Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

IL GOVERNO

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Credibilità.

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il lungo viaggio temporale in Italia.

E gli "storici"? Tacciono… Il Massone Garibaldi a disposizione della Chiesa di Roma.

Napoli e Sud poco combattivi? 

La Grande Guerra.

La Seconda Guerra.

Carmine Crocco, il Brigante Generale.

Re galantuomo o Re caporale?

Anche le donne a capo del casato.

Liberatori d’Italia dal nazifascismo: pellerossa e non comunisti.

Quelli che…o tutti o nessuno e poi vogliono la secessione!

Le oche starnazzanti.

La Questione Settentrionale.

Il metodo della “Spesa Storica”. Il ladrocinio degli evasori. Sorpresa: il Nord si prende la gran parte dei soldi pubblici.

Il Sud Sbancato.

A-Nazionalità ed Anti-Italianità. Ecco chi ha ucciso la nostra Patria.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ma quale latrina?

L'Italia è federale per natura.

Un paese di inventori.

Il Rapporto Italia 2020 dell'Eurispes e dell’Istat.

L'onore offeso di Nassirya.

Toponomastica Partigiana.

Paese di indigenti spendaccioni.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti dentro…

I Furbetti del Cartellino.

Gli italiani onesti. Quelli che chiamano ladri gli altri.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La prossima Egemonia Culturale.

Il referendum.

Cosa vuol dire «suffragio».

I Sondaggi.

Cosa è la politica?

Le battaglie a difesa del Parlamento.

Candidati: pecore e porci…

Lo Stupidario della politica.

Avanti! Savoia.

I Disobbedienti. Radicali. Liberisti e Comunisti.

I Liberali contro tutti.

L’Ordine Sociale e l'orgoglio di dirsi Conservatore.

Il Paese di tutti contro tutti.

Ecco l'Anpi senza più partigiani.

Io sono il Potere Dio tuo.

I Conflitti d’Interesse.

Il Conflitto dei cognati.

I Redditi dei Governanti.

L’Infodemia: ossia l’indecisione su scelte su dati eccessivi e non riscontrati.

Italia Commissariata. Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante, come i suoi commissari.

Una politica senza alcuna credibilità.

Impresentabili?

Il Governo dei Misteri.

Transatlantico addio!

L'Egocrazia.

I Voltagabbana.

Legge marketta e fondi markette.

Pensioni d’oro e vitalizi.

La Spazzacorrotti: a chi?! I contributi politici opachi.

Il Finanziamento ai Partiti.

La Rimborsopoli.

La Lottizzazione degli “Onesti e Puri”.

Addio Partiti. 

I Movimenti di Protesta.

Quelli del non-voto.

La "Likecrazia".

Senza Rabbia non c’è rivoluzione.

Il Cnel.

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Codice Appalti illegale.

Era Corruzione…

Non era Corruzione…

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cittadinanza col Trucco.

L’Amicocrazia.

Concorsi Pubblici (truccati) e Pubblico Impiego. Sì…non per tutti. La Stabilizzazione del precariato amico.

Miur. "Tracce comprate, pressioni dei sindacati". Quelle ombre sul concorsone.

Il concorso Mibac da 200mila persone.

Commercialisti, l'esame è una scommessa.

Concorso presidi annullato.

Quei Concorsi Pubblici truccati all’Università.

Consulenti legali di Stato: ora basta sprechi e favoritismi.

Il Concorso Pubblico di Consigliere-Assistente Parlamentare.

Il Concorso truccato per i magistrati.

Gli Assistenti Giudiziari.

Il Concorso dei Poliziotti.

La Laurea dei poliziotti.

 “Sesso in cambio di esami”.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Avvocati si diventa pure così…

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Regioni a statuto speciale sempre pronte a battere cassa.

Il Costo dell’Inefficienza.

Più bidelli che carabinieri.

Lo spreco delle scorte.

Lo spreco delle Auto blu.

Il Costo del Caffè.

Difesa, oltre 3.000 le case occupate (senza titolo) da ex militari, figli e mogli.

Vent’anni di crack delle banche sono costati ai cittadini 45 miliardi di euro.

Il Finanziamento alle ONLUS.

Il Finanziamento alla Cultura.

Il Finanziamento all’Editoria.

Finanziamento ai Compagni.

La Marchetta ai Lgbt.

Lo Spreco in Rai.

Lo spreco nei cieli.

Lo Spreco in Alitalia.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Debito pubblico italiano: quanto cresce e perché.

Lo Stato padrone.

Lo Stato Insolvente.

Il Golden Power.

L’Economia Italiana in balia dei Magistrati e della Iella.

Storia delle Tasse - Le tasse nella storia. Meglio tartassati dalla Monarchia o dalla Repubblica?

Il Paradiso Fiscale.

Tassopoli.

Previdenziopoli.

Bancopoli.

Assicuropoli.

Acquisto, leasing o noleggio? Tutte le trappole sulle auto.

La Telefonia truffaldina.

Così l’euro ha danneggiato l’Italia.

"Il capitalismo è nelle mani dei capitalisti senza capitale".

I Ricconi della Terra.

Lotterie e Giochi d’Azzardo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 IL GOVERNO

 

PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

"Io non mi sento italiano": Giorgio Gaber aveva capito tutto. Marco Castoro il 18 dicembre 2020.  «IO NON mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». Questi versi della canzone di Giorgio Gaber (datata 2003) la dicono tutta sull’Italia di ieri, di oggi e chissà anche di domani, se neanche con la scossa dei fondi europei riusciamo a scuoterla per cambiarla. Quanti di noi non si sentono italiani, vuoi perché il Paese è prigioniero della burocrazia, vuoi perché è gestito da politici e burocrati che pensano solo alle poltrone e a complicare la vita degli italiani. Una classe politica e dirigenziale che non sa prendere decisioni, che si becca come in un pollaio con le elezioni come unico pensiero e obiettivo. Nel «per fortuna o purtroppo lo sono» c’è tutta l’Italia e l’italiano. C’è la bellezza del clima, del mare e dei monti, del sole e delle scogliere. C’è la bellezza dell’arte che ti lascia a bocca aperta. Dal Romano al Rinascimento, dal Barocco al Neorealismo. Orgoglio della patria, così come la nazionale di calcio, la moda e l’artigianato, l’arte di arrangiarsi e la creatività degli italiani. Nel «purtroppo lo sono» invece c’è la disperazione di non vedere mai l’uscita del tunnel, di pagare delle tasse elevate per poi ricevere dei servizi scadenti, di vedere scappare all’estero i migliori cervelli. Di vedere l’Alta Velocità che si ferma a Salerno. La banda larga ultraveloce che diventa un lusso per pochi invece che un servizio per tutti, anche per chi non vive nelle grandi città. La didattica a distanza ha messo a nudo il problema. «Un Bel Paese pieno di poesia ma che nel mondo occidentale è la periferia», per citare ancora Gaber che ammette la sconfitta dell’Italia quando sentenzia: «Non vedo alcun motivo per essere orgogliosi». Il mitico G.G. se la prende anche con il Mameli: «Non sento un gran bisogno dell’inno nazionale di cui un po’ mi vergogno». Per poi radere al suolo i politici e i parlamentari, la vera zavorra di un Paese che non cresce e che paga le loro incompetenze. «Ma questo nostro Stato che voi rappresentate mi sembra un po’ sfasciato. È anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente… Persino in parlamento c’è un’aria incandescente, si scannano su tutto e poi non cambia niente… il grido ‘Italia, Italia’ c’è solo alle partite». Attualissima anche la frase «Abbiam fatto l’Europa, facciamo anche l’Italia», che si potrebbe tradurre come una invocazione al governo, all’opposizione, alle task force e alle Regioni a sfruttare al massimo i soldi del Next Generation Eu. In modo da poter finalmente dire: Io mi sento italiano.

La contemporaneità italiana raccontata ai posteri ed agli stranieri.

Se la Storia la scrivono i vincitori, ora tocca ai vinti raccontare quello che non si riporta dalla Cultura del pensiero unico ed imperante e dai Media ideologizzati asserviti al potere politico ed economico.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho alcun potere. Ho provato a difendere gli indifesi quando praticavo nei Tribunali. Non guardavo in faccia nessuno per l’amor di verità e giustizia. Il risultato è che sono stato cacciato e perseguitato. Inoltre, coloro che difendevo mi hanno voltato le spalle.  I politici a cui segnalavo le anomalie mi prendevano per pazzo o mitomane.

Purtroppo le controversie sono risolte dai magistrati nei processi con l’ausilio degli avvocati difensori.

I quesiti a cui dare risposta sono:

Ci sono magistrati degni di stima e rispetto, che applichino la legge secondo legalità ed equità?

Ci sono avvocati che spingono i magistrati a prendere le decisioni secondo giustizia?

Ci sono governanti e legislatori che ascoltano le preghiere dei cittadini, avendo potere d’intervento sui magistrati?

Cosa fa il “popolo” per cambiare le cose?

La risposta è che ognuno guarda i “cazzi” suoi”.

Allora la mia considerazione naturale è:

Parafrasi ed Assioma con intercalare. Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Lettera al ''Giornale'' il 20 ottobre 2020. Tale Simona Bonafè (Pd) in tv, ospite di Nicola Porro, ha testualmente affermato «non facciamo gli italiani più imbecilli di quanto non siano». Informo la svampita onorevole che gli italiani non meritano di essere offesi da una scappata di casa che sostiene un governo che dell' imbecillità ha fatto una bandiera! Giuseppe Metelli

Risponde Tony Damascelli sul ''Giornale'' il 20 ottobre 2020. Gentile signor Giuseppe ogni volta che leggo o ascolto una corbelleria mi tornano alla mente le battute di Totò, il quale anticipava i tempi non immaginando comunque che addirittura i rappresentanti delle istituzioni scendessero al ruolo di comparse e battutisti. Lei segnala, appunto, un passaggio delle parole pronunciate dalla parlamentare Bonafé Simona la quale, in coerenza con il proprio cognome, dunque in buona fede, ha detto testualmente. «non facciamo gli italiani più imbecilli di quanto non siano». Meglio avrebbe fatto a usare la prima persona plurale del verbo, dunque «..di quanto non siamo..» ma mi rendo conto che questo sarebbe stato un salto culturale e di coscienza che una esponente di questo governo non può avere, appartenendo a un clan esclusivo di nati già imparati. Ecco perché mi è tornata in mente la frase del principe De Curtis: «Lei è un cretino, si informi», un riassunto che spiega tutto, un invito che è una condanna alla berlina pubblica.  Può darsi che noi italiani siamo così cretini che nemmeno una parlamentare può immaginarlo, ma si dovrebbe presumere che la nostra imbecillità derivi proprio dal fatto di essere rappresentati da simili personaggi. Non voglio scadere nelle facili e volgari provocazioni ma spesso la Bonafé è scivolata in modo imprevedibile e goffo, scambiando congiunto con congiuntivo, un errore di sbaglio si potrebbe dire per mettersi allo stesso livello ma, come sostiene la stessa deputata di Azzate, non siamo mica tutti imbecilli.

«Il popolo è una puttana e va col maschio che vince» (Mussolini a proposito del sentimento filotedesco in Italia dopo i primi successi della Wermacht) (Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori)

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

La dimensione sociale della legalità e i benefici dello sviluppo del diritto positivo. Daniela Piana su Il Dubbio il 13 agosto 2020.

Un grave errore mettere in secondo piano il protocollo sottoscritto dal Consiglio nazionale forense con il ministero dell’Istruzione sul terreno della cultura del diritto. Sono ormai mesi che ci misuriamo, in modo più o meno consapevole, più o meno condiviso e chiaramente articolato, con un grande dilemma: quali sono gli strumenti che ci permettono di rendere prevedibile, ovvero determinabile, e quindi, anche, governabile in modo lineare, il comportamento sociale? Per quanto un diffuso e serpeggiante understatement emerso nel crollo delle grandi teorie – non delle grandi ideologie – sul funzionamento delle nostre società ci abbia accompagnato e ci abbia incoraggiati ad aderire ad un rassicurante evitamento delle grandi domande – “tanto, poi, non si trovano le risposte e quando le si trovano sono già oggetto di discussione e giammai di consenso, dunque inutili per prendere decisioni collettive” – questo pensiero minimo oggi ci aiuta assai poco. La realtà dei fatti ci ha sbattuto in faccia, con una violenza inedita, dapprima la questione del “Cigno nero”, poi la questione di come originare, di colpo nell’arco temporale di qualche giorno, un nomos sociale tutto nuovo, sospendendo e disapplicando i dispositivi di regolazione sociale cui eravamo abituati nel gestire le nostre vite quotidiane, gettandoci nello spaesamento di un mondo di regole artefatte, cogenti e strutturanti ( cosi ci è parso, vedendoci camminare per strada, pochi e distanziati, vedendoci cedere il passo per non incrociarci nello spazio pubblico) per poi costringerci a cimentarci di nuovo con la questione dei limiti dello strumento del diritto positivo nell’orientare, no, anzi nel determinare, i comportamenti individuali. Ben venga dunque la presentazione al pubblico della traduzione del volume di Christian List, Why Free Will is Real, avvenuta qualche giorno fa sulla Lettura. Ben venga perché con la categoria del free will ci portiamo dietro moltissime conseguenze che pesano come macigni e che al contempo ci costringono ad interrogarci su uno strumento, quello cardine della società moderna e democratica, con cui siamo propensi a regolare i comportamenti individuali: ossia lo strumento del diritto positivo. Poniamoci alcune domane a mò di esempio. I cittadini italiani hanno seguito le regole del confinamento perché prevedevano le sanzioni previste dai Dpcm che si sono susseguiti, perché percepivano nel loro campo visivo quotidiano i segni palesi del controllo pubblico esercitato dalle forze dell’ordine – e quindi ne prevedevano in modo certo il potere sanzionatorio – o perché sulla base di informazioni e di valori interiorizzati hanno aderito ad una prospettiva di tutela collettiva? Ancora: le vicende che hanno messo al centro del dibattito istituzionale la questione del rapporto fra magistratura e politica si leggono, interpretano ed esplicano nei termini di “non sufficientemente cogenti interazioni” fra le strategie individuali e le norme disciplinari, ovvero le loro applicazioni, oppure abbiamo bisogno di categorie che ci aiutino a rimettere al centro la autonomia del giudizio e, quindi, quell’insieme di norme e di valori che non sono pos( i) te nelle leggi e nelle regolazioni, ma che attengono alla integrità? Sulla stessa falsariga: la recentissima vicenda dell’utilizzo distorto dei bonus ci parla di un comportamento che avrebbe dovuto essere prevenuto – ossia impedito – dalle norme che regolano l’erogazione dei bonus oppure di un self- restraint che sia interiorizzato dalle persone che svolgono funzioni pubbliche? Sarebbe troppo facile liquidare questi interrogativi come divertissement estivi di una vagante immaginazione filosofica, che forse puo’ dare soddisfazione ad alcuni studiosi di eccellenza, come List, ma che poco ci aiuta nel governo e nella prospettazione della società di domani. Troppo facile: e quando le cose sono troppo facili, forse non sono correttamente impostate. Più adeguato ci pare sia tempo interrogarci su cosa siamo intenzionati a chiedere allo strumento del diritto positivo – sottraendolo così allo spazio della autonomia del giudizio e dell’azione regolati da meccanismi self restraining di integrità e diciamolo dalla dimensione sociale della legalità, proprio nel momento in cui la questione della disciplina e della coniugazione di comportamenti individuali con l’integrità pubblica ci appare uno dei grandi temi su cui investire per il futuro. Solo un difetto visivo che non ci possiamo concedere giustificherebbe dunque il passare a coté del protocollo recentemente sottoscritto dal Consiglio Nazionale Forense con il Ministero dell’Istruzione sul tema della cultura della legalità. Se si colgono nelle recenti esperienze fatte sul territorio italiano dagli Ordini forensi, in partenariato con le scuole, le radici di un modo di vedere la legalità nella sua dimensione sociale, che si nutre di un uso corretto delle parole per definire correttamente i comportamenti, dell’uso della prassi apprese in un percorso corale, come comportamenti che si rinforzano anche attraverso i meccanismi di controllo orizzontale – e non solo quelli verticali – come apprendimento di un diritto che ha le sue radici innanzitutto nella mente delle persone, prima che nei testi di legge, forse potremmo concederci un cauto, ma non freddo, positivo sentire, che vede nel diritto positivo una delle dimensioni della legalità, la quale sarebbe però incardinata nel senso dell’equità e della reciprocità, promosse attraverso due strumenti sui quali il Paese deve investire in modo sistematico: formazione e professionalità, interiorizzate, vissute, praticate dalle persone, governati e governanti. E deve farlo ora.

Cos’è la natura umana, lo stimolante confronto tra Chomsky e Foucault. Filippo La Porta su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Ma esiste la “natura umana”, o qualcosa definibile in quanto tale sul quale basare la nostra azione politica? Ad esempio i valori della giustizia, dell’integrità, dell’amore per gli altri. Faccio un passo indietro. Come ognuno sa il repertorio illimitato che offre la Rete ha modificato la nostra insonnia, ci ha reso possibile, entro certi limiti, “usarla” (come occasione preziosa di conoscenza e apprendimento). Colpito da insonnia stagionale (calura estiva) nelle ultime notti ho navigato in Rete alla ricerca di argomenti sfiziosi, curiosità e lontane remininescenze. Non si pensi solo alla “cultura alta”: ad esempio ho rivisto i deliziosi monologhi televisivi di Walter Chiari, poi a un certo però mi sono imbattuto nel confronto, alla tv olandese, tra Noam Chomsky del Mit e Michel Foucault del Collège de France (1971) proprio sulla “natura umana” (ho successivamente scoperto che ne sono usciti due libretti, uno Derive/Approdi, l’altro Castelvecchi, infarciti di postfazioni). Ritengo che questo confronto sia straordinario, formativo, e un raro esempio di altissima drammaturgia filosofica. Cosa dicono i due grandi intellettuali?

Chomsky teorizza coerentemente la esistenza di una natura umana, che secondo lui consiste fondamentalmente – e in ciò risale a Cartesio (che definisce la mente come qualcosa che si contrappone al mondo fisico) – in una capacità creativa: si tratta di una facoltà che ogni bambino dimostra quando alle prese con una nuova situazione reagisce ad essa, la descrive, la pensa in modo nuovo, e che gli permette di apprendere la propria lingua madre rapidamente e senza impararne le regole. Una facoltà naturale, metastorica, che fonda il nostro agire politico contro ogni potere coercitivo (ed ad esempio le varie forme di disobbedienza civile): se questo bisogno di ricerca creativa (a partire dal linguaggio), di libera creazione, è un elemento della natura umana, un invariante biologico, allora una società più giusta dovrebbe permetterci di massimare la possibilità di realizzare tale caratteristica umana.

Foucault replica che invece tutto è prodotto della Storia, che nella nozione di natura umana c’è sempre qualcosa di regolativo, che quando la definiamo prendiamo in prestito elementi della nostra cultura e civiltà. Onestamente dà l’impressione di essere più sottile, più sofisticato del suo interlocutore, almeno fino a quando non cita come massima fonte autorevole Mao-Tse -Tung, che parlava di natura umana borghese e di natura umana proletaria. E aggiunge che il proletariato combatte la classe dirigente non perché lo ritiene giusto ma perché vuole prendere il potere (rivelando una antropologia alla Hobbes!). Non si mostra interessato a definire cos’è l’uomo (la sua “essenza”, definibile solo in termini metafisici) ma a capire cosa si può e si deve fare dell’uomo (in ciò singolarmente vicino a Sartre, con cui pure era spesso in polemica).

Cosa ricavarne? Non pretendo di trovare una soluzione e anzi lascio al lettore la libertà di trarne le sue conclusioni. Mi limito a osservare che in genere il buon senso (americano ed ebraico) di Chomsky me lo rende più simpatico: dice ad esempio che se il proletariato vincendo la sua battaglia creasse uno stato di polizia fondato sul Terrore allora lui vi si opporrebbe, appunto in nome di valori umani fondamentali, radicati nella nostra natura. Anche se vedo la problematicità della sua posizione: in fondo anche Hitler avrebbe potuto appellarsi alla “natura umana”, magari assumendo come sua prerogativa principale il bisogno di sicurezza! Inoltre: è anche vero che quel bisogno di creatività è un prodotto storico, nato dalla interazione sociale (tralascio la questione se davvero donne e uomini abbiano la “stessa” natura…). Provo allora a suggerire una terza posizione. A me sembra che la negazione integrale – foucaultiana – della natura umana abbia portato (si pensi all’oltranzismo di certe posizioni sul gender) alla insofferenza verso qualsiasi “limite”, alla cancellazione di ogni vincolo naturale, e dunque alla irrealtà. Per Proudhon la giustizia nasceva – in società – dal riconoscimento della dignità di ogni essere umano: «è il rispetto, spontaneamente provato e reciprocamente garantito, della dignità umana, in qualsiasi persona». Certo, questo riconoscimento è emerso a un certo punto della Storia umana, non prima, ma diventerà un punto di non ritorno. E può fondare qualsiasi tipo di resistenza al potere. In tal senso allora una azione politica potrebbe fondarsi non tanto sulla natura umana quanto su ciò che intendiamo valorizzare della natura umana (sempre contraddittoria, un poco “lunatica”, come osservò Orwell), però senza poterne prescindere.

Liberale=amante della libertà propria e rispetto di quella altrui. Secondo diritto naturale, non economico. Per esempio: i poveri non si sostengono economicamente, per farli rimanere tali, ma si aiutano a diventare ricchi, eliminando ogni ostacolo posto sulla loro strada da caste e lobbies.

In parole povere. Spiegazione con intercalare efficace: Fare i cazzi propri, senza rompere il cazzo agli altri.

Attenzione, pero, a nominare il termine “liberale” invano, perché i liberali non esistono.

Si spacciano come tali quelli come Berlusconi, ma sono solo lobbisti capitalisti. E molto hanno in comune con i comunisti, leghisti e fascisti e gli inconsistenti 5 stelle. Tutti fanno solo i cazzi loro, rompendo il cazzo agli altri.

Non c'è nessun però o nessun ma. Il diritto di aiutare è un gesto solidale. Ma l'aiuto non è per tutti. Cassa integrazione, indennità di disoccupazione, reddito di cittadinanza sono sostegni economici non per tutti. Quindi l'aiuto è tale solo se ricambiato. Il dovere di abbattere caste è lobbies per affermare l'equità è doveroso. Io voglio, se valgo, il posto degli incapaci che mi dicono cosa fare. Invece l'assuefazione al chiedere e l'abitudine a ricevere ha reso le masse proletarie parassitarie. I Poveri, anzichè battersi per i diritti, ora sono pronti a vendersi per gli oboli, diventando schiavi dei potentati gattopardiani.

Qual è la differenza tra equità e uguaglianza?

L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere, ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo.

Equità significa che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no, pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo, dovrebbe biasimare solo sè stesso, perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità.

Mattia Biella, System Integrator, Tecnico di automazione(1995 -oggi) su it.quora.com. Ha Risposto il 12 dicembre 2018.

Eccone un’immagine interessante. Uguaglianza è quando tutti sono trattati allo stesso modo (figura a sinistra).

Da qph.fs.quoracdn.net

Non è detto che cambi qualcosa: a chi già poteva non cambia nulla, per chi non poteva non è detto che adesso possa. A destra invece l’equità: non è detto che tutti ricevano lo stesso, ma ciascuno riceve quello che gli serve. Uguaglianza significa avere tutti la stesa cosa, equità significa avere tutti le stesse opportunità. Mentre l’uguaglianza è facile da ottenere, l’equità comporta scelte da parte di chi deve fornire gli strumenti. Oltretutto, chi beneficia di eventuali aiuti vede una differenza magari marcata tra ciò che egli riceve e quello che riceve invece il suo vicino/amico/compagno, e scatta il tormentone perchè lui ne ha avuto di più? Equità però significa anche che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo dovrebbe biasimare solo sè stesso perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità. L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo. Quindi chi non vuole sbattersi pensa chi me lo fa fare dato che poi comunque ho lo stesso ciò che mi serve? mentre quello che si sbatte pensa chi me lo fa fare se poi comunque non mi resta in mano nulla più di quelli che non si sbattono?. In realtà l’immagine completa comprenderebbe un terzo pannello, in cui la staccionata non c’è più ed è stata sostituita da una rete, e quella situazione rappresenta la situazione in cui gli ostacoli sono stati rimossi e tutti possono godere fin da subito delle stesse opportunità, ma va oltre la domanda posta. 

Questa immagine rende meglio l’idea, credo. In questo caso è lampante come l’uguaglianza sia di fatto discriminante, anche se a molti sembra un paradosso.

Da qph.fs.quoracdn.net

Anche in questa immagine direi che la differenza è chiara.

Da qph.fs.quoracdn.net

Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.

Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.

Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.

Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.

Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.

Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.

Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.

Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.

La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.  

Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro. "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.

La verità è che al Sud la vita costa di più. Angelo Bruscino, Imprenditore impegnato nella Green Economy, giornalista e scrittore, su Huffingtonpost.it il 13/07/2020. Caro sindaco di Milano, la verità è che al Sud la vita costa di più. Costa di più, perché abbiamo una pressione fiscale maggiore in cambio di servizi inesistenti. Costa di più, perché il tempo per aprire una impresa è il triplo che a Milano. Costa di più, perché la burocrazia è un costo occulto per cittadini e imprese. Costa di più, perché la nostra aspettativa di vita media è più bassa, ci ammaliamo di più e dobbiamo andare al Nord a farci curare, di tasca nostra. Costa di più, perché i processi sono infiniti. Costa di più, perché non abbiamo l’Alta velocità ma l’altra velocità. Costa di più, perché non abbiamo metrò, ma strade fatiscenti: andiamo al lavoro in auto, mica in Tav, con tutti i costi ambientali che ciò comporta. Costa di più, perché le scuole crollano, mancano gli asili e chi può manda i figli a studiare alla Bocconi a spese proprie. Costa di più, perché da Palermo a Messina o da Salerno a Reggio Calabria è una odissea. Costa di più, perché i prodotti che consumiamo vengono dal Nord, a eccezione di frutta, verdura e pesce, le uniche cose che costano di meno perché le produciamo! Dimenticando che i redditi degli impiegati pubblici servono proprio ad acquistare i beni del Nord, così che Lei possa dire: “Milano non si ferma”.

Patrimoni sconosciuti del Sud. La maggioranza dei comuni meridionali ignora i beni pubblici che amministra. Perché non censire le nostre risorse? La proposta per dare nuova vitalità al territorio e lavoro ai giovani. Piero Bevilacqua il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Questi brevi suggerimenti nascono dalla necessità di fornire, in tempi il più possibile brevi, delle opportunità di lavoro ai tanti giovani, in gran parte laureati, spesso di ritorno nel Sud a causa della pandemia, perché trovino per lo meno ragioni di permanenza temporanea, suscettibile di sviluppi futuri. Io credo che la grandissima maggioranza dei comuni meridionali ignorino i patrimoni pubblici che pure amministrano (terreni, edifici e vari beni immobili, monumenti artistici, acque interne, risorse naturali, dotazioni ambientali e di biodiversità) per i quali i giovani laureati in scienze agrarie, in economia, in architettura, in giurisprudenza, in ingegneria, materie umanistiche, ecc potrebbero in breve tempo essere chiamati a compiere una ampia operazione di ricognizione e di censimento di comprensibile utilità. Pensiamo al lavoro per rendere noti i terreni potenzialmente disponibili ad uso agricolo. Naturalmente non tutti i comuni sono nelle stesse condizioni, ma assai spesso si tratta di fare emergere, soprattutto nelle campagne interne, tanto i fondi e i beni comunali, che quelli demaniali, gli usi civici, ma anche le terre private abbandonate. Ricordo che tale lavoro risulterebbe utile non solo ai fini propriamente agricoli, ma anche per individuare i siti, poco vocati all’agricoltura, o ad altro uso produttivo, in cui installare veri e propri centri di generazione di energia solare. Il territorio improduttivo ma che gode di prolungato irraggiamento, può essere utile anche a questo. Una operazione simile andrebbe condotta inoltre, per conto dei comuni e in collaborazione con gli istituti competenti, nei tanti paesi, borghi, cittadine in vie di spopolamento per avere un quadro del patrimonio abitativo in abbandono, dei beni artistici e monumentali spesso dimenticati, del loro stato di conservazione, dei tanti lasciti spesso preziosi di conventi, palazzi padronali, fontane, cisterne, canali, ponti, briglie idrauliche, e non solo. Moltissimi comuni del Sud avrebbero bisogno di conoscere lo stato dei loro suoli e corsi d’acqua di cui ci si ricorda quando esondano per qualche alluvione. Un tempo i grandi geografi italiani facevano il censimento delle frane dell’Appennino, oggi, con i tecnici comunali e provinciali che teoricamente dovrebbero sovraintendere alla loro sorveglianza, i giovani potrebbero offrire un di più di conoscenza diretta, per potere intervenire con piani preventivi di contenimento. È con le piccole opere diffuse e capillari che si evitano i grandi disastri. Si parla sempre e con asfissiante monotonia di ambiente, ma pochi sanno di che cosa realmente parlano. Eppure l’ambiente meridionale presenta grandi problemi e straordinarie potenzialità. Qualche esempio per atterrare dalla nuvola “ambiente” alla realtà. I nostri boschi sono spesso in condizioni di grave degrado. In tanti casi la macchia selvatica li rende impraticabili e talora arriva ad ucciderli. Io ho visto personalmente Monte Reventino, in Sila, migliaia di alberi soffocati dalla vitalba, un elegante parassita infestante, che si estende in alte liane per via aerea e con radici sotterranee. In Aspromonte si possono scorgere vaste pinete con le chiome degli alberi letteralmente coperte da nidi di processionarie che li stanno uccidendo o li hanno già uccisi. Solo alcuni esempi per indicare un immenso patrimonio naturalistico in pericolo che potrebbe peraltro conoscere forme di valorizzazione economiche incredibilmente trascurate. Noi importiamo legname pregiato da opera (castagni, noci e ciliegi) e non riusciamo a coltivarne le essenze neanche in habitat vantaggiosi. Senza dire che in queste terre d’altura non si fanno allevamenti di volatili e di piccoli animali, realizzabili con poca spesa. Mentre le acque interne (torrenti, piccoli laghi, stagni) raramente danno luogo ad attività di acquacoltura. Si parla spesso di biodiversità da tutelare. Sarebbe molto utile conoscerla e tanti giovani agronomi e laureati in scienze naturali potrebbero, ad esempio, essere impiegati, in cooperazione con gli esperti dei luoghi, a censire nei vari siti le erbe officinali di cui è ricca la flora meridionale. Erbe, oggi anche coltivate, che trovano impiego nella produzione di articoli di largo commercio, nell’alimentazione macrobiotica e nella cosmetica. Analogo censimento meriterebbe tanto il patrimonio della biodiversità che della varietà agricola (alberi e piante da orto), ignorato, possiamo dire, dall’intera popolazione meridionale, mai educata a conoscere la propria straordinaria eredità, storica e naturale. Esistono in alcune regioni, come la Calabria, dei tesori di varietà delle piante da frutto, e anche di vitigni antichi, sopravvissuti alla fillossera, che sono custoditi nei vivai o dispersi nei fondi privati, e che non conoscono da oltre mezzo secolo alcuna valorizzazione agricola. Naturalmente ci sarebbe anche altro da censire, nel loro stato attuale e nei loro bisogni di riparazione: dalle chiese rupestri, ai siti archeologici in abbandono, ai lidi marittimi colpiti da fenomeni di erosione, o gravemente inquinati da corsi d’acqua di cui si ignora l’origine. Ma di straordinario rilievo sarebbe anche indagare sui luoghi e presso le famiglie l’evasione scolastica dei ragazzi, talora il lavoro minorile dei nuovi poveri del Sud. Per il potenziamento della cultura al Sud, attraverso la costituzione di biblioteche popolari, e altri centri di formazione che cooperino con le scuole, occorrerebbe ovviamente una riflessione a parte. Qui si son voluti fare solo degli esempi e spetterebbe ai comuni, ai sindacati, agli stessi giovani, elaborare con impegno e creatività progetti capaci di soddisfare queste esigenze. Stimolare una nuova intelligenza pubblica dei beni comuni, naturali e storici, può aiutare molto, non solo a fornire nuova vitalità economica e sociale alle nostre aree interne, ma offrirebbe occupazione qualificata alle nuove generazioni. Tenendo sempre presente che di queste fanno parte, a pieno titolo, i migranti che fuggono da guerre, miseria e catastrofi climatiche.

No, i ricchi non diventano ricchi a spese dei poveri. La mentalità della "somma zero" che è alla base delle teorie socialiste è stata smentita dai fatti. Rainer Zitelmann, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Sono in molti a credere che i ricchi possano fare soldi solamente a spese di qualcun altro. Questa concezione del mondo viene anche detta mentalità «a somma zero», dal momento che i suoi seguaci sono convinti che nella vita economica, come in una partita di tennis, affinché un giocatore possa vincere è necessario che un altro debba perdere. Come scrisse Bertolt Brecht nella sua poesia Alfabeto, «Disse il povero, bianco in volto/ Se io non fossi un miserabile, tu non saresti ricco». Sebbene questo modo di pensare sia molto diffuso, è fondamentalmente sbagliato, come dimostrano gli incredibili avvenimenti in Cina negli ultimi quarant'anni. Nella storia, non è mai accaduto che un numero così grande di persone uscisse dalla più abietta povertà con la velocità che si è verificata in Cina. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 1981 la percentuale dei cittadini cinesi che viveva in condizioni di estrema povertà era pari all'88,3% della popolazione. Di lì al 1990, questa percentuale si era ridotta al 66,2%, mentre nel 2015 solo lo 0,7% dei cinesi viveva nella miseria. In questo stesso periodo, il numero di cinesi poveri è calato da 878 milioni e meno di 10.

«LASCIATE CHE ALCUNI DIVENTINO RICCHI PRIMA DEGLI ALTRI». Il miracolo economico cinese è iniziato con le riforme di Deng Xiaoping. Fu Deng ad affermare «Lasciate che alcuni diventino ricchi prima degli altri». Nei decenni successivi, lo Stato cinese ha autorizzato la proprietà privata dei mezzi di produzione e ha permesso che il mercato esercitasse una maggiore influenza. A dispetto del fatto che altre libertà (la libertà politica, ad esempio) non sono rispettate e che la presa dello Stato sull'economia cinese è ancora ferrea, dai tempi di Mao Zedong il suo ruolo si è sostanzialmente ridotto. Inoltre, sotto Deng sono state create in tutta la Cina delle «Zone economiche speciali» a regime capitalista. Quando regnava Mao, in Cina non esisteva nessun miliardario: nel 2010, grazie alle riforme di Deng, i miliardari cinesi erano diventati 64. Oggi, in Cina vi sono 324 miliardari, per non parlare dei 71 che vivono a Hong Kong. Nessun paese al mondo, con l'eccezione degli Stati Uniti, ha altrettanti miliardari della Cina. Se la concezione della somma zero fosse corretta, questo sarebbe impossibile. Ma la mentalità a somma zero è sbagliata: l'impressionante riduzione della povertà e l'altrettanto impressionante aumento del numero di miliardari che si è prodotto contestualmente sono due facce della stessa medaglia. In generale, i ricchi non diventano tali perché prendono ai poveri, ma perché creano grandi benefici per gli altri. Jack Ma è l'uomo più ricco della Cina, con una fortuna di 38,8 miliardi di dollari. È diventato così ricco perché ha fondato Alibaba e altre aziende di successo, che soddisfano i bisogni di centinaia di milioni di suoi concittadini.

I RICCHI CREANO BENEFICI PER LA SOCIETÀ NEL SUO COMPLESSO. Una rapida occhiata alla classifica dei miliardari di tutto il mondo stilata da Forbes permette di constatare che quasi tutti sono diventati ricchi come imprenditori, oppure perché hanno fatto crescere e migliorare le aziende fondate dai loro genitori. La gran parte dei dieci uomini più ricchi del mondo è rappresentata da imprenditori che si sono fatti da sé. Jeff Bezos, il primo della lista, con un patrimonio stimato di 113 miliardi di dollari, è diventato ricco in modo simile a quello di Jack Ma, ossia tramite l'e-commerce. Bill Gates, al secondo posto in ordine di ricchezza (dopo avere occupato per lungo tempo il vertice della classifica), non ha accumulato i suoi miliardi sottraendoli ai poveri, ma offrendo qualcosa al mondo. E con questo non intendo alludere ai miliardi donati dalla Fondazione di Bill Gates alle più svariate cause filantropiche, bensì al software, come i programmi inclusi in Microsoft Office, utilizzati ogni giorno da innumerevoli utenti. Larry Ellison, al quinto posto nella lista di Forbes, ha costruito la propria ricchezza sul suo software per i database per la gestione delle relazioni delle aziende con i clienti. Al settimo posto c'è invece Mark Zuckerberg, che ha sviluppato l'idea alla base di Facebook, che oggi ha 2,5 miliardi di utenti in tutto il modo. Larry Page e Sergey Brin, rispettivamente al tredicesimo e al quattordicesimo posto della classifica, sono diventati ricchi per aver sviluppato il motore di ricerca di maggior successo del pianeta, ossia Google.

LA MENTALITÀ DELLA SOMMA ZERO DANNEGGIA LE PERSONE E LA SOCIETÀ. Il concetto di somma zero non è solo sbagliato, ma ha anche ripercussioni negative su tutti i suoi seguaci e sulla società nel suo complesso. Gli psicologi hanno osservato che l'idea di somma zero rappresenta una delle principali fonti di invidia. Chiunque sia convinto che l'unico modo per arricchirsi sia quello di agire a spese degli altri sarà naturalmente portato a invidiare i ricchi e a provare risentimento per la loro prosperità. La mentalità a somma zero è inoltre alla base di quelle teorie socialiste che hanno prodotto indicibili sofferenze per l'umanità negli ultimi cento anni e passa. Bertolt Brecht, l'autore della poesia che ho citato poc'anzi, non era solo un poeta, era anche un comunista che adorava Iosif Stalin. Chiunque creda che sia possibile arricchirsi solo a spese degli altri ha creato un ostacolo al proprio successo. Persone oneste convinte che i ricchi siano tutti dei mascalzoni non si sforzeranno mai di migliorare il proprio stato. La fede nella somma zero opera come una barriera psicologica inconscia alla creazione di ricchezza e le persone prive di scrupoli morali che pensano in termini di somma zero possono addirittura indirizzarsi alla criminalità. In tutto il mondo, le prigioni sono piene di gente che credeva di potersi arricchire solo a spese degli altri. I fatti, come dimostra l'esempio delle vicende economiche cinesi, ci raccontano una storia completamente diversa. I più grandi successi economici arrivano quando si capisce che, anziché danneggiare la società, tutti traggono vantaggi quando qualcuno si arricchisce - anche enormemente - per le sue attività imprenditoriali.

Qualcuno la notizia la dà, la maggior parte dei giornalisti la fa. Io le notizie le cerco e le raccolgo, senza metter bocca. Sarà poi il lettore a estrapolarne la verità.

Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.

Capire di dover capire significa non muoversi  a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.

Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.

Imparare ad imparare significa creare un percorso.

Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.

Come era ieri, è oggi e sarà domani.

Libro di Qoelet. Prologo:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.

Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?

Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.

Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà.

Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.

Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia.

Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire.

Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.

C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è gia stata nei secoli che ci hanno preceduto.

Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.

Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)

La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").

Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.

Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

 Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

Avv. Mirko Giangrande:

Produci? Tasse!

Lavori? Tasse!

Compri? Tasse!

Vendi? Tasse!

Studi? Tasse!

Inventi? Tasse!

Erediti? Tasse!

Muori? Tasse!

Non fai nulla? Sussidio!!!

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.

Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.

Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.

Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.

Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.

Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.

Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.

«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».

Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".

Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".

Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".

Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.

I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.

I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.

Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.

Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.

Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».

Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).

Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?

La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.

Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.

Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.

E la chiamano Democrazia…

"In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili" di Edoardo Bennato. Testo

Presto vieni qui ma su non fare così

ma non li vedi quanti altri bambini

che sono tutti come te

che stanno in fila per tre

che sono bravi e che non piangono mai...

E' il primo giorno però domani ti abituerai

e ti sembrerà una cosa normale

fare la fila per tre, risponder sempre di sì

e comportarti da persona civile...

Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere

e ad amare la patria e la bandiera

noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori

e discendiamo dagli antichi romani...

E questa stufa che c'è basta appena per me

perciò smettetela di protestare

e non fate rumore e quando arriva il direttore

tutti in piedi e battete le mani...

Sei già abbastanza grande

sei già abbastanza forte

ora farò di te un vero uomo

ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore

ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...

E sempre in fila per tre marciate tutti con me

e ricordatevi i libri di storia

noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione

e andiamo dritti verso la gloria...

Ora sei un uomo e devi cooperare

mettiti in fila senza protestare

e se fai il bravo ti faremo avere

un posto fisso e la promozione...

E poi ricordati che devi conservare

l'integrità del nucleo famigliare

firma il contratto non farti pregare

se vuoi far parte delle persone serie...

Ora che sei padrone delle tue azioni

ora che sai prendere le decisioni

ora che sei in grado di fare le tue scelte

ed hai davanti a te tutte le strade aperte...

Prendi la strada giusta e non sgarrare

se no poi te ne facciamo pentire

mettiti in fila e non ti allarmare

perché ognuno avrà la sua giusta razione...

A qualche cosa devi pur rinunciare

in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere

perciò adesso non recriminare

mettiti in fila e torna a lavorare...

E se proprio non trovi niente da fare

non fare la vittima se ti devi sacrificare

perché in nome del progresso della nazione

in fondo in fondo puoi sempre emigrare...

Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo. 

A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione  2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.

Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.

Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.

Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.

Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.

Il nostro Diritto è Neutro.

Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.

E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto. 

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.

Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.

L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...

Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI,  gli permettono di mantenere il potere.

I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.

Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.

Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.

Gli italiani voltagabbana. Al tempo del fascismo: tutti fascisti. Dopo la guerra: tutti antifascisti.

Prima di Tangentopoli: tutti democristiani e Socialisti. Dopo Mani Pulite: tutti comunisti.

E il perché lo ha spiegato cinquecentosei anni fa Niccolò Machiavelli in un passaggio del Principe: «El populo, vedendo non poter resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la sua autorità difeso». Ecco quello che vogliono gli italiani. Vogliono qualcuno che li salvi, che li assista, che li difenda. Ed al contempo il popolo italiano ha l' attitudine a diffidare del Governo, a non parlarne mai bene, e tuttavia ad affidarsene, non avendo la forza di fare da sé, e di aspettarsi che il governo si occupi di ogni cosa e risolva ogni cosa. Si buttano immancabilmente a obbedire - questa è di Giuseppe Prezzolini - al prestigio personale e alle capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla. E come si erano incapricciati, così si annoiano e poi si imbestialiscono, perché infine nessuno è capace di salvargliela la pelle. Lo diceva il più bravo di tutti: l'adulatore sarà il calunniatore.

In questo momento è bene ricordare la teoria politica di Cicerone (106 a.C.43)

1 il povero lavora

2 il ricco sfrutta il povero

3 il soldato li difende tutti e due

4 il contribuente paga per tutti e tre

5 il vagabondo si riposa per tutti e quattro

6 l’ubriacone beve per tutti e cinque

7 il banchiere li imbroglia tutti e sei

8 l’avvocato li inganna tutti e sette

9 il medico li accoppa tutti e otto

10 il becchino li sotterra tutti e nove

11 il politico campa alle spalle di tutti e dieci.

Il grande filosofo e uomo politico romano con la sua sagacia e ironia ha in poche ma efficaci parole, riassunto l’opinione che molti oggi hanno della politica.

E nel caso la teoria politica non fosse sua, allora la faccio mia.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

I fratelli coltelli del Socialismo:

I Comunisti-Stalinisti per l’apologia dello statalismo extraterritoriale (mondialismo);

I Fascisti-Leninisti-Marxisti come classisti-nazionalisti (sovranismo).

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Nella sua canzone "La razza in estinzione" (2001), l'artista italiano Giorgio Gaber (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, 2003) critica tutto e tutti e afferma: "la mia generazione ha perso".

La Razza In Estinzione testo Album: La Mia Generazione Ha Perso.

Non mi piace la finta allegria

non sopporto neanche le cene in compagnia

e coi giovani sono intransigente

di certe mode, canzoni e trasgressioni

non me ne frega niente.

E sono anche un po' annoiato

da chi ci fa la morale

ed esalta come sacra la vita coniugale

e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni

ma io non riesco a tollerare

le loro esibizioni.

Non mi piace chi è troppo solidale

e fa il professionista del sociale

ma chi specula su chi è malato

su disabili, tossici e anziani

è un vero criminale.

Ma non vedo più nessuno che s'incazza

fra tutti gli assuefatti della nuova razza

e chi si inventa un bel partito

per il nostro bene

sembra proprio destinato

a diventare un buffone.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

le strade, le piazze gremite

di gente appassionata

sicura di ridare un senso alla propria vita

ma ormai son tutte cose del secolo scorso

la mia generazione ha perso.

Non mi piace la troppa informazione

odio anche i giornali e la televisione

la cultura per le masse è un'idiozia

la fila coi panini davanti ai musei

mi fa malinconia.

E la tecnologia ci porterà lontano

ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano

c'è di buono che la scuola

si aggiorna con urgenza

e con tutti i nuovi quiz

ci garantisce l'ignoranza.

Non mi piace nessuna ideologia

non faccio neanche il tifo per la democrazia

di gente che ha da dire ce n'è tanta

la qualità non è richiesta

è il numero che conta.

E anche il mio paese mi piace sempre meno

non credo più all'ingegno del popolo italiano

dove ogni intellettuale fa opinione

ma se lo guardi bene

è il solito coglione.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

migliaia di ragazzi pronti a tutto

che stavano cercando

magari con un po' di presunzione

di cambiare il mondo

possiamo raccontarlo ai figli

senza alcun rimorso

ma la mia generazione ha perso.

Non mi piace il mercato globale

che è il paradiso di ogni multinazionale

e un domani state pur tranquilli

ci saranno sempre più poveri e più ricchi

ma tutti più imbecilli.

E immagino un futuro

senza alcun rimedio

una specie di massa

senza più un individuo

e vedo il nostro stato

che è pavido e impotente

è sempre più allo sfascio

e non gliene frega niente

e vedo anche una Chiesa

che incalza più che mai

io vorrei che sprofondasse

con tutti i Papi e i Giubilei.

Ma questa è un'astrazione

è un'idea di chi appartiene

a una razza

in estinzione.

Classifica popoli più ignoranti al mondo, Italia prima in Europa, scrive Alessandro Cipolla sumoney.it il 23 Agosto 2018. Secondo l’annuale classifica di IPSOS Mori sull’ignoranza dei popoli, l’Italia risulta essere la dodicesima al mondo e la prima in Europa. Continuano a non sorridere le classifiche all’Italia. Dopo quella sulla corruzione redatta da Transparency International che ci vede al 54° posto (tra le peggiori in Europa), anche sul tema dell’ignoranza il Bel Paese occupa una posizione poco onorevole. Ma veramente gli italiani sono un popolo di ignoranti? La storia in teoria ci insegnerebbe il contrario, ma ogni anno la classifica stilata da IPSOS Mori ci vede ai primi posti di questa speciale graduatoria che si basa sulla distorta percezione della realtà che ci circonda.

