in stato di libertà per abuso d’ufficio e favoreggiamento Antonino Di Maio, ex procuratore di Trani e ora pm a Roma. Le indagini sono state condotte dalla Procura di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati pugliesi. Questa la storia. I fratelli Cosimo, Gaetano e Giuseppe Mancazzo, imprenditori della provincia di Bari, avevano presentato alla Procura di Trani una denuncia per usura nei confronti di Giuseppe Cuoccio, un altro imprenditore pugliese. La denuncia venne assegnata al pm Silvia Curione la quale decise di effettuare subito alcuni approfondimenti tecnici. La legge, infatti, prevede per le vittime del reato di usura l’accesso ai contributi erogati dallo Stato, la sospensione delle procedure esecutive ed altre agevolazioni. A questo punto entra in scena Capristo che prima di essere nominato nel 2016 procuratore di Taranto aveva prestato servizio, con il medesimo incarico, a Trani, e conosce molto bene i fratelli Mancazzo ai quali è legato da amicizia. Capristo, secondo quanto denunciato dalla Curione, avrebbe allora esercitato “pressione” nei confronti della pm affinché non archiviasse il fascicolo. Come arma di “persuasione” avrebbe minacciato delle ritorsioni nei confronti del marito della dottoressa Curione, Lanfranco Marazia, sostituto a Taranto e suo dipendente. Sulla Curione ci sarebbero state, invece, “pressioni” da parte di Di Maio che aveva un ottimo rapporto con Capristo. Curione e Marazia decisero quindi di denunciare l’accaduto ai pm di Potenza, raccontando anche i vari condizionamenti subiti. Il nome di Capristo era già spuntato nell’indagine di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara. Secondo le dichiarazione di Piero Amara, l’avvocato che per sua stessa ammissione aveva inventato il cosiddetto “Sistema Siracusa“, l’organizzazione che riusciva a “comprare” le sentenze del Consiglio di Stato, ad avvicinare magistrati e politici, pare ci fossero stati interessi affinché Capristo fosse trasferito da Trani a Taranto. In particolare per alcuni procedimenti sull’Ilva. Il 10 dicembre del 2018 la Procura di Perugia chiese al Csm gli atti sulla nomina di Capristo a Taranto che, candidato di Unicost, era stato all’epoca votato con 15 voti in Plenum. Le indagini di Potenza sono state condotte dall’attuale reggente della Procura Francesco Curcio. Già sostituto alla Procura nazionale antimafia, Curcio era stato in passato sostituto alla Procura di Napoli, indagando sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica. Inchieste condivise con il collega Henry John Woodcock. Di orientamento progressista, era stato votato nel 2018 all’unanimità in Plenum. Lo scorso gennaio, però, il Consiglio di Stato ha annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi.

Taranto, «Caso Capristo» il giallo delle date: sono tanti ancora gli omissis. La segnalazione che ha innescato l’inchiesta è del 2019, il fascicolo del 2018. La settimana prossima gli interrogatori. Mimmo Mazza il 22 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Pagine e pagine di omissis. E un mistero sulle date. Le carte dell’inchiesta sul procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, finito l’altra mattina agli arresti domiciliari con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità, truffa e falso, fanno intuire che il fascicolo coordinato dal procuratore capo di Potenza Francesco Curcio ha ancora diversi aspetti da svelare. Capristo - che la settimana prossima potrà fornire la sua versione dei fatti nel corso dell’interrogatorio di garanzia - avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre una giovane pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Non riuscendoci, per l’opposizione del sostituto che denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio a Taranto. Ai domiciliari sono finiti anche l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio alla Procura di Taranto e uomo di fiducia del procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori bitontini Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Indagato a piede libero è l’ex procuratore di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d’ufficio. Le indagini fanno riferimento, stando a quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Antonello Amodeo, ad episodi accaduti tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019, con l’input partito il 25 marzo del 2019 dalla Procura Generale di Bari all’indirizzo della Procura di Potenza, competente per i fatti riguardanti i magistrati in servizio a Taranto. E qui si incardina il primo giallo relativo alle date. Se, come si legge nelle carte, l’inchiesta a Potenza è stata aperta a seguito della segnalazione giunta da Bari nel marzo del 2019, come mai il relativo numero del registro generale delle notizie di reato reca come anno di riferimento il 2018? Era forse stato già acceso un faro? Quanto agli omissis, agli atti dell’indagine ci sono i verbali delle sommarie informazioni testimoniali dei magistrati Silvia Curione e del marito Lanfranco Marazia, entrambi parti offese, e anche il verbale di interrogatorio di indagato in procedimento connesso, dell’avvocato siracusano Giuseppe Calafiore, ascoltato dagli inquirenti lucani nel giugno del 2019 nella sede della Direzione Nazionale Antimafia di Roma. Calafiore era socio dell’avvocato Piero Amara, il consulente legale dell’Eni che affiancò nell’estate del 2016 gli allora commissari dell’Ilva nella trattativa con la Procura di Taranto (Capristo si era insediato in riva allo Jonio il 6 maggio di quell’anno) per il patteggiamento nell’ambito del processo «Ambiente Svenduto», trattativa che si concluse con un accordo che però non resse al successivo vaglio della corte d’assise e generò aspre polemiche degli ambientalisti tarantini nei confronti della Procura. Calafiore rispose alle domande del procuratore Curcio e dei sostituti Gargiulo e Savoia, parlando sia di Capristo che del poliziotto barese Filippo Paradiso, grande amico del procuratore di Taranto, indagato a Roma per traffico di influenze. «Amara - dice Calafiore, in verbali punteggiati da numerosi omissis - mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino o meglio deduco che Paradiso si sia relazionato anche con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Gli inquirenti - che indagavano sul presunto accordo tra Capristo e i fratelli Mancazzo - chiesero a Calafiore di conoscere i nomi di eventuali imprenditori pugliesi legati al magistrato ma l’avvocato negò la circostanza: «Non conosco imprenditori pugliesi legati a Capristo. Quando sentivo il nome Capristo sentivo il nome Paradiso».

Taranto, Caso Capristo, i retroscena. E la difesa studia le carte. L’inchiesta di Potenza è nata da una dettagliata segnalazione fatta nel marzo 2019 dalla Procura generale di Bari. Mimmo Mazza il 22 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non è stato ancora fissato l’interrogatorio di garanzia del procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, finito l’altra mattina agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente sui magistrati in servizio a Taranto, con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità. Capristo avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre una giovane pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva stando a quanto emerso da alcune intercettazioni telefoniche la «bambina mia» - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo - che tramite il suo avvocato Angela Pignataro continua a respingere ogni accusa - sono finiti ai domiciliari l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Indagato a piede libero è l’ex procuratore della Repubblica di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d’ufficio perché con le sue azioni avrebbe provato a «procurare l’impunità» di Capristo. A Trani - sempre secondo l’accusa - Capristo avrebbe creato negli anni un suo «club di fedelissimi»: per il gip di Potenza, Antonello Amodeo, tale legame sarebbe anche «di natura affaristica, ossia orientato a privilegiare gli interessi personali dei suoi componenti». Dalle indagini, che fanno riferimento ad episodi accaduti tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019, è emerso che i cinque uomini arrestati, «in concorso tra di loro», avrebbero cercato di convincere la pm Curione a perseguire per usura una persona, così gli imprenditori avrebbero potuto ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge previsti per le persone «usurate». Scivittaro il 16 aprile del 2018 si presentò nell’ufficio della pm Curione «a nome e per conto» di Capristo per chiedere di portare avanti il processo. La giovane pm però si rifiutò, scrivendo una relazione di servizio al procuratore Di Maio nella quale si legge che il poliziotto «rappresentava la necessità che il fascicolo venisse definito con urgenza. Quella visita mi ha lasciata perplessa». Di Maio, sempre secondo quanto accertato dagli inquirenti, decise allora di trattare direttamente il procedimento, chiedendone l’archiviazione. Ma «in ragione dell’infondatezza della richiesta», la Procura generale di Bari avocò a sé l’inchiesta e la trasmise per competenza alla Procura di Potenza nel marzo del 2019. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono accusati di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico: gli investigatori hanno scoperto che in alcune centinaia di casi l’ispettore risultava presente in ufficio a Taranto e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva «incombenze» per conto del procuratore.

Caso Capristo, la difesa: «Non pressioni sulla pm di Trani, solo richieste d’informazione». Si difende così il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo da martedì scorso agli arresti domiciliari nell’ambito dell'inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza. Mimmo Mazza il 23 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nessuna richiesta di favori, né in prima persona, né tantomeno in conto terzi. Scocca l’ora della difesa nell’inchiesta che martedì scorso ha portato agli arresti domiciliari il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente su fatti riguardanti i magistrati in servizio nella città dei due mari, con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità. In particolare, Capristo avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre il pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016) Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva stando a quanto emerso da alcune intercettazioni telefoniche la «bambina mia» - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo, sono finiti ai domiciliari l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Ieri il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Potenza Antonello Amodei ha tenuto gli interrogatori di garanzia dei fratelli Mancazzo e di Scivittaro. I quattro indagati, tutti bitontini e difesi dagli avvocati Giuseppe Giulitto, Maurizio Altomare e Giovanni Capaldi, hanno risposto alle domande del giudice e, alla presenza del procuratore Francesco Curcio, hanno respinto tutte le ipotesi di accusa. Stando a quanto si è appreso, le circostanze che hanno portato all’apertura dell’inchiesta, prima, e agli arresti, poi, sono state contestate punto per punto sulla dinamica ipotizzata dagli inquirenti. Il teorema accusatorio vuole i fratelli Mancazzo approfittare dell’amicizia con Capristo per fare pressioni sulla pm Curone per indurla a perseguire in sede penale la persona che gli stessi imprenditori avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati. L’ispettore Scivittaro, in particolare, nell’aprile del 2018 si sarebbe recato dalla Curone per sollecitare l’archiviazione. Gli indagati, invece, contestano tale ricostruzione, sostenendo di essersi limitati unicamente a chiedere notizie sullo stato del procedimento, senza formulare pressioni o minacce, tantomeno per conto del procuratore Capristo. Spetterà ora proprio a Capristo, difeso dall’avvocato Angela Pignatari, offrire al gip Amodeo la sua versione dei fatti. L’interrogatorio di garanzia del procuratore in realtà non è stato ancora fissato perché il difensore di Capristo ha chiesto un lieve differimento per ragioni di salute del suo assistito. Considerato che la norma prevede che l’interrogatorio venga svolto entro dieci giorni dall’esecuzione della misura, l’atto sarà comunque compiuto entro la prossima settimana. Dopodichè i difensori valuteranno le successive mosse, a partire dal ricorso al tribunale del riesame.

Caso Capristo. Si sgonfiano le accuse al procuratore capo di Taranto. Il Corriere di Taranto il 23 Maggio 2020. Il poliziotto Michele Scivittaro, autista ed agente di scorta del magistrato Carlo Maria Capristo , posto ai domiciliari con i tre fratelli Mancazzo imprenditori di Bitonto, hanno completamente scagionato il procuratore capo di Taranto. ROMA – Nel corso dell’interrogatorio di garanzia che si è svolto ieri mattina presso il Tribunale di Potenza, alla presenza al Gip Antonello Amodeo che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare e del procuratore Francesco Curcio (facente funzione , essendo stato rimosso dal suo incarico dal Consiglio di Stato) che sostiene l’ impianto accusatorio, il poliziotto Michele Scivittaro, autista ed agente di scorta del magistrato Carlo Maria Capristo , posto ai domiciliari con tre imprenditori di Bitonto, ha scagionato il procuratore capo di Taranto. Assistito dagli avvocati Maurizio Altomare e Giuseppe Giulitto , Scivittaro ha affermato a verbale che non si è non mai recato dal pm Silvia Curione presso la procura di Trani, per indurla e pressarla, come ha sostenuto strumentalmente la giovane magistrata, affinché mandasse a processo la persona denunciata dai fratelli imprenditori Giuseppe, Gaetano e Cosimo Mancazzo, ma bensì di essersi recato a titolo personale , poichè in quella Procura di Trani aveva prestato servizio per numerosi anni. Il poliziotto ha spiegato al Gip Amodeo che si era recato dalla pm Curione a seguito di un colloquio avuto a titolo personale con i tre imprenditori, suoi conoscenti personali (sono tutti di Bitonto) che volevano informazioni sullo stato in cui versava la denuncia che avevano sporto. Secondo Scivittaro, le accuse sono solo interpretazioni sbagliate e suggestive su delle conversazioni telefoniche che commentavano la decisione della pm di Trani di archiviare l’inchiesta. Identico il contenuto dell’interrogatorio dei tre imprenditori, i fratelli Mancazzo, assistiti dagli avvocati Giulitto e Giovanni Capaldi, i quali hanno negato fermamente di conoscere Capristo in alcun modo (ed in effetti agli atti dell’ordinanza con compare alcun tipo di contatto diretto con il magistrato) ed hanno confermato di essersi rivolto, esclusivamente a titolo di amicizia, al poliziotto Scivittaro chiedendogli di informarsi sullo stato della denuncia sporta in procura a Taranti. Quindi noin vi è stata nessuna utilità in cambio, alcun tipo di pressione, ma esclusivamente l’interesse di ricevere delle informazioni. I tre fratelli Mancazzo hanno anche confermato di essere stati vittime di usura anche se incredibilmente la denuncia che avevano sporto era stata archiviata, precisando e ricordando al giudice Amodeo ed al procuratore Curcio di essere stati persino affidati a un’associazione antiusura di Molfetta. Il procuratore capo di Taranto Capristo, che notariamente non è in buone condizioni di salute e stava per essere sottoposto ad un intervento di natura ortopedica, , verrà interrogato la prossima settimana. Tutti e cinque gli indagati per il momento i domiciliari in attesa delle udienza davanti al Tribunale del Riesame che si svolgeranno fra un paio di settimane, ed in quell’occasione i difensori richiederanno la revoca degli arresti domiciliari, che allo stato dei fatti rimangono una pura forzatura per una “spettacolarizzazione” dell’ inchiesta. L’ennesima “boutade” ad uso mediatico a cui il magistrato Curcio è particolarmente affezionato, come è accaduto in precedenza nel caso dell’inchiesta “P4” da lui condotta a Napoli rivelatasi a seguito delle varie sentenze dei Tribunali una vera e propria “bufala” giudiziaria.

Savasta e D’Introno sentiti a Potenza. Bari: «Indagini sui rapporti con Capristo». Dopo l’arresto dell’ex procuratore di Taranto, interrogati l’imprenditore e l’ex pm di Trani. Massimiliano Scagliarini l'11 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. I rapporti di Carlo Capristo con alcuni «facoltosi imprenditori» sono al centro delle nuove indagini della Procura di Potenza, che dopo aver mandato ai domiciliari il capo della Procura di Taranto sta approfondendo i suoi rapporti con la cricca di giudici che truccava i processi di Trani. Per questo il procuratore Francesco Curcio e il sostituto Anna Piccininni nelle ultime quarantott’ore hanno ascoltato come testimoni assistiti due dei protagonisti delle indagini di Lecce sulla giustizia svenduta a Trani, ovvero l’imprenditore Flavio D’Introno e l’ex pm Antonio Savasta, il grande accusatore e l’uomo che ha ammesso di aver preso soldi per addomesticare indagini e ora rischia 10 anni di carcere. Al centro degli interrogatori, appunto, gli (eventuali e finora non provati) rapporti corruttivi di D’Introno e Savasta con Capristo, che ha guidato la Procura di Trani fino al 2015, anno del trasferimento a Taranto . Capristo compare infatti in uno dei primi verbali delle dichiarazioni rese da D’Introno a Lecce (poi trasmesse a Potenza dal procuratore Leonardo Leone de Castris): i buoni rapporti di Nardi con Capristo - questo ha raccontato D’Introno a Lecce - hanno consentito all’ex gip di depositare nelle mani di Savasta (ora anche lui ai domiciliari) una falsa denuncia che avrebbe potuto bloccare le cartelle esattoriali dell’imprenditore. D’Introno, tuttavia, ha sempre detto di aver avuto rapporti diretti con Savasta e Nardi, e mai con Capristo. Sui rapporti tra Capristo e Savasta (e l’altro ex pm Luigi Scimè, anche lui accusato a Lecce di aver preso denaro da D’Introno) aveva già riferito a Potenza un collega dei due, Lucio Vaira. Il procuratore Curcio ne ha chiesto conto direttamente a Savasta, provando a capire se tra l’ex pm e il suo capo ci fossero accordi illeciti di qualche tipo: anche in questo caso, finora, non ci sono mai state né ammissioni né riscontri. Capristo è finito ai domiciliari perché, secondo l’accusa, avrebbe mandato il proprio poliziotto di scorta a fare pressioni sulla pm tranese Silvia Curione, con l’obiettivo di far concludere una indagine per usura che avrebbe favorito tre imprenditori ritenuti amici del procuratore. Il Riesame, confermando i domiciliari, ha trasformato l’accusa da induzione indebita a concussione. Capristo la respinge fermamente, e dopo l’arresto ha presentato domanda per andare in pensione. Tra gli atti trasmessi da Trani a Potenza c’è traccia di un procedimento per falsa testimonianza nei confronti di uno dei tre imprenditori che Capristo avrebbe favorito, Gaetano Mancazzo, che nel 2014 l’allora pm Luigi Scimè avrebbe definito con richiesta di archiviazione. La Procura di Potenza va dunque avanti in una sorta di passaggio del testimone da Lecce. Dagli atti depositati con la chiusura delle indagini - la «Gazzetta» lo ha raccontato nei giorni scorsi - è emerso che l’indagine su Capristo era già stata aperta con la trasmissione da Lecce dei verbali di D’Introno, e aveva portato a passare al setaccio il tenore di vita dell’esperto magistrato. In particolare, adesso, gli accertamenti della Finanza e della Mobile di Potenza si starebbero concentrando - tra l’altro - sull’acquisto della villa in cui Capristo risiede e sui suoi rapporti con il costruttore che gliela ha venduta. «Le pretese “anomalie” nella gestione delle sue risorse economiche sono assolutamente inesistenti», hanno ribadito già ieri gli avvocati di Capristo, Angela Pignatari e Francesco Paolo Sisto: «Le operazioni di finanziamento, attestate da mutui stipulati - e, nel tempo addirittura rinegoziati - per l’acquisto della casa di residenza e di un secondo immobile al mare, sono perfettamente regolari e del tutto tracciate nell’atto notarile afferente il mutuo ipotecario contratto».

Corruzione, «Capristo prelevò in 10 anni mezzo milione in contanti». Ma la difesa dell’ex procuratore di Taranto: «Sono soldi per le normali esigenze di vita». E il Riesame conferma i domiciliari. Massimiliano Scagliarini il 09 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In dieci anni Carlo Maria Capristo ha prelevato dai suoi sei conti correnti, «in contanti e senza alcuna apparente giustificazione», circa 500mila euro, versando nello stesso periodo e sempre in contanti, «circa 130mila euro, divisi in più tranche». L’ormai ex capo della Procura di Taranto era nel mirino dei colleghi di Potenza - ieri il Riesame ha confermato l’arresto ai domiciliari, riqualificando l’accusa a suo carico in tentata concussione - già prima che partisse l’indagine sulle presunte pressioni nei confronti della collega Silvia Curione. Ma sempre per una storia che ha a che fare con la Procura di Trani: le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno, l’uomo che con i suoi racconti ha fatto finire nei guai l’ex gip Michele Nardi e gli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè. Il 4 febbraio dello scorso anno, infatti, il procuratore di Lecce ha trasmesso a Potenza uno stralcio dei verbali di D’Introno. Il tema sono le cartelle esattoriali da 10 milioni che l’imprenditore coratino (oggi in carcere a Trani) tenta in tutti i modi di bloccare, anche pagando - dice lui - Nardi e Savasta. A fine 2010 viene così architettata una bufala: denunciare che le notifiche delle cartelle esattoriali erano state falsificate, in modo da permettere a Savasta di sequestrarle. «Nardi mi disse comunque che lui aveva rapporti diretti con Capristo», mette a verbale D’Introno davanti alla Procura di Lecce. E racconta delle modalità della denuncia: «Nardi e mio fratello Domenico si recarono presso la Procura di Trani e unitamente al capo della Procura depositarono una integrazione di denuncia direttamente alla segreteria di Savasta. Fu mio fratello che mi disse, e Nardi d’altra parte lo confermò, che Nardi, Capristo e Domenico andarono tutti e tre insieme nella segreteria di Savasta a depositare l’integrazione». Le indagini di Lecce - questo va detto - non hanno finora fatto emergere alcuna responsabilità di Capristo quale capo degli ex pm Savasta e Scimè. Ma il procuratore Curcio, a Potenza, chiede alla Finanza di guardare nei conti del collega. Ed emergono quelle che gli stessi militari, in due informative di marzo e aprile 2019, definiscono «anomalie»: «Premettendo che il Capristo Carlo utilizza le carte di credito - in uso alla sua famiglia - per pagare qualsiasi tipo di spesa, anche la più irrisoria, si rilevano molteplici prelievi in contanti, effettuati anche nella stessa giornata presso diversi bancomat e sportelli bancari». Si tratta, appunto, di circa mezzo milione di euro in dieci anni («Con una media annuale di 50mila euro», secondo la Finanza), da sei conti aperti tra Bnl, Bcc di San Marzano, Mps e Bppb su cui nel tempo vengono versati anche 130mila euro in contanti. La circostanza è anomala - secondo i militari - perché la famiglia di Capristo «percepisce solo redditi da lavoro dipendente». «A fronte di una redditualità medio alta, le spese in beni immobili e mobili appaiono irrisorie ma aumentano nell’ultimo periodo (2015-2018), lasso temporale in cui sono state acquistate tre autovetture (somma complessiva di circa 60mila euro) e una villa del valore di 565.300 euro. Tuttavia appare anomala, tenuto conto del reddito della famiglia di che trattasi, la modalità di acquisto dell’immobile, visto che lo stesso è stato oggetto di una compravendita coperta interamente da un mutuo di 620mila euro». «Si tratta - dice però l’avvocato di Capristo, Angela Pignatari - di normali prelievi fatti nel corso degli anni per la gestione delle esigenze di vita. Non c’è sperequazione tra entrate e uscite, ci sono solo i debiti contratti per l’acquisto di una abitazione». Tuttavia il procuratore Curcio ha ipotizzato nei confronti di Capristo anche la corruzione in atti giudiziari, ritenendo di dover svolgere «particolari approfondimenti» anche sui rapporti con «facoltosi imprenditori pugliesi» e con «il circuito imprenditoriale/professionale che ruota intorno al noto avvocato Amara e all’appartenente alla Polizia di Stato e faccendiere Paradiso Filippo». Gli approfondimenti sono in corso. Il 19 maggio, giorno dell’arresto, svolgendo le perquisizioni ordinate dalla Procura di Potenza (che hanno riguardato anche il carabiniere Martino Marancia e l’ex cancelliere tranese Domenico Cotugno, entrambi non indagati ma ritenuti fedelissimi dell’ex procuratore), i finanzieri e gli agenti della Mobile di Potenza hanno sequestrato a Capristo alcuni atti delle indagini a carico di Amara: erano nascosti in macchina, sotto il tappetino della ruota di scorta.

Chi è Francesco Curcio, il procuratore che ha indagato su Capristo. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2020. Francesco Curcio è reggente della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza. Nel 2018 era stato votato all’unanimità in Plenum, però lo scorso gennaio il Consiglio di Stato ha annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi. Originario di Polla (Salerno), già magistrato della Procura Nazionale Antimafia, è stato in passato sostituto alla procura di Napoli. Ha indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, ed ha condiviso la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. È stato anche titolare di indagini sui vertici dei Casalesi e sui rapporti tra il clan del boss Michele Zagaria e la Banda della Magliana nelle attività di riciclaggio. È stato uno dei pm del processo “Spartacus 3” che nel 2009 si chiuse con 50 condanne, pene per complessivi tre secoli di carcere e la confisca di numerosi beni nei confronti di presunti affiliati al gruppo del clan dei Casalesi.

Il procuratore capo di Taranto Capristo indagato per abuso d'ufficio sul falso complotto Eni. Il magistrato è coinvolto in un'inchiesta della procura di Messina sulla base di un esposto anonimo recapitato quando era in servizio a Trani: trasmise gli atti a Siracusa invece che a Milano. La Repubblica il 02 luglio 2019. La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d'ufficio, il procuratore di Taranto Carlo Capristo. Le accuse si riferiscono all'epoca in cui il magistrato era a capo della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell'esposto anonimo su un presunto complotto contro l'Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. L'esposto, secondo l'accusa, sarebbe stato finalizzato in realtà a depistare un'altra inchiesta, nel frattempo aperta a Milano, su tangenti pagate dall'Eni in Nigeria e Algeria. L'anonimo venne mandato alla procura di Siracusa e a quella di Trani. A Siracusa l'allora pm Giancarlo Longo, che ha poi patteggiato una condanna per corruzione e associazione a delinquere, su input di Giuseppe Amara, legale esterno dell'Eni, avrebbe messo in piedi un'indagine priva di qualunque fondamento, su un falso piano di destabilizzazione della società del cane a sei zampe e del suo amministratore delegato. In realtà, per gli inquirenti che hanno arrestato Amara e un altro avvocato, Giuseppe Calafiore, lo scopo sarebbe stato intralciare l'inchiesta milanese sulle presunte tangenti in cui Descalzi era coinvolto. A Capristo, sentito le scorse settimane dai pm messinesi, che hanno indagato e processato Longo scoprendo il piano, si contesta l'anomala trasmissione dell'esposto al collega Longo anziché alla procura di Milano, naturale sede dell'inchiesta sul falso complotto. L'indagine della Procura di Messina ha scoperchiato un vero e proprio sistema corruttivo con al centro Amara e Calafiore che riuscivano, pagando mazzette e facendo regali, a condizionare indagini sui loro più grossi clienti. "Sono stato già interrogato dai colleghi di Messina alcune settimane fa alla presenza del mio difensore e ho rappresentato loro la correttezza del mio operato", ha dichiarato in proposito. "Nessuno - aggiunge - poteva immaginare all'epoca alcun preordinato depistaggio. Quando giunsero gli anonimi a Trani - spiega Capristo - furono assegnati a due sostituti che si occuparono dei doverosi accertamenti sulla loro fondatezza. Successivamente - prosegue - venne formalizzata una articolata richiesta del fascicolo dal PM di Siracusa. La richiesta fu analizzata dai due sostituti che con apposita relazione mi rappresentarono che gli atti potevano essere trasmessi. Vistai la relazione e disposi la trasmissione del fascicolo al Procuratore di Siracusa. Nessuno poteva immaginare all'epoca alcun preordinato depistaggio".  

Il flop di Capristo sul rogo del Petruzzelli: per il direttore Pinto calvario di 16 anni ma era innocente. Angela Stella su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Carlo Maria Capristo, 67 anni, entra in magistratura dai primi anni ottanta. Prima di arrivare alla Procura di Taranto nel 2016, Capristo è stato prima a Bari, dove ha ricoperto l’incarico di sostituto procuratore occupandosi di inchieste delicate. La più nota è quella sull’incendio doloso del teatro Petruzzelli, distrutto all’alba del 27 ottobre del 1991, e terminata con l’assoluzione dei principali imputati. Dal primo momento gli investigatori imboccarono la pista che portava all’ex gestore, Ferdinando Pinto. Il pm decise di ascoltare l’indagato Pierpaolo Stefanelli, malato terminale di Aids, ricoverato nell’ospedale di Catania, e morto dieci giorni dopo. La testimonianza fu resa in assenza del legale e divenne importante per accusare Pinto; l’uomo fu arrestato con l’accusa di aver commissionato il rogo e di concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso. Tredici anni di carcere fu al processo la richiesta dell’accusa, e, in attesa dell’ espiazione della pena, anche un regime da sorvegliato speciale. Pinto, invece, fu poi rimesso in libertà e infine, nel 2007, del tutto scagionato. Il procuratore della Cassazione disse che il processo non si sarebbe mai dovuto celebrare. Tra il 1995 e il 1996, come riferì Il Giornale, è lo stesso Capristo a finire sotto la lente degli inquirenti, che lo accusavano di aver fornito notizie sulle indagini a Francesco Cavallari, noto alle cronache come il re Mida della sanità privata italiana, uomo chiave di un’inchiesta su un presunto intreccio tra criminalità, affari e politica. Capristo venne assolto. Nel 2008 diviene capo della Procura di Trani. Anche lì la sua carriera è segnata da clamorose inchieste come quella contro le principali agenzie di rating mondiali, Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s, responsabili a suo dire di aver tagliato il rating italiano ingiustificatamente e manipolato il mercato: pure in questo caso arrivarono, tra l’altro, sette assoluzioni. Un altro caso che giunse alla ribalta nazionale fu quello relativo al nesso di causalità tra somministrazione del vaccino contro morbillo e parotite e insorgenza dell’autismo, a partire dalla denuncia di alcuni genitori. Una teoria alquanto stramba, come conclamato dalla comunità scientifica internazionale, il cui esito giudiziario terminò con una archiviazione. Il nome di Capristo finì poi nel 2009 sulle pagine del Fatto Quotidiano che pubblicò l’intercettazione di una telefonata tra lui e il suo legale, in cui Capristo raccontava di aver incontrato ‘Raffaele’, individuato nel ministro Fitto, il quale gli era sembrato intenzionato a “sbarrare la strada” a un magistrato barese proposto quattro mesi prima dal Csm per la procura di Brindisi. Tutto finì in un nonnulla. Non si sa ancora invece come finirà un’altra questione: nel luglio 2019 la Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d’ufficio, proprio Capristo. Le accuse si riferiscono all’epoca in cui il magistrato era a capo sempre della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell’esposto anonimo su un presunto complotto contro l’Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. Secondo gli inquirenti Capristo trasmise gli atti a Siracusa invece che a Milano, naturale sede dell’inchiesta sul falso complotto. In questo momento nella mani di Capristo c’erano le sorti dell’Ilva e di Arcelor Mittal.

Il procuratore Capristo prosciolto dal Tribunale di Messina per le accuse sulla vicenda ENI-De Scalzi.  Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2020. Il Gip del Tribunale di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio. Come da noi previsto è diventato ufficiale il provvedimento di archiviazione del Gip del Tribunale di Messina, dott. Monia De Francesco che ha confermato la richiesta della procura nei confronti dell’ex procuratore di Taranto Capristo , in quanto “rimangono delle irrisolte lacune ricostruttive”, e “non è stato possibile chiarire in modo sufficiente da poter sostenere un’ accusa in un’eventuale dibattimento“. Il Tribunale ha ritenuto quindi non sussistente alcun profilo di rilevanza penale nella condotta posta in essere dall’ex-procuratore capo di Taranto Capristo in merito ai fatti della trattazione degli esposti anonimi inviati a Trani sulla vicenda Eni-Descalzi. Il Gip di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio.

L’indagine di Taranto sui fumi dell’Ilva finisce sotto inchiesta. Commissari e magistrati sono stati sentiti dalla procura di Potenza. Nel mirino anche la consulenza ad Amara. Giuliano Foschini il 18 luglio 2020 su La Repubblica. A Potenza c’è un’inchiesta che potrebbe riscrivere un pezzo della storia recente della più importante industria italiana. Il procuratore Francesco Curcio indaga infatti sulle modalità con cui è stata condotta dalla procura di Taranto, nella sua seconda fase, l’indagine sull’inquinamento causato dall’Ilva di Taranto. E su come un gruppo di imprenditori e politici si preparavano a gestire il più grande appalto italiano: i 3...

Il procuratore Capristo prosciolto dal Tribunale di Messina per le accuse sulla vicenda ENI-De Scalzi.  Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2020. Il Gip del Tribunale di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio. Come da noi previsto è diventato ufficiale il provvedimento di archiviazione del Gip del Tribunale di Messina, dott. Monia De Francesco che ha confermato la richiesta della procura nei confronti dell’ex procuratore di Taranto Capristo , in quanto “rimangono delle irrisolte lacune ricostruttive”, e “non è stato possibile chiarire in modo sufficiente da poter sostenere un’ accusa in un’eventuale dibattimento“. Il Tribunale ha ritenuto quindi non sussistente alcun profilo di rilevanza penale nella condotta posta in essere dall’ex-procuratore capo di Taranto Capristo in merito ai fatti della trattazione degli esposti anonimi inviati a Trani sulla vicenda Eni-Descalzi. Il Gip di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio.

Potenza, l'indagine su Capristo ora punta sui soldi dell'ex Ilva. «Favorì un imprenditore barese». Gli avvocati hanno presentato una nuova istanza di scarcerazione. Massimiliano Scagliarini il 19 Luglio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Quando venne sentito dalla Procura di Roma, l’avvocato Giuseppe Calafiore riferì le parole del suo collega di studio Piero Amara a proposito di Carlo Capristo: «“Io l’ho convinto a fare la domanda per Taranto, anche perché a me serve a Taranto in quanto io a Taranto ho interessi con l’Ilva”». Proprio dall’ex Ilva è ripartita l’inchiesta di Potenza, quella che il 19 maggio ha fatto finire ai domiciliari l’ex procuratore Capristo insieme al suo poliziotto di scorta e a tre imprenditori: l’ipotesi, stavolta, è che - anche grazie ai buoni uffici di Amara - un altro imprenditore possa aver ottenuto un trattamento privilegiato da parte dell’amministrazione straordinaria del gigante dell’acciaio. Per questo nei giorni scorsi il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, ha ascoltato una serie di testimoni dopo aver mandato la Finanza ad acquisire documenti nella sede dell’Ilva in amministrazione straordinaria. Al centro del lavoro investigativo c’è, appunto, un imprenditore del Barese, storico fornitore dell’ex Ilva, che si sarebbe rivolto all’allora procuratore Capristo per chiedere l’apertura di un canale con la società commissariata con l’obiettivo di ottenere la liquidazione dei suoi crediti commerciali. Di questo episodio la Procura di Potenza ha chiesto conto, in qualità di testimone, anche al commissario Enrico Laghi: e non tanto perché le richieste dell’imprenditore potevano non essere legittime, ma per capire se in questa storia possa aver avuto un ruolo l’allora procuratore di Taranto. Capristo guida infatti l’accusa nei confronti dei manager dell’ex Ilva, e la Procura ha un ruolo non secondario nel destino dello stabilimento che è ancora sottoposto ad indagini e sequestri. Ecco, dunque, la delicatezza di questa vicenda. Capristo è stato arrestato con l’accusa di aver tentato - tramite il suo poliziotto di scorta, Michele Scivittaro - di esercitare pressioni su Silvia Curione, sostituto della Procura di Trani (dove Capristo è stato fino al 2016) affinché favorisse i tre amici imprenditori. Accusa che il magistrato barese ha negato seccamente già nell’interrogatorio di garanzia: «Se avessi voluto - è in sostanza la linea di difesa - avrei potuto chiamare direttamente la collega, non avevo bisogno di mandare nessuno». Già nelle scorse settimane l’inchiesta di Potenza si era avvicinata all’ex Ilva, approfondendo l’incarico di difesa affidato all’avvocato molfettese Giacomo Ragno, 72 anni, condannato a Lecce nell’ambito del processo in abbreviato sulla giustizia truccata a Trani e ritenuto dai testimoni un «fedelissimo» di Capristo. Anche in quel caso, il procuratore Curcio aveva ascoltato testimoni per capire come nascesse la scelta di un penalista così geograficamente «lontano»: i responsabili dell’ex Ilva avevano spiegato che, di prassi, nei procedimenti penali ciascuno è libero di nominare il proprio avvocato di fiducia salvo gradimento dell’azienda. Tra i documenti acquisiti dalla Finanza, oltre alle fatture liquidate dall’Ilva ad alcuni avvocati (tra cui lo stesso Amara), ci sono appunto i documenti relativi ai pagamenti e alle forniture effettuate dall’imprenditore barese, la cui posizione è al vaglio. Capristo intanto attende, ai domiciliari, che venga approvata la sua domanda di pensionamento: gli avvocati Francesco Paolo Sisto e Angela Pignatari hanno presentato una nuova istanza per chiedere la revoca della misura cautelare, puntando anche sulle precarie condizioni fisiche del magistrato.

Ilva, l’ex procuratore di Taranto e il legale dei falsi depistaggi Eni. La Procura di Potenza indaga e ha ascoltato i primi testimoni. Il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli: "Era il 3 luglio 2019 e pubblicamente chiedevo al Csm di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in Procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo "Ambiente Svenduto" partecipava anche l’avvocato Piero Amara". Il Fatto Quotidiano il 19 luglio 2020. Come già scritto dal fattoquotidiano.it lo scorso 12 giugno la procura di Potenza è impegnata a capire come l’indagine sull’ex Ilva, ormai sotto sequestro da sei anni e al centro di battaglie legali, sindacali e istituzionali, sia stata condotta con l’arrivo alla guida dell’ufficio inquirente di Carlo Maria Capristo, agli arresti domiciliari per le presunte pressioni su una magistrata. Ma quando Capristo fu arrestato – insieme a un poliziotto suo autista – si comprese che l’inchiesta da quel singolo episodio poteva portare più lontano, in acque ancora più torbide. Il procuratore di Potenza Francesco Curcio vuole capire come l’indagine sul polo siderurgico, in un settore strategico, sia stata condotta dalla procura di Taranto, sull’inquinamento causato dall’Ilva. Il punto è anche dipanare la tela di imprenditori e politici stavano tessendo per entrare e gestire i circa 3 miliardi che i vari governi avevano annunciato sarebbero stati messi a disposizione per l’ambientalizzazione e la bonifica del siderurgico e la riqualificazione della città martoriata, soprattutto per quanto riguarda il quartiere Tamburi dalle polveri. Il primo passo è stato cercare di chiarire i rapporti che Capristo ha intrattenuto con i commissari nominati dal governo prima della cessione del ramo di azienda ad Arcelor Mittal. Ma soprattutto con un consulente scelto dai commissari: non uno qualsiasi ma l’avvocato Pietro Amara, condannato per corruzione in atti giudiziari e coinvolto in diverse indagini. Il rapporto tra il procuratore e l’avvocato dell’Eni, finito nei guai sentenze pilotate, era noto perché emerso nell’ambito dell’indagine dei pm di Messina. Nei giorni scorsi il fascicolo di Potenza ha cominciato a diventare più corposo con i verbali racconti dagli investigatori. Uno di questi è quello dell’ex commissario Enrico Laghi, sentito come testimone, a cui è stato chiesto se la Procura di Taranto avesse sponsorizzato mai alcuni consulenti. E se avesse chiesto di accelerare pagamenti a determinati imprenditori. Ma Laghi – secondo quanto riportano Repubblica e Gazzetta del Mezzogiorno – ha negato. L’altro verbale racconto è quello di una magistrata che si era opposta, per prima, al dissequestro dell’altoforno che poi invece fu disposto. Un faro è puntato anche sul patteggiamento che fu rigettato il 30 giugno 2017 perché le pene ritenute inadeguate rispetto alla gravità dei reati. Proprio Piero Amara – di cui alcuni documenti sono stati trovati sotto l’auto di scorta della macchina di Capristo – era arrivato nel Palazzo di giustizia di Taranto come consulente della struttura legale di Ilva in As per partecipare alla cosiddetta “trattativa” con la procura per raggiungere quel patteggiamento che qualche anno prima, il pool di magistrati guidati allora da Franco Sebastio, aveva respinto. Lo staff legale dell’Ilva alza la posta offrendo il pagamento di una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro, 8 mesi di commissariamento giudiziale e 241 milioni di euro di confisca (invece dei 9 proposti nella prima istanza) come profitto del reato da destinare alla bonifica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Ma i giudici della Corte d’assise ritengono “le pene concordate con i rappresentati della pubblica accusa” sono “sommamente inadeguate e affatto rispondenti a doverosi canoni di proporzionalità rispetto alla estrema gravità dei fatti oggetto di contestazione”. Agli atti ci sono poi le dichiarazioni – rilasciate nelle inchieste di Milano e di Perugia, sul caso Palamara – dall’avvocato Giuseppe Calafiore, socio proprio di Amara. Ci sarebbe stato un forte interessamento di Amara, che però nega, perché Capristo riuscisse ad agguantare la poltrona di capo. A questo si aggiunge che a marzo 2017, due società, la “Dagi” e la “Entropia Energy”, di cui Amara è amministratore di fatto, si erano domiciliate a Martina Franca, in provincia di Taranto: l’ipotesi è che il legale puntasse ai lavori. “Invieremo un esposto al ministro della Giustizia affinché sia fatta luce su tutti gli interrogativi che pesano sulla vita dei cittadini e delle cittadine di Taranto, una città che paga un prezzo drammatico di vite per l’inquinamento – dice il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli – Era il 3 luglio 2019 e pubblicamente chiedevo al Csm di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in Procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo “Ambiente Svenduto” partecipava anche l’avvocato Piero Amara coinvolto nel processo Eni o sistema Siracusa, inchiesta che coinvolse il 2 luglio anche il procuratore Capristo”. “Sia l’avvocato Amara sia il procuratore Capristo – continua l’esponente dei Verdi – furono coinvolti nell’indagine sul depistaggio dell’indagine Eni, mentre il procuratore di Taranto rimase indagato per abuso d’ufficio”. E successivamente archiviato. “Nonostante le vicende giudiziarie di Amara fossero pubbliche, coinvolto nello scandalo delle sentenze pilotate del Consiglio di Stato – continua l’esponente dei Verdi – l’avvocato partecipò a delle riunioni in Procura insieme all’ufficio commissariale per analizzare la vicenda del patteggiamento su Ilva”. “Il Csm non intervenne mai – ricorda Bonelli – e il procuratore Capristo rispose dopo poche ore alla mia richiesta al Csm affermando che l’avvocato Amara non era stato invitato dalla Procura ma dall’ufficio commissariale: perché – chiede Bonelli – una persona indagata per corruzione e poi arrestata poteva partecipare a riunioni negli uffici della Procura che riguardavano l’andamento del processo Ambiente Svenduto? Perché dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia a Capristo, il 2 luglio 2019, per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Eni, la stessa inchiesta dove era coinvolto l’avvocato Palamara, il Csm non adottò nessun provvedimento?”.

Capristo, l’indagine torna sull’llva: 3 dipendente interrogati sugli incarichi all'avvocato Ragno. La fuga di notizie, archiviata: il magistrato era finito sotto accusa di aver anticipato la notizia di un sequestro nell'acciaieria. Massimiliano Scagliarini il 12 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nell’ottobre 2017 la Procura di Potenza aveva indagato su Carlo Capristo per una ipotesi di violazione del segreto di indagine. Una vicenda, nata dalla trasmissione di atti dalla Procura di Lecce, in cui si ipotizzava che il procuratore di Taranto avesse spifferato a un avvocato esterno dell’Ilva di un imminente sequestro all’interno dello stabilimento. L’accusa finirà archiviata su richiesta dell’aggiunto Francesco Basentini, che non riterrà rilevanti nemmeno gli elementi raccontati sul punto dal pm Lanfranco Marazia (allora a Taranto, oggi a Bari). Ma la storia è tornata a galla perché - proseguendo nelle indagini su Capristo (ai domiciliari ormai da due settimane) - i magistrati lucani hanno ascoltato tre dipendenti dell’Ilva: il loro sospetto è che dietro quella vecchia storia possa esserci stato uno scambio di favori. La circostanza al centro degli approfondimenti riguarda infatti un avvocato di Molfetta, Giacomo Ragno, già a processo a Lecce con l’accusa di corruzione nel troncone dell’inchiesta sulla Procura di Trani che dovrebbe chiudersi il 24 con la sentenza in abbreviato: rischia una condanna a 2 anni e 8 mesi per calunnia e corruzione. «Posso dire - aveva raccontato ai magistrati di Potenza il pm tranese Lucio Vaira - che il dottor Capristo intratteneva rapporti cordiali con la generalità della classe forense. Ho notato che aveva una certa consuetudine con l’avvocato Giacomo Ragno, che spesso ho avvistato nell’anticamera del procuratore da ciò deducendone che il procuratore era in servizio». Nel 2017 Ragno venne nominato come legale da due dipendenti dell’Ilva nell’ambito di un fascicolo del pm Marazia sullo smaltimento dei rifiuti dello stabilimento. L’ascolto dei tre testimoni serviva proprio a escludere che dietro la nomina dell’avvocato Ragno ci fosse qualche tipo di pressione, esattamente come - secondo la Procura di Lecce - ritiene che sia avvenuto nel caso di Trani. Qui l’imprenditore Flavio D’Introno (che a Potenza è stato sentito martedì) ha raccontato di essersi rivolto a Ragno, su input dell’ex gip Michele Nardi, affinché l’avvocato individuasse un falso testimone per far dichiarare false le notifiche delle cartelle esattoriali da 10 milioni di euro. Ciò che sarebbe emerso dalle testimonianze dei dipendenti dell’Ilva è che, in sostanza, ciascuno era libero di scegliersi un avvocato di propria fiducia purché fosse gradito alla società. Ma del resto lo stesso avvocato Pietro Amara, quello del «sistema Siracusa» che aveva fatto finire nei guai Capristo con la Procura di Messina (indagine poi archiviata), aveva interessi professionali con l’Ilva. Ne ha riferito alla procura di Roma il collega di studio di Amara, Calafiore: «”Io - qui Calafiore sta riferendo le parole di Amara a proposito di Capristo - l’ho convinto a fare la domanda per Taranto, anche perché a me serve a Taranto in quanto io a Taranto ho interessi con l’Ilva”». Amara è considerato una pedina del sistema Palamara per il tentativo di influire sulla nomina del Procuratore di Gela. E anche se per questa vicenda l’accusa di corruzione è caduta (Palamara non ha mai preso soldi dai due avvocati), la Procura di Perugia ha indagato anche sui rapporti tra Capristo e Palamara che facevano parte della stessa corrente: «Non ho ricordi su attività sollecitatoria di Palamara», mette a verbale l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Palamara, dice Legnini, mise invece «particolare impegno» per la Procura di Trani: «Sostenne fortemente la nomina del dottor Di Maio», che ora a Potenza deve rispondere di favoreggiamento per aver provato a far archiviare il fascicolo sull’autista del suo predecessore.

Potenza, torna libero ex Procuratore Taranto Capristo. Procura chiede giudizio immediato: Scivittaro patteggia. La  prima  udienza  dibattimentale è stata fissata per il giorno 12 ottobre presso il Tribunale potentino. La Gazzetta del Mezzogiorno. Su istanza della difesa, il Gip del tribunale di Potenza, Antonello Amedeo, ritenendo cessate le esigenze cautelari ha revocato gli arresti domiciliari all'ex Procuratore della  Repubblica di Taranto Carlo Maria Capristo per il quale è stato chiesto il giudizio immedizato. Si svolgerà il prossimo 12 ottobre, davanti al Tribunale di Potenza, la prima udienza del processo contro l’ex Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, e degli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, accusati di tentata concussione ai danni di due sostituti procuratori, in un’inchiesta per perseguire penalmente, «senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto», una persona che gli imprenditori avevan o «infondatamente denunciato per usura in loro danno». Capristo, già Procuratore della Repubblica di Trani, i tre imprenditori e l'ispettore della Polizia Michele Scivittaro finirono agli arresti domiciliari, per tale vicenda, nel maggio scorso. In relazione alla posizione di Scivittaro, che ha patteggiato una condanna a un anno e dieci mesi, Capristo è accusato anche di falso in atto pubblico e truffa aggravata continuata. Tali reati - secondo la Procura della Repubblica di Potenza - furono commessi dall’ex Procuratore di Taranto «per consentire a Scivittaro di lucrare illecitamente emolumenti dal Ministero degli Interni». Il procedimento ingiusto fondato sulla denuncia falsa dei tre imprenditori non andò avanti perché per la «ferma opposizione» di un giovane pubblico ministero in servizio a Trani, che denunciò tutto e fece avviare un’inchiesta.

Nel frattempo, comunque, le indagini continuano. 

Capristo ritorna libero (di difendersi). Antonello de Gennaro il 21 Agosto 2020 su Il Corriere del Giorno. I reati di cui è accusato l’alto magistrato secondo la Procura della Repubblica di Potenza furono commessi “per consentire a Scivittaro di lucrare illecitamente emolumenti dal ministero degli Interni”. Secondo l’accusa, l’agente della Polizia di Stato anziché lavorare in Procura o per il suo ufficio, se ne andava in giro – tra Andria, Giovinazzo, Bari – a farsi gli affari suoi o a sbrigare con la presunta complicità di Capristo chiamato a rispondere di aver firmato gli statini di servizio dell’agente. E’tornato in libertà il magistrato Carlo Maria Capristo arrestato lo scorso 19 maggio scorso su richiesta del procuratore di Potenza Francesco Curcio, il quale a sua volta agisce nonostante la sua nomina sia stata revocata sin dal gennaio scorso, a seguito della decisione del Consiglio di Stato di non essere in possesso dei titoli per fare il procuratore capo! Si svolgerà quindi il prossimo 12 ottobre, davanti al Tribunale di Potenza, la prima udienza dibattimentale del processo contro Capristo e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, accusati di una presunta tentata concussione ai danni di due sostituti procuratori Lanfranco Marazia e Silvia Curione e (rispettivamente marito e moglie), per un’inchiesta condotta in passato dalla pm Curione metre prestava servizio presso la Procura di Trani per perseguire penalmente, secondo le teorie della procura lucana “senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto”, una persona che gli imprenditori avevano “infondatamente denunciato per usura in loro danno”. Incredibilmente la Procura di Potenza non è competente su quanto accade negli uffici giudiziari di Trani, che in realtà come ben noto è competenza della Procura di Lecce. Secondo la Procura lucana i Mancazzo , avrebbero cercato di convincere la Curione, giovane magistrato della Procura di Trani, a chiudere le indagini per usura e avviare il processo in quanto gli interessati avevano secondo il teorema accusatorio un obiettivo ben preciso: ottenere indebitamente dei vantaggi economici e i benefici di legge conseguiti dallo status di vittime di usura. Ed in tutto ciò è stato coinvolto senza alcuna prova concreta ed inconfutabile il procuratore di Taranto Capristo. I reati di cui è accusato l’alto magistrato secondo la Procura della Repubblica di Potenza furono commessi “per consentire a Scivittaro di lucrare illecitamente emolumenti dal ministero degli Interni”. Secondo l’accusa, l’agente della Polizia di Stato anziché lavorare in Procura o per il suo ufficio, se ne andava in giro – tra Andria, Giovinazzo, Bari – a farsi gli affari suoi o a sbrigare con la presunta complicità di Capristo chiamato a rispondere di aver firmato gli statini di servizio dell’agente. Tutto questo dal gennaio 2018 al momento degli arresti, come si legge nel capo di imputazione, “con l’avallo del procuratore Capristo che controfirmava le sue presenze in servizio e gli straordinari mai prestati”. Una maniera per giustificare il proprio impianto accusatorio in mancanza di alcun coinvolgimento reale di Capristo sulle presunte pressioni del suo autista-poliziotto e dei fratelli Mancazzo, lamentate nei confronti della pm Silvia Curione la quale non ha perso occasione per apparire anche fotografata nel suo ufficio sui giornali. Incredibilmente l’azione penale contro Capristo è stata esercitata da procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, il quale a sua volta era stato nominato illegittimamente alla guida della procura lucana, a seguito di nomina adottata dal Csm (una delle tante nomine “pilotate” dalla “cricca” Palamara & company), nonostante Curcio non avesse superato la settima valutazione di professionalità, a differenza dalla sua collega Laura Triassi che contestò la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura, vedendosi riconoscere le proprie ragioni dal TAR Lazio, decisione contro la quale Curcio si era opposto mediante ricorso al Consiglio di Stato, che gli aveva dato torto lo scorso gennaio, confermando la decisione del tribunale amministrativo regionale romano. Il Consiglio di Stato, nella sua pronuncia sulla nomina di Curcio come procuratore di Potenza, evidenziò che il suo sindacato non si spinge a sostenere l’irrilevanza delle funzioni svolte da Curcio «quale sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo». stigmatizzando piuttosto «l’assenza di una comparazione esplicita, ed in quanto tale misurabile secondo gli usuali canoni della ragionevolezza e proporzionalità», tra questa e quella da procuratore facente funzioni della Triassi, che invece risulta del tutto obliterata nelle valutazioni del suo profilo da parte del Csm. Il collegio giudicante del Consiglio di Stato (Giuseppe Severini presidente, Stefano Fantini estensore, e consiglieri Giovanni Grasso, Anna Bottiglieri e Elena Quadri) bocciò anche la difesa del Consiglio superiore della magistratura che si era costituito in udienza per contestare «la necessità di un’analitica valutazione dei profili dei candidati con riferimento alle attitudini ed al merito», a favore di una «tecnica di redazione di maggiore concisione sia nella presentazione (od elencazione) dei candidati, che nel giudizio comparativo, in assenza di una prescrizione normativa specifica che lo precluda». Nel caso di specie, infatti, più che di «concisione» bisognerebbe parlare di omissione di una circostanza rilevante che ne inficia la completezza. Adesso il Csm, colpito da uno scandalo scatenato per la deriva correntizia di alcune nomine, delle correnti conniventi alla sinistra (nelle persone dei parlamentari Cosimo Ferri di Italia Viva e Luca Lotti del Pd) dovrà quindi tornare sul suo operato, «rivalutando – come scriveva il Tar del Lazio – la posizione della ricorrente e poi comparandola» con quella dei tre procuratori in servizio a Potenza (Curcio n.d.a.) , Nola e Napoli, dove anche un altro candidato ha ottenuto l’annullamento della nomina di Falcone per motivi simili. Come ben noto a tutti questo giornale, che ha sempre manifestato il proprio garantismo giudiziario, ha sempre difeso l’operato del procuratore Capristo per una serie di motivi, che andiamo di seguito ad elencare:

PRIMO MOTIVO. Il presunto vantaggio del reato che Capristo avrebbe commesso consisterebbe nel poter condividere con i tre imprenditori denuncianti (cioè i Mancazzo n.d.a) i vantaggi economici derivanti da una legge dello Stato, truffandolo, a favore delle vittime dell’usura. Ma i Mancazzo hanno sempre negato qualsiasi contatto diretto con Capristo. Contatti dei quali peraltro la Procura di Potenza non ha mai portato alcuna prova.

SECONDO MOTIVO. Se Capristo avesse realmente avuto un intenzione delinquenziale e truffaldina di arrivare ad accusare per usura un innocente pur di lucrare dei vantaggi economici, non avrebbe mai potuto revocare la delega alla “pm-protagonista” Silvia Curione per affidarla ad altro collega più accondiscendente o addirittura avocare a sè il fascicolo auto-assegnandosi personalmente le indagini. Capristo da procuratore capo di Taranto non ha mai fatto nulla di tutto questo non avendo egli alcuna competenza e/o potere giudiziario sulle decisioni della Procura di Trani. Quindi come avrebbe mai potuto esercitare delle illegittime pressioni?

TERZO MOTIVO. L’ ipotesi accusatorio formulata dalla Procura di Potenza nei confronti di Capristo appare se non fantasiosa … a dir poco inconsistente e fragilissima per il fatto che non fa altro che trasformare i normali e quotidiani rapporti dialettici fra un procuratore capo ed un suo sostituto (il pm Lanfranco Marazia) , un’ ipotesi di reato nella forma del tentativo nei confronti della moglie (la pm Silvia Curione), è incredibilmente assurda e contestualmente purtroppo “ridicola” e vergognosa per la giustizia italiana.

Chi ha avuto come il sottoscritto una certa frequentazione negli uffici giudiziari delle varie procure italiane, sa bene che le discussioni ed anche gli scontri dialettici e le divergenze giuridiche fra un procuratore Capo ed i suoi sostituti, sono frequenti, ma sa anche molto bene che rientrano nella quotidianità del lavoro di un magistrato. Arrivare al punto trasformarli in tentativi di reato, in indebite “pressioni” a mio parere (ed anche di illustri giuristi e magistrati di Cassazione da me consultati) è a dir poco onestamente folle e del tutto non credibile. Partendo dal punto di vista, dell'”accoppiata” barese Curione-Marazia, tutto può diventare una “pressione”, anche una semplice parola proferita in più, un gesto, una locuzione. E quindi di fatto nulla lo è realmente. Inoltre vi è un particolare non indifferente. Questi eventuali vantaggi economici a favore dei Mancazzo si sarebbero potuti concretizzare esclusivamente in un mutuo a tasso agevolato destinato a mantenere in attività l’impresa danneggiata dall’usura, finanziamento che però sarebbe stato corrisposto soltanto dopo una sentenza definitiva che avesse accertato il reato, quindi tutto ciò dopo anni ed anni di trafila giudiziaria e burocratica,  ed inoltre sarebbe stato da dividere fra quattro persone!

Orbene se usiamo la ragione, con equilibrio, senza credere al sensazionalismo dei titoli “strillati” dei soliti giornalisti manettari e ventriloqui di qualche magistrato a caccia di gloria e ribalta nazionale, bisogna ricordare che lo stipendio mensile netto di un Procuratore Capo, cioè del ruolo che Capristo ricopriva, è intorno agli ottomila euro al mese, motivo per il quale l’ipotesi folle di commettere un reato (o meglio un tentativo) per ottenere un mutuo a tasso agevolato che peraltro è vincolato alla sua destinazione, sul quale poter lucrare al massimo qualche decina di migliaia di euro, in tempi futuri e sopratutto incerti, sempre sulla base del presupposto che il reato di usura venisse accertato in sede giudiziale, dopo le consueti lungaggine burocratiche della giustizia italiana, è una ipotesi del terzo tipo, cioè dell’irrealtà, che in giudizio si potrebbe basare soltanto sull’ipotesi che Capristo sia un folle o uno spregiudicato balordo. E chi conosce Carlo Maria Capristo sa molto bene che non lo è affatto. Concludendo, non posso che manifestare ancora una volta il mio sdegno nel ricordare che all’atto della perquisizione disposta dalla Procura di Potenza nell’ufficio di Capristo presso la Procura di Taranto, l’aggiunto Maurizio Carbone, invece di manifestare una minima forma di solidarietà umana , e di necessario garantismo, nei confronti del suo ex procuratore capo, diramò questo comunicato (riportato sotto integralmente) e peraltro stranamente…mai inviato al nostro giornale! Ci permettiamo di porre pubblicamente una semplice domanda al procuratore aggiunto Maurizio Carbone che fra qualche mese tornerà in “panchina” con l’imminente nomina di un nuovo procuratore capo di Taranto, che non potrà essere lui, non avendone i i titoli necessari qualificanti : ma se le imputazioni “non riguardano l’attività del nostro ufficio” vuole farsi spiegare dal suo “compagnuccio” Francesco Curcio anch’egli esponente della corrente di Area, (il gruppo più a sinistra della magistratura italiana n.d.a. ) una cosa per tutti noi ?

“Ma se le vicende giudiziaria, come scrive Carbone nel suo comunicato, non riguardavano gli uffici giudiziari di Taranto, allora che competenza ha la Procura di Potenza?” Me lo chiedeva un importante magistrato amico del Csm…

Corruzione, 15 arresti: ci sono il pm Longo, l’avvocato di Eni Amara e Bigotti, imprenditore del caso Consip. Una rosa di nomi eccellenti e frequentatori assidui delle cronache giudiziarie, quelli finiti nell'inchiesta delle Procure di Roma e Messina, protagonisti di due associazioni a delinquere. Spicca il suolo dell'ex pubblico ministero di Siracusa, il quale in cambio di soldi e vacanze avrebbe aperto procedimenti giudiziari fittizi per venire a conoscenza del contenuto di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. Il Fatto Quotidiano il 6 febbraio 2020. Quindici arresti. Una rosa di nomi eccellenti e frequentatori assidui delle cronache giudiziarie, quelli finiti nel mirino di un’operazione messa a segno dalla Guardia di Finanza su ordine delle Procure di Roma e Messina, protagonisti di due associazioni a delinquere dedite alla frode fiscale, reati contro la P.A. e corruzione in atti giudiziari. Ci sono Giancarlo Longo, ex pm della Procura di Siracusa, l’avvocato Piero Amara (legale di Eni) e gli imprenditori Fabrizio Centofanti e Enzo Bigotti, e il docente della Sapienza Vincenzo Naso. I nomi di Amara e Bigotti erano emersi negli atti dell’inchiesta sul caso Consip. Quello di Centofanti, invece, era legato all’inchiesta su Maurizio Venafro, l’ex capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti, poi assolto in uno dei vari stralci del processo Mafia Capitale. Nell’inchiesta risulta indagato anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio (oggi in pensione). Nei suoi confronti si contesta il reato di corruzione in atti giudiziari in concorso con l’avvocato Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Nei confronti di Virgilio era stata chiesta una misura “non detentiva” ma è stata respinta dal gip per assenza di ragioni cautelari. “Le indagini hanno preso le mosse da distinti input investigativi, convergendo sull’operatività dei due sodalizi criminali, (individuati dagli inquirenti come “mondo Centofanti” e “mondo Amara“, ndr) consentendo altresì la ricostruzione di ipotesi di bancarotta fraudolenta da parte di soggetti non riconducibili alla struttura delle organizzazioni”, ricostruiscono gli inquirenti. Nelle carte dell’inchiesta i pm tratteggiano il ruolo del giudice Longo, il quale “in qualità di pubblico ufficiale svendeva la propria funzione” e “ha dimostrato di possedere una personalità incline al delitto, perpetrato attraverso la strumentalizzazione non solo della funzione ricoperta, ma anche dei rapporti personali e professionali”. In particolare, nella sua veste di pubblico ministero a Siracusa – prima di essere trasferito su sua richiesta al Tribunale civile di Napoli – Longo avrebbe messo a disposizione la sua funzione giudiziale per aiutare i clienti di Amara e Calafiore, dai quali avrebbe intascato 88mila euro, vacanze offerte con la famiglia a Dubai e un capodanno al Grand Hotel Vanvitelli di Caserta. In cambio dei quali si era messo a loro servizio “a partire dal 2013 e sino ai primi mesi del 2017“. Una “mercificazione della funzione giudiziaria” nell’ambito della quale Longo avrebbe aperto procedimenti giudiziari fittizi allo scopo di venire a conoscenza del contenuto di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. Tra queste l’indagine aperta presso la Procura di Milano in cui figurava tra gli indagati l’ad di Eni Claudio Descalzi, rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. I metodi usati da Longo erano tre: creazione di fascicoli “specchio”, che il magistrato “si auto-assegnava – spiegano i pm che hanno condotto l’inchiesta – al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi (e di potenziale interesse per alcuni clienti rilevanti degli avvocati Calafiore e Amara), legittimando così la richiesta di copia di atti altrui, o di riunione di procedimenti; fascicoli “minaccia”, in cui “finivano per essere iscritti – con chiara finalità concussiva – soggetti ‘ostili’ agli interessi di alcuni clienti di Calafiore; e fascicoli “sponda”, che venivano tenuti in vita “al solo scopo di creare una mera legittimazione formale al conferimento di incarichi consulenziali (spesso, radicalmente inconducenti rispetto a quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’indagine), il cui reale scopo era servire gli interessi dei clienti di Calafiore a Amara”. “La gravità delle condotte da lui poste in essere in qualità di pubblico ufficiale che – prosegue l’ordinanza riguardo a Longo – concorreva alla redazione di atti pubblici ideologicamente falsi, si faceva corruttore di altri pubblici ufficiali, con piena accettazione da parte degli stessi, che venivano per giunta da lui remunerati con soldi pubblici, intratteneva una rete di rapporti dall’origine oscura e privi di apparente ragion di essere oltre che, in certi casi, contraria ai più elementari principi di opportunità, depone nel senso della assoluta insufficienza a contenere il pericolo di reiterazioni criminosa attraverso misure diverse e meno afflittive della custodia cautelare in carcere”. L’inchiesta coinvolge anche un noto giornalista siracusano, Giuseppe Guastella, finito ai domiciliari. Secondo l’accusa, in cambio di soldi, ricevuti da Amara, che è anche legale esterno dell’Eni, Guastella avrebbe divulgato sul “Diario” “reiterate affermazioni di natura diffamatoria in danno dei magistrati Marco Bisogni e Tommaso Pagano, incaricati di valutare i fascicoli iscritti nei confronti di clienti degli avvocati Amara e Calafiore”, scrive, nel capo d’imputazione, la Procura di Messina che ha condotto l’indagine. L’inchiesta è nata da una denuncia firmata da otto pubblici ministeri di Siracusa, colleghi di Longo. Un esposto del 24 settembre del 2016 denunciava il sospetto di rapporti illeciti tra l’ex pm, nel frattempo trasferito al tribunale civile di Napoli, e Calafiore e Amara. Rapporti, che, scrivevano i magistrati, sarebbero stati una sorta di “prosecuzione sottotraccia” delle relazioni illegali che un altro pm siracusano aveva con i due difensori. Si tratta di Maurizio Musco, che è stato condannato con sentenza definitiva per abuso d’ufficio insieme all’allora capo della Procura Ugo Rossi. La società di consulenza di Amara e Calafiore, ha rapporti economici, tra l’altro, con gli imprenditori siracusani del “gruppo Frontino”, che sarebbero, secondo l’accusa, tra i soggetti avvantaggiati da Longo.

Taranto ridotta da Emiliano a livello di un paese in via di sviluppo. Gianfranco Chiarelli, Vice coordinatore regionale – Lega Puglia, il 25 Aprile 2020 su Il Corriere del Giorno. Tutti ricordano le promesse fatte e non mantenute: come quelle del CIS; come tutta la vicenda ex Ilva; come le infrastrutture viarie, eterne incompiute. In questi giorni si parla ancora un volta della regionale 8, sempre presente nei proclami elettorali. Ricordiamoci del Patto della Puglia con un’ennesima penalizzazione per la provincia di Taranto; l’aeroporto di Taranto – Grottaglie su cui non si contano le volte in cui il governatore ha garantito il pieno utilizzo, voli di linea compresi; il porto, escluso dalla “Via della Seta” ma sempre aperto per lo sbarco di migranti. Paradossalmente quello stesso  sistema mediatico televisivo, di cui Michele Emiliano ha fatto la sua principale arma di propaganda, in questi giorni lo ha messo in un angolo con una serie di servizi giornalistici che hanno scoperchiato il vaso di Pandora di una sanità, quella pugliese, in condizioni oggettivamente disastrose. Dopo l’inchiesta giornalistica sull’ospedale di Mottola, di per sé sufficiente a comprendere quando lacunoso sia il sistema sanitario in Puglia e in particolare nella provincia ionica, abbiamo dovuto assistere alle incertezze evidenziate nell’intervista  dal direttore generale dell’ ASL Taranto. Ciò che è andato in onda ha chiaramente messo a nudo le oggettive difficoltà a rispondere con cognizione di causa alle domande del giornalista. Per Emiliano la scelta dei manager, lungi dall’ispirarsi alle reali capacità, è una delle tante componenti di una politica sanitaria che è servita al governatore pugliese per  creare una rete di relazioni politiche funzionali alle sue aspirazioni personali, ignorando invece professionalità di cui ciascun territorio, e il nostro in particolare, è dotato. In quest’ottica si leggono le nomine di figure che si sono rivelate  assolutamente inadeguate per governare situazioni di grandi criticità. Meri esecutori delle volontà del governatore che, se avessero un sussulto di orgoglio, dovrebbero rassegnare le dimissioni. A chiedere invece quest’ultime ci pensa il PD, cioè il partito che, sostenendo la Giunta Emiliano, quelle nomine le ha avallate, quando non indicate, salvo ora, come abituale costume, prenderne le distanze. Il Covid-19 con il suo tragico bagaglio di emergenza sanitaria e di morti, ha rovesciato le carte in tavola svelando il grande “bluff “di Michele Emiliano. Se il sud non fosse stato in parte risparmiato dall’epidemia, come è avvenuto per nostra fortuna fino ad oggi , e auspichiamo avvenga anche per il futuro, oggi ci troveremmo ad affrontare un’ecatombe totale, per le scelte che sono state fatte sul piano del mancato  sviluppo della medicina territoriale. Scelte scellerate che hanno colpito in modo particolare la provincia ionica . Un territorio capitale delle malattie polmonari, delle patologie oncologiche più severe, deve fare i conti oggi con un piano sanitario  ospedaliero fatto solo di tagli lineari, di accorpamenti, con una cronica carenza di personale e di strutture. Emiliano nei suoi  cinque anni di governo è stato volutamente capace a relegare la provincia di Taranto al limite della vivibilità. E’ evidente che questo sia avvenuto con l’avallo del governo centrale. Tutti ricordano le promesse fatte e non mantenute: come quelle del CIS; come tutta la vicenda ex Ilva; come le infrastrutture viarie, eterne incompiute. In questi giorni si parla ancora un volta della regionale 8, sempre presente nei proclami elettorali. Ricordiamoci del Patto della Puglia con un’ennesima penalizzazione per la provincia di Taranto; l’aeroporto di Taranto – Grottaglie su cui non si contano le volte in cui il governatore ha garantito il pieno utilizzo, voli di linea compresi; il porto, escluso dalla “Via della Seta” ma sempre aperto per lo sbarco di migranti. Oggi si consente l’attracco di una nave da crociera che, quando piena di turisti, portatori di economia,  approda a Bari, e invece viene mandata a Taranto quando ospita solo ammalati Covid-19. E’ evidente che l’unica strada da seguire è quella che tutte le forze sociali, imprenditoriali, associative, soprattutto quelle che finora hanno fatto affidamento sulle tante promesse di Emiliano, prendano atto del suo fallimento, e si ribellino con forza rispetto ad una politica di totale emarginazione sociale ed economica per la nostra provincia al fine di riacquistare quella dignità che Taranto e l’intera provincia meritano.

Valentina e la “guerra” di Taranto. Graziana Nucci il 29 febbraio 2020 su La Repubblica. Le feste di Natale sono appena terminate ma ancora il clima natalizio si trascina per le strade, con le luminarie ancora accese e gli articoli rimasti invenduti esposti già in vetrina a metà prezzo. Valentina ha solo sei mesi, è nata nell'estate del 1990, quella del Mondiale di Calcio giocato “in casa”, con le “Notti Magiche” cantate da Edoardo Bennato e Gianna Nannini. Valentina ha appena trascorso il suo primo e unico Natale della sua breve vita. Viene uccisa insieme al padre Cosimo Guarino, il 9 gennaio 1991. Cosimo era la vittima predestinata, cognato di Gianfranco Modeo, un boss protagonista di una belligeranza che nel 1990 ha causato trentuno morti, che al momento dell’accaduto era in carcere per scontare ventidue anni per omicidio, con i fratelli Riccardo e Claudio, reclusi anch’essi.

Per capire le dinamiche dell’omicidio padre-figlia è necessario fare qualche passo indietro.

Era il settembre del 1988, quando a Taranto  un boss capace di tenere riuniti i clan, venne assassinato. Il suo nome era Francesco Basile, soprannominato “Don Ciccio”. La sua morte fu il movente che scatenò in particolare una faida sanguinosa tra due clan: quello dei fratelli Modeo, quindi Gianfranco, Riccardo e Claudio e quello del fratellastro Antonio Modeo, noto come “il messicano”, assassinato nel 1990 ad agosto a Bisceglie, che aveva creato una rete di rapporti con i gruppi calabresi di Pasquale Palamara (ucciso sette giorni prima di lui) e con gli uomini della Nuova Camorra organizzata  di Cutolo. Questa faida ebbe inizio per accaparrarsi il controllo sul racket delle estorsioni e sul traffico degli stupefacenti, e inaugurò l’anno 1991 con sangue e violenza gratuita. Soltanto nei primi nove giorni di gennaio gli omicidi commessi furono quattro: il 2 gennaio venne assassinato Paolo Cantarone davanti a un bar di Sava, un comune in provincia di Taranto, aveva trentatré anni ed era legato ai fratelli Modeo, nel giro del traffico di stupefacenti; sei giorni dopo toccò al suo migliore amico, Felice Geremia, ucciso nella periferia di San Marzano di San Giuseppe, aveva ventinove anni e precedenti penali per estorsione. Il 9 gennaio il bersaglio dei sicari era il cognato di Gianfranco Modeo, Cosimo Guarino, trentotto anni; con lui venne assassinata anche la sua bambina, Valentina. Il duplice omicidio avviene poco dopo le ore 20 a Taranto, in Puglia, al quartiere Tamburi, purtroppo conosciuto per le  frequenti attività criminali che vi si manifestano. La strada era buia, Cosimo era alla guida della sua “Lancia Prisma” in via Lisippo, all’interno dell’autovettura c’era l’intera famiglia; la madre di Valentina teneva la sua unica figlioletta in grembo. Un’altra auto in movimento era sbucata dal nulla, i suoi fanali sembravano squarciare il buio. Chissà se Cosimo avrà percepito la strana sensazione di sentirsi seguito, se avrà avuto voglia di andare più veloce per fuggire, se avrà pregato che chiunque li stesse seguendo prendesse soltanto lui e risparmiasse la sua famiglia... L’auto dei sicari era già accanto alla sua. Non ebbe più tempo per pensare ad una soluzione rapida, per proteggere il fragile e piccolo corpo della sua bambina. Dall’auto misteriosa provennero assordanti colpi di pistola, il finestrino dell’auto di Cosimo si frantumò in centinaia di cocci di vetro che caddero secchi sulla pelle dell’uomo, della donna e della bambina. I proiettili presero in pieno Cosimo e colpirono sua figlia al viso. La donna fu l’unica a rimanere illesa. L’auto dei sicari scomparve subito di nuovo nel buio, nessuno vide niente, nessun testimone. Padre e figlia furono trasportati d’urgenza dai soccorritori all’ospedale Santissima Annunziata, ma era troppo tardi: morirono entrambi. Valentina aveva sei mesi; il sesto è il mese d’età in cui i lineamenti dell’infante iniziano a definirsi, in cui gli oggetti acquisiscono ai piccoli occhi tridimensionalità, il periodo in cui si inizia a vedere il mondo da un’altra angolazione e si esplorano i volti del papà e della mamma. A Valentina tutto questo non fu concesso. E ben presto, con la Guerra del Golfo che sarebbe scoppiata una settimana dopo, l'omicidio di Valentina si perse nelle pagine dei giornali e, purtroppo ancora una volta, si sarebbe tornati a credere che la mafia avesse un codice morale che risparmiasse dalle loro faide donne e bambini.

Appalti Marina militare Taranto, 12 arresti: ai domiciliari il direttorre dell'Arsenale e altri 11. Tra gli indagati con alcuni imprenditori, oltre al contrammiraglio Cristiano Nervi, un altro ufficiale e due dipendenti civili della Marina: sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, turbata libertà degli incanti, corruzione e furto aggravato. La Repubblica il 20 febbraio 2020. Nell'ambito di una inchiesta per l'aggiudicazione di 15 appalti per 4,8 milioni di euro relativi a lavori di ammodernamento e riparazione di unità navali in dotazione alla Marina Militare di Taranto, la Guardia di Finanza ha posto agli arresti domiciliari 12 persone accusate a vario titolo, di associazione per delinquere, turbata libertà degli incanti, corruzione e furto aggravato. Tra i destinatari del provvedimento cautelare imprenditori, due ufficiali della Marina Militare e due dipendenti civili della Marina. Secondo le indagini, condotte dai militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto, sarebbero state pilotate le aggiudicazioni di 15 appalti banditi dall'Arsenale e dalla Stazione Navale della Marina Militare di Taranto, nei mesi da ottobre a dicembre 2018, per un totale di 4,8 milioni di euro. In particolare, per una gara di circa 3 milioni di euro, relativa ai lavori di ammodernamento della flotta, vi è stato un frazionamento artificioso degli appalti originari in 11 gare. Ciò per garantire - secondo l'accusa - ad ogni società gestita dagli imprenditori indagati di aggiudicarsi una porzione dei lavori e di conseguire un maggior guadagno. L'ordinanza di custodia cautelare è firmata dal gip del Tribunale di Taranto Benedetto Ruberto su richiesta del procuratore aggiunto Maurizio Carbone. "La ripartizione degli appalti è stata effettuata scientificamente, in modo tale che il totale degli importi relativi alle gare venisse equamente diviso fra gli associati che giungevano a tali accordi nell'ambito di incontri che si tenevano in luoghi da loro ritenuti sicuri", sottolinea la Guardia di finanza di Taranto illustrando i dettagli dell'indagine. Gli investigatori parlano di un "gruppo d'affari" che si avvaleva della "connivenza" di un ufficiale della Marina Militare in servizio presso l'Arsenale di Taranto che "veniva informato, puntualmente, sia dei nominativi delle imprese partecipanti alle varie gare, nonché del nome del vincitore concordato". Gli indagati, sempre secondo l'accusa, disponevano anche della complicità di un dipendente civile dell'Arsenale, in servizio nell'ufficio amministrativo, il quale, a fronte del pagamento di una tangente, comunicava il dettaglio dei bandi di gara in anticipo rispetto alla data di pubblicazione, consentendo agli stessi di avere un ampio margine di tempo per accordarsi. "Il disegno criminoso ideato", aggiungono le Fiamme Gialle, ha trovato "un'altra modalità realizzativa attraverso la corruzione di un ufficiale in servizio presso l'ufficio Servizio efficienza navi, il quale, per far ottenere agli imprenditori l'affidamento di lavori necessari alla Stazione Navale della Marina Militare di Taranto, ha richiesto ed ottenuto in cambio utilità consistite in elettrodomestici, mobili e lavori di ristrutturazione di un'abitazione di sua proprietà". Infine, uno degli imprenditori, per risparmiare sulle spese dei materiali, avrebbe corrotto in più occasioni un responsabile dei magazzini all'interno dell'Arsenale, che permetteva a un dipendente incaricato dallo stesso imprenditore di prelevare illecitamente beni di proprietà della Forza Armata utilizzati per le lavorazioni a bordo delle unità navali e fatturati come forniti dalla società incaricata di effettuare i lavori. Ecco i nomi dei 12 coinvolti nell'operazione: oltre al contrammiraglio della Marina Militare, Cristiano Nervi, direttore dell'Arsenale della Marina Militare di Taranto, Alessandro Di Persio, Angelo Raffaele Ruggiero, Nicola Pletto, Giona Guardascione, Fabio Greco, Giovanni Pletto detto Luca, Giacinto Pernisco, Armando Di Comite, Antonio Di Molfetta, Abele D'Onofrio e Federico Porraro. Tutti di Taranto, tranne D'Onofrio di Locorotondo (Bari) e Nervi di La Spezia. De Comite, Ruggiero, Di Persio, Greco, Pletto, Guardascione e Pernisco sono gli imprenditori coinvolti: amministratori, gestori di fatto delle società Consorzio navalmeccanico Taranto, Rit Srl, Consorzio Chio.Me, Technomont Taranto Srl, Omega Engineering Srl, Siples Srl, Tps Taranto Srl, Comerin Srl, Maren Srl, Mib Srl, Imet Srl, Officine Jolly Srlu. Antonio Di Molfetta è invece l'altro ufficiale arrestato ai domiciliari oltre al contrammiraglio Nervi. Di Molfetta è addetto al servizio "efficientamento navi". Abele D'Onofrio è uno dei due dipendenti civili della Marina arrestati. In qualità di assistente amministrativo, avrebbe comunicato in anticipo ad alcuni imprenditori il contenuto dei bandi di gara dell'Arsenale permettendo così loro di ricevere un vantaggio sugli altri concorrenti, mentre Federico Porraro è il funzionario amministrativo incaricato della custodia dei magazzini del commissariato della Marina (anch'egli dipendente civile della forza armata). Questi avrebbe consentito la sottrazione di 64 cuscini coibenti dei magazzini militari per un valore di circa 15mila euro ricevendo in cambio denaro dagli imprenditori.

Taranto, mazzette per gli appalti della Marina militare: 12 arresti. «Gare a tavolino». In manette il direttore dell'Arsenale, Cristiano Nervi, un altro ufficiali, Antonio Di Molfetta, e due dipendenti civili, Federico Porraro e Abele D'onofrio, oltre a imprenditori. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Febbraio 2020. Nell’ambito di una inchiesta per l'aggiudicazione di 15 appalti per 4,8 milioni di euro relativi a lavori di ammodernamento e riparazione di unità navali in dotazione alla Marina Militare di Taranto, la Guardia di Finanza ha posto agli arresti domiciliari 12 persone (due ufficiali, due dipendenti civili e imprenditori) accusate a vario titolo, di associazione per delinquere, turbata libertà degli incanti, corruzione e furto aggravato. Tra i destinatari del provvedimento cautelare c'è anche il direttore dell’Arsenale militare di Taranto, il contrammiraglio Cristiano Nervi che risponde di turbativa d’asta in concorso con alcuni imprenditori. L’altro ufficiale coinvolto è Antonio Di Molfetta, addetto all’ufficio Servizio Efficienza Navi della Stazione Navale di Taranto, a cui vengono contestate cinque ipotesi di corruzione aggravata, in quanto avrebbe assicurato ad alcuni imprenditori l’affidamento di appalti di servizi ricevendo in cambio utilità. I due dipendenti civili dell’Arsenale militare raggiunti da misura cautelare sono Abele D’Onofrio, assistente amministrativo presso l’Arsenale militare (che risponde di un episodio di corruzione e un episodio di furto in concorso), e Federico Porraro, funzionario amministrativo responsabile della custodia di due magazzini della Direzione di Commissariato della Marina militare di Taranto (accusato di un episodio di corruzione). Di associazione per delinquere rispondono gli imprenditori Armando De Comite (indicato come promotore), Angelo Raffaele Ruggiero, Alessandro Di Persio, Fabio Greco, Nicola Pletto, Giovanni Pletto (detto Gianluca), Giona Guardascione e Giacinto Pernisco, considerati amministratori di fatto o di diritto delle società Consorzio Navalmeccanico Taranto-Cnt, R.I.T. Srl, Consorzio Chio.Me, Technomont Taranto Srl, Omega Engineering Srl, Siples Srl, Tps Taranto Srl, Comerin Srl, Maren Srl, Mib Srl, Imet Srl, Officine Jolly. LE INDAGINI - Secondo le indagini, condotte dai militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto, sarebbero state pilotate le aggiudicazioni di 15 appalti banditi dall’Arsenale e dalla Stazione Navale della Marina Militare di Taranto, nei mesi da ottobre a dicembre 2018, per un totale di 4,8 milioni di euro. In particolare, per una gara di circa 3 milioni di euro, relativa ai lavori di ammodernamento della flotta, vi è stato un frazionamento artificioso degli appalti originari in 11 gare. Ciò per garantire - secondo l’accusa - ad ogni società gestita dagli imprenditori indagati di aggiudicarsi una porzione dei lavori e di conseguire un maggior guadagno. L’ordinanza di custodia cautelare è firmata dal gip del Tribunale di Taranto Benedetto Ruberto su richiesta del procuratore aggiunto Maurizio Carbone. «La ripartizione degli appalti è stata effettuata scientificamente, in modo tale che il totale degli importi relativi alle gare venisse equamente diviso fra gli associati che giungevano a tali accordi nell’ambito di incontri che si tenevano in luoghi da loro ritenuti sicuri». Lo sottolinea la Guardia di finanza di Taranto illustrando i dettagli dell’indagine. Gli investigatori parlano di un «gruppo d’affari» che si avvaleva della «connivenza» di un ufficiale della Marina Militare in servizio presso l’Arsenale di Taranto che «veniva informato, puntualmente, sia dei nominativi delle imprese partecipanti alle varie gare, nonché del nome del vincitore concordato». Gli indagati, sempre secondo l’accusa, disponevano anche della complicità di un dipendente civile dell’Arsenale, in servizio nell’ufficio amministrativo, il quale, a fronte del pagamento di una tangente, comunicava il dettaglio dei bandi di gara in anticipo rispetto alla data di pubblicazione, consentendo agli stessi di avere un ampio margine di tempo per accordarsi. «Il disegno criminoso ideato», aggiungono le Fiamme Gialle, ha trovato «un’altra modalità realizzativa attraverso la corruzione di un ufficiale in servizio presso l’ufficio Servizio efficienza navi, il quale, per far ottenere agli imprenditori l'affidamento di lavori necessari alla Stazione Navale della Marina Militare di Taranto, ha richiesto ed ottenuto in cambio utilità consistite in elettrodomestici, mobili e lavori di ristrutturazione di un’abitazione di sua proprietà». Infine, uno degli imprenditori, per risparmiare sulle spese dei materiali, avrebbe corrotto in più occasioni un responsabile dei magazzini all’interno dell’Arsenale, che permetteva a un dipendente incaricato dallo stesso imprenditore di prelevare illecitamente beni di proprietà della Forza Armata utilizzati per le lavorazioni a bordo delle unità navali e fatturati come forniti dalla società incaricata di effettuare i lavori.

«LE COLPE DEI SINGOLI NON POSSNO RICADERE SULL'INTERA FORZA ARMATA» - «Le colpe dei singoli non possono ricadere sull'intera Forza armata ma è inevitabile che gli arresti di questa mattina a Taranto minano agli occhi dell’opinione pubblica il decoro dell’intero comparto». Lo afferma la deputata tarantina Alessandra Ermellino (M5S) commentando la notifica di una ordinanza di custodia cautelare nei confronti di due ufficiali della Marina militare, due dipendenti civili impiegati all’interno dell’Arsenale e 8 imprenditori accusati a vario titolo di turbativa d’asta e corruzione per appalti che sarebbero stati pilotati. «Non intendo esprimere giudizi di sorta, mi limito a condannare - aggiunge - la circostanza di queste ultime ore e chiedo - come commissaria Difesa e rappresentante politica del territorio - che i controlli siano sempre stringenti, e che si persegua una seria promozione di una cultura della prevenzione. Sostengo l'operato di tutti i militari che ogni giorno onorano con sacrificio e correttezza la bandiera e la nostra Costituzione e stigmatizzo le vituperose azioni di chi ha anteposto, anche solo per una volta, i propri interessi a quelli del Paese». La Guardia di Finanza e la Magistratura, conclude, «anche questa volta hanno fatto luce su eventi probabilmente criminosi, la Forza armata continui peró a tenere alta l’attenzione a tutela delle sue donne e dei suoi uomini che svolgono il loro servizio in maniera impeccabile».

Le motivazioni sugli arresti per gli appalti della Marina a Taranto. Il Corriere del Giorno il 22 Febbraio 2020. La pubblicazione degli atti avverrà a puntate esclusivamente per consentire ai lettori di poter meglio focalizzare i fatti oggetto dell’inchiesta, e sopratutto per evitare le solite strumentalizzazioni e gestione mediatica unilaterale degli atti giudiziarie Come sempre il nostro giornale pubblica i documenti integrali dell’ordinanza emessa dal Gip dr. Benedetto Ruberto, a seguito del terzo filone d’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Taranto, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone. La pubblicazione degli atti avverrà a puntate esclusivamente per consentire ai lettori di poter meglio focalizzare i fatti oggetto dell’inchiesta, e sopratutto per evitare le solite strumentalizzazioni e gestione mediatica unilaterale degli atti compiuta da qualche cronista per qualche decina di euro in più nel proprio portafoglio, o fiancheggiare qualche avvocato difensore degli indagati. Una compagnia di giro, o meglio una “cricca” ben nota nel Palazzo di Giustizia di Taranto. Il dato che emerge da una attenta lettura delle carte giudiziarie, è la presenza  “sistema” operante  e regnante negli ambienti della Marina Militare a Taranto, da parte di chi è demandato a gestire gli acquisti ed appalti. Questa è infatti la terza inchiesta, la prima operazione fu dei Carabinieri, seguita dalle successive due approfondite indagini della Guardia di Finanza avvenute quando comandante provinciale a Taranto era il colonnello Gianfranco Lucignano,  come molto correttamente  dichiara il suo sostituto ed attuale comandante provinciale Col. Dell’ Anna.

E Melucci resta a bocca asciutta. L' ex sindaco Di Bello non dovrà risarcire il Comune di Taranto. Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2020. Secondo i giudici dell’ appello in una “situazione di disordine contabile e di mancanza di flussi informativi con l’ufficio Ragioneria non si può comprendere se le omissioni contabili di quelle poste attive e passive contestate agli imputati siano state dolose o colpose”. La sezione distaccata di Lecce della Corte d’Appello di Taranto ha respinto oggi la richiesta di risarcimento danni da mezzo milione di euro presentata dal Comune di Taranto nei confronti dell’ex sindaco Rossana Di Bello, dell’ex vice sindaco Michele Tucci , di Luigi Lubelli ex dirigente del settore Risorse Finanziarie,   e dei sei ex revisori dei conti Carlo Aprile, Eugenia Carelli,  Vincenzina Cilio , Mauro Ingrosso, Osvaldo Negro e Cosimo Orlando. Il processo civile era relativo alle statuizioni civili disposte il 28 novembre 2008, nell’ambito del processo penale di primo grado sui bilanci comunali del periodo 2000-2004. In quella occasione gli imputati furono condannati a pene comprese fra uno a tre anni di reclusione per l’ipotesi di falso in atto pubblico. Secondo la Procura di Taranto, all’epoca di fatti sarebbero stati occultati debiti ed inseriti crediti inesistenti nei bilanci  per ottenerne l’approvazione dal Consiglio comunale. Ipotesi accusatoria fu ribaltata dalla sentenza di appello l’8 ottobre 2010 con l’assoluzione di tutti gli imputati. Successivamente la Suprema Corte di Cassazione nel febbraio 2012 annullò  con rinvio   le assoluzioni e dispose la celebrazione un nuovo processo d’appello che si concluse due anni dopo nel  maggio 2014  per avvenuta prescrizione del reato, ma con la conferma dei risarcimenti. La Corte di Cassazione successivamente annullò nel luglio 2016  la sentenza della Corte d’Appello affermando che sarebbe incorsa in errore “non esaminando i motivi di appello ai fini della responsabilità civile” rinviando quindi  la decisione a un’altra sezione di giudici. E’ stato questo in sintesi  il lungo e tortuoso iter giudiziario che ha portato all’ultima sentenza sulle statuizioni civili e il rigetto della domanda di risarcimento del Comune di Taranto rimasto a bocca asciutta. Il collegio giudicante della Corte di Appello  di Taranto presieduto dal giudice  Pietro Genoviva (relatore Michele Campanale, a latere Ettore Scisci) inoltre è entrato nel merito anche della sentenza del processo penale, evidenziando che a causa di “una situazione di disordine contabile e di mancanza di flussi informativi con l’Ufficio Ragioneria, non si può comprendere se le omissioni contabili di quelle poste attive e passive contestate agli imputati siano state dolose o colpose o indotte incolpevolmente da tali situazioni. Consegue la mancanza di prova anche dell’elemento soggettivo dei reati contestati”.

Gli stipendi "gonfiati" del Ctp Taranto: per la Procura "Dirigenti da condannare". Il Corriere del Giorno il 14 Febbraio 2020. Che ci faceva nei giorni Michele Ciccimarra negli uffici del Ctp insieme all’attuale amministratore unico avv. Egidio Albanese, è quanto si chiedono dei dipendenti che ci hanno mandato le proprie fotografiche del loro incontro. E noi lo chiediamo pubblicamente ad Albanese. Risponderà? ROMA – La Procura della Repubblica di Taranto ha chiesto la condanna a 6 anni di reclusione A febbraio 2016, poco per ciascuno dei 4 ex dirigenti del Ctp mandati a processo per peculato a seguito dell’inchiesta sugli “stipendi d’oro” del Consorzio Trasporti Pubblici di Taranto, avviatasi grazie alla denuncia di un dirigente interno. Le richieste di condanna sono a carico  l’ex direttore generale Cosimo Rochira, dell’ex direttore d’esercizio Michele Ciccimarra, stranamente visto circolare nei giorni scorsi negli uffici della società insieme all’attuale amministratore unico Egidio Albanese, Luigi Pacucci dirigente del settore economico finanziario del Ctp e del dirigente di movimento Giuseppe Portulano. Le indagini sui presunti stipendi d’oro al Ctp, che prese il via dopo la denuncia presentata dall’attuale dirigente Vito Marinelli, venne condotta dai finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria, diretti all’epoca dal tenente colonnello Renato Turco (ora andato in pensione)  coordinata dal pm Maurizio Carbone ed hanno accertato, come risulta in atti,  la presenza di alcune voci delle loro buste paga che contenevano “voci non dovute relative a retribuzione variabile incentivante pur in assenza della documentazione attestante gli obiettivi da realizzare”. Secondo le indagini svolte dalla Guardia di Finanza, le buste paga dei dirigenti,  sarebbero state illegittimamente gonfiate e qualcuno avrebbe intascato il doppio di quanto dovuto, Michele Ciccimarra il quale nel 2010 a fronte di un reddito di 104mila euro avrebbe percepito altri 60mila euro non dovuti. Nel 2018 il giudice dr. Maria Leone  del Tribunale del Lavoro di Taranto  ha condannato Ciccimarra, al pagamento di oltre 15mila euro,  ma questi incredibilmente attraverso il suo legale aveva richiesto al Ctp la somma di 50mila euro per evitare il ricorso in appello !secondo i calcoli dei finanzieri. Per la Procura della Repubblica Michele Ciccimarra, avrebbe incassato in totale 456mila euro  tra il 2005 e il 2015. L’ ex direttore generale di Ctp Cosimo Rochira, ex tesoriere del Pd di Taranto, e braccio destro del consigliere comunale Piero Bitetti (del quale è stato il mandatario nel corso della sua ultima campagna elettorale)  rispetto a un reddito annuale di 121mila euro nel periodo intercorrente tra il 2008 e il 2015,   avrebbe percepito indebitamente somme non dovutegli, circa 210mila euro. Nella busta paga di Luigi Pacucci, dal 2006 al 2014 sarebbero state inseriti  illegittimamente compensi per 144mila euro. Dulcis in fundo…si fa per dire, chiaramente,  il dirigente del movimento mezzi Giuseppe Portulano, avrebbe visto gonfiarsi indebitamente dal 2008 al 2014 la propria busta paga incassando 135mila euro non dovutegli. Un totale complessivo di 947mila sottratto alle casse pubbliche di Ctp in 10 anni che la Procura ha cercato di recuperare nel luglio 2017 attraverso il sequestro di conti correnti, beni mobili e immobili degli indagati, sequestrando 7 autovetture (fra le quali Mercedes Classe E, Bmw Serie 5 e ), 8 immobili, tra i quali alcune ville ubicate sulla la litoranea salentina, e conti correnti bancari e fondi comuni d’investimento per ingenti importi. Dopo la diffusione della notizia sull’inchiesta, i dirigenti sotto pr0cesso incredibilmente inviarono una lettera a febbraio 2016,  a Roberto Falcone, che in quel periodo era diventato il nuovo amministratore unico del Consorzio,  sostenendo che “pur nella convinzione che le nostre retribuzioni rispondano alle determinazioni assunte dalla società dalle disposizioni contrattuali chiediamo che il nostro stipendio venga uniformato al trattamento minimo di garanzia“. Della serie: la vergogna questa illustre sconosciuta….Le prossime udienze sono state fissate per il prossimo 20 febbraio e il 13 marzo.

·        ArcelorMittal, Ex Ilva. Chi non vuole lavorare.

Michelangelo Borrillo per il ''Corriere della Sera'' l'1 dicembre 2020. Lo Stato torna nella gestione dell' Ilva. Venticinque anni dopo il passaggio dell' ex Italsider ai privati del gruppo Riva - che il 16 marzo del 1995 si aggiudicarono il colosso dell' acciaio di Stato battendo la concorrenza di Lucchini - il pubblico torna a gestire la più grande acciaieria d' Europa (la proprietà degli impianti rientra già nella sfera pubblica, facendo attualmente capo a Ilva in amministrazione straordinaria). E lo fa attraverso Invitalia, così come previsto dal memorandum of understanding , la lettera d' intenti firmata ieri che sarà tramutata nell' accordo vero e proprio il prossimo 11 dicembre. Nel dettaglio, Invitalia - assistita come advisor dallo studio Irti - entrerà in Am Investco, società di ArcelorMittal, al 50%, per poi prendere la maggioranza, incrementando la quota al 60% nel 2022. Vengono confermati - così come concordato nella video call di ieri mattina tra esponenti di Mise, Mef, Invitalia, ArcelorMittal e Ilva in As - gli impegni assunti nell' intesa del 4 marzo: produzione a regime di 8 milioni di tonnellate (almeno 5 dal 2021) e 10 mila e 700 addetti, oltre che ingresso dello Stato con la conseguenza principale della permanenza nel gruppo siderurgico del socio privato ArcelorMittal. Che, in alternativa, avrebbe potuto abbandonare la partita vinta nel giugno del 2017 con l' aggiudicazione dell' ex Ilva, pagando una penale di 500 milioni di euro. In attesa che vengano definiti gli aspetti finanziari dell' operazione e la governance (il nuovo cda con consiglieri designati in parti uguali dai due soci individuerà presidente e ad), la svolta pubblica è stata illustrata dai ministri dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, del Lavoro, Nunzia Catalfo, e dall' amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri, ai rappresentanti di Fiom, Fim e Uilm. «Una decisione importante», è stato il commento all' unisono dei sindacati, ma che proprio perché importante, va approfondita. «Che lo Stato entri negli asset strategici di questo Paese, nella siderurgia - ha sottolineato la segretaria generale della Fiom Francesca Re David - è una garanzia e una scelta di politica industriale. Riteniamo però che sia ancora insufficiente la quantità di informazioni date. Per noi il cambiamento deve significare il rilancio della siderurgia, l' ingresso delle migliori tecnologie verdi, la salvaguardia dell' intera occupazione». Un tasto su cui battono anche Fim e Uilm: «Sarà fondamentale - ha evidenziato il segretario della Fim Roberto Benaglia - garantire l' occupazione per i lavoratori che stanno attraversando una lunghissima traversata nel deserto, compresi quelli di Ilva in As». E per Rocco Palombella (Uilm) è «inaccettabile un piano che dovrebbe prevedere il rientro graduale dei 4.700 lavoratori ora in cassa integrazione (3 mila in ArcelorMittal e 1.700 in Ilva in As) entro il 2025: non è possibile una transizione con 4.700 esuberi». 

Ex Ilva, accordo Mittal-Invitalia: l'acciaio torna di Stato. Mef-Mise: «Meno inquinamento». Al termine dell’operazione Invitalia sarà l'azionista di maggioranza con il 60% del capitale della società, avendo Arcelor Mittal il 40%. Soddisfazione di Patuanelli e Gualtieri. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Dicembre 2020. Il futuro ha un cuore antico per la ex Ilva di Taranto. Lo Stato imprenditore torna nella gestione del siderurgico più grande d’Europa e di tutti gli impianti siderurgici che il gruppo possiede in Italia. La firma dell’intesa è arrivata a tarda sera e prevede un deciso investimento pubblico che consentirà di garantire alla fine la piena occupazione dell’impianto e di ridurre l’inquinamento per la produzione di acciaio. La mano pubblica entra nella società italiana Am Investco con un doppio aumento di capitale: un primo aumento da 400 milioni di euro darà a Invitalia, che è controllata dal ministero dell’Economia, il 50% dei diritti di voto della società. A maggio del 2022 è programmato, poi, un secondo aumento di capitale, che sarà sottoscritto fino a 680 milioni da parte di Invitalia e fino a 70 milioni di parte di Arcelor Mittal. Il ministro del tesoro, Roberto Gualtieri e dello Sviluppo, Stefano Patuanelli hanno espresso soddisfazione per l’intesa che avrà un doppio impatto. Si prevede alla fine del processo il completo assorbimento di 10.700 lavoratori. E partirà da subito un piano di decarbonizzazione attraverso l’avvio della produzione di acciaio con processi meno inquinanti. È prevista la creazione di una nuova linea di produzione esterna al perimetro aziendale (DRI) e di un forno elettrico interno allo stabilimento che a regime potrà realizzare 2,6 milioni di tonnellate annue di prodotto. «Circa un terzo della produzione di acciaio - sostengono Mef e Mise - avverrà con emissioni ridotte, grazie all’utilizzo del forno elettrico e di una tecnologia d’avanguardia, il cosiddetto «preridotto», in coerenza con le linee guida del Next Generation EU. La riduzione dell’inquinamento realizzabile con questa tecnologia è infatti del 93% a regime per l’ossido di zolfo, del 90% per la diossina, del 78% per le polveri sottili e per la CO2». Sarà ora necessario vedere se l’intesa raggiunta soddisfa il territorio, con il sindacato di Taranto e di molti comuni limitrofi che avevano ipotizzato altri interventi. Il governo ha annunciato che darà vita a un tavolo con gli enti locali per accompagnare e monitorare la transizione. E se la piena occupazione promessa alla fine del processo riuscirà a dissipare le preoccupazioni delle "tute blu", anche se nel prossimo quinquennio gli esuberi temporanei sarebbero coperti - ma i comunicati diffuso in serata non ne fanno menzione - dagli ammortizzatori sociali dei quali lo Stato si fa garante. L’annuncio ufficiale dell’accordo è destinato ad alzare il velo anche su altri aspetti della vicenda, a cominciare dalla governance che dovrebbe essere inizialmente paritaria con presidente e amministratore delegato espressi l’uno da Invitalia e l’altro dalla Mittal. Anche su questo punto non ci sono comunicazioni ufficiali. Per l’impianto di Taranto si profila comunque in ritorno al passato. Nata nel 1905 l’Ilva passò all’Iri nel 1929 e venne ceduta ai Riva solo nel 1995, con il piano di privatizzazioni. Il commissariamento è datato 2012. ArcelorMittal arriva nel 2018 e ora arriva una nuova svolta.

A.Mittal. Cinque sindaci non consegneranno la fascia al Prefetto. Nota Stampa dell'11 dicembre 2020. I sindaci di Sava, Avetrana, Monteiasi, Palagianello, Pulsano annunciano che non consegneranno la fascia al Prefetto di Taranto Demetrio Martino.

Questo il comunicato dei sindaci Maria Rosaria Borracci, Cosimo Ciura, Dario Iaia, Franco Lupoli ed Antonio Minò: “Pur comprendendo e condividendo l’immensa delusione e il senso di impotenza dei nostri omologhi Sindaci, non abbiamo consegnato e non consegneremo le fasce non per uno spasmodico attaccamento ad esse, ma perché a tale gesto, nell’ottica della coerenza e della serietà istituzionale, dovrebbero seguire le dimissioni che, pur non spaventandoci, non risolverebbero assolutamente l’annosa questione ex Ilva, anzi probabilmente, quelle già flebile voci a rappresentanza del nostro territorio, sparirebbero del tutto. Crediamo sia giunto il tempo della chiarezza e né i cittadini dei Tamburi (solo per citare un rione) né i lavoratori dell’azienda e dell’indotto meritano questa lunga agonia che si trascina ormai da un decennio e che non ha portato alcun beneficio né in termini ambientali né in termini occupazionali. Noi non consegneremo le fasce tricolori perché riteniamo che il problema andava e vada affrontato in maniera diversa: collegiale e condivisa. Riteniamo che questo gesto eclatante, legittimo per carità, in questo caso non produca alcun effetto perché la decisione è presa e, soprattutto, contribuisce ad alimentare equivoci ed acuire le paure dei cittadini e dei lavoratori. Noi tutti sappiamo che l’intesa tra Arcelor Mittal ed il Governo nazionale è cosa fatta e che da domani Invitalia entrerà nella governace dell’ex Ilva. Non serve creare confusione istituzionale ed alimentare i conflitti. Ciò che oggi deve vederci seriamente impegnati, se vogliamo essere credibili, deve essere lo sforzo teso ad ottenere il cronoprogramma che si intende mettere in campo in merito agli investimenti in materia ambientale e di produttività. Le nostre domande devono attenere alla salvaguardia dell’occupazione, compresi i lavoratori in AS. Quali sono gli intendimenti riguardo queste famiglie? Le risposte che noi dobbiamo pretendere come territorio da AM e da Invitalia devono riguardare questi temi: l’ambiente, lo sviluppo ed il lavoro. E’ inoltre nostro dovere quello di essere chiari nei confronti dei cittadini che non vanno illusi né presi in giro: l’Ilva non è una ONLUS, è un’industria, una delle più grandi industrie di acciaio al mondo e per esistere deve essere presente e competitiva sul mercato. Quindi, prospettare la prossima chiusura dello stabilimento o dell’area a caldo, allo stato e con queste condizioni, non è in programma e noi abbiamo il dovere morale e politico di dire la verità. Non dobbiamo agire creando tensione e paura nei lavoratori dipendenti diretti ed indiretti dell’ax Ilva e delle loro famiglie. I quali oggi non comprendono perché alcuni Sindaci avanzino proposte che comporterebbero oltre 4500 esuberi solo tra i dipendenti diretti. Dobbiamo evitare di creare spaccature con le organizzazioni sindacali. I sindaci devono sempre dialogare con il territorio e rappresentare le esigenze di questo. La battaglia che noi vogliamo condurre tutti insieme è basata su azioni concrete che possano contribuire ad affrontare e risolvere le grandi questioni ambientali, occupazionali e produttive che sono sul tappeto, chiarendo che il nostro territorio non può permettersi una fabbrica che continui ad inquinare così come migliaia di persone a casa alle quali la politica non fornisca un’ alternativa credibile. Ciò che non comprendiamo e che, soprattutto, i cittadini non comprendono è la schizofrenia di parte della politica locale che accetta che settimanalmente esimi rappresentanti del governo nazionale e regionale ci illustrino, anche in maniera ripetitiva, loro iniziative intraprese al momento solo sulla carta e consentano a questi stessi personaggi di eclissarsi su un tema tanto importante quale è quello dell’ex Ilva. Noi crediamo che tutti sapevano bene, sin da marzo, come le cose sarebbero andate a finire e cioè che il Governo sarebbe entrato nella siderurgia in maniera diretta, senza chiarirne le condizioni nè dal punto di vista ambientale né da quello occupazionale. Di una cosa siamo certi però: qualsiasi insediamento produttivo se è avulso dal tessuto sociale in cui si colloca è destinato a fallire. Continuare a decidere su Taranto senza Taranto porterà tra pochi pochissimi anni alla morte economica e sociale della nostra provincia e se il governo continuerà a snobbarci, questa volta il killer avrà un nome.”

I Sindaci dei Comuni di:

Palagianello Maria Rosaria Borracci

Monteiasi Cosimo Ciura

Sava Dario Iaia

Pulsano Franco Lupoli

Avetrana Antonio Minò

TPa. per “il Giornale” il 3 dicembre 2020. L'immagine è di quelle che straziano il cuore, come la sua perdita, quella di un bambino di undici anni che ha lottato con tutte le sue forze contro un tumore, che alla fine non gli ha lasciato scampo. Vincenzo Semeraro aveva coraggio e tanta forza, e lo sa bene tutto il rione Tamburi di Taranto, che ieri non riusciva a rassegnarsi a questa perdita. I suoi compagni non volevano lasciarlo andar via e sono rimasti per interminabili minuti attaccati ai vetri di quel carro funebre, che trasportava la sua bara. Ci hanno creduto tutti fino all' ultimo che riuscisse a sconfiggere quel linfoma linfoblastico primitivo nelle ossa, dovuto, secondo moltissimi cittadini, alle emissioni nocive dell' ex Ilva. Lacrime, disperazione di una città che si è radunata in piazza Caduti sul Lavoro. Il rione Tamburi non voleva rassegnarsi e l' ha accompagnato al cimitero San Brunone. «Hanno rubato il futuro a una generazione e continuano a parlare di miliardi persi dimenticando il valore delle vite umane perse nella città dell' Ilva», ha scritto su Facebook il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli. «Abbiamo visto bambini dell' età di Vincenzo piangere, aggrappati alle loro madri, gli occhi pieni di paura - ha aggiunto l' associazione Genitori Tarantini -. Ma i bambini non devono avere paura e non devono piangere un loro amico. Una storia vista e vissuta già troppe volte». Da anni sono sotto accusa le emissioni dell' impianto siderurgico, costruito troppo a ridosso della città. E secondo una buona parte dei medici pugliesi proprio l'esposizione alle sostanze cancerogene potrebbe aver determinato o concorso a determinare il cancro che ha ucciso Vincenzo. I medici avevano diagnosticato al bambino un tumore alle ossa alla fine del 2019. Dopo essersi sottoposto a diversi cicli di chemioterapia al Policlinico di Bari, l' estate scorsa era partita una raccolta di fondi, per permettere ai genitori di portare Vincenzo al Bambin Gesù di Roma, per un trapianto di midollo e i cittadini sono riusciti a raccogliere 8mila euro. Ma nelle ultime settimane l' undicenne era risultato positivo al tampone per il Covid-19 ed è stato ricoverato al Bambin Gesù di Roma. Ma nonostante lo sforzo dei sanitari è stato impossibile strappare il piccolo paziente alla morte. Gli stessi bambini, che ieri non volevano separarsi da lui per tenerlo ancora in qualche modo vicino, per proteggerlo da quel posto freddo e impersonale che è il cimitero, a giugno lo avevano aspettato sotto la finestra di casa per salutarlo e darli il coraggio di affrontare quel viaggio della speranza verso Roma. Quel viaggio che ora è finito.

Ilva “carbon free”, servono 6 anni. Addio sogni di Emiliano, Melucci & Co. Il Corriere del Giorno il 6 Ottobre 2020. La decarbonizzazione degli impianti ex Ilva, a partire da quello di Taranto, ci sarà, ma dovrà essere per forza di cose parziale. Almeno durante il periodo di transizione che durerà un bel po’ di anni. Un Ilva “carbon free” non può essere un progetto di breve termine, ci vorranno sei o sette, o anche dieci anni secondo alcuni esperti del settore. Chi lavora al “dossier Ilva” conosce molto bene la realtà : un Ilva “carbon free” non può essere un progetto di breve termine. Come sempre vane le promesse pre-elettorali come il documento del Pd presentato a ridosso delle elezioni regionali e le numerose dichiarazioni di esponenti del M5S con in testa il ministro del Mise, Stefano Patuanelli. Il piano industriale tavolo della trattativa tra ArcelorMittal e governo, resta quindi quello dell’accordo stipulato lo scorso 4 marzo, che prevede due altoforni tradizionali affiancati da due elettrici. Persino Frans Timmermans vice presidente della Commissione europea ha dichiarato che l’acciaio verde non potrà arrivare a Taranto in tempi brevi, pur augurandosi che sia questa la strada per una riconversione giusta da percorrere. A dire il vero ArcelorMittal non si è mai sottratta a tale ipotesi industriale, ma “il gruppo sarà carbon neutral soltanto nel 2050 ” ha detto Aditya Mittal, Presidente e Cfo della multinazionale dell’acciaio, e CEO of ArcelorMittal Europe, parlando ovviamente della strategia mondiale, non solo di Taranto. Intervenendo in occasione della “Financial Times Commodities Conference” Mittal ha dichiarato che “l’idrogeno ha un grande potenziale” evidenziando però che i costi di transizione sono molto elevati per cui è necessario l’intervento della politica. Il processo attuale sfrutta il carbonio presente nel coke per sottrarre l’ossigeno ai minerali di ferro e ricavare il ferro puro, mentre nei futuri processi industriali l’idrogeno potrebbe strappare l’ossigeno ai minerali, formando così H2O anziché CO2. Ma per il momento bisogna fermarsi a livello di progetti pilota come la sperimentazione avviata proprio da ArcelorMittal sull’impianto di pre-riduzione di Amburgo per la sostituzione del metano con il 100% di idrogeno. Il progetto più avanzato è senza dubbio l’Hybrit lanciato nel febbraio 2018 da SSAB, in collaborazione con LKAB e Vattenfall: l’entrata in funzione degli impianti è prevista nel 2030. Uno dei grandi ostacoli per la riconversione di impianti di grandi dimensioni come lo stabilimento siderurgico di Taranto (il più grosso in europa, n.d.r.) è il costo di produzione dell’idrogeno green. Secondo Carlo Mapelli, docente di Materials Engineering & Environmental Impact del Politecnico di Milano “Il costo di produzione dell’idrogeno necessario per arrivare ad una tonnellata di pre-ridotto è intorno a 88 euro , contro i 27 euro la tonnellata per la preriduzione con gas naturale, che già abbatte del 66% le emissioni di CO2 rispetto alla produzione con il coke. Oggi è insostenibile” come ha affermato durante webinar organizzato dal sito specializzato Siderweb. ArcelorMittal ha reso noto ieri che la situazione degli ordini sta migliorando, che ha conseguito la ripartenza di alcuni impianti come il reparto Pla/2 (Produzione Lamiere) a Taranto. 