Italia nazione più ignorante d’Europa. Ogni anno IPSOS Mori, importante azienda inglese di analisi e ricerca di mercato, stila puntualmente una classifica su quelli che sarebbero i popoli più ignoranti al mondo chiamata “Perils of Perception”, letteralmente “Pericoli della Percezione”. L’indagine si basa su delle interviste a campione a 11.000 persone per ogni nazione, alle quali vengono sottoposte delle domande su delle statistiche comuni che riguardano il proprio paese. Per esempio nella ricerca del 2017, l’ultima pubblicata, veniva chiesto se gli omicidi nel proprio paese fossero aumentati o diminuiti rispetto al 2000. Oppure se gli attacchi terroristi siano aumentati dopo l’11 Settembre o quanta gente soffra di diabete. In base al grado di errore nel dare le risposte, IPSOS Mori stila la sua classifica che nel 2014 ci vedeva come il popolo più ignorante al mondo. In quella del 2017 invece l’Italia è al dodicesimo posto, prima tra le nazioni europee.

Una percezione distorta della realtà. Leggendo la classifica e guardando i criteri di indagine, si capisce che non si deve confondere il termine “ignorante” con poco istruito o analfabeta, ma invece che ignora la realtà che lo circonda. Il termine “misperceptions” infatti con cui viene presentata la classifica generale significa “percezione erronea”. Gli italiani quindi secondo IPSOS Mori non conoscono a sufficienza quello che realmente accade nel proprio paese. Prendiamo a esempio la domanda sugli omicidi che rispetto al 2000 sono diminuiti in Italia del 39%. Per il 49% degli intervistati invece il numero sarebbe aumentato, per il 35% sarebbe lo stesso mentre solo l’8% ha risposto in maniera giusta. Non è un caso che, stando ai numeri forniti dal Viminale a ferragosto, i reati nel nostro paese sono in diminuzione così come gli sbarchi degli immigrati, ma al contrario la percezione di insicurezza e l’idea della “invasione” prendono sempre più piede tra gli italiani. Nell’epoca delle fake news gli italiani quindi sembrerebbero conoscere sempre meno cosa succede nel proprio paese, una situazione che poco si addice a un popolo che con la sua intelligenza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del mondo. Mala tempora currunt.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.

SOCIALISMO:

(Lenin diceva che il comunismo è socialismo più elettrificazione). 

Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti. Moralizzatori sempre col ditino puntato

Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti. Oppressori.

Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.

Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.

LIBERALISMO (LIBERISMO):

Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.

ECCLESISMO:

Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.

MONARCHISMO:

Il culto del Sovrano.

Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.

Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.

Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.

Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.

Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.

Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.

Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.

Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.

Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.

Il Papa: per eliminare la fame nel mondo non bastano gli slogan. Francesco ha inaugurato il Consiglio dei governatori del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo a Roma (Ifad) e incontra una delegazione di popolazioni indigene, scrive il 14/02/2019 Iacopo Scaramazzi su La Stampa. Il Papa ha caldeggiato lo «sviluppo rurale» per combattere la fame e la povertà, sottolineando la necessità di «garantire che ogni persona e ogni comunità possano utilizzare le proprie capacità un modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome», e facendo appello affinché i popoli e le comunità siano «responsabili della proprio produzione e del proprio progresso» poiché «quando un popolo si abitua alla dipendenza, non si sviluppa».

Questo vale per tutte quelle categorie di lavoratori che protestano per avere aiuti e sostegno anticoncorrenziale che porta al demerito improduttivo. E vale anche per i meridionali d’Italia. Insistere nel pretendere aiuto e non far nulla per migliorarsi.

L’assistenzialismo socialista ha prodotto gli statali, che dalla loro privilegiata posizione improduttiva, impongono stili di vita utopistici e demagogici. Questi dipendenti pubblici, spesso scolastici o sanitari, da capipopolo, fomentano le masse per inibire l’industrializzazione sostenibile e lo sviluppo turistico tollerabile, che portano sviluppo economico e sociale, in nome di un fantomatico ecologismo talebano, per poi costringer le masse ideologizzate, paradossalmente, ad essere costrette ad emigrare in posti altamente inquinati, o a villeggiare in posti meno allettanti.

Papa Francesco: "È il lavoro a dare speranza, non l'assistenzialismo", scrive il 15 giugno 2018 La Repubblica. "La speranza in un futuro migliore passa sempre dalla propria attività e intraprendenza, quindi dal proprio lavoro, e mai solamente dai mezzi materiali di cui si dispone. Non vi è alcuna sicurezza economica, né alcuna forma di assistenzialismo, che possa assicurare pienezza di vita e realizzazione". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza con i Maestri del Lavoro. "Non si può essere felici - ha aggiunto Bergoglio - senza la possibilità di offrire il proprio contributo, piccolo o grande, alla costruzione del bene comune". Per questo "una società che non si basi sul lavoro, che non lo promuova, e che poco si interessi a chi ne è escluso, si condannerebbe all'atrofia e al moltiplicarsi delle disuguaglianze". Mentre la società che cerca di mettere a frutto le potenzialità di ciascuno è quella che "respirerà davvero a pieni polmoni, e potrà superare gli ostacoli più grandi, attingendo a un capitale umano pressoché inesauribile, e mettendo ognuno in grado di farsi artefice del proprio destino".

La dittatura dell’ignoranza. «Uno uguale uno» significa annullare la competenza. E si finisce come in Venezuela..., scrive Francesco Alberoni, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. L'altra sera ho assistito ad un dibattito televisivo che mi ha molto impressionato. Non dirò dove l’ho visto, ma sarebbe potuto avvenire su qualunque rete. Erano presenti quattro persone, due grandi giornalisti esperti di economia e due donne (ma potevano essere due uomini) che non ne sapevano niente, assolutamente niente. Il risultato è stato che le persone che non sapevano niente sono riuscite a surclassare, rendere muti, quelli che sapevano. In che modo? Gridando le loro stupidaggini come verità incontrovertibili e scartando tutte le obiezioni serie con un gesto di rifiuto. Poi citavano fatti inesistenti, cifre inventate, con la sicurezza dogmatica che solo l’ignorante fanatico può avere. Ripetevano slogan detti dai loro capi, luoghi comuni che circolano su internet dove ciascuno racconta le frottole che vuole. Ed ho pensato che il popolo da solo non può governarsi perché da solo finisce in balia di demagoghi spregiudicati, di fanatici, talvolta di squilibrati e viene istupidito con menzogne, false notizie. Come è successo col comunismo, col nazismo e col fascismo. Mi viene in mente il fascismo quando il Duce chiedeva: «Volete burro o cannoni?» e la gente rispondeva ottusamente «Cannoni» o, alla domanda «Volete la vita comoda?» rispondeva «No!». Ed è successo lo stesso quando la folla gridava «Barabba» al posto di Gesù Cristo, o quella che applaudiva quando ghigliottinavano Lavoisier, il padre della chimica moderna. Il popolo ha bisogno di gente che sa, di studiosi, di giornalisti, di politici esperti che insegnano a ragionare e garantiscono una informazione corretta. Allora il popolo può decidere liberamente. Ma non può farlo quando viene informato da gente che non sa, che mente. Pericle aveva saggiamente evitato la guerra con Sparta, ma dopo la sua morte, il popolo ateniese seguì gli esaltati che la scatenarono e Atene fu sconfitta. Noi oggi in Italia non siamo in una situazione diversa. Si è diffusa l’idea che «uno è uguale a uno» cioè che abbia lo stesso valore l’idea del più ignorante rispetto a chi sa. E si è prodotta una confusione mentale pericolosa. Sono le situazioni in cui i Paesi prendono strade folli, e vanno in malora come è successo in Venezuela.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

Da Striscia La Notizia il 25 settembre 2020. Caro Dago, una regola scolpita nei sacri testi dell’esame di Stato dei giornalisti impone di citare sempre le fonti. A meno che non si tratti del TG1. Ieri sera, nel telegiornale delle 20, nelle immagini che corredavano il servizio sull’esame tarocco di Suarez a Perugia, è stato inserito un post ironico che Striscia aveva pubblicato sui suoi profili social martedì 22 settembre intorno alle 13.30. Peccato che “Rai mani di forbice” abbia tagliato dall’immagine trasmessa ogni riferimento a Striscia (il credito, in gergo tecnico). Il paradosso è che per far sparire le tracce del furto abbiano dovuto ingrandire talmente l’immagine da quasi decapitare l’incolpevole Suarez.

Io, senza alcun Potere di intervento, non posso dare aspettative. Tantomeno non posso smuovere le acque con i fari mediatici, che a me mancano.

Io non sono un giornalista, che si deve attenere alla verità, attinenza e continenza ed all’interesse pubblico. Ergo, non posso e non voglio pubblicare inediti, pur potendo pubblicare le stesse denunce penali o altri atti pubblici pubblicabili. Non è la prima volta che il beneficiario, ingrato, si è rivoltato contro ed ha chiesto l’anonimato, o con minacce, il ritiro del pubblicato per paura di ritorsioni a lui rivolte.

Come sociologo, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, posso approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Questi casi, con me, hanno una notorietà che ad essi in origine manca e comunque creo un precedente utile a tutti.

In questo caso i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato.

In conclusione posso dire che non vi è alcun legame con le parti e la pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.

E’ una cautela legale e di opportunità al fine di tutelarmi dai mitomani e dai potenti.

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica. Per gli effetti ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza. All’uopo ho scritto decine di libri con centinaia di pagine cadauno, basandomi su testimonianze e documenti credibili ed attendibili, rispettando il diritto al contraddittorio, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di migliaia di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere, pubblicizzati, riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati da terzi in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

La dottrina e la giurisprudenza interpretano tassativamente, restrittivamente e non analogicamente tale articolo, al pari delle altre fattispecie di libere utilizzazioni. Ciò non toglie che la norma possa essere interpretata estensivamente (in tal senso dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente unanime).

Secondo il parere dell'Avv. Giovanni D'Ammassa, su Dirittodautore.it,  limiti individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane alla facoltà di citazione ex art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sono i seguenti:

la sussistenza della finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica;

l’opera critica deve avere fini del tutto autonomi e distinti da quelli dell’opera citata, e non deve essere succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate. La ricorrenza dello scopo di critica non è pregiudicata dal fatto che la citazione sia fatta nella realizzazione di un’opera immessa sul mercato a pagamento;

l’utilizzazione dell’opera deve essere solo parziale e mai integrale, deve avvenire nell’ambito delle finalità tassativamente indicate e nella misura giustificata da tali finalità;

l’utilizzazione non deve essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti, non deve avere un rilievo economico tale da poter pregiudicare gli interessi patrimoniali dell’autore o dei suoi aventi causa. A questo proposito va ricordato che il concetto di concorrenza espresso dall’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore è ben più ampio e diverso dal concetto di concorrenza sleale espresso dall’art. 2598 cod. civ.: l’assenza dell’elemento della concorrenza è condizione perché possa parlarsi di libera utilizzazione dell’opera. Una recente dottrina sostiene che bisogna avere riguardo esclusivamente alla portata della utilizzazione in relazione alla sua capacità di incidere sulla vita economica dell’opera originale; da ciò la valorizzazione dell’assenza di concorrenza dell’opera citante con i diritti di utilizzazione economica sull’opera citata, in modo da consentire anche citazioni integrali dell’opera dell’ingegno purché non si pongano in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica dell’opera;

devono essere effettuate le menzioni d’uso (indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione, del nome dell’autore e dell’editore);

infine si sostiene che l’interpretazione di tale articolo deve tenere conto anche del progresso tecnologico. È indubbio che l’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sia applicabile anche in caso di messa a disposizione online delle opere.

Secondo l'Avv. Alessandro Monteleone, su Altalex.com, tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Potrebbe ad esempio costituire concorrenza alla utilizzazione economica la riproduzione che, ancorché parziale, svii i potenziali acquirenti dall’acquistare l’originale perché avente ad oggetto le parti di maggiore interesse. Interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2007 n° 149: Con l’espressione "a fini di lucro" contenuta nella fattispecie criminosa di cui all’art. 171 ter della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) deve intendersi "un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso". Lo ha precisato la Sezione Terza penale della Cassazione, con la sentenza n. 149 del 9 gennaio 2007, estensibile all'art. 70.  

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Giornali online senza licenza: indagato manager di Data Stampa. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Virginia Picollillo. Violazione del diritto d’autore: è l’accusa contestata a Massimo Scambelluri, il presidente del Consiglio di amministrazione di “Data Stampa”, società che vende la rassegna stampa quotidiana per clienti privati e istituzionali. La procura di Roma aveva aperto un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni quotidiani che lamentavano di non aver mai dato il consenso e dunque senza aver concesso la licenza di utilizzo, vendita e diffusione dei contenuti protetti da copyright . La Guardia di Finanza ha verificato come la società ogni giorno dia ai propri clienti 21 quotidiani, italiani e internazionali, consentendo l’accesso con l’utilizzo di password rilasciate dalla stessa “Data Stampa” sia alla versione cartacea, sia facendo scaricare le pagine in formato pdf. Sul sito della società è specificato che tra i clienti ci sono la presidenza della Repubblica, il Senato e la Camera, il Csm, la Banca d’Italia, l’Agenzia delle entrate, la Polizia di Stato, il ministero dell’Interno, l’Arma e la Rai. Istituzione che pagano un abbonamento all’azienda ed è proprio questo ad aver convinto alcuni gruppi editoriali e testate - tra cui La Stampa, la Repubblica e il Messaggero - a presentare la denuncia. Data Stampa ha anche un contenzioso civile con la Fieg, la federazione editori di giornali, proprio per le rassegne stampa.

Da Data Stampa: DIRITTO D’AUTORE NON APPLICABILE ALLE RASSEGNE STAMPA. Il 12 giugno 2019, con sentenza n. 3931/2019, la Corte d’Appello di Roma, rigettando l’appello di Fieg e Promopress contro la sentenza n. 816/2017 del 18 gennaio 2017, ha legittimato l’attività svolta da Data Stampa fin dal 1981. La richiesta di Fieg era di inibire l’attività dei rassegnatori, chiedendo loro inoltre un risarcimento danni per l’uso che i rassegnatori fanno dei loro articoli, ritenendo che anche alle rassegne stampa dovesse essere applicato il principio del diritto d’autore. La Corte d’Appello di Roma, pronunciandosi in favore di Data Stampa, ha confermato “con forza” il principio della libera riproducibilità degli articoli di giornale nelle rassegne stampa. Ora le aspettative di Data Stampa sono riposte nel Parlamento, che potrebbe regolare la materia nell’ambito del riordino del settore dell’editoria affidato agli Stati Generali, il termine dei cui lavori è previsto intorno alla metà del prossimo mese di ottobre. Una vittoria che, dopo il successo ottenuto due anni e mezzo fa da Data Stampa nel primo grado di giudizio, ci spinge a guardare al futuro con rinnovata fiducia, nella ferma convinzione che la libertà d’impresa e d’informazione vada difesa sempre, contro ogni azione arbitraria posta in essere al di fuori di un quadro normativo certo. La posizione di Data Stampa al riguardo, giova ricordarlo, è sempre rimasta immutata: Data Stampa auspica che venga approvato un quadro normativo fatto di regole certe e rispettose delle legittime esigenze di tutti gli operatori del settore, e non imposte unilateralmente.

“ Orbene la ratio dell’art 65 è quella di accrescere la circolazione dell’informazione, come si risulta evidente:

Dalla natura degli scritti di cui la norma consente la riproduzione (gli articoli di attualità, appunto che hanno eminente valore informativo)

Dalla natura del mezzo di riproduzione (giornali, riviste o strumenti di radiodiffusione che ancora una volta hanno finalità essenzialmente informative).

Così stando le cose non può essere allora negata  la possibilità di riprodurre anche nelle rassegne stampa gli articoli di attualità, giacchè anche alle rassegne stampa deve essere riconosciuta una finalità sicura finalità informativa, anche se diretta a volte e soddisfare interessi di particolari categorie di soggetti, informazione questa tuttavia non per ciò solo meno meritevole di tutela costituzionale. In definitiva, l’art. 65 va interpretato in base al canone di interpretazione estensiva fondato sulla ratio della norma, nel senso che esso al di là delle espresse previsioni letterali, ben può includere, tra gli strumenti informativi su cui si possono liberamente riprodursi gli articoli di giornale, anche la rassegna stampa…”

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.

Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed  oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.

Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione. 

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano:  disinformazione, censura ed omertà. 

Nozionista è chi si  abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere. 

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.

Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.

Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.

Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?

Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.

La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10

1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.

Le singole discipline.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.

Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:

finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);

natura dell'opera tutelata;

ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;

effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.

Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.

A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.

Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.

Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.

Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.

Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.

È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).

Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione.  Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.

Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).

Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.

LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.

Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".

Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.

Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.

La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.

La normativa.

La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).

L’opera giornalistica.

Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.

Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.

Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:

La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:

1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;

2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;

3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;

4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.

Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.

Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.

L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.

Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.

Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:

1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;

2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.

IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.

Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.

La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.

Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.

É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.

Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.

LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.

(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)

Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.

La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.

Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:

1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)

2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.

3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).

La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.

Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.

Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.

Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.

Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…

L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.

Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)

Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).

Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.

(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)

Conclusioni.

Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.

Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.  I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro.  2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.

IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.

L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.

Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).

Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.

La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.

La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.

IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.

L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.

LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.

Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:

1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”). 

2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;

3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”).  La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.

La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).

Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”)  il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:

1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;

2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;

3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.

Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).

CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.

Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.

La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.

Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.

·        La Credibilità.

Caratteristiche della credibilità di una persona. Da Pensiero Critico.

Cos'è la credibilità. Quando ci troviamo di fronte a una persona elaboriamo sempre un giudizio sulla sua credibilità, e spesso siamo indotti a pensare che essa sia una proprietà intrinseca di quella persona. Secondo il sociologo Guido Gili (2005, La credibilità) la riflessione psicologica e sociologica contemporanea ha modificato questa prospettiva, proponendo che la credibilità sia qualcosa che viene riconosciuto dagli altri, anche se essa non può prescindere da qualità effettivamente possedute da quella persona. Ecco la definizione data da Gili (p.4): La credibilità è sempre una relazione tra emittente e ricevente/pubblico, per cui una credibilità universale ed un discredito universale sono i poli estremi di un continuum sul quale si collocano concretamente tante forme e modi diversi di credibilità. Spesso chi è credibile presso un interlocutore o un pubblico non lo è nello stesso modo e per le stesse ragioni presso un altro, come mostra, in modo estremo ed evidentissimo, il caso di molti leader carismatici. Per i loro seguaci rappresentano delle personalità eccezionali, dotate di qualità quasi sovrumane e di una credibilità illimitata; per gli altri possono apparire come degli esaltati, dei pazzi o dei criminali.

Il punto chiave. La credibilità non è una caratteristica intrinseca della fonte, ma è una relazione. (Guido Gili).

La credibilità è soggettiva. La credibilità che attribuiamo a una persona non è "oggettiva" ma "soggettiva": dipende da come la nostra mente è fatta in termini di ricordi, emozioni, esperienze, capacità logiche, ecc. Il problema della credibilità di una persona non si pone nei rapporti di familiarità perchè le lunghe frequentazioni permettono di maturarla e sperimentarla nel tempo (anche la familiarità, comunque, non è esente da rischi perchè espone alla manipolazione). Il problema della credibilità di una persona si pone soprattutto nelle relazioni caratterizzate da livelli crescenti di estraneità e talvolta richiede, affinchè una relazione possa iniziare, una anticipazione di credibilità.

Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia. Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia che è complementare alla credibilità, nel senso che si può parlare di fiducia solo quando l'altra persona è libera di tradirla (non vincolata da norme o imposizioni). Come ha scritto il sociologo Niklas Luhman (Le strategie della fiducia, Einaudi pp.131-132)"la fiducia non nasce da un pericolo intrinseco ma dal rischio. [...] Ciò che determina il rischio è un calcolo puramente interiore delle condizioni esterne. [...]". Vi sono molti concetti legati alla credibilità (affidabilità, attendibilità, reputazione, ecc.) dei quali è opportuno conoscere le proprietà e individuare le differenze.

Credibilità dei politici italiani. Credibilità del ruolo e credibilità nel ruolo. Quando comunichiamo non siamo quasi mai individui generici ma, la maggior parte delle volte, ci portiamo dietro un ruolo specifico riconosciuto dalla società: padre, insegnante, medico, manager, politico, operaio, ecc. I diversi ruoli professionali posseggono già, di per sè, una credibilità riconosciuta: la credibilità del ruolo che influenza positivamente o negativamente la nostra percezione dell'altro. Insieme a questo tipo di credibilità ve ne è però uno più pertinente alla persona che stiamo valutando ed è la credibilità nel ruolo. Essa equivale al modo in cui quella specifica persona interpreta quel ruolo, con i suoi personali pregi e difetti. Questi due tipi di credibilità si influenzano e, di solito, se si ha un ruolo socialmente credibile si tende a interpretarlo in modo da rafforzarlo. Talvolta ciò non accade: ad esempio in Italia, negli ultimi anni, il patrimonio di credibilità del ruolo politico è stato sperperato da comportamenti personali discutibili sul piano etico (vedere ad esempio: G.Stella, S.Rizzo, La Casta - Perchè i politici italiani continuano a essere intoccabili 2007 Rizzoli). Dunque, a fronte del discredito della credibilità del ruolo, i politici (se sono eticamente dotati), dovranno impegnarsi di più nella loro credibilità nel ruolo per sperare che l'altro tipo di credibilità possa essere recuperato.

Radici della credibilità. Secondo Gili (p.7) le radici della credibilità, che i riceventi cercano nelle persone, sono tre:

radice cognitiva: è la competenza o qualifica riconosciuta di esperto.

radice etico-normativa: è la condivisione di valori percepiti (pregiudizi inclusi).

radice affettiva: è la condivisione emotiva di appartenenza (a un gruppo, un'associazione, un partito, ecc). 

Verifica della credibilità di una persona sul Web. Il web offre la possibilità di verificare rapidamente la credibilità di una persona (la sua reputazione), attraverso: i commenti postati sui blog/forum, le menzioni ricevute da altri soggetti, le immagini postate sui social networks, ecc. Questa possibilità può diventare un rischio per chi pubblica incautamente informazioni che lo riguardano, perchè spesso esistono scostamenti tra l'identità personale e l'identità digitale della stessa persona, dovuti al modo in cui la personalità dell'individuo viene "costruita" in rete. Tale problema ha dato luogo alla creazione di una nuova figura professionale: quella dell'"online reputation manager". Naturalmente ciò riguarda soprattutto le persone che hanno una immagine pubblica da difendere, ma ciò diventerà una necessità anche per le persone comuni. Quando la credibilità online di una persona viene danneggiata (dai suoi comportamenti reali o da quelli di altri) esiste la possibilità che essa si rivolga a un servizio di ricostruzione della propria reputazione digitale. Alle persone "normali", consigliamo di attuare i consigli suggeriti dall'articolo "Google e web, come gestire la reputazione online". Per chi volesse fare qualcosa in più Susan Adams ha pubblicato su Forbes sei utili consigli per gestire la propria reputazione online nel seguente articolo: "6 Steps To Managing Your Online Reputation". Esistono peraltro servizi rivolti a persone che hanno molto da nascondere e desiderano rifarsi una verginità online, ad esempio i politici: ecco un esempio di azienda che offre una "web reputation per politici" che li "ripulisce" prima di affrontare una campagna elettorale.

Monitoraggio online. Esistono servizi di "ricostruzione" della reputazione online in grado di innalzare fittiziamente la credibilità di soggetti che hanno molto da nascondere. Ciò rende più faticosa la valutazione della credibilità online di coloro che hanno le risorse per accedere a tali servizi, quali: politici, imprenditori, aziende, ecc.

Patologie della credibilità. Generalmente, se nel corso della nostra vita abbiamo vissuto in ambienti con buone relazioni interpersonali, tendiamo ad accordare alla "gente" una fiducia generalizzata. L'influsso esercitato dal sistema mediatico sul singolo individuo dipende non solo dall'efficacia comunicativa dei media, ma anche dalla vulnerabilità del singolo. La mancanza di fiducia o l'eccesso di fiducia rientrano tra le patologie della credibilità, e si collocano ai due estremi dell'asse della fiducia. In tali patologie le persone possono avere un atteggiamento di sospetto generalizzato o, all'opposto, un atteggiamento di credulità senza limiti.

I vari gradi della fiducia si trovano tra due estremi: il sospetto generalizzato e la credulità senza limiti.

Teoria della coltivazione (dei telespettatori).

Eccesso di sospetto. Nella costruzione della fiducia, in mancanza di situazioni di familiarità, influiscono anche le rappresentazioni della società offerte dai mezzi di comunicazione di massa, ad esempio l'esposizione alla violenza nelle fiction in TV (più che nelle news). Secondo una ricerca pionieristica di George Gerbner (1976), la violenza in TV produce la convinzione che anche nella propria realtà sociale vi sia violenza e che esista un'alta probabilità di rimanerne vittima. Gerbner propose una teoria (Cultivation theory) nella quale la Televisione, anzichè essere una occasione di riflessione sul mondo reale, può sostituirsi alla realtà nelle persone che si espongono per molte ore al giorno  ai suoi programmi. Secondo questa teoria le persone vengono "coltivate" fin dall'infanzia ad accettare storie, preferenze, messaggi dalla TV anzichè dalle persone reali del loro ambiente sociale. La teoria della coltivazione ha ricevuto molte critiche per le modalità di svolgimento delle interviste ma, nonostante ciò, rimane un'ipotesi sociale che mantiene un elevato grado di credibilità.

Eccesso di credulità. Riguardo alla credulità fanno riflettere i metodi usati da Kevin.D. Mitnick, un famoso hacker statunitense, per carpire informazioni riservate (L'arte dell'inganno, 2002 Feltrinelli). Mitnick ha dimostrato che l'anello debole della sicurezza dei sistemi informatici (anche i più sofisticati) non è di natura tecnologica ma è il fattore umano. Egli riusciva a procurarsi le informazioni più riservate semplicemente... chiedendole, cioè sfruttando la credulità delle persone. Egli aveva la capacità di rendersi credibile a interlocutori che non aveva mai visto nè sentito prima. Questa capacità è stata chiamata ingegneria sociale (social engineering) e consiste nel raccogliere informazioni sulla vittime (spesso per telefono) per poi arrivare all'attacco vero e proprio (di solito di natura informatica). L'ingegneria sociale impiega metodi quali: nascondere la propria identità, mentire, ingannare, rendersi credibili e sfrutta alcune tendenze generali dell'essere umano: il desiderio di rendersi utile, la tendenza alla credulità, la paura di mettersi nei guai (se non rispondono alle richieste). Nel suo libro Mitnick, che ora fa il consulente di sicurezza alle aziende, descrive nel dettaglio in che modo vengono effettuati i tentativi di manipolazione e come imparare a difendersi.

·        L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Dispotismo: dispotismo (raro despotismo) s. m. [der. di despota e dispotico]. – Governo esercitato da una sola persona o da un ristretto gruppo di persone in modo assolutistico e arbitrario, senza alcun rispetto per la legge. In particolare e detto Dispotismo illuminato, quello dei sovrani riformatori del 18° secolo, ispirato alle teorie politiche e filosofiche dell’illuminismo francese (esaltazione della Ragione, accettazione dell’assolutismo come forma di governo, ecc.). In senso estensivo e figurativo: autorità che si esercita in modo prepotente, oppressivo; atteggiamento ispirato a estremo autoritarismo, a noncuranza o a disprezzo degli altrui diritti.

La teoria di Montesquieu: Lo Stato e la suddivisione dei poteri.  La moderna teoria della separazione dei poteri viene tradizionalmente associata al nome di Montesquieu. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati", perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. L'idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale: già si rinviene nella riflessione filosofica sulle forme di governo della Grecia classica, dove il cosiddetto governo misto era visto come antidoto alla possibile degenerazione delle forme di governo "pure", nelle quali tutto il potere è concentrato in un unico soggetto. Platone, nel dialogo La Repubblica, già parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delineò una forma di governo misto, da lui denominata politìa (fatta propria poi anche da Tommaso d'Aquino), nella quale confluivano i caratteri delle tre forme semplici da lui teorizzate (monarchia, aristocrazia, democrazia); distinse, inoltre, tre momenti nell'attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nella sua opera De legibus et consuetudinibus Angliæ, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio: il primo è il momento "politico" dell'attività dello Stato, nel quale vengono fatte le scelte di governo, svincolate dal diritto; il secondo è, invece, il momento "giuridico", nel quale vengono prodotte e applicate le norme giuridiche, con decisioni vincolate al diritto (che, secondo la concezione medioevale, è prima di tutto diritto di natura e consuetudinario). È però con John Locke che la teoria della separazione dei poteri comincia ad assumere una fisionomia simile all'attuale: i pensatori precedenti, infatti, pur avendo individuato, da un lato, diverse funzioni dello Stato e pur avendo sottolineato, dall'altro lato, la necessità di dividere il potere sovrano tra più soggetti, non erano giunti ad affermare la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Locke, nei Due trattati sul governo del 1690, articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e federativo (relativo alla politica estera e alla difesa), il primo facente capo al parlamento e gli altri due al monarca (al quale attribuisce anche il potere, che denomina prerogativa, di decidere per il bene pubblico laddove la legge nulla prevede o, se necessario, contro la previsione della stessa).

La Teoria di Voltaire: Tolleranza e Libertà di manifestazione del pensiero. La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee è una delle libertà più antiche, essendo sorta come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo e, successivamente, durante i conflitti tra cattolici e protestanti (XVI-XVII secolo). D’altra parte, essa è stata sollecitata anche dai grandi teorici della libertà di ricerca scientifica (basti pensare a Cartesio o a Galileo) e della libertà politica (ad esempio, Milton), nonché, successivamente, dagli stessi filosofi del XVIII e del XIX secolo (Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill). Va detto, comunque, che soltanto in alcuni documenti costituzionali si parla di libertà di manifestazione del pensiero (art. 8 Cost. Francia 1848; art. 21 Cost.), laddove in altri testi si preferisce utilizzare l’espressione libertà di opinione (art. 11 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; art. 8 Cost. Francia 1814; art. 7 Cost. Francia 1830; tit. VI, art. IV, par. 143, Cost. Francoforte 1849; art. 118 Cost. Germania 1919; art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20 Cost. Spagna 1978; art. 16 Cost. Svizzera 1999), libertà di parola (I emendamento Cost. U.S.A. 1787) o libertà di stampa (art. 18 Cost. Belgio 1831; art. 28 Statuto albertino).

La Teoria di Voltaire. Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane né democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore, tra essi Condorcet e Bailly). Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra. Nel Trattato sulla tolleranza il filosofo denuncia le conseguenze dell’intolleranza e si scaglia, in particolare, contro il cristianesimo. Secondo Voltaire bisogna abbandonare il fanatismo delle religioni storiche e abbracciare unicamente una religione razionale che si basi sull’obbedienza a Dio e sull’esercizio del bene. Essere tolleranti significa, per Voltaire: accettare la diversità e le comuni fragilità, rifiutare la tortura e la pena di morte e abbracciare una fede pacifista e cosmopolita. L'idea di tolleranza di Voltaire. Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra (religione, n.d.r) è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive.  Ma la sua requisitoria è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita.  La celebre frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», a cui è legato indissolubilmente il nome di Voltaire, in realtà non fu mai pronunciata dal filosofo. Appartiene, infatti, ad una saggista (Evelyne Beatrice Hall) che scrisse e ricostruì la vita e le opere di Voltaire. Ciononostante, sicuramente le prese di posizione del filosofo in merito non scarseggiarono e, anche nella sua vita privata, soffriva profondamente delle conseguenze dell’intolleranza degli uomini. Ogni anno, infatti, dedicava un giorno al lutto e all’astensione da qualunque attività: il 24 agosto, anniversario della notte di San Bartolomeo (una strage compiuta nel 1572 dalla fazione cattolica ai danni dei calvinisti parigini), si dice che aggiornasse la sua casistica dei morti nelle persecuzioni religiose arrivando a contarne 24/25 milioni. Ma la sua personalità non fu esente da contraddizioni: si batteva contro le guerre e il pacifismo ma faceva affari lucrosi nel campo dei rifornimenti all’esercito; era un paladino della tolleranza ma intrattenne degli accesissimi diverbi con l’illuminista Rousseau che screditavano la validità di tale principio; infine, celebri furono le prese di posizione sull’inferiorità degli africani rispetto a scimmie e elefanti, oltre che all’uomo bianco.

Voltaire e l'illuminismo oscurato dalle catastrofi. Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana. Dino Cofrancesco, Sabato 11/04/2020 su Il Giornale. Mentre nel mondo infuria il Covid-19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l'intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto - philosophes e uomini comuni - sconvolto dal terremoto di Lisbona che nel 1755 provocò vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le désastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio. Principe indiscusso dell'età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad esempio, Semiramide, che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini, o Alzira, messa in musica da Giuseppe Verdi), l'evergreen Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice - uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu - per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l'uomo del terzo millennio (Mimesis, con una sobria e illuminante Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l'attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare. In riferimento al tema della catastrofe che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un'ottima guida al Disastro di Lisbona, nel senso che ci permette di inquadrarne il messaggio nel più vasto ambito dell'etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con «le magnifiche sorti e progressive» su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura, ma è il bastone che permette all'umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?», dirà Candido, il più famoso dei suoi personaggi. «Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all'elefante - si legge in Prendere partito - la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l'equivalente dell'astuzia e della ferocia con cui l'esecrabile ragno cattura e divora l'innocente mosca». Eppure queste considerazioni che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell'umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L'uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L'uomo appare al suo posto nell'ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l'uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate contraddizioni, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l'uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal, così Voltaire lo è da Rousseau il quale, in una lettera dell'agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell'ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell'ottimismo razionalistico di Leibniz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione - dal peccato originale, al quale non credeva, all'ordine immutabile dell'universo - per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. E scrive: «La natura è muta e la s'interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/ consolare il debole, illuminare l'ingegno». E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta - allontanandolo dal trionfalismo illuministico - a una sorta di etica del destino. «Come voi - scrive ad Allamand nel dicembre 1755 - ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell'uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al Pantheon dei suoi resti mortali.

La Teoria di Rousseau: La democrazia diretta come contratto sociale e la capacità del popolo libero a gestirla. A livello politico Rousseau parte da un presupposto sociologico: lo Stato moderno che sta nascendo e la borghesia che continua a governare stanno diventando incompatibili tra loro, scrive F Occhetta. Così per dare un senso all’uomo e alla società ritiene utile partire da un’ipotesi logica che, pur non essendosi realizzata nella storia, ne costituisce il fondamento. Il punto di partenza è costituito, secondo lo schema classico del giusnaturalista laico, dallo stato di natura, che costituisce lo scenario a partire dal quale è possibile interpretare la storia stessa. I processi politici e i sistemi istituzionali sono per Rousseau il modo di «governare» cittadini, che associandosi perdono la loro bontà naturale. Cultura e natura sono in tensione nel pensiero del ginevrino. L’immagine che usa è quella di un’arma pericolosa in mano a un bambino, per questo nei suoi scritti si incontra spesso una proporzione: l’uomo di natura sta alla bontà come l’uomo civilizzato sta alla corruzione. Gli uomini di natura possiedono solo due princìpi anteriori alla loro ragione: l’amore di sé e la pietà mentre l’uomo sociale è egoista e solo, il desiderio di apparire migliore degli altri lo porta ad essere invidioso e falso. Nello stato di natura, però, si radica un’altra contraddizione. Se, per gli illuministi la natura rappresentava un oggetto che la ragione analizzava «per Rousseau la natura rappresenta invece una realtà che non va vivisezionata con la ragione, ma prima di tutto amata e compresa col sentimento». La priorità del cuore sulla ragione, che porta a riconoscere la natura come buona, faranno di Rousseau un «illuminista pre-romantico». Basta poco però per perdere questo status ideale. Appena l’uomo isolato incontra altri uomini per associarsi, perde la sua bontà ed è costretto a fondare un patto iniquo. Questa svolta nella storia dell’umanità è per Rousseau la nascita della proprietà, che egli considera il vero male della storia e definisce con la nota immagine del palo: «Il giorno in cui un uomo ha piantato un palo e ha detto “questo è mio”, е gli altri uomini sono stati cosi ingenui da non strappare quel palo, dicendo “non c’è né mio né tuo”, in quel momento è cominciata la degenerazione della Storia». Le dottrine comuniste esaspereranno questa posizione. Se la natura umana è stata corrotta dallo sviluppo della civiltà e in particolare dall’introduzione della proprietà privata, ci chiediamo: come può essere rieducato l’uomo alla libertà? Qui tocchiamo un punto decisivo: «Per Rousseau la libertà non può che essere sociale: l’uomo è libero solo tra uomini liberi. La liberazione dell’uomo non può che essere frutto di un impegno solidale. Е la socialità che, secondo Rousseau, va riscoperta attraverso l’educazione, costituisce il primo dover essere dell’uomo. La libertà е l’uguaglianza ne costituiscono i frutti preziosi». In verità nel pensiero di Rousseau ciò che salva è una solitudine radicale: «Il “selvaggio” non tiene in alcun conto gli sguardi degli altri sa essere felice indipendentemente dagli altri e vive in se stesso. “L’uomo civilizzato” vive proiettato sempre fuori di sé, nell’opinione degli altri e deriva dagli altri la stessa coscienza della propria esistenza». Ma se gli uomini non si stimano né si aiutano, non si riconoscono reciproci e perdono la loro felicità incontrandosi, su che cosa basano la loro convivenza? Questi presupposti di natura antropologica e sociologica iniziano qui a creare problemi. Ritenere che la società sia la causa dei contrasti tra gli uomini (e non l’effetto) significa ritenere che le ineguaglianze date dalle diverse capacità e dall’appartenenza sociale prendono il posto dell’uguaglianza dello stato di natura. Ma c’è di più: «Le differenze naturali si trasformano in disuguaglianze morali e al tempo stesso gli uomini si riconoscono come individui. Per mezzo dell’opinione degli altri acquistiamo un’identità personale, ma diventiamo anche schiavi dell’opinione». La via d’uscita è di carattere morale e risiede nella capacità che ciascuno dovrebbe avere di rieducarsi alla libertà, facendo nascere il contratto sociale che è un «dover essere della coscienza», un’esigenza deontologica capace di recuperare i valori perduti dello stato di natura, quando l’uomo era buono. Ma c’è di più. Gli studi di questi ultimi anni dedicati al profilo psicologico del pensiero di Rousseau sostengono — con le dovute riserve — che la sua solitudine, il suo narcisismo e il suo masochismo siano stati le cause che lo portarono a teorizzare il «buon selvaggio» — figura letteraria già presente nel pensiero di Montaigne —, vittima innocente della società, e l’Emilio, la vittima innocente dell’educazione. In verità l’attualità del suo pensiero tocca il significato filosofico della «volontà generale» che è chiamata a guidare lo Stato per conseguire il bene comune. Secondo Rousseau la sovranità si poteva esprimere soltanto in un corpo collettivo, inalienabile e indivisibile. In questo meccanismo logico risiede l’ideologia democratica di Rousseau. Quali sono le condizioni che devono sussistere per far sì che uno Stato sia democratico? Lo Stato diventa nel pensiero di Rousseau la via di uscita politica per porre rimedio ai due grandi male sociali: quello di incontrare altri uomini in società e quello della disuguaglianza creata dalla proprietà privata. Il problema è dunque politico, e non antropologico. Il male non è mai all’interno dell’uomo ma nelle strutture politiche, che devono quindi essere riformate e cambiate. Non occorre una conversione morale e una nuova auto-comprensione dell’umano, ma è necessaria la trasformazione delle strutture politiche. In questa visione si concentra tutta la debolezza della proposta politica di Rousseau. La dimensione religiosa che potrebbe cambiare il cuore dell’uomo, insegnargli a distinguere il bene dal male e a conoscere Dio, per Rousseau deve essere invece legata alla politica che diventa per l’uomo la vera religione. Sono dunque le strutture politiche che dovrebbero essere «convertite» per espellere il male dalla storia, non gli uomini che le governano. Costruire lo Stato dunque diventa per il pensiero del ginevrino un atto religioso che non tocca il cuore del cittadino. Per questo alcuni studiosi sono inclini a ritenere che Rousseau secolarizzi il pensiero teologico introducendo l’idea di democrazia moderna. La democrazia, che si fonda sul contratto sociale, diventa in Rousseau lo strumento di redenzione e liberazione dal male; i cittadini non cedono la loro libertà e i loro diritti a un sovrano come riteneva Hobbes, ma alla collettività che li farà ritrovare insieme a tutti gli altri cittadini. Così la democrazia è per Rousseau quella forma di Stato in cui il popolo è allo stesso tempo sovrano e suddito. Per realizzare questa intuizione la sovranità deve essere esercitata direttamente dal popolo tramite procedure che garantiscano il principio di l’autodeterminazione dei singoli che devono realizzare il programma definito dall’interesse generale.  L’ambito si sposta dal teologico al teleologico. In origine c’è una situazione buona (lo stato di natura), segue una caduta (la nascita della proprietà), ne consegue che per redimersi l’uomo deve far nascere lo Stato democratico. Della redenzione non ha bisogno l’uomo, perché è buono, ma la politica, perché il male della storia, che si radica nella proprietà, appartiene alla sfera giuridica. Proprio qui però si radica la seconda contradizione del suo pensiero: tutti possono esercitare i diritti di tutti; e se questi non sono concordi? Che cos’è in realtà la «volontà generale» su cui si sono fondate le moderne democrazie? È formalmente la guida dello Stato democratico, quella che il bene comune della collettività e che si distingue dalla volontà di tutti. La maggioranza va distinta dalla minoranza e la sua volontà coincide tendenzialmente con la volontà generale. Questa è rappresentata della «classe media», non da intendere come la classe borghese, ma quella che in una votazione si determina togliendo le parti estreme. L’interpretazione di questa scelta ha portato ad applicazioni storiche opposte: il pensiero liberal democratico ha fatto coincidere la volontà della maggioranza con la volontà generale; i totalitarismi e le dittature come quelle di Napoleone e di Marx, hanno ritenuto che la volontà generale venisse intuita da personalità carismatiche. Nel pensiero di Rousseau è mancato un ponte che collegasse la vita privata dell’uomo, la dimensione, per lui importante, della coscienza e dei buoni sentimenti, con la costruzione della città. È forse questa l’urgenza di cui hanno bisogno le moderne democrazie per riformarsi. A questo riguardo diventano preziosi due insegnamenti del ginevrino. Il primo è contenuto nell’Emilio, quando Rousseau ricorda che si può vivere in due modi, recitando una parte e privandosi di vivere autenticamente, come fanno gli attori di teatro; oppure vivere e lasciarsi vivere come in una festa quando ciascuno diventa se stesso. Il fine della politica poi lo richiama nella sua Lettera a d’Alambert: «Possano i giovani trasmettere ai loro discendenti le virtù, la libertà, la pace che hanno ricevuto dai loro padri!». «La ricerca del proprio vantaggio a spese degli altri è qualche volta temperata dalla pena che proviamo nel vedere gli altri soffrire. Prima che l’amor proprio sia interamente sviluppato, la pietà naturale agisce come un freno all’ardore con cui gli uomini perseguono il proprio benessere […].

La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.

L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso.  scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.

I tre filosofi dell'Illuminismo. Da Comprensivocesari.edu.it. Charles de Montesquieu, un illuminista aristocratico, era favorevole a una monarchia costituzionale, sul modello di quella inglese. Egli sosteneva che i tre poteri dello Stato, cioè il potere legislativo (di fare le leggi), esecutivo (di applicarle) e giudiziario (di giudicare chi non le rispetta) non devono essere concentrati nelle mani di una sola persona. Per garantire la libertà politica ed evitare che pochi pravalgano su molti, è necessario che i tre poteri restino divisi e indipendenti. Questo principio, detto della separazione dei poteri, è accolto oggi dalle costituzioni di quasi tutti i Paesi. In Italia, ad esempio, il potere legislativo spetta al parlamento, cioè a rappresentanti del popolo liberamente eletti; il potere esecutivo al governo; quello giudiziario alla magistratura, costituita dall'insieme dei giudici. Per Jean-Jacques Rousseau, un filosofo di Ginevra, il potere dello Stato, cioè la sovranità, il potere di comandare, appartiene interamente al popolo, che è l'unico sovrano. Il principio della sovranità popolare, sta alla base delle moderne democrazie. Nelle democrazie moderne, come l'Italia, la sovranità popolare viene esercitata indirettamente attraverso i rappresentanti (deputati e senatori che formano il parlamento) scelti dal popolo e prende il nome di democrazia rappresentativa. Voltaire, il più famoso dei filosofi illuministi, non riponeva nel popolo alcuna fiducia ed era disposto ad accettare il governo di un sovrano assoluto, a patto che questi si dimostrasse "illuminato" e si lasciasse guidare non dal capriccio, ma dalla ragione, preoccupandosi dell'efficienza dello stato e del benessere dei sudditi. Molti sovrani europei sembrarono sensibili alle idee illuministe e attuarono nei loro Stati importanti riforme. Il loro sistema di governo prende il nome di dispotismo illuminato.

Il dispotismo illuminato. Le idee degli illuministi furono accolte da molti sovrani europei, come Federico II di Prussia, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e, in Italia, Leopoldo, granduca di Toscana e Carlo III di Borbone, re di Napoli. Nella seconda metà del Settecento questi "despoti" (sovrani) introdussero delle riforme, cioè dei cambiamenti che avevano lo scopo di migliorare il loro Stato, rendendolo più efficiente e moderno. In Toscana, ad esempio, il granduca Leopoldo abolì la tortura e la pena di morte. Alcuni sovrani si preoccuparono di modernizzare l'agricoltura e combatterono l'analfabetismo, favorendo l'istituzione di scuole pubbliche laiche (cioè non religiose), tanto che l'istruzione pubblica ebbe un grande sviluppo. Questi "despoti illuminati" non cessarono di essere sovrani assoluti e spesso si proposero, molto più che il benessere dei sudditi, l'aumento del proprio potere ai danni della nobiltà e del clero, ossia i ceti privilegiati. Le idee illuministe si diffondono anche in Italia In Italia i centri illuministi più attivi furono due: Napoli e Milano. A Milano fu pubblicato un giornale intitolato "Il caffè", perchè si voleva che avesse sulla società lo stesso effetto stimolante che ha la bevanda sull'organismo umano. Del gruppo milanese faceva parte il marchese Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò il saggio Dei delitti e delle pene, l'opera più importante e più famosa dell'Illuminismo italiano, in cui l'autore dimostrava l'inutilità della tortura e della pena di morte. Presto tradotto in molte lingue, il saggio contribuì a far modificare le leggi e i procedimenti giudiziari in alcuni Stati, fra cui il granducato di Toscana e l'impero austriaco.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Appunto di Filosofia che spiega e mette a confronto le varie idee politiche e etiche di tre esponenti dell'illuminismo: Montesquieu, Rousseau e Voltaire in relazione al clima storico. Elisa P. su skuola.net.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Gli illuministi erano grandi ammiratori del sistema liberale inglese, proponendolo come modello nel loro programma di riforme politiche per la Francia:

- libertà religiosa;

- Libertà di stampa;

- Abolizione dei privilegi fiscali;

- Limitazione dell'assolutismo regio.