Taranto, interessi della Cina sul porto: lo rivela report «007» Copasir. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica avrebbe acquisito un documento sugli interessi espressi da compagnie cinesi verso gli impianti industriali Ilva e l’affidamento della gestione dell'area portuale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 agosto 2020. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha acquisito un documento di sintesi, da parte degli organismi di intelligence, sugli interessi espressi da compagnie cinesi verso l’area strategica di Taranto ovvero gli impianti industriali Ilva e l’affidamento della gestione del porto della città pugliese. Lo fa sapere il presidente del Copasir Raffaele Volpi. «Tale report e i conseguenti approfondimenti - spiega Volpi - saranno discussi dal Comitato nella prima seduta utile». Il Comitato, ricorda Volpi, «ha più volte espresso le sue preoccupazioni in relazione all’utilizzo di tecnologia cinese nel campo delle Tlc. Preoccupazioni esternate sia con un corposo e qualificato documento trasmesso al Parlamento sia con pubbliche sollecitazioni al Governo affinché se ne prendesse seria considerazione e conseguenti determinazioni proprie dell’organo esecutivo». «Nella ripresa dei lavori - prosegue - il Copasir ha in programma la chiusura della serie di audizioni sul sistema bancario-assicurativo ed individuerà la forma del contributo da sottoporre al Parlamento su tale attualissima tematica che in questo momento particolare, nelle sue varie sfaccettature , inevitabilmente intercetta l'interesse nazionale e la sostenibiltà strutturale, anche di prospettiva, del sistema Paese». Il Copasir si attiverà inoltre, aggiunge il presidente, «per fare un punto di situazione sugli scenari più caldi del momento quali Libia e Libano. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica continuerà, per le sue competenze, ad operare con il massimo impegno per difendere l’interesse nazionale cosi come ha fatto sino ad ora, apprezzando la collaborazione di altissima qualità del sistema di intelligence italiano su tematiche tradizionali e su quelle più innovative».

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 28 settembre 2020. (…) Ma l'Ilva non è tutto. Il nuovo centro di Taranto è il mare, il suo porto, tra i più importanti del Mediterraneo, che si trova oggi a essere centro della partita geopolitica più importante, quella tra l'Occidente e la Cina. Come ha raccontato ieri Repubblica - con un articolo del direttore, Maurizio Molinari - i porti sono uno dei due tasselli (con il 5G) attorno al quale si gioca in Italia la partita fra Cina e Stati Uniti. E lo sono perché il porto di Taranto sta finendo sotto l'influenza cinese. Tutto è cominciato lo scorso anno quando è stata affidata, per i prossimi 49 anni, la gestione del terminal contenitori (prima controllato da una società di Taiwan) ai turchi di Yilport Holding. Un'informativa dell'Aise, il nostro servizio di intelligence estera, ricostruisce come Yilport sia socia della Cosco, compagnia di Stato cinese. Sempre a Taranto sta per chiudersi poi l'operazione per l'affidamento dell'area dell'ex yard Belelli, una delle più grandi del porto (220mila metri quadrati), al Ferretti group, oggi controllato per l'85 per cento dai cinesi del Weichai Group. Dovranno costruire scafi e realizzare un centro di ricerca. (…) I cinesi vogliono Taranto perché è cruciale - come Genova e Trieste, dove però le operazioni a oggi sono più complesse - nella via della Seta, il mastodontico programma di investimenti infrastrutturali che dovrebbe collegare Europa ed estremo Oriente. Taranto rappresenta storicamente, però, uno snodo fondamentale per i Paesi Nato, oltre a essere una dei porti principali della Marina militare italiana. L'ex Belelli che finirebbe nelle mani cinesi dista meno di dieci miglia dall'insediamento Nato da cui partono le operazioni più delicate e sensibili del Mediterraneo. Per questo il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ha chiesto ai nostri servizi un dossier, preoccupata per le ripercussioni che un'operazione come quella di Taranto potrebbe avere sulla sicurezza nazionale. Anche perché il tutto non nasce per caso. Ma è, invece, frutto di una scelta politica ben precisa del governo e di un rappresentante in particolare, il sottosegretario alla presidenza, il senatore tarantino Mario Turco, esponente dei 5 Stelle, assai vicino al premier Giuseppe Conte. Turco ha la responsabilità del Cis, il Comitato istituzionale per l'area di Taranto, un miliardo di euro complessivi. L'investimento Ferretti godrà di un aiuto pubblico importante, con una bonifica grazie a fondi pubblici da 15 milioni e un investimento di reindustrializzazione da poco meno di 100 milioni, in parte del Cis. «Sono investimenti che serviranno a far rinascere la città», dice il sindaco, Rinaldo Melucci, imprenditore che arriva proprio dal mondo portuale. «E a compensare quei posti di lavoro che Ilva sta lasciando per strada». (…) «La situazione a Taranto è molto delicata», dice il presidente di Confindustria, Antonio Marinaro. «La città ha bisogno di investimenti e di lavoro, Non ci possiamo permettere di soffermarci sulla provenienza degli investitori. Ma sulla loro serietà». (…)

Rapporto dei servizi segreti sugli interessi cinesi per l’ex Ilva e le attività del porto di Taranto. Il Corriere del Giorno il 23 Agosto 2020. “Il report e gli approfondimenti saranno discussi nella prima seduta utile”, ha detto il presidente del Copasir, Raffaele Volpi, che ha ricordato le preoccupazioni per il settore delle telecomunicazioni. Il Copasir ha acquisito un documento di sintesi, da parte degli apparati dell’ intelligence italiana, sugli interessi espressi da compagnie cinesi verso l’area strategica di Taranto, ovvero gli impianti industriali dell’ex Ilva e l’affidamento della gestione del porto della città pugliese.  I servizi segreti sono notoriamente degli organi di supporto del Governo. ed infatti il DIS-Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza attualmente guidato dal generale Gennaro Vecchione (Guardia di Finanza) è collocato all’interno della Presidenza del Consiglio. Il premier ne rappresenta il vertice e nel caso di Giuseppe Conte, come per il suo predecessore Gentiloni, lo è senza avere una Autorità delegata. Ma andiamo a spiegare cosa significa tutto ciò. Il materiale che il comitato parlamentare ora guidato dal leghista Volpi riceve per legge è lo stesso che è nelle disponibilità del Governo e di Palazzo Chigi. Ma in ogni caso non è peraltro da escludere la possibilità che l’esecutivo possa avere, e del tutto legittimamente, un rapporto informativo ancor più dettagliato. Resta però più che logico e legittimo domandarsi come mai il Copasir leggendo i rapporti dei nostri “servizi” ne riceve dei motivi di allarme mentre invece il governo sembra indifferente , ed in alcuni casi, addirittura sembra voler sostenere l’attivismo cinese. Il “caso Taranto” denunciato da Volpi è stato sollevato nello scorso maggio dall’eurodeputata Anna Bonfrisco (Lega–Identità e Democrazia) con un’interrogazione alla Commissione Ue, si affianca alla relazione del Copasir sul 5G e sul ruolo della cinese Huawei. “L’Unione europea impedisca alla Turchia e alla Cina di entrare con il loro acciaio in Europa e difenda il lavoro”. era stato l’appello nel novembre 2019 dell’eurodeputata Bonfrisco al Parlamento europeo, riunito in plenaria a Bruxelles. Grazie alla proposta del gruppo ID, che su iniziativa della Lega ha chiesto di modificare l’ordine del giorno, nel corso della sessione era stato affrontato il tema dell’industria dell’acciaio e del caso Ilva. Il Copasir – che è il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica – ha acquisito un documento di sintesi, da parte degli apparati dell’ intelligence italiana, sugli interessi espressi da compagnie cinesi verso l’area strategica di Taranto, ovvero gli impianti industriali dell’ex Ilva e l’affidamento della gestione del porto della città pugliese. Lo rende noto il presidente del Copasir, Raffaele Volpi: “Tale report e i conseguenti approfondimenti saranno discussi dal Comitato nella prima seduta utile”. Volpi ricorda che il Copasir “ha più volte espresso le sue preoccupazioni in relazione all’utilizzo di tecnologia cinese nel campo delle telecomunicazioni. Preoccupazioni esternate sia con un corposo e qualificato documento trasmesso al parlamento sia con pubbliche sollecitazioni al governo affinché se ne prendesse seria considerazione e conseguenti determinazioni proprie dell’organo esecutivo“. “Nella ripresa dei lavori – prosegue Volpi – il Copasir ha in programma la chiusura della serie di audizioni sul sistema bancario-assicurativo e individuerà la forma del contributo da sottoporre al parlamento su tale attualissima tematica che in questo momento particolare, nelle sue varie sfaccettature, inevitabilmente intercetta l’interesse nazionale e la sostenibilità strutturale, anche di prospettiva, del sistema Paese“. Il Copasir si attiverà inoltre, aggiunge il presidente, “per fare un punto di situazione sugli scenari più caldi del momento quali Libia e Libano. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica continuerà, per le sue competenze, a operare con il massimo impegno per difendere l’interesse nazionale cosi come ha fatto sino ad ora, apprezzando la collaborazione di altissima qualità del sistema di intelligence italiano su tematiche tradizionali e su quelle più innovative“. A Bruxelles così come a Washington DC adesso c’è molta curiosità su come il Governo italiano agirà questa volta. Nel frattempo anche altri “servizi” esteri hanno alzato le antenne per fronteggiare le operazioni cinesi in Europa.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 27 settembre 2020. Di giorno l'aria sembra più tersa e Tamburi una periferia normalmente degradata; a sera la ciminiera dell'Ilva sbuffa senza protervia e la si scruta con meno inquietudine. Eppure gli interventi per mitigare l'impatto ambientale sono realizzati solo a metà. «All'ambiente ci ha pensato il mercato», sospira il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. La più grande acciaieria d'Europa inquina di meno solo perché lavora a un terzo della capacità. Se produce, uccide. Se non uccide, fallisce. L'equazione resta irrisolta, a otto anni dal sequestro giudiziario e dall'esproprio statale. Sui muri restano le scritte «Riva boia» e ogni sabato da quindici settimane 5.931 tarantini di 61 associazioni scrivono al premier per chiedere la chiusura dell'Ilva. I sindacati parlano di «fabbrica in abbandono». Il maxiprocesso con 44 imputati per disastro ambientale è ancora in primo grado. Il registro tumori non è mai stato creato. Il monitoraggio ambientale è parziale. I politici si almanaccano su ipotesi fantasiose, dall'idrogeno alla riconversione in parco giochi. «A che punto siamo? A nessun punto», taglia corto il sindaco. Di chi sarà l'Ilva, se come e con quali continuerà a produrre acciaio, ancora non si sa. Fino al 2012 l'Ilva sfornava ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate d'acciaio, con punte di 10,5. Riva non abbassava la produzione nemmeno nei momenti ci crisi, «la competitività dipende dai magazzini sempre pieni», diceva. Sotto i 6 milioni di tonnellate, è strutturalmente in perdita: servono grandi volumi con costi fissi alti. Oggi viaggia fra 3 e 4 milioni di tonnellate e brucia 100 milioni di euro al mese. Due altoforni su cinque, tra cui il principale, sono fermi. Si potranno riaccendere solo quando saranno completate le migliorie ambientali. Nel 2023, secondo il piano del ministero. Troppo tardi, forse.Tragedia umana e industriale senza unità di tempo, di luogo e di azione. Due anni fa è entrata in scena ArcelorMittal, che se l'è aggiudicata, dopo una controversa gara, con la formula dell'affitto d'azienda finalizzato all'acquisto. Benché sia il più grande produttore di acciaio del mondo (80 miliardi di fatturato), secondo i sindacati sta facendo di tutto per mandare l'Ilva in malora. «Non cambiano nemmeno i bulloni», allarga le braccia uno dei 3.500 operai ancora al lavoro (4.000 sono in cassa integrazione). Sostiene Franco Rizzo, capo del sindacato di base Usb, che nell'ultimo anno si contano almeno 20 incidenti gravi: «Ormai non si fanno più manutenzioni, rischiamo di fare la fine della Thyssen». Per non dire dei quattro suicidi in tre mesi. Le relazioni sindacali sono tese. Nel primo incontro dopo quattro mesi, l'amministratore delegato Lucia Morselli si è presentata con una borsa con la scritta «Non disturbare, sto salvando il mondo» e quando il primo sindacalista ha cominciato a parlare si è messa a sfogliare un giornale. ArcelorMittal ha decapitato la prima linea di manager e verticalizzato la gestione. Anche fatture di piccoli importi devono passare dal Cda. L'indotto (oltre 6mila addetti) attende 50 milioni per fatture che le banche si rifiutano di scontare. A Taranto sospettano che il piano fosse prendersi l'Ilva non per rilanciarla, ma per impedire alla concorrenza lo sbarco in Europa e portarsi i clienti nelle due acciaierie in Francia, recentemente potenziate del 30%. Da un anno, con diverse motivazioni (volatilità regolatoria, incubi giudiziari, mutate condizioni di mercato), ArcelorMittal minaccia di andarsene, recedendo dal contratto. E il governo la rincorre e fa concessioni. Di questi giorni il tira-e-molla su 200 milioni di canoni di affitto non pagati, anche se rinegoziati a marzo. «Ragionano con logiche finanziarie, non industriali», sostiene il sindaco. Il ministro Stefano Patuanelli non nasconde perplessità su ArcelorMittal. Il governo lavora a una nazionalizzazione bis, con Invitalia. Possibile una chiamata alle armi anche di Eni, Saipem, Fincantieri e banche di sistema. Il governatore Emiliano vuole entrare con l'Acquedotto Pugliese. Tutte ipotesi, finora nulla di concreto. In campagna elettorale, a parte Boccia (Pd), i ministri hanno pensato bene di non farsi vedere a Taranto. In primis Di Maio, che pure ha girato i paesi della provincia. Il M5S, che prometteva di chiudere l'Ilva, è passato in due anni dal 45% al 10%. Di questo passo, l'Ilva lentamente muore. Non un delitto con un carnefice, non un atto politico rivendicato, non un piano ma una inesorabile consunzione. «Sarebbe una follia, perché l'Ilva è ancora una Ferrari», si scalda Federico Pirro, economista pugliese che la studia da anni e fece parte anche del pensatoio creato da Riva («Gratis, però»). E non solo perché «nonostante tutto è ancora la fabbrica italiana con più addetti diretti, più di Mirafiori», con 8.277 dipendenti a libro matricola e circa 20 mila famiglie coinvolte in tutta Italia. L'Ilva vale almeno un punto di Pil, fornisce l'industria del Nord, fa girare un porto invidiato sin dal terzo secolo avanti Cristo, quando Taranto era capitale del Mediterraneo occidentale. «Qualcuno - dice Pirro - ha pensato al danno devastante sulla bilancia commerciale e all'impatto fiscale di una chiusura?». Benché governo e sindacati ripetano il mantra «esuberi zero», qualunque piano industriale credibile dovrà contarne almeno 2.500. Ma nessuno vuole intestarseli, e allora meglio guadagnare tempo. A spese del contribuente: oltre 6 miliardi già iniettati dal 2012, altri 3 (almeno) per il nuovo giro di giostra. Taranto vive sospesa e osserva le convulsioni romane con la sindrome dell'abbandono. «La pazienza sta finendo», ha detto il vescovo Filippo Santoro. Nel frattempo, c'è vita oltre l'Ilva. Le aziende prendono commesse all'estero e si emancipano dal giogo della monocommittenza. I tarantini ripopolano il centro storico abbandonato da decenni. Spuntano b&b e gli stranieri ciabattano sul ponte girevole anche durante la pandemia. Arrivata dalla Toscana, in cinque anni la direttrice Eva Degl'Innocenti, oltre a far crescere visitatori del 50% e incassi dell'80%, ha reso il museo archeologico parte di una nuova identità culturale. Ha convinto bambini e nonni a disegnare, raccontandosi, le mappe della città che è «la più disprezzata d'Italia dai suoi abitanti». Com' era prima dell'Ilva, per immaginare come potrà essere dopo.

Otto anni dopo, Ilva può attendere. Giuseppe Colombo, editorialista dell’ HuffPost, il 26 Luglio 2020. Il 25 luglio 2012 la Procura di Taranto mise sotto sequestro l’area a caldo. Per lo stabilimento non c’è nessuna certezza sul futuro. Conte aveva annunciato la chiusura del dossier a giorni, ma è tutto congelato, se ne parla solo dopo le Regionali. Il ragionamento prescinde dal nome del futuro governatore, bensì affonda le sue radici nei partiti che sostengono la corsa dei candidati. C’è un 25 luglio che Taranto ricorda benissimo. Quello di otto anni fa, quando un’ordinanza del gip mise sotto sequestro l’area a caldo dell’allora Ilva, la più grande acciaieria d’Europa. Il senso di quella decisione in due righe: “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Si apriva la travagliata stagione degli arresti dei Riva, la confisca dell’impianto, il lungo commissariamento. Nemmeno la gestione affidata al colosso Mittal nel 2017 ha garantito stabilità. Otto anni dopo il futuro dello stabilimento è ancora incerto. Dieci giorni fa Giuseppe Conte ha scritto su Facebook: “Stiamo per chiudere il dossier”. E invece per capire come andrà a finire bisognerà aspettare almeno fine settembre. Dopo le elezioni in Puglia.

Un nuovo rinvio. L’elemento chiave del risultato dei 5 stelle in Puglia e le affinità con Emiliano. Il lavoro del Governo procede seppure sotto traccia, ma c’è un’altra incognita piombata sul percorso che dovrà chiarire chi avrà in mano l’impianto. Ma anche come si produrrà e quanto. E con quanti lavoratori, che significa anche decidere se e quanti esuberi ci saranno. Eccola l’incognita: il voto in Puglia del 20-21 settembre. Una fonte dell’esecutivo che è in prima fila nella gestione del dossier lo spiega così: ”È tutto fermo per le elezioni, fino a fine settembre le cose non si muoveranno”. Quindi si rinvia ancora. Anche gli umori sondati in casa Mittal e quelli che circolano tra i sindacati dicono la stessa cosa. Il senso del ragionamento: gli equilibri tra le forze politiche che usciranno dalle urne sono un elemento ineludibile. Non nel senso che una vittoria di Michele Emiliano piuttosto che di Raffaele Fitto o degli altri candidati determinerà il futuro dell’Ilva. Il ragionamento prescinde dal nome del futuro governatore, bensì affonda le sue radici nei partiti che sostengono la corsa dei candidati. Gli elementi chiave sono due. Il primo: il risultato che conseguiranno i 5 stelle. Più positivo sarà e più forte sarà la spinta che tradizionalmente arriva dal territorio verso una soluzione che punta all’idrogeno, sulla linea della soluzione a cui sta lavorando il ministro dello Sviluppo economico in quota M5s Stefano Patuanelli. Il secondo: la possibile convergenza tra i 5 stelle e il Pd sull’ex Ilva. Emiliano, infatti, vuole una decarbonizzazione dell’impianto, che è cosa simile anche se non uguale alla soluzione dell’idrogeno. La differenza, tuttavia, è sottile di fronte all’idea di base e cioè di cambiare il volto dell’area a caldo, il cuore pulsante dello stabilimento. 

Il nodo esuberi ancora irrisolto. Il pre-accordo firmato tra il Governo e Mittal a marzo prevedeva una serie di passaggi che il Covid ha stravolto. Ma che restano in piedi perché l’accordo, siglato in tribunale, è in vigore. È entrando dentro questi passaggi che si capisce come la strada verso il futuro dell’ex Ilva è rallentata da numerosi ostacoli. Innanzitutto a inizio giugno Mittal ha messo le mani avanti su uno dei punti più delicati che il pre-accordo aveva lasciato aperto: gli esuberi. Proprio il virus e la crisi del mercato dell’acciaio hanno portato la multinazionale a presentare un piano durissimo, con cinquemila esuberi totali tra dipendenti Mittal e lavoratori in capo all’amministrazione straordinaria. Il primo passaggio che salterà tra una settimana è quello del 31 luglio, data entro la quale bisognava chiudere un accordo con i sindacati proprio sul perimetro occupazionale. L’ultimo incontro tra il Governo e le organizzazioni sindacali è stato il 9 giugno, poi nessuno si è fatto più sentire. Ad oggi non è arrivata nessuna convocazione. I sindacati sono sul piede di guerra. Ecco cosa dice Rocco Palombella, il segretario generale della Uilm, a Huffpost: “Sono passati 47 giorni e nonostante i nostri solleciti non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione. In queste settimane abbiamo letto e ascoltato dichiarazioni del presidente Conte e del ministro Patuanelli sulla volontà del Governo di voler chiudere l’area a caldo e riconvertirla con una produzione ad idrogeno. Non si era mai verificato un atteggiamento così ambiguo e irresponsabile da parte dei Governi che si sono avvicendati. La situazione è esplosiva da un punto di vista sociale, non c’è tempo da perdere”.

Il Governo al lavoro sul ruolo dello Stato. Questione di soldi. E di strategia industriale. La pre-intesa prevedeva l’ingresso dello Stato a fianco di Mittal. Anche questo punto è tutto da definire. L’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri e il super consulente del Governo Francesco Caio stanno coordinando i lavori della squadra chiamata a fissare il prezzo di questo ingresso. E non è ancora chiaro se lo Stato, attraverso Invitalia, alla fine sarà maggioranza o minoranza nella nuova Ilva. Bisogna poi capire la modalità di produzione dentro lo stabilimento. Impianto con un forno elettrico e a gas, a idrogeno e decarbonizzazione non sono la stessa cosa. 

L’incognita dell’addio di Mittal. Nelle scorse settimane Lucia Morselli, l’amministratore delegato di Mittal Italia, ha annunciato la volontà della multinazionale di restare a Taranto. C’è però una data – il 30 novembre – che è ancora in vigore. Entro quella data, i franco-indiani possono lasciare l’impianto pagando una penale di 500 milioni. Ecco perché la corda non può essere tirata oltre novembre: o entro quella data si dà forma alla pre-intesa oppure il rischio è che il banco possa saltare. Anche perché più di una fonte industriale rivela che i Mittal non hanno del tutto escluso la possibilità di fare le valigie.

L’ex Ilva oggi. Il peso della cassa integrazione e il ritorno della magistratura. Quello che è sicuro ora è che a Taranto regna l’incertezza. Su 8.200 lavoratori che conta Mittal, 3mila sono in cassa integrazione Covid. E dal 3 agosto ripartirà la cassa ordinaria per 13 settimane. I 1.700 dipendenti dell’amministrazione straordinaria sono in cassa straordinaria dal 2018. La produzione viaggia a livelli minimi, intorno alle 4,5 milioni di tonnellate all’anno. Ed è ritornata anche la magistratura. La Procura indaga per truffa ai danni dello Stato: nel mirino c’è l’utilizzo della cassa integrazione durante il lockdown. Un uso che chi ha sollevato il caso ritiene illegittimo perché l’azienda aveva ottenuto anche la deroga per continuare a lavorare durante i mesi di blocco. Otto anni dopo il cerchio non si è chiuso. 

L’indagine di Taranto sui fumi dell’Ilva finisce sotto inchiesta. Commissari e magistrati sono stati sentiti dalla procura di Potenza. Nel mirino anche la consulenza ad Amara. Giuliano Foschini il 18 luglio 2020 su La Repubblica. A Potenza c’è un’inchiesta che potrebbe riscrivere un pezzo della storia recente della più importante industria italiana. Il procuratore Francesco Curcio indaga infatti sulle modalità con cui è stata condotta dalla procura di Taranto, nella sua seconda fase, l’indagine sull’inquinamento causato dall’Ilva di Taranto. E su come un gruppo di imprenditori e politici si preparavano a gestire il più grande appalto italiano: i 3...

Ex Ilva, nube rossa su Taranto e il Tamburi: la procura apre un'inchiesta. Le Iene News il 07 luglio 2020. La procura di Taranto avvia un’inchiesta sulla nube rossa che ha invaso il quartiere Tamburi alzandosi da un parco minerario della ex Ilva. Il video virale è stato registrato da un passante facendo il giro d’Italia. Da sempre noi de Le Iene raccontiamo il dramma non solo occupazionale, ma anche per la salute di chi vive attorno allo stabilimento. La procura di Taranto apre un’inchiesta sulla nube rossa che sabato pomeriggio si è alzata dalla ex Ilva coprendo il quartiere Tamburi. Quegli istanti sono stati immortalati da un automobilista di passaggio sulla vicina superstrada, quel video virale ha fatto il giro d’Italia e ve lo riproponiamo qui sopra. A distanza di qualche giorno, la procura ha aperto un fascicolo al momento contro ignoti. I magistrati vogliono capire le cause e gli eventuali danni della nube che si è alzata durante una tromba d’aria. La polvere proveniva da un parco minerario all’interno dello stabilimento siderurgico. Nel 2012, la procura ha certificato che ogni anno da lì si alzano 700 tonnellate di polveri che ricoprivano il quartiere Tamburi e la città di Taranto. La copertura dei parchi minerari è stata ordinata dall’autorizzazione integrata ambientale proprio per prevenire la dispersioni delle polveri, ma sabato non è andata così. E ora la procura chiede chiarimenti. Noi de Le Iene da sempre vi raccontiamo il dramma non solo occupazionale, ma anche per la salute di chi vive attorno allo stabilimento. “È un mostro di fumo, senza si starebbe meglio”,  ci dice Gabriella. Lei ha appena 6 anni e ha già vinto la sua battaglia contro il cancro. L’abbiamo conosciuta nei servizi della nostra Nadia e siamo tornati a trovarla con Gaetano Pecoraro. “Qui c’è un aumento del 54% dei tumori infantili a causa dell’inquinamento ambientale”, dice Valerio Cecinati, primario del reparto di Oncologia pediatrica dell’ospedale di Taranto. Della possibile chiusura di quest’industria ne abbiamo sentito parlare a lungo con le trattative tra governo e ArcelorMittal per trovare una soluzione. Intanto, i danni dell’inquinamento dell’Ilva non possono però passare in secondo piano. Fino a un paio di anni fa, le famiglie con bambini malati dovevano curarsi lontano da casa. Come aveva dovuto fare Paola, una delle mamme incontrate dalla nostra Nadia. “Ogni volta dobbiamo fare un viaggio di 100 chilometri, 20 euro di benzina al giorno”, ci diceva due anni fa. “Ho avuto paura quando mi hanno dovuto tagliare tutti i capelli. Ho iniziato a perderli poco alla volta. Finalmente posso uscire di casa e stare insieme a tutti gli altri”, racconta sua figlia Gabriella. Abbiamo iniziato a parlare della vicenda Ilva nel 2013 con la nostra Nadia Toffa (clicca qui per il suo servizio). Avevamo documentato le nubi tossiche che si alzavano dall’azienda e le malattie che hanno causato a chi lavora e abita lì attorno. Sei anni dopo siamo tornati a cercare i nostri amici di Taranto (qui il servizio di Gaetano Pecoraro). 

Il disastro a 5 stelle delll’acciaio italiano. Co-firmato Lucia Morselli. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 14 Giugno 2020. La Morselli guida la gestione dello stabilimento Ilva di Taranto per conto della famiglia Mittal, ma è proprio lei la causa della parabola dell’intera siderurgia italiana. E basta vedere la fuga da Taranto dei manager di stretta osservanza Arcelor Mittal, e la nomina di alcune consulenti di preoccupante provenienza e competenza, a partire da una “food blogger” tarantina spacciata come comunicatrice….per finire ad un avvocatessa tarantina legata ad un manager del Gruppo Arvedi, ed in passato legata notoriamente ad un noto malavitoso tarantino ben noto dalla Direzione Investigativa Antimafia pugliese. L’Ilva è una vera e propria “mina” a cielo aperto sociale, con Arcelor Mittal in evidente disimpegno e fuga da Taranto che gli costerà, in base alle clausole dell’accordo transattivo raggiunto, soltanto 500 milioni. L’ennesima applicazione della strategia “mordi e fuggi” delle multinazionali che sbarcano in Italia, mentre il gruppo Arvedi che compare in quasi tutti i dossier siderurgici compresi Ilva e Ast, mentre anche il cavaliere Arvedi è alle prese con la crisi globale. Il vergognoso piano industriale di ArcelorMittal per l’Ilva che prevede quasi 5.000 esuberi e gli obiettivi di produzione ridotti di un terzo ha dimostrato la inesistente autorevolezza di un Governo “grillino” rappresentato prima dagli incapaci ministri Luigi Di Maio e poi Stefano Patuanelli “Ormai è saltato il banco, che tristezza…” è il commento a caldo al quotidiano La Repubblica di uno degli sherpa dell’interlocuzione tra lo Stato e la multinazionale franco-indiana. Una “tristezza” che sì è diffusa nel settore siderurgico italiano, il cuore d’acciaio dell’industria nazionale, oltre 30 mila lavoratori diretti, più di 40 miliardi di fatturato complessivo , alla base di tutte le filiere produttive fondamentali nel nostro Paese, dall’auto all’edilizia, dagli elettrodomestici all’impiantistica. Tutte acciaierie italiane sono praticamente immobili, da Taranto a Piombino, da Terni al bresciano: la domanda di acquisto della produzione è stato soddisfatto con la merce giacente nei magazzini ed adesso il futuro è buio. Il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, degno…erede di Di Maio, mentre respinge al mittente le proposte di Arcelor Mittal parlando di “accordi violati” dimenticando che è stato proprio il suo predecessore, revocando la malleva dello scudo penale, a consentire ai Mittal di aprire le danze per la fuga dall’ Italia, è tornato ieri a parlare di un “piano strategico della siderurgia“, ma come succede per l’automotive sono solo e soltanto i soliti proclami degli esponenti del Movimento 5 Stelle, quando non sanno come risolvere i problemi che creano. Non una sola parola, una smentita, niente di niente sul conflitto d’interessi , scoperto prima da Marco Bentivogli il segretario generale della FIM-CISL e poi rilanciato dal nostro giornale, con Lucia Morselli prima alla guida della cordata Jindal, Arvedi & compagnia bella, per poi diventare consulente di Di Maio al MISE sul “dossier ILVA”, diventando poi amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia. Una manager che non ha mai gestito realmente alcuna azienda, specializzata esclusivamente in “tagli” di fornitori e personale. E per la sua appartenenza (o vicinanza) ad ambienti della massoneria internazionale. Nel frattempo all’ ILVA di Taranto crescono le perdite operative ed il ricorso alla cassa integrazione. Il ministro Patuanelli, insieme alle sottosegretarie Todde (M5S) e Morani (Pd), parlano di una strategia che per far sedere intorno al tavolo del MISE tutti gli operatori del settore, per un confronto di idee, problemi, alla ricerca di possibili soluzioni. Ma nel frattempo al MISE si naviga nella nebbia a luci spente, con difficoltà di condivisione politica tra i responsabili delle istituzioni, che le posizioni divergenti su Ilva tra il Mise ed il ministero Tesoro ne sono la più evidente manifestazione. Mentre il dossier Ilva è stato messo in mano da mesi a Invitalia, il ministro Patuanelli sta agevolando l’uscita di Arcelor Mittal, sperando di poter chiamare in causa la Cassa Depositi e Prestiti, contando di poter dire l’ultima parola e decidere se l’intervento pubblico dovrà essere solo finanziario o anche industriale, e tutto ciò mentre continuano a restare ai margini della partita. I tedeschi di ThyssenKrupp hanno messo in vendita l’ acciaieria Ast di Terni (guidata in un recente passato proprio dalla Morselli) , che il gruppo Marcegaglia vorrerebbe acquistare, dove sarà necessaria una profonda ristrutturazione, un piano industriale con possibili costi occupazionali. Il sottosegretario Alessia Morani è andata a Piombino per confrontarsi sul futuro della ex-Lucchini che gli indiani della Jindal (portati in Italia sempre dalla Morselli) non sono ancora riusciti a rilanciare e che vorrebbero fare affiancare Cdp in vista di un’altra ristrutturazione dolorosa. Jindal si è presentata al tavolo di governo come commentano i sindacati, “senza presentare uno straccio di piano industriale, un accenno di linea guida un progetto per il futuro dello stabilimento, ma si è seduta con il solo e unico intento di chiedere aiuti economici al Governo”. La Morselli adesso guida la gestione dello stabilimento Ilva di Taranto per conto della famiglia Mittal, ma è proprio lei la causa della parabola dell’intera siderurgia italiana. E basta vedere la fuga da Taranto dei manager di stretta osservanza Arcelor Mittal, e la nomina di alcune consulenti di preoccupante provenienza e competenza, a partire da una “food blogger” tarantina spacciata come comunicatrice….per finire ad un avvocatessa tarantina legata ad un manager del Gruppo Arvedi, ed in passato legata notoriamente ad un noto malavitoso tarantino ben noto dalla Direzione Investigativa Antimafia pugliese.

Ex Ilva, licenziato un dipendente: per l'azienda filmò il lavoratore dimenticato a 80 metri di altezza. L'Usb Taranto: "Nessuna prova alla base della motivazione adottata dall'azienda e nessuna considerazione della situazione particolare di un dipendente che vive al rione Tamburi". La Repubblica l'11 marzo 2020. Licenziato. Graziano Zingarello, l'operaio che secondo ArcelorMittal girò il video che riprende il lavoratore dimenticato a 80 metri di altezza il 16 febbraio scorso, ha ricevuto la lettera di licenziamento. "Come temevamo", è stato il commento del segretario di Usb Taranto Franco Rizzo, riferendo la decisione dell'azienda di procedere al licenziamento del dipendente impiegato come addetto alla manutenzione nastri nell'area ghisa e sospeso dall'attività una settimana fa. "Nessuna prova alla base della motivazione adottata dall'azienda e nessuna considerazione della situazione particolare di un dipendente che vive al rione Tamburi", continua Rizzo che accusa di complicità il governo italiano. "Quando il premier Conte, a Taranto la vigilia di Natale, ha detto all'amministratore delegato di Am, Lucia Morselli, che sarebbe stato opportuno allearsi, ci illudevamo che si potesse realizzare un'alleanza anche nell'interesse della salute e del lavoro dignitoso. Ora non abbiamo più dubbi sul tipo di alleanza cui evidentemente faceva riferimento il presidente del Consiglio", afferma il segretario Usb per poi ribadire che in fabbrica non c'è rispetto delle prescrizioni anti Covid- 19. "Mentre la città è completamente paralizzata, i ritmi sono fortemente rallentati, i controlli vengono garantiti ovunque grazie al superlavoro delle forze dell'ordine, all'interno dello stabilimento ci sono situazioni assurde con centinaia di lavoratori a stretto contatto l'uno con l'altro, senza mascherine e disinfettanti - prosegue - anche in questo caso, rileviamo un atteggiamento incosciente e irresponsabile da parte dell'azienda che non si preoccupa di rispettare le indicazioni imposte con l'unico obiettivo del bene comune".

"L'ex Ilva va chiusa": l'appello del Comune di Taranto dopo l'invasione delle polveri. Pubblicato domenica, 05 luglio 2020 da La Repubblica.it. "E' inaccettabile che ancora si ritenga compatibile con la città un tale sito industriale": è l'atto d'accusa del Comune di Taranto espresso dall'assessora all'Ambiente, Annalisa Adamo, dopo che l'ondata di maltempo abbattutasi sulla città ha sollevato dallo stabilimento siderurgico ArcelorMittal grandi quantitativi di polveri siderurgiche e minerali che si sono riversate sul vicino quartiere Tamburi. "Se è stato possibile chiudere il 9 aprile scorso l'area a caldo della Ferriera di Servola Trieste, ricollocando i dipendenti - afferma Adamo - mi chiedo perché ancora a Taranto si continuino a somministrare soluzioni inefficaci che prolungano l'agonia di un intero territorio e dei suoi abitanti". Vento forte, le polveri dell'ex Ilva invadono Taranto. Gli ambientalisti: "Un disastro per la salute" in riproduzione.... Condividi   Le polveri provenienti da ArcelorMittal hanno coperto il  rione Tamburi con una nube di colore rossastro e ferro. Le polveri, sollevate dal vento forte, provenivano dalle tante aree dell'acciaieria non soggette a copertura (quest'ultima riguarda soltanto i parchi minerali, i nastri trasportatori e altre strutture ma non è ancora completata). Moltissime, in proposito, le proteste dei cittadini sui social, che hanno segnalato la grave invisibilità del rione, e tanti anche i video girati per documentare in diretta quanto avvenuto. Per il Comune quanto è accaduto ha "messo in evidenza, in maniera clamorosa e inconfutabile, le mancanze del sistema di tenuta dei materiali del ciclo produttivo industriale". Inoltre, si prosegue, "ciò che affermava il sindaco Rinaldo Melucci, già da diverso tempo, in merito all'insufficienza delle coperture dei parchi minerali e che l'ad di ArcelorMittal  ha liquidato nella trasmissione  Porta a porta con semplicistico slogan "L'Ilva è viva", ha avuto il riscontro nella giornata di sabato 4 luglio". "Inoltre - commenta ancora l'assessora Adamo - l'aver escluso gli enti territoriali ed esponenziali dai tavoli delle decisioni ha determinato un pericoloso abbassamento del livello di fiducia nei confronti del governo". Sindaco di Taranto, sindaci dell'area di crisi ambientale di Taranto e presidenti di Provincia e Camera di commercio avevano presentato un documento congiunto in cui chiedono al governo di fermare il confronto con ArcelorMittal, protestando per il fatto di non essere stati ascoltati e coinvolti, e chiedono infine di non avere più a che fare con la stessa ArcelorMittal.

Sinistra senza vergogna: vuole chiudere l'Ilva ma dopo le Regionali. Denuncia del segretario Fim-Cisl Bentivogli: «Ritardano per non disturbare Emiliano». Pasquale Napolitano, Mercoledì 04/03/2020 su Il Giornale. Il Pd vuole chiudere l'Ilva ma prende tempo per non disturbare la campagna elettorale (già disastrosa) del governatore della Puglia Michele Emiliano. L'obiettivo è chiaro: smontare l'ultimo bullone nelle acciaierie di Taranto. La sinistra teme però un impatto elettorale devastante in una Regione dove i sondaggi premiano il centrodestra. E dove si è già consumato lo strappo dei renziani: «Se sosteniamo Emiliano in Puglia? Noi diciamo di no, troveremo un candidato alternativo, far vincere lui è far perdere la Puglia» commenta a Un giorno da pecora, Davide Faraone, senatore e capogruppo di Italia viva. La chiusura dell'Ilva produrrebbe 15mila nuovi disoccupati in un'area che ha il doppio della media europea di disoccupazione giovanile. Ecco che si ricorre alla melina. Si tenta di perdere tempo, aprire nuovi contenziosi con ArcelorMittal. Arrivando alla decisione finale (di chiudere i forni) a urne chiuse. Proprio mentre dall'Unione europea arrivano segnali di sostegno al comparto siderurgico dell'Italia. «La Commissione ha intrapreso diverse azioni per sostenere la competitività del settore siderurgico», spiega il commissario Ue per il Mercato interno, Thierry Breton, rispondendo a un'interrogazione presentata dagli eurodeputati di Forza Italia Antonio Tajani e Massimiliano Salini. Va fatto un passo indietro. Il 7 febbraio al Tribunale di Milano è in programma l'udienza del processo scaturito dall'azione legale intentata da ArcelorMittal per recedere dall'accordo con i commissari di governo dell'Ilva. Il colosso franco-indiano aveva optato per il disimpegno dopo che il governo Conte aveva eliminato dal decreto Ilva lo scudo penale. I giudici milanesi dispongono un rinvio fino al 6 marzo per consentire alle parti di giungere a un pre-accordo. La bozza di accordo che circola prevede l'ingresso dello Stato accanto a Mittal e l'ambientalizzazione di Taranto con l'introduzione dei forni elettrici da affiancare a quelli a ciclo integrale e la possibilità per Mittal di uscire dagli stabilimenti con una penale di 500 milioni se le condizioni previste dall'accordo non si realizzassero. Accordo che rischia di saltare. Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, vuole la chiusura dello stabilimento. Il primo cittadino ha minacciato il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli di non siglare alcun pre-accordo. Ma non si è limitato alle minacce. Melucci ha emanato un'ordinanza per la rimozione entro 30 giorni di tutte le fonti inquinanti dall'acciaieria. Due le soluzioni suggerite dal sindaco e dal Pd: accordo di programma sul modello Genova con lo stop alle fonti inquinanti o chiusura definitiva dello stabilimento siderurgico. Proposte contenute in una nota firmata dal sindaco Melucci e dai deputati Pd e Cinque stelle. Un nuovo altolà è arrivato ieri: «Le intimidazioni e le ingiurie da Roma di queste ore non fanno alcun effetto» dichiara il sindaco di Taranto. «In nome e per conto della mia comunità devo diffidare formalmente i commissari dell'Ilva dal sottoscrivere un accordo con ArcelorMittal». Un atteggiamento che fa infuriare Marco Bentivogli. In un'intervista a Linkiesta il leader della Fim-Cisl usa parole durissime: «Trovo questa posizione irresponsabile. Mi sembra tuttavia una posizione tattica perché ha la finalità di far saltare il pre-accordo tra Governo, Ilva in amministrazione controllata e Arcelor Mittal. Si vuole forzare la mano per invocare da parte dell'azienda o amministrazione straordinaria un ennesimo ricorso al Tar e allungare il brodo affinché non si disturbi la campagna elettorale di Emiliano. Piano smascherato.

La barzelletta di Arcelor Mittal: "c’è un problema di contabilità non allineate" con l'indotto. Il Corriere del Giorno il 13 Febbraio 2020. L’ad Lucia Morselli ha partecipato al tavolo questa mattina in prefettura tra l’azienda, Confindustria e i sindacati. : “Continuiamo il confronto, noi siamo pronti a dare risposte”. Tavolo questa mattina in Prefettura a Taranto con i sindacati e Confindustria per affrontare la questione dei pagamenti ritardati di ArcelorMittal alle aziende dell’indotto. L’ad di ArcelorMittal, Lucia Morselli, ha giustificato i ritardi dei pagamenti adducendo una teoria onestamente poco credibile: “Credo che al di là dei numeri c’è un problema di disallineamento tra la parte contabile-amministrativa delle aziende e la nostra. Noi stiamo pagando, ma è difficile pagare correttamente se le due contabilità non sono allineate“. Secondo fonti sindacali, è questa la posizione della Morselli. “Questo  è il vero punto da definire, ma siamo assolutamente disponibili a proseguire in un tavolo che proponga soluzioni” ha detto la Morselli, che ha partecipato all’incontro accompagnata dal direttore delle risorse umane Arturo Ferrucci, la quale ha ricordato che la scorsa settimana l’azienda ha attivato “un numero di telefono disponibile per i fornitori e una casella di posta elettronica per raccogliere tutta l’eventuale documentazione“. Una soluzione annunciata e ripetuta da mesi da Arcelor Mittal  sostenendo di aver già bonificato alle imprese dell’indotto 20 milioni  ed altri 6 milioni sono in pagamento, mentre secondo Confindustria lo scaduto attuale ammonterebbe a circa 40 milioni di euro. In merito alle difficoltà nei rapporti con le banche segnalate dalle imprese dell’appalto , l’Ad Lucia Morselli, stando a quanto riferito dai sindacati, ha detto che in caso di necessità vi è “assoluta disponibilità da parte nostra ad incontrare il sistema creditizio locale per dare risposte”. Ma non sarebbe più facile e semplice pagare puntualmente le fatture dei fornitori ? “Parlare di contabilità discordanti nell’era della fatturazione elettronica è semplicemente ridicolo oltre che offensivo per l’intelligenza altrui ” commenta sui social Francesca Franzoso consigliere regionale di Forza Italia . Come non darle ragione ?

Taranto, l'ultimatum del sindaco: "Stop alle emissioni anomale entro 30 giorni o chiudo ArcelorMittal". L'ordinanza di Rinaldo Melucci intima ad ArcelorMittal e ad Ilva in As di individuare gli impianti interessati dai fenomeni emissivi che si continuano a registrare. La Repubblica il 27 febbraio 2020. Il sindaco di Taranto ha firmato un'ordinanza con la quale intima ad ArcelorMittal e ad Ilva in As di individuare gli impianti interessati dai fenomeni emissivi che si continuano a registrare "eliminando gli eventuali elementi di criticità e le relative anomalie entro 30 giorni". Qualora "siano state individuate le sezioni di impianto oggetto di anomalie" e "non siano state risolte le criticità riscontrate", ordina "di avviare e portare a completamento le procedure di sospensione/fermata delle attività". Nel caso non si risolvano le criticità nei tempi indicati, il sindaco Rinaldo Melucci ordina ad ArcelorMittal ed Ilva in As, ciascuna per sua competenza e responsabilità, "di avviare e portare a completamento, nei tempi tecnici strettamente necessari a garantirne la sicurezza, e comunque non oltre 60 giorni dal presente provvedimento, le procedure di fermata dei seguenti impianti: Altiforni, Cokerie, Agglomerazione, Acciaierie". Chiede inoltre "di procedere, laddove necessario per finalità legate a ragioni di sicurezza, alla sospensione/fermata delle attività inerenti gli impianti funzionalmente connessi agli impianti di cui sopra". Eventuali richieste "di proroga dei termini innanzi stabiliti - avverte il sindaco - potranno essere legate esclusivamente a ragioni di natura tecnico/impiantistica e di sicurezza nell'esecuzione delle procedure di fermata". L'ordinanza è trasmessa anche a Ministero dell'Ambiente, Prefetto di Taranto, Questore di Taranto, Ispra, Regione Puglia, Provincia di Taranto, Comune di Statte, Arpa Puglia, Asl Taranto e Ares Puglia. Gli atti sono trasmessi inoltre, "per opportuna conoscenza, al Procuratore della Repubblica dì Taranto"

Ex Ilva, firmato il nuovo accordo con Arcelor Mittal. Stop a cause in tribunale. Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 da Corriere.it. Siglata nello studio del notaio Pier Gaetano Marchetti (presenti solo i commissari Alessandro Danovi e Antonio Lupo, mentre Francesco Ardito, impossibilitato ad essere a Milano, ha firmato attraverso procura notarile), l’intesa chiude tre mesi di conflitto tra le parti. Cioè da quando, ai primissimi di novembre, ArcelorMittal manifestò, con atti formali, la propria volontà di recedere dal contratto di fitto di Ilva per tre cause ritenute ostative: abolizione dello scudo penale sul piano ambientale, rischio sequestro con spegnimento dell’altoforno 2 (uno dei tre operativi della fabbrica), ostilità all’investitore da parte della comunità e delle istituzioni di Taranto. Ora le prime due cause non sono più sul tavolo mentre persiste e si ispessisce la terza Sino alla serata del 3 marzo, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha provato a fermare l’accordo chiedendo con più interventi prima al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, e poi ai tre commissari Ilva di non firmare. Le ragioni che evidenzia Melucci sono il mancato coinvolgimento della città — anche a titolo informativo — nel negoziato di questi mesi, nel quale il governo ha incaricato come negoziatore, insieme ai commissari Ilva, anche Francesco Caio, presidente Saipem, ma soprattutto l’assenza della valutazione del danno sanitario per misurare l’impatto della produzione siderurgica sui lavoratori dello stabilimento e dei cittadini di Taranto. I segretari generali di Cgil Cisl Uil assieme ai leader di Fim Fiom Uilm Nazionali hanno bocciato di fatto l’accordo: «Alla luce dei contenuti appresi, riteniamo assolutamente non chiara la strategia del governo — spiegano — in merito al risanamento ambientale, alle prospettive industriali e occupazionali del gruppo. A questa incertezza si somma una totale incognita sulla volontà dei soggetti investitori, a partire da Arcelor Mittal, riguardo il loro impegno finanziario nella nuova compagine societaria che costituirà la nuova AMinvestco».

Taranto, firmato accordo tra Arcelor Mittal e commissari ex Ilva. No dei sindacati: dal 30 marzo terza cigs. Possibile recesso con 500 mln. Su modifica del contratto e cancellazione cause civili a Milano. La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Marzo 2020. E’ stato firmato l’accordo tra ArcelorMittal e i commissari dell’ex Ilva, che prevede la modifica del contratto di affitto e acquisizione per rinnovare il polo siderurgico con base a Taranto e la cancellazione della causa civile avviata a Milano. Nello studio notarile di Pier Gaetano Marchetti a Milano sono stati firmati, da quanto si è saputo, gli accordi fra il gruppo franco indiano e i commissari dell’ex Ilva in amministrazione straordinaria: uno che prevede la modifica al contratto, l’altro che riguarda le rinunce agli atti della causa civile in corso a Milano. A questo punto, la causa sarà dunque cancellata. Un’udienza era prevista per venerdì. Nello studio notarile per le firme dell’accordo era presente l'ad di Arcelor Mittal Italia Lucia Morselli, assieme ai commissari dell’ex Ilva e ai legali delle parti. Il gruppo franco indiano, rappresentato fra gli altri dall’avvocato Ferdinando Emanuele, mentre fra i legali dell’ex Ilva figura l’avvocato Enrico Castellani. L’atto di citazione con cui la multinazionale voleva dare l’addio all’Ilva risale allo scorso 4 novembre. Ora con gli accordi la controversia giudiziaria si chiude e dovrebbe iniziare il rilancio del polo siderurgico con un nuovo piano industriale.

POSSIBILE RECESSO CON 500 MLN - Il Contratto di Affitto Modificato tra Arcelor Mittal e i commissari dell’ex Ilva prevede che AM InvestCo possa esercitare il recesso, con una comunicazione da inviare entro il 31 dicembre 2020, nel caso in cui non sia stato sottoscritto il Nuovo Contratto di Investimento entro il 30 novembre 2020. Lo si legge nell’istanza di accordo firmata dai commissari, secondo cui «a pena di inefficacia dell’esercizio del diritto di recesso», AM InvestCo dovrà versare ad Ilva «una caparra penitenziale di 500 milioni di euro». Arcelor Mittal si impegna «ad impiegare» alla fine del nuovo piano industriale «2020-2025» «il numero complessivo di 10.700 dipendenti». Lo prevede l’istanza di accordo consegnata dai commissari ex Ilva al Mise che l’ANSA ha visionato, in cui si indica il «31 maggio 2020» come termine per trovare un accordo coi sindacati per utilizzare anche la Cigs fino al raggiungimento della «piena capacità produttiva». Le parti si impegnano poi a favorire la ricollocazione dei dipendenti rimasti all’amministrazione straordinaria.

IL TESTO DELL'ACCORDO - Il nuovo piano industriale per l’Ex Ilva messo a punto tra i commissari e A.Mittal punta a realizzare gli obiettivi prefissati dal Green New Deal europeo. Lo si legge nell’istanza di accordo e prevede nuove tecnologie a minor impatto ambientale, con utilizzo di acciaio pre-ridotto e la realizzazione di un forno elettrico, nell’ottica della graduale de-carbonizzazione dello stabilimento di Taranto e la conseguente riduzione delle emissioni inquinanti. Livelli di produzione ottimali (8 milioni di tonnellate a regime di produzione di acciaio). La tenuta dei livelli occupazionali (10.700 risorse a regime). La sostenibilità economica. Inoltre, nell’arco del piano 2020-2025, è previsto il completamento delle attività legate alla realizzazione dell’Aia e il completo rifacimento dell’Altoforno 5. Il nuovo piano industriale di Arcelor Mittal per gli stabilimenti ex Ilva è fondato sulla riduzione del 30% dell’uso del carbone, il rifacimento degli impianti, l'adozione di tecnologie produttive rispettose dell’ambiente (come il forno elettrico e l’utilizzo del preridotto) e in prospettiva l’uso di idrogeno. Lo spiegano fonti vicine al dossier nel giorno in cui i commissari e l’azienda franco-indiana hanno siglato i pre-accordi sul futuro dell’azienda siderurgica di Taranto. A.Mittal dovrà gestire i rami d’azienda «in conformità al nuovo piano industriale» a partire dalla data di sottoscrizione del Nuovo Contratto d’Investimento, ossia dal 1 gennaio 2021. Lo si legge nell’istanza di accordo in cui si precisa, però, che «già a partire dalla data di sottoscrizione dell’Accordo di Modifica», A.Mittal dovrà dar corso agli investimenti relativi allo sporgente 4 dello stabilimento di Taranto, quindi avviare la ristrutturazione dell’Altoforno 5 e avviare le attività necessarie per dar corso alle misure relative al personale dipendente. Arcelor Mittal e i Commissari ex-Ilva hanno concordato di sostenere nella misura del 50% ciascuna i costi da affrontare dopo la sottoscrizione dell’Accordo di Modifica relativi ai lavori necessari «per l’attuazione delle prescrizioni ancora non adempiute relative all’altoforno 2, entro il termine previsto dall’ordinanza del Tribunale del Riesame di Taranto». E per i lavori volti ad «assicurare che gli altiforni 1 e 4 siano conformi alle prescrizioni disposte dalla Procura della Repubblica per l’altoforno 2», si precisa nel testo.

DAL 30 MARZO PARTE LA TERZA CIGS - ArcelorMittal, con un documento consegnato ai sindacati, ha comunicato la decisione di chiedere per la terza volta la «proroga per 13 settimane dell’intervento di Cassa integrazione ordinaria (Cigo) relativo allo stabilimento siderurgico di Taranto» per un numero massimo di 1.273 dipendenti (900 operai, 104 intermedi e 269 impiegati e quadri) a partire dal 30 marzo prossimo. «Tale decisione - precisa il documento a firma del capo del personale Arturo Ferrucci e del responsabile delle relazioni industriali Cosimo Liurgo - è scaturita dal permanere delle medesime criticità di mercato e dall’insufficienza della domanda di acciaio a livello europeo e globale che hanno condotto alla richiesta di intervento dell’ammortizzatore sociale». La multinazionale ha proposto la data del 10 marzo, alle ore 10, presso la sala riunioni della direzione, per un incontro con le organizzazioni sindacali e le Rsu per fornire chiarimenti. L’azienda aggiunge che «il numero medio di sospensioni in Cigo effettivamente poste in essere nel periodo intercorrente tra l’inizio del periodo di sospensione e il 16 febbraio 2020 è stato di 855 unità, con punta massima di 1.183». Dal documento di ArcelorMittal emerge che «al 31 gennaio 2020 l’organico del sito di Taranto è composto da 8.237 dipendenti». La procedura era stata già avviata «a far data dal 2 luglio 2019 (pur in assenza di accordo sindacale, per un numero massimo di 1.395 dipendenti, ndr) con scadenza iniziale fissata al 28 settembre 2019, prorogata il 30 settembre con scadenza fissata al 28 dicembre (per 1.273 lavoratori, ndr) e successivamente prorogata a far data dal 30 dicembre 2019 con scadenza iniziale fissata al 28 marzo 2020».

MITTAL: ACCORDO RISOLVE CONTENZIOSO CON COMMISSARI - AM InvestCo, accanto all’accordo sul futuro dell’ex Ilva, ha firmato un’intesa separata attraverso la quale «Am InvestCo accetta di revocare» la decisione di ritirarsi dall’investimento nell’acciaieria, e i Commissari "accettano di ritirare la loro ingiunzione» alla multinazionale siderurgica. Lo si legge in una nota di Am InvestCo. «Nel caso in cui l’accordo di investimento non fosse eseguito entro il 30 novembre 2020, Am InvestCo ha un diritto di recesso, soggetto a un pagamento concordato».

SINDACATI BOCCIANO ACCORDO: E' STALLO - «Il negoziato avvenuto da novembre 2019 non ha visto alcun coinvolgimento delle organizzazioni sindacali», sottolineano i sindacati con una presa di posizione unitaria firmata dai leader della Cgil Maurizio Landini, della Fiom Francesca Re David, della Cisl Annamaria Furlan, della Fim Marco Bentivogli, della Uil Carmelo Barbagallo, della Uilm Rocco Palombella. «Alla luce dei contenuti appresi - proseguono - riteniamo assolutamente non chiara la strategia del Governo in merito al risanamento ambientale, alle prospettive industriali e occupazionali del gruppo. A questa incertezza si somma una totale incognita sulla volontà dei soggetti investitori, a partire da Arcelor Mittal, riguardo il loro impegno finanziario nella nuova compagine societaria che costituirà la nuova AMinvestco». Quindi sottolineano: «Nei fatti il pre-accordo prevede una fase di stallo da qui alla fine del 2020 per quanto riguarda le prospettive e l’esecuzione del piano industriale. Tutto questo arriva dopo due anni di ulteriore incertezza, particolarmente rischiosa per una realtà industriale che necessita invece di una gestione attenta e determinata. A ciò si somma una congiuntura sfavorevole del mercato dell’acciaio». E aggiungono: «Nello specifico ci sembra di totale indeterminazione: il periodo di tempo senza una governance chiara; il ruolo delle banche e dell’investitore pubblico; il mix produttivo tra ciclo integrale e forni elettrici; il ruolo conseguente delle due società; la possibilità con questo piano di occupare i 10.700 lavoratori più i 1.800 in amministrazione straordinaria e i lavoratori delle aziende di appalto, che l'accordo del 6 settembre 2018 assicurava». «Inoltre - evidenziano ancora i sindacati - il pre-accordo prevede un aumento dei lavoratori in cassa integrazione e il vincolo dell’accordo sindacale entro il 30 maggio senza una nostra preventiva condivisione del piano e degli strumenti adottati. L’assetto complessivo del piano rischia di essere insostenibile alla luce della sua scarsa verticalizzazione produttiva (tubi, laminati, lamiere, treni nastri) i cui investimenti sono molto inferiori al piano da noi sottoscritto e la positiva previsione di ripartenza dell’Afo5 ha tempistiche del suo rifacimento troppo dilatate nel tempo». Per i sindacati l’accordo del 6 settembre 2018, che «non prevedeva esuberi né l’utilizzo della cassa integrazione, garantiva la presenza di un grande produttore di acciaio a eseguire il piano stabilito», resta oggi «la migliore garanzia di tutta l’occupazione, del risanamento ambientale e del rilancio produttivo».

COMMISSARIO EX ILVA: C'È ANCORA TANTO LAVORO DA FARE- «Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, non è il momento di fare commenti. Molto lavoro è stato fatto e ce ne è molto da fare dopo». Così Alessandro Danovi, commissario straordinario dell’ex Ilva, ha commentato con poche parole l’accordo firmato in uno studio notarile milanese con il gruppo Mittal.

PARLAMENTARI M5S PUGLIA: CHIUDERE AREA A CALDO - «Entreremo nel merito dell’accordo quando saranno in nostro possesso le carte, ma già da subito occorre che tutto il territorio si unisca nel chiedere rispetto e che Taranto sia trattata al pari di Genova, come quando nel 1999, con un apposito accordo di programma, si è pianificata la chiusura dell’area a caldo». Lo dichiarano in una nota i parlamentari pugliesi del Movimento 5 Stelle, aggiungendo che l'Italia, con la firma dell’accordo tra commissari dell’Ilva in As e ArcelorMittal, «ha perso un’occasione d’oro, perché avevamo la possibilità di chiedere in giudizio i danni alla multinazionale e invece abbiamo rinunciato a un sicuro risarcimento. Mittal, scelto dall’ex Ministro Calenda, si è rivelato un pessimo gestore, che non si è limitato a non saper gestire uno stabilimento siderurgico, ma si è anche permesso di minacciare lo Stato italiano, tramite azioni di prepotenza e arroganza». Secondo i parlamentari pugliesi del M5S, «non c'è più tempo per sperare in improbabili, e infatti mai realizzate, eco-compatibilità dell’azienda dei veleni: chiediamo a tutte le forze politiche e agli amministratori, a cominciare dai sindaci del territorio, di unirsi nel fronte comune in cui già il sindaco di Taranto e i parlamentari ionici si sono stretti. Accordo di programma per una pianificata chiusura dell’area a caldo e una preventiva Valutazione di impatto sanitario e inoltre fondi e pianificazione certa per la riconversione economica di Taranto». 

Le "fake news" delle sardine joniche sulla Lega. Il Corriere del Giorno il 30 Gennaio 2020. La discesa in campo del leader della Lega proprio nella martoriata Taranto non va per niente giù alle sardine.  decise ad arrestare la marcia di Salvini che ha tutta l’intenzione di radicare la Lega anche al Sud, dove è in forte crescita la leadership di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, alleati nella coalizione di centrodestra. Il leader della Lega,  Matteo Salvini, ribattezzato dalle sardine pugliesi  “lo sciacallo” con una carenza di stile di linguaggio degno dei centri sociali,  potrebbe trovare il 19 febbraio a Taranto  un comitato di attivisti locali ad attenderlo . Il movimento, di fatto una costola della sinistra, sostenuto in tutto e per tutto dal Pd e dal sindacato CGIL , si prepara a riceverlo  con una iniziativa concomitante. La prossima settimana si riunisce a Taranto il coordinamento pugliese del movimento  si occuperà con la scusa di affrontare temi cruciali “su cui occorre che noi per primi abbiamo delle risposte“, sopratutto di organizzare l’offensiva alla prima discesa pre-regionali in Puglia dell’ex ministro dell’Interno leghista. Lo ha dichiara al Corriere del Mezzogiorno la portavoce Maristella Bagiolini, in un recente passato portavoce del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci (PD) nella sua campagna elettorale, ed attuale addetto stampa dell’ ANCE (l’ associazione dei costruttori aderenti a Confindustria) a Taranto.  Dichiarazioni che hanno fatto balzare sulla sedia il presidente di Confindustria Antonio Marinaro e dell’ ANCE  Paolo Campagna.il quale contattato dal nostro giornale si è subito dissociato dalle dichiarazioni della sua addetta stampa, annunciando delle iniziative disciplinari in quanto “l’ ANCE fa di tutto per essere apartitica ed apolitica e non possiamo permettere che qualcuno che ci rappresenta nella comunicazione prenda delle iniziative come quella Baggiolini.” “Siamo una terra accogliente da sempre e siamo una città di mare – dice la Bagiolini  al Corriere del Mezzogiorno – Prepareremo anche per Salvini un comitato di accoglienza insieme a tutte le sardine pugliesi che in quella occasione vorranno essere in città». La discesa in campo del leader della Lega proprio nella martoriata Taranto non va per niente giù alle sardine.  decise ad arrestare la marcia di Salvini che ha tutta l’intenzione di radicare la Lega anche al Sud, dove è in forte crescita la leadership di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, alleati nella coalizione di centrodestra. “Le sardine provano a smontare le bugie del capo della Lega che approfitta dello sbarco di circa 400 immigrati a Taranto per fare propaganda. – attacca la Bagiolini – Di questi 407 (132 minori, 12 donne in stato di gravidanza, 20 nuclei famigliari, provenienti da Marocco, Guinea, Senegal, Burkina Faso, Nigeria, Kenia, Mali e Somalia)  nessuno minerà il già precario equilibrio della crisi tarantina. Andranno per il momento al Cara di Bari e molti di loro saranno ricollocati in base al programma della ripartizione europea in altri stati membri”. “Come è sempre accaduto – ha aggiunto la portavoce delle sardine pugliesi – Salvini lo sa bene, e lui, che è stato ministro dell’Interno, non dovrebbe confondere la vicenda della nave militare italiana Gregoretti con quella della Ong Ocean Viking arrivata a Taranto. Perché questo sciacallaggio? Spieghi, piuttosto – conclude Bagiolini –l’investimento della Lega, in bond da 300mila euro, nell’ex Ilva degli indiani di Arcelor Mittal, alla faccia del “prima gli italiani”. Evidentemente la Bagiolini non sa informarsi molto bene , in quanto il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, ha chiarito e documentato nel novembre 2019 che il bond ArcelorMittal in cui il partito guidato da Matteo Salvini aveva investito 300mila euro è stata ceduto nel gennaio 2015. Sarebbe bastato alla sfortunata “portavoce” leggere e capire che l’operazione finanziaria è stata fatta da Via Bellerio (“non da Salvini personalmente“, spiegava una fonte qualificata) ma, come emerge da documenti in possesso dell’ agenzia AdnKronos, l’investimento è stato poi “chiuso”, dopo la vendita dei titoli. Resta da capire come faccia la Baggiolini a diffondere certe informazioni sui migranti, allorquando non sono ufficiali, e l’unico ente preposto a fornirle è il Ministero dell’ Interno ! Così come resta da capire come faccia l’ ANCE a farsi rappresentare nella comunicazione da una persona così “schierata” come Maristella Bagiolini e notoriamente collegata al sindacato ed alla sinistra vendoliana.  E’ stata responsabile della campagna elettorale di Ludovico Vico fin dai tempi della sua candidatura a Sindaco di Taranto, e poi di Melucci fino a quando è entrata in rotta di collisione con la “staffista” Doriana Imbimbo a seguito della quale venne messa alla porta del comitato elettorale. E questo sarebbe il “cambiamento”, i giovani delle sardine?

I rettori pugliesi: “No all’Università di Taranto”. Il Corriere del Giorno il 29 Gennaio 2020. Ai rettori degli atenei pugliesi non piace l’ipotesi di un polo universitario autonomo ipotizzata per il “Cantiere Taranto”. Favorevoli invece all’istituzione di corsi di laurea e all’integrazione del capoluogo jonico in un progetto di crescita di eccellenza del sistema universitario pugliese. Nella riunione del Curc il Comitato universitario regionale di coordinamento presieduto dal rettore dell’UniSalento, Fabio Pollice, che si è svolto nei giorni scorsi, per la prima volta, a Taranto, a cui hanno partecipato i rettori dei cinque atenei pugliesi e la Regione Puglia, che lo compongono, hanno dato parere favorevole all’istituzione di un corso di laurea autonomo in Medicina e Chirurgia a Taranto, emanazione del Dipartimento di Medicina dell’ateneo barese. Ma più di un rettore parlando sulla stampa si è dichiarato contrario all’istituzione di una Università autonoma a Taranto così come, invece, sarebbe ventilato nel decreto per il “Cantiere Taranto” in corso di definizione. Al momento non è ancora chiaro che cosa verrà inserito questo decreto-Taranto, coordinato dal senatore tarantino Mario Turco attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma corre voce che uno dei “punti” forti su cui si vorrebbe puntare per la riconversione del capoluogo jonico, sarebbe proprio quello del polo universitario. E’ importante chiarire un equivoco, sopratutto per non alimentare false aspettative : e cioè se invece si pensa ad una nuova autonoma Università di Taranto o se si tratta di avviare nuovi corsi di laurea ed implementare quelli già esistenti di discipline rientranti nei Dipartimenti di altre Università, come Bari e Lecce. “Ritengo che non ci sia spazio per nuove università”, ha spiegato chiaramente Fabio Pollice rettore dell’UniSalento , lo scorso 22 gennaio intervistato da un quotidiano pugliese , “ma di università di eccellenza, che non raggiunge livelli elevati rischia di essere controproducente per il territorio … Meglio allora unirci, creare prospettive concrete e confidare che, se facciamo della Puglia una regione universitaria a livello euro-mediterraneo, allora la prospettiva cambia”. Il rettore Pollice ha chiarito che è meglio “attivare sistemi territoriali permeati dall’azione universitaria indipendentemente dalla sede. Per questo noi stessi abbiamo voluto cambiare denominazione e diventare ateneo del Salento” aggiungendo ” qualcuno forse aveva dimenticato Taranto . Io non farò questo errore. Poi, la comunità tarantina è libera di fare le sue scelte e noi saremo al suo fianco indipendentemente. Noi, intanto, come Università del Salento, ci siamo“. Il rettore dell’Università di Bari, Stefano Bronzini, è stato ancora più esplicito, sempre sulla stampa, che rispondendo sulla previsione dell’autonomia universitaria tarantina nel “Cantiere Taranto” ha detto : “Non so se convenga una università autonoma, anche perché di fatto si scontra con un altro decreto che stabilisce che non si possono fare nuove università. Credo piuttosto che Taranto debba tifare, e noi tifiamo insieme a Taranto, perché il sistema universitario porti non soltanto didattica, ma professionalità, temi e ambiti di ricerca. Credo che questo possa essere innovativo per il sistema pugliese più che avere sedi amministrative autonome. Sarei favorevole ad un impegno di tutto il sistema universitario pugliese per lo sviluppo dell’area jonica”. Allineato sulle stesse posizioni dei due colleghi Pollice e Bronzini  anche il rettore del Politecnico di Bari, Francesco Cupertino, che parlando sull’ipotesi di un’ università autonoma a Taranto, si è chiesto se “radicare sul territorio passa sempre attraverso l’istituzione di una università? In genere ci sono difficoltà per tali percorsi” aggiungendo “un passo importante sarebbe radicare i Dipartimenti sulla città. E, in questo momento, il Politecnico di Bari non ha un Dipartimento su Taranto. Occorrerebbe forse meglio cominciare con piccoli passi e poi valutare se ci sarà la possibilità di trasformare questi dipartimenti in un nuovo ateneo“. Il silenzio più imbarazzante è stato quello della “politica” tarantina. Per loro va sempre tutto bene. E’ più facile accettare le decisioni altrui, piuttosto che lottare per imporre le proprie idee.  Ma questo comportamento non è una novità….

Arcelor Mittal continua a non pagare i fornitori di Taranto. Il Corriere del Giorno il 29 Gennaio 2020. Quanto sta accadendo conferma che la costituzione nel novembre scorso di un coordinamento con la partecipazione anche di Regione, Comune e Confindustria per vigilare su modalità e tempi di pagamento delle fatture, è stata l’ennesima pagliacciata a scopo “passerella elettorale” dei soliti ben noti politici-fantocci pugliesi. Le imprese dell’indotto Arcelor Mittal, si sono autoconvocate “in considerazione della persistente situazione di impasse riguardante i pagamenti da parte di Arcelor Mittal Italia, si autoconvocheranno domani, giovedì 30 gennaio, alle ore 10, nella Palazzina Direzionale dello Stabilimento ex Ilva di Taranto”. Lo la comunicato Confindustria Taranto con un comunicato, segnalando il protrarsi di nuovi ritardi nel pagamento dei crediti maturati alle imprese fornitrici.  Un gruppo di autotrasportatori dell’indotto che lavora con ArcelorMittal aveva manifestato nei giorni scorsi per le stesse ragioni davanti alla portineria dell’accesso riservato alle  imprese. La protesta venne interrotta a seguito di un incontro avuto la dirigenza di Arcelor Mittal Italia che aveva lo garantito il pagamento dell’80% delle fatture scadute. In quella circostanza  Il vertice di Confindustria Taranto avevo prese le distanze da quella forma di protesta  avendo ricevuto rassicurazioni dall’azienda, in seguito disattese, con il protrarsi dei ritardi nei pagamenti. Quanto sta accadendo conferma che la costituzione nel novembre scorso di un coordinamento con la partecipazione anche di Regione, Comune e Confindustria per vigilare su modalità e tempi di pagamento delle fatture, è stata l’ennesima pagliacciata a scopo “passerella elettorale” dei soliti ben noti politici-fantocci pugliesi.

Taranto: non solo Ilva, 1 euro per salvare la Città vecchia. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Il Comune mette in vendita i primi tre palazzi a un prezzo simbolico nel borgo antico, un insieme di vicoli angusti con abitazioni pericolanti. C’era una volta una città compressa in un chilometro di lunghezza per 300 metri di larghezza. Circondata dal mare. Che alla fine dell’Ottocento, con la costruzione dell’Arsenale, raggiunse i 40 mila abitanti. Oggi è abitata da meno di 3 mila persone e l’amministrazione ha deciso di ripopolarla, cedendo immobili a 1 euro. Non è la prima volta che accade, l’Italia è piena di piccoli centri con offerte analoghe. Ma in questo caso l’iniziativa è della 17esima città italiana, Taranto. Che pur sfiorando i 200 mila abitanti, ha un cuore che non pulsa più da oltre quarant’anni, da quando nel 1975 il crollo di una palazzina in Vico Reale distrusse un’intera famiglia, dando via al fuggi fuggi dal Borgo antico. Adesso Taranto ha deciso di ridare vita al suo cuore, un insieme di vicoli angusti con abitazioni pericolanti: la Città vecchia. Collegata al resto della città con due ponti, il «girevole» e quello «di pietra». Presidiata dal Castello Aragonese e dal Municipio, con al centro la Cattedrale di San Cataldo. «Quello è il cuore di Taranto», spiega il regista Sergio Rubini, che nella città dei due mari ha girato il suo ultimo film Il grande spirito, «e senza il cuore un luogo non può vivere. I centri storici sono la memoria delle città e, al di là dell’Ilva, Taranto non può che ripartire dal centro storico, come già hanno fatto altre città pugliesi». E infatti l’obiettivo dell’amministrazione comunale guidata dal sindaco Rinaldo Melucci è riportare sull’Isola 25 mila abitanti. «È il nucleo da cui deve ripartire Taranto», spiega l’assessora al Patrimonio e alle Politiche abitative, Francesca Viggiano, «non vogliamo più che la città venga associata solo all’Ilva, ma che abbia uno sviluppo alternativo». Un’idea che piace anche a Roma: il Mibact ha assegnato a Taranto 90 milioni per il centro storico. Una pioggia di denaro che di certo aiuterà, con il potenziamento dei servizi di acqua e fogna e il rifacimento dei waterfront e altre infrastrutture, la rinascita della Città vecchia. Per la quale, però, l’amministrazione comunale vuole partire dalla più modesta cifra di 1 euro. Lo scorso 9 gennaio, infatti, il Comune ha annunciato la prossima pubblicazione di un bando per la cessione di immobili pubblici a questa cifra simbolica. E grazie al tam tam dei social è bastato il semplice annuncio per suscitare interessi anche da lontano. «Mi sono già arrivate», spiega Viggiano, «numerose mail: in particolare una richiesta di informazioni da New York e altre da Milano e Roma». Le risposte ai quesiti arriveranno con il bando, che sarà pronto nel giro di quindici giorni. Ma l’amministrazione ha già fissato alcuni paletti: per evitare speculazioni, chi rileverà l’immobile dovrà dimostrare di viverci dopo averlo restaurato a proprie spese oppure adibirlo a casa vacanza o a residenza universitaria, senza poterlo vendere. E le procedure per il restauro (nel rispetto dei vincoli della soprintendenza) dovranno essere avviate entro due mesi dalla cessione della titolarità degli immobili. I palazzi comunali sull’Isola sono circa 1.300. «Per ora partiremo con i primi tre», conclude l’assessora, «dai quali si possono ricavare quindici unità abitative, per ciascuna delle quali la richiesta simbolica è di 1 euro: due immobili sono su Postierla Immacolata, traversa di via Duomo, nei pressi di palazzo Delli Ponti, l’altro di fronte a palazzo d’Ayala. È realistico immaginare che i costi di ristrutturazione vadano da 300 a 800 mila euro per l’intero edificio cielo-terra». Se l’esperimento andrà bene, l’iniziativa si allargherà ad altri edifici. E se le richieste saranno numerose, verranno scelte quelle con il maggiore impatto sullo sviluppo economico, fine ultimo dell’amministrazione. Che dopo l’insediamento della facoltà di Giurisprudenza, della caserma dei Carabinieri e di numerose attività commerciali su via Duomo, vuole riportare i tarantini nel Borgo antico. Perché la rinascita dell’Isola di una volta possa diventare una favola da raccontare.

Prescrizione per l' ex commissario Ilva, Enrico Bondi. Il Corriere del Giorno il 5 Febbraio 2020. Gli imputati erano accusati, in concorso e accordo tra loro, nelle rispettive qualità e di non avere adempiuto compiutamente alle prescrizioni Aia nonché alle prescrizioni del Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Loredana Galasso ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di Enrico Bondi l’ex- commissario straordinario dell’ILVA  e dell’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Antonio Lupoli, imputati per getto pericoloso di cose e attività di gestione di rifiuti non autorizzata contestati fino all’1 agosto 2015. Era stato il gip Vilma Gilli a disporre nuove indagini dopo due richieste di archiviazione,  ed a ordinare l’imputazione coatta ai pm. Dal procedimento era già stata stralciata la posizione dell’ex commissario straordinario Piero Gnudi e dell’ex direttore Ruggero Cola, per i quali il processo proseguirà il 19 febbraio dinanzi al giudice monocratico Chiara Panico. Secondo l ’accusa rappresentata dai pm Epifani, Graziano e Buccoliero,  avrebbero così determinato come riportava il capo d’imputazione  “illecitamente  lo sversamento di una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive, nocive in atmosfera, emissioni derivanti dall’area parchi, dall’area cokeria, dall’area agglomerato, dall’area altiforni, dall’area acciaieria, e dall’attività di smaltimento operata nell’area Grf, nonché dalle diverse torce dell’area acciaieria a mezzo delle quali (torce) smaltivano abusivamente una grande quantità di rifiuti gassosi”. Gli imputati erano accusati, in concorso e accordo tra loro, nelle rispettive qualità e di non avere adempiuto compiutamente alle prescrizioni Aia (del 26 ottobre 2012) nonché alle prescrizioni del Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria.

Amianto a Taranto, Cassazione conferma assoluzione per ex vertici Ilva, Riva e Capogrosso. Erano stati condannati in primo grado nel 2014 a 6 anni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Febbraio 2020. Diventa definitiva la sentenza di assoluzione della Corte d’appello di Taranto per Fabio Riva, ex rappresentante legale dell’Ilva, e per Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento siderurgico di Taranto, accusati, in concorso con altri, per omicidio colposo e omissione dolosa di cautele in relazione alla morte di due lavoratori esposti all’amianto: Cosimo Adamo e Vito Ancona. La Corte di Cassazione ha infatti respinto il ricorso della Procura generale e delle parti civili, fra cui Aiea (Associazione Nazionale Esposti Amianto), contro la sentenza di assoluzione della Corte d’appello che riformò la sentenza di condanna a sei anni di reclusione rimediata dai due imputati in primo grado. La Cassazione inizialmente aveva stralciato per un difetto di notifica la posizione di Riva e Capogrosso, annullando con rinvio, per la rideterminazione della pena, le condanne agli ex dirigenti del siderurgico Sergio Noce e Attilio Angelini. La Cassazione inizialmente aveva stralciato per un difetto di notifica la posizione di Riva e Capogrosso, annullando con rinvio, per la rideterminazione della pena, le condanne agli ex dirigenti del siderurgico Sergio Noce e Attilio Angelini, ai quali la Corte di Appello di Taranto - il 23 giugno 2017 - aveva inflitto due anni e quattro mesi di reclusione al primo, e due anni di reclusione al secondo. In una nota Maura Crudeli, presidente nazionale, e Fulvio Aurora, responsabile delle vertenze giudiziarie di Aiea, esprimono «profonda delusione e amarezza» per la decisione della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Antonio Signorini per “il Giornale” l'8 gennaio 2020. Nessun «depauperamento» dell'Ilva per portarla al fallimento. Al contrario la famiglia Riva, quando era alla guida del gruppo siderurgico omonimo, ha condotto operazioni compatibili con la situazione del mercato. Difficile anche accusare gli ex proprietari delle acciaierie di Taranto di non avere pensato all' ambiente, visto che investirono direttamente un miliardo di euro, più altri tre destinati all' ammodernamento degli impianti. Fabio Riva è stato assolto in rito abbreviato dall' accusa di bancarotta fraudolenta per una «totale carenza del compendio accusatorio». L' esito del processo è noto da sei mesi (la sentenza è del 6 luglio) ma ieri - nello stesso giorno della decisione del Tribunale del Riesame che ha rimandato lo spegnimento dell' Altoforno 2 - il Gup di Milano Lidia Castellucci ha depositato le motivazioni, che smontano le tesi dell' accusa, sulla base delle quali era stato peraltro negato anche un tentativo di patteggiamento da parte della famiglia. A carico dell'ex proprietario del gruppo siderurgico omonimo, si legge nel passaggio chiave delle 127 pagine di motivazione, «non sono emersi elementi per affermare la sussistenza delle consapevolezza di porre in essere un abuso o un' infedeltà nell' esercizio della carica ricoperta ovvero un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria dell' impresa accompagnata dall' astratta prevedibilità del dissesto». In sintesi, non c' è stata la volontà di provocare la bancarotta del gruppo. Il dolo comprende «la prevedibilità e l' accettazione del dissesto» come effetto dei propri comportamenti. Non è il caso della gestione Riva. Il riferimento del magistrato di Milano è a un' operazione precisa (la scissione tra Ilva e Riva Fire) che secondo l' accusa era destinata al fallimento, ma che secondo il giudice per l' udienza preliminare «appariva funzionale, alla luce del mercato siderurgico e del mutato potere contrattuale coi produttori di materie prime, a porre le basi per alleanze strategiche con soggetti terzi, in un momento in cui vi erano segnali di ripresa». La sentenza riguarda reati economici. Un altro ramo dell' inchiesta fa capo alla procura di Taranto e riguarda reati ambientali (per i quali Fabio Riva era stato già assolto). Ma nelle motivazioni dei giudici milanesi fa capolino anche la questione ambientale. Da parte della famiglia Riva, secondo il Gup Castellucci, non si è verificata «una sistematica omissione delle tutele ambientali e sanitarie, tali da determinare, una volta scoperta dalle autorità competenti, l' impossibilità di prosecuzione dell' attività, in quanto i costi da sostenere per adeguare lo stabilimento di Taranto alle normative sarebbero stati di ampiezza tale da non poter essere affrontati». Nella motivazione della sentenza si spiega anche che non è possibile sostenere la tesi di «una mancanza di investimenti» visto che il gruppo «a partire dal 1995 e fino al 2012 ha sostenuto costi in materia di ambiente ammontanti a oltre un miliardo di euro, di cui la maggior parte a partire dal 2007 proprio al fine di ottenere il rilascio» della Autorizzazione integrata ambientale. Poi «più di tre miliardi per l' ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti». Il passo successivo dopo il deposito della sentenza del processo in rito abbreviato, è la decisione della Procura che a questo punto potrebbe decidere se ricorrere in appello. Se non succederà diventerà possibile la revisione del giudizio su Nicola Riva, fratello di Fabio, che aveva scelto la strada del patteggiamento a tre anni. Nessuna revisione per il padre Adriano Riva, che è deceduto nel maggio scorso prima dell' assoluzione del figlio.

La Morselli cambia il management di Arcelor Mittal Italia a Taranto. E nonostante la solita stampa locale "prezzolata" i dubbi restano...Il Corriere del Giorno il 26 Gennaio 2020. E’ iniziata la grande fuga “mascherata” dei managers stranieri del gruppo franco indiano, e come per incanto l’organigramma dei manager di ArcelorMittal Italia diventa “italiano”. Onestamente e senza alcun pregiudizio, resta da capire come ci si possa fidare della Morselli e dei Mittal. ed è quello che di giorno, sindacati, imprenditori ed operai si chiedono sempre di più. Senza trovare una risposta logica e sensata. L’Ad Lucia Morselli ha ufficializzato gli incarichi nel nuovo «management committee» che avrà efficacia da domani lunedì 27 gennaio. Loris Pascucci, attualmente Head of Blast Furnaces, è stato nominato Chief Operations Officer. Sushil Jain, attualmente Performance Steering Support and Spend Control, è stato nominato Chief Financial Officer; Domenico Ponzio, entrato recentemente nella società, è il nuovo ed Chief Purchasing Officer; Carlo Malasomma resta Chief Marketing Officer; Arturo Ferrucci è stato nominato Chief Hr Officer  prendendo il posto di Annalisa Pasquini, anch’essa assunta mesi addietro da ArcelorMittal.  ed Alessandra De Carlo Chief Information Officer. Anche per questi ultimi due si tratta di due recenti ingressi nella società. Angelo Di Martino, attualmente Head of Project Management Office, è stato nominato Investment Planning Coordinator; Alessandro Labile resta Health, Safety and Environment Manager; Angelo Colucci resta Supply Chain Manager. Nel team confermata la nuova responsabile della comunicazione,  Emanuela Cherubini nominata di recente  Communications and CR Manager, Francesco Mencaroni (Rmop, Sop & Demand Planning Manager), Daniele Santoro (Legal Manager), Flavia Celentano (Compliance Manager), Giuseppe Frustaci (Head of Genova and Novi Ligure Operations). Fonti interne non ufficiali spiegano che l’avvicendamento dei dirigenti, sarebbe stato necessario  anche alla necessità di un deciso cambio di passo nella gestione a 360 gradi, visti i risultati non positivi in questo primo anno di gestione della multinazionale dello stabilimento siderurgico di Taranto, subentrando a novembre del 2018 alla precedente gestione di Ilva in amministrazione straordinaria. Lasceranno ArcelorMittal Italia, i manager arrivati all’insediamento del gruppo franco-indiano, e le loro nuove posizioni all’interno del Gruppo ArcelorMittal che verranno presto annunciate, a partire da Stefan Van Campe, Chief Operating Officer Primary  che era il direttore dell’area a caldo, ricoprendo un ruolo molto importante perché comprende altiforni e acciaierie;  Wim Van Gerven, Chief Operating Officer; Steve Wampach, Chief Financial Office; Emmanuel Rodriguez, Chief Purchasing Officer;  Philippe Aubron, Chief Operating Officer Finishing Taranto; Dirk Stroo, Chief Operating Officer Services; Luciene Caberlin Araujo, Head of Energy; Patrick Louis, Head of Capex and business optimization.

Quello che diceva la Morselli ad Affari & Finanza- Repubblica. Andandosi rileggere le dichiarazioni rilasciateda Lucia Morselli nel 2018 ad Affari&Finanza, l’inserto economico del lunedì del quotidiano La Repubblica , allora a capo di Acciaitalia, la cordata perdente nella gara per l’Ilva, , ed ora passata alla guida di Arcelor Mittal Italia e c’è da chiedersi con quale coerenza oggi possa guidare l’acciaieria per conto del colosso con sede in Lussemburgo. Il lungo colloquio sulla gara e sul futuro di Taranto era un duro atto d’accusa alla gestione del bando da parte dei commissari straordinari e una violenta critica ai piani degli acquirenti. La Morselli spiegava a suo tempo l’importanza di Ilva per l’Italia, mentre adesso la vuole rimpicciolire o restituire allo Stato: “L’Italia è un Paese di artigiani, dalla moda alla meccanica” diceva. E la meccanica“dalla più sofisticata al più banale dei bulloni, è fatta di acciaio”. Il nostro Paese, aggiungeva  Morselli,ha “storicamente soddisfatto il propriofabbisogno interno ed esportato acciaio”. Ed allarmava l’opinione pubblica sui rischi per il mercato di un eventuale defaultdel siderurgico di Taranto, attraverso un episodio del 2014, quando guidava l’Ast di Terni: “Mi trovavo a Bruxelles per l’introduzione dei dazia protezione della siderurgia europea – dichiarava ad Affari&Finanza – e leggendo le statistiche insieme con gli altri acciaieri  vedemmo che in Italia e in Europa si erano impennate le importazioni. Preoccupati ci dicemmo che era colpa della crisi dell’Ilva. Un unico impianto stava creando un problema a tutta la Ue”. La 63enne Morselli spiegava che l’impianto di Taranto “deve essere il pivot di un grande traffico commerciale, che si estenda oltre la siderurgia” evidenziando che Acciaitalia, la cordata da lei guidata dell’epoca della gara , aveva messo in campo un piano per un “serio processo di decarbonizzazione”, che ArcelorMittal ha sempre bollato invece come fantasioso. La Morselli nella sua intervista era entrata a gamba teso nel delicato terreno della parte finale della gara, quando alcuni degli azionisti di Acciaitalia (gli indiani di Jindal e Delfin, la finanziaria lussemburghese di Leonardo Del Vecchio  avevano tentato un rilancio sul prezzo che avrebbe sostanzialmente pareggiato l’offerta economica di ArcelorMittal. Un rilancio non condiviso dalla “sua” Cassa Depositi e Prestiti. Come mai hanno vinto loro? Secondo gli articoli di alcuni giornali la valutazione tecnica di comparazione dei rispettivi piani industriali e ambientali era che il piano di Arcelor Mittalrisultava ‘incoerente su investimenti e volumi di produzione oltre che sull’occupazione’”. Però offrirono più soldi che in extremis la sua cordata cercò di pareggiare. “Abbiamo chiesto subito di poter migliorare la nostra offerta economica, naturalmente lasciando anche alla cordata di Areclor Mittal (insieme al gruppo Marceglia, poi uscito per decisione dell’ Antitrust n.d.r.) possibilità di migliorare la propria” aggiungeva la Morselli che sottolineava, “non ci hanno dato la possibilità di farlo” anche se “in un’audizione alla Commissione Attività produttive del Senato, a febbraio 2016, era stata confermata la possibilità di ‘una fase di rilanci’”. E subito dopo partì l’attacco frontale: “Noi non abbiamo chiesto di cambiare le regole, solo di applicarle. Ricordiamoci  che l’interesse nazionale è la regola prevalente dell’Amministrazione Straordinaria”. Morselli sostenne anche che l’attesa per il giudizio dell’Antitrust europeo, già noto in fase di gara e doveroso solo in caso di acquisizione da parte di ArcelorMittal, e la lunga trattativa con i sindacati avevano di fatto “bruciato” il sovrapprezzo perché  l’acciaieria era rimasta nel frattempo in mano ai commissari con le sue relative perdite, mese dopo mese. Secondo la manager 63enne sarebbe stato tutto più semplice se a vincere fosse stata Acciaitalia, sostenendo che  il capocordata “Jindal piaceva ai sindacati perché avrebbe fatto di Ilva il suo unico centro di sviluppo in Europa, non una delle tante filiali di un impero che ha il suo centro altrove”. “L’Italia a Taranto aveva la piùgrande e la più moderna acciaieria d’Europa, – concludeva la  Morselli – e abbiamo lasciato che molti ,  forse i più avanzati  dei suoi forni si spegnessero” . E’ bene ricordare che ArcelorMittal aveva garantito che avrebbe rimesso tutto in sesto. Successivamente invece è stata proprio a lei , appena insediatasi al vertice della filiale italiana del gruppo Arcelor Mittal,  dare l’ordine di farli lavorare al minimo chiedendo il licenziamento del 50% dei dipendenti.

Il ruolo imbarazzante di Lucia Morselli ed il M5S. Il nostro giornale ha scoperto e raccontato qualcosa di molto imbarazzante sul ruolo di Lucia Morselli. Era il 24 agosto 2018, come scriveva il collega Francesco Pacifico sul quotidiano online Lettera 43che raccontava che Lucia Morselli  “con chiunque parlasse – e sono pochi, selezionati e potenti amici – ripete da giorni: «Ci riprendiamo l’Ilva“. L’anno scorso la cordata AcciaItalia guidata dagli indiani di Jindal, con la presenza e partecipazione italiana della Cassa depositi e prestiti, del Gruppo Arvedi di Cremona e la Delphin Holding S.à.r.l., società finanziaria con sede a Lussemburgo, amministrata da Romolo Bardin, della quale Leonardo Del Vecchio possiede a suo nome il 25% , ed alla sua morte passerà alla moglie Nicoletta Zampillo; mentre il restante 75% è diviso equamente tra i suoi sei figli (12,5% a testa),  “cordata” della della quale la Morselli era la “pivot” e perse contro Arcerlor Mittal nell’asta per conquistare il gruppo italiano. “La manager sessantaduenne è convinta – scriveva Lettera 43 – sia che la partita si possa ribaltare, sia che la vecchia cordata possa riscendere in campo (almeno in parte: al momento ci sarebbe il sì soltanto di Jvc e Cdp). E questa assicurazione l’avrebbe data anche al ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, del quale la Morselli sarebbe un’importante “consigliere” sul dossier Ilva. Pare che il Movimento Cinque Stelle si sia informato anche con lei se era il caso di chiedere l’intervento prima dell’Anac e poi dell’Avvocatura dello Stato”. Il quotidiano milanese solitamente bene informato aggiungeva che ” Dopo aver deciso di non rendere noto il parere dell’Avvocatura, Di Maio ha fatto sapere nelle ultime ore davanti alle telecamere di Agorà (RAI ) che «la questione dell’annullamento della gara non è finita. Per annullarla non basta che ci sia l’illegittimità, ci vuole anche un altro semaforo che si deve accendere, quello dell’interesse pubblico, e lo stiamo ancora verificando». Soprattutto non ha escluso che possa esserci un altro compratore. E qui entra in scena Lucia Morselli“. “La manager che Letizia Moratti volle alla guida di Stream in questi giorni starebbe tirando le fila per rimettere in piedi AcciaItalia. – concludeva Lettera43 – Gli analisti del settore sono molto scettici su questa ipotesi, ma gli indiani di Jindal – conclusa l’acquisizione dell’ex Lucchini a Piombino – potrebbero tornare nella partita anche soltanto per dare un colpo allo storico concorrente Mittal. Inutile dire che la nuova Cdp dell’era sovranista non si farebbe grandi scrupoli a prendere una quota dell’acciaieria. Non ha velleità di tornare in partita, invece, Giovanni Arvedi, anche Leonardo Del Vecchio – che in passato ha polemizzato non poco con l’ex ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda – non sarebbe interessato”. Francesco Pacifico, su Lettera 43, infatti, accreditava l’ipotesi, sia pure usando il condizionale, che la Morselli sia un consigliere del ministro Di Maio nel dossier ILVA.

Borgogni (Fim-Cis) lo smemorato. Ecco quello che dichiarava il leader della Fim-Cisl che sembra aver dimenticato tutto: “Il ministro Luigi Di Maio smentisca, nella vicenda ILVA di Taranto, qualsiasi coinvolgimento di cordate fantasma.” Tutto ciò era ben noto anche ai sindacati, infatti a seguito di quell’articolo arrivò la richiesta di chiarimenti dal segretario nazionale della FIM-CISL Marco Bentivogli attraverso una nota in cui qualche giorno spiega:”apprendiamo da LETTERA 43 dell’attivismo dell’ex amministratore delegato di Acciai Speciali Terni, Lucia Morselli, un anno fa nominata in quota Cassa Depositi e Prestitiamministratore delegato di Acciai Italia.La cordata con Jindal, Arvedi e Delphin che ha perso, nel giugno 2017, la gara di acquisizione dell’Ilva di Taranto. Non sappiamo quale sia la casacca di queste ultime ore della Morselli, CDP? Fondo Elliott? Consulente del governo? Ci auguriamo che il ministro Di Maio smentisca questa collaborazione.”

Marco Bentivogli FIM Cisl. “Ricordiamo  che di Jindal allora in una offerta di 1,2 miliardi metteva solo 3/400 milioni a differenza di 1,8 miliardi di Arcelor-Mittal”sottolineava Bentivogli . “Il resto era a carico di Arvedi, Delphin e Cassa Depositi e Prestiti. Non sappiamo che intenzioni abbia Jindal – aggiunge il segretario della FIM-CISL – ma, gareggiare perché un Fondo finanziario come Elliott prenda gli asset siderurgici italiani è inaccettabile. Trapela in queste ore, infatti, l’interesse del Fondo finanziario per il sito di Terni di Thyssenkrupp. E la Cassa Depositi e Prestiti – si domandava  Bentivogli – dovrebbe favorire l’ingresso di un Fondo finanziario americano in una cordata dalla quale si sono defilati gli unici italiani, Luxottica e Arvedi?” Allora concludeva Bentivogli, “ricordiamo i 36 giorni di sciopero che furono necessari per riportare l’amministratore delegato di Acciai Speciali Terni alla ragione e soprattutto chiediamo a Di Maio di smentire immediatamente un conflitto di interessi che sarebbe senza precedenti.”

La strizzata d’occhio della Morselli al programma del M5S sull’ ambiente. Era il 15 novembre 2019 quando il CORRIERE DEL GIORNO scriveva: Detto questo, la Morselli  considerato il suo curriculum e le poltrone sulle quali siede ha notoriamente grandi collegamenti nel mondo finanziario. Ma non è soltanto questo il suo ruolo in questa vicenda. Ha ottimi rapporti nel mondo bancario e fino all’anno scorso era guardata con simpatia anche dai sindacati. Inoltre è pronta a venire incontro a quella che è la principale richiesta di Di Maio sul fronte ambientale. Come ha ricordato in una recente intervista a Repubblica, “relativamente all’inquinamento, le tecnologie per non inquinare ci sono. Non a caso la cordata diAcciaitalia aveva stanziato un miliardo di investimenti in due nuovi forni elettrici a preridotto, introducendo un serio processo di decarbonizzazione”. Come sta scritto guarda caso…nel contratto di governo. Abbiamo quindi contattato e raggiunto telefonicamente a suo tempo  il collega Paolo Madron, direttore responsabile del quotidiano Lettera43.it , il qual ci ha confermato di “non aver mai ricevuto alcuna richiesta di rettifica, lettera di replica, querela nè da Lucia Morselli che da Luigi Di Maio e dalMovimento Cinque Stelle“. Sarà stata una dimenticanza.. un disinteresse… o forse l’applicazione di un vecchio teorema del “chi tace acconsente…“? Occorre evidenziare che quanto abbiamo scritto a novembre 2019, non è mai stato oggetto di smentita, rettifica o querela nè da Arcelor Mittal, nè tantomeno dalla Morselli. Così come occorre far presente e segnalare ai nostri lettori, che nessun giornalista della stampa locale pugliese si è ben guardato nelle conferenze stampa locali a chiedere dei chiarimenti. Avranno forse paura di perdere le “mancette pubblicitarie” dispensate in loco da Arcelor Mittal. Abbiamo appreso da fonte autorvole ed in via “confidenziale” che quel nostro articolo è confluito nei fascicoli d’indagine della Procura di Milano e quella di Taranto che stanno verificando ed indagando per fare luce anche su questa torbida vicenda, diventata ormai un intrigo politico-industriale-occupazione che rischia di far diventare la città di Taranto e la sua provincia una vera e propria “polveriera” sociale pronta ad esplodere da un momento all’altro. O viceversa un limone da spremere sino in fondo , per poi buttarlo via. Onestamente e senza alcun pregiudizio, resta da capire come ci si possa fidare della Morselli e dei Mittal. ed è quello che di giorno, sindacati, imprenditori ed operai si chiedono sempre di più. Senza trovare una risposta logica e sensata.

Ex Ilva, i commissari: “Da ArcelorMittal capitalismo d'assalto”. Le Iene News il 22 gennaio 2020. Per i legali dei commissari dell’ex Ilva, ArcelorMittal starebbe praticando “un capitalismo d’assalto” ai danni della fabbrica di Taranto. Una denuncia che suona inquietantemente simile a quella raccolta da Gaetano Pecoraro a Liegi, dove la multinazionale angloindiana ha prima acquistato e poi chiuso l’acciaieria del posto. Durissimo attacco dei commissari dell’ex Ilva ad ArcelorMittal, l’azienda che vuole ritirarsi ora dalle acciaierie di Taranto. Nel corso del contezioso civile in corso a Milano, i legali dei commissari straordinari nominati dal governo hanno presentato una memoria in cui criticano aspramente la multinazionale angloindiana e i suoi metodi di lavoro. Secondo loro la ditta starebbe portando avanti “consuete logiche” di “un capitalismo d’assalto”: insomma, sembra la stessa denuncia che alcuni ex dipendenti di ArcelorMittal avevano fatto al nostro Gaetano Pecoraro. I legali dei commissari non si fermano qui e spiegano: le logiche d’assalto sarebbero quelle per le quali “se a valle dell’affare concordato si guadagna allora ‘guadagno io’, mentre se invece si perde ‘perdiamo insieme’”. Il gruppo, sempre secondo i legali, starebbe quindi cercando di dimezzare “surrettiziamente” l’occupazione, portandola da 10.700 dipendenti ad appena 5.700, riporta il quotidiano La Repubblica. Non è la prima volta che sentiamo parlare di questo presunto tipo di logica nelle scelte aziendali di ArcelorMittal, la multinazionale angloindiana che da qualche anno si è impegnata con Ilva. Nel servizio di Gaetano Pecoraro, che potete rivedere cliccando qui, i commissari della fabbrica di Taranto parlavano di una precisa strategia industriale, in riferimento ai licenziamenti annunciati, tesa a “uccidere un proprio importante concorrente nel mercato europeo”. La tesi sarebbe questa: ArcelorMittal comprerebbe le mega acciaierie concorrenti con il solo scopo di chiuderle. A denunciare questa possibile attività sono stati anche gli ormai ex dipendenti di una fabbrica a Liegi, in Belgio: “Si diminuisce il personale, si licenziano gli operai e ogni volta si accetta e si crede che andrà bene così”, ci dice l’ex operaio Frederich. “Alla fine chiudono tutto”. La storia dell’acciaieria di Liegi sembra, per molti aspetti, simile a quella di Taranto. Una industria enorme che dava lavoro a diecimila persone. Ma dopo l’arrivo di ArcelorMittal, le cose sono cambiate. Potete rivedere la vicenda nel servizio di Gaetano Pecoraro che trova in testa a questo articolo. E mentre si discute a suon di carte bollate sul futuro dell’acciaieria, il presente degli operai è parimenti inquietante: nella notte ci sono state tre violente esplosioni all’interno della fabbrica che solo per miracolo non hanno ferito nessuno. Questi eventi però, secondo i sindacati, mostrano il disperato bisogno di manutenzione che c’è negli stabilimenti. Le nuvole grigie sopra all’ex Ilva di Taranto, insomma, continuano ad addensarsi. 

"Il ritiro di Mittal dall'Ilva è un danno da 3,5 miliardi". I commissari attaccano il gruppo franco-indiano: "Hanno mentito e ora fuggono. È capitalismo d'assalto". Sofia Fraschini, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Un affondo che sa d'avvertimento. ArcelorMittal e le sue inadempienze - ossia «il fallimento del progetto di preservazione e rilancio dei rami d'azienda» - potrebbero portare «a un impatto economico, pari ad una riduzione del Pil di 3,5 miliardi». L'azienda franco indiana avrebbe detto, inoltre, «falsità» sull'immunità penale, e farebbe «capitalismo d'assalto», improntato sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite. Questo, in sintesi, il nuovo duro attacco contenuto nella memoria di replica presentata dai legali dei commissari dell'ex Ilva nel contenzioso civile in corso a Milano con il gruppo franco indiano, la cui prossima udienza è fissata il 7 febbraio. Un atto dovuto in attesa dell'accordo programmato per fine mese? In parte. «Anche se - spiega una fonte vicina alla vicenda - l'affondo dei commissari sembra l'ennesima carta disperata che sta giocando il governo per tutelarsi da un'intesa che stenta a decollare». La scadenza è per fine mese, ma ancora i sindacati non sono stati convocati, né trapela nulla di decisivo sulla trattativa. Ecco, allora, che le 86 pagine redatte dagli avvocati Giorgio De Nova, Enrico Castellani e Marco Annoni suonano come un nuovo ultimatum e per alcuni «come la dimostrazione che questa battaglia, alla fine, si giocherà in aula». L'affermazione di ArcelorMittal, secondo cui «la mancata estensione temporale dello scudo penale renderebbe impossibile attuare il piano ambientale senza incorrere in responsabilità (anche penali) conseguenti a problemi ambientali ereditati dalla precedente gestione non è pertanto una semplice mistificazione, ma piuttosto una conclamata falsità», scrivono gli avvocati per i quali è «soltanto la raffazzonata giustificazione» utilizzata per sciogliersi da un rapporto contrattuale «non più ritenuto nel proprio interesse» e il «grimaldello» attraverso il quale «tentare di fare saltare l'assetto negoziale». Una carta servita su un piatto d'argento dal governo che, all'epoca, conosceva bene le resistenze della multinazionale a restare a Taranto. Nel mirino dei commissari anche la decisione del tribunale del Riesame di Taranto sull'altoforno 2 - che ha annullato l'obbligo di spegnimento: «È venuto meno - spiegano - il presupposto di gran parte delle argomentazioni» di ArcelorMittal per il disimpegno dall'Ilva. ArcelorMittal, si ricorda nella memoria, infatti, aveva indicato il funzionamento dell'altoforno 2 (sotto sequestro per la morte di un operaio), insieme alla «protezione legale», come presupposti base per continuare a operare a Taranto. Insomma, la multinazionale avrebbe sbagliato tutto e anche oggi starebbe portando avanti la gestione dei rami d'azienda «su una base nettamente depressa ed insufficiente rispetto alla capacità produttiva». In più, «la consistenza del magazzino anziché essere orientata all'approvvigionamento è fortemente sbilanciata sul prodotto finito». ArcelorMittal ha portato avanti le «consuete logiche di un certo tipo di capitalismo d'assalto secondo le quali se a valle dell'affare concordato si guadagna, allora guadagno io», mentre, se invece si perde, allora «perdiamo insieme», continuano i commissari che spiegano che il gruppo «cerca oggi di imporre surrettiziamente una riduzione del personale di circa 5.000 unità». Un danno che sarebbe incalcolabile e concretamente irreparabile perchè l'ex Ilva in amministrazione straordinaria «non ha né la struttura, né i mezzi per reagire all'inadempimento di Mittal per mitigarne i danni». Lo mettono nero su bianco i commissari in sede legale. Mentre il governo tace.

Taranto, Arcelor Mittal ferma un nuovo impianto: non ci sono materie prime. La decisione dell'azienda franco indiana manderà altri 250 lavoratori in cassa integrazione. Ad essere spenta, dal 23 gennaio al 31 marzo è l'acciaieria 1

Emanuela Carucci, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Lo ha comunicato ai sindacati la direzione di Arcelor Mittal: il fermo per due mesi dell'acciaieria 1 dello stabilimento di Taranto. Si tratta dei nuovi assetti di marcia dell'azienda franco indiana, leader internazionale nella produzione di acciaio. Secondo quanto comunicato da Arcelor Mittal i nuovi assetti produttivi dell’area acciaieria sono determinati, soprattutto, da una scarso approvvigionamento di materie prime e per manutenzione. Fino al 31 marzo, quindi l'acciaieria 1 sarà ferma e parte della produzione sarà portata avanti solo dall'acciaieria 2. Questa decisione, però, comporta una riduzione di personale da 477 a 227 unità e andrebbero in cassa integrazione ben duecentocinquanta lavoratori. "Un disagio anche in termini economici, oltre che occupazionali perché questi lavoratori vedrebbero così il loro stipendio dimezzato" ha sottolineato a ilGiornale.it Biagio Prisciano Biagio Prisciano, segretario generale Film Cisl Taranto-Brindisi. Una parte del personale, inoltre, dall'acciaieria 1 sarà impiegato nell'acciaieria 2. I tre sindacati Fim, Fiom e Uilm hanno ribadito di essere contrari a questa decisione aziendale in quanto ritengono che il momentaneo trasferimento della produzione solo nell'acciaieria 2, rispetto all’attuale assetto di marcia, possa creare possibili ripercussioni dal punto di vista della sicurezza e dell’ambiente. Inoltre, i sindacalisti sottolineano come questa scelta sia stata fatta da Arcelor Mittal senza che vi sia ancora un piano industriale condiviso con il Governo e le organizzazioni sindacali e, pertanto, questi ultimi chiedono l’immediata sospensione dell’iniziativa presa dalla multinazionale. "Il presidente del Consiglio Conte l'ultima volta che è venuto a Taranto aveva promesso un incontro con i sindacati entro fine gennaio, ma non se ne è saputo più nulla. Aveva promesso un'azienda green, il mantenimento di tutti i lavoratori e della produzione di 8 milioni di tonnellate di ghisa annue, ma non è così", continua Prisciano. Dopo il rischio che venisse spento l'impianto "Afo2" nel siderurgico più grande d'Europa, a Taranto si continuano a fermare gli impianti. A sottolinearlo è Rocco Palombella, segretario generale Uilm. "Come abbiamo avuto modo di evidenziare negli ultimi mesi - ha sottolineato Palombella in una nota - la sola continuità di marcia dell'altoforno 2 decisa lo scorso 7 gennaio, con l'accoglimento da parte del tribunale di Taranto del ricorso presentato dai commissari di Ilva in amministrazione straordinaria, non avrebbe modificato le quantità di ghisa prodotta e aumentato i livelli occupazionali e produttivi. Oggi a Taranto i tre altoforni hanno una marcia ridotta, vicina ai minimi storici, con meno di 4 milioni di tonnellate all'anno prodotte". È paradossale, secondo il segretario generale della Uilm che con tre altoforni regolarmente in marcia, si fermi una delle acciaierie. Non può essere sufficiente, secondo il rappresentante della Uilm, la temporanea marcia del treno lamiere (un altro impianto del ciclo di produzione dell'acciaio), prevista dal prossimo 10 febbraio per quattro settimane a far considerare positivamente il bilancio produttivo dopo la decisione di fermare l'acciaieria 1 per due mesi. "ArcelorMittal - prosegue Palombella - continua a programmare assetti di marcia che vedono un ricorso molto elevato alla cassa integrazione e che rallentano gli investimenti di ambientalizzazione. Con meno di 4 milioni di tonnellate all'anno prodotte si continuano a perdere consistenti quote di mercato." . E Palombella annuncia: "Tra qualche giorno scoppierà nuovamente il tema del mancato pagamento dello scaduto alle aziende dell'appalto".