VOLTAIRE - "Lettere filosofiche" (1734). Egli aveva fatto conoscere in Francia il sistema parlamentare inglese, rendendosi conto che la società civile francese era più arretrata di quella inglese e che l'eccessivo indebolimento della monarchia potesse degenerare in anarchia; Voltaire inoltre riponeva scarsa fiducia nelle masse popolari, poichè riteneva fossero soggette al dominio dell'ignoranza e della superstizione; per questo motivo un monarca assoluto, ma illuminato, poteva essere il migliore garante del rinnovamento della società. Egli identificava come possibili monarchi illuminati Federico II e Caterina di Russia.

ROUSSEAU. Rousseau aveva fatto inizialmente parte del movimento degli illuministi, ma a partire dal "Discorso sulle scienze e sulle arti" (1750) se ne era progressivamente allontanato. Nella sua opera egli respingeva l'idea di progresso e incivilimento (progresso verso migliori condizioni materiali di vita e costumi più raffinati e umani) e la contrapponeva con la visione di un'austera comunità repubblicana, nella quale le virtù morali e politiche contavano di più delle scienze, della tecnica e degli artificiosi raffinamenti dei costumi. Nel 1762 il filosofo pubblicò la sua opera politica più celebre e discussa "Il contratto sociale"; in esso proponeva un modello di Stato in cui il sovrano fosse tutto il popolo e le leggi derivassero dalla volontà generale del popolo. Inoltre Rousseau elabora il concetto di sovranità popolare che si riferiva alla capacità degli individui di cogliere l'unico interesse generale, liberandosi quindi dei loro egoismi. In un simile Stato gli organi del Governo erano al servizio dell' intera comunità. Venne anche elaborata anche la definizione di Stato democratico, in cui la proprietà privata doveva essere subordinata all'interesse generale.

MONTESQUIEU - "Lo spirito delle leggi" (1748). Montesquieu compì un esame comparativo delle diverse forme di Governo (repubblica, monarchia, dispotismo). Secondo lui il sistema di leggi di ciascun Paese ha uno spirito (logica interna); le leggi non sono solo il prodotto del legislatore, ma sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. Egli voleva appurare se in Francia erano in atto processi che stavano trasformando la monarchia in dispotismo, questi processi dovevano essere fermati finchè si era in tempo;

il dispotismo appariva a Montesquieu come una forma di Governo tipica dei Paesi asiatici, dove era agevolato da tre fattori:

- l'enorme estensione;

- La fitta popolazione;

- La relativa semplicità delle strutture sociali.

Quando tra l'autorità del sovrano e la massa dei sudditi non esistono corpi intermedi dotati di autonomia, il dispotismo è un' evoluzione inevitabile. Tra le forze sociali intermedie, Montesquieu dava importanza a quelle magistrature supreme che erano i parlamentari. Nel momento in cui queste forze prendessero ogni potere, la monarchia sarebbe degenerata nel dispotismo; Montesquieu giudicava poco adatta per la Francia la forma di governo repubblicana; lo spirito repubblicano poteva solo realizzarsi in comunità territorialmente e demograficamente limitate, come Sparta e Roma nell' antichità. Dell'Inghilterra bisognava imitare la divisione dei poteri (la potenza statale così distribuita non sarebbe stata esposta al rischio dell'assolutismo) in tre funzioni diverse:

- la legislazione (Parlamento, l'emanazione di leggi generali);

- Il Governno (re e Governo, eseguire le leggi e occuparsi dell'alta politica);

- L'amministrazione della Giustizia;

La magistratura sarà pienamente indipendente dal potere del Governo, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui, auspicava quindi una monarchia costituzionale.

Illuministi a confronto: Rousseau e Montesquieu. Giada.cofano (Medie Superiori) scritto il 12.04.17 su scuola.repubblica.it. L'illuminismo è un movimento di pensiero nato in Francia nel '700, sviluppatosi poi nel corso del secolo nel resto dell'Europa. Gli illuministi, collaborano insieme nello sviluppo delle idee, ma ognuno di loro pone un accento o una particolare attenzione su un aspetto, che viene quindi sviluppato in modo differente. 

Rousseau, inizialmente faceva parte del movimento illuminista, poi con la pubblicazione di "Discorso sulle scienze e sulle arti" nel 1750, se ne allontana progressivamente. Sostiene che le arti e le scienze nascano da un progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell'uomo, con conseguente negativo sugli esiti dell'evoluzione storica. Ogni passo verso la civiltà comporta, nell'uomo, il nascere di bisogni artificiosi, che lo distraggono dalle cose essenziali e autentiche. Rousseau, facendo emergere una critica radicale, respinge l'idea di progresso e incivilimento e lo contrappone con la visione di un'austera comunità repubblicana. Ne "Il contratto sociale", propone un modello di Stato in cui il popolo è sovrano, e le leggi derivano dalla volontà popolare. Gli individui così facendo si liberano dall'egoismo tipico del loro essere, sviluppando nuove capacità collaborative nell'interesse generale. La storia non era corruzione <>. Ma <>, fissando il vincolo della proprietà privata, del possedere la terra, che in realtà, originariamente, appartiene a tutti. La disuguaglianza tra gli individui deve essere risolta attraverso la ridistribuzione delle ricchezze, quindi con la definizione di leggi uguali per tutti ed uno Stato democratico. 

Differente è invece la visione politica di Montesquieu, che individua nella monarchia costituzionale, un governo in cui i poteri non si sovrappongono, né entrano in contrasto tra loro. Attraverso un esame che compie sulle diverse forme di governo, Montesquieu comprende come le leggi siano, il risultato di una varietà di condizioni fisiche,meteorologiche, sociali e storiche e non semplicemente il prodotto della ragione pura o dell'istituzione arbitraria dei legislatori. Quindi il dispotismo che stava emergendo e affermandosi in Francia, tipico dei Paesi orientali, andava fermato tempestivamente. Il modello inglese che suggeriva la divisione dei poteri diviene per l'illuminista la migliore soluzione governativa. In ogni Stato la divisione consiste in <>. Non vi è libertà se questi tre poteri sono nelle mani di uno solo, o dello stesso organismo. Seguirebbero mancanza di controllo e abusi d'ogni tipo. Se il potere giudiziario è quello legislativo fossero uniti <>. Il principio della conservazione dei poteri è ancora oggi valido, e per noi contemporanei è una cosa scontata e ovvia. Ma nel '700 una tale riforma costituiva una sorta di conquista del potere politico, economico ed ideologico, da parte di una borghesia in fermento, cosciente della propria funzione sociale propulsiva. 

Montesquieu e Rousseau sono solo due dei tanti filosofi che in questo periodo storico, hanno espresso le proprie tendenze e dottrine politiche: al primo, teorico del liberalismo moderato, si contrappone il secondo, che attraverso il suo "contratto sociale" ispirerà l'azione della borghesia democratica.

Montesquieu, la libertà risiede nella separazione dei poteri. Barbara Speca su rivoluzione-liberale.it il 17 Agosto 2011. Il viaggio alle radici del Pensiero Liberale continua con Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu (1689-1755), un protagonista dell’Illuminismo europeo nella prima metà del XVIII secolo che occupa, ancora oggi, una posizione di straordinario rilievo nella storia del liberalismo soprattutto grazie al suo capolavoro, lo Spirito delle Leggi, un’opera monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro e pubblicata anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento, nonché un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Avversario di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, Montesquieu è il filosofo della moderazione e dell’equilibrio. A lui viene attribuita la teoria della separazione dei poteri che rappresenta uno dei princìpi necessari dello Stato di diritto e una condizione oggettiva per l’esercizio della libertà che per Montesquieu è “Il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. Sulla base dell’esempio costituzionale inglese, lo scrittore politico francese sostiene che l’unica garanzia di fronte al dispotismo risiede nell’equilibrio costituzionale di cui godono i paesi in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono nettamente separati e distinti, capaci di controllarsi a vicenda. “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati”. L’idea che la separazione del potere sovrano tra più soggetti sia una maniera efficace per impedire abusi affonda le sue radici nella tradizione filosofica della Grecia classica. Platone ne La Repubblica sostiene l’autonomia del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delinea una forma di governo misto denominata politìa, una condizione di equilibrio tra oligarchia e democrazia, o meglio, una democrazia temperata dalla oligarchia. Aristotele, per di più, distingue tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. In tempi più recenti, nella seconda metà del Seicento, John Locke sostiene la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Montesquieu apre però la strada alla politica moderna, perfezionando la teoria della separazione dei poteri già presente in Locke. Il giurista francese trasforma la sua ricerca scientifica e sociologica in un programma morale e politico: come strutturare un sistema di leggi che, nelle condizioni storiche date, produca il massimo di libertà.“La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro”. Si può definire libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di oltrepassare il proprio limite, degenerando in tirannìa. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché distruggerebbe la “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva dei cittadini. Secondo Montesquieu“Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica” e il dispotismo, anche se rappresenta una forma “naturale” di governo, è il pericolo supremo da evitare, in quanto una sola persona “senza né leggi né impedimenti trascina tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci”. Montesquieu struttura un metodo di interpretazione delle leggi in cui scompare l’alternativa tra legge naturale universale e immutabile, di cui avevano parlato i giusnaturalisti, e l’incertezza o l’arbitrarietà delle leggi positive su cui, dai sofisti greci fino a Montaigne e Pascal, si basava il dubbio scettico sulla stabilità della giustizia umana. Montesquieu cerca di dimostrare come, nonostante la diversità e la complessità degli eventi, la Storia abbia un ordine e manifesti l’azione di leggi costanti in grado di superare i contrasti. Ogni Stato, a sua volta, ha le proprie leggi che non sono mai casuali o arbitrarie, ma strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, addirittura dal clima. Montesquieu sostiene però che sia possibile stabilire, metodologicamente, i princìpi che regolano le leggi e ne determinano il carattere e la natura: le leggi, cioè, non si formano a caso, o secondo il capriccio di qualche individuo, ma seguono la direzione loro imposta da tutto un insieme di condizioni che è compito dello studioso indagare. Lo “spirito” delle leggi corrisponde all’anima dell’insieme di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli, non è possibile valutarle in relazione a uno schema di princìpi dotati di validità assoluta, ma ne va chiarita caso per caso la dinamica interna, facendo uso di criteri costanti riconducibili all’esprit général che rappresenta il collante, il tessuto connettivo di ogni sistema giuridico, un principio non naturale e statico ma storicamente dinamico, di cui ogni legislatore deve tener conto. Il metodo di Montesquieu presuppone che i fenomeni sociali possano essere spiegati con leggi scientificamente rilevanti come quelle delle scienze naturali: le società umane, al pari di ogni essere vivente, sono sottoposte all’azione che deriva dall’intreccio delle situazioni e delle proprie caratteristiche fisiche e spirituali. Montesquieu tenta di organizzare il Diritto in categorie semplici alle quali ricondurre la grande varietà della struttura giuridica e sociale; mette in luce il grande ruolo assunto dalla Storia ed infine, sul piano politico, tenta di strutturare un modello pratico di società per salvaguardarla dai regimi dispotici. Seguendo le orme del Saggio sul governo civile di Locke, Montesquieu definisce le leggi “rap­porti necessari che derivano dalla natura delle cose” nonché manifestazione della ragione umana. In una società civile le leggi fungono da elementi regolatori in grado di mediare le tendenze individuali, in vista del perseguimento di un obiettivo comune. Dimostrato che il mondo fisico come il mondo dell’intelligenza dipendono da rapporti intrinseci alla loro stessa esistenza, Montesquieu esamina l’intreccio delle forze che agiscono nelle varie società storiche per sco­prire coerenze e discordanze delle istituzioni e delle leggi rispetto alla loro essenziale necessità, al loro “esprit”. Le leggi fondamentali dello Stato prescindono dal principio e dalla natura del governo che per Montesquieu può essere repubblicano, monarchico o dispotico, a seconda che vi prevalga il principio della virtù, dell’onore o della paura. La stabilità dello Stato dipende dal principio del governo e si basa sulla coerenza delle sue leggi. Nella situazione storica in cui le leggi si dimostrino aber­ranti dall’esprit général che le ha determinate e le sorregge è necessario individuare la natura e la ragioni dell’errore. Quando il principio si corrompe, le migliori leggi diventano distruttive. Il principio della democrazia, ad esempio, si corrompe quando la nazione perde lo spirito d’uguaglianza o lo interpreta arbitrariamente. Nel suo capolavoro Montesquieu si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale per fissare dei “princìpi” universali volti ad organizzare logicamente l’infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche, delle credenze religiose, delle forme politiche e per formulare, infine, leggi obiettive secondo le quali si articola costantemente, sotto l’apparenza del caso, l’incostante comportamento degli uomini. Non rifiuta la concezione machiavellica della politica come forza, ma la integra con un’accurata analisi delle molteplici “cause” – storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali – che operano negli eventi umani. Le leggi positive formulate da Montesquieu riguardano principalmente: il diritto delle genti (leggi che regolano i rapporti esistenti tra i vari stati); il diritto politico (leggi che regolano i rapporti tra Stato e società civile); il diritto civile (leggi che regolano i rapporti tra i componenti della società civile). Rinuncia comunque alla ricerca della miglior forma di Stato, cara alla letteratura utopistica, e tenta di stabilire, concretamente, le condizioni che garantiscono, nelle diverse forme di governo, l’optimum della convivenza civile: la libertà. Il suo realismo e relativismo si salda con un alto intento normativo: un invito alla razionalizzazione delle leggi e delle istituzioni.

DA MARX ALLA RIFONDAZIONE. Giovanni De Sio Cesari.

PREMESSA. Nel secolo scorso due grandi movimenti mondiali si sono confrontati su tutti i piani possibili: il socialismo e il capitalismo. Il socialismo (e il comunismo) parlava di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, era dalla parte dei poveri e degli oppressi; il capitalismo (liberismo) invece esaltava la competizione, puntava sull'egoismo, era dalla parte dei potenti. Per questo i giovani, i poeti, gli intellettuali, tutti quelli che avevano a cuore le sorti dell'umanità inclinavano sempre verso il socialismo. Tuttavia alla fine del secolo il capitalismo (liberismo) si è dimostrato, potremmo dire “purtroppo”, la forma più adatta alla civiltà industriale: il socialismo in parte è confluito nel capitalismo stesso e nella sua manifestazione più coerente e radicale, il comunismo, si è dissolto. In particolare il comunismo marxista è stato, in positivo o in negativo, il protagonista della storia del secolo scorso: nel nostro secolo invece è sparito come grande movimento storico anche nei paesi che si dicono ancora comunisti (Cina, Viet-nam tranne forse Cuba e Nord Corea) ed è rimasto una aspirazione di piccole minoranze politicamente ininfluenti. Almeno per le prossime generazioni il socialismo può rimanere una bella e nobile ideale ma non ha nessuna possibilità di realizzazione nella realtà nei fatti. Per un secolo quasi quindi Marx è stato il punto sul quale il mondo si divideva fra quelli che lo sostenevano e quelli che gli erano contrari: adesso il suo pensiero è fuori della realtà politica ma può dare suggerimenti, spunti, idee. Succede per Marx come per Mazzini o per Voltaire: ai loro tempi divisero il mondo ma ora sono un patrimonio comune: non siamo più contro o a favore di Mazzini, come i nostri antenati, ma giudichiamo storicamente Mazzini (e i liberali) insieme ai loro avversari reazionari, qualche volta anche riabilitandoli (come i Borboni di Napoli). Però Mazzini e gli illuministi furono dei vincitori nella storia nel senso che le generazioni che vennero dopo di loro li acclamarono come propri maestri: la storia invece ha dato torto a Marx: le statue di Mazzini sono ancora ovunque ma non se ne vedono di Marx. Ma questo nulla toglie al fatto che il pensiero di Marx rimane uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. Il termine di marxismo e di comunismo viene usato in molti significati diversi e tutti validi e non ha senso parlare di "vero" comunismo contrapposto a un "falso" comunismo: le parole importanti hanno sempre tanti significati diversi e non vi è certo un copyright sul termine. Si definiscono comunisti e marxisti Stalin e Troztski, Togliatti e i sessantottini, Mao e Deng Xiaoping, (attuale dirigenza cinese ). Fondamentale è la distinzione poi fra pensiero marxiano (proprio di Marx, d'altra parte con tante interpretazioni ) e il marxismo (cioè il movimento che si fa ad esso, estremamente vario). In questa lavoro intendiamo mostrare brevemente l’evoluzione dal pensiero proprio di Marx fino a certe posizioni della cosi detta Sinistra Alternativa (S.A.) diffusa in tutto il mondo occidentale che, benchè tagliata ormai fuori dalla possibilità di governo, tuttavia mantiene un suo seguito vivace e attivo nella vita politica.

MARX : LA SCIENZA. La teoria di Marx non era un semplice pauperismo, incentrato sulle idee di giustizia e umanità (socialismo utopistico) ma voleva essere una disanima scientifica. La sua opera fondamentale venne intitolata, non a caso. “il capitale” (non “il comunismo”) perchè Marx intendeva mostrare, attraverso una analisi scientifica dell’economia capitalista che essa necessariamente doveva dissolversi per le proprie contraddizione interne e strutturali , non superabili. In sintesi, senza scendere nelle argomentazioni tecniche, Marx legò la sua dottrina alla previsione "scientifica" che i ricchi sarebbero stati sempre più pochi e sempre più ricchi (borghesi) e i poveri sarebbero stati sempre più numerosi e sempre più poveri (proletari) con la sparizione del ceto medio e dei lavoratori indipendenti. Ma questa previsione non si è affatto verificata: anzi è avvenuto il contrario di quanto previsto da Marx. In tutti i paesi capitalistici il ceto medio si è esteso fino a comprendere la grande maggioranza della popolazione e i lavoratori indipendenti sono sempre più numerosi di quelli dipendenti. Non esiste quindi una lotta del proletariato contro la borghesia perchè le due classi, nel senso marxiano, non esistono più. Le minoranze povere come gli emarginati, i giovani disoccupati, le famiglie monoredditi, gli emigrati, sono cosa diversa dal proletariato marxiano. I lavoratori non si identificano più con i salariati proletari di Marx: la classe dei lavoratori ha cambiato profondamente i suoi i caratteri. In essa confluiscono gli operai e gli impiegati, i dipendenti e gli autonomi, i professionisti e gli artigiani e i piccoli imprenditori e anche i pensionati e disoccupati: praticamente la classe lavoratrice si identifica con la nazione nel suo insieme. Resterebbero fuori solo i grandi industriali: la lotta di classe consisterebbe allora nella nazionalizzazioni delle grandi imprese: la cosa è stata fatta nel passato e ha dato risultati cosi negativi e catastrofici che tutti ora vogliono fare le privatizzazioni: non sarebbe certo nell'interesse generale cioè dei lavoratori. La lotta di classe attualmente è un concetto privo di significato. Il pensiero di Marx aveva una valore scientifico nel significato moderno del termine cioè non nel senso di verità assoluta (come fu inteso nei suoi tempi e dallo stesso Marx) ma di ipotesi che andava verificata nei fatti. Nella scienza moderna, infatti, si riconosce che non si può giungere alla verità ultima e definitiva dei fenomeni, alla essenza cioè come nella scienza antica ma che le leggi scientifiche sono ipotesi che spiegano i fatti FINO AD ORA osservati. Poichè nel caso di Marx la previsione si è dimostrata errata evidentemente anche la teoria era errata, come avviene nel campo delle scienze. Ma il fatto che le previsione non si siano verificate non toglie al fatto che la teoria fosse scientifica: bisogna solo prendere atto che si tratta di una teoria superata , “falsificata”, come si dice, dai fatti. Essa comunque conserva una grande importanza culturale e costituisce pur sempre una delle componenti fondamentali della cultura moderna.

SOCIALISMO REALE: LA RELIGIONE. E poi venne nel ‘17 la Rivoluzione Bolscevica in Russia. In realtà si trattava di qualcosa di profondamente diverso da quanto previsto “scientificamente” da Marx. Non si trattava della crisi finale del capitalismo, dell’esplodere delle sua contraddizioni perchè il capitalismo in Russia era appena appena ai primi passi e l’economia era ancora sostanzialmente a carattere feudale. Non esisteva quindi una proletariato nel senso marxiano del termine ma una sterminata moltitudine di contadini intrinsecamente tradizionalisti, come avrebbe detto Marx. Soprattutto non insorgeva, per il comunismo, il popolo nel suo complesso ma una minoranza esigua di rivoluzionari di professione che affermavano, e credevano effettivamente, di essere la autocoscienza del popolo. La caduta del capitalismo era intesa da Marx come un processo spontaneo, irreversibile, sostanzialmente pacifico che sarebbe avvenuto quando i tempi sarebbero stati maturi. Non a torto si era detto che il “Capitale ” era il libro dei capitalisti: si aspettava il crollo ma fino a che esso non sarebbe avvenuto il capitalista poteva tranquillamente godersi la propria ricchezza fino al grande giorno della Rivoluzione: i capitalisti potevano tranquillamente credere in Marx. Ma la Rivoluzione Russa era qualcosa di radicalmente diverso. Tuttavia si affermò che era una strada nuova, non prevista, si pensò anche che era un caso che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia e ci si aspettava che essa fosse dilagata rapidamente nel mondo capitalistico occidentale in America, in Inghilterra, soprattutto nelle Germania della crisi del dopoguerra. Ma questo non avvenne: alla fine degli anni 30 apparve chiaro ed evidente che la rivoluzione comunista non si sarebbe estesa in tempi brevi fuori dalla Russia: di fatto essa poi si estese a paesi poveri ed arretrati come la Cina. Invece in Russia si impiantò il regime staliniano: si sospettavano dappertutto complotti capitalistici, spie delle nemici, una città assediata che esigeva il massimo della disciplina, monastica più che militare. Ma se i fatti avevano smentito la teoria scientifica marxiana, Il marxismo allora divenne allora una religione, la più grande religione del ‘900. Allora tanta parte dell’umanità credette veramente che il regime sovietico avrebbe portato al mondo intero prosperità, giustizia pace. E ci voleva davvero una grande fede per credere che dagli orrori staliniani potesse nascere la società comunista prefigurata da Marx che è come dire che l’inferno in terra avrebbe prodotto il paradiso in terra. Come pensare che un regime che aveva provocato carestie spaventose, che aveva mandato a morte la grande maggioranza dei propri stessi dirigenti in spaventosi processi farsa, che dappertutto aveva sparso il terrore come nessun altro nella storia, era premessa della liberta, della prosperità, della umanizzazione. Ma in tanti ci credettero e i Don Peppone di tutto il mondo pensavano “ha da venì baffone” come di colui che avrebbe finalmente estirpato dal mondo una volta per sempre la ingiustizia e la povertà. E in tanti, in milioni, sacrificarono a questa fede terrena la loro vita e anche la verità e l’evidenza. A un certo punto gli stessi regimi comunisti si resero conto della impossibilita di raggiungere la società preconizzata da Marx. Allora la prospettiva del comunismo marxiano viene allontanato indefinitivamente nel tempo, diviene in pratica una richiamo teorico ufficiale ma in realtà si abbandonò il progetto concreto di instaurarlo, almeno in un futuro prevedibile. Si passa allora a quello che viene definito “capitalismo di stato” e i paesi comunisti in qualche modo si omologano al resto del mondo. L’evidenza e la verità erano divenute troppo forti perchè potessero ancora essere ignorate. Crollò allora la fede nel socialismo reale degradato a capitalismo di stato e il grande sogno del comunismo si spense lentamente nelle masse di tutto il mondo, lasciando un grande vuoto. Il comunismo era rappresentato da Stalin e Togliatti, Mao o i Kmer rossi, da quel terzo dell’umanità che aveva abbracciato quel sistema che sembrava allargarsi all'Asia tutta, all'Africa, all'America Latina: "le campagne che assediavano le citta," si disse. Poi a un certo punto è stato detto che quello non era il "vero" comunismo marxista, si e' parlato di "strappo" (nel 68), di "esaurimento della spinta propulsiva". Poi quel sistema è imploso improvvisamente dappertutto per decisone unanime degli stessi dirigenti (fatto forse unico nella storia) fra la soddisfazione dei popoli. Nessuno si richiama ad esso ma si parla al più di una rifondazione mentre invece il modello liberistico non solo ha vinto la sfida ma ha preso dovunque il posto del comunismo (Cina, Russia, paesi dell'est).

LA RIFONDAZIONE : LA SETTA. Ma se i regimi comunisti ormai sono spariti o quasi dalla storia quella antica religione del comunismo non è affatto spenta: continua nei gruppi della Sinistra Alternativa, piccoli di numero ma estremamente attivi sul piano ideologico e delle manifestazioni politiche. Già negli anni 60, e poi soprattutto con la contestazione del 68, quaranta anni fa ormai, si disse che non era finito il comunismo marxista ma solo una sua deviazione che non aveva niente a che fare con il vero pensiero marxiano. Infatti quando si dissolsero i miti comunisti, la maggioranza dei comunisti con Berlinguer si posero come i “veri” democristiani (la definizione e’ di Pasolini) cioè quelli che volevano realizzare quello che i democristiani avevano promesso ma non realizzato e massima aspirazione il compromesso con DC stessa: la democrazia borghese divenne allora la democrazia e basta, il capitalismo divenne l’economia di mercato, e si fece lo strappo da "Mosca". Ma la minoranza combattiva e motivata invece voleva rifondare il comunismo su nuove basi che non fossero quelle del socialismo reale: continuò sempre a vagheggiare una società alternativa ma in modo sempre più confuso e vago. L'esigenza della rifondazione nasce dall'idea che il comunismo realizzato sia una cosa sostanzialmente diversa da quello che Marx intendeva: si dice qualcosa di vero ma si pone anche una grande questione che non può essere ignorata: perche mai tutti quelli che per due generazioni hanno detto, e sono stati universalmente creduti, di seguire Marx, perche mai tutti poi hanno costruito sistemi tanto diversi da quello marxista? Perche erano tutti dei malvagi, dei traditori opportunisti, spie della CIA? Chi mai ci crederebbero e comunque nello spirito di Marx sono le condizioni materiali e non la moralità degli uomini a fare la storia. Non si accetta la spiegazione più elementare: il pensiero di Marx era inattuabile e per questo chi ha cercato ostinatamente di attuarlo ha costruito qualcosa di diverso, ha creduto di portare il paradiso in terra ma ha invece costruito solo l'inferno in terra. Quando vi era il grande partito comunista guidato da Togliatti, il migliore, il discorso era chiaro: si contrapponeva alla democrazia borghese la dittatura del proletariato, al capitalismo la economia pianificata, all’America l’Unione Sovietica. L’alternativa attualmente proposta invece non si capisce bene “cosa” sia, con quali “mezzi” attuarla (la rivoluzione e la via elettorale sembrano ambedue escluse), soprattutto “quando” (non pare in questa generazione). Alla fine raccoglie consensi da un piccolissimo gruppo di appassionati e dai molti scontenti (voto di protesta). L’inquadramento della realtà non corrispondono a quello della gente (cioè di quelli (nella stragrande maggioranza) non particolarmente politicizzati): la gente ha il problema del mutuo, della precarietà, dell’aumento degli alimentari e la S.A. parla di Multinazionali, di Afganistan, della base di Vicenza, di fascismo. I modelli cioè sono quelli di un altra società ALTERNATIVA e non corrispondono a quelli della società attuale: in altre parole si tratta di una filosofia che vagheggia una società che non esiste e non di un discorso politico che indica i mezzi per operare in quella che c'è. I gruppi marxisti hanno quindi assunto l'aspetto di una setta che va sempre più rimpicciolendosi ma che resiste, coraggiosa e indomita. Come tutte le sette è chiusa in se, impermeabile al mondo esterno: ritiene che tutti gli altri, il 98% delle persone non ha capito nulla o che è corrotta, o che è succube di un inganno globale o della TV, che ogni avvenimento si spiega con il complotto dei capitalisti e della Cia. Afferma che la fine del mondo capitalistico è dietro l’angolo anche se poi se ne sposta continuamente la data come fanno i testimoni di Geova, sulla fine del mondo. Anche le parole assumono significati diversi da quelli comuni e compare un frasario oscuro, incomprensibili ai non adepti. Non avendo quindi proposte proprie, concrete ed effettive, ha sostenute le “buone” cause che però non c’entravano niente con il comunismo: il pacifismo il divorzio, i gay, l’anti consumismo. Per colmo di assurdo sostengono pure HAMAS che è quanto di più lontano si possa immaginare dal comunismo e dalla sinistra in generale. Tuttavia i gruppi marxisti della Sinistra Alternativa assolvono a una importante funzione nelle democrazie occidentali in cui sono comunque inseriti e partecipi: rappresentano infatti la voce dissenziente che mette in discussione i concetti dominanti, le prospettive condivise, la direzione stessa verso cui corre la società. Costituiscono quindi una riserva essenziale di pensiero critico che va oltre le prospettive immediate e realizzabili, di tenere aperta cioè una alternativa logica alla necessita del momento. Riveste cioè quelle caratteristiche che furono anche nella storia del passato proprie delle sette alle quali si devono anche molti sviluppi della civiltà e della cultura. Giovanni De Sio Cesari

La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

LA GUERRA ALLA CANAPA E IL POLITICALLY CORRECT DI DESTRA. Dimitri Buffa il 3 giugno 2019 su opinione.it. Il politically correct è un’invenzione della sinistra. Ma da tempo a destra viene scimmiottato. Basta cambiare di segno alcuni tabù e il gioco è fatto. La sinistra ha il buonismo, la destra il proibizionismo sulla droga e il punizionismo degli stili di vita. E questo è il primo parallelo che salta agli occhi. In entrambi i casi si tratta di cose stupide e poco pratiche. Dire “accogliamoli tutti” è altrettanto velleitario che dire “facciamo la guerra alla canapa”. Anche quella senza effetti stupefacenti. Ebbene, i rampanti nuovi “capitani” di questa destra che legittimamente aspira al governo della nazione Italia, perché non prendono esempio dai loro omologhi olandesi, come Geert Wilders, anche loro militanti anti islam e anti immigrazione selvaggia, ma tutt’altro che irragionevoli proibizionisti sulla canapa, light o hard che sia? Si parla dello “stato spacciatore”, ma perché si concentra questa furia proibizionista su un prodotto come la canapa che, con o senza il thc, rimane uno dei prodotti più innocui in natura alla faccia dei finti studi di alcuni scienziati politicizzati che dai tempi della Fini-Giovanardi sparano balle col cannone per dimostrare l’indimostrabile? Non esiste in natura la possibilità di avere effetti letali per ingestione o inalazione di cannabis. Mentre si può entrare in coma etilico alla seconda bottiglia di vodka, per arrivare a una dose letale di thc bisognerebbe mangiarsi in una botta sola qualche etto di resina di hashish. Ed esistono maniere più comode per suicidarsi. Ma al di là dell’effetto dopante, la canapa light dei negozi adesso di moda per la criminalizzazione propagandistica, semplicemente vendono un prodotto senza alcuna attività dopante. Lo stato spacciatore che vende alcool, sigarette e psicofarmaci perché dovrebbe menare scandalo se permettesse la vendita della cannabis con il thc e tanto più quella senza? Questo proibizionismo tutto centrato sulla canapa ricorda i primordi del proibizionismo degli anni ’30 in America. Guidato dalla mafia italo americana. Quando legavano il consumo da parte dei negri alla violenza sulle donne bianche nei manifesti che imbrattavano la New York di Fiorello La Guardia. Avevano appena perso la gallina dalle uova d’oro dell’alcool proibito   su qualche altro consumo di massa occorreva puntare. E si badi bene che la scelta cadde sulla canapa proprio perché la fumavano tutti. Già negli anni ’30. Nel mondo c’è un intero continente di assuntori di erba e hashish (le statistiche parlano di 300 milioni di persone) e con quelli la mafia fa i soldi. Tutto sommato eroina e cocaina al consumo di massa non sono mai arrivate. Non a quei numeri comunque. E i numeri che ogni anno la Direzione nazionale antimafia fornisce confermano questo assunto. Anche se con la cocaina un enorme sforzo criminale in questo senso  è stato fatto dalla fine degli anni ’70 in poi. Parlare come fa Salvini sulla canapa è anche fuorviante e pericoloso. Il messaggio che ogni droga è uguale tende a livellare tutto verso il consumo più pericoloso delle droghe pesanti. La propaganda è perniciosa e si rivolta sempre contro chi cavalca queste bugie. Da ultimo la parabola di Gianfranco Fini - che voleva mettere in carcere chi si faceva le canne e che rischia di finirci lui per riciclaggio insieme a questo signor Corallo il cui padre in America viene segnalato come uno dei boss del settore narco traffico - è molto significativa. Insomma si può essere di destra, per legge e ordine, senza necessariamente avventurarsi con le sirene del punizionismo moralista su sesso, droga e rock ‘n’ roll. I consumatori di canapa indiana, leggera o hard che sia, non sono tutti tribù di “zecche” dei centri sociali o apostoli dell’“accogliamoli tutti”. Ce ne sono milioni pure di destra. Così come ci sono centinaia di migliaia di omosessuali che votano Salvini. Perché allora regalare questa gente a una scialba a e opportunista sinistra che cavalca tutto quello in cui non crede pur di raccattare voti? Infine sulla cannabis light va fatta un’ulteriore riflessione, in attesa di conoscere le motivazioni di questa sentenza che molto probabilmente non cambierà nulla al di là di come è stata venduta  dai servili mass media della tv pubblica del “neo sovranismo de noantri” (si dice che il commercio non può continuare nel dispositivo “a meno che la sostanza non abbia effetti droganti”, cioè esattamente come è oggi, ndr):  se un ragazzo oggi spinto dagli amici va in giro a cercare cannabis non light ne trova quanta ne vuole anche sotto casa, visto che il mercato è capillare e incontenibile. Se invece si accontentasse della trasgressione “dethcizzata” dei negozi di cannabis light non sarebbe meglio? Quelli che non possono bere il caffè da sempre si bevono il decaffeinato, non è la stessa cosa? O si pensa di fare una cosa intelligente iniziando la battaglia contro l’alcoolismo vietando le birre analcoliche?

Il problema della destra con la canapa è solo una idiozia ideologica, un tabù, un politically correct all’incontrario. Si è rimasti col cervello infantilista all’epoca in cui i compagni si facevano gli spinelli e portavano i capelli lunghi e li si odiava per questo. E l’infantilismo della politica sembra non evolvere mai verso la razionalità.

Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it.  Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019

GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.

Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.

Greta Thunberg e Carola Rackete, ambientalisti e Ong fanno un partito insieme. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Tira una brutta aria in politica. Eravamo convinti di aver visto il peggio con la nascita del governo giallorosso, i grillo-comunisti al potere e la loro ideologia a metà tra Utopia e Incompetenza. E invece, tenetevi forte, al peggio non c' è mai fine perché stanno arrivando i gretini al seguito della Thunberg, il movimento dei Fridays For Future, ossia del cazzeggio del venerdì per bigiare la scuola, che ora ha intenzione di trasformarsi in un partito. Sì, ma mica un partito di periferia, buono a candidarsi per le elezioni locali. No, un partito globale. Dopo il successo avuto dalle piazzate dei ragazzini ecologisti in mezzo mondo, Greta & Co. sono pronti a fare il grande passo, a scendere in politica, sfidando dall' interno quel Palazzo che contestano, anzi aprendolo come una scatoletta di tonno, se non fosse che questa espressione è già stata usata ed è un po' troppo poco ecologista. Il Climate Party, il partito del Clima, cui darebbe vita la Thunberg, intende superare i «partiti verdi e ambientalisti che si sono impantanati nei giochi di potere dei parlamenti nazionali e regionali», si legge su Italpress, e proporre «una piattaforma programmatica alle elezioni, comune in tutti i Paesi occidentali», per dare vita - udite udite - a una «leadership governativa internazionale».

CORSI E RICORSI. L' ultima volta che un partito ha avuto una vocazione Internazionale è stata ai tempi del Partito comunista, e sappiamo come è finita. I proletari di tutto il mondo non si sono uniti spontaneamente; viceversa l' idea è stata imposta negli altri Paesi con esiti sanguinari. A questo retaggio globalista i gretini associano il mito della democrazia diretta e digitale, della E-democracy come a loro piace chiamarla. L' obiettivo è portare in politica i cittadini comuni, gli adolescenti dell' antipolitica, volti nuovi, candidi e quindi candidabili, facce pulite anche perché odiano tanto lo smog e l' anidride carbonica. Ma il problema, oltre che anagrafico, è di competenza: con quale esperienza, con quali conoscenze, con quali capacità di leadership questi sbarbatelli andranno a comandare, per dirla con Rovazzi? Non rischiamo una nuova accozzaglia di incapaci buttati lì nei Palazzi, mandati al macello, e allo stesso tempo in grado di mandare in malora tutto l' Occidente? Non bastavano i grillini, ora ci toccano pure i gretini. Il dramma è che alla loro ingenuità sommano pretese smodate come quella di salvare il pianeta, con un cocktail letale tra inettitudine e scarso senso della realtà. Questo Partito del Clima intende addirittura sfidare le superpotenze del Male come Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, che «hanno anteposto gli interessi militari e nazionali al rispetto dell' ambiente». Ma ve li vedete quattro adolescenti imberbi e una paladina delle emissioni zero con le treccine far cambiare rotta a Putin, a Xi Jinping, a Modi? Ah be', c'è Greta Thunberg, c'è il partito del Clima, deindustrializziamo subito, torniamo a un' economia rurale Orsù, non fateci ridere. Aggiungici poi l' ideologia dello sconfinamento. Perché tutto, secondo i gretini, deve stare entro i parametri, i limiti (le emissioni, i consumi, lo sfruttamento delle terre coltivate), tranne le nazioni che devono perdere i loro confini e diventare globali. E qua l' ideologia di Greta si salda con quella di Carola, con lo slogan No Borders, con l' essere cittadini del mondo, e non figli di un luogo e di una storia. Soprattutto, però, quello che nausea è scoprire che la partecipazione genuina, l' ambizione nobile a cambiare le coscienze dei grandi del mondo, la battaglia senza doppi fini dei ragazzini si risolve, come sempre, in scopi molto più meschini: l' obiettivo di far carriera, di essere eletti e magari riuscire a occupare un giorno le stanze dei potenti.

COME FINIRÀ. Resta solo da capire chi guiderà, quali saranno i colori e come si chiamerà ufficialmente questo partito del Clima. Per la leadership Greta pare avvantaggiata, anche se al momento non può ancora eleggere né essere eletta e quindi per un paio d' anni dovrà farsi aiutare da qualche vicario. Per il colore, il verde sarebbe troppo sputtanato perché già utilizzato dai Verdi e dalla Lega: i gretini farebbero meglio a utilizzare un colore trasparente, come l' aria che vogliono respirare e come le loro idee, così trasparenti da essere invisibili. Per il nome, si potranno sbizzarrire con le sigle: Il Partito della Tripla Fi come Fridays For Future oppure C & G che non è la versione tarocca di Dolce e Gabbana ma sono le iniziali di Carola e Greta. Oh, però sti ragazzini devono fare in fretta. Nel 2030 il pianeta si estingue e, se non scendono in campo ora, rischiano di essere morti prima ancora di essere eletti. Gianluca Veneziani  

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il lungo viaggio temporale in Italia.

Come si è formata l'identità italiana. Viaggio nell'identità italiana: come si è formata e come si modificherà ancora? Matteo Carnieletto, Domenica 13/12/2020 su Il Giornale. "Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani". Questa frase è il sunto di un pensiero ben più ampio di Massimo D'Azeglio, uno dei padri fondatori del nostro Paese. A distanza di più di centocinquant'anni dalla nascità dello Stato italiano - e il passaggio tra due guerre mondiali - è ormai chiaro quali sono i confini e l'identità della nostro Stato. Un po' meno quella degli italiani, a volte troppo distratti o addirittura non interessati alla propria identità. Ma cosa definisce un italiano tale, dato che la sua identità è il frutto di un continuo via vai di popoli e di culture? Il suo aspetto fisico? Solo in parte. Se si visita M9, il museo del Novecento di Mestre nato anche grazie all'intuizione di Cesare De Michelis, si scopre che siamo cambiati molto rispetto ai nostri avi. Come spiega il museo, infatti, i cambiamenti tecnologici degli ultimi anni hanno cambiato profondamente il nostro aspetto: "I miglioramenti economici e sociali del XX secolo non hanno cambiato solo la nostra vita: hanno trasformato anche il nostro corpo e i nostri lineamenti". Grazie ad alcuni "specchi magici" presenti all'interno della struttura, possiamo però vestire "i panni dei nostri antenati per vedere che aspetto avremmo avuto se fossimo vissuti in epoche diverse". Scartato dunque l'aspetto fisico, in continuo movimento, ci vuole ben altro per definire l'identità italiana. Come ci spiega Luca Molinari, nuovo direttore scientifico di M9: "Il museo è aperto e quasi i visitatori ci si perdono e si perdono all'interno del Novecento italiano. La nostra è una mostra impegnativa a livello di attenzione, ma aiuta a capire meglio chi siamo. Cosa determina la nostra identità? Ciò che mangiamo, ciò che facciamo, ciò che produciamo, ma anche ciò che roviniamo, come il paesaggio. M9 non è solo un museo di storia del Novecento – continua Molinari – ma è anche un laboratorio del contemporaneo. Questo per me è centrale. Abbiamo bisogno di immergere il museo nell’attualità: ovvero usare la storia del passato prossimo per raccogliere le sfide di un tempo che sta vivendo una trasformazione potente e drammatica”. In questa chiave il museo viene immaginato come “una casa aperta per tutti” cioè come un luogo “dove sperimentare il futuro nel presente”. Questa impostazione si traduce nel fatto che la mostra permanente dedicata alla storia del Novecento, cuore del museo, ”verrà attraversata da un’attenzione molto forte in termini di potenziamento per coinvolgere i bambini e le persone con fragilità. Quello che vogliamo fare nei prossimi anni è generare un museo a misura di bambini e fragilità”. Forse si può cominciare a tratteggiare il nostro identikit partendo dalla cucina, il luogo per eccellenza di tutte le case italiane. Dove ci si riunisce per mangiare, per bere un buon caffè e anche per discutere. Ma con una particolarità, come scrive John Dickie, autore di Con gusto. Storia degli italiani a tavola (Laterza): "Quando gli italiani mangiano i loro alimenti tipici, nel piatto c'è sempre un ingrediente in più che un forestiero non riesce a percepire: sembrerà retorico, ma questo ingrediente è l'orgoglio di campanile". Perché la cucina italiana non cambia solamente nel tempo, ma anche - e verrebbe quasi da dire soprattutto - nello spazio. "Perché il cibo italiano, quando è al suo massimo, è carismatico" - afferma Dickie - "E lo è per via di quel suo rapporto quasi poetico con il territorio e con l'identità: gli italiani mangiano così bene perché la cucina rafforza in loro il sentimento delle origini e dell'identità". Ora possiamo dire qualcosa di più dell'identità italiana: essa è fatta di tante piccole patrie. Di tanti piccoli orgogli locali, che si uniscono. "Quest’area tematica racconta l’evoluzione di questo spazio domestico attraverso la ricostruzione di quattro cucine di epoche diverse e le testimonianze di chi le ha abitate, evidenziando il ruolo dell’alimentazione nella costruzione dell’identità italiana, dai prodotti che hanno riempito l’immaginario e le pance dei nostri nonni sino alle nuove abitudini indotte dallo sviluppo della moderna industria agroalimentare", si legge sul sito del museo. Italia è anche la storia della sua politica, soprattutto quella più tormentata del Novecento. È infatti la Prima guerra mondiale a fare davvero gli italiani. È questo il momento in cui il siciliano viene spedito sull'Adamello insieme al veneto e all'umbro che, forse, si scoprono per la prima volta connazionali mentre imprecano contro chi li ha spediti lì. Al freddo e sotto il tiro dei nemici. Gli italiani perdono questa guerra fino a quando non capiscono, dopo la disfatta di Caporetto, che gli austriaci possono penetrare nell'entroterra. È a quel punto che reagiscono. È a quel punto che un giovane fante, Luigi Saccaro, pronuncia una frase che rimarrà nella storia: "Fin qui è arrivato il nemico, ma di qui non si passa". Una frase che riecheggia, anche se il fante italiano non poteva saperlo, quanto scritto da G. K. Chesterton: "Un vero soldato non combatte perché ha davanti a sé qualcosa che odia. Combatte perché ha dietro di sé qualcosa che ama". Anche questo fa parte della nostra identità. Dopo la Prima guerra mondiale è stato il momento del biennio rosso e poi del Fascismo, durato come noto un Ventennio. Uno dei tratti distintivi di questo periodo sono le piazze piene, soprattutto negli anni che Renzo De Felice definisce "del consenso". Per comprendere perché così tanti italiani siano rimasti affascinati da Benito Mussolini bisogna proprio partire da quelle piazze e provare ad ascoltare il Duce dalla mascella volitiva. All'interno del museo è infatti presente un'area, chiamata L’arena politica, in cui alcuni attori rimettono in scena alcuni tra i più importanti discorsi politici del Novecento: "Nel Novecento comizi, manifestazioni, scioperi e cortei costituiscono gli spazi, anche simbolici, del discorso e della vita politica, sino a quando, alla fine del secolo, le arene virtuali degli studi televisivi e dei social media si sovrappongono alle piazze, alle sedi delle istituzioni, alle sezioni dei partiti. Il corso della storia politica nazionale è segnato dall’intersezione tra la partecipazione delle masse e la presenza di leader carismatici". E anche questo è uno dei tratti distintivi della nostra identità: la passione per la politica e pure il vizio di cambiar bandiera, come disse sir Winston Churchill: "Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti". L'Italia è il paese di Don Camillo e Peppone, dei rossi contro i neri. Dove è possibile scannarsi - e i fatti dall'8 settembre in poi e degli Anni di piombo sono lì a ricordarlo - ma dove poi si può andare d'accordo su quanto di più importante, come scrive Giovannino Guareschi: "Bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tre il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un'aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un'anima anche i cani. Allora si capisce meglio don Camillo, Peppone e tutta l'altra meranzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente, però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d'accordo nelle cose essenziali. Perché è l'ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l'aria. (...) Ecco l'aria che si respira in quella fettaccia di terra fuori mano: e si capisce facilmente cosa possa diventare laggiù la faccenda della politica". Dopo mesi di stop dovuti all'emergenza Covid-19, il museo è pronto a ripartire, come ha spiegato Michele Bugliesi, presidente della Fondazione Venezia, più accogliente di prima: "In questi mesi di stop abbiamo rivisto dalle fondamenta scopi, articolazioni e attività, e modello di gestione di M9, ora siamo pronti. Vogliamo che sia una casa aperta per tutta la città". Per questo sono stati preparati grandi investimenti per conquistare giovani e adulti attraverso nuovi laboratori e per riuscire a intercettare anche le comunità straniere presenti in Italia. 

L'italiano che domò gli afghani: ecco chi era il terrore dell'Asia. Una storia di avventura, sangue e guerra che parte dal Regno delle Due Sicilie e finisce nell'antica Persia. Così Paolo Avitabile divenne il più pericolo giustiziere delle rivolte afghane. Davide Bartoccini, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale. Tra le vecchie storie che ancora si raccontano in Afghanistan, la scacchiera di sabbia e sassi dove da oltre tre secoli si disputa il “Grande Gioco” e noto per essere la "Tomba degli imperi", è ben impressa nella memoria di quanti vi hanno transitato la storia del generale Paolo Avitabile, un napoletano di umili origini, soldato di ventura e ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che arrivò nel vicino Oriente nel XIX secolo, per rimanere nella leggenda come Abu Tabela, “il terrore afgano”. Nato nel 1791 ad Agerola, altopiano che domina il mare tra Amalfi e Positano, Avitabile entrò sotto le armi giovanissimo, per sfuggire alla povertà, e imparò presto i segreti dell’arte militare che, oltre ai gradi di ufficiale, lo avrebbero presto portato ad ammodernare e comandare due tra i grandi eserciti d’Oriente. Dopo essere stato alle dipendenze delle Scià di Persia, raggiunse le inospitali alture che dividevano l’Afghanistan dall’India (oggi Pakistan) nel 1835. Ben presto divenne governatore della regione strategica del Punjab - crocevia fondamentale della “Via della Seta” e snodo fondamentale del Grande Gioco che intratteneva spie e diplomatici inglesi e russi - ma soprattutto si trasformò nello spauracchio di rivoltosi e criminali, data la sua inclinazione naturale a divenire una sorta di Vlad di Valacchia - il famoso conte Dracula - attraverso la sanguinaria pratica dell’impalamento, dell’impiccagione e dello squartamento dei briganti. Metodi “sbrigativi”, certo, ma quanto mai efficaci. Che gli costarono la fama di cruento e spietato despota, leggendario protagonista di storie terribili che vengono ancora raccontate ai bambini dei villaggi per intimorirli - "Se fai il cattivo di do' ad Avitabile", dicevano le madri ai bambini, come fosse l'Uomo nero o il Babau. Ma che gli permisero di mantenere il controllo dove nessun altro straniero era stato capace d’imporlo. Si dice infatti che Avitabile, ingaggiato appositamente per governare i territori separati dal Passo Khyber, si svegliasse ogni mattina con la ferma convinzione che lasciar penzolare un brigante dalla forca o direttamente dal minareto più alto della moschea di Peshawar avrebbe indotto gli altri a pensarci due volte prima di agire contro il suo governatorato. Così facendo avrebbe, presto o tardi, sedato scontri e disordini che infestavano quei luoghi dove ormai le armate sikh, affidate al suo comando dal maharaja Ranjit Singh, lo avevano già reso celebre con il nome di Abu Tabela. Un nome che ancora risuona in quelle valli così distanti dalla Costiera. Un nome per sempre legato al temibile "pragmatismo" del giustiziere di Pashawar che aveva ghermito i ribelli pashtun facendoli uccidere davanti ai suoi occhi, mentre lui, impettito e coperto di alamari, beveva caffè per colazione. Nella sua uniforme di da ufficiale borbonico, con i suoi folti baffi imperiali, l'avventuriero napoletano che faceva "un uso smodato dello champagne”, si era guadagnato il grado di colonnello, il titolo di Kahn presso il regno di Persia, e la stima dei britannici per aver tenuto lontani da quelle terre contese i russi. Da Peshawar Avitabile controllava di fatto l’accesso al passo del Kyber, e con quello tutte le zone strategiche per il primo conflitto anglo-afghano. Dopo una lunga avventura alle porte dell’Asia, e accumulate ingenti ricchezze per i servigi offerti ai regnanti di metà delle terre conosciute. Se ne tornò nella sua bella Napoli, stabilendosi poi a Castellammare di Stabia. Nel 1844. Morì pochi anni dopo in circostanze mai chiarite. Qualcuno mormora sia stato avvelenato attraverso un piatto di agnello dalla sua giovanissima moglie, già promessa ad un altro uomo. Qualcuno, per i “fumi emessi da una stufa”. Era comunque l'inizio della primavera del 1850 quando spirò. Dopo aver investito parte delle sue fortune nell'agricoltura e nell'allevamento di bestiame. Aveva, tra le altre cose, incrociato delle vacca Jersey donategli dagli inglesi con le vacche locali, dando vita a una nuova e apprezzata razza: le “agerolane”.

Nonostante una morte ridicola, in contraddizione con la magnitudine della sue imprese, gli restava restava appuntata sul petto la decorazione dell'Ordine del Leone e del Sole conferitagli dallo scià di Persia Fath Ali Shah, e la Legion d’Onore, la più alta onorificenza di Francia, conferitagli dal Re Luigi Filippo. Nel fodero portava ancora una sciabola intarsiata d’oro, con fregi della Compagnia delle Indie e dell’Impero britannico, che simboleggiava la gratitudine della Corona per essersi dimostrato nel momento del bisogno un "gallant officer”. Sulla facciata del suo palazzo, costruito con sterline inglesi, e caduto in rovina (per essere poi sfacciatamente abbattuto nel ’37), restava invece un’incisione da lui molto desiderata. “O beata solitudo, o sola beatitudo”. La solitudine forse, di chi aveva ottenuto in grande successo dove tutti gli altri avevano e avrebbero fallito - tra jihad, cariche di cavalleria e giochi di spie. Poiché dove non riuscirono i generali britannici, gli eserciti della Russia zarista prima, e sovietica poi, e financo gli astuti strateghi del Pentagono; era riuscito quel solitario napoletano.

150 anni fa la Breccia di Porta Pia, ma è stata cancellata ogni celebrazione. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 20 Settembre 2020. A centocinquant’anni dal 1870, quest’anno con il 20 settembre celebriamo non una, ma due ricorrenze: da una parte la fine dello Stato pontificio, che a lungo, al centro dell’Italia, era stato uno dei principali ostacoli a qualsiasi progetto di unità e, insieme, il completamento dell’Unità d’Italia con la presa di Roma e la sua elezione a capitale. Due argomenti, due questioni storiche strettamente connesse, che ci spingono a interrogarci sul nostro recente e breve passato nazionale, anche per meglio comprendere i problemi del nostro difficile presente e soprattutto le prospettive del nostro problematico futuro. Sulla prima questione, mi pare di potere dire che essa sia stata se non chiusa, certamente in gran parte superata dal Concilio Vaticano II e dagli sviluppi del cattolicesimo post conciliare, che, voltando le spalle alla Chiesa del Sillabo, ha sempre più esplicitamente riconosciuto come la breccia di Porta Pia abbia liberato anche la religione cattolica dai condizionamenti di un potere temporale, che la allontanava dai suoi compiti spirituali: riconoscimento non da poco ai nostri padri fondatori e tardivo, anche se parziale, riconoscimento pure alle ragioni di Lutero. Se questo non bastasse, è difficile per chiunque ignorare il forte ridimensionamento che le pretese di ingerenza clericale nella vita politica e legislativa dello Stato hanno subito con le sconfitte nei referendum del 1974 sul divorzio e del 1981 sull’interruzione volontaria della gravidanza. E sarebbe ingiusto e superficiale sottovalutare l’orientamento complessivo dell’attuale pontificato che, senza attenuare i principi della dottrina, sembra aver assunto un atteggiamento assai diverso nei rapporti con lo Stato e la sua legislazione da quello assunto della Chiesa di Ratzinger e del Cardinale Ruini sulla fecondazione assistita, sulla ricerca scientifica e sul riconoscimento delle unioni civili. Assai più importante è la seconda questione storica connessa alla ricorrenza, quella che interroga direttamente lo Stato italiano e l’Italia come comunità politica e come costruzione tuttora incompiuta. Se infatti nella vita delle nazioni un secolo e mezzo è un tempo assai breve, esso è tuttavia sufficiente per guardare indietro alla nostra storia e cercare di capire le nostre debolezze e le nostre potenzialità, le nostre possibilità e i nostri rischi. Io non sono uno spregiatore del Risorgimento. Al contrario sono un ammiratore di quanti ne sono stati i protagonisti e ho in orrore chiunque, cancellando Mazzini, Garibaldi, le quattro giornate di Milano, la Repubblica Romana del 1849, la spedizione dei Mille, pretenda di ridurlo solo a una guerra di conquista condotta della monarchia sabauda. Non è stato così, è stato anche il frutto di una forte rivendicazione nazionale che, dal nord al sud, coinvolse la maggioranza della borghesia italiana, soprattutto nelle sue generazioni più giovani. Tuttavia è indubbio che fra i grandi stati europei arrivammo a conquistare la nostra unità nazionale con grande ritardo, creando uno stato molto debole, alle prese con una società frammentata e divisa, e con una borghesia prevalentemente agraria, circondata da plebi fortemente influenzate da un clero, che a lungo rifiutò di riconoscere la legittimità del nuovo Stato. Confesso che mi sarei aspettato che, a partire dall’indubbia crisi di identità e fiducia in se stessa che l’Italia sta attualmente attraversando, si aprisse un dibattito in Parlamento e, se non in Parlamento, nelle Università, nelle televisioni, sui maggiori quotidiani su questo primo secolo e mezzo di storia italiana. Un dibattito che mettesse a confronto la nostra attuale crisi con le numerose crisi del passato: dall’autoritarismo di Crispi ai colpi di cannone contro le plebi di Pelloux e Bava Beccaris, dall’illusione di affermare la nazione con avventure coloniali fino al colpo di stato fascista che sospese e di fatto abrogò lo Statuto albertino. Queste crisi interruppero ripetutamente negli ultimi trenta anni dell’ottocento e nei primi venti del novecento lunghi periodi di stabilità e, anche – penso a Giolitti, a Zanardelli, al giolittismo – positivi periodi di riformismo e di tentativi di allargamento della base sociale dello Stato fino al dialogo con il nascente partito socialista e al suffragio universale. Quali sono le ragioni di questa instabilità democratica delle nostre istituzioni, che in forme diverse si è ripetuta, dopo un lungo periodo di stabilità, nella seconda parte della nostra storia, quella che dalla fine della seconda guerra mondiale giunge fino a noi, prima con la crisi dei partiti antifascisti (i cosiddetti partiti dell’arco costituzionale) e poi con la crisi delle forze politiche che li avevano sostituiti nei primi anni ‘90: Berlusconi, Forza Italia, Popolo della Libertà, Democratici di sinistra e Partito democratico? Una risposta a questa domanda non può in nessun modo essere trovata in ragioni di carattere antropologico, in base a una supposta diversità della società italiana dalle altre società europee. Questo è un Paese che ha avuto seicento mila morti durante la prima guerra mondiale e ha retto una prova improba e durissima in quei quattro anni, a cui era del tutto impreparato. È un Paese che ha avuto l’energia, la forza e la capacità di realizzare, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, nell’arco di una generazione, una trasformazione del sistema economico da prevalentemente agricolo a industriale, che altri paesi hanno compiuto nell’arco di uno o due secoli. Basti pensare alle migrazioni interne, che si sono sommate a quelle all’estero e che hanno trasferito il 40% della popolazione dall’agricoltura all’industria, dal mezzogiorno al settentrione, dalla campagna alle città. E allora forse la risposta va cercata altrove: nella cultura della classe dirigente, non solo quella politica e nell’incapacità di proseguire lungo la linea più vitale e più profetica del nostro pensiero risorgimentale. Quello europeo e cosmopolitico, liberale e federalista. L’Italia è uno Stato giovane, che nelle fasi di crisi si è rifugiata in un nazionalismo reazionario e vittimistico, venato di patetiche ambizioni coloniali e imperiali o di ossessive illusioni autarchiche. È stato chiaro alla fine dell’800, dopo la I Guerra Mondiale con il fascismo, e anche in questa crisi in cui vengono al pettine, sotto la spinta di fenomeni economici, demografici e tecnologici di portata epocale, tutti i nodi legati alla debolezza e all’insufficienza degli stati nazione, a partire da quelli più piccoli e precari. Il nazionalismo in Italia non è stato l’effetto della incompletezza del processo unitario – anche non solo per le crescenti differenze tra Nord e Sud – ma è stato la causa dell’arretratezza e dei ritardi con cui l’Italia ha finito per misurarsi con le sfide della politica e dell’economia contemporanea. Lo stesso deve dirsi dell’altra faccia della medaglia nazionalista, che è quella anti-europea e ostile a qualunque forma di integrazione politica e economica internazionale. Proprio oggi, a 150 anni dal completamento dell’Unità, l’Italia è tornata a inseguire le orme di un inesistente “nemico straniero” (in genere europeo o occidentale) e a volgersi con fiducia e condiscendenza verso veri avversari strategici, come la Cina e la Russia. Un’altra ragione politica dei ritardi italiani è la sistematica scelta di soluzioni istituzionali dell’ordinamento politico, che premiano i cambiamenti frequenti di alleanze e il trasformismo anziché la governabilità di medio e lungo periodo, la ricerca di un consenso immediato intorno a interventi improvvisati di carattere elettorale e clientelare, a scapito di incisivi investimenti intorno a progetti efficaci di riforma e di sviluppo. Forse la continuità di queste debolezze strutturali della nostra cultura politica e della nostra democrazia parlamentare in momenti diversi della nostra storia doveva spingerci a risposte meno autoassolutorie delle responsabilità nazionali. Intendiamoci, esistono anche crisi epocali che investono trasversalmente il mondo occidentale e quella che stiamo vivendo è certo una di esse. Ma è del tutto evidente che il nostro sistema politico non ha strumenti di resistenza e di stabilità e non ha gli anticorpi di cui dispongono altri stati democratici d’Europa o d’oltre Atlantico. Quale migliore occasione, per affrontare un simile dibattito, di quella offerta dalla ricorrenza dei 150 anni della nostra storia unitaria? E invece nessun dibattito, nessun interrogativo. E per essere sicuri che nessuno li ponesse, è stata in pratica cancellata la ricorrenza, silenziando ogni celebrazione.

Porta Pia, Roma completa il naufragio del Risorgimento, iniziato nel 1860. Sergio Carli il 21 Settembre 2020 su Blitz Quotidiano.  Porta Pia, i bersaglieri entrano a Roma. Il Piemonte completa l’annessione dell’Italia e la fine del Risorgimento con Garibaldi a Caprera. Porta Pia, il 20 settembre di 150 anni fa. Per la breccia passarono i bersaglieri. L’Italia era nata male e la presa di Roma suggellò il fallimento del Risorgimento. Il re a Garibaldi: fatti da parte. I Mille trattati come ladri. La nave con Ippolito Nievo che portava i documenti dell’onestà garibaldina affondata al largo di Capri. Il razzismo dei piemontesi e l’ideologia della classe politica (dazi piemontesi applicati ovunque, dissennata vendita dei beni demaniali e del clero)  diedero il colpo di grazia al Meridione, che già di suo, dopo secoli di sfruttamento, era in ginocchio. Allora come oggi. Un anno prima lo scandalo della prima privatizzazione della storia italiana, il monopolio dei tabacchi: il re sospettato di una mazzetta di 6 milioni (dell’epoca), mega insabbiamento. Nella biografia di Francesco Crispi, Christopher Duggan ricostruisce il protoscandalo l’Italia. Poi venne Porta Pia, la presa di Roma e il boom immobiliare. E anche la vergognosa Legge delle Guarentige. Se l’Italia di oggi è così, molto ebbe inizio allora.

1. La ricostruzione di Wikipedia.

2. Repubblica. Porta Pia: Roma libera e italiana. Il 20 settembre di 150 anni fa i bersaglieri di Cadorna entravano nella nuova capitale del regno. Tre punti di vista su quel giorno.

3. Il Fatto. Vittorio Emiliani. I preti aspettavano i piemontesi per la grande speculazione che ancora non si ferma. Lo scempio urbanistico nato dalla Breccia poco Pia.

Presa di Roma. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico.» (Camillo Benso, conte di Cavour, discorso al Parlamento del Regno di Sardegna 11 ottobre 1860). La presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia, fu l'episodio del Risorgimento che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia. Avvenuta il 20 settembre 1870, decretò la fine dello Stato Pontificio quale entità storico-politica e fu un momento di profonda rivoluzione nella gestione del potere temporale da parte dei papi. L'anno successivo la capitale d'Italia fu trasferita da Firenze a Roma (legge 3 febbraio 1871, n. 33). L'anniversario del 20 settembre è stato festività nazionale fino al 1930, quando fu abolito a seguito della firma dei Patti Lateranensi.

Le premesse. Il comandante delle truppe pontificie, il badese Hermann Kanzler. Il comandante dell'esercito italiano, generale Raffaele Cadorna. Il desiderio di porre Roma a capitale del nuovo Regno d'Italia era già stato esplicitato da Cavour nel suo discorso al parlamento italiano il 27 marzo 1861. Cavour prese poco dopo i contatti a Roma con Diomede Pantaleoni, che aveva ampie conoscenze nell'ambiente ecclesiastico, per cercare una soluzione che assicurasse l'indipendenza del papa. Il principio era quello della "libertà assoluta della Chiesa" cioè la libertà di coscienza, assicurando ai cattolici l'indipendenza del pontefice dal potere civile. Inizialmente si ebbe l'impressione che questa trattativa non dispiacesse completamente a Pio IX e al cardinale Giacomo Antonelli, ma questi dopo poco, già nei primi mesi del 1861, cambiarono atteggiamento e le trattative non ebbero seguito. Poco dopo Cavour affermò in parlamento che riteneva «necessaria Roma all'Italia» e che prima o poi Roma sarebbe stata la capitale, ma che per far questo era necessario il consenso della Francia. Sperava che l'Europa tutta sarebbe stata convinta dell'importanza della separazione tra potere spirituale e potere temporale e quindi riaffermò il principio di «libera Chiesa in libero Stato». Cavour già nell'aprile scrisse al principe Napoleone per convincere l'imperatore a togliere da Roma il presidio francese che lì si trovava. Ricevette anche dal principe un abbozzo di convenzione:

«Fra l'Italia e la Francia, senza l'intervento della corte di Roma, si verrebbe a stipulare quanto segue:

1. La Francia, avendo messo il Santo Padre al coperto d'ogni intervento straniero, ritirerebbe da Roma le sue truppe, in uno spazio di tempo determinato, di 15 giorni o al più di un mese.

2. L'Italia prenderebbe impegno di non assalire ed eziandio di impedire in ogni modo a chicchessia, ogni aggressione contro il territorio rimasto in possesso del Santo Padre.

3. Il governo italiano s'interdirebbe qualunque reclamo contro l'organamento di un esercito pontificio, anche costituito di volontari cattolici stranieri, purché non oltrepassasse l'effettivo di 10 mila soldati, e non degenerasse in un mezzo di offesa a danno del regno d'Italia.

4. L'Italia si dichiarerebbe pronta ad entrare in trattative dirette con il governo romano, per prendere a suo carico la parte proporzionale che le spetterebbe nella passività degli antichi stati della chiesa.» (in Cadorna, La liberazione)

Il conte di Cavour vi acconsentiva in linea di massima, perché sperava che la stessa popolazione romana avrebbe risolto i problemi senza bisogno di repressioni da parte di governi stranieri, e che il Papa avrebbe infine ceduto alle spinte unitarie. Le uniche riserve espresse riguardavano la presenza di truppe straniere. La convenzione però non arrivò a conclusione per la morte di Cavour, il 6 giugno del 1861. Bettino Ricasoli, successore di Cavour, cercò di riaprire i contatti con il cardinale Antonelli già il 10 settembre 1861, con una nota in cui faceva appello «alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché colla sua sapienza e bontà, consenta ad un accordo che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e grandezza della chiesa». Ancora una volta Antonelli e Pio IX si mostrarono contrari. L'ambasciatore francese a Roma scrisse al suo ministro che il cardinale gli aveva detto:

(FR) «Quant à pactiser avec les spoliateurs, nous ne le ferons jamais.»

(IT) «Quanto a fare accordi con gli espropriatori, noi non lo faremo mai» (Card. Antonelli)

Da quel momento ci fu uno stallo nelle attività diplomatiche, mentre rimaneva viva la spinta all'azione di Garibaldi e dei mazziniani. Ci furono una serie di tentativi tra cui quello più noto si concluse all'Aspromonte ove i bersaglieri fermarono, dopo un breve conflitto a fuoco, Garibaldi che stava risalendo la penisola con una banda di volontari diretto a Roma. Agli inizi del 1863, il governo Minghetti riprese le trattative con Napoleone III, ma dopo questi avvenimenti Napoleone pretese maggiori garanzie. Si arrivò quindi alla convenzione di settembre 1864, un accordo con Napoleone che prevedeva il ritiro delle truppe francesi, in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato Pontificio. A garanzia dell'impegno da parte italiana, la Francia chiese il trasferimento della capitale da Torino ad un'altra città, che sarebbe stata poi Firenze. Entrambe le parti espressero comunque una serie di riserve, e l'Italia si riservava completa libertà d'azione nel caso che una rivoluzione scoppiasse a Roma, condizioni che furono accettate dalla Francia, che riconobbe in questo modo i diritti dell'Italia su Roma. Nel settembre 1867 Garibaldi fece un nuovo tentativo sbarcando nel Lazio. In ottobre i francesi sbarcarono a Civitavecchia e si unirono alle truppe pontificie scontrandosi con i garibaldini. L'esercito italiano, in ottemperanza alla Convenzione di settembre, non varcò i confini dello Stato Pontificio. Il 3 novembre i garibaldini furono sconfitti nella Battaglia di Mentana. Tornata la pace, i soldati francesi, nonostante quanto previsto dalla Convenzione di settembre, lasciarono una guarnigione di stanza nella fortezza di Civitavecchia e due presidi, uno a Tarquinia e uno a Viterbo (in tutto 4.000 uomini)[3]. Il ministro francese Eugène Rouher dichiarò al Parlamento francese:

(FR) «Que l'Italie peut faire sans Rome; nous déclarons qu'elle ne s'emparera jamais de cette ville. La France ne supportera jamais cette violence faite à son honneur et au catholicisme.»

(IT) «Che l'Italia può fare a meno di Roma; noi dichiariamo che non si impadronirà mai di questa città. La Francia non sopporterà mai questa violenza fatta al suo onore ed al cattolicesimo.» (Eugène Rouher)

L'8 dicembre 1869 il papa indisse a Roma il concilio ecumenico Vaticano I volendo risolvere il problema dell'infallibilità papale, questa decisione destò preoccupazione nella classe politica italiana per il timore che servisse al Papa per intromettersi con maggior autorità negli affari politici dello stato. Il 9 dicembre Giovanni Lanza, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera dei deputati, dichiarò che «siamo unanimi a volere il compimento dell'unità nazionale; e Roma, tardi o tosto, per la necessità delle cose e per la ragione dei tempi, dovrà essere capitale d'Italia». Alla fine del 1869 lo stesso Lanza, alla caduta del terzo gabinetto Menabrea, si insediò come nuovo capo del Governo. Nel 1870 si propagarono nella penisola diverse insurrezioni di matrice mazziniana. Tra le più note vi fu quella di Pavia, dove il 24 marzo un gruppo di repubblicani assaltò una caserma. Il caporale Pietro Barsanti, in servizio nella caserma ed anch'egli mazziniano, rifiutò di reprimere i rivoltosi, contribuendo anzi a fomentare la rivolta. Arrestato e negatagli la grazia sovrana, Barsanti fu giustiziato il 26 agosto tra numerose polemiche. Lo stesso Giuseppe Mazzini, nel suo ultimo tentativo di battere sul tempo la monarchia, partì per la Sicilia tentando di sollevare un'insurrezione ma venne arrestato il 13 agosto 1870 e condotto in prigione a Gaeta.

Il 15 luglio 1870 il governo di Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia (dichiarazione consegnata il 19). L'Italia decise di attendere lo sviluppo della situazione. Il 2 agosto la Francia, desiderosa di ottenere l'appoggio dell'Italia, avvertì il governo italiano che era disponibile a ritirare le proprie truppe da Civitavecchia e dalla provincia di Viterbo. Il 20 agosto alla Camera furono presentate interpellanze da vari deputati, tra cui il Cairoli e il Nicotera (della Sinistra), che chiesero di denunciare definitivamente la Convenzione del 15 settembre e di muovere su Roma. Nella sua risposta il governo ricordò che la Convenzione escludeva i casi straordinari e proprio questa clausola aveva permesso a Napoleone III di intervenire a Mentana. Nel frattempo comunque i francesi abbandonarono Roma. Il ritiro fu completato il 3 agosto 1870. Di nuovo si mosse la diplomazia italiana chiedendo una soluzione della Questione romana. L'imperatrice Eugenia, che svolgeva in quel momento le funzioni di reggente, inviò la nave da guerra Orénoque a stazionare davanti a Civitavecchia. Quando le vicende della guerra franco-prussiana stavano già volgendo al peggio per i francesi, Napoleone III inviò a Firenze il principe Napoleone per chiedere direttamente a Vittorio Emanuele II un intervento militare, ma, nonostante alcune pressioni in tal senso (in particolare del generale Cialdini), la richiesta non ebbe seguito. Il 4 settembre 1870 cadeva il Secondo Impero, e in Francia veniva proclamata la Terza Repubblica. Questo stravolgimento politico aprì di fatto all'Italia la strada per Roma.

La preparazione diplomatica. Dopo Mentana, c'era stato uno stallo nei rapporti tra Italia e Francia sulla questione romana. Poi, tra il 1868 ed il 1869 erano avvenuti numerosi contatti diplomatici tra Italia, Austria e Francia, con l'obiettivo di stipulare un'alleanza in funzione antiprussiana, iniziativa a cui aveva dato impulso il capo del governo austriaco Federico von Beust, timoroso della crescente egemonia di Berlino sugli stati tedeschi, e disponibile per raggiungere tale accordo anche a cedere il Trentino. Ma queste trattative non avevano prodotto risultati perché in esse l'Italia aveva posto la questione di Roma, scontrandosi con l'intransigenza della Francia. Il 29 agosto 1870 il ministro degli affari esteri, il marchese Emilio Visconti Venosta, inviò al ministro del Re a Parigi una lettera con cui espose i punti di vista del governo italiano da rappresentare al governo francese. Visconti Venosta rileva come le condizioni che hanno a suo tempo portato alla convenzione di settembre tra Italia e Francia siano completamente cadute.

(FR) «Florence, 29 août 1870. Il Ministro degli Affari Esteri al Ministro del Re a Parigi… Le but que le Gouvernement impérial poursuivait, celui de faciliter une conciliation entre le Saint-Père, les Romains et l'Italie, dans un sens conforme aux vues exprimées par l'Empereur dans sa lettre à M. de Thouvenel du 26 mai 1862, a été non seulement manqué, mais même complètement perdu par suite de circonstances sur lesquelles il serait inutile d'appuyer…»

(IT) «Firenze, 29 agosto 1870. … L'obiettivo che il Governo imperiale ha perseguito, cioè di facilitare una conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e l'Italia, conformemente ai punti di vista espressi dall'Imperatore nella sua lettera a M. de Thouvenel del 26 maggio 1862, è stato non solo mancato, ma è addirittura completamente fallito a causa di circostanze sulle quali è inutile insistere…» (Visconti Venosta, in R. Cadorna, La liberazione di Roma, p. 331)

Lo stesso giorno Visconti Venosta diramò a tutti i rappresentanti di Sua Maestà all'estero una lettera circolare con la quale si esponevano alle potenze europee le garanzie che venivano offerte al Pontefice a tutela della sua libertà; contemporaneamente si sottolineava l'urgenza di risolvere un problema che, secondo l'opinione del governo italiano, non poteva essere rimandato. Il 7 settembre inviò un'altra lettera in cui le intenzioni del governo vengono nuovamente esplicitate e le motivazioni rafforzate. L'8 settembre il ministro del Re a Monaco, il genovese Giovanni Antonio Migliorati, risponde a Visconti Venosta esponendo i risultati del colloquio con il conte di Bray: «Il Ministro degli Affari Esteri mi disse che le basi che porrebbe l'Italia alla Santa Sede ... gli sembrerebbero tali da dover essere accettate da Roma...». Simili considerazioni arrivano da Berna spedite da Luigi Melegari. Anche i rappresentanti a Vienna, a Karlsruhe, presso il governo del Baden e a Londra esprimono opinioni simili. L'unico governo che esita in qualche modo a prendere posizione è quello di Bismarck che si trova a Parigi assieme al suo re, che in questi giorni sta per essere incoronato imperatore. Solo il 20 settembre da Berlino esprime una posizione di stretta non ingerenza. Jules Favre ministro del nuovo governo francese invia il 10 settembre all'incaricato di Francia a Roma un'indicazione in cui afferma che il governo francese «ne peut approuver ni reconnaître le pouvoir temporel du Saint-Siège» («non può approvare né riconoscere il potere temporale della Santa Sede»). Il 20 agosto il Cardinale Segretario di Stato Antonelli a sua volta aveva inviato una richiesta ai governi stranieri affinché si opponessero «alle violenze dal governo sardo minacciate». La maggior parte dei governi si limitò a non rispondere, altri invece espressero l'opinione che la cosa non li riguardava.

Preparativi militari. Il governo procedette alla costituzione di un Corpo d'osservazione dell'Italia centrale. In questo contesto furono chiamate sotto le armi anche le classi dei nati dal 1842 al 1845. Il 10 agosto il ministro della guerra Giuseppe Govone convocò il generale Raffaele Cadorna cui assegnò il comando del corpo con le seguenti disposizioni:

«1. Mantenere inviolata la frontiera degli stati pontifici da qualunque tentativo d'irruzione di bande armate che tentassero di penetrarvi;

2. Mantenere l'ordine e reprimere ogni moto insurrezionale che fosse per manifestarsi nelle provincie occupate dalle divisioni poste sotto a' di Lei ordini;

3. Nel caso in cui moti insurrezionali avessero luogo negli stati pontifici, impedire che si estendano al di qua del confine.»

Il dispaccio concludeva con: «La prudenza e l'energia altra volta da Lei dimostrata in non meno gravi circostanze, danno sicuro affidamento, che lo scopo che il governo si propone, sarà pienamente raggiunto.»

Oltre a Cadorna il governo nominò anche i comandanti delle tre divisioni che costituivano il corpo d'armata nelle persone dei generali Emilio Ferrero, Gustavo Mazè de la Roche e Nino Bixio. Cadorna sollevò subito i suoi dubbi sulla presenza di Bixio, considerato troppo impetuoso e quindi inadatto ad una missione che «richiedeva somma prudenza». Govone, che si ritirerà pochi giorni dopo dal governo, accettò le opinioni di Cadorna e nominò al posto di Bixio il generale Enrico Cosenz. Alla fine di agosto le tre divisioni furono portate a cinque ed il comando di questi nuovi reparti fu affidato al generale Diego Angioletti e a Bixio, richiamato, che non riscuoteva le simpatie del comandante del Corpo. Il totale degli effettivi del Corpo arrivò a superare le 50.000 unità. L'esercito pontificio, comandato dal generale Hermann Kanzler, era costituito da 13.624 militari, di cui 8.300 regolari e 5.324 volontari. Gli effettivi erano i seguenti:

Reggimenti italiani

1.863 Gendarmi pontifici, agli ordini del generale Evangelisti;

1.023 Squadriglieri di Provincia[11] (anch'essi agli ordini di Evangelisti);

1.691 Fanti di Linea, al comando del colonnello Azzanesi;

1.174 Cacciatori, comandati dal tenente colonnello Sparagna;

567 Dragoni, agli ordini del colonnello Giovanni Lepri;

996 Artiglieri, comandati dal colonnello Caimi;

157 Genieri, agli ordini del colonnello Giorgio Lana e del maggiore Francesco Oberholtzer, direttore dei lavori di fortificazione;

544 “sedentari” o truppe di guarnigione.

Reggimenti stranieri

3.040 Zuavi (il reggimento più numeroso, composto da quattro battaglioni), al comando del colonnello svizzero Eugenie-Joseph Allet;

1.195 Carabinieri stranieri, in maggioranza tedeschi, agli ordini dello svizzero Jeannerat;

1.089 uomini della Legione di Antibes, agli ordini di Perrault (francesi).

Completavano la forza militare:

285 impiegati nei Servizi ausiliari e sanitari.

Il comandante era il generale Hermann Kanzler (badese), coadiuvato dai generali De Courten (svizzero) e Zappi.. Kanzler riordinò l'esercito pontificio disponendo il ripiegamento su Roma di tre guarnigioni su quattro (Viterbo, Frosinone-Velletri e Tivoli). Soltanto ai presidi di Civitavecchia (1000 uomini) e Civita Castellana (700 uomini) venne ordinato di resistere in armi.

La lettera di Vittorio Emanuele II a Pio IX. L'8 settembre, alcuni giorni prima dell'attacco, Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno, partì da Firenze per consegnare al papa una lettera autografa di re Vittorio Emanuele II. L'indomani venne ricevuto dal cardinale Giacomo Antonelli, il quale lo ammise alla presenza del pontefice. Nell'epistola Vittorio Emanuele, che si rivolgeva al pontefice «con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re, con animo d'italiano», dopo aver paventato le minacce del «partito della rivoluzione cosmopolita», esplicitava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, debbano inoltrarsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine». La risposta del Papa fu rispettosa ma ferma: «Sire, Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V. M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo, renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno.» (Papa Pio IX, 9 settembre 1870)

Il 10 settembre il conte San Martino scrivendo da Roma al capo del governo, Giovanni Lanza, descrisse i suoi incontri con il cardinale Antonelli del giorno precedente e in particolare l'incontro con il Papa. Scrive il conte: «… che sono stato dal Santo Padre, che gli ho consegnato la lettera di Sua Maestà e la nota rimessami da V. Eccellenza […] Il Papa era profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma […] Esso [il Papa] non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo raccapriccio per le carneficine francesi e prussiane, per non darmi a sperare che non siano i modelli che vuol prendere […] fui fermo nel dirgli che l'Italia trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale […] Il Papa mi disse, leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato di meglio gli si dicesse a dirittura che il governo era costretto di entrare nel suo Stato.» (Ponza di San Martino)

Il conte di San Martino riferì verbalmente la frase pronunciata da Pio IX: «Io posso cedere alla violenza, ma dare la mia sanzione a un'ingiustizia, mai!» L'11 settembre l'inviato del re ritornò nella capitale. Nello stesso giorno cominciarono le operazioni militari, senza la consegna di una formale dichiarazione di guerra.

L'attacco allo Stato Pontificio. La breccia di Porta Pia, che consentì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, 21 settembre 1870. Il piano d'invasione dell'esercito italiano prevedeva l'ammassarsi di cinque divisioni ai confini dello Stato Pontificio in tre punti distinti:

A nord-est, presso Orvieto, vi era la II Divisione al comando del generale Nino Bixio;

Ad est vi era il grosso dell'esercito (40 mila uomini su 50 mila), costituito da tre divisioni: l'XI, guidata dal generale Enrico Cosenz; la XII, al comando del generale Gustavo Mazè de la Roche; la XIII, agli ordini del generale Emilio Ferrero;

A sud, sulla vecchia frontiera napoletana, era stanziata la IX Divisione, al comando del generale Diego Angioletti.

Si trattava in tutto di circa 50.000 uomini. Il comando supremo delle operazioni era affidato al Luogotenente generale Raffaele Cadorna. Nino Bixio avrebbe dovuto occupare Viterbo e, con l'aiuto della flotta, Civitavecchia per poi dirigersi verso Roma. Il generale Angioletti, entrando da sud, avrebbe occupato Frosinone e Velletri per poi convergere verso l'Urbe. Qui l'esercito si sarebbe riunito per sferrare l'attacco finale. La sera del 10 settembre Cadorna ricevette l'ordine di attraversare il confine pontificio tra le cinque pomeridiane dell'11 ed entro le cinque antimeridiane del 12 settembre. Nel pomeriggio del giorno 11, fu Nino Bixio ad entrare per primo nel territorio dello Stato Pontificio: il generale avanzò verso Bagnorea (oggi Bagnoregio) e Angioletti si diresse su Ceprano (poco più di 20 km da Frosinone). Gli ordini di Kanzler, comandante dell'esercito pontificio, erano di resistere all'attacco delle camicie rosse, ma in caso d'invasione dell'esercito sabaudo, l'ordine era di ripiegare verso Roma. Così fecero gli Zuavi di stanza nelle località via via occupate dall'esercito italiano. Il 12 settembre Kanzler dichiarava lo stato d'assedio nell'Urbe. Bixio si mosse lungo la strada che scorre ad est del lago di Bolsena attraversando Montefiascone per finire a Viterbo (in tutto circa 45 km). Gli Zuavi di stanza a Viterbo ripiegarono verso Civitavecchia, dove giunsero il 14 settembre. Nel frattempo il generale Ferrero aveva occupato Viterbo prima di Bixio che, pertanto, accelerò la marcia verso il porto di Civitavecchia. La piazzaforte si era preparata per resistere a un lungo assedio. Ma il comandante, il colonnello spagnolo Serra, la sera del 15 settembre si arrese senza combattere. La mattina seguente la piazzaforte e il porto di Civitavecchia furono occupati dall'esercito e dalla marina italiane. Negli stessi giorni Angioletti prendeva possesso delle province di Frosinone e Velletri: entrato in territorio pontificio il 12 settembre, occupò la città di Frosinone il 13 e tre giorni dopo entrò in Velletri. Il Luogotenente generale Cadorna, stanziato in Sabina, col grosso dell'esercito si diresse verso Roma lungo la riva destra del Tevere, seguendo il tracciato della vecchia via Salaria. Ricevette però l'ordine di non seguire una via diretta verso Roma. Secondo il rapporto stilato dallo stesso Cadorna, "motivi politici" avrebbero imposto di allungare la strada. Cadorna occupò alcuni centri minori, come Rignano e Civita Castellana. Il 14 settembre le tre divisioni sotto il suo comando si riunirono alla Giustiniana (circa 12 km a nord-ovest di Roma). Entro due giorni furono raggiunte da Bixio e da Angioletti. Il 15 settembre Cadorna inviò una lettera al generale Kanzler: gli chiese di acconsentire all'occupazione pacifica della città. Kanzler rispose che avrebbe difeso Roma con tutti i suoi mezzi a disposizione. Al generale Cadorna fu ordinato di portarsi in prossimità delle mura romane evitando però momentaneamente qualsiasi scontro con le truppe pontificie e attendere la negoziazione della resa. Il piano d'attacco dell'esercito italiano prevedeva che Cosenz, Mazé de la Roche e Ferrero avrebbero attaccato la cinta muraria che si dipana dal Tevere alla Via Prenestina (da Porta del Popolo a Porta Maggiore). Angioletti avrebbe attaccato il fianco sud mentre Bixio, proveniente da Civitavecchia, sarebbe entrato a Trastevere. In caso di trattative infruttuose, l'esercito italiano avrebbe fatto ricorso alla forza, evitando, tuttavia, di penetrare nella Città Leonina. L'attacco alla città fu portato su diversi punti. Il cannoneggiamento delle mura iniziò alle 5 di mattina del 20 settembre. Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città. La minaccia non sarebbe stata un valido deterrente per l'attacco, comunque l'ordine di cannoneggiamento non giunse da Cadorna bensì dal capitano d'artiglieria Giacomo Segre, giovane ebreo comandante della 5ª batteria del IX° Reggimento, che dunque non sarebbe incorso in alcuna scomunica. Il primo punto a essere bombardato fu Porta San Giovanni, seguito dai Tre Archi di Porta San Lorenzo e da Porta Maggiore. Si udirono altri fragori dall'altra parte della città: si trattava dell'azione diversiva della divisione Bixio, posizionata a ridosso di San Pancrazio. Iniziarono i bombardamenti anche sul "vero fronte", quello compreso tra Porta Salaria e Porta Pia. Furono le batterie 2º (capitano Buttafuochi) e 8º (capitano Malpassuti) del 7º Reggimento di artiglieria di Pisa ad aprire il fuoco alle 5:10 su Porta Pia. Poco dopo le ore 9 iniziò ad aprirsi una vasta breccia a una cinquantina di metri alla sinistra di Porta Pia. Una pattuglia di bersaglieri del 34º battaglione fu inviata sul posto a constatarne lo stato. I comandanti d'artiglieria ordinarono di concentrare gli sforzi proprio in quel punto (erano le 9:35). Dopo dieci minuti d'intenso fuoco, la breccia era abbastanza vasta (circa trenta metri) da permettere il passaggio delle truppe. Cadorna ordinò immediatamente la formazione di due unità di assalto per penetrare nel varco, assegnandone il comando ai generali Mazé e Cosenz: si trattava di un battaglione di fanteria[26] e di uno di bersaglieri, accompagnati da alcuni carabinieri. Ma l'assalto non fu necessario: verso le ore dieci, dal campo pontificio fu esposta la bandiera bianca. Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura. I generali Ferrero e Angeletti la rispettarono, invece Bixio continuò il bombardamento per circa mezz'ora. Mazé e Cosenz proseguirono nel loro assalto; le truppe italiane oltrepassarono la breccia di Porta Pia sparando e facendo prigionieri. Dopo l'irruzione da parte delle truppe italiane dentro la cinta muraria vi furono ancora scontri qua e là che si spensero in poche ore con la resa chiesta dal generale Kanzler. La divisione Angioletti occupò Trastevere, quella di Ferrero l'area compresa tra Porta San Giovanni, Porta Maggiore, Porta San Lorenzo, via di San Lorenzo, Santa Maria Maggiore, via Urbana e via Leonina fino a Ponte Rotto. Le truppe di Mazè si attestarono tra Porta Pia, Porta Salaria e via del Corso occupando piazza Colonna, piazza di Termini e il Palazzo del Quirinale. Quelle di Cosenz presidiarono piazza Navona e piazza del Popolo. Per ordine di Cadorna, così come convenuto con il governo, non furono occupate la Città Leonina, Castel Sant'Angelo e i colli Vaticano e Gianicolo. Alle 17:30 del 20 settembre Kanzler e Fortunato Rivalta (capo di Stato maggiore) firmarono la capitolazione alla presenza del generale Cadorna. Una curiosità è che tra i partecipanti all'evento vi fu anche lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis, all'epoca ufficiale dell'esercito italiano che ha lasciato una particolareggiata descrizione dell'evento nel libro Le tre capitali: «[...] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. [...]» Sullo scontro, invece, ci offre alcune informazioni Attilio Vigevano che riferisce che mentre gli Zuavi pontifici combattevano, prima della resa, molti di essi intonarono il loro canto preferito, quello dei Crociati di Cathelineau: «Intonato dal sergente Hue, e cantato da trecento e più uomini, l'inno echeggiò distinto per alcuni minuti; il capitano Berger ne cantò una strofa ritto sulle rovine della breccia colla spada tenuta per la lama e l'impugnatura rivolta al cielo quasi a significare che ne faceva omaggio a Dio; presto però illanguidì e si spense nel ricominciato stridore della fucilata, nel raddoppiato urlio, nel tumulto delle invettive» (Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, p. 571.)

Secondo la descrizione di Antonio Maria Bonetti (1849-1896), caporale dei Cacciatori Pontifici: «Stavamo sulle righe, quando alcune voci sulla Piazza di San Pietro gridarono: "Il Papa, il Papa!". In un momento, cavalieri e pedoni, ufficiali e soldati, rompono le righe e corrono verso l'obelisco, prorompendo nel grido turbinoso e immenso di: "Viva Pio IX, viva il Papa Re!", misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato Pontefice, alzate le mani al cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo come un gesto di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non poter sostenere la nostra vista, allora sì veruno più poté far altro che ferire le stelle con urla, con fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di tanto cordoglio all'anima di un sì buon Padre e Sovrano»

Condizioni di capitolazione. Il 21 settembre il generale Cadorna prese possesso della città. Dal suo Quartier generale in Villa Patrizi ordinò che tutta Roma, ad eccezione della Città Leonina, fosse evacuata dall'esercito pontificio e occupata dagli italiani. Le truppe pontificie avrebbero ricevuto l'onore delle armi ed i volontari sarebbero tornati alle proprie case[31]. Al tramonto tutta Roma, ad eccezione della Città Leonina, era stata occupata dagli italiani. Entro mezzogiorno del 21 i soldati pontifici lasciarono l'Urbe. Il giorno stesso (21 settembre) il papa chiese al comandante italiano di entrare nella Città Leonina allo scopo di prevenire i possibili disordini. Cadorna avvisò il governo e ordinò alle sue truppe di procedere. Il 27 settembre l'esercito italiano prese possesso anche di Castel Sant'Angelo e, da quel momento, i possedimenti del Papa furono limitati al Vaticano. Pio IX decise di non riconoscere la sovranità italiana su Roma. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, ma il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata come "Questione Romana", perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929. Il primo francobollo a portare per il mondo la notizia dell'unificazione della nazione fu il Vittorio Riquadrato, di cui è giunto perfettamente conservato un esemplare su lettera timbrata proprio il 20 settembre 1870 a Roma.

Considerazioni sulle operazioni belliche. Nonostante l'importanza storica dei fatti (la riunione di Roma all'Italia e la fine dello Stato Pontificio), dal punto di vista militare l'operazione non fu di particolare rilievo: infatti la assai debole resistenza opposta dall'esercito pontificio (complessivamente 15.000 uomini, tra cui dragoni pontifici, volontari provenienti per lo più da Francia, Austria, Baviera, Paesi Bassi, Irlanda, Spagna, ma soprattutto Zuavi, al comando dal generale Kanzler) ebbe soprattutto valore simbolico. Sulle ragioni per cui papa Pio IX non oppose una ferma resistenza sono state fatte varie ipotesi: la più accreditata è quella della rassegnazione della Santa Sede all'impossibilità di evitare la conquista dell'Urbe da parte del contingente italiano. La volontà del Papa fu quindi di mettere da parte ogni ipotesi di risposta militare all'attacco italiano. È infatti noto che l'allora segretario di stato, il cardinale Giacomo Antonelli, abbia dato ordine al generale Kanzler di ritirare le truppe entro le mura e di limitarsi ad un puro atto di resistenza formale, quale poi fu quello opposto alle truppe di Cadorna.

La prima amministrazione italiana di Roma. Il governo provvisorio di Roma. I componenti della Giunta, oltre al presidente Michelangelo Caetani, erano i seguenti: principe Francesco Pallavicini, Emanuele Ruspoli, dei principi Ruspoli, duca Francesco Sforza Cesarini, principe Baldassarre Odescalchi, Ignazio Boncompagni Ludovisi, dei principi di Piombino, avvocato Biagio Placidi, avvocato Vincenzo Tancredi, avvocato Raffaele Marchetti, Vincenzo Tittoni, Pietro Deangelis, Achille Mazzoleni, Felice Ferri, Augusto Castellani, Alessandro Del Grande.