Le "furbate" di Arcelor Mittal non finiscono mai. Ora ferma l'acciaieria 1 sino a marzo. Il Corriere del Giorno il 20 Gennaio 2020. La legittima preoccupazione dei sindacati di Taranto: 250 operai in cig. La decisione già comunicata ai sindacati: i nuovi assetti produttivi sono dovuti a “uno scarso approvvigionamento di materie prime e all’attuale capacità produttiva legata alle commesse”. Questa mattina è stata depositata la memoria della Procura di Milano, intervenuta nella causa intercorrente fra ILVA in Amministrazione Straordinaria ed Arcelor Mittal Italia, con la quale i magistrati milanesi rispondono a quanto sostenuto dal gruppo franco indiano che aveva chiesto di estrometterla dal procedimento.  ArcelorMittal ha convocato oggi i sindacati annunciando il fermo immediato dell’Acciaieria 1 di Taranto e una riduzione di personale da 477 a 227 unità, determinando la collocazione di 250 lavoratori in cassa integrazione. Lo rendono noto i sindacati Fim, Fiom e Uilm.  La previsione di fermata è di circa 2 mesi, fino al 31 marzo 2020. I sindacati spiegano che – secondo ArcelorMittal – i nuovi assetti produttivi sono dovuti a “uno scarso approvvigionamento di materie prime e all’attuale capacità produttiva legata alle commesse”. ArcelorMittal lo scorso anno a causa della crisi di mercato,  ha prodotto circa 4,5 milioni di tonnellate di acciaio e non i 6 milioni per cui ha l’autorizzazione a produrre. A causa della crisi, infine, dallo scorso luglio poco più di 1200 lavoratori, su 8200 in forza allo stabilimento di Taranto, sono in cassa integrazione ordinaria, cassa integrazione che a fine dicembre è stata rinnovata per altre 13 settimane anche in assenza di accordo sindacale. ArcelorMittal infine aveva annunciato nei giorni scorsi, a ripartenza del reparto Produzione lamiere dal 10 febbraio per quattro settimane, riportando al lavoro 360 dipendenti in cassa integrazione, per eseguire un ordine di 30mila tonnellate. I nuovi assetti produttivi partiranno da giovedì 23 gennaio con l’Acciaieria 2 a pieno regime. Parte della produzione della stessa Acciaieria 1 verrebbe spostata all’Acciaieria 2, che, quindi, “passerebbe dall’attuale regime di due convertitori a tre in marcia“. “Una parte del personale di esercizio dell’Acciaieria 1, formato e informato – spiegano i sindacati – verrà impiegato in Acciaieria 2 a saturazione organico“. I vertici sindacali di  Fim, Fiom e Uilm hanno ribadito la propria “contrarietà a tale decisione aziendale in quanto ritengono che il momentaneo trasferimento della produzione sull’Acciaieria 2, rispetto all’attuale assetto di marcia, può creare possibili ripercussioni dal punto di vista della sicurezza e dell’ambiente”, ritenendo “inaccettabile tale scelta da parte di ArcelorMittal in quanto, ad oggi, non vi è un piano industriale condiviso con il Governo e le organizzazioni sindacali“  e quindi chiedono “l’immediata sospensione dell’iniziativa unilaterale della multinazionale“. Questa mattina è stata depositata la memoria della Procura di Milano, intervenuta nella causa intercorrente fra ILVA in Amministrazione Straordinaria ed Arcelor Mittal Italia, con la quale i magistrati milanesi rispondono a quanto sostenuto dal gruppo franco indiano che aveva chiesto di estrometterla dal procedimento. Con la propria memoria il Procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ed i pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, titolari dell’inchiesta penale, hanno contestato la richiesta  della loro estromissione dalla causa civile, affermando che “il ricorso della Procura della Repubblica è pienamente ammissibile e coerente con i doveri dell’Ufficio” in quanto nel procedimento ci sono “interessi pubblici coinvolti sotto il profilo della tutela dell’ambiente, dell’occupazione, degli impianti strategici per l’economia nazionale”.

I magistrati della Procura di Milano oltre ad evidenziare che la memoria depositata lo scorso 16 dicembre al giudice civile Claudio Marangoni del Tribunale di Milano, dai legali di Arcelor Mittal  “è totalmente centrata sul provvedimento” sull’Altoforno 2 emesso dal giudice monocratico Maccagnano del Tribunale di Taranto  successivamente annullato lo scorso 7 gennaio dal Tribunale del Riesame , i pm hanno sottolineato come la giurisprudenza riconosce nel contenzioso civile “l’utilizzabilità degli elementi di prova assunti nel corso del procedimento penale come prova atipica, con pieno ingresso nel novero degli elementi valutabili dal giudicante” .

Ex Ilva, memoria commissari: «Venuti meno argomenti Mittal, su scudo falsità». Si tratta, ma continua la battaglia legale. Mimmo Mazza il 21 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Mentre a Roma si tratta, a Milano si prepara la lite. Sono giorni frenetici per il futuro dello stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto e dei suoi 10.700 dipendenti, 8.200 dei quali nell’acciaieria della città dei due mari. Entro il 31 gennaio va trovata una intesa tra ArcelorMittal, la multinazionale dell’acciaio che gestisce il complesso aziendale ex Ilva dall’1 novembre 2018 in fitto finalizzato all’acquisto, da un lato, Ilva in amministrazione straordinaria e Governo dall’altro. Le parti domenica scorsa, dopo giorni di «freddo», si sarebbero riavvicinate ma ieri, il deposito delle memorie della Procura di Milano e dei commissari straordinari dell’Ilva nel procedimento civile incardinato dinanzi al tribunale del capoluogo lombardo, ha contribuito, e non di poco, a far aumentare la temperatura e la tensione. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i sostituti Stefano Civardi e Mauro Clerici, titolari dell’inchiesta su ArcelorMittal Italia proprio a seguito del recesso dal contratto di acquisto fatto dalla multinazionale il 4 novembre scorso, in due pagine hanno confutato la tesi dei legali di Mittal, non usando mezzi termini. In particolare, secondo i magistrati, ArcelorMittal manifesterebbe una «insofferenza per l'interesse pubblico», chiedendo che la Procura di Milano non partecipi alla causa nata dal ricorso d'urgenza presentato dai commissari della ex Ilva per scongiurare la fuga della multinazionale dall'acciaieria di Taranto. «Il tentativo «di espungere gli elementi che la Procura offre alla valutazione del Tribunale» si può spiegare «verosimilmente anche per la rilevanza che questi elementi potrebbero assumere nel contrastare le ragioni di ArcellorMittal» si legge nella memoria. I legali della multinazionale avevano sostenuto nella loro memoria del 16 dicembre scorso che la Procura non potesse «versare in un giudizio civile elementi istruttori acquisiti al di fuori di ogni contraddittorio nonché del controllo del giudice civile, evenienza mai verificatasi in Italia e, per quanto si sappia in qualsiasi Stato di diritto». Parole che, secondo i pm, o sono «il portato di un artifizio retorico eccessivamente spinto» o denotano «scarsa memoria». «Si ricorda come il recesso dai contratti d'affitto operato con le modalità concretamente adottate dalla concessionaria, interrotte solo grazie all'invito del tribunale, arrechi un irreparabile nocumento ad impianti industriali strategici a presidio della cui integrità sono facilmente invocabili anche norma sanzionatorie penali» scrivono i pm di Milano, sottolineando che il ricorso della procura della Repubblica «è pienamente ammissibile e coerente coi doveri dell'ufficio» dal momento che risponde al concetto di «interesse pubblico». Come detto, anche i commissari straordinari di Ilva hanno depositato una memoria, condensando in 77 pagine firmate dagli avvocati Giorgio De Nova, Enrico Castellani e Marco Annoni le loro conclusioni. I legali di Ilva in As innanzitutto sottolineano il valore dell'ordinanza con la quale il 7 gennaio scorso il tribunale dell'appello ha concesso la facoltà d'uso all'altoforno 2, nelle more dello svolgimento di lavori di messa in sicurezza, specificando come con tale provvedimento è «venuto meno, già in fatto, il presupposto di gran parte delle argomentazioni» di ArcelorMittal, pur se viene, peraltro, sottolineato che comunque non vi sarebbe stata alcuna ontologica incompatibilità tra l’ordine del giudice penale che inibisse l’uso dell’altoforno 2 dell’impianto di Taranto sino alla realizzazione del sistema automatico di colata e la esecuzione del contratto di fitto finalizzato all'acquisto del complesso aziendale ex Ilva. I commissari poi alzano il tiro, sostenendo che «ArcelorMittal non» ha «mai regolarmente adempiuto al contratto, ed il livello del proprio inadempimento si sia gradualmente accresciuto mano a mano che controparte comprendeva la propria inabilità a gestire in modo economicamente efficace i rami d’azienda dalla stessa presi in carico», non portando «avanti la realizzazione del Piano Ambientale nei tempi e con gli investimenti programmati», non eseguendo «il programma di manutenzione concordato nell’ambito del contratto in modo coerente alle migliori pratiche di esercizio», non operando «gli impianti secondo le dovute cautele funzionali a preservarne efficienza e longevità: anziché utilizzare tutti gli altiforni in via continuativa, da molti mesi essa li utilizza infatti a turno, mantenendone in operatività non più di due contemporaneamente». Insomma, per i legali di Ilva in As, «l’idea che» tutte le violazioni contestate ad ArcelorMittal possano essere definite come «adempiere esattamente al contratto suona per la verità come beffa irrispettosa (anche del Tribunale) anziché un argomento serio». Viene, infine, calcolato anche il danno provocato dall’inadempimento di ArcelorMittal al progetto di rilancio dell’Ilva: stimato un impatto pari ad una riduzione del Pil di 3,5 miliardi euro, pari allo 0,2% del Pil italiano e allo 0,7% del Pil del Mezzogiorno. Davvero tanta roba.

Mittal, prefetto Taranto: «Non ci siano divisioni tra gli operai e la città». Lo ha detto il nuovo prefetto di Taranto, Demetrio Martino. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Gennaio 2020. «Ho incontrato una delegazione di lavoratori ex Ilva, aderenti all’Usb, che manifestavano per rivendicare l’integrazione salariale, comprendendo le loro preoccupazioni. Chiaramente ci troviamo in situazioni difficili nei confronti delle quali si deve dare massima attenzione e anche delle risposte». Lo ha detto il nuovo prefetto di Taranto, Demetrio Martino, nel corso di un incontro con i giornalisti. «Su questo piano - ha aggiunto - io mi sono già attivato con i canali che riguardano la comunicazione con il governo, e spero che si possa veramente andare insieme per cercare di rispondere alle aspettative dei lavoratori e quelle della collettività, che non devono essere in contrapposizione ma devono trovare un momento di unione e di coerenza». Martino, proveniente dalla Prefettura di Matera, ha precisato che «la prima idea» che si è fatto è quella «di un territorio che ha grandi potenzialità e che sta giocando in questo momento una partita dal punto di vista strategico importantissima, con una grandissima attenzione da parte del governo». «Quindi - ha rilevato - questi anni saranno importantissimi per Taranto e la sua provincia, per pianificare un progetto di rilancio che possa portare questo territorio alle migliori condizioni possibili». Il nuovo prefetto si è poi detto "orgoglioso di essere qui, di essere stato nominato in questa città così importante, in questo territorio magnifico che presenta qualche problema ma che ha anche ha una potenzialità elevatissima. Sarò al fianco della società per favorire e supportare ogni attività di progresso civile e sociale». Per fare questo, ha concluso Martino ringraziando il suo predecessore Antonella Bellomo, trasferita a Bari, «è necessaria la giusta cornice di sicurezza. Incontrerò i vertici provinciali delle forze dell’ordine e faremo il punto della situazione. Lavoreremo in sinergia con le altre istituzioni nella convinzione che lo sforzo corale paga sempre e che comunque bisogna costruire una collaborazione in maniera che poi risultati positivi appartengano a tutti, senza la necessità ci debbano essere per forza dei solisti». «Dovremo lavorare - ha concluso - come un’orchestra dove ognuno svolge il proprio ruolo».

Mittal, Afo2: accolto il ricorso, scatta proroga. Operai ex Ilva bloccano accesso Eni. Sindacati a Conte: «Fate chiarezza». Proroga dell’uso o spegnimento, si pronunciano positivamente i giudici. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Gennaio 2020. Intanto per i giudici è tempo di decidere sull'Afo2 di Taranto: scongiurato lo spegnimento dell’Altoforno 2 dell’ex Ilva. Il Tribunale del Riesame di Taranto, in sede di appello, ha accolto il ricorso presentato dai commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria, annullando la decisione del giudice Francesco Maccagnano di respingere l’istanza di proroga dell’uso dell’impianto. L’Afo2 fu sequestrato nel giugno 2015 dopo l’incidente costato la vita all’operaio 35enne Alessandro Morricella, investito da una fiammata mista a ghisa incandescente.  Il collegio di giudici (presidente Licci, relatore Caroli, a latere Lotito) ha accolto l’appello proposto il 17 dicembre scorso nell’interesse dell’Ilva in As, annullando l’ordinanza del Giudice Maccagnano del 10 dicembre e il provvedimento connesso del 12 dicembre concedendo all’amministrazione straordinaria la facoltà d’uso dell’Altoforno 2 subordinata all’adempimento delle residue prescrizioni, in tutto o in parte non eseguite. In particolare assegnando, a decorrere dalla data di deposito dell’ordinanza, «sei settimane per l’adozione dei cosiddetti dispositivi «attivi"; a decorrere dalla data del 19 novembre 2019 nove mesi per l’attivazione del caricatore automatico della massa a tappare; 10 mesi per l’attivazione del campionatore automatico della ghisa; 14 mesi per l’attivazione del caricatore delle aste della Maf (Macchina a forare, ndr) e sostituzione della Maf». La decisione con cui il Tribunale del Riesame di Taranto ha bloccato lo spegnimento dell’Altoforno 2 dell’ex Ilva contribuisce a «spianare» la strada ad una "ragionevole soluzione negoziata» tra l’amministrazione straordinaria e Arcelor Mittal. Lo spiega una fonte qualificata nella causa tra i commissari e il gruppo franco-indiano aggiungendo che il provvedimento di oggi rimuove «il principale ostacolo ad una piena ed ordinata gestione degli impianti». Lo scorso 20 dicembre, giorno in cui si è tenuta l’udienza della causa civile - poi rinviata al 7 febbraio - con al centro il ricorso cautelare e d’urgenza dei commissari straordinari per bloccare l’addio della multinazionale dell’acciaio, in Tribunale a Milano l’ amministratore delegato di ArcelorMittal Lucia Morselli e i tre commissari dell’ex Ilva, Francesco Ardito, Alessandro Danovi e Antonio Lupo hanno firmato un 'heads agreement' che getta le basi per la negoziazione. In sostanza quello sottoscritto a dicembre è un protocollo - canovaccio in cui però non si parla di esuberi, nè si mette nero su bianco l’impegno economico che viene assunto - che ha come "deadline" il prossimo 31 gennaio e che ha lo scopo di portare ad un piano industriale per il rilancio del polo siderurgico con base a Taranto. Piano che, attraverso la ristrutturazione del vecchio contratto tra gli indiani e l'amministrazione straordinaria, vede anche la creazione di una "newco» e «tecnologia verde». Nel caso in cui l’intesa non dovesse andare a buon fine e franare, si andrà avanti con la causa civile incardinata davanti al giudice Claudio Marangoni che ha dato temine per il deposito delle memorie di replica e controreplica ai legali dei commissari entro il 20 gennaio e a quelli di Mittal entro il 31.

RISCHIO RIDOTTO PER OPERAI - «Alla luce della 'migliore scienza ed esperienza del momento storicò in cui si scrive, il rischio per i lavoratori dell’altoforno 2 deve considerarsi assai ridotto». Ad affermarlo è il Tribunale del Riesame che ha scongiurato lo spegnimento dell’impianto annullando la decisione del giudice Francesco Maccagnano, dinanzi al quale si svolge il processo per l’incidente costato la vita all’operaio del siderurgico di Taranto Alessandro Morricella, morto il 12 giugno 2015, quattro giorni dopo essere stato investito da una fiammata. I giudici osservano che «il Ctr-Comitato tecnico regionale Puglia (organo deputato alla valutazione del Rapporto di sicurezza sui Top event e scenari incidentali) ha infatti espresso parere validando la stima delle 'frequenze di accadimentò dei Top event contenuta nel rapporto del 2017 e limitandosi a prescrivere 'il censimento completo delle apparecchiature soggette ad invecchiamentò e la formulazione di un successivo cronoprogramma di implementazione dei sistemi di controllo entro il 9 settembre 2020. I consulenti RMS di Ilva hanno quantificato in sei eventi in 10.000 anni il rischio che, in presenza di un operatore, si verifichi nell’altoforno n.2 una fiammata analoga a quella che uccise Alessandro Morricella, precisando che le conseguenze varierebbero in funzione della posizione assunta dall’operatore, non preventivabile». Il custode giudiziario invece «ha stimato - viene evidenziato - in 61104 (ossia 6 eventi in 1000 anni) l’analogo rischio: a pag.5 della relazione del 5 dicembre 20l9 ha ritenuto che la stima non dovesse avvalersi della positiva esperienza degli altri altiforni Ilva ove tale evento non si era mai verificato negli ultimi 50 anni, bensì dovesse attenere al solo altoforno n.2, ove si era verificato una volta in 50 anni». I dati sul ridotto rischio di incidenti «consentono dunque di porre idealmente sul piatto della bilancia questa prima cifra (rischio pari a 0,006 nel prossimo anno), sull'altro invece il danno derivante con certezza per Ilva s.p.a. dell’anticipazione del fine vita dell’altoforno (al gennaio 2020 anziché a fine 2023), cui sommare gli ulteriori danni della perdita di quote di mercato e delle ampie ricadute occupazionali». E’ quanto evidenzia il Tribunale del riesame di Taranto nel provvedimento che annulla la decisione del giudice monocratico Francesco Maccagnano e proroga la facoltà d’uso dell’Afo2 dello stabilimento ArcelorMittal, che fu sequestrato nel giugno del 2015 dopo l'incidente costato la vita all’operaio Alessandro Morricella. «Il bilanciamento in esame - è detto nel provvedimento dei giudici - può dunque risolversi, allo stato degli atti, in termini favorevoli all’accoglimento dell’istanza di proroga della facoltà d’uso dell’altoforno n.2». Ciò, a parere del Tribunale, «non implica la subordinazione dell’integrità dei lavoratori all’interesse aziendale, ma anzi riconosce alla vita umana un valore superiore di cento volte rispetto alla produzione annuale di Ilva in As».

IL RIESAME: SCELTA NON CONDIVISA - «Il Tribunale non condivide le valutazioni del Giudice monocratico, nonostante l’indubbia consistenza dell’impianto motivazionale della relativa ordinanza, e ritiene invece fondati i termini essenziali dell’appello proposto da Ilva in As». Lo scrive il Tribunale del riesame di Taranto nel provvedimento di 21 pagine con il quale ha annullato la decisione del giudice monocratico Francesco Maccagnano di respingere la proroga della facoltà d’uso dell’Afo2. I giudici (presidente Licci, relatore Carolil, a latere Lotito) hanno concesso altro tempo all’Ilva in As per ottemperare alle prescrizioni imposte dal custode giudiziario. L'accoglimento del ricorso, sottolinea il Tribunale del riesame, "dipende dal doveroso adeguamento del “giudicato cautelare del 17 settembre 2019 alle sopravvenienze, tutte documentate dall’appellante ed invece trascurate o non valutate correttamente dal Giudice monocratico». Si aggiunge che «il primo Giudice non ha tenuto conto che il termine da ultimo concesso ad Ilva è stato effettivamente sfruttato per adempiere pienamente a quella valutazione del rischio (Prescrizione n.1), già ritenuta dal medesimo Giudice la parte essenziale delle prescrizioni originarie». Occorre «incidentalmente evidenziare», osserva ancora il Tribunale, che il custode giudiziario «ha correttamente distinto tra l’adempimento della prescrizione (di cui dava atto) ed il proprio giudizio sui risultati della medesima analisi del rischio (sui quali esprimeva alcune riserve, auspicandone una revisione). Trattasi di profili distinti: l’adempimento delle prescrizioni originariamente dettate dal Custode rappresenta la condizione per ottenere il dissequestro dell’altoforno, ciò per effetto del giudicato cautelare formatosi sulla concessione del termine ad Ilva perché adempia a quelle prescrizioni». "Diversamente - viene evidenziato nel provvedimento che accoglie il ricorso dell’Ilva in As - le valutazioni del medesimo organo ausiliario sugli esiti, soddisfacenti o meno, di quegli adempimenti devono essere prese in considerazione dal Giudice della cautela, unitamente però a tutte le altre valutazioni tecniche (anche di segno contrario) riversate in atti». «Altri elementi sopravvenuti, ulteriori rispetto all’adempimento della prescrizione n.1 ed al parziale adempimento della prescrizione n.5, hanno riscontrato la fattiva e 'concreta volontà' di Ilva (su cui si confidava nel provvedimento dell’appello cautelare) di adempiere nel più breve tempo possibile alle prescrizioni residue». Lo evidenzia il Tribunale del Riesame di Taranto che, in sede di appello, ha accolto il ricorso dell’Ilva in As concedendo un’ulteriore proroga dell’uso dell’Afo2, sequestrato dal giugno 2015 nell’ambito dell’inchiesta sulla morte dell’operaio Alessandro Morricella. I giudici sottolineano che Ilva «ha commissionato il progetto ed ha ordinato la realizzazione (pagando circa un terzo del costo) delle opere necessarie per la completa automazione delle operazioni del foro di colata. Sin dalla data del 13 settembre 2019 (finanche prima dell’ordinanza dell’appello cautelare) Ilva ha commissionato al prezzo di 208.900 euro a Paul Wurth s.p.a. le attività di ispezione presso l’altoforno n.2 e di 'completamento della ingegneria concettualè per l’installazione delle opere automatiche di caricamento della massa a tappare, di caricamento fioretti ed aste con nuova macchina a forare, di prelievo di campioni di ghisa». Il 20 novembre 2019, fanno rilevare ancora i giudici, Ilva ha «poi versato 3.573.075 euro in favore del medesimo fornitore, pari al 25% della somma di 11.715.000 euro prevista per la fornitura e per il collaudo delle suddette opere di automazione».

I SINDACATI - La segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan considera una buona notizia la proroga di utilizzo dell’altoforno 2 della ex Ilva di Taranto» ma aggiunge che «ora vanno completati subito i lavori per la sicurezza dell’impianto». Lo afferma Furlan su Twitter. «Arcelor Mittal - conclude - rispetti gli accordi per rilanciare lo stabilimento,tutelare l’occupazione,risanare l’ambiente. Occorre senso di responsabilità». «La proroga all’uso dell’Altoforno 2 è un segnale importante volto a salvaguardare la produzione e i posti di lavoro. Il blocco dell’impianto avrebbe aggravato una situazione di per sé critica». Lo afferma il segretario generale dell’Ugl, Paolo Capone, auspicando «che il piano industriale di ArcelorMittal tenga in considerazione la decisione dell’autorità giudiziaria». «La priorità - conclude - è garantire i livelli occupazionali. No ad ulteriori esuberi».

SODDISFATTI I COMMISSARI - «Grande soddisfazione» è stata espressa «dalla struttura commissariale, che ha sempre mantenuto la sua fiducia nei confronti della magistratura». Lo si apprende da fonti vicine ai commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria riguardo alla decisione del Tribunale del riesame che ha scongiurato lo spegnimento dell’impianto concedendo altro all’Ilva in As per ottemperare alle prescrizioni imposte dal custode giudiziario. L’Afo2 fu sequestrato nel 2015 dopo la morte dell’operaio Alessandro Morricella.

FIM: ORA BISOGNA RILANCIARE IL SITO - «Ci auguriamo che a questo punto i commissari straordinari e ArcelorMittal non perdano tempo prezioso e adempiano a tutte le richieste nei tempi previsti». Lo afferma Valerio D’Alò, della segreteria nazionale della Fim Cisl, commentando la decisione del Tribunale del riesame di prorogare la facoltà d’uso dell’Altoforno 2 dello stabilimento ArcelorMittal di Taranto in accoglimento del ricorso dell’Ilva in As. «La vertenza - aggiunge D’Alò - aveva visto la sua conclusione lo scorso 6 settembre 2018 con l’accordo tra organizzazioni sindacali e ArcelorMittal, un’intesa in cui non erano previsti esuberi e risorse per il rilancio industriale e l'ambientalizzazione. La politica ha poi fatto il suo "capolavoro" fornendo all’azienda un alibi clamoroso per rimettere tutto in discussione con la vicenda dello scudo penale». Secondo D’Alò, «restano ancora in piedi alcuni nodi da sciogliere: subito va risolto quello dell’integrazione del 10% della Cigs per lavoratori in amministrazione straordinaria». "Come Fim - sottolinea - ribadiamo la validità di quanto già sottoscritto sia in termini occupazionali che di risanamento, così come previsti nel testo del nostro accordo sottoscritto anche dal Governo 'Conte 1'». «Ora l’azienda, sia gestione As che ArcelorMittal - conclude il sindacalista - si impegni al rispetto di quanto previsto non solo su Afo2, ma nell’intero piano ambientale e industriale». Intanto un gruppo di lavoratori dell’Ilva in amministrazione straordinaria aderenti all’Usb ha occupato dalle prime luci del mattino la bretella stradale tra il siderurgico ArcelorMittal e la raffineria Eni, nei pressi del varco mezzi pesanti, bloccando l’accesso ai cancelli. Protestano per il mancato rifinanziamento dell’integrazione salariale per oltre duemila cassintegrati. Hanno occupato la sede stradale con alcune auto. Sul posto ci sono anche pattuglie della Polizia. 

L'APPELLO DEI SINDACATI -  Fim, Fiom e Uilm di Taranto hanno inviato una lettera al premier Conte e ai ministri del Lavoro e dello Sviluppo Economico chiedendo, in merito all’integrazione salariale lavoratori Ilva in As, un «intervento immediato da parte del Governo per fare chiarezza e, soprattutto, dare risposte ad impegni già assunti all’interno del Milleproroghe. Lo stesso provvedimento è stato firmato nella sera del 30 dicembre dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella». Il finanziamento non è però garantito per mancanza di coperture. Un gruppo di lavoratori dell’Ilva in As oggi ha bloccato per protesta i cancelli del varco della raffineria Eni riservato al passaggio delle autocisterne. Fim, Fiom e Uilm ricordano di aver sottosegretario il 27 febbraio 2017 e successivamente il 6 settembre 2018 «un accordo, in sede ministeriale, che prevede una cassa integrazione straordinaria per i lavoratori di Ilva in As con la garanzia dell’integrazione per tutta la durata del periodo di commissariamento». I sindacati ritengono «fondamentale ripristinare nell’immediato la cassa integrazione per le aree di crisi complessa a tutela dei lavoratori del territorio». Per questo, «nel sollecitare il Governo ad un intervento tempestivo, per il ripristino di quanto già contenuto all’interno del provvedimento firmato dal Presidente della Repubblica e già preso in carico dall’esecutivo, ribadiscono che gli impegni già assunti devono essere rispettati». «Se il Governo non provvederà allo stanziamento, proporrò emendamento in fase di conversione dei decreti. Non lasceremo soli i lavoratori». Lo sottolinea il deputato tarantino del M5S, Giovanni Vianello, commentando la protesta del gruppo di operai dell’Ilva in As che ha bloccato l'accesso al varco mezzi pesanti della raffineria Eni di Taranto per protestare contro il mancato rifinanziamento dell’integrazione salariale per i cassintegrati. Vianello conferma che «nel decreto Milleproroghe non sono stati stanziati i fondi per garantire nel 2020 l’integrazione al 10% del trattamento di Cigs (Cassa integrazione guadagni straordinaria) a favore dei dipendenti del gruppo Ilva in As. Si tratta di una platea di circa 1.800 persone, di cui 1.500 a Taranto e 300 a Genova». Lo scorso anno, aggiunge, «grazie ad una mia segnalazione a Barbara Lezzi erano stati stanziati in bilancio 35 milioni di euro per questo fine. Ho chiesto ai ministri Patuanelli e Catalfo, nonché all’assemblea congiunta M5S di Camera e Senato di parlarne immediatamente». Secondo il deputato, è poi «oltremodo urgente coinvolgere gli stessi lavoratori nonché la cittadinanza e gli enti locali nei lavori del Dl Cantiere Taranto».

IL COMMENTO DI BARBARA LEZZI - «Il Tribunale del riesame ha accolto il ricorso di Ilva Spa in amministrazione straordinaria relativo alla proroga della facoltà d’uso dell’altoforno 2. È doveroso ringraziare i nuovi commissari che, diligentemente, hanno tutelato gli interessi del nostro Paese sin dall’inizio di questa vicenda. Ora dovranno seguire una tempistica precisa per mettere a norma l’altoforno. Azione che non fu svolta nei tempi dovuti dai commissari precedenti. Qui lo scudo penale era stato già dichiarato illegittimo dalla Corte». Lo scrive in un post su Facebook la senatrice del M5s Barbara Lezzi. «Vi ricordo, infatti, che i problemi su quell'altoforno (Calenda e Renzi volevano risolverli con l’immunità bocciata) derivano da un evento tragico che vide morire tra atroci sofferenze un giovane operaio, Alessandro Morricella - continua - Per chi si aspettava la chiusura di questo impianto che ancora non è sicuro per gli operai, è una cattiva notizia. Io voglio credere che sia occasione per il presidente Conte e tutto il governo perché finalmente si risolva questa annosa questione che vede contrapposti il diritto alla salute a quello del lavoro». E conclude: «Il governo non può permettersi altri scivoloni, è già gravemente e colpevolmente inadempiente nei confronti degli operai in cassa integrazione ai quali sta negando fondi a loro dovuti. L’anno scorso avevo provveduto puntualmente da ministro per il Sud. C'è una pretesa di civiltà che proviene da Taranto. Si deve risolvere tenendo conto di tutte le circostanze: la malattia troppo diffusa, il lavoro da tutelare, la produzione che deve essere sostenibile per una città, lo stato di diritto che non deve essere umiliato da scudi e immunità».

Il Tribunale del Riesame di Taranto accoglie il ricorso di Ilva: "L'altoforno 2 non va spento". Il Corriere del Giorno il 7 Gennaio 2020. La decisione del riesame blocca lo stop ordinato dal giudice lo scorso 13 dicembre: l’altoforno era stato sequestrato nel giugno 2015 dopo la tragica morte dell’operaio 35enne Morricella le cui cause non sono state ancora accertate processualmente. Il Tribunale del Riesame di Taranto proprio alla scadenza del termine per il deposito del provvedimento ha accolto il ricorso presentato dai legali dell’ILVA in Amministrazione Straordinaria (proprietaria dell’impianto attualmente gestito da ArcelorMittal) avverso la decisione dello scorso 10 dicembre di respingere l’istanza di proroga dell’uso dell’Altoforno 2, contenuta nella sentenza del giudice monocratico Francesco Maccagnano. La precedente decisione oggi annullata era stata emessa nonostante il parere positivo espresso dal custode giudiziario Barbara Valenzano e dalla procura guidata da Carlo Maria Capristo alla richiesta dei commissari di ILVA in A.S., che avevano presentato un piano per completare l’unica prescrizione ancora inattuata e cioè l’automazione cosiddetta “Mat”, che è l’ acronimo di “macchina a tappare”, da completare in circa un anno, già concordato con la ditta Paul Wurth. Il collegio dei giudici del riesame ha accolto l’appello proposto da ILVA in A.S. il 17 dicembre annullando l’ordinanza del giudice monocratico ed assegnando, a decorrere dalla data del 19 novembre 2019, 9 mesi per l’attivazione del caricatore automatico nella cosiddetta Macchina a tappare (Mat): 10 mesi per l’attivazione del campionatore automatico della ghisa; 14 mesi per l’attivazione del caricatore delle aste e sostituzione della Macchina a forare (Maf). Secondo il collegio giudicante, “alla luce della ‘migliore scienza ed esperienza del momento storico in cui si scrive, il rischio per i lavoratori dell’altoforno 2 deve considerarsi assai ridotto”. Nelle 21 pagine dell’ordinanza che il CORRIERE DEL GIORNO come sempre vi offre “integralmente” in lettura, i giudici del Riesame hanno osservato che “può dunque concludersi che nel prossimo anno – secondo la più pessimistica previsione, quella cioè del custode – il rischio per un operatore presente a ridosso del foro di colata di essere interessato da una fiammata (non necessariamente lesiva) è pari a M (moltiplicando per mille volte la cifra di 0,006 si arriva infatti ad annoverare 6 eventi). Il custode aggiunge che tale probabilità sicuramente diminuirà nel futuro quando saranno installate le macchine automatizzate per le operazioni di foratura e tappatura, quelle cioè per cui ILVA chiede la concessione di termine“. Il provvedimento del Riesame scongiura il ricorso alla cassa integrazione straordinaria per 3.500 lavoratori paventato da ArcelorMittal nel caso di conferma da parte del Riesame all’ordine di spegnimento dell’altoforno. Adesso i commissari di ILVA in A.S. avranno il tempo necessario per mettere a norma l’impianto in virtù di un contratto siglato con la società specializzata Paul Wurth da 11,5 milioni di euro. Domani, quindi, verrà annullata l’ultima fase dello spegnimento, quella da cui non si non si sarebbe più potuto tornare più indietro con una ripresa del normale esercizio dell’Altoforno AFO2 (lo spegnimento definitivo sarebbe arrivato intorno al 18 gennaio). Grazie a questa equilibrata e ponderata decisione del Riesame di Taranto adesso può ripartire la trattativa tra ArcelorMittal ed il Governo che dopo il pre-accordo del 20 dicembre scorso dovranno trovare un’intesa vincolante per il rilancio del polo siderurgico tarantino entro il prossimo 31 gennaio.

Uilm: “Azzerare cassa integrazione” . Puntualmente sono arrivate anche le reazioni dei sindacati. Per Rocco Palombella, una volta scongiurato il pericolo della fermata, adesso ArcelorMittal “rispetti le prescrizioni vincolanti” per “evitare di avere nei tempi prescritti rischi di incidenti” e “non ritrovarci nelle medesime condizioni al termine dei tempi stringenti previsti dal dispositivo giudiziario”, Il segretario della Uilm chiede contestualmente“il rientro al lavoro dei 1.273 in cassa integrazione ordinaria e dei circa 1.900 in cassa integrazione straordinaria per evitare migliaia di esuberi strutturali”. Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil in una nota commenta: “È positivo che il Tribunale del Riesame di Taranto abbia accolto il ricorso dei commissari dell’ ILVA in amministrazione straordinaria, concedendo la proroga con facoltà d’ uso dell’ Altoforno 2 fino a 14 mesi. Con la proroga si scongiura lo spegnimento immediato dell’ Afo 2 e si elimina un elemento di incertezza e di instabilità in un quadro già molto complesso dal punto di vista produttivo, occupazionale e ambientale“.  “È importante che la proroga sia subordinata all’ adempimento di prescrizioni in tutto in parte non attuate assegnando dei tempi precisi. Bisogna capire come questa tempistica si collega al nuovo piano industriale – continua la Re David –  È sempre più urgente un confronto tra Governo, ArcelorMittal e le organizzazioni sindacali sull’attuazione del piano industriale, sapendo che l’assunzione di tutti i lavoratori, compresi quelli ILVA in amministrazione straordinaria a fine piano, resta per noi vincolante in quanto parte di un accordo sottoscritto e approvato dal voto di tutti i lavoratori con il referendum”. Per Valerio D’Alò Segretario nazionale Fim Cisl ” La decisione del Tribunale del riesame di Taranto è  senz’ altro un segnale positivo verso il riavvio del percorso che deve dare una soluzione alla complicata vertenza Ilva.  Ci auguriamo che a questo punto i commissari straordinari e ArcelorMittal non perdano tempo prezioso e adempiano a tutte le richieste nei tempi previsti”. Per una pura coincidenza oggi sono state  depositate anche le motivazioni della sentenza del Gup Lidia Castellucci del Tribunale di Milano che lo scorso luglio aveva assolto Fabio Riva (uno dei componenti della famiglia ex proprietaria dell’Ilva) “perché il fatto non sussiste” da due accuse di bancarotta per il crac della holding Riva Fire che controllava il gruppo siderurgico. Secondo il Gup Castellucci, la famiglia Riva ha investito “in materia di ambiente” nella gestione dell’Ilva di Taranto , tra il ’95 e il 2012,   per “oltre un miliardo di euro” ed “oltre tre miliardi di euro per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti” sostenendo nelle proprie motivazioni che  non c’è stato il “contestato depauperamento generale della struttura”.

Ex Ilva, incompetenza e demagogia fanno male ad ambiente e al lavoro. Marco Bentivogli il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista.

I fatti: nel 2015 Alessandro Morricella, 35 anni, muore investito di una fiammata di ghisa incandescente nell’Altoforno (Afo)2 del Siderurgico ionico. Il tribunale di Taranto sequestra l’altoforno e impone ai gestori (azienda allora commissariata) di mettere in sicurezza l’impianto entro 3 mesi. I commissari chiedono un anno, viene concesso, ma in realtà, quando l’Ilva viene ceduta in affitto ad ArcelorMittal, il 1 novembre 2018, l’Afo2 è ancora da mettere in sicurezza. Metterlo in sicurezza equivale (ma attenzione, vale anche per gli altri due altoforni attivi: Afo1 e Afo4) ad automatizzare il campo di colata per evitare che sia in caso di rilevazione termica della ghisa liquida, sia per liberare eventuali ostruzioni del foro di colata, vi sia contatto umano. Apprendiamo che il bonifico a Paul Wurth, società specializzata in questi interventi, è stato fatto il 20 novembre 2019. Il giudice Francesco Maccagnano non ha torto a chiedere serietà. ArcelorMittal arriva appunto il 1 novembre 2018 e i lavoratori sono in forza dal 1 gennaio successivo. La decisione del Tribunale del riesame di Taranto, dello scorso martedì 7 gennaio, accoglie l’appello e per l’effetto, annulla l’ordinanza del giudice monocratico in sede del 10 dicembre 2019 e il provvedimento connesso del 12 dicembre 2019 concedendo all’appellante la proroga di facoltà d’uso dell’altoforno due (Afo2). Una decisione che nell’immediato salvaguarda l’attuale capacità produttiva evitando la messa in cassa integrazione di altri 2mila operai, minacciata da ArcelorMittal nelle settimane scorse, ma soprattutto evita,quello che poteva essere un disastro industriale, finanziario e sociale. L’accoglimento della richiesta dei Commissari è però soggetta a delle condizioni. La proroga infatti è subordinata all’adempimento delle residue prescrizioni, in tutto e in parte non attuate. Prescrizioni che è bene ricordare, i Commissari straordinari dovevano adottare dal 2015. Il 15 gennaio prossimo dovrebbe tenersi la prima prossima udienza del processo per la morte di Alessandro, un paradosso che la dice lunga rispetto a questa vertenza. Ora, a decorrere dalla data di deposito della presente ordinanza, entro 6 settimane bisognerà dotare dei cosiddetti dispositivi attivi di sicurezza l’impianto, a partire dalla data del 19 novembre 2019; mentre entro 9 mesi bisognerà attivare il caricatore automatico della massa nella Mat (Macchina a tappare); ed entro 10 mesi attivare il campionatore automatico della ghisa; 14 mesi invece per l’attivazione del caricatore delle aste della Maf (Macchina a forare) e sostituzione della Maf stessa. Lavori che permetteranno di mettere in sicurezza l’altoforno. Certo, c’è da chiedersi perché in 3 anni e più i Commissari (la mitica gestione pubblica) non abbiano ottemperato alle prescrizioni per la messa a norma di Afo2 e degli altri altoforni che sono nelle medesime condizioni. Ci auguriamo che a questo punto i commissari straordinari e ArcelorMittal non perdano tempo prezioso e adempiano a tutte le richieste nei tempi previsti. Non bisogna abbassare la guardia pensando che il peggio è stato scongiurato. Ora tutti i soggetti convolti, i commissari straordinari, ArcelorMittal, devono fare quanto indicato senza perdere tempo prezioso adempiendo nei tempi a tutte le richieste del tribunale. Automatizzare e mettere in sicurezza anche gli altri Altoforni per evitare nuove tragedie e fare le bonifiche ambientali necessarie. Su questo fronte anche la Regione cambi rotta e si dia da fare: in questi anni si è contraddistinta per una serie di cause intentate nei confronti dell’ex-Ilva, tutte perse, e per un continuo cambio di posizione rispetto al sito tarantino che certo non ha aiutato. La vertenza va tirata fuori dallo scontro politico e ideologico che in questi anni ne ha fatto terreno di propaganda a spese dei lavoratori e dei cittadini di Taranto e del territorio limitrofo. La soluzione va trovata, non dentro fantomatiche e illusorie proposte che ogni tanto qualche politico butta sul tavolo, ma dentro l’accordo che abbiamo sottoscritto lo scorso 6 settembre 2018 tra organizzazioni sindacali, ArcelorMittal e governo Conte1. L’intesa da noi sottoscritta punta al rilancio industriale e ambientale della più grande acciaieria d’Europa e di tutti gli altri siti del gruppo in Italia, senza nessun esubero. Un Piano che se fosse messo in pratica permetterebbe anche a Taranto, come avviene nel resto d’Europa, di produrre acciaio in maniera sostenibile sul piano ambientale e sanitario. Per noi quell’accordo resta ancora valido anche se, ovviamente, i fatti di questi mesi hanno fornito un grosso assist all’azienda che lo userà in fase negoziale per rivederne i contenuti. Resta sul tavolo anche il memorandum siglato prima di Natale dalla multinazionale franco-indiana con il governo che prevede la costituzione entro la fine del mese di una nuova società mista, in cui entrerebbero oltre alle banche creditrici (Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm e Cassa Depositi e Prestiti) anche lo Stato (attraverso Invitalia). Un piano d’investimenti che dovrebbe aggirarsi intorno a 3,3 miliardi. Di questi, 2,4 miliardi per il riassetto dello stabilimento esistente e 900 milioni per l’installazione dell’impianto di pre-riduzione (il governo vorrebbe gestirlo attraverso una newco) con l’istallazione di 2 forni elettrici. Un piano che presenta una serie d’incognite, sia sul piano industriale, ma anche su quello occupazionale e ambientale, che sembra mosso più da esigenze interne alla maggioranza, che da una reale intenzione di rilancio del sito.

Ad esempio non si capisce da dove nasca l’idea (se non dall’esigenza di assecondare qualche campagna elettorale locale) di cambiare il ciclo produttivo della fabbrica andando certamente a danneggiare la portata occupazionale, senza miglioramenti in termini ambientali e con nessun reale rinnovamento tecnologico rispetto alla procedura di riesame dell’Autorizzazione Ambientale sulla base della Valutazione preventiva del danno sanitario entro i 6 milioni di tonnellate di produzione richiesta dal ministero dell’Ambiente (e in parte già consegnata con risultati positivi). Altrettanti dubbi pone un piano industriale che fissi oggi l’obbligo di produzione per un’azienda, come ai tempi dei piani quinquennali sovietici o del ventennio italiota di triste memoria, di 8 milioni di tonnellate fra tre anni, in una totale e sempre più repentina incertezza del mercato e delle strategie geopolitiche a esso correlate. Tutti dimenticano che 1000 occupati per milione di tonnellata è una proporzione che vale per l’acciaio prodotto con altoforno. Il guaio è che non abbiamo vera evidenza della trattativa in cui saremo coinvolti, forse dalla prossima settimana, (il countdown di fare un accordo in 3 settimane dopo anni perduti nella propaganda), ovvero per la data fissata dell’udienza presso il Tribunale di Milano. Significa dare certezza al piano ambientale, azzerare gli esuberi annunciati, rilanciare la produzione affinché sia sostenibile. Esattamente come era l’accordo del 6 settembre 2018. Penso che in questa vicenda la politica abbia già fatto troppi danni, non solo allo stabilimento tarantino ma all’intera economia italiana. Le vicende degli ultimi mesi sono finite sulle prima pagine dei quotidiani di mezzo mondo, dando l’idea di un Paese allo sbando: chi verrebbe a investire in un Paese in cui si cambiano le regole ogni 6 mesi e dove non c’è certezza di un accordo sottoscritto in sede governativa? Ecco perché ritengo che in questa partita il governo debba tornare ad avere un ruolo da garante dell’accordo da noi sottoscritto e del quadro normativo precedente in cui è stato raggiunto se vuole veramente rilanciare il sito di Taranto sul piano industriale, ambientale e sanitario. Se ognuno facesse la propria parte, questa vicenda potrebbe assumere i contorni di un riscatto e di un rilancio del Sud e del Paese. Ma per farlo c’è bisogno di uomini di buona volontà e con un briciolo di competenza. Mi auguro che gli italiani si accorgano di quanto stia facendo male al lavoro e all’ambiente la demagogia anti-industriale e l’ignoranza: se la tassassimo azzereremmo il debito pubblico, specie in un momento in cui da un movimento in dissolvimento si stanno contagiando altre forze politiche e organi di informazione. In Italia lo scudo politico lo hanno questi gruppi dirigenti: sanno che spararla grossa è garantito da un’immunità diffusa e consolidata su un senso comune inquinato quanto l’Ilva.

·        Succede a Sava.

Sava, ex CC uccise padre, sorella e cognato: condannato a 20 anni. Sentenza riformata in appello, in primo grado aveva avuto 30 anni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Ottobre 2020. La sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’Appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto da 30 a 20 anni di carcere la condanna nei confronti di Raffaele Pesare, 56 anni, ex appuntato dei carabinieri di Sava in servizio al Radiomobile di Manduria, che il 18 novembre del 2017 uccise con la pistola d’ordinanza suo padre Damiano, 85 anni, sua sorella Nella di 50 e suo cognato Salvatore Bisci di 69, prima di tentare il suicidio sparandosi al mento. Il proiettile bucò il palato e uscì dalla parte sinistra del setto nasale, senza ledere organi vitali. Pesare avrebbe compiuto la strage per dissidi con il cognato sui proventi della raccolta di olive di un terreno di proprietà del padre che gestiva assieme a Bisci. La procura generale aveva chiesto l’ergastolo.

Strage di Sava: pena ridotta a 20 anni in appello per l’ex carabiniere. Alessandra Cannetiello su Tarantinitime il 16 Ottobre 2020. 20 anni di carcere: è questa la pena stabilita dalla Corte di Assise d’Appello del tribunale di Lecce – distaccamento di Taranto –  nei confronti di Luigi Raffaele Pesare, l’ex carabiniere di 56 anni, in servizio alla radiomobile di Manduria che il 18 novembre 2017, a Sava, ha ucciso la sorella Maria Pasana di 50 anni, il cognato Salvatore Bisci di 69 anni e il padre 85enne, Damiano. La Corte d’Assise d’Appello ha riformato la sentenza di primo grado, del 19 luglio 2019, emessa dal giudice delle indagini preliminari, che aveva condannato con rito abbreviato l’ex carabiniere a 30 anni di reclusione. La pubblica accusa, rappresentata dal procuratore generale, Giuseppe Gerardo, aveva chiesto dall’inizio del procedimento in Assise, che fosse applicato il massimo della pena e l’isolamento diurno per l’ex carabiniere. Luigi Pesare – che attualmente si trova nel carcere di Matera – sposato e con due figli, la mattina del massacro era in licenza. Eppure aveva con sé la pistola di ordinanza quando si è presentato nell’abitazione di sua sorella Pasana (dove viveva anche il padre Damiano) intorno alle 11.30 di quel giorno. Una discussione accesa – forse l’ennesima sulla gestione allargata al cognato salvatore Bisci, dei terreni paterni di olive – fanno scattare la furia omicida: l’uomo spara in rapida successione prima suo padre, poi con 5 colpi di pistola fredda la sorella Nella e poi il cognato. Infine punta l’arma contro se stesso, sparandosi un colpo al mento. Al momento della tragedia il figlio 12enne della coppia uccisa, si trovava fortunatamente a scuola. Sarà Lugi Pesare a chiamare un collega, dopo aver compiuto la strage e, poco prima di spararsi nel tentativo di togliersi la vita: “Aiutami, ho ucciso mia sorella, mio cognato e mio padre, aiutatemi che ora mi uccido pure io, ho fatto una minchiata”. Nelle prime ricostruzioni era stata ipotizzata la premeditazione, poiché l’uomo aveva con sé l’arma di ordinanza pur essendo in licenza e per via del ritrovamento in caserma, nel cassetto dell’appuntato, di 33 proiettili calibro 9, posseduti illecitamente. Ed è proprio la tesi della lucida e spietata consapevolezza, quella portata avanti in aula dai legali della parte lesa, contrariati dalla sentenza riformata in corte d’assise d’appello, che ha ridotto di un terzo la pena stabilita in assise. Mentre la tesi della difesa si è sempre incentrata sull’esplosione di ira – dovuta ad uno stato di frustrazione dell’imputato ed ostilità perdurante nei periodi antecedenti il triplice omicidio, poi sfociata in quella furia dopo una ennesima lite – che per questo aveva avanzato la richiesta del riconoscimento di attenuanti generiche prevalenti rispetto alle circostanze aggravanti. Ligi Pesare sconterà (salvo ricorso in Cassazione) 20 anni di reclusione, con la possibilità tra 7 anni di richiedere la semi libertà.

Raffaele Pesare. Le lacrime del carabiniere omicida: «non ricordo niente, perdonatemi, vorrei abbracciare mio nipote». Quel poco che è riuscito a dire ieri il triplice omicida, è stato tutto dedicato al perdono e al pentimento. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 18 maggio 2019. Un’udienza drammatica quella di ieri con l’imputato Raffaele Pesare in lacrime a chiedere perdono a tutti e a domandare a sé stesso cosa sia successo la mattina del 18 novembre del 2017 quando la sua mano, armata con la pistola d’ordinanza, ha annientato la sua famiglia, padre, sorella e cognato. Tutti morti sul colpo, crivellati dalle pallottole della sua calibro 9. Davanti al giudice delle udienze preliminari, Giuseppe Tommasino, l’ex carabiniere savese, Raffaele Pesare, 55 anni, ha voluto parlare per la prima volta per raccontare il suo dramma. Assistito dal suo avvocato, Lorenzo Bullo, Pesare aveva pensato di farcela a reggere l’emozione. Invece è crollato. Dopo le prime frasi le parole sono state interrotte dai singhiozzi e quelle che dovevano essere delle dichiarazioni spontanee si sono trasformate in una crisi di pianto che ha sconvolto tutti. Per questo il gup Tommasino ha deciso di rinviare tutto alla prossima udienza del 16 luglio per le discussioni e la sentenza che seguirà le regole dell’abbreviato. Quel poco che è riuscito a dire ieri il triplice omicida, è stato tutto dedicato al perdono e al pentimento. Ma anche a voler giustificare quello che ha definito come «un buco nella memoria». «Vorrei tornare indietro – ha detto – vorrei poter capire cosa mi sia capitato quel giorno di cui non ricordo nulla». Sempre con voce interrotta dall’emozione, l’imputato ha voluto chiedere perdono al nipote a cui ha fatto il torto maggiore togliendogli entrambi i genitori. «Vorrei poterlo abbracciare per chiedergli perdono», ha detto Pesare. Che ha cercato di spiegare quel vuoto della memoria. «Non ero io, non ricordo niente, ricordo solo di essermi svegliato ed ero nella rianimazione, di quello che è accaduto prima non so niente, non ricordo niente», ha ripetuto. La terribile realtà è descritta nelle carte dell’inchiesta e naturalmente nella memoria di chi invece ricorda e non potrà mai più dimenticare quel tragico sabato di un anno e mezzo fa quando il caricatore della calibro 9 del carabiniere cancellò tre vite spezzando il legame si sangue di altre famiglie. La ricostruzione è tutta lì, anche sui giornali che raccontarono la mattanza. Quel giorno il carabiniere in servizio alla compagnia di Manduria, era di riposo così decise di recarsi a casa del genitore che viveva con la sorella sposata. Una lite di cui si possono fare solo ipotesi (si è parlato di una disputa sul raccolto di un oliveto di proprietà dell’anziano padre), sfociò nel dramma. Sicuro è che Pesare in quella occasione tirò fuori la sua pistola e fece fuoco prima contro il padre Damiano di 85 anni, poi contro il cognato Salvatore Bisci di 69 e infine su sua sorella Maria Pasana di 50. Il carabiniere chiamò al telefono un suo superiore a cui accennò qualcosa del tipo «ho fatto una cazzata», prima di puntare verso di sé la pistola premendo il grilletto. La pallottola che gli entrerà dal mento, uscirà da uno zigomo senza ucciderlo. Si sveglierà in un letto di ospedale, come ha confermato ieri, con una finestra buia che ha cancellato dalla sua memoria la parte così dolorosa della sua vita. Dopo le dimissioni dall'ospedale, l’imputato è passato nel carcere di Matera dove si trova ancora rinchiuso. Tra due mesi il gup pronuncerà la sua sentenza che potrà fare giustizia sul triplice omicidio ma non sarà di conforto per molti, per l’orfano di 12 anni soprattutto che nel processo è parte lesa con l’assistenza dell’avvocato Franz Pesare.

Giornalista condannato per aver diffamato il sindaco di Sava, Iaia. Sette mesi di reclusione e maxirisarcimento. La Voce di Manduria mercoledì 07 ottobre 2020. Il giornalista savese Giovanni Caforio è stato condannato dal Tribunale di Taranto alla pena di sette mesi di reclusione perché ritenuto colpevole di diffamazione continuata a mezzo stampa nei confronti del sindaco di Sava, Dario Iaia. I fatti per i quali Caforio è stato ritenuto colpevole si riferiscono ad alcuni articoli pubblicati a sua firma sul suo giornale e su Facebook relativi ad un attentato incendiario di cui fu vittima il sindaco di Sava nel 2013. (L’incendio della sua auto e della moglie). Per quegli articoli il pubblico ministero Lelio Fabio Festa aveva già emesso un decreto di citazione in giudizio nei confronti dell’imputato accusandolo di avere «offeso l’onore e la reputazione personale e politica di Dario Iaia nella qualità di sindaco del comune di Sava». Dopo l’attentato incendiario dell’aprile del 2013, si legge negli atti d’accusa, Caforio «in numerosi articoli ed editoriali … avviava una sistematica campagna denigratoria, sostenendo – senza al contempo indicare il fondamento conoscitivo delle proprie affermazioni, che l’attentato fosse riconducibile al malcontento di ambienti criminali ai quali Iaia si era rivolto, promettendo, in cambio di sostegno elettorale, benefici (primo fra tutti posti di lavoro) che poi non aveva elargito e così usando l’illegalità per farsi erigere a rappresentante della legalità». Al termine della pubblica udienza che si è svolta lunedì 5 ottobre, il giudice della prima sezione penale del Tribunale di Taranto, ha inoltre condannato il giornalista al pagamento delle spese processuali pari a 6.840 euro (per le spese di costituzione parte civile sia da parte del sindaco Iaia sia del comune di Sava), oltre al risarcimento danni in favore di Iaia quantificati in 7.500 euro e del comune per latri 5.000 euro. Le parti lese sono state assistite dagli avvocati Egidio Albanese e Franco Fistetti. Certo il ricorso in appello da parte dell’imputato.

 (ANSA il 24 settembre 2020) E' positivo al Covid l'europarlamentare di Fratelli d'Italia Raffaele Fitto, candidato sconfitto di centrodestra alla presidenza della Regione Puglia. Lo ha annunciato lui stesso con un post su Facebook. "Dopo aver ricevuto, mercoledì scorso, la notizia da parte di un mio stretto collaboratore della sua positività al test covid-19 - scrive - ho chiesto immediatamente alla Asl di essere sottoposto a tampone insieme alla mia famiglia. Solo io e mia moglie siamo risultati positivi anche se al momento senza sintomi. Continuerò ovviamente la quarantena fino a nuove indicazioni da parte delle autorità sanitarie".

Raffaele Fitto e la moglie positivi al Covid, rischio focolaio al comitato elettorale: Asl in allarme. Antonella Cassano su La Repubblica il 25 settembre 2020. Il candidato del centrodestra  è sottoposto al tampone con la famiglia dopo la positività di un suo stretto collaboratore. Centinaia di persone hanno frequentato il comitato elettorale di Bari, al chiuso e senza mascherina. Il caso dei microfoni utilizzati da radio e tv per le interviste. Rischio focolaio. La notizia della positività al Covid di Raffaele Fitto e di sua moglie sta mettendo in allarme non solo il sistema di prevenzione dell'Asl Bari, ma anche il dipartimento sanitario regionale. Per un motivo semplice: Fitto ha saputo mercoledì scorso che un suo stretto collaboratore era risultato positivo al test Covid - come segnalato in un post su Facebook dall'europarlamentare di Fratelli d'Italia e candidato presidente del centrodestra alle ultime regionali - e per questo motivo ha deciso di fare il test risultando positivo insieme alla moglie e mettendosi in quarantena. Il problema è che solo pochi giorni prima erano in pieno svolgimento le ultime attività frenetiche di campagna elettorale e soprattutto da domenica era stato allestito un comitato elettorale in un albergo del centro di Bari per seguire l'esito del voto. Ora dunque con l'annuncio di Fitto proprio quel comitato finisce sotto osservazione da parte del dipartimento di prevenzione dell'Asl di Bari. Anche perché si trovava in un luogo chiuso, è stato frequentato da centinaia di persone e non tutti i presenti indossavano correttamente la mascherina. Sotto particolare osservazione anche i microfoni di radio e tv (locali e nazionali). Nelle concitate ore del lunedì post elettorale non sarebbero stati rispettati i protocolli di sicurezza. Non è un caso che siano già in corso decine di tracciamenti di contatti di chi tra domenica e lunedì ha frequentato il comitato elettorale del centrodestra. Fra questi ci sono politici locali, in gran parte, ma anche simpatizzanti e decine di giornalisti e operatori televisivi che hanno fatto la spola fra il comitato di Fitto e quello di Michele Emiliano, poco distante ma all'aperto. Si sta dunque cercando di ricostruire la catena dei contatti di quello che potrebbe diventare uno dei più grandi focolai della regione, non fosse altro perché Fitto negli ultimi giorni ha incontrato migliaia di persone provenienti da varie parti della Puglia. Anche per questo l'Asl di Bari sta addirittura pensando di predisporre delle tende dedicate per effettuare i test relativi al tracciamento dei contatti e provare a spegnere il possibile focolaio. L'europarlamentare salentino ha dato la notizia tramite i social: "Solo io e mia moglie siamo risultati positivi - ha scritto Fitto - continuerò ovviamente la quarantena fino a nuove indicazioni da parte delle autorità sanitarie. Ciao a tutti a presto, spero che almeno su questo gli odiatori professionisti si prendano una bella pausa". Appena due settimane fa Fitto aveva effettuato insieme a Giorgia Meloni un test sierologico per scongiurare l'ipotesi di positività visto che il 24 agosto scorso aveva visitato insieme alla leader di Fratelli d'Italia senza mascherine e dispositivi di protezione un'azienda ortofrutticola di Polignano a Mare, diventata uno dei più grossi focolai di Coronavirus pugliesi nei giorni successivi. 

Estratto dell’articolo di Antonello Cassano e Gabriella De Matteis per “la Repubblica” il 26 settembre 2020. La paura per il rischio di un focolaio dalle dimensioni non prevedibili arriva con le parole dell'europarlamentare di Fratelli d'Italia Raffaele Fitto che, con un post su Facebook, annuncia di essere risultato positivo insieme alla moglie al Covid. Dalla fine della campagna elettorale sono trascorsi pochi giorni. E l'esponente politico, candidato per il centrodestra alla Regione lunedì sera ha commentato la sua sconfitta nella sala di un hotel barese, parlando dinanzi ai giornalisti, senza mascherina e a distanza ravvicinata. Un comitato elettorale affollato, come l'ultimo comizio a Maglie. Fitto ha stretto mani, ha parlato sui palchi dei comizi, spesso affiancato da amministratori e politici locali, che, testimoniano le immagini sul suo profilo Facebook, non sempre indossavano la mascherina. Il timore di una risalita dei contagi, per gli esperti della Regione, appare fondato. Le notizie di altri casi positivi nel suo staff, uno su tutti quello del coordinatore provinciale di Taranto di Fratelli D'Italia Dario Iaia, ricoverato in ospedale, non aiutano. Fitto sta bene, è asintomatico, dice di essersi sottoposto al tampone dopo aver scoperto che un suo collaboratore aveva contratto il virus […]

Il sindaco di Sava positivo al coronavirus: in isolamento Fitto e famiglia. Il contagio sarebbe partito da uno stretto collaboratore dell'ex presidente della Regione Puglia. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 25 settembre 2020. Il sindaco di Sava, nel tarantino, Dario Iaia, è risultato positivo al coronavirus. Una decina di suoi famigliari ed altrettante persone con cui il primo cittadino ha avuto contatti stretti nell’ultima settimana, sono in isolamento domiciliare e tra oggi e domani saranno sottoposti a loro volta al test oro faringeo. La fonte del contagio, quasi certamente, è quella politica. Il sindaco Iaia, infatti, coordinatore provinciale del partito Fratelli d’Italia, è reduce di un'intensissima campagna elettorale nel corso della quale ha incontrato numerosissimi esponenti politici tra cui un esponente dello staff di Raffaele Fitto, anche lui già positivo al Covid-19. Da quello che è possibile ricostruire sulla base delle indiscrezioni e qualche conferma circolate insistentemente negli ambienti politici del centrodestra delle due province, pare che sia stato uno strettissimo collaboratore di Fitto il primo a manifestare i segni tipici del contagio, con febbre alta e tosse proprio la sera della chiusura della campagna elettorale quando la piazza di Maglie si è riempita per salutare il senatore locale nel suo comizio con cui ha concluso l’estenuante corsa per la riconquista della Regione confermata poi ad Emiliano. Una lunga catena di contagi, insomma, che sarebbe partita da Maglie per raggiungere il tarantino e chissà dove altro ancora. L’ex presidente della Regione Puglia e la sua famiglia, sono stati anche loro posti in isolamento e tutti sono in attesa del risultato del tampone che si saprà nella giornata odierna. Si dovrà attendere domani, invece, per conoscere l’esito dell’esame a cui si sottoporranno una ventina di famiglie di Sava e di altri comuni limitrofi che hanno avuto contatti certi con il sindaco Iaia. Tra questi, oltre ai parenti del primo cittadino, anche tre coppie di amici che sabato sera sono stati a cena in un locale del versante orientale della provincia ionica. Il dipartimento di prevenzione della Asl di Taranto, già super impegnato su altri fonti (ne parliamo in altra parte del giornale), sta cercando di ricostruire i contatti degli ultimi sette giorni prima che al sindaco si presentasse la febbre. Per cautela, fa sapere una fonte molto vicina alla famiglia Iaia, nessuno dei figli si è recato a scuola che a Sava apriva proprio ieri. La diffusione della notizia ha seminato il panico in paese. Tra i dipendenti del comune, innanzitutto, dove ci si è cominciati ad interrogare ricordando il momento dell’ultimo saluto o contatto di lavoro avuto con il sindaco e i suoi assessori. Nei giorni scorsi, ha ricordato qualcuno, Iaia ha presenziato ad alcune inaugurazioni pubbliche e ancor prima, in campagna elettorale, ha tenuto incontri e riunioni istituzionali e di partito. Non è sfuggita neanche l’attività professionale di avvocato svolta da Iaia in questi giorni, fortunatamente rallentata proprio dall’impegno politico ed elettorale. «Sempre con la mascherina addosso», assicurano dal suo entourage. Intanto Iaia che è ricoverato nel reparto di malattie infettive dell’ospedale Moscati di Taranto, sembra aver già risposto alle cure. Da una prima mappatura del «cluster Fitto-Iaia», si può ipotizzare sinora almeno una sessantina di persone in isolamento e due positivi certi. Numero che tra oggi e domani potrebbero salire. Nazareno Dinoi

Iaia scrive dall'ospedale dove è ricoverato per Covid: "sto meglio, non vedo l'ora di tornare". Il primo cittadino era stato contagiato durante la campagna elettorale. La Voce di Manduria domenica 11 ottobre 2020. Dopo 18 giorni dal suo ricovero perché ha contratto il coronavirus, il sindaco di Sava questa mattina ha scritto per la prima volta su Facebook per annunciare una significativa ripresa. Il primo cittadino era stato contagiato durante la campagna elettorale per le regionali nel corso della quale aveva avuto numerosi incontro con lo staff del candidato presidente del centrodestra, Raffaele Fitto, anche lui positivo al Covid, ma senza sintomi. A quanto pare a diffondere il virus in quell’ambiente sarebbe stato uno stretto collaboratore di Fitto. La positività al tampone e poi il ricovero nel reparto infettivi del sindaco Iaia, erano stati da lui annunciati con una breve comunicazione sul social. La stessa cosa ha fatto questa mattina per tranquillizzare coloro i quali lo hanno contattato preoccupandosi per il suo stato di salute e per ringraziare il personale sanitario del reparto malattie infettive dell’ospedale Moscati di Taranto che lo sta assistendo.

Ecco il testo del post di questa mattina. «Cari amici e care amiche molti di voi mi hanno contattato in questi giorni per sincerarsi sulle mie condizioni di salute, ma, per ovvie ragioni, non mi è stato possibile rispondere. Lo faccio oggi perchè mi sento di poterlo fare e perchè miglioro giorno per giorno grazie alle cure dei medici e degli operatori del “Moscati” di Taranto che, con grande professionalità ed umanità, mi seguono in questo difficile periodo. Non finirò mai di ringraziare tutti voi per l’affetto e la vicinanza che avete dimostrato nei miei confronti e verso la mia famiglia. Non è stato semplice, ma la vostra vicinanza ci è stata di grande aiuto. Ora, non vedo l’ora di rientrare. Vi abbraccio e grazie di cuore! Dario Iaia»

Bullizzavano un disabile di Sava, giudizio immediato per il branco. L’indagine, denominata «Bad boys» (cattivi ragazzi), era nata dalla denuncia del pensionato che viveva solo in casa, il quale aveva raccontato ai carabinieri. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 01 febbraio 2020. Indagini già chiuse per i maggiorenni di Sava coinvolti nell’inchiesta sulle presunte vessazioni del branco (venti in tutto, tra cui sette minori), ai danni di un pensionato sessantunenne del posto. Il gip del tribunale di Taranto, Benedetto Ruberto, su richiesta del pubblico ministero Francesco Ciardo, ha disposto il giudizio immediato per i tredici ultra diciottenni che devono rispondere, a vario titolo, di estorsione continuata in concorso, furto aggravato, rapina, detenzione e porto illegale di arma da sparo e atti persecutori. Tutti dovranno comparire il 6 maggio prossimo alle ore 9 nell’udienza che si terrà nell’aula Alessandrini della prima sezione penale del Tribunale di Taranto. Stessa cosa si attende ora per i sette minorenni raggiunti anche loro dalle misure cautelari in carcere o nelle comunità, notificate loro nel blitz dei carabinieri scattato il 12 novembre scorso. Di loro si occupa la Procura della Repubblica per i minori. L’indagine, denominata «Bad boys» (cattivi ragazzi), era nata dalla denuncia del pensionato che viveva solo in casa, il quale aveva raccontato ai carabinieri di essere vittima di un gruppo di persone, quasi tutti giovanissimi con qualche adulto, che da anni lo avrebbero costretto con minacce e l'uso delle armi, a consegnargli denaro. L’attività investigativa condotta dai militari della stazione di Sava, aveva portato all’emissione di venti misure cautelari e alla denuncia a piede libero di altre cinque persone. Il sessantunenne che da quel giorno vive in un luogo protetto lontano da Sava, aveva trovato il coraggio di ribellarsi ai suoi presunti aguzzini dopo un incendio, divampato accidentalmente, che gli aveva distrutto la modesta casa dove viveva di stenti. Sentito dai carabinieri, in quella occasione l’uomo disvelò il clima di terrore in cui viveva da anni. Raccontò di essere succube di un gruppo di savesi, alcuni molto piccoli, che gli prosciugavano la piccola pensione di invalidità. L’attività investigativa dei carabinieri, eseguita anche con l’uso di intercettazioni ambientali e video, ha raccolto una serie di indizi che proverebbero l'uso spregiudicato dei «cattivi ragazzi» che utilizzavano il pensionato come un bancomat da cui attingere piccole ma costanti somme di denaro. Da qui la decisione del giudice delle indagini preliminari di disporre il giudizio immediato. Ora il collegio difensivo composto dagli avvocati Antonio Liagi, Rosario Frascella, Giuseppe Masini, Franz Pesare, Alessandro cavallo, Armando Pasanisi e Fabio Falco, dovrà decidere se chiedere o meno il rito abbreviato. Scontata invece la costituzione di parte civile della presunta vittima che ha affidato il compito all’avvocatessa Agnese Pulignano del foro di Taranto. «Non lascerò il mio assistito in questo percorso – ha dichiarato la penalista - e solo costituendomi parte civile potrò tutelarlo e seguirlo sino al suo reinserimento nel suo ambienta da cui è stato allontanato contro la sua volontà». Il sessantunenne che ha espresso il desiderio di tornare a vivere nella sua Sava, è ospite di una casa famiglia della provincia di Lecce le cui spese sono a carico del comune di residenza. Nazareno Dinoi

·        Succede a Manduria.

La diretta a Rtm per 427 euro l’ora, Breccia: "che rapporti legano l’emittente con il sindaco?" La Voce di Manduria martedì 15 dicembre 2020. Il recente accorto tra Comune di Manduria e l’emittente televisiva locale, Rtm (427 euro l’ora per la diretta del Consiglio comunale), diventerà materia di discussione nel prossimo consiglio comunale. A porre la questione al centro del dibattito politico è il consigliere di Manduria Noscia, Mimmo Breccia che solleva dubbi di conflitto di interesse tra la società della famiglia Quaranta e il sindaco Gregorio Pecoraro. In una interrogazione già notificata all’ente, Breccia chiede se risponde al vero che «tra l’emittente privata affidataria del servizio ed il sindaco esiste un pregresso rapporto lavorativo, essendo stato lo stesso Gregorio Pecoraro presidente del collegio sindacale di Erretiemme Srl fino a dicembre 2014». Sempre nell’interrogazione il leader di Manduria Noscia chiede di sapere se lo stesso sindaco abbia tuttora rapporti di natura economica-professionale «in quanto commercialista dell’emittente televisiva» affidataria del servizio. «È opportuno e moralmente corretto – si chiede Breccia - affidare un incarico ad un’azienda con cui egli stesso ha avuto, e in minor misura a tutt’ora, ha rapporti d’interesse economico? Il consigliere di opposizione entra poi nel merito del metodo della scelta di affidare a Rtm il servizio di diretta del Consiglio. «Perché – si chiede Breccia - ha preferito affidare tale incarico senza coinvolgere altre aziende del territorio valutando altre offerte e servizi scegliendo conseguentemente la più vantaggiosa per le casse comunali e la comunità manduriana?». E «perché – prosegue - in una realtà come quella locale, in cui il bisogno di trasparenza in questo momento storico è particolarmente necessario, l’Amministrazione si ostina a prendere decisioni senza prima coinvolgere la comunità tutta ed i suoi rappresentanti presenti in consiglio comunale?». Breccia chiede quindi nell’interrogazione al sindaco: «Qualora esistesse la sua collaborazione, seppur superficiale, con l’azienda Erretiemme Srl, non sarebbe moralmente onesto annullare la determina che riconosce all’azienda stessa il compenso di circa 1200 euro per la sola trasmissione in diretta del Consiglio Comunale tenutosi in data 7 dicembre 2020?». L’atto politico di Breccia non si ferma alla questione morale ma entra nel merito dei costi facendo dei paragoni con altre tariffe praticate da Rtm per svolgere servizi simili in altri comuni e, in passato, con la stessa città di Manduria. «Erretiemme Srl – scrive - ha stipulato un contratto con il comune di Sava che prevede un compenso di 3000 euro annue per le riprese di tutti i consigli comunali e di ogni attività posta in essere dal Comune, a fronte dei circa 1200 euro che Lei ha intenzione di retribuire alla stessa azienda per le riprese di un solo Consiglio Comunale». Non solo. «E’ infine mia premura rammentare che la giunta Massafra, ultima ad avere avuto rapporti con Erretiemme Srl, chiuse con la stessa una transazione di 1000 euro al mese, cifra ben lontana dall’odierna di circa 1200 euro per una singola seduta». Un ultimo aspetto sollevato dal consigliere Breccia riguarda il vantaggio del servizio acquistato. «Visto che l’orario di svolgimento dei consigli comunali spesso è diurno – fa notare il consigliere civico -, gran parte della cittadinanza è più propensa a seguire l’evento online piuttosto che sul digitale terreste e proprio sul web le visualizzazioni nella pagina Facebook di Erretiemme Srl sono notevolmente inferiori rispetto a quelle di altre simili realtà locali».

Gregorio Pecoraro è il sindaco. Il comune di Manduria al centrosinistra (filogrillino). Gianluca Ceresio il 12 Ottobre 2020 su Pugliapress. E’ il verdetto del ballottaggio che ha assegnato la fascia tricolore di primo cittadino di Manduria a Gregorio Pecoraro che ha sconfitto il suo avversario, Domenico Sammarco, anch’egli del centrosinistra, con un margine di 419 voti. Per maggior precisione Pecoraro ha totalizzato 6.974 voti pari al 51,55% contro i 6.555 voti al 48,45% di Sammarco. Alle urne si è recato il 51,59% una percentuale leggermente superiore al 49,92 registrato alle precedenti amministrative. Quindi, per i prossimi 5 anni Pecoraro, già sindaco di Manduria per due volte, governerà la cittadina messapica supportato dalla coalizione composta da: Città Più, Pecoraro Sindaco, Movimento Democratico con Manduria; Movimento 5 Stelle. Stando ai dati raccolti, il prossimo consiglio comunale dovrebbe essere così composto: Maggioranza: – Gregorio Dinoi, Fabrizio Mastrovito, Luigia Lamusta, Serena Sammarco, Flavio Massari, Piero Raimondo; Gregorio Perrucci, Andrea Mariggiò, Michele Matino, Agostino Capogrosso; Pasquale Pesare, Vito Perrucci, Luigi Cascarano; Isidoro Mauro Baldari. In Opposizione: Domenico Sammarco (candidato sindaco); Loredana Ingrosso, Gregorio Gentile; Lorenzo Bullo (candidato sindaco); Francesco Ferretti; Roberto Puglia; Antonio Mariggiò; Dario Duggento (Candidato sindaco) – Mimmo Breccia (candidato sindaco). C’è da dire che, malgrado ambedue i contendenti alla poltrona di sindaco abbiano dichiarato apertamente di non volersi avvalere di alcun apparentamento, è evidente comunque che dai risultati ottenuti, diversi voti siano confluiti anche dalle formazioni perdenti. Non poteva ovviamente mancare il rito delle prime  impressioni da parte del nuovo sindaco, il dottor Gregorio Pecoraro, il quale, nel ringraziare tutti coloro che hanno espresso il voto a suo favore, ha dichiarato «Francamente devo dire che partecipando ad una competizione elettorale, è ovvio che ciascuno auspica in una vittoria e, nel caso specifico, la speranza è legata ad un’urna,  mettendo in conto che, come è accaduto in questo caso, fino all’ultimo  il risultato potrebbe essere diverso da quello sperato». La soddisfazione espressa dal neo eletto sindaco è stata certamente doppia, tant’è che ha dichiarato con orgoglio «apprendo con grande soddisfazione e non nascondo la mia emozione, nel vedere premiata la mia coalizione che vanta la presenza di numerosi giovani che lavoreranno con grande impegno, professionalità e dinamismo per la rinascita della città». «E’ giunta l’ora di rimboccarsi le maniche e lavorare per il bene della comunità e per un ritrovato sviluppo della città e delle sue peculiarità, per questo, sono certo che il mio principio di schierare una squadra giovane darà buoni frutti». Tra quelle che vengono indicate come le priorità dal nuovo sindaco, c’è la riorganizzazione della macchina amministrativa, che possa disporre di personale altamente qualificato e numericamente sufficiente. «Dopo questa prima fase – prosegue Pecoraro – si procederà gradatamente alla soluzione dei vari problemi, quindi allo sviluppo di progetti e alla loro realizzazione, affinché Manduria torni ad essere il punto di riferimento dell’intera fascia orientale jonica». Il candidato perdente, Domenico Sammarco, ha esordito complimentandosi con il suo avversario politico, augurandogli buon lavoro. «In ogni caso, ringrazio tutti i miei elettori e sono soddisfatto per il risultato conseguito, purtroppo, sia politica che nella vita – ha detto – si vince e si perde talvolta anche per pochi voti, così come è accaduto in questo frangente, ma ritengo comunque che sia stata ugualmente per me una vittoria, dal momento che chi mi ha votato ha appoggiato l’idea di una città del futuro, di una Manduria che vogliamo davvero torni grande». A proposito del suo ruolo nell’opposizione Sammarco ha concluso «anche se in opposizione, oltre a rispettare in pieno tale ruolo, saremo comunque propositivi e non esiteremo a promuovere nuove iniziative oltre che appoggiare quelle che siano davvero a favore della città e della comunità».

Cosa ci fa il politico nell’inchiesta sulla Cupola. Ed è proprio di un politico manduriano, appena eletto nella maggioranza del sindaco Gregorio Pecoraro, la scomoda e imbarazzante posizione. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 16 ottobre 2020. «Un territorio stretto nella morsa di un’attività criminale ramificata con collegamenti nei vari strati della società e della politica». È questo il giudizio che la Confcommercio della provincia di Taranto ha espresso ieri commentando le conclusioni dell’inchiesta dell’antimafia leccese denominata «Cupola»: 23 arresti e 27 indagati quasi tutti manduriani. La terza inchiesta simile in dieci anni, l’ultima con l’esito drammatico dello scioglimento per mafia del governo locale. E non è un caso se a parlare con tale durezza sia la categoria più colpita dalla piaga del «pizzo», la richiesta di denaro da parte della criminalità in cambio di protezione. Come non sia stato un caso, probabilmente, il riferimento alla «politica» che i vertici della confederazione dei commercianti ionici hanno voluto mettere in luce. Ed è proprio di un politico manduriano, appena eletto nella maggioranza del sindaco Gregorio Pecoraro, la scomoda e imbarazzante posizione nell’inchiesta di cui si parla. C’è da dire subito che il personaggio in questione non è indagato, ma è anzi una vittima dell’odioso «pizzo». Fosse solo questo, però, si direbbe che è uno dei tanti imprenditori stretti nella morsa degli estorsori. Ma non sembra essere soltanto questo. Dice altro, ad esempio, il contenuto di una intercettazione ambientale registrata il 2 gennaio del 2019 dalla cimice montata sulla macchina di Giovanni Caniglia, secondo gli inquirenti uno dei quattro presunti capi della Cupola. L’imprenditore-politico che è titolare a Manduria di una stazione di servizio, da lungo tempo sarebbe soggetto alla protezione del presunto boss il quale, in cambio, riceverebbe gratuitamente rifornimenti di carburante per la propria vettura, per quella della moglie e di altri appartenenti al clan. «Secondo quanto si desume dai contenuti del dialogo intercorso tra i due – scrivono gli investigatori antimafia – l’imprenditore, già da tempo ha deciso di usufruire di una protezione per così dire attiva, preferendo stabilire con Caniglia un rapporto interattivo sì da trarne anche a lui possibili vantaggi». Ma c’è dell’altro. «Sin dall’inizio – si legge nell’ordinanza firmata dal gip Michele Toriello – le indagini evidenziavano che Caniglia, su richiesta dell’imprenditore, avesse recuperato un quantitativo di eroina nel bagno dell’area di servizio», quantitativo che sarebbe stato lasciato da un noto spacciatore del posto «il quale – prosegue il giudice –, vedendo la presenza della polizia, aveva maturato il convincimento di poter essere controllato». L’episodio viene raccontato nei minimi particolari in un’altra intercettazione ambientale tra una dipendente del bar e una sua amica. «…è entrato e c’erano due carabinieri in borghese (in realtà poliziotti, Ndr), è andato in bagno, ha preso l’eroina che teneva nel borsellino e l’ha nascosta dentro al bagno». Di tanto, sostiene l’accusa, veniva informato il titolare ma, sempre la ragazza intercettata «svela – scrive il gip – che nessuno ha inteso fare nulla, vale a dire che nessuno ha provveduto a chiamare personale delle forze dell’ordine, preferendo invece far giungere sul posto il noto pregiudicato Caniglia». Un’altra dimostrazione di come «la Cupola» teneva sotto scacco la città, la scrivono ancora una volta gli investigatori che parlano di come i «capi» gestivano i propri gregari. «I capi della Cupola – si legge nell’informatica - si incontravano con assidua frequenza e, in veri e propri “summit”, decidevano oltre che delle strategie malavitose da adottare anche del reclutamento di nuovi affiliati e soprattutto delle sanzioni verso i loro affiliati; coloro che “sgarravano” nei loro riguardi, potevano essere puniti fino alla definitiva estromissione dal clan malavitoso». Nazareno Dinoi

La sinistra arretra e scompare. I “compagni” dal 40 al 4% scompaiono per la prima volta dal Consiglio comunale. Partendo dal 2005, quando il partito era denominato ancora Democratici di Sinistra, l’elezione a sindaco di Francesco Saverio Massaro. Gabrio Distratis su La Voce di Manduria mercoledì 07 ottobre 2020. “Come far estinguere un partito politico”. Si potrebbe intitolare così la storia del Partito Democratico di Manduria, che per la prima volta nella sua storia non avrà neanche un seggio in consiglio comunale. Analizzando i numeri relativi agli ultimi 15 anni, nei quali si è votato ben quattro volte per le comunali, il tracollo del Pd appare quanto mai evidente ed eclatante. Partendo dal 2005, quando il partito era denominato ancora Democratici di Sinistra, l’elezione a sindaco di Francesco Saverio Massaro poggiò le sue fondamenta proprio sui DS, primo partito manduriano con il 23,9 % dei consensi, percentuale che consentì al partito di ottenere ben 8 consiglieri, da sommare ai 6 consiglieri che ottenne l’altra forza che diede poi vita al Partito Democratico, la Margherita, che con il suo 16,3% si piazzò al secondo posto tra le liste più votate dai manduriani. Quindi nel 2005 il totale delle due forze era di 40,2% e 14 consiglieri (da notare però che il consiglio comunale era ancora formato da 30 consiglieri contro i 24 di oggi). Si passa alle comunali del 2010: Paolo Tommasino del centrodestra viene eletto al primo turno e il Partito Democratico (unito a La Margherita) si ferma al 21,46%, dimezzando praticamente i consensi ottenuti 5 anni prima e passando da 14 consiglieri a soli 6. Comunali 2013 (consiglio comunale passato a 24 consiglieri), centrosinistra e PD subito fuori dai giochi con ballottaggio tra Massafra e Morgante: il Partito Democratico si dimezza ancora e si ferma ad un misero 10,6% ottenendo solo 2 consiglieri. Arrivando finalmente al 2020, troviamo il PD letteralmente sprofondato al 4,71% e con l’onta politica di non poter contare più su nessun seggio in consiglio. A conti fatti si tratta, oggi, di quasi un decimo di quanto il partito valesse 15 anni fa. E, si badi bene, non si tratta di una delle tante liste civiche create ad hoc per una tornata elettorale e poi mandate al macero, il Partito Democratico è una forza politica nazionale, per giunta attualmente di governo, ancora strutturata territorialmente e che siede in maggioranza anche nel consiglio della Regione Puglia. Dopo questi dati impietosi, non ci sarebbe altro da dire se non chiedersi i motivi di una controtendenza manduriana così forte: perché un partito che a livello nazionale viaggia oltre il 20% (sondaggi recentissimi danno il PD nazionale al 24,8% di gradimento), a livello locale si è praticamente estinto? Quali sono i motivi di questo tracollo che, visti i numeri, ha radici lontane? Gabrio Distratis

LA VOCE a Nazareno Dinoi. La differenza tra fatti e fuffa. La Voce di Manduria - mercoledì 07 ottobre 2020. E’ inutile che i commissari se la suonino e se la cantino elencando nella loro lunga relazione le «meravigliose» cose fatte a Manduria in questi tre anni. Chi ha realmente fatto qualcosa sono stati coloro che hanno lavorato negli uffici. Alcuni, non tutti. Come l’ingegnere Claudio Ferretti che da solo all’inizio e con poco in seguito ha reso più presentabili molte strade e piazze della città e non solo quello. Bravi anche gli uffici che hanno espletato i concorsi, mai fatti prima. Il resto, tutte cose iniziate da altri e concluse per inerzia o per scadenza naturale e tanta ma tanta fuffa. Nazareno Dinoi

Multa da duemila euro. ​“Ha violato la privacy di una dipendente”, il Garante multa l’amministrazione straordinaria. Con una procedura insolita per un ente, l’amministrazione straordinaria diede notizia del contenzioso aperto dalla dipendente attraverso un comunicato stampa. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 23 luglio 2020. Il Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soru, ha sanzionato l’amministrazione straordinaria del Comune di Manduria per aver reso pubbliche le generalità di una dipendente comunale con la quale era in corso un contenzioso di tipo privatistico e personale (rivendicazione di diritti contrattuali sulle proprie funzioni lavorative). Con una procedura insolita per un ente, l’amministrazione straordinaria diede notizia del contenzioso aperto dalla dipendente attraverso un comunicato stampa in cui si indicava nome, cognome e qualifica della lavoratrice. L’interessata non si tenne lo sgarbo così a luglio del 2018 presentò un reclamo al Garante lamentando la comunicazione di propri dati personali attraverso l’invio di «una nota stampa», da parte della Commissione Straordinaria del Comune, a «due testate giornalistiche locali e a due di rilievo regionale», nella quale la reclamante veniva menzionata «con riferimento all'attivazione di una procedura stragiudiziale». A seguito di una istruttoria durata due anni, l’ufficio del Garante ha rilevato «l’illiceità del trattamento effettuato dal Comune» ed ha emesso l’ordinanza di ingiunzione notificata all’ente Messapico. In cui «si ordina al Comune di Manduria in persona del legale rappresentante pro-tempore, di pagare la somma di euro duemila a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria per le violazioni indicate». L’ente Messapico che ha già recepito la sanzione, ha deciso di pagare entro i termini che gli consentono di ridurre della metà la somma da versare all’organismo di garanzia della privacy. Per questo è stata già impegnata la somma di mille euro. N.Din.

È illecita la comunicazione ad una testata giornalistica, da parte di un Comune, dei dati personali di un dipendente comunale che ha avviato una procedura stragiudiziale nei confronti del Comune stesso rivendicando mansioni superiori. Muià Pier Paolo, Referente per le sezioni dedicate a privacy, IP e internet law , responsabilità medica e civile, e condominio, il 25 settembre 2020 su diritto.it.

Il fatto. Una dipendente del Comune di Manduria aveva presentato un reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, nel quale sosteneva che l’ente pubblico avesse comunicato i suoi dati personali in maniera illegittima. In particolare, la dipendente comunale affermava che la commissione straordinaria del Comune avesse inviato un comunicato stampa a due testate giornalistiche locali e a due testate di rilievo regionale, all’interno del quale era indicato il nominativo della dipendente stessa e si faceva riferimento al fatto che quest’ultima avesse attivato una procedura stragiudiziale nei confronti del Comune per ottenere il riconoscimento di mansioni superiori e quindi il pagamento di una somma di denaro (nel caso di specie, per aver ella svolto delle mansioni dirigenziali in virtù di alcuni decreti che erano stati firmati dal precedente sindaco). Il garante, ritenuta la possibile sussistenza di una violazione della normativa in materia di trattamento dei dati personali, avviava l’istruttoria nei confronti del Comune, invitando quest’ultimo a fornire memorie difensive e documenti a sostegno della propria posizione. L’ente pubblico, quindi, aveva formulato una richiesta di archiviazione del procedimento introdotto nei suoi confronti, in considerazione delle seguenti argomentazioni:

in primo luogo, poiché la nota stampa inviata ai giornali dalla commissione straordinaria, era avvenuta come replica ad un articolo giornalistico pubblicato da un ex amministratore del Comune stesso, il quale aveva sostenuto che la odierna reclamante avesse richiesto il trasferimento ad un altro ente pubblico a causa di alcune problematiche amministrative avute con il comune di Manduria;

in conseguenza di ciò, la nota stampa era stata inviata dai Commissari straordinari alle testate giornalistiche esclusivamente per tutelare l’immagine del Comune ed esporre la versione dei fatti dell’ente pubblico;

inoltre, il Comune sosteneva che il riferimento al nominativo della propria dipendente fosse già presente all’interno del primo articolo giornalistico pubblicato dal precedente amministratore e che comunque il Comune aveva effettuato la comunicazione dei dati soltanto per eseguire un compito connesso all’esercizio di pubblici poteri, cioè per tutelare l’immagine dell’ente pubblico macchiata dall’articolo pubblicato dal precedente amministratore;

inoltre, il Comune sosteneva di aver effettuato un bilanciamento di interessi fra la tutela della privacy della propria dipendente e l’obbligo di trasparenza gravante sul Comune, valutando che quest’ultimo dovesse prevalere rispetto alla prima, poiché la pubblicazione del nominativo della dipendente aveva una rilevanza pubblica connessa all’attività pubblica svolta dalla reclamante quale dipendente comunale;

infine, il Comune evidenziava come sussistesse comunque un obbligo a carico dell’Ente di pubblicare i dati personali della reclamante, secondo quanto previsto dalle disposizioni che impongono di pubblicare i dati relativi ai titolari di incarichi di collaborazione o consulenza con gli enti pubblici.

La decisione del Garante. Il Garante ha rigettato le argomentazioni difensive svolte dal Comune di Manduria e conseguentemente ha confermato l’illeicità del trattamento dati effettuato dall’Ente pubblico, sanzionandolo con il pagamento di un importo di euro 2.000. Preliminarmente, l’autorità ha ribadito in quali casi un Ente pubblico, come un Comune, possa trattare i dati personali dei propri dipendenti, evidenziando in particolare che, anche qualora operino come datori di lavoro, gli enti pubblici possono trattare in maniera legittima i dati personali dei propri dipendenti soltanto se tale trattamento è necessario per adempiere a un obbligo legale cui è soggetto l’Ente oppure per eseguire compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito l’Ente. Inoltre, se è vero che il Regolamento europeo (GDPR) prevede che i singoli Stati membri possano prevedere delle disposizioni specifiche relativamente a tale aspetto, è altresì vero che il Codice della privacy italiano prevede che la comunicazione di dati personali da parte di Enti pubblici può essere effettuata soltanto nel caso in cui vi sia una norma di legge o di regolamento che lo preveda. Inoltre, anche nei casi in cui la comunicazione sia ammessa, l’ente pubblico deve comunque rispettare tutti i principi in materia di protezione dei dati personali come quello di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento nonché quello di minimizzazione dei dati, secondo cui i dati che vengono pubblicati devono essere comunque leciti, corretti e trasparenti nonché devono essere pertinenti e limitati al minimo necessario, rispetto alle finalità che si vogliono raggiungere con la loro pubblicazione. Sulla base di tali premesse, il Garante per la protezione dei dati personali ha respinto le argomentazioni difensive del Comune, in quanto non è possibile ritenere che la comunicazione alle testate giornalistiche dei dati personali della propria dipendente, da parte del Comune, sia stata effettuata per eseguire un compito connesso all’esercizio di pubblici poteri, né che tale comunicazione sia prevista dal diritto dell’unione o dal diritto italiano. In secondo luogo, non si può neanche ritenere che la comunicazione a delle testate giornalistiche dei dati di una propria dipendente, da parte del Comune, rientri nella fattispecie disciplinata dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, che impone all’Ente pubblico l’obbligo di pubblicare i dati relativi ai rapporti con i titolari di incarichi di collaborazione o consulenza con l’Ente stesso. Ciò in quanto il Comune, nel caso di specie, ha effettuato una comunicazione di dati personali a soggetti terzi (cioè le testate giornalistiche), mentre non ha effettuato una diffusione di dati personali attraverso la pubblicazione di una propria determina all’interno dell’albo pretorio (che configura, appunto, la fattispecie prevista dalla normativa sulla trasparenza dell’attività amministrativa degli enti pubblici richiamata dal Comune di Manduria). In ogni caso, evidenzia il Garante, che la citata normativa in materia di trasparenza riguarda la pubblicazione dei dati relativi ai titolari di incarichi di collaborazione o consulenza, pertanto non trova applicazione nel caso in cui si pubblichino i dati relativi al personale dipendente (come risulta inquadrata la reclamante nel caso di specie). Infine, l’autorità evidenzia come la comunicazione dei dati personali da parte del Comune di Manduria è stata effettuata non per finalità di trasparenza dell’azione amministrativa, ma per finalità di tutela dell’immagine del Comune stesso. In considerazione di quanto sopra, l’autorità garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto che la normativa richiamata dal Comune non sia applicabile al caso di specie e pertanto che non sussista alcuna norma giuridica che legittimi il trattamento e lo renda lecito. Pertanto, posto che nel caso in cui manchi una specifica disposizione normativa che lo autorizzi il Comune non può comunicare i dati personali dei propri dipendenti a soggetti terzi, si deve ritenere che la comunicazione di dati personali della dipendente attuata dal Comune di Manduria alle testate giornalistiche sia avvenuta in assenza di un idoneo presupposto di liceità.

Manduria è ancora più leghista (anche per colpa di chi non lo è). Matteo Salvini ha già vinto. Lo ha fatto a mani basse, nel migliore dei modi (senza che i suoi avversari se ne rendessero conto), in pochi minuti e su un palco di fronte ad una piazza Garibaldi. Gabrio Distratis su La Voce di Manduria - martedì 08 settembre 2020. Matteo Salvini ha già vinto. Lo ha fatto a mani basse, nel migliore dei modi (senza che i suoi avversari se ne rendessero conto), in pochi minuti e su un palco di fronte ad una piazza Garibaldi gremita come poche altre volte. Ha vinto senza aspettare nessuno spoglio elettorale, lo ha fatto solo dimostrando i motivi per i quali tra tanti appellativi, quello di “Capitano” gli calza a pennello: un autentico maestro nel condurre avversari e supporters sul suo campo da gioco, dove si seguono esclusivamente con le sue regole e dove surclassa e batte i primi ma nello stesso preciso istante accarezza e ammalia i secondi. Nessun contenuto, nessuna idea politica, nessun programma, nessun dato verificabile scientificamente. Mai, semplicemente perché non gli occorrono e non ne ha bisogno. E non ne ha bisogno semplicemente perché egli parla lo stesso linguaggio (se non proprio lo mutua e ne cavalca a suo vantaggio il potere simbolico e propagandistico) anche di tantissimi contestatori ed oppositori che affollavano la piazza manduriana e continuano ad inondare i social network di ogni forma di insulto, intolleranza, denigrazione, incitamento all’odio e alla violenza, auspici di morte, sessismo, razzismo e deumanizzazione dell’avversario. Salvini ha vinto perché, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, ha dimostrato come la forza di un certo tipo di “fare politica” risiede proprio nella vicinanza e nelle affinità con colori i quali credono, anche convintamente e strenuamente, di essere agli antipodi rispetto a lui. Come spiegare, altrimenti, i toni, gli atteggiamenti, le urla e i tumultuosi propositi di tanti anti-leghisti manduriani che, in definitiva ed a conti fatti, sposano in toto ed assumono gli stessi connotati comunicativi del leghista medio? Basterebbe solo dare un veloce sguardo ai tanti post apparsi su Facebook scritti da manduriani che nella loro foga anti-salviniana e nel concitato proposito di “difendere” non si sa bene cosa da non si sa bene chi, finiscono, loro malgrado, per dipingere di verde Padania la propria pelle. Stimati professionisti, pacati padri di famiglia, ragazzine dal viso angelico, mamme apparentemente affettuosissime con foto con i propri bambini in bella vista, universitari modello, addirittura nonni ormai nell'età della saggezza: tutti accomunati dall’impeto di manifestare apertamente e pubblicamente il proprio dissenso e la propria lontananza dalla vuota retorica salviniana. Peccato che lo facciano, però, seguendo proprio gli stessi schemi comunicativi del leader leghista: “Che schifo di uomo” (Teodoro C.), “Buttatelo a mare con un tufo” (Pino D.), “Uomo miserrimo” (Nino F.), “Torna nella tua terra buffone!!” (Raimondo G.), “Mettetelo su un barcone e mandatelo in Libia” (Rita S.), “Chiudono le discoteche ma sto coglione sempre a giro” (Davide R.), “Ma quelli che stanno applaudendo, di cosa soffrono??” (Virginia P.), “Mi fanno più schifo chi sta sul palco con lui” (Pompea S.), “Chiudete lo zoo...lo scimmione è scappato!!!” (Donatella R.), “Ladro bastardo razzista di merda in galera!!!” (Luigi P.), “Tutte quelle persone sul palco sanno fare solo foto e hanno fatto aumentare la puzza a Manduria nessuno si lamenta poveri idioti” (Mimino S.), “Immondizia immondizia immondizia immondizia su e quella chiavica di Bossi immondizia” (Luigi C.), “Uno schifo di persona. Non è politica questa. Questa è fogna.” (Luigi D.P.), “No ma questo sta proprio male con la testa!!! Liberate i cani del canile e sfamateli!!!” (Annalisa T.), “Quel pugno te lo faccio ingoiare!!!” (Michela P.), “Ma come si fa ad applaudire questo demente!” (Teresa S.), “Mueri cesso!!” (Iacopo P.), “È così merda che rende merda anche me.” (Stefano F.). Questi solo alcuni dei circa 500 commenti apparsi sulla pagina Facebook del direttore de “La Voce di Manduria” durante e dopo la diretta streaming del comizio salviniano. Presenti tutte le tipologie: dal razzista al volgare fine a se stesso, dall’offesa snob all’augurio di morte, dalle minacce fisiche al puro vaneggiamento senza senso. Tutti con un unico comune denominatore: rispondere a Salvini entrando, inconsapevolmente, nel campo di Salvini. Dove, ovviamente, Salvini è come il banco al casinò: alla fine vince sempre. E forse Manduria è più “leghista” oggi di quanto non si pensasse ieri. Gabrio Distratis

Ero in piazza per contestare Salvini come quando avevo 18 anni. Erano gli anni 80 e col tempo sui muri delle città, dei sottopassi delle stazioni e sui piloni dei ponti comparivano scritte del tipo: “terroni coglioni”. Almerina Raimondi su La Voce di Manduria - mercoledì 09 settembre 2020. Io c’ero in piazza Garibaldi ad esprimere il mio dissenso nei confronti del Senatore Salvini, c’ero nonostante i dubbi di dover prendere parte a quel gioco mediatico che tanto piace al Senatore e che alimenta la sua propaganda politica. C’ero non per curiosità nei suoi confronti, ma per cercare di capire perché e che cosa spinge la gente del Sud a riempire le piazze per tributargli applausi e ammirazione. A questa gente voglio dire che io c’ero anche a 18 anni quando partii per Padova a studiare medicina e fui costretta ad andare in collegio perché era difficile trovare casa. Molti negozi e condomini avevano affisso sulle loro saracinesche e sui loro portoni la scritta: “non si fitta ai terroni” oppure “niente casa per i meridionali”. Erano gli anni 80 e col tempo sui muri delle città, dei sottopassi delle stazioni e sui piloni dei ponti comparivano scritte del tipo: “terroni coglioni”, “terroni fannulloni”, “meridionali tornatevene a casa vostra”, “forza Etna, la Padania è dei lombardo-veneti”; scritte che puntualmente cercavamo di cancellare con i pochi mezzi di cui si disponeva e queste stesse frasi venivano urlate da Salvini e company nelle manifestazioni leghiste. In Veneto ho studiato, ho cominciato a lavorare e ho conosciuto tanta gente per bene che ammira la passione e la laboriosità della gente del Sud, a loro ancora oggi mi unisce una profonda amicizia e stima reciproca, ma poi sono tornata con la mia famiglia perché da sempre crediamo che il Sud sia una scommessa e che se la “questione meridionale” è ancora tutta da risolvere, non sarà certo un “bullo padano” di turno a farlo. Tocca a noi e soltanto a noi meridionali esprimere una classe dirigente capace di progettare e investire sulla valorizzazione del Mezzogiorno per ridurre il cosiddetto divario tra Nord e Sud. Chi oggi al Sud pensa di fare carriera politica facendosi sostenere da un millantatore che blandisce senza alcun rispetto il Crocifisso, il Rosario e il Vangelo come se fossero idoli per suo tornaconto, non merita il nostro consenso. Salvini è un populista che ha costruito il suo potere politico facendo finta di ascoltare le istanze del popolo e che, facendo leva su “una pulsione primordiale che spinge gli esseri umani a difendere identità, sicurezza e confini”, alimenta in ogni piazza, in ogni uscita pubblica, la fabbrica della paura a cui tiene il suo popolo incatenato, il suo popolo che tanto dice di “amare dispensando baci e selfie”. Salvini se potesse non solo chiuderebbe tutti i porti per bloccare i migranti, ma alzerebbe un muro a livello del fiume Po per impedire a noi meridionali di andare a “contaminare la loro Padania”. La lega nord ha cambiato nome ma i “sentimenti” che animano i leghisti sono sempre gli stessi: secessione, razzismo, omofobia, sessismo. In tutti questi anni su 10 euro stanziati dai diversi governi che si sono succeduti 9 sono andati al Nord (per scuola, sanità, servizi vari) e solo poco più di 1 euro è stato destinato al Sud. Da gennaio 2021 arriveranno i soldi dai fondi europei da destinare alla sanità, come pensiamo che saranno distribuiti? Prevarrà il principio di equità?!

La lega di Salvini e company rivendicheranno il virtuosismo delle loro amministrazioni, il pareggio di bilancio, l’autonomia differenziata per destinare alle loro regioni più risorse. Questa pandemia che ha fatto moltissime vittime ha messo in evidenza le inefficienze di una sanità lombarda che negli anni ha smantellato la sanità pubblica a favore di una sanità privata, cosiddetta “d’eccellenza” che prevedeva l’emigrazione sanitaria dal Sud al Nord. A tutti i meridionali che si fanno ammaliare dall’idea dei pieni poteri, dell’uomo forte che Salvini pensa di rappresentare, tributandogli applausi e ammirazione, mi sento di chiedere: sarete in grado di esprimere una classe dirigente capace di non fare “affondare un pezzo d’Italia” e di fare a meno dei millantatori di turno come Salvini? Almerina Raimondi

Gigi Blasi nuovo proprietario di Studio 100 con l'editore Distante. L'emittente storica tarantina aggiudicata all'asta. La Voce di Manduria mercoledì 15 aprile 2020. L’imprenditore manduriano, Gigi Blasi è il nuovo proprietario dell’emittente Studio 100. Alle 17 di oggi il Tribunale fallimentare di Taranto ha aggiudicato la vendita dell’emittente storica tarantina alla società Bd Editore Srl costituita da Blasi che controlla il 55 percento e dall’editore francavillese, Domenico Distante, con la rimanente quota. La somma investita è stata di 575 mila euro. «Faremo le cose in grande stile anche nell’editoria», ha commentato l’acquisto Blasi che dalla produzione di macchinari per l’agricoltura, il calcio, la produzione di vino Primitivo e il più recente investimento nella farmacia, ha deciso di puntare sull’editoria televisiva. I due imprenditori hanno in comune la passione per il calcio. Durante ha guidato il Francavilla in Serie D portandolo alle soglie della C. Blasi ha trainato il Manduria in serie D, è stato presidente del Taranto calcio con cui ha sfiorala la Serie B ed è stato vicino all'acquisizione delle società del Lecce e del Bari. Possiede azioni del Barcellona calcio. Distante, inoltre, è già proprietario dell'emittente Canale 85 che va in onda sul digitale terrestre, della storica emittente regionale Antenna Sud, di Radio 85, dei settimanali Lo Jonio e L'Adriatico e di tanti siti web di informazione sportiva. Blasi è tra i più noti imprenditori italiani nel settore dei macchinari agricoli, ha un’azienda da 120 milioni di fatturato annuo con sedi in diverse città italiane tra cui Manduria e Imola, ma anche in Francia, Israele, Russia, Africa e Giappone.

Gigi Blasi: "Studio 100 grande sfida, ma abbiamo entusiasmo". L’imprenditore di Manduria: "Il Taranto calcio? Ha già un presidente, Massimo Giove è una persona seria". Blunote il 16.04.2020.  "Quando ho appreso del fallimento di Studio 100 - spiega Gigi Blasi a Il Nuovo Quotidiano -, ho pensato che un territorio già martoriato come quello tarantino aveva subito l'ennesima mazzata, in questo caso sotto il profilo dell'informazione. Così, dopo che le prime aste sono andate deserte, ho pensato di provare questa nuova avventura unendo le forze con Mino Distante, che ha già ampia esperienza nel settore, al solo scopo di dare qualcosa al territorio di Taranto e provincia. E non solo, perché Studio 100 ha un suo ruolo preciso anche su Brindisi. L'emittente è da sempre vicina alla città ed era giusto continuare ed era giusto continuare a dar voce a tutte le fasce sociali ed economiche del territorio. Sono contento di avercela fatta, ci metterò tutto il mio entusiasmo. Come sarà la nostra tv? Quando guardo i grandi network nazionali, vedo una televisione fatta di urla, rancore e rabbia, molto omologata e assai lontana dalle realtà locali. Noi vorremmo dar voce a tutti, specie alle categorie più deboli, ma senza odio, cattiverie e invidie. Un giornalismo corretto e pacato per evidenziare al meglio le nostre qualità e potenzialità. Non una tv di attacchi, ma di difesa e valorizzazione, un contributo costruttivo per risolvere i tanti problemi del territorio. L'investimento mio e di Distante è stato notevole, ma crediamo molto in questa impresa. Studio 100 mi terrà più vicina a Taranto e alla sua provincia, anche se da anni sono un imprenditore adottato dal Nord".

TARANTO CALCIO "Non tocchiamo questo argomento. Il club ha già un presidente, Massimo Giove, persona molto seria. Come ho già spiegato, bisogna mettere da parte aggressioni e invettive per sostenere chi mette soldi e passione nel calcio. E io ne so qualcosa...".

Studio100: sequestri e misure interdittive nei confronti dei Cardamone. Il Corriere del Giorno il 18 Giugno 2020. La Guardia di Finanza di Taranto ha eseguito misure interdittive nei confronti dei fratelli Cardamone attivi nel settore editoriale radio-Sequestrati beni e disponibilità finanziarie per circa 1 milione di euro. Ancora una volta i fatti accertati dalle indagini di Polizia Giudiziaria e dalle Procure confermano quanto scoperto dal CORRIERE DEL GIORNO in materia di illegalità e frodi allo Stato. Come accaduto per la vicenda che riguardava la gestione truffaldina dei fratelli Cardamone, ex-editori (si fa per dire…) e proprietari delle società Jet srl e Mastermedia Club srl, entrambe fallite che avevano sinora gestito la “storica” emittente televisiva Studio 100. Le Fiamme Gialle del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto hanno infatti eseguito questa mattinata un’ordinanza di applicazione di misura interdittiva, emessa dal Dr. Benedetto Ruberto G.I.P. del Tribunale di Taranto su richiesta della Procura della Repubblica jonica, nei confronti di due fratelli Gaspare e Giancarlo Cardamone (già pregiudicato per fatti analoghi) entrambi indagati, con contestuale esecuzione di un decreto di sequestro preventivo di disponibilità finanziarie, quote societarie e beni immobili per un ammontare complessivo di circa 1 milione di euro. I provvedimenti del G.I.P. Dr. Ruberto, che hanno accolto la richiesta avanzata dsl Sostituto Procuratore della Repubblica Dr.ssa Lucia Isceri, sono stati emessi al termine di una complessa ed articolata attività di indagine condotta da militari del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Taranto relativa al fallimento della nota emittente televisiva. I reati contestati all’amministratore Gaspare Cardamone e al fratello Gaspare, socio delle società fallitea sono quelli di “bancarotta fraudolenta patrimoniale” e “sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte“. La sentenza dichiarativa di fallimento era stata emessa dal tribunale Fallimentare di Taranto su istanza della Procura di Taranto verificata l’irreversibile incapacità della società di far fronte ai propri debiti verso l’Erario. Inoltre, erano sorti forti sospetti su alcune operazioni poste in essere dagli amministratori nella fase pre-fallimentare, rivelatasi particolarmente controversa soprattutto riguardo alle vicende dei lavoratori dipendenti nei cui confronti erano stati registrati ritardi nei pagamenti degli stipendi. Prima di essere dichiarata fallita la società Jet srl aveva fatto richiesta di accesso all’istituto del concordato che consente di evitare il fallimento facendo fronte ai debiti secondo un piano di risanamento. L’obiettivo era quello di bloccare le istanze di fallimento e prendere tempo per perfezionare la cessione del ramo d’azienda alla Mastermedia Club srl, in cui far confluire gli asset positivi da salvare: le frequenze per la trasmissione e la possibilità di richiedere i contributi ministeriali destinati alle emittenti televisive, fondamentali per il sostentamento della società. Proprio quest’ultimo aspetto era fondamentale. Infatti, presupposto per l’ottenimento del contributo è la regolarità contributiva e previdenziale rispetto ai lavoratori dipendenti. La creazione di una “good company” avrebbe consentito ai fratelli Cardamone di ripartire ancora una volta, nella loro attività, lasciandosi alle spalle i debiti pregressi ed accumulatisi ammontanti a circa 5,5 milioni di euro, che sarebbero rimasti in capo alla bad company il cui destino era stato preordinatamente incanalato verso il fallimento. Sono state effettuate approfondite indagini dalla Fiamme Gialle di Taranto, che hanno portato alla comprensione del disegno criminoso posto in esser dai due fratelli e finalizzato all’ottenimento dei contributi statali sull’emittenza televisiva locale, rilasciati dal Ministero dello Sviluppo Economico, ammontanti a circa 1,5 milioni di euro. Se la somma fosse stata erogata nei confronti della vecchia società, sarebbe stata prioritariamente destinata al pagamento dei debiti previdenziali e tributari. Lo stanziamento nei confronti della nuova società in bonis, invece, sarebbe stato libero da ogni vincolo con conseguente danno per lo Stato. Ma non sempre tutte le truffe vanno a buon fine, specialmente quando si incontrano gli investigatori della Guardia di Finanza, corpo militare sempre più all’avanguardia tecnologica, societaria e tributaria.

Assolti sette giornalisti: non avevano diffamato l’ex capo della Procura della Repubblica di Brindisi. Il Corriere del Giorno il 4 Febbraio 2020. I giornalisti erano accusati di aver pubblicato le risultanze di una indagine della Guardia di Fnanza di Bari su una cena che sarebbe avvenuta a Roma a cui avrebbero partecipato delle donne “allegre” messe a disposizione da alcuni… Sette giornalisti pugliesi, tra i quali l’amico e collega Nazareno Dinoi direttore della testata online “La Voce di Manduria”,  Stefano Costantini, Gianmarco Di Napoli, direttore del quotidiano Senzacolonne, Roberta Grassi, Marco De Marco direttore del Corriere del Mezzogiorno (inserto pugliese del Corriere della Sera) e la cronista  Valentina Marzo, ed il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno  Giuseppe De Tommaso sono stati assolti “per non aver commesso il fatto” dalla Corte d’Appello di Lecce che ha ribaltato la condanna di primo grado che li aveva condannati con l’accusa di aver diffamato l’ex capo della Procura della Repubblica di Brindisi, Cosimo Bottazzi. I giornalisti erano stati accusati di aver pubblicato le risultanze di una indagine della Guardia di Finanza di Bari su una cena che sarebbe avvenuta a Roma in cui sarebbero state presenti delle donne messe a disposizione da alcuni imprenditori tra cui Giampaolo Tarantini. Contesto da cui il magistrato si è sempre dichiarato estraneo. Era il 4 marzo 2009. quando “Giampi Tarantini” organizzò una cena al ristorante dell’Hotel Valadier, a Roma. Procurando per il post serata tre ragazze. Seduti al tavolo c’erano  dirigenti di Finmeccanica ed il magistrato  Cosimo Bottazzi, che all’epoca dei fatti era sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Bari. L’incontro venne ampiamente documentato nell’informativa della Guardia di Finanza. Per i magistrati inquirenti l’ex imprenditore Tarantini in quel momento stava cercando di entrare nel circuito dei lavori per le grandi opere pubbliche. Accanto a Bottazzi, c’era il manager di Finmeccanica Rino Metrangolo che in seguito si è dimesso, e l’imprenditore brindisino Marco Macchitella. Come ricostruito dalla Fiamme Gialle alla cena, alla quale Tarantini non si presentò, vennero invitate: Fadoua Sebbar, Niang Kardiatou (detta Hawa) e “tale Emiliana“. Così scrivevano i pm: “Fatta eccezione per Emiliana le donne trascorrevano la notte in compagnia degli uomini, prostituendosi presso l’hotel Valadier”, dove Tarantini aveva fatto riservare tre camere a nome di Metrangolo. E’ una delle ragazze che, ascoltata dagli inquirenti, ha raccontato la composizione della tavolo. Non ricorda il nome di Bottazzi, ma parla di due uomini, pugliesi, forse di Bari. Ecco cosa disse Fadoua Sebbar quando venne interrogata: “Relativamente all’episodio dei primi di marzo 2009 in cui Gianpaolo Tarantini mi invitò a partecipare ad una cena presso il ristorante Valentino in Roma, (…) mi porse una somma pari a 1000 euro affinché io consumassi dei rapporti intimi con una persona di nome Rino che avrei dovuto incontrare presso il ristorante Valentino. (…) Io ed Hawa, invece ci recammo a cena con Rino ed altri due uomini, che non conoscevo e di cui non ricordo il nome, so però che erano entrambi pugliesi forse di Bari. Durante la cena sopraggiunse un’altra ragazza di cui non ricordo il nome, la quale comunque a cena terminata andò via. Io invece dopo cena mi trattenni con Rino nella sua camera ubicata nello stesso albergo ed Hawa con uno degli altri due uomini, circostanza questa che ricordo in quanto dopo una trentina di minuti circa io e lei ci siamo riviste all’ingresso dell’albergo“. A suo tempo l’ avvocato Francesco Paolo Sisto, difensore del magistrato Bottazzi con una nota contestava “la veridicità delle odierne notizie di stampa relative alla vicenda Tarantini che riguardano il predetto. Bottazzi non ha mai conosciuto il signor Tarantini, limitandosi a partecipare ad una cena in Roma organizzata da Salvatore Metrangolo. Le notizie così imprudentemente diffuse saranno perseguite con le dovute iniziative giudiziarie a tutela della immagine di uomo e di magistrato”. Iniziative giudiziarie che sono naufragate dinnanzi alla Corte di Appello di Lecce che ha saputo ben giudicare l’operato giornalistico dei colleghi querelati da Bottazzi tramite l’ avv. Sisto del Foro di Bari. Secondo la querela del magistrato Bottazzi denunciante che all’epoca dell’avvio dell’indagine era in servizio presso la Corte d’Appello di Bari, i giornalisti, nel riportare il contenuto di una informativa, avrebbero offeso il suo onore e la reputazione, tesi condivisa dal giudice di primo grado. Ma la Corte d’Appello di Lecce ha invece ritenuto non sussistenti le condotte diffamatorie.  Assolti “perché il fatto non sussiste” i colleghi Marco De Marco,  Nazareno Dinoi e Valentina Marzo mentre Gianmarco Di Napoli, Roberta Grassi, e Giuseppe De Tommaso sono stati assolti perche “il fatto non costituisce reato”. Siamo veramente curiosi di vedere chi avrà il coraggio di denunciare per calunnia l’ex capo della Procura della Repubblica di Brindisi, Cosimo Bottazzi e chiedergli il risarcimento dei danni subiti per un ingiusto processo. La legge è deve essere uguale per tutti, come la Corte di Appello di Lecce ha dimostrato.

«Falsa rappresentazione della realtà», direttore de La Voce condannato a risarcire l'ex prefetto. Nel dare notizia di tale procedimento, il giornalista Dinoi aveva erroneamente descritto l’imputazione a carico dell’ex prefetto di Rimini con la seguente contestata frase: «Saladino avrebbe annullato senza motivo multe a parenti. La Voce di Manduria domenica 16 febbraio 2020. Il Tribunale civile di Taranto, giudice onorario Antonio Taurino, ha accolto parzialmente la richiesta di risarcimento danni avanzata dal prefetto in pensione, Vittorio Saladino, commissario straordinario del comune di Manduria, nei confronti del direttore de La Voce di Manduria, Nazareno Dinoi, che è stato condannato a pagare 2.000 euro (la richiesta del danneggiato era di trentamila euro) - e non per “diffamazione aggravata” come erroneamente riportato da qualche giornalista male informato -, per aver riportato in maniera difforme la notizia di un procedimento penale a carico di Saladino che lo ha visto imputato per abuso d’ufficio e poi assolto dal Tribunale di Rimini “perché il fatto non sussiste”. A Saladino, allora prefetto di Rimini, era contestato un indebito utilizzo di un dipendente della prefettura e di aver fatto annullare senza motivo una multa presa dall'auto della moglie. Accuse poi cadute con l’assoluzione del primo grado di giudizio. Nel dare notizia di tale procedimento, il giornalista Dinoi aveva erroneamente descritto l’imputazione a carico dell’ex prefetto di Rimini con la seguente contestata frase: «Saladino avrebbe annullato senza motivo multe a parenti e amici».

Così, evidentemente, non era.

«Esaminando la richiesta di rinvio a giudizio del Piemme – scrive il giudice Taurino nella sentenza di condanna a Dinoi -, emerge in maniera univoca ed inequivoca che il fatto costitutivo ascritto dalla pubblica accusa a base dell’imputazione per abuso d’ ufficio (a carico dell’ex prefetto, Ndr), non è certo l’aver annullato multe a parenti ed amici, quanto l’ aver dichiarato “falsamente” in un ricorso promosso per l’ annullamento di una multa comminata alla moglie, di essere stato lui, il Saladino, nella circostanza, ad essere stato l’ effettivo utilizzatore dell’auto per esigenze di servizio, che è fatto del tutto diverso dall’annullare multe “ a parenti ed amici”».

Scrive ancora nella sentenza il giudice di Taranto.

«Sul punto va sottolineata la profonda differenza che corre tra l’agire per l’annullamento di un verbale (quale astratto diritto di difesa che il pubblico funzionario possiede al pari di qualunque altro cittadino che ritenga ingiusta la comminatoria), avvalendosi di false dichiarazioni, e annullare multe a “parenti ed amici”, fatto dai contenuti fenomenici del tutto diversi oltre che suscettibili di suggestionare ed alterare la percezione dell’immaginario della comunità dei lettori».

Sbagliata era anche, secondo il giudice, la definizione di “parenti” quali ipotetici e quindi di più persone beneficiari del presunto abuso. Anche perché, si spiega, Il legame che lega i coniugi non è di tipo parentale. Scrive Taurino.

«La tesi, basata sulla rispondenza tra il capo d’ accusa nella parte in cui si riferisce al ricorso per l’annullamento della multa di un parente ed il contenuto dell’articolo che avrebbe ascritto l’abusività del contegno in riferimento a parenti (in effetti concetto anche improprio in quanto l’ esatto rapporto intercorrente tra marito e moglie è il coniugio), non convince, in primis perchè è accertato che trattasi di un unico caso (quindi pare distorcere la realtà nel momento in cui si riferisce, seppur implicitamente, ad una pluralità di persone, prospettazione che implica suggestivamente una sorta di “recidiva” del comportamento illecito».

Per tali motivi, rileva il giudice Taurino, la narrazione di cronaca riportata dal direttore della Voce di Manduria, è «da considerarsi ontologicamente non veritiera, in quanto in distonia con i fatti rappresentati nel capo d’ accusa».

Nello stesso errore sono incorsi altri giornalisti di testate anche nazionali e agenzie di stampa da cui Dinoi aveva attinto il presunto capo d’accusa delle «multe annullate a parenti amici». Giustificazione non sufficiente per il giudice Taurino ad avvalorare: «l’incolpevolezza dell’autore nell’aver confidato sull’attendibilità della notizia perchè riportata da autorevoli fonti informative di ampia diffusione nazionale (quali l’Ansa, tra le più prestigiose)».

Su questo punto lo stesso giudice fa notare «che inspiegabilmente l’attore, pur legittimato, ha tralasciato ogni azione nei confronti di chi, egualmente, aveva pubblicato la medesima falsa notizia, peraltro preventivamente». L’ex prefetto, insomma, si è sentito leso solo da Dinoi e non da tutti gli altri che prima di lui avevano erroneamente scritto la stessa cosa. Merita attenzione, infine, la parte della sentenza (che qualche giornalista avrebbe dovuto leggere e non fidarsi solo della solita «velina» passatagli), in cui lo stesso giudice Taurino evidenzia «che la genesi della vicenda è connessa alla pubblicazione di un fatto vero, costituito dalla proposizione di accusa per reato di abuso di ufficio, che, pare aver di per sé contribuito, in maniera quasi del tutto assorbente rispetto a dettagli accessori non secondari (quali appunto aver attribuito come presupposto d’ accusa un fatto non rispondente al vero), ma di portata mediatica non prevalente, di modo che gran parte del discredito procurato all’ immagine pubblica dell’attore sarebbe attribuibile all’ accusa autonomamente considerata, e solo in quantità marginalmente significativa alla distorsione perpetrata dall’autore (Dinoi, Ndr)». E ancora questa parte in cui il giudice riconosce la «logica della difesa convenuta nella parte in cui sminuisce, seppur in via gradata, la portata dell’allarme sociale procurato dall’illecito». E che «a prescindere dalla discrasia in cui è colpevolmente incorso l’ autore, che, peraltro, raccontando i fatti in maniera esaustiva (quantunque con i risultati distorsivi e fuorvianti in parte qua) ha dato contezza dell’intera vicenda ai lettori, consentendo loro l’ esercizio di quello spirito critico che deve contraddistinguere l’ approccio alla lettura delle pubblicazioni di cronaca, che, accidentalmente possono essere connotate da inesattezze, errori o travisamento delle vicende narrate, sino a fare ammenda totale con l’ ultimo degli articoli pubblicati sulla incresciosa vicenda, in cui ha correttamente e compiutamente reso giustizia all’ attore, fornendo il resoconto dell’avvenuta assoluzione dell’imputato». Secondo il giudice Taurino, il danno comunque c’è stato per un valore quantificato in duemila euro da riconoscere all’ex prefetto Saladino (che ne chiedeva 30.000) e 1.500 euro al suo avvocato. Il direttore Dinoi ha già dato mandato ai legali che lo hanno assistito nella causa civile, Franz Pesare e Armando Pasanisi, per presentare ricorso alla Corte d’Appello di Taranto.

Svergognare sena vergogna. Si indica la luna e si guarda il dito. I poliziotti di Manduria che hanno inviato la velina perché non dicono che ci sono voluti decenni per effettuare dei controlli su un motorino senza targa ed assicurazione e casco del guidatore? Tanto rumore per dei reati ampiamente prescritti.

L’inno alla resistenza del Piaggio Ciao: rubato nel 1986 in provincia di Savona, ritrovato ancora in circolazione a Taranto dopo 34 anni. Gli agenti hanno fermato un giovane nel centro di Manduria a bordo del motorino: quando dalla centrale operativa è stato comunicato il resoconto, forse, i poliziotti nemmeno ci credevano. Rubato nel 1986 a Loano, provincia di Savona. In Liguria. Tanti anni fa, prima che il mondo cambiasse. Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano il 28 febbraio 2020. Quella mattina di novembre, nel piccolo paesino di Loano in provincia di Savona, c’è un uomo triste. Vittima di un furto: qualcuno gli ha rubato un motorino. Forse lo hanno portato via dall’officina meccanica che quell’uomo aveva ereditato dal padre e che ha portato avanti fino al 2009. Era un Ciao della Piaggio: forse era celeste. Forse no. È passato troppo tempo per ricordare tutto. Il mondo era ancora in apprensione per il disastro di Chernobyl che cinque mesi prima aveva messo tutti fronte ai danni che l’energia nucleare era in grado di causare. Sono ancora gli anni della Guerra fredda: mentre negli Stati uniti Ronald Regan al suo secondo mandato fa i conti con il caso Irangate che coinvolse dirigenti politici e militari della sua amministrazione per il traffico d’armi con l’Iran, nell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov avviava il processo di riforma conosciuto come Perestrojka. Anche in Italia erano gli anni ’80: al Quirinale era stato eletto un anno prima Francesco Cossiga e nell’agosto del 1986, pochi mesi prima del furto di Loano, Bettino Craxi aveva dato vita al suo secondo Governo, dopo la rottura con la Dc di Ciriaco De Mita. I giovani cantavano Papa don’t preach di Madonna che qualche mese più tardi avrebbe tenuto lo storico concerto a Torino del “Siete pronti? Siete caldi? Anch’io”.Nel paesino della Liguria, quella mattina di novembre, però, quell’uomo non cantava. Classe 1946, forse, pensava al motorino. E alle scocciature che ne seguono: la denuncia di furto, l’attesa nella caserma dei carabinieri. In quei momenti, forse, ripensava ai giri su quel Ciao nella zona del porto, le passeggiate su due ruote tra il convento del Monte Carmelo, il centro storico e Borgo Castello. Era bello quel Ciao celeste. No, forse era bianco. È difficile ricordare tutto. Soprattutto a distanza di 34 anni. Dopo tutto questo tempo, probabilmente, quell’uomo neppure ci pensava più a quel motorino. E forse mai avrebbe immaginato che qualcuno lo stesse ancora guidando. Da quella mattina di novembre il mondo intero è cambiato. In Italia si sono susseguiti ben 23 governi, Tangentopoli ha spazzato via la Prima Repubblica, l’Italia calcistica è salita sul tetto del mondo per ridiscenderne qualche anno dopo. Il muro di Berlino è caduto, l’Unione Sovietica non esiste più, il pianeta è basato su una rete virtuale chiamata Internet. Eppure quel Ciao continua a circolare. A sua insaputa e a quasi 1200 chilometri di distanza. Già perché quel motorino è stato ritrovato pochi giorni fa dai poliziotti del commissariato di Manduria, in provincia di Taranto. Lo hanno rintracciato ad Avetrana, il paesino diventato tristemente famoso per l’omicidio di Sarah Scazzi. La sera del 20 febbraio, mentre stanno effettuando normali servizi di controllo del territorio, gli agenti sono stati sorpresi nelle vie del piccolo centro della provincia di Taranto, un giovane a bordo di un Ciao di colore bianco che correva un po’ troppo. Non indossava il casco, ma un cappellino di lana che gli copriva parzialmente il viso. Gli agenti hanno deciso di controllarlo e quando lo hanno raggiunto si sono accorti che quel mezzo vecchio non aveva neppure la targa. L’unico elemento disponibile era il numero del telaio. Eccola, la svolta. Quando dalla centrale operativa è stato comunicato il resoconto, forse, quegli agenti nemmeno ci credevano. Rubato nel 1986 a Loano, provincia di Savona. In Liguria. Tanti anni fa, insomma, prima che il mondo cambiasse. Il Ciao ha continuato a funzionare, superando i cambiamenti e l’usura. È quasi un inno alla resistenza.

I bulli di Manduria davanti al gup: così è morto Stano. La lunga e dettagliata relazione dei due periti del gup, ha tracciato un quadro più chiaro, ma non ancora esaustivo. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 05 marzo 2020. «La paura di subire vessazioni, angherie e aggressioni aveva portato il paziente a non uscire di casa per fare la spesa e, quindi, a non alimentarsi nella settimana precedente al ricovero. Tale situazione determinò, con elevata probabilità, un ritardo nel ricorso alle cure sanitarie e, conseguentemente, un ritardo nella diagnosi della complicanza dell’ulcera duodenale». E’ il passaggio più significativo della relazione che ieri i due periti di fiducia del gup Vilma Gilli, il medico legale Roberto Vaglio e il professore in chirurgia Carmine Chiumarulo, hanno illustrato nella camera di consiglio dell’udienza preliminare che vede come imputati i tre maggiorenni della banda degli orfanelli di Manduria accusati, insieme a sedici minori, di aver usato violenze fisiche e psichiche sul pensionato Antonio Cosimo Stano, morto per un ulcera gastrica sanguinante che per l’accusa è stata la conseguenza delle torture subite. I due de tre imputati presenti in aula, Gregorio Lamusta e Antonio Spadavecchia (assente Vincenzo Mazza), hanno ascoltato in silenzio il parere scientifico dei due specialisti da cui potrebbe dipendere l’esito del processo stesso. La brutta vicenda che ha sconvolto l’intero Paese le immagini registrate dagli stessi bulli che documentavano le continue e violentissime angherie sulla vittima indifesa e sola, è ferma ora su un punto: riconoscere o meno a carico degli imputati il reato di tortura che ai fini della pena prevede un aggravio sino a trent’anni di carcere. La lunga e dettagliata relazione dei due periti del gup, ha tracciato un quadro più chiaro, ma non ancora esaustivo, sulle cause di morte di Stano. Rispondendo alle domande specifiche poste loro dagli avvocati, dalla pubblica accusa e dalla stessa gup Gilli, i due esperti sono apparsi convinti che «dalle caratteristiche, intensità e durata degli eventi a cui Stano è stato sottoposto, lo stress può aver concorso a determinare la patologia ulcerosa o la sua riacutizzazione». Una tesi questa più vicina a quella del perito della pubblica accusa, il medico legale Liliana Innamorato, di Bari, secondo cui il decesso di Stano, dovuto alla perforazione di un’ulcera gastrica, sarebbe la concausa delle ripetute vessazioni e aggressioni fisiche e psicologiche (la tortura, appunto). Ben diversa da quella dei consulenti della difesa, Rosario Sacco, professore di chirurgia romano e Massimo Brunetti, medico legale. Per loro a determinare l’ulcera sarebbero stati fattori diversi come l’assunzione di farmaci o altre cause comunque non legate alle violenze subite. Con qualche dubbio su ciò che è avvenuto nei giorni di ricovero quando Stano è stato sottoposto a tre interventi chirurgici. Su questo punto anche i consulenti del gup hanno espresso delle «riserve in ordine all’operato dei medici del reparto di chirurgia – si legge nella perizia – finalizzato a diagnosticare e trattare le cause dell’anemizzazione acuta». La prossima udienza è fissata per il 16 marzo per la discussione delle parti. Il collegio difensivo impegnato oggi è composto dagli avvocati Franz Pesare, Armando Pasanisi, Cosimo Micera, Lorenzo Bullo, Gaetano Vitale e Massimiliano Mero. La pubblica accusa è invece rappresentata dal sostituto procuratore della repubblica, Remo Epifani.

Caso Stano, niente carcere né processo per i minori del branco. Decisa la messa alla prova per tutti. La Voce di Manduria martedì 28 gennaio 2020. Nessuno degli «orfanelli» coinvolti nell’inchiesta nata dalla morte di Antonio Cosimo Stano, il 66enne manduriano vittima di bullismo, tornerà in carcere, né subirà un processo. Per gli undici alla sbarra ieri (altri due avevano già ottenuto la stessa opportunità), il presidente del Tribunale dei minorenni di Taranto, Bina Santella, ha accolto la richiesta della difesa e del pubblico ministero, Pina Montanaro, procuratore della Repubblica dei minorenni, di sospensione del processo con la messa alla prova dei servizi sociali per periodi che vanno dai due anni e quattro mesi ai tre anni. Al termine del periodo di sospensione, in caso di esito positivo della prova il reato si cancella.

Manduria, messa alla prova per gli imputati al processo di Stano. Si tratta di undici giovanissimi che non finiranno né sotto processo né in carcere. Emanuela Carucci, Mercoledì 29/01/2020, su Il Giornale. Nessuno dei giovani coinvolti nell'inchiesta sulla morte di Antonio Cosimo Stano, tornerà in carcere, nè subirà un processo. È quanto deciso dal presidente del tribunale per i minori di Taranto, Bina Santella, che ha concesso la messa alla prova per periodi compresi tra i due anni e i tre anni (in base alla gravità delle accuse) agli undici minorenni giudicati con il rito abbreviato. La messa alla prova è l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità gratuito in favore della collettività e l’attuazione di condotte riparative che servono ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato; e, ancora, può prevedere anche il risarcimento del danno cagionato. Il provvedimento emesso riguarda anche l'unico imputato, un 17enne, per il quale il procuratore del tribunale dei minori di Taranto, Antonella Montanaro, si era opposto alla messa alla prova, evidenziando la sua "indole violenta". Il 5 maggio prossimo avverrà, poi, la verifica della messa in prova per gli imputati. Le accuse contestate alla baby gang per la morte di Stano sono tortura aggravata dalla sopraggiunta morte, lesioni personali, percosse, molestie, furto, sequestro di persona e violazione di domicilio. Alcuni imputati rispondono, infine, di aggressione ai danni di una seconda vittima, un 53enne affetto da disagio psichico, omonimo di Antonio. Antonio Cosimo Stano, aveva 66 anni ed era pensionato. Viveva da solo a Manduria e morì il 23 aprile dello scorso anno dopo una serie di aggressioni da parte di gruppi di giovani del posto che poi condividevano i video su alcune chat di whatsapp. Solitudine da un lato ed un uso distorto del web dall'altro furono le concause che portarono alla morte di Antonio. Tutti gli imputati hanno un'età compresa tra i 16 e i 17 anni. Sputi, calci, bestemmie, insulti è quello che l'anziano dovette subire da parte della baby gang. Il procuratore capo della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, definì il gruppo "Microcriminali organizzati". Tanti i video e gli audio che furono condivisi in particolare in una chat di whatsapp denominata la "Comitiva di Orfanelli". Dagli aggressori Antonio Stano veniva chiamato "il pazzo". Pazzo, però, Antonio non era. Ha lavorato tutta la vita all'Arsenale della Marina Militare di Taranto. Una volta in pensione, nel 2005, gli erano stati diagnosticati alcuni problemi psichici come ansia e depressione. Probabilmente dovuti allo stato di solitudine in cui l'uomo viveva e che, senza l'impegno del lavoro, si erano accentuati. D'altronde è stata proprio la sua solitudine a portarlo alla morte. Antonio non aveva nessun parente vicino e anche i suoi concittadini certo non gli sono stati accanto pur sapendo di essere solo e di essere stato preso di mira da una baby gang.

Manduria, anziano pestato a morte: messa alla prova per altri 11 minori. Il provvedimento riguarda anche l’unico imputato - 17enne - per il quale il procuratore per i minori Antonella Montanaro si era opposto alla messa alla prova. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2020. Il presidente del Tribunale per i minori di Taranto Bina Santella ha concesso la messa alla prova per periodi tra i due anni e i tre anni (in base alla gravità delle accuse) ad 11 minorenni, giudicati con il rito abbreviato, coinvolti nell’inchiesta sulla morte di Antonio Cosimo Stano, il pensionato di 66 anni di Manduria deceduto il 23 aprile del 2019 dopo una serie di aggressioni da parte di più gruppi di giovani che poi postavano i video sulle chat di whatsapp. Il provvedimento riguarda anche l’unico imputato - 17enne - per il quale il procuratore per i minori Antonella Montanaro si era opposto alla messa alla prova, evidenziando la sua «indole violenta». Se il percorso di attività di utilità sociale, sotto la supervisione dell’amministrazione giudiziaria, avrà esito positivo (una prima udienza di verifica è prevista per il 5 maggio prossimo), il reato sarà giudicato estinto, altrimenti il processo si riaprirà. Era già stata concessa la messa alla prova ad altri due minorenni (uno a due anni e due mesi, l’altro a due anni e sei mesi) processati con rito ordinario, mentre tre maggiorenni vengono giudicati con il rito abbreviato dal gup Vilma Gilli, che ha affidato una perizia per stabilire l'eventuale nesso tra la morte di Stano e le aggressioni subite. Le accuse contestate sono tortura aggravata dalla sopraggiunta morte, lesioni personali, percosse, molestie, furto, sequestro di persona e violazione di domicilio. Alcuni imputati rispondevano anche di aggressione a una seconda vittima, un 53enne affetto da disagio psichico.

Tappa decisiva quella di oggi per il processo che vede alla sbarra i tre manduriani, Gregorio Lamusta, Antonio Spadavecchia e Vincenzo Mazza. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 15 maggio 2020. Tappa decisiva quella di oggi per il processo che vede alla sbarra i tre manduriani, Gregorio Lamusta, Antonio Spadavecchia e Vincenzo Mazza, tra 19 e 23 anni, componenti della «banda degli orfanelli», sedici giovanissimi in tutto con 13 minori, accusati di aver vessato, sino alla tortura psicologica e fisica, il 66enne manduriano Cosimo Antonio Stano, morto il 23 aprile dello scorso anno - secondo l’accusa per gli abusi subiti -, dopo un lungo periodo di ricovero in ospedale. Nell’udienza odierna che si svolge a porte chiuse davanti al gup Vilma Gilli (il procedimento si svolge con il rito abbreviato), è prevista la discussione del collegio difensivo composto Gaetano Vitale, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo e Franz Pesare. Gli avvocati dovranno provare l’innocenza dei rispettivi assistiti partendo da una pesante richiesta di venti anni di pena proposta dalla pubblica accusa rappresentata dal pubblico ministero Remo Epifani. I tre rispondono di violazione di domicilio, lesioni personali, percosse, molestie, furto, sequestro di persona e tortura aggravata dalla sopraggiunta morte. Quest’ultimo reato, soprattutto, prevede una pena di trent’anni, completamente riconosciuta dal piemme, ridotta a venti per lo sconto previsto dal rito alternativo scelto. Codice e perizia medico legale nelle mani, gli sforzi degli avvocati oggi saranno quasi tutti incentrati a demolire la contestazione del reato del 613 bis sulla tortura, aggravata dal quinto comma che recita: «Se dai fatti di cui al primo comma, deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta». Secondo la perizia del medico legale della pubblica accusa, confermata dal parere degli specialisti incaricati dalla gup Gilli, l’ulcera emorragica gastrica che ha causato la morte di Stano è stata la conseguenza dei continui soprusi, insulti e aggressioni del branco che si divertiva a registrare sui telefonini le scene terribili che facevano poi girare sui social. A questa «diagnosi» si oppone la perizia di parte che la difesa ha affidato al medico legale Massimo Brunetti e al chirurgo Rosario Sacco. Secondo i due specialisti, l’ulcera sarebbe stata la conseguenza di una cattiva alimentazione o del cattivo uso di farmaci che l'uomo si autosomministrava senza consultare il suo medico curante il quale, ascoltato dagli inquirenti, ha dichiarato di non aver mai visto nel suo ambulatorio. Nella loro relazione, i due medici ipotizzano procedure mediche non adeguate nel corso del ricovero di Stano all’ospedale Giannuzzi di Manduria. La giudice Gilli che nel frattempo è stata trasferita al Tribunale di Brindisi, sarebbe orientata a chiudere tutto entro la fine del mese. I tre imputati nel frattempo sono sottoposti agli arresti domiciliari. Nazareno Dinoi

Gli “orfanelli" rischiano 20 anni, la sentenza a fine mese. Nella sua requisitoria, il pubblico ministero, Remo Epifani, ha ripercorso l’inquietante vicenda che ha portato alla sbarra in tutto 16 ragazzi, tre maggiorenni e tredici minorenni (questi ultimi già giudicati con l'affidamento. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 09 maggio 2020. Il pubblico ministero Remo Epifani, ha chiesto vent’anni di reclusione per i tre manduriani, Gregorio Lamusta, Antonio Spadavecchia e Vincenzo Mazza, tutti maggiorenni, imputati nel processo sulla morte del 66enne manduriano, Antonio Cosimo Stano, vittima di bullismo. Nella sua requisitoria, il pubblico ministero, Remo Epifani, ha ripercorso l’inquietante vicenda che ha portato alla sbarra in tutto 16 ragazzi, tre maggiorenni e tredici minorenni (questi ultimi già giudicati con l'affidamento alla prova dei servizi sociali per un periodo tra un anno e mezzo e tre anni) e che ha fatto parlare l’Italia intera per la crudeltà dei video che riprendevano le violenze subite da due pensionati invalidi, uno dei quali, Stano, è deceduto per un’ulcera perforata. Il pm ha puntato tutto sulla perizia dei consulenti della giudice delle udienze preliminari, il medico legale Roberto Vaglio e chirurgo Carmine Chiumarulo, secondo i quali la vittima sarebbe sicuramente guarito dall’ulcera se non fosse stato costretto all’isolamento sociale e sanitario, sino alla denutrizione, per evitare gli attacchi del branco. Il pm non ha risparmiato accuse di omertà dei vicini di Stano e più in generale di tutti coloro che «hanno girato la testa dall’altra parte». Sempre riferito al pensionato che ha perso la vita dopo un periodo di ricovero in ospedale, dove era arrivato in condizioni disperate grazie alla polizia che lo aveva quasi costretto a ricoverarsi, il pubblico ministero non ha avuto dubbi nel dire che «senza quelle torture, il signor Stano avrebbe continuato ad avere la sua vita solitaria ma serena e sicuramente sarebbe riuscito a guarire dall’ulcera». L’accusa ha poi citato il contenuto del codice che stabilisce la pena per chi commette atti di violenza «agendo con crudeltà, provocando sofferenze fisiche e trauma psichico ad una persona in condizioni di minorata difesa provocando la morte», chiedendo per questo l’applicazione, per tutti tre gli imputati, della reclusione a trent’anni di carcere che scendono a venti per il rito alternativo scelto. L’udienza di ieri è stata anche dedicata alle parti civili con gli avvocati Giuseppe Brunetti e Mariliano Stano che rappresentano i familiari di Stano e dell’altro disabile vessato dal gruppo dei cosiddetti «orfanelli», così come i bulli si facevano chiamare nelle chat in cui facevano girare i video delle loro bravate. I due avvocati hanno fatto notare come la scelta delle vittime veniva fatta confidando sul loro stato psichico non gli permetteva di avere un dialogo aperto con i rispettivi familiari. Al termine degli interventi, il gup Vilma Gilli ha rinviato al prossimo 15 maggio l’udienza che sarà dedicata alla difesa composta dagli avvocati Gaetano Vitale, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo e Franz Pesare. I legali che a loro volta hanno presentato l’esito di una perizia di parte, realizzata dai medici Rosario Sacco e Massimo Brunetti. Lo studio sostiene l’assenza di collegamento tra le violenze subite e la causa che ha determinato il decesso di Stano aprendo, su questo, una possibile responsabilità a carico dei medici che lo hanno tenuto in cura durante il ricovero. L’obiettivo del collegio difensivo è quello di far cadere perlomeno il reato di tortura quale causa delle vessazioni che da solo comporta la condanna a trent’anni di reclusione. La sentenza è attesa per il prossimo 22 maggio.

Manduria, pensionato ucciso da un gruppo di giovani: tre condannati. Escluso il reato di tortura. Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 su La Repubblica.it. Il gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli ha condannato a 10 anni di reclusione un 19enne e un 23enne e a 8 anni e 8 mesi un 23enne di Manduria accusati di aver partecipato alle aggressioni ai danni del 66enne pensionato di Manduria Cosimo Antonio Stano, morto il 23 aprile del 2019. Per quanto riguarda il reato di tortura contestato ai tre imputati, attualmente agli arresti domiciliari, è caduta l'aggravante della sopraggiunta morte della vittima. Gregorio Lamusta e Antonio Spadavecchia  sono stati condannati a 10 anni a testa, Vincenzo Mazza a 8 anni e 8 mesi. La condanna è dimezzata rispetto alle richieste fatte dal pm Remo Epifani nell'udienza svoltasi ai primi di maggio. L'accusa aveva infatti chiesto la condanna a 20 anni ciascuno proprio perché si era fatto riferimento al reato di tortura. Il medico legale Roberto Vaglio e il professor Carmine Chiumarulo dell'Università di Bari, periti nominati dal gup, avevano invece sostenuto nella loro relazione che lo stress per le ripetute aggressioni subite nel corso degli anni poteva essere considerato una concausa dell'ulcera gastrica perforante che portò al decesso del pensionato. I tre giovani sono stati assolti inoltre dal reato di sequestro di persona. Il pubblico ministero Remo Epifani aveva chiesto per tutti la condanna a 20 anni di reclusione. A vario titolo erano contestati anche i reati di lesioni personali, percosse, molestie, furto e violazione di domicilio. Per i 13 minorenni coinvolti nelle violenze, con altri procedimenti era già stato concesso il beneficio della messa alla prova con la sospensione del processo. Stano, stando a quanto emerso dalle indagini, fu sottoposto a ogni genere di angheria da più gruppi di giovani che poi postavano i video sulle chat di whatsapp.

Anziano torturato a morte Condanna con lo sconto per i tre della baby gang. Il pm aveva chiesto vent'anni a testa, il massimo della pena. Ma è stata dimezzata. Stefano Vladovich, Sabato 30/05/2020 su Il Giornale. Picchiato, vessato, deriso. L'hanno torturato per mesi, filmato e poi postato i video delle violenze sulle chat. Aggressioni che hanno portato alla morte un disabile psichico di Manduria (Taranto), deceduto il 23 aprile 2019 per un'ulcera gastrica perforante. Condannati a pene che vanno dagli otto ai dieci anni tre componenti della «banda degli orfanelli», da un anno agli arresti domiciliari con le pesanti accuse di tortura aggravata dalla sopraggiunta morte, lesioni personali, percosse, molestie, furto, sequestro di persona e violazione di domicilio. Il gup di Taranto Vilma Gilli, al termine del primo grado di giudizio, con rito abbreviato, ha inflitto dieci anni a testa a Gregorio Lamusta e Antonio Spadavecchia, di 19 e 23 anni, e otto anni e otto mesi di carcere a Vincenzo Mazza, 23 anni. Vittima della gang composta da 16 minori e 3 maggiorenni Cosimo Antonio Stano, 66 anni, pensionato costretto a subire gli assalti quotidiani dei «bulli» all'interno della propria abitazione. Per i tre il pm Remo Epifani, nell'udienza ai primi di maggio, ha chiesto vent'anni di reclusione per una serie di reati aggravati dalla tortura. Il giudice, ribadendo che a provocare l'ulcera sanguinante e la morte siano state le violenze inflitte dai tre, ha respinto le accuse di sequestro di persona e l'aggravante della tortura. Per gli altri responsabili, i 16 minorenni, il Tribunale dei Minori in un altro procedimento ha concesso il beneficio della messa alla prova con la sospensione del processo. I legali dei tre, gli avvocati difensori Armando Pasanisi, Franz Pesare, Lorenzo Bullo e Gaetano Vitale, sarebbero pronti al ricorso in appello. Determinante la perizia disposta dal gup Gilli al medico legale Roberto Vaglio e al professore in chirurgia Carmine Chiumarulo dell'Università di Bari. Nella loro relazione gli esperti sostengono con fermezza che lo stress subito e provocato per le aggressione ripetute nel corso del tempo da Stano sarebbe la concausa dell'ulcera gastrica che ha ucciso il sessantenne. In particolare i periti sottolineano: «La paura di subire vessazioni, angherie e aggressioni - scrivono - aveva portato il paziente a non uscire di casa per fare la spesa e, quindi, a non alimentarsi nella settimana precedente al ricovero. Tale situazione determinò, con elevata probabilità, un ritardo nel ricorso alle cure sanitarie e, conseguentemente, un ritardo nella diagnosi della complicanza dell'ulcera duodenale». Insomma, secondo la ricostruzione degli inquirenti l'uomo era sottoposto ad angherie di ogni genere da più gruppi di giovani che filmavano ogni azione e la postavano poi su gruppi di amici WhatsApp e su altri social. Più violente erano le incursioni, più aumentavano le visualizzazioni. Gli investigatori, durante le indagini che hanno portato al fermo dei tre, hanno sequestrato foto e video che non lasciano dubbi sulle aggressioni. Materiale messo agli atti, estratto soprattutto dai telefoni cellulari degli imputati, in particolare sulla chat chiamata «gli orfanelli», in riferimento a un vecchio film. O per la mancanza di guide morali, di sani principi. Di fatto i tre, assieme agli altri ragazzi, avevano preso di mira Stano, conosciuto in paese come «Cosimo il matto». Una persona malata e indifesa: gravi disturbi psichici, disagi esistenziali per i medici che l'hanno avuto in cura. Il Comune di Manduria non si è costituito parte civile nel processo perché sciolto per mafia e commissariato.

Non saranno le tre condanne inflitte ieri ai maggiorenni coinvolti nell'inchiesta a rispondere alle richieste di aiuto del povero Antonio Stano, il pensionato di Manduria morto poco più di un anno fa. Mimmo Mazza il 30 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non saranno le tre condanne inflitte ieri ai maggiorenni coinvolti nell'inchiesta a rispondere alle richieste di aiuto del povero Antonio Stano, il pensionato di Manduria morto poco più di un anno fa, dopo 18 giorni di ricovero nell’ospedale di Manduria e anni di angherie e sopraffazioni. D'altronde il dispositivo della sentenza, ad una prima e inevitabilmente frettolosa lettura, non sembra destinato a fare chiarezza sugli esatti contorni della vicenda, giacché il giudice, pur riconoscendo l'agghiacciante reato di tortura, ha fatto cadere l'aggravante che dalla tortura sia scaturita la morte dell'uomo, assolvendo poi gli imputati dal sequestro di persona. Perché quella giunta al capolinea del primo grado, è comunque una vicenda giudiziaria tutt'altro che univoca. Con diversi attori che si sono alternati sulla scena e tanti altri spettatori che invece hanno preferito voltarsi dall'altra parte.

Nessun verdetto giudiziario, d'altronde, potrà mai obliterare le immagini di ragazzini, vestiti con abiti griffati, che a turno si accaniscono contro Stano, lo picchiano per strada, con lui che urla, grida, cerca aiuto, chiamando ad alta voce, «Polizia» «Carabinieri», e poi lo inseguono fin dentro la sua abitazione, armati di bastone e con il volto coperto da sciarpe. Lo spettacolo osceno dei video delle scorribande della banda degli orfanelli, come si facevano chiamare gli aguzzini di Manduria, mandati in onda e online ovunque, ha aggiunto alla morte di Stano una agiografia delle baby gang della quale non si sentiva il bisogno e che, infrangendo regole deontologiche, penali e morali ormai buone solo per qualche convegno o per qualche sermone, continua a tirare in ballo lo Stato, le forze dell’ordine, qualcuno con l’autorità necessaria per fermare tutto ciò, per dare un esito diverso ad una storia che per troppo tempo è andata avanti ed è stata tollerata, forse persino sopportata da chi non riusciva a dormire per quelle urla, per quegli appelli secchi, senza uno straccio di risposta. Al di là di ogni verdetto giudiziario, l’invocazione di «Polizia» «Carabinieri» resterà a lungo nella testa di chi non ha mai sentito parlare, né tantomeno conosceva il povero pensionato dell’Arsenale Militare di Taranto, e ha avuto la possibilità di conoscerlo così, indifeso, inerme, aggredito da baby-delinquenti pronti a tutto, a picchiarlo e ridere subito dopo, di smartphone muniti, per immortalare gesta che prima li hanno condotti agli arresti e, solo nel caso dei tre maggiorenni coinvolti, dinanzi ad un giudice, visto che i minorenni hanno chiesto e ottenuto il beneficio della messa alla prova, sperando che l'istituto processuale produca i benefici attesi, renda adulti perbene e a modo, minori altrimenti terribili, finiti nelle maglie della giustizia per condotte molto gravi. Non saranno le condanne di ieri a riportare in vita Antonio Stano, né possono bastare sentenze e manette a risolvere problemi che vanno oltre la fase prettamente repressiva, affidata alla magistratura, ma che richiedono uno sforzo di prevenzione che nel caso di Manduria pare non esserci proprio stato. Quando un cittadino inerme, impaurito, ferito, urla «Polizia» «Carabinieri», servono risposte, immediate e ferme. Prima che sia troppo tardi.

Comune allo sbando: Igeco interdetta per mafia continua a gestire il servizio senza commissario. Ieri, lunedì 13 gennaio, la doccia fredda quando si è scoperto che la procedura non era affatto corretta o, comunque, non era possibile fare perché nel frattempo il commissario prefettizio aveva...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 14 gennaio 2020. C’è nervosismo in alcune stanze del comune di Manduria per un inconveniente che crea imbarazzo tra chi amministra la città. È successo che alla scadenza del periodo di commissariamento della Igeco, società interdetta per mafia dalla Prefettura romana e nonostante tutto titolare del servizio di raccolta differenziata e conferimento della spazzatura, il comune di Manduria, o chi per lui, non ha ancora trovato un altro soggetto a cui affidare tale servizio. Per cui, dall’undici gennaio scorso, la società interdetta continuerà a svolgere il servizio sino a data da definire. Tutto sembrava risolto sabato scorso quando, lo stesso giorno in cui scadeva il decreto prefettizio della Città di Roma, uno dei tre commissari straordinari del comune di Manduria firmava un’ordinanza contingibile e urgente con la quale ordinava alla Igeco la prosecuzione del servizio «sotto la straordinaria e temporanea gestione» del commissario Massimo Varazzani già incaricato dal prefetto di Roma ad amministrare la Igeco, «sino al 31 gennaio 2020 al fine – si legge – di individuare nuovo gestore». Ieri, lunedì 13 gennaio, la doccia fredda quando si è scoperto che la procedura non era affatto corretta o, comunque, non era possibile fare perché nel frattempo il commissario prefettizio aveva terminato l’incarico conferitogli dalla prefettura romana senza più proroghe. Così, ieri, in tutta fretta, la commissione straordinaria del comune ha dovuto emanare una seconda ordinanza contingibile e urgente che revoca la precedente. Nel frattempo il comune di Manduria si trova a gestire una patata che scotta con un servizio, quello della raccolta rifiuti, che non può assolutamente sospendere e una ditta interdetta per mafia a cui dovrà necessariamente prorogare il servizio senza più “l’ombrello” del commissario prefettizio che ha terminato il suo compito. Una condizione singolare impossibile da ignorare: un comune sciolto per mafia e per questo commissariato (Manduria), che si trova a dover prorogare un servizio importante ad una società interdetta per mafia (Igeco). Sino a quando, non è dato sapere.

La mafia nel Palazzo, Manduria si scioglie. ​Il Comune di Manduria è il dodicesimo in Puglia ad essere sciolto per infiltrazioni mafiose. La decisione, non certo inaspettata per i manduriani..., scrive Nazareno Dinoi venerdì 27 aprile 2018 su "La Voce di Manduria". Il Comune di Manduria è il dodicesimo in Puglia ad essere sciolto per infiltrazioni mafiose. La decisione, non certo inaspettata per i manduriani, è stata ratificata ieri dal Consiglio dei ministri che si è espresso su richiesta del ministro dell’Interno, Marco Minniti che a sua volta aveva ricevuto la proposta dal prefetto di Taranto Donato Giovanni Cafagna. Per tutti quanti l’input era arrivato dalla direzione distrettuale antimafia di Lecce che ha indagato per reati di mafia 74 persone - per tutti c’è la richiesta di giudizio -, tra cui due ex amministratori politici manduriani, un assessore e il presidente del Consiglio comunale. Il primo, tuttora in carcere, Massimiliano Rossano, è accusato di far parte di un’associazione si stampo mafioso; il secondo, Nicola Dimonopoli, libero, deve invece rispondere di scambio elettorale politico mafioso. L’ente Messapico che non andrà più al voto il prossimo 10 giugno, sarà retto da una commissione straordinaria per un periodo che andrà dai 12 ai 18 mesi prorogabili fino a 24. La commissione sarà composta da tre membri scelti tra funzionari dello Stato e tra magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa in servizio o in pensione e svolgerà le funzioni di sindaco, di giunta e di Consiglio comunale. La delibera di scioglimento approvata ieri dal governo sarà ora trasmessa al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per la ratifica e il successivo decreto che sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. In tale decreto, contro cui si potrà opporre ricorso davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, saranno allegate la proposta del Ministro dell’interno e la relazione del prefetto, salvo che il Consiglio dei ministri non abbia disposto di mantenere la riservatezza su parti della proposta o della relazione nei casi in cui lo ritenga strettamente necessario. Sempre lo stesso decreto conterrà i nomi degli amministratori pubblici ritenuti responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento. Costoro (e non tutti gli ex amministratori, consiglieri comunali o assessori), non si potranno ricandidare per una tornata successiva a quella fatta saltare. Singolare la coincidenza temporale della delibera del Consiglio dei ministri di ieri arrivata proprio alla vigilia dell’udienza preliminare prevista per oggi davanti al gup del Tribunale di Lecce in cui si dovrà discutere la posizione di diversi imputati dell’inchiesta «Impresa» che ha dato origine al provvedimento di scioglimento. La politica è ammutolita. Scomparsi dalla piazza e dai social gli ultimi amministratori, l’unico a maledire pubblicamente la decisione del governo è anche l’unico che aveva già in mano la candidatura a sindaco, il leader del movimento civico Manduria Noscia, Mimmo Breccia. Ieri ha riunito i suoi in una foto di gruppo scattata davanti al portone del municipio che poi ha fatto girare in rete con il post: «noi non siamo mafiosi». #iononsonomafioso era anche l’hashtag condiviso ieri tra molti cittadini manduriani a cui non va già il marchio di città mafiosa. Sei anni fa un altro accesso antimafia aveva fatto rischiare tanto. All’allora sindaco Paolo Tommasino andò bene perché il ministro archiviò il caso. Non si può dire altrettanto per il suo successore, Roberto Massafra che suo malgrado sarà ricordato come il sindaco che ha portato l’onta della mafia nella politica manduriana.

Cari amministratori, siete tutti coinvolti, continua Nazareno Dinoi. ​Piaccia o no, l’ex sindaco di Manduria, Roberto Massafra, ma anche i suoi assessori eletti e i consiglieri della sua maggioranza ...Piaccia o no, l’ex sindaco di Manduria, Roberto Massafra, ma anche i suoi assessori eletti e i consiglieri della sua maggioranza (praticamente tutti, ma proprio tutti per almeno una volta), saranno ricordati nella storia di Manduria come quelli che hanno portato l’onta della mafia nella politica. Politicamente parlando per alcuni (la maggioranza per fortuna), letteralmente per altri, se infiltrazione mafiosa c’è stata, i manduriani non potranno maledire se non loro. Magari dopo si scoprirà che non era vero niente e che tutti i 74 inquisiti sono innocenti. Può essere. E allora tutti malediremo la giustizia che non fa giustizia. Ma anche in quel caso, a meno di un improbabile ricorso al Tar che cancelli il decreto di scioglimento, i libri di storia locale continueranno ad accostare Roberto Massafra e la sua amministrazione, all’onta di oggi. A niente varranno le loro giustificazioni nel dire che non sono indagati e che sono moralmente e penalmente puliti. Ed è vero. E’ pur vero, però, che se condizionamento mafioso c’è stato nell’attività amministrativa, non si può nascondere il fatto che a quella amministrazione tutti si sono abbeverati. Chi per un posto in Consiglio, chi per un’alzata di mano e chi per un appoggio in giunta. E così via. Il sindaco più di tutti perchè, ripeto, se è vero, ad esempio, che c’è stato il voto di scambio, quel voto, proprio quel voto, uno o dieci o mille, è servito a farlo eleggere. E se è vero, come si legge nelle carte dell’inchiesta, che è stata la criminalità a decidere quale ruolo dovesse ricoprire un elemento della sua maggioranza, ripeto, della sua amministrazione, ecco che sarà ancora più difficile per lui allontanare dal suo nome la vergogna di oggi. Una sfortuna per lui, lo ammetto. Avesse fatto almeno qualcosa di buono per Manduria, un ricordo positivo, almeno uno, i Manduriani glielo avrebbero dedicato.

Il ministro dell’Interno al presidente della Repubblica (stralci): "Il comune di Manduria va sciolto". Le risultanze della menzionata indagine giudiziaria hanno inoltre evidenziato che ad un assessore comunale – che riveste un ruolo determinante all’interno dell’associazione criminale ed è indicato quale emissario locale capo mafia, scrive domenica 13 maggio 2018 La Voce di Manduria. Le risultanze della menzionata indagine giudiziaria hanno inoltre evidenziato che ad un assessore comunale – che riveste un ruolo determinante all’interno dell’associazione criminale ed è indicato quale emissario locale capo mafia – è riconosciuto il compito di garantire gli interessi della criminalità organizzata. Rilievi in parte analoghi sono emersi in relazione ad una vicenda di scambio elettorale politico mafioso che ha interessato un altro amministratore locale, per la cui elezione alla carica di presidente del Consiglio è intervenuto, in maniera decisiva, il citato personaggio apicale della locale cosca, minacciando gravi ripercussioni nei confronti degli altri consiglieri comunali qualora il “suo” candidato non fosse stato eletto presidente. Elementi univoci che attestano significativamente il grado di compromissione dell’azione amministrativa e le ingerenze esercitate da soggetti riconducibili ad ambienti controindicati sono emersi dall’esame della procedura di concorso per l’assegnazione Il comune di Manduria si colloca in un’area caratterizzata dalla storica presenza di organizzazioni criminali profondamente radicate e attive, tutte appartenenti alla sacra corona unita. La menzionata operazione di polizia giudiziaria ha messo in luce i metodi attraverso i quali agisce una nuova organizzazione criminale, anch’essa riconducibile alla sacra corona unita, che, attraverso estorsioni, voto di scambio elettorale politico mafioso, infiltrazioni nella gestione degli appalti pubblici nonché traffico e spaccio di stupefacenti si impone sull’imprenditoria, sui commerci e sulla politica locale. I lavori svolti dalla commissione d’indagine hanno preso in esame, oltre alla generale gestione dell’amministrazione comunale, la cornice criminale e il locale contesto ambientale, con particolare riguardo ai rapporti tra gli amministratori e le locali organizzazioni criminali ed hanno evidenziato come l’uso distorto della cosa pubblica si è concretizzato, nel tempo, nel favorire soggetti o imprese collegate, direttamente o indirettamente ad ambienti malavitosi, per l’esistenza di una fitta e intricata rete di cointeressenze, amicizie e frequentazioni che lega esponenti delle locali consorterie criminali a soggetti ad esse contigui agli amministratori locali alcuni dei quali, peraltro, gravati da pregiudizi penali o di polizia.

La relazione della commissione d’indagine, avvalendosi anche del materiale acquisito nel corso delle indagini esperite dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, pone in rilievo, dettagliatamente, il ruolo determinante esercitato nelle consultazioni amministrative del maggio 2013 della criminalità organizzata ed in particolare del locale capo della costa rivelatosi determinante per l’elezione di candidati riconducibili alla locale organizzazione criminale. Le risultanze della menzionata indagine giudiziaria hanno inoltre evidenziato che ad un assessore comunale – che riveste un ruolo determinante all’interno dell’associazione criminale ed è indicato quale emissario locale capo mafia – è riconosciuto il compito di garantire gli interessi della criminalità organizzata. Rilievi in parte analoghi sono emersi in relazione ad una vicenda di scambio elettorale politico mafioso che ha interessato un altro amministratore locale, per la cui elezione alla carica di presidente del Consiglio è intervenuto, in maniera decisiva, il citato personaggio apicale della locale cosca, minacciando gravi ripercussioni nei confronti degli altri consiglieri comunali qualora il “suo” candidato non fosse stato eletto presidente. Elementi univoci che attestano significativamente il grado di compromissione dell’azione amministrativa e le ingerenze esercitate da soggetti riconducibili ad ambienti controindicati sono emersi dall’esame della procedura di concorso per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare. Al riguardo è stato rilevato che il citato assessore ed altri amministratori comunali si sono adoperati per agevolare l’assegnazione di un alloggio ad un soggetto legato sentimentalmente ad un esponente della sacra corona unita. Altra vicenda sintomatica del condizionamento dell’attività amministrativa è quella concernente l’occupazione di suolo pubblico e l’installazione di strutture mobili da parte del titolare di un bar situato di fronte al palazzo municipale, ampiamente riportato nella relazione della commissione d’indagine che gli amministratori comunali e i dirigenti dei diversi settori amministrativi, pur a conoscenza delle strutture abusive antistanti il bar, hanno temporeggiato nel concludere le procedure autorizzative con provvedimenti di diniego, consentendo in tal modo il protrarsi, per un lungo arco di tempo, di una situazione di fatto palesemente illegale. Peraltro al predetto imprenditore, la giunta comunale, pur a fronte degli esistenti abusi, ha rassicurato il patrocinio dell’ente per un evento musicale nella stagione estiva. Le vicende analiticamente esaminate e dettagliatamente riferite nella relazione del prefetto di Taranto, hanno evidenziato una serie di condizionamenti nell’amministrazione comunale di Manduria, volti a perseguire fini diversi da quelli istituzionali che hanno determinato lo svilimento e la perdita di credibilità dell’istituzione locale e arrecando pregiudizio per gli interessi della collettività, rendendo necessario l’intervento dello stato al fine di assicurare il risanamento dell’ente.

Marco Minniti - Ministro dell’Interno. Al Presidente della Repubblica.

Il Comune di Manduria (Taranto), i cui organi elettivi sono stati rinnovati nelle consultazioni amministrative del 26 e 27 maggio 2013, presenta forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata che compromettono la libera   determinazione   e   l'imparzialità dell'amministrazione nonchè il buon andamento ed il funzionamento dei servizi con grave pregiudizio per l'ordine e la sicurezza pubblica.

All'esito di un'indagine di polizia giudiziaria   denominata «Impresa» coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, il giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, con ordinanza del 4 luglio 2017, ha disposto ventisette misure di custodia cautelare nei confronti di soggetti indagati, tra l'altro, per associazione di tipo mafioso, estorsione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti ed altri gravi reati. Tra i destinatari della menzionata misura cautelare figurano un consigliere del Comune di Manduria ed un assessore dello stesso ente successivamente dimessisi.

In relazione a tali vicende ed al fine di verificare la sussistenza di forme di condizionamento e di infiltrazione delle locali consorterie nell'amministrazione comunale, il prefetto di Taranto, con decreto del 23 agosto 2017, successivamente prorogato, ha disposto l'accesso presso il suddetto comune, ai sensi dell'art.143, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per gli accertamenti di rito. Successivamente, con decreto del Presidente della Repubblica del 17 ottobre 2017, a seguito delle dimissioni rassegnate da tredici consiglieri su ventiquattro assegnati all'ente, è stato disposto lo scioglimento dell'organo consiliare con contestuale nomina di un commissario straordinario per la provvisoria amministrazione del comune, ex art.  141, comma 1, lettera b), n.  3 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

Al termine dell'indagine  ispettiva,  la  commissione  incaricata dell'accesso  ha  depositato  le  proprie  conclusioni, sulle   cui risultanze il prefetto di Taranto, sentito nella seduta del 13  marzo 2018 il comitato provinciale per l'ordine e  la  sicurezza  pubblica, integrato con la  partecipazione  del  procuratore  della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di  Lecce  e  del  procuratore della  Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Taranto,  ha  trasmesso l'allegata relazione, che costituisce parte integrante della presente proposta, in cui si dà atto della sussistenza di concreti, univoci e rilevanti  elementi  su  collegamenti  diretti ed indiretti   degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso e su forme di condizionamento degli stessi, riscontrando, pertanto, i presupposti per l'applicazione delle misure di cui al citato art. 143 del decreto legislativo n. 267/2000.

Il Comune di Manduria si colloca in un'area caratterizzata dalla storica presenza di organizzazioni criminali profondamente radicate e attive, tutte appartenenti alla sacra corona unita.

La menzionata operazione giudiziaria ha messo in luce i metodi attraverso i quali agisce una nuova organizzazione   criminale, anch'essa riconducibile alla sacra corona unita, che, attraverso estorsioni, voto di scambio elettorale    politico-mafioso, infiltrazione nella gestione di appalti pubblici nonché traffico e spaccio di stupefacenti si impone sull'imprenditoria, sui commerci e sulla politica locale.

I lavori svolti  dalla  commissione  d'indagine  hanno  preso  in esame, oltre alla generale gestione dell'amministrazione comunale, la cornice criminale ed il locale contesto ambientale,  con  particolare riguardo  ai rapporti   tra   gli   amministratori   e   le   locali organizzazioni criminali ed hanno  evidenziato  come  l'uso distorto della cosa pubblica si è  concretizzato,  nel  tempo,  nel  favorire soggetti o imprese  collegati,  direttamente  od  indirettamente,  ad ambienti malavitosi, per l'esistenza di una fitta ed  intricata  rete di cointeressenze, amicizie e frequentazioni che lega esponenti delle locali  consorterie criminali  o  soggetti  ad  esse  contigui  agli amministratori  locali  alcuni  dei  quali,  peraltro,   gravati   da pregiudizi penali o di polizia.

La relazione della commissione d'indagine, avvalendosi anche del materiale acquisito nel corso delle indagini esperite dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, pone in rilievo, dettagliatamente, il ruolo determinante esercitato nelle consultazioni amministrative del maggio del 2013 dalla criminalità organizzata ed in particolare dal locale capo cosca rivelatosi determinante per l'elezione di candidati riconducibili alla locale organizzazione criminale.

La relazione del prefetto, nell'analizzare il profilo dei diversi amministratori comunali si sofferma sulla figura del sindaco in relazione al quale evidenzia che, fonti tecniche di prova, hanno rivelato  che  lo  stesso  ha  richiesto all'amministratore  di  una società aggiudicataria di un appalto di lavori  l'assunzione  di  un noto pregiudicato esponente della locale compagine mafiosa.

Le risultanze della menzionata indagine giudiziaria hanno inoltre evidenziato che ad un assessore comunale -  che riveste un ruolo rilevante all'interno dell'associazione criminale, ed è indicato quale emissario del locale capo mafia - è riconosciuto il compito di garantire gli interessi della criminalità organizzata.

Rilievi in parte analoghi sono emersi in relazione ad una vicenda di scambio elettorale politico-mafioso che ha interessato un altro amministratore locale, per la cui elezione alla carica di presidente del consiglio è intervenuto, in maniera decisiva, il   citato personaggio apicale della locale cosca, minacciando gravi ripercussioni nei confronti degli altri consiglieri comunali qualora il «suo» candidato non fosse stato eletto presidente.

Il condizionamento ambientale esercitato in quel territorio dalla criminalità organizzata è chiaramente evidente nella vicenda che ha interessato un altro consigliere  comunale,  coinvolto  nella  citata indagine giudiziaria per favoreggiamento personale il quale,  escusso dalla  polizia  giudiziaria,  non  ha  riferito  di  aver  subito  un tentativo di estorsione per furto di auto  per  il  quale  ha  invece dichiarato di avere chiesto aiuto, attraverso un suo familiare,  alla locale organizzazione criminale.

Elementi univoci che attestano significativamente il grado di compromissione dell'azione amministrativa e le ingerenze esercitate da soggetti riconducibili ad ambienti controindicati sono emersi dall'esame della procedura di concorso per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Al riguardo è stato rilevato   che   il   citato   assessore destinatario dell'ordinanza cautelare e altri amministratori comunali si sono adoperati per agevolare l'assegnazione di un alloggio ad un soggetto legato sentimentalmente ad un esponente della sacra corona unita.

La commissione d'indagine, anche sulla scorta delle ricostruzioni e delle imputazioni rilevate in sede penale, evidenzia che l'iter istruttorio della citata procedura di   assegnazione   è   stato caratterizzato da molteplici irritualità ed omissioni tutte volte, inequivocabilmente, a favorire la posizione del citato assegnatario.

Peraltro  l'amministrazione  comunale,  anche  dopo  l'intervento della Guardia di Finanza che evidenziava  irregolarità  ed  anomalie nella procedura in questione, tutte  finalizzate  ad  assicurare  una posizione utile in graduatoria alla menzionata assegnataria, ha  dato corso ad un irrituale riesame della sola  posizione  della  candidata riconducibile ad ambienti controindicati che, all'esito finale  della procedura,  risulterà   assegnataria dell'alloggio   di   edilizia residenziale pubblica.

Altra vicenda sintomatica del condizionamento dell'attività amministrativa è quella concernente l'occupazione di suolo pubblico e l'installazione di strutture mobili da parte del titolare un bar situato di fronte al palazzo municipale e destinatario   della menzionata ordinanza di custodia cautelare per il reato di cui all'art. 416-bis, in quanto facente parte di un’associazione di stampo mafioso.

Al riguardo fonti tecniche di prova documentano un incontro avvenuto all'interno della casa comunale tra il citato assessore, referente dell'associazione criminale, e il locale capo cosca, socio in affari del titolare del bar, a seguito del quale l'assessore rassicurava il menzionato imprenditore sul buon esito delle richieste di autorizzazione di occupazione di suolo pubblico.

Viene ampiamente  riportato  nella  relazione  della  commissione d'indagine che gli amministratori comunali e i dirigenti dei  diversi settori amministrativi, pur  a  conoscenza  delle  strutture  abusive antistanti il citato bar, realizzate su suolo pubblico e peraltro ben visibili,   hanno   temporeggiato   nel   concludere   le   procedure autorizzative con provvedimenti di diniego, consentendo in  tal  modo il protrarsi, per un lungo arco di tempo, di una situazione di  fatto palesemente illegale.

Peraltro, al predetto imprenditore la giunta comunale, pur a fronte degli esistenti abusi, ha assicurato il patrocinio dell'ente per un evento musicale nella stagione estiva.

Solo nel mese di agosto 2017 e dopo l'esecuzione delle misure cautelari, a seguito di una segnalazione del comando dei Carabinieri sezione tutela del patrimonio culturale -  con la quale veniva riscontrata la mancanza di qualsiasi autorizzazione di occupazione di suolo pubblico - veniva ordinata dall'ufficio attività produttive del comune l'immediata rimozione delle strutture abusive.

Elementi univoci che delineano il  quadro  di  un'amministrazione pervicacemente  gestita  nel  mancato  rispetto  del   principio   di legalità sono rinvenibili in alcune vicende  che  hanno  interessato l'organizzazione della  manifestazione  denominata  «Fiera  Pessima», mostra campionaria che nel  corso  degli  anni  ha  assunto  notevole importanza in ambito nazionale ed alla quale  partecipano  circa  300 espositori   provenienti   prevalentemente   dalle   regioni centro meridionali.

In tale ambito, al più volte menzionato assessore è stato contestato il reato di estorsione in quanto, unitamente al citato capo cosca, costringeva, minacciando ritorsioni, il titolare della ditta al quale era stato affidato l'incarico   di   organizzare l'edizione 2013 della citata fiera a versare in suo favore l'importo di 15.000 euro.

La commissione d'indagine evidenzia altresì che la   ditta affidataria della gara d'appalto per l'organizzazione della fiera per l'anno 2014 aveva prodotto falsa documentazione attestante   il possesso dei requisiti professionali richiesti dal bando di gara, vicenda per la quale il titolare della menzionata impresa ha ricevuto un avviso di garanzia.

L'amministrazione comunale, nonostante le descritte vicende, ha conferito in affidamento diretto alla predetta impresa l'incarico di organizzare la manifestazione in questione anche per gli anni 2015, 2016 e 2017.

Le vicende analiticamente esaminate e  dettagliatamente  riferite nella relazione del prefetto di Taranto hanno evidenziato  una  serie di condizionamenti nell'amministrazione comunale di Manduria, volti a perseguire fini diversi da quelli istituzionali che hanno determinato lo svilimento e la perdita di credibilità dell'istituzione locale  e arrecato pregiudizio per gli interessi della collettività,  rendendo necessario  l'intervento  dello  Stato  al  fine  di  assicurare   il risanamento dell'ente.

Sebbene il processo di legalizzazione dell'attività del comune sia già iniziato attraverso la gestione provvisoria dell'ente affidata al commissario straordinario, ai sensi dell'art.  141 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267, in considerazione dei fatti suesposti e per garantire l'affrancamento dalle influenze della criminalità, si ritiene, comunque, necessaria la nomina della commissione straordinaria di cui all'art. 144 dello stesso decreto legislativo, anche per scongiurare il pericolo che la capacità pervasiva delle organizzazioni criminali possa ancora esprimersi in occasione delle prossime consultazioni elettorali.

L'arco temporale più lungo previsto dalla vigente normativa per la gestione straordinaria consente inoltre l'avvio di iniziative e di interventi programmatori che, più incisivamente, favoriscono il risanamento dell'ente.

Rilevato che, per le caratteristiche che lo configurano, il provvedimento dissolutorio previsto dall'art.  143  del  decreto legislativo citato, può intervenire  anche  quando  sia  stato  già disposto lo scioglimento  per  altra  causa, differenziandosene per funzioni ed effetti, si propone l'adozione della misura di rigore nei confronti del  Comune  di  Manduria   (Taranto),   con   conseguente affidamento  della  gestione dell'ente  locale  ad  una  commissione straordinaria cui, in virtu' dei successivi articoli 144 e 145,  sono attribuite specifiche competenze  e  metodologie   di   intervento finalizzate  a  garantire,  nel  tempo,  la  rispondenza  dell'azione amministrativa alle esigenze della collettività.

In relazione alla presenza ed all'estensione dell'influenza criminale, si rende necessario che la durata della gestione commissariale sia determinata in diciotto mesi.

Roma, 23 aprile 2018 Il Ministro dell'interno: Minniti

Nella relazione di Minniti spunta il nome del sindaco. L’episodio che colpisce più di tutti è quello che chiama in causa l’ex primo cittadino il cui nome è finito in una intercettazione telefonica dai contenuti che il ministro Minniti descrive molto bene nel suo rapporto, scrive domenica 13 maggio 2018 Nazareno Dinoi su "La Voce di Manduria". Alla vigilia dell’insediamento dei tre commissari che da domani, lunedì 14 maggio, dovranno amministrare la città di Manduria dopo lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose (organo già decaduto per ragioni politiche), la relazione del ministro dell’Interno Marco Minniti allegata al decreto di scioglimento firmato dal presidente della Repubblica, è una mannaia che non risparmia nessuno, neanche l’ex sindaco Roberto Massafra il cui nome non era mai comparso nelle carte pubbliche dell’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Lecce. Come non erano emerse le gravi responsabilità, riconosciuto invece nella relazione del ministro, a carico di chi in questi ultimi anni ha gestito la cosa pubblica non da politico ma in funzione di incarichi di dirigenza di settori vitali della macchina amministrativa. Con accuse, nei loro confronti, di aver chiuso più di un occhio di fronte ad espliciti abusi da parte di esponenti della malavita. Si parla di occupazione di suolo pubblico abusivo lasciato impunito per troppo tempo. Ma l’episodio che colpisce più di tutti è quello che chiama in causa l’ex primo cittadino il cui nome è finito in una intercettazione telefonica dai contenuti che il ministro Minniti descrive molto bene nel suo rapporto. «La relazione del prefetto – si legge - nell’analizzare il profilo dei diversi amministratori comunali, si sofferma sulla figura del sindaco in relazione al quale evidenzia che, fonti tecniche di prova, hanno rivelato che lo stesso ha richiesto all’amministratore di una società aggiudicataria di un appalto di lavori l’assunzione di un noto pregiudicato esponente della locale compagine mafiosa». Questi ed altri episodi raccontati dal ministro nel suo rapporto, «compromettono la libera determinazione e l’imparzialità dell’amministrazione nonché il buon andamento e il funzionamento dei servizi con grave pregiudizio per l’ordine e la sicurezza pubblica». Accuse gravi che lo diventano ancora di più quando si scende in altri particolari, anche questi contenuti nelle pagine della relazione ministeriale. E si torna a parlare della Fiera Pessima come risultato di «un’amministrazione pervicacemente gestita nel mancato rispetto del principio di legalità». Nel descrivere il ruolo in tale ambito dell’ex assessore arrestato, Massimiliano Rossano, le cui accuse sono ben delineate nel processo in corso a suo carico, Minniti ricorda l’episodio della ditta che aveva vinto l’appalto della campionaria nell’edizione 2014 in virtù di falsa documentazione che attestava il possesso dei requisiti richiesti nel bando (La Rtt Service, NdR) e che per questo indagata aveva poi ricevuto il rinvio a giudizio. «L’amministrazione comunale – fa notare con meraviglia il ministro dell’Interno – nonostante le descritte vicende, ha conferito in affidamento diretto alla predetta impresa l’incarico di organizzare la manifestazione in questione anche per gli anni 2015, 2016 e 2017». Questi ed altri episodi come quello dell’elezione del presidente del Consiglio sponsorizzata dal boss locale della sacra corona unita («è intervenuto, in maniera decisiva – si legge nella relazione -, minacciando gravi ripercussioni nei confronti degli altri consiglieri comunali qualora il “suo” candidato non fosse stato eletto presidente»), hanno contribuito allo scioglimento del comune dove si ritornerà a votare tra almeno due anni.

«Il sindaco lo ha raccomandato», ecco la “fonte di prova” su Massafra. Salvo altre non ancora note «fonti tecniche di prova», come le definisce nella sua relazione il ministro dell’Interno quando si sofferma sulla figura del sindaco Roberto Massafra, a cui addebita..., scrive Nazareno Dinoi sabato 19 maggio 2018 su "La Voce di Manduria". Salvo altre non ancora note «fonti tecniche di prova», come le definisce nella sua relazione il ministro dell’Interno quando si sofferma sulla figura del sindaco Roberto Massafra (a cui addebita l’aver «chiesto all’amministratore di una società aggiudicataria di un appalto di lavori l’assunzione di un noto pregiudicato esponente della locale compagine mafiosa»), nella voluminosa documentazione dell’inchiesta «Impresa», quella che ha portato allo scioglimento del Comune di Manduria per infiltrazioni mafiose, c’è la trascrizione di una intercettazione ambientale in cui si fa riferimento all’argomento citato dal ministro. In questo caso, però, a parlare non è l’ex sindaco Massafra come farebbe supporre l’accusa di Minniti, ma altre persone, una delle quali indagata e pertanto sottoposta a controllo con «fonte tecnica». Era il 21 gennaio del 2016. Una donna si trova in macchina ed aspetta il marito (indagato). I due uomini si avvicinano all’auto mentre parlano. La cimice che gli agenti della squadra mobile di Taranto hanno montato sull’autovettura, capta la voce di un uomo che dice: «…ora sto venendo… sto venendo da sopra il comune». La donna saluta. L’altro le risponde e prosegue la frase: «buongiorno, ho parlato per il fatto di tuo figlio». (Evidentemente questa persona - che non è un politico - era stato invitato dalla coppia a trovare un lavoro per il loro figlio). La donna gli chiede: «beh, che ha detto?»; l’interlocutore dopo uno scambio di battute non risponde subito alla domanda: «Meh, hai capito cosa hanno fatto, chi hanno messo?»; la donna lo incalza: «Chi hanno messo?». Interviene il marito indagato: «il coso… il figlio di… il genero di compare ………. come guardiano». La donna fa il nome: «Chi? (Tizio?)»; il marito conferma: «Si, Tizio, detto (soprannome)». La persona, indicata come “raccomandata” del sindaco, è un noto pregiudicato finito anche lui tra gli indagati dell’inchiesta dell’antimafia. Interviene ancora la terza persona che afferma: «il sindaco di Manduria…»; la donna fa una esclamazione: «Ahhh…»; l’altro rimarca e ripete: «…il sindaco lo ha fatto mettere…»; la donna: «…e sì, che dobbiamo fare (bestemmia)»; l’uomo: «no, ora devo parlare con lui se è il fatto di…qua… roba di là… nel cantiere … se qualcuno se lo prende almeno nel cantiere». Parla il marito: «se è nel cantiere… si pure lavora… non è che dici…»; l’altro uomo: «però per quel fatto ha detto: “no”, ha detto, “ha già fatto lui”, ha detto, “eh.. nessuno…”, ha detto “lui fa e sfa”, adesso è quello è… lui è sindaco e fa quello che vuole…»; la donna: «Ah, sì…». Nella relazione del prefetto di Taranto, resa pubblica ieri, si legge, riferito a questa intercettazione, che «nel corso dell’indagine non sono stati acquisiti elementi di riscontro, anche se è certa la presenza del Omissis nel cantiere e la sua assunzione da parte dell’Omissis s.r.l». Come è facile intuire, insomma, si tratta di frasi e circostante tutte da valutare e verificare, sufficienti, però, sempre che non ce ne siano altre, perché tutto finisse nella relazione del prefetto prima e del ministro dopo dando per certo il coinvolgimento diretto dell’ex sindaco Massafra.

I lati oscuri dell’inchiesta "Impresa". L’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Lecce, denominata “Impresa”, che ha portato allo scioglimento per mafia del comune di Manduria, potrebbe non essersi conclusa, scrive giovedì 17 maggio 2018 Nazareno Dinoi su "La Voce di Manduria". L’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Lecce, denominata “Impresa”, che ha portato allo scioglimento per mafia del comune di Manduria, potrebbe non essersi conclusa. Diversi elementi ancora “sospesi”, farebbero pensare ad un nuovo filone o quantomeno ad uno stralcio della stessa indagine affidata alla Squadra mobile della questura di Taranto. Il primo è quello raccontato dal ministro dell’Interno nella sua relazione che accompagna il decreto di scioglimento firmato dal presidente della Repubblica. Minniti, richiamando a sua volta la relazione del prefetto di Taranto, parla di una intercettazione (ambientale o telefonica) che documenterebbe una sponsorizzazione dell’ex sindaco Roberto Massafra per fare assumere un esponente della sacra corona unita da una ditta affidataria di lavori per conto del comune. Tale circostanza che Massafra ha smentito categoricamente, non è contenuta in nessun faldone di atti dell’inchiesta principale “Impresa” (quella conosciuta, almeno) facendo quindi supporre l’esistenza di un fascicolo ad essa collegato e non ancora chiuso. L’altro aspetto che fa pensare ad una continuità investigativa, anche questo suggerito da Minniti, è relativo alle edizioni 2015, 2016 e 2017 della Fiera Pessima. Il Ministro, sempre in quella relazione, si chiede come mai quelle edizioni fieristiche siano state affidate alla stessa impresa già indagata per aver presentato falsa documentazione grazie alla quale si era già aggiudicata la campionaria del 2014. In effetti, almeno due edizioni, quella del 2015 e del 2017, sono state affidate all’impresa in questione grazie ad una estensione di gara, regolarmente aggiudicata l’anno prima, che prevedeva però un vincolo fiduciario da parte dell’amministrazione comunale che poteva non concordare la gestione del secondo anno in presenza inaffidabilità della ditta stessa. Essere indagati per fatti gravi come l’avere ingannato l’ente presentando falsi documenti nell’edizione del 2014, poteva più che bastare perché si configurasse la caduta del rapporto fiduciario tra ente pubblico e impresa. Invece, per due volte di seguito, il funzionario incaricato dalla giunta Massafra, nella fattispecie il dirigente Enzo Dinoi, comandante della polizia locale, ha valutato positivamente il rapporto con l’impresa che ha potuto così ripetere per due volte l’affare-Fiera. Come per il caso della presunta sponsorizzazione del sindaco Massafra, neanche di questa questione esiste traccia in nessuno dei numerosi faldoni dell’inchiesta principale. Ultimo elemento, questa volta presente agli atti, è un dispositivo del sostituto procuratore distrettuale antimafia, Alessio Coccioli, in cui si fa espressa menzione ad un nuovo fascicolo. Lette le informative della Squadra mobile di Taranto, l’ultima delle quali maggio 2017, a carico di 8 indagati (nessun politico tra di loro), il pm dispone «lo stralcio delle posizioni di tutti – si legge - e quindi la formazione di un nuovo fascicolo in cui confluiranno in copia le informative della squadra mobile della questura». Qualcosa di più si saprà quando si conosceranno le relazioni dei tre commissari dell’accesso antimafia e quella del prefetto di Taranto che ha poi convinto il Consiglio dei ministri a decretare il condizionamento mafioso del comune di Manduria e quindi lo scioglimento.

De Donno sullo scioglimento per mafia: “ad ognuno le sue responsabilità, noi siamo puliti”. ​Tra tutti gli ex amministratori, l’avvocato Gianluigi De Donno, già numero due della giunta Massafra, è l’unico ad aver reso pubbliche posizioni contro lo scioglimento per mafia del comune di Manduria. Ed è il primo a non..., scrive mercoledì 23 maggio 2018 Nazareno Dinoi su "La Voce di Manduria". Tra tutti gli ex amministratori, l’avvocato Gianluigi De Donno, già numero due della giunta Massafra, è l’unico ad aver reso pubbliche posizioni contro lo scioglimento per mafia del comune di Manduria. Ed è il primo a non sottrarsi alle nostre domande.

Avvocato, in un suo post su Facebook ha lasciato intendere che dietro la decisione del ministro ci sia un disegno tutto politico. Cosa intende dire?

«Sulla base della relazione che ho letto, mi pareva che vi fosse un pregiudizio nei confronti della politica manduriana. Tanto affermavo sulla scorta delle imprecisioni e inesattezze contenute nella relazione ministeriale, rese ancor più evidenti dalla relazione del prefetto: una per tutte il completo stravolgimento della vicenda della pretesa raccomandazione fatta dal Sindaco che Minniti da per provata trascurando proprio il passaggio fondamentale (mancanza di riscontri), che svuotava di significato l’episodio».

A parte questo, non vi sentite proprio responsabili di quanto è accaduto?

«Perché il Sindaco o altri componenti della coalizione che ha vinto le elezioni nel 2013 dovrebbero sentirsi responsabili degli eventuali reati commessi da alcuni amministratori? I candidati, quando sono stati inseriti nelle liste, hanno presentato tutti la dichiarazione ex art. 58 T.U. di non essere coinvolti in procedimenti penali e di non avere precedenti; la proclamazione degli eletti, lo ricordo, viene fatta da una commissione in cui c’era un magistrato che nulla ha rilevato. Certo se qualcuno di noi fosse stato messo al corrente di quanto rivelato dalle intercettazioni sarebbe stato diverso. A ragionare col senno di poi è troppo semplice».

Quindi rifiuta anche la responsabilità politico o, come si dice, quella di un mancato controllo?

«E che tipo di controllo poteva fare il Sindaco o chi per lui sulle eventuali collusioni o sui condizionamenti che alcuni componenti dell’amministrazione avrebbero avuto dalla criminalità organizzata? Piuttosto ci sarebbe da chiedersi perché un fatto accertato nel 2013 attraverso le intercettazioni, quale quello dell’appoggio asseritamente chiesto da un eletto al Campeggio (Antonio Campeggio, il presunto capo clan, NdR), sia in fase di campagna elettorale che successivamente, per la nomina a presidente del consiglio, non sia stato portato a conoscenza del Sindaco, per dargli modo di espellere dalla sua maggioranza i soggetti coinvolti. All’obiezione che questo avrebbe potuto pregiudicare le indagini osservo che, se questo è vero, è altrettanto vero che poi non si può addebitare al sindaco di non aver controllato, tanto più non avendo alcuno strumento di indagine a disposizione».

Ora il ministro dovrà indicare gli incandidabili. Si è fatta un’idea di chi potrebbe essere e se a pagare saranno solo i politici o anche i responsabili di qualche ufficio?

«Cosa deciderà di fare Minniti o chi per lui in merito all’incandidabilità non lo so: per legge la procedura può riguardare solo i politici mentre nei confronti di dirigenti e dipendenti possono essere assunti provvedimenti di sospensione e trasferimento, ovvero procedimenti disciplinari».

Una delle accuse che vi addebitano riguarda il famoso dehor abusivo. Cosa ha da dire in proposito?

«Per quanto riguarda quella storia a me pare che l’accusa della relazione prefettizia sia rivolta più che altro verso i funzionari, salvo il ruolo dei politici coinvolti nel procedimento penale. La relazione del prefetto contesta l’aver provveduto in quel lungo arco di tempo a mantenere le installazioni abusive senza che nessuno degli organi deputati ai controlli, ben consci dell’esistenza degli arredi per il dehor, abbiano provveduto realmente a sanzionare il medesimo obbligandolo a rimuovere le opere».

In effetti, già allora, in un caso analogo, qualcuno faceva notare l’incongruenza del comune che si faceva pagare la tassa per l’occupazione del suolo pubblico per una struttura abusiva.

«Sulle ragioni per cui il Comune ha incassato la relativa tassa dovresti chiedere ai vigili urbani; io ho sempre censurato, in termini generali, questo modus procedendi. L’affermazione che la giunta sapesse dell’occupazione abusiva è frutto di una libera interpretazione poiché nella delibera ci si preoccupa solo di demandare agli uffici una verifica sull’effettivo pagamento della Tosap relativa al dehor, ai fini di un contrasto all’evasione».

Poi nella relazione c’è il richiamo alla delibera di patrocinio di uno spettacolo organizzato sempre dal titolare di quel bar.

«Era uno spettacolo alle porte della stagione estiva e quindi, come tanti altri eventi di questo tipo, per di più senza oneri per le casse comunali, si è concesso il patrocinio. Tieni presente che la delibera di cui parliamo non era neppure inserita all’ordine del giorno inviatoci dalla Segreteria e quindi l’avrà tirata fuori l’assessore al ramo all’ultimo momento, pertanto nessuno degli altri componenti la giunta ha avuto modo di esaminarla preventivamente».

C’è qualcosa nella relazione del prefetto che meriterebbe di essere approfondita?

«A me sembra importante un passaggio della relazione prefettizia in cui, dopo aver scritto che la Polizia Locale eleva 4 verbali nei confronti di altrettante attività, tra cui quella di Omissis (immagino B52), trasmessi al dirigente Urbanistica ed a quello delle Attività produttive, un tale Omissis, che credo sia Marino, avrebbe chiesto ad altro Omissis, che credo sia Dinoi, “se il sig. Omissis (immagino De Pasquale) avesse ottemperato a quanto disposto nel verbale del 5/2/2016”. “Negli atti prodotti dal Comune non si rinviene alcuna risposta alla suddetta richiesta di chiarimenti”. Ebbene, se si va a leggere il regolamento dehors 2012, art. 20, è facile stabilire di chi fossero le competenze: “L’organo accertatore deve intimare sul verbale di contestazione la rimozione delle strutture entro 5 giorni e trasmettere la corrispondente segnalazione al Responsabile Servizio Attività Produttive. Nel caso in cui il trasgressore non provveda il Responsabile Attività produttive emette un atto di diffida».

Manduria: l’avvocato De Donno punta il dito contro i dirigenti e il vice prefetto, scrive Ciak Social il 18 Maggio 2018. Non va proprio giù all’ex vicesindaco, avv. Gianluigi De Donno, quello scioglimento per mafia del Comune di Manduria e, sul suo profilo Facebook, esprime tutto il suo rammarico per quello che è successo. Lui che, come ama definirsi, è un uomo di legge, è costretto a dover sopportare, seppur indirettamente, questa onta che il Comune vive. In due post pubblicati sul suo profilo Facebook, molto meno diplomatici di altri post scritti dal numero 2 dell’amministrazione Massafra, l’avvocato non fa molti giri di parole e ci tiene a specificare che la Fiera Pessima non è mai stata oggetto di appalto affidato in modo diretto (come invece afferma la Commissione nella relazione) poichè sono stati fatti regolari bandi pubblici. Punta il dito contro i dirigenti chiedendosi, implicitamente, come avrebbe potuto l’amministrazione modificare le sorti di una gara senza avere il potere di farlo e, sempre implicitamente, si chiede come mai, dal momento che nei passaggi riportati sul decreto è evidente che vengono fuori le responsabilità dei dirigenti, nessuna misura è stata presa nei confronti di questi ultimi? Continua dicendo che è stata la stessa amministrazione a far verificare la graduatoria per l’assegnazione delle case popolari alla Guardia di Finanza. L’avvocato dice, pubblicandone il documento, che è stato il vice prefetto a chiedere di continuare l’assegnazione così come era stata prevista, non tenendo conto della verifica in corso da parte della Guardia di Finanza, chiedendo di “bypassare le procedure di rito” assegnando comunque gli alloggi a coloro i quali, come poi svelato dagli accertamenti della Finanza, avevano prodotto delle autocertificazioni non veritiere. Evidentemente le procedure di rito erano superabili da parte della prefettura, in quel momento, ma non lo sono state dalla commissione di valutazione che poi ha portato al verbale dello scioglimento del Consiglio Comunale. “Se avessimo dato retta allo IACP – e quindi al vice prefetto, si chiede De Donno – quale sarebbe stata la valutazione della commissione di accesso e poi del Prefetto ed infine del ministro? Il principio di legalità nella pubblica amministrazione vale solo per i Comuni?”. Insomma lo scioglimento per mafia non solo non ha portato a quel periodo di stasi che tutti credevano ci fosse ma, anzi, sembra sia stato l’inizio di un nuovo racconto della città di Manduria che, questa volta, non ha più come protagonisti solo i politici ma anche quei dirigenti, a onor del vero ben pagati dalle casse della città, che con alcuni dei loro atteggiamenti (questo a dire di tanti esponenti politici) hanno contribuito a determinare la situazione che ha portato Manduria ad essere ritenuta quello che tutti abbiamo letto nel decreto.

Di seguito i 2 post di Gian Luigi De Donno. A giudicare da quello che si legge nella relazione a me pare che si sia giunti allo scioglimento sulla base di un pregiudizio nei confronti della politica manduriana. In disparte le vicende degli ex amministratori coinvolti nel procedimento penale leggere in una relazione del ministro dell’Interno che ci sarebbero stati affidamenti diretti della Fiera fa rabbrividire: basta consultare l’albo pretorio on Line per rendersi conto del clamoroso travisamento dei fatti; giammai la Giunta ha deliberato affidamenti diretti ma sempre e solo gare ad evidenza pubblica. E che dire dell’assegnazione delle case popolari? Al ministro e a quelli che prima di lui hanno guardato le carte è sfuggito che la Guardia di Finanza è stata coinvolta nella verifica della graduatoria provvisoria su espressa richiesta del mio assessorato, malgrado lo IACP avesse reiteratamente chiesto di assegnare gli alloggi nelle more delle verifiche della Finanza, “bypassando le procedure di rito”! E forse che le occupazioni abusive di suolo pubblico sono accertamenti che competono alla politica? Quando mai un Sindaco o un assessore potrebbe recarsi presso un esercizio commerciale o presso un venditore ambulante di frutta per chiedere conto delle relative autorizzazioni? Sono altri gli organi preposti ai controlli, ma qualcuno al Ministero o in Prefettura sembra non essersene accorto. E sì che a Manduria oltre a Vigili Urbani ci sono Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Carabinieri, Forestale etc.! Forse che con la gestione commissariale degli ultimi otto mesi sono spariti gli ambulanti ad ogni angolo di strada? Questi e tanti altri interrogativi qualcuno avrebbe dovuto porseli prima di decretare lo scioglimento che, a dire dell’on.le Bindi presidente della commissione parlamentare antimafia, oltre che del dr. De Raho, procuratore nazionale antimafia, non sembra uno strumento risolutivo delle infiltrazioni della criminalità nella pubblica amministrazione. E poi Manduria, che negli ultimi venti anni ha visto passare cinque commissari (cioè lo strumento con cui si vuole risanare l’amministrazione della cosa pubblica), forse è stata messa al riparo dalle pretese infiltrazioni? Infine, un atto politico altamente discrezionale come lo scioglimento, poteva essere adottato da un ministro che non era più espressione di una maggioranza parlamentare, ossia della maggioranza del popolo italiano? Spero solo che a questi interrogativi ci sia un giudice capace di dare risposte. Mentre l’amministrazione comunale pretesamente infiltrata dalla criminalità organizzata faceva verificare la graduatoria per l’assegnazione delle case popolari alla Guardia di Finanza lo ex IACP, guidato da un vice prefetto, ci chiedeva di “bypassare le procedure di rito” ed assegnare comunque gli alloggi a coloro i quali, come poi svelato dagli accertamenti della Finanza, avevano prodotto delle autocertificazioni non veritiere. Se avessimo dato retta allo IACP quale sarebbe stata la valutazione della commissione di accesso e poi del Prefetto ed infine del ministro? Il principio di legalità nella pubblica amministrazione vale solo per i Comuni?

De Donno smascherato dagli uffici. Stessa cosa sostiene l’ex consigliere del Pd, Mario D’Oria prima di rispondere tecnicamente a De Donno, si concede una battuta politica, scrive venerdì 22 settembre 2017 Nazareno Dinoi su "La Voce di Manduria". L’infelice frase sul depuratore con condotta a mare pronunciata dall’ex vicesindaco Gianluigi De Donno, sta provocando reazioni risentite dei protagonisti di questa recente esperienza politica e amministrativa. «Mentre c’era l’amministrazione – scriveva De Donno sul suo profilo Facebook - avevamo eliminato la condotta sottomarina persino dal cartello dei lavori. Oggi la condotta è ricomparsa».

A rispondergli per primo è stato il consigliere regionale, Luigi Morgante (accusato dal vice di Massafra di ave contribuito alla sconfitta dello scarico a mare), che in una nota stampa invita De Donno a studiarsi le carte. «L’avvocato Gianluigi De Donno – scrive Morgante -, probabilmente non ha tutti gli elementi di conoscenza delle procedure amministrative in essere e delle modalità di attuazione di questo specifico intervento». Morgante fa notare al numero due della passata amministrazione, che le carte trasmesse sinora dall’Aqp al comune riguardano solo i lavori della condotta che collegherà il vecchio depuratore situato alla periferia di Manduria con il nuovo previsto sulla costa (Urmo Belsito) e che il progetto definitivo, quando arriverà, non prevedrà nessuna condotta sottomarina. Stessa cosa sostiene l’ex consigliere del Pd, Mario D’Oria prima di rispondere tecnicamente a De Donno, si concede una battuta politica. «Bene avrebbe fatto l’ex prima di commentare tale notizia e far credere che a causa della loro dipartita sarebbe tornato lo spauracchio della condotta sottomarina vicesindaco – dichiara D’Oria -, sentire l’Ufficio Tecnico, in particolare il dirigente, così da renderlo edotto circa la verità dei fatti».

L’ingegnere Emanuele Orlando, fa sapere l’esponente del Pd, avrebbe provveduto a sentire gli uffici di AQP i quali gli avrebbero confermato «che alcuna condotta sottomarina è più prevista e che la richiesta di scavo riguarda la manomissione del suolo pubblico dalla zona del vecchio depuratore al nuovo depuratore, nulla di più». Piccante la conclusione di D’Oria. «Ora siete dispiaciuti per questa notizia? Purtroppo, anche per questo motivo, nessuno potrà più rimpiangervi».

Manduria: ecco gli Assessori e i Consiglieri che li sostengono, scrive su Ciak Social il 26 Gennaio 2016 Enzo Pisconti. Si è tenuta la conferenza stampa per presentare ufficialmente la nuova Giunta Massafra. Al contrario di altre occasioni, questa volta la conferenza è stata particolarmente partecipata, oltre i protagonisti e il pubblico sugli scanni, erano presenti anche personalità politiche non della città, il Sindaco di Sava Dario Iaia per esempio o il segretario provinciale del PD Walter Musillo. Ad aprire le danze ovviamente il Sindaco di Manduria Roberto Massafra, che dopo i doverosi saluti agli assessori non confermati in questa nuova formazione, non ha esitato a mostrare tutta la sua soddisfazione per questa nuova compagine composta da: Gian Luigi De Donno che tra le altre deleghe gestirà quella delle attività produttive e della fiera pessima. De Donno è supportato dai 3 consiglieri del gruppo di Manduria Futura ed è anche vice sindaco. Poi Roberta Fistetto, architetto, alla quale è stata affidata la delega all’urbanistica. La dottoressa è supportata dai due consiglieri eletti con la lista Schittulli, Ferretti e Dimitri. Di Sport e Spettacolo se ne occuperà Massimiliano Rossano, lui come Roberta Fistetto e Lorenzo Bullo sono assessori esterni, ossia non sono stati, in questa legislatura, eletti consiglieri comunali. Rossano gode della fiducia in Consiglio, del gruppo di Noi Centro costituito ad oggi, da Marcello Venere, Enzo Pisconti e Antonio Giuliano. Al gruppo di NCD, invece, costituito da Roberto Puglia e Lino De Mauro, vengono riconfermate le stesse deleghe, unica differenza il rappresentante in Giunta. Conclusa l’esperienza della Dott.ssa Di Mase, adesso sarà l’avvocato Lorenzo Bullo a rappresentare il gruppo in Giunta. Confermato alla presidenza dell’ambito sette, il consigliere Roberto Puglia. Confermato anche l’assessore Mimmo Lariccia, il quale tranne la cultura, avrà competenze diverse rispetto a quelle che ha avuto nella scorsa giunta. Si occuperà, infatti, anche di tributi e finanza e beni culturali. In Consiglio l’assessore al bilancio conta sull’appoggio della signora Emma Quaranta. Novità assoluta per i lavori pubblici, che vedono come assessore il Dott. Amleto Della Rocca supportato in Consiglio dal gruppo PD. Designato alla Presidenza del Consiglio, il consigliere Enzo Andrisano il quale non è ancora chiaro se resterà in Proposta per Manduria, il gruppo consigliare coordinato dal Dott Francesco Turco, oppure preferirà collocarsi altrove, visto che, in questa fase, Proposta per Manduria sarebbe intenzionata a collocarsi all’opposizione. Sempre all’opposizione, quindi, andrebbe anche l’ex gruppo di Maggioranza guidato dal Dott. Girardi e i consiglieri Trinchera e Durante.

MANDURIA. “I giovani vecchi dell’amministrazione Massafra”, scrive l'8 dicembre 2015   Vivavoceweb.com. Da facebook, lettera aperta di Paride Toma, già assessore messapico. In riferimento alla lettera aperta del sindaco agli irriducibili della vecchia politica vorrei esprimere il mio modesto parere in merito. Il sindaco Roberto Massafra probabilmente confonde i giovani con il vecchio. Il futuro che questa amministrazione sta concretizzando sono Roberto Puglia, Leo Girardi, Roberto Massafra, Mimmo Lariccia e probabilmente Amleto Della Rocca e Maria Grazia Cascarano. Il futuro è di queste persone caro mio sindaco che hanno o stanno per avere il controllo totale della sua amministrazione. Mi spiego meglio elencando le rispettive deleghe: Roberto Massafra insieme al suo GIOVANE della politica manduriana Avv. Gianluigi De Donno hanno assetto del territorio e del paesaggio, Urbanistica, Beni Patrimoniali e Demanio, Contenzioso, Contratti, AA.PP. Commercio Industria Agricoltura Artigianato Fiere e Mercati, Tutela e valorizzazione dei prodotti tipici locali, politica dei quartieri e Marine. Leo Girardi altro GIOVANE della politica manduriana che ha deciso bene di dare spazio ad un giovane casualmente scelto Gregorio Curri (il figlio di Antonio Curri) ha lavori pubblici, Viabilità, Ambiente, Ecologia. Roberto Puglia altro GIOVANE ha la presidenza dell’ambito territoriale Servizi Sociali e Politiche dell’Accoglienza, Sanità. Cosimo Lariccia altro GIOVANE della politica ha Politiche di Sviluppo, Politiche comunitarie, turismo e Marketing territoriale, Sport Spettacolo e tempo libero, Cultura, Beni culturali; politiche giovanili, Pubblica Istruzione e servizi alle scuole, Biblioteca e Archivio, Polizia Municipale. Giustamente alla politica manduriana mancava un altro giovane Amleto della Rocca ed è per questo che lei sindaco si è immediatamente prodigato per affidargli le ultime deleghe rimaste Bilancio Finanze e Tributi. La politica caro mio sindaco è di queste persone, i giovani non hanno per niente spazio tra i dinosauri della politica manduriana per usare un suo termine. I giovani o stanno a guardare le vostre strategie oppure l’esperienza politica per loro finisce vedi Angela Moccia, Giusy Distratis, Anna Maria de Valerio e Paride Toma. “Ora sta al PD decidere se respingere QUESTA VENTATA DI ARIA FRESCA o accettare la sfida del sindaco e tentare di costruire un NUOVO IDEALE condiviso dai giovani”. Paride Toma. Ex assessore Comune di Manduria

Manduria: si è dimesso l’assessore Lorenzo Bullo. Manduria: si è dimesso l’assessore Lorenzo Bullo, scrive il 10 Luglio 2017 Ciak Social. Si è dimesso dalla sua carica assessorile, l’avvocato Lorenzo Bullo.  Sembrerebbe che già da diverso tempo non fosse molto presente alle attività amministrative e dopo il blitz che ha coinvolto alcuni ex amministratori di Manduria ha deciso di dimettersi per poter seguire alcuni di loro come avvocato. A sentire il vicesindaco, nonchè avvocato De Donno, il problema dell’incompatibilità non ci sarebbe perchè in questa vicenda l’amministrazione non sarebbe neanche parte offesa. Evidentemente l’ex assessore Bullo ha agito per eccesso di cautela o comunque ha deciso questa via per avere più tempo e poter dare maggiore attenzione ai suoi assistiti.

Avv. Pierluigi De Donno incaricato alla Fiera Pessima. Fiera Pessima 2018: parla l’ex assessore De Donno, scrive il 17 Febbraio 2018 Ciak Social. L’edizione 2018 della Fiera Pessima pare che quest’anno salti, certamente non avrà la sua collocazione nei primi giorni di Marzo come è avvenuto per 277 anni. Lunedì 19 febbraio, sembra che sia fissato l’incontro tra i rappresentanti delle associazioni di categoria, il commissario prefettizio, Francesca Adelaide Garufi e i dirigenti degli uffici comunali interessati per prendere una decisione. C’è chi vorrebbe farla a breve, chi non farla proprio per quest’anno e chi propone settembre in occasione della festa di San Gregorio Magno, santo patrono di Manduria. L’ex assessore alle attività produttive del Comune di Manduria, Gian Luigi De Donno, che si è occupato l’anno scorso dell’organizzazione della Fiera Pessima, esprime il suo rammarico sul suo profilo Facebook dicendo che “Tra le tante voci che circolano sulle possibili alternative temporali alla storica collocazione marzolina della Fiera Pessima penso che sarebbe opportuno, qualora si ritenga di volerla fare comunque, interpellare gli espositori delle passate edizioni, oltre alle locali associazioni di categoria. Il Comune dispone, infatti, dei contratti stipulati dai gestori delle precedenti edizioni con gli imprenditori sicché, nel giro di qualche giorno, si potrebbe avviare una consultazione per individuare il periodo in cui la maggior parte di loro sarebbe disponibile ad esporre in questa novella Fiera pessima (uso l’aggettivo minuscolo perché ormai il danno è fatto e non potrà mai essere la nostra Fiera). Non va dimenticato che le aziende, soprattutto quelle che arrivano qui da altre regioni, programmano le loro presenze nelle fiere con larghissimo anticipo e quindi hanno un calendario di appuntamenti inconciliabile con manifestazioni estemporanee come potrebbe diventare una Fiera organizzata in mesi diversi da Marzo”. “Eppure quest’anno – continua De Donno – la nostra campionaria nasceva sotto i migliori auspici: un indirizzo politico tempestivo, un logo tutto nuovo grazie al concorso di idee lanciato lo scorso anno, un marchio registrato per volontà dell’assessorato onde evitare l’abuso commerciale del nome della Pessima. La cattiva politica ed i tanti corvi che da troppi anni volteggiano sulla città, in uno ad ingiustificabili inefficienze della macchina amministrativa rimasta orfana del necessario stimolo degli amministratori eletti, porteranno negli anni la responsabilità di questo fallimento che è anche foriero di danno per le casse comunali che dalla Fiera, negli ultimi anni, hanno incassato mediamente 50.000 euro di Tosap oltre ai soldi versati dall’azienda aggiudicataria (15.000/20.000 euro) con cui si sono organizzati, a costo zero per il bilancio, spettacoli e convegni. Mai come in questa circostanza sembrano attuali i versi, opportunamente parafrasati, del nostro Poeta “Ahi serva Manduria, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello””.

2018: UN ANNO DI TRAGEDIE. Sembra un film ma è la pura realtà! Scrive il 18 maggio 2018 Diomede Cosimo Turco su Nuovariamagazine.com. Dalla mancata edizione della Fiera Pessima (prima volta in 300 anni!) alla perdita di tante tradizioni, passando per fasi di stallo totale fino ad arrivare al “prezioso appellativo” di Città mafiosa. Lo scioglimento per infiltrazione mafiosa non è un puro atto amministrativo ma lede gravemente l’immagine di Manduria. Lo scioglimento di un Ente Pubblico per infiltrazione mafiosa è disciplinato dall’art. 147 del TUEL e si connota quale “misura di carattere straordinario per fronteggiare un’emergenza straordinaria” (Corte Cost., 19 marzo 1993, n. 103; C. Stato, VI, 10 marzo 2011, n. 1547). È straordinario! Non è una bazzecola, nè tantomeno può essere considerato un premio per la legalità. In un contesto socio-culturale come quello che caratterizza la nostra Manduria, posso asserire francamente che oggigiorno si vive ancora molto bene. Non so sinceramente se in altri ben noti comuni italiani si possa dire la stessa cosa. La mafia va sconfitta, ma non si può distruggere e infangare un’intera comunità per colpa di qualche “parassito”. Chi ha sbagliato dovrà pagare ed è giusto che sia così. Ma la comunità e il nome di Manduria non possono essere calpestati da un puro e mero atto “politico”! Considerando anche ciò che è stato scritto dal ministro (uscente!) Marco Minniti (PD) nella relazione-richiesta presentato al Capo dello Stato: più di qualche dubbio emerge e viene a galla. Non voglio entrare nel merito delle reali motivazioni per le quali ci è stato così facilmente donato l’appellativo di città mafiosa: ma io non ci sto. Per queste ragioni e tenendo ben presente l’unico scopo che è il bene della mia Manduria (forse sarò uno dei pochi giovani a voler lottare per rimanere qui!): FIRMERÒ TUTTI I RICORSI CONTRO IL DECRETO PRESIDENZIALE E MI PRODIGHERÒ AFFINCHÉ IL NOME DI MANDURIA VINCA! LA MIA MANDURIA NON È MAFIOSA! Diomede Cosimo Turco.

De Donno. Fiera Pessima, dieci indagati: tra loro c’è anche il sindaco Massafra, scrive Sabato 7 Gennaio 2017 su Il Quotidiano di Puglia Nazareno DINOI. Sindaco in carica, comandante dei vigili, segretario generale, funzionari comunali e imprenditori. Sono tutti nomi e cariche eccellenti quelli iscritti nell’apposito registro della Procura della Repubblica di Taranto che indaga sulla gestione della Fiera Pessima manduriana del 2014. Dieci (e non nove come si pensava), gli indagati su cui si sospettano i reati di abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale e falsità in certificati in concorso tra loro. Si tratta di Roberto Massafra, sindaco di Manduria, Vincenzo Dinoi, comandante del corpo di Polizia locale, Graziano Iurlaro, segretario generale, Leonardo Franzoso, responsabile dell’ufficio Finanze, tutti appartenenti all’ente messapico. Con loro ci sono altre sei persone, cinque campani e un siciliano. Sono due amministratori pubblici della provincia di Avellino e quattro imprenditori del settore allestimento fiere. I nomi: Cristofaro Pasquale, Giuseppe D’Amico, Francesco Loconte, Giuseppe Chiusolo, Beniamino Grillo e Antonio Molettieri Soccorso. Quest’ultimo è titolare della Rtt Service, l’impresa a cui fu affidata la gestione della campionaria su cui si indaga e gestore della prossima Fiera edizione 2017. Dai reati per i quali la magistratura inquirente sta investigando i dubbi cadono su presunte falsificazioni di documenti che avrebbero certificato titoli inesistenti. Per questo tra i reati elencati c’è quello della falsità ideologica in certificazioni commessa da pubblico ufficiale. Ad occuparsi delle indagini, di cui è titolare il sostituto procuratore della Repubblica di Taranto, Daniela Putignano, sono gli investigatori della Guardia di Finanza della compagnia di Manduria guidata dal capitano Giuseppe Lorenzo. I militari si sono recati anche di recente negli uffici del settore Commercio del Comune per acquisire altra documentazione. Stando ai tempi (gli indagati hanno già ricevuto due informazioni di proroga delle indagini motivata dalla «complessità degli atti»), l’esito di un anno di lavoro investigativo delle Fiamme Gialle dovrebbe concludersi il prossimo 17 gennaio. Per quella data il pubblico ministero dovrà decidere se presentare al gip una richiesta di archiviazione oppure notificare agli interessati i relativi avvisi di garanzia, anticamera del rinvio a giudizio con rischio di processo. Gli amministratori comunali di Manduria sembrano essere tranquilli e alcuni di loro negano addirittura di aver mai ricevuto gli avvisi di proroga. Il vicesindaco Gianluigi De Donno (assessore alle Attività produttive, avvocato e legale di fiducia del sindaco Roberto Massafra), il quale non conferma l’evenienza e minimizza l’accaduto. «Tanto - dice – ogni anno la Guardia di Finanza viene a sequestrare atti relativi alla Fiera Pessima». L’inchiesta dall’esito più infausto che ha riguardato la tradizionale manifestazione fieristica manduriana, fu quella del 2003 quando furono arrestati l’assessore e un funzionario del comune messapico, finiti poi sotto processo per aver chiesto una tangente all’impresa aggiudicataria. Le indagini riguardarono l’allestimento e l’organizzazione della 263sima edizione fieristica che si svolse dall’8 al 16 marzo di quell’anno. Secondo l’accusa, il politico e il funzionario comunale chiesero una tangente all’imprenditore campano Giuseppe Chiusolo, lo stesso che compare ora nella lista dei dieci nuovi indagati dalla pm Putignano.

Un dèjà vu.

Manduria, tangenti in Fiera manette a un esponente di An. Scrive Angelo Longo il 19 aprile 2003 su "La Repubblica". A Manduria la voce si era sparsa in un batter d' occhio. Anche le chianche, con le quali è lastricato lo stradone principale della cittadina in provincia di Taranto, sapevano di quella compromettente registrazione nelle mani dei carabinieri impegnati nelle indagini sulla gestione della Fiera Pessima. Nessuno, quindi, si è sorpreso più di tanto quando, ieri mattina, i militari hanno arrestato l'assessore al commercio Francesco Gennari, 24 anni, esponente di Alleanza Nazionale, e l'avvocato Luigi Perrone, 42 anni, funzionario del dipartimento commercio del comune ionico. A disporre il loro arresto, con la pesante contestazione di concussione, è stato il gip Ciro Fiore, su richiesta del pm Alessio Coccioli. I due amministratori sono le prime vittime della scottante registrazione sul cui contenuto fanno leva i provvedimenti restrittivi firmati dal giudice del Tribunale tarantino. A consegnare quella microcassetta al maggiore Antonio Russo, comandante della compagnia carabinieri, erano stati i rappresentanti della "Progetti e forme", società campana che si era aggiudicato l'appalto per l'allestimento della fiera campionaria che ha chiuso i battenti lo scorso 16 marzo. Su quella gara i sospetti si erano addensati come i nuvoloni che ogni anno, regolarmente, accompagnano le giornate della fiera manduriana e che proprio per questo motivo, oltre due secoli fa, venne battezzata come "Pessima" dai suoi fondatori. Le prime incongruenze erano state individuate dagli investigatori dell'Arma dopo l'acquisizione documentale, scattata il 14 marzo. Poi, la brusca accelerata provocata dalle rivelazioni degli imprenditori supportate da quel colloquio registrato su nastro. Pietro De Nuzzo, Giuseppe Chiusolo ed Antonio Ferraro, tutti dirigenti della società campana, non hanno avuto remore a confermare la richiesta di "tangente" che sarebbe stata avanzata dall' avvocato Perrone nel corso di un colloquio al quale avrebbe presenziato, in religioso silenzio, anche l'assessore Gennari. Durante quel faccia a faccia, il funzionario avrebbe introdotto il discorso bustarella chiedendo a Ferraro come la sua società abitualmente regolasse i rapporti con le amministrazioni. E visto che l'imprenditore stentava a comprendere, sempre lui avrebbe rotto gli indugi proponendo una tangente pari al 10 per cento dei 212mila euro complessivi dei lavori. Una mazzetta a cui le vittime avrebbero tentato di sottrarsi proponendo una sorta di "ribasso". Dinanzi alla controproposta Perrone avrebbe preso tempo, ma pochi giorni dopo avrebbe nuovamente convocato gli imprenditori per comunicare che, dopo essersi consultato con altri, s' era deciso di mantenere ferma la richiesta iniziale. Un passaggio fondamentale, quest' ultimo, soprattutto per gli sviluppi che l'indagine potrà far registrare dopo i clamorosi arresti di ieri. I carabinieri, infatti, intendono dare un volto ed un nome alle persone a cui il funzionario avrebbe fatto esplicitamente riferimento nel corso delle trattative per quantificare la tangente da scucire alla "Progetti e Forme". Personaggi sino ad ora rimasti nell' ombra, ma che nella vicenda avrebbero svolto un ruolo tutt' altro che secondario.