Il 23 settembre il generale Cadorna, che aveva ricevuto dal governo italiano l'incarico di «promuovere la formazione della Giunta della città di Roma», formò il governo provvisorio assegnandone la presidenza a Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta.[35] L'organismo, che aveva funzioni simili a quelle dell'attuale giunta comunale, prese il nome di «Giunta provvisoria di governo di Roma e sua provincia» e si insediò il giorno seguente in Campidoglio.

Plebiscito di annessione del 2 ottobre 1870. Il governo del Regno aveva "nei memorandum diramati all'estero", "proclamato il diritto dei romani di scegliersi il governo che desideravano". Così come era stato fatto per le altre province italiane, anche a Roma fu quindi indetto un referendum per sancire l'avvenuta riunificazione della città con il Regno d'Italia. La formula inizialmente proposta vedeva all'inizio del quesito proposto la formula «Colla certezza che il governo italiano assicurerà l'indipendenza dell'autorità spirituale del Papa, ...». Questa premessa fu poi giudicata inutile e la domanda posta fu: «Desideriamo essere uniti al Regno d'Italia, sotto la monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori». Inizialmente il governo a Firenze aveva esclusa dalla votazione la Città Leonina, che si voleva lasciare sotto il controllo del Papa, ma le rimostranze di parte della popolazione e la mancanza di interesse da parte del governo pontificio spinsero le autorità locali a permettere anche agli abitanti di quel rione di partecipare alla consultazione, seppure con un seggio posto oltre ponte Sant'Angelo. Il plebiscito si svolse il 2 ottobre 1870, una domenica. I risultati videro ufficialmente la schiacciante vittoria dei sì, 40.785, a fronte dei no che furono solo 46. Il risultato complessivo nella provincia di Roma fu di 77.520 "sì" contro 857 "no". In tutto il territorio annesso i risultati furono 133.681 "sì" contro 1.507 "no". Tuttavia i dati non appaiono sorprendenti se si considera la spinta delle schiere cattoliche all'astensionismo, talvolta attuata anche con qualche stratagemma (ad esempio a Veroli il vescovo sceglie proprio il 2 ottobre per dispensare con solennità la Cresima). Ma l'invito all'astensione non fu lungimirante: permise al governo italiano di ostentare la schiacciante maggioranza dei sì, mentre il numero dei non votanti, per non parlare dei non iscritti, rimase nell'ombra. A ricordo dell'inizio del moderno Stato d'Italia come lo conosciamo oggi, il XX Settembre è riportato nella toponomastica di molte città italiane. Effettuato il plebiscito, il governo italiano si mosse con celerità per liquidare lo Stato Pontificio. Il regio decreto 9 ottobre 1870, n° 5903, proclamò l'annessione del Lazio all'Italia, e altri tre decreti di pari data istituirono una luogotenenza generale affidandola al senatore e generale Alfonso La Marmora, e accordarono le prime guarentigie per la persona del papa. Sei giorni dopo il regio decreto 15 ottobre 1870, n°5929, introdusse la struttura amministrativa del Regno programmando la creazione della Provincia di Roma per il successivo 5 novembre. Le elezioni amministrative furono indette per domenica 13 novembre, mentre nelle due domeniche successive vennero celebrate in tutta Italia le elezioni politiche anticipate dopo lo scioglimento della Camera dei deputati voluto dal governo Lanza appositamente per dare rappresentanza alla nuova provincia e far cogliere alla Destra storica il consenso generato dal completamento dell'unità nazionale. Entrambi gli appuntamenti si posero in netto contrasto col precedente plebiscito, dato che la vigente normativa (che assegnava il diritto di voto in base al censo) ammise alle urne poco più di diecimila persone in tutto il Lazio. Il quadro si completò col regio decreto 25 gennaio 1871, n° 26, che concluse il periodo straordinario della luogotenenza con le nomine di Giuseppe Gadda a prefetto e di Francesco Pallavicini a sindaco di Roma, ed infine con la legge del 3 febbraio 1871 che deliberò il trasferimento della capitale da Firenze a Roma.

Ripercussioni internazionali. Il ministro degli Esteri italiano, Visconti-Venosta, informò le cancellerie europee mentre la guerra franco-prussiana proseguiva con l'assedio di Parigi da parte delle truppe prussiane. Gli Stati europei non riconobbero ma accettarono l'azione italiana. Già il 21 settembre il rappresentante del re a Monaco scriveva che il conte Otto von Bray-Steinburg, ministro bavarese, avvertito degli avvenimenti gli aveva espresso la sua soddisfazione che tutto si fosse svolto senza spargimento di sangue. Launay da Berlino riportava il 22 settembre la posizione di neutralità del governo di Otto von Bismarck. Il 21 settembre da Tours il "Ministro del Re", cioè l'ambasciatore, in Francia, Costantino Nigra, inviava il seguente messaggio: «Ho ricevuto stamane il telegramma col quale l'E. V. mi fece l'onore di annunziarmi che le regie truppe sono entrate ieri a Roma, dopo una lieve resistenza delle milizie straniere, che cessarono il fuoco dietro ordine del Papa. Ho immediatamente comunicato questa notizia al signor Cremieux, membro del Governo della difesa nazionale, Guardasigilli e Presidente della Delegazione governativa stabilita in Tours. Il signor Cremieux mi ha espresso le sue vive felicitazioni per fatto annunziatogli.» (Costantino Nigra)

Carlo Cadorna, fratello maggiore del generale, era ambasciatore a Londra e nel dispaccio spedito il 22 settembre, parlò del lungo colloquio che ebbe con il conte di Granville, ministro degli Esteri del gabinetto Gladstone. Granville non fece commenti data la novità della notizia, ma secondo Cadorna «la notizia che gli aveva data gli era riuscita gradita». Questa impressione fu poi confermata in un altro telegramma spedito il 27, in cui l'ambasciatore esprimeva la soddisfazione del ministro sulle modalità con cui si erano svolti gli avvenimenti.

Reazioni del governo pontificio. A pochi giorni dalla presa di Roma, il 1º novembre 1870 Pio IX emanò l'enciclica Respicientes ea nella quale dichiarava "ingiusta, violenta, nulla e invalida" l'occupazione dei domini della Santa Sede. Il cardinale Antonelli l'8 novembre diramò ai rappresentanti degli stati stranieri una nota che attaccava Visconti Venosta ed in cui affermava: «Quando con un cinismo senza esempio, si pone in ogni cale ogni principio di onestà e giustizia, si perde il diritto di essere creduti». Pio IX si dichiarò «prigioniero politico del Governo italiano». Lo Stato Italiano promulgò nel maggio del 1871 la Legge delle guarentigie, con la quale assegnava alla Chiesa l'usufrutto dei beni che ora appartengono alla Città del Vaticano, e si conferivano al Papa una serie di garanzie circa la sua indipendenza. Tuttavia tale compromesso non venne mai accettato né da Pio IX né dai suoi successori. Nel 1874 Pio IX emanò il Non expedit, con cui vietò ai cattolici italiani la partecipazione alla vita politica. Soltanto in età giolittiana tale divieto sarebbe stato eliminato progressivamente, fino al completo rientro dei cattolici "come elettori e come eletti" nella vita politica italiana: solo nel 1919, con la fondazione del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, i cattolici furono presenti nel mondo politico italiano ufficialmente. Il contenzioso tra Stato italiano e Santa Sede trovò una soluzione nel 1929, durante il governo Mussolini, con i Patti Lateranensi, mediante i quali si giunse ad una effettiva composizione bilaterale della vicenda.

Reazioni dei cattolici liberali. Tra i cattolici che salutarono favorevolmente o entusiasticamente la Liberazione di Roma del 20 settembre 1870 vi furono i "modernisti", tra cui Alessandro Manzoni e lord Acton, perché vedevano nella fine del potere temporale del papato una maggiore libertà dei cattolici. Secondo i dati forniti dal Generale Raffaele Cadorna nel suo libro, l'intera campagna di occupazione del Lazio costò 49 morti e 141 feriti all'esercito italiano; e 20 morti e 49 feriti all'esercito pontificio. Questo è l'elenco dei soldati pontifici caduti in seguito alla Presa di Roma:

Zuavi:

Sergente Duchet Emile, francese, di anni 24, deceduto il 1º ottobre.

Sergente Lasserre Gustave, francese, di anni 25, deceduto il 5 ottobre.

Soldato de l'Estourbeillon, di anni 28, deceduto il 23 settembre.

Soldato Iorand Jean-Baptiste, deceduto il 20 settembre.

Soldato Burel André, francese di Marsiglia, di anni 25, deceduto il 27 settembre.

Soldato Soenens Henri, belga, di anni 34, deceduto il 2 ottobre.

Soldato Yorg Jan, olandese, di anni 18, deceduto il 27 settembre.

Soldato De Giry (non si hanno altri dati).

Altri tre soldati non identificati, deceduti il 20 settembre.

Carabinieri:

Soldato Natele Giovanni, svizzero, di anni 30, deceduto il 15 ottobre.

Soldato Wolf Georg, bavarese, di anni 27, deceduto il 28 ottobre.

Dragoni :

Tenente Piccadori Alessandro, di Rieti, di anni 23, deceduto il 20 ottobre.

Artiglieria :

Maresciallo Caporilli Enrico, deceduto il 20 ottobre.

Soldato Valenti Giuseppe, di Ferentino, di anni 22, deceduto il 3 ottobre.

Elenco alfabetico dei caduti italiani il 20 settembre 1870: Agostinelli Pietro, Aloisio Valentino, Bertuccio Domenico, Bianchetti Martino, Bonezzi Tommaso, Bosco Antonio, Bosi Cesare, Calcaterra Antonio, Campagnolo Domenico, Canal Luigi, Cardillo Beniamino, Cascarella Emanuele, soldato Lorenzo Cavallo[47], Corsi Carlo, De Francisci Francesco, Gambini Angelo, Gianniti Luigi, Gioia Guglielmo, Iaccarino Luigi, Izzi Paolo, Leoni Andrea, Maddalena Domenico, Marabini Pio, Martini Domenico, Matricciani Achille, Mattesini Ferdinando, Mazzocchi Domenico, Morrara Serafino, Giacomo Pagliari (comandante del 34º battaglione Bersaglieri), Palazzoni Michele, Paoletti Cesare, Perretto Pietro, Prillo Giacomo, Rambaldi Domenico, Renzi Antonio, Ripa Alarico, Risato Domenico, Romagnoli Giuseppe, Sangiorgi Paolo, Santurione Tommaso, Spagnolo Giuseppe, Thérisod Luigi David, Tumino Giuseppe, Turina Carlo, Valenzani Augusto, Xharra Luigi, Zanardi Pietro, Zoboli Gaetano.

La presa di Roma nel cinema.

Nel 1905 viene realizzato il film La presa di Roma di Filoteo Alberini, uscito il 20 settembre per commemorare l'azione. Tra l'altro il film fu il primo proiettato pubblicamente in Italia.

Nel 1971 Antonio Racioppi dirige, dietro la macchina da presa, Mio padre monsignore un film che ha il sapore di una commedia, ma che culmina con un atto di eroismo. Fra gli attori figurano: Giancarlo Giannini, Lino Capolicchio, Marisa Merlini, Barbara Bach e Gastone Moschin.

Nel 1972 Alfredo Giannetti realizza Correva l'anno di grazia 1870, a cui partecipano attori del calibro di: Anna Magnani, Marcello Mastroianni e Mario Carotenuto.

Nel 1980 Luigi Magni cura la regia di Arrivano i bersaglieri, ritratto della Roma nei giorni subito seguenti la breccia di Porta Pia. Mentre dilaga il trasformismo, un aristocratico ostile ai conquistatori ospita in casa uno zuavo, senza sapere che quest'ultimo ha ucciso suo figlio bersagliere.

Nel 1986 viene riproposta la presa di Roma in un episodio del film Superfantozzi, quando la famiglia di Fantozzi il giorno 20 settembre 1870 acquista una casa a Porta Pia, che viene distrutta poco dopo dai bersaglieri.

Nel 2003 sempre Luigi Magni dirige il film tv La notte di Pasquino con Nino Manfredi, ambientato a poche ore di distanza dalla Breccia di Porta Pia.

Nel 2013 la miniserie L'ultimo papa re con Gigi Proietti nei panni del cardinale Romeo Colombo da Priverno e con la regia di Luca Manfredi, si conclude con la presa di Roma da parte dei bersaglieri.

Porta Pia 150 anni fa: Roma libera e italiana. Simonetta Fiori il 19 settembre 2020 su La Repubblica. Il 20 settembre di 150 anni fa i bersaglieri di Cadorna entravano nella nuova capitale del regno. Tre punti di vista su quel giorno. "Romani! La mattina del 20 settembre 1870 segna una data delle più memorabili nella storia. Roma ancora una volta è tornata, e per sempre, ad essere la grande Capitale d'una grande Nazione!". Così il generale Raffaele Cadorna salutò la conquista della città eterna dopo aver aperto una breccia a pochi metri da Porta Pia. Alle 10 del mattino di centocinquant'anni fa i primi bersaglieri e fanti del neonato Stato italiano fecero il loro ingres...

Lo scempio urbanistico nato dalla Breccia poco Pia...20 settembre 1870. Con la Presa “militare” 150 anni fa, Roma viene annessa al Regno d’Italia, diventandone la Capitale. Ma non è pronta. Vittorio Emiliani il 20 settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano. Ma si combatterà o non si combatterà per Roma Capitale? Da entrambe le parti ci sono velleità: Vittorio Emanuele II è già parecchio superstizioso di suo e non vuole correre altri rischi entrando a Roma e soprattutto varcando il grande portone del Quirinale. Sopra ogni cosa, ha una paura fottuta della scomunica papale. Per questo […]

Porta Pia: i fatti, gli uomini, le armi. Edoardo Frittoli il 20/9/2020 su Panorama. Il sogno di Roma Capitale del Regno d'Italia preconizzata da Cavour si realizzò quasi un decennio dopo la sua morte. Alla battaglia per la risoluzione manu militari della "questione romana" si giunse dopo il fallimento delle vie diplomatiche con Pio IX (che dopo la parentesi della Repubblica Romana si era chiuso in Vaticano abolendo tutte le riforme precedentemente concesse). La vera svolta giunse con la disfatta francese contro la Prussia e la caduta di Napoleone III, garante della sicurezza e dell'integrità dello Stato Pontificio e della sua protezione armata. Il ritiro graduale delle guarnigioni francesi dai territori governati dall'ultimo Papa-Re aveva permesso l'avvicinamento delle divisioni Italiane del "Corpo di Osservazione dell'Italia Centrale" alla Città Eterna dopo alcuni scontri in territorio laziale con i soldati pontifici. L'ultimo tentativo di risolvere la questione per vie diplomatiche ebbe luogo la sera prima della presa di Roma quando il conte prussiano Henri Von Arnim, ambasciatore presso la Santa Sede, comunicò il rifiuto delle trattative da parte del Papa, le cui decisioni erano ormai pilotate dai comandanti dell'Esercito pontificio decisi a resistere entro le mura. Quando scese la sera del 19 settembre 1870 non solo la zona di Porta Pia, ma tutta la città di Roma era circondata dalle divisioni italiane giunte nei pressi delle porte dislocate lungo le mura aureliane. Il comandante generale Raffaele Cadorna si preparava all'assalto inizialmente pensato per il giorno stesso ma successivamente posticipato al 20 settembre per permettere lo svolgimento delle ultime mosse diplomatiche. Lungo via Tiburtina si era già acquartierata la XIII Divisione del generale Emilio Ferrero con la Brigata Cuneo sulla destra e la Brigata Abruzzi sulla sinistra in vista di un attacco ancora da stabilire, se contro Porta San Lorenzo o Porta Maggiore, mentre la XI Divisione del generale Enrico Cosenz si trovava nei pressi di Ponte Salario sul fiume Aniene pronta a dare l'assedio alla porta omonima, la Salaria. A poca distanza la XII Divisione, guidata dal generale Gustavo Mazé de la Roche attendeva a Ponte Nomentano, con gli avamposti composti dagli uomini del 41° Fanteria e 12° Bersaglieri rivolti verso la Porta Pia. Completavano il quadro delle forze italiane incaricate dell'assalto di Roma la IX Divisione comandata da Cadorna pronta ad attaccare la Porta San Giovanni. Contemporaneamente presso la porta di San Pancrazio al Gianicolo si videro arrivare le forze della II Divisione, comandata dall'eroe e veterano dell'Unità d'Italia generale Nino Bixio. L'assalto, previsto alle prime luci dell'alba del 20 settembre, prevedeva una serie di attacchi sincronici di artiglieria alle diverse porte di accesso delle mura aureliane. Porta Pia, diventata il simbolo della vittoria, non fu la prima a ricevere i colpi dei cannoni. Erano le quando le bocche di fuoco della XIII Divisione iniziavano l'attacco diversivo per attrarre parte dei pontifici alla Porta Maggiore, supportate dall'azione di fanti del 59° in funzione di esca già dalla notte precedente. La fanteria pontificia tentò anche una sortita nel buio, venendo respinta. Durante lo scontro a fuoco caddero i primi due morti italiani della battaglia per Roma, ore prima dell'azione epica della breccia. L'assalto a porta Maggiore durò pochissimo, con pochi colpi sparati dalle batterie di Ferrero giunte a soli 270 metri dalle mura. La bandiera bianca dei soldati del Papa si alzò quando la luce del sole illuminava da poco la porta. Il primo baluardo della Città Eterna era caduto. La Divisione del comandante in capo Raffaele Cadorna, la Nona, muoveva verso porta San Giovanni già alle 4 del mattino, con 14 pezzi di artiglieria al seguito, comandati dal generale Guglielmo De Sauget da Vibo Valentia che si appostava alla cascina Matteis. Come convenuto, alle del mattino dodici cannoni aprivano il fuoco soverchiando gli unici due pezzi pontifici a difesa della porta, che in poco tempo si schiantava in fiamme generando anche in questa zona la resa dei soldati di Pio IX. Fu in questo frangente che il capo di Stato Maggiore delle forze pontificie, il tedesco Hermann Kanzler, si risolse per la resa prima ancora che l'assalto principale alle porte Salaria e Pia fosse compiuto. Mentre il comandante dell'esercito di Pio IX organizzava la deposizione delle armi, gli Italiani continuavano a far fuoco lungo le mura. Poco prima delle la Undicesima e Dodicesima divisione erano in posizione per dare inizio all'attacco principale verso le due porte Pia e Salaria, distanti tra loro poche centinaia di metri e collegate dalle mura aureliane. Il Generale Giuseppe Angelino, secondo gli ordini del superiore generale Mazé della XII Divisione, aveva diviso i suoi uomini a destra e a sinistra della via Nomentana perché sferrassero l'attacco sia attraverso la Porta Pia che per la breccia che le artiglierie avrebbero dovuto aprire nella cinta muraria a ridosso del varco. Con lui erano i Bersaglieri del 35° Reggimento in attesa a villa Torlonia, e i fanti della Brigata "Bologna" con il 39° Fanteria a villa Massimo e il 40° a villa Sant'Agnese. Completava lo schieramento la Brigata "Modena" del generale Carchidio di Malavolta (41° e 42° Fanteria) con i Bersaglieri del 12° Reggimento e le artiglierie. Acquartierati a cascina Bonesi approntavano i 12 cannoni a cui si aggiungevano altre due bocche a villa Dies lungo la Nomentana, queste ultime puntate verso le artiglierie pontificie sistemate sulle mura. In posizione più arretrata le riserve di artiglieria a Villa Albani (comandate da Luigi Pelloux, futuro Primo Ministro del Regno) dove si era stabilito il comando italiano di Raffaele Cadorna a soli 500 metri dalle mura. Pronti ad intervenire erano anche altri sei Battaglioni Bersaglieri e ulteriori due cannoni a villa Macciolini. Sono proprio le batterie di riserva ad aprire il fuoco contro la Porta Pia alledel mattino, comandate da un ufficiale di religione ebraica, il capitano Giacomo Segre del 9° Reggimento Artiglieria. Le azioni di cannoneggiamento furono tutt'altro che agevoli per gli uomini di Cadorna, che osservava la scena da un rilievo nel parco della villa Albani. I pontifici avevano infatti concentrato il grosso delle difese a Porta Pia inclusi numerosi tiratori scelti che presero a martellare i pezzi italiani disturbando il tiro e colpendo persino alcune stanze della villa dove era il comando supremo italiano. Per questo motivo il cannoneggiamento della porta risultò più lungo che in altri punti delle mura, a causa dei colpi di precisione dei cecchini pontifici sistemati sul tetto di villa Patrizi, avamposto stabilito appena fuori le mura. Il primo assalto del 35° Bersaglieri sarà proprio contro i fucilieri nemici, dopo aver aperto un varco con l'ausilio degli Zappatori del Genio. Dalla porta Salaria i cecchini del Papa tenevano sotto scacco le forze di villa Albani, tanto che il generale Cosenz decise di posizionare il fuoco di risposta con i tiratori scelti del 49° Fanteria e 34° Bersaglieri. Tre ore e mezza dopo il primo colpo di cannone, finalmente le mura crollavano a poche decine di metri dalla porta. La breccia era visibile dai comandi italiani, ma le difese pontificie non davano segni di resa. Porta Pia era infatti barricata dall'interno, mentre la Salaria era stata addirittura murata e alcuni pezzi dell'artiglieria papale avevano preso a sparare sugli Italiani dal colle del Pincio. Fu necessario allora che il generale Mazé spostasse le artiglierie a villa Torlonia dalla Nomentana, per proseguire il bombardamento della porta che alle risultava danneggiata da una breccia di 30 metri di ampiezza. Fu allora che Cadorna ordinò a Cosenz di preparare l'assalto finale avvicinando i suoi uomini alla porta. Il 39°Fanteria comandato da Carchidio avrebbe dovuto assaltare la porta coperto dal fuoco dei Bersaglieri del 35° Reggimento, mentre al 12° Bersaglieri e al 41° Fanteria sarebbe toccato il passaggio attraverso la breccia. Nella corsa all'assalto dalla Nomentana e dalla Porta salaria il primo ad arrivare alle mura pontificie fu il 34° Bersaglieri giunto in riserva, e fu anche il primo ad avere il primo caduto, il Maggiore Pagliari. All'ingresso dei soldati del Regio Esercito si alzavano le prime bandiere bianche e i trombettieri rispondevano con il "cessez le feu", che tuttavia non fu udito da tutti nel caos dell'assalto. In particolare continuarono a sparare le truppe scelte del Papa, gli Zuavi pontifici del generale Athanase de Charette, asserragliati a poca distanza dalla porta conquistata dagli Italiani nella villa Bonaparte, oggi sede dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Gli ultimi scontri a fuoco si ebbero attorno alle 10 del mattino, mentre alla medesima ora lontano dalla breccia presso la Porta San Pancrazio, la II Divisione di Nino Bixio conquistava l'obiettivo non senza difficoltà e un certo spargimento di sangue tra i suoi (7 morti e 23 feriti) a causa della strenua resistenza dei pontifici e il tiro preciso delle artiglierie che sparavano senza sosta dalla Leonina. Il giorno stesso il Luogotenente Colonnello Primerano controfirmava l'atto di resa consegnato dal Capo di Stato Maggiore pontificio, Maggiore Rivalta. Roma era italiana, ad eccezione della parte a Sud dei bastioni di Santo Spirito comprendente il Monte Vaticano e Castel sant'Angelo: l'ultimo lembo del potere temporale dei pontefici dal quale si ritiravano lentamente i soldati del Papa ai quali erano comunque concessi gli onori di guerra. Le forze in campo il 20 settembre 1870 furono caratterizzate da una marcata disparità: mentre le forze guidate dal generale Raffaele Cadorna contavano circa 65.000 uomini, le difese delle armate pontificie superavano di poco le 13.000 unità. Dal punto di vista dell'armamento individuale invece, i soldati di Pio IX si trovavano in vantaggio. Nel 1868 il comandante generale Hermann Kanzler aveva infatti optato per l'adozione di un nuovo fucile brevettato lo stesso anno, il Remington Rolling Block. Si trattava di un'arma a retrocarica a colpo singolo calibro 12,7 mm. Prodotto dalla newyorchese E.Remington and Sons era stato sviluppato a partire dai modelli impiegati durante la Guerra Civile americana come quelli in dotazione agli uomini del generale Custer a Little Big Horn. Caratteristica peculiare del modello in dotazione ai Francesi (e quindi ai Pontifici) era l'otturatore in grado di ruotare su un perno, meccanismo che riduceva ai minimi termini il pericolo di inceppamento e garantendo l'efficacia di tiro per la capacità del fucile di 13 colpi al minuto. I proiettili erano metallici e la gittata massima di 900 metri aveva un tiro utile di 300. I Remington ex pontifici, bottino di guerra, furono per un periodo dati in dotazione ad alcuni reparti di Bersaglieri. Gli Italiani potevano invece contare su un fucile che vide il proprio impiego in azioni belliche unicamente in occasione della Presa di Roma. Si trattava del Carcano modello 1867, uno dei primi fucili a retrocarica adottati dall'Esercito italiano dopo la sconfitta per mano dai Francesi a Mentana, che erano equipaggiati proprio con fucili a retrocarica "Chassepot". Salvatore Carcano, il padre di molti fucili italiani, lo aveva progettato tenendo conto delle ristrettezze economiche con le quali l'Italia post-unitaria dovette fare i conti. Nonostante questo, il Carcano 1867 fu tutto sommato un fucile riuscito se suoi considera che il budget per il suo sviluppo fu ridotto a circa un quinto di quanto richiesto dal progettista (famosa fu la frase di Carcano in risposta ad un funzionario: " Con rispetto parlando, Eccellenza…ma con dieci lire di spesa massima a disposizione, speravate che sparasse anche dritto?"). Anche se in realtà si trattava di una trasformazione del vecchio modello 1860 a retrocarica, il Carcano 1867 era alimentato da proiettili di carta (sempre a causa dei suddetti problemi finanziari del Regno) ed era dotato di un otturatore detto "a catenaccio" a colpo singolo. Il percussore era ad ago e il calibro di 17,5 mm per un tiro utile di circa 200 metri e una gittata di circa 800 metri. Il problema principale del fucile era l'affidabilità essendo una riconversione di una retrocarica, con problemi di resistenza alle intemperie e facilità di inceppamento. Per questo motivo durante lo stesso 1870 sarà sostituito dal più performante Vetterli-Vitali, che sarà utilizzato durante le prime avventure coloniali dell'Italia post-risorgimentale. Una curiosità sulle armi impiegate a Porta Pia riguarda la ipotetica presenza tra le mura della Città Eterna di una delle prime mitragliatrici della storia. Diverse fonti parlano della presenza di una Claxton .690, una mitragliatrice americana a sei canne meccanica ad razionamento manuale, che sarebbe stata capace di 80 colpi al minuto per una gittata superiore ai due chilometri. La leggenda vuole che Papa Pio IX ne avesse impedito l'utilizzo direttamente al comandante degli Zuavi pontifici di Charette per evitare un bagno di sangue che avrebbe finito per nuocere all'immagine del Pontefice e per meglio dimostrare al mondo intero quanto quella di Porta Pia fosse stato un atto di guerra nei confronti di uno Stato libero.

De Amicis, inviato di guerra a Porta Pia: il racconto di quell'epica mattinata di 150 anni fa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 20 settembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Tra i primi giornalisti “embedded” (aggregati all'esercito) della contemporaneità vi fu lo scrittore ligure Edmondo de Amicis (1846– 1908), autore del notissimo, pedagogico libro “Cuore”. Intrapresa molto giovane la carriera militare, dopo aver partecipato alla campagna del 1866, De Amicis lasciò il mestiere delle armi per seguire le attività di giornalista, saggista e narratore. Nel 1870, appena 23enne, si trovava però di nuovo sul campo di battaglia al seguito del Regio Esercito come cronista militare. Vale la pena riportare la sua cronaca della Presa di Porta Pia, poi inserita nel romanzo “Le tre Capitali” sia per il valore di testimonianza oculare, sia per la prosa “moderna e perfettamente italiana” dell’autore. Il testo è stato riportato quasi integralmente nel fascicolo storico allegato al numero di settembre della Rivista Militare, periodico dell'Esercito dal 1856. «Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti. Così era infatti. Il IV Corpo d’Esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara, la Divisione Angioletti contro porta San Giovanni, la Divisione Bixio contro porta San Pancrazio. Il Generale Mazè de la Roche, con la 12ª Divisione del 4° Corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia. Via via che ci avviciniamo (a piedi s’intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l’ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L’artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le brecce. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici davano saggio d’una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l’assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d’una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra il verde dei giardini; scintillavano lance al di sopra dei muri; ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni. È impossibile ch’io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della Divisione Mazè de la Roche, che è quella ch’io seguii. La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria tiravano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il Generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate lanciate, parve, da un’altra porta, passarono non molto al disopra dello Stato Maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno. Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40° a passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d’entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido «Savoia!» poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò: – Sono entrati! – Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di artiglieria; s’avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il Maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il Generale Angolino s’era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa. La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. In quel momento uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale. Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro». Dopo l’irruzione dei Bersaglieri in Roma, De Amicis passa a descrivere l’entusiasmo della popolazione, in netto contrasto con lo scoramento dei volontari pontifici. «In mezzo alla piazza vi sono circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il Colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla loggia del palazzo che chiude il lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano. […] Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati, rispondono alzando il cheppì; le braccia si tendono dall’una parte e dall’altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell’intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono. – Viva gli ufficiali italiani! – è il grido che risuona da un capo all’altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è ricevuto da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande stupore. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v’è gruppo di cittadini che non abbia con sè un soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo a piedi, gli toglie di mano le armi, gli parla tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia. – Viva i nostri liberatori! – si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci. – Viva il nostro esercito nazionale! – gridano cento e cento voci insieme. – Viva i soldati italiani! – Viva la libertà! – E i soldati rispondono: – Viva Roma! – Viva la capitale d’Italia! – In molti, specialmente nei giovani, l’entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore. Non vidi mai, ve lo giuro, uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più meraviglioso».

Porta Pia, la vera storia: così fu presa Roma. A 150 anni dalla breccia di Porta Pia, ripercorriamo quei momenti. Così venne la città dei Papi divenne la capitale del regno d'Italia. Matteo Carnieletto, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. È l'alba del 20 settembre 1870 e il sole si affaccia timidamente su Roma. Le truppe del Regio esercito italiano si sono mosse nella notte per avvicinarsi alle mura della città eterna, ultima roccaforte di papa Pio IX. Tutti sono pronti alla guerra. All'interno delle mura, il generale Hermann Kanzler arringa i suoi 16mila uomini: dovranno essere pronti a immolarsi per difendere "il dolce Cristo in terra", quello che, anche se nessuno ancora lo sa, sarà l'ultimo papa re. Al di fuori delle mura, invece, i soldati italiani sono pronti a combattere affinché la città eterna diventi la capitale d'Italia. Non più Torino, non più Firenze. La capitale del neonato Regno deve essere la città dei cesari e dei papi. "O Roma o morte", aveva detto Giuseppe Garibaldi a Marsala il 19 luglio del 1862. Così fu. Già a partire dall'inizio dell'estate, la città è in subbuglio. La guerra franco-prussiana ha infatti rinvigorito le spinte di coloro che, anche all'interno dello Stato pontificio, vogliono far di Roma la capitale d'Italia. Si legge nei documenti: "Molti privati spontaneamente portavano personalmente, o partecipavano per iscritto informazioni, come accade quando una causa è popolare; ma era difficile discernere le vere dalle false. Molte erano fantastiche e frutto di una riscaldata immaginazione, con quale disturbo per un Quartier Generale già di molto preoccupato, è superfluo l'accennare. E quale danno poi se si fanno le operazioni su falsi o alterati dati! E ciononostante, a tempi più tranquilli, alcuni di siffatti inventori di notizie reclamarono compensi...Essenzialmente le informazioni positive ed utili, provenivano da ufficiali dell'esercito segretamente spediti. Fra le informazioni attendibili vi fu quella che allo scoppiare della guerra franco-germanica ebbero piuttosto luogo parecchie liti fra tedeschi e francesi dell'esercito pontificio". Spie, vere o presunte, ovunque. E la certezza che un attacco sarebbe prima o poi arrivato. Il 20 di settembre, gli scontri iniziano poco dopo le cinque di mattina. Sono gli zuavi a sparare per primi, vedendo un gran numero di soldati schierati. Uno dei primi a cadere, se non il primo, è il caporale Piazzoli, che viene colpito mentre cerca di caricare il pezzo di artiglieria che avrebbe dovuto sparare il primo colpo. L'attacco viene così ritardato, ma solo di pochi minuti. Secondo una leggenda, è dunque il capitano Giacomo Segre, israelita, a sparare per primo. Come mai proprio lui? In quanto ebreo non sarebbe incorso nella scomunica papale. La realtà è però diversa, come ci spiega il generale di Brigata Fulvio Poli: "L'aneddoto che fu incaricato lui di aprire il fuoco contro le mura di Roma per evitare la scomunica papale non trova conferme nei documenti. Segre era un eccellente artigliere di un esercito pluriconfessionale. In verità, alle 5 e 15, le artiglierie della 9^ Divisione e della 13^ aprirono il fuoco secondo quanto aveva ordinato il generale Cadorna; pochi minuti dopo, iniziarono pure quelle dell'11^ e 12^. Alle 5 e 20, aprirono il fuoco le batterie della riserva". I documenti sono chiari e smontano la vulgata che è arrivata fino ai giorni nostri: "Al centro le batterie da posizione della riserva e le altre due dell'11^ incominciarono a battere in breccia il tratto di cinta già stabilito e più di tutte contribuì alla rovina della muraglia la 5^ batteria del capitano Segre per la breve distanza che la separava dal bersaglio". Ci vogliono tre ore prima che cada il muro che difendeva il pontefice. Vengono sparati 888 e, alle 8.30, viene finalmente aperta la breccia di Porta Pia. Si alza un intenso fumo. Odore di calce e di polvere da sparo. L'artiglieria non si ferma e continua a sparare fino alle 9.45, quando una bandiera tricolore appare sulla torretta di Villa Patrizi. È il segnale: Roma è presa. Il muro crolla completamente, ad eccezione di una raffigurazione di Maria, come scriverà Edmondo De Amicis, all'epoca giovane ufficiale testimone di quegli eventi: "La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il solo intorno era sparso di mucchi di terra; di materassi fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti". I soldati pontifici, infatti, non resistono più di tanto. È Pio IX stesso a ordinare, in una lettera la cui data è stata cambiata più volte, che non venga versato sangue inutilmente. La missiva, datata inizialmente 14 o 19 settembre, venne poi modificata più volte, cambiando la frase "ai primi colpi di cannone" con o"appena aperta una breccia" e "a qualunque spargimento di sangue" con "a un grande spargimento di sangue". A distanza di 150 anni, non sappiamo ancora perché il Santo Padre volle assumersi la responsabilità dei caduti. Ma così fu. Come del resto si fece anche da parte italiana: la battaglia "doveva essere morbida, non doveva dare occasioni alla comunità cattolica - più di quante non ne offra di per sé un attacco armato al capo supremo della Chiesa - di montare uno scandalo internazionale" (Antonio di Pierro, L'ultimo giorno del Papa Re. 20 settembre 1870: la breccia di Porta Pia). I morti del resto furono solo 48 per il regio esercito e 19 tra quello pontificio: "L'andamento delle operazioni evidenzia, da un lato, come la resistenza pontificia, per quanto inizialmente accanita, fu poco più che simbolica e, dall’altro, dimostra la volontà italiana di non portare danno alla città e alla sua popolazione", ci spiega il generale Poli. Si chiudeva così un'era, quella dei papa re, e se ne apriva un'altra: l'unità d'Italia era stata raggiunta. E guadagnata con il sangue.

 20 settembre 1870, attacco a Roma: le operazioni militari nel dettaglio. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 19 settembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

«La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città Eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida Capitale del Regno Italico». Così Cavour identificava il destino d’Italia con questa dichiarazione in Parlamento dell’11 ottobre 1860. Ci vollero dieci anni per realizzare una delle tappe più significative per l’Unificazione Nazionale, iniziata con l’epopea garibaldina e definitivamente compiuta con l’annessione della Venezia Giulia e del Trentino dopo la Grande Guerra. Il momento propizio scaturì dalla sconfitta della Francia a Sedan, nel 1870, contro la Prussia. La guarnigione francese a Roma a protezione del papa veniva ritirata e così  sparivano all’improvviso, tutti gli ostacoli che si erano opposti alla soluzione della cosiddetta «Questione Romana» (che si concluderà definitivamente solo nel 1929, con i Patti Lateranensi). Era stato fatto un ultimo, estremo tentativo per un pacifico accordo con il Papa, ma l’intransigenza della Corte Pontificia fece rimanere inascoltato anche l’appello con il quale Vittorio Emanuele II si era rivolto a Pio IX. Il Regio Esercito italiano – spiega la Rivista Militare nel fascicolo storico del numero di settembre - già tre giorni dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, il 5 settembre 1870, si trovava già nei pressi di Spoleto con tre divisioni puntate su Roma: l’11ª comandata dal Generale Enrico Cosenz, accampata a Rieti, la 12ª, guidata dal Generale Gustavo Mazè de La Roche a Terni e infine la 13ª agli ordini del Generale Emilio Ferrero, a Orvieto. A capo dell’operazione, il prudente ed energico generale Raffaele Cadorna. Per parare eventuali imprevisti e scoraggiare ogni volontà di resistere da parte delle truppe papaline, furono aggiunte, nell’imminenza dell’attacco, altre due divisioni: la 9ª agli ordini del Generale Diego Angioletti in afflusso dal sud Italia e la 2ª agli ordini del Generale Bixio, che avrebbe minacciato Roma provenendo da Civitavecchia. Come spiega il Generale Antonio Lotito, nel pomeriggio del giorno 11, il primo ad entrare nel territorio dello Stato Pontificio fu proprio Nino Bixio, il quale avanzò verso Bagnoregio. Gli ordini di Kanzler, comandante dell’Esercito Pontificio, erano di “resistere all’attacco delle camicie rosse, ma in caso d’invasione da parte dell’Esercito Italiano, l’ordine era di ripiegare verso Roma”. Così fecero gli Zuavi di stanza nelle località via via occupate. Il 12 settembre, mentre tutte le divisioni italiane varcavano il confine dello Stato pontificio, Kanzler dichiarava lo stato d’assedio nella città. Il primo scontro avviene per la conquista di Civita Castellana, con 3 feriti fra i papalini e 7 fra gli italiani; Civitavecchia capitola il 16 settembre senza opporre resistenza alla divisione di Bixio. In località Sant’Onofrio, a pochi km dal centro di Roma, durante lo scontro a fuoco con gli zuavi papalini in ritirata, gli italiani hanno il primo caduto: il sergente Tommaso Bonezzi, dei Lancieri di Novara. Il 17, le truppe italiane varcano il Tevere ed ogni divisione occupa le posizioni previste dal piano d’attacco. Come riporta il Colonnello Attilio Vigevano nel suo volume “La fine dell’Esercito Pontificio”, complessivamente, il Regio Esercito schiera: 60 battaglioni di fanteria di linea, 17 battaglioni bersaglieri, 20 squadroni di cavalleria, 19 batterie di artiglieria, 9 compagnie zappatori del genio, con 7.300 cavalli e 114 cannoni. Spiega il Generale Lotito: «In prossimità delle mura della Città Eterna vennero schierate le artiglierie in organico alle divisioni, più quelle della riserva. Le artiglierie divisionali avrebbero dovuto effettuare dei tiri di disturbo, per favorire l’assalto delle truppe. Quelle della riserva, destinate all’effettuazione del cosiddetto “tiro di breccia”, avrebbero dovuto aprire un varco nella cinta muraria». Intorno alle 5,10 del 20 settembre, con cinque minuti di anticipo, l’artiglieria italiana apre il fuoco contro le Mura aureliane mentre nei dintorni assistono alle operazioni una moltitudine di civili, tra cui giornalisti, pittori, patrioti romani già esiliati, oltre a un eterogeneo insieme di ambulanti, curiosi e persino saltimbanchi e giocolieri. Come ricorda Assobersaglieri: «Alle 9.05 i vertici pontifici si riuniscono a palazzo Wedekind, (di fronte a Montecitorio, noto ai romani come sede storica del quotidiano “Il Tempo”) per decidere fino a quando protrarre la resistenza. Intorno alle 9.45, il fuoco delle batterie della riserva italiane apre una breccia fra Porta Pia e Porta Salaria, così il Generale Cadorna dà l’ordine di inizio movimento alle truppe verso le mura: una pattuglia di bersaglieri va in avanscoperta fin sotto la breccia e riferisce che ormai lo sventramento effettuato è percorribile da truppe appiedate». Vengono quindi predisposti per l’assalto finale il 34° battaglione bersaglieri e 3 battaglioni del 19° reggimento di fanteria da Villa Albani, il 12° battaglione bersaglieri e il 2° battaglione del 41° fanteria da Villa Falzacappa, quindi il 35° battaglione bersaglieri con il 39° e il 40° reggimento fanteria da Villa Patrizi. Sono le 10,05 e tutto sembra finito, ma fuori dalla breccia ci sono due divisioni di soldati italiani che si ammassano e spingono per entrare nella città. A poche decine di metri, altri pontifici che trovandosi a Villa Bonaparte non hanno ancora ricevuto l’ordine di resa, aprono un fitto fuoco di fucileria sulla massa di militari italiani ancora fuori Porta Pia e uccidono 4 bersaglieri, fra cui il Maggiore Giacomo Pagliari, ferendo altri 9 soldati di varie specialità. C’è un momento di smarrimento, di stasi, ma alle 10.10 i bersaglieri del 12° battaglione avanzano al passo di carica, baionetta inastata e, incitati dalle note che il trombettiere suona per dare ancora più vigore all’assalto, superano la breccia regalandoci quella icona risorgimentale che rimarrà impressa nell’immaginario collettivo e nei testi di Storia. Il primo bersagliere a superare la breccia è il Sottotenente Federico Cocito, del 12° battaglione. Passati i primi fanti piumati, un boato di esultanza si leva dalle divisioni che premono dietro di essi per entrare nella Città Eterna, quella che ora sarà la capitale della nuova Italia. Conclude il Generale Lotito: «Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura. I Generali Ferrero e Angioletti la rispettarono, invece Bixio continuò il bombardamento per circa mezz’ora». Mazè e Cosenz proseguirono nel loro assalto, le truppe italiane oltrepassarono la breccia sparando, facendo prigionieri e irrompendo dentro la cinta muraria; vi furono ancora scontri qua e là che si spensero in poche ore con la resa chiesta dal Generale Kanzler. Venne stabilito che le milizie pontificie sarebbero uscite dalla città con gli onori di guerra e che la Città Leonina sarebbe rimasta al Pontefice. Per ordine di Cadorna, così come convenuto con il Governo, non furono occupate la Città Leonina, Castel Sant’Angelo, i colli Vaticano e il Gianicolo. Si realizzava, in tale modo, una delle missioni affidate alla Forza Armata all’atto della sua istituzione il 4 maggio 1861: fare l’Italia.

Raffaele Cadorna senior: il generale prudente ed energico che aprì la breccia di Porta Pia. Fu padre del Generalissimo Luigi e nonno di Raffaele jr. comandante nella guerra di liberazione. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 settembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Cadorna: il nome di una famiglia legata ad almeno un secolo di storia italiana di cui si ricorda soprattutto uno degli esponenti, quello del Generalissimo Luigi che fu Comandante supremo durante la Grande Guerra. Purtroppo, una grossolana demonizzazione ideologica sedimentata nei decenni ha trasferito un’immagine stereotipata di questo grande stratega ammirato sia dai suoi nemici che dagli omologhi stranieri ed ancor oggi studiato nelle accademie militari americane.

Grazie anche alle recenti riedizioni critiche dei libri da lui scritti in autodifesa, presentate alla Sala Zuccari del Senato, la sua figura sta conoscendo, tuttavia, una fase di radicale rivalutazione storica. Tuttavia, a ridosso dell’imminente 150° della Presa di Porta Pia vogliamo tratteggiare la figura di suo padre, il Generale Raffaele Cadorna senior (Milano, 9 febbraio 1815 – Roma, 6 febbraio 1897) che fu anche il nonno del generale Raffaele jr. comandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Guerra di Liberazione. Fu Raffaele “il vecchio” a guidare, infatti, il IV Corpo d’Esercito alla presa di Roma. La Rivista Militare (periodico dell’Esercito) di settembre ha raccolto - nel fascicolo storico allegato  per l’anniversario - le testimonianze dei pronipoti del generale, il conte Luigi e il colonnello Carlo, che hanno condiviso documenti inediti ed episodi tramandati in famiglia. Il Generale Raffaele era quello che si potrebbe definire un “tecnico prudente ed energico”: prima al servizio del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, era cadetto di un’antica famiglia nobile piemontese, di Pallanza, che però ancora non vantava il titolo comitale conferito poi dal Re proprio per la conquista di Roma.

Un giovane indisciplinato. Da ragazzo, Raffaele era di temperamento piuttosto esuberante, tanto che fu espulso per indisciplina due volte dall’Accademia Militare di Torino. Grazie anche all’intercessione del padre, stimato ufficiale, vi fu riammesso ed entrò in servizio presso il 1° reggimento della Brigata Savoia. Dopo una lunga gavetta, la sua carriera decollerà: egli, infatti, nasceva come ingegnere militare e i suoi progetti per fortezze e fortificazioni cominciarono ad essere presi sempre in maggior considerazione dallo Stato Maggiore. La sua competenza tecnica   nelle fortificazioni - che sarà provvidenzialmente ereditata dal figlio Luigi per munire la Linea del Piave - ebbe risvolti non solo nell’ingegneria militare, ma anche in quella civile. Non per nulla, il Generale progettò il cimitero comunale di Pallanza e restaurò l’antico castello di Brolio di proprietà dell’amico barone Bettino Ricasoli.

Un gustoso aneddoto. Nel ’48, raggiunto il grado di Maggiore, partecipava alla Prima Guerra d’Indipendenza e il 12 marzo dell’anno dopo, su incarico di Carlo Alberto, fu inviato dal Feldmaresciallo Radetzky per “denunciare” l’Armistizio di Salasco, ovvero per riprendere la guerra del Piemonte con l’Austria. Racconta il Colonnello Carlo Cadorna che il suo bisnonno, per tentare di carpire qualche elemento utile dalle reazioni del Feldmaresciallo asburgico, finse di dimenticare il berretto nella sala dell’incontro. Ebbe modo, così, tornandovi, di sorprendere in riunione i generali avversari. Per quanto non fosse stato in grado di cogliere indizi di particolare rilevanza, l’episodio è significativo della determinazione e dell’acume dell’ufficiale.

La “Ridotta Cadorna” che salvò l’Europa. L’esperienza che maturò in Algeria a fianco dei francesi gli sarà preziosa durante la guerra di Crimea, quando partì al seguito del corpo di spedizione sardo comandato dal Generale Alfonso La Marmora. In quel contesto, racconta il Colonnello Carlo, Raffaele Cadorna notò che la testa di ponte francese predisposta a difendere il ponte di Traktir sulla destra del fiume Cernaia, era mal dislocata sul terreno. Da esperto geniere, di propria iniziativa fece scavare dai suoi uomini una trincea a zig–zag, a protezione dei francesi, per consentire l’incrocio dei fuochi. La “Ridotta Cadorna”, così chiamata, venne presidiata da tre compagnie del 16° reggimento di fanteria e da altrettante di bersaglieri. L’attacco russo avvenne su due colonne, una si infranse sulle trincee dei piemontesi che resistettero per un’ora ripiegando poi sul poggio. Questa posizione fu tenuta durante tutta la battaglia, ed ebbe un ruolo importante per il suo esito vittorioso. I giornali inglesi titolarono: “Il piccolo Piemonte ha salvato l’Europa”, ma, a quanto pare, il Generale La Marmora fece presto sparire questi giornali per non essere messo in ombra dal suo sottoposto.

Un cattolico alla conquista di Roma. A metà agosto del 1870, mentre volgevano al peggio le fortune di Napoleone III in guerra contro la Prussia e i suoi alleati, Raffaele Cadorna - che aveva più volte dimostrato di saper combinare la capacità militare con l’accortezza politica - ebbe il comando del Corpo di Spedizione ordinato dal governo Lanza–Sella per l’espugnazione di Roma e la debellatio dello Stato Pontificio tracciandone il piano il 1° settembre. Eppure, come ricorda lo storico del Risorgimento Aldo A. Mola: «Cattolico praticante, ma senza ostentazione – secondo la tradizione dell’aristocrazia subalpina – non era né anticlericale, né massone, a differenza del generale garibaldino Nino Bixio, prudenzialmente posto al comando della “retroguardia” dell’impresa proprio per non allarmare la Santa Sede».

La fine del potere secolare ecclesiastico. «Nella Storia – continua il Colonnello Carlo Cadorna – la strategia vincente è sempre stata quella che ha saputo combinare la realizzazione di rapporti di forza favorevoli, di preminente competenza militare, con la prudente ed accorta azione politica, sola responsabile nel decidere il come ed il quando. Il Papa Leone I, fermando Attila con la sua ieratica figura, aveva consentito alla Chiesa Cattolica di sostituirsi all’Impero Romano nella difesa della civiltà mediterranea: da allora essa si avvalse, in modo preponderante, della facoltà di mettere le case regnanti al suo servizio mediante la concessione del diritto divino ad esercitare il potere. Tuttavia, la Rivoluzione francese e Napoleone Bonaparte rovesciarono questo rapporto mettendo, piuttosto, il Papa al proprio servizio ed introducendo i principi laici. Proprio sulla perdita di consistenza e giustificazione storica del potere temporale dei papi si basò quindi la politica di Cavour, volta ad orientare l’opinione politica europea verso la separazione del potere temporale da quello spirituale. Venuto a mancare Cavour nel 1861, la sua politica fu ben interpretata da Giovanni Lanza che, con prudenza ed accortezza, attese che si creassero le condizioni non solo storiche, ma anche politiche e militari, perché il Papa dovesse prenderne atto”.

La strategia impiegata. La caduta di Napoleone III, sconfitto a Sedan, (2 settembre 1870) offrì l’occasione per l’applicazione del disegno. Il Generale Raffaele Cadorna dovette quindi conciliare la superiorità militare – che gli consentiva di entrare in Roma e convincere il Papa a desistere – con la moderazione politica. Questa esigeva che il risultato fosse ottenuto velocemente (vi era stato un precedente negativo con la Repubblica Romana nel 1849) e con pochissime perdite nell’Esercito Pontificio. Non restava quindi che l’arma della sorpresa: impedire, cioè, ai papalini di comprendere fino all’ultimo dove si sarebbe compiuto lo sforzo principale. Furono perciò disposte tutt’attorno alle Mura Aureliane le cinque divisioni disponibili, lasciando all’artiglieria della 12ª il compito di aprire la breccia di Porta Pia che, stando ai telegrammi inviati da Cadorna al Governo, sarà attuato in quattro ore, nella mattina del 20 settembre 1870.

Sega da amputazioni e acido fenico: la medicina di guerra nella presa di Porta Pia. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 18 settembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

«Ore 10. Forzata la Porta Pia e la breccia laterale aperta in 4 ore. Le colonne entrano con slancio, malgrado una vigorosa resistenza». Il telegramma del Generale Raffaele Cadorna del 20 settembre 1870 ben descrive la brevissima campagna di guerra contro l’esercito pontificio il quale attuò solo una “difesa di bandiera” per espresso ordine del papa Pio IX. La resistenza dei papalini avrebbe dovuto essere infatti simbolica quel tanto da significare al mondo come Roma fosse stata conquistata con un atto di guerra. Un bagno di sangue non avrebbe giovato all’immagine del Regno d’Italia né del Papa che, opponendo una resistenza così accanita, per quanto legittima, avrebbe permesso un massacro nella culla della Cristianità. Eppure, per quanto i combattimenti fossero stati brevi, durante lo scontro per la presa di Roma ci si fece male comunque: per il Regio Esercito, caddero in combattimento 48 uomini (3 Ufficiali e 45 di Truppa), i feriti complessivamente furono 143. L’Esercito pontificio lamentò 19 morti e 68 feriti. Va ricordato che, nelle guerre fra ‘800 e ‘900, solo una piccola percentuale dei soldati veniva uccisa direttamente dalle granate e dai colpi di arma da fuoco o di arma bianca. La stragrande maggioranza dei decessi avveniva soprattutto per le infezioni: tetano, setticemia, cancrena falcidiavano i feriti in un’epoca in cui la penicillina era ancora di là da venire. Secondo uno studio del Colonnello Cesare Tapinetto, gli italiani si erano attrezzati costruendo 3 ospedali temporanei a Terni, Rieti ed Orvieto e nel frattempo ci si appoggiò agli ospedali civili di Rieti, Amelia, Narni, Terni, Spoleto, Foligno, Città di Castello, Orvieto e Radicofani, per una capacità totale di 1.700 posti letto ad uso militare. Tuttavia, nonostante le fatiche e la malaria, gli ammalati furono pochi. Entrati in Roma, gli italiani stipularono delle convenzioni con gli ospedali romani: questi erano tenuti con molta cura anche perché i volontari che formavano i reparti di élite, come gli Zuavi, ad esempio, provenivano spesso dalla nobiltà o, comunque, da classi agiate. La Rivista Militare, (periodico dell’Esercito dal cui fascicolo storico di settembre, in questi giorni, stiamo traendo notizie in quantità) ha recuperato un volume del 1871: “Resoconto del servizio di ambulanza nell’ospedale pontificio” del dottor Alessandro Ceccarelli, direttore delle ambulanze e chirurgo–capo pontificio, che offre un panorama sulla medicina di guerra dell’epoca. Le innovazioni tecnologiche delle armi producevano maggiori e più gravi ferite rispetto al passato. Il fatto che i proietti d’artiglieria fossero divenuti in gran parte esplodenti produceva molte lesioni da scheggia e pericolosissimi erano i proiettili di rimbalzo: «Sebbene il combattimento non avvenisse a campo aperto, pure, si verificò un maggior numero di ferite dell’estremità inferiori in confronto alle superiori». Le pallottole di tipo Minié, di forma ogivale con alette, creavano ferite più gravi: «Ai nuovi proiettili nulla resiste – scriveva Ceccarelli -  le fratture e le ferite penetranti sono fatte frequentissime, e quali fratture, e quali lesioni di visceri!». Le lesioni venivano lavate con acqua fenicata, ovvero addizionata ad acido fenico. Nel 1867, vi era stata infatti una svolta nella storia sanitaria con la messa a punto del metodo antisettico da parte del medico inglese Joseph Lister il quale aveva intuito, sull’onda delle scoperte di Pasteur, l’importanza di disinfettare le ferite e gli strumenti chirurgici. A tale scopo, aveva elaborato una soluzione di acido fenico che, tuttavia, risultava abbastanza irritante e tossica per il corpo umano. Un fondamentale sostituto di tale disinfettante diverrà, nel 1907, la tintura di iodio, scoperta dal medico italiano Antonio Grossich e che salvò qualche milione di nostri compatrioti in armi, almeno fino all’introduzione della penicillina. Le ferite venivano poi occluse con stoppa cardata – una sorta di ovatta – anch’essa disinfettata con acido fenico. Le contusioni e gli ematomi venivano trattati con ghiaccio raccolto in sacchetti di carta “pergamenata”. Le febbri da infezione erano curate col solfato di chinina, a volte si praticavano iniezioni di ammoniaca per stimolare il cuore, ma pare che questo rimedio fosse di breve durata. Per facilitare il riposo dei pazienti venivano somministrati degli oppiacei, come si era già sperimentato durante la Guerra Civile americana e quelli infetti venivano tenuti separati dagli altri degenti. Le amputazioni erano prassi ordinaria. Riportiamo la nota relativa a un paziente italiano: “Serra Leopoldo – Anni 41 – Bologna – Capitano del 12° Bersaglieri – Ferita per arma da fuoco trasfossa dal 3° superiore al 3° inferiore della faccia esterna della gamba sinistra, muscolare – Ingresso 24 Settembre Emolienti – Irrigazioni fenicate – Compressione ed occlusione – Guarigione 12 Ottobre”. Altri pazienti non furono così fortunati come questo Capitano. Con questo articolo avremo forse evocato immagini sgradevoli: l’odore pungente di brutali disinfettanti, il fetore di ferite cancrenose, le grida degli amputati o i lamenti degli agonizzanti. Ce ne rendiamo conto. E’ però importante citare anche dettagli che “possono turbare le persone sensibili” per ricordare, ogni tanto, per quale motivo il nostro Tricolore comprenda il colore rosso.

IL SECOLO BREVE DELL’ITALIA - 1866-1945, ANNI DI SANGUE - "Il senso dei leader per la guerra. La sconfitta è colpa dei soldati". di Lorenzo Giarelli su Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020. - Esiste un secolo breve del mondo – reso celebre dallo storico britannico Eric Hobsbawm – e c’è poi un secolo breve tutto italiano, che condensa in ottant’anni la parte finale del processo unitario, la tragedia fascista, la lacerazione del settembre 1943 e la successiva, nuova, unità, questa volta in nome della Repubblica e della Costituzione. Eventi il cui filo conduttore si bagna del sangue delle guerre combattute, appunto, tra il 1866 e il 1945. A raccontarlo nel suo ultimo libro è Nicola Ferri, già magistrato e membro del Csm, “storico dilettante” (ipse dixit) del XX secolo e firma del Fatto quotidiano, che in La nostra memoria perduta – Le 16 guerre d’Italia da Crispi a Mussolini cerca di trovare coerenza tra battaglie ora coloniali ora parte dei conflitti mondiali, ma con in comune quasi sempre “l’illusione di facili vittorie” e la caratteristica di “essere marcate dalla irrazionalità, dall’avventurismo, dal miope opportunismo, dall’impreparazione, dall’improvvisazione, dal turpe cinismo per la sorte dei soldati mandati allo sbaraglio e dalla fretta di sederci al tavolo della pace”. Si potrebbe dire che in queste righe c’è il senso del libro e della nostra storia compresa tra gli ultimi 40 anni dell’Ottocento e i primi 40 del Novecento. E se il secolo breve di Hobsbawm si chiudeva “con il rumore di un’esplosione e un piagnisteo”, si può dire che l’esperienza italiana sia colma degli uni e degli altri. Ferri sceglie di raccontare le 16 guerre concentrandosi “sulle storie”: di generali, di soldati, di uomini di Stato crudeli o soltanto troppo piccoli di fronte al momento. Un modo per rendere l’argomento alla portata anche dei meno esperti o di chi ha terminato gli anni scolastici da un pezzo, senza per questo fare a meno dell’accuratezza. Gli aneddoti e le voci dei protagonisti raccolte nei telegrammi, nei diari o nelle cronache dell’epoca aiutano a chiarire di volta in volta il contesto e pure a smontare alcune delle false ricostruzione storiche divenute – chissà perché e chissà come – verità acclarate nell’immaginario collettivo. Ne è esempio la prima delle 16 guerre, quella che la “compiacente storiografia dell’epoca” battezzò, senza più essere smentita, come la “Terza Guerra di Indipendenza”. Slogan fortunato ma che semplifica i fatti, edulcorandoli all’uso dell’Unità d’Italia: in realtà fu “un patto d’alleanza con il cancelliere Otto von Bismarck”, che mirava a “affrancare la Prussia dalla pesante supremazia dell’Impero Asburgico nella Confederazione degli Stati tedeschi”. L’accordo, stipulato nel 1866 con “il patrocinio di Napoleone III”, prevedeva che l’Italia tenesse occupato parte dell’esercito austriaco sul fronte Lombardo-Veneto, in modo da agevolare le azioni prussiane altrove. Così andò, tanto che nonostante le nostre sconfitte (“Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro”, commentò l’ammiraglio Whilelm von Teghetoff dopo la battaglia di Lissa) ottenemmo quel che volevamo al tavolo di pace, dove ci potemmo presentare da vincitori in quanto alleati della Prussia che intanto aveva sgominato l’esercito austriaco. Fatta l’Italia, come noto, si cercò di fare gli italiani senza accontentarsi di chi viveva tra i confini. Alla fine del XIX secolo fummo sedotti dall’illusione delle guerre coloniali, che ci avrebbe accompagnato per decenni, fino al goffo machismo africano del Ventennio fascista. Il primo tentativo, nel 1887, fu in Etiopia ed evidenziò i tratti peggiori del nostro colonialismo: “Imprevidenza, iattanza, disprezzo degli avversari, eroismo di chi non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare” (riportando le parole di Angelo Del Boca). Al disastro di Dogali, la nostra peggior sconfitta di quella spedizione, sarebbe seguito quello di Adua nel 1896, che portò alle dimissioni di Francesco Crispi e alla fine della seconda guerra in Etiopia. Da lì la Libia d’inizio secolo, nuovo avamposto delle velleità di conquista risvegliate da un improvviso nazionalismo gonfiato a furor di giornali e intellettuali (“La grande proletaria s’è mossa”, scriveva Giovanni Pascoli), che portò sì ad una costosissima vittoria, ma dopo “una guerra inutile, sanguinosa e priva di ogni vantaggio politico, sociale, economico, strategico”. Il contrario di quel che s’aspettavano gli italiani, quando nel 1911 Giuseppe Bevione, giornalista vicino a Giovanni Giolitti, sulla Stampa spacciava la conquista della Libia come “soluzione al problema dell’emigrazione e della questione meridionale perché la Tripolitania e la Cirenaica potevano ospitare milioni di italiani”. In Africa saremmo tornati anche con Benito Mussolini, in una delle 3 guerre iniziate prima dell’ingresso nel Secondo conflitto mondiale (Etiopia, Spagna e Albania), nota, più che per la vittoria, per la scelta dell’arsenale: “Autorizzo all’impiego – scriveva il Duce a Pietro Badoglio – anche su vasta scala di qualunque gas”. Per stroncare la resistenza abissina, l’Italia si affidò ai gas asfissianti in spregio alla convenzione di Ginevra del 1925. Erano anni in cui i Generali italiani utilizzavano metodi spietati persino contro i nostri stessi soldati, a cui imputavano sconfitte causate da errori nelle alte sfere. Ne è emblema la Prima guerra mondiale, teatro della nostra disfatta più celebre, a Caporetto: “Cadorna, nel tentativo di nascondere le sue responsabilità (e quelle dei Generali Capello e Badoglio), cercò di addossare tutte le colpe della disfatta ai suoi soldati che pure in larghissima parte si erano battuti con grande coraggio e spirito guerriero”. Lo stesso Mussolini, una ventina d’anni più tardi, quando ormai era chiaro che la Seconda guerra mondiale sarebbe stata la fine delle sue fortune, avrebbe preferito prendersela col suo popolo. Il 17 aprile 1943, in un clima che già preludeva l’armistizio dell’8 settembre, parlando ai dirigenti del Partito fascista il Duce sbottava contro gli italiani “cretini, imboscati, deficienti (che) siccome non hanno mai fatto la guerra, trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si doveva fare”. Svanito il sogno della vittoria al fianco dei tedeschi, l’armistizio avrebbe visto un re in fuga e un Badoglio “terrorizzato” che “non si era preoccupato affatto di assicurare la difesa di Roma, vergognosamente abbandonata a se stessa, con l’esercito sbandato e i pochi reparti ancora in assetto operativo lasciati senza ordini”. Conclusione coerente del nostro secolo breve, il cui approdo alla democrazia sarebbe stato poi possibile soltanto al caro prezzo del sangue della Resistenza.

Il Colonnello Cadorna sfida il Professore Barbero sul nonno Generalissimo. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 17 dicembre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Tra questi, la leggenda nera del Comandante Supremo Luigi Cadorna “incompetente, insensibile macellaio che mandava a morire i nostri soldati seguendo tattiche ottocentesche”. Negli ultimi anni, questa visione oleografica, figlia di romanzi e film totalmente ideologizzati, è in fase di radicale revisione grazie a un’analisi attenta dei dati e dei documenti. Due anni fa si è ricordato il conflitto ’15-’18 appena come celebrazione della “fine della Grande Guerra”, come se questa fosse terminata “causa pioggia” e non per il sacrificio dei nostri 600.000 soldati, o per la sapiente fortificazione della linea del Piave predisposta con grande anticipo dal Generale Cadorna, o per la decisiva vittoria di Vittorio Veneto del Gen. Diaz  (4 novembre 1918) che costrinse la Germania alla resa pochi giorni dopo (11 novembre 1918). (Gli accordi armistiziali prevedevano infatti che gli italiani potessero passare in armi attraverso l’Austria per invadere la Baviera). Nel 2021 ricorrerà il centenario del Milite Ignoto e quindi, quale migliore occasione per riaprire un serio dibattito storico, su base TECNICA e non ideologica? Offre l’occasione Carlo Cadorna, Colonnello di Cavalleria in congedo, nipote del Generalissimo, che per tutta la vita ha studiato a fondo, con la consapevolezza tecnico-militare propria di un “addetto ai lavori”, la storia di suo nonno. Non a caso, l’anno scorso ha presentato, insieme ad altri autorevoli relatori, presso la Biblioteca del Senato, la sua revisione delle memorie del Generale Cadorna, corredate di nuovi documenti. Oggi, attraverso la lettera aperta che pubblichiamo, il Colonnello Cadorna lancia una “cordiale sfida” al notissimo storico torinese Alessandro Barbero per un pubblico dibattito:

"Gentile Prof. Barbero, sono un Suo ammiratore per la grande capacità comunicativa con la quale trasmette ai Suoi ascoltatori la Sua enorme passione per la Storia ed anche per l'indubbia capacità storica con la quale ha saputo affrontare, nel Parlamento Italiano, il centenario della Grande Guerra. In quella circostanza storica, Lei ha saputo individuare in una frase di Prezzolini, celebre per la sua acutezza storica, il vero nocciolo di quei fatti lontani ma ancora tanto vicini per le conseguenze storiche ancora oggi presenti. Mi dispiace sinceramente perciò sentire da Lei, in occasioni minori, le espressioni di vecchi pregiudizi, contraddetti dalla documentazione storica, vecchia e nuova, nonché da una conoscenza professionale degli argomenti tecnico-militari che riguardano la guerra. Ne è un esempio particolarmente diffuso quello delle critiche alle offensive di Cadorna che “avrebbero mandato i soldati a morire contro i reticolati nemici”.  La Relazione della Commissione d’inchiesta (vol. II, pag. 189) ne fa giustizia rilevando che le morti sono avvenute per “l’errata applicazione dei giusti criteri della circolare (attacco frontale ed ammaestramento tattico) da parte di taluni comandanti”. Tale affermazione trova riscontro in un episodio rilevante ma ignorato dalla storiografia:  il figlio di Cadorna, Ten. Raffaele (padre di Carlo n.d.r.) era nel 1915 ufficiale di collegamento presso la IX divisione della III armata.   Rilevò nelle sue considerazioni per il Comando Supremo che le prescrizioni della circolare tattica venivano ignorate:  ne derivò una vera e propria rivolta della gerarchia militare che indusse il Duca d’Aosta a rivolgersi direttamente a Cadorna che fu costretto a riprendere il figlio davanti alla gerarchia.  L’episodio è stato documentato da una fotografia e dimostra come la tattica (impiego delle forze) esulasse dai poteri/responsabilità di Cadorna. Le segnalo infatti che l'argomento è stato completamente rivisto, avvalendosi di una documentazione storica primaria che è stata in parte ignorata ed in parte nascosta oltre che da un esame tecnico dei principali documenti che sono stati artatamente manipolati da una parte rilevante della storiografia. Il risultato è stato pubblicato sul libro "Caporetto? Risponde Luigi Cadorna", Bastogi Libri, 2020:  su di esso La invito ad un pubblico dibattito lasciandoLe volentieri, oltre ai vantaggi della comunicazione e dell'età, anche quello del luogo. Suo aff.mo Col. Carlo Cadorna".

La Seconda Guerra Mondiale: i ricordi e gli orrori dei bombardamenti e dei morti. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Qui comincia un’avventura: il racconto della nostra storia dalla fine della guerra a oggi, un anno alla settimana partendo dal 1945, l’ultimo anno di guerra guerreggiata e anche della fine della guerra. Ma, ancor più, delle apocalittiche stragi della guerra, e naturalmente della liberazione e dei partigiani e delle ultime sacche tedesche e della pace fragile, incerta, senza che fosse chiaro il nostro destino e la nostra fine. Tutto era nell’aria e tutti sapevano anche senza che si dicesse più del necessario. I racconti del sangue e della pena erano talmente eccessivi, che annoiavano. E poi la riscoperta libertà a mano armata, delle vendette che come fai a impedirle e anche quelle che invece erano altre stragi e bugie e verità e ombre e luci e silenzi e altre bugie e cose che assolutamente non si potevano dire né pensare. Le uniformi alleate erano amichevoli e festose. Non ricordo i tedeschi. Soltanto i loro passi di notte, ma non le loro facce. Non sono uno storico di professione ma sono un torbido amante della storia. Uso uno dei grandi doni dei nostri tempi, che è l’accesso ai documenti filmati che non si erano mai visti prima: centinaia di ore e di immagini che permettono a tutti di farsi le proprie idee ma più ancora di provare le proprie emozioni. Purtroppo, il novanta e oltre per cento di quel che si trova su Internet e specialmente su You Tube, è in lingua inglese. Sono riuscito nella mia vita a dotarmi di questo settimo senso che consiste nel poter godere ciò che è prodotto in quella lingua, e consiglio a tutti, specialmente a chi abbia finora soltanto letto e studiato sui libri, di correre a guardare i documentari fatti di immagini e documenti, a letto o sul divano, sotto un albero o mentre piove e guardare il nostro passato con gli occhi delle macchine fotografiche e video. Io da tempo non sono più giovane, ma quest’anno lo sono in maniera speciale perché sto per compiere ottanta anni.  Nel 1945 avevo dunque cinque anni e non sapevo che milioni di miei coetanei se ne andavano in fumo nei camini di Auschwitz. Non lo sapeva nessuno. Ma appartengo alla generazione dei bambini perduti. Ricordo i bambini polacchi, sfollati a Grottaferrata, alle porte di Roma. Non ho idea del perché i polacchi fossero sfollati alle porte di Roma, ma tutti i popoli erano nel caos e si perdevano nudi e affamati. Li invidiavo perché avevano i capelli biondi e le sopracciglia nere. Io ero rosso e non erano un portafortuna, i capelli rossi. Giocavamo con i carri armati sfondati anneriti dalla puzza della morte. Avevo visto l’anno precedente i carri armati Sherman parcheggiati nel giardino di piazza Cairoli e un soldato nero con le Lucky Strike nella retina dell’elmetto si era sporto dal suo carro e mi aveva offerto un cake nel cellophane che mia madre gettò via perché fascisti e tedeschi abbandonando Roma avevano detto che i bambini sarebbero stati avvelenati o fatti esplodere con matite al tritolo. Le immagini dei partigiani a Milano, i camion, le donne che marciano con impermeabile e mitra, come le immagini dei campi di sterminio e della bomba atomica sarebbero arrivate più tardi… Noi eravamo già stati liberati, ma ricordo che quando andavamo in campagna in Sabina io e mia cugina venivamo ancora nascosti nelle bigonce del somaro e coperti di foglie di fico. Poi si sentiva un ronzio ed era Pippo. Pippo era qualsiasi ricognitore o caccia, amico o nemico, inglese o tedesco o americano, che veniva a rompere il cazzo a chi viveva nella paura tra i campi e le formiche usando le sue mitragliatrici come la gomma per cancellare i contadini, i bambini e i cani ridotti a strie di sangue e scarpe spaiate. Passava Pippo e ci buttavano per terra nel fosso e sentivi i sassi che scoppiavano e poi qualcuno magari ci restava secco e si diceva che c’era scappato il morto che non era mai un morto preciso, ma un morto come tutti gli altri, con un telo e senza scarpe. A febbraio c’era stata la Conferenza di Yalta con i quattro grandi. E si dice che Churchill si scambiò con Stalin una bustina di fiammiferi con scribacchiato il consenso a prendersi (Stalin) i Paesi dell’Europa dell’Est che lo stesso Churchill due anni dopo, a Fulton negli Stati Uniti, avrebbe chiamato oltre-cortina, oltre the iron courtain che taglierà in due l’Europa. A me bambino già risultava nelle emozioni familiari, la guerra fredda. Mio zio giovane comunista girava in bici spargendo volantini, mio padre più conservatore discuteva ad alta voce e poi gli americani che ballavano il boogie-boogie per strada e giravano le camionette perché mancavano gli autobus e si saliva con una scaletta di legno. Mi facevano studiare a casa con un anno di anticipo, indottrinato da una vecchissima vanitosa maestra amica di mia nonna, tutta incipriata che non sorrideva mai per non far crescere le rughe. Portava un enorme cappello pieno di veli e riporti e odorava di cipria ed era stupida e cattiva. Dirò in questa storia qualcosa su di me, l’unica persona che conosce bene, giusto come utensile. Era un’epoca di fango e stupore, tutti uguali e tutti con le gambe graffiate e la faccia piena di schiaffi. Mentre noi eravamo liberati, a Milano c’erano ancora i tedeschi e i fascisti ma intanto la produzione bellica della Germania nazista malgrado i bombardamenti a tappeto era al suo massimo. La Germania non smetteva di raddoppiare la produzione industriale anche grazie a milioni di schiavi, ma non aveva più uomini da mandare al fronte. Aveva soltanto macchine, la Germania. Inglesi e americani decisero di colpire il morale dei tedeschi prendendo una cittadina d’arte priva di valore militare (salvo qualche fabbrica di munizioni leggere) e di annientarla con tutti i suoi abitanti. Quella città era Dresda e ci furono tre passaggi aerei, uno inglese, uno americano e poi un altro misto che scoperchiarono al primo passaggio i tetti delle case, poi le accesero di fuochi inestinguibili e infine portarono la città alla temperatura di tremila gradi per cui in trentacinquemila morirono liquefacendosi in una melma verdastra. Il capo dell’aviazione militare inglese fu accusato di genocidio e il ministro della propaganda di Hitler disse che gli alleati erano dei mostri. Gli americani bombardarono Tokio che era una città di carta e legno e fecero molti più morti che con le bombe atomiche. Intanto, a milioni erano morti nelle fosse, nei forni, nella fame e nel cannibalismo, assassinati in gruppi, orde, camion, plotoni, sul ciglio del baratro e della calce. La notizia delle bombe atomiche era allora incomprensibile ma associata all’idea di fine del mondo. Sotto le nostre finestre in via Monte della Farina, di notte sparavano perché c’erano quelli del Gobbo del Quarticciolo che si scontravano con la polizia, o così mi dicevano. Gli americani per noi si chiamavano tutti Johnson, romanizzato Giònzon. Sul motivo di “parapaponzi-ponzi-po’” si cantava la strofetta: “Cosa fanno gli alleati? Sempre sbronzi-sbronzi, so’ ”. C’erano pochi sciuscià, shoe-shine, che lucidavano le scarpe ma ne vidi molti di più l’anno successivo a Napoli dove De Sica fece il film sugli scugnizzi, che eravamo tutti noi piccoli sopravvissuti. Si fucilava molto. A Forte Bravetta ogni giorno un plotone della polizia penitenziaria fucilava qualcuno legato sulla sedia, sulla schiena e colpo di grazia alla nuca. Si fucilavano i fascisti. Divisi su tutto, ma in posizione di tregua transitoria i democristiani e i social-comunisti (si diceva così perché Pietro Nenni era alleato del Pci di Togliatti ed ebbe anche il premio Stalin che poi riconsegnò). A casa mia si comprava il Messaggero e vedevo in prima pagina questi fucilati e facevano una morbosa impressione. Hitler era diventato un mostriciattolo rattrappito nel suo cappotto e distribuiva buffetti ai ragazzini della Hitler Jugend che morivano contro i russi che stavano già entrando a Berlino. Diceva a tutti che stava per uccidersi e raccomandava di consegnarsi agli angloamericani ed evitare i russi. Poi si sparò, sparò a sua moglie e si fece dar fuoco accuratamente in una buca del terreno scavata apposta. Mussolini intanto passava le sue ultime giornate e diceva che avrebbe preferito l’arrivo dei russi agli americani perché gli italiani meritavano una buona lezione. Quando i comunisti lo presero prigioniero e poi lo fucilarono senza far chiasso mandando un gruppetto dei loro ad ammazzare sia lui che Claretta Petacci, si dice che Pietro Nenni, che era stato in gioventù un compagno di cella di Mussolini e che provava per lui sentimenti misti, si infuriò per il colpo di mano e poi dettò il titolo d’apertura dell’Avanti! il giornale dei socialisti di cui nel 1914 lo stesso Mussolini era stato direttore prima di essere espulso. Il titolo era: “Giustizia è fatta!”. A giugno dettero l’incarico di formare un governo a Ferruccio Parri, capo partigiano di Giustizia e Libertà che resse una coalizione piena di speranze ma con pochi mezzi che durò meno di sei mesi. Molti anni dopo lo andai a trovare e viveva con la moglie nel casermone sulla via Cristoforo Colombo per deputati e senatori, una specie di sarcofago. Non ricordo come si chiamava la moglie, una signora deliziosa che mi volle a tutti i costi far provare la macchina da cucire a pedali con cui aveva fatto l’orlo ai fazzoletti tricolori per i partigiani di GL mentre lui, Ferruccio, se ne stava seduto sul divano un po’ triste e poco incline ai ricordi. Un galantuomo di compromesso. La vera guerra sarebbe scoppiata di lì a poco fra filoamericani di De Gasperi e filorussi di Togliatti. Sui muri si vedevano manifesti di Stalin dipinto come un orco o come un santo e comparivano scritte entusiaste e sgrammaticate, come “Ataveni” che stava per: “Ha da venire”, sottinteso, Baffone”. Nessuno lo chiamava Stalin. Solo Baffone. E quei baffi erano un segno grafico di una potenza di cui non ricordo l’uguale, tanto che quando Baffone morì otto anni dopo, ricordo perfettamente dove ero, perché Baffone era il segno del tempo e di un mondo terribile e irripetibile, ma che allora era vivo benché fosse morto.

Una non aggressione è il contrario di un'aggressione? Storia del patto Ribbentrop Molotov, l’alleanza tra Hitler e Stalin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Due anni fa, avendo trovato un filmato che ancora non conoscevo, scrissi un lungo articolo sull’alleanza fra Hitler e Stalin, nota come Trattato di non aggressione Ribbentrop-Molotov, in cui descrivevo quel che chiunque può vedere nei filmati: i generali e i soldati, sia dell’esercito nazista che di quello sovietico partecipano a una comune parata militare a Brest Litovsk (oggi Brest in Bielorussia). Lì l’Armata Rossa rende onore alla Wehrmacht nazista con fanfare e festoni e con bandiere con stella falce e martello più svastica, pranzo di gala con limousine nere e volti sparuti di bambini polacchi ebrei che non sanno ancora quel li aspetta. Quel che aspettò me fu una caterva di insulti su questo tono: «Come ti permetti lurido mascalzone di infangare l’onore dell’Unione Sovietica che ha da sola sostenuto e respinto con più di venti milioni di morti l’invasione nazifascista?». E poi, quanto al “patto di non aggressione” Ribbentrop-Molotov mi veniva spiegato per l’ennesima volta che si trattò di un capolavoro di astuzia di Stalin il quale, perfettamente consapevole del fatto che prima o poi Hitler avrebbe aggredito l’Urss, stipulò quel “patto di non aggressione” che gli fece guadagnare tempo prezioso durante il quale le divisioni dell’Armata Rossa e le industrie belliche furono trasferite fin sugli Urali, sicché poi quando venne il momento, l’Urss guidata da Stalin e un gruppo di magnifici generali seppero resistere, e conquistare Berlino, costringendo Hitler al suicidio e la sua cricca alla forca. Comunque, una non-aggressione è pur sempre il contrario di una aggressione, o no? Ecco il punto. No. Tutto quel che c’è da sapere su questa storia è pubblico ed accessibile a tutti. Ma l’intera storia non è stata mai raccontata se non in modo sfuggente. La storia del “patto” è tragicamente imbarazzante sia per come cominciò che per come finì. Cominciò quando, nel luglio del 1939, Hitler pensò che fosse ora di riprendere la conquista incompiuta in Europa, dove aveva già occupato tutte le zone tedescofone, compresa la Cecoslovacchia, e l’aveva fatto con il permesso di Francia e Inghilterra alla conferenza di Monaco del 1938, organizzata da Benito Mussolini. Stalin a Monaco non fu invitato. E neanche i cecoslovacchi furono invitati. Stalin se la legò al dito, considerando i paesi capitalisti e imperialisti (ma non la Germania nazional-socialista) come traditori. Francia e Inghilterra a Monaco avevano avvertito Hitler che la Cecoslovacchia era da considerare l’ultimo acquisto tedesco e che se per caso Hitler avesse attaccare la Polonia, Francia e Inghilterra sarebbero intervenute in sua difesa. Il primo ministro inglese Neville Chamberlain tornò a Londra sventolando sorridente un trattato firmato anche da Hitler che avrebbe dovuto garantire la pace per vent’anni. Fu allora che Winston Churchill commentò: «Hanno svenduto l’onore per la pace e otterranno il disonore e la guerra». La Polonia stessa pretese a Monaco un pezzo di Cecoslovacchia. Tutti mostravano enormi appetiti dopo la fine della Prima guerra mondiale, che aveva scoperchiato un’Europa di mille lingue e costumi, senza confini, ma con molte ambizioni e dagli anni Venti in poi era stata un teatro di colpi di mano, rivoluzioni mancate e formazioni di milizie. Hitler l’aveva scritto con estrema chiarezza nel suo Mein Kampf: al mondo sarebbero dovute restare soltanto due potenze di stirpe tedesca, la Germania e la Gran Bretagna, che considerava un Paese consanguineo con cui sperava di fare la pace. Che non venne mai. Quanto all’Est, era stato molto chiaro: tutti gli slavi andavano trattati da sotto uomini, da sottomettere o eliminare e comunque da cacciare dalle grandi pianure destinate a costituire lo «spazio vitale» del grande e potente «popolo tedesco». Stalin si era fatto tradurre personalmente il Mein Kampf e lo aveva letto sottolineandolo con una matita azzurra. In quel libro erano anche nominati tutti i capi della rivoluzione bolscevica, lui compreso, come assassini, banditi da strada e – nel caso di Stalin – ex rapinatori di banche. Stalin non era un tipo emotivo. Non era neanche un grande oratore. Diversamente da Hitler e Mussolini scriveva accuratamente i suoi discorsi diligenti e ideologici, ma senza slancio passionale e con un inguaribile accento georgiano. Tutti lo descrivono come paranoico, ma probabilmente aveva ben presente la posta in gioco in una partita di potere così lunga e complessa come la formazione dell’Urss e le guerre da combattere. Prima una guerra proprio con la Polonia, persa malamente nel 1920 da lui e da Trotsky. Poi la interminabile guerra civile con gli eserciti stranieri e quelli dei generali “bianchi”. Infine una guerra sotto casa, al confine fra Siberia e Manciuria, dove si erano installati da un decennio i giapponesi, che provocavano continui scontri di frontiera. In questi si faceva le ossa uno dei futuri eroi, il generale Zukhov, uno dei pochi che si salvò dalle purghe che nel 1937 portarono al plotone d’esecuzione quasi tutti gli alti e medi ufficiali, partendo dal divo generale Michail Nikolaevic Tuchacesvkij, maresciallo dell’Unione sovietica a 44 anni e inventore dell’uso moderno dei carri armati e dell’aviazione, di cui Stalin era gelosissimo fin dal 1930 quando lo chiamava “il piccolo Napoleone”.  In quella mattanza di generali e marescialli, i tedeschi avevano messo lo zampone con la diffusione di documenti falsi preparati da Renhard Heydrich, il gelido comandante delle SS di cui Hitler diceva: «Quell’uomo ha un cuore di ferro, ne sono orgoglioso ma mi fa paura». Le carte tedesche furono fatte passare per le mani del presidente cecoslovacco Benes e dalle sue a quelle di Stalin, il quale però non le prese in grande considerazione, perché aveva già deciso di far fuori quell’astro nascente che gli ricordava Napoleone. Non erano tempi confrontabili con i nostri, se non per il culto della menzogna storica, il sacro Graal delle bugie per cui ognuno è sacrificabile. I “trattati di non aggressione” erano di gran moda negli anni Trenta perché potevano essere disdetti in qualsiasi momento, ma servivano momentaneamente per fornire reciproche garanzie. Il punto era che il “patto di non aggressione” offerto dai tedeschi ai sovietici era una scatola di cioccolatini con doppio fondo. In superficie, uno strato di parole diplomatiche che certificavano la stabilità delle relazioni fra i due Paesi. Ma nel doppiofondo c’era un altro documento in cui si diceva che quando la Germania avesse ritenuto di agire in Polonia, l’Urss doveva sentirsi libera di agire in una serie di Paesi concordati. Questi Paesi erano la Finlandia, le tre repubbliche Baltiche, parte della Romania e parte della Bielorussia. Come era nato questo accordo? Da un discorso di Stalin a Mosca in cui aveva compiuto una distinzione fra la Germania nazional-socialista e le potenze imperialiste occidentali. Ci fu molto brusio nelle cancellerie perché von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, insistette molto con Hitler affinché prendesse in considerazione l’eventualità che Stalin potesse essere considerato almeno nel medio periodo un alleato. Hitler non aveva alcuna personale simpatia per Stalin e mandò il suo fotografo personale insieme alla delegazione che partiva per Mosca, affinché fotografasse i lobi delle orecchie di Stalin per vedere se l’attaccatura fosse di tipo semita o no. Non risultò semita e questa era già una buona cosa. Stalin, viceversa – le testimonianze in proposito sono abbondantissime – aveva un debole proprio per alcuni aspetti canaglieschi di Hitler. Apprezzò moltissimo quando il Führer, un anno dopo essere stato nominato cancelliere, decise di liberarsi di Ernst Roehm e delle sue milizie ormai inutili e sgradite, facendo trucidare più di centocinquanta uomini o costringendoli al suicidio. Roehm, come molti dei suoi uomini, erano omosessuali e furono colpiti di notte nei loro letti insieme ai loro giovani amanti. Quando Stalin conobbe i dettagli di questa storia scoppiò in una esclamazione di entusiasmo: «Ma è un vero diavolo, questo Hitler! È bravissimo!».

Storia d’Italia, il 1946: dal fascismo ai coriandoli la nascita della Repubblica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Volete capire davvero cosa sta succedendo? Perché siamo a questo punto e a che punto siamo? Volete sapere chi siete, o chi potevate essere, o chi non sarete mai, e chi erano i vostri genitori? Non ci riuscirete se non ripassate la storia. Se non studiate il passato, le radici. E allora abbiamo chiesto a Paolo Guzzanti di raccontarci la storia della Repubblica. Da quel gennaio del ‘46, quando la Repubblica nasceva e lui doveva ancora compiere sei anni, fino ad oggi, che la Repubblica è diventata seconda o terza o quarta, e lui è arrivato a ottanta. Lo farà con un articolo a settimana, per settanta settimane, correndo sul filo della sua memoria, e degli studi che ha fatto, e della sua attività di giornalista. Lo farà con la sua penna e le sue idee. Buona lettura.

Il 1946 fu l’anno in cui nacque la Repubblica. Infatti, per imitare l’inizio di Pinocchio, cominceremo col chiedere: “C’era una volta?”. “Una repubblica! “ diranno i piccoli lettori. No, cari ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un re. Ma molto piccolo. Lo chiamavano “Sciaboletta” e per lui avevano dovuto abbassare di parecchi centimetri l’altezza minima alla visita di leva. Era stato lui a chiamare al governo Benito Mussolini nel 1922 quando molti gli consigliavano invece di farlo arrestare ed era stato sempre lui a farlo arrestare una settimana dopo il primo bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 organizzando un colpetto di Stato perfettamente costituzionale. Il fascismo è stata l’unica dittatura della Storia abbattuta con un voto di sfiducia dopo “ampio e approfondito dibattito” nel Gran Consiglio del Fascismo che era un organo costituzionale.

Quando, all’alba del 25 luglio, il Duce tornò a Villa Torlonia la moglie Rachele era sulla soglia in ansia e gli chiese: «Mo’ Ben, com’è andata?». E lui: «Mi hanno messo in minoranza e hanno ridato i poteri al re». Rachele si infuriò: «Ma avresti dovuto fare come Hitler, ti portavi un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti». Mussolini era ancora ottimista: «Oggi vado dal re e sistemo tutto» rispose esausto. Invece era stato il re a sistemare tutto: arrivato a Villa Savoia con le ghette e il cappello, Mussolini fu fatto accomodare nel salottino, il suo autista e la scorta furono arrestati, il re gli disse che l’aveva sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio ma che non doveva preoccuparsi per la sua incolumità. Poi lo accompagnò all’ambulanza che lo aspettava piena di carabinieri che però non sapevano che Mussolini era agli arresti.

Ne seguì una peregrinazione comica finché il capo del fascismo fu sistemato in albergo isolato di Campo Imperatore dove fu tentato dall’idea del suicidio con la piccola pistola che gli avevano lasciato e fu liberato da un commando di nazisti forsennati guidati da Otto Skorzeny al comando di alcuni alianti. Quel piccolo re aveva visto che per lui e casa Savoia tirava un’aria pessima, ci sarebbe stato un referendum e preferì andare in esilio lasciando suo figlio Umberto che fu re per un solo mese e detto “Il Re di Maggio”. Fu indetto il referendum per il 2 giugno del 1946 e con il referendum gli italiani e per la prima volta le italiane che non avevano mai votato ai tempi del Regno furono chiamati ad eleggere il primo Parlamento come Assemblea Costituente e dire se volevano restare un regno o diventare una Repubblica. Le forze maggiori – socialisti (che erano più numerosi dei comunisti) i comunisti, larga parte dei cattolici molti fascisti che votavano Uomo Qualunque o altre formazioni minori – erano repubblicane. Ma quando cominciò lo spoglio delle schede al ministero degli Interni si accorsero che i voti per il re superavano di gran lunga quelli per la Repubblica e scoppiò il panico. Il ministro Romita decise di non dir nulla finché lo spoglio non fosse finito e fu una faccenda lunghissima e controversa. Il Sud aveva votato in massa per il re e il Nord in massa per la Repubblica. Ci furono accuse di brogli e ancora oggi se ne parla anche perché qualcuno ebbe la discutibile idea di bruciare le schede votate sicché non si poté fare una riconta. Il presidente della Cassazione anziché annunciare la vittoria della Repubblica disse che si sarebbero prima discussi i ricorsi e si rischiò la guerra civile. Il nuovo re-luogotenente Umberto Secondo, ad urne aperte, scoprì di essere ancora il re e fece sapere che se non si fosse risolta la questione immediatamente avrebbe nominato un suo governo, mentre era presidente del consiglio Alcide De Gasperi, il leader democristiano trentino che per anni era stato un deputato dell’Imperial Regio Governo a Vienna. La minaccia era seria: se il “Re di maggio” faceva un governo formalmente legittimo ci sarebbero stati due governi e probabilmente la guerra civile. De Gasperi prese una decisione molto audace: si proclamò Capo provvisorio dello Stato al posto del Re luogotenente che preferì salire su un piccolo aereo e partire dopo aver sventolato il suo cappello con aria mesta davanti a una folla di monarchici piangenti. Casa Savoia aveva tentato di giocare a carta americana: Real Casa chiese alla Casa Bianca di essere sostenuta contro il “pericolo sovietico”. Ma avevano sbagliato i conti: alla Casa Bianca, dove Harry Truman era succeduto a Franklin Delano Roosevelt, erano tutti repubblicani, odiavano tutti i re e specialmente quelli italiani. Chi era molto seccato per l’esito del referendum fu Winston Churchill che seguitava a sognare un mondo di imperi e di teste coronate.

La massa degli elettori italiani aveva votato per i tre grandi partiti: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con più di otto milioni di voti, il Partito socialista di unità proletaria di Pietro Nenni con quattro milioni e 758 mila voti e il Partito comunista di Palmiro Togliatti (sotto il 20 per cento, superato dai socialisti quasi al 21) con poco meno di quattro milioni e mezzo. I tre quarti degli italiani avevano votato i grandi partiti e fra questi c’era una forte maggioranza di sinistra perché socialisti e comunisti formavano ancora una unione “socialcomunista” e si parlava spesso di una possibile fusione. I democristiani avevano la maggioranza nelle aree che oggi sono della Lega, i comunisti nelle regioni “rosse” (che durante il fascismo erano state nerissime) e i socialisti con uno spettro un po’ più largo. Che Italia era? Posso dire quel che ricordo da bambino: una sovreccitazione frenetica nelle strade, tutti correvano in bicicletta, urlavano, formavano crocicchi, sembra la celebrazione del “Free Speach” dei parchi londinesi. Preti assatanati contro i comunisti, rivoluzionari, casalinghe, operai, professori, tutti trovavano una cassetta della verdura su cui salire e parlare al popolo. Ma pochi sanno che durante il Regno d’Italia e fino alla fine della Grande Guerra nel 1918, la democrazia italiana era riservata per censo a una parte della borghesia: soltanto chi paga le tasse ha diritto di rappresentanza per decidere come spenderle. Con la fine della Grande Guerra fu concesso benignamente il voto a tutti gli uomini senza distinzione di censo.

E così il Parlamento si riempì di un caleidoscopio di partitini che contribuirono allo spappolamento della vecchia democrazia paternalistica. Nessuno usava il deodorante, non esisteva lo shampoo e i capelli erano lavati con saponi e bicarbonato. Tutti bevevano quantità insensate di pessimo vino a tavola, bambini compresi, e infuriava una dieta della pasta e dell’ingrassamento dopo gli stenti della guerra. Si aspettava ancora il ritorno di molti prigionieri di guerra che non sarebbero più tornati e mio padre vedeva in sogno il suo compagno di banco inghiottito dalle nevi della Russia. Era un’Italia a coriandoli: non votarono quelli dell’Alto Adige ancora sotto controllo alleato, ma votarono le città di Tenda e Oneglia che diventarono francesi. Roma era piena di soldati e la polizia vestiva con l’elmetto e viaggiava su jeep con la cappotta e si chiamava “la celere”, antisommossa perché le sommosse erano sempre nell’aria. Era ancora l’Italia del Cln (Comitato di liberazione nazionale di tutti gli antifascisti) ma era già l’Italia spaccata dalla guerra fredda. Tuttavia, si sapeva che l’Italia, come la Grecia, era stata assegnata all’Occidente e Stalin non gradiva colpi di mano. Erano gli anni di “Napoli milionaria” di Eduardo e della “Tammurriata Nera”, le molte nascite di bambini colorati presi in custodia da suore terribili come quelle di Fellini.