Elezioni, il giudice Tommasino pronto a lasciare la toga per la politica. L’ex magistrato manduriano, che nella sua città gode dell’appoggio dei partiti e movimenti del centrodestra, ha già avuto l’endorsement dell’ex sindaco di Manduria, Roberto Massafra. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 18 luglio 2020. Ormai vicino alla pensione, il giudice Giuseppe Tommasino si mette in politica. Alle prossime elezioni amministrative, l’ex capo dei gip del Tribunale di Taranto concorrerà per un posto di consigliere della Regione Puglia nella coalizione del candidato presidente Raffaele Fitto. Il suo nome sarà ospitato con molta probabilità nella lista di Fratelli d’Italia oppure troverà posto in una delle liste del presidente. Sessantanove anni compiuti, il magistrato nel 1994 aveva già tentato la carta della carriera politica candidandosi senza essere eletto per un posto alla Camera dei deputati. Nel suo collegio (è di Manduria dove vive con la famiglia), ottenne il 21,5% delle preferenze contro il 28,5% dell’allora candidato di sinistra, Ugo Malagnino, anche lui di Manduria e il 34,1% dell’avvocato torricellese di Alleanza Nazionale, Antonio Del Prete. Tommasino allora partecipò con il «Patto per l’Italia!, una coalizione elettorale di centro costituita in occasione delle elezioni politiche del 1994 che concorreva con propri candidati alternativi sia alla sinistra dei Progressisti, sia alla destra del Polo delle Libertà e del Polo del Buon Governo. Questa volta il gip ha fatto una scelta di campo molto chiara schierandosi sin da subito contro il suo collega e governatore uscente, Michele Emiliano. La passione per la politica è stata ancora presente nella famiglia Tommasino con il fratello Paolo, medico psichiatra a Milano, eletto sindaco di Manduria nel 2010 a capo di una maggioranza di centrodestra che dopo appena due anni lo sfiduciò provocando lo scioglimento anticipato della consiliatura e la gestione commissariale della città. L’ex magistrato manduriano, che nella sua città gode dell’appoggio dei partiti e movimenti del centrodestra, ha già avuto l’endorsement dell’ex sindaco di Manduria, Roberto Massafra che sui social lo ringrazia per essergli stato vicino nel periodo più brutto dell’esperienza sindacale, quello dello scioglimento per infiltrazione mafiosa della sua amministrazione. «Io voterò Tommasino – scrive l’ex sindaco – perché è stato l’unico personaggio pubblico che ha preso posizione contro quella porcata ordita dal Partito democratico e soci che è stata lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa». In effetti l’aspirante consigliere regionale, in occasione di un evento pubblico a cui partecipò invitato dall’ex sindaco Massafra (l’annuncio da parte degli ex amministratori «sciolti per mafia» di un ricorso al Tribunale del Lazio contro il decreto di scioglimento firmato dall’allora ministro dell’Interno, Carlo Minniti), usò parole durissime contro tale provvedimento. «Il decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Manduria – disse - è stato un atto imprevedibile, grave e ingiusto. È stato fatto un uso distorto, bieco e spregiudicato del potere». In questa campagna elettorale, straordinariamente estiva, nella sua città il giudice se la dovrà vedere con il consigliere regionale uscente Luigi Morgante e il primario del pronto soccorso dell’ospedale cittadino, Francesco Turco che pescano entrambi nello stesso bacino elettorale di centrodestra (Forza Italia il primo e Lega Salvini il secondo) e, dall’altra parte, con la candidata di Michele Emiliano, Rossella Moscogiuri, farmacista, direttrice di dipartimento della Asl di Taranto. Nazareno Dinoi

No mafia-politica. I fedelissimi di Massafra pronti per il Tar e per il Consiglio di Stato. Una trentina di persone, pochi gli ex amministratori presenti (quattro assessori e tre consiglieri comunali)..., scrive Nazareno Dinoi sabato 02 giugno 2018 su La Voce di Manduria. Una trentina di persone, pochi gli ex amministratori presenti (quattro assessori e tre consiglieri comunali), hanno preso parte ieri all’iniziativa pubblica organizzata dal comitato promotore che impugnerà il decreto di scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Manduria. Al tavolo della presidenza erano seduti il relatore Gianluigi De Donno, avvocato ed ex assessore della giunta del sindaco Roberto Massafra, quest’ultimo seduto in prima fila tra il pubblico, con i due ospiti, il giudice del tribunale di Taranto, Giuseppe Tommasino, manduriano e socio del Circolo che ospitava l’iniziativa, e il sindaco di Parabita, Alfredo Cacciapaglia, anche lui avvocato, protagonista di un analogo ricorso vinto davanti al Tar del Lazio che ha annullato il decreto di scioglimento per mafia del suo comune. Il primo a prendere la parola è stato il magistrato che ha definito «ingiusta e grave» la decisione presa dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Da addetto ai lavori, poi, il giudice ha ammesso di aver provato «un certo fastidio» nel leggere le relazioni dello scioglimento tanto da dover interromperne la lettura. Parlando del sindaco Massafra, poi, Tommasino ha detto di «non meritare tutto questo» in quanto «vittima delle circostanze». In conclusione del suo intervento, il gip del Tribunale di Taranto ha detto che i manduriani «hanno il dovere di reagire». L’ex assessore De Donno, prima di entrare nel merito dell’iniziativa, ha voluto rispondere alle polemiche sollevate in questi giorni sui social. «Sta circolando un falso sillogismo – ha detto – secondo il quale ciò che è accaduto al nostro comune sia la conseguenza di una nostra incapacità amministrativa». Rivendicando «correttezza e competenza» del sindaco e di chi lo ha sostenuto, De Donno ha ribadito «il dovere di tutti di rivendicare con forza il diritto di poter affermare che Manduria non ha niente a che fare con la mafia». Entrando nello specifico tecnico dell’azione giudiziaria da intraprendere per «ristabilire un clima di serenità e lavare l’onta di un simile provvedimento», l’avvocato De Donno ha prospettato una prima difficoltà di natura giuridica che potrebbe rendere vane le speranze di una vittoria davanti al Tar. «Recentemente – ha spiegato – la giustizia amministrativa così altalenante, ha stabilito che gli ex amministratori non più in carica al momento dello scioglimento per mafia (come nel caso di Manduria, NdR), non hanno la legittimità di presentare ricorso». Stessa mancanza di interesse, ha aggiunto De Donno, è stata riconosciuta anche alle associazioni, partiti e singoli cittadini. «Noi, comunque, non ci arrenderemo e andremo avanti per la nostra strada», ha concluso l’avvocato facendo chiaramente intendere che, in caso di sconfitta davanti al Tar, si ricorrerà al Consiglio di Stato che sulla stessa materia si sarebbe espresso differentemente. È poi toccato al sindaco di Parabita raccontare la sua vicenda che dal punto di vista del coinvolgimento penale, c’è da dire, è del tutto differente da quella manduriana. «Se è successo a me può accadere a tutti», ha esordito il primo cittadino che ha invitato i promotori manduriani a lottare con tutte le forze.

Manduria non è mafiosa, si avvia il ricorso, scrive il 4 Giugno 2018 Maria Sirsi su Ciak Social. Venerdì 1 giugno si è svolto l’incontro-dibattito per definire le modalità organizzative e raccogliere le adesioni per il ricorso al decreto di scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Manduria. L’iniziativa, organizzata dal comitato promotore, è proposta da amministratori e consiglieri uscenti e da liberi cittadini che si sentono offesi da questo decreto che bolla Manduria come una città mafiosa. “Ho provato a leggere le 150 pagine della relazione, ma dopo poco ho desistito, in quanto mi sono sentito preso in giro: contiene fatterelli e tanti omissis” – dice durante il dibattito il giudice del tribunale di Taranto, dott. Giuseppe Tommasino (fratello dell’ex sindaco, Paolo). “La passata Amministrazione non meritava questo, – continua il giudice Tommasino – Nessuno può mettere in dubbio l’onestà del sindaco Massafra, il quale, candidandosi, aveva la consapevolezza di giocarsi tutto per il bene comune. Posso comprendere la sofferenza umana dell’ex sindaco e dei suoi più stretti collaboratori nell’essere stati accostati alla criminalità organizzata. Il sindaco Massafra è stato vittima delle circostanze. Per cercare di giustificare un provvedimento ingiusto, il ministro è stato costretto a ricorrere al mendacio inventandosi che il sindaco avrebbe garantito un posto di lavoro ad un pregiudicato. Premettendo che io non trovo nulla di male nell’aiutare a trovare un posto di lavoro a chi è incappato in un errore nella propria vita, io personalmente lo faccio, è la legge che mi impone l’inserimento nel lavoro di ex detenuti, però il sindaco Massafra non lo ha fatto. Anche il Prefetto, nella sua relazione, chiarisce che non sono stati trovati riscontri al contenuto di un colloquio fra due pregiudicati intercettato dalle forze dell’ordine. Il ministro, però, ha scritto il contrario. Il decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Manduria è stato un atto grave e ingiusto. E’ stato fatto un uso distorto, bieco e spregiudicato del potere”. “Non posso negare che ci siano stati dei fatti legati alla mala politica – continua Tommasino nel suo intervento – questi atteggiamenti vanno perseguiti.  I manduriani hanno il dovere di reagire. Ho apprezzato l’iniziativa del comitato, che intende impugnare dinnanzi al Tar il decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Manduria. Auspico che ci sia una numerosa partecipazione a questa iniziativa, unico rimedio per coloro che avvertono un senso di ribellione al marchio inflitto ad un’intera comunità”. “La parte politica in generale non ha bisogno di ripulirsi la faccia – afferma l’avv. Giovanni Luigi De Donno, Vicesindaco della precedente Amministrazione – questa iniziativa del ricorso è stata voluta perchè il danno che questo provvedimento può dare all’immagine di Manduria è un danno che riguarda la città e non la classe politica. Il ricorso non serve per riportare in carica la vecchia amministrazione che era già sciolta prima del decreto, ma rappresenta l’unico strumento che la legge ci permette per rivendicare il diritto di poter affermare che Manduria non ha niente a che fare con la mafia”. Interessante è stata la testimonianza dell’avv. Alfredo Cacciapaglia, Sindaco di Parabita, recentemente reintegrato nelle sue funzioni a seguito della sentenza del TAR Lazio di annullamento del decreto di scioglimento relativo a quel Comune. “Se è accaduto a me può accadere a tutti”, queste le prime sue parole.

La vicenda era partita dalle indagini sfociate in 22 arresti nell’ambito di una operazione della Dda di Lecce denominata «Coltura». Tra gli arrestati anche il vice sindaco del comune salentino, accusato di aver favorito la Sacra Corona Unita. Le indagini avevano accertato – secondo l’accusa – favori fatti da esponenti del Comune alle famiglie vicine a un clan per assegnare loro voucher-buoni lavoro, contributi in denaro, alloggi popolari e assunzioni tra i netturbini con costi aggiuntivi per l’amministrazione comunale. Su proposta del Prefetto di Lecce e dell’apposita Commissione di indagine era stato quindi emanato il decreto di scioglimento per infiltrazioni mafiose con la nomina di tre commissari. Il sindaco Alfredo Cacciapaglia e gli altri amministratori estromessi dall’amministrazione del Comune con decreto del Presidente della Repubblica, proprio non ci stanno a questa decisione che reputano non veritiera, ingiusta, e quindi presentano il ricorso. I giudici hanno ritenuto fondato il ricorso e il Tar del Lazio ha annullato lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del consiglio comunale di Parabita. Per i giudici riguardavano solo l’ex vicesindaco e si riferivano a fatti antecedenti alle elezioni del 2015. Per il Tar, non ci sono elementi concreti, univoci e rilevanti idonei a configurare la compromissione del buon andamento o dell’imparzialità dell’amministrazione comunale. Perché lo Stato possa intervenire sciogliendo il Consiglio Comunale devono sussistere elementi certi e indiscutibili che dimostrino come la gestione amministrativa dell’Ente sia effettivamente inquinata o possa esserlo per effetto di infiltrazioni malavitose. Nel caso di Parabita questa dimostrazione non vi era stata. Dal momento dello scioglimento, il Comune di Parabita è stato amministrato da una terna di commissari che hanno assunto rispettivamente le funzioni di sindaco, giunta e consiglio comunale. E proprio ai Commissari Straordinari, il Sindaco di Parabita, nel suo intervento, fa riferimento dicendo che “c’è un business intorno ai commissariamenti, laute retribuzioni ed hotel a 5 stelle”. Invita i cittadini di Manduria a lottare con forza per togliere il marchio mafia ad una intera città. La testimonianza di Cacciapaglia, in merito alla vicenda affrontata nel suo Comune, è degna di riflessione e potrà essere ascoltata interamente nella registrazione audio video che presto Ciaksocial pubblicherà.

Manduria: affidamento riscossione alla Soget, venti indagati. Anche ex sindaci Massaro e Tommasino e loro assessori, scrive il 7 febbraio 2014 Noi notizie. Un anno fa, sulla base di un esposto, la Digos acquisì documentazione al Comune di Manduria. C’è stata l’indagine, si è deciso di prorogarla per vederci ulteriormente chiaro e adesso c’è la comunicazione della proroga delle indagini nei confronti di venti persone, a Manduria. Si tratta degli ex sindaci Francesco Saverio Massaro e Paolo Tommasino, e di assessori delle loro amministrazioni. Due mandati amministrativi completi, insomma. Dieci anni. Inoltre, proroga delle indagini per due segretari generali e due dirigenti del Comune. Oggetto dell’indagine, l’affidamento alla Soget del servizio di riscossione dei tributi: per primo lo fece Massaro, poi lo confermò il commissario straordinario, poi ancora la conferma con l’amministrazione-Tommasino. Per i venti gravati dagli avvisi, le ipotesi, chissà se a vario titolo o per tutti, sono di abuso d’ufficio e truffa aggravata. Lente di ingrandimento degli inquirenti, sembra, la proroga concessa alla Soget prima dell’affidamento del servizio ad un’altra società, la Censum. Il Comune di Manduria ha già rischiato di essere sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2012 con l’allora sindaco Paolo Tommasino. Il ministro dell’epoca, Annamaria Cancellieri, sentito il prefetto Claudio Sammartino, decretò il nulla di fatto.

L’ex sindaco di Manduria Tommasino consegna un dossier al prefetto di Taranto: «Atti trasparenti, nessuna infiltrazione mafiosa durante il mio mandato», scrive il 20 aprile 2012 da Francescot su Due mari. Dopo le dimissioni dello scorso 16 marzo, Paolo Tommasino sceglie la via della chiarezza. Terminata volontariamente la sua esperienza di sindaco a Manduria, il medico ha mantenuto fede alla promessa fatta all’indomani della rinuncia portando in Prefettura un nutrito dossier sull’attività svolta alla guida della Giunta di centrodestra, per fugare ogni dubbio su trasparenza e connivenze. Le dimissioni di Tommasino, infatti, sono arrivate insieme alle indagini che hanno sgominato un clan facente capo all’ex boss Vincenzo Stranieri, indagini che avevano adombrato il comune messapico. Si parlava di infiltrazioni mafiose, di amicizie pericolose degli amministratori, e Tommasino preferì rinunciare piuttosto che «essere confuso con il malaffare», come ha detto uscendo dall’incontro con il prefetto di Taranto Claudio Sammartino. «Questo atto rappresenta la mia volontà di essere parte attiva nelle indagini in corso – ha spiegato Tommasino riferendosi alle attività della commissione nominata dal Viminale per effettuare un’ispezione antimafia nel comune – ma anche la necessità di lanciare un messaggio chiaro a tutti e dire da che parte sto». L’ex sindaco di Manduria, ai microfoni di varie emittenti locali, ha smentito l’esistenza di infiltrazioni spiegando come l’attività amministrativa si sia sempre improntata alla massima trasparenza: «Ho cercato dal primo giorno di dimostrare che la mia amministrazione ha guardato sempre con grande attenzione al problema delle infiltrazioni – ha aggiunto Tommasino –. Solo per citare un esempio che è contenuto nel dossier consegnato al prefetto, va ricordata l’attività svolta per la discarica abbandonata di “Li Cicci”. Se poi ci sono state delle mele marce saranno loro a pagare, perché a me interessa solo dimostrare che ci sono invece molte mele buone». Le indagini in corso, quindi, secondo Tommasino sono in piena sintonia con quanto avrebbe voluto fare. Le dimissioni, di conseguenza, non sono legate a problemi di natura politica: «Il mio intento era quello di creare un governo tecnico con tutte le forze in campo, dimostrando che c’è chi può fare la differenza. Non è stato possibile, purtroppo, ma nessuno potrà dire che il mio sia stato un atto di codardia».

Giunta Tommasino, si cambia, scrive martedì 15 marzo 2011 "La Voce di Manduria". Salvo sorprese, oggi il sindaco Paolo Tommasino dovrebbe ridisegnare l’assetto della propria giunta. Come anticipato dal nostro giornale una decina di giorni fa, a conquistare la nomina di nuovo assessore saranno Antonio Curri per la La Lista Girardi, Franca Becci per la Lista Pionati Alleanza di Centro e Gianleo Greco per il gruppo degli ex indipendenti del Gai, Giorgio Duggento, Leonardo Moccia e Nicola Muscogiuri (quest’ultimo ha aderito al Fli di Fini).I licenziati saranno Piero Dabramo che dovrà lasciare il posto all’amico di partito, Curri e Francesco Ferretti De Virgilis in favore della sorella del coordinatore della lista, Franca Becci. Come la prenderanno costoro non è dato sapere. Delle voci insistenti circolate sin dai primi giorni dell’annunciato rimpasto, li davano come dimissionari volontari. Un «invito» a cui i due licenziati avrebbero risposto con un garbato rifiuto: «Se vuole cacciarci deve assumersi lui le responsabilità», fa sapere uno di loro. Intanto i problemi per il sindaco non finiscono qui perché oltre alle deleghe assessorili deve anche designare quella di vicesindaco. Secondo gli accordi, la carica appartenuta a Gregorio Capogrosso (di cui più nessuno parla) dovrebbe andare a Franca Becci. Ma l’ex sindaco e assessore, Curri, pare abbia già espresso desiderio di tenere a quel posto.

Fiducia ed imparzialità. Già, non ci sono prove, eppure si considera Sabrina e Cosima colpevoli del delitto di Sarah Scazzi. Invece per definire il comune di Manduria come mafioso ci sarebbero le prove, ma non per il Ministro Cancellieri, per la quale il Comune di Manduria (paese limitrofo ad Avetrana) non sarà sciolto per infiltrazioni mafiose così come si temeva e come avevano chiesto sia i tre commissari ministeriali che per sei mesi hanno tenuto sotto accertamento la macchina amministrativa, sia il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino. Lo ha definitivamente stabilito il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. «Dalla documentazione esaminata – si legge nel provvedimento del ministro – non emerge la concomitanza di elementi concreti, univoci e rilevanti tali da pregiudicare il funzionamento dei servizi ed i legittimi interessi della collettività, amministrata da un commissario straordinario sin dal 19 aprile 2012». L’atto ministeriale ripercorre l’iter dell’accertamento antimafia innescato dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce e dal decreto del prefetto di Taranto con il quale, il 29 marzo del 2011 istituiva la commissione d’indagine composta da due prefetti e dal maggiore della Guardia di Finanza, Giuseppe Dell’Anna. I tre commissari finirono il loro lavoro, durato sei mesi, proponendo lo scioglimento del Consiglio che, di fatto, si era autosciolto per il venir meno della maggioranza di centrodestra. Sulla scorta di quest’analisi, Il 4 novembre 2012, anche il prefetto di Taranto inviava al ministro una sua relazione nella quale, scrive la Cancellieri, «venivano valutati gli elementi di cui all’articolo 134, comma 1 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267». Considerato tutto questo, il ministro ha comunque deciso che «non sussistono i presupposti per lo scioglimento o l’adozione di altri provvedimenti», stabilendo così la conclusione del procedimento.

E su come si combatte la mafia da queste parti ne dà notizia Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. L’udienza preliminare a carico dei 31 indagati dell’operazione Giano da parte dell’antimafia di Lecce che ha dato origine al sospetto di infiltrazione mafiosa nel comune di Manduria, si è chiusa con un colpo di scena. Il gup Carlo Cazzella ha stralciato la posizione dell’ingegnere comunale Antonio Pescatore dichiarandosi incompetente sul caso specifico e rinviando tutto alla Procura di Taranto. Secondo il giudice salentino, il reato contestato al dirigente comunale (avrebbe favorito una società controllata da elementi della sacra corona unita nella gestione dei parcheggi a pagamento) non è di competenza della direzione distrettuale antimafia ma della procura ordinaria. Resta a Lecce invece il giudizio a carico di tutti gli altri indagati tra cui imprenditori, esponenti della malavita locale e l’ex boss della Scu, Vincenzo Stranieri che ha partecipato all’udienza grazie ad un collegamento in videoconferenza da un carcere del centro Italia dove è recluso in regime di isolamento del 41 bis. La decisione del gup Cazzella di derubricare il reato di mafia all’ingegnere Pescatore (che a questo punto risponderebbe al massimo del solo abuso d’ufficio), pone buone speranze per il futuro amministrativo del comune finito sotto i riflettori del ministero i quali, come si sa, hanno proposto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pescatore, infatti, è l’unico indagato che avrebbe potuto tessere il filo rosso capace di collegare la criminalità organizzata con le attività politica e amministrativa dell’ente. A meno che le indagini dei magistrati antimafia non abbiano nel frattempo individuato responsabilità dirette dei politici che al momento non risulterebbero indagati. Durante l’inchiesta ci sono stati momenti di tensione tra il giudice e Vincenzo Stranieri che si è lamentato per le parole pronunciate sul suo conto quando il magistrato pensava di non essere ancora collegato con il sistema. Le piaccia o no, lei mi deve ascoltare perché è un mio diritto, ha detto più o meno Stranieri che è apparso molto provato e abbattuto dal punto di vista fisico. L’operazione Giano ha portato il blitz scattato il 14 febbraio del 2011 che portò in carcere 16 persone e 2 agli arresti domiciliari, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concernenti armi ed esplosivi, attentati dinamitardi, tentato omicidio, rapina, estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti e spari in luogo pubblico. Tredici invece gli indagati a piede libero tra cui l’ingegnere Pescatore difeso dall’avvocato Raffaele Fistetti. Ma anche Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” spiega bene l’ambiente. Niente revisione del processo. Francesco Cavallari è l’unico colpevole. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di revisione della sentenza con la quale il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato nel 1995 il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex «re» della sanità privata pugliese imputato nell’ambito dell’operazione «Speranza». Tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui l’istanza di revisione del processo sulla base di quello che ai suoi difensori appare un paradosso: non può esistere un sodalizio mafioso con se stesso. Di diverso avviso il sostituto procuratore generale Antonio Maruccia che, al termine di una discussione durata due ore, ha chiesto fosse dichiarata l’inammissibilità dell’istanza. Ci sono volute altre cinque ore di camera di consiglio perché i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Giacomo Conte, relatore Nicola Lariccia) entrati nel merito, rigettassero l’istanza. «Tra quindici giorni leggeremo le motivazioni - dice l’avvocato Mario Malcangi che non si dà per vinto - ma certamente faremo ricorso per Cassazione. Sedici giudici (Tribunale di Bari, Corte d’Appello di Bari, Corte di Cassazione sia nel merito, sia sotto il profilo cautelare) hanno in un certo senso “perso” contro un solo giudice, quello che ha ratificato il patteggiamento». Se l’istanza fosse stata accolta, la condanna sarebbe stata immediatamente revocata, con tutte le conseguenze non solo sul piano penale, ma anche su quello civile. A partire dalla restituzione dei beni che furono confiscati a Cavallari.

Concorso: test irregolari? Si ipotizzano ricorsi. Il sospetto che, se fondato, renderebbe nulla la prima prova dei 770 concorrenti, è che non siano stati rispettati i criteri stabiliti dal bando. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 10 gennaio 2020. Ci si interroga ancora sul risultato della preselezione del concorso per la copertura di 5 posti di collaboratore amministrativo indetto dal Comune di Manduria che ha eliminato circa il 98% dei partecipanti. Domande eccessivamente difficili, si è detto, che nessuno ha potuto studiare per volontà della commissione di concorso che non ha voluto la preventiva pubblicazione della batteria delle domande da cui sarebbero state estratte quelle somministrate in sede di selezione. Ma, forse, anche inappropriate al ruolo da ricoprire. Il sospetto che, se fondato, renderebbe nulla la prima prova dei 770 concorrenti, è che non siano stati rispettati i criteri stabiliti dal bando. E nemmeno dal capitolato di gara aggiudicata dalla “C&C consulenza e selezione” di Roma per 13mila euro che per il concorso di collaboratore amministrativo chiedeva espressamente, per l concorso di collaboratore appunto, il 60% delle domande di cultura generale e la restante parte sull’ordinamento degli enti locali. Tra le trenta presentate, invece, pare ci fosse una buona percentuale di diritto amministrativo previste invece per il concorso di Istruttore. Ed ecco che nelle trenta domande a risposta multipla che hanno rasato al suolo la platea dei 770 partecipanti lasciandone in piedi solo 18, c’erano quelle sul concetto di popolo che rientra nel costituzionale, oppure su cos’è la legislatura, o quale organo deve controllare che sia applicata la costituzione, chi può richiedere l’abrogazione di una legge attraverso il referendum e via di seguito. Niente a che vedere, insomma, con il funzionamento della macchina amministrativa locale e, forse, troppo tecniche per poterle includerle nella cultura generale. Il nervosismo è tanto tra gli esclusi per cui molti di loro attendono lunedì quando, con l’accesso agli atti, potranno fare una verifica sugli errori commessi e sulla specificità delle domande con una migliore analisi della loro pertinenza con il posto messo a gara. Non si escludono a questo punto ricorsi a catena con richiesta di rifare la prova. Riportiamo, infine, un commento molto illuminante sull'argomento inviatoci da un nostro lettore, Vincenzo S. che scrive: «Per deformazione professionale, acquisita in oltre 42 anni di lavoro nella Pubblica Amministrazione, invito gli interessati a dare lettura alla Direttiva n. 3 del 24 aprile 2018, in particolare al punto 4. che disquisisce delle procedure di preselezione. La PA è tenuta ad adottare in tutte le procedure avviate, buone e trasparenti regole, al fine di evitare che l'insorgenza di contenzioso, sia motivo di ritardo nell'iter, con possibile individuazione di quanti, così operando, potrebbero aver causato un danno, a detrimento degli interessi più generali dell'Erario». Nazareno Dinoi.

Concorso pubblico: le selezioni falciano il 98% dei candidati. Domani e dopodomani è prevista la prova per i restanti candidati che hanno presentato domanda per un totale di 3.300 aspiranti impiegati.​ Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 8 gennaio 2020. Su 770 partecipanti alle selezioni per il concorso indetto dal Comune di Manduria (15 posti di ruolo) solo in 18 ce l’hanno fatta a passare alla prova successiva. Una vera e propria ecatombe di esclusi che non hanno superato il punteggio minimo previsto che era di 21 domande esatte su 30 del test a risposta multipla. Domani e dopodomani è prevista la prova per i restanti candidati che hanno presentato domanda per un totale di 3.300 aspiranti impiegati. A breve pubblicheremo l'elenco completo degli esclusi e dei "promossi". Ecco i nomi degli ammessi alla selezione di oggi: Oronzo Ludovico, Marco Desantis, Clara Carmen Benedetta Miniero, Vincenzo Micera, Alessandra Mario, Costanza Ketty Racanelli, Vincenzo Nacci, Massimo Battaglino, Caterina Monaco, Giuseppe Cervellera, Manuela Scarano, Beda Pietanza, Stefano Perrucci, Roberta De Nuzzo, Simona Clemente, Addolorata Verrenti, Emilia Padalino, Stefania Ingrosso.

Scarica il PDF con l'elenco completo dei selezionati ammessi e non ammessi.

Unico fenomeno: prima tra 3.300 concorrenti. Paola Bacca ha 38 anni e vive a Veglie, è laureata in giurisprudenza ed esercita nel civile, immigrazione e amministrativo. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 11 gennaio 2020. La vera protagonista di questi tre giorni di selezioni che hanno messo alla prova 3.300 aspiranti impiegati di ruolo, tutti diplomati con molti laureati, si chiama Paola Bacca. È lei l’unica ad essere riuscita ad indovinare trenta domande su trenta. Un vero e proprio fenomeno se si considera che sotto di lei ci sono 3.299 che non sono riusciti a fare altrettanto e nemmeno ad avvicinarsi. Il secondo in graduatoria, infatti, tale Stefano Caretta, ha raggiunto un punteggio di poco superiore a 26, quattro punti sotto. Lei, però, non sembra rendersi conto dell’eccezionale performance raggiunta. «Sono semplicemente allenata perchè sto partecipando a vari concorsi», dichiara con nonchalance. Paola Bacca ha 38 anni e vive a Veglie, è laureata in giurisprudenza ed esercita nel civile, immigrazione e amministrativo. Alla domanda se si ritiene un genio, l’avvocatessa vegliese risponde così: «per la mia categoria le domande non erano difficili, ma erano formulate in maniera tale che se non conoscevi esattamente la materia potevi facilmente cadere in errore». In effetti sono stati in molti a cadere nel tranello.  Per la cronaca. Salvo scoprire diversamente, tra i trenta ammessi di ieri, il primo manduriano della lista (settimo posto con 24,6 punti su trenta), è il conosciutissimo Fulvio Perrone, laurea in tasca e tanta esperienza nella pubblica amministrazione e nella burocrazia e soprattutto nelle materie ambientali per le quali ricopre ruoli dirigenziali in Legambiente.

Richiesta di chiarimenti dal 2014 ad oggi. La lente della Corte dei Conti sugli stipendi del Comandante. Risponderebbe di questo anche (se non soprattutto, per i numerosi incarichi dirigenziali affidati al comandante Dinoi in quest’ultimo biennio), anche l’attuale commissione straordinaria incaricata dal Ministero dell’Interno. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 12 maggio 2020. C’è nervosismo in alcuni uffici del comune di Manduria con telefoni e videochiamate infuocate che legano la sede municipale, l’ufficio del comando dei vigili urbani e i commissari straordinari. A riscaldare il clima è la Corte dei Conti che a quanto pare sta chiedendo “conto”, appunto, su alcune buste paga ritenute improprie che le amministrazioni comunali degli ultimi sei anni avrebbero elargito a favore di un dipendente pubblico che riveste ruoli importanti nella macchina amministrativa della città Messapica. La lente d’ingrandimento della Procura generale della Corte die Conti della Regione Puglia si è soffermata sull’inquadramento nell’organico dell’attuale superdirigente e comandante della polizia municipale, avvocato Enzo Dinoi e sui suoi stipendi incassati dal 2014 ad oggi. Dovrebbe trattarsi della già discussa e mai risolta questione della legittimità del ruolo dirigenziale che le varie amministrazioni hanno affidato al dipendente. I giudici dei conti pubblici che hanno aperto un fascicolo d’indagine su questo, avrebbero trovato delle incongruenze sul ruolo ricoperto negli anni dal dipendente che potrebbe non avere avuto mai i titoli (non professionali ma di legittimità normativa) per ricoprire funzioni dirigenziali. Una presunta anomalia che era già venuta a galla recentemente con la relazione dei vecchi revisori dei conti del comune che per il comandante-dirigente avevano coniato il termine di “dirigente anomalo”. Una presunta anomalia che ancor prima era emersa da un parere legale richiesto dall’ex sindaco Roberto Massafra. L’avvocato Dinoi, secondo le ipotesi di chi indaga sul suo conto, non avrebbe potuto ricoprire quel ruolo che gli riconosce uno stipendi ben al di là di quello che gli spetterebbe nel suo profilo per il quale è stato assunto. Trattandosi di denaro pubblico, ecco che entra in gioco la magistratura contabile che, se i dubbi dovessero essere confermati, non esiterebbe a chiedere indietro le somme percepite illegittimamente. A dover rispondere, in quel caso, non sarebbe solo il dipendente, ma anche le amministrazioni che hanno consentito il presunto guadagno indebito. Risponderebbe di questo anche (se non soprattutto, per i numerosi incarichi dirigenziali affidati al comandante Dinoi in quest’ultimo biennio), anche l’attuale commissione straordinaria incaricata dal Ministero dell’Interno di ristabilire la legalità nel comune di Manduria sciolto per mafia. Questo pericolo, si dice, avrebbe rotto i rapporti tra Dinoi e i commissari che starebbero per prendere dei provvedimenti in merito. Nazareno Dinoi

La denuncia dell’ex sindaco Massafra: superdirigente? Chiedetelo ai commissari. “Dirigente atipico”, quando nel 2018 i revisori avvertirono i commissari. La Voce di Manduria martedì 26 maggio 2020. «Sono stati gli stessi commissari straordinari ad affidare all’avvocato Vincenzo Dinoi i numerosi incarichi che gli son valsi il titolo di superdirigente». Ad affermarlo è il movimento politico «Manduria Futura» che punta così il dito sui presunti responsabili dell’anomalia su cui indaga la Corte dei Conti, posizione sanata ora con l’eliminazione della dirigenza dalla pianta organica dell’ente. Decisione presa dalla stessa commissione straordinaria che sulla figura del superdirigente ha rilevato solo ora «potenziali profili di incompatibilità tra le varie attribuzioni del medesimo dirigente». n ravvedimento tardivo, si direbbe, se è vero che, come fa notare il movimento politico dell’ex sindaco Roberto Massafra, sarebbero stati proprio loro, figure espertissime e non certo digiuni delle norme che regolano il corretto funzionamento della macchina amministrativa e delle leggi (un prefetto in pensione, un vice prefetto in attività e un funzionario di Prefettura) a concentrare tanto potere nelle mani di una persona sola nonostante un precedente richiamo dei revisori dei conti che a luglio del 2018 (ne parliamo a parte) lo definivano «dirigente atipico». Sull’albo pretorio del comune se ne contano almeno sei di decreti a loro firma che richiamano all’oggetto incarichi di responsabilità al dirigente «atipico». Il primo risale a maggio del 2018 quando i commissari assegnarono all’avvocato Dinoi il compito di «adottare singoli e specifici atti delle Aree e/o Servizi - Area 2 Bilancio e Programmazione - Tributi e Organizzazione - Area 5 - Commercio, Artigianato ed Attività Produttive e Agricoltura». Oltre, naturalmente a dirigere il copro di polizia locale. Sempre a maggio di quell’anno a Dinoi viene affidato l’incarico «dirigenziale relativo alla direzione dell'Area 6 "Servizi di Vigilanza", nonchè le funzioni di Vice Segretario». Sempre la commissione straordinaria a settembre del 2018 incarica l'avvocato Vincenzo Dinoi di dirigere l'Area 2 - Bilancio e Programmazione, Tributi e Organizzazione, Uffici Giudice di pace (poi soppresso), Affari Legali e Ufficio Legale, Area 1 - Servizi Istituzionali , Area 5 - Settore Attività Sociali, Promozionali, Ambito Territoriale Piano di zona». Risale ad ottobre dello stesso anno l’incarico all'avvocato di «Comandante e responsabile per la gestione in forma associata del servizio/funzioni di Polizia Locale instaurato tra il Comune di Manduria ed il Comune di Avetrana». Il dipendente assume quindi il comando del nuovo «Corpo intercomunale di polizia locale del Salento Nord-Occidentale» istituito su misura. A gennaio 2019 i commissari, infine, gli affidano l’incarico dirigenziale dell’Area finanziaria. Per non farsi mancare niente, a giugno dello stesso anno l’avvocato Dinoi viene autorizzato dalla commissione straordinaria a svolgere l'incarico di componente esterno della Commissione giudicatrice del concorso pubblico per l'assunzione di personale della Polizia Locale a tempo determinato presso il Comune di Torricella.

“Dirigente atipico”, quando nel 2018 i revisori avvertirono i commissari. Ripubblichiamo un nostro articolo pubblicato a giugno del 2018 in cui si dava conto della relazione dei revisori dei conti di allora che sollevavano dubbi sulla correttezza delle procedure adottate dai tre commissari in materia di pianta organica e di incarichi dirigenziali. Fu quello un campanello d’allarme che avrebbe dovuto consigliare ai tre inviati ministeriali di aprire gli occhi. «In burocratese viene definita “richiesta di integrazione di documentazione di supporto”. Di fatto quella dei revisori dei conti del comune di Manduria, che hanno per il momento stoppato una importante delibera, è la prima “bacchettata” sulle mani dei tre esperti commissari inviati dal Ministero per ripulire la macchina amministrativa infiltrata dalla mafia. La proposta di deliberazione in questione è quella del riordino della forza lavoro con un nuovo piano delle assunzioni di personale per il triennio 2018-2020. L’idea dei tre commissari è quella di aggiungere in organico tre figure dirigenziali di ruolo che mancano dalla pianta organica in vigore. A quanto pare, però, i desideri dei tre commissari non andrebbero d’accordo con la normativa di riferimento che imporrebbe, invece, altre scelte. Se ne sarebbero accorti i componenti del Collegio dei revisori dei conti che nell’esprimere un parere alla proposta di deliberazione, hanno espresso diversi dubbi. Il primo riguarda le modalità di assunzione dei dirigenti che la delibera che si vorrebbe approvare non specifica se si dovrà procedere con mobilità volontaria, avviso pubblico articolo 110 o tramite concorso. «Solo dopo aver conosciuto la tipologia di reclutamento – scrivono giustamente i revisori de conti – si potrà esprimere un parere». Ancora più clamorosa l’altra lacuna evidenziata dal collegio contabile: la copertura finanziaria. Per i revisori, insomma, queste assunzioni farebbero superare il tetto di spesa per il personale violando così la legge in vigore. Un altro punto che i contabili dell’ente hanno segnato con la matita rossa, riguarda la parte della delibera in cui si parla di un dirigente in servizio a tempo indeterminato (che non può che essere il comandante dei vigili, Enzo Dinoi), la cui posizione, ricordano i revisori, sarebbe stata sempre considerata “atipica”. Un’ultima osservazione è relativa al mancato rispetto dei contratti collettivi. Pare, infatti, che la proposta dei commissari non sia stata trasmessa alle organizzazioni sindacali. Alla luce di tutto questo, il collegio composto da Madia Maria Capitano, Massimo Legittimo e Francesco Lanera, si è riservato di esprimere il proprio parere solo dopo che avrà avuto la documentazione richiesta. (articolo pubblicato nel 2018)

L’ex dirigente Dinoi rivuole il suo posto e si rivolge al giudice. In questa causa il Comune di Manduria sarà rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Misserini del foro di Taranto. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria l'1 ottobre 2020. L’ex dirigente Enzo Dinoi, estromesso dall’incarico di dirigente, torna alla carica e tenta di riconquistare il posto apicale ricorrendo al tribunale del lavoro. Dinoi che è comandante del corpo di polizia municipale, si è affidato agli avvocati Cataldo Balducci del foro di Bari e Luisa Serrano del foro di Lecce per chiedere al giudice del Lavoro del Tribunale di Taranto la revoca degli atti adottati dal Comune e la restituzione del ruolo dirigenziale coperto per diversi anni. I suoi legali chiedono che il loro assistito sia «inquadrato nella prima qualifica dirigenziale del Contratto collettivo nell'ambito dell'organico del Comune di Manduria con ogni conseguenza di legge, il tutto con vittoria di spese e competenze di causa».  Un vero braccio di ferro insomma con l’amministrazione straordinaria che terminerà le sue funzioni il 6 ottobre prossimo quando Manduria avrà finalmente un sindaco eletto dal popolo a cui toccherà poi sbrogliare la matassa. I commissari straordinari, dal loro punto di vista, hanno attribuito al super dirigente Dinoi una eccessiva concentrazione di potere nelle mani di una sola persona. Alla stessa conclusione erano arrivati diversi pareri legali commissionati da precedenti sindaci ed anche dai revisori dei conti che lo avevano definito “dirigente atipico”. Anomalie su cui ha sollevato sospetti anche nei giudici della Corte dei Conti che hanno aperto un inchiesta chiedendo conto degli ultimi cinque anni di presunta dirigenza atipica. I commissari scrivono così sull’argomento: «Il mantenimento dell’attuale assetto organizzativo, con l’impossibilità di coprire le posizioni dirigenziali vacanti, per effetto dei vari vincoli normativi e della carenza di risorse di bilancio, ha imposto accorpamenti di funzioni eterogenee per competenze e contenuti, in contrasto con la disciplina a tutela della divisione dei ruoli e delle competenze, determinando potenziali profili di incompatibilità tra le varie attribuzioni del medesimo dirigente». Dinoi, appunto, che per anni ha controllato Affari generali, personale, Finanze, Cultura – Turismo e Spettacolo, vice segretario comunale, e Polizia Locale e che ora spera di riconquistare l’ambito e ben remunerato posto di dirigente confidando in una sentenza a suo favore del giudice del lavoro.

L’ex super dirigente perde anche il comando dei vigili di Avetrana. La commissione straordinaria del comune Messapico, infatti, con una decisione unilaterale, ha revocato la convenzione per l’esercizio associato delle polizie locali dei due comuni confinanti. La Voce di Manduria mercoledì 10 giugno 2020. Dopo le numerose dirigenze il maggiore Enzo Dinoi, comandante della polizia municipale di Manduria, perde anche il comando del corpo dei vigili urbani del Comune di Avetrana, funzione ricoperta da settembre del 2018. La commissione straordinaria del comune Messapico, infatti, con una decisione unilaterale, ha revocato la convenzione per l’esercizio associato delle polizie locali dei due comuni confinanti. Una decisione, quella presa dai tre commissari ministeriali, che non cade certo all’improvviso, semmai la conseguenza logica del demansionamento dell’ex super dirigente quale effetto della modifica della pianta organica comunale che ha perso tutte le figure apicali per incarichi di posizioni organizzative a sette responsabili individuati tra i dipendenti di ruolo. «Ritenuti non più giustificati e giustificabili gli oneri strumentali e di risorse umane a carico del Comune di Manduria previsti dalla Convenzione in oggetto e ritenuto pertanto di dover recedere dalla stessa», si legge nella delibera firmata dai commissari Vittorio Saladino, Luigi Scipioni e Luigi Cagnazzo. Il maggiore Dinoi conclude così il suo compito per il quale il Comune di Avetrana gli ha riconosciuto una indennità di funzione di circa seicento euro al mese. Gli amministratori avetranesi hanno preso la decisione senza molti traumi. «Pazienza, vuol dire che cercheremo altrove, è stato il commento del vicesindaco Alessandro Scarciglia.

Indagini interne dal 2014. Tutti i salvataggi del superdirigente. L’avvocato Margiotta rilevò delle incongruenze nei vari atti interni che negli anni hanno consentito al dipendente di continuare ad indossare la divisa da comandante ma anche di ricoprire posti di dirigenza all’interno dell’ente. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 14 maggio 2020. La sospetta anomalia del «dirigente atipico» Vincenzo Dinoi, sui cui indaga ora la Corte dei Conti, era stata già oggetto di una indagine interna terminata senza esito. Ad avviarla, nel 2014, fu l’allora sindaco Roberto Massafra che a febbraio di quell’anno commissionò un parere legale all’avvocato Martino Margiotta. All’esperto giuslavorista fu chiesto di verificare proprio la posizione funzionale del comandante dei vigili urbani nonché dirigente, per anni, di più settori affidati sempre dai sindaci succedutisi nelle diverse amministrazioni. L’avvocato Margiotta rilevò delle incongruenze nei vari atti interni che negli anni hanno consentito al dipendente di continuare ad indossare la divisa do comandante ma anche di ricoprire posti di dirigenza all’interno dell’ente. La ricerca dell’esperto in materia di lavoro nel pubblico impiego, fece emergere la storia lavorativa di Dinoi. Entrato per la prima volta come precario nell’organico comunale con un contratto annuale di dirigente dell’ufficio personale, l’avvocato Vincenzo Dinoi partecipò, vincendolo, al concorso di comandante dei vigili urbani indetto sotto l’amministrazione dal sindaco Gregorio Pecoraro. Ruolo che ha ricoperto per poco tempo perché nel 2002 l’allora sindaco di centrodestra, Antonio Calò, firmò un verbale di conciliazione presso la direzione provinciale del lavoro che permise al dipendente di lasciare la divisa per rivestire ruoli dirigenziali in altri settori amministrativi. Nel 2006 l’ex sindaco Francesco Massaro, del Pd, permise a Dinoi un altro passaggio in pianta organica passandolo dall’area vigilanza nella quale era stato assunto, a quello amministrativo sanando, così, la sua posizione. L’avvocato Margiotta arrivò alla conclusione secondo la quale, per effetto della conciliazione che era stata fatta all’Ufficio del lavoro durante la giunta Calò, non si poteva mettere in discussione il contratto privatistico di lavoro anche perché era passato troppo tempo. Tuttavia l’avvocato consigliò di rimandarlo a fare il comandante dei vigili, cosa che fu fatta. In quella occasione Vincenzo Dinoi minacciò una denuncia per mobbing nei confronti del sindaco Massafra che cambiò strategia: l’eliminazione dalla pianta organica della figura dei dirigenti con una diversa organizzazione che avrebbe reso più snella la macchina amministrativa ed avrebbe fatto risparmiare lo stipendio dei dirigenti. E ci sarebbe riuscito se la sua stessa maggioranza non l’avesse tradito. Dopo una prima delibera di Consiglio che dava mandato alla giunta di varare la rivoluzione, il “partito dei dirigenti”, come fu definita la fronda interna alla maggioranza che voleva salvare le figure apicali, raccolse le firme per un nuovo Consiglio comunale nel corso del quale fu approvata a maggioranza la soppressione della delibera di giunta che avrebbe modificato la struttura organizzativa e tutto tornò come prima. Con il sindaco Massafra rimasero in aula solo i consiglieri del suo gruppo, Maggi, Minonne, Barbieri, il consigliere del Ncd, Roberto Puglia e i due di Lariccia, Quaranta e Giuliano. Si astenne il presidente Nicola Dimonopoli. Determinante per la sconfitta fu l’assenza del gruppo di Leo Girardi che dopo un’accesa contestazione ad apertura di seduta per l’eccessivo ritardo d’inizio, abbandonò l’aula sbattendo la porta. Se quel progetto della giunta Massafra fosse stato realizzato, il “dirigente atipico” Vincenzo Dinoi sarebbe rimasto a fare solo il comandante dei vigili e oggi non ci sarebbe stata l’inchiesta della Corte dei Conti che, in caso di accertato danno erariale, potrebbe chiedere conto, per un eventuale rimborso della somma sottratta per gli stipendi presuntivamente indebiti, a tutti gli amministratori dal 2014 ad oggi. Ironia della sorte, anche quelli della maggioranza Massafra mentre i precedenti salvati dalla prescrizione. Nazareno Dinoi

Vi ricordate di Paola Galeone? Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo non è il solo mezzo di ritorsione. Da 20 anni impediscono al sottoscritto di abilitarsi all’avvocatura, in quanto i suoi elaborati al concorso forense non sono letti, e il Tar di Lecce proibisce la presentazione del ricorso contro i falsi giudizi. Per tutti questi fatti è stata coinvolta la Corte Europea dei Diritti Umani. Avvocati e magistrati del distretto della Corte d’Appello di Lecce (Taranto, Lecce e Brindisi) si sono coalizzati contro di me, avendo, unicamente io, in modo isolato, da presidente provinciale di una associazione di praticanti ed avvocati denunciato gli abusi e l’evasione fiscale e contributiva a danno dei praticanti e avendo mosso critiche mediatiche al sistema concorsuale di abilitazione forense, che tutti sanno essere truccato e che ha permesso ai commissari d’esame di diventare avvocati. La contestazione si è concretizzata in denunce penali contro i commissari d’esame, tra i quali tutti i magistrati e gli avvocati più noti del distretto. Un dato di fatto è che l’avv. Antonio De Giorgi, già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce e presidente di Commissione d’esame di Lecce, da me denunciato, è diventato ispettore ministeriale e Presidente della Commissione centrale ministeriale del concorso forense, pur essendoci eccezioni d’incompatibilità ai sensi della riforma, che inibisce la presenza in commissione d’esame dei consiglieri dell’Ordine. I magistrati di Taranto, inoltre per inibire ogni reazione a chi non è conforme al sistema giudiziario, mi hanno denunciato per diffamazione a mezzo stampa presso la procura di Potenza perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore di Taranto, Alessio Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione di una mia denuncia. Richiesta poi accolta e denuncia archiviata. Le motivazioni rilevavano che per il PM era normale che l’ufficio protocollo del comune di Manduria non rilasciasse ricevuta, come era normale che a vincere il concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria, fosse un avvocato di Manduria che, con nomina dei politici locali di turno, aveva indetto e regolato la procedura concorsuale come responsabile pro tempore dell’ufficio del personale. Da tener conto che in graduatoria il vincitore precedeva il sottoscritto. Ciò è dovuto anche al fatto che il sottoscritto ha presentato denunce, rimaste lettera morta, contro quella parte politica quando era al potere, sia ad Avetrana con sindaco Luigi Conte, sia a Manduria con sindaco Gregorio Pecoraro, e contro gli avvocati che beneficiavano degli incarichi e contro le forze dell’ordine e i magistrati che ne hanno coperto gli abusi. Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di Brindisi. Successivamente all’incarico di comandante dei vigili urbani l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi.

Cosenza, l’imprenditrice  che ha denunciato la prefetta: «Sto con lo Stato». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it. «Non avrei potuto fare diversamente. Da tempo sono impegnata nel sociale e spesso mi è capitato di pronunciare frasi del tipo: “In questa terra dobbiamo scegliere da che parte stare subito!”. Ecco, questa volta, ho capito che toccava a me». È quanto afferma in un’intervista alla Gazzetta del Sud Cinzia Falcone, 46 anni, l’imprenditrice dalla cui denuncia è scaturito l’arresto del prefetto di Cosenza Paola Galeone posta ai domiciliari per il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità. «Passare dalle parole ai fatti — aggiunge Falcone — non è semplice soprattutto quando ci si trova davanti ad un prefetto della Repubblica. Il giorno prima, però, avevo ascoltato l’intervista al procuratore Gratteri in cui invitava i calabresi a ribellarsi e questo ha determinato in me ulteriormente la volontà di dissentire e dire no a una ingiusta richiesta». L’imprenditrice parla dei rapporti con il prefetto e dell’imbarazzo provato davanti alla proposta: «Ho poi pensato che si trattava solo di una persona non dello Stato». «Ho conosciuto il prefetto Galeone — prosegue l’imprenditrice cosentina — quando si è insediata. Poi, in occasione della “Giornata internazionale sulla violenza contro le donne” mi è stato proposto, visto l’impegno nel settore con la mia associazione Animed, di collaborare alla realizzazione di un evento occupandomi di contattare le scuole e di moderare la manifestazione. Cosa che ho fatto senza compenso alcuno. Ero fiera che la Prefettura, dunque lo Stato, ci avesse coinvolti in questo incontro». «Non ho realizzato subito — aggiunge ancora Cinzia Falcone nell’intervista — che mi si stava facendo una proposta illegale. Eravamo nel Palazzo di Governo, ho impiegato qualche ora per realizzare che non era un’errata deduzione. Fino a quel momento avevo sempre ammirato e nutrito stima per la dottoressa Galeone. Ma il confronto con la mia famiglia mi ha aiutato, invece, a capire la gravità di quanto mi era stato proposto. E non ho esitato a denunciare. Sono consapevole che esistono poteri forti ma sono consapevole anche che esiste uno Stato forte. Io ho scelto di stare dalla parte dello Stato».

Paola Galeone, il prefetto di Cosenza, indagata per corruzione. Pubblicato martedì, 31 dicembre 2019 su Corriere.it da Carlo Macrì. Denunciata da un’imprenditrice. La trappola della polizia. La consegna della busta con i soldi avvenuta in un bar. Settecento euro. È la mazzetta intascata dal prefetto di Cosenza Paola Galeone, 58 anni, indagata per corruzione dalla procura di Cosenza. La rappresentante del Governo è stata denunciata da una imprenditrice del luogo alla quale la Galeone aveva chiesto di emettere una fattura di 1220 euro per intascare parte del fondo di rappresentanza nella disponibilità dei prefetti. Settecento sarebbero andati al prefetto, 500 all’imprenditrice. La quale basita dalla richiesta, durante un incontro in Prefettura, ha deciso di sporgere denuncia alla polizia di Stato. La questura di Cosenza ha chiesto all’imprenditrice di assecondare la richiesta della Galeone che aveva anche indicato il bar dopo sarebbe dovuto avvenire lo scambio. Soldi, in cambio della fattura fittizia. La polizia ha studiato nei dettagli come incastrare il prefetto, fornendo all’imprenditrice l’attrezzatura ad alta tecnologia necessaria per registrare e filmare il colloquio e l’avvenuto scambio del denaro. In più, le banconote sono state fotocopiate. A scambio avvenuto mentre il prefetto di Cosenza, stava per lasciare il bar, è stata bloccata dalla polizia che le ha perquisito la borsa trovando le banconote fotocopiate, appena intascate. La notizia pubblicata da Gazzetta del Sud ha avuto l’effetto di un terremoto. Bocche cucite in procura. L’indagine potrebbe portare a nuovi sviluppi. Il fatto risalirebbe a prima di Natale e da quel giorno, la macchina investigativa si è messa in moto e l’indagine potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. Non solo per la figura del prefetto il cui studio è stato perquisito dagli uomini della squadra mobile di Cosenza. Paola Galeone è entrata nell’Amministrazione civile nel dicembre del 1987 ed assegnata come primo incarico alla prefettura di Taranto. È stata anche prefetto di Benevento e, ancor prima, vice commissario del Governo nel Friuli Venezia Giulia. La polizia ha informato della vicenda il capo della Polizia Franco Gabrielli e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Il caso di corruzione del prefetto di Cosenza non è altro che l’ultimo episodio che vede protagonisti in Calabria le istituzioni. Nei giorni scorsi all’interno della magistratura calabrese si è acuito lo scontro tra il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Lupacchini ha accusato Gratteri di non essere stato informato dell’inchiesta «Rinascita-Scott» che ha portato in carcere più di 300 persone e, non gli sono piaciute le esternazioni del capo della procura che aveva detto: «Rivolterò la Calabria come un lego». Inoltre, Lupacchini, aveva criticato l’operato di Gratteri, delegittimandolo con l’allusivo riferimento: «... a ciò che generalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro».

Cosenza, prefetto Paola Galeone indagata per corruzione. Avrebbe incassato 700 euro da un'imprenditrice che ha denunciato il fatto alla polizia. La Repubblica il 31 dicembre 2019. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, é indagata per corruzione. Nel dare la notizia la Gazzetta del Sud precisa che avrebbe intascato una mazzetta da 700 euro da un'imprenditrice che l'ha denunciata alla polizia. Secondo la ricostruzione del quotidiano, Galeone avrebbe proposto all'imprenditrice di emettere una fattura fittizia per 1.220 euro con l'obiettivo di intascare la parte del fondo di rappresentanza accordato ai singoli prefetti che era rimasta disponibile alla fine dell'anno. Settecento euro sarebbero andati al prefetto e 500 all'imprenditrice come regalo per la disponibilità mostrata. Le fasi della consegna del denaro, avvenuta in un bar di Cosenza, sarebbero state documentate dalla squadra mobile a cui l'imprenditrice si era rivolta e che ha registrato la conversazione. Galeone è prefetto della città calabrese dal 23 luglio 2018. In precedenza aveva svolto la stesa funzione a Benevento. Assunta nell'amministrazione civile del ministero dell'Interno nel dicembre del 1987, era stata assegnata come prima sede alla prefettura di Taranto, dove aveva ricoperto vari ruoli.

Mazzetta di 700 euro, indagato il prefetto di Cosenza. Paola Galeone è accusata di corruzione. Avrebbe chiesto una fattura falsa a  un'imprenditrice per ottenere il fondo di rappresentanza. Pietro Bellantoni, Martedì 31/12/2019, su Il Giornale. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, finisce sul registro degli indagati per corruzione. Secondo quanto riporta oggi la Gazzetta del Sud, la delegata del governo avrebbe intascato una mazzetta di 700 euro da una imprenditrice. La denuncia sarebbe partita proprio dalla vittima. Galeone avrebbe infatti proposto alla titolare di un bar di emettere una fattura fittizia di 1.220 euro per ottenere una parte del fondo di rappresentanza, rimasto disponibile a fine anno, riconosciuto ai prefetti. Di quella fattura, 700 euro sarebbero rimasti al prefetto di Cosenza, mentre gli altri 500 restituiti all'imprenditrice come una sorta di ricompensa per la disponibilità dimostrata. Galeone, come spiega la Gazzetta del Sud, avrebbe proposto l'accordo corruttivo all'interno delle Prefettura. Una proposta di fronte alla quale l'imprenditrice sarebbe rimasta “basita”, anche perché il piano prevedeva che la consegna dei soldi avvenisse in un luogo pubblico. La donna avrebbe allora deciso di confidare tutto ai suoi familiari e poi alla polizia di Cosenza. Una volta fissato l'incontro nel bar scelto dal prefetto, l'imprenditrice si è quindi presentata con dei soldi falsi inseriti in una busta e ha poi videoregistrato tutta la conversazione. Galeone è alla guida dell'Utg di Cosenza dal luglio del 2018. Aveva ricoperto lo stesso incarico anche a Benevento (2014-2018). È stata inoltre vice commissario del governo in Friuli Venezia Giulia e vicario del prefetto sia a Cosenza che a Campobasso.

Corruzione, indagata la prefetto Paola Galeone. Il fatto risalirebbe a prima di Natale e da quel giorno, la macchina investigativa si è messa in moto e l’indagine potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. La Voce di Manduria martedì 31 dicembre 2019. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone (più volte commissario prefettizio del comune di Manduria), è indagata con l’accusa di aver intascato 700 euro che aveva richiesto ad una imprenditrice. Lo riporta il quotidiano La Gazzetta del Sud che racconta i particolari dell’inchiesta nata da una denuncia presentata in polizia da una imprenditrice del posto. La donna sarebbe stata invitata dalla prefetto ad emettere una fattura fittizia per 1220 euro con l'obiettivo di intascare la parte del fondo di rappresentanza accordato ai singoli prefetti rimasta ancora disponibile alla fine dell'anno. Settecento euro sarebbero andati alla Galeone e 500 all'imprenditrice – questo il piano – come regalo per la disponibilità mostrata. Di fronte alla singolare proposta ricevuta peraltro nell'ufficio del Palazzo di Governo, l'imprenditrice ha deciso di raccontare tutto alle forze dell’ordine che hanno organizzato la trappola. Gli investigatori hanno fornito l’attrezzatura necessaria all’imprenditrice che ha filmato lo scambio del denaro avvenuto in un bar di Cosenza. La prefetto Galeone stava per lasciare il locale quando è stata bloccata dalla polizia che le ha perquisito la borsa trovando le banconote fotocopiate appena intascate. Il fatto risalirebbe a prima di Natale e da quel giorno, la macchina investigativa si è messa in moto e l’indagine potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. Non solo per la figura del prefetto il cui studio è stato perquisito dagli uomini della squadra mobile di Cosenza. Paola Galeone è entrata nell’Amministrazione civile nel dicembre del 1987 ed assegnata come primo incarico alla prefettura di Taranto. È stata anche prefetto di Benevento e, ancor prima, vice commissario del Governo nel Friuli Venezia Giulia. Più volte ha amministrato il comun di Manduria in occasione delle frequenti dimissioni anticipati del sindaco per la perdita della maggioranza. La polizia ha informato della vicenda il capo della Polizia Franco Gabrielli e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese.

Cosenza, ai domiciliari il prefetto Paola Galeone: mazzetta da 700 euro. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. L’alta dirigente arrestata dopo la denuncia di un’imprenditrice . Incastrata da banconote marchiate. Il prefetto di Cosenza Paola Galeone, che era stata indagata nei giorni scorsi, è stata arrestata e posta ai domiciliari, nella sua casa di Taranto. L’accusa formulata dalla procura di Cosenza è di «induzione indebita a dare o promettere utilità». A mettere nei guai il prefetto è stata la denuncia di una imprenditrice, Cinzia Falcone. La donna ha raccontato che l’alto dirigente dello Stato le aveva proposto di fornirle una fattura falsa da 1220, in modo poi da spartirsela: 700 al prefetto stesso e 500 all’imprenditrice. Dei 700, il prefetto se ne è infilati 600 in borsa; mentre alti 100 glieli ha lasciati all’imprenditrice, dicendole: «Con questi comprati i biscotti». La Falcone, però, era stata «istruita» dai poliziotti: e i soldi consegnati al prefetto erano fotocopiati e marchiati. Inoltre all’incontro, avvenuto in un bar di fronte alla Prefettura, si è presentata munita di microfono e mini telecamera. Le fasi della consegna del danaro sono state registrate e così, all’uscita del bar il prefetto è stato accompagnato in questura. La Polizia nella borsa le ha trovato la cifra appena riscossa dall’imprenditrice. Nei giorni scorsi è stato perquisito anche lo studio del prefetto, e sequestrato anche il suo cellulare. Gli inquirenti hanno potuto così verificare i passaggi precedenti la proposta corruttiva avanzata dal prefetto all’imprenditrice. Le due donne si erano incontrare il 23 dicembre scorso in Prefettura a Cosenza. Paola Galeone, quel giorno, aveva consegnato all’imprenditrice un attestato di benemerenza per l’intensa attività svolta in difesa delle donne. Dopo aver ricevuto l’attestato Cinzia Falcone stava per andare via, ma è stata trattenuta dal prefetto. Quando le due donne si sono trovare a tu per tu — ha raccontato la Falcone — il prefetto le ha fatto la proposta corruttiva. Cinzia Falcone sorpresa per quella richiesta, dopo aver lasciato la prefettura si è recata in Questura e ha denunciato il prefetto. I poliziotti hanno quindi messo a punto la strategia per incastrarla. Cinzia Falcone il 26 dicembre scrive un messaggio al prefetto: «Buongiorno, quando vuoi per quel caffè». La risposta di Paola Galeone è immediata. «Ok, hai tutta la mia stima. Vedrai insieme faremo grandi cose».

Induzione alla corruzione, arrestato il prefetto di Cosenza. Paola Galeone finisce ai domiciliari con l'accusa di aver intascato una mazzetta di 700 euro. La denuncia è partita da una imprenditrice. La Lega: "Sconcertante il silenzio del Viminale". Pietro Bellantoni, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, è stata arrestata questa mattina dalla squadra mobile, su richiesta della Procura diretta da Mario Spagnuolo. La rappresentante del governo è agli arresti domiciliari a Taranto, la città dove risiede. È accusata del reato di induzione indebita a dare o promettere utilità. Galeone è finita nel registro degli indagati per aver intascato una mazzetta di 700 euro. A denunciarla è stata l'imprenditrice Cinzia Falcone, a cui il prefetto avrebbe chiesto una fattura fittizia di 1.220 euro, che sarebbe servita a ottenere una parte del fondo di rappresentanza riconosciuto ai prefetti e rimasto ancora disponibile a fine 2019. Di quella fattura, 700 euro sarebbero rimasti a Galeone, gli altri all'imprenditrice come 'ricompensa' per il servigio offerto. Il prefetto, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbe proposto l'accordo illecito proprio all'interno del palazzo del governo. L'imprenditrice, però, ha poi confidato tutto ai suoi familiari e alla polizia. Una volta fissato l'incontro nel bar scelto dal prefetto, Falcone si è presentata con soldi falsi inseriti in una busta e ha videoregistrato tutta la conversazione. Lo scambio – secondo quanto riportato dalla Gazzetta del Sud – sarebbe stato programmato attraverso diversi messaggi whatsapp. Dopo aver ricevuto la comunicazione dell'avvenuta emissione della fattura falsa, Galeone avrebbe risposto così: "Hai tutta la mia stima. Vedrai insieme faremo grandi cose". Il giorno prima, invece, il prefetto avrebbe spiegato all'imprenditrice che era meglio che la fattura fosse di 1.220 euro, in modo che non apparisse uguale alla somma residua rimasta nel fondo. L'inchiesta non sarebbe ancora chiusa. Gli agenti della Mobile di Cosenza stanno infatti esaminando diversi altri atti relativi ai rimborsi spese nei quali compare il nome di Galeone. Al vaglio altri documenti contabili ritenuti degni di approfondimento investigativo. Galeone, il giorno prima che la notizia dell'inchiesta divenisse pubblica, si era messa in aspettativa e aveva lasciato la sede di Cosenza. Ora sarà il Consiglio dei ministri a revocarle l'incarico in modo definitivo e a nominare un nuovo prefetto. L'imprenditrice che ha inguaiato Galeone, tra l'altro, è presidente di Animed, un'associazione attraverso la quale è da anni impegnata in eventi di solidarietà a favore delle donne. Proprio in questa veste, lo scorso 30 novembre, la donna era salita sul palco del teatro Rendano di Cosenza accanto al prefetto, nell'ambito di una iniziativa organizzata dall'Ufficio del governo. Nessuna reazione da parte della politica, eccezion fatta per la Lega che, per mezzo del commissario del Carroccio in Calabria, Cristian Invernizzi, chiama in causa il Viminale: "Sconcerta il silenzio del ministero dell'Interno: i cittadini di Cosenza e della Calabria meritano trasparenza ed efficienza". 

Il prefetto di Cosenza Paola Galeone agli arresti domiciliari per una mazzetta da 700 euro. Il ministro Lamorgese la sospende. Il gip ha accolto la richiesta della procura. Il tentativo di concussione è stato denunciato da un'imprenditrice a cui aveva chiesto una fattura falsa. Alessia Candito il 2 gennaio 2020 su La Repubblica. Inizia male l’anno per il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, agli arresti domiciliari nella sua casa di Taranto dopo essere stata scoperta mentre intascava una mazzetta da 700 euro. Così ha deciso il gip di Cosenza, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura diretta da Mario Spagnuolo che al prefetto ha contestato il reato di “induzione indebita a dare o promettere utilità”. Il provvedimento è arrivato al termine di un’indagine rapidissima della Squadra Mobile di Cosenza, diretta da Fabio Catalano, partita dalla denuncia dell’imprenditrice che Galeone ha tentato di rendere complice. E nel pomeriggio è arrivata la sospensione dal servzio decisa dalla ministra dell'Interno Lamorgese. Obiettivo, fare la cresta sulle spese di rappresentanza che il Viminale autorizza ai suoi rappresentanti territoriali con uno specifico fondo. A Cosenza erano rimasti circa un migliaio di euro, che la prefettura avrebbe dovuto restituire al ministero dell’Interno e Galeone ha deciso di incassare personalmente. Per questo ha proposto all’imprenditrice Cinzia Falcone, titolare di una scuola di inglese, referente di un centro di accoglienza per migranti e presidente dell'associazione Animed, di emettere una fattura falsa per spese inesistenti. Galeone ha indicato anche la cifra, 1.220 euro, poco di più di quanto rimasto nel fondo a disposizione della prefettura, “per non destare sospetti”. Ma Falcone ha solo finto di accettare la sua proposta e il 23 dicembre si è presentata in Questura per denunciare tutto. Subito sono partite le indagini. Le utenze del prefetto sono finite sotto controllo, mentre gli investigatori della Mobile organizzavano insieme all’imprenditrice lo scambio in modo da poter documentare tutto. Con un messaggio concordato con gli agenti, Falcone ha fatto sapere al prefetto di aver predisposto la fattura, ottenendo quella che per inquirenti e investigatori è non solo una prova schiacciante, ma anche un allarmante spunto d’indagine “Hai tutta la mia stima – le ha risposto il prefetto – Vedrai, insieme faremo grandi cose”. Per la consegna del denaro, l’appuntamento è stato fissato in un bar del centro città. Ma nella busta destinata a Galeone sono finite solo fotocopie di banconote e l’imprenditrice si è presentata all’appuntamento concordato con un microfono addosso. L’intera conversazione è stata registrata, mentre le telecamere piazzate dalla Mobile registravano ogni momento dello scambio. Il tutto è durato non più di qualche minuto, poi Galeone è uscita dal bar. Ma a sbarrarle il passo ha trovato gli investigatori, che nella borsa della donna hanno trovato la busta con le finte banconote. L’ultimo tassello che serviva alla procura per procedere con la richiesta di arresti domiciliari, eseguita questa mattina. Nel frattempo però le indagini continuano. Il sospetto è che non si sia trattato di un singolo episodio e che anche altri imprenditori abbiano nel tempo ricevuto (e accettato) la medesima richiesta. Per questo motivo, adesso si stanno passando al setaccio tutte le spese vincolate al fondo di rappresentanza o personalmente autorizzate dal prefetto Galeone. In aspettativa dal giorno del blitz, in tempi strettissimi dovrebbe essere ufficialmente rimossa dall’incarico e sostituita già in occasione del primo Consiglio dei ministri.

L. Musolino e G. Trinchella  per ilfattoquotidiano.it il 2 gennaio 2020. “Cinzia, tu hai sostenuto dei costi… Io ho un fondo di rappresentanza in cui residuano 1200 euro… Ho pensato che se tu mi fai una fattura da 1200 euro, 500 te li tieni tu e la differenza la giri a me…”. È il 23 dicembre quando Cinzia Falcone, presidente della associazione dell’Associazione nazionale interculturale mediterranea (Animed), viene avvicinata dalla prefetta di Cosenza Paola Galeone che ha appena allontanato tre funzionari di polizia. La Falcone riceve la stranissima proposta che oggi ha portato agli arresti domiciliari la funzionaria che era stata iscritta nel registro degli indagati per induzione a dare utilità. Siamo nella sede della prefettura e la Galeone istruisce la donna su come compilare la fattura e di prepararla per il giorno dopo, in modo da essere evasa tra il 28 e il 29 dicembre. Prima dei saluti la prefetta però dice alla presidente che esistono problemi nei documenti ha presentato per partecipare a una gara per l’affidamento dei servizi di gestione dei centri collettivi di accoglienza “alludendo alla inutilità di ricorsi amministrativi e lungaggini” possibili. La contropartita appare all’improvviso. La mazzetta, è l’ipotesi della procura, deve avere quindi la “forma” di una fattura da 1220 euro. La giustificazione è presto fatta: ovvero le presunte spese di organizzazione di un convegno sulla violenza di genere co-organizzato da Falcone e dalla prefettura di Cosenza che si è tenuto il 29 novembre 2019 al teatro Rendano. Questo perché, a dire della Galeone, l’operazione è possibile perché erano avanzati soldi in bilancio sul fondo di rappresentanza che è inutile restituire al ministero dell’Interno “non avendo – si legge nell’ordinanza firmata dal giudice per le indagini preliminari Letizia Benigno – lo Stato rimborsato a lei dei soldi per una parabola satellitare comprata personalmente dal suo fidanzato”. La Falcone però esce dalla prefettura e va diretta in Questura a denunciare tutto. Ed è così che che è scattata la “trappola”: la consegna di denaro è stata registrata dagli investigatori. La presidente Animed racconta agli investigatori di avere crediti per 300mila euro per fatture emesse per il Centro di accoglienza straordinario di Camigliatello e teme che la prefetta possa in qualche modo ostacolare il rimborso. Quindi d’accordo con gli inquirenti Falcone invia la fattura e il messaggio con la parola “ok” come concordato alla Galeone. Il messaggio di risposta è: “Io ti stimo tanto e faremo tanta strada insieme”. Quindi l’incontro in un bar vicino alla prefettura e la consegna del denaro in banconote da 50 euro, in una busta rosa, fotocopiate dalla polizia giudiziaria. La prefetta, ricevuta la busta, insiste per dare alla donna 100 euro, dicendole “comprati i biscotti… stai calma, respira”. All’uscita dal bar ci sono i poliziotti. Le indagini hanno poi permesso di verificare che l’associazione sarebbe stata esclusa dalla gara per mancanza di requisiti e che la prefetta ne era perfettamente a conoscenza. Per il giudice “si coglie tra le righe della condotta una tendenza alla commistione tra il denaro proprio e il denaro di pertinenza della prefettura e più in generale della pubblica amministrazione, una versatilità nella gestione e precostituzione di titoli di spesa una inopportuna tendenza alla diretta ingerenza“. Ma non solo: “L’aver suggerito alla Falcone l’escamotage per utilizzare i fondi residui di bilancio, l’aver palesato la sconvenienza di un ri-trasferimento allo Stato… l’aver ipotizzato come alternativa di spesa l’utilizzo di fatture di un qualche ristorante, l’aver cercato di vincere le resistenze e gli imbarazzi della Falcone… sono comportamenti che palesano una dimistichezza di condotta gestoria che si traduce, a sua volta, in capacità di reiterazione di analoghi reati“. Per il giudice, anche se l’indagata ha chiesto di essere interrogata, questo non esclude il rischio di inquinamento probatorio.

Arrestata per corruzione la tarantina Paola Galeone, prefetto di Cosenza. Il Corriere del Giorno il 2 Gennaio 2020. Un fine anno drammatico per la reputazione delle istituzioni. La Galeone ha preso una aspettativa e non è già più in sede a Cosenza; secondo quanto si apprende da fonti del Viminale nel prossimo Consiglio dei ministri verrà nominato il nuovo prefetto. È stata arrestata, tre giorni dopo essere stata indagata, Paola Galeone, 58 anni, prefetto di Cosenza, accusata del reato di cui all’art. 319 quater del Codice penale “Induzione indebita a dare o promettere utilita’“. Oggi l’arresto ai domiciliari, a Taranto, dove la Galeone risiede, a seguito dell’ordinanza emessa dal Gip Letizia Benigno di Cosenza su richiesta del pm Giuseppe Visconti della Procura della Repubblica guidata da Mario Spagnuolo. Nei giorni della più complessa iniziativa giudiziaria proprio in Calabria contro la criminalità organizzata il cui merito va al procuratore Gratteri,  nel quadro di una discussione in cui accanto alla tradizionale valutazione sulla società malata si comincia  ad affiancare la valutazione sulle istituzioni parimenti malate e complici nella trasformazione della ‘ndrangheta, ebbene un rappresentante dello Stato nel cuore di quella regione avrebbe architettato una “truffa” per 700 euro! In una la corrispondenza di Carlo Macrì dalla Calabria pubblicato in rete alle 14.42 dal Corriere della Sera si è appreso che la Polizia di Cosenza , che dipende dal Questore il quale a sua volta dipende gerarchicamente dal prefetto,  ha tratto in stato di fermo niente meno che il Prefetto di Cosenza, Paola Galeone. fermata nel pieno centro della città calabrese. Il Prefetto di Cosenza, Paola Galeone, tarantina, 58 anni, é stata assunta nel dicembre del 1987  nell’amministrazione civile del Ministero dell’ Interno ed assegnata, come prima sede, alla Prefettura di Taranto, dove ha svolto vari ruoli. Dal 23 luglio del 2018 è prefetto di Cosenza. Due lauree, percorso di carriera non fantasmagorico ma più che dignitoso , salvo una funzione di Vice Commissario alla Regione Friuli, tutta in sedi meridionali, Taranto, Cosenza, Campobasso, Benevento, ancora Cosenza, devota a Padre Pio e cattolica insignita della onorificenza di Dama dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme ed anche anche di quella di Commendatore della Repubblica, ha letteralmente distrutto questo rispettabile percorso istituzionale al servizio dello Stato, attuato nell’impegno delle donne di riuscire in carriere difficili , un percorso in virtù del quale l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese , donna, viene dalla carriera prefettizia, per intascare illecitamente appena 700 euro. Non si tratta di una svista amministrativo o di una nota spesa fuori misura. La Galeone dopo per essersi accorta verso fine anno che i 1220 euro assegnati al suo ruolo di Prefetto come “spese di rappresentanza“, erano rimasti inutilizzati, avrebbero potuto essere intascati almeno in parte ove un imprenditore (nel caso in questione un’imprenditrice) avesse presentato una fattura fittizia da lei stessa legittimata. La scelta è caduta sull’imprenditrice Cinzia Falcone presidente di un’associazione per i diritti delle donne, Animed, e referente di un centro di accoglienza per migranti a Camigliatello Silano che, rimasta incredula per la proposta di dividere quella somma (700 al prefetto, 500 all’imprenditrice), ha deciso di sporgere denuncia alla Polizia di Stato. La polizia ha così deciso di agire. Così scrive  la corrispondenza del Corriere della Sera :  “La Polizia ha chiesto all’imprenditrice di assecondare la richiesta della Galeone che aveva anche indicato il bar dopo sarebbe dovuto avvenire lo scambio. Soldi, in cambio della fattura fittizia. La Polizia ha studiato nei dettagli come incastrare il Prefetto, fornendo all’imprenditrice l’attrezzatura ad alta tecnologia necessaria per registrare e filmare il colloquio e l’avvenuto scambio del denaro. In più, le banconote sono state fotocopiate. A scambio avvenuto mentre il Prefetto di Cosenza, stava per lasciare il bar, è stata bloccata dalla Polizia che le ha perquisito la borsa trovando le banconote fotocopiate, appena intascate”. L’incontro corruttivo è avvenuto nel giorno di Santo Stefano. Il Prefetto ha intascato la busta prendendo cento euro dal proprio portafoglio per darli alla Falcone che si oppone, ma quell’altra ha deciso di fare metà e metà e non arretra: glieli ficca con la forza nello zainetto, la saluta e va via. “Eccellenza, il procuratore vorrebbe parlare con lei”. Con queste parole e modi eleganti gli agenti della Squadra Mobile della Questura di Cosenza l’hanno fermano all’uscita da un bar cittadino, comportandosi con tatto e discrezione. “Ma può venire lui nel mio ufficio” ha risposto la Galeone ignara che qualche attimo prima, quegli stessi agenti hanno documentato un presunto episodio di corruzione  con lei, il prefetto di Cosenza, “protagonista” in negativo. Le indagini sono state condotte dalla Mobile di Cosenza, diretta da Fabio Catalano investigatore recentemente promosso per meriti speciali, dopo aver lavorato negli anni scorsi  in Calabria e Sicilia. A coordinare tutto il questore Giovanna Petrocca, la “superpoliziotta” che ha condotto le indagini a Roma sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, che è anche la prima donna a ricoprire l’incarico di Questore a Cosenza. Indagata anche l’imprenditrice Cinzia Falcone che nelle scorse ore per quanto accaduto è stata interrogata dal pm Domenico Frascino in presenza dell’avvocato Aldo Cribari suo difensore di fiducia. L’interrogatorio si è trattato di un atto dovuto, una pura  formalità in quanto grazie al suo ruolo decisivo in questa vicenda, la sua posizione, una volta ottenute le conferme del caso, è destinata ad essere stralciato... Una vicenda scandalosa e dolorosa quella del prefetto Paola Galeone, indagata per corruzione, che riporta in priorità di agenda il tema della riforma più incompiuta della storia repubblicana, quella dello Stato e della Pubblica Amministrazione.  La Galeone ha preso una aspettativa e non è già più in sede a Cosenza; secondo quanto si apprende da fonti del Ministero dell’ Interno,  nel prossimo Consiglio dei ministri verrà nominato il nuovo prefetto.

Chi è Paola Galeone, il prefetto di Cosenza è stata arrestata per una fattura fittizia. Agi-Metro news il 02/01/2020. È stata arrestata questa mattina Paola Galeone, 58 anni, prefetto di Cosenza, accusata del reato di cui all'art. 319 quater del Codice penale "Induzione indebita a dare o promettere utilità". La Galeone è stata denunciata, nei giorni scorsi, da un'imprenditrice di Cosenza, Cinzia Falcone, che era stata contattata perché emettesse una fattura fittizia di 1.220 euro. La fattura sarebbe servita a giustificare l'utilizzo di alcuni fondi che erano rimasti a disposizione del Prefetto e che poi sarebbero stati spartiti tra il Prefetto stesso e l'imprenditrice. Ma questa si è rivolta alla polizia e l'incontro è stato filmato. Paola Galeone è stata poi fermata, all'uscita del bar dove si è svolto l'incontro, e portata in Procura per chiarimenti. Il prefetto è stato subito posto in aspettativa. Oggi l'arresto ai domiciliari, a Taranto, dove Galeone risiede.  Laureata in Giurisprudenza ed in Scienze politiche all'Università degli Studi di Bari, è entrata nell'amministrazione civile dell'Interno nel dicembre 1987 ed è stata assegnata alla Prefettura di Taranto, dove ha ricoperto diversi incarichi, tra cui, per undici anni, quello di Capo di Gabinetto, Responsabile Ufficio Stampa e Ufficio Pubbliche Relazioni, Funzionario alla Sicurezza, Coordinatore dell'Ufficio Affari Sociali nonché Dirigente dell'Ufficio N.O.T. Trasferita il 31 marzo 2008 a Cosenza con l'incarico di Vicario del Prefetto, dal 31 marzo 2008 al 26 luglio 2009 ha ricoperto l'incarico di Dirigente reggente dell'Area ordine e sicurezza pubblica e dal 29 luglio 2010 quello di reggente del raccordo con gli Enti locali e consultazioni elettorali. Assegnata dal 6 settembre 2010 alla Prefettura di Campobasso, ha disimpegnato le funzioni di Viceprefetto Vicario fino al 29 dicembre 2013, ricoprendo anche l'incarico di Dirigente reggente dell'area diritti civili, immigrazione e diritto d'asilo e dell'amministrazione,  e attività contrattuali. Il 17 dicembre 2013 il Consiglio dei Ministri l'ha nominata Prefetto con incarico di Vice Commissario del Governo nella Regione Friuli Venezia Giulia. È stata prefetto di Benevento dall'8 maggio 2014 al 22 luglio 2018 e dal 23 luglio 2018 era stata assegnata alla Prefettura  di Cosenza. È stata commissario straordinario nei Comuni di Crispiano, Statte, Fragagnano, Manduria, Castellaneta, Corigliano Calabro e Cerzeto e per la gestione provvisoria dei Comuni di Platì e di San Ferdinando , in provincia di Reggio Calabria, di Casapesenna, in provincia di Caserta, sciolti per ingerenze della criminalità organizzata . Nel suo curriculum compaiono l'abilitazione all'esercizio della professione forense e all'insegnamento, l'iscrizione all'albo dei giornalisti della regione Puglia e diversi diplomi, master e cosi anche a Bruxelles e Budapest e due onorificenze: Commendatore dell'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana" e di Dama dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme .  

Cosenza e i suoi (ultimi) prefetti: uno peggio dell’altro. Chi è Paola Galeone. Da Iacchite il 31 Dicembre 2019. Dopo cinque anni, Gianfranco Tomao, prefetto noto per il suo pacchiano parrucchino, tutt’altro che irreprensibile e costantemente nel codazzo degli amici di Occhiuto, in perfetta continuità con il suo predecessore Raffaele Cannizzaro (quello dell’interdittiva antimafia alle cooperative che non facevano parte del clan di Occhiuto...), aveva lasciato la città dei Bruzi. Al suo posto, nell’estate del 2018, era arrivata Paola Galeone, che aveva già lavorato a Cosenza come viceprefetto dal 2008 al 2010 ed era stata anche commissario prefettizio a Corigliano e Cerzeto. Vicario del prefetto anche a Campobasso fino al 2013, quando era arrivata la nomina a prefetto e l’incarico di vice commissario di governo nella Regione Friuli Venezia Giulia. Infine, nel maggio del 2014, l’arrivo nel capoluogo sannita e quattro anni dopo la nuova nomina a Cosenza. Alla luce dei fatti e dell’incredibile storia della “mazzetta” presa da una imprenditrice – che giustamente l’ha sputtanata e denunciata – possiamo tranquillamente affermare che Paola Galeone è stata l’ideale continuazione del malaffare dei suoi predecessori, che almeno non erano così “sfacciati”… 

IL CURRICULUM DI PAOLA GALEONE. “Paola Galeone 58 anni, di Taranto, laureata in giurisprudenza e scienze politiche, tra i vari titoli ha l’abilitazione all’esercizio della professione forense e l’iscrizione all’albo dei giornalisti della Puglia. È entrata nella carriera prefettizia nel dicembre del 1987, ed assegnata alla Prefettura di Taranto dove ha ricoperto vari incarichi tra cui quello di capogabinetto. Nel marzo del 2008 è stata trasferita a Cosenza come viceprefetto, dove oltre a ricoprire l’incarico di dirigente dell’area ordine e sicurezza pubblica è stata più volte designata come commissario straordinario in diversi comuni. Poi dopo una permanenza come vicario nella prefettura di Campobasso, a dicembre 2013 è stata nominata prefetto e inviata come vice commissario del Governo per il Friuli Venezia Giulia con sede a Trieste. Un incarico che non gli ha impedito un altro impegno in Campania. Paola Galeone, infatti, presiede la Commissione straordinaria nominata, con Decreto del presidente della Repubblica nel 2012, per il Comune di Casapesenna, nel casertano. Un organismo che ha gestito l’ente locale del centro dell’agro aversano per diciotto mesi dopo lo scioglimento del consiglio comunale e quindi il commissariamento del Comune per infiltrazioni della criminalità. Infine ricordiamo la permanenza coriglianese della Galeone dal 1° luglio 2008 e fino al mese di giugno del 2009, allorquando a seguito delle elezioni comunali si insediò l’allora sindaco Pasqualina Straface”. (Giacinto De Pasquale, coriglianocalabro.it). Tra gli incarichi svolti nel corso della carriera si ricordano le gestioni in qualità di Commissario straordinario dei Comuni di Crispiano, Statte, Fragagnano, Manduria, Castellaneta (TA), Corigliano Calabro e Cerzeto (CS); di sub-commissario dei Comuni di Palagiano, Martina Franca e Taranto; di Presidente della Commissione straordinaria del Comune di Platì (RC), del Comune di San Ferdinando (RC) e del Comune di Casapesenna (CE).

L’on Macina fa i conti in tasca ai commissari: finanziamenti dimenticati e poca trasparenza. Tra spese e stipendi, la commissione ministeriale è costata sinora 331.264 euro di risorse pubbliche. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 19 giugno 2020. Facendo seguito ad un precedente botta e risposta tra lei e i commissari che governano il comune di Manduria, accusati dalla prima di scarsa efficienza amministrativa nella gestione dei servizi primari sulla costa (tesi contrapposta dai secondi che hanno elencato gli interventi eseguiti), l’onorevole del Movimento 5 Stelle, Anna Macina, torna all’attacco facendo i conti in tasca alla commissione nominata dal Ministero dell’Interno per amministrare il comune sciolto per mafia. La parlamentare, documenti alla mano, ricorda una serie di risorse rese disponibili dal governo centrale ma non ancora utilizzate dall’ente. Si parte dai 32mila euro dell’iniziativa «Spiagge sicure», all’acconto di 377mila euro del fondo per l’emergenza coronavirus (Decreto rilancio), per finire ad altri 113mila euro del contributo per intervento sui comuni. Oltre 350mila euro, in tutto, sul cui utilizzo la grillina chiede ora conto. L’ultimo appunto dell’onorevole di Erchie tocca un argomento delicato per i funzionari di Stato (un prefetto in pensione, un viceprefetto e un funzionario di Prefettura): la trasparenza sulle spese sostenute durante la loro permanenza a Manduria. «Sono certa – scrive la deputata – che la comunità manduriana apprezzerebbe la pubblicazione delle specifiche dei rimborsi delle spese sostenute dai singoli commissari, così come chiesto dalla sottoscritta e da molti cittadini. Sul tema – fa sapere Macina - avevo proposto, con esito positivo, la modifica della normativa vigente e l’accoglimento di un impegno preciso assunto dal Governo circa la dovuta trasparenza di emolumenti e rimborsi anche dei commissari». Nei 24 mesi di funzione, i tre commissari hanno chiesto e ottenuto in tutto 81.568 euro di rimborsi per spese di vitto, alloggio e viaggio (nello specifico, Vittorio Saladino, per 21 mesi perché gli ultimi tre è stato in smart working, 39.691 euro; Luigi Scipioni per lo stesso periodo 33.134 euro; Luigi Cagnazzo 8.771 euro), evitando la pubblicazione dei relativi riscontri richiesti ma ignorati dalla stessa onorevole Macina. I commissari hanno inoltre percepito un'indennità di funzione pari a 249.696 euro (3.468 euro mensili ognuno). Tra spese e stipendi, la commissione ministeriale è costata sinora 331.264 euro di risorse pubbliche.

Da Facebook: Anna Macina il 30 settembre 2020. La Prof.ssa Fornero in diretta su La7 che sale in cattedra per dare lezioni al governo su come spendere i soldi del Recovery Fund? Anche NO grazie! Le sue “ricette” le consociamo bene! Con la scusa degli "aggiustamenti strutturali" si è fatta macelleria sociale giocando sulla pelle degli italiani. Non è il genere di consigli di cui l’Italia ha bisogno. Fino a quando ci saremo, non ci sarà una politica “lacrime” dei politici (in diretta Tv... lo ricordiamo tutti) e “sangue” degli italiani! Non è quella la strada!

Da Facebook: Grullini il 30 settembre 2020. MIRACOLATO DEL GIORNO ANNA MACINA - DEPUTATA

CV

Età e titolo di studio: 47 anni, laureata

Professione e reddito pre-miracolo: avvocato, 3'955 euro

Esperienze lavorative: avvocato civilista.

ATTIVITÀ PARLAMENTARE

Nel 2015 si candida sindaco al comune di Erchie, dove i pochi voti ottenuti non bastano nemmeno per entrare in consiglio comunale. Nel 2018 partecipa alla lotteria del click, dove ottiene soltanto 84 preferenze, piazzandosi ottava al senato nel collegio Puglia 2. Viene quindi candidata in un collegio uninominale per la Camera, sbarcando quindi a Montecitorio.

Membro della Commissione Affari Costituzionali e Commissione per l'infanzia.

Presente al 85% delle votazioni, nelle quali 5448 volte su 5449 ha espresso un voto in linea con l'orientamento del M5S. Primo autore di 5 proposte di legge, tra cui una, fondamentale dal titolo "Conferimento del titolo di "città già capitale d'Italia" alla città di Brindisi.

CLAIM TO FAME

E' uno delle centinaia di parlamentari del M5S e si nota poco, anche se negli ultimi tempi si vede spesso in TV.

In campagna elettorale (febbraio 2018), prometteva voti mostrando il pugno duro contro il TAP. "Solo la storia parlamentare del M5S parla chiaro e non ha ombre. Da sempre contrario all’ennesima opera inutile . È giunto il tempo in cui ai cittadini vanno ricordate le votazioni in aula che sconfessano le promesse elettorali. Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro! Su TAP l’unica forza politica credibile resta soltanto il M5S!" Sapete poi com'è andata a finire.

A fine 2019 si vociferava di una possibile elezione a capogruppo M5S alla Camera.

Ieri si e' resa protagonista di un post su facebook carico di bile nei confronti di Elsa Fornero, scatenando gli insulti più gretti da parte dei suoi seguaci. Altro che la Fornero, è l'honorevole Macina che ha a cuore il futuro dei giovani, avendo sostenuto il governo gialloverde autore di Quota 100 ed altri pre-pensionamenti.

RIMBORSI

E' stato finalmente aggiornato il sito tirendiconto.it, dove i deputati controllati dalla srl rendicontano le entrate ed i rimborsi. L'honorevole di fatto gira 2mila euro al mese su circa 12 mila al fondo per le microimprese e 300 euro all'associazione Rousseau gestita da Casaleggio jr.

Reddito imponibile stimato: 98'471 euro.

Coefficiente miracolo: 96%.

·        Avetrana. La Rivendicazione di Torre Colimena: luogo bistrattato da Manduria.

Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre, i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì, semplicemente, come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare.

Torre Colimena, Avetrana torna all'attacco: «Dateci la marina». Gianluca Ceresio Martedì 19 Luglio 2016 su Quotidiano del Sud. «Torre Colimena, rivendicata nuovamente l’appartenenza ad Avetrana». In questo periodo la località marina torna a popolarsi di villeggianti che possiedono un’abitazione di villeggiatura, per lo più avetranesi che spolverano una ormai vecchia querelle riguardante la giurisdizione di Torre Colimena. Un gruppo di cittadini ci ha fatto pervenire una lunga ed articolata missiva, con la quale viene annunciata un’ulteriore iniziativa per chiedere nuovamente e insistentemente il riconoscimento dell’appartenenza di Torre Colimena al comune di Avetrana. «Non ci sono servizi e alcuni di noi – si legge nella missiva – vista la trascuratezza e il disinteresse mostrati dal comune di Manduria, sono stati costretti ad acquistare e sostituire in proprio perfino le lampade della pubblica illuminazione». «Come è noto, da sempre le amministrazioni che si sono succedute, hanno posto in primo piano San Pietro in Bevagna, e quella attuale ha totalmente dimenticato l’esistenza di Torre Colimena, malgrado si paghino tasse sempre più salate, perfino i servizi riguardanti la cosiddetta routine sono sempre più assenti». Facendo poi riferimento anche a rivendicazioni del passato, il gruppo di cittadini in questione, chiede al sindaco Minò e alla sua giunta di interessarsi al problema, ciascuno per le proprie competenze, tenendo conto della volontà popolare. A proposito dell’appartenenza di Torre Colimena ad Avetrana, nella missiva viene fatto riferimento ad una serie di documenti storici, già resi noti a suo tempo, da Pietro Scarciglia e Rino Giangrande della sede di Avetrana dell’associazione «Grande Salento». Secondo quanto venne documentato dai due esponenti dell’associazione, la querelle che si trascina nel tempo tra Manduria ed Avetrana sulla competenza territoriale dell’area marittima compresa tra Punta Prosciutto e l’area prospiciente al mare dei «Monti della Specchiarica» (Quota 15), risulta inutile e pretestuosa, in quanto, una specifica documentazione ne attesterebbe l’appartenenza al comune di Avetrana. «D’altra parte – scrivono gli avetranesi in questione – è innegabile che la quasi totalità dei residenti e dei villeggianti che possiedono un’ abitazione a Torre Colimena sono cittadini avetranesi che versano onerosi tributi al comune di Manduria senza ottenere alcun beneficio». «Non si può promuovere turismo – conclude la missiva – omettendo perfino di otturare le buche nelle strade o di cambiare perfino una lampada della pubblica illuminazione, quindi, vista l’incapacità e la superficialità mostrate dall’amministrazione manduriana, sarebbe bene e giusto che Torre Colimena torni sollecitamente sotto la giurisdizione di Avetrana».

Torre Colimena e la vexata questio in un saggio di Pietro Scarciglia e Luigi Schiavoni. Manduria Oggi il 23/06/2020. Le origini del cosiddetto feudo di San Pietro in Bevagna e il contenzioso fra Manduria e Avetrana. Letta la seconda parte della ricerca svolta dall’avv. Capogrosso, cogliamo un'affermazione lì dove leggiamo. nella parte pubblicata il 30.5.2020 : ”L’indicazione del territorio dipendente dal Monastero di S. Pietro in Bevagna, come suffeudo di Manduria (Casalnovo), ricorrente in vari atti ufficiali, vale a stabilirne l’appartenenza al feudo della città messapica, nel quale quindi rientrava con tutte le terre e pertinenze, da Borraco alla Colimena”. Un “quindi” che ci è apparso essere prodotto da una “deduzione” indotta non dalla lettura di documenti originali, quanto da varie pubblicazioni che, non scendendo nel dettaglio, acquisiscono la nozione “ Grancia di S. Pietro = Suffeudo di Manduria”. Questo ricaviamo dai documenti del nostro archivio storico comunale e da altri d’archivi.

GLI ANTEFATTI.

Attraverso le ricerche di P. Coco, ci sono note le origini del cosiddetto feudo o grangia di S. Pietro in Bevagna istituita nel 1092. Occorre tuttavia precisare: visto che spesso si ignora o sfugge, al tempo di cui parliamo, era assolutamente ignoto il concetto che noi oggi abbiamo di feudo, di pertinenze territoriali o di demani universali. Tutto era in mano ai re, specie nei tempi del forte centralismo normanno che disponevano dei territori del loro regno a loro piacimento. Pertanto assolutamente privo di significato quando noi oggi, riferendoci ad allora, affermiamo che un certo territorio apparteneva all’Università Enne. Di autonomie comunali, è storia nota, se ne comincia a parlare nel nord Italia sul finire dell’XI sec. e solo successivamente al Sud. Quindi ben al di qua della fine della dominazione normanna.

Ciò fissato, prima d inoltrarci nella “vexata questio”, dobbiamo tener conto ancora di un’altra data: il 1536, di cui ne vedremo più avanti il motivo, al fine di eliminare dalla discussione “informazioni culturali” antecedenti quell’anno.

Il problema inizia, come già individuato dall’avv. Capogrosso, al momento dell’eversione della feudaltà decretata dalle legge promulgate da Giuseppe Napoleone a partire da quella del 2 agosto 1806.

Tale legge implicò, com’è noto, lo scioglimento degli ordini religiosi, tra questi l’ordine dei Benedettini (proprietari della grangia) e la confisca dei loro possedimenti che furono incamerati dal Regio Demanio.

Il TITOLO III del decreto 10.3.1810, nel richiamare la Prammatica XI De Baronibus, disconosceva tutti quei diritti e tutte quelle situazioni territoriali o di patrimoni feudali provenienti da rivendicazioni anteriori all’anno 1536, fatto salvo, con tutte le sue implicazioni, lo stato di fatto presente a quell’anno. Un esempio per intenderci, oggi non possiamo rivendicare quei territori che un tempo fecero parte dell’impero romano, o di “imperi” di più recente memoria. Ora il problema si poneva nei seguenti termini: non potendosi definire con certezza a quale o a quali comuni appartenessero le terre costituenti l’ ex feudo di S. Pietro in Bevagna, queste entrarono a far parte del Demanio Regio.

IL CONTENZIOSO.

Da questo momento inizia il contenzioso fra Avetrana e Manduria.

Già nel 1810, purtroppo dal documento ritrovato non si riesce e rilevare la data esatta, si ricava una memoria del Sindaco di Avetrana contro Manduria in cui si fa presente che: “… La questione di cui da più tempo vertesi tra le suaccennate comuni consiste nell’unico estremo se li beni de’ soppressi Cassinesi di Aversa, o sia la Grancia di San Pietro in Bevagna…si debba sezionare[1] nel territorio di Avetrana oppure in quello di Manduria. Se questo articolo[2] si voglia com’è giusto decidere colla prelodata legge, la ragione sta per la comune della Vetrana, si perché il territorio di Avetrana conticua per magior spazio col territorio della Grancia di quel che confini il territorio di Manduria, si perché que’ pochi territori della Grancia che si trovano accatastati son accatastati alla Vetrana o in Manduria e il resto…non si trovano accatastati né in Manduria né in Avetrana, e da ciò che si è detto si deduce che Manduria non può vantare né catasto, né confinazione con i territori, indi non può pretendere d’includerlo nelle sezioni…”

Dopo la disfatta di Waterloo nel 1815, cacciati i Bonaparte, ritornano al potere i Borbone, questi acquisiscono al demanio regio quanto già confiscato da Giuseppe Bonaparte.

Con decreto del 5.Dicembre.1825, Francesco I di Borbone delibera di concedere a quei comuni nel cui tenimento ricadono i beni dell’ex feudo, non ancora attribuiti, la possibilità di subaffittarli, tramite asta, e secondo precise norme.

Detto decreto così recita all’Art. 1 “I beni presso l’amministrazione suddetta saranno affittati per lo meno sei mesi prima del termine degli affitti correnti, mediante l’affissione de’ manifesti, ne’ capoluoghi delle provincie, in quello de’ distretti, e ne’ comuni ove i beni sono siti…"

Questo è il caso di Avetrana e per quella parte di ex feudo incluso nel suo tenimento[3]. Nell’archivio storico di Avetrana, si ritrovano vari manifesti il cui testo, facendo sempre riferimento al decreto del 5.12.1825 indica quei terreni messi in affitto e descritti come “le terre macchiose ed erbose delle dismesse saline” e queste, come si legge nei verbali di aggiudicazione, sono poste nel tenimento “del Comune di Avetrana” costituendo però proprietà della Reale Cassa d’Ammortizzazione e del Demanio Pubblico. In osservanza al predetto decreto, il Comune deve pubblicare i manifesti detti, affiggendoli oltre che nei comuni di Manduria ed Erchie anche a Martina Franca per informare gli eventuali concorrenti che avessero voluto partecipare alla gara. Tra i primi partecipanti a quelle gare (1839-casuale coincidenza con l’anno in cui il sig. Tommasino Schiavoni acquista gran parte del feudo) compare tal Donato Casavola da Martina e, negli anni successivi, anche il sig. Vespasiano Schiavoni da Manduria.

Con leggi n° 793 e 794 del 21.8.1862 lo Stato autorizza la vendita definitiva dei beni demaniali costituenti l’ex feudo. A partire dal 1° Gennaio del 1865, costituitasi una Società Anonima sotto la presidenza Sen. Giacomo Lacaita di Manduria, lo Stato avvia l’alienazione delle terre "macchiose ed erbose delle dismesse saline".

In data 6 gennaio 1867 il sindaco pro tempore Cav. Davide Parlatano, in nome e per conto della comunità avetranese, vince la gara d’asta aggiudicando quel tenimento alle pertinenze di Avetrana per la somma di £. 9.534 divisa in 10 rate che il comune si impegna a versare annualmente.

Dal verbale di aggiudicazione definitiva apprendiamo la consistenza reale di quel territorio spartito tra Avetrana e Manduria. Al tenimento di Avetrana sono ascritti circa Ha 257, a quello di Manduria circa Ha 384. Con semplici calcoli si arriva a determinare lo stato di fatto cosi come rappresentato nella figura che segue.

Osserviamo subito che l’area in tenimento di Avetrana è grosso modo rappresentata dall’area in rosa (1) e la parte in tenimento di Manduria e quella indicata a fasce rosa e celeste (2).

Si tenga conto che, ad est del tenimento di Avetrana si estendono le Paludi del Conte in possesso del sig. Vespasiano Schiavoni area che, come dichiarava lo stesso sindaco di Manduria (28.11.1864) alla Regia Prefettura:

"…La palude appellata Conte, sita nel Bosco di Arnèo non è riportata nel Catasto Provvisorio di questo Comune, non essendo compresa nel perimetro di questo territorio…credo che possa far parte del feudo di Nardò o di quello di Avetrana…”. (si veda antecedentemente quanto dichiarava il sindaco di Avetrana).

Per quanto riguarda Manduria invece bisogna tener presente che il sig. Raffaele Schiavoni si attribuisce la proprietà delle zone indicate con 2 e 3 (vedi pianta – pagg.112-113 in LA STORIA INFINITA di Fulvio Filo-Schiavoni) includendo quindi nelle sue proprietà anche quella porzione che è demaniale. (2).

Il territorio a oriente, di quanto indicato in figura col numero (1) comprende: Santullo, Carcasacco e Paludi del Conte che, con alcuni altri terreni a Torre Columena, già compaiono attribuiti al Catasto Onciario di Avetrana-1752- e riconfermati, a seguito della estizione degl’Imperiale-Francavilla, nell’alienazione del feudo regio di Avetrana acquistato-1804- dai conti Filo). Quindi, come ricavato e rappresentato in cartografia, Torre Columena non era certo pertinenza o tenimento di Manduria (anche se, come giusto, l’ex feudo si estendeva ben oltre Torre Columena).

Note aggiuntive emergenti da altre ricerche:

1) Il geografo Pacelli, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX sec., di Manduria, espressamente menziona le saline come appartenenti ad Avetrana.

2)Atti notarili del ‘700 affermano chiaramente che le Saline sono poste in territorio di Avetrana.

3) L’antica chiesetta dell’Annuciazione, posta “ iuxta turrim” proprio accanto alla Torre Columena, risulta nelle competenze parrocchiali di Avetrana, quando nel 1684 vi si reca in visita pastorale, Mons. Cuzzolino. Osservare come P. Leonardo Tarentini in MANDURIA SACRA, nel menzionare tutte le cappelle esistenti e scomparse nel territorio di Manduria gli sfugga quella dell’Annunciazione. Non certamente come pretendono, erroneamente, spiegare alcuni con la diversa divisione religioso-territoriale (forse appellandosi, come oggi si nota, che la diocesi di Oria, pur essendo questa cittadina in provincia di Brindisi, si estenda anche su parrocchie poste in provincia di Taranto). Evidentemente, costoro, ignorano che le cappelle extra-moenia sono di pertinenza parrocchiale, e che quindi, mancando nell’elenco di P. Tarentini, detta cappella o chiesetta non entrava nel territorio di Manduria bensì in quello di Avetrana. Assieme a questa, come si rileva nella visita di mons. Triggiani (1818-1829), la presenza della Cappellina presso la Salina che però viene classificata assieme a quella esistente presso la torre Columena “senza esercizio”. Fatto questo, come già chiarito poc’anzi, che la dimostra in territorio di Avetrana.

4) Intorno agli anni ’80 del XVI sec. (siamo ben dentro il famoso limite temporale del 1536) dagli atti che riguardano il pagamento dei torrieri e dei cavallari (Arch.Storico di Napoli) si ricava che la Torre Columena era manutenuta dall’università di Avetrana e a conferma di ciò, anche nei conti dell’Universita di Avetrana (nel Catasto Onciario) essa è tenuta al pagamento di 92 ducati per le guardie ( giusto per smentire alcuni signori che senza molta documentazione affermano che la torre di Columena sarebbe stata “da sempre” manutenuta da Manduria e mai da Avetrana) mentre Manduria risulta impegnata sulla Torre di S. Pietro in Bevagna.

La curiosità più strana di tutte, ed invitiamo i più increduli, a recarsi presso l’archivio di Stato di Taranto e consultare il Catasto preunitario di Manduria e cercarsi l’ “Articolo” (oggi diremmo Partita) 1769 e seguendone la storia catastale scopriranno che parte dell’area delle saline è stata “caricata” segnandola a matita e non con inchiostro, ci chiediamo se ciò sia “regolare” e come mai?

Quindi affermare l’indiscusso possedimento da parte di Manduria dell’intera fascia costiera che oggi detiene, non è così semplice se non per la forza dello stato di fatto e non di diritto.

Con ciò avremmo potuto concludere la nostra esposizione, ma strani accadimenti avvennero successivamente e questo ci spinge a dover seguire ancor più avanti l’indagine.

Per quanto segue non ci pare fuor di luogo richiamare i termini di una discussione apertasi in Geolive (Geom. Rocco Diamante 21.9.2007): “Non era raro che vi fossero contestazioni antiche sulla effettiva posizione dei confini fra Comuni soprattutto se interessavano aree demaniali, spesso usurpate proprio dai maggiorenti dell'epoca che erano, ovviamente, anche gli amministratori comunali”. Se ciò era prassi “normale”, non deve meravigliarci. D’altro canto, ne viene fuori una successione di eventi poco chiari che hanno determinato l’attuale confinazione sud tra Avetrana e Manduria escludendo la prima da un naturale sbocco al mare.

“Privilegio” che è toccato ad Avetrana, essendo l’unico comune tra le provincie di Taranto, Brindisi e Lecce chè pur posto a soli 5 Km dal mare non ha un metro di costa e di converso risulta che Manduria è l’unico comune che pur distante dal mare (in linea perpendicolare alla costa) poco più di 10Km ( si confronti con gli altri comuni delle province predette) ne possiede circa 13.

Riprendiamo dal momento in cui il sindaco Parlatano acquista le terre della Salina (nella fig. 1 le aree 1 e 2 ) Per fatti che rimangono inspiegabili, ma crediamo che la risposta sia presso l’archivio di qualche tribunale, avendo il Comune di Avetrana citato in giudizio il suo tesoriere infedele, nonostante regolari mandati di pagamento, dopo la quarta rata, come ci fa sapere lo stesso Parlatano, il tesoriere “non ebbe cura e rifiutasi di sdebitarsi con la Società Anonima”. Per questo il comune di Avetrana, dopo aver pagato le prime quattro rate divenne inconsapevolmente moroso e con sentenza del 21 Aprile 1874, (sentenza con la quale il tribunale fa divieto al Comune di Avetrana di potersi appellare) pur avendo mostrato tutto l’interesse a porre rimedio, si rescinde il contratto e si ordina al comune la restituzione di quanto acquistato.

Pare cogliersi, in questo passaggio, una assoluta volontà di escludere Avetrana da un più che leggittimo tentativo di recuperare quanto, non per sua colpa, stava per esserle tolto.

Il 1° Novembre del 1874 quelle stesse terre, rimesse all’asta, se le aggiudicano i fratelli Schiavoni: Vespasiano che, come dimostra una sua lettera autografa del 6 agosto 1861 (arch. storico di Avetrana) indirizzata al sindaco di Avetrana, chiedeva di poter ottenere ancora in affitto le terre della dismessa salina per ancora quattro anni con l’esborso di 81 ducati annui) e Raffaele, fratelli a loro volta, del Sen. Nicola che in quegli anni è collega del Sen. Giacomo Lacaita (che abbiamo visto essere presidente della Società Anonima).

Si tenga però comunque presente che, quelle terre furono acquistate da privati cittadini, e non dal Comune di Manduria che sarebbe dovuto essere stato rappresentato dall’avv. Giuseppe Preite, in quell’anno, sindaco di Manduria. Da qui una serie di dubbi:

1)Com’è potuto accadere che quanto era in tenimento, e parte in pertinenza di Avetrana, sia poi divenuta completa pertinenza di Manduria (per inciso non abbiamo trovato alcun decreto che rendesse pubblico quanto avvenuto)? Qualcuno ha dichiarato che quell’antico ex feudo “da sempre” tenimento di Manduria, con l’acquisto fatto dai signori Schiavoni, esso si “riannetteva naturalmente alla madre patria”. E se la gara fosse stata vinta da un signore di Martina Franca, a chi sarebbero andate quelle terre? Cosa sarebbe accaduto?

2)Come non correre col pensiero alla bramosìa di terre dei grandi possessori terrieri al confuso tempo dell’unità d’Italia (il cui comportamento come segnalato prima era quasi prassi)? Poco chiaro appare quel documento citato, sempre in “ LA STORIA INFINITA” (pag.194) che già nel 1839 pone alcuni territori tra i possedimenti del sig. Tommasino Schiavoni, tra i quali cito: Santullo, Fellicchie, Carcasacco, Paludi, Marmorosa che seppur sue possessioni erano, come mostrato, chiaramente nelle pertinenze o quanto meno tenimento di Avetrana. Si confronti ancora una volta con quanto dichiarato dallo stesso sindaco di Manduria nel 1864.

3)Come non considerare strano il comportamento del tesoriere che ‘oltre a non aver cura rifiutavasi di pagare?

6) Infine, ci si chiede, essendo stata la fascia costiera acquistata dai sigg. Schiavoni, solo il 1° novembre 1874, (e solo nel 1877 ne divennero effettivi proprietari) la cartografia dell’ I.G.M. edita per la prima volta proprio in quell’anno, presentasse già la ripartizione attuale? E’ come dire che nell’arco di due mesi, al più, l’ I.G.M. era stato in grado di, o riportare lo stato dei luoghi in maniera davvero sbalorditiva, o la storia precedente era stata assolutamente ignorata.

A questo proposito lo stesso I.G.M. così rispose ad una nostra richiesta: “…Nei primi anni del Regno quasi tutte le Amministrazioni Centrali incontrarono obbiettive dif icoltà operative. In particolare il problema della conoscenza dei territori comunali, rimase per buona parte irrisolta fino al secondo decennio del nostro secolo [omissis]. Non esistendo una pubblicazione uf iciale… [omissis]... Va da sé che anche l’ IGM, incontrando le medesime dif icoltà… [omissis]… si dovette rifare alle medesime fonti di natura diversa… [omissis]... Evidentemente per ragioni diverse, ogni prefato percorso documentale era solo parzialmente attendibile, pertanto ad oggi non si è in grado… [omissis]… di entrare nel merito della giusta pertinenza giurisdizionale dei territori dell’ex feudo di S. Pietro in Bevagna. Il Comandante Gen. D. Franco Marchi.”

Pare quindi che certe attribuzioni territoriali non siano esaustivamente attendibili,ma quali furono le "fonti di natura diversa"?

Nello specificare che quanto fin qui da noi prodotto si basa su documenti provenienti in gran parte dal nostro archivio storico (e quindi sempre consultabili). D’altra parte si osserva come nell’ambito di accese discussioni (mai comunque polemiche) intorno alla questione, mai storici o ricercatori di Manduria che si sono occupati della “questione” hanno prodotto, in opposizione, un sol documento che provenisse dall’archivio storico di Manduria, salvo riferimenti a citazioni estratte da ricerche non specifiche o da documenti di archivi privati (dove, per rigore, occorre stare in all’erta in quanto, alcune volte redatti, ad usum delphini, così come ci ricordano le stesse liti tra il Monastero e il Regio fisco o i feudatari, o quel famoso beneplacito di Capua di liceale memoria: “ Sao ko kelle terre et per kelli fini per anni trenta li possette Sancti Benedicti)?

Strano, perché questo silenzio dell’archivio di Manduria induce a ritenere quei documenti, se esistenti, tali da non poter suffragare quanto oggi viene asserito dalla città messapica. E’ mai credibile che di tanti secoli, di presunta possessione di qualla fascia costiera, es. Torre Columena e salina inclusa, non sia rimasta alcuna traccia? Ma senza alcun documento risorge la domanda: quali furono le "fonti di natura diversa" che indussero l’I.G.M. ad assegnare l’ex feudo interamente a Manduria? O le ‘fonti di natura diversa’furono solo esercizio di potere? Resta per es. noto un documento spesso citato per dimostrare l’antico possesso delle saline da parte di Manduria quello che, nel 1713 D. Francesco M. Ferrara cita (? ma pare mai visto da alcuno) e per il quale nel 1463 Manduria avrebbe fatto dono delle sue saline a Ferdinando D’Aragona re di Napoli. Ma le saline non appartenevano già ai monaci cassinesi?