Era fatta: la guerra era finita davvero, la democrazia era cominciata davvero, i conti sarebbero stati regolati nel 1948 con le vere elezioni e tutto andava avanti con molta “borsa nera” (il mercato parallelo e l’arte di arrangiarsi, che era già nel Dna. Entusiasmi e disperazioni si affacciavano in ogni famiglia e paese, il mondo si spaccava e gli ultimi nazisti tedeschi avevano scelto l’Argentina come nuova patria provvisoria. Dall’America Latina un napoletano scrive “Munastero ‘e Santa Chiara” che descriveva il crollo morale ma tutti dicevano che bisogna guardare avanti, girare pagina, perché ormai chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. Il che non era vero.

Storia d’Italia, il 1947: l’anno in cui tutta Europa ci odiava. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Luglio 2020. Fu l’anno che determinò il futuro. Nel 1947 tutti furono obbligati a mettere le carte in tavola e dire da che parte stavano. La guerra fredda era scoppiata e nessuno, ma proprio nessuno, sapeva che non sarebbe diventata calda. Al contrario: ricordo che nel 1947 mia madre affettava e metteva sotto sale un prosciutto di campagna da cui saltavano fuori dei vermi. non esisteva lo schifo. Tutto era buono. scatolette, tonno, fagioli, si faceva il sapone in casa con una puzza orrenda di pentoloni pieni di grasso animale. Un tappeto di patate sotto il letto. Taniche di petrolio per i lumi bellissimi pieni di nappe, nastrini e vetri colorati che mio padre aveva comperato perché la corrente saltava. Cocomero e burro sotto un filo d’acqua nel lavello di marmo della cucina. Estati torride senza un filo di vento. Freddo invernale con i geloni alle dita, lo scaldino nel letto con la brace, io mi portavo sotto le coperte di contrabbando il nostro gattone nero chiamato Fascista perché aveva una specie di M bianca sul petto. L’aveva portato un ingegnere amico di mio padre che frequentava il papa sostenendo che il micio era figlio della gatta di Pio XII, Pacelli, quello che aveva dischiuso le ali sulle macerie del bombardamento del 19 luglio al Tiburtino. Il fratello di mia madre era diventato comunista e girava in bici e con mio padre discutevano per ore sulla porta di casa, il secchio dell’immondizia foderato di carta di giornale. Le voci alla radio erano gracchianti perché il tono ufficiale era molto mussoliniano, a destra come a sinistra. Passato Capodanno, il giornale radio avvertì che il presidente del Consiglio stava volando verso gli Stati Uniti ed era la prima volta che De Gasperi usciva dall’Italia. L’espressione “Presidente del consiglio dei ministri” era stata scelta e usata solo in Italia al posto di primo ministro o capo del governo, per scongiurare l’arrivo dell’uomo forte. Il 1947 era l’anno in cui sarebbe stata votata la nuova Costituzione e quello in cui l’Italia avrebbe firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici perdendo l’Istria con tutti gli istriani, fuggiti o infoibati, di cui nessuno voleva più sentir parlare. Trieste era tagliata in due, mezza americana e mezza comunista, Zona A, Zona B, e la faccenda sarebbe andata avanti per un pezzo. E poi sarebbe stato l’anno del Piano Marshall, dal nome del Segretario di Stato americano George Marshall, annunciato con un discorso all’Università di Harvard. L’America capovolgeva le tradizioni: i vincitori avrebbero rimesso in piedi i vinti a proprie spese, per evitare quel che era accaduto fra le due guerre mondiali. Ricordo, da ragazzino, un mondo di gente molto confusa, piena di ira e di frustrazione e tutti avevano voglia di mettere le mani addosso a qualcun altro. De Gasperi non era stato invitato dalla Casa Bianca ma dalla rivista Time. L’Italia non era popolare: era un Paese vinto e detestato. I francesi ci odiavano per averli “pugnalati come Maramaldo”. Gli inglesi ci odiavano per la guerra e ci odiavano i greci, gli slavi, i tedeschi e i russi perché avevamo mandato corpi di spedizione in casa loro. La guerra franco-prussiana del 1870 aveva lasciato i semi avvelenati della Prima Guerra Mondiale e la pace di Versailles aveva fatto schiudere le uova di serpente della seconda. Ora ci trovavamo all’inizio di una Terza Guerra: l’Occidente a guida americana e capitalista contro l’Oriente a guida russa e comunista. Scompariva l’Impero britannico, collassato per decisione americana. Roosevelt aveva avvertito gli inglesi: vi aiutiamo, ma voi dovete smontare tutta la baracca imperiale. E il disfacimento partì dall’India. Da un punto di vista esistenziale – l’esistenzialismo fioriva a Parigi – eravamo senza identità e temevamo la morte atomica, l’ultima novità prodotta a Hiroshima. Si seppe in quell’anno del diario di Anna Frank: la dimensione della Shoà era ancora non chiara. L’America accettava di riceverci, ma senza trombe e tappeti rossi. Quelli sarebbero venuti dopo. La delegazione che arrivò a Washington comprendeva il direttore della Banca d’Itala Domenico Menichella, Guido Carli direttore dell’Ufficio Cambi, il ministro del Commercio con l’Estero Pietro Campilli, su un affaticato quadrimotore Skymaster, tutti imbragati con i paracadute, salvo Menichella che era afflitto da un’enorme pancia. Due giorni di volo. De Gasperi si era affidato all’ambasciatore Alberto Tarchiani che conosceva bene l’America e che lo portò dal nuovo presidente Truman e che era diventato il mastino della guerra fredda. C’era stato il discorso di Winston Churchill all’università americana di Fulton in cui per la prima volta era stata inaugurata l’espressione iron courtain la “cortina di ferro” di ferro, che tagliava anche Trieste, città contesa agli jugoslavi del maresciallo Tito. Gli americani dettero a De Gasperi un assegno da cinquanta milioni di dollari come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dall’Italia durante la guerra. Ma una cosa doveva esser chiara: i comunisti, dovevano andare fuori dal governo. Era scoppiato il caso greco. I comunisti greci, contro il divieto di Stalin, avevano cominciato una rivoluzione destinata ad essere repressa dagli inglesi senza che i sovietici muovessero un dito. Durante la visita di De Gasperi, il segretario di Stato James Byrnes si dimise perché non condivideva la nuova politica antisovietica. Lo sostituiva George Marshall, esperto mediatore fra comunisti e nazionalisti cinesi, l’uomo che avrebbe legato il suo nome al famoso “Piano”. L’Italia ottenne un finanziamento ulteriore di 100 milioni di dollari dalla Export Import Bank subito dopo il rientro di De Gasperi. Pietro Nenni, ministro degli Esteri e capo dei socialisti che era andato ad accoglierlo all’aeroporto, annotò sul suo diario che De Gasperi era «totalmente cambiato». Dietro il successo di quel primo incontro aveva lavorato come tessitore Francis Spellman, di 47 anni, che era stato creato cardinale l’anno prima da Pio XII. Francis Joseph Spellman, nato nel 1889 in Massachusetts, aveva fatto la spola fra l’ambasciata americana e lo studio del papa, per poi finire le sue serate nelle osterie di Frascati con il suo autista Francesco Lamonaca, che era il mio prozio di Forio d’Ischia. Questo mitico Zio Ciccio, leggendario narratore della Prima guerra mondiale vista con occhi napoletani, era diventato l’autista dell’ambasciata americana e del cardinale che lui chiamava Spellmànne e che gli raccontava nei dettagli, dopo aver raggiunto il necessario livello etilico, delle istruzioni ricevute dal papa per l’incontro alla Casa Bianca di De Gasperi. Il viaggio fu un successo. Ma fu subito chiaro che l’Alcide, era deciso a sbattere fuori i comunisti e i loro alleati. i comunisti devono uscire dai governi di coalizione in Occidente. E così fu. Pochi giorni dopo, Nenni si dimise da ministro degli Esteri e il suo partito si spaccava per la la scissione socialista di Palazzo Barberini, quando Giuseppe Saragat (futuro presidente della Repubblica anche lui come Spellman molto amante del vino) ruppe con il Psiup, fondando il Psli, poi Psdi, partito socialdemocratico italiano, pronto a governare con una Dc filoamericana e antisovietica. Fra gli scissionisti, a sorpresa, anche Anna Kuliscioff, rivoluzionaria comunista ebrea ucraina che in Italia aveva diretto il quotidiano socialista Avanti! con Benito Mussolini (di cui fu brevemente l’amante) e che poi era scappata in Unione Sovietica entrando nel gruppo dirigente leninista. Da cui poi era fuggita orripilata. E arrivò il Piano Marshall. Poiché tutti convenivano che l’avvento di Hitler fosse stato provocato dalle disumane condizioni in cui il popolo tedesco fu tenuto dai vincitori della Grande Guerra, gli americani decisero non di chiedere riparazioni e danni, ma al contrario di pagare di tasca loro il finanziamento economico della rinascita dell’intera Europa, Est ed Ovest. Qualcosa di inimmaginabilmente grande, perché comprendeva anche l’Unione Sovietica dei Paesi dell’Est, non ancora sotto dittatura comunista, come la Cecoslovacchia. Ma Stalin non ne volle sapere ed ordino a tutti gli Stati e partiti comunisti di opporsi al piano Marshall, malgrado le proteste di alcuni governi. In Italia il Pci si allineò con Mosca. Gli inglesi, seccati con gli americani che giocavano da padroni, resero noto il loro ritiro dalla Grecia in piena guerra civile e Truman accolse la notizia come un dato di fatti: nasceva la “dottrina Truman”, che delegava il comando all’imperatore d’occidente in Pennsylvania Avenue. Stalin era furioso: voleva che la Germania pagasse le riparazioni dovute, ma Molotov (“Martello”, il ministro degli Esteri di Stalin, lo stesso che aveva firmato con i nazisti il patto del 1939) fu sconfitto. Truman mise mano al portafoglio e sborsò 250 milioni per la Grecia e 150 per la Turchia, da proteggere da sovietici. In Italia Togliatti, con un colpaccio a sorpresa, ruppe l’unità delle sinistre e votò alla Costituente a favore dell’articolo 7 della Costituzione che avallava i patti fra Mussolini e Vaticano, per far breccia nei cattolici. Il primo maggio, la strage del bandito Salvatore Giuliano a Portella Della Ginestra. I manifestanti accolti dal fuoco delle mitragliatrici che falciano la folla con 800 colpi: 11 morti e 71 feriti. Giuliano ha da poco ricevuto i gradi di colonnello e la bandiera di combattimento dal congresso segreto dei separatisti che dicono di voler portare la Sicilia nella Confederazione degli Stati Uniti. Sarà una vicenda loschissima, che finirà con Giuliano ammazzato da suo cognato Gaspare Pisciotta in un finto conflitto a fuoco e con Pisciotta ammazzato con un caffè corretto, che produrrà il noto sketch “Venga a prendere un caffè da noi”. In Italia una crisi di governo a freddo estromette i comunisti, così come accade in Francia. A luglio il Comitato centrale del Pci dichiara impossibile proseguire nella “democrazia progressiva” ma Togliatti promette un atteggiamento moderato per non rompere l’unità nazionale antifascista. Il 7 settembre in un comizio a Parma Palmiro Togliatti allude a una forza armata del Pci di 30 mila uomini e il discorso viene interpretato come una minaccia al governo e improvvisamente scoppia una sorta di crisi insurrezionale alimentata dal maresciallo Tito e a settembre l’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani si fa ricevere dall’assistente del segretario di Stato per avvertirlo della possibilità di una insurrezione sostenuta dall’Urss. Comincia così la vera guerra fredda italiana. Ad ottobre nasce la Cia che è succeduta all’Oss: giudica le forze armate italiane sufficienti per controllare una insurrezione, ma non per far fronte a un intervento jugoslavo. Monsignor Montini, il futuro Paolo VI e che sotto Pio XII fu un eccellente spy-master confermò al rappresentante diplomatico americano del presidente Truman l’appoggio morale della Santa Sede a un eventuale contro i comunisti. Il 27 novembre arriva al Viminale l’uomo duro dell’anticomunismo: Mario Scelba, in sostituzione del prefetto di Milano Ettore Troilo ex partigiano accreditato a sinistra. Gian Carlo Pajetta alla testa di un corteo partigiano occupò la prefettura e altri edifici pubblici milanesi. Togliatti e De Gasperi sdrammatizzarono la crisi e la disinnescarono. Era nato di fatto un primo compromesso storico fra la Dcfiloamericane e il Pci filosovietico. Una guerra fredda fatta di molte parole e larvate minacce sarebbe stata tollerata e considerata accettabile, dai tempi. Ma nessuno voleva sfracelli.

Storia d’Italia, il 1948: la “guerra” tra Togliatti e De Gasperi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Quando si dice “successe un Quarantotto”, si pensa a quello del 1800. Catastrofe rivoluzionaria, la Storia mise le macchine all’indietro tornando alle parrucche incipriate. Un secolo dopo, nel nostro 1948, finiva per sempre la finzione dell’unità antifascista. Fu l’anno delle elezioni vinte dai democristiani e perse dai comunisti, l’anno dell’attentato a Togliatti che – gravemente ferito – pensava soltanto a calmare gli spiriti e quando si risvegliò dall’anestesia chiese: che cosa ha fatto Bartali? Bartali aveva ricevuto un messaggio da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, che lo supplicava di vincere la tappa del Giro di Francia di quel giorno. Bartali era molto indietro in classifica. Aveva 20 minuti di distacco dalla maglia gialla. Speranze di rimonta zero. E invece quel giorno Gino, che era ormai vecchio, dette l’anima e vinse la tappa di Briancon dando quasi un quarto d’ora di distacco al campione francese Louison Bobet che pensava ormai di aver già vinto il Tour. Una impresa impensabile. Il giorno seguente vinse di nuovo sul traguardo di Aix les Bains, prese altri cinque minuti a Bobet e conquistò la testa della classifica. Che tenne fino alla fine: il 24 luglio vinse il Tour e gli scontri di piazza, in Italia, cessarono quasi per miracolo. La pace era salva. Gli italiani dimenticarono le revolverate a Togliatti esplose dallo studente Pallante e tutto finì bene. Un giornale satirico titolò: “Pallante ( cioè l’attentatore, ndr) condannato a venti anni di tiro a segno”. I comunisti, cacciati dal governo su richiesta americana e in base alle decisioni di Yalta, si lasciarono mettere da parte protestando solo il minimo sindacale. La Grecia che aveva voluto fare la rivoluzione era finita schiacciata dagli inglesi. Nel 1948 partirono la Costituzione e la vera guerra fredda, sia in Italia che nel mondo ma specialmente a Berlino. La città si trovava nella zona della Germania sotto il controllo sovietico (la Germania Est, cioè la Rdt) ed era a sua volta suddivisa in quattro zone: una ai russi, una ai francesi, una agli inglesi e una agli americani. Stalin tentò di bloccare il settore occidentale frutto della fusione delle aree americana, inglese e francese, scintillante di luci e vetrine aperte che adesso, cinta d’assedio, rischiava di soffocare. Fu allora che gli americani compirono una delle più vittoriose smargiassate celebrata con francobolli e musei: il ponte aereo. Centinaia, migliaia, decine di migliaia di aerei portavano o atterravano a Berlino Ovest per portare tutto quel che serviva all’intera città: latte e medicinali, vestiti e macchinari senza rallentare mai, senza far mancare un paio di scarpe. Stalin tentò di minacciare azioni aree militari ma lo zio Tom lasciò vedere le sue Colt alla cintura e Stalin che non era un giocatore d’azzardo, si ritirò. In Italia il Fronte Popolare di comunisti e socialisti perse le elezioni. Il fronte aveva come simbolo la faccia di Garibaldi, ma ne girava una versione di cui se capovolgevi Garibaldi vedevi Stalin. Io avevo otto anni e ricordo tutto. Era una guerra di fumetti, di cartelli, urla, carta, altoparlanti, gente che correva con pacchi di giornali e vendeva testate oggi scomparse. Qualche rissa, qualche revolverata, poca roba. Il Fronte perse. I democristiani stravinsero. Il cantore della sinistra Ivan della Mea, quanlche anno dopo mormorava alla chitarra: “Vi ricordaste del diciotto aprile, che avé votà democristiani senza pensare all’indomani, senza pensare alla gioventù”. I miei cugini comunisti erano “Pionieri” del partito e portavano il fazzoletto rosso al collo. Io quello dell’Asci cattolica, cioè i “Boy Scout”.. Loro leggevano il Pioniere di Gianni Rodari che odiavo perché era tutta una pippa simbolistica con Pomodorone grasso capitalista e c’era sempre un furbettino comunista che lo metteva in culo a tutti. Noi feroci anticomunisti leggevamo sul “Corrierino” capitan Cocoricò e il signor Bonaventura ricco ormai da far paura. Tirava anche un brutto vento da guerra religiosa: il papa per non sbagliarsi aveva scomunicato i comunisti e molti di loro, essendo cattolici, andavano a piazza San Pietro a urlare che loro credevano in Dio, ma anche a Baffone, un punto teologico molto controverso. A Piazza San Pantaleo, alla messa dei ricchi con la pelliccia come i ricchi di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, una ipertiroidea isterica e passionale vestita di rosso brandendo il foglio del partito urlava, “L’Uità! L’Unità! Ahò, v’avesse da fa’ male un pochetto de marchesismo-leninismo, sa? V’avesse da fa’ male”. Era come ai tempi delle vere guerre di religione quando valeva il principio secondo cui “cuius regio, eius et religio” e cioè: ti becchi la religione del tuo re, e zitto. Io ero di reame stracattolico anticomunista e mia nonna e mia zia e mia madre, tutte maestre, a luce di candela di sego fatta in casa, scrivevamo, con penne ad inchiostro col pennino e la carta assorbente, i risultati che diceva la radio su un quadernone ordinatissimo. Si sentiva che quelle elezioni erano per la vita e per la morte. Se venivano i comunisti, dicevano, sarebbero arrivati i russi e ti avrebbero impiccato papà e mamma, è questo che vuoi figliolo? No, padre, non lo voglio. E allora recita cinque pater ave e gloria, figliolo. Sì, padre. Facevo le elementari davanti al Pantheon, alla Palombella e con la stessa maestra Agnese Marcucci che era stata anche l’insegnante di Albero Ronchey: una rossa fiammeggiante con un seno prorompente, papista fascista nazista colonialista carducciana anticomunista. In classe avevamo il compagno Bartoloni, figlio di carbonaro comunista che ogni giorno si avvicinava alla cattedra e diceva: “Ha detto così mi’ padre che appena vincemo lui te viè a piantà ‘a bandiera rossa sulla cattedra e tu devi pià ‘a tessera der partito communista”. Agnese ci prendeva giusto: “Ahm, sì? E allora dì a tu’ padre che si s’azzarda a entrà co la bandiera rossa, lo faccio arestà da le guardie”. E continuavano per ore. Ogni giorno il mio compagno di Banco Alberto Limentani (erano più della metà ebrei di ghetto i miei compagni di scuola sfuggiti alla razzia del 16 ottobre del 1943) ogni mattina mi dava a bere di essere appena rientrato da Israele dove col suo piccolo aereo combatteva la guerra d’indipendenza e faceva volare il suo caccia con una matita incastrata fra mignolo e indice e sparava e io sparavo con lui e morivo d’invidia perché lui diceva parole straniere molto strane e forti. Infatti, le Nazioni Unite avevano autorizzato due Stati, uno ebraico e uno palestinese, ma la Legione Araba aveva vietato lo Stato ebraico e decise di distruggere la cittadella ebraica dove i combattenti erano ragazzini dell’Haganà che venivano dal ghetto di Varsavia. Stalin a quell’epoca sosteneva gli ebrei, ma secondo modalità molto particolari e veramente staliniane: a gennaio aveva fatto eliminare l’attore yiddish Solomon Mikkeli presidente del Comitato ebraico antifascista organizzato dal capo della polizia segreta Berija. Era stato il sottile Suslov, il futuro ideologo a convincere Stalin della slealtà del Comitato che aveva il progetto di dar vita ad una Repubblica ebraica di Crimea. La guerra arabo- israeliana si svolse quasi a mani nude e il segretario della Lega Araba, generale Azzam Pascià proclamò la “Jihad”, o Guerra Santa “come ai tempi delle invasioni mongole o delle crociate”. Il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin Al Husseini, invocò lo sterminio: “Fratelli musulmani, uccidete gli ebrei! Uccideteli dal primo all’ultimo”. A maggio, gli eserciti della Giordania, Egitto, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Libano, Sudan attaccarono Israele. Combatteva anche un contin­gente palestinese. Cominciò quella che gli israeliani chiameranno “Guerra d’indipendenza” ebraica. Più di 500 mila palestinesi fuggirono dalla Palestina cercando rifugio negli stati arabi vi­cini, nella speranza che la guerra contro gli “in­vasori” fosse rapida e definitiva. Gli eserciti arabi furono però inaspettatamente battuti ad uno ad uno dal nuovo esercito israeliano figlio di anni di clandestinità e di alta capa­cità tecnica appresa durante la Seconda guerra mondiale e degli ufficiali ebrei che avevano combattuto nell’esercito britannico e nella resi­stenza europea. Resisteva parzialmente, senza subire una vera disfatta, sol­tanto la Legione Araba dell’emiro Abdullah (o Abd-Allah), alleato ed armato dagli inglesi, guidato da Glubb Pascià, alias generale John Bagot Glubb, ufficiale di carriera inglese, pluridecorato della Prima guerra mondiale, noto come Abu Henek (“mento storto”, a causa di una ferita di guerra). La Legione occupò la Cisgiordania e una parte di Gerusalemme. Con questi nuovi frammenti territoriali lo sceicco Abdullah cambierà poco dopo nome al suo paese chiamandolo Giordania ed assumerà il titolo di re. Nel giugno del 1948 il leader dei comunisti cecoslovacchi Slànsky e il segretario del Partito comunista israeliano Shamuel Mikunis ottennero da Stalin l’autorizzazione a reclutare ebrei per combattere in Israele, ma poi il dittatore cambiò idea e li fece far fuori, compreso Slànsky. A dare il la sarà Ilja Ehrenburg con un articolo sulla Pravda in cui sostenne che gli ebrei sfuggiti all’Olocausto che non avevano scelto Israele erano ormai ansiosi di assimilarsi e aderire con zelo agli emergenti partiti comunisti staliniani”. Scrisse Mastny: “ furono spesso gli uomini preferiti da Stalin per lavori particolarmente sporchi, ma erano anche i più vulnerabili alle purghe una volta esaurito il loro compito”. Il 18 giugno del ’49 fu creato nella Cia, nata l’anno precedente e ancora piena di intellettuali dell’Oss ed ex combattenti antifascisti del “Lincoln Bataillon” della guerra di Spagna, l’Office of Special Projects “per pianificare e condurre operazioni clandestine, in coordinamento con il Joint Chiefs of Staff. Per motivi di sicurezza e di flessibilità operativa, e per ottenere il massimo grado di efficienza, l’ufficio progetti speciali opererà indipendentemente dagli altri componenti della CIA”. Le operazioni “Stay Behind” sono accorpate con le esistenti organizzazioni occidentali per la guerra psicologica e i gruppi di guerra clandestina inglesi e francesi. Usa Gb e Francia sono le sole potenze che nella Nato hanno accesso al “North Atlantic Military Committee Standing Group”, creato per coordinare “Stay Behind”. Questa operazione verrà poi esposta pubblicamente da Giulio Andreotti nel 1990 con il nome di codice italiano di “Gladio” e sarà al centro di un grande scandalo spionistico e politico. Chi adesso pagava veramente era la povera Cecoslovacchia, con un governo democratico legittimo, sottoposta alle cure del colpo di Stato Comunista. Stalin non scherza, l’America non scherza. In Italia c’è il grosso problema delle armi nascoste del Pci e la paventata capacità di mobilitazione. Molti partigiani si comportano come gli americani dopo la rivoluzione quando fu approvato il secondo emendamento: abbiamo diritto di portare le armi per difendere la democrazia, nessuno ci può disarmare. Questo fu il primo serio compromesso storico. La Dc in particolare accettava una smilitarizzazione graduale del Pci che mandava in bestia americani e inglesi. Esistevano convenzioni politiche e regole non dette. Togliatti garantiva che non ci sarebbero state insurrezioni, il ministero degli Interni in cambio non faceva troppi rastrellamenti. Dare tempo al tempo, era la massima. Ma intervennero molto fatti nuovi. La Costituzione entrò in vigore, e questo fu un fatto stabilizzante. Socialisti e comunisti si ritrovarono all’opposizione, e questo fu destabilizzante anche se previsto e poi ci fu l’attentato a Togliatti, segretario del PCI, ex numero due del Comintern a Mosca, ex responsabile sovietico nella guerra di Spagna dove si era occupato di far fuori trotskisti e anarchici, più che fascisti e franchisti e recuperare il tesoro spagnolo con cui farsi pagare gli armamenti sovietici. Dalla Spagna Togliatti era stato richiamato per firmare le condanne a morte del gruppo comunista dirigente polacco liquidato per spianare la strada della spartizione della Polonia tra nazional socialist tedeschi e comunisti russi. Davide Lajolo, direttore dell’Unità, ricordò: “Quando gli chiesi perché firmò quelle condanne ingiuste, rispose: se non l’avessi fatto, mi avrebbero ucciso e avrebbero comunque eseguito le condanne. A che cosa sarebbe stata utile la mia morte?”. Togliatti nel 1943, spinto a tornare da Mosca in Italia per ordine perentorio e notturno di Dimitrov, il numero uno dell Comintern, su ordine di Stalin, gli disse che occorreva in Italia un partito nuovo, largo, accomodante, aperto a tutti, non settario e che smussasse tutti gli angoli che rallentavano l’ultimo sforzo bellico contro Berlino: e fu il” partito nuovo” della volta di Salerno. Ma nel 1948 era cambiato tutto davvero e per sempre. Ovest contro Est, due patti militari opposti. La guerra perenne in Medio Oriente. La certezza che una prossima guerra fosse questione di anni, forse mesi. E che saremmo probabilmente stato inghiottiti nel sistema sovietico che non sembrava poi così allettante. Ma Stalin era popolarissimo, era l’angelo vendicatore, era la mano della giustizia, era un duro dalla parte dei poveri e dei derelitti. Non importava se fosse il più grande serial killer della storia (cosa che si sarebbe saputo soltanto con il XX Congresso del PCUS del 1956) e tutti erano gli uni contro gli altri armati: famiglie, regioni, credenti e miscredenti, c’era voglia di delazione e voglia di mangiare senza fondo. L’obesità dilagava. Non era praticata alcuna forma di rispetto reciproco. La guerra mentale era quanto di meglio potesse sostituire la guerra fisica. I prigionieri di guerra non si rivedevano. La gente scherzava e rideva e aveva voglia di dimenticare, di essere sguaiata, di fare sesso, di chiudere finalmente tutte le partite del dolore, ma quando queste cicatrici copriranno le ferite, nessuno se ne ricorderà più perché quella generazione stava già morendo e non lo sapeva.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1948

1 gennaio. Entra in vigore la Costituzione Repubblicana.

30 gennaio. Un estremista uccide a revolverate Gandhi, l’uomo che ha conquistato l’indipendenza dell’India dagli inglesi e il leader mondiale della nonviolenza.

22 febbraio. Golpe in Cecoslovacchia. Il partito comunista assume il potere.

18 aprile. Si vota in Italia. Lo scontro è tra la Democrazia Cristiana di De Gasperi e il Fronte Popolare che unisce i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni. Vince la Dc ottenendo quasi il 49 per cento dei voti (mai nessun partito, da solo, arriverà a questo successo record); il Fronte Popolare si ferma al 31 per cento.

1 maggio. In Grecia vengono fucilati 213 partigiani comunisti.

11 maggio. Luigi Einaudi, liberale, ministro del Bilancio e governatore della Banca d’Italia, viene eletto Presidente della Repubblica. Il suo nome viene scelto da De Gasperi dopo che il candidato ufficiale del partito, Carlo Sforza, era stato azzoppato dai franchi tiratori della sinistra Dc. Einaudi riunisce la Dc, ottiene il voto di liberali e socialdemocratici e sconfigge Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre.

14 maggio. Nasce lo stato di Israele.

5 giugno. Si apre il processo contro Rodolfo Graziani, capo delle forze armate nella Repubblica di Salò. Viene condannato a 19 anni di prigione, dei quali 17 condonati.

24 giugno. Le autorità filosovietiche della Germania Orientale proclamano il blocco di Berlino.

14 luglio. Uno studente di 24 anni, Antonio Pallante, spara cinque colpi di pistola a Togliatti ma non lo uccide. Disordini, incidenti, proteste violente in tutt’Italia. Togliatti, prima di entrare in Camera operatoria, raccomanda al suo partito di mantenere la calma.

30 settembre. Esce nelle edicole il fumetto Tex.

2 novembre. Rovesciando i sondaggi Henry Truman, democratico, viene rieletto presidente degli Stati Uniti, sconfiggendo il repubblicano Thomas Dewey.

10 dicembre. Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo.

Storia d’Italia, 1949: l’anno in cui diventammo il paese cerniera della Guerra Fredda. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Ricordo me stesso nel 1949 spaventato all’uscita di scuola perché non sapevo come digerire la notizia: la squadra del Torino, tutta quanta, era morta. Precipitati in aereo sulla collina di Superga. Era una notizia eccessiva come la guerra e non potevo separarmi dalle immagini delle figurine di quei giocatori e dal fatto che fossero morti. Gli anni, quegli anni, diventavano giorno dopo giorno più terribili. Poi, dopo, a decenni di distanza tutti avrebbero usato queste parole insignificanti come ricostruzione, pacificazione, democrazia, miracolo economico. Non c’era ancora nulla, nel 1949. La società che ricordo era mentalmente settaria e violenta, tutti molto aggressivi e ognuno con un suo conto da regolare, politico o umano.Tutte le famiglie o quasi erano uscite distrutte dalla guerra e la spaccatura della guerra fredda ci passava per le ossa. nelle famiglie, a tavola. Mia nonna si vantava di aver sfilato di tasca a suo figlio una copia de l’Unità. ma quell’anno, il 1949, fu un annus terribilissimus perché la guerra, quella prossima, era nell’aria e sembrava cosa fatta. L’America aveva rotto con la Russia e così la Francia e l’Inghilterra. Noi italiani non contavamo nulla, ma quando i grandi dell’Occidente decisero di formare un’alleanza anti-sovietica che si sarebbe chiamata “Alleanza Atlantica”, il governo De Gasperi chiese e anzi supplicò di accettarci fra i soci fondatori. Scoppiò la rivoluzione. A sinistra. I comunisti si indignarono: questa nuova roba atlantica altro non era che l’ennesima crociata contro i comunisti che hanno salvato il mondo dai nazisti: è un tradimento, una mascalzonata, un attentato contro la pace, la democrazia eccetera. Le cose non stavano proprio così: tutta l’Europa dell’Est, che Stalin aveva prima trattato con Hitler nelle clausole segrete del Patto di Non Aggressione dell’agosto del 1939 e che poi si era fatto riconfermare da Churchill e da Roosevelt, era stata sì assegnata come “zona d’influenza” all’Unione Sovietica, ma a condizione che la democrazia rappresentativa e le libertà fondamentali fossero state garantite. Invece nel 1948 un colpaccio di Stato aveva instaurato la dittatura del partito a Praga e lo stesso era successo in tutti gli Stati che da allora in poi furono chiamati “satelliti”. Inoltre, lo scisma del maresciallo Tito aveva sottratto all’impero sovietico la grande Jugoslavia che restava un Paese comunista, sì, ma “diverso”: molto legato agli inglesi, aperto al turismo occidentale, ma più che altro con l’arma al piede, se a Stalin fosse saltato in mente un colpo di mano: gli jugoslavi erano stati i soli, sia pure con un potente aiuto inglese (un figlio di Churchill collaborava strettamente con Tito) a vedersela con i tedeschi. Il fatto che Tito fosse ora l’uomo nero per Mosca e per tutti i comunisti ortodossi permise a Palmiro Togliatti di reclamare a gran voce il ritorno di Trieste all’Italia. Intanto, l’Italia – Paese che non era per nulla ben visto in Occidente – fece nel 1949 una pessima e maleodorante figura: un’inchiesta americana sul modo in cui venivano spesi dai Paesi beneficiari i soldi del piano Marshall, rivelò che l’Italia li stava sperperando in regalie per gli amici, giochi di potere e correnti, nulla di strutturale ma anzi di molto personale e vagamente mafioso. Fu uno scandalo internazionale che mise in grandissimo imbarazzo il nostro governo che balbettò, promise, face la faccia feroce e cercò di recuperare ancora una volta l’onore perduto. Ma nel frattempo avevamo, come Paese, guadagnato una posizione nuova e invidiabile che ci avrebbe reso moltissimo per mezzo secolo sotto ogni punto di vista, in particolare perché ci avrebbe permesso di giocare, secondo le circostanze con il piede in due staffe. Eravamo diventati il Paese cerniera e questo ci avrebbe dato molti vantaggi. Il fatto di avere il più grande partito comunista dell’Occidente, per di più un partito influente a Mosca e composto da un gruppo dirigente disciplinato in cui non prevalevano le teste calde che avrebbero voluto passare dalla Resistenza alla rivoluzione, era un fattore d’interesse anche per gli alleati. Interesse e pericolo allo stesso tempo. Il Papa, il principe romano Eugenio Pacelli, era un anticomunista oltranzista. Fece un pubblico discorso in cui dichiarò che santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica Romana era perfettamente d’accordo sull’Alleanza Atlantica che avrebbe tenuto a distanza i comunisti russi, considerati come il maggior pericolo per il genere umano. Gran parte del Partito socialista guidato da Pietro Nenni (allora molto stalinista che poi avrebbe capovolto la sua posizione restituendo il Premio Stalin che aveva ricevuto) si infuriò contro il Patto Atlantico e in molti gridarono in Parlamento che un’alleanza contro l’Unione Sovietica era da considerare come uno schiaffo al Paese che più di tutti aveva contribuito alla sconfitta del nazismo e ne nacquero molti tafferugli in aula. L’anno precedente erano stati infatti ritrovati a Berlino nella Wilhelmstrasse i documenti originari del cosiddetto “Trattato di non aggressione” fra Terzo Reich nazista e Unione Sovietica, contenenti le clausole segrete che prevedevano l’immediato intervento russo nell’invasione della Polonia (come accadde il 17 settembre del 1939) e l’attribuzione all’Urss dei tre Paesi baltici, Bessarabia, Romania e mano libera in Finlandia. I sovietici negavano ad alta voce e soltanto Michail Gorbaciov nel 1989 confermò che le clausole erano autentiche e che dunque l’Urss aveva tecnicamente iniziato la seconda guerra mondiale dalla parte tedesca. Nel 1949 nessuno era appassionato alla scoperta della verità, ma tutti avevano il coltello fra i denti, per cui il clima politico e nelle strade e nelle famiglie diventò violento, con tafferugli. In Parlamento l’ambiente era rovente, i discorsi erano tutti retorici e minacciosi, ma i numeri erano numeri e alla fine il Patto Atlantico passò e l’Italia entrò in quella che poi si chiamerà la Nato (Trattato dell’organizzazione del Nord Atlantico, benché fossimo nel Sud mediterraneo). L’Italia era diventata anche la terra delle spie perché Paese di frontiera fra Est ed Ovest e perché eravamo anche nel pieno crocevia del Medio Oriente. Abbiamo già raccontato quel che era accaduto nel 1948, quando le Nazioni Unite dettero mandato per la nascita di due nuovi Stati, uno ebraico e uno arabo palestinese, ma che quest’ultimo fu respinto con sdegno dalla Lega Araba che cercò distruggere il focolaio ebraico con tutti gli eserciti disponibili, restando alla fine battuta dal giovane Stato israeliano pieno di giovani che si erano battuti in Europa contro i nazisti. Era appena terminato l’esodo arabo dal nuovo Stato di Israele da cui erano fuggiti in 720 mila arabi che vivevano nelle regioni bibliche della Giudea e Samaria.In Israele i nuovi dirigenti Ben Gurion e Golda Meir tentarono di convincere gli arabi a restare rendendosi conto che si stava aprendo una piaga che non si sarebbe più riemarginata. Soltanto frange terroriste ebraiche spingevano verso la cacciata degli arabi, seguendo una linea di condotta sanguinaria che si era già mostrata con l’eccidio di Yeir Dassin. Gli arabi che accettarono di restare ottennero una cittadinanza pari a quella dei cittadini ebrei, con alcune limitazioni, come il non obbligo di prestare il servizio militare. Ma fino ad oggi gli arabi musulmani anti-israeliani cittadini dello Stato di Israele sono gli unici arabi musulmani con diritto di voto attivo e passivo, diritto di formare partiti, pubblicare e leggere quel che vogliono. I palestinesi dell’esodo che avevano lasciato i luoghi in cui nasceva Israele furono accolti con profonda ostilità dagli Stati arabi e furono costretti a concentrarsi in campi profughi dove diventarono di fatto il più potente strumento di pressione per ogni trattativa con Israele, strumento per pressioni reciproche e per i combattimenti contro gli israeliani. Intanto, centinaia di migliaia di ebrei che vivevano (anche da duemila e cinquecento anni) nei Paesi arabi, si spostano in Israele. Si registrano attacchi alle comunità ebraiche ad Aden, in Egitto, Libia, Siria e Iraq, dove il “sionismo” diventò un reato punito con la pena capitale. Il bilancio del primo rientro ebraico nei confini palestinesi fu di circa seicentomila persone che sostituirono, più o meno, gli arabi fuggiti. Seguirono degli armistizi di cui solo alcuni si trasformarono in trattati di pace, con l’Egitto, il Libano e la Giordania che si annesse la Giudea e la Samaria con il consenso dell’Inghilterra e del Pakistan, quest’ultimo un nuovo Paese di religione musulmana emerso dall’indipendenza dell’India dall’impero britannico. L’Italia si trovava a far parte di uno scacchiere che prevedeva uno stato di guerra più o meno permanente tra Israele e gli Stati arabi, con un nuovo elemento: il petrolio. L’Italia stava per liquidare una vecchia azienda di Stato che risaliva all’epoca fascista per uso agricolo, l’Ente nazionale Idrocarburi, l’Eni, quando furono trovati giacimenti di gas e petrolio in Italia e il nuovo capo dell’ente, Enrico Mattei, si improvvisò manager di una azienda che avrebbe combattuto da parti a pari con le “Sette sorelle” del petrolio mondiale e che avrebbe avuto un ruolo nuovo ed essenziale nella politica estera italiana, tutta volta allo sfruttamento delle risorse di gas e petrolio sullo scacchiere mediorientale. L’Italia aveva appena scoperto di aver posseduto con la Libia, ormai indipendente, il più grande lago di petrolio del mondo, ma si stava rifacendo con una politica molto sfrontata, aggressiva, quasi del tutto indipendente dallo stesso governo italiano. Nel mese di agosto arrivò la sorpresa tanto temuta: gli Stati Uniti perdevano ufficialmente il primato di unica potenzia atomica del mondo, perché l’Unione Sovietica faceva esplodere la sua prima bomba. L’Occidente non ne fu poi così scioccato. Si sapeva da anni che i sovietici seguivano gli americani a poca distanza e gli esperti statunitensi affermarono che il contributo spionistico offerto dai coniugi Rosenberg e di altri circa duecento agenti aveva accelerato il processo. Questa novità benché attesa e temuta strappava agli Stati Uniti un potere implicito anche se mai dichiarato: quello di poter inferire il primo colpo, senza dover attendere una risposta di parti intensità. Gli americani avevano dalla loro un buon nucleo di scienziati tedeschi portati negli Stati Uniti, capeggiati da Von Braun che era stato l’inventore dei missili “V2” con cui la Germania aveva bombardato Londra e che guiderà la ricerca spaziale americana fino alla conquista della Luna. Fra russi e americani circolava la battuta “i nostri scienziati tedeschi sono migliori dei vostri”. Intanto, un evento di portata mondiale e millenaria, se è ancora lecito usare aggettivi tanto pomposi, si concluse quell’anno: la Cina, questo enorme Paese eternamente malato, eternamente conquistato, frazionato, povero, dominato da dinastie e da stranieri (anche l’Italia aveva a Shangai la sua rappresentanza militare come ogni Paese occidentale coloniale) era stata conquistata dall’esercito popolare di Mao Zedong che proclamò la Repubblica Popolare Cinese. Il secondo Stato comunista del mondo diventato tale per una sua evoluzione e rivoluzione interna, dopo l’Unione Sovietica. La vittoria di Mao fu salutata come il più grande evento del dopoguerra da tutte le sinistre mondiali, anche in considerazione del fatto che sia Mao che gli uomini del suo Stato maggiore, fra cui Ciu Enlai (suo potente e coltissimo ministro degli esteri) venivano da una covata intellettuale che si era sviluppata in Francia, alla università della Sorbonne e persino negli Stati Uniti, dove un altro leader, il futuro presidente del Vietnam Ho-Chi-Minh, aveva lavorato per anni come cameriere studiando l’opera di Lincoln. La Cina era stata invasa dal Giappone negli anni Trenta che aveva creato uno stato cinese fantoccio in Manciuria, ai confini con la Siberia sovietica, dove proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale si registrarono feroci scontri tra giapponesi e sovietici. Si formarono così due eserciti cinesi di resistenza contro il Giappone: quello di Mao e quello nazionalista filoccidentale del maresciallo Chang-Kaishek che combatterono insieme contro gli invasori nipponici e poi si scontrarono fra loro e il vincitore fu il comunista Mao, al termine della sua “lunga marcia” durata ben nove anni spesi arruolando contadini. Il maresciallo sconfitto si ritirò nell’isola di Taiwan, che ancora veniva indicata con il nome coloniale di Formosa. Lì Chang governò mantenendo in piedi un esercito con cui sognava di tornare sul continente e riconquistare Pechino. Dopo la sua morte, Taiwan diventò un protettorato americano, ma dal punto di vista del diritto internazionale nessuno obiettò che l’isola apparteneva alla Cina che proprio oggi la rivendica con grande energia, come ha fatto per l’ex colonia britannica Hong Kong. Taiwan, insieme a Singapore, Hong Kong, la Cambogia e il Vietnam (per non dire dell’Australia) costituisce la più lacerante ferita nel fianco del regime di Pechino. Quando ero un giovane giornalista nel 1963 nella redazione de l’Avanti! ci davamo appuntamento ogni mercoledì e venerdì davanti alle telescriventi intorno alle 15 perché a quell’ora ogni settimana dell’anno, le batterie costiere cinesi bombardavano i disabitati scogli di Quemoy e Matsu, i più vicini a Taiwan, in segno di “grave avvertimento” del popolo e dell’esercito della Repubblica cinese. Ricordo che a quell’epoca era d’uso festeggiare l’evento brindando con pessimo spumante a temperatura ambiente.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1949

25 gennaio – Ben Gurion è eletto primo ministro di Israele.

3 febbraio – Inizia il processo a Budapest al cardinale Jozsef Mindszenty. Accusato di spionaggio. Ergastolo.

5 febbraio – Negli Stati Uniti viene pubblicatoil rapporto Hoffman. L’Italia è accusata di aver sperperato i fondi dle piano Marshall. In particolare è sotto accusa la decisione di Fanfani di dare alcuni miliardi all’Ina Casa per costruire case popolari.

5 marzo – L’ex procuratore generale dell’Urss Andrej Vysinskij diventa ministro degli esteri al posto del mitico Molotov. Anche Vysinskij è mitico: è il Pm che ha fatto condnanare a morte decine di alti dirigenti del partito, compreso Bucharin.

11-20 marzo – L’Italia aderisce al patto atlantico (NATO). Contrarie le sinistre. Dissensi nella Dc. Votano contro due nomi eccellenti: Luigi Gui e Giuseppe Dossetti.

4 Maggio – L’aereo sul quale viaggia la squadra di calcio del Torino – quella di Valentino Mazzola – si schianta sulla collina di Superga. Muoiono tutti: giocatori accompagnatori, giornalisti.

14 maggio – Riammessi al lavoro i dipendenti statali ex fascisti.

23 maggio –  Nasce la Repubblica Federale tedesca.

14 giugno – A Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, viene scoperto un gigantesco giacimento petrolifero. All’Eni inizia l’era Mattei.

29 agosto – L’Urss annuncia di aver costruito la bomba atomica.

1 ottobre- Mao Tse Tung annuncia la nascita della Repubblica popolare cinese.

16 ottobre – Finisce la guerra civile in Grecia. I comunisti sono sconfitti.

6 dicembre – Nasce il quotidiano Paese Sera.

Storia d’Italia, 1950: quando le Madonne piangevano e si cantava Bandiera rossa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Il 1950 lo ricordo per un fiasco. Un fiasco tutto di vetro, senza la paglia esterna, perché era di vetro anche quella. Sul collo del fiasco c’erano in rilievo quattro basiliche. Credo fosse l’anno mariano, o il giubileo, qualcosa di molto importante. Avevo dieci anni. E fu quell’anno in cui mia madre e sua madre, mia nonna Amelia dai capelli rossi come i miei (e di mio padre), mi avvisarono con tono grave e ufficiale che non potevo più essere considerato un bambino, ma un “fanciullo”. Propri così dissero: fanciullo. Parola che nel frattempo è morta. Godi fanciullo, stagion lieta è codesta. O i due fanciulli del Pascoli che se le davano di santa ragione nella pace d’oro dell’ombroso parco con “parole grandi più di loro”. Era l’anno di tante cose, la più terribile fu l’inizio della guerra di Corea che tutti percepirono come il ritorno della Seconda guerra mondiale. Ma colgo l’occasione per dare un’idea di che mondo fosse, perché ho imparato da anziano che se non ci capisce il contesto, non si capisce niente. I bambini erano per la metà figli di contadini con i pidocchi i capelli rasato, le orecchie a sventola e gli occhi bassi per rispetto verso i signori. Tuttavia nel 1950 ci furono sommosse contadine in Calabria per l’occupazione delle terre. Voi non avete idea delle sommosse contadine e per l’occupazione delle terre. I signori calabresi, in genere baroni, se la godevano a Napoli come intellettuali campando di rendita per gli sterminati ettari di sterpaglie da cui il contado doveva tirar fuori pane e companatico per sé e i baroni con villa sopra Posillipo. C’erano i contadini in rivolta e la polizia che interveniva con le camionette. L’ultima volta nel Lazio, ero presente qualche anno dopo, quando vidi uno squadrone di carabinieri a cavallo caricare a sciabola piatta i contadini che avevano occupato le terre incolte. Non ci scapparono morti, ma era un’altra Italia oggi estinta. E l’Italia del 1950 era cattolicissima, ateissima, comunistissima, tutto col superlativo. C’erano molti fascistissimi che si sentivano ancora in divisa e a scuola i compagni di classe figli di un padre soldato o ufficiale facevano il saluto al duce e poi si accapigliavano con quelli che cantavano bandiera rossa. Baffone – Josep Stalin – era ancora il più grande santo di tutte le icone e mezzo Paese contava sul suo avvento, una specie di santa invasione come quella di Mehemet Alì che invase Costantinopoli e tagliò la testa a tutti i cristiani che si erano rifugiati in Santa Sofia. Lo aspettavano a piazza San Pietro dove i cosacchi avrebbero – sceondo la vulgata più accreditata – fatto abbeverare i cavalli nelle fontane del colonnato del Bernini. Ancora non si cantava Bella Ciao, ma solo Bandiera Rossa e L’inno dei lavoratori che diceva: su fratelli, su compagni, accorrete in fitta schiera, sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. C’era una meravigliosa iconografia. La chiesa era tutta in latino, incenso, e apparivano ovunque le Madonne e tutti si davano la voce che c’era un a nuova Madonna alle quattro fontane e tutti andavano di notte coi fari e la vedevano piangere ma poi non risultava sulle fotografie. Mi capitavano degli arruolamenti per servire messa e seguire il baldacchino del Santissimo a San Carlo ai Catinari, che è una chiesa con la più grande collezione di teschi in marmo scolpiti ovunque e dovevi stare attento a dove mettevi i piedi cantando oremus domine non sum dignus orate fratres ideo precor beatam Mariam semper virginem e si andava così con un latino pasticcione e popolaresco che tutti recitavano, anche gli atei e i comunisti perché le iconografie erano vitali tutte, con enormi falci e martello, i rimasugli fascisti, le croci e le madonne. A scuola ci sommergevano di versi di Giovani Pascoli e Giosuè Carducci. Tutto a memoria. Mia madre, seriamente, per il mio compleanno e pensando di riempire un vuoto nella mia cultura e nella sua biblioteca, mi regalò in edizione di pelle e oro zecchino, le “Prose” di Carducci di cui non fregava niente a nessuno, quando invece avevo supplicato di avere un piccolo canotto gonfiabile per il mare. Non esistevano le pinne e ancora neppure la maschera col boccaglio, di cui giravano i primi esemplari fra le scorte dei soldati americani, gomma nera, vetro pesante, tubo di rame e tappo di sughero chiodato. D’altra parte, nel loro conservatorismo i miei mi mandavano in giro – unico e solo – con i pantaloni alla zuava (stretti alla caviglia) perché non avevo ancora l’età adulta del pantalone lungo e nei boyscout chiesero a lungo perché non fosse ripristinata la mantella blu dei tempi della Prima guerra mondiale. La mia maestra delle elementari, che ho già citato e che era una fascistona patriottica rossa anche lei e che fu la maestra anche di Alberto Ronchey con cui poi ce la litigammo nelle memorie, un giorno venne in classe tutta impettita, ci disse di aprire i quaderni, salì sulla cattedra e illuminata dal sole della finestra che dava sul Panteon, annunciò come se avessimo vinto una guerra: “Oggi le Nazioni Unite hanno affidato all’Italia un mandato speciale per l’amministrazione dell’ex colonia della Somalia”. Prendemmo nota con la penna di legno laccato e il pennino cambiabile che si ripuliva con lo straccetto e si intingeva nel calamaio in un buco del pesantissimo banco di quercia massiccia. L’anno prima i miei mi avevano portato a visitare Londra, viaggio in treno, ed ero rimasto sbalordito dal fatto che gli inglesi, che avevano vinto la guerra contro di noi, erano poverissimi dietro le trincee di sacchetti di sabbia, le donne guidavano il tram e per colazione ti davano le aringhe che, con mia sorpresa, trovai adorabili. Da noi si mangiava a quattro palmenti e ci era andata di lusso. Il bandito Salvatore Giuliano, che aspirava sui lavoratori a Portella della Ginestra con la mitragliatrice convinto di servire alti poteri anticomunisti e di potersi far accettare dagli americani, viene fatto fuori a Castelvetrano dal cognato Gaspare Pisciotta e la sua morte è sceneggiata in modo da sembrare l’esito di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Cesare Pavese, poeta e scrittore comunista, l’uomo di un Piemonte immerso in virtuoso silenzio protetto dal mare d’acqua, si uccide con i barbiturici e tutti si chiedono quanto ci sia di politico e quanto di personal eo di ideologico. Dall’America arrivava mensilmente la rivista Selezione dal Reader’s Digest, uno dei più formidabili strumenti di propaganda editoriale che penetra nella società italiana con storie che costruiscono nei lettori una disposizione nostalgica verso l’American way of life, così come faranno i fumetti di Disney firmati da Barker, senza contare il successo mondiale del cartone animato Cenerentola che riprende la lunga interruzione dal primo cartone a colori “Biancaneve” del 1937 di cui notoriamente era pazzo Adolf Hitler. Dall’America arrivavano i primi ritmi di un genere di musica evoluta dal boogie-boogie che poi sarà il Rock’n Roll, ancora in uno stato primitivo, elaborato dalle truppe sui fronti di guerra europei. La guerra di Corea, che non è ancora stata chiusa, fu un evento tremendo. Pochi erano persino al corrente dell’esistenza della Corea, così come più o meno tutti ignorarono l’esistenza della colonia francese del Vietnam che era già in grande agitazione indipendentista. La Corea era stata tagliata in due sul 38mo parallelo in attesa di elezioni generali ma il governo Nord, sotto gestione comunista filocinese, ruppe l’accordo e invase il Sud. Gli Stati Uniti promossero una coalizione dell’Onu guidata da loro con il leggendario generale McArthur che fumava una pipa di canna di mais, il quale riconquistò il Nord ma si trovò contro l’esercito popolare della neonata Cina comunista di Mao Zedong. Fu una guerra atroce e trermenda che l’America non vinse e nella quale morirono non meno di due milioni di soldati, prevalentemente cinesi. Il generale americano chiese il permesso alla Casa Bianca di usare l’atomica e conquistare Pechino., e fu licenziato in tronco. Nel frattempo, il generalissimo Chang Kai-shek, battuto dai comunisti, si imbarcò con tutta la sua armata per Taiwan che conservava il nome coloniale di Formosa, dove costituì una repubblica cinese anticomunista che ancora esiste e che Pechino o rivendica in queste ore come parte integrante della Cina. Lo fa sulla base degli accordi presi con gli americani nel 1978 dopo la rappacificazione avviata dal presidente Nixon con Mao, per mettere i bastoni fra le ruote dell’Unione Sovietica. Avevano tutti una paura dannata della bomba atomica e le dispense si riempivano di scatolette di carne e piselli. In compenso la gente si appassionava ai grandi processi criminali con le paginate sui giornali quotidiani. Il primo fu quello a Rina Fort, accusata di aver soppresso la moglie e i tre figli del suo amante. Un processone in cui furono pronunciate le più ottuse bestialità sulle donne e che comunque si concluse con un ergastolo per l’assassina. La guerra fredda conobbe un nuovo giro di vite: gli Stati Uniti inaugurarono ufficialmente la stagione che prende nome dal senatore Joseph McCarthy della Virginia, secondo il quale l’intera amministrazione statale è infiltrata dai comunisti, che agiscono come se fossero veri americani, ma che in realtà sono la quintessenza del non-americanismo. Bisogna ricordare che in America esiste l’aggettivo unamerican che non vuol dire antiamericano, ma semplicemente non americano. Ciò che suona falso come americano. Escono film su alieni che sembrano perfettamente umani (e americani) ma che hanno un microchip dietro la nuca che li fa agire secondo gli ordini di un mondo che vuole conquistare la Terra e che probabilmente ha la sua centrale a Mosca. Comiunciano i processi contro la maggior parte della gente del cinema e della letteratura, tutta più o meno di sinistra e che aveva vissuto la Seconda guerra mondiale anche come una crociata contro il nazifascismo sentendosi legittimamente alleata con l’Unione Sovietica. Tutti erano stato d’accordo nel deporre un pietoso velo sulla prima alleanza fra Hitler e Stalin dal settembre del 1939 al giugno del 1941, ma il comune sentire era ancora fortemente incline a vedere nella Russia sovietica un grande alleato, che stava trasformandosi in un nemico da arginare e forse da combattere con le armi. Tutti i comics, i réportage giornalistici e una parte del cinema si dedicarono alle malvagità che emergevano dai numerosi orrori che accadevano oltre la “Cortina di ferro” fra i paesi “satelliti” e l’Unione Sovietica. Questa nuova guerra raggiunse rapidamente punte di furore isterico, simmetrico a quello della controparte filosovietica anche in campi apparentemente neutrali come l’arte, la letteratura e l’urbanistica. Il nostro era un Paese cattolico e madonnaro strutturato sulle sezioni territoriali della Democrazia Cristiana, del partito socialista, di quello comunista, le stazioni dei carabinieri e le parrocchie, come nei racconti di Don Camillo di Peppino Guareschi. L’Italia di destra e di sinistra erano riunite in una comune diffidenza verso gli americani perché era chiarissimo che costoro non portavano soltanto pancake, popcorn, coccola, dentifrici, caramelle col buco e vitamine. Gli americani portavano una irresistibile ventata di libertà sessuale, di franchezza sessuale, sempre più esplicita e totalmente estranea alle tradizioni di un Paese come l’Italia che in materia di sesso era ancora totalmente bigotto. La resistenza all’innocente ed esplicito libertinaggio degli americani trovava un fronte curiosamente unito fra estrema destra ed estrema sinistra in Italia, dove Fanfani imponeva alle ballerine della Rai di indossare sulle gambe dei monacali “body” grigi.

Togliatti e i suoi angeli custodi. Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. Uno dei rimproveri era rivolto a Giuseppe Di Vittorio, in quel momento segretario generale della Cgil, la Confederazione generale italiana del lavoro, già perseguitato dal regime fascista, incarcerato, confinato e più avanti eletto all’Assemblea Costituente. Il rilievo mosso nei suoi confronti era: «Il compagno Di Vittorio abbastanza spesso quando deve intraprendere un viaggio in treno preferirebbe partire senza accompagnatore, accusandoci perfino di “dilapidare il danaro della classe operaia” (sic) acquistando biglietti per il compagno che ha l’incarico di seguirlo. Quando egli parte in macchina, specialmente alla volta di Cerignola, se i posti sono occupati da familiari egli lascia a terra l’accompagnatore». Il termine desueto che oggi può far sorridere — accompagnatore — era usato nel 1950 per indicare un militante del Partito comunista addetto alla scorta. Una guardia del corpo, compagnia della quale avrebbero fatto volentieri a meno anche altri dirigenti del Pci. Per esempio Gian Carlo Pajetta, che aveva vissuto in carcere circa tredici anni perché antifascista, e Umberto Terracini, che ne aveva scontati quasi dodici, inoltre sei di confino e poi aveva presieduto la Costituente. «Il compagno Pajetta più volte di sera è uscito senza accompagnatore (...). Spesso il compagno Terracini trova strano che il suo accompagnatore lo segua a teatro e ci va da solo», veniva riepilogato con disappunto. Morale ricavata dalle descrizioni: «Una seria vigilanza mai potrà realizzarsi se i compagni dirigenti considerano i compagni della vigilanza come “nemici”, o come dei poliziotti ai quali bisogna far perdere le tracce».

La relazione di Antonello Trombadori. Contrassegnata dalla dicitura «Riservata», la relazione che contiene queste frasi è datata 25 agosto 1950. Riguarda l’incidente di auto che, tre giorni prima, aveva causato al segretario Palmiro Togliatti un’incrinatura dell’osso frontale e la frattura di una vertebra. Evento con echi internazionali, l’infortunio del 22 agosto di settant’anni fa. Non un banale fatto di cronaca sulla statale tra Ivrea e Pont-Saint-Martin, lungo la quale era finita fuori strada l’Aprilia che portava verso le vacanze in Valle d’Aosta Togliatti, Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa. Che un camion, all’improvviso, avesse deviato il percorso dell’auto era una spiegazione insufficiente per Botteghe Oscure. Quali precauzioni non erano state adottate? Quali errori intralciavano la protezione dei dirigenti? Ne era derivata un’inchiesta, della quale il documento che abbiamo rintracciato nell’archivio del Pci conservato dalla Fondazione Gramsci era parte. A scrivere le otto cartelle fu Antonello Trombadori, responsabile della Commissione di Vigilanza. Le indirizzò alla «Segreteria del Partito». Per coglierne il senso va tenuto presente che due anni prima il Pci aveva due milioni e 99 mila iscritti, era il più grande partito comunista dell’Occidente e il 14 luglio 1948 il suo segretario era stato ferito a colpi di pistola da un attentatore. Il Partito comunista sovietico si era definito «contristato del fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile attacco». Nella ritrosia di alcuni verso l’essere scortati contava il sospetto che certi accompagnatori raccogliessero informazioni sui dirigenti per il vicesegretario del Pci Pietro Secchia e per Mosca invece di lavorare per Trombadori. Analizzato subito da molti, dal ministro dell’Interno all’ambasciata americana in Italia, l’incidente di auto riproponeva una questione simile. Era per dimostrare impegno nel garantire l’incolumità del segretario che la direzione del Pci, dopo l’attentato, aveva istituito la Commissione di Vigilanza. E la sicurezza mancata all’Aprilia sarebbe stata tra gli argomenti impiegati da Stalin, a fine 1950, per motivare la sua proposta di mandare Togliatti a Praga per guidare il Cominform, la struttura erede dell’Internazionale comunista. Un’offerta respinta dall’interessato. Già partigiano nei «Gruppi di azione patriottica», tanto colto quanto incline a romanesco sarcasmo, Trombadori nella relazione ricorse ai toni richiesti dalle circostanze. Seri. Alla segreteria consigliò: «Quale che sia la versione ufficiale che si preferisce dare alle cause del sinistro noi dobbiamo, in sede di lavoro, guardare in faccia alla realtà e riconoscere che soltanto l’elevata velocità (oltre i cento all’ora) e la sottovalutazione dell’ostacolo potevano provocare quanto è accaduto». L’incidente veniva addebitato a «inammissibile leggerezza dell’autista compagno Aldo Zaia». Con un’aggiunta indicativa di quanto i segretari di partito del tempo fossero potenti eppure non indiscussi, tuttavia, Trombadori metteva agli atti di aver chiesto in precedenza la sostituzione di Zaia e che era stata rinviata tra l’altro «perché il compagno Togliatti non riteneva pienamente giustificata la misura». Nessuno sapeva, allora, che in ottobre il segretario sarebbe entrato in coma e sarebbe stato salvato da un’operazione chirurgica al cervello. Tanti testi possono far conoscere che cosa sono stati i partiti di massa della cosiddetta «Prima Repubblica», interventi pubblici, resoconti di riunioni e così via. Ma uno spaccato eloquente è in questa relazione. Nella quale si osservava: «Soltanto apparentemente il compito di accompagnatore di Togliatti può essere simile a quello di una sentinella, in realtà quello che conta molto è la capacità che quest’uomo ha per far vivere insieme senza attriti i due autisti, i guardiani della casa, ecc, e lo spirito di iniziativa (...)». In altre parole, occorrevano capacità politiche. Anche per essere «accompagnatori».  

Marta Cartabia: «De Gasperi, riparatore di brecce e restauratore di case in rovina…». su Il Dubbio il 20 agosto 2020. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. «Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi». Questo splendido passo di Isaia (Is 58,12), a me molto caro, ci introduce al tema scelto con grande lungimiranza dagli organizzatori per la Lectio degasperiana di quest’anno: «Ricostruzione e Costituzione». La parola ricostruzione risuona da mesi nella riflessione pubblica ed è risuonata nel corso di questa estate, specie nelle ultime settimane, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ricostruito, appunto, dopo la tragedia del crollo di due anni fa. In quella occasione, l’architetto Renzo Piano, che ha donato il progetto del nuovo ponte, nel suo intervento di saluto, ha espresso, con parole bellissime, pensieri profondi da cui desidero prendere le mosse per la nostra riflessione odierna. Anzitutto, ha osservato, la ricostruzione è sempre figlia di una tragedia, di una frattura che non si cancella e non si dimentica; una ferita che non si rimargina – come ha sottolineato il Presidente della Repubblica nella medesima occasione – e diventa l’essenza stessa di quello che saremo. La ricostruzione incorpora, dunque, un passato che non si può ripristinare così come era, ma richiede un rinnovamento. Per ricostruire occorrono un’idea e un cantiere, prosegue l’illustre architetto e senatore. Un’idea, per dare forma a ciò che non l’ha più. Un cantiere, per realizzare quell’idea attraverso il lavoro, l’opera instancabile e tenace di una comunità di persone. 2 Similmente, la ricostruzione dell’Italia dopo la catastrofe alla fine della Seconda guerra mondiale, ha richiesto un ideale – che ha la stessa radice etimologica di idea – e un lavoro nato dal coinvolgimento di un popolo. In quella ricostruzione Alcide De Gasperi svolse un ruolo preminente, come uomo di pensiero e di azione. Anche allora c’erano tragedie, fratture, macerie e ferite non rimarginabili; anche allora fu necessaria un’idea per ridare forma nuova alla convivenza civile di un popolo disorientato; anche allora fu necessario un grande cantiere per ricostruire su solide fondamenta la casa comune. Oggi, come allora, – superate le fasi più acute dell’emergenza innescata dalla pandemia – siamo alle prese con una ricostruzione, avviata quando si è incominciato a pensare al “dopo”. A un “dopo” che difficilmente potrà assumere la forma di un semplice ritorno al “prima”, sia pure dopo una parentesi lunga, dolorosa e straniante, ma pur sempre una parentesi. In questo frangente, è più che mai fecondo riandare alle fonti della storia. (…).In questa prospettiva, ricco di spunti di riflessione anche per il nostro oggi è il percorso di un uomo, qual è Alcide De Gasperi, che ha fatto della ricostruzione una delle sue principali preoccupazioni e, soprattutto, il metodo della sua azione politica; un uomo che, non a caso, ha operato da protagonista sulla scena pubblica proprio in quel decennio della storia d’Italia che viene usualmente denominato «periodo della ricostruzione» dopo le guerre e il fascismo. Significativo è che il documento più organico in cui si possono rintracciare le linee di pensiero e di azione di Alcide De Gasperi rechi il titolo «Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» del 1943. Egli contribuì alla ricostruzione con pensiero e azione: idee e cantieri, per riprendere ancora la felice immagine usata da Renzo Piano. Il contributo di De Gasperi alla ricostruzione non può essere compreso disgiungendo questi due aspetti, che in lui furono sempre uniti. Il primo è quello più propriamente di pensiero, che egli ebbe modo di elaborare in particolare durante il periodo dell’“esilio” in Vaticano e del lavoro condiviso con gli esponenti del Partito Popolare e con i giovani che avevano preso a riunirsi dall’inizio del 1940 a casa di Sergio Paronetto. Qui si era incominciato a ragionare seriamente di ricostruzione. Tra le personalità che partecipavano a questi incontri, che sarebbero poi scaturiti nella redazione del Codice di Camaldoli del 1943, vi erano oltre allo stesso De Gasperi, anche Guido Gonella, Giuseppe Spataro, Mario Scelba, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari Aggradi e infine anche Giulio Andreotti. (…)La sua azione ricostruttiva, dunque, si muoveva contestualmente su una pluralità di piani e rispondeva a una «visione integrale» dei bisogni che urgevano. Tutt’altro che secondaria per lui fu altresì la componente morale e culturale. Il suo imponente “cantiere ricostruttivo” portò a risultati tangibili, da più parti qualificati come prodigiosi nella storia d’Italia e d’Europa, perché egli non trascurò mai il “fattore umano” nella sua integralità, convinto che «più che i programmi contano gli uomini che sono chiamati ad attuarli». (…)Veniamo più da vicino al tema della nostra riflessione che è «Ricostruzione e Costituzione»: ed è sul terreno costituzionale, a me più familiare, che intendo rimanere saldamente ancorata. È bene però sin da subito sottolineare che per comprendere il contributo così ricco e articolato, come quello che offrì De Gasperi alla ricostruzione costituzionale, occorre affrancarsi da una nozione meramente testualistica di Costituzione per abbracciarne una più ampia e ricca, che include la prima, ma non si esaurisce in essa. Le costituzioni nascono dalla storia e vivono nella storia. Il momento della scrittura di una costituzione è un momento epico nella vita di un popolo; eppure, solo con la scrittura, la Costituzione non può garantire se stessa. Occorrono soggetti sociali, politici e istituzionali che siano in grado di conferire alle scelte costituzionali solide fondamenta e radici robuste, capaci di reggere all’urto delle intemperie. Per questo rimane attuale l’intuizione fondamentale di Costantino Mortati che ci ha consegnato una nozione complessa di costituzione, risultante tanto dal testo scritto – la Costituzione formale – quanto dai rapporti tra le forze sociali e politiche – la Costituzione materiale. Ed è proprio su questo piano che si può apprezzare il lascito di De Gasperi. Infatti, chi si basasse solo sul processo di scrittura della nuova carta costituzionale, cioè si affidasse solo lettura dei lavori dell’Assemblea costituente, ne trarrebbe l’impressione di una assenza o di una presenza assai parsimoniosa: fatto salvo un intervento importante al momento dell’approvazione del futuro articolo 7 della Costituzione sui rapporti con la Chiesa cattolica, si annoverano altri due brevi interventi, all’inizio e alla fine dei lavori, e niente più. Se paragonato al contributo degli altri cattolici eletti in Assemblea costituente – Dossetti, La Pira, Moro, solo per citare alcuni nomi eminenti – l’apporto diretto di De Gasperi alla scrittura della carta costituzionale appare assai contenuto. Eppure, non errano quegli osservatori italiani e stranieri che attribuiscono un ruolo di spicco allo statista trentino in tutta la fase costituente. In anni recenti, un autorevolissimo osservatore esterno al dibattito politico italiano non esita a definire De Gasperi come vero e proprio leader carismatico della svolta costituzionale italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si tratta di Bruce Ackerman, eminente costituzionalista dell’Università di Yale, che nella sua più recente opera che indaga sulle origini e sulla legittimazione delle Costituzioni contemporanee riserva un ampio spazio alla nascita della Costituzione (…)La sua fu un’opera di “coibentazione” e consolidamento delle istituzioni repubblicane e della nascente democrazia, attraverso un’azione di politica interna ed estera che si svolse parallelamente ai lavori dell’Assemblea costituente, per assicurarne la permanenza al di là del mutare dei governi. De Gasperi aveva visto in prima persona cadere sotto i colpi del fascismo non solo il costituzionalismo italiano, ma anche la Costituzione di Weimar del 1919, avanzatissima nei suoi principi, ma fragilissima nella sua struttura, in cui non si era riusciti a trasferire al nuovo sistema politico la lealtà degli apparati del vecchio: un fallimento, quello di Weimar, che spianò la strada al nazionalsocialismo e all’ascesa di Hitler in Germania. (…)«Il Governo ora, fatta la Costituzione, ha l’obbligo di attuarla e di farla applicare: ne prendiamo solenne impegno. Noi tutti però sappiamo, egregi colleghi, che le leggi non sono applicabili se, accanto alla forza strumentale che è in mano al Governo, non vi è la coscienza morale praticata nel costume». De Gasperi veniva da lontano e guardava lontano: per questo vedeva nella stabilizzazione nazionale, europea e internazionale il necessario complemento all’operazione costituente, che egli perseguiva con la sua azione di governo, distinta ma parallela ai lavori della Costituente. Collocato in questo contesto di più ampio respiro, il numero limitato dei suoi interventi diretti ai lavori dell’Assemblea costituente è, dunque, un indicatore scarsamente significativo per valutare la reale incidenza che il pensiero e l’azione di De Gasperi spiegarono sulla configurazione del nuovo ordine costituzionale. Al contrario, la fase costituente fu segnata profondamente dalla sua azione. Tra l’altro, egli contribuì con un apporto decisivo ad alcune fondamentali scelte di metodo che agevolarono la transizione, permettendo che la Carta costituzionale fosse scritta in tempi relativamente brevi e soprattutto in un clima pacifico e collaborativo fra tutte le forze politiche antifasciste, anche nei momenti più critici e di maggior tensione. Si possono evidenziare tre punti: anzitutto la scelta per la Costituente in luogo del metodo insurrezionale; in secondo luogo la decisione a favore del referendum istituzionale; infine, la delimitazione dei poteri dell’assemblea costituente, escludendo dal suo campo di intervento l’azione di governo e la legislazione ordinaria. Sul primo fronte, occorre osservare che sin dall’epoca delle discussioni in sede di CNL si fece fautore dell’idea di una Assemblea costituente in opposizione all’ipotesi insurrezionale avanzata dai socialisti. Famose sono le dichiarazioni che egli pronunciò in sede di CNL: «Non temo la parola rivoluzione, ma ne ho fastidio dopo venti anni che il fascismo, richiamandosi ai diritti della rivoluzione, ha commesso tante soperchierie e violato i diritti dei cittadini. Ad ogni modo la vera rivoluzione è la Costituente». La vera rivoluzione è la Costituente. De Gasperi è lapidario. Le sue parole lasciano intendere che sullo sfondo si svolgeva una discussione condizionata dalla dicotomia restaurazione–rivoluzione, come se l’alternativa che si poneva alla fine del fascismo fosse un aut-aut: o un ritorno al passato, o un sovvertimento radicale, una palingenesi sociale da imporsi con il metodo insurrezionale. De Gasperi non si fa intrappolare nell’alternativa tra nostalgie e utopie. Dal punto di vista metodologico egli prediligeva la strada della ricostruzione, una terza via alternativa tanto alla mera restaurazione quanto alla radicalità della rivoluzione. E tale via passava attraverso una Costituente, democraticamente eletta. Il suo obiettivo era di assicurare alla nascente democrazia una prospettiva stabile e proiettata a lungo nel futuro, ben oltre il momento epico della fase costituente, cosa che la rivoluzione non era in grado di assicurare: «noi siamo preoccupati soprattutto di salvare nel futuro lo Stato democratico noi desideriamo il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione». Altrettanto netta è la sua posizione quanto al metodo per risolvere la questione istituzionale, nella scelta cruciale tra monarchia e repubblica. Questa alternativa era fortemente lacerante sul piano politico, lungo vari crinali che dividevano il paese. Per questo, la sua proposta fu sempre chiara nel voler sottrarre questo compito gravoso all’Assemblea costituente. Il nodo tra monarchia o repubblica doveva essere sciolto con un voto diretto da parte del popolo. (…)Il favore di De Gasperi per il referendum istituzionale era mossa anche dall’obiettivo di evitare che l’ombra della discussione su un punto così controverso, si proiettasse sui lavori dell’Assemblea costituente, avvelenandone il clima. (…). Egli non volle mai caricare l’Assemblea costituente delle funzioni di legislazione ordinaria, che vennero portate in capo all’esecutivo. Le uniche eccezioni erano costituite dalla legislazione elettorale e quella di ratifica dei trattati internazionali 9 Ciò si rivelò provvidenziale giacché permise di mantenere il clima di collaborazione fra tutte le forze politiche all’interno dell’Assemblea costituente anche nel corso del ’47, quando il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti portò a un progressivo inasprimento dei rapporti con i comunisti, culminato, nel maggio del medesimo anno, con la loro esclusione dal governo. Erano i mesi decisivi per la conclusione del Trattato di pace e, allo stesso tempo, per il perfezionamento del testo costituzionale. Le tensioni di quel momento sono impresse nella memoria di tutti per la forza delle parole con cui prese l’abbrivio il suo famoso discorso a Parigi al Palazzo del Lussemburgo, di fronte ai delegati delle potenze vincitrici: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. ho il dovere di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista ». A Parigi, come già a Londra, si trovò in un ambiente di freddezza e di sospetto. Ma parlò con nobiltà, come rappresentante dell’Italia, ma dell’Italia democratica; come uno che per la libertà aveva patito. (…)Questi tre interventi – l’Assemblea costituente, il referendum istituzionale e la distinzione dell’azione di governo da quella propriamente costituzionale – permisero di «gettare un ponte sull’abisso» e di giungere al più grande rivolgimento della storia politica moderna d’Italia nella 10 concordia, mentre altrove furono guerra civile, terrore e massacri, come egli stesso osservò nel suo discorso all’Assemblea costituente il 25 giugno 1946. C’è da chiedersi da dove De Gasperi attingesse una tale chiarezza di giudizio, una tale tenacia nell’azione e una tale creatività nell’individuazione di soluzioni praticabili e condivisibili, in un periodo così confuso e convulso, eppure così decisivo, della storia di Italia e d’Europa. Lascio a chi meglio di me conosce la sua storia personale individuare le sue risorse più profonde, che forse più adeguatamente possono rispondere a questo interrogativo. (…) La sua linea politica è orientata alla continua ricerca del centro, in modo da ricomporre le inevitabili polarità, guardando anzitutto ai fatti: di qui l’idea di ricostruzione che, come si è detto, non è restaurazione, ma neppure rivoluzione: «Il ricostruttore non s’indugerà in discussioni ideologiche alla ricerca dello Stato ideale né, d’altro canto, si lascerà turbare dai miti di una palingenesi rivoluzionaria», si legge nel Testamento politico che prosegue, richiamando ironicamente una battuta del politico belga Félix de Mérode: «Quando ordino un paio di scarpe il calzolaio prende le misure sul piede mio e non su quello di Apollo». La ricostruzione che egli propone è un metodo che parte dal dato di realtà, confida nella forza dei fatti e segue le tracce presenti nella storia così com’è. Tra tante, spicca una qualità della sua azione politica che, mi pare, derivi proprio dalla sua caratteristica di uomo di confine, sempre chiamato a camminare su un crinale, a muovere i suoi passi in ambienti impervi, insidiosi e severi: la qualità è quella di un realismo lungimirante. Certo, si potrebbe obiettare, c’è un realismo prigioniero della realtà stessa, che si risolve in un immobilismo, in pura fatalistica conservazione. Ma non è questo il realismo che caratterizza l’azione e, oserei dire, la vita di De Gasperi: la traccia che egli ha lasciato nella storia d’Italia e d’Europa è quella di un rinnovamento che pesca nell’esistente e ha un respiro di lungo periodo. La sua è una politica che pone le basi di alcuni orientamenti di fondo, alcuni dei quali si realizzano subito e altri matureranno nel tempo. Il suo è un realismo lungimirante, perché animato da grandi ideali, «impregnato di idealità», come ebbe già a scrivere nel 1922 su «Il Nuovo Trentino»; un realismo che lo accomuna ai fondatori dell’unificazione europea espresso nella famosissima dichiarazione del 1950 di Robert Schuman, anch’egli significativamente, uomo di confine. (…).In una lettera del 7 luglio 1928, scritta dal carcere mentre la sua famiglia si trovava in montagna per il periodo estivo, De Gasperi scrive: «Anche io sto preparandomi per una scalata di roccia sai dove sto esercitandomi? Nelle Malebolge dell’inferno dantesco, con Virgilio che dirige la scalata, senza corda e senza piccozza (per il pericolo del fulmine). Ma intanto (prosegue la lettera, introducendo una splendida citazione dantesca): Così, levando me su ver la cima D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia, Dicendo: Sopra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia. Non era via da vestito di cappa». 13 Il metodo di De Gasperi è tutto qui. Il cammino sicuro del montanaro, dal passo fermo che arriva senza dubbio alla vetta: «uno stile di concretezza, di rigore, di realismo, animato da una grande tensione ideale: è De Gasperi», come ricordava Pietro Scoppola qualche anno fa in questa medesima occasione, nella prima Lectio del 2004. Non è l’assenza delle avversità a permettere la ricostruzione e la rinascita, ma il saper discernere una strada percorribile che le attraversa e le supera, di un superamento che innova, di un’innovazione che non rinnega il passato, che non si arresta mai neppure di fronte a un ponte crollato, come nelle Malebolge dantesche: levando me su in ver la cima. Una via percorribile, indicata da una guida sicura; percorribile per quanto scomoda e impervia – non era via da vestito di cappa – erta, esposta e disagevole, lungo la quale il ruolo di chi conduce sta tutto nell’avvistare, passo dopo passo, un appiglio – avvisava un’altra scheggia – per potersi aggrappare e procedere nell’ascesa. E come l’alpinista sa bene, occorre sempre verificare che l’appiglio sia tal ch’ella ti reggia, che sia in grado di sostenerti, pena la rovina. Questo splendido passo della Commedia che egli regala alla moglie in uno dei momenti più bui della sua esistenza racchiude tutta la sua personalità e il segreto del suo “carisma”: un uomo con i piedi saldamente ancorati a terra e con lo sguardo rivolto in alto e lontano. 

Storia d’Italia, 1951: quando dalla radio uscì fuori il mondo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Nella scuola Emanuele Gianturco, al lato del Pantheon, erano venuti quella mattina gli ispettori speciali del ministero. Perché era un evento speciale di cui non capivamo niente ma ci faceva ridere perché l’evento era la Ceca, sigla che stava per Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e potete immaginare degli scolari piegati sul foglio a scrivere pensieri dementi sulla Ceca. Ma ci inflissero un preambolotto teorico con cui trasmetterci lo spirito di Ventotene di cui non sapevamo nulla, ma capimmo che si trattava di grande evento perché per la prima volta i Paesi europei invece di prendersi a cannonate si mettevano insieme per produrre carbone e acciaio. «Questo – ci disse l’austera signora del Ministero – è solo il primo passo di una cosa molto più grande che un giorno si farà e si chiamerà Europa». Ma non si chiama già Europa? chiese uno. «Sarà l’Europa unita, senza più guerre e un giorno si chiamerà gli Stati Uniti d’Europa». Bella idea e scrivemmo colonne e colonne di fogli protocollo riempiti di ridondanti ed enfatiche banalità. Però era successo qualcosa. Poi, c’era sempre questa guerra di Corea che adesso sembrava sotto casa. Era peggio della Prima guerra mondiale, dicevano, perché milioni di soldati si sparavano nelle trincee scavate nella neve ed era tutto sangue, urla dei feriti e morte. E cinesi, si diceva, che arrivavano a ondate. Non come uomini singoli, ma come masse liquide prive di individui distinguibili. Tutti uguali, i cinesi. E più le forze dell’Onu sparavano, più quelli tornavano. Era una guerra di cui arrivavano notizie militari e minacce pesanti alla nostra vita privata. La guerra che avevamo vissuto era finita solo da sei anni, e adesso parlavano di una nuova generazione di bombe atomiche che potevano far sparire un continente. Il tasso di rancore nella guerra fredda saliva in casa e nelle strade. Avevo undici anni ma ricordo perfettamente quanto quella guerra fosse globale. E poi la radio. La radio era tutto. Si aspettava quel segnale dell’uccellino della radio che preparava – un fischietto meccanico come un telegrafo che scandiva il tempo – all’ora esatta cui seguiva immediatamente la voce di uno speaker che si annunciava dicendo: «Giornale Radio». Non era un giornalista, uno di passaggio. Era come la voce della Bbc in Inghilterra. Era una voce solo maschile, grave, profonda, dall’ortoepia – cioè la pronuncia – corretta al punto tale che nessuna parlata regionale, neanche toscana, poteva eguagliarla per perfezione. Il Giornale Radio era pieno di ministri e di dichiarazioni, compilato sulle agenzie di stampa governative con pochissime interviste a personalità ufficiali, campioni sportivi o attori. Il trionfo della radio fu a novembre di quell’anno. Il 14 novembre il Po andò fuori dagli argini e sommerse il Polesine. Nessuno aveva memoria di una sciagura talmente grande, per di più vissuta in diretta, ventiquattro ore al giorno, comprensibile a tutti: fu la prima catastrofe naturale globalizzata d’Italia. Era l’Italia in cui la gente viveva attaccata alla terra come gli insetti e nella provincia di Rovigo fu un disastro perché quasi duecentomila persone furono cacciate di casa dalle acque e ci furono più di cento morti e parlavano tutti, il papa e i ministri i leader politici e si facevano sottoscrizioni che venivano annunciate alla radio vaglia per vaglia, lira per lira. Oggi siamo abituati alla televisione e a quel che succede con i terremoti, altre sottoscrizioni e racconti penosi. Ma la radio era una scatola di legno color noce o radica con un vetro su cui si leggevano i nomi di tutti i paesi e le città del mondo fra cui cercarti la stazione fra gli scrosci statici e sibili. Quando arrivò in casa una radio monumentale potentissima in cui bastava premere un tasto per avere la Rai o il grammofono incorporato, era qualcosa come Wi-Fi moltiplicato Netflix e potevi girovagare fra lingue mai sentite. Inoltre, la radio forniva sceneggiati fantastici pieni di cigolii sinistri, urla dal pozzo della vertigine, tutto il mondo di Edgar Allan Poe in particolare e le voci di comici surreali come il misterioso Alberto Sordi che ancora non aveva un volto. I gatti erano più frequenti dei cani negli appartamenti infestati dai topi e il nostro ne ha avuti almeno tre, tutti amatissimi. Questa faccenda della guerra alle porte era molto angosciosa. Gli Stati Uniti stavano preparando una bomba più potente di quella di Hiroshima che sarebbe stata all’idrogeno e anche i sovietici erano al lavoro fervente con i loro ordigni. In Italia le carriere degli iscritti al Pci e al Psi erano molto ostacolate, per non dire boicottate. Cresceva lo spionaggio e questo era un fenomeno comune all’Est e all’Ovest. La gente di destra o comunque anticomunista era sicura che da un momento all’altro arrivassero i cosacchi di Stalin per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro e permaneva nell’aria una vaga ipotesi insurrezionale. Togliatti e i dirigenti del Partito comunista scoraggiavano le fantasie di presa del potere con le famose armi nascoste e ben oliate (a intervalli regolari polizia o carabinieri trovavano qualche deposito di mitra Sten e qualche bomba) e una quantità di bambini saltava in aria sulle bombe inesplose della guerra. Era un bollettino quotidiano terribile di mutilazioni e morti. C’era grande fermento nell’agricoltura e in Parlamento era finalmente passata una riforma agraria molto più moderata di quanto avesse voluto la Cgil, ma comunque era davvero cominciata la fine del feudalesimo. Nel senso proprio: era stato deciso per legge che i retaggi feudali andassero rimossi, il che significava che da una parte cresceva una classe di ex servi della gleba che dicevano sissignore e mandavano i guadagni al padrone, dall’altra era l’inizio della fine di questa classe parassitaria e felice dei grandi proprietari agrari che delle loro terre se ne erano sempre fregati con un’entrata comunque garantita senza far niente. Sempre meno, ma erano comunque troppi. Stava cambiando proprio la composizione della materia italiana: la metà che era ancora terrosa e largamente analfabeta insieme alla borghesia più giovane che non vedeva ancora le prospettive che si sarebbero aperte con la grande ricostruzione, aveva già cominciato ad emigrare non solo negli Stati Uniti, ma nell’Argentina di Perón e dei suoi descamisados, particolarmente amati anche dai nostalgici fascisti e dai fuggiaschi del Terzo Reich tedesco. Anche il Brasile si riempiva di italiani, come l’Australia e- in Europa – la Francia dei rital (come venivano spregiatamente chiamati gli emigrati dal Paese che era stato loro nemico er poi occupante durante la guerra) e poi in Belgio, nel buio delle miniere e delle stragi nelle gallerie. Non era ancora l’Italia della Seicento e dell’Autostrada del Sole e tutte le aziende del nord cercavano di convertirsi nel tessile e proprio nel Polesine e nel Veneto, le donne e i bambini lavoravano giorno e notte intorno alla macchine da cucire per confezionare calze che poi i loro uomini con la valigia di cartone andranno a vendere in treno oltre le frontiere. Era arrivata la penna biro, o a sfera. Quella classica che gira ancora oggi di plastica trasparente con dentro la cannula con la sfera rotante. Fu una rivoluzione millenaria: non più inchiostro, non più macchie e per qualche tempo la scuola resistette all’ “americanata” della penna che poi si butta e c’era questa resistenza visibile verso il nuovo e il moderno. Le donne seguivano la moda sulle riviste della moda che puntavano tutte sulla moda elegante e sul bon ton, mentre dall’America arrivava una ventata di femminismo pratico: la donna come è, come vorrebbe essere, seducente e pratica. Il New Look veniva dalla Francia di Christian Dior e gli stilisti italiani, benché in erba, erano già determinati a competere e si gettavano in una mischia che avrebbe prodotto dall’anno successivo Palazzo Pitti. La moda era un’arte totalmente rinnovata che già aveva la forza di fare da volano per un mondo da inventare, o meglio di un mercato che già esisteva ma che non sapeva bene che cosa desiderare. Dai miei appunti di ragazzino romano vedo i pianerottoli delle case perbene carichi di materiali imprevisti: motori per auto, gomme per autotreni, scatole di medicinali. Erano arrivati gli antibiotici, già si moriva di meno con la penicillina che certamente a me aveva salvato la pelle almeno due volte. Ma ricordo una borghesia appena uscita dalle botte che cercava di fare affari, comprava e vendeva, modificava, viaggiava e – con grandissimo scandalo di mia madre che pure era una giovane bella donna – faceva sesso. La Chiesa era occhiutissima, le organizzazioni cattoliche erano fortemente sessuofobiche e quando maschi e femmine imboccavano la via dello sviluppo e dell’adolescenza, una rete di precauzioni era già pronta ad accoglierli separandoli per genere e spingendoli nel migliore dei casi a fare sport. Sport come antidoto del peccato. I giovani non facevano molto sesso. C’erano i casini ma non credo che fossero usati da una grande popolazione. C’erano amanti e mantenute (vari gradi della degradazione femminile) ma le ragazze avevano una paura fottuta. Portavano imbragature di reggicalze, calze, gancetti da spezzarti le unghie e poi erano terrorizzate da tutto: gravidanza, deflorazione, genitori, persino i fratelli e la sessualità era una faccenda del tutto sotterranea e leggendaria, se non catacombale. Il massimo che poteva accadere – con le dovute precauzioni – era il bacio o pomiciare (a Roma) o limonare ma si favoleggiava del petting (mani addosso per arpeggi improvvisati (i maschi avevano delle femmine una conoscenza pari a zero, non giravano foto anatomiche, la pubblicazione dei seni era vietata e si andava in galera, bisognerà arrivare ad un’esplosione non meditata di Cesare Zavattini vent’anni più tardi quando di colpo disse “cazzo” alla radio e l’evento fu festeggiato come se fosse comparsa la madonna. Ma le parolacce erano per solo uso maschile e le femmine concedevano poca promiscuità e sempre sul filo dell’infarto. Le donne erano uscite dal tunnel della moglie fascista cittadina o massaia o mungitrice e un anno prima del disastro del Polesine dalle risaie erano già uscite le gambe di Silvana Mangano e grandi fantasie erotiche sulle mondine di Riso Amaro di De Santis. Erano uscite fuori le gambe e la donna che lavora e che, essendo sola e bella e immersa nella melma, sa trattare alla pari gli uomini esattamente come nella letteratura afroamericana facevano le donne nelle piantagioni: “Sciùr parùn dalle belle braghe bianche, dame le palanche che andemo a ca’” era una canzone sia del lavoro che dell’indipendenza femminile e tutto ciò arrivava a sferzate, non faceva parte del mondo di prima, non faceva parte del mondo delle ginnaste, delle Giovani italiane e degli stereotipi, come invece succedeva – e i giornali ne erano pieni – nel mondo sovietico, dove le lavoratrici e i lavoratori somigliavano nel realismo socialista ai quadri italiani (e fascisti) di Sironi, in cui il corpo dei maschi e delle femmine appariva interamente dedicato alla costruzione della società ideale. Un’Italia che aveva voglia di divertirsi. Repressa, tante cerimonie religiose che non potete neanche immaginare, mesi mariani e novene, processioni e confessioni, per non dire del puritanesimo del Partito comunista in diretta concorrenza con quello democristiano. Lì, i socialisti cominciarono un po’ a fare razza a parte: aria libertaria, anche un po’ sporcacciona, parlavano sfrontatamente di contraccettivi, di aborto e amore libero anche per smarcarsi dai comunisti che già allora si ispiravano più a santa Maria Goretti che a Sophia Loren che aveva diciassette anni e si dava da fare con particine gloriose che di lì a poco l’avrebbero portata al contratto con la Paramount.

Storia d’Italia, 1952: quando Scelba bloccò la ricostituzione del partito fascista. Paolo Guzzanti de Il Riformista il  2 Settembre 2020. Per me (ma sono fatti miei, e però fatti che ancora mi segnano) il 1952 fu un anno terribile perché morì in casa la mia amata nonna Amelia, rossa come me, vedova di un giornalista assassinato, una combattente di ferro che amavo in modo incontenibile. Quando fu chiaro che stava morendo di cancro ai polmoni, lei che non aveva mai fumato, io lavorai con martelli e seghe per crearle un letto confortevole, con molti cuscini, posizioni, basi per bicchieri, e un bicchiere da usare come campana da far tintinnare. Poi, approssimandosi la sua morte non ebbi più la forza di guardarla e l’abbandonai. In un ultimo sospiro mi disse “Da te non me lo sarei mai aspettato” e io fuggii a Villa Borghese dove capitanavo una banda di ragazzini in guerra con altri ragazzini e il giorno della sua morte, quando tutte le rondini di Roma si levarono in un urlo nel momento finale, io rimasi stordito e non mi accorsi che la banda di Nasone aveva preparato un’imboscata dietro le palme dell’Orologio ad acqua, così persi la guerra e tornai a casa dove avevano spruzzato del cloroformio per preservare il cadavere di Amelia finché non la impacchettarono e portarono via. Tutto ciò è davvero personalissimo e non interessante, ma ognuno ha le sue giornate e i suoi anniversari, accadde sessantotto anni fa. Amelia, dopo la morte seguitò per qualche tempo a far tintinnare il suo bicchiere costringendomi a correre al suo letto smontato e apprezzai i suoi segnali, benché non creda a queste cose: in famiglia si decise tacitamente di non farne mai menzione per nessun motivo. Era dunque il 1952 e due furono i fatti oltre i fatti: una ragazzina adorabile diventò regina d’Inghilterra e la televisione cominciò a trasmettere il Telegiornale col mappamondo e una sigla che faceva parapappà-parapapà. Se non l’avete mai vista com’era, andate sui documentari per rendervi conto com’era fatta la ragazzina Elisabetta, a cui volavano le vesti come a Marylin, con la sorella Margaret, mentre fanno impazzire i marinai sulla tolda della nave da guerra che nel 1946 aveva portato la famiglia reale al lungo viaggio di ringraziamento in Africa. Questo ringraziamento dei reali era per tutto l’impero che aveva combattuto con tutti i colori della pelle e dei costumi, delle uniformi e i turbanti, i costumi e le insegne, nella Seconda guerra mondiale. Oggi non ne abbiamo più memoria: guardiamo l’Inghilterra e pensiamo alla Brexit, a Boris Johnson che si becca il Covid come Briatore e ai ragazzi nei