Pronti comunque a rivedere le nostre posizioni nell’evidenza delle prove che documentino il contrario. Al momento l’unica prova è, come già detto, solo la forza dello status quo.

Pietro Scarciglia-Luigi Schiavoni

[1] Sezionare da intendere, per semplicità, come “ accatastare”.

[2] Articolo sta per “Partita”

[3] Intendo Tenimento un territorio ricadente nei confini comunali, di cui il Comune non è proprietario. Pertinenza deve intendersi un territorio di cui il comune ne è proprietario.

Il suffeudo di San Pietro in Bevagna: note a margine dello scritto di Pietro Scarciglia e Luigi Schiavoni. Manduria Oggi il 27/06/2020. E’ il mio ultimo intervento sulla questione: d’altronde la mia ricerca originaria era finalizzata solo a far meglio conoscere le vicende del suffeudo petrino e non certo ad alimentare l’annosa discussione tra comunità cittadine “sorelle".

Questo breve intervento per effettuare alcune precisazioni, rese necessarie dallo scritto pubblicato da Pietro Scarciglia e Luigi Schiavoni su Manduria Oggi il 23 giugno scorso.

Seguirò l’ordine espositivo utilizzato dagli stessi, così sintetizzabile:

- Suffeudo di S. Pietro in Bevagna.

Il medioevo normanno-svevo è un periodo assai meno nebuloso e più concreto di quanto non si pensi oggi. Il rapporto con la feudalità non era assolutamente regolato dal capriccio dei re che (secondo gli autori dello scritto) “disponevano dei territori a loro piacimento”, anzi vi era un forte equilibrio tra le due parti, attestato da specifici diritti dei feudatari nei confronti della corona, come quello di essere giudicati dal tribunale dei pari anche per le cause relative al feudo.

Nel contesto dell’organizzazione feudale data all’Italia meridionale dalla monarchia normanna, il suffeudo era un feudo «ottenuto immediatamente da altro feudale» e confermato, in seguito, dall’assenso regio (1). Si trattava di una feudalità, per così dire, “minore”, inserita, come già detto, nella più ampia compagine territoriale del feudo maggiore, espressione di una ragionata distribuzione e frammentazione del possesso signorile, diretta spesso a soddisfare mirate strategie clientelari (per garantirsi la fedeltà dei propri sottoposti) o di alleanza (nel caso di S. Pietro, con il potente ordine monastico benedettino).

Ciò, in ogni caso, comportava l’inclusione di questa entità in quella sovraordinata, infatti sostenevano i giuristi dell’epoca: “E perché il suffeudo è parte del feudo, una è sempre la natura; ed in conseguenza la stessa polizia e pel capo, che per la parte. E perciò dopo Andrea d’Isernia scrissero gli altri feudisti: pars regulari esse ex natura totius.(2)”

L’esistenza del suffeudo di S. Pietro in Bevagna, come parte del feudo di Casalnuovo (cd. feudo grande), insieme a S.Anastasio, Bagnolo, Comunale, Concordato di Oria, S. Cosimo, ecc. (noto invece che gli autori avetranesi evitano di usare questo termine, preferendo parlare più genericamente di feudo) è circostanza confermata da indiscutibili ricerche storiche (v. G.Jacovelli, Manduria nel 500, Congedo editore 1973, A. Pasanisi Civiltà del 700 a Manduria, Lacaita editore 1992) e da fonti documentarie (v. Catasto onciario di Casalnuovo del 1756, ecc.).

Ma vi è di più. Quando nella mia ricerca parlo di suffeudo, non faccio riferimento a cose remote (almeno rispetto ai fatti di cui parlano gli autori avetranesi), ciò perché l’istituto giuridico rivive nei documenti (e di documenti ufficiali si tratta) puntualmente citati nelle note allo stesso articolo (note che seguono la prima che è stata letta da Scarciglia e Schiavoni, ed è oggetto del loro intervento). Come credo di aver dimostrato (documenti alla mano), nonostante le leggi eversive della feudalità del periodo dei napoleonidi, il suffeudo di S. Pietro sopravvive, nella sua delimitazione territoriale e con gran parte delle sue implicazioni economiche (riscossione delle decime feudali in natura, ecc.), anche dopo seconda metà dell'Ottocento (3).

Orbene, se il territorio della Salina (non a caso denominata dei Monaci) e di Colimena erano parte del suffeudo [e su questo concordano Scarciglia e Schiavoni i quali affermano (trascrivo): “anche se, come giusto, l’ex feudo si estendeva ben oltre Torre Columena”], ed il suffeudo di S.Pietro era parte del feudo di Casalnuovo-Manduria, la deduzione più logica è una soltanto: il suffeudo presuppone sempre un feudo da cui promana che nel nostro caso, piaccia o non piaccia, è Manduria.

Quindi nessuna “deduzione indotta non dalla lettura di documenti originali” (cito gli autori), ma documenti ufficiali, anche più recenti di quelli indicati nello scritto a cui si replica (1839 per l’atto di acquisto dell’ex suffeudo da parte di Tommaso Schiavoni e 1867 per l’atto giudiziario inserito nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia).

E, detto ciò, per il resto giudicherà l’accorto lettore.

- Pagamento del caporale torriero e dei cavallari (staffette a cavallo) di servizio a Torre Columena.

La circostanza che alla retribuzione del caporale torriero e del restante personale della guarnigione abbia provveduto l’Università (Comune) di Avetrana non è significativa.

La Torre di Colimena, intesa come struttura difensiva o edificio era, al pari delle altre, di proprietà non dei Comuni ma del demanio regio (e ancor oggi, se non erro, è del demanio statale). Ciò è pure confermato dal fatto che alcune torri già esistenti, costruite da enti locali (ad esempio S. Cataldo, S. Sabina a Carovigno) o da ordini monastici (il caso di Torre S.Pietro a Manduria), passarono nella proprietà del governo vicereale previo pagamento di una indennità di esproprio (4).

Parimenti ininfluente è la circostanza per individuare l’appartenenza del territorio in cui la torre era ubicata. Il pagamento degli stipendi (al mese, 4 ducati al caporale, normalmente uno spagnolo, e 3 ducati gli altri) come è riportato da varie fonti poteva gravare, insieme anche alle spese di manutenzione della struttura, su comuni diversi da quello in cui la fortificazione si trovava.

Si può indicare come esempio (ma molti altri ve ne sarebbero) Torre Pizzo in feudo di Gallipoli, molto vicina all'abitato di Taviano, che ne traeva beneficio: “sicchè Gallipoli, già oberata da tante responsabilità militari, insisteva presso la Corte di Lecce perchè la cura della torre, e soprattutto la paga al caporale ed ai compagni torrieri, fosse assolta dai cittadini di Taviano”. A seguito delle lamentele dei gallipolini, le autorità centrali, imposero all’Università di Taviano di farsi carico delle spese.

In un successivo documento del 6 novembre 1590 l’Università di Gallipoli chiedeva nuovamente di essere esonerata dalla paga ai cavallari (nda: si trattava delle staffette a cavallo che dovevano dare l’allarme, in caso di attacco dei turchi), necessari invece per i paesi dell’entroterra, ordinari di notte e straordinari di giorno, "in quanto ne poteva fare di manco, poichè essa città è sita sopra di uno scoglio alto in mezzo del mare che facilmente il dì scopre per molte miglia a torno e, senza tenere con tanta spesa detti cavallari estraordinari, si può da se guardare come sempre ha fatto (5)" .

Analogo è il caso di Galatone per le spese della guarnigione della Torre del Fiume di S.Maria al Bagno (territorio di Nardò (6)). Peraltro è pure noto che un tributo specifico era imposto a tutte le Università (Comuni) entro le 12 miglia dalla costa.

Manduria, evidentemente, risultando già “impegnata sulla Torre di S. Pietro in Bevagna” (testuale, v. scritto di Scarciglia e Schiavoni) e non traendo gli stessi benefici di Avetrana dal servizio di guardiania della Colimena, aveva tutto l’interesse a sottrarsi a maggiori spese.

- Officiatura della cappella e mancata indicazione della stessa da parte dello storico Leonardo Tarentini.

- Considerazioni analoghe a quelle svolte per lo stipendio della guarnigione della Colimena, valgano per l’esercizio delle pratiche di culto nella vicina cappella.

Innanzitutto vanno evidenziate le differenze concettuali tra giurisdizione ecclesiastica e civile, i cui ambiti territoriali, trattandosi di ordinamenti giuridici distinti (canonico e civile) sono differenti e non necessariamente coincidono.

Dire che il parroco del tale paese celebrava le sacre funzioni nella cappella o chiesa di un altro non significa che l’edificio di culto apparteneva al paese di provenienza del celebrante. Nel passato, quando esistevano i benefici ecclesiastici poteva accadere spesso che fosse eletto cappellano, o che risultasse titolare del beneficio, un ecclesiastico forestiero, proveniente anche da centri piuttosto distanti.

Per restare in loco, è documentato che la chiesa di S.Maria della Nova di Manduria (oggi, meglio nota come S.Lucia) era un beneficio rivendicato nel ‘500 da don Lorenzo Nigro, arciprete del casale di Uggiano (all’epoca Università o Comune autonomo), oppure che la cappella di S.Matteo nella Collegiata, era officiata nel ‘700 dall’arcidiacono della cattedrale di Gallipoli Saverio Pattotero (7).

Peraltro la maggiore vicinanza delle cappelle con Avetrana può aver ben giustificato la circostanza citata, come pure l’inclusione delle cappelline rurali nell’intinerario seguito dall’Ordinario diocesano durante la S.Visita nel paese. Ad esempio, è documentato che l’arciprete di Uggiano Montefusco, abbia celebrato fino agli anni ’60 del secolo appena trascorso nella chiesa di S.Maria di Bagnolo (di cui diremmo appresso), assai più vicina a quella comunità parrocchiale, sebbene da sempre si trovi in territorio di Manduria (in un altro suffeudo della città, quello di Bagnolo appunto (8).

In ogni caso, lo si ribadisce, la giurisdizione ecclesiastica, va tenuta distinta da quella civile.

- Neppure il fatto che il sac. Leonardo Tarentini non abbia incluso le cappelline della Salina e della Colimena nel volume “Manduria Sacra” è importante.

Infatti, va ricordato, l’opera presenta altre, simili, lacune: per esempio, lo storico mandurino non ha incluso nel suo volume la chiesa di S. Maria di Bagnolo che pure si trovava (e si trova) in territorio di Manduria e, come già anticipato, era la sede dell’omonimo suffeudo di Casalnuovo.

Si è forse autorizzati a sostenere che la chiesa molto più importante delle cappelline rurali in questione (era stata sede abbaziale), apparteneva ad altro paese?

Non lo credo affatto.

- Infine, solo come velocissimo passaggio, un accenno al “principale” documento citato dagli autori avetranesi.

Si tratta, come ormai ben noto, della memoria “difensiva” del 1810 del Sindaco di Avetrana, che é un atto della stessa parte (quindi, non un provvedimento proveniente un’autorità amministrativa o giudiziaria terza ed imparziale), per il quale è più che lecito ritenere che gli argomenti esposti siano stati quelli più favorevoli a chi l’aveva predisposto e, quindi, i più idonei a sostenerne le ragioni.

Come tale esso non ha valore probante.

Per quanto riguarda, invece, la supposta, lamentata carenza di documenti sul “versante” manduriano (affermazione infondata, in quanto i documenti ci sono, a partire da medioevo e fino alla seconda metà del 1800), valga la regola “onus incumbit ei qui dicit” (l’onere di fornire la prova incombe su colui che sostiene una determinata tesi), nota regula juris che deriva dalla saggezza dei romani e che può senz’altro acquietare dispute come questa, già in corso da tanti anni.

Orbene, a ben guardare, non mi pare che, con i “documenti” citati (per lo più atti di parte e dal contenuto non univoco), tale onere sia mai stato assolto da chi ne era gravato.

- Annullamento, per mancato versamento delle rate di prezzo, dell’atto di aggiudicazione del Comune di Avetrana del 1867.

L’argomento, ben confutato in passato dal compianto Pietro Brunetti, è sufficientemente noto e non mi soffermo a descriverlo.

Per una corretta impostazione del dibattito non si devono confondere i rapporti di diritto pubblico o amministrativo, con quelli di diritto privato.

La gara per la vendita della dismessa Salina indetta dal Demanio statale (che, come in altri casi nel resto d’Italia, aveva ricevuto la proprietà del bene per effetto di successione ai demani degli stati preunitari, a loro volta divenuti proprietari con le soppressioni degli ordini monastici e religiosi) era aperta a tutti.

Ovviamente se, accanto ad un privato, vi partecipava un soggetto pubblico (nel nostro caso, il Comune di Avetrana), questo agiva sempre iure privatorum, ossia come un normale cittadino, con la conseguenza che, in caso di aggiudicazione, acquisiva la proprietà di un immobile che poteva pure trovarsi in un altro Comune (soggetto alla giurisdizione amministrativa di quest’ultimo), dove, per fare un esempio, l’acquirente avrebbe dovuto pagare le tasse.

Conseguentemente la Salina, se acquistata da Avetrana, non sarebbe valsa a creare un’enclave nel territorio di Manduria, ma avrebbe costituito una proprietà privata di quel Comune nel territorio di un altro.

Accade anche oggi che, ad esempio, alcuni fondi rustici nel Comune di Manduria siano intestati, come privato proprietario-concedente di enfiteusi, al Comune di Francavilla, succeduto –per effetto di successivi trasferimenti effettuati dalla legge– nella titolarità di beni che, probabilmente, costituivano la dotazione dell’ospedale di quella città, ma lo stato delle cose non cambia: il bene è pur sempre nel territorio di Manduria (non di Francavilla), sebbene ne sia proprietario un soggetto pubblico, anziché un privato.

Se poi vi è stata la creduta infedeltà del funzionario comunale di Avetrana nel versamento delle rate di prezzo (ma non abbiamo mai sentito quanto questi aveva da dire a sua difesa), la questione è irrilevante: chi è causa del suo mal pianga se stesso.

E ancora se le saline fossero già state demaniali di Avetrana, che bisogno c'era di partecipare ad un asta per comprarle?

Il Comune avrebbe potuto disporne direttamente, per distribuire ai suoi cittadini ciò che già aveva.

Evidentemente non era così e poi su quali basi storiche si viene a sospettare che personaggi illustri della levatura di Nicola Schiavoni Carissimo o di Giacomo Lacaita, figure insigni di patrioti del Risorgimento, possano aver brigato a danno di qualcuno?

Ma soprattutto, gli acquirenti manduriani, dopo aver comprato all’asta il comprensorio della Salina, quale utilità avrebbero avuto nell’indurre (come si lascerebbe intendere nello scritto a cui si replica) altre pubbliche autorità comunali e statali (come il Catasto o l’Istituto Geografico Militare) ad “annetterlo” nel territorio del Comune di Manduria, togliendolo ad Avetrana? Era forse il primo un paradiso fiscale, nel quale essi non avrebbero pagato le tasse?

Ecco perché tutto il ragionamento che ruota intorno al concetto della “congiura” ai danni di qualcuno, a mio modestissimo parere, non regge.

Del resto, giusto per fare un esempio, il Catasto Onciario del 1756 riporta puntualmente il territorio di Ruggiano nell’agro di Casalnuovo-Manduria (oltre ad indicare, come proprietario della masseria omonima, il Convento dei domenicani di Manduria), mentre la zona oggi ricade in quello di Avetrana. In questa contrada molti proprietari sono manduriani e la viabilità rurale, mediante la quale raggiungono i loro terreni, purtroppo è quella che è.

Non ho notizia di dibattiti storici riguardanti l’appartenenza di queste terre, né di richieste di “revisione” di confini.

Siamo nel terzo millennio, come cittadini possiamo chiedere che un territorio sia ben amministrato (e non sappiamo quanto lo sarebbe meglio se ad amministrarlo fossero altri), ma non si possono concepire rivendicazioni di confine basate su documenti suscettibili di variegate letture, il più recente dei quali è vecchio di oltre 150 anni.

Aggiungo che non intendo più tornare sull’argomento che fin qui si è dibattuto, quasi all’infinito.

Per quanto mi riguarda, lo ritengo concluso con lo scambio di opinioni contenuto nella “precisazione” che gli autori avetranesi hanno avuto la bontà di indirizzare al mio articolo e la “replica” dello scrivente.

Del resto la mia ricerca originaria era finalizzata solo a far meglio conoscere le vicende del suffeudo petrino e non certo ad alimentare l’annosa discussione tra comunità cittadine “sorelle”.

Nessuno è depositario di verità assoluta (men che meno io) e tutti possono restare della propria opinione: siamo in “democrazia” anche per quanto riguarda il dibattito storico.

Per il resto giudicherà il lettore accorto che rimando a quanto già scritto sull’argomento, prima e meglio di me, dal compianto direttore Pietro Brunetti(9).

Giuseppe Pio Capogrosso.

Note:

1 G. Vallone, Istituzioni feudali dell’Italia meridionale., editore Vielle 1999, p. 35).

2 Pietro Natale, “Per d. Simone Mattei di Castelforte. Intorno alla successione de' Suffeudi ...”; Andrea d'Isernia, In usus feudorum commentaria, Francofurti 1598, p. 276.

3 Citazione per pubblici proclami del 1867 su supplemento al n.333 del 7 dicembre 1867 della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, l’atto recita: “…suf eudo di San Pietro in Bevagna in territorio di Manduria, dipendente dalle rubriche contenute nel grande archivio di Napoli in testa al monastero dell’ordine Cassinese di San Benedetto, sotto il titolo di San Lorenzo di Aversa, da cui per le vecchie soppressioni ebbe causa il demanio, che ne fece vendita in favore del sig. Tommaso Schiavoni, padre dello istante, e dal quale egli ha causa in virtù dello strumento ricevuto dal notaro Antonio di Lecce di Napoli al primo marzo 1839; Atto di acquisto dell’ex suffeudo da parte di Tommaso Schiavoni, rogato dal notar A. de Luca di Napoli in data 1 marzo 1839.

4 Andrea Checchi , “Torri costiere: La difesa costiera nel Salento dal XVI secolo”, più precisamente Torre S.Pietro fu acquistata dal governo vicereale nel 1578.

5 Tommaso Leopizzi, “Le torri costiere intorno a Gallipoli”.

6 Salvatore Muci, “Appunti sulla torre del Fiume di S. Maria al Bagno nota come Quattro Colonne” su fondazione Terra d’Otranto.

7 Gianni Jacovelli, Manduria nel 500, Congedo editore 1973, Antonio Pasanisi Civiltà del 700 a Manduria, Lacaita editore 1992).

8 Giulio Becci, Il centro storico di Uggiano Montefusco.

9 V. il suo articolo pubblicato su La Voce di Manduria, edizione on-line, il 7.11.2013.

10 Cartolina devozionale riproducente la precedente tela di S.Pietro Apostolo, attribuita alla pittrice manduriana Olimpia Camerario. Collezione privata.

·        Succede ad Avetrana.

L'ultimo femminiello di Napoli. La sua storia è raccontata in "Discovering Tarantina", un progetto del visual reporter Vincenzo Metodo che, partendo dal suo incontro con la Tarantina, ne scava il passato e il presente, mettendo in luce i dettagli di una vita straordinaria, vissuta in bilico tra dolore e bellezza. Gianluca Grimaldi, venerdì 16/10/2020 su Il Giornale.  "All'anagrafe sono Carmelo Cosma, ma qui a Napoli mi hanno sempre chiamata la Tarantina". 84 anni e capelli biondissimi, la Tarantina prepara il caffè nel suo vascio, una casa a pianterreno nei Quartieri Spagnoli di Napoli. "Questa era la casa che usavo solo per prostituirmi, ma oggi è l’unica che mi resta". Quando il caffè è pronto, mette la moka all’ingresso e lascia la porta aperta: chiunque, passando, può fermarsi e versarsi una tazzina. Poi si siede sul letto. Dietro di lei, tra le ante aperte dell’armadio, un’infinità di vestiti colorati. Nata nel 1936 ad Avetrana, un piccolo paesino pugliese, la Tarantina fu buttata fuori di casa a nove anni a causa dei suoi atteggiamenti considerati troppo femminili. "Ad Avetrana venivo maltrattata. Mi picchiavano e abusavano di me. Anche il prete mi molestò dopo avermi invitato in sacrestia. Vivevo in strada, sopravvivevo grazie a piccoli furti. Tentai anche il suicidio. Scappai a Taranto dove conobbi un marinaio. Fu uno dei pochi a non volermi mai toccare, a non farmi del male. Mi parlava di Napoli, descrivendomela come un posto dove tutto poteva succedere. Ci arrivai dopo un estenuante viaggio che durò due giorni. La città era ancora semidistrutta dalla guerra, ma a me sembrò il posto più bello del mondo. Fui adottata da una prostituta. Lei mi dava vitto e alloggio e io, in cambio, pulivo le stanze, rifacevo i letti, portavo asciugamani agli uomini che facevano l’amore con lei. Questo almeno finché, più o meno a undici anni, non iniziai a prostituirmi anche io”. La Tarantina parla di sé quasi sempre al femminile, a volte lo fa al maschile nel raccontare della sua infanzia. Quando le si chiede se si definisce gay, transgender o travestito, quasi si offende: “Sono un femminiello e basta. Anzi, sono l’ultimo femminiello rimasto”. La parola femminiello viene oggi usata in dialetto napoletano per definire, in senso dispregiativo o ironico, un omosessuale o una transessuale. In realtà, è una parola che affonda le radici nel folklore partenopeo, nella sua tradizione letteraria, teatrale e religiosa. Per tradizione è il femminiello che tira i numeri della Tombola ed è a lui che si fa tenere in braccio un neonato perché gli trasmetta energie positive. Inoltre, sono gli uomini che “vivono e sentono come donne” ad andare in pellegrinaggio al santuario della Madonna di Montevergine, vicino Avellino, ogni 2 febbraio. Una figura che oggi rischia di smarrirsi nel più ampio mondo Lgbtq, facendo perdere le sue peculiarità. Per questo è nata l’Afan, Associazione Femmenell Antiche Napoletane, che vuole preservarne la memoria storica. A tredici anni è la volta di Roma. Alberto Moravia, Pierpaolo Pasolini, Federico Fellini: sono solo alcune delle persone che la Tarantina incontrò quando si trasferì nella capitale, diventando anche lei una protagonista inconsapevole della dolce vita. “Un giorno, mentre camminavo, un uomo mi invitò a salire in auto. Non volle toccarmi, si limitò ad ascoltare la mia storia. Da quella volta, ogni sera, veniva a portarmi del cibo mentre io mi prostituivo, in cambio voleva solo le mie parole. Scoprii molto tempo dopo che si trattava dello scrittore Goffredo Parise. Per me fu un amico, un padre, un angelo custode. A Roma ero molto famosa per il mio aspetto ambiguo. In breve tempo divenni una celebrità. La pittrice Novella Parigini mi volle come modella per i suoi quadri. Conobbi Anita Ekberg e anche Brigitte Bardot che mi invitò nella sua villa in Costa Azzurra. ‘Non è possibile che tu sia uomo’ mi diceva Fellini. Allora un giorno, durante una festa, lo portai in una stanza e gli feci vedere il mio pene. Pasolini parlava poco ma ascoltava ogni tua parola. Che uomo affascinante! Tantissime donne erano innamorate di lui! ‘Resta qui, ti apro un negozio di pezze americane’ mi diceva Goffredo. Ma io preferii tornare a Napoli”. Tornata all’ombra del Vesuvio, però, la sua vita non è sempre stata semplice. Più volte la Tarantina è stata arrestata per multe non pagate per travestitismo e atti osceni. In carcere conobbe anche Cutolo ed era dietro le sbarre nel 1980 quando, approfittando del terremoto, ci fu un regolamento di conti tra bande rivali con risse, rivolte e morti. "Ho assistito a scene di sangue terribili, ma non è stata l’unica volta in cui ho rischiato di morire. Rischiavo la vita ogni volta che uscivo di casa vestita da donna. A me non importava. Spero di essere riuscita a cambiare qualcosa e mi auguro che oggi le famiglie non abbandonino più i figli solo perché diversi”. Poi, negli ultimi decenni, la riscoperta della sua figura: documentari e libri su di lei, spettacoli teatrali e anche un murales a lei dedicato, nel quartiere di Montecalvario. Le sue iconiche labbra rosse sui muri di Napoli insieme ai murales che raffigurano Totò, Sophia Loren, Maradona. Qualcuno lo imbratta, ci scrive sopra "Questa non è Napoli". Ma lei è "più napoletana dei razzisti", come dichiara in quell'occasione, e la scritta presto viene cancellata. Il murales torna a splendere. Della sua famiglia, lei non ha rivisto o sentito più nessuno se non una sorella, oggi ancora in vita e ultracentenaria. “Ho chiesto di parlare a mio fratello mentre era sul letto di morte, ma lui non ha voluto. I miei genitori non li ho visti mai più. Una volta, tornata ad Avetrana, sono andata al cimitero. Ho lasciato un fiore sulla loro tomba, ho baciato le loro foto”. Ad Avetrana la Tarantina è tornata anche questa estate, dopo moltissimi anni. Ha messo piede nel centro estetico che oggi sorge dove c’era casa sua. Poi, poco lontano, un punto sul marciapiede dove ricordava di aver passato le notti quando non aveva più un tetto. “Era questo! Era questo il posto!”. Quasi in segno di riscatto per le violenze subite, la città ha voluto offrirle un premio ed è stata organizzata una serata in suo onore. Qualcuno, simbolicamente, le ha offerto le chiavi della propria abitazione. Lei, microfono in mano, ha detto poche parole: “Era questo il bene che mi mancava”. La Tarantina si alza dal letto. Le sue vecchie foto sono sparse sul letto: lei le raccoglie, le sistema con cura nei cassetti. “La mia vita è stata dolorosa ma anche straordinaria”. Si avvicina alla moka lasciata all’ingresso. “C’è un’ultima goccia di caffè. Prima di andar via, bevetelo, così ne preparo altro per tutti quelli che passeranno a trovarmi”.

Un documentario su Tarantina. La sua storia è raccontata in Discovering Tarantina, un progetto del visual reporter Vincenzo Metodo che, partendo dal suo incontro con la Tarantina, ne scava il passato e il presente, mettendo in luce i dettagli di una vita straordinaria, vissuta in bilico tra dolore e bellezza. Un documentario che può essere visto interamente su Instagram, sul profilo personale dell’artista bebop_studio, dove il progetto viene pubblicato in episodi. L’infanzia, la dolce vita, ma soprattutto il suo ritorno ad Avetrana, viaggio svolto in estate e al quale Metodo ha preso parte in modo mai invadente. In punta di piedi, accanto al passo mai stanco della protagonista. Entrare in una vita attraverso lo schermo di uno smartphone. Una biografia frammentata in storie Instagram. Schegge di vita a portata di social.

"La Tarantina", l'ultimo femminiello napoletano, scrive il 18 novembre 2013 Repubblica Tv. Il racconto di uno degli ultimi femminielli napoletani. Carmelo Cosma, classe '36, ricorda le fatiche del dopoguerra, i rifiuti dolorosi da parte della famiglia e della comunità di Avetrana in Puglia, la dolce vita romana. Il libro La Tarantina e la sua "dolce vita" (Ombre corte) narra una storia di precarietà e coraggio, alla ricerca ostinata di una felicità che la protagonista troverà a Napoli, "dove ognuno ha il suo posto". Ne parlano l'autrice dell'autobiografia ''autorizzata'', Gabriella Romano, e il critico letterario Francesco Gnerre.

Teatro, film e un murale a Napoli per la Tarantina, ultimo femminiello che Avetrana non ha voluto. Un vero personaggio di nome Carmelo Cosma, classe 1923, di Avetrana, da dove, ancora minorenne, fuggì ripudiato dalla sua famiglia (evidentemente perché gay) diventando “La Tarantina”, scrive domenica 17 febbraio 2019 La Voce di Manduria. Un’opera teatrale sulla sua vita, libri, un docufilm del regista Fortunato Calvino a cura dell'Università degli Studi di Napoli - Federico II, ed ora un murale nel Palazzetto Urban di Napoli che sarà inaugurato domani, lunedì 18 febbraio, con la presenza del sindaco Luigi De Magistris. Tutto per “La Tarantina”, primo transgender pugliese e ultimo “femminiello” di Napoli. Un vero personaggio di nome Carmelo Cosma, classe 1923, di Avetrana, da dove, ancora minorenne, fuggì ripudiato dalla sua famiglia (evidentemente perché gay) diventando “La Tarantina”. All’età di 82 anni (il 22 marzo spegnerà l’83sima candelina), la Tarantina è diventata una leggenda raccontata dalla stessa protagonista nel documentario del regista Calvino dove Carmelo Cosma, alias La Tarantina, ricorda il suo avvio alla prostituzione ancor prima della maggiore età, la persecuzione della polizia e la partenza per Roma, dove visse la sua personale e trasgressiva dolce vita conoscendo nomi come Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Laura Betti, Goffredo Parise e Novella Parigini, la pittrice famosa per le sue donne con gli occhi di gatto, che la ebbe più volte come modella. Di lei ne parla oggi il Corriere del Mezzogiorno in un articolo di Alessandra Chetta che riporta brani di alcune interviste della Tarantina. «Federico non credeva fossi un uomo viste le mie sembianze, fino a quando non gli feci vedere il mio membro» dirà a Gay.it. Conosce Pier Paolo Pasolini e Laura Betti, «anche se non sapevo minimamente chi fossero», o forse furono loro a conoscere lei, star dei salotti. S’imbatte in Alberto Moravia, «un gran cafone», e incrocia più volte Goffredo Parise, che invece descrive come persona meravigliosa. In via Margutta era di casa: posava da modella per Novella Parigini, pittrice esistenzialista di nudi che poi, spesso, coincidevano col corpo travisato del femminiello. Sulla Tarantina degli anni d’oro dei grossi guadagni si favoleggia alla grande». Sempre dal Corriere del Mezzogiorno. «Fa l’intransigente, orgogliosa di essere terzo sesso: «Lgbt, ma che mi significa? Transgender? Mah». Perplessa sulla colorata ostentazione dei Pride e delle nozze gay, come qualche tempo fa la cerimonia della transessuale Alessia ad Aversa: «E’ una cosa che proprio non mi interessa, si fa troppo spettacolo, troppa esibizione, ma se la gente è felice così… Anche se di matrimoni, però finti, tra femminielli ne abbiamo sempre fatti. Sono episodi poi finiti sui libri (i saggi di Eugenio Zito e Paolo Valerio, ndr) e nei film». Disincantata, anche perché fino agli anni Settanta i transessuali erano braccati dalle forze dell’ordine: «Adesso gli omosessuali possono sposarsi ma le offese non sono finite. Ci sarà sempre qualcuno che ti chiama ricchione, femmenélla. Nessuno s’illuda, la discriminazione continua».

La Tarantina e la sua dolce vita, l'amara testimonianza di uno degli ultimi femminielli. Il nuovo libro di Gabriella Romano La Tarantina e la sua "dolce vita"(Ombre corte) è l'autobiografia "autorizzata" di Carmelo Cosma, classe '36: storia di una ricerca ostinata della felicità, scrive Pasquale Quaranta il 18 novembre 2013 su La Repubblica.

Napoli e i femminielli. La città partenopea è la cornice del vissuto di un femminiello negli anni Cinquanta-Sessanta raccolto dalla documentarista Gabriella Romano (La Tarantina e la sua “dolce vita”, racconto autobiografico di un femminiello napoletano, Ombre corte). "D'improvviso la guerra ci sembrò lontana, ci scrollammo di dosso la polvere, la fame, la fatica del dopoguerra" racconta la protagonista.

La Tarantina. A parlare è Carmelo Cosma, classe ’36, originario di Avetrana, provincia di Taranto. A 9 anni è ripudiato dai propri familiari: l’innocente interessamento per un adulto diventa lo scandalo di tutto il paese. Decide così di lasciare la Puglia per trasferirsi subito a Napoli e poi a Roma. "A quei tempi Roma era una calamita, tutti sognavano di vivere nella città del cinema, delle star, la capitale dell'eleganza e della modernità di cui leggevamo sui rotocalchi: e il miraggio era a portata di mano, proprio lì, a pochi chilometri di distanza" ricorda La Tarantina.

Transgender si nasce. Nella Capitale Carmelo inizia a vestirsi da donna, il genere che ha nel cuore. Non si riconosce come omosessuale né come trans, non sogna di operarsi ma assume ormoni: è ciò che definiremmo oggi con transgender ma in quegli anni la Tarantina a Napoli è un femminiello, nella Roma di Giò Stajano un “capovolto”: "La dolce vita romana incalazava, mi seduceva, mi spronava a buttarmi a capofitto in situazioni sempre più scandalose. Erano anni di grande euforia, sfrenatezza, c'era il gusto di esagerare, di infrangere i tabù del passato". 

La “dolce vita”. Persone così sfacciatamente uniche si contavano sulle dita di una mano. La Tarantina vende la sua “diversità” tra Villa Borghese, via Veneto e i Parioli. Ma la dolce vita romana (interessanti gli anneddoti che riguardano Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Novella Parigini) è più spesso amara, a causa dell’assenza di amore, delle aggressioni subite in strada, dell’ipocrisia che permea la società italiana. Come molti altri femminielli della sua generazione, la sua è stata anche un'esistenza faticosa, fatta di dolorosi rifiuti (in particolare la famiglia), di precarietà e di carcere, di sogni infranti.

Home is people. “L’età dell’oro” per la Tarantina è a Napoli, dove da bambino incontra la sua famiglia in spirito e dove da adulta sceglie di vivere dopo la parentesi romana. Ovunque sei, sembra dirci la sua storia, la tua casa diventa la gente che scegli di frequentare e le persone che ti scelgono per quella che sei.  Un’adolescenza come domestica in cambio di vitto e alloggio a Chiaia, dalla signora Rosa che affitta camere alle prostitute, e poi una vita da prostituta. Guadagnerà molto La Tarantina e tanto donerà. Perché “Napoli è questa, ‘a verità: niente abbiamo ma molto regaliamo”. Un ponte tra il nostro passato e il nostro presente che si consolida, una biografia che testimonia un’ostinata ricerca di libertà e infine di felicità.

Radici. La realtà dei femminielli è molto studiata: il libro di Gabriella Romano è arricchito dal prezioso saggio Femmin-ielli. C'era una volta a Napoli? del prof. Eugenio Zito che a partire da un'analisi linguistica del termine "femminiello" avanza delle proposte interpretative da un punto di vista antropologico e psico-sociale. Con il prof. Paolo Valerio, Zito è autore del libro Corpi sull'uscio, identità possibili. Il fenomeno dei femminielli a Napoli (Filema). Segnaliamo sul tema anche il film-documentario Cerasella: ovvero l'estinzione della femminella prodotto dall’Università degli Studi Federico II di Napoli, scritto e diretto da Massimo Andrei.

La Tarantina: “Non provate a darmi della trans, io sono un femminiello!”, scrive il 22 Febbraio 2018 quartierispagnoli.org. Fu cacciato di casa all’età di nove anni e la sua unica scuola fu il marciapiede. Per le strade della Roma bene guadagnava poco più di centocinquanta lire e girava spesso con Parise, Moravia, Laura Betti e Pasolini pur non sapendo chi diavolo fossero. È stata la musa della scandalosa pittrice esistenzialista Novella Parigini, ha conosciuto Fellini, ma anche il carcere, la discriminazione, la guerra del ’45 e la fame vera. Oggi Carmelo Cosma alias la Tarantina, l’ultimo ‘femminiello’ rimasto, ha 82 anni, vive di pensione minima e di ‘tombole scostumate’ che la porteranno dai Quartieri Spagnoli di Napoli, alla (sua) tanto amata Roma. Infatti, dal 27 al 31 marzo, sarà all’ Off Theatre in Via Giulia per raccontare la sua ‘assurda’ storia all’insegna dell’autenticità.

Facciamo un po’ di chiarezza: lei è una trans che non vuole essere appellata come tale...

«Senta: io non so neanche cosa significhi il termine trans e se anche lo scoprissi mi rifiuterei di chiamarmi così. Quando arrivai a Napoli, da ragazzino, ultra minorenne, le prime parole che sentii furono: ricchione, finocchio e femminiello. E quest’ultimo, nonostante l’epiteto nascosto dietro, mi diede tanto calore».

Faccio fatica, però, a capire cosa ci trova di così fastidioso nella parola trans...

«Questi nomignoli, come trans e gay, non fanno altro che generare distacco, discriminazione e nuove inutili etichette. La diversità, per come ho visto il mondo io sino ad oggi, non esiste. Siamo tutti uguali, la condizione sessuale è un qualcosa che non deve influenzare la vita di chi ci circonda».

Ripensa mai al suo passato?

«Le dirò: non così tanto. La vita è cambiata molto per tutti. Ai tempi, nonostante la fame e la miseria, ci si divertiva molto, mentre oggi noto una certa insoddisfazione generale che non mi piace affatto».

Si è prostituita per diverso tempo nelle vie della Roma bene. Perché scelse di vendere il suo corpo?

«Perché c’era la fame! Allora non avevo una lira e sarei stata disposta a fare tutto. Dormivo per strada, non avevo nulla da mangiare e non sa quante volte fui costretta a rovistare tra i cassonetti per non morire divorata dalla fame. La prostituzione, alla fine, fu la via della mia salvezza».

Ai tempi la concorrenza era tanta come oggi?

«No, assolutamente. A quei tempi, poi, la prostituzione era tutta al femminile. Quella maschile non esisteva proprio e, se esisteva, non se ne vedeva in giro. Io ero vissuto come un intruso».

Ricorda il suo tariffario di un tempo?

«Pagavano bene, ma parliamo di cifre che oggi fanno sorridere. Si poteva partiva dalle centocinquanta, fino alle cinquecento lire. Quel mestiere ai tempi, e nonostante tutto, era prestigioso e non di certo inflazionato come oggi».

Chi erano i suoi clienti?

«Era gente piuttosto borghese: con soldi e tanta cultura. La volgarità di oggi, ai tempi, non esisteva».

Quell’esperienza l’ha resa più forte o più debole?

«Più forte. Era una lotta continua con la vita, ma le dirò: sarei potuta diventare cattiva, viste le bastonate prese, invece sono rimasta quella di sempre».

Dopo il periodo fatto di sesso e soldi, come si è mantenuta?

«Vivendo di pensione minima e spettacolini di Teatro.

Ad esempio dal 27 al 31 marzo sarà al Teatro Off di Roma...

«Mi racconterò in tre atti: nella prima parte verrà mostrata una parte del mio documentario girato e diretto da Fortunato Calvino. Nella seconda ci sarò io, fisicamente, dove racconterò cose belle, brutte e aneddoti sulla mia vita, mentre nella terza, con il pubblico in sala, farò la ‘Tombola Scostumata’».

A nove anni venne cacciata da casa. Col tempo riuscì a recuperare il rapporto con la sua famiglia?

«Mai! Giusto qualcosa con una sorella, più grande, che oggi ha 102 anni. Quando mi chiama mi dice sempre: “Statte accuorte piccirillo”. Povera, crede ancora che abbia nove anni. Il resto della famiglia, vivi e morti, li ho persi per strada. Non troppo tempo fa, invece, sono morti i miei due fratelli. Hanno passato una vita intera a ripudiarmi».

Certi traumi non lasciano il segno?

«Un po’, ma avendoli vissuti per così poco tempo, non ho mai avuto modo di subire la loro mancanza se non quella di mia madre. Io vengo da Avetrana, in provincia di Taranto, il paese del delitto della povera Sarah Scazzi».

Roma l’accolse, ma Napoli la salvò. Che differenze c’erano, ai tempi, tra le due città?

«Roma, negli anni ’50 e ’60, era meravigliosa, mentre Napoli è da sempre la città che accoglie tutti. È rimasta uguale negli anni. Colorata, calda, viva, ma soprattutto umana. Nelle altre città ho visto e vissuto il distacco, cosa che a Napoli non è mai accaduta. A Roma vivevo in Piazza Rondanini, vicino a Piazza Navona, al Pantheon e ai palazzi del potere».

Zone centrali per una che non aveva una lira, no?

«Vero. Sono sempre stata ‘vanitosa’. Anche senza una lira, mi divertivo ad ostentare e ad inventare. Non volevo essere umiliata più di quanto la vita non avesse già fatto e per tanto mi inventavo la vita che volevo».

Lei oggi ha 82 anni. Se guarda al futuro cosa vede?

«A dire il vero non me ne sento affatto 82, ma molti di meno. Io ho visto così tante cose nella vita, a partire dalla guerra del ’45, che mi piacerebbe continuare ad impegnarmi, sempre più, nel sociale. Ho avuto poco, è vero, ma con quel poco che avevo sono riuscita ad inventarmi un sacco di volte e spero di farlo ancora».

Il fondo l’ha mai toccato?

«Un sacco di volte!»

Ha conosciuto anche il carcere…

«Uh quante volte. Ho perso persino il conto. Da Napoli a Milano. Ricorda il terremoto a Napoli, nel 1980?»

No, sono dell’86...

«Beh, ci fu un terremoto disastroso ed io, in quel momento, ero nel carcere di Poggio Reale. Quanta paura...»

Mi sfuggono, però, i motivi dei vari arresti…

«Roba di travestimenti e prostituzione. Arrivavano le multe, io non le pagavo e loro mi portavano dentro. Sempre la solita storia. Quanta gente ho conosciuto anche lì...»

Ha conosciuto anche Pasolini, Fellini, Laura Betti, Moravia e Parise.

«Sì e mi creda: non sapevo minimamente chi diavolo fossero tutte queste persone. Me ne sono resa conto solo quando diventai adulta. Pasolini mi portava a cena, ma stava sempre zitto. Sembrava molto interessato al mio vissuto. Fellini, invece, non credeva che ero un uomo viste le mie sembianze femminili, fino a quando non gli feci vedere il mio membro. Laura Betti era una pazza, bonariamente parlando, Moravia un gran cafone e Parise, suo amico storico, una persona meravigliosa. Moravia e Parise stavano spesso anche con Marina Ripa di Meana, ai tempi in Lante della Rovere. Una donna bellissima che venne persino a casa mia».

Perché ricorda Moravia come un cafone?

«Perché aveva un atteggiamento bruttissimo nei confronti di tutti. Io, quando lo vedevo, facevo in modo e maniera di evitarlo».

È stata anche musa della scandalosa pittrice esistenzialista Novella Parigini…

«Sì, ma anche di altri a dire il vero. Posavo spesso per un sacco di artisti all’Accademia di Belle Arti nei pressi di Villa Borghese a Roma. Tutti mi volevano e per guadagnare poco e niente, mi prestavo alla loro arte».

Lei, con la chirurgia, che rapporto ha avuto negli anni?

«Nessuno! Mi sono rifatta le labbra, tanti anni fa, quando ancora si poteva utilizzare il silicone ed oggi ne pago le conseguenze. Guardi che bocca che ho: tutta rovinata!»

Oggi è single. Ha avuto grandi amori?

«Sono sempre stata sola. Ho avuto tante avventure, quello sì, ma ho sempre preferito circondarmi di amici».

La trasgressione, oggi, per lei cos’è?

«Non lo so. So solo che quello che oggi è trasgressivo per il mondo, per me è “nu schifo!”»

Intervista di Alessio Poeta su Gay.it

Sfregio omofobo per Cosma "la tarantina" che racconta le discriminazioni subite ad Avetrana.

In questa intervista l'avetranese 82enne racconta come ha scoperto la sua omosessualità e le odiose discriminazioni che lo costringono ancora minorenne a fuggire da Avetrana per stabilirsi prima a Taranto e da lì a Roma e a Napoli, scrive domenica 03 marzo 2019 La Voce di Manduria. Inaugurato qualche giorno fa, il murale realizzato a Napoli che raffigura Carmelo Cosma, omosessuale di Avetrana conosciuto come «La Tarantina», ultimo femminiello di Napoli, è stato sfregiato e vandalizzato. Sul bel disegno realizzato con lo spray nei Quartieri Spagnoli di Napoli e raffigurante uno storico "femminiello" di Napoli, soprannominato "la tarantina" per le sue origini, è comparsa una frase scritta in nero: "Non è Napoli" e poi con la stessa vernice è stato coperto il volto. Sdegno unanime contro i vandali per un attacco che appare di origine politica. Il sindaco di Napoli Luigi De magistris ha fatto sapere che l'opera realizzata dall'artista Vittorio Valiante sarà restaurata. “Chi ha deturpato lo splendido murales, realizzato da Vittorio Valiante, dedicato alla “Tarantina”, ha compiuto un gesto ignobile e meschino. Un’infamia che fa emergere una parte, per fortuna minoritaria, di umanità che popola la nostra città, estremamente ottusa e retrograda. Un atto di ignoranza, inciviltà e omofobia, che offende solo le menti bacate di chi ha realizzato un simile scempio. Si provveda subito a restaurare l’opera per salvaguardare l’immagine di Napoli, città dell’accoglienza e della solidarietà”. Lo ha dichiarato il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli con quello municipale del Sole che Ride Salvatore Iodice. “Agli autori di questo gesto, che hanno anche scritto la frase ‘non è Napoli’ – hanno proseguito Borrelli e Iodice – vogliamo rispondere: Napoli non siete voi. Siete la vergogna di questa città”. All'episodio omofobo è stato dedicato spazio nella trasmissione de La 7, "Gazebo", dove il conduttore Diego Bianchi (Zoro), ha intervistato «La Tarantina». In questa intervista l'avetranese 82enne racconta come ha scoperto la sua omosessualità e le odiose discriminazioni che lo costringono ancora minorenne a fuggire da Avetrana per stabilirsi prima a Taranto e da lì a Roma e a Napoli dove vive tuttora.

Leonardo Nigro, dalla prima recita, a 5 anni, nella Missione Cattolica Italiana di Zurigo al successo sui grandi schermi e in tv. Manduria Oggi il 09/08/2020.  La sua carriera e i suoi legami con Avetrana. Si è innamorato della recitazione sin dall’infanzia. Figlio di genitori italiani, ha frequentato, in Svizzera, la Missione Cattolica Italiana di Zurigo. Sul palco dell’oratorio, la sua prima interpretazione ad appena 5 anni. «La carezza e i complimenti di mia madre al termine della mia prima rappresentazione, a 5 anni, mi generarono un’emozione che ancora porto nel cuore. Fu allora che maturai la decisione di trasformare quella che era già la mia passione in professione». Leonardo Nigro ha ora 46 anni. Continua a vivere in Svizzera, ma ad Avetrana, appena può, ritorna volentieri per salutare amici e parenti. Da quella prima rappresentazione, è trascorso tanto tempo. Nigro ha perfezionato la passione studiando nella scuola di recitazione di Berlino. Ha sviluppato il talento, un’inclinazione naturale di Leonardo Nigro. «Ho studiato tanto, non solo a Berlino, ma anche a Dresba, Basilea e Amburgo. La mia carriera è decollata quasi subito. Conosco bene il tedesco e l’italiano e, quindi, lavoro sia in Germania, sia in Italia che in Svizzera. Ho interpretato ruoli sia in film per il grande schermo, sia in film per la tv. Ho recitato insieme a Lino Banfi nel film italotedesco “Indovina chi sposa mia figlia”, insieme a Luigi Lo Cascio in “Il mangiatore di pietre” e insieme a Claudio Santamaria in “Rimetti a noi i nostri debiti”. Proprio gli apprezzamenti e la stima di Santamaria sono una delle soddisfazioni più belle della mia carriera. Di riconoscimenti ne ho ricevuti tanti. Ricordo con piacere il “Salento Award – Emerging Actor” ricevuto in Puglia». Impossibile riepilogare in un solo articolo tutti i lavori di Nigro. Uno, in particolare, lo ha reso ancora più popolare in tutto il mondo: ha recitato nella popolarissima serie televisiva tedesca “Squadra Speciale Cobra 11”. In una delle puntate, trasmesse pochi giorni fa da Rai Due, ha interpretato la parte di Kemal, ovvero il fratello di Semir, uno dei due personaggi protagonisti della serie. «Ho vestito i panni di Kemal, fratello “pasticcione” del commissario Semir: è sempre lui a tirarmi fuori dai guai» racconta Leonardo Nigro. «Per queste puntate, ho recitato in tedesco nelle riprese in Germania e, poi, mi sono recato a Roma per doppiare me stesso. La voce che avete ascoltato nei giorni scorsi nell’episodio “Senso di colpa” è proprio la mia. Cosa vi posso dire di questa serie? Ha un successo strepitoso. E’ trasmessa in ben 154 Paesi e registra ovunque ascolti elevatissimi. Gli spettacolari incidenti stradali che caratterizzano ogni puntata? La produzione ha realizzato un chilometro e mezzo di autostrada. Qui vengono ambientati inseguimenti e incidenti. Per ognuna delle scene vengono posizionate decine di telecamere in serie, che spesso, dunque, sono vere, senza cioè controfigure. E’ capitato anche a me di vedermi volare auto sopra la mia testa». Tanti i progetti in cantiere per il futuro di Leonardo Nigro, che ci confida il nome dell’attore che ammira di più. «Ho apprezzato Russell Crowe nel film “Il gladiatore”. Mi unisce a lui la somiglianza fisica e, inoltre, mi ispiro al suo modo di recitare: avrei interpretato nello stesso modo ogni sua parte».

Sit-in al depuratore, condanne per otto partecipanti. Gli otto imputati, assieme ad altri ambientalisti e componenti di comitati contro il depuratore sulla costa...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 17 luglio 2020. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, Benedetto Ruberto, ha emesso un decreto di condanna per otto cittadini di Avetrana, tra cui il vicesindaco in carica, Alessandro Scarciglia, perché l’8 marzo del 2017 avevano preso parte ad un sit-in pacifico e privo di corteo davanti al cantiere del costruendo depuratore consortile di Manduria e Sava in contrada «Urmo-Belsito», marina di Specchiarica. Gli otto imputati, assieme ad altri ambientalisti e componenti di comitati contro il depuratore sulla costa, si erano dati appuntamento di prima mattina richiamati dalla notizia dell’apertura del cantiere della ditta «Putignano & Figli» (di fatto poi affidato alla subappaltante «Bio System Company» di Gravina di Puglia). Una presenza pacifica per una protesta simbolica che alle forze dell’ordine presenti, evidentemente, non era sembrata tale. Tanto è vero che diversi manifestanti furono identificati e invitati ad allontanarsi dalla zona. A distanza di tre anni, quando tutto sembrava dimenticato, l’amara sorpresa per gli otto avetranesi che in base ad un Regio decreto del 1931si scoprono imputati per essere stati, in concorso tra loro, i promotori di una riunione non autorizzata in luogo pubblico. La normativa in questione è quella che obbliga gli organizzatori di eventi che si svolgono in un luogo aperto al pubblico, a darne comunicazione al questore almeno tre giorni prima dell’appuntamento. Per questo il sostituto procuratore della Repubblica di Taranto che ha curato il fascicolo, il pubblico ministero Enrico Bruschi, ha chiesto e ottenuto la condanna per decreto con l’applicazione di una multa pari a 1.225 euro a ciascuno degni imputati. Il provvedimento, contro cui gli indagati si potranno opporre, sospende la pena per due anni. Per l’avvocato Francesco Di Lauro che difende uno degli imputati, la misura è un «chiaro segno intimidatorio che all’epoca serviva a soffocare la protesta della popolazione contraria al depuratore a due passi dal mare e da due riserve naturali». Anche il vicesindaco Scarciglia che ha dato già mandato all’avvocato Enzo Tarantino, è pronto ad opporsi. «Personalmente non mi spaventa questa cosa anche perché sono convinto di aver fatto la cosa giusta e di averla fatta nel rispetto delle leggi. Quel giorno tra gli ulivi – prosegue Scarciglia – eravamo tutte persone per bene, lavoratori e professionisti, non certo contestatori scatenati o black bloc». Per il numero due della giunta di centrodestra, l’occasione è buona per ricordare quanto l’opera sia sgradita alla quasi totalità degli avetranesi. «Adesso c’è la campagna elettorale ma appena sarà il tempo - dice l'amministratore - riprenderemo la battaglia democratica contro il depuratore che non si sa ancora dove dovrà scaricare i reflui emergenziali». Quell’otto marzo del 2017, la notizia dell’avvio dei lavori era arrivata con qualche giorno d’anticipo così le autorità si preoccuparono di garantire un servizio d’ordine che evitasse possibili incidenti se non proprio scontri. In effetti tutto si risolse con qualche slogan e con cori di protesta mentre i tecnici dell’impresa prendevano possesso dell’area individuata. Il sit-in servì, comunque, a rinviare di altri due anni l’inizio dei lavori, ripresi ad aprile del 2019 e tuttora in corso. Nazareno Dinoi

 “Muzzicare” le fave, tra le rondini, li caseddi e tanti ricordi. Salvatore Cosma 4 Giugno 2020 su La Voce di Maruggio. La melodia del ticchettio del sasso sulla lastra di pietra calcarea risuona ancora nella mia mente, i colpi precisi scanditi nel tempo, le dorate fave essiccate al sole mentre perdevano la loro buccia, il tutto tra le rondini che volteggiavano fermandosi quasi ad osservare tra le fessure del borgo antico di Avetrana. Erano dei pomeriggi assolati di giugno tra il borgo antico di Avetrana (caseddi) le signore si riunivano ognuna con la sua “dote” di fave essiccate da “muzzicare” si scambiavano confidenze, consigli, pareri, si raccontavano aneddoti, “fatti” avvenuti in paese e si continuava così fino al tramonto. In ogni via risuonava il tac tac tac del sasso che muzzicava le fave e sembrava quasi un rituale, una tradizione che si ripeteva tutti gli anni all’angolo di via Parlatano dove le ore scorrevano lente, le signore sedute rinchiuse a cerchio con le loro sedie portate da casa o offerte dalla vicina e la propria “firsora” con le fave da muzzicare. Si parlava della imminente festa di Sant’Antonio oppure di quando ci si trasferiva a Torre Colimena piuttosto che a Specchiarica per trascorrere i mesi estivi, della salsa da fare in casa, della qualità dei pomodori oppure del grano da mietere. Si respirava l’aria della primavera tra le pareti imbiancate a calce dorate dal sole di giugno. La fine della scuola caratterizzava quei momenti colmi di semplicità e gioia allo stesso tempo, per una vacanza imminente, un anno scolastico trascorso e le fave da muzzicare pronte a scandire l’inizio di una nuova estate. Salvatore Cosma

Avetrana perde l'ultimo maestro dei finimenti. I funerali si terranno questo pomeriggio alle 15,30 presso la chiesa del Sacro Cuore dì Avetrana. Monica Rossi de La Voce di Manduria domenica 01 marzo 2020. “Cavalcherai nel cielo con i tuoi cavalli”. Ci lascia maestro Leonzio Saracino, detto “Barracca”, il mago dei finimenti. Aveva una bottega in centro ad Avetrana, con carretti belli, curati e colorati e molti finimenti per i cavalli. Una professione piuttosto insolita ormai, ma preziosa. Durante feste e sagre di molti Paesi, lui curava l’outfit dei cavalli che, a seconda delle tradizioni dei Paesi, sfoggiavano copricapi, selle, mantelli, filamenti diversi. Avrebbe compiuto 73 anni fra circa un mese, Leonzio era il terzo di sette figli , fratello di Arturo, storico titolare della tabaccheria di Torre Colimena, anche lui deceduto un anno fa circa. Lascia quattro figli e la moglie. I funerali si terranno questo pomeriggio alle 15,30 presso la chiesa madre dì Avetrana. Monica Rossi

I soliti odiatori.

Strade di Avetrana al buio: "è saltata una cabina Enel". Nel frattempo è giusto attendere la prossima notte per vedere se il guasto al quadro elettrico riuscirà ad essere riparato e Avetrana tornerà a risplendere. Monica Rossi su La Voce di Manduria giovedì 02 gennaio 2020. Avetrana da due giorni al buio. Va bene che è Natale e si devono vedere le luci attaccate alle case, sfavillare e scintillare nella notte, va bene che in questi giorni c’era l’avvicinamento tra la luna e Venere, e le luci della città avrebbero di certo distolto la visuale. Ma il “così è troppo”, lo si è sentito urlare ieri sera da più parti in paese. “Si è bruciato un quadro e domattina vengono a ripararlo” ha risposto prontamente Alessandro Scarciglia, vicesindaco di Avetrana, ma la protesta e l’insoddisfazione dei cittadini aumenta. “Al buio sono la piazza e molte zone della città”, spiega un abitante, “dicono che ci siano problemi di debiti”. Di questo aspetto ne parla anche Rosaria Petracca in un suo post su Facebook: “ma l’amministrazione comunale vi ha fatto 1.600.000 di auguri? #avetranaalbuio”, si legge sul suo profilo social, riferendosi probabilmente al debito fuori bilancio per mancati adeguamenti tariffari sanati con una recente delibera di consiglio. Per questo la minoranza ha fatto denuncia alla Corte dei Conti. Ma viene difficile da pensare che possa essere così perché il debito è stato pagato. Nel frattempo è giusto attendere la prossima notte per vedere se il guasto al quadro elettrico riuscirà ad essere riparato e Avetrana tornerà a risplendere. Monica Rossi

«Falsi bilanci al comune di Avetrana, indaghi la Corte dei Conti». «Accertare le responsabilità di amministratori e funzionari» che potrebbero essere chiamati a rispondere in proprio di un possibile danno erariale». Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica 29 dicembre 2019. I bilanci del comune di Avetrana, relativi agli anni che vanno dal 2006 al 2013, passeranno sotto la lente d’ingrandimento della magistratura contabile. A chiederlo, con un dettagliato esposto inviato alla Procura della Corte dei Conti della Puglia, sono i consiglieri comunali di minoranza, Rosaria Petracca, Luigi Conte e Lucia Vacca che gettano pesanti ombre sugli esercizi finanziari approvati dall’organo di governo cittadino e dalla maggioranza dei consiglieri comunali nel periodo amministrato dall’ex sindaco Mario De Marco. Tutto nasce da una recente delibera approvata a maggioranza dall'attuale consiglio comunale avetranese che ha riconosciuto un debito fuori bilancio pari a un milione e seicentomila euro per il mancato adeguamento dei canoni a favore della società che gestisce la rete della pubblica illuminazione su tutto il territorio comunale. Il contratto, stipulato nel 2005 con la società in questione, prevedeva un adeguamento annuo delle tariffe che tenesse conto dell’aumento del costo dell’energia fornita e dell’ampliamento programmato della rete. Impegno, questo, sostengono gli autori dell’esposto, che non sarebbe mai stato onorato dall’amministrazione De Marco colpevole anche di non aver nemmeno impegnato tale somma determinando così, negli anni, un buco che con gli interessi e i conseguenziali decreti ingiuntivi, ha raggiunto oggi la considerevole cifra di 1,6milioni di euro. «Per anni l’amministrazione comunale De Marco – scrivono i consiglieri di opposizione -, ha accantonato il problema, pur sollecitato anche dalla minoranza». Un comportamento, si legge nella denuncia, che è specchio «dell’estrema impreparazione, incoscienza e indolenza di una classe politica che ha preferito (volontariamente) non gravare il bilancio comunale e condannare così la comunità a pagare somme ingenti e le future amministrazioni ad un bilancio ingessato». Il conto da pagare, per un bilancio già asfittico con capacità di spesa quasi nulle, condanna l’ente a rinunciare a qualsiasi investimento futuro. La transazione raggiunta con l’impresa creditrice, infatti, prevede un primo versamento di duecentomila euro entro il 31 dicembre 2019 con una dilazione successiva di dieci rate di 140.000 euro per i prossimi dieci anni. Sono senza appello le conclusioni dei denuncianti secondo cui «le amministrazioni che si sono succedute dal 2006 ad oggi (con continuità amministrativa di intenti e di persone) hanno falsificato i bilanci presentati dal 2006 in poi con la connivenza dei funzionari». Questo comportamento avrebbe danneggiato il bilancio comunale e quindi la popolazione amministrata «tanto da indurre l’attuale sindaco (Antonio Minò, di Forza Italia, Ndr), a dire in Consiglio Comunale che è stato “costretto” a questo atto per evitare il dissesto del Comune di Avetrana». In conclusione i firmatari della segnalazione chiedono espressamente alla procuratrice regionale della Corte di Conti della Puglia, Carmela De Gennaro, «di accertare le responsabilità di amministratori e funzionari» che potrebbero essere chiamati a rispondere in proprio di un possibile danno erariale. Nazareno Dinoi

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Brindisi.

I finanzieri uccisi a Marlboro City. Federica Coriolano, Federica Coriolano (Studentessa del Liceo Tito Livio di Martina Franca – Progetto Cosa Vostra), l'i marzo 2020 su La Repubblica. Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 2000, i finanzieri Antonio Sottile e Alberto De Falco muoiono  in un incidente stradale al km 46+300 della statale 379. L'incidente è causato da una jeep che trasportava sigarette di contrabbando. Quella notte ha segnato l’inizio dell’Operazione Primavera “che fece tornare il sole a Brindisi”. Questo racconto, che trae spunto dalla tragedia, è dedicato alla memoria dei due finanzieri. Prima di calarci nel vivo del racconto, caro lettore, è giusto che tu conosca il principio di questa vicenda, il principio fatto di un luogo e di un tempo non molto lontani da te: la Brindisi degli anni 2000. In quegli anni Brindisi era stata ribattezzata Marlboro City: si scaricavano le bionde. Erano sigarette provenienti dall’estero, intrise di un odore particolare di tabacco. Il tabacco sacro, quello che propugnava il desiderio del rischio. Sai cosa intendo per rischio, vero? Quell’euforia mista a paura, che plagia il tuo dannato cervello e ti dice di continuare, di non fermarti, di non perdere l’equilibrio. L’equilibrio del rischio di cadere che non si è avverato. E così continui, imperterrito, ad assaporare quel particolare gusto di tabacco, che giungeva, solo per te, direttamente dalla costa opposta dell'Adriatico: il Montenegro. Tutto quello che vuoi è dall’altra parte della paura, scrive Jack Canfield. E così alcuni uomini del brindisino insistevano nello scarico senza sosta delle sigarette di contrabbando che, sotto il manto del cielo notturno, raggiungevano la propria destinazione in poche ore. Qui cominciava l’impresa dei contrabbandieri. Scaricare le bionde dagli scafi, ammassarle nelle loro jeep e dirigersi, a fari spenti, verso l’entroterra, dove quelle amene sigarette sarebbero arrivate sulle bancarelle, arrangiate con le cassette della frutta, agli angoli delle strade. Lì dove tu, caro lettore, avresti potuto comprarle a poco prezzo. Questa situazione nel territorio brindisino permetteva alle migliaia di persone, che rischiavano, di sopravvivere. E si protraeva da decenni. Era proprio questo il motivo per cui quella rete di malfattori agiva indisturbata. Lo Stato aveva sopportato i mancati incassi del monopolio perché quella vendita illegale sfamava centinaia di famiglie che non avrebbero avuto, altrimenti, altra fonte di reddito. Per molto tempo gli stessi malfattori erano stati percepiti come “briganti in sella ai gommoni capaci di seminare gli sbirri”. Poi però alcuni di loro cominciarono ad affiliarsi con i boss della Sacra Corona Unita, a trasportare armi e droga dalle coste albanesi e montenegrine. E più alzavano il tiro, più dovevano proteggersi. Ecco che le folcloristiche Alfetta furono sostituite dai fuoristrada blindati, nascosti nei bunker che venivano costruiti nei sotterranei delle villette adiacenti alla spiaggia. Fu solo allora che lo Stato pose fine alla sua negligenza e iniziò a prendere seri provvedimenti per tentare di smascherare i tanto famigerati “mandanti” e di stroncare il contrabbando che, ormai, a Brindisi era diventato un ammortizzatore sociale. Anche la sera del 23 febbraio 2000, poco dopo le 23, ci fu un grosso sbarco delle leggendarie stecche di sigarette in località Acqua Chiara, a pochi chilometri a nord di Brindisi. Ad attendere il carico, degli strani automezzi: semplici fuoristrada, dai quali però spuntavano inconsuete protuberanze metalliche, che li facevano assomigliare a piccoli carri armati. Dai piccoli scafi si cominciava a scaricare, mentre chi aspettava a terra, contemporaneamente, caricava la merce sulle jeep. Una volta completata questa estenuante operazione, l’autocolonna di jeep addetta allo smistamento, partiva per raggiungere i bunker in cui nascondere il carico. I convogli, a fari spenti, nel tenebroso buio della notte, si avviavano verso l’entroterra. Tutto si sarebbe concluso, come sempre, nel migliore dei modi per i contrabbandieri, se quelle pattuglie della Guardia di Finanza non avessero intercettato il gruppo. Subito una delle piccole e sgangherate Fiat Punto si avvicinò, furtiva, nei pressi del santuario della Madonna Jaddico, percorrendo la statale 379 verso le porte di Brindisi, con a bordo quattro giovani militari: Alberto De Falco, vicebrigadiere calabrese di 33 anni; Antonio Sottile, finanziere casertano scelto di 29 anni; Edoardo Roscica, vicebrigadiere catanese di 28 anni; Sandro Marras, appuntato cagliaritano di 33 anni. L’impatto con la jeep marchiata Range Rover fu fatale: Alberto e Antonio morirono sul colpo. Edoardo e Sandro, invece, vennero trasportati d’urgenza in ospedale in gravi condizioni. La jeep blindata riuscì nel suo intento, speronando la fragile Punto. Se solo i finanzieri non l’avessero inseguita...Il fuoristrada, infatti, che si vedeva braccato, non aveva che una scelta. In fondo a questo è servito mettere quel rostro sul paraurti: sterzare rapidamente e prendere in pieno la misera vettura dei quattro finanzieri, che si accartocciava su se stessa. Ciò che importava era solamente che il carico fosse al sicuro. Dopo lo schianto, uno dei due contrabbandieri a bordo, Adolfo, si rese conto che la jeep era maledettamente incastrata con l’altra autovettura. Bisognava fuggire. A piedi. Per i boschi. Nella immensità del buio pesto. Al diavolo il carico! Nessuno doveva scoprire l’identità dei due trafficanti: tutto l’allestimento organizzativo, costruito con tanta fatica e insaziabile rischio, sarebbe andato a monte! Così Adolfo e Giuseppe scapparono furtivamente attraverso le campagne. Le pattuglie che soccorsero la Fiat Punto non riuscirono ad acciuffarli. Al sicuro – così si sentivano i contrabbandieri. Ma i telefoni? I telefoni no! Erano rimasti nella jeep. È solo ed esclusivamente a causa di questa trascurabile noncuranza, mio caro lettore, che l’assassinio di Alberto e Antonio può vantare i nomi di due dei membri di quella banda di “compari”. Ed è per questo motivo che tu, ora, realizzi ciò che consideravi solo una diceria di paese. Mentre i Vigili del Fuoco, aprendosi un varco con le motoseghe, estraevano i corpi esanimi dei due finanzieri dalle lamiere dell’auto accartocciata, le altre pattuglie trovavano i telefoni dei contrabbandieri nella jeep, procedendo poi alla loro identificazione. Si trattava di Giuseppe Contestabile, 29 anni, appartenente ad una famiglia di contrabbandieri del brindisino, e Adolfo Bungaro, 39 anni. Entrambi sono stati condannati per il fatto nel 2002 a 10 anni di carcere.

Una serata apparentemente tranquilla, come tutte le altre, quella del 23 febbraio 2000. Il freddo venticello invernale inebriava anche i nostri due finanzieri di un torpore insolito, per cui avrebbero preferito godersi il tepore della propria casa. Eppure i due rimasero ligi al proprio dovere. E fu così che morirono: per il loro mestiere, per i loro principi. Una serata come tutte le altre, che ha segnato la svolta nel brindisino. Un territorio infangato nel marciume della misera frode, da parte di contrabbandieri senza scrupoli che si accaparravano la fama di rivoluzionari. Un territorio diffamato dallo stesso inverno in cui viveva e che non gli permetteva di riemergere. L’inverno oscurava quel piccolo spiraglio di luce che avrebbe potuto salvarlo. La luce della primavera. Così venne denominata l’operazione attuata dallo Stato dopo il tragico evento di quella notte: Operazione Primavera. Il ministro dell’Interno, Enzo Bianco, spedì all’incirca 2000 uomini nel brindisino per porre fine alle azioni dei contrabbandieri. Non avrebbero mai potuto demolire tutta l’organizzazione sacra, secondo chi, a quel tempo, ci stava dentro. Eppure i boss l’avevano capito. Erano giorni burrascosi quelli. Nella bramosia di risolvere tutto e subito, i boss chiesero un incontro con l’allora sindaco Giovanni Antonino, proponendo una mediazione o minacciando una rivolta. Venne scelta la seconda opzione. Questa volta, però, con sorpresa generale, la vittoria fu della giustizia. Oggi Brindisi è riuscita a distruggere quell’alone di ghiaccio che offuscava la sua calda rinascita. Marlboro City è stata annientata. Per chi, negli anni Novanta, era un bambino, lo sbarco delle bionde rappresentava uno sciocco passatempo da nascondere ai genitori. Ignorava, però, che per i boss quello era un vero e proprio “gioco di società”. Tutti utili e nessuno indispensabile, recita un antico proverbio. I boss puntavano proprio su di loro: i bambini che, in qualsiasi disgrazia, non sarebbero potuti essere perseguibili dalla legge. Insegnargli quel “gioco”, alla loro tenera età, era una delle più incombenti occupazioni, per chi di contrabbando se ne intendeva. Da piccoli, i bambini non possono distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Se poi, crescendo, avessero deciso di mollare il gioco, pazienza, ci sarebbero state altre leve da addestrare. Loro, i bambini, si divertivano a trascorrere le afose notti d’estate a nascondersi dietro i cespugli a ridosso della spiaggia prescelta, aspettando l’arrivo degli scafi. Nelle serate di mare calmo erano rapiti dall’immagine di quei blindati che sbucavano dal buio, mentre il rumore degli scafi si confondeva con quello della risacca. Sembrava proprio di recitare un copione muto in un film poliziesco. Le loro fervidi giovani menti mai avrebbero potuto comprendere quanto reale fosse invece quel film. Un poco si intuiva, però, dai discorsi degli adulti, che non si trattava di sciocchezzuole... e quel poco di presentimento negativo che baluginava in modo confuso nelle loro coscienze, si materializzò dinanzi alle immagini al telegiornale della Punto accartocciata e delle vite spezzate dei due finanzieri nei giorni seguenti al 23 febbraio 2000. Solo in quel momento quei bambini capirono. Crebbero. Al calar della sera non tornarono più in spiaggia ad osservare, sedotti, i movimenti di quelle squadre ribattezzate “batterie”. Bisogna ammettere che avevano compiuto proprio un gran bel lavoro, le batterie. Al limite della realtà. Lo stesso Enzo Bianco, in un’intervista, aveva affermato: “I rapporti dei servizi di sicurezza interni dello Stato mi dicevano che la situazione in Puglia sul fronte del contrabbando stava peggiorando. Quello che i servizi mi comunicavano era vero, però la situazione era ben più grave di quella che pensavamo. La realtà aveva superato la fantasia”. Ti starai chiedendo, caro lettore, quanto di veritiero ci sia in questo racconto. Credici. Credi a tutto! E sai perché? Perché a bordo di quella sventurata jeep, marchiata Range Rover, c’ero io. E mi resi conto di quanto il gelo di Marlboro City avesse compromesso il mio animo, nel momento in cui realizzai quanto sconfinata fosse la voragine di dolore che avevo causato nelle loro famiglie, nelle famiglie di Alberto e Antonio. Decisi di costituirmi. Il mio errore, seppur involontario, doveva essere scontato. La mia colpa espiata. Proprio come in un processo catartico, mi accinsi, sconfitto, a costituirmi. Confessai tutto al mio avvocato. E come magneti che si attraggono vicendevolmente, così le mie parole di confessione richiamarono l’arrivo delle forze dell’ordine, con le manette pronte a cingere i miei polsi, a incarcerare quell’interminabile inverno. E pensare che, proprio in quello stesso momento, ero io, a cercare loro. Non ho più rivisto quelle famiglie. Non so se li conoscerò mai. Ma una cosa è certa. Anch’io, come Brindisi, sono rinato. Sai quando, caro lettore? Quando un bambino, il figlio di Adolfo, ha cercato conforto nelle braccia di un basco verde, mentre arrestavano il padre. Piangeva. Eppure si intuiva, chiaro come il cielo della primavera, che quelle lacrime non gli rigavano il volto per debolezza. Quelle lacrime emanavano il profumo del perdono, del pentimento. Avevano la forza di un uragano. Era un bambino coraggioso, ha mostrato a tutti noi adulti, baschi verdi compresi, cosa davvero sia il coraggio della paura. Era un bambino tenace, talmente tanto da non mostrarlo. Perché le persone davvero forti, non hanno bisogno di ostentarlo, concordi? Ebbene sì, fu proprio per merito della sua audacia e delle sue lacrime, che il mio animo si infervorò del desiderio di riscatto. Riscatto, mio caro lettore. Liberazione.

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Lecce.

Addio a «Ninì» Quarta, politico e amministratore d’altri tempi. Morto a 92 anni Nicola Quarta, presidente della Puglia nel ‘78-83. Tonio Tondo il 28 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nicola Quarta è stato uno degli ultimi modernizzatori della Democrazia cristiana, il partito della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, sepolto dalle macerie delle inchieste giudiziarie degli anni Novanta del secolo scorso. La sua avventura politica comincia con le elezioni regionali del 1970, l’anno della nascita delle regioni a statuto ordinario. Negli archivi della Dc, in qualche ripostiglio privato, esiste ancora un telegramma di Emilio Colombo, ministro del tesoro, e di Mariano Rumor, presidente del consiglio, che lo indicavano candidato della loro corrente all’allora segretario provinciale del partito, Giorgio De Giuseppe, suo interlocutore diretto e non compiacente in quel contesto di tensioni preelettorali. Quarta si presentava con un curriculum ricco e dissonante con le abitudini e le regole interne dei partiti. Era un uomo in carriera al ministero dell’interno, una delle poche scuole di formazione vera dei funzionari dello Stato. Lavorava in prefettura, a Lecce, al dipartimento degli enti locali, conosceva e operava con maestria con leggi, norme attuative, circolari e poteri di controllo. De Giuseppe era dubbioso, ma si convinse dopo gli interventi di Rumor e Colombo. La Dc aveva bisogno di consiglieri regionali con forti competenze in materia di governo e di gestione. E Quarta rispondeva ai requisiti. E infatti fu promosso prefetto prima della fatidica anzianità. È stato un uomo politico di poche parole, nella fase cruciale della politica costituente delle Regioni. Insieme a Gennaro Trisorio Liuzzi, Quarta ha realmente costruito le basi del nuovo assetto istituzionale della Puglia. In quegli anni, il lavoro politico procedeva in sintonia con quanto avveniva in Lombardia, Veneto, Toscana ed Emilia-Romagna. In Lombardia operava Piero Bassetti, il federalista milanese che sognava un nuovo assetto dei poteri in grado di conciliare libertà, senso comunitario e lealtà statuale. La Puglia svolgeva un ruolo trainante tra le 15 regioni a statuto ordinario.

Lecce, addio a Nicola Quarta, presidente della Regione dal 1978 al 1983. Ma gli anni dell’esercizio della forte leadership sono stati quelli della presidenza della Regione, dal 23 dicembre 1978 alle elezioni politiche del 1983 quando fu eletto alla Camera dei deputati. Quarta riuscì a creare un forte asse tra Bari e Lecce, un consenso molto ampio che gli consentì di venire eletto – allora non c’era l’elezione diretta – al vertice della Regione. E in quegli anni la Regione assunse la fisionomia che non è cambiata malgrado le riforme elettorali e costituzionali. Con il Decreto del presidente della Repubblica (Dpr) n. 616 del 23 luglio 1977 lo stato aveva trasferito alle Regioni le funzioni nelle materie dell’urbanistica, dei lavori pubblici, dei beni ambientali, dell’agricoltura caccia e pesca, dell’organizzazione degli enti di competenza regionale. Un trasferimento massiccio tanto da richiedere una riforma, purtroppo realizzata solo dopo 15 anni e male, degli apparati centrali della stessa amministrazione del stato. Nel 1978, poi, il Parlamento aveva approvato la riforma della sanità con la legge 833: alle Regioni furono trasferite tutte le competenze in materia di organizzazione del nuovo servizio universale che riconosceva il diritto di ogni individuo alla salute. Quarta favorì l’insediamento di un gruppo qualificato di funzionari formati alla scuola di economia dell’università di Bari. Luigi Ferrara Mirenzi, cattolico fervente ed economista di rango, individuato da Trisorio Liuzzi, divenne con Quarta il cuore pulsante e l’elaboratore delle politiche di programmazione. Erano gli anni dell’entusiasmo e della creatività. Un laboratorio continuo forgiava i nuovi quadri e le politiche. La parola d’ordine di questa élite amministrativa era «competenza e mani pulite» come condizione di libertà e autonomia operativa. Un nucleo forgiato nelle parrocchie baresi e formato sui banchi dell’università. Due i capisaldi della nuova programmazione, uno istituzionale e normativo, l’altro, attualissimo, una nuova concezione dello sviluppo economico e della promozione sociale. Il primo era sintetizzato dal “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello stato”, presentato il 16 novembre 1979 dal ministro Massimo Severo Giannini, giurista e studioso delle arretratezze dell’assetto burocratico, tema ancora all’ordine del giorno. Il tema della crescita trovò uno svolgimento innovativo con il primo piano di sviluppo approvato nel 1982. Protagonisti, lo stesso Ferrara Mirenzi e Aldo Romano, un fisico appassionato all’economia e alla crescita. Abbondonata la prassi degli interventi a pioggia, dispersivi e senza riscontro valutativo, si passò ai «fattori di sviluppo» che oggi stanno rivivendo una nuova giovinezza. Fu istituito alla presidenza il primo servizio per curare i rapporti con la comunità europea affidato a Mario De Donatis, altro funzionario di rango formato tra Bari e il Formez di Roma. Quarta fu deputato dal 1983 al 1992, poi presidente dell’Ati, allora compagnia di bandiera. Amico di Andreotti, poi simpatizzò con Mino Martinazzoli nell’ultimo tentativo di salvare il partito di matrice cattolica.

Quarta era nato nel 1927, il 23 settembre avrebbe compiuto 93 anni. Lascia la moglie Rosaria, i tre figli Ileana, Daniela e Fabrizio e sette nipoti. Negli ultimi anni conduceva una vita riservata, leggeva e rileggeva le «Lettere a Lucilio» di Seneca. Amava ricordare due frasi: «Quanti hanno trovato amici e non amicizia», «Pratica con quelli che ti possono rendere migliore».

Lutto nella politica salentina: addio all'onorevole Gorgoni, aveva 86 anni. Esponente del Partito repubblicano, è stato amministratore pubblico, deputato e sottosegretario ai Lavori pubblici. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Maggio 2020. E’ morto la scorsa notte, a 86 anni, Gaetano Gorgoni: esponente del Partito repubblicano, è stato amministratore pubblico, deputato e sottosegretario ai Lavori pubblici. Gorgoni è morto nella sua casa a Cavallino, comune di cui è stato sindaco dal 1992 al 2006. 

IL CORDOGLIO DELLA POLTIICA - «Con la scomparsa di Nini Gorgoni la politica salentina perde un riferimento importante, un uomo delle Istituzioni. Una vita politica che lo ha visto per molti anni con ruoli di grande prestigio a livello nazionale in Parlamento e nel governo e successivamente caratterizzata dal suo impegno di amministratore locale e dal grande amore per la sua Cavallino. Da sindaco ha cambiato il volto del suo Comune facendolo diventare uno dei centri più importanti della provincia di Lecce. Per questo mi addolora ancor di più non poter essere in questi momenti vicino alla moglie, a Bruno ed ai familiari, anche per un antico e reciproco rapporto di stima ed affetto personale e familiare mai venuto meno negli anni. Questa drammatica situazione che viviamo non ci consente di poterlo salutare come avrebbe meritato. Ma, appena possibile, sarà giusto e doveroso farlo». Lo afferma in una nota l'europarlamentare pugliese Raffaele Fitto esprimendo cordoglio per la morte di Gaetano Gorgoni, esponente del Partito repubblicano, ex amministratore pubblico, deputato e sottosegretario ai Lavori pubblici.  «Sono vicino alla famiglia dell’onorevole Gaetano Gorgoni in questo momento di dolore e alla comunità di Cavallino, che piange la scomparsa di un uomo pubblico che ha dedicato impegno, passione, capacità politiche e amministrative alla sua terra. La biografia politica dell’onorevole Gorgoni ci mette di fronte alla scomparsa di un protagonista assoluto della vita politica salentina e pugliese. Tra i tanti e prestigiosi incarichi istituzionali da lui ricoperti, mi piace sottolineare quello di consigliere comunale a Lecce, un impegno al quale approdò dopo essere stato parlamentare e sottosegretario di Governo, considerando, evidentemente, l’impegno nelle istituzioni locali e la prossimità al territorio d’origine meritevole della massima considerazione». Lo afferma il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, in una nota di cordoglio per la morte dell’onorevole Gaetano Gorgoni. «Sta in questa attenzione al territorio, alla propria gente, al consenso della propria comunità - aggiunge - prima che ai fasti della carriera politica, la misura della eredità di Gaetano Gorgoni e della generazione politica della quale egli è stato degno rappresentante, alla quale ogni amministratore del presente guarda con rispetto». Anche il governatore Emiliano ha espresso il suo cordoglio per la scomparsa di Gorgoni: “Sono vicino alla famiglia Gorgoni e all’intera comunità di Cavallino per la scomparsa dell’onorevole Gaetano Gorgoni. Se ne va un uomo e un politico dall’indiscusso valore umano e professionale. Gentiluomo e politico appassionato. Ricorderò la cortesia, il garbo e la gentilezza che manifestava nelle occasioni pubbliche nelle quali capitava di incrociarsi. Un validissimo rappresentante di quella generazione di “politici di razza” che al rispetto dei valori universali sapeva unire un sincero amore per la propria terra. Sentite condoglianze alla famiglia e alla comunità di Cavallino”.

Da ilmessaggero.it il 30 maggio 2020. "Finalmente liberi (uniti)": questa la scritta sulla torta commemorativa con la quale un gruppo di abitanti di Cavallino (Lecce) ha festeggiato la morte dell'ex sindaco e parlamentare Gaetano Gorgoni, scomparso lo scorso 13 maggio a 86 anni. La foto della serata, accompagnata dallo spumante, è stata postata in rete. Nelle foto pubblicate sul profilo di uno dei presenti (poi rimosse), si vede il gruppo in posa accanto alla torta, riproducente il castello di Cavallino, residenza della famiglia Gorgoni. «Sono amareggiato e deluso - commenta il sindaco di Cavallino Bruno Ciccarese, nipote di Gorgoni - Conosco quasi tutte le persone che compaiono in quelle foto. Tra l'altro nella foto si vede la partecipazione anche di un vigile urbano che presta servizio a Cavallino. Il tutto senza ottemperare ai previsti divieti anti assembramento. Il giorno in cui è morto Gorgoni hanno fatto esplodere persino dei fuochi d'artificio. Sto valutando se ci sono gli estremi per ravvisare reati».

Cavallino, la festa per la morte di un sindaco che ha arricchito la città: la frustrazione dei perdenti. Corrieresalentino.it il 29 Maggio 2020. La banalità del male non conosce limiti, così accade che nemmeno la morte freni la frustrazione di certi perdenti che si sentono “finalmente liberi”. Il trash regna sovrano ed è per questo che una torta che si prende gioco della morte ha il gusto della fogna che caratterizza certe boiate. Confondere l’avversario politico con il nemico da odiare è da pessimi politici. Ormai circola ovunque la foto di alcuni personaggi cavallinesi festanti davanti alla torta con il disegno del palazzo ducale di Cavallino e una frase che allude alla liberazione avvenuta grazie alla recente scomparsa (lo scorso 13 maggio 2020, a 86 anni) dell’onorevole Gaetano Gorgoni, “padre nobile” dell’attuale squadra al potere. La politica è un’arte più alta, dove vince chi ha più consenso. Qualcuno si sente liberato, ma non si capisce da cosa: viviamo in democrazia e per questo anche i mediocri possono fingere di non aver mai vinto perché incatenati. Eppure è sotto gli occhi di tutti quello che ha fatto l’amministrazione Gorgoni: basta informarsi su quello che c’era prima. Quando è stato eletto sindaco per la prima volta Gorgoni c’era un miliardo di debito, i monumenti erano in stato di abbandono: le cose andavano male sul piano delle opere pubbliche e dell’occupazione, inoltre la precedente amministrazione aveva pure detto sì alla discarica. Avete idea di cosa significhi costruire un parco commerciale, ospitare l’Università del Salento nel convento che prima era candente e abbandonato, dare vita a un museo diffuso negli scavi dove prima si giocava a pallone? Sapete come si edifica una Piazza degna al posto di una con un cesso pubblico sotto, che alla prima pioggia si allagava e fuoriuscivano le feci in una specie di mini-Venezia piena d’acqua fetida? Gorgoni è riuscito anche a far rinascere Casina Vernazza con un parco giochi e il teatro. Sono spuntate piazzette e parchi ovunque, anche a Castromediano. Sarebbe troppo lungo in questa sede parlare del recupero culturale e storico messo in campo dall’ex sindaco defunto. Cavallino è diventato anche un riferimento commerciale e in tanti hanno trovato lavoro. Si è trattato di una specie di deserto trasformato in oro. Giovanni Pellegrino, da sempre militante a sinistra, ha riconosciuto in più occasioni i meriti del suo avversario politico: altra politica, altro spessore, rispetto a “quelli della torta”. Ma ci sono persino gli alleati di Michele Emiliano che conoscono bene il valore dell’ex deputato repubblicano scomparso, on. Gaetano Gorgoni, come il presidente di Italia in Comune alla Regione Puglia, Paolo Pellegrino: “La mia più sentita vicinanza alla famiglia del compianto ex onorevole Gaetano Gorgoni per l’oltraggio alla sua memoria. Postare sui social le immagini di una torta e di alcuni partecipanti per festeggiare la scomparsa dell’ex sindaco di Cavallino è di quanto più ignobile possa esserci. I morti vanno sempre e comunque rispettati. Ce lo insegna il rispetto etico e umano che si dive, al netto delle appartenenze politiche e delle convinzioni religiose, a chi non è più tra noi. Mi auguro che gli autori di questa meschina messa in scena possano al più presto porgere pubblicamente le proprie scuse”. “Sono amareggiato e deluso – ha dichiarato al Messaggero il sindaco Bruno Ciccarese Gorgoni – Conosco la maggior parte dei soggetti ritratti nella foto, tra i quali anche un vigile urbano in servizio nel Comune. E anche il giorno in cui è morto mio zio qualcuno ha fatto esplodere batterie di fuochi d’artificio. Valuterò, comunque, con i miei legali se vi siano gli estremi per procedere. Possiamo dire, al di là di tutto, che “quelli della torta” non hanno imparato la lezione più grande dell’onorevole Gaetano Gorgoni: la buona politica è nelle cose che si riescono a realizzare, nei fatti concreti, non nelle parole e nei veti senza proposte serie. Per ora loro saranno ricordati per il cattivo gusto di quella torta, che sa della stessa merda galleggiante, durante la pioggia, che spuntava fuori quando l’onorevole Gaetano Gorgoni non era ancora arrivato per rimettere in sesto il suo paese che divenne città d’arte.

AGGIORNAMENTO: In serata alcuni dei partecipanti a quella festa di compleanno di un 60 enne, in una pizzeria, si sono dissociati e hanno spiegato di aver visto all’ultimo momento la torta. Il festeggiato si è presa tutta la responsabilità della vicenda e ha chiarito di non aver voluto festeggiare alcuna morte.

FITTO: LA MORTE MERITA SEMPRE RISPETTO. VICINO ALLA FAMIGLIA GORGONI E ALLA COMUNITA’ DI CAVALLINO. In serata è arrivata anche la dichiarazione dell’on. Raffaele Fitto: “’Una società che non conserva il culto dei morti fra i suoi valori spirituali più preziosi, non merita di sopravvivere’, affido alle parole di Foscolo tutta l’amarezza che provo dopo aver appreso la notizia che un gruppo di cittadini di Cavallino ha festeggiato, addirittura con una torta, la morte dell’ex parlamentare e sindaco, Gaetano Gorgoni. Si può essere avversari politici e non condividere l’operato di un amministratore, ma la morte, anche del peggior nemico, merita rispetto. Sono vicino alla famiglia e a tutta la comunità di Cavallino per questo vile e spregevole gesto”.

IL COMUNICATO DEL PD PROVINCIALE. “Apprendere questo tipo di notizie dispiace veramente. Il rispetto per la morte non ha colore politico: è un fatto insito nella cultura e nell’animo di ognuno di noi. La nostra vicinanza alla famiglia e la condanna per quanto accaduto”.

ANCHE LA MINISTRA TERESA BELLANOVA STIGMATIZZA L’ACCADUTO. “Si può essere avversari ma il rispetto e il riconoscimento non possono e non devono venire mai meno. Questa è la mia pratica della politica. Di certo non si può festeggiare la morte di uno di loro. È vergognoso. La libertà, quella vera, si alimenta con il lavoro politico rigoroso e quotidiano. Quanto accaduto a Cavallino, in provincia di Lecce, è una bruttissima pagina per quella comunità, una ferita grave. A Bruno Ciccarese e alla famiglia Gorgoni tutta la mia vicinanza”.

“TORTA DEI VELENI”, CONGEDO:”VICENDA GROTTESCA E DISUMANA. LA MIA SOLIDARIETA’ALLA FAMIGLIA GORGONI”. Anche il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, da sempre vicino all’amministrazione Gorgoni, esprime sdegno: “Quanto ci racconta la stampa oggi, circa la torta dei veleni che avrebbe incoronato una serata di ‘liberazione’ da un uomo prima ancora che rappresentante delle istituzioni, è grottesco e disumano. Qualunque sia il retroscena o la motivazione che ha spinto un gruppo di persone a festeggiare la morte (sic dicitur) di Gorgoni, è tutto ingiustificato ed ingiustificabile. Sono profondamente sdegnato ed esprimo tutta la mia solidarietà alla famiglia Gorgoni che in pochi giorni ha dovuto subire una grande perdita ed affrontare un’offesa di tale portata”.

Arnesano e le avvocatesse: «Solo scherzi, niente sesso». Alessandro Cellini su Quotidiano di Puglia Lunedì 25 Febbraio 2019. La richiesta a Benedetta Martina di presentargli un'amica disponibile? «Era uno scherzo». Le intercettazioni che rivelano i presunti rapporti sessuali? «Una bugia». I favori processuali concessi alla stessa Martina? «Fatti per via della nostra amicizia». Perché è vero, nei rapporti con le ragazze «ho sbagliato. Ultimamente mi ha preso questa mano qua di queste benedette ragazze...», ma il pm Emilio Arnesano nega di aver elargito favori in cambio di sesso. E nel negarlo, durante l'interrogatorio, mette in discussione anche tutto ciò che gli investigatori ascoltano nelle intercettazioni. Prima di tutto, i suoi rapporti con la praticante Federica Nestola, presentatagli dall'avvocatessa Martina, una conoscenza - spiega Arnesano - finalizzata a farle passare l'esame di avvocato. «Ma ho sbagliato sempre per fare un favore alla Martina». E quando il procuratore capo Francesco Curcio lo accusa di avere avuto rapporti sessuali con la Nestola, il pm si difende: «No, ma quale Nestola! Nestola è uno scherzo che dico alla Martina portala, e poi è rimasta incinta. Era uno scherzo». Gli inquirenti lo incalzano, lui si trincera ancora dietro alla versione dello scherzo: «È una bugia. Vede come si dicono le bugie? È un modo per farsi bello, tra uomini». Lo stesso meccanismo Arnesano mette in atto quando gli contestano altre richieste simili, sempre all'avvocatessa Martina: «Con la Martina scherzavamo anche su queste cose. Quando stavamo insieme». Proprio il rapporto con la giovane avvocatessa copertinese occupa buona parte dell'interrogatorio che Arnesano ha sostenuto nel dicembre scorso davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza Amerigo Palma. Il gip contesta al pm il fatto di aver in qualche modo favorito l'avvocatessa Martina in alcuni procedimenti in cui lei figurava tra i difensori. L'ipotesi dell'accusa è che l'abbia fatto in cambio di rapporti sessuali. Arnesano contesta questa ricostruzione: «Ma non era perché scambiavo il sesso con quella cosa. Il rapporto c'era! Era in ragione del rapporto di amicizia intima che io mi prestavo a fare questo». Lo stesso sistema di scambio di favori - quello che, secondo l'accusa, legherebbe Arnesano con i dirigenti della Asl - viene fermamente negato dal pm nel corso dell'interrogatorio. È il caso della conoscenza con il primario di Ortopedia del Vito Fazzi di Lecce Giuseppe Rollo. Nel corso di un procedimento che vede coinvolto il medico, Arnesano chiede l'archiviazione. Ma chiarisce: «Ero convinto, ma non per lo scambio di favori, voglio dire». In un'altra circostanza, Arnesano ammette di aver richiesto un aiuto di carattere medico, in concomitanza con un altro procedimento penale in cui è coinvolto l'ortopedico. E il pubblico ministero Veronica Calcagno lo incalza: «Nel corso di quella telefonata Rollo ne approfitta per chiederle di parlare con la sua collega. E lei dice sì sì, parlo con la collega». Arnesano nega: «Io con la collega non ho mai parlato. Poi a certe cose si dice sì, ma si evitano». Secondo l'accusa, Arnesano si sarebbe messo a disposizione del medico per avere «un trattamento di favore, in particolare una corsia preferenziale nella prenotazione di visite mediche e interventi».

Nardò, il sacrificio di Renata Fonte che si oppose al cemento: «Morì per la sua terra». Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. «Era un sabato, quel giorno. E la domenica saremmo dovuti andare al cinema a vedere “The day after”. Ma quel “giorno dopo” dura da 36 anni». Era il 31 marzo del 1984, un sabato. E il cinema era l’Augusteo di Nardò, il paese di Renata Fonte, la prima consigliere comunale e assessore donna del Partito Repubblicano Italiano locale. Quella sera Renata uscì dalla seduta del Consiglio comunale ma non fece mai rientro a casa. «Suonarono alla porta — ricorda Sabrina Matrangola, primogenita di Renata, che all’epoca aveva 15 anni — pensai che mamma avesse dimenticato le chiavi. E invece si presentarono un’amica di famiglia e un poliziotto in borghese». A pochi passi da quel portone tre colpi di pistola avevano posto fine, a soli 33 anni, alla battaglia politica di Renata contro la speculazione edilizia di Porto Selvaggio, sul litorale jonico che si affaccia su Gallipoli. Il Salento non era ancora cool come oggi, ma la sua bellezza naturale faceva immaginare un radioso futuro turistico. E all’epoca lo sviluppo era fatto di cemento. «Quelli — ricorda Sabrina, insegnante di Italiano e Storia al Liceo Scientifico Sportivo di Lecce e madre di due gemelli, Edoardo e Renata — erano anni di intensissime battaglie sociali e politiche. Mamma aveva certamente scoperto qualcosa su oscure speculazioni edilizie a Porto Selvaggio. Aveva ricevuto minacce. Ma per amore della sua terra non si sarebbe mai fermata. Solo noi figlie le avremmo potuto chiedere di non insistere. Ma la vedevamo felice di lottare. E non lo chiedemmo mai». Il marito, Attilio Matrangola, invece, lo aveva fatto. Ma la passione di Renata per il Salento era più forte. Dopo una vita in giro per l’Italia — da Como a Catania, passando per Cagliari — al seguito di Attilio, esperto di radar negli aeroporti, per Renata il rientro a casa nel 1980, con il marito trasferito a Brindisi, rappresentò un momento di non ritorno. «Da una parte cominciò a insegnare alle Scuole elementari di Nardò, dall’altra — ricorda Sabrina — mise in pratica gli insegnamenti di Pantaleo Ingusci, “zio Lelè”, un antifascista che incarnava gli ideali mazziniani. All’epoca venivano prima le idee, poi il partito. E mamma cominciò a impegnarsi nel locale Pri — diventandone segretario cittadino, consigliere comunale e assessore a Pubblica istruzione e Cultura — e nelle battaglie sociali con il Comitato per la Tutela di Porto Selvaggio». Quattro anni prima, in realtà, una tutela al territorio era già arrivata, con l’istituzione del Parco Naturale di Porto Selvaggio e Palude del Capitano. «Ma quel parco — spiega Viviana, la figlia più piccola di Renata — venne definito come “attrezzato”. E dietro quell’aggettivo si poteva nascondere di tutto». Viviana, quel sabato di 36 anni fa, aveva 10 anni ed era a casa della nonna. Da una decina di giorni papà Attilio era stato trasferito per lavoro in Belgio. «Mi dissero — ricorda Viviana, architetto e madre di Sveva Renè — che mamma aveva avuto un incidente. Solo alcuni giorni dopo scoprii la verità leggendo il titolo di un giornale a casa di amici: assessore assassinata». Quel delitto ebbe una risonanza nazionale: il primo omicidio di un politico donna nel Salento, una giovane madre, insegnante, ambientalista. Si pensò subito a un delitto passionale, per l’assenza di Attilio. Poi, però, grazie alle indagini dell’allora commissario di Nardò, Rocco Gerardi, vennero in breve tempo individuati e condannati nei tre gradi di giudizio l’esecutore materiale dell’omicidio Giuseppe Durante (ergastolo), chi lo aiutò, Marcello My, gli intermediari Mario Cesari e Pantaleo Sequestro, e il mandante di primo livello, Antonio Spagnolo (ergastolo), collega di partito di Renata e primo dei non eletti alle amministrative. Che aveva come movente l’ingresso in Consiglio comunale. «Ma nelle conclusioni delle sentenze — spiega Sabrina — emerse il possibile coinvolgimento di terzi, il cui movente era garantirsi qualcuno che favorisse le progettate speculazioni. Per questo ancora oggi noi figlie ci chiediamo se i colpevoli di quell’omicidio di 36 anni fa sono solo i cinque condannati». La battaglia di Renata, però, certamente è stata vinta. È diventata il genius loci di Porto Selvaggio, un luogo da preservare non solo per la bellezza naturalistica ma anche per la sua valenza scientifica, punto in cui l’uomo di Neanderthal lasciò spazio all’Homo Sapiens come dimostrano i reperti custoditi nel Museo della Preistoria di Nardò «che forse non sarebbe nato — come spiega la direttrice Filomena Ranaldo — se fosse andato avanti il modello di lottizzazione, anche delle sole aree contigue al Parco, osteggiato da Renata». Il cui ricordo si è trasmesso nel tempo anche grazie all’impegno delle figlie e in particolare di Viviana che ha ricoperto ruoli di responsabilità nell’associazione Libera di don Luigi Ciotti. Nel 2002 Renata è stata riconosciuta vittima della mafia, prima e unica amministratrice donna uccisa, e le sono stati dedicati un film, «La posta in gioco», e una fiction, «Renata Fonte-Una donna contro tutti». Nel frattempo quel Salento a rischio cementificazione è diventato meta ambita grazie alla bellezza naturale rimasta intatta e alla riscoperta delle tradizioni, dal muretto a secco alla Taranta. «Che già 40 anni fa — conclude Viviana — mamma voleva valorizzare dando vita a un museo delle tradizioni popolari». Non c’è dubbio, Renata aveva visto molto lontano. Più in là della guerra nucleare ipotizzata da quel «The day after» che per lei è rimasto un film mai visto.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Calabria.

Per ogni guaio italiano ve n’è uno peggiore in Calabria. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 14 Gennaio 2020. Accade di contrapporre il male altrui al proprio, lo si fa per incoraggiarsi. È un fatto umano dai connotati pericolosi se da vizio dell’uomo si trasforma in metodo sociale: una società individua un suo pezzo sofferente, lo addita per sentirsi migliore. Inidoneità, ignoranza, furbizia, egoismo, anche un pizzico di razzismo ne sono causa. Pensando alla Calabria, la sua classificazione tra il peggio è effetto anche dell’autorazzismo: si è accettato il ruolo della pecora nera, assistendo e contribuendo alla costruzione di una rappresentazione della realtà. Si è partiti con i risolini e le chiacchiere degli stessi calabresi che riguardavano piccole porzioni del proprio territorio, dai riottosi, ribelli e irredimibili africoti di Stajana letteratura, si è passati alla razza dannata, sanlucota, platiese, locridea. Si è arrivati a una Calabria totalmente irredimibile, con un morbo che ha preso a seguire i calabresi in fuoriuscita. I meridionali in genere e i calabresi in particolare: non sono più ciò che sono, solo quello che appaiono. E la sostituzione della rappresentazione al reale non serve alla vittima né a chi si consola del suo male. A elencarli tutti, i mali calabresi o meridionali, servirebbero parecchi saggi, il Sud ha bisogno di verità, brutale, gli serve una classe intellettuale che ne apra le piaghe senza pietà, e poi una classe dirigente che, una a una, provi a curarle. E poi serve un popolo che sostenga l’una e spinga in punta di lama l’altra. Al momento mancano tutti. La Calabria, per esempio, non è più un luogo fisico, abitato da uomini. È una narrazione fatta da fuori, con complicità interne, che quotidianamente riempie i mezzi di informazione. Per consolare gli altri e affossare se stessa. È il modo giusto per non aiutarla. Ma questa Italia è un Paese che s’ostina a tenere i sudici sul banco degli imputati, additando ogni loro vizio, come solo loro vizio e non il sintomo di un’infezione che tocca tutti, un’Italia che cinicamente accetta la loro messa all’angolo non fa un favore a se stessa. E pure se è vero, se si deve parlare di mala sanità si tira in ballo la Calabria, la si tira in ballo per la mala politica, per la scuola cattiva, per il dileggio dell’ambiente. Per ogni guaio italiano vi è uno peggiore che alligna in Calabria. E poi da lì parte il mostro dei mostri, la ‘ndrangheta, che più la si combatte e più cresce e più invade il mondo. Le narrazioni non sono neutre, hanno il potere di spodestare la realtà dal suo posto e atterrare definitivamente un contesto. La Calabria questo è, il Sud questo sta diventando, oltre ad averli i drammi: la consolazione dei mali, che sono anche altrui, che sono di tutti.

Impianti di sci chiusi causa neve. Lo strano caso della pista in Calabria. I mezzi spalatori non arrivano, non si sa chi deve inviarli. Paolo Bracalini, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Impianti da sci chiusi causa neve. Un po' come dire stabilimento balneare chiuso perché c'è il mare vicino, ma nulla è impossibile in Italia, tanto meno in Calabria. Sull'altopiano della Sila a 1500 metri, nel comune di San Giovanni in Fiore, c'è il Centro Fondo Carlomagno, il più grande comprensorio sciistico di fondo della Calabria nonché quello più a sud dell'intera Europa. Sarebbe perfetto, se non nevicasse. Sì perché il problema è che per arrivarci c'è una strada e se nevica la strada si riempie di neve. Ecco, chi la deve togliere questa neve? Non è mica una domanda semplice. Infatti, mentre nei giorni delle feste natalizie dopo una serie di nevicate spettacolari arrivavano migliaia di turisti armati di sci e racchette, è partita tutta una diatriba burocratica su quale fosse l'ente a cui spettava l'incombenza di spalare la neve dalla strada e rendere così raggiungibili gli impianti. Al Comune di San Giovanni in Fiore? O a quello di Casali del Manco? Forse all'Ente Parco Nazionale della Sila? O magari alla Provincia di Cosenza (sì, quella c'è ancora). Quest'ultima se n'è lavata le mani, «l'ente non ha alcuna competenza sulla strada di accesso al Centro Carlomagno», e poi è vero che la struttura è post nel Comune di San Giovanni in Fiore ma è anche vero che la strada provinciale da cui è raggiungibile è a sua volta raggiungibile dalla strada intercomunale ricadente nel territorio del Comune di Casali del Manco. Quindi come la mettiamo? Ecco, hanno risolto istituendo un «tavolo permanente per discutere delle problematiche della Sila», con una dozzina di enti di mezzo e l'impegno solenne di «trovare, al più presto, una soluzione» per far sciare gli sciatori calabresi. Sempre che non nevichi.

·        I Buoni ed i Cattivi.

Vibo Valentia, cittadinanza onoraria a Gratteri. Il consiglio comunale vota l’emendamento di Santoro (M5S). La maggioranza aveva presentato l’ordine sull’encomio da conferire ai carabinieri per la condotta in occasione della maxioperazione "Rinascita Scott". Gianluca Prestia su Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. Encomio solenne ai carabinieri e conferimento della cittadinanza onoraria al procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia, Nicola Gratteri. Il consiglio comunale di Vibo si è così determinato nel corso della seduta di ieri pomeriggio avente ad oggetto la questione dell’alta velocità. Un punto urgente all’ordine del giorno che ha spezzato per qualche minuto la discussione in atto sull’esclusione del territorio da parte di Trenitalia. A presentare la proposta di encomio all’Arma dei carabinieri per l’attività condotta in occasione della maxioperazione “Rinascita-Scott” del 19 dicembre del 2019, è stato il gruppo di Forza Italia con la piena condivisione di tutta la maggioranza a sostegno dell’esecutivo guidato da Maria Limardo. Ma a questo si è aggiunto l’emendamento avanzato dal capogruppo del Movimento Cinque Stelle, Domenico Santoro, relativo al conferimento della cittadinanza onoraria «a colui il quale è stato il cervello dell’operazione antimafia, vale a dire il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri». Un emendamento condiviso dalla maggioranza per come rilevato dal capogruppo di Fratelli d’Italia Antonio Schiavello mentre a relazionare dettagliatamente sull’Odg dell’encomio è stata la consigliera di Forza Italia, Carmen Corrado rilevando l’importanza che ha avuto sotto l’aspetto della lotta alla criminalità organizzata e sotto il profilo sociale il blitz dello scorso dicembre: «L’epocale operazione, per la quasi totalità dispiegatasi nella provincia di Vibo Valentia, ma condotta anche in altre regioni nonché all’estero, nasce dall’intenso ed ininterrotto lavoro compiuto proprio dal personale dell’Arma dei carabinieri della Città e, in particolare, da nucleo Investigativo del Reparto operativo, alla cui azione si è quindi affiancata quella corale ed integrata di tutte le componenti specialistiche della Benemerita i cui ufficiali comandanti hanno, per quasi tre anni, diretto tutte le fasi delle attività investigative sino all’esecuzione finale, intervenendo in tutti i gravi fatti criminali e di sangue che hanno afflitto il territorio, riuscendo sempre a consegnare alla giustizia i responsabili». Evidenziato, poi, come il risultato dell’impresa sia «stato quello di soccorre la popolazione dell’intera provincia, sottraendola al giogo letale della ’ndrangheta che da decenni provoca inaccettabili sofferenze alla gente perbene costituite non solo dal gravissimo clima di paura e violenza ma anche dalla perdita del reale esercizio del diritto di cittadinanza. Tale storica impresa – conclude l’ordine del giorno – è stata raggiunta grazie all’eccezionale senso di abnegazione e all’azione particolarmente intelligente, ardita ed efficace dei comandanti e dei loro uomini che hanno reso un altissimo servigio alla città, alla provincia e alla Calabria, nonché a tutta la nazionale, dando spiccato lustro all’istituzione per la quale operano».

In Calabria ha vinto l’astensione? E’ una balla colossale. Gioacchino Criaco de Il Rifomista il 6 Febbraio 2020. Se un posto non lo si conosce non lo si cambia, forse non lo si vuol cambiare. Se un posto non viene raccontato si avvolge su se stesso, rimane alla fine solo passato. Per esempio, la Calabria, alle amministrative, non si è astenuta, ha avuto un’altissima percentuale di votanti. È un’affermazione che fa ridere se ci si affida alle analisi svogliate di fuori, o si sceglie, fra i resoconti indigeni, il racconto che serve solo a confermare una tesi. I calabresi che hanno avuto la possibilità di votare, lo hanno fatto all’80%, il 44% statistico è un inganno perché rapportato al milione e otto che avrebbe diritto di voto. Solo che trecentomila e passa, calabresi, sono iscritti all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero, per votare alle elezioni locali lo possono fare solo ritornando in Calabria, e quattro o cinquecentomila giovani stanno al Nord Italia, in Nord Europa, in un qualunque Nord del mondo, mantengono una residenza solo apparente nei paesi di origine e non ci può essere una motivazione così forte per farli rientrare a casa a fine gennaio dopo essere ripartiti per i luoghi del lavoro finite le ferie natalizie. Se la Calabria la si gira per autostrade e statali solo presunte, attraverso le sue carrettere, ci si accorge con molta facilità che non ci sono i 2.000.000 di residenti anagrafici. È una bugia, nemmeno pietosa. Per quando dense e misteriose, le selve calabre non possono occultare un milione di persone, che invece sono facilmente visibili nei sentieri del lavoro che percorrono l’Occidente. Ci sono un milione di calabresi che possono davvero votare, di questi: ottocentomila lo hanno fatto e il 15% si è diviso in due liste che separatamente sono state sotto la soglia di sbarramento e non avranno rappresentanza. La maggioranza ha riconfermato un pendolo consuetudinario che tende al perpetuo. Si passa da uno dei due schieramenti all’altro a seconda di ciò che si ha avuto o non avuto dalla giunta precedente. L’idealità ha solo un valore marginale, ciò che ha contato, e continuerà a contare, sono il bisogno e il potere. Chi esercita il potere sposta blocchi elettorali e chi subisce il bisogno sceglie l’offerente migliore o quello che incute più timore. Trarre una lezione Nazionale da un contesto così, quando lo si conosce, è inutile, fuorviante. I programmi, le proposte, i colori, di Roma, non hanno alcun peso. Il peso è degli uomini che vestono i colori, ora degli uni ora degli altri. perché in Calabria nulla è come sembra, e i potenti locali da secoli esercitano il potere in nome altrui ma ad esclusivo vantaggio proprio. Per stabilire la reale forza di un partito bisogna guardare alla fortuna di chi incidentalmente lo rappresenta, al frangente temporale, festivo o meno, in cui si svolgono le elezioni. E se una lezione si può trarre è che parlare di restare o partire sia una balla: i calabresi bisognosi e che non si vogliono piegare al bisogno, sono già partiti. Rimane una schiera di protetti e un manipolo di partenti.

Politici calabresi ai piedi di Gratteri e co., Oliverio e Romeo innocenti ma bruciati dai Pm. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Il 31 luglio del 2019, Sebi Romeo, capogruppo del Pd alla Regione Calabria veniva posto agli arresti domiciliari nell’ambito dell’operazione “libro nero” con l’accusa di “tentata corruzione”. Secondo il pm, Romeo avrebbe promesso a un maresciallo della Guardia di Finanza l’assunzione di un parente in cambio di informazioni.  Il 26 gennaio del 2020 in Calabria si vota per il rinnovo del consiglio regionale, e Romeo viene messo in libertà il 10 dicembre, quando ormai i giochi erano fatti e le liste dei candidati stanno per esser presentate. Quindi non viene ricandidato anche perché il Pd, dopo meno di mezz’ora della diffusione della notizia del suo arresto, lo aveva sospeso dal partito. Ieri l’altro la Cassazione ha smontato tutto l’impianto accusatorio, stabilendo che «nel caso in specie è palese l’assoluta inconsistenza delle ipotesi di accusa, non solo per la scarsa portata degli elementi ulteriori… ma anche per l’irrilevanza di elementi desunti dalle prove inutilizzabili e che però ben si possono considerare a favore dei ricorrenti». Quanto accaduto al capogruppo del Pd è un serio indizio del fatto che le elezioni regionali in Calabria sono state oggettivamente condizionate dalla magistratura. Ma il quadro si fa ancora più preoccupante se teniamo nella dovuta considerazione quanto successo qualche mese prima dell’arresto di Romeo, quando lo stesso presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, viene confinato per quattro mesi tra le montagne della Sila a seguito di un’ordinanza della procura di Catanzaro retta dal dottor Nicola Gratteri. Qualche mese dopo la corte di Cassazione ha definito il provvedimento restrittivo richiesto da Gratteri come frutto d’un chiaro “pregiudizio accusatorio”. La “politica”, ancora una volta, ha tuttavia chinato la testa dinanzi ai poteri che realmente comandano in Calabria così come la stampa nazionale e regionale s’è limitata a pubblicare i comunicati delle Procure. Particolarmente grave sembra in particolare la posizione del Pd calabrese (commissariato) che non solo ha rinunciato a difendere i suoi principali esponenti ingiustamente accusati ma ha utilizzato i provvedimenti illegittimi della magistratura per individuare candidati forse più graditi ad alcune Procure. Ed infatti la partecipazione di Pippo Callipo, candidato dal Pd alla presidenza della Regione Calabria al posto di Mario Oliverio, alla manifestazione “pro Gratteri” del 18 gennaio scorso rappresenta la palese dimostrazione di quella sudditanza di cui sembra essersi resa protagonista la politica regionale nei confronti della procura di Catanzaro. Non è un caso che i votanti per le elezioni regionali in Calabria siano stati appena il 44% e tra questi ben 36mila abbiano consegnato schede bianche e nulle. Di fatto, hanno espresso il loro voto meno del 40% degli aventi diritto. Sia chiaro, qui non si tratta di difendere Mario Oliverio o Sebi Romeo, e, meno ancora, il governo regionale che ha retto la Calabria dal 2015 al 2020. In gioco c’è qualcosa di ben più importante: innanzitutto la libertà dei cittadini che in Calabria è gravemente compromessa. Quindi l’autonomia della politica espropriata a favore di ristretti gruppi che detengono il potere reale ed infine la dignità delle Istituzioni democratiche gravemente compromessa da poteri non elettivi (spesso occulti) che sembrano perseguire fini estranei ai legittimi interessi dei cittadini. Il “caso Romeo”, la vicenda giudiziaria del presidente Oliverio come già i trasferimenti del vescovo Bregantini o del procuratore generale Otello Lupacchini rappresentano solo la punta della mattanza dei diritti civili in Calabria. A rileggere le motivazioni della Cassazione, si ha la netta impressione di una Regione a democrazia morente.

Sardine o Gratteri boys, cosa resterà della Calabria tra 10 anni. Gioacchino Criaco il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. Al Sud gli infissi non hanno chiusure perfette, non c’è mai un vero inverno da tenere completamente fuori e poi, quando soffia la Tramontana, ogni resistenza è inutile: il freddo lo trova o lo crea un pertuso per mulinare gelido dentro casa, e i sudici se li porta via, sempre, il vento. A fine estate è l’Ostro a caricarseli, pecore sulle nuvole basse dell’orizzonte. Per l’Epifania appare il vento del Nord, spinge la gente verso le autostazioni. Albe di notti da tregenda, sere da fiato corto e una 106 Jonica di spietata bellezza sono le corone delle partenze. I calabresi vanno via col vento dopo il riposo di Natale, si riempiono dell’aria dell’anno nuovo per qualche giorno e chiudono le narici al deflusso. Staranno in apnea fino alla prossima calata. Col vento, dopo la Befana, migliaia di donne che sono madri, sorelle, mogli, figlie, trasportano vettovaglie e affetto nei penitenziari sparsi per la Penisola che restringono gli oltre 10.000 detenuti calabresi fra i 60.000 e passa del totale. Il popolo calabrese è un gregge in pena che bascula fra innocenti e colpevoli, tutti condannati alla diaspora, innocenti e colpevoli, che infila in un buco nero decine di migliaia di vite l’anno, 400.000 per decennio. Basteranno trent’anni perché l’Avvento si concluda, l’ecatombe si compia. Dopo non ci saranno guerre da combattere per un mondo già morto, svaniranno i nemici da abbattere e le zolle, dagli altipiani dell’Aspromonte a quelli della Sila, saranno il trastullo dei venti. Il Sud, gli intellettuali lo tradiscono spesso, lo raccontano con troppo ritardo, quando il tempo e il vento sono passati, e non c’è più rimedio al danno. Il contemporaneo, in buona o mala fede, lo si racconta come inganno, nascondimento di piaghe purulente in cambio di storie che forse sono edificanti o forse lo appaiono, soltanto. E le Sardine vanno a Riace, da Mimmo Lucano: a testimoniare il rifiuto dell’odio, del respingimento, a mostrare la diversità dal rancore. E gli uomini di buona volontà si preparano ad andare a Catanzaro per stare vicino a chi indaga. A Riace il bene lo si è affermato andando, quando lo si è ritenuto necessario, oltre la Legge. A Catanzaro lo si vuole affermare con la sola forza della Legge. Fra qualche anno non avrà importanza chi ha fatto bene o chi ha fatto male. Fra qualche anno i calabresi, i meridionali tutti, saranno l’aria tremolante di un orizzonte lontano e le battaglie di oggi, di Sardine e toga boy, avranno il valore di battaglie di retroguardia, lotte residuali. Fra qualche anno gli infissi, nel Sud, non si faranno per niente, il non finito calabrese di adesso si trasformerà in rovine, e nemmeno il vento avrà gioia a invadere le stanze. Per l’Epifania le albe in Calabria sono il seguito di notti da tregenda, le sere hanno il fiato corto, la statale 106 si stende lenta verso Riace fra fiori d’agave appassiti e palle d’arancio cadute al suolo, lo Jonio diventa i thalasse, si fa femmina e partorisce i Bronzi. Sulla strada per Catanzaro si superano fiumare che covano ora il miele delle acacie ora il veleno dei roghi d’immondizia, le immagini che scorrono sembrano le pagine di un libro, è la 106, questo è il libro sul Sud che è stato, che è, che avrebbe voluto essere, fra le sue righe c’è ogni tipo di spiegazione, ci cova la fiaba e la tragedia, e pure la farsa antica che ha figliato la commedia moderna, si vedono sulle alture le magioni degli gnuri e sotto, negli acquitrini camuffati, le rughe dei partenti, sui muri di contenimento che hanno sbranato calanchi da sogno ci stanno infissi i manifesti elettorali con i nomi da incubo di una politica che è passata dai nonni ai nipoti. E certo, se si guarda bene a ogni angolo di statale: al momento, la parte più debole non sta né a Riace né a Catanzaro. La parte più debole è quella che trascina cartoni con i viveri bastanti per i mesi a venire verso le fermate degli autobus, e di questa parte non c’è esercito che se ne accorga.

Ma come possono i calabresi fidarsi della giustizia? Gioacchino Criaco il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. Le quattro corsie dell’autostazione di Lampugnano, zona ovest di Milano, somigliano a delle rampe di lancio, sparano razzi verso l’ignoto. Le compagnie raddoppiano, triplicano le corse verso sud durante le feste. Sopra corriere, a volte nuove altre arnesi degli anni Novanta, si affolla gente che non va in vacanza, scende giù a tirare il fiato dopo mesi passati a intonacare muri, spingere carrelli, servire drink agli happy hour, un’umanità transumante che sale e scende, lavora e riposa, e resta in stallo senza possibilità di salite sociali. Sui bus ci vanno quelli che possono spendere meno di cento euro, e non le centinaia richiesti sotto Natale per montare su frecce o aerei. I poveri esistono ancora, sono tantissimi, pure se lisciano lo schermo dello smartphone ultimo, sono vivi, incazzati, percorsi da un odio che si nutre di frustrazioni secolari. Non sono cattivi veri, solo incattiviti, magari il livore che gli sale dal fegato alla bocca non dura nemmeno tanto, ma un passaggio giornaliero lo fa anche dentro i cuori più teneri. I calabresi che godono delle retate che ritualmente aprono le albe a sirene spiegate e luci intermittenti sono tanti, molti più di quanto si pensa. Con loro non bisogna essere eccessivamente cattivi: nei volti pallidi di quelli tirati giù dal letto di buon’ora ci vedono il dritto che gli ha fregato il posto al Comune, che gli ha preso il letto in ospedale, che ha preteso qualcosa per rilasciargli un certificato, una licenza, che lo ha messo sotto strozzo, sotto pizzo, che gli ha preso casa o terra, o ambedue, l’avvocato, lo sbirro o il magistrato che lo hanno fatto fesso, che hanno coperto un suo aguzzino, il politico che ha sempre porto le mani da baciare, il malandrino che ha mostrato il pugno ricoperto col sangue tuo. No, ai calabresi che salgono e scendono con le corriere, che nel passato ricordano i carri bestiame e i bastimenti, non è facile spiegargli una posizione diversa dalla gioia, rispetto al blitz quotidiano, hanno sofferto troppo per farsi parlare di diritti e garanzie, pensano facile, a volo di terra, si dicono che sia giusto che i cattivi abbiano anche un solo giorno di dolore, e che tanto i furbi un rimedio lo trovano sempre. Con loro ha gioco facile chiunque impugni una spada, qualunque sia il suo nome e indipendentemente dalle ragioni per cui lavori di scimitarra, un eroe vale l’altro e il migliore degli eroi prima o poi finirà sotto lama, e anche del suo giorno di dolore i calabresi ne godranno. No, non è che i calabresi siano davvero cattivi, ma è che loro, per loro stessi, le garanzie, il diritto, non li hanno mai visti applicati e non gliene frega tanto se per una volta la stessa sorte tocchi ai forti. Tutto durerà poco, i dritti veri in un modo o in un altro bucheranno la rete, con la muffa ci resteranno i fessi che si fanno più furbi di ciò che sono, e a ogni giro ci rimetteranno le penne gli sfigati dell’errore fisiologico e statistico. In Calabria i più non è che non siano garantisti, le garanzie non le hanno mai conosciute per le fasce deboli. In Calabria non è che si tifi per un procuratore o per un altro, si inneggia il nome del giustiziere occasionale, con la certezza che domani sarà un giorno uguale all’ingiustizia dei giorni passati. Che sostanzialmente sarà la medesima politica ad amministrare, fingendo nomi e facce nuove. Che sarà la solita melassa a riempire i vuoti temporaneamente creati dalla Legge. I calabresi non sono davvero forcaioli, gratuitamente cattivi. Sono umani, umanamente cedono ai moti di rabbia, ma poi lo sanno che la Legge è con loro che sarà veramente dura.

Calabria, in Regione la carica dei voltagabbana e dei riciclati. Ex Rifondaroli finiti in Forza Italia, dem passati a Fratelli d'Italia, leghisti dell'ultima ora. Seguendo il fiuto per la poltrona, ecco chi siederà con la neogovernatrice Jole Santelli. Alessia Candito il 29 gennaio 2020 su L'espresso. Transfughi, signori delle preferenze, figli d'arte, impresentabili e avatar. Nel campionario politico cui i calabresi hanno demandato il nuovo governo della Regione, c'è di tutto. A votare sono stati in pochissimi, poco più del 44 per cento. Curiosamente, una percentuale quasi identica a quella del 2014. Anche questa volta quindi gli elettori hanno deciso di disinteressarsi della questione, viste le temperature senza neanche poter accampare la scusa di una giornata da passare al mare. Ma non è un alibi. La destra ha vinto con maggioranza inequivocabile, che in alcuni centri diventa quasi bulgara. A Sinopoli hanno scelto la coalizione della neo eletta  Jole Santelli, prima governatrice donna della Calabria, l'84 per cento degli elettori, a Platì l'80,51, poco meno a Gioia Tauro con l'80, a Rosarno il 79, ad Africo il 74, San Luca quasi il 69 per cento. Tutti comuni assai noti alle cronache giudiziarie e con consigli comunali spesso naufragati per mafia, noteranno malfidati e malpensanti, ma magari è una casualità. In ogni caso, forte del suo 55,29 per cento dei consensi, Santelli sbarca da governatrice alla Regione con una maggioranza assai solida di 17 consiglieri. E più di un paio fanno già discutere. Non si tratta semplicemente di quel Domenico Tallini che la commissione parlamentare antimafia ha bollato come impresentabile per un rinvio a giudizio per induzione a dare o promettere utilità. Fra gli eletti nella lista personale della neogovernatrice c'è Vito Pitaro, approdato al centrodestra dopo una parabola politica iniziata orbitando in Rifondazione Comunista, sconfessata per un assessorato con i socialisti e in seguito tracimata nel Pd, poi tradito con il passaggio a Forza Italia, alle Regionali sfociato in una solida collocazione nelle liste di Santelli. Alla fiera dell'Est della carriera di Pitaro c'è anche un incarico da più di tremila euro al mese come capostruttura dell'ex consigliere regionale Mirabello, ma questo non gli ha impedito di cercare altre sponde politiche. Fino a qualche anno fa, era un altro il pater politico su cui Pitaro potesse contare. Si tratta dell'ex deputato Bruno Censore, cui il Pd ha negato una candidatura alle regionali, in nome del repulisti generale voluto dalla segreteria di Zingaretti. I nomi di entrambi sono saltati fuori di recente tra le carte dell'inchiesta “Rinascita-Scott” o meglio nelle chiacchiere intercettate di Pietro Giamborino, ex consigliere regionale, per i magistrati che lo hanno arrestato espressione diretta dell'omonimo clan. A detta di Giamborino, Censore “avrebbe condotto la campagna elettorale con il supporto di Pitaro Vito ed entrambi si sarebbero avvalsi dell'appoggio di persone ‘ad alto rischio', esponenti della criminalità locale, per garantirsi il bacino di voti”. Né Pitaro, né Censore sono indagati, ma su pressioni del candidato governatore Pippo Callipo, il Pd ha deciso di parcheggiare il suo ex deputato fuori dalle proprie liste.

IL PATTUGLIONE TRANSFUGHI. Pitaro invece ha trovato una nuova casa politica, ma nel centrodestra non è certo l'unico transfuga cui gli elettori hanno perdonato il cambio di casacca. A Reggio ha strappato uno scranno in Consiglio per l'Udc Nicola Paris, fino a qualche mese fa uomo di fiducia del sindaco dem Giuseppe Falcomatà e padrone delle deleghe a turismo e spettacolo, oggi consigliere del centrodestra. Una sorta di ritorno a casa per lui. Cinque anni fa, nasando la vittoria del centrosinistra, con nonchalance aveva abbandonato i suoi per collocarsi nelle liste a sostegno del giovane sindaco dem. Poi il vento politico è cambiato e lui lo ha assecondato. Altrettanto ondivago nel corso della sua carriere appare Giuseppe Graziano, ex generale della Forestale, scelto dal governatore di centrosinistra Agazio Loiero come direttore generale del Dipartimento Ambiente della Regione Calabria, ma entrato una prima volta in assemblea regionale con la Casa della Libertà e adesso nuovamente a Palazzo Campanella in quota Udc. In mezzo c'è un incarico da segretario questore del Consiglio regionale strappato anche con i voti dei fedelissimi dell'ex governatore dem Mario Oliverio. Ed è proprio quando ricopriva quell'incarico che ha fatto discutere la sua partecipazione all'assemblea, convocata dal Gran Maestro del Goi, Stefano Bisi ad Aiello Calabro, per esprimere «piena e convinta solidarietà» all'obbedienza quando la commissione parlamentare antimafia ha preteso gli elenchi degli iscritti. Se sia massone o no, Graziano non l'ha mai chiarito, ma sui social circolano foto di affettuosi abbracci fra lui e il Gran Maestro Aggiunto cosentino Antonio Seminario. Decisamente più lunga la capriola che ha portato l'ex consigliere regionale Giuseppe Neri dal Pd a Fratelli d'Italia. Entrato cinque anni fa in Consiglio con la lista Democratici e Progressisti, sulla carta costola sinistra dei dem, adesso ci torna in quota Fratelli d'Italia. La cosa non sembra avergli procurato grattacapi in termini di consensi, come non sembra essere stata un problema per il suo collega di lista, Domenico Creazzo, vicepresidente dl parco dell'Aspromonte voluto dal centrosinistra ed eletto a questa tornata con Fratelli d'Italia. Per la precisione, primo fra i suoi per numero di voti. E questo – dicono indiscrezioni - anche grazie ai consensi dell'area che ancora fa capo all'ex governatore Giuseppe Scopelliti, condannato definitivamente a 4 anni e 7 mesi per aver taroccato il bilancio di Reggio Calabria in modo da nascondere un buco da centinaia di milioni di euro e per questo finito in carcere.

AVATAR, DELEGATI E FIGLI DI. Ma Creazzo non è l'unico candidato che avrebbe goduto di favori, influenze e rapporti dell'ex governatore. In quota Lega è entrata in Consiglio anche Tilde Minasi, assessore alle Politiche Sociali di Scopelliti prima in Comune, poi da consigliere con lui in Regione. Ma nella squadra del Carroccio anche altri dei quattro neo-consiglieri sarebbero espressione di gruppi che vanno anche al di là della bandiera di partito. È il caso di Pietro Raso, che in campagna elettorale avrebbe potuto contare sul sostegno dell'unico deputato calabrese della Lega, Domenico Furgiuele. Genero di Salvatore Mazzei, imprenditore lametino considerato vicino alla ‘ndrangheta e condannato in via definitiva per estorsione, Furgiuele anche per questo è finito al centro di una mezza rivolta tutta interna alla Lega calabrese, che ha chiesto (e ottenuto) il commissariamento del partito da mesi in mano al bergamasco Christian Invernizzi, a suo agio in terra calabra come un vegano in macelleria. E a quanto pare solo in parte in grado di controllare quanto succeda attorno a lui. Lo squadrone leghista che entra in Consiglio può infatti contare sull'ex presidente di Coldiretti Calabria, Pietro Molinaro, attorno a cui da tempo volteggia Alfredo Iorio, ex missino negli ultimi anni riscopertosi leghista. E assai ingolosito dal Carroccio calabrese, su cui da tempo cercherebbe di mettere le mani, anche con l'appoggio della banda di supporter dell'aspirante eurodeputato Vincenzo Sofo, più noto per la fidanzata Marion Lepen che per le iniziative politiche. Mentre attende che la Brexit gli apra le porte di Bruxelles, Sofo pare stia puntando sulla Calabria per costruire il suo personalissimo feudo e anche per questo da tempo sembra corteggiare Molinaro. In molti danno l'ex presidente di Coldiretti come prossimo assessore all'Agricoltura, delega su cui il Carroccio ha lanciato l'opa fin dalla campagna elettorale, ma a contendergliela potrebbe essere un consigliere del suo stesso partito, Filippo Mancuso, prima di approdare in Regione eletto in Consiglio comunale a Catanzaro con una lista vicina al sindaco di Forza Italia, Sergio Abramo. Non ha padrini politici su cui contare, ma è figlio d'arte Luca Morrone, neo consigliere regionale per Fdi, che nella corsa alla Regione ha potuto contare sull'appoggio di papà Ennio, politico di lungo corso, più volte transitato dal centrosinistra al centrodestra e viceversa. In realtà, non è dissimile la situazione di Flora Sculco, erede dell'omonima dinastia politica che domina Crotone, riconfermata in Consiglio con i Democratici e progressisti. È lì che sono confluiti i pochi oliveriani sopravvissuti alla faida fra l'ex governatore dem Mario Oliverio e il suo Pd, ma le urne non li hanno per nulla premiati. Sembra invece servita l'operazione di pulizia preventiva delle liste, pretesa da Pippo Callipo e che la segreteria di Zingaretti ha accolto di buon grado per tentare di rimettere le mani su un partito che più di un commissariamento non è riuscita a domare. E stando ai risultati delle urne ha (in parte) convinto gli elettori. Nonostante la sconfitta schiacciante, il Pd può tentare di consolarsi con la vittoria di Pirro dell'essere primo partito in Calabria. Quasi incredibilmente non ce la fa a entrare in Consiglio Pino Gentile, candidato alla Regione per la Casa delle Libertà e in politica da prima che esistessero le Regioni stesse. Nonostante il record personale di consensi (oltre 7mila) il successo degli alleati lo condanna fuori dal Consiglio. A meno che il “nuovo” governo calabrese non trovi qualche cavillo per ripescarlo, andando a infoltire i ranghi già stretti di transfughi, avatar ed ex che tornano alla ribalta.

La ricetta di Callipo: basta con la politica e la mafia. Piero Sansonetti il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. In una intervista rilasciata alla giornalista Alessia Candito, del quotidiano Repubblica, Pippo Callipo ha detto queste esatte parole: “I cittadini non dovranno più bussare alla porta del politico e del burocrate e del boss mafioso”. Pippo Callipo è il candidato di centrosinistra alle elezioni regionali calabresi che si svolgeranno alla fine del prossimo mese. È una persona seria, un imprenditore molto prestigioso, il tonno in scatola che produce è famoso in tutto il mondo ed è considerato forse il miglior tonno in scatola prodotto in Italia. Callipo ha un passato di impegno civile, sia come Presidente della Confindustria calabrese sia come candidato di una lista civica alle regionali del 2009, quelle vinte da Peppe Scopelliti. Nessuna obiezione sulla sua persona. Molte obiezioni sulle sue parole disastrose. Callipo promette, a chi lo voterà, che lui, se vince le elezioni, spazzerà il male dalla Calabria. E per impersonare il male cita tra categorie di persone: i mafiosi, i burocrati, i politici. Nella sostanza dice che politico, burocrate e mafioso sono la stessa cosa: sono i nemici della gente. Naturalmente Callipo può sostenere che lui voleva dire politici-mafiosi. O burocrati-mafiosi. Ed è da dimostrare, comunque, che ci siano, e che siano molti. Callipo però non ha detto “politici-mafiosi”; ha detto: politici, burocrati e mafiosi. Forse si sarebbe offeso se qualcuno avesse detto che per salvare la Calabria bisogna spazzare via i mafiosi e gli imprenditori. Eppure non c’è nessuna differenza tra le due affermazioni. Ammesso che esistano in Calabria dei politici mafiosi va anche ammesso che esistano degli imprenditori mafiosi. Capite cosa vuol dire questa affermazione? Vuol dire mettere Prodi o Berlusconi sullo stesso piano di Totò Riina, mettere Berlinguer o Moro o De Gasperi sul piano di Luciano Liggio. E vuol dire paragonare la politica con l’azione criminale della mafia. Può darsi che Callipo abbia semplicemente commesso un errore di linguaggio, perché non è esperto. Oppure, e non è molto improbabile, che abbia voluto cavalcare una spinta di opinione pubblica giustizialista, sostenuta di solito dai giornali, da una parte consistente della magistratura, da settori politici. Pensando – probabilmente a ragione – di poter drenare voti. Callipo vuole presentarsi come il cavaliere puro, nemico della mala e della corruzione, e dunque nemico della politica. Non gli interessa spiegare che la politica è la struttura fondamentale della democrazia. Probabilmente non ha una passione sfrenata per la democrazia. Questo è il problema. Queste elezioni calabresi si svolgono in un clima fetido. Lotte furiose dentro i partiti e paurose interferenze della magistratura. I due candidati naturali a contendersi la nomina a governatore erano il governatore uscente di centrosinistra, Mario Oliverio, e il sindaco uscente di Cosenza Mario Occhiuto, di centrodestra. Sono stati tutti e due colpiti dalla magistratura. Che li ha coperti di avvisi di garanzia, in vista delle elezioni. Al Presidente della Regione, Oliverio, addirittura per diversi mesi è stato assegnato il domicilio coatto. Cioè gli è stato impedito di muoversi dalla cittadina di montagna dove ha la residenza. Poi è intervenuta la Cassazione che ha annullato il provvedimento sostenendo che chi lo aveva chiesto e ottenuto lo aveva fatto per ragioni viziate da pregiudizio. Capite bene che è un parere molto pesante: viziato da pregiudizio, riferito a un atto di un magistrato contro un politico. Intanto molti altri esponenti politici sono stati colpiti da provvedimenti giudiziari. Il capogruppo del Pd in Regione addirittura arrestato e poi messo ai domiciliari, e ci sono voluti mesi perchè, anche lì, accorresse la Cassazione a ripristinare la legalità e a scarcerarlo. Un altro importante dirigente del Pd, Nicola Adamo, cosentino, è stato giorni fa cacciato dalla Calabria, cioè mandato in esilio fino alla fine della campagna elettorale. Accusa molto molto generica: traffico di influenze. Adamo era l’elemento più importante della campagna elettorale di Oliverio. È stato a quel punto che Oliverio ha deciso di rinunciare alla candidatura e di lasciar via libero a Callipo, più gradito ai magistrati. Occhiuto invece ancora non ha deciso, ma tutto lascia credere che anche lui si ritirerà. Possiamo dire che a parte i Cinque Stelle, che però non hanno possibilità di vincere, è stata la magistratura a decidere la griglia di partenza per la corsa alla conquista della regione. Jole Santelli, del centrodestra sfiderà Pippo Callipo, sostenuto dal Pd. E possiamo anche dire che i partiti, di sinistra e di destra, sono stati abbastanza mansueti in questa circostanza. Hanno subito in silenzio l’attacco della magistratura, gli arresti, le misure di confino, le condanne preventive all’esilio. In un clima che ricorda molto quello degli anni trenta. I partiti non si sono ribellati ai Pm. Possiamo anche dire che queste elezioni regionali si svolgeranno al di fuori di qualunque meccanismo democratico (oltretutto i partiti hanno evitato le primarie) e probabilmente anche di qualunque quadro di legalità. Per questo ci piacerebbe molto se il dottor Callipo si convincesse che se va a fare il governatore della Calabria pensando che la politica è come la mafia – qualcosa da radere al suolo, da sconfiggere – non farà un buon servizio alla Calabria. Speriamo che si accorga di avere detto una cosa molto sbagliata, e che si corregga.

Lucio Musolino per “il Fatto quotidiano” il 31 dicembre 2019. La previtiana all' assalto della Calabria. Durante la conferenza stampa di presentazione, Jole Santelli si era definita "candidata per fato". In realtà il destino c' entra poco con le fortune dell' ex sottosegretario alla Giustizia. Piuttosto sono state le relazioni, politiche e non, che ha coltivato sin da ragazza, ad avergli aperto qualsiasi porta. Parlamentare dal 2001 (cinque legislature), la candidata del centrodestra in Calabria è stata deputata per quasi la metà dei suoi 51 anni, festeggiati proprio ieri, nel giorno della presentazione delle liste che la sosterranno alle elezioni del 26 gennaio. Dagli anni Novanta, la Santelli vive di "pane e politica" nei salotti romani, sponda Cesare Previti e Marcello Pera, e in quelli con vista Arcore, dalle parti di Casatenovo e precisamente a Villa Maria, dove vive la sua cara amica Francesca Pascale, la fidanzata di Silvio Berlusconi. A dispetto della storica scarsa empatia tra la Calabria e Santelli, la sua è stata una carriera fulminante: iscritta a Forza Italia dalla sua fondazione, è subito entrata nell' ufficio legislativo del partito. Erano gli anni in cui, come avvocato, collaborava con lo studio di Cesare Previti: 8 mesi fondamentali per entrare nel cerchio magico di B. Finì a coordinare il dipartimento giustizia di Forza Italia, a stretto contatto con Marcello Pera che assunse proprio la sorella minore di Jole, Roberta Santelli, come assistente parlamentare, prima nella sua segreteria particolare e poi in quella della presidenza del Senato. Un incarico che la più giovane delle Santelli mantenne fino al 2016, quando fu assunta nello staff del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, la cui vice era proprio Jole: è ancora lì, Roberta, nonostante la sorella si sia dimessa dopo che Berlusconi l' ha indicata, proprio al posto di Occhiuto, come candidata governatrice. Tornando indietro, va ricordato che quello di Jole Santelli nella politica nazionale fu un debutto col botto: nel 2001, neoeletta nel collegio di Paola, finì in via Arenula come sottosegretario del Guardasigilli leghista Roberto Castelli. Da allora ha sempre messo a disposizione del partito, per così dire, la sua esperienza giuridica. Quando ci sono condanne la sua dichiarazione non manca mai: Previti? "Processo mediatico e politico"; Dell' Utri? "Sentenza che provoca sconcerto"; e via così. Quando esce dallo spartito, peraltro, incorre in qualche infortunio: mirabile, a suo modo, l' intervista rilasciata nel 2014 alle Iene quando definì l' Isis "un progetto anti-terrorismo". Mai sfiorata da guai giudiziari, il nome della candidata Jole Santelli comparì solo in una vecchia intercettazione all' interno dello studio di Paolo Romeo, ex parlamentare del Psdi condannato per concorso esterno con la 'ndrangheta e oggi imputato nel maxi-processo "Gotha". Era il 5 agosto 2003 quando una donna, probabilmente una dipendente del ministero della Giustizia, si lamentava con Romeo dicendo di aver "contattato la segreteria dell' onorevole Valentino per un trasferimento in Calabria". Il tentativo non funzionò e "insieme al fidanzato - è scritto nell' informativa della polizia - cercava un' altra raccomandazione attraverso l' onorevole Santelli, la quale si è prodigata ed è riuscita ad ottenere il trasferimento". Negli ultimi anni, tra i fedelissimi della Santelli c' era Luca Mannarino, ex tesoriere di Forza Italia in Calabria del quale la candidata ha sottolineato più volte "la competenza e la cultura manageriale". È lo stesso Mannarino che da ex presidente di Fincalabra nel 2017 è finito al centro di un' inchiesta per peculato sui fondi comunitari che la Regione doveva spendere per lo sviluppo delle Pmi. Da domani inizia la campagna elettorale e la squadra è già pronta: tra i candidati nella lista "Santelli Presidente" c' è pure un transfuga del Pd di Vibo Valentia, Vito Pitaro, non indagato ma citato più volte nelle carte dell' inchiesta "Rinascita".

Elezioni regionali, Santelli: “Nessun tutoraggio leghista ma sì alla collaborazione con il Nord. La battuta di Berlusconi? Lui può”. La Repubblica il 24 gennaio 2020. La candidata calabrese del centrodestra: “Ha usato parole bellissime nei mei confronti, La battuta? Con me se la può permettere, io sono da sempre una di famiglia. Le polemiche sono sempre le solite, stucchevoli”. A fine campagna elettorale la candidata del centrodestra Jole Santelli arriva con una tracheite che le impedisce quasi di parlare. Ma è soddisfatta. "È stata una botta di energia, ma anche di grande senso di responsabilità".

Berlusconi l'ha presentata come "una che non me l'ha mai data". Le ha complicato la vita?

"Ha usato parole bellissime nei mei confronti e poi ha fatto una battuta. Con me se la può permettere, io sono da sempre una di famiglia. Le polemiche sono sempre le solite, stucchevoli".

E la comunicazione della commissione parlamentare antimafia sugli impresentabili?

"Occorre rivedere il codice di autoregolamentazione, così è solo uno strumento di aggressione politica. Mi spiace per Tallini e Raffa, due persone perbene".

Salvini è venuto spesso in Calabria.

"Gliene sono grata".

E che pensa della sua ipotesi di tutoraggio da parte del Nord?

"Ha parlato di collaborazione con le regioni del Nord e mi farebbe enormemente piacere. Credo nelle buone pratiche e che si debba sempre confrontarsi con gli altri. Con il Nord, con il Sud, impariamo da chi fa meglio di noi".

Lei che previsione fa?

"Sento un buon vento ma i conti si fanno il 27".

Da governatore, quale sarebbe la prima cosa su cui lavorerebbe?

"Vorrei affrontare alcuni temi diventati simbolici di una Calabria condannata all'immobilismo".

E se invece dovesse perdere?

"Torno al mio posto, io amo moltissimo il Parlamento, mi piace l'aula, mi piacciono i lavori, mi piace la discussione. Io mi sento davvero una privilegiata, vengo pagata per leggere e studiare. Il Parlamento ti consente di soddisfare la curiosità su una serie di temi che mai avresti pensato di approfondire".

L'onorevole M5S Granato si è detta preoccupata per la sua salute.

"Prima di parlare occorre informarsi. Spero si riferisse alla tracheite. Se era ad altro, è ancora più squallido. I colpi bassi sarebbe meglio evitarli, soprattutto se camuffati da una pelosissima ipocrisia. Sto bene, non me la tirassero...".

Calabria, centrodestra senza freni nel silenzio dei media. Lanfranco Caminiti il 25 gennaio 2020 su Il Dubbio. Oscurati dalla sfida nordista, i calabresi sono orfani dei grandi leader. Figli di un dio minore, i calabresi si sentono da sempre. Ora, poi, che la “questione meridionale” nessuno ha neppure l’ardire di menzionare – figurarsi. Le elezioni regionali qui da tempo immemorabile non hanno il pathos di una svolta drammatica, di un indizio politico di valore nazionale, di un conflitto che annunci una qualche catastrofe o l’aurora di un qualche cambiamento. È una questione di leadership, certo, mica solo dell’essere una regione che “pesa” poco: lontani un secolo, i tempi di Giacomo Mancini, segretario del partito socialista, ministro più volte, voce tonante, uno che “ridisegnò” l’autostrada del Sole per passare da casa sua, a Cosenza, e quindi a bucare montagne e montagne piuttosto che su di un percorso costiero come eserciti di ingegneri avevano pensato, uno che ha fatto Arcavacata, che non è mai stata una università del deserto, ma dove hanno insegnato fior di professori. Lontani un secolo i tempi del dc Riccardo Misasi. È una questione di leadership certo. In Calabria ormai si davano collegi sicuri per qualche leader nazionale, liberandone altri altrove; l’ultimo fu per Rosi Bindi che da commissario antimafia giurò ai calabresi: sarò sempre qui, al vostro fianco. Chi l’ha vista mai? Essere capitati “in accoppiata” con le elezioni in Emilia- Romagna è stato il colpo di grazia. D’altronde – se è lecito pensare che una vittoria del centro- destra e della Lega di Salvini in Emilia potrebbe avere non solo un forte significato simbolico ( la regione più rossa che c’è che passa alla destra, uau) ma anche una “ricaduta” sul governo, perché ne dimostrerebbe la sua minoritarietà sociale e politica, a chi mai dovrebbe venire in mente che una strabordante vittoria in Calabria del centro- destra e di Salvini potrebbe costringere il governo a dimettersi? Eppure, la distrazione di massa dell’attenzione politica dalla Calabria è stata un peccato, perché qui si sono andati consumando vari ‘ drammi’. Tutto comincia quando si pensa di replicare alle regionali il governo PD- 5S, a partire dall’Umbria. In Calabria storcono il muso. Il PD calabrese manda addirittura una nutrita delegazione a Roma, dopo aver raccolto firme, che dice a Zingaretti: decidono i territori. Ma sono entrambi gli alleati riottosi a non volere il patto: in Calabria, PD e 5S proprio non si sopportano, fisicamente. Così, entrambi accendono i ceri a Padre Pio perché in Umbria vada male, e in Umbria va male. Si riaprono i giochi. Relativamente. Il PD ha già da tempo scaricato il governatore uscente, Mario Oliverio. È stato più volte sotto inchiesta giudiziaria promossa dalla procura di Catanzaro, cioè da Gratteri, con accuse fino all’associazione a delinquere, ma processo dopo processo le cose si ridimensionano sempre. Oliverio vuole ricandidarsi. Va tenuto conto che il PD in Calabria è commissiarato, e il commissario dice, non se ne parla proprio, a Roma abbiamo deciso così. Si voleva dare ai 5S una contropartita, togliendo di mezzo un nome indigeribile ai pentastellati. Circolano anche i primi nomi civici per una possibile intesa, tra i quali l’industriale del tonno Pippo Callipo, che però fiuta subito l’aria e manda a dire, no grazie non mi interessa proprio. Solo che Mario Oliverio decide di candidarsi comunque e trova pure un pezzo di centro- sinistra pronto a sostenerlo. Intanto, anche tra i 5S si consuma un altro dramma: Dalila Nesci, parlamentare, si vuole candidare, ma Nicola Morra, suo compagno di partito e presidente Commissione antimafia, dice che in Calabria forse si deve aspettare un giro, perché la Calabria è speciale e quindi ci vuole una politica speciale, il che lascia intendere che la Nesci non abbia proprio nulla di speciale. All’inizio, sembra questa la linea che prevale lì dove i 5S decidono: saltare un giro. D’altronde, tutti i sondaggi sono per loro catastrofici, e invece che “certificarlo” con il voto, funzionerebbe meglio una sorta di suicidio politico collettivo. Anche il centro- destra però si dilania: Berlusconi aveva già il suo candidato, Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza. La Calabria, nella spartizione del centro- destra, appartiene a Forza Italia. Ma Salvini storce il muso: Occhiuto è stato lambito da inchieste. Berlusconi insiste, Salvini insiste. Allora, Berlusconi ha il lampo di genio: candidiamo il fratello di Occhiuto, che, per la verità, non è un emerito sconosciuto, ma un politico di lungo corso e ora vicegruppo di Forza Italia. Senonché, a sto punto, i due Occhiuto diventerebbero una potenza senza contrappesi in Calabria, l’uno governatore regionale e l’altro sindaco di Cosenza, e tutto a vantaggio di Cosenza e a scapito delle altre province. Allora, il sindaco di Catanzaro, Abramo, dice minacciosamente che non va bene così. Poi, a un certo punto, le cose si incastrano: Pippo Callipo scende in campo per il centro- sinistra – con l’investitura di Zingaretti e Mario Oliverio, commosso dalle parole del segretario del PD, fa un passo indietro. Mimmo Lucano, che da Riace era finito sulle copertine dei magazine di tutto il mondo, dice che no, che Callipo non lo voterà, perché è sempre stato un uomo di destra, e piuttosto si astiene. E Mimmo Lucano è uomo d’onore. I Cinquestelle decidono sulla piattaforma Rousseau di fare una lista, e nominano loro testa di serie il prof di Arcavacata Francesco Aiello, che neanche è nominato e già è un’anatra zoppa, dopo che si è scoperto che ha una casona abusiva, di cui non ha mai inteso né intende abbatterne le parti ‘ fuori misura’; e poi viene attaccato dal solito Nicola Morra per via di una parentela con un signore morto per ndrangheta. In più lo stesso Aiello non dev’essere tanto convinto: contravvenendo al bon ton, decide di mettersi anche in lista come candidato, perché per la legge regionale solo i primi due candidati a governatore entrano di diritto in Consiglio, e Aiello sa bene che non andrà sul podio ma se superano la soglia del 5 percento un posticino forse lo prende. Anche a destra le cose si sistemano: Mario Occhiuto fa un passo indietro – non presenterà proprie liste per le regionali in Calabria, e favorisce l’unità del centro- destra. Gliel’ha chiesto personalmente in persona Silvio Berlusconi e, si sa, non si può resistere ai moti del cuore. Occhiuto ha scritto una bella lettera commovente ai suoi sostenitori. Anche Mario Oliverio nel fare un passo indietro ha scritto una bella lettera commovente ai suoi sostenitori. È tutto un fare passi indietro in Calabria. È tutto un moto del cuore. Il candidato del centro- destra è Jole Santelli, che iniziò a sinistra la sua carriera di avvocato, con Tina Lagostena Bassi e Vincenzo Siniscalchi, per poi diventare l’enfant prodige di Cesare Previti che la portò in politica e in parlamento. È la cocca di Berlusconi ma anche di Salvini, e ha mutuato la propria biografia nella composizione delle liste, che sono zeppe di ex- centrosinistra in cerca di uno strapuntino di riconferma a destra. D’altronde, ogni conversione è legittima, per carità. Jole Santelli rischia di fare i botti. Magari non arriva al 61,4 percento che prese Mario Oliverio nel novembre 2014, ma di sicuro andrà intorno o sopra il 49,79 dei 5stelle in collegio plurinominale Calabria 1 del marzo 2018. Come sia stato possibile in cinque anni bruciare quel patrimonio ( e anzi, la stessa persona) di Oliverio rimane un mistero. E un mistero rimane come si sia liquefatto il movimento 5S, per il quale un elettore su due – una cifra impressionante – aveva votato nel marzo 2018. Cosa c’è ancora? Beh, c’è la lista civica di Carlo Tansi, che viene anche lui dall’Università della Calabria e tra il 2015 e il 2018 ha diretto la Protezione Civile della regione da cui andò via tra gran polemiche. Le sue liste sono zeppe di professori, medici, insegnanti – la “società civile” stanca della casta, che prova a recuperare l’elettorato cinquestelle. E poi le sardine che, però, nonostante la mediaticità muovono davvero poco i voti e le piazze – mica siamo in Emilia. Che d’altronde sono rimaste desolatamente vuote, in una campagna elettorale che mai s’è vista. Tutti si aspettano che il tasso di astensionismo sia molto alto. Tutti guardano all’Emilia Romagna. Anche gli elettori calabresi.

Il consigliere del Papa attacca: "La Calabria? È senza speranza". Il gesuita Bartolomeo Sorge commenta i risultati elettorali delle regionali. L'Emilia Romagna è "benestante" e "guarda al futuro". La Calabria invece è "senza speranza". Giuseppe Aloisi, Martedì 28/01/2020 su Il Giornale. Una parte di Chiesa cattolica tifa per il centrosinistra. E questo è un dato certo. Ma padre Bartolomeo Sorge, gesuita, parteggia in maniera palese o quasi. In uno dei suoi ultimi tweet, il consacrato, che in passato ha diretto La Civiltà Cattolica, ha scritto quanto segue sull'esito delle elezioni regionali: "Due Italie. EMILIA ROMAGNA: benestante, guarda al futuro, rinvigorita dalla linfa nuova delle “sardine”. CALABRIA: ferma al palo, si affida al congenito antimeriodalismo della Lega, senza speranza". La vittoria di Stefano Bonaccini, del Partito Democratico e delle "sardine" è sinonimo di apertura al futuro. Quella di Jole Santelli e del centrodestra nella terra calabrese rappresenta tutt'altro. L'analisi di Sorge, dal punto di vista progressista, è cristallina, mentre la Calabria nella disamina del gesuita è appunto "ferma al palo". Un consacrato può prendere una posizione di questo tipo? La domanda è iniziata a circolare negli ambienti sin dalla comparsa del tweet. Ma Sorge aveva già specificato quali fossero le sue preferenze elettorali. Quasi in contemporanea con l'esordio delle "sardine" a Bologna, del resto, il padre gesuita aveva equiparato il movimento anti-Salvini con lo spirito dei primi cristiani. Il simbolo, ossia un pesce, è lo stesso. Altri ecclesiastici italiani ritengono che l'associazione tra i " primi cristiani" e le "sardine" rappresenti un insulto al sangue dei martiri, ma tant'è. Padre Bartolomeo Sorge si era espresso così: "Il pesce delle piazze di oggi (le “sardine”) è - come il pesce dei primi cristiani (IXTHYS) - anelito di libertà da ogni “imperatore” palese o occulto". Quando le "sardine" sono scese per la prima volta in una piazza di Roma, poi, padre Bartolomeo Sorge aveva commentato trionfante sempre via social: "Da BOLOGNA a ROMA : dal “pesce” come simbolo e segno (JXtus) alla nuova moltiplicazione dei “pesci”: “siamo in 100.000!”. L'analisi post-elettorale fa dunque parte di un filone che dura da mesi. Vale la pena sottolineare come non tutta la Chiesa cattolica voglia schiacciarsi sulle istanze delle "sardine" e del centrosinistra. Un altro sacerdote, padre Francesco Sollazzo, che abbiamo di recente intervistato, ha dichiarato in relazione al manifesto programmatico delle sardine che: " La pretesa, opponendosi al principio di partecipazione, è una vera e propria forma di violenza che non può essere tollerata, ma rigettata da tutte le componenti sociali che operano nell’orizzonte politico del Paese".

Dagospia il 29 maggio 2020. Da Un Giorno da Pecora. ”Purtroppo nonostante l'appello dell'altra volta Brad Pitt...non si è fatto sentire”. La governatrice della Calabria Jole Santelli, oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha scherzato così coi conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, che nel precedente collegamento le avevano chiesto quale fosse il suo uomo ideale. In questa Fase 2 c'è qualcuno che la sta corteggiando? “Con tutto il rispetto per l'età, quelli che mi corteggiano drammaticamente sono tutti sopra gli 80 anni, io vado forte dopo i 75 anni”. Per farlo le scrivono sui social? “Non solo, anche via lettera, mi arrivano anche a casa. E c'è anche qualcuno che si è dichiarato. Ma preferisco restare single...”

Jole Santelli, la malattia che deve affrontare la Presidente della Calabria. Anna Sironini il 27/01/2020 su Notizie.it. Dopo la vittoria alle elezioni regionali in Calabria del 2020, Jole Santelli dovrà ora affrontare una battaglia più dura: quella contro la malattia. Le elezioni regionali in Calabria del 26 gennaio del 2020 hanno visto come vincitrice la candidata del centro destra Jole Santelli, che ha superato di gran lunga l’imprenditore Filippo Callipo ma che ora oltre al governo della sua regione dovrà affrontare anche la dura battaglia contro la malattia. La Santelli è infatti attualmente in cura nella sua Calabria ed è stato anche per questo che inizialmente vi erano stati dei tentennamenti nell’accettare la candidatura. La neo presidente calabrese aveva in precedenza sempre detto che per le cure si sarebbe affidata alla sanità pubblica della sua regione: “Non ho mai nascosto la mia malattia, qui tutti sanno, non voglio neanche però che essa mi perseguiti. Io sono in cura presso il reparto di oncologia di Paola. Sorpreso, vero? Da noi ci sono medici eccellenti. Le eccellenze in un mare di incompetenza, clientelismo, ignavia annegano come sassolini nello stagno. Lo so, tante cose non vanno. E io proverò a cambiare”. Parlando poi di come il tumore l’abbia spinta a reagire accettando di buon grado la nomina a candidata governatrice per il centrodestra, la Santelli ha dichiarato: “Quando una persona subisce un attacco così violento alla propria vita, quando il dolore fisico si fa radicale e incomprimibile, allora quella persona ha due strade: deprimersi e farsi portare via dalla corrente, scegliere che il destino scelga per lei. Oppure attivarsi, concentrarsi e soprattutto ribellarsi“. La Santelli ha poi raccontato un aneddoto che dà la giusta misura di come una malattia quale può essere un tumore possa essere un terzo incomodo non indifferente nella vita di una persona: dalle azioni più banali alle decisioni che valgono una vita intera: “Quando Silvio Berlusconi mi offre la candidatura ringrazio felice, ma chiedo due minuti prima di accettare. Chiudo la telefonata e formo il numero del mio oncologo: posso candidarmi? Posso onorare il mandato quinquennale? Il medico risponde: non solo puoi candidarti ma mi auguro che io possa essere il tuo consulente negli anni della presidenza”.

Berlusconiana della prima ora combatte cancro e ingiustizie. Avvocato, scrisse il programma azzurro con Pera. È stata sottosegretario alla Giustizia e al Lavoro. Sabrina Cottone, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. Prima di accettare la proposta di Silvio Berlusconi di correre per la presidenza della Regione Calabria, Jole Santelli ha telefonato al suo oncologo, un medico di Paola, che le ha dato il via libera. Sulla carta un'anticandidata. Cinquantun anni compiuti il 28 dicembre scorso, nata a Cosenza, non sposata e senza figli, non si è votata perché risiede altrove, in silenzio elettorale fin dai primi giorni di gennaio anche a causa di una tracheite che l'ha resa praticamente afona, non ha mai nascosto la malattia. Meno che mai durante la campagna elettorale, tanto che gli avversari l'hanno accusata di utilizzarla per ottenere consenso. Lei, che in Calabria oggi tutti chiamano «Jole», alle polemiche è abituata sin dal debutto in politica da forzista della prima ora, quando invece la chiamavano «la ragazza» e non per farle i complimenti. La sua biografia, oltre che dal suo sito, dalle dichiarazioni nel corso della campagna e dai racconti chi la conosce, si ricostruisce anche da un colloquio su Sette con Claudio Sabelli Fiorettial quale confessò, tra l'altro, la sua passione per il Garofano e in particolare per Claudio Martelli, oltre che per Giacomo Mancini, «una specie di zio». Passione per la politica nata in casa, tra la mamma dc e il padre socialista, con il nonno un po' fascista che a quattro anni la portava ai comizi di Berlinguer e Almirante. Legata alla famiglia, alle due sorelle e ai loro figli, a Cosenza abita ancora nel palazzo in cui è cresciuta. Laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma a ventun anni, avvocato, pratica legale con Vincenzo Siniscalchi, quindi con Tina Lagostena Bassi, è transitata per otto mesi nello studio di Cesare Previti prima di arrivare all'ufficio legislativo del gruppo di Forza Italia al Senato. Fianco a fianco per cinque anni con Marcello Pera, con il quale stese il programma giustizia di Forza Italia. Relazioni importanti, da Beppe Pisanu a Claudio Scajola, la frequentazione del salotto romano di Maria Angiolillo, dove sedeva con Gianni Letta e consorte, con Bruno Vespa e la moglie Augusta Iannini, magistrato, con il leghista Roberto Castelli, del quale è stata sottosegretario alla Giustizia. Raccontò di aver conosciuto personalmente Berlusconi nel 1997: aveva scritto un testo sulla giustizia e lo diede da leggere a Letta che lo passò al Cavaliere. Da lì il cursus honorum: parlamentare dal 2001, sottosegretario alla Giustizia con il governo Berlusconi e poi al lavoro con il governo Letta, ma anche vicesindaco di Cosenza e coordinatrice regionale di Forza Italia. Amica delle donne del partito: dalla «storica» Mara Carfagna fino a Licia Ronzulli e Francesca Pascale, ha mobilitato per la campagna anche Mariastella Gelmini. Di lei dicono che sia un amante del bello e una cuoca sopraffina e che ha promesso al suo staff di cucinare un pranzo a base di braciole al sugo, pasta fatta in casa e melanzane grigliate. Ha battuto la Calabria palmo a palmo e forse così è riuscita a recuperare sul fronte di un'altra accusa con cui ha dovuto combattere: quella di essere impegnata più sui tavoli nazionali che locali. Lei ha provato a ribaltare l'argomento a proprio favore, spiegando che proprio questo l'avrebbe aiutata a risolvere questioni annose come le difficoltà del porto di Gioia Tauro e l'alta velocità fino a Reggio. Berlusconiana doc, da sottosegretaria diceva che ogni volta che lo vedeva tornava «rincretinita e ricaricata». Lui l'ha ricambiata con quella frase scherzosa che ha fatto tanto scalpore ma che Jole Santelli ha gradito: «Non me l'ha mai data».

Jole Santelli, la calabrese rock dopo la vittoria alle regionali: «Anche da noi l’Alta Velocità». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. La neo presidente della regione Calabria Jole Santelli: «Dedico la vittoria ai miei genitori». «Abbiamo vinto a mani libere». Ha gli occhi lucidi e la voce ridotta a sibilo, ma ride, «felicissima», quando nella sala conferenze del Thotel di Lamezia, in giacca grigia, camicia bicolore e pantaloni rossi in pelle, per festeggiare la vittoria, Jole Santelli, 51 anni, cosentina, ex sottosegretario alla Giustizia e al Lavoro e deputata di Forza Italia. Circondata dall’affetto e dalla voglia dei colleghi azzurri di essere nella foto ricordo del successo che fa da contrappeso alla sconfitta della Bergonzoni e riequilibra i rapporti di forza con la Lega. Lei dedica la vittoria ai genitori scomparsi «che so che sono qui con me». Al «nipotino che come tutti i bambini e i ragazzi calabresi ha il diritto di avere la possibilità di tornare». Festeggia con gli amici di Forza Italia Antonio Tajani e Maurizio Gasparri che le sono accanto nel momento della vittoria. «Pronto?». Berlusconi si palesa in collegamento telefonico, e tira una stoccata a Matteo Salvini: «Con questo risultato FI certifica il radicamento diffuso e il suo ruolo insostituibile». Con lei, aggiunge, «la Calabria diventerà l’emblema non più del malaffare, ma delle eccellenze. Ora tutte le daremo una mano per far risollevare la Calabria». Lei annuisce, grata e annuncia: «Parte il riscatto del Sud». Una sfida che ha portato avanti con entusiasmo disarmante, dicendo nei comizi: «La Calabria con me sarà tutta un’altra storia, la mia Calabria sarà protagonista». E persino: «La mia sarà una Calabria rock. La voglio veloce: dobbiamo avere anche noi l’Alta velocità. Efficiente: con una sanità che funzioni. E che punti sulla cultura e sul turismo messo a sistema, capace di valorizzare spiagge, borghi e le nostre eccellenze gastronomiche. Chiederò alle migliori menti calabresi che vivono fuori di restituire almeno un giorno al mese del loro tempo per aiutare questa terra». Senza mai pensare alla sconfitta, anzi preparandosi a festeggiare in ogni caso, come poi è successo. «Noi ci siamo divertiti. È stato molto toccante. Bellissimo», diceva la sera prima del voto al suo «cerchio magico»: Antonia Postorigo, penalista cosentina, sua capo segreteria in via Arenula, poi consulente giuridica di 7 ministri; Eva Catizzone, ex sindaco di Cosenza; i due deputati forzisti Francesco Cannizzaro, coordinatore provinciale azzurro e Maurizio D’Ettorre, di Locri, ordinario di diritto, per anni nello stesso studio con il premier Giuseppe Conte («bravissimo, altro che concorso truccato lo avrebbe superato ovunque», dice di lui). È la prima donna presidente della Regione. In Calabria non si era mai neanche ipotizzato. Lei non vuole che si sottolinei: «Non è una vittoria di genere ma di un nuovo modo di vedere. Io sogno una Calabria che creda in sé stessa. Che venga vista non solo nelle sue zone d’ombra (che pure ci sono). Una Calabria a colori». Tra quelle zone d’ombra c’è la ‘ndrangheta. Come salvaguardarsi da infiltrazioni nelle liste? «I miei candidati li conosco tutti, sono stata per anni qui al coordinamento del partito. Per questo le liste le abbiamo chiuse così velocemente». E ricorda ridendo: «Il 23 mattina le abbiamo iniziate. Il pomeriggio ho fatto i tortellini, la notte l’insalata russa. Il 24 mattina erano pronte le liste e la cena di Natale». Subito dopo è iniziata la corsa per battere Pippo Callipo, l’imprenditore del tonno che ieri alla «signora Santelli» ha fatto pesare di non essere residente. «Io la Calabria ce l’ho nel cuore», ha risposto lei, che non ama conflitti. L’unica polemica, venuta da fuori, sulla battuta di Berlusconi («la conosco da 26 anni e non me l’ha mai data») l’ha liquidata sorridendo. Se però le si dice che la Calabria è una terra maschilista replica: «Qui c’è il vero matriarcato. È vero che gli uomini sono maschilisti, ma è vero pure che fanno sempre quello che dice la madre».

(ANSA il 6 marzo 2020) - "Da carabiniere dopo 42 anni di Servizio pensavo chissà cosa dirò quando lascerò l'Arma dei Carabinieri. Poi ti ci trovi e non dici niente. Sì, in fondo ho parlato già". Il colonnello Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che arrestò Totò Riina, si congeda con questo tweet dall'Arma. Non è ancora un addio formale perché De Caprio, come appreso dall'ANSA, è ora in aspettativa, dopo essere stato nominato assessore alla Regione Calabria, ma tra un anno dovrà comunque lasciare l'uniforme per limiti d'età.

Il neo-governatore Santelli “arruola” il Capitano Ultimo: sarà l' assessore all’Ambiente della Regione Calabria. Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2020. A De Caprio è stata assegnata una delega “pesante” e delicata, sopratutto in una regione come la Calabria, quella di assessore all’Ambiente. Una cosa è certa: adesso qualcuno in Calabria ha finito di fare affari sporchi con l’ambiente. ROMA – ‘‘Ecco il nostro assessore all’Ambiente…”. La governatrice della Regione Calabria Jole Santelli In una affollata sala stampa di Montecitorio  ha fatto entrare, a sorpresa, il colonnello Sergio De Caprio, alias ‘Capitano Ultimo’ annunciando la sua nomina ad assessore all’Ambiente. Un grande colpo quello del nuovo governatore Jole Santelli nella formazione della sua Giunta regionale della Calabria, nel riuscire a convincere il colonnello Sergio De Caprio, 59 anni, più noto a tutt’ Italia come “Capitano Ultimo”, ad assumere l’incarico di assessore. A De Caprio è stata assegnata una delega “pesante” e delicata, sopratutto in una regione come la Calabria, quella di assessore all’Ambiente. Adesso affinchè l’incarico diventi operativo si attende solo il nulla osta dell’ Arma dei Carabinieri, alla quale “Ultimo” ha dedicato praticamente tutta la sua vita. L’ufficiale dell’ Arma dei Carabinieri nel ’93 ha arrestato il “capo dei capi” Totò Riina, si è presentato con il volto coperto ed è guardato a vista dagli uomini della sua scorta,  come avviene ormai da oltre due decenni, da un lato per poter meglio svolgere i propri compiti investigativi dall’altro per garantire la propria incolumità di fronte alle numerose minacce di morte subite. Ultimo si è seduto accanto a Santelli e prendendo la parola ha promesso: ”Il mio obiettivo è tutelare l’autodeterminazione delle comunità calabresi senza l’interferenza e le manipolazioni delle mafie di ogni tipo"‘. Scatta l’applauso dei presenti e i flash dei fotografi. ”Sono emozionato, è un incarico di grande responsabilità e lo affronteremo in squadra secondo i principi di sempre”, garantisce l’ex capo dell’unità Crimor dei Carabinieri, che ha ringraziato tutti mettendosi la mano sul cuore aggiungendo ”ringrazio il presidente della Regione che mi dà il privilegio di servire il popolo calabrese e lo farò con la forza e l’amore che ho nel cuore” per poi lasciare rapidamente la sala con i suoi angeli custodi della scorta. La Santelli giustamente entusiasta: ”Capitano Ultimo ha accettato la mia offerta qualche giorno fa. Sono molto contenta per la mia Regione. Si prenderà l’aspettativa”. Il neo assessore non avrà problemi di ordine pubblico?, ha chiesto un cronista. ”No, Capitato Ultimo non ha nessun problema di ordine pubblico, lavorerà tranquillamente, potrà uscire e muoversi con la scorta”, assicura la Santelli che poco prima aveva mostrato in diretta tv il decreto di nomina di De Caprio. De Caprio, dopo l’Accademia Militare della Nunziatella, è entrato nell’Arma  ed  tra l’altro, oltre a mettere a segno il famoso arresto di Totò Riina, ha anche servito per 15 anni nel reparto speciale del Noe, il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri, sviluppando anche una specifica, profonda competenza sull’ambiente, contrastando la criminalità organizzata contro la quale ha svolto numerose indagini. Capitano Ultimo è diventato noto negli anni di attività in Sicilia per aver personalmente stretto le manette ai polsi di Totò Riina, anche se proprio a quell’indagine  deve anche un’inchiesta per favoreggiamento a Cosa Nostra. Rinviato a giudizio per non aver comunicato la sospensione del servizio di osservazione sul covo del boss dopo l’arresto insieme al generale Mario Mori, il comandante del Ros, De Caprio è stato prosciolto insieme al suo superiore “perché il fatto non sussiste”.  Dopo qualche anno trascorso nel Ros, è stato trasferito al Noe, poi prestato all’ Aise (i servizi segreti interni) , quindi nuovamente rientrato all’Arma dei Carabinieri. Negli ultimi anni, il suo nome è tornato in auge per il caso Consip, o meglio per le polemiche che ne sono scaturite per la fuga di notizie che ha svelato l’informale ma irrilevante collaborazione tra la squadra di “Ultimo” all’ Aise e i suoi vecchi colleghi del “Noe“, all’epoca impegnati nell’inchiesta che ha coinvolto Tiziano Renzi, sul quale proprio  ieri il gip ha disposto nuove indagini. La Santelli intervenendo ha ricordate come l’ambiente rappresenti per la Calabria un serbatoio di enormi potenzialità. Opportunità troppo spesso, però, lasciate inespresse anche per via dell’incidenza della criminalità organizzata. Dal tema dei rifiuti, in cui le mafie sguazzano, a quello della depurazione delle acque e delle bonifiche, fino alla valorizzazione delle aree protette, il colonnello De Caprio ha accettato un incarico per il quale già esiste una fitta agenda di lavoro. Ed adesso spetta a lui dettare un inteso ruolo di marcia. “A scanso di equivoci, ricordo che De Caprioè anche cittadino calabrese, in quanto cittadino onorario del Comune di Orsomarso (Cosenza)” ha aggiunto la Santelli che dalla Capitale ha fatto saper che “per almeno tre giorni alla settimana lavorerò dagli uffici romani perché è importante che la Calabria torni a dialogare con lo Stato e sia presente a tavoli strategici, così da assicurare un rapporto costante con tutti gli organismi istituzionali presenti nella Capitale, in particolare con il governo e il Parlamento“. Una cosa è certa: adesso qualcuno in Calabria ha finito di fare affari sporchi con l’ambiente. E si renderanno conto realmente chi è “Ultimo“. A cui facciamo i nostri più sinceri auguri di buon lavoro. L’ Italia ha ancora bisogno di lui.

Capitano Ultimo assessore in Calabria, non pervenuti Saviano, Don Ciotti e Di Matteo. Luca Proietti Scorsoni de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. E così accade che Jole Santelli (a proposito: chapeau!) cala un asso mica male con la nomina del Capitano Ultimo ad assessore regionale i paladini della legalità d’un tratto diventano afoni. Ora, intendiamoci, approvazione o meno da parte di costoro la sostanza politica della questione non cambia di molto però ecco: c’è questo particolare, se volete pure marginale, ma assai interessante: come mai i professionisti dell’antimafia (copyright Sciascia) rimangono silenti di fronte a questo scatto d’orgoglio della nuova giunta calabrese? La neo governatrice forzista mette a segno un colpo di tutto rispetto e, tanto per non fare nomi, Don Ciotti non pervenuto, Saviano idem, Di Matteo pure. Ergo, preti, giornalisti, magistrati, intellettuali, ovvero quanto di meglio la “famigerata” società civile è riuscita a mettere in campo contro la malavita organizzata, non ha proferito verbo ad un segnale importante, oltre che coraggioso, fornito da una classe politica meridionale per anni, e spesso a ragione, bersaglio degli strali di una certa intellighenzia, i cui esponenti ho menzionato poc’anzi. E quindi, vuoi perché la retorica resistenziale diviene poca cosa davanti a colui che le mafie le ha combattute non facendo diventare famoso il proprio volto ma celando questo agli sguardi del mondo; vuoi perché la Santelli ha il difetto d’origine di appartenere a Forza Italia che, nonostante i straordinari successi ottenuti contro le associazioni malavitose durante gli anni dei governi Berlusconi, un certo mainstrem ha sempre tacciato di contiguità e ambiguità con camorra, ‘ndrangheta e derivati; vuoi insomma per questi e/o per altri motivi certo è che Libera s’è fatta assolutamente tacita. E con lei molti altri che frequentano lo stesso circolo ideologico. Al che viene da pensare che in fondo le Sardine non sono poi così male: per quante banalità dicano, infatti, sono talmente inconsapevoli di quanto accade attorno a loro che non possono di certo essere tacciate di ipocrisia.

Dal profilo Linkedin di Francesco Bonazzi il 20 novembre 2020. Nicola Morra ha detto la verità. In campagna elettorale tutti sapevano che la povera Santelli era malata terminale e a un certo punto ci fu anche una fuga di notizie pilotata sul Corriere sul suo tumore, per evitare che ci fossero speculazioni. E la cosa vergognosa è che certi soloni calabresi che oggi sdottoreggiano e hanno pianto ai funerali, si accordavano alle sua spalle sulla "transizione" e sulle vicepresidenze mentre lei era ancora viva. Sono questi che si dovrebbero dimettere, oggi. Perché di giorno facevano campagna elettorale "per Jole" e di notte trattavano con gli altri partiti il "dopo-Jole", tra un assessorato e una vicepresidenza. Un vero schifo, senza colore e senza appartenenza politica. Solo e semplice schifo.

Da leggo.it il 20 novembre 2020. Nicola Morra, esponente del Movimento 5 Stelle e presidente della commissione parlamentare Antimafia, ha scatenato un putiferio. Una frase choc rilasciata a Radio Capital nei confronti di Jole Santelli - la presidente della Regione Calabria scomparsa lo scorso 15 ottobre in seguito a una terribile malattia - ha provocato le reazioni feroci dell'opposizione con Salvini, Tajani e Meloni che ne chiedono le dimissioni. «Sarò politicamente scorretto - ha dichiatato Morra - era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c'era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev'essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso». Morra aveva iniziato l'intervento parlando di Domenico Tallini, presidente del Consiglio regionale della Calabria arrestato per presunti rapporti tra politici locali e 'ndrangheta. «Tallini è stato il più votato nel collegio di Catanzaro, se non il più votato in Calabria. È la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita». Ha affermato Nicola Morra. «La Calabria è irrecuperabile - ha detto ancora Morra - lo è fin quando lo Stato non affronterà la situazione con piena consapevolezza». «Le parole del presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra su Jole Santelli sono indegne. E rappresentano un'offesa per tutti i malati oncologici. Non gli restano che le dimissioni». Lo scrive su Twitter Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia. «Parole vomitevoli. Chiedo le immediate dimissioni di questo deficiente. Sbaglio? Un pensiero per la cara Jole Santelli». Lo scrive su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini, riferendosi alle parole del presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra. «Questo signore, oltre che essere un parlamentare della Repubblica italiana è anche presidente della commissione parlamentare Antimafia. Indegno, dimettiti». Lo scrive su Facebook Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, commentando le parole di Nicola Morra nei confronti di Jole Santelli. «Salvini ed altri esponenti del Centrodestra chiedono le mie dimissioni facendo un truffaldino taglia e cuci di mie dichiarazioni, strumentalizzandole. Nel giorno in cui Domenico Tallini, di Forza Italia, viene arrestato per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, per un business che la 'Ndrangheta ha fatto nell'ambito della Sanità - infatti era stato messo nella lista degli impresentabili - guarda caso parte un attacco nei miei confronti, basato sul nulla». Così, su Facebook, il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, intervenendo sulle dichiarazioni sulla presidente della Calabria Jole Santelli, spentasi lo scorso 15 ottobre scorso per un cancro incurabile. «Riporto qui una fonte in merito a ciò che realmente ho detto oggi in radio. Repubblica riporta l'audio della mia intervista con le mie dichiarazioni. Ho parlato di dati di fatto. Se poi qualcuno vuole fare il taglia e cuci come fosse il vestito di Arlecchino faccia pure, ma non è informazione, non è giornalismo, non è verità», conclude Morra.

Federico Capurso per “la Stampa” il 22 novembre 2020. Quando Rai 3 ha comunicato al senatore Morra che non avrebbe potuto partecipare al programma Titolo Quinto per le sue frasi su Jole Santelli, il mondo grillino si è indignato. «La Rai si ricordi di essere servizio pubblico», Paola Taverna. «Scelta infelice», Vito Crimi. «Qualcuno in Rai pensi a dimettersi», Alessandra Maiorino. D' accordo, ma "qualcuno" chi? Contro chi si scaglia la loro furia? Perché se si riferiscono al direttore di Rai 3, allora parlano di Franco Di Mare. Lo stesso Di Mare che nel maggio scorso venne sponsorizzato dal ministro Vincenzo Spadafora. Lo stesso Spadafora del Movimento.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 22 novembre 2020. Bufera sul presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra per le parole rilasciate sulla ex presidente della regione Calabria Jole Santelli, morta il 15 ottobre scorso: «Sarò politicamente scorretto, era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c' era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev' essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso». Morra aveva iniziato l' intervento commentando l' arresto del presidente del consiglio regionale della Calabria, accusato di aver favorito la 'ndrangheta: «Tallini è stato il più votato nel collegio di Catanzaro, se non il più votato in Calabria. È la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita». Non staremo qui ad aggiungere altra indignazione all' indegna frase che ha costretto poi il grillino a chiedere scusa, sia pure a denti stretti e in modo pretestuoso (e ha anche il coraggio di lamentarsi!). Non si tratta di scorrettezza politica ma di mancanza di sensibilità e di galateo istituzionale. Su una cosa Morra però ha ragione: questa è la classe politica che ci meritiamo. È la democrazia. In molti lo hanno votato.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 22 novembre 2020. Prima il Morra da censurare, poi quello censurato dalla Rai che veste i panni della vittima, chiedendo conto ai vertici di viale Mazzini del perché al figlio di Riina sia stato concesso quel passaggio in tv che a lui è stato negato. E aggiunge altra benzina sul fuoco, sostenendo che la sua «delegittimazione» è parte di una strategia riservata a chi «dia fastidio» alla mafia. Quanto è bastato a Salvini per partire all' attacco: «Secondo Morra ha detto ieri il leader del Carroccio - chi ha chiesto le sue dimissioni sarebbe amico della mafia. A nome di milioni di italiani perbene querelo questo cretino». Prosegue insomma sempre su toni sopra le righe la polemica per le affermazioni del presidente della Commissione antimafia Nicola Morra sugli elettori calabresi e sulla malattia della governatrice Jole Santelli, scomparsa poco più di un mese fa. E la bagarre intorno al senatore a Cinque stelle adesso si arricchisce di nuovi elementi, dopo la decisione della Rai di fermare all' ultimo minuto la partecipazione del politico pentastellato, venerdì sera, alla puntata di Titolo V, su RaiTre. E così se a caldo quelle frasi avevano sollevato un polverone trasversale, spingendo tanti a censurare il suo comportamento e a chiederne le dimissioni, e persino il «suo» M5s a prendere le distanze dal proprio esponente, ieri a finire nel mirino per la decisione di non far entrare in studio Morra invitato tre giorni prima, già negli uffici Rai di Napoli, microfonato e in attesa di collegarsi è stata proprio la tv di Stato. Che, di fronte alle accuse di censura, si è difesa con una nota, spiegando che di fronte alle polemiche di venerdì, «pur nella consapevolezza della difficoltà di prendere una decisione che sarebbe stata comunque controversa, ha preferito adottare una linea di massima prudenza e tutela ed evitare di alimentare le molte polemiche che si stavano sviluppando su un tema così complesso». Viale Mazzini stigmatizza poi «le modalità con le quali è stata comunicata questa decisione» dallo stesso Morra, assicurando che lo stesso avrà «altre opportunità» in Rai «per esprimere il suo punto di vista», ma ormai la stura al nuovo capitolo è stata data. E stavolta anche molti esponenti a Cinque stelle dalla senatrice Laura Bottici al deputato calabrese Giuseppe D' Ippolito - si schierano con Morra, e pure il segretario della commissione di Vigilanza, Michele Anzaldi di Italia Viva, spiega di «non schierarsi con Morra ma con il giornalismo e con la libertà di informazione». Anche i vertici di Fnsi e Usigrai, pur provando «il più profondo disgusto» per le parole di Morra sulla Santelli, definiscono «un errore, nei modi, nei tempi e nel merito» la decisione di viale Mazzini. Così lo stesso Morra, che due giorni fa si era scusato (seppur in modo controverso), ieri a Omnibus, su La7, riguardo alla sua esclusione da Titolo V la mette giù leggera: «Quando dai fastidio alla mafia - dice - vieni infangato». A quel punto Salvini, come detto, annuncia querela, la Lega e Fratelli d' Italia annunciano che diserteranno i lavori in antimafia finché sarà il senatore M5s a presiederla, e pure il vicepresidente di Fi Antonio Tajani taglia corto: Morra «non può occupare quell' incarico» perché «continua a offendere la memoria di Jole Santelli e quella di tutti i malati che non dovrebbero svolgere ruoli elettivi».

Mattia Feltri per “la Stampa” il 21 novembre 2020. Sono sinceramente stupito dalla sarabanda sollevata da Nicola Morra. Va a radio Capital e dice una cosa su Jole Santelli, morta da poche settimane, sul fatto che i calabresi non dovevano votarla, non so se per la malattia, il cancro, o per il partito, Forza Italia. Ho ascoltato la frase quattro o cinque volte e non ci ho capito nulla. Eppure Morra è uno che sa usare le parole, è laureato, ha insegnato al liceo, cita Aristotele, Max Weber, Jacques Maritain, ragione per cui è molto stimato fra i cinque stelle. Ieri, per esempio, per ricondurre la discussione sui piani di una dialettica attualistica si è offerto di «riverginare l'imene». Già un altro passo. Un' altra lucidità. L'ho sentito, negli anni, dissertare sulla «biodiversità» del movimento, su sé stesso «politicamente castrato» prima di imbattersi in Beppe Grillo, cioè «nell' attesa degli esiti della maieutica». Ecco, questo è il Morra che conosco. Il Morra issato sul piedistallo del sapere e della loquela. Quando si decide di andare al governo, lui telefona al garante preoccupato che si sconvolga «l' ontologia» del Movimento. In Parlamento avverte che bisogna dire la verità, ma «gnoseologicamente». Si scaglia contro le «prolisse omelie mistificatorie» degli «epistemologi». Invita a «denudarsi delle sovrastrutture», ad amare la famiglia nel «senso della trascendenza», ad acquisire una «mentalità tomistica», ad affrontare il Covid distinguendo «doxa ed episteme», insomma, a praticare «la vera politica che sposa come euristica dell' agire la procedura del confronto». Mettiamola così, si vede che stavolta l' euristica dell' agire gli è venuta un po' a cazzo.

Dagospia il 20 novembre 2020. Dal profilo Linkedin di Francesco Bonazzi. Nicola Morra ha detto la verità. In campagna elettorale tutti sapevano che la povera Santelli era malata terminale e a un certo punto ci fu anche una fuga di notizie pilotata sul Corriere sul suo tumore, per evitare che ci fossero speculazioni. E la cosa vergognosa è che certi soloni calabresi che oggi sdottoreggiano e hanno pianto ai funerali, si accordavano alle sua spalle sulla "transizione" e sulle vicepresidenze mentre lei era ancora viva. Sono questi che si dovrebbero dimettere, oggi. Perché di giorno facevano campagna elettorale "per Jole" e di notte trattavano con gli altri partiti il "dopo-Jole", tra un assessorato e una vicepresidenza. Un vero schifo, senza colore e senza appartenenza politica. Solo e semplice schifo.

Da leggo.it il 20 novembre 2020. Nicola Morra, esponente del Movimento 5 Stelle e presidente della commissione parlamentare Antimafia, ha scatenato un putiferio. Una frase choc rilasciata a Radio Capital nei confronti di Jole Santelli - la presidente della Regione Calabria scomparsa lo scorso 15 ottobre in seguito a una terribile malattia - ha provocato le reazioni feroci dell'opposizione con Salvini, Tajani e Meloni che ne chiedono le dimissioni. «Sarò politicamente scorretto - ha dichiatato Morra - era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c'era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev'essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso». Morra aveva iniziato l'intervento parlando di Domenico Tallini, presidente del Consiglio regionale della Calabria arrestato per presunti rapporti tra politici locali e 'ndrangheta. «Tallini è stato il più votato nel collegio di Catanzaro, se non il più votato in Calabria. È la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita». Ha affermato Nicola Morra. «La Calabria è irrecuperabile - ha detto ancora Morra - lo è fin quando lo Stato non affronterà la situazione con piena consapevolezza». «Le parole del presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra su Jole Santelli sono indegne. E rappresentano un'offesa per tutti i malati oncologici. Non gli restano che le dimissioni». Lo scrive su Twitter Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia. «Parole vomitevoli. Chiedo le immediate dimissioni di questo deficiente. Sbaglio? Un pensiero per la cara Jole Santelli». Lo scrive su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini, riferendosi alle parole del presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra. «Questo signore, oltre che essere un parlamentare della Repubblica italiana è anche presidente della commissione parlamentare Antimafia. Indegno, dimettiti». Lo scrive su Facebook Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, commentando le parole di Nicola Morra nei confronti di Jole Santelli. «Salvini ed altri esponenti del Centrodestra chiedono le mie dimissioni facendo un truffaldino taglia e cuci di mie dichiarazioni, strumentalizzandole. Nel giorno in cui Domenico Tallini, di Forza Italia, viene arrestato per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, per un business che la 'Ndrangheta ha fatto nell'ambito della Sanità - infatti era stato messo nella lista degli impresentabili - guarda caso parte un attacco nei miei confronti, basato sul nulla». Così, su Facebook, il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, intervenendo sulle dichiarazioni sulla presidente della Calabria Jole Santelli, spentasi lo scorso 15 ottobre scorso per un cancro incurabile. «Riporto qui una fonte in merito a ciò che realmente ho detto oggi in radio. Repubblica riporta l'audio della mia intervista con le mie dichiarazioni. Ho parlato di dati di fatto. Se poi qualcuno vuole fare il taglia e cuci come fosse il vestito di Arlecchino faccia pure, ma non è informazione, non è giornalismo, non è verità», conclude Morra.

Goffredo Buccini per il “Corriere della Sera” il 24 novembre 2020. E sì che l' aveva anche imbroccata, tempo fa, l' epistola giusta: «Ritirati in te stesso per quanto puoi», trascrive severo su Twitter a maggio, citando Seneca, settima lettera morale a Lucilio. Invece, tac, altro che seguire l' ammonimento del suo più modesto omologo della Roma imperiale! Il filosofo dell' Italia grillina non resiste al richiamo della folla (e forse della follia) web e, come si dice nella Roma di questi tempi cupi, ci rintigna...Perché, ammettiamolo, quello che colpisce di Nicola Morra è proprio l' intestardirsi, la propensione alla toppa peggiore del buco. Non è, insomma, o non solo, la pessima idea di tirare in ballo, cinque giorni fa su Radio Capital, una defunta (la presidente forzista della Calabria Jole Santelli) per stigmatizzare l' incauto (a suo dire) esercizio del voto di un popolo intero (i calabresi, che l' avevano eletta benché malata di cancro). È il seguito, post dopo post, di metafore, iperboli e allusioni in apparenza volte a scusarsi e spiegarsi: senza successo per l' ex prof del liceo Telesio di Cosenza asceso via meetup ai vertici delle istituzioni. La scelta aventiniana del centrodestra, che da ieri diserta le riunioni della commissione Antimafia da lui presieduta, è solo l' ultima onda, forse spumeggiante di rimorso (Morra fu eletto con i determinanti voti dei salviniani). La tempesta di indignazione è così potente e trasversale (pure tra i Cinque Stelle) da far venire persino voglia di difenderlo (l' uno contro tutti è sport molto praticato in Italia). Con autorevolezza, lo difende infatti Michele Serra sull' Amaca del 21 novembre («Io sto con i linciati»). Il problema è che il nostro, lungi dall' introiettare il prezioso suggerimento di Seneca, optando magari per un dignitoso momento di silenzio, se non addirittura per le dimissioni da tanti sollecitate, si ributta nella mischia con la discrezione di un' oca del Campidoglio. Dunque, eccolo, in diretta Facebook (rilanciata su Twitter), mentre ammannisce ai suoi seguaci 11 minuti e 41 secondi di un memorabile video in cui parla di sé in terza persona (come Giulio Cesare o Berlusconi) dalla sede di Palazzo San Macuto: «Tutti sono impegnati a discettare su Morra: Morra dimettiti è un trend topic». Il suo palese tentativo è spostare l' attenzione dalla povera Santelli a Domenico Tallini, il presidente del Consiglio regionale della Calabria arrestato per concorso esterno con la cosca Grande Aracri. Dunque, «Morra ha sempre avuto parole di rispetto verso chi è malato Ma se voti Morra non ti devi lamentare se Morra provoca polemiche, perché Morra è così». Morra, si capisce, «viene infangato perché dà fastidio alla mafia». Infine, la chicca, un' immagine a metà strada tra l' oscuro avvertimento e l' oscurantismo maschilista: «Se queste mie parole devono servire a riverginare l' imene di qualcuno che si è un pochino trastullato nel tempo, quello è un problema di altri». Insomma, come direbbe Morra medesimo: Morra è a livelli altissimi di epifenomenologia politica. Che non fosse Sartre e neppure Habermas deve averlo intuito persino Beppe Grillo quando gli si è presentato davanti questo oscuro insegnante di filosofia, genovese di nascita e cosentino d' adozione, «politicamente castrato» da casta e ancien régime («in attesa degli esiti della maieutica» grillina, annota Mattia Feltri) e tendente talvolta alla supercazzola. Ma tant' è. In un movimento che ha come fiori all' occhiello ragazzi che collocano Pinochet in Venezuela, dubitano dello sbarco sulla Luna e invocano l' egidia (sic) dell' Onu sull' immigrazione, un uomo maturo, anche se un po' bombastico, capace di parlare di Agostino e Platone deve sembrargli un giglio in un campo di cavolfiori. Poi il buon Morra piace all' Elevato perché è un giustizialista feroce, minaccia la «dittatura della legalità»; considera sentenze definitive le decisioni di un gip; registra i presenti e porta tutto alla Finanza sperando di incastrare il sindaco di Cosenza con cui si detesta. Silenziato dalla Rai, twitta infine un «loro non si arrenderanno mai, io neppure!», foriero di tenzoni e tensioni. Ancora quisquilie, rispetto al post dell' altro ieri all' alba, dopo chissà quali tormenti notturni: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati». Beh, non stupitevi: quando il gioco si fa duro, per trovare un modello degno, tocca salire un po' più su di Seneca.

Anna Maria Greco per “il Giornale” il 24 novembre 2020. A fine mattinata sui cellulari dei componenti della Commissione antimafia arriva l' avviso di «sconvocazione» delle sedute già fissate ieri e oggi. La decisione è di Nicola Morra, il presidente grillino nell' occhio del ciclone per le sue violente dichiarazioni sulla Calabria e la sua presidente, recentemente scomparsa, Jole Santelli. Il centrodestra unito chiede da giorni le sue dimissioni e finché non arriveranno, hanno annunciato Lega, Fratelli d' Italia e Forza Italia, nessuno dell' opposizione parteciperà alle riunioni. Ieri era prevista quella di un Comitato della bicamerale, oggi la prima plenaria. Il presidente sotto accusa ha preferito farle saltare. Prende tempo, ma oggi a Palazzo Madama i capigruppo del centrodestra torneranno all' attacco, in una conferenza stampa alle 11,30. Una lettera per annunciare la protesta contro le mancate dimissioni di Morra, definito per le sue dichiarazioni «incompatibile» con il suo ruolo istituzionale, è stata mandata dai gruppi dei tre partiti d' opposizione ai presidenti del Senato, Elisabetta Casellati (che ha già detto: «Disonora le istituzioni») e della Camera, Roberto Fico. «Morra deve dimettersi - dice la capogruppo di Fi alla Camera, Mariastella Gelmini - perché le sue dichiarazioni sono indegne di una carica istituzionale così rilevante e offensive, oltre che per la nostra collega prematuramente scomparsa, anche per tutti i malati oncologici e per i calabresi». Per il leghista Gianluca Cantalamessa, membro della Antimafia, forse ancor più grave è stata la dichiarazione di «scuse» del presidente 5Stelle. «Ha detto, in pratica, chi sta con me sta contro mafia e chi mi attacca dalla sua parte. Atteggiamenti come questo non può permetterseli chi copre un ruolo del genere». Su 49 componenti dell' Antimafia 10 sono della Lega, 6 di Fi e 3 di FdI, ma anche altri dei 6 del gruppo misto potrebbero scegliere l' Aventino, come già hanno fatto Maurizio Lupi e Sandra Lonardo. Anche se non si arriverebbe a far mancare il numero legale e a paralizzare i lavori, si porrebbe un grave problema di rappresentanza, con tutta la minoranza assente. Non c' è modo però di costringere Morra alle dimissioni, senza un volontario passo indietro. E sembra che dalla maggioranza non vengano pressioni perché il presidente lasci. «Forse per le parole su Jole Santelli Morra non dovrebbe dimettersi, ma chieda scusa e continui a fare il suo lavoro», minimizza a Un Giorno da Pecora il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci. E Maria Laura Paxia, membro 5Stelle della Commissione di Vigilanza Rai, sposta l' attenzione sulla cancellazione venerdì dell' intervento del suo collega di partito alla trasmissione di Rai3 Titolo V, annunciando di aver presentato un' interrogazione per chiedere l' intervento di presidente e direttore generale della Rai: «Per quanto le parole del senatore Morra siano state infelici, l' azione posta in essere dalla Rai sembrerebbe violare ogni regola di par condicio, nonché di equilibrio, pluralismo, completezza, imparzialità, indipendenza e apertura alle diverse formazioni politiche». Giusy Bartolozzi, deputata Fi dell' Antimafia, ricorda che non è la prima volta che Morra dimostra di «non essere in grado di ricoprire questo ruolo istituzionale». Ci fu uno scontro durissimo nella primavera 2019 tra Morra e la Santelli, sua vice in Commissione, sull' inchiesta che aveva coinvolto il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto e nella quale il 5Stelle avrebbe avuto un ruolo sospetto, secondo la governatrice della Calabria scomparsa. Lei denunciò in una conferenza stampa relazioni di Morra con i pm di Cosenza, che iniziarono l' indagine e presentò un esposto in procura, provocando le ire dell' interessato. Fatti che gettano un' ombra ulteriore sull' attacco del pentastellato alla Santelli.

Fabio Rubini per “Libero quotidiano” il 24 novembre 2020. Otto anni e mezzo fa a Roberto Calderoli, esponente di spicco della Lega, diagnosticarono un tumore. Da allora sulle spalle del politico bergamasco sono passati una decina di interventi e una quantità incalcolabile di controlli e sedute di terapia. Una realtà che Calderoli non ha mai nascosto. Anzi. Per questo nel sentire le parole di Morra su Jole Santelli, s' è indignato come paziente, prima ancora che come politico. «Quello che ha detto Morra è indecente. In un colpo solo ha offeso la memoria di una persona defunta che era umanamente e politicamente forte, i cittadini calabresi e tutti i malati di tumore che si sono sentiti discriminati».

Cosa l' ha fatta colpita di più in quelle parole?

«Il messaggio sbagliato che era sottinteso e cioè che se sei malato di cancro sei diverso. Esattamente l' opposto di quello che un paziente deve sentirsi dire. Una cosa aberrante».

Un esempio del decadimento della politica?

«Ma quale decadimento, qui siamo proprio alla degenerazione della classe politica. Nello scusarsi Morra ha usato una frase ("Se queste mie parole servono per riverginare l'imene di chi si è trastullato nel tempo, quello non è un problema mio", ndr) con la quale ha insultato tutte le donne. Le femministe di sinistra, però, se ne sono state zitte».

Senatore, lei convive con la malattia da tempo, eppure non è mai stata d'impedimento per la sua attività.

«Ho sempre cercato di far coincidere ricoveri e controlli con i periodi di vacanza. Per il resto ho sempre lavorato. Ricordo una volta, era il 2012, stavamo scrivendo la riforma sul presidenzialismo e la delegazione venne da me in ospedale. Io ero a letto, non riuscivo a stare seduto, ma abbiamo lavorato ugualmente. Nel 2013, l' anno in cui ho subito l' intervento più grosso, ricordo di aver fatto un comizio in Emilia assieme a Tremonti, con ancora indosso i drenaggi...».

Che messaggio si sente di lanciare a chi, malato, si è sentito offeso da Morra?

«Di non avere paura a raccontare la propria esperienza. Io l' ho fatto e nel tempo è servito a me e agli altri. Ancora oggi sono in molti che mi contattano per avere un consiglio, un contatto. Credetemi, quando vivi un' esperienza così ti si apre un mondo. Capisci le cose importanti nella vita».

E a Morra che diciamo?

«Che prima di aprire bocca dovrebbe andare a farsi un giro in un reparto di oncologia».

Senta, parliamo anche un po' di politica?

«Prima mi faccia dire ancora una cosa. Ho chiuso l' ultima campagna elettorale con un comizio a Reggio Calabria. La sera siamo andati a cena con Jole e Mulé. Può capire l' amicizia che c' era. Quando mi hanno detto che era morta non riuscivo a crederci...».

Che ne pensa del balletto governativo di Forza Italia?

«Che ha ragione Salvini quando parla di federazione. Il centrodestra funziona se è vero, concreto, fondato su temi condivisi. Non se è una mera alleanza elettorale».

Per questo la Lega al Sud ha faticato, lasciando spazio alla Meloni?

«La Lega ha faticato dove non ha presentato candidati riconoscibili dell' intera coalizione. In Veneto e Liguria abbiamo vinto...»

Si apre una questione "Sud" per la Lega?

«No, Salvini fa bene ad insistere e per amore di coalizione ha anche accettato candidati perdenti. Ora però la scelta della classe politica deve essere fatta sul merito, non per partiti».

Tutti vogliono riformare il Titolo V e tornare al centralismo.

Lei che è federalista è pronto alla battaglia? «Questo è un altro esempio di degenerazione della politica. Vorrebbero farci credere che, ad esempio, la sanità sarebbe meglio gestita dal governo, quando le uniche sanità che non funzionano sono quelle che da un decennio sono commissariate proprio dallo Stato? Siamo seri».

Da “il Messaggero” il 21 novembre 2020. La nomina del commissario alla sanità calabrese si fa attendere: un altro slittamento stanotte in Consiglio dei ministri. Il Pd insiste: «Conte stavolta non può sbagliare più». Quel che divampa intanto è il caso Morra. Il presidente grillino della commissione Anti-mafia cerca di scusarsi ma anche i 5Stelle lo vogliono scaricare per le gravi offese alla memoria di Iole Santelli e la battutaccia sul voto dei calabresi per la presidente della Regione malata di quel tumore che l' ha portata alla morte. Un caso tremendo il caso Morra. Ira di Italia Viva, sdegno del Pd e perfino la presa di distanza degli stellati. La Rai ieri sera ha anche annullato la sua partecipazione a Titolo V, su Raitre. «Mi scuso con chi è malato ma sono stato strumentalizzato, non mi dimetto», dice Morra: «Sarò politicamente scorretto, era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev' essere responsabile delle proprie scelte». Il centrodestra chiede le dimissioni di Morra. Meloni: «Indecoroso, vada via». Idem Salvini. Berlusconi sulla stessa linea. Mentre la Casellati parla di «frase che disonora le istituzioni», e il presidente facente funzioni della Regione Nino Spirlì parla di «vergogna, scelleratezza, volgarità, commentando le parole di Morra». Che, col passare delle ore, perde anche il sostegno del M5S. Prima Luigi Gallo, poi Giorgio Trizzino, infine il capogruppo alla Camera Davide Crippa parlano di parole «inaccettabili». Su twitter, l' hashtag #Morradimettiti è il secondo trending topic del giorno. E il M5S prende ufficialmente le distanze. «Le sue affermazioni non rispecchiano il nostro pensiero», si legge in una nota. Anche perché le frasi di Morra rischiano di indebolire il «peso» del M5S nella scelta del commissario alla sanità in Calabria. In pole position ancora D' Andrea, ex Guardia di Finanza, ma spetta al Cdm decidere.

Giuseppe Marino per “il Giornale” il 17 dicembre 2020. «Ritengo necessario fare ammenda alla memoria di Jole Santelli». Di solito è la notte a portare consiglio. Per Nicola Morra di notti ce ne sono volute venticinque, più altrettante giornate. Si vede che, da filosofo, le sciocchezze le spara all' impronta mentre le scuse le medita a lungo. Il venti novembre il senatore grillino aveva detto che, poiché «era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica», i calabresi che l' avevano votata «hanno sbagliato» ed essendo «grandi e grossi», non hanno scuse: «Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev' essere responsabile delle proprie scelte». In un colpo solo, il presidente della commissione Antimafia era riuscito a offendere la memoria della presidente della Regione portata via un mese prima dal male con cui aveva instancabilmente lottato, i malati di tumore rubricati tutti alla stregua di ineleggibili in quanto destinati a morte sicura e tutti i calabresi. Perché nell' insalata di parole Morra aveva mescolato Jole Santelli al caso di Domenico Tallini, coinvolto in un' inchiesta sulla ndrangheta. «È stato il più votato nel collegio di Catanzaro. -aveva detto- È la dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita». Una frase autoincriminante, verrebbe da dire, visto che Nicola Morra è stato eletto in Calabria. Ieri il senatore ed ex insegnante di filosofia ha recapitato una breve lettera ai capigruppo della commissione parlamentare Antimafia: «Tutti quanti noi -scrive- siamo chiamati ogni giorno a dar conto delle nostre scelte e delle nostre parole. Pertanto ritengo necessario fare ammenda alla memoria di Jole Santelli poiché, seppur involontariamente, ho difettato nella comunicazione non esplicitando con la necessaria chiarezza il senso della mia riflessione». Nella lettera, Morra ricorda tra l' altro che l' esponente di Forza Italia era stata anche vicepresidente della commissione Antimafia non risparmiando il suo impegno nella lotta alle mafie. Le scuse sono però talmente tardive e formali da lasciare il sapore di una triste retromarcia interessata, per salvare la poltrona da presidente. Dopo le sue infelici dichiarazioni, Morra era stato coperto di critiche unanimi, inclusa la maggioranza e una parte del Movimento 5 stelle. Il centrodestra in particolare ha reagito chiedendone le dimissioni da presidente dell' Antimafia e ritirando la propria delegazione dalla commissione, venendo meno la condizione stessa di esistenza di una commissione bicamerale: dimostrare l' unità di intenti bipartisan contro il crimine organizzato. «Il partito deciderà se far rientrare la protesta - commenta il leghista Gianni Tonelli, segretario della commissione - per quel che mi riguarda è un po' comodo sciacquarsi la coscienza in poche righe, anche perché gli insulti li ha poi ripetuti e argomentati. Almeno con queste scuse si rimangia la goffa tesi secondo cui chi lo criticava spalleggiava le mafie: o era falso oppure ora le spalleggia anche lui».

Il silenzio delle donne "rosse" che umilia un’altra volta Jole Santelli. Ma dove sono finite le donne di sinistra? Sono scomparse. Ammutolite. Silenziate. Domenico Ferrara, Venerdì 20/11/2020 su Il Giornale. Ma dove sono finite le donne di sinistra? Loro, sempre attente al rispetto della persona, alla dignità umana. Loro, scrutatrici dei pensieri maligni, fustigatrici del machismo imperante e detentrici della moralità. Dove si sono cacciate? Sono scomparse. Ammutolite. Silenziate. Dall'oltretomba del proscenio politico da ieri sera non si è alzata nemmeno una voce, non dico in difesa di Jole Santelli ma almeno in attacco del presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Invece, niente di niente. A dire il vero, alle 11:34 (l'ora esatta per chi scrive), le uniche parlamentari di sesso femminile che hanno osato rilasciare dichiarazioni alla stampa sono le poco conosciute Federica Dieni e Dalila Nesci, entrambe calabresi ed entrambe dello stesso partito di Morra, le quali hanno rispettivamente affermato: "Ho riascoltato le parole del senatore Morra, parole molto gravi, da cui è doveroso prendere le distanze. Chieda scusa, servono empatia e umanità, non qualunquismo" e "ritengo assolutamente inappropriate le considerazioni del Presidente Morra: è necessario che provveda subito a rettificare quelle parole, che suonano come un insulto ad un intero popolo". Lode a loro. Alle 12:15 la "temeraria" dem Alessia Morani si è azzardata a fare un tweet non proprio prolisso: "Le parole di Morra sono agghiaccianti. Agghiaccianti". Meglio di niente. Ma per il resto, è il deserto. Nessuna Boschi, nessuna Boldrini, nessuna Bonino. Che la donna di destra, quando viene derisa, insultata o minacciata, riceva soltanto il sostegno delle compagne di partito è un film visto e rivisto. Ma che la donna di destra malata di tumore e deceduta non meritasse nessuna parola di rispetto dalle paladine del femminismo è una pellicola rara. Che non fa altro che divaricare l'abisso (per usare un termine morriano) tra i due mondi. Per carità, c'è ancora tempo per rimediare, per scegliere le parole giuste, per mostrare un minimo segno di rispetto, per un sussulto, insomma. Perché, al netto dei colori politici e delle idee antitetiche, il rispetto, il senso della misura, la dignità sono le uniche cose che ci differenziano dalle bestie.

·        Succede a Reggio Calabria.

Reggio Calabria: “Montagne di rifiuti accanto alle bare”. Le Iene News il 20 luglio 2020. Giuseppe Triolo, proprietario di un’agenzia di onoranze funebri denuncia con i video che potete vedere qui sopra la situazione di degrado all’interno del cimitero di Condera a Reggio Calabria. “Quando devo portare le salme accompagnate dai parenti al cimitero mi vergogno”. È arrabbiato Giuseppe Triolo, proprietario di un’agenzia di onoranze funebri a Reggio Calabria. Arrabbiato per le condizioni in cui vede quotidianamente il cimitero di Condera nella sua città. “Da un mese la situazione all’interno del cimitero è degenerata”, ci racconta. “Ci sono rifiuti cimiteriali ovunque, copribara, ghirlande buttate, cuscini. Il Comune non sta provvedendo alla pulizia e il cimitero è nell’incuria più totale”, dice e ci invia le immagini che vedete qui sopra. “Due settimane fa sono bruciati dei cassonetti dentro il cimitero”, dice Giuseppe. Come ormai sta capitando in gran parte della città, anche nel cimitero infatti, invaso dai rifiuti, è stato dato fuoco ad alcuni cassonetti. “Un gesto indegno e inqualificabile”: così il consigliere comunale con delega ai Cimiteri, Rocco Albanese, ha definito il rogo di cinque cassonetti all’interno del cimitero. “I resti li lasciano qui”, mostra Triolo nel video. “È indecente per le persone che vengono qui a trovare un figlio, un genitore, un caro. La situazione è diventata insostenibile”, continua Giuseppe che nel settembre scorso aveva denunciato “atteggiamenti in stile mafioso” contro la sua attività. “Ogni volta che porto una salma al cimitero mi sento in imbarazzo a passare davanti all’immondizia. C’è un cumulo di spazzatura di quasi tre metri proprio accanto alla camera mortuaria. È una vergogna”.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Sicilia.

È tornato Totò Cuffaro. E ha una missione: rilanciare la Dc e aprire una scuola politica. L'ex governatore, che ha scontato una condanna per favoreggiamento alla mafia, nominato coordinatore siciliano dello Scudocrociato: «Apro una scuola di formazione politica. Ma dico basta alla ricerca del consenso con lo scambio». Antonio Fraschilla su su L'Espresso il 29 ottobre 2020. E se la Democrazia Cristiana rinascesse dalla Sicilia? «D’altronde, in quale altra regione se non in quella di Don Luigi Sturzo potrebbe risorgere», dice con un pizzico d’orgoglio Salvatore Cuffaro, l’ex governatore di Sicilia che dopo aver scontato una condanna per favoreggiamento alla mafia e qualche anno di silenzio torna sulla scena portando in dote proprio il simbolo della Dc con la scritta Libertas: «Sono stato nominato commissario della Dc in Sicilia da Renato Grassi, che insieme ad Alberto Alessi e Luigi Fontana ha il simbolo della Democrazia cristiana. E voglio far risorgere questo grande partito proprio dalla Sicilia, dalla mia scuola politica che vede già 250 ragazzi iscritti per formarsi e creare una nuova classe dirigente - dice Cuffaro - sbaglia chi, come il mio amico Gianfranco Micciché, non crede in un grande partito moderato: io sento la gente e capisco che invece c’è uno spazio enorme per i moderati e noi possiamo riprendercelo». Fa sul serio l’ex governatore, che ha appena lanciato sui social la pagina “Liberi e forti” con tanto di simbolo dello Scudocrociato. Perché è a Cuffaro che Grassi e gli altri reduci democristiani hanno affidato il compito di questo ritorno al futuro. Nella sua “scuola politica” l’ex presidente della Regione Siciliana sta coinvolgendo Marco Follini, Pier Ferdinando Casini, Ciriaco De Mita: «Faremo lezioni online perché purtroppo il Covid impedisce incontri pubblici, ma io ero già pronto ad affittare teatri con 700 posti per iniziare la nostra scuola». Totò insomma torna sulla scena sognando di lanciare la nuova Dc: «Una Democrazia cristiana un po' diversa da quella che abbiamo conosciuto noi - dice - per essere chiari: non possiamo più riproporre un metodo di raccolta del consenso legato allo scambio, ai favori e ad altro. Per carità, oggi il voto di scambio è diventato industriale, penso al reddito di cittadinanza che io sostengo con forza tra l’altro. Ma i giovani sono cambiati, sono tornati a volere ideali alla base di un progetto politico e sono convinto che il pensiero di Don Luigi Sturzo sia ancora attualissimo». L’ex governatore però resta interdetto dai pubblici uffici nonostante abbia scontato la condanna per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra (rivelò alcune indagini della Dda allora in corso). Potrebbe però chiedere ai giudici la riabilitazione per tornare a candidarsi in prima persona: «Assolutamente no - dice - penso che un politico come me debba fare i conti con la condanna che ha ricevuto anche se l’ha scontata e può tornare in società: non chiederò alcuna riabilitazione proprio perché voglio evitare che qualcuno pensi che sto costruendo la nuova Dc per essere eletto. No, io sarò una sorta di guida per una nova classe dirigente». Cuffaro aveva organizzato anche un mega convegno per far nascere la Democrazia cristiana, la data scelta era il 24 dicembre, vigilia del Natale: «Quale data migliore - dice - ero pronto, anzi sono pronto, a coinvolgere tremila persone per questa “nascita". Ma il Covid ci sta frenando. Comunque il percorso è avviato,  la nuova Dc rinascerà e sarà la casa dei tanti moderati che oggi vagano da un partito all’altro».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2020. Essere in ferie significa non avere niente da fare e avere tutto il giorno per farlo. Alla Regione Siciliana «almeno l' 80% dei lavoratori si gratta la pancia». Così pare, stando alle lamentele del presidente Nello Musumeci, irritato con buona parte dei suoi 13 mila dipendenti, «assolutamente improduttivi». Ma Felice Cavallaro ha raccolto per il Corriere uno sfogo ancora più grave: «Il servizio che io dirigo - ha confessato il dirigente dell' assessorato all' Energia, l' ingegnere Salvatore D' Urso - ha fondi comunitari da distribuire per 560 milioni. Che facciamo? Restiamo immobili su una montagna di denaro disponibile?». E così ha provato a richiamare in servizio i dipendenti in ferie. L' immobilità deriverebbe dal fatto che dopo i «faticosi» mesi dello smart working molti impiegati hanno pensato bene di andare in ferie, a riposarsi. In ufficio non c' è nessuno (o quasi), impossibile sbrigare le pratiche, anche se di mezzo ci sono parecchi milioni che potrebbero far ripartire l' economia della regione, a «statuto speciale». A D' Urso si sono subito opposte le sigle sindacali dei dipendenti, che invocano il diritto costituzionale alle ferie «anche per ragioni psicologiche». In Sicilia abbiamo tutto, ci manca il resto, diceva con ironia Pino Caruso. Il resto è mancia: 560 milioni. Forse qualcosa di più.

Angelo Allegri per "il Giornale" il 24 agosto 2020. «Ha vinto il partito dei fancazzisti». Il commento poco protocollare è dell'interessato, Salvatore Tuccio D'Urso, dirigente generale del dipartimento Energia della Regione siciliana. Un paio di settimane fa l'assemblea regionale doveva rinnovare l'incarico a lui e un altro pugno di funzionari. Ad appoggiarlo il presidente Nello Musumeci, contraria l'opposizione dei Cinque Stelle («Il partito del reddito di cittadinanza e quindi del non lavoro», sibila oggi D'Urso) e del Pd. Ma sul suo nome la maggioranza di centro-destra si è afflosciata, grazie al voto segreto D'Urso è stato impallinato e la conferma non è arrivata. Così, tra pochi giorni, il 31 agosto, andrà in (...) (...) pensione, lasciando l'incarico. Potrebbe sembrare una storia minore, forse non è così: nelle scorse settimane D'Urso si era permesso di violare un tabù, quello dell'intoccabilità dei burocrati della Regione siciliana. Con un gesto poco meno che rivoluzionario aveva scritto un ordine di servizio richiamando impiegati e dirigenti dalle ferie. Perché, dopo i mesi di lockdown e di telelavoro, vero o presunto, arrivata l'estate e finita la clausura da virus, tutti si erano subito messi in vacanza. Suscitando l'ira del numero uno del settore energia: «Il servizio che dirigo ha da distribuire fondi comunitari per 560 milioni» aveva detto D'Urso. «Che facciamo? Restiamo immobili su una montagna di denaro disponibile? Le aziende aspettano le nostre decisioni». La copertura politica era arrivata dal presidente della Regione, il già citato Musumeci: «L'80% dei dipendenti regionali si gratta la pancia. Bisogna metterli a lavorare». Parole chiare fino all'evidenza, che hanno suscitato come primo risultato l'indignazione dei sindacati: Cgil, Cisl Uil, insieme alla potente sigla autonoma regionale Sadirs, hanno minacciato D'Urso di denuncia alla Procura della Repubblica per aver messo in pericolo la salute dei dipendenti, citando la necessità di «tutela dell'integrità fisica» dei lavoratori, nonché il pregiudizio per la «sfera psicologica, messa a dura prova in un periodo contrassegnato dall'attuale emergenza sanitaria». «Dopo quattro mesi a casa, parlano di problemi psicologici? Robe da pazzi», si era sfogato ancora D'Urso.

PECORA NERA. L'amministrazione siciliana ha, come noto, numeri e caratteristiche che ne fanno il caso più estremo del disastrato panorama del settore pubblico italiano. Il numero dei dipendenti (13mila senza le partecipate), è da record. L'ultimo contratto integrativo, rinnovato dopo anni, a fine 2019, si applica a oltre 1200 dirigenti. Pur tenendo conto che la Sicilia è una regione a statuto speciale con compiti che altrove spettano allo Stato non si può notare la differenza con le altre realtà regionali: in Lombardia, per esempio, i dirigenti sono in tutto 167. «La cifra di 1200 persone si riferisce ad almeno due o tre anni fa», spiega Giampaolo Simone, segretario del Dirsi, primo sindacato dei dirigenti della Regione siciliana. «Oggi, visti i recenti pensionamenti, siamo poco meno di mille e la differenza si spiega in larga misura con la diversità di competenze, basta guardare i numeri». I numeri, come il Piano triennale per la trasparenza, dicono che a dicembre 2018 su 1200 dirigenti, circa 400 in settori (per esempio Motorizzazione, Sovrintendenze, Forestali) che nel resto d'Italia sono gestiti dall'amministrazione centrale. Rimangono 800 alti funzionari e resta anche la sproporzione con il resto d'Italia. Ad aumentare i problemi ora è arrivato il lockdown con la bella novità del telelavoro. Peccato che il concetto di lavoro rimanga in molti casi sulla carta (vedi anche l'altro articolo in pagina). Pochi giorni fa, sempre in Sicilia, l'Ance, l'associazione dei costruttori, ha messo il dito nella piaga: «È diventato impossibile avere rapporti con gli uffici pubblici statali o regionali, perché i funzionari o sono in ferie o sono in smart working e non rispondono ai cellulari d'ufficio, anche per diverse ore al giorno». Si può gestire una Regione o, a maggior ragione, un Paese, con funzionari che non si fanno trovare? La domanda è diventata tanto più d'attualità con l'approvazione del Recovery Plan europeo, che potenzialmente potrebbe orientare verso il nostro Paese oltre 200 miliardi. A condizione, naturalmente, che l'amministrazione pubblica sia in grado di gestirli.

NÉ PREMI NÉ PUNIZIONI. «Di recente è stato approvato l'ultimo provvedimento sulla semplificazione», spiega Andrea Naldini, direttore per le politiche pubbliche della società di consulenza Ismeri Europa. «In tema di pubblica amministrazione, però, la semplicità non basta, ci vuole anche la capacità». La cartina di tornasole di questa capacità sono i fondi europei, dice Naldini. «Anche perché sono complicati, i bandi precisi, i controlli severi». Da questo punto di vista il futuro si annuncia non facile. «Il periodo di programmazione Ue 2014-2020, che si prolunga in realtà di tre anni, fino al 2023, si incrocia con i fondi del periodo 2020-2027. Senza tener conto di Recovery Fund e Transition Fund». Naldini invita a non generalizzare: «la capacità di incassare i fondi europei varia molto da Regione a Regione e da Ministero a Ministero», spiega. Tra le Regioni, per esempio, l'Emilia Romagna riesce a impegnare il 99% dei fondi europei, la Calabria solo il 41; tra i Ministeri, quello dei Trasporti arriva al 72% il Ministero degli Interni, ultimo in classifica, al 23. «In realtà i fondi europei persi sono relativamente pochi, anche perché l'amministrazione pubblica italiana usa una serie di trucchi per arrivare all'incasso». Uno tra i più diffusi è quello di dirottare i denari europei su progetti già elaborati e già finanziati con altri fondi. «Alla fine si liberano delle risorse, ma si perde anche la capacità propulsiva degli aiuti in arrivo da Bruxelles», dice Naldini. Dal 2015 per aiutare l'amministrazione pubblica italiana la Ue accompagna gli aiuti con i cosiddetti piani di rafforzamento amministrativo, in gergo Pra. Il principio è chiaro: ti do i soldi ma ti insegno anche a spenderli, riducendo i tempi morti e dandoti degli obiettivi». Il giudizio di Naldini su questa iniziativa è buono: «I piani hanno funzionato. Peccato che non siano stati estesi all'amministrazione nel suo complesso». In più c'è un problema: «Negli uffici che gestiscono i fondi europei si lavora di più e c'è anche un maggior carico di responsabilità. Il risultato è che c'è poco personale perché nessuno vuole andarci. I contratti e i sindacati impediscono di incentivare impiegati e dirigenti a trasferirsi. Del resto non ho mai visto un'amministrazione italiana fare un'analisi dei carichi di lavoro effettivi distribuiti tra i vari uffici». Tuccio D'Urso, il dirigente della Regione siciliana ormai prossimo alla pensione è più che d'accordo. «Io ho deciso di promuovere delle persone che se lo meritavano. I sindacati hanno protestato e l'ufficio del personale ha bocciato gli avanzamenti. Tu puoi lavorare o non far nulla. Ma negli uffici pubblici il principio resta uno solo: todos caballeros».

Arrestata in flagranza nota chef stellata di Palermo: rubava la corrente elettrica per il suo ristorante. Gli uomini dell'Arma hanno arrestato una nota chef stellata di Palermo colta in flagranza di reato: grazie a un magnete "rubava" la corrente elettrica. Francesca Galici, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Arrestata e condannata a un anno per "furto di luce". È la parabola della chef stellata Patrizia Di Benedetto, molto nota a Palermo perché titolare di uno dei ristoranti più noti del litorale di Mondello. A raccontare la vicenda è stato il Giornale di Sicilia, che ha ricostruito i fatti fino al fermo della donna, colta in flagranza di reato dai Carabinieri della stazione di Partanna e di San Lorenzo. L'escamotage utilizzato dall'imprenditrice è uno dei più noti alle forze dell'ordine nell'ambito dei reati di furto di energia elettrica. La donna pare abbia posizionato una calamita sul contatore dell'Enel. Il semplice dispositivo funge da freno magnetico e così impedisce al sistema di girare a pieno regime, permettendo una riduzione del conteggio fino al 50%, con conseguente risparmio sulle bollette della luce. L'accertamento è avvenuto nella serata di venerdì, quando il locale di Patrizia Di Benedetto era in piena attività con i suoi clienti. Proprio la presenza di numerose persone all'interno del noto ristorante della località balneare ha spinto gli uomini dell'Arma ad agire con la massima discrezione e così, dopo aver verirficato la flagranza di reato e aver notificato il fermo alla donna, hanno atteso la fine della serata per completare le operazioni d'arresto e accompagnare l'imprenditrice in caserma. Espletate le formalità del caso, che hanno obbligato la donna a un soggiorno forzato nella camera di sicurezza della stazione, per lei sono stati disposti gli arresti domiciliari. Patrizia Di Benedetto ha scelto di procedere con il patteggiamento e davanti agli inquirenti si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Un suo diritto, che però esprime finora la volontà non collaborativa della donna. Al momento la sua condanna è a un anno, con pena sospesa, ma gli inquirenti stanno ora procedendo nelle indagini per valutare l'effettiva entità del furto di corrente elettrica. Il ristorante di sua proprietà non è stato chiuso e continua a svolgere regolarmente l'attività anche senza il servizio d'eccellenza del suo chef stellato. Quella del furto di corrente elettrica è una pratica molto diffusa. Si tratta di un reato perseguibile penalmente in base all'articolo 624 del codice penale o 625, nel caso in cui ci siano aggravanti. La reclusione può andare da 6 mesi a 3 anni per il furto semplice o da 1 a 6 anni per il furto aggravato, con multe che possono arrivare fino a 1.032euro. Proprio perché si tratta di uno dei reati più frequenti in materia di furto, le compagnie di erogazione dell'energia elettrica negli anni hanno previsto diverse soluzioni per limitare questa pratica.

Sicilia, tutti in processione per la pioggia. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Salvo Toscano. In Sicilia non piove, i terreni rischiano di andare in malora e allora si torna a chiedere, come si faceva una volta, aiuto al Padreterno. Succede ancora, ai tempi delle app e dei modelli matematici che sezionano il meteo fino all’ultimo dettaglio, nella Sicilia profonda, dove in questi giorni si moltiplicano le processioni di penitenza per chiedere la pioggia. Una prassi che certamente parla della disperazione degli agricoltori isolani alle prese con una siccità e un caldo fuori stagione che minacciano effetti disastrosi; ma che squarcia il tempo e riporta a epoche lontane. Domenica in seicento si sono raccolti in preghiera nel Nisseno, vicino a Marianopoli, in quello che è tradizionalmente il granaio della Sicilia. Dove si è organizzata una processione per «invocare» la pioggia, con la partecipazione della Diocesi, rinnovando l’antica tradizione delle rogazioni, preghiere, atti di penitenza e processioni propiziatorie. La processione è partita dal Santuario del Signore di Bilici (che è meta di pellegrini durante tutto l’anno), dopo la messa ad petenda pluviam («per chiedere la pioggia») celebrata dal vicario generale, monsignor Giuseppe La Placa. I fedeli, accorsi anche dai comuni vicini, hanno portato in processione il Crocifisso di Bilici e il protettore degli agricoltori Sant’Antonio Abate, per implorare la fine della siccità. «Durante l’omelia ho detto che non è un rito magico o una superstizione — spiega al Corriere il monsignore —. Per prima cosa chiediamo al Signore che ammorbidisca il nostro cuore con la pioggia della sua grazia. Tutto si rifà sempre a una catechesi che mira soprattutto a far crescere la fede delle persone». Nel Vallone in provincia di Caltanissetta l’attività principale è l’agricoltura e il rischio di un raccolto magrissimo spaventa i contadini. «Sono preoccupatissimi, per la semina del grano serve la pioggia», dice monsignor La Placa, che ricorda come per secoli la Chiesa abbia celebrato regolarmente questo tipo di momenti di preghiera. Iniziative analoghe si sono svolte in questi giorni anche in altre parti della Sicilia. Una processione penitenziale è partita nei giorni scorsi dalla chiesa degli Agonizzanti di Carini e si è snodata per le vie del paese in provincia di Palermo per chiedere la pioggia. Si è pregato in processione anche nel Trapanese, a Gibellina e a Poggioreale, con invocazioni a Sant’Antonio da Padova. La situazione nei campi siciliani si sta facendo drammatica. Il problema riguarda anche altre regioni. Ma desta più preoccupazione al Sud, come spiega al Corriere il meteorologo Luca Mercalli: «A Nord la mia esperienza mi dice che in primavera si potrebbe ripianare questo deficit. Al Sud la situazione è più complicata, perché lì la stagione delle piogge è l’inverno. Se non riusciamo a ripristinare un equilibrio nel giro di un mese per il Sud potrebbe essere una situazione più rischiosa». E allora, si torna a pregare. «Lo troviamo tutti pre-scientifico — spiega Fabio Lo Verde, docente di sociologia all’Università di Palermo — però dobbiamo anche comprendere che le tradizioni cambiano con molta più lentezza rispetto ai modelli cognitivi a cui si ancorano i gruppi sociali quando devono trovare risposte a domande a cui non sanno rispondere». E da un punto di vista sociologico, le preghiere per la pioggia, svolgono comunque un loro ruolo: «Sono pratiche rituali — spiega Lo Verde — che hanno fondamentalmente l’obiettivo di fare comunità attorno a un problema. L’obiettivo vero, sociologicamente rilevante, è che questi sono momenti in cui ci si rinsalda attorno a un problema importante. E questo consente di affrontare le difficoltà con uno spirito differente».

Nella Sicilia che cade a pezzi tra mulattiere e cantieri infiniti. La viabilità in Sicilia è al collasso: strade statali e autostrade non sono in grado di sostenere il traffico dei mezzi pesanti. L'allarme lanciato dagli autotrasportatori. Roberto Chifari, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Autostrade interrotte, strade statali rattoppate alla meno peggio, provinciali come "trazzere". È la fotografia attuale della viabilità in Sicilia. Una rete stradale che fa acqua da tutte le parti. La A19, la Palermo-Catania, è un lungo cantiere: per l'esattezza 24 per 192 chilometri di lunghezza. In pratica, una deviazione ogni 8 chilometri. L'ultimo intoppo che ha messo in ginocchio l'isola è stata la chiusura ai mezzi pesanti del viadotto Cannatello, a causa del rischio crollo dello stesso ponte e la deviazione obbligatoria sulle strade provinciali. Due giorni fa il governatore Nello Musumeci aveva dichiarato "inadeguato il servizio Anas per la Sicilia. Le strade dell'isola continuano a cadere a pezzi nell'impotenza di chi dovrebbe assicurarne la piena efficienza", dice il numero uno di palazzo Orleans. Oggi il Codacons ha annunciato di aver presentato un esposto alle Procure di Catania, Caltanissetta e Palermo. "L'Anas quale concessionario per la gestione e manutenzione dell'A19 non ha rispettato l'obbligo di attuare il progressivo miglioramento e adeguamento dell'autostrada", afferma il Codacons. La replica di Anas alle parole di Musumeci non si è fatta attendere: "Le autostrade siciliane in gestione diretta di Anas sono la tangenziale di Catania, l'autostrada Catania-Siracusa,l'A19 Palermo-Catania, l'A29 Palermo-Mazara del Vallo e le sue diramazioni per Trapani e per gli aeroporti di Birgi e Punta Raisi. Le autostrade A18 Messina-Catania, A20 Messina-Palermo e Siracusa-Gela - prosegue l'azienda - sono invece di competenza del Cas, ente pubblico regionale alle dirette dipendenze di Musumeci". Intanto il viadotto Himera, crollato nel 2015, attende ancora di essere ricostruito, anche se ieri Anas ha confermato che i lavori "procedono come da cronoprogramma, con ultimazione prevista entro fine aprile". Mentre i siciliani attendono autostrade e strade statali all'altezza degli atri paesi europei, la politica litiga. "Come ha detto il presidente Musumeci 'a Roma devono capire che siamo stanchi della politica del rappezzo, Anas deve dimostrare rispetto per la pazienza dei siciliani - tuona la presidente della IV Commissione legislativa dell'Ars, Giusi Savarino -. Mercoledì 22 gennaio faremo il punto della situazione sulla Palermo-Agrigento e Palermo-Catania. E non solo, rappresenterò anche la situazione del Viadotto Morandi di Agrigento, ennesima opera su cui registriamo ritardi da parte di Anas. Purtroppo sulle strade statali abbiamo una competenza limitata, possiamo solamente vigilare affinchè Anas termini celermente i lavori e portare la situazione all attenzione della politica nazionale, e lo facciamo con coraggio, costanza e determinazione". Cosa significa essere costretti per lavoro a percorrere le strade dell'isola. Lo abbiamo chiesto a Giorgio Stassi, un autotrasportatore siciliano di 39 anni che ci ha fatto salire a bordo del suo autoarticolato. Un viaggio da Palermo ad Agrigento, lungo le statali 121 e 189, lo scorrimento veloce che collega i capoluoghi siciliani di Palermo e Agrigento. Le due maggiori città della Sicilia occidentale. Cento chilometri tra cantieri, semafori e un'infinità di deviazioni. Una statale che è considerata la strada della morte, perché ogni anno miete decine di vittime per l'assoluta mancanza di manutenzione ordinaria e straordinaria. "Noi siamo le vittime di tutto il sistema dell'economia - racconta Giorgio Stassi -, per noi la strada è l'unica fonte di lavoro. Non chiediamo nulla se non strade sicure che ci permettano di poter lavorare e chiediamo anche un accordo con le compagnie marittime per i trasporti via mare". Secondo i dati del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in Italia sono attive 1,17 milioni di carte di qualificazione del conducente. A ognuna di esse, in linea di massima, corrisponde un autista occupato nel trasporto merci o di persone. I dati allarmanti riguardano l'età anagrafica di questi autisti: il 45,8%, infatti, ha più di 50 anni e solo il 18,1% e al di sotto dei 40. Secondo l'analisi ministeriale i giovani non vogliono più fare i camionisti. Secondo diverse stime in Italia mancherebbero circa 15 mila autisti. Le riserve proveniente dall'Est si stanno esaurendo o tornano a casa, anche perchè paesi come Romania e Polonia stanno occupando forza lavoro locale in aziende di trasporto internazionale, sfruttandone la straordinaria capacità di crescita. Così molte realtà italiane guardano ai paesi del Nord Africa o addirittura alle Filippine.

·        Succede a Palermo.

L'inchiesta sul Palermo calcio, i soldi della società in pacchi di caffè, bollette e in una ditta di costruzioni. Salvo Palazzolo su La Repubblica l'8 novembre 2020. La Guardia di finanza ha ricostruito le "spese pazze" dei fratelli Tuttolomondo finiti in carcere per bancarotta. Gli ultimi soldi trafugati dalle casse del vecchio Palermo calcio sono finiti in pacchi di caffè, bollette del telefono e altre spese di una società di costruzioni. I fratelli Salvatore e Walter Tuttolomondo non hanno avuto alcuna remora mentre la barca andava giù verso il fallimento. Un rapporto della Guardia di finanza ricostruisce le ultime spese pazze dei due faccendieri che mercoledì scorso sono finiti in carcere per bancarotta. “341 mila euro sono andati dalle casse della U.S. Città di Palermo ai conti della Struttura srl”, hanno scritto i finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo e i colleghi del nucleo di polizia valutaria. “Da quei conti i soldi sono poi transitati o sui conti personali della famiglia Tuttolomondo, prelevati in contanti; o sui conti della Dae Costruzioni e dell’Immobiliare Ponte di Nona e da lì sono andati nelle tasche degli indagati e dei loro familiari, o per coprire i debiti delle due società”. Parte dei 341 mila euro sarebbero andati a uno studio di consulenza, che secondo la ricostruzione degli investigatori avrebbe avuto un ruolo nella “ripulitura dei soldi distratti dalla società fallita”. Un'operazione complessa, che è stata ricostruita anche grazie alle intercettazioni telefoniche disposte dal procuratore aggiunto Salvo De Luca e dai sostituti Dario Scaletta e Andrea Fusco. Per fare uscire quei soldi dalla casse del Palermo i Tuttolomondo simularono una maxi consulenza alla “Struttura srl”, con la scusa di commissionare un piano di concordato col tribunale. “Un concordato in bianco assolutamente pretestuoso e senza alcuna chance di accoglimento – hanno scritto i magistrati nel provvedimento che ha portato all’arresto – gli indagati sono riusciti ad evitare la nomina di un curatore fallimentare che li avrebbe esautorati dei propri poteri gestori. In questo lasso di tempo che si sono creati, gli indagati hanno potuto portare a termine le proprie condotte predatorie”. Il “puparo”, come lo chiamano i pubblici ministeri, era Salvatore Tuttolomondo, “che non rivestiva e non riveste alcun incarico formale – recita il capo d’accusa – nelle società della galassia Arkus, ma ne controlla di fatto tutte le società”. E "Struttura srl" non era altro che l'ennesima scatola cinese creata dai due faccendieri. "Ricordati di fargli mettere l'insegna fuori dalla porta", dicevano al telefono.

Addà passà a nuttata, la tragedia più grande d’Italia. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 17 Luglio 2020. C’è un sole che inganna, all’indomani dell’alluvione di Palermo. Ma non può bastare una luce abbagliante per cancellare la tragedia, che segna tutti. E se si dovessero misurare le responsabilità nei luoghi in cui i problemi sono permanenti e perdurano da lungo tempo, nessuno ne uscirebbe indenne. Piovve anche l’anno scorso durante la festa di Santa Rosalia, lampi e tuoni si confusero con i fuochi per il Festino e uno degli otto detenuti dell’Ucciardone a cui spetta la Traina non rientrò in carcere. Palermo se ne sta cinta sul mare dai viali della circonvallazione: dentro un miscuglio di popoli, di profumi, in cui è facile perdersi e dimenticare tutto. La meraviglia, per chi ci capita per la prima volta, chi non ne sa nulla, è la quantità di luoghi stupefacenti. Una scoperta a ogni cambio di strada, di piazza. Tutto è fatto davvero per la scordanza dell’umanità, delle sue miserie, dei suoi drammi. Santa Rosalia divenne protettrice di Palermo perché si portò via la peste, quella del 1624, la stessa di Milano. Si accusarono i marinai di una nave arrivata da Tunisi, allora. La Santuzza, dopo un diluvio, fece sparire la peste. Si portò via la tragedia dei morti. Si portò via la causa della tragedia: sanò gli effetti e risolse il problema. E a Palermo, nel Sud, nell’Italia inghiottita dalla linea della palma e sorpassata dall’avanzata del geco, la consuetudine è quella di rimuovere le tragedie, sbarazzarsi in fretta del dolore, delle macerie, senza badare alle cause. Accadrà ancora a Palermo, accuse e scuse, e problemi intonsi. Più sono state grandi le tragedie in Italia, e più si sono rimossi gli effetti, peggiorandone le cause e favorendo le riedizioni tragiche. A Reggio Calabria e a Messina si è ricostruito dove terremoto e maremoto avevano distrutto, a Napoli sopra la lava del Vesuvio, a Genova nello stesso ponte. Magari non si è pensato che non fossero i luoghi giusti. Falcone e Borsellino oltre che investigatori spettacolari erano fini intellettuali, maneggiavano la cultura con la stessa dimestichezza della Legge, e avevano chiaro che per eliminare la mafia non bastava rimuoverla, andavano rimosse le cause: la lotta feroce che è nata dal loro martirio ha rimosso un numero infinito di mafiosi, non il problema. Che sarebbe stato più utile andare dietro a Sciascia che non lasciarsi schiacciare da una furia cieca, in certi casi interessata. Fra le tante tragedie che si succedono ciclicamente in ogni angolo del Paese, la tragedia italiana più grande è il vizio di far passare in fretta la notte e riabbracciare il sole scordando gli incubi e anche i sogni. Ormai è prassi, il dolore segna le persone, solo i parenti non scordano più, e per qualcuno, più d’uno, è l’ennesima occasione strumentale, una volta in cui sarebbe stato meglio tacere.

Leoluca Orlando, il dominus di Palermo che va a braccetto con le Ong. Leoluca Orlando, dominus assoluto di Palermo da metà degli anni '80, come un vero "Gattopardo" è sopravvissuto a tutte le stagioni politiche. Francesco Curridori, Giovedì 02/07/2020 su Il Giornale. “Mi ricorda il primo Mussolini che cantava faccetta nera e poi diceva che stava scherzando. Mi ricorda il primo Hitler quando bruciava libri in piazza”. Leoluca Orlando non ha mai amato Matteo Salvini e questa frase del 2018 dice molto sul personaggio che da circa 40 anni è il dominus assoluto di Palermo.

"Orlando precursore delle stagioni politiche". Orlando, classe 1947, dopo aver studiato per alcuni anni in Germania, inizia la sua carriera politica tra le fila della Democrazia Cristiana in qualità di consigliere giuridico del presidente della Regione Piersanti Mattarella, il fratello dell’attuale Capo dello Stato che venne ucciso dalla mafia nel 1980. In quello stesso anno entra nel consiglio comunale di Palermo e nel 1984 viene nominato assessore al decentramento. Dopo le elezioni amministrative del 1985 diventa sindaco a capo di una giunta che ripropone a livello comunale lo schema del pentapartito, ma che, nel giro di pochi anni, si allarga a sinistra, anticipando la nascita del centrosinistra. Nel 1989 il Pci entra a far parte della sua giunta e all’opposizione ci finiscono il Psi, il Pli e il Pri. “Orlando appartiene a un’età preistorica che riesce ad essere presente nell’attualità perché su di lui si sono fatte tutte le sperimentazione della politica”, dice a ilGiornale.it il giornalista Pietrangelo Buttafuoco che descrive il sindaco di Palermo come “un precursore” che ha anticipato la critica alla Prima Repubblica, il dipietrismo e persino il grillismo. “Orlando è stato Cinquestelle ancor prima che esistesse il M5S, ma soprattutto è un democristiano perfetto attorno a cui convergono consensi trasversali perché riesce ad essere aristocratico e plebeo allo stesso tempo”, aggiunge Buttafuoco.

Leoluca Orlando, sfonda solo a Palermo. Ma Orlando, inteso come macchina da guerra che macina voti su voti, “funziona” solo a Palermo. Nel 1991, infatti, lascia da Dc per fondare La Rete, un partito di sinistra molto attento alla “questione morale” e vicino alle frange della società civile legate all’antimafia. Un partito che trae la sua ispirazione ideale dall’esperienza amministrativa degli anni ’80 che verrà chiamata “primavera di Palermo” per il tentativo fatto da Orlando di affrancare l’immagine dalla città dall’immagine della mafia. La Rete vive 8 anni, ma, nonostante Orlando nel ’92 diventi deputato, il suo partito non prende mai più del 2% a livello nazionale. Nella sua Palermo, invece, nel ’93 il suo fondatore ottiene un risultato plebiscitario e ritorna sindaco col 75% dei consensi. Quattro anni dopo viene rieletto con il 58%. Parlamentare europeo dal ’94 al ’99. Nel 2001 tenta la scalata in Regione candidandosi alla guida di una coalizione di centrosinistra, ma viene sconfitto da Totò Cuffaro ottenendo un misero 36%. “Si tratta di un personaggio pienamente inserito nella sua città. Non lo puoi immaginare in un altro contesto. Lui conosce ogni angolo, situazione e persone di Palermo. Se De Luca è riuscito a fare di Salerno una Salisburgo, Orlando ha fatto di Palermo lo specchio di Leoluca Orlando”, ci spiega ancora Buttafuoco che, però, ci tiene subito a precisare: “Il personaggio è di altissimo livello. È l’antiprovinciale per eccellenza perché paradossalmente è più conosciuto in Germania come filosofo che come politico in Italia”. L’unico ad aver cercato di scardinare il sistema di potere e di relazioni che tiene Orlando sulla breccia dell’onda da così tanti anni è stato Fabrizio Ferrandelli, oggi esponente di +Europa e dell’opposizione in consiglio comunale. “Da lui ho imparato che cosa non voglio diventare”, ci dice Ferrandelli che, nel 2007, viene eletto consigliere comunale con una lista civica che sosteneva la rielezione dell’ex sindaco. Quella fu l’unica sconfitta di Orlando, che nel frattempo, aveva fatto confluire La Rete nella Margherita (2001) per poi diventare portavoce dell’Italia dei Valori, partito con cui viene eletto deputato nel 2006 e nel 2008. “Stiamo parlando di un uomo incapace di creare squadra e di favorire il ricambio generazionale. Nel 2012, dopo aver chiesto le primarie del centrosinistra e dopo che io le avevo vinte, lui si ricandida solo perché il risultato non era quello che sperava, nonostante avesse giurato che non si sarebbe mai ripresentato”, ricorda Ferrandelli. All’epoca, infatti, Orlando, che alle primarie sosteneva la candidatura di Rita Borsellino, non accetta il risultato e si ripresenta per la quarta volta candidato sindaco, battendo Ferrandelli al ballottaggio col 72,4% delle preferenze. In questi anni il primo cittadino del capoluogo siculo, però, è molto attivo anche sul versante della politica nazionale: nel 2011 dà vita a La Rete 2018 che appoggerà Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia e, due anni dopo, fonda il Movimento 139 (MOV 139) che confluirà, poi, nel Pd. Nel 2018 lo stesso Leoluca Orlando aderirà al Pd anche se il simbolo dei democratici non era neppure presente tra le liste che hanno sostenuto la sua quinta rielezione a sindaco, sempre a discapito del giovane Ferrandelli. “Ora siamo in un momento della deriva amministrativa cui vengono arrestati due capigruppo di forze politiche che lo sostengono e anche due dirigenti, due suoi uomini di punta sono agli arresti domiciliari per corruzione all’interno dell’amministrazione”, ci dice il suo eterno sfidante che dipinge Palermo come “una città respingente”. “Basti pensare al caso Decatlhon”, evidenzia Ferrandelli, critico con Orlando per la gestione dei fondi: “A lui si deve l’assunzione di migliaia di dipendenti del Comune e delle società partecipate senza alcun concorso. Ha massacrato il merito”. E ancora: “Orlando è rimasto agli anni ’80 quando andava a Roma, alzava la voce e poi arrivavano i trasferimenti statali che coprivano le sue mancanze amministrative. Ormai è solo un gattopardista e un populista, capace di cavalcare tutte le stagioni politiche recitando più parti in commedia”.

Quell'occhio di riguardo verso le Ong. E quella che la Sicilia sta vivendo è la stagione degli sbarchi. Orlando, lo scorso febbraio, infatti, ha consegnato la cittadinanza onoraria agli equipaggi delle Ong Mare Jonio e Sea Watch. Quest’ultima aveva anche ottenuto il permesso del sindaco di considerare il porto di Palermo come una sorta di "hub", un punto fisso di monitoraggio del mare e di pronto intervento. "La nostra - disse Orlando in quell’occasione - è la città che, dal punto di vista culturale, è più cambiata negli ultimi 40 anni, di testa e negli stili di vita. Questo per le lezioni imparate dalle vergogne della mafia. Ora una nuova sfida ci attende: quello di dimostrare che è possibile dire “io resto persona e noi siamo comunità”, anche se siamo in mare". Nel gennaio 2019, invece, lanciò la sfida ai Decreti Sicurezza voluti dall’allora ministro dell’Interno Salvini e disse di essere pronto a firmare in prima persona i certificati di residenza che l’anagrafe di Palermo avrebbe rilasciato ai richiedenti stranieri con permesso di soggiorno. Di recente proprio Salvini ha attaccato con durezza il sindaco Orlando che ha offerto alla Sea Eye il porto di Palermo per organizzare il trasbordo dei migranti dalla Alan Kurdi: “La nave Ong (tedesca) si felicita di essere entrata in acque italiane e ringrazia il sindaco di Palermo che ha tanto aiutato. PD sempre in prima linea per i porti aperti”.

Riccardo Arena per "La Stampa" il 29 giugno 2020. Il direttore se ne andò alla chetichella ai primi di febbraio, prima del lockdown e dopo avere ricevuto un avviso di garanzia, dicendo che «quello del cimitero dei Rotoli è un brutto ambiente». Da quando Cosimo Elio De Roberto ha lasciato il camposanto palermitano, per le dimissioni e per l'inevitabile rimozione di un dirigente accusato di corruzione con altre nove persone, non è stato sostituito. Né la situazione è migliorata: c'erano allora circa 300 bare in deposito, ora ce ne sono 480, che giacciono accatastate un po' dappertutto, dove e come capita: nelle stanze degli uffici, negli impalcati, sotto tettoie improvvisate, come raccontato ieri dalla Stampa. C'è un dirigente ad interim, si chiama Antonino Pavia ma il portiere all'ingresso della struttura del quartiere Arenella, zona non facile perché ad alta densità mafiosa, dice che lì al cimitero non si vede quasi mai. Situazione complicata, a Palermo morire è un lusso che non ci si può permettere facilmente: sono tre i cimiteri comunali, due monumentali e piccolini, i Cappuccini e Santa Maria di Gesù, il più grande è Santa Maria dei Rotoli, per i palermitani più semplicemente «i Rotoli», incuneato sotto il monte Pellegrino. Il forno crematorio, che potrebbe assottigliare il numero delle bare in attesa di tumulazione (ma che comunque a pieno regime potrebbe incenerire 7-8 casse al giorno) è sempre rotto ed è l'unico in Sicilia, assieme a quello di Messina, un po' troppo lontano e costoso da raggiungere. Il Covid qui non ha picchiato duro come altrove, ma anche senza i morti per via del virus la situazione del cimitero ricorda la Bergamo martoriata e costretta a ricorrere ai camion dell'Esercito. «Sì, è un ambiente difficile - conferma l'assessore comunale al Patrimonio, Roberto D'Agostino - in cui stiamo cercando di intervenire in tempi più rapidi possibile». Non è facile, ma il componente della giunta dell'eterno Leoluca Orlando non si dà per vinto: e se il sindaco, molto colpito dal pezzo di Gianluigi Nuzzi su questo giornale, annuncia «soluzioni straordinarie», di fatto per seppellire le 480 bare in attesa ci vorranno almeno dieci settimane, al netto dei nuovi ingressi, perché la morte conosce intermittenze solo nei romanzi di Saramago, non nella realtà. «Non c'è spazio, in realtà - dice l'assessore - perché non possiamo allargare i campi di inumazione e dobbiamo verificare lo stato delle salme che già vi si trovano, operazione complicata, perché dobbiamo rintracciare e chiedere l'intervento dei parenti, del medico legale. Se sono mineralizzate si mettono i resti in una cassettina e si può inumare un'altra salma». Proprio attorno a questa storia è saltato De Roberto, il vecchio direttore: la Procura indaga - anche su due medici legali che sarebbero stati un po' compiacenti - sulla mancata «scomposizione» di una salma, che invece sarebbe stata intatta o quasi. Da lì gli accertamenti a tappeto dei carabinieri, che hanno portato a trasferire anche due impiegati e quattro operai, pure loro indagati. Il sospetto è che se ci sono tante difficoltà qualcuno potrebbe marciarci e fare affari a spese dei parenti dei morti. A San Martino delle Scale, nel cimitero di un Comune vicino, Monreale, sono state arrestate sei persone per orrori legati alla «liberazione» dalle vecchie salme, con le cattive più che con le buone, di spazi da rivendere. «Vogliamo liberare circa 1500 nicchie assegnate con concessioni trentennali in scadenza - spiega ancora D'Agostino -. Così riusciremo a toglierne dai depositi da 35 a 40 a settimana». E i nuovi arrivi? «Sono 15-16 al giorno». I conti non tornano, insomma. Ma le difficoltà sono create ad arte? D'Agostino lo esclude, però il Comune per il «revamping», sostanzialmente un lifting del malandato forno crematorio, ha dovuto prelevare 220 mila euro dal fondo di riserva. E ad andare bene, riprenderà a funzionare dopo l'estate. Progetto più lontano, il nuovo cimitero di Ciaculli: ci vorranno anni, è un'opera epocale, che sorgerà in una zona in cui la mafia per seppellire le proprie vittime non chiedeva tutte le autorizzazioni di cui oggi ha bisogno il Comune.

Il sindaco dei porti aperti chiude a chi vuol dar lavoro agli italiani. L'amministrazione comunale nega il permesso di costruire ai colossi del commercio: "Incompatibilità urbanistica" si legge nella motivazione, Orlando: "Bisogna rispettare le regole" e intanto anche il Palermo Calcio rischia di traslocare. Roberto Chifari, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. In questa storia verrebbe da dire che la burocrazia si mette di traverso allo sviluppo economico della città di Palermo: tre no a tre imprenditori privati che fanno male alle attività produttive. Tre storie diverse tra loro, tre esempi di come la politica abbia messo il veto su commercio, sviluppo e sport. No alla realizzazione di Decathlon, no alla costruzione ex novo di un'area dedicata al colosso Ikea, no alla concessione dello stadio Renzo Barbera alla nuova società calcistica nata dalle ceneri della Us Città di Palermo. Insomma, tutto fermo anche se questa resta la città dei tanti rendering e dei pochi progetti attuati. Al centro delle polemiche ci è finito - suo malgrado - il primo cittadino Leoluca Orlando, quello che apre i porti ai migranti e dall'altro lato blocca l'economia di un territorio in profonda crisi. Lo dicono i numeri del report Arrupe sulle migrazioni. Sono 14.815 i nuovi permessi di soggiorno rilasciati nel 2018 in Sicilia, un valore in crescita di quasi il 10% rispetto all'anno precedente. Ben il 56,2% di questi nuovi permessi di soggiorno sono rilasciati per asilo o motivi umanitari, a fronte "solo" del 26,8% a livello nazionale. "Una caratteristica che evidenzia la maggior vulnerabilità degli extracomunitari presenti in Sicilia", nota il rapporto, "è la minor quota di permessi per lungo soggiornanti, ovvero quelli che, sotto alcune condizioni, permettono di mantenere la presenza sul territorio e di avere accesso a tutele di welfare, che rappresentano il 46,5% del totale, a fronte del 62,3% della quota nazionale". Insomma una città piegata in due da una crisi senza ritorno che porta a riflettere sulla decisione di un'amministrazione che preferisce puntare sul blocco dell'economia. E allora cerchiamo di capire cosa è successo.

Decathlon. È il tasto più dolente dell'intera vicenda. L'Amministrazione comunale ha detto no al colosso di abbigliamento sportivo che avrebbe dovuto costruire il suo centro commerciale a Partanna Mondello, dove un tempo sorgeva lo stabilimento della Coca Cola. Gli uffici hanno rigettato l'istanza presentata dall'azienda evidenziando come "la destinazione urbanistica dell'area, classificata come D1 è incompatibile con attività che non siano esclusivamente industriali, artigianali e simili". Una motivazione strana, dato che la zona è abbandonata da anni, così come lo stabilimento chiuso da decenni. La stessa Società francese non è la prima volta che prova a sbarcare in città ma sembra che in passato avesse ritirato tutte le domande. «A novembre 2019 - fanno sapere dagli uffici comunali -, non aveva adempiuto alle richieste di integrazione documentale e alle richieste di chiarimenti formulate dall'amministrazione, tanto che si è dovuto procedere al diniego per mancato riscontro alle domande del Suap». L'interpretazione degli uffici del Suap è stata suffragata anche da un parere reso dall'Avvocatura comunale che ha rigettato la richiesta. Non si è fatta attendere la replica del Comune, attraverso le parole dell'assessore alle Attività economiche Leopoldo Piampiano. «Sulla vicenda del rigetto di un permesso presentato da una ditta locale, asseritamente per l'apertura di un punto vendita della società Decathlon, sono circolate in queste giorni notizie sensazionalistiche che in larghissima parte se non del tutto sono completamente destituite di fondamento. In particolare, e spiace sottolineare la leggerezza con cui alcune affermazioni gravemente lesive dell'immagine della città sono state diffuse, quella relativa ai presunti due anni necessari per l'esame della pratica. Il rigetto dell'istanza è infatti del 20 maggio e l'istanza del 25 febbraio 2020: 85 giorni sono diventati, in un poco accurato racconto giornalistico oltre 700». Il sindaco Leoluca Orlando ha voluto precisare che chiunque voglia investire in città deve avere chiaro: «il quadro normativo entro cui le proposte possono essere valutate per realizzare il bene della nostra comunità anche sotto il profilo dello sviluppo economico ed occupazionale». Al di là della polemica politica, Decathlon ha deciso di fare un passo indietro: un'occasione persa soprattutto per i risvolti occupazionali che avrebbe comportato.

Ikea. Altro giro, altra corsa. Anche il colosso svedese di arredamento ha provato più volte a sbarcare a Palermo per coprire tutto il potenziale bacino della Sicilia occidentale. Se a Catania Ikea è una realtà presente da anni, a Palermo il colosso si è accontentato solo di un corner online all'interno di un centro commerciale. Anche qui il nodo è stata la variante urbanistica. "Al posto di attrarre attività imprenditoriali che creano posti di lavoro, sembra che il sindaco di Palermo si diverta a rendere la città sempre più povera e con meno servizi e attrazioni», è la denuncia del gruppo consiliare del Movimento 5 Stelle. L'amore tra Ikea e Palermo però, potrebbe essere solo rimandato. Non a caso, il colosso svedese ha inserito la città di Palermo all'interno di uno spot realizzato per la ripartenza nella fase 2. L'idea c'è ma la burocrazia non aiuta.

Stadio Renzo Barbera. È la casa dei tifosi rosanero ma anche qui c'è un ostacolo. La nuova Società da tempo ha chiesto il diritto di superficie sull'area per 99 anni. Un diritto che tanti altri club hanno ottenuto in Italia ed è cruciale per lo sviluppo e l'ammodernamento degli stadi. Invece, l'ultima concessione è scaduta nel 2014 e da allora si è andati avanti di proroga in proroga. Adesso l'amministrazione comunale ha chiesto per la nuova stagione - e per quella appena conclusa - di riscuotere i canoni concessori. Una cifra che la vecchia società di Zamparini (quando il Palermo giocava in serie A e con un fatturato dieci volte maggiore rispetto a quello attuale) era di 341mila euro l'anno. Troppo, per una Società che ha appena vinto il campionato di serie D e si appresta a giocare in C. Un tira e molla che non è piaciuto al Club che da tempo chiede chiarimenti su quanto pagare. Un canone che in ogni caso, dovrebbe essere in proporzione al fatturato, ai costi di gestione della struttura di viale del Fante e in relazione al campionato in cui gioca la squadra. "L'Amministrazione ed il Consiglio comunale credo abbiano l'unico obiettivo di garantire l'utilizzo dello stadio nel modo più corretto, come parte del più ampio impegno per il calcio e lo sport d'eccellenza nella nostra città", sostiene Orlando. "Crediamo - dichiarano gli assessori al Bilancio, Roberto D'Agostino, e allo Sport, Paolo Petralia Camassa. - che sulla vicenda della concessione dello Stadio Barbera per la società rosanero, sia in corso la classica tempesta nel bicchiere d'acqua. Come è noto a tutti, lo stadio è stato affidato con un consenso unanime istituzionale e politico, alla fine della scorsa estate per permettere alla squadra di calcio l'iscrizione al campionato di serie D. Ciò è avvenuto nelle more della definizione della Convenzione, che dovrà essere votata dal Consiglio comunale e dovrà stabilire, fra le altre cose, anche i canoni concessori. La concessione non potrà ovviamente non tenere conto del fatto che la società usufruisce dello stadio, ed allo stesso tempo ne cura la manutenzione e la sicurezza, già dal 2019". Intanto il Club si cautela e sonda il terreno per emigrare in altre città.

Sintesi dell’articolo di Antonio Fraschilla e Claudio Reale per “la Repubblica” pubblicata da “la Verità” il 17 giugno 2020. Il 20% dei dipendenti della Regione Sicilia sono a casa per gli effetti della pandemia, ma vengono pagati senza lavorare. I motivi dell' assenza giustificata sono congedi, legge 104 (assistenza a familiari bisognosi), o per le esenzioni consentite dalle norme nazionali previste per l' emergenza Covid: non hanno il computer o il collegamento Internet, oppure abitualmente sono assegnati mansioni, come portieri o autisti, che non possono svolgere. Dei quasi 14.000 dipendenti di Palazzo D' Orleans, il 65% lavora da casa mentre il 20% non va in ufficio ma neppure lavora, ricevendo tuttavia lo stipendio pieno. La gran parte degli uffici regionali non sono ancora attrezzati per riaccogliere i dipendenti con postazioni di lavoro rese agili da distanziamento o altri dispositivi di protezione.

Ci sono illegalità al bar del tribunale di Palermo? Le Iene News il 16 giugno 2020. Giovanni Torregrossa è un imprenditore simbolo della lotta alla mafia, dopo che nel 2012 aveva fatto arrestare chi gli chiedeva il pizzo. Il nostro servizio racconta una storia diversa. “Pizzo al bar del tribunale era un titolo che si leggeva per evidenziare quello che era successo all’imprenditore Torregrossa”. A parlare con Ismaele La Vardera è Maurizio Zoppi, giornalista de Il Sicilia. Era il 2012 quando un imprenditore palermitano, proprietario di tabaccherie e anche del bar dentro al tribunale di Palermo, denuncia e fa arrestare chi gli chiedeva il pizzo. Giovanni Torregrossa diventa così un simbolo della lotta alla mafia. Il nostro servizio racconta una storia diversa. La Iena ha parlato con due dipendenti del bar del tribunale, che ci hanno raccontato: “I clienti sono magistrati, carabinieri, polizia. Gente che ha che fare con la legge, quella che non si rispetta là dentro”.

Il bar del tribunale di Palermo: illegalità nell'attività dei Torregrossa? Le Iene News il 16 giugno 2020. Ismaele La Vardera racconta la storia di due dipendenti del bar del tribunale di Palermo che sostengono di essere vittime di soprusi sul posto di lavoro. Un posto di lavoro di proprietà di un simbolo della lotta alla mafia: la Iena così è andata a parlare con la persona che gestisce questo bar, figlia di Giovanni Torregrossa. “Pizzo al bar del tribunale era un titolo che si leggeva per evidenziare quello che era successo all’imprenditore Torregrossa”. A parlare con Ismaele La Vardera è Maurizio Zoppi, giornalista de Il Sicilia. Era il 2012 quando un imprenditore palermitano, proprietario di tabaccherie e anche del bar dentro al tribunale di Palermo, denuncia e fa arrestare chi gli chiedeva il pizzo. Giovanni Torragrossa diventa così un simbolo della lotta alla mafia e all’illegalità. Nella nostra storia, però, non sembra essere così. La Iena parla con due dipendenti del bar del tribunale, che ci raccontano: “I clienti sono magistrati, carabinieri, polizia. Gente che ha che fare con la legge, quella che non si rispetta là dentro”. Rita e Valeria sono dipendenti del bar del tribunale di Palermo, di proprietà della famiglia Torregrossa. “Lavoriamo lì da 12 anni”, raccontano le due donne. Che sostengono di subire illegalità sul posto di lavoro, proprio nel luogo dove simili crimini si combattono. “Lavoro per nove ore, sono pagata per quattro”, raccontano. “Prendo uno stipendio di 600 euro al mese”. Insomma, Rita e Valeria avrebbero un part time di 4 ore ma sostengono di lavorarne nove. Guadagnerebbero quindi circa 3,3 euro all’ora. Ma non è tutto: chi gestisce il bar le sfrutterebbe anche in un’altra maniera, cioè intaccando le loro buste paga. “Devo sempre restituire una certa cifra”, sostiene una di loro come potete vedere nel servizio qui sopra. Secondo il loro racconto dalla busta paga che ricevevano, avrebbero dovuto restituire una parte della cifra come la quattordicesima. “Da dodici anni questo è il patto”, dicono. “Buste paga da milletrecento, millequattrocento. Ma il mio stipendio sempre 600 euro era. Dovevo sempre restituire”. Ma perché per 12 anni sarebbero state dentro questo gioco? “Per bisogno. O fai così o te ne vai”. A lavorare in quel bar sarebbero “una decina” di persone. “Con tutti ha sempre fatto così”, ci raccontano. Ma come potete vedere nel servizio di Ismaele La Vardera, non tutti i dipendenti sembrano disposti a denunciare questa situazione.  Così, per provare a dimostrare la veridicità del loro racconto, Rita e Valeria vanno a parlare con la persona che gestisce il bar - Luisa Torregrossa - con una telecamera nascosta: lo stesso sistema usato dal padre Giovanni Torregrossa per smascherare i suoi aguzzini. “Il contratto è di 4 ore e tu lo sai che non facciamo 4 ore. Io te ne faccio 9”, dice la nostra complice. “Sempre così è stato”, replica la Torregrossa. E anche ai dubbi sulla tredicesima e la quattordicesima la replica è “come sempre”. A questo punto la Iena va a parlare direttamente con Luisa Torregrossa, che - dopo un po’ di resistenze - se ne va promettendo di sistemare la situazione con le sue dipendenti. Noi comunque ci rivolgiamo al presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale: dopo averlo incontrato, abbiamo messo tutto nero su bianco con il magistrato di turno.

Illegalità al bar del tribunale di Palermo? Aperta un'inchiesta. Le Iene News il 18 giugno 2020. Dopo il servizio di martedì scorso di Ismaele La Vardera che ha raccolto le testimonianze di due dipendenti, la procura di Palermo ha aperto un fascicolo conoscitivo contro ignoti. E dal Napoletano ci arriva, sempre da una barista, un’altra storia di sfruttamento. Se ne siete vittima, scriveteci: noi continuiamo la nostra battaglia. Aperta un’inchiesta, al momento un fascicolo conoscitivo contro ignoti, per la vicenda del presunto sfruttamento sul lavoro al bar del tribunale di Palermo, dopo che ve l'abbiamo raccontata con Ismaele La Vardera nel servizio di martedì scorso che potete rivedere qui sopra. In un bar gestito tra l’altro dalla figlia di Giovanni Torregrossa, un imprenditore simbolo che aveva denunciato chi chiedeva il pizzo sulle sue attività. Dopo il servizio, ci arriva anche una nuova denuncia di sfruttamento, dal Napoletano, da Giovanna, barista che lavorava 80 ore alla settimana per 900 euro.

IL BAR DEL TRIBUNALE. La Iena parla con Rita e Valeria, due dipendenti del bar del tribunale che ci raccontano una storia che sembrerebbe stonare con quella dell’eroe anti-racket: “I clienti sono magistrati, carabinieri, polizia. Gente che ha che fare con la legge, quella che non si rispetta là dentro”. “Lavoriamo lì da 12 anni”, proseguono le due donne che sostengono di subire illegalità sul posto di lavoro proprio nel luogo dove si dovrebbe combatterle. “Lavoro per nove ore, sono pagata per quattro”, dicono. “Prendo uno stipendio di 600 euro al mese”. Insomma, Rita e Valeria avrebbero un part time di 4 ore ma sostengono di lavorarne nove. Guadagnerebbero quindi circa 3,3 euro all’ora. E non è tutto: chi gestisce il bar le sfrutterebbe anche in un’altra maniera, cioè intaccando le loro buste paga. “Devo sempre restituire una certa cifra”, sostiene una di loro. Secondo il loro racconto dovrebbero restituire una parte della cifra dalla busta paga che ricevono, come anche la quattordicesima. “Da dodici anni questo è il patto”, dicono. “Buste paga da milletrecento, millequattrocento. Ma il mio stipendio sempre 600 euro. Dovevo sempre restituire”. Perché per 12 anni sarebbero state dentro questo gioco? “Per bisogno. O fai così o te ne vai”. A lavorare in quel bar sarebbero “una decina di persone”: “Con tutti ha sempre fatto così”. Per provare a dimostrare la veridicità del loro racconto, Rita e Valeria vanno a parlare con Luisa Torregrossa, che gestisce il bar, con una telecamera nascosta: lo stesso sistema usato dal padre Giovanni per smascherare i suoi aguzzini. “Il contratto è di 4 ore e tu lo sai che non facciamo 4 ore. Io te ne faccio 9”, dice la nostra complice. “Sempre così è stato”, replica la Torregrossa. E anche ai dubbi sulla tredicesima e la quattordicesima la replica è “come sempre”. A questo punto la Iena va a parlare direttamente con Luisa Torregrossa, che dopo un po’ di resistenze se ne va promettendo di sistemare la situazione con le sue dipendenti. Noi comunque ci rivolgiamo al presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale: dopo averlo incontrato, abbiamo messo tutto nero su bianco con il magistrato di turno. E ora è partita l’inchiesta.

“80 ORE LAVORATE E 24 PAGATE”. Subito dopo questo servizio, ci ha contattato un’altra giovane barista, Giovanna (il nome è di fantasia), sfruttata per anni in un locale del Napoletano: “Ho appena visto tutti i servizi della puntata, uno mi ha colpito più di tutti, personalmente, quello di Ismaele La Vardera. Da barista avevo un contratto da 24 ore settimanali ma ne facevo 80!”. “Ero stata assunta per sei turni a settimana spalmati su cinque giorni lavorativi. Nonostante il mio contratto fosse di 24 ore settimanali, io in realtà ne facevo almeno 48. Percepivo circa 840 euro, in totale”, racconta Giovanna a Iene.it. “Dopo due anni uno dei 4 colleghi va via e il nostro titolare ci parla chiaro: ‘Dovete fare in tre il lavoro che prima facevate in quattro’. Il bar era aperto sette giorni su sette e così ci siamo trovati a lavorare, di fatto, per 80-90 ore a settimana. Lo stipendio? Praticamente lo stesso di prima, 900 euro al mese... Ho resistito per 9 mesi e poi ho deciso di andare via, io non avevo famiglia, a differenza degli altri colleghi”. “Al momento delle mie dimissioni, quando mi sono licenziata per giusta causa, avevo maturato il diritto a un risarcimento di quasi 30mila euro. Da persona corretta, conoscendo le difficoltà economiche in cui il titolare versava, gli chiesi di farmi avere solo quello che mi spettava per i tre anni di lavoro, più o meno 3mila euro. Me li hanno negati e allora adesso, da quasi 3 anni, siamo in causa. Io ci tenevo a quel lavoro, nonostante per la fatica dei turni mi abbia provocato nel tempo anche due fastidiosissime ernie. Io ne sono uscita, ma so che i miei colleghi sono ancora lì alle stesse condizioni, loro hanno una famiglia da mantenere...”.

Nubifragio a Palermo: “All'improvviso è scoppiato l'inferno, non si capiva più nulla”. Le Iene News il 16 luglio 2020. A parlare a Iene.it è una cittadina palermitana che ha visto con i suoi occhi il disastro che si è abbattuto sul capoluogo siciliano: “All’inizio erano quattro gocce d’acqua, poi si è scatenato l’inferno all’improvviso. Sotto casa mia c’era un fiume d’acqua che si portava via le macchine: una cosa indescrivibile”. “All’inizio erano quattro gocce d’acqua, poi si è scatenato l’inferno all’improvviso”. A raccontare a Iene.it il violento nubifragio che ha travolto Palermo è una cittadina del capoluogo siciliano che ha vissuto in prima persona quell’ “inferno”: auto travolte dall'acqua o rimaste intrappolate nei sottopassaggi della circonvallazione allagati (come vi abbiamo raccontato qui), strade trasformate in fiumi in piena, persone costrette a mettersi in salvo abbandonando le macchine sospinte via dalla pioggia. “E' partito tutto nel pomeriggio, quando è iniziato a piovere”, ricostruisce Olga. “All’improvviso si è scatenato l’inferno e non si capiva più nulla: sotto casa mia c’è una villetta, l’acqua si è portata via un muro esterno. Sulla strada si è formato come un fiume, ha iniziato a venire giù fango” dalle montagne che circondano Palermo. “Nella via c’erano delle macchine, ma si vedeva solo l’acqua che scorreva. A un certo punto non si sono viste più le auto, quel fiume se l’è portate via”. E non solo le auto: “L’acqua si è portata via tutto. I contenitori della spazzatura sono andati a finire in fondo alla strada o dentro alle case. La macchina di una mia vicina di casa ha rotto un cancello ed è finita quasi dentro una villetta. E’ stato un delirio, una cosa indescrivibile”. Un’esperienza difficile da raccontare: “Non ci sono parole, magari uno vede queste scene in televisione e non riesce a spiegarsele. Poi ci si trova a viverle ed è terribile”. Olga e la sua famiglia, per fortuna, stanno bene: “Abitiamo al secondo piano, l’acqua qui non è arrivata. Io ho una bambina, mio marito doveva uscire ma il fiume d’acqua è arrivato nel portone della casa: la paura è stata tanta”. E sfortunatamente anche i danni: “Avevamo due macchine: una è completamente da buttare, l’acqua ha sfondato il finestrino e l’ha rovinata”. La bomba d’acqua che ha travolto Palermo, purtroppo, ha avuto conseguenze gravissime sulla città: attualmente ci sono alcuni dispersi, anche se nessuna vittima confermata a differenza di quanto emerso in un primo momento. I soccorritori stanno lavorando per rintracciare queste persone. Alcuni sottopassaggi della città sono ancora allagati e i vigili del fuoco stanno lavorando per sgomberarli dall’acqua e dalle macchine rimaste bloccate. Diverse abitazioni sono state evacuate. Il nostro Ismaele La Vardera ci sta mandando aggiornamenti sulle operazioni di salvataggio, che potete vedere qui.

Nubifragio a Palermo, colpito anche il cimitero con le bare accatastate: “Lì riposa mia madre”. Le Iene News il 16 luglio 2020. Ecco la situazione di questa mattina all'interno del cimitero dei Rotoli di Palermo dopo il nubifragio che ha colpito la città. “Stamattina dopo il nubifragio mi sono precipitata al cimitero dei Rotoli di Palermo, dove riposa mia madre. Ero molto preoccupata, avevo paura di trovare la bara danneggiata, magari aperta”. Arrivata al cimitero Valentina Vaccaro fa un video per documentare la situazione dopo l’alluvione che ha colpito ieri Palermo. “Per fortuna mi sono resa conto che la situazione non era così tragica come pensavo. Comunque non era un bello spettacolo: fango, bare bagnate, puzza”. Il cimitero dei Rotoli di Palermo è stato proprio in questi giorni al centro delle polemiche per le 500 bare in attesa di sepoltura tra depositi e aree all’aperto. In una situazione già allarmante, come vi abbiamo mostrato qui, il nubifragio che ha colpito la città ha ulteriormente peggiorato le condizioni all’interno del cimitero. Valentina ha filmato la situazione nel deposito: “l’acqua è entrata nelle bare, si vede che è arrivata fino a metà delle bare. C’è fango ovunque e la puzza è incredibile”, ha raccontato Valentina, che si trovava al cimitero alle 7:30 circa di questa mattina. “Ora il legno comincerà a gonfiarsi”, dice preoccupata. “Non si possono trattare così i morti, non si può pensare che siccome sono dentro una bara allora non sono più niente”, continua Valentina. Che a proposito del piano del Comune di dare sepoltura almeno metà delle 500 bare entro fine agosto dice: “Speriamo che sia così, ma chi me lo dice che ci rientrerà la bara di mia madre? E l’altra metà? Io sto pensando di raccogliere un po’ di soldi per far cremare mia madre, ma il forno crematorio ancora non funziona e bisognerebbe andare a Messina e la spesa diventerebbe insostenibile”.

Palermo, bare galleggianti dopo l’alluvione: si dimette l’assessore. Notizie.it il 17/07/2020. Le bare accatastate al cimitero dei Rotoli di Palermo galleggiano in acqua dopo la bomba d'acqua del 15 luglio. Centinaia di famiglie, a Palermo, sono insorte per il caso delle bare accatastate al cimitero comunale dei Rotoli dove i cronisti locali avevano documentato ben 500 bare ammassate. Un grave danno di immagine, per il Comune, che si somma alla bomba d’acqua del 15 luglio: la violenta alluvione ha portato al galleggiamento delle bare in questione, accatastate in attesa di sepoltura tra depositi e aree all’aperto. Alcuni testimoni, giunti sul posto dopo l’alluvione, hanno evidenziato come l’acqua sia entrata nelle bare: “Ciò comporterà la putrefazione dei corpi dei nostri cari – denunciano i cittadini palermitani – oltre il rigonfiamento del legno delle bare”.

Palermo, lo scandalo delle bare galleggianti. E a pochi giorni della conferenza stampa tenutasi al palazzo comunale di Palermo, in cui l’assessore al Bilancio, Roberto D’Agostino, prometteva "bare zero entro inizio agosto", sono arrivate le sue dimissioni. Troppo grave il danno di immagine per il comune siculo e Leoluca Orlando – infuriato anche con il presidente di Regione Sicilia per la mancata comunicazione sulla possibile alluvione – ha preteso il "passo indietro" dell’assessore comunale, ritenuto responsabile delle bare accatastate al cimitero dei Rotoli. Nelle ultime ore, infatti, il sindaco Leoluca Orlando, in diverse uscite pubbliche, aveva accusato apertamente l’assessore D’Agostino: “Prendo atto che l’assessore D’Agostino, cui avevo chiesto una verifica quotidiana sul piano di uscita dall’emergenza del cimitero non ha ritenuto di poter raggiungere i risultati che lui stesso si era prefisso e aveva annunciato. Terrò per il momento per me le relative deleghe”, ha chiosato il primo cittadino di Palermo.

Palermo, quei trecento morti in lista d'attesa. Nel cimitero più grande del capoluogo siciliano le bare non trovano una sepoltura E spunta un business per la compravendita dei loculi con dieci indagati. Sara Scarafia l'08 febbraio 2020 su La Repubblica. In quelle 300 bare accatastate le une sulle altre con le foto di carta appese sopra per non impazzire - già basta la pena - quando cerchi di portare un fiore; in quello che oggi è il cimitero dei Rotoli, c'è la vergogna di una città che non dà sepoltura ai suoi morti. Nel camposanto più grande di Palermo, incastonato tra il Monte Pellegrino e il mare, non c'è più posto neppure nella più antica e umile delle sepolture, la nuda terra. I numeri da soli non spiegano: 300 salme in attesa di sepoltura, alcune in deposito da novembre, significa che ai Rotoli le bare sono ovunque. La direzione del cimitero le ha sistemate dentro agli uffici e nei magazzini, perché le camere mortuarie sono colme. Carmen Tranchina, poliziotta, prega davanti al feretro del padre che riesce ancora a raggiungere ma a fatica, scavalcando le casse. Viene ogni giorno, dal 25 dicembre. "È difficile" dice. E tu pensi "No, è orribile". È un'emergenza che parte da lontano, da quando, nel 2002, dal monte si staccarono due grossi massi che inibirono per cinque anni una pezzo di cimitero grande quanto otto campi di calcio. Da allora, da morti, bisogna combattere l'ultima, e più odiosa, battaglia con la burocrazia. L'unica alternativa si paga cara: un posto nel cimitero privato di Sant'Orsola, che costa da duemila a seimila euro. Nemmeno la cremazione è garantita con un forno, vecchio, che si guasta di continuo. Mai il numero di salme in attesa di sepoltura era stato così alto. La scena al cimitero è quella che ci si aspetterebbe il giorno dopo una grande catastrofe, il day-after di un terremoto, uno tsunami, una guerra. E invece le bare impilate le une sulle altre, i fiori ormai secchi incastrati nel legno, sono un orrore quotidiano. E mentre i morti non trovano pace, l'emergenza diventa malaffare: tre giorni fa i carabinieri hanno notificato 10 avvisi di garanzia ai dipendenti dei Rotoli e a due medici dell'Asp per corruzione, abuso d'ufficio, falso e violazioni ambientali. L'accusa è di un business illegale, con mazzette versate per la compravendita di sepolture con i loculi liberati anzitempo per fare spazio a chi pagava. Di certo non può pagare Giuseppe, che in deposito veglia la madre e con gli occhi umidi dice "anche morire è roba da ricchi, io i soldi per il cimitero privato non ce li ho". Dovrà aspettare che si liberi un posto. Quanto tempo? Per arginare l'emergenza il Comune ha comprato 900 tombe pre-fabbricate da interrare, ma l'operazione, costata più di un milione, si è rivelata un flop: le salme già sistemate sono appena una quarantina a fronte di una media di 15 nuovi ingressi giornalieri. È difficile scavare. Il terreno è impervio, gli spazi stretti e i macchinari necessari per dissodare i campi troppo grandi. E poi ci sono i tempi burocratici: con il cimitero che deve contattare le agenzie funebri che a loro volta devono contattare le famiglie. Che poi devono andare negli uffici e pagare 800 euro. Nel frattempo le settimane passano e i 96 spazi pronti restano vuoti. E allora il Comune sta recuperando un vecchio progetto accantonato pe r realizzare un nuovo camposanto nel quartiere di Ciaculli destinando all'operazione 15 milioni di fondi Cipe. Ma quanto tempo ci vorrà perché sia pronto? E a cosa servirà a Lino, assistente in un ufficio legale, sconfitto da un tumore a 51 anni, che i familiari devono lasciare "Qui"? "Qui, abbandonato" dice la cognata e scoppia in lacrime. Nel deposito dove pietà è morta Giovanna entra portandosi un fazzoletto al naso col "suo profumo", quello del marito che ha perso, perché l'odore, soprattutto certi giorni, è insopportabile. Nel deposito dove pietà è morta, in un cassa attendono insieme una mamma e il suo bambino: Rosalia, morta di parto, e il figlio Matthias. Ci vorranno almeno tre mesi perché possano riposare in pace. "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".

·        Succede a Messina.

I VENTICINQUE PRIMATI DI MESSINA AL TEMPO DEL BORBONE. Michele Eugenio Di Carlo su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 250 maggio 2020. Di Alessandro Fumia.

Nel 1735: Primo Teatro d'opera con orchestra (teatro della Munizione restaurato), fondato nel regno delle due Sicilie nel 1724 durante il governo della dinastia austriaca.

Nel 1741: Prima Operetta dedicata da un autore italiano a un ambasciatore turco, giunto a Messina con delegazione imperiale per firmare trattato di pace, libero commercio e navigazione, stipulato tra il regno delle due Sicilie e la Porta Ottomana.

Nel 1751: Prima Compagnia di Real Bandiera per il commercio internazionale in Italia fondata a Messina.

Nel 1752: Prima Banca Commerciale Nel 1752: Prima Banca Commerciale Azionaria in Italia, attiva nel Regno duo siciliano, fondata a Messina.

Nel 1801: Prima opera pubblica per dimensione, la Palazzata, fu considerata l’ottava meraviglia del mondo per estensione lineare duemila metri, alta venti metri ricopriva tutta la cortina del porto.

Nel 1803: Primo Palazzo della Borsa (stanze della Borsa presso palazzo Broadbent nella Palazzata) d’Italia fondato a Messina.

Nel 1804: Prima spedizione di casse di cedrate di Messina in Russia.

Nel 1805: Primo Cacciatorpediniere (gun-boats) costruito nel cantiere navale di Messina venduto alla marina degli Stati Uniti d’America, su mandato del presidente Thomas Jefferson.

Nel 1807: Prima spedizione di arance di Messina in America.

Nel 1810; Prima sconfitta di un esercito di Napoleone Bonaparte presso i villaggi di mezzogiorno di Messina.

Nel 1819: Primo Compressore Chirurgico brevettato in Europa, eseguito per la fasciatura dell’aorta e dei grandi vasi sanguigni, dal professore messinese, dottore Natale Catanoso, consistente in una piccola tenaglia a molla per bloccare le suture aortiche, eseguendo con questa tecnica due interventi chirurgici riusciti, presso il grande ospedale di Messina.

Nel 1819: Prima Scoperta dell’Acido Borico Libero in Natura al mondo, del chimico messinese Gioacchino Arrosto, presso una cavea nell’isola di Vulcano, segnalata dal Sig. Lucas in una lettera emessa e datata a Messina, il 31 luglio 1819.

Nel 1824: Prima riproduzione di Flora Artificiale a Rilievo al mondo, prodotta per fini scientifici (botanica) dal dottore Anastasio Cocco, e realizzate in pasta di cera dai maestri messinesi Pasquale Principato ed Emmanuele Calamita.

Nel 1825: Prima Cattedra di Ostetricia, Anatomia e Clinica Cerusica del Regno delle due Sicilie fondata in Italia, istituita a Messina presso l'Accademia Carolina.

Nel 1832: Primo Acquario Pubblico per osservazione animali marini al mondo, la celebre gabbia alla Power costruita a Messina dall’affermata studiosa di scienze naturali Jannette Villepreux Power.

Nel 1833: Prima Cattedra di Diritto Nautico Commerciale d'Italia, istituita a Messina.

Nel 1834: Prima Catena Meccanica di trasmissione, o di trazione costruita in Italia inventata dal messinese Antonio Grillo.

Nel 1835: Prima Preparazione pura di Acido Citrico al mondo, inventata da Letterio Centorrino.

Nel 1836: Prima Vettura a Vapore a ruote di ferro per strade carrabili (automobile), prodotta da Tommaso Anselmi (torinese) e Giuseppe de Natale (messinese) in Italia, su decreto reale del 1836.

Sempre nel 1836: Prima Pistola a percussione per quattro colpi inventata da Francesco Moschella di Tripi (Messina) fabbricata in Europa.

Nel 1845: Prima applicazione di Acido Ascorbico solubile per produrre vitamina C al mondo, scoperta a Messina dal chimico Natale Aloisio.

Sempre l’anno 1845: Prima invenzione di un Sonometro in Italia realizzato dal fisico messinese Antonio Costa Saya.

Nel 1846: Prima Cura Cataratta incipiente al mondo, eseguita attraverso un metodo chimico-terapeutico inventato dall'oftalmologo dottor M. Pugliatti di Messina.

Nel 1851: Primo Smacchiatore per fibre tessili al mondo, inventato a Messina.

Nel 1860: Prima Pila al cloruro di sodio, brevettata dall'elettrotecnico messinese Tommaso Lucifero, ma registrata in Italia sei mesi dopo presentandola nell’esposizione di Firenze.

I nomi dei magistrati denunciati, fatti dall’onorevole Cateno De Luca. Messina Magazine il 12 12 2017.

QUESTA MATTINA, IN CONFERENZA STAMPA ALLA EX CHIESA DI SANTA MARIA ALEMANNA A MESSINA. L’onorevole Cateno de Luca, questa mattina, alla presenza dei suoi legali Carlo Taormina e Tommaso Micalizzi ha consegnato alla stampa una copia della denunzia (47 pagine) presentata alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. L’Ufficio giudiziario calabrese, è chiamato a pronunciarsi sulla questione, dal momento che il neo eletto parlamentare regionale ha querelato quattro magistrati del Distretto giudiziario di Messina in servizio a Palazzo Piacentini, ovvero: “il dottor Vincenzo Barbaro (procuratore generale), il dottor Antonio Carchietti (sostituto procuratore), la dottoressa Liliana Todaro (sostituto procuratore) e la dottoressa Monia De Francesco (giudice per le indagini preliminari). De Luca, ha inoltrato denunziato: “Corrado Taormina (consulente tecnico d’ufficio), Ferdinando Falco, Antonio Rubbino, Jonathan Pace, Salvatore Lo Gatto, Lorenza Gallucci, Giovanni Rossello, Ottavio Piconese questi appartenenti alla Guardia di Finanza e Giovanni Cicala (avvocato). Ecco l’atto d’accusa:

Il sottoscritto Cateno Roberto De Luca, nato a Fiumedinisi (ME), il 18 marzo 1972 e residente in Messina, via Oratorio San Francesco is. 306, n. 5, ma elettivamente domiciliato, in relazione a quanto conseguente al presente atto, presso lo Studio dell’Avv. Prof. Carlo Taormina, in Roma, alla Via Federico Cesi n. 21, che nomina proprio difensore, unitamente all’Avv. Tommaso Micalizzi, con facoltà di operare congiuntamente o disgiuntamente

PREMESSO Che

il sottoscritto dopo la sua elezioni al Parlamento Siciliano, maggio 2006, è stato bersaglio di attacchi e denunzie per aver duramente combattuto il malaffare politico e mafioso prendendo di mira anche le connivenze tra i vari Palazzi Istituzionali tra i quali anche quelli di Giustizia. Emblematico in tal senso è il contenuto della lettera di dimissioni dell’esponente dal Parlamento Siciliano del 17 luglio 2012, a seguito dell’imminente rinvio a giudizio per il procedimento penale 4700/2009 (assolto nel 2017 !) di cui se ne riporta un significativo frammento: “ ….. sono state effettuate, dal 2007 in poi, oltre 5000 assunzioni tra le quali parrebbe esserci anche quelle di figli e stretti congiunti di Parlamentari siciliani e nazionali, di assessori regionali, di magistrati, di sindacalisti, di alti burocrati regionali e di rappresentanti di organi di controllo dello Stato…” Che il sottoscritto dopo il suo arresto del 27 giugno 2011 si è concentrato esclusivamente sui faldoni dei procedimenti penali dimettendosi prima da sindaco di Fiumedinisi e poi dal Parlamento Siciliano perché aveva capito, fin da subito, che lo attendeva un lungo calvario giudiziario che andava affrontato con determinazione attaccando gli autori, i complici ed i fiancheggiatori della trappola giudiziaria che era stata imbastita per stroncare la propria ascesa politica essendo diventato, in quel periodo, un uomo ritenuto potente senza padroni e l’unico oppositore al sistema di potere politico – mafioso che governava la Sicilia. Per i dettagli si fa espresso rinvio alla documentazione allegata alle due denunzie già consegnata all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria, contenenti i riferimenti fattuali che sono utili per un inquadramento sistematico della vicenda che adesso ci riguarda; che il 27 giugno 2012 il sottoscritto ha denunziato quel verminaio che ancora continua a strumentalizzare una parte del Tribunale di Messina per finalità illecite rappresentato da illustri esponenti degli organi inquirenti e della magistratura, da liberi professionisti, da rappresentanti delle associazioni ambientaliste, da influenti pezzi della burocrazia regionale, da noti esponenti del mondo politico e da alcuni dichiaranti che, stabilmente, nell’ambito del procedimento penale 4700/2009 hanno agito per bloccare la crescita politica dell’esponente causandone, tra l’altro, il suo arresto e di altre tre persone con un processo che ha visto alla sbarra per oltre sei anni ben diciassette imputati per abuso, falso e tentativo di concussione presuntivamente commessi tra il 2005 ed il 2010 mentre l’esponente era sindaco del comune di Fiumedinisi, deputato del Parlamento Siciliano e leader del movimento politico autonomista Sicilia Vera; che per i gravi fatti già denunziata il 27 giugno 2012 all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria nei confronti degli organi inquirenti di Messina ed altri ne è scaturito un apposito procedimento penale, n. 1668/14, per il quale l’esponente è stato sentito il 24 settembre 2014 e tutt’ora pendente (sic!) presso la Procura della Repubblica di Catanzaro in quanto al Tribunale di Reggio Calabria nel frattempo era stato trasferito un Pubblico Ministero coinvolto nei fatti denunziati; che l’esponente ha subito ben sedici procedimenti penali per non essersi mai piegato alla politica del malaffare e per aver prontamente denunziato gli organi inquirenti che si sono prestati a questo disegno criminale: la reazione dell’intero sistema si è riscontrata soprattutto a seguito della presentazione di più denunzie da parte dell’esponente subito dopo il suo arresto del 27 giugno 2011, allorquando la Procura della Repubblica di Messina che aveva avviato una vera e propria caccia all’uomo, ha aperto a carico del sottoscritto numerosi e progressivi procedimenti penali, ad oggi tutti chiusi con sentenze di non luogo a procedere ed archiviazioni per l’inconsistenza delle accuse per come si evince dall’allegato curriculum giudiziario; che il disegno criminoso non riguardava soltanto l’abbattimento dell’uomo politico ma anche la sua distruzione ed umiliazione professionale rappresentata dal mondo FENAPI – Federazione Nazionale Autonoma Piccoli Imprenditori: l’esponente è stato per quasi venti anni Direttore Generale oltre ad essere stato il fondatore, unitamente ad altri, della FENAPI e di tutti i suoi Enti, che operano nel settore fiscale e sociale in 78 provincie e 18 regioni con oltre mille sportelli operativi dei suoi enti di servizio come il Patronato INAPI, il CAF FENAPI, il CAA FENAPI ed altri ancora; che il 18 ottobre 2016 sempre nell’ambito del proc. pen. 4700/2009, in vista dell’udienza del 21 ottobre 2016, i Pubblici Ministeri Liliana Todaro e Vincenzo Barbaro hanno tentato l’affondo finale chiedendo ben cinque anni di reclusione per il l’esponente con il deposito di una memoria conclusiva che prevedeva la prescrizione per alcuni capi di imputazione e la condanna per altri capi di imputazione, mettendo sempre più in evidente imbarazzo anche il Collegio Giudicante per l’inconsistenza delle accuse originariamente formulate e per i numerosi falsi ed omissioni contenute nel conclusivo atto di accusa formulato dall’Ufficio di Procura; che il 23 dicembre 2016 il sottoscritto ha presentato un ulteriore denunzia all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria per i delitti di abuso di potere, falso ed omissioni in atti giudiziaria ed occultamento di prove, falsa testimonianza e calunnia nei confronti di ben 31 soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nel procedimento penale 4700/2009 con particolare riguardo gli organi inquirenti di Messina; che il 30 gennaio 2017 il sottoscritto, per mero scrupolo cautelativo e difensivo, ha presentato anche istanza di rimessione chiedendo lo spostamento del processo a Reggio Calabria alla Suprema Corte di Cassazione che pur ritenendola, in prima battuta, fondata l’ha respinta il 26 settembre 2017 dopo una lunga fase istruttoria. E’ appena il caso di evidenziare che l’atteggiamento del Tribunale, a seguito della presentazione dell’istanza di rimessione, è cambiato radicalmente a punto tale che alcuni immotivati dinieghi più volte pronunciati dallo stesso Tribunale su istanza della difesa dell’esponente sono stati all’improvviso ribaltati dai Giudicanti, sbloccando una serie di procedimenti amministrativi quali la realizzazione della strada di lungo fiume e la ripresa dei lavori per la realizzazione del campo di calcio indispensabili per poter dimostrare l’inconsistenza e la falsità delle contestazioni formulate ab origine dall’Ufficio di Procura. E’ doveroso dare atto anche in questa sede che l’intero collegio, a seguito del deposito dell’atto di rimessione, aveva inoltrato istanza di astensione dal processo prontamente respinta dal Presidente del Tribunale di Messina; che il 6 novembre 2017 il sottoscritto risultava eletto al Parlamento Siciliano nella lista UDC – Sicilia Vera in rappresentanza del collegio di Messina nonostante i costanti e spropositati attacchi mediatici subiti per essere costantemente additato di far parte della cosiddetta “lista degli impresentabili” per l’ultimo procedimento penale ancora pendente, il 4700/2009, rispetto ai quattordici già chiusi con la più ampia formula di innocenza; che il 10 novembre 2017 l’accennato procedimento penale 4700/2009 si concludeva in primo grado per tutti gli imputati, compreso il sottoscritto, con sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste e per prescrizione pronunciata dalla II sezione penale del Tribunale di Messina. In merito si evidenzia che il sottoscritto, dopo aver letto le motivazioni con il proprio collegio difensivo, probabilmente ricorrerà in appello rinunciando alla prescrizione pronunciata dal Tribunale di Messina su alcuni capi di imputazione (solo al fine di non esporre l’Ufficio di Procura ad una azione risarcitoria per ingiusta detenzione), perché non è intenzionato ad accettare che ci possano essere zone d’ombra sul proprio operato politico – amministrativo. Anche nell’udienza del 9 novembre 2017 l’esponente, pur essendo in stato di detenzione, ha rilasciato dichiarazioni spontanee per oltre un’ora accusando l’Ufficio di Procura di gravi reati e chiedendo che il verbale di udienza venisse trasmesso all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria; che il Tribunale di Messina avrebbe reso vana l’elezione dell’esponente al Parlamento Siciliano (o per quest’ultimo arresto o per la condanna del proc. pen. 4700/2009), era stato più volte accennato qualche giorno prima dalla celebrazione delle elezioni del Parlamento Siciliano del 5 novembre 2017 e l’indomani in occasione dello spoglio elettorale per come già esternato dall’esponente agli organi di stampa; che anche l’odierno ed ultimo procedimento penale n. 3086/2014 si è rivelata una ulteriore trappola giudiziaria ispirata e predisposta dalla “solita mano nera”, già pluridenunziata dall’esponente all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria, che nell’ambito del Tribunale di Messina ha tentato più volte di firmare l’atto di morte politico e professionale dell’esponente innescando numerosi procedimenti penale e verifiche fiscali rivelatesi sempre pretestuosi e strumentali. Per rappresentare sinteticamente l’ulteriore atto di “mafia giudiziaria” (id est: proc. pen. 3086/2014) subito dall’esponente, ulteriormente sventato grazie al provvidenziale intervento di onesti Magistrati del Tribunale di Messina, che evidentemente non si sono fatti condizionare dalle pressioni che promanano dal semi – vertice dell’Ufficio di Procura, è sufficiente osservare l’articolazione dei principali profili fattuali: il 12 gennaio 2017 viene firmata dal Pubblico Ministero la richiesta per l’applicazione delle misure cautelari personali e reali: arresti domiciliari per il sottoscritto e per Carmelo Satta, Presidente Nazionale FENAPI e CAF FENAPI, e sequestro dei beni immobili e finanziari del CAF FENAPI e degli arrestati; il 3 novembre 2017 viene firmata dal GIP l’ordinanza di applicazione delle misure cautelari personali e reali per come richiesto dall’Ufficio di Procura. Nello stesso giorno il GIP si mette in congedo per gravidanza difficile (sic!); l’8 novembre 2017, a due soli giorni dalla sua elezione al Parlamento Siciliano, il sottoscritto veniva nuovamente arrestato nell’ambito del proc. pen. 3086/2014 con l’accusa di essere stato il dominus di una associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale per un importo di circa 1,7 milioni di euro per gli anni di imposta 2007 – 2012 a beneficio del CAF FENAPI s.r.l. di proprietà dell’associazione FENAPI (Federazione Nazionale Autonoma Piccoli Imprenditori) di cui l’esponente ne era stato nel 1992 uno dei cofondatori nonché Direttore Generale dal 1997 fino a giugno 2017; l’11 novembre 2017 il sottoscritto ed il presidente della FENAPI Carmelo Satta si sottoponevano all’interrogatorio di garanzia rispondendo a tutte le domande del nuovo GIP di turno (tante) ed alle contestazioni del Pubblico Ministero (nessuna) ed evidenziando di essere vittime dell’ulteriore trappola giudiziaria organizzata dal già più volte denunziato verminaio che agisce e strumentalizza il Tribunale di Messina. Nell’ambito dell’interrogatorio di garanzia è stato chiesto all’Ufficio di Procura un immediato incidente probatorio, mettendo a diretto confronto accusa e difesa sulla documentazione versata in atti al fine di poter dimostrare in contraddittorio la falsità dei presupposti fattuali e giuridici su cui si era basata la Pubblica Accusa: da un lato l’esponente e gli altri indagati, con i consulenti e legali di fiducia, e dall’altro i militari della Guardia di Finanza con i consulenti ed i liberi professionisti utilizzati dal Pubblico Ministero per il confezionamento e la formulazione delle fattispecie di reato ipotizzate. Ovviamente il Pubblico Ministero ha taciuto su tale richiesta avendo già prefigurato, per come si evince dal verbale dell’interrogatorio di garanzia, una lunga fase dibattimentale per un ulteriore processo di almeno cinque anni tra primo ed eventuale secondo grado. Il 20 novembre 2017 ore 8:30 il GIP depositava il provvedimento di revoca degli arresti domiciliari per l’esponente e per Carmelo Satta commutando le cautele personali nel divieto di ricoprire incarichi direttivi e revocando il sequestro dei beni e dei conti correnti personali limitando la misura cautelare reale ai soli beni immobili del CAF FENAPI e non ai conti correnti societari. La complessiva impalcatura accusatoria in relazione ai provvedimenti di custodia cautelare personale e reale veniva del tutto disattesa; il 20 novembre 2017 ore 9:30 si svolgeva l’udienza del Tribunale del Riesame dove gli indagati De Luca e Satta si sono difesi per oltre due ore attaccando l’Ufficio di Procura e richiedendo l’incidente probatorio per dimostrare immediatamente la falsità delle accuse. L’esponente ha chiesto l’invio del verbale all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria in considerazione delle gravi accuse formulate nei confronti degli organi inquirenti di Messina; il 20 novembre 2017 ore 11:30 la cancelleria della Commissione Tributaria Provinciale inviava per PEC ai difensori la sentenza per gli anni 2007 – 2010 a seguito del ricorso presentato dal CAF FENAPI nei confronti degli atti di accertamento emanati dall’Agenzia delle Entrate di Messina per le medesime fattispecie di contestazioni tributarie del procedimento penale 3086/2014. Tale sentenza era stata pronunciata il 3 marzo 2017 (sic!) ma veniva depositata in cancelleria soltanto il 16 novembre 2017 ed ha accolto, in parte, le ragioni del CAF FENAPI azzerando circa il 50% della pretesa accertativa scaturente dalla verifica fiscale della Guardia di Finanza di Messina, iniziata il 11 dicembre 2012 e conclusasi con il PVC del 12 maggio 2013, e confermando la complessiva esistenza dei costi dedotti dal CAF FENAPI se pur in parte dichiarati ancora non inerenti. V’è di più, perché la stessa sentenza della Commissione Tributaria di Messina, con riferimento alle sole annualità oggetto anche di procedimento penale (2009 – 2010), annullava quasi completamente la inconcepibile pretesa fiscale ipotizzata dai Militari, riducendo la contestazione fiscale di oltre l’85 percento con riferimento a dette annualità. In definitiva, veniva ulteriormente smentito l’impianto accusatorio dell’Ufficio di Procura del procedimento penale n. 3086/2014 che aveva ipotizzato artifizi e raggiri finalizzati all’evasione fiscale con una vera e propria associazione a delinquere a giustificazione dell’arresto dell’esponente e di Satta ed il sequestro dei rispettivi beni immobili e conti correnti già respinti invece dalla stessa Commissioni Tributaria Provinciale nel 2015. Si è ancora in attesa della sentenza riguardante gli anni 2011 e 2012 e successivamente si procederà all’appello per il complessivo azzeramento della pretesa impositiva a danno del CAF FENAPI, essenzialmente per gli anni non oggetto di indagine penale; il 20 novembre 2017 ore 14:00 il Pubblico Ministero depositava l’atto di conclusione delle indagini notificato l’indomani a tutti gli indagati. L’udienza del Tribunale del Riesame si era conclusa verso le ore 13:30 in quanto il Collegio ha voluto approfondire il merito delle contestazioni, interloquendo più volte direttamente con gli indagati, mentre il Pubblico Ministero ascoltava in assoluto silenzio avendo probabilmente compreso che stava per saltare l’intero impianto accusatorio, tanto che nelle proprie repliche neanche tentava di difendere i gravi indizi riferibili all’accusa di associazione a delinquere, limitandosi a generiche citazioni dell’ordinanza di custodia cautelare. In effetti, proprio per evitare l’esperimento dell’incidente probatorio più volte richiesto dagli indagati, il Pubblico Ministero ha pensato bene di mettere un punto alla fase preliminare, avendo evidentemente compreso che il Tribunale del Riesame avrebbe sentenziato a favore degli indagati smentendo ulteriormente le farneticanti tesi dell’Ufficio di Procura; Il 24 novembre 2017 ore 13:30 il Tribunale del Riesame annullava la richiesta di arresto e di sequestro immobiliare avanzata dall’Ufficio di Procura e l’ordinanza di custodia cautelare e sequestro immobiliare disposta dal GIP: gli arresti di Carmelo Satta e Cateno De Luca si erano rivelati illegittimi e della medesima illegittimità era stato dichiarato il sequestro dei loro beni immobili. Per l’Ufficio di Procura si è trattato della terza smentita dell’impianto accusatorio: prima il GIP; poi la Commissione Tributaria; infine il Tribunale del Riesame. E’ stata sufficiente la descrizione con relativa allegazione di una memoria redatta dall’esponente per far comprendere al Collegio del Riesame quanto era inconsistente il castello accusatorio del procedimento penale de quo. Dal 24 novembre 2017 l’esponente e Satta sono ritornati ad essere liberi ed incensurati senza alcuna limitazione personale e patrimoniale. Per quanto premesso il sottoscritto non avendo alcuna intenzione di lasciare impunito quest’ulteriore “atto di mafia giudiziaria”, che intende sempre con più forza denunziare, come ha sempre fatto in precedenza anche a tutela della stragrande maggioranza degli organi inquirenti e giudicanti onesti che giornalmente, anche nel Tribunale di Messina, perseguono il trionfo della “giustizia giusta” con grande spirito di abnegazione ed incondizionato senso del dovere; CHIEDE Che l’Autorità Giudiziaria adita, voglia procedere per l’accertamento dei reati, di calunnia, falso ed omissioni in atti giudiziari, tentata estorsione, falsa testimonianza, abuso di potere, occultamento di prove, violazione del segreto professionale ed altri reati eventualmente ravvisati in relazione alla complessiva esposizione dei fatti (allegato A “Oltre dieci anni di aggressione giudiziaria della FENAPI”) e commessi con più azioni esecutive, singole ed in forma associata, dai seguenti soggetti: Vincenzo Barbaro, Liliana Todaro, Antonio Chiarchietti, in servizio presso la Procura della Repubblica di Messina ed autori a vario titolo dei provvedimenti dei procedimenti penali n. 6444/11 e n. 3086/14; Monia De Francesco GIP del procedimento penale n. 3086/14 in servizio presso il Tribunale di Messina; Corrado Taormina CTU nell’ambito del procedimento penale n. 3086/14 (allegato B “Le contestazioni al Tribunale di Messina”); Ferdinando Falco, Antonino Rubbino, Jonathan Pace, Salvatore Lo Gatto, Lorenza Gallucci, Giovanni Rossello ed Ottavio Piconese militari in servizio o che hanno prestato servizio presso la Guardia di Finanza – Nucleo di Polizia Tributaria di Messina (allegato C “Le contestazioni alla Guardia di Finanza di Messina”); Giovanni Cicala avvocato del foro di Messina e principale teste dell’accusa (allegato D “Le contestazioni all’avvocato Giovanni Cicala”); Il sottoscritto inoltre, chiede che vengano acquisite le copie integrali dei seguenti procedimenti penali ed attività di polizia giudiziaria e tributaria che rappresentano la genesi e la causa del procedimento penale de quo ed a tutti gli effetti elementi di prova della consumazione dei predetti reati: tutte le fasi e gli atti del procedimento penale n. 4700/2009 presso il Tribunale di Messina; tutte le fasi e gli atti del procedimento penale n. 6444/2011 presso il Tribunale di Messina; tutte le fasi e gli atti del procedimento penale n. 4049/12 presso il Tribunale di Messina; tutte le fasi e gli atti della denunzia presentata dal sottoscritto il 27 giugno 2012 a Reggio Calabria pendente presso la Procura di Catanzaro; tutte le fasi e gli atti della denunzia presentata dal sottoscritto il 23 dicembre 2016 pendente presso la Procura di Reggio Calabria; tutte le fasi e gli atti dell’istanza di rimessione presentata dal sottoscritto il 30 gennaio 2016 presso il Tribunale di Messina; tutte le fasi e gli atti del procedimento penale n. 3086/2014 presso il Tribunale di Messina; tutte le fasi e gli atti, ivi inclusi i verbali giornalieri in originale e relativi allegati, della verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza – Nucleo Tributario di Messina in data 19 luglio 2007 e conclusasi con il PVC del 29 gennaio 2008 a carico del CAF FENAPI; tutte le fasi e gli atti, ivi inclusi i verbali giornalieri in originale e relativi allegati, della verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza – Nucleo Tributario di Messina in data 11 dicembre 2013 e conclusasi con il PVC del 12 maggio 2014 a carico del CAF FENAPI; tutte le fasi e gli atti con relativi allegati del procedimento conclusosi a favore del CAF FENAPI presso la Commissione Tributaria Provinciale di Messina (Sentenza n. 116/7/13) ed in appello Presso la Commissione Tributaria Regionale (Sentenza n. 745/02/15) riguardante l’annullamento dell’ avviso di accertamento n. TYX03A201653/2011 per l’anno di imposta 2005; tutte le fasi e gli atti con relativi allegati dei ricorsi pendenti presso la Commissione Tributaria Provinciale di Messina riguardante il CAF FENAPI per l’annullamento gli avvisi di accertamento degli anni 2007 – 2008 – 2009 – 2010 – 2011 – 2012; tutte le fasi e gli atti del procedimento penale n. 650/2014 presso il Giudice di Pace di Barcellona Pozzo di Gotto riguardante l’avv. Giovanni Cicala contro Carmelo Satta; i resoconti stenografici delle riunioni della commissione bilancio e delle adunanze del parlamento siciliano degli anni 2006 e 2011 che ha registrato la partecipazione dell’esponente; nota dell’esponente del 5 maggio 2011 al prefetto dott. Carmelo Aronica, Commissario dello Stato per la Regione Siciliana avente ad oggetto: “Bilancio di previsione della Regione siciliana per l’anno finanziario 2011 e Bilancio pluriennale per il triennio 2011-2013 – Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2011 – Utilizzo dei fondi FAS 2007.2013; nota dell’esponente del 6 maggio 2011 al Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, al Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, al Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, al Ministro per i rapporti con le Regioni Raffaele Fitto e per conoscenza al Presidente della Sezione Regionale di controllo della Corte dei Conti, dott.ssa Rita Arrigoni e al prefetto dott. Carmelo Aronica, Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, avente ad oggetto: “Bilancio di previsione della Regione siciliana per l’anno finanziario 2011 e Bilancio pluriennale per il triennio 2011-2013 – Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2011 – Riflessioni; nota dell’esponente del 23 luglio 2012 indirizzato al Presidente del Consiglio dei Ministri, Prof. Mario Monti avente ad oggetto: “Situazione economico-finanziaria della Regione Siciliana; nota del 17 luglio 2012 di dimissioni dell’esponente dal Parlamento Siciliano; citazione del 27 novembre 2017 di Vincenzo Barbaro presso la sezione civile del Tribunale di Reggio Calabria udienza già fissata per il 19 aprile 2018; Il sottoscritto dichiara altresì, la propria disponibilità ad essere sentito, anche al fine di produrre ulteriore documentazione a supporto del presente atto e di quelli già trasmessi in data 27 giugno 2012, 23 dicembre 2016 e dei verbali di udienza di vari procedimenti penali presso il Tribunale di Messina dei quali l’esponente ha chiesto espressamente la trasmissione all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria e che fanno parte integrante e sostanziale della presente denunzia. Con informativa di cui all’art. 408 c.p.p. Messina, 12 dicembre 2017 Con osservanza: on. Cateno Roberto De Luca

·        Succede a Siracusa.

Siracusa, la battaglia di don Prisutto «Risanare per ripartire». Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Sandro Orlando. Uno sente parlare del golfo di Siracusa e pensa a mare, spiagge, paesaggi da favola e cibo sano. E poi si ritrova invece a 40 chilometri di costa in cui si alternano quattro raffinerie (nella foto), una fabbrica di cloro a celle di mercurio, più un’altra una di magnesio, un inceneritore, un cementificio, tre centrali termoelettriche e un depuratore. Dodici impianti industriali che non sono estranei al fatto che in questo tratto della Sicilia orientale, la zona del polo petrolchimico di Priolo, che ha un impatto ambientale anche sui comuni di Augusta, Melilli e Siracusa, quello che i locali chiamano il «quadrilatero della morte», l’incidenza di tumori maligni, soprattutto ai polmoni (per le donne) e al colon retto (per gli uomini), sia in aumento, mentre nel resto del Paese diminuisce, come conferma anche l’ultimo rapporto Sentieri, lo studio epidemiologico nazionale sugli insediamenti esposti a rischio inquinamento.

Don Palmiro Prisutto, si sente sempre la puzza?

 «Ci siamo assuefatti a questi odori, solo quando superano una certa soglia il disagio è evidente. Ma chiunque vada via qualche giorno, se ne accorge. C’è un forte odore di gasolio dappertutto». Perché nessuno protesta?

«Qui ogni famiglia ha qualcuno che lavora nell’area industriale. E quando si comincia a parlare di inquinamento, scatta subito il ricatto. Nessuno vuole perdere il lavoro. Ma io sono libero e dunque non sono ricattabile. Ecco perché molti appoggiano le mie iniziative, anche se non si possono esporre».

Lei è il parroco della Chiesa Madre di Augusta: in che modo ha deciso di rompere questo muro di silenzio?

«Il 28 di ogni mese celebro una messa per ricordare i nomi dei malati di cancro che sono morti. Ne leggo il nome, l’età, il tipo di tumore. In sei anni ne ho contati più di mille solo ad Augusta. È un modo per tenere viva la memoria delle vittime di cancro della nostra terra, e non rassegnarsi».

Chi sono le vittime, che età hanno?

«Ci sono molti 50-60 enni, e anche più giovani. Una volta ho calcolato che almeno la metà non aveva raggiunto l’età della pensione. È difficile stabilire un nesso tra malattia e lavoro. Ma tutti qui hanno un parente morto di tumore. Io sono l’unico della mia famiglia che ancora non è stato toccato: una mia sorella è morta di cancro due anni fa, mio fratello ha subito già due interventi e pure un’altra mia sorella si è ammalata di tumore».

Cosa chiede alle istituzioni?

«Sono stanco di seppellire i nostri cari. Nel 1990 è stato riconosciuto il danno ambientale, ma poi non è successo nulla. Dopo trent’anni solo l’8% delle zone contaminate da metalli pesanti, diossina e idrocarburi è stata bonificata. E si continua a morire di inquinamento e di tumore».

Confindustria sostiene che è stato risanato il 60% degli impianti, e ora tutto è a norma.

«Confindustria dimentica che un impianto può anche essere a norma, ma se ce ne sono 12 di fila, allora nessuno è più a norma».Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa è venuto di recente e ha promesso di rompere questa spirale infernale. Una notizia positiva.

«Questo è il più grande polo petrolchimico d’Europa, molte aziende non sono italiane: la Sasol è sudafricana, la Sonatrach algerina, la Lukoil russa, Air Liquide francese: la situazione è complicata, i margini d’intervento del ministro sono limitati».

L’aria è inquinata, ma il mare è messo anche peggio. «Le analisi sono impressionanti. All’interno della rada sono stati stimati 18 milioni di metri cubi di fanghi rossi, al di fuori almeno altri 85 milioni. Per decenni è stato sversato a mare mercurio in maniera continuativa. E a questo si aggiunge che Augusta non ha un depuratore».

Cosa andrebbe fatto?

«Non aggiungere più nessun impianto e adeguare gli esistenti».

Agricola Popolare di Ragusa, depositate in Procura di Messina denunce dell’avv. Teodosio contro giudici del Tribunale di SR. Gianfranco Pensavalli Lunedì, 13 Gennaio 2020 su lacivettapress.it. I reati che si chiede di contestare vanno dalle false comunicazioni sociali alla infedeltà patrimoniale. Sul tavolo del procuratore di Messina Maurizio De Lucia è arrivato un corposissimo esposto a firma dell'avvocato Tiziana Teodosio, del foro di Avellino, esperta in anatocismo e altri reati collegati ad attività bancarie non in linea con le leggi in vigore. Il legale cura gli interessi di alcuni commercianti aretusei che contestano alla sede siracusana della Banca Popolare Agricola di Ragusa operazioni di cartolarizzazione dei crediti, ovvero gli stessi contratti di vendita dei crediti. Perché Messina? Perché verrebbe chiamato in causa il magistrato del civile Vincenzo Cefalo per via di una sentenza che avrebbe favorito Daniela Pellegrino, originaria di Raccuja, nel Messinese. La Pellegrino è in effetti direttrice di una filiale aretusea della BAPR. Ma la banca ragusana è anche accusata di aver messo in piedi un gioco di scatole cinesi sulle cartolarizzazioni, triangolando con Ibla srl, che ha sede a Conegliano Veneto, e la DoValue. Tutto ruoterebbe attorno all'avvocato Piero Fillioley, alla procuratrice aretusea di Ibla srl, Irma Belinda Mandolfo, e al pm Salvatore Grillo, che avrebbe già chiesto l'archiviazione di una denuncia sulla Bapr, dopo aver iscritto a modello 21 lo stesso avvocato Fillioley. E definito delirante quanto inizialmente denunciato alla Procura di Siracusa. Per l'avvocato Teodosio gli atti dovevano finire a Messina sin dalla prima "lettura". Dagli atti a Messina salta anche fuori che la Procura di Reggio Calabria indaga su magistrati siracusani e messinesi. Il fascicolo è il numero 6323 del 2018 e, al momento, non è dato saperne di più. Emergono invece particolari davvero interessanti dalle tre denunce depositate appunto nei giorni scorsi a Messina dall'avvocato Teodosio contro i tre giudici del Tribunale di Siracusa. Nel mirino del noto legale. Per Salvatore Grillo si ipotizza una condotta impropria nella gestione dei fascicoli riguardanti la Bapr perché ci sarebbe stata una pressione su Grillo da parte del sostituto procuratore Andrea Palmieri, con il quale il primo condivide la segreteria, per pilotare alcune archiviazioni. Ma la richiesta di tutela a Messina deriva, in vero, da rapporti definiti troppo "stretti" tra la BAPR e la magistratura aretusea. E si fa riferimento all'ex procuratore aggiunto Roberto Campisi il cui figlio è stato assunto in Bapr, come anche ad altri parenti o amici di magistrati siracusani. In relazione poi al dottor Cefalo, un'indagine difensiva ipotizza che Daniela Pellegrino sia frequentatrice alle Eolie di strutture dove spesso lo stesso giudice - che ha avuto incarichi giudiziari di peso a Messina - è stato visto soggiornare. Come detto, viene tirato in ballo anche il sostituto procuratore Tommaso Pagano per l'attività d'indagine poi confluita davanti al monocratico Storaci e con imputati Gaetano Urso e Mirco Mormile. Nel fascicolo riguardante la Bapr confluiscono, oltre alla Mandolfo, anche il presidente della Banca, la Ibla srl, con sede a Conegliano (Treviso) e l'ufficiale giudiziario Luciano Pulvirenti. Fillioley risulta indagato anche a Siracusa e sulla richiesta di archiviazione per reati finanziari pende un'opposizione da parte di un cliente della Teodosio, un albergatore.  Per le vicende BAPR i reati che l'avvocato Teodosio chiede di contestare ai pm messinesi vanno dalle false comunicazioni sociali alla cosiddetta infedeltà patrimoniale. Il procuratore capo di Messina, Maurizio De Lucia, deciderà a ridosso del Natale sull'assegnazione dei fascicoli.

“Danneggiare il sostituto Bisogni”: l’indagine sul pm Palamara porta anche a Siracusa. Gianni Catania il 30 maggio 2019 su siracusaoggi.it. Piero Amara e Giuseppe Calafiore: ancora loro. I due avvocati siracusani, secondo la procura di Perugia, avrebbero “veicolato” regali, viaggi e altre utilità al pm Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Indagato con loro per corruzione anche il manager Fabrizio Centofanti. Lo scopo dei “benefit” a Palamara, secondo i magistrati umbri, sarebbe stato “danneggiare Marco Bisogni” che all’epoca era sostituto procuratore a Siracusa ed in precedenza oggetto di esposti al pg di Catania presentati da Amara e Calafiore. Palamara, per i pubblici ministeri, faceva parte della sezione del Csm che “rigettava la richiesta di archiviazione proposta dal procura generale della Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico del medesimo Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla commissione in diversa composizione. Ma quel giorno Palamara era assente”. Bisogni, oggi a Catania, venne poi assolto dalla Commissione in diversa composizione a gennaio 2018. La Guardia di Finanza di Roma, intanto, ha perquisito l’abitazione dell’ex presidente dell’Anm, indagato per corruzione dalla procura di Perugia. Palamara, da consigliere del Csm, avrebbe ottenuto “viaggi e vacanze (soggiorni presso svariati alberghi anche all’estero) a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti”.

"Sistema Siracusa", il pm Bisogni: “Inascoltata battaglia sul lato oscuro della magistratura”. Redazione di blogsicilia.it il 18/06/2019. Una presunta compravendita di sentenze, la magistratura non trasparente così come il rapporto tra alcuni colletti bianchi e la magistratura stessa. Uno scandalo giudiziario sfociato un anno e mezzo fa nel cosiddetto “Sistema Siracusa“ che ha portato anche all’arresto del sostituto procuratore Giancarlo Longo. Vicende ripercorse durante il vertice del Comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione, in occasione del quale è intervenuto Marco Bisogni, sostituto della Dda di Catania, che ha raccontato la sua esperienza da pm alla Procura di Siracusa dove ci sarebbero stati accordi e connivenze tra magistrati, professionisti e imprenditori. Come riporta il Giornale di Sicilia di oggi in edicola, nel suo intervento Bisogni ha rimproverato, in un certo senso, al Csm, alcune scelte nella composizione dell’allora vertice della Procura di Siracusa. “Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia – ha spiegato il pm Bisogni – provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un procuratore aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo procuratore trasferito per incompatibilità ambientale”. Bisogni si riferisce all’ex procuratore Ugo Rossi, condannato in via definitiva per abuso d’ufficio in concorso assieme all’ex pm di Siracusa, Maurizio Musco, rimosso dalla magistratura nei giorni scorsi a seguito di un provvedimento disciplinare del Csm. Gli altri due magistrati ai quali fa cenno Bisogni sono l’ex procuratore aggiunto di Siracusa Giuseppe Toscano e l’ex procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano. Bisogni, ripercorrendo quanto accaduto, parla della battaglia di legalità sua e di alcuni suoi colleghi, dai quali partì un esposto contro il lato oscuro della Procura di Siracusa. Come si legge ancora Nel Giornale di Sicilia, Bisogni ha dichiarato: “Abbiamo sopportato per anni esposti che trovavano sponda in magistrati, che ora si può dire, avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi; campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura; azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti; un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro”. Bisogni ha concluso il suo intervento con un commento-appello relativo allo scandalo per le nomine in seno al Csm: “Rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico – ha detto – per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali”.

“A Siracusa il lato oscuro della magistratura”, lo sfogo del Sostituto Bisogni. Oriana Vella il 17/06/2019 su siracusaoggi.it. “A Siracusa pensavo di poter fare la differenza. Entrando in magistratura ero convinto che avrei fatto parte di un’organizzazione composta da persone votate al sacrificio e dedite al dovere”. Il sostituto della Dda di Catania, Marco Bisogni affida al sito UniCost dichiarazioni forti, importanti, relative al periodo siracusano e non soltanto. Il Pm, a lungo impegnato in Procura, a Siracusa, è stato tra quanti hanno subito una serie di ripercussioni per contrastare quello che è poi emerso come Sistema Siracusa, con gli avvocati Giuseppe Calafiore, Pietro Amara e tutti coloro i quali sono rientrati, in un modo o nell’altro, nell’inchiesta, che si è poi allargata ben oltre i confini di Siracusa. “Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura - racconta - e  non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare - bene o male - tutto il mio lavoro”. Parla di una vicenda personale, per la prima volta, e ne spiega anche la ragione. “Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura-prosegue il magistrato-  e, per questo, abbiamo sopportato per anni  esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi, campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura, azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti, un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro, la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino”. Bisogni racconta anche la parte bella, pulita, trasparente della sua esperienza. “Ho incontrato altri magistrati -prosegue il magistrato– quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno-dice ancora-  ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore traferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto”.

Questo il suo intervento integrale:

“Sono dovuto restare otto anni nella prima sede perché lavorando e quasi per caso (come avviene spesso nel nostro lavoro) ho progressivamente capito che la magistratura, quando perde la sua carica ideale e smarrisce il desiderio di rendere Giustizia, diviene un potere come gli altri, permeabile alla lusinghe esterne che arrivano attratte dalla possibilità di sfruttare l’enorme potere che abbiamo sulle persone e sulle cose. Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura e non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare – bene o male – tutto il mio lavoro. Mi scuso se parlo di una vicenda personale, non l’ho mai fatto e non è il mio stile, ma oggi credo che sia giusto fare un piccolo accenno a questa storia proprio qui e proprio a voi. Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura e, per questo, abbiamo sopportato per anni:

• esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi;

• campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura;

• azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti;

• un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro;

• la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino.

Ho però incontrato altri magistrati – quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore trasferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto. Negli anni abbiamo visto anche qui il progressivo stravolgimento dell’ordine delle cose:

– ho visto carriere politiche interne alla corrente nascere dal nulla a cavallo tra l’ANM ed il CSM; carriere, a volte, sganciate da una reale credibilità professionale negli uffici, testimoniata con il lavoro quotidiano, ovvero dal parametro che dovrebbe essere il più importante per la selezione dei nostri rappresentanti;

– ho visto nomine di direttivi e semi-direttivi contraddittorie, se non immotivate, e di origine clientelare evidente (colleghi provenienti da lunghissimi fuori ruolo proiettati a dirigere sezioni di grandi Tribunali, colleghi con lunghi trascorsi in politica preferiti nella direzione dei Tribunali, con motivazioni risibili, a magistrati da sempre impegnati negli uffici), nomine – che so bene essere state possibili grazie ad una pessima scrittura delle circolari del Consiglio in tema di selezione, nomina e valutazione dei semi-direttivi e direttivi; Circolari troppo spesso rivendicate a vanto da parte di questo gruppo;

– ho visto in occasione di ogni competizione elettorale il rincorrersi di tatticismi associativi e politici con la rinuncia a competizioni elettorali effettive per il nostro Autogoverno;

– ho visto selezionare i candidati di UNICOST al CSM eludendo le regole che noi stessi ci siamo dati (abbiamo stabilito che un giudice cambiasse funzioni anche nella prospettiva di essere eletto come PM, abbiamo deciso – con un’interpretazione formalista del nostro statuto – che non vi fosse incompatibilità tra i membri del comitato direttivo della SSM e la candidatura al CSM);

– ho visto la corrente silente e immobile mentre la magistratura subiva quotidianamente la divisione in caste (rievocando momenti e fasi storiche che ritenevamo superate): quella dei dirigenti, dei fuori ruolo, dei consiglieri e degli ex consiglieri e quella dei magistrati chiusi negli uffici a spalare fascicoli e ho visto, progressivamente, prendere piede nei colleghi piegati sui fascicoli speranza e timore. La speranza di potere ascendere alla casta superiore e il timore di non riuscire a farlo;

– ho visto, così, in modo irresistibile, anche la stragrande maggioranza dei magistrati adagiarsi e adattarsi a questo stato di cose cercando di cavalcare l’onda della degenerazione correntizia per perseguire proprie ambizioni personali.

Tutto questo ci ha portato al punto in cui siamo e quello che avviene in questi giorni non accade per caso: perdonatemi – lo dico con sincero dolore e rabbia – siamo la corrente che ha scelto di evocare nel suo nome la Costituzione, ma non siamo stati in grado di pretendere il rispetto del codice etico dagli associati e dai nostri rappresentanti che dovrebbero essere i migliori di noi, quelli con i quali i magistrati identificano Unità per la Costituzione.

Mi piacerebbe, però, che questo fosse anche un momento per ricostruire e ripartire. Mi sono accostato ad Unità per la Costituzione perché mi riconosco nell’idea di un magistrato privo di pregiudizi politici, rispettoso delle idee altrui e felice di avere come unica protezione della sua azione la forza della Costituzione e della sua professionalità. Vi confesso, però, che quando un collega, subito dopo le prime notizie, mi ha detto “non voglio più sentire il nome di Unità per la Costituzione”, non ho trovato nell’immediatezza alcuna argomentazione per replicare in modo convinto e credibile. Se sono qui oggi con voi e insieme a voi è perché, invece, gli argomenti li voglio trovare. Li voglio trovare perché sono fortemente convinto che il fallimento definitivo dell’associazionismo giudiziario e dei gruppi associativi – unico antidoto che salvaguarda l’ANM dall’infiltrazione di lobby e centri di interesse – costituirebbe il fallimento della magistratura nella quale sognavo di entrare da liceale e nella quale voglio continuare a lavorare. Un fallimento che sarà l’anticamera di una magistratura burocratizzata esposta all’influenza della politica e pertanto assoggettata al consenso popolare. Li voglio trovare perché la magistratura – soprattutto quella più giovane – è portatrice di una straordinaria carica ideale che funziona come carburante di un corpo professionale che sta dimostrando con orgoglio in ogni sede di avere gli anticorpi necessari per fare pulizia al suo interno. Gli argomenti e le proposte che dobbiamo trovare richiedono, però, rigore, coraggio e determinazione, la stessa che si deve, a volte, mettere nel nostro lavoro quando si lavora per mesi ad un’indagine difficile con la consapevolezza che, se le cose possono andare male, sappiamo comunque di aver fatto il nostro dovere. E allora rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali. Quanto è stato fatto in questi terribili giorni dall’attuale gruppo dirigente va nella direzione giusta: riconoscere i clamorosi errori commessi e subire le conseguenze politiche di quanto accaduto è, però, solo l’inizio del percorso. Dobbiamo avere la forza ora di cambiare veramente:

– i nostri Consiglieri siano magistrati al servizio degli altri magistrati che – all’onore di sedere negli scranni del CSM – affianchino maggiori oneri. Chiediamo ai nostri candidati l’impegno a non presentare domanda per incarichi direttivi o semi-direttivi per la consiliatura successiva a quella nella quale hanno operato;

– al CSM e sulle questioni che non sono di principio – come il conferimento degli uffici direttivi o semi-direttivi – le decisioni dei nostri consiglieri non siano il frutto di una scelta di gruppo, ma dei singoli sulla base delle diverse sensibilità individuali;

– nelle more della necessaria modifica alla possiamo legge elettorale del CSM, dobbiamo allentare la nostra presa sulle candidature e sulle liste accettando più candidati e più rappresentanti dai territori;

– l’ANM nazionale non può essere l’anticamera del CSM. Non siamo stati in grado di gestire il passaggio dal ruolo associativo a quello istituzionale. Prevediamo incompatibilità effettive tra i nostri rappresentanti all’ANM e quelli al CSM;

– rendiamoci primi promotori di una riscrittura delle circolari sulla dirigenza e riduciamo la distanza tra alta e bassa magistratura. I dirigenti devono essere valutati secondo i risultati che hanno effettivamente conseguito valorizzando anche le valutazioni dei colleghi d’ufficio con criteri obiettivi e verificabili. La dirigenza non può essere uno status onorifico permanente ma, tra un incarico e l’altro, ci deve essere un congruo periodo di giurisdizione ordinaria.

Solo se metteremo – conclude il dottor Bisogni – tutti veramente testa e cuore in queste battaglie avremo ancora i colleghi al nostro fianco e restituiremo senso alle cose terribili di questi giorni. Rita Levi Montalcini ha detto ”non temete i momenti difficili, il meglio viene li”.

·        Succede ad Agrigento.

Strade chiuse e cantieri infiniti: ora Agrigento non ce la fa più. Una marcia di protesta quella che si è svolta ieri mattina nella Città dei templi per richiamare le attenzioni delle istituzioni nazionali sui problemi relativi alle carenti infrastrutture stradali, quasi duemila le persone scese in campo a manifestare. Sofia Dinolfo, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. Agrigento in marcia ieri mattina per far sentire la propria voce di fronte al governo nazionale. Al centro della manifestazione, la richiesta di un intervento sulle infrastrutture stradali che versano in condizioni disastrate. Un’iniziativa nata dalla curia arcivescovile, dalle sigle sindacali Cgil, Cisl, Uil e dall’associazione nazionale comuni. Ad essa hanno dato adesione tutti i sindaci che amministrano i comuni della provincia. Per ragioni logistiche, erano assenti i rappresentanti di Lampedusa e Linosa. Quasi duemila i cittadini che, con striscioni, bandiere e manifesti, hanno fatto sentire la loro voce. Una protesta pulita, pacifica, che si è svolta in modo ordinato solamente per chiedere quello che spetta di diritto ad una città: una viabilità sicura ed efficiente. La manifestazione ha avuto inizio alla rotonda Giunone e si è conclusa sulla rotonda della “Strada degli Scrittori”. Strade interrotte, percorsi alternativi con semafori interminabili, cantieri di lavoro in corso e ponti rimasti chiusi. Da anni tutto il territorio provinciale è costretto a fare i conti con diversi problemi di carattere infrastrutturale. Un “colpo” su tutta la viabilità è stato rappresentato dalla chiusura del ponte Morandi, nel marzo del 2017. Una decisione presa dall’Anas, dopo diverse segnalazioni, per via di cedimenti strutturali di alcuni piloni. Chiuso il tratto più lungo, quello che, dalla centralissima via Dante si collega a Villaseta. Il “cartello sociale” della marcia nel suo elenco annovera tanti interventi necessari. Primo fra tutti quello sul viadotto Morandi, poi quello relativo al raddoppio della Strada Statale 115 da Gela a Castelvetrano, l’ammodernamento della Agrigento-Corleonese, la manutenzione della Sp32 Ribera – Cianciana, della Sp 47, della Sp 88 e della Ss 386, tra Lucca Sicula, Villafranca sicula e Burgio. Ed ancora, la Sp36 e la Sp 37 tra Caltabellotta a Sciacca, la Statale 410, la Sp24, la Sp75. Questi, solo per fare qualche esempio. Non mancano poi le domande sulla Strada Statale 640 Agrigento- Caltanissetta i cui lavori dovevano concludersi a giugno del 2020, secondo una promessa del presidente del consiglio Giuseppe Conte. Invece, stando a quanto annunciato negli ultimi giorni dal vice ministro alle infrastrutture Giancarlo Cancelleri, il completamento si proietta al 2022. Al termine della marcia, ad attendere gli agrigentini lungo la “Strada degli Scrittori”, il cardinale Francesco Montenegro. Anche da parte sua l’appello alle istituzioni affinché non lascino la Sicilia da sola. Secondo don Franco, non si può pensare allo sviluppo del commercio e dell’economia se prima non si è in grado di assicurare una viabilità sicura ed efficiente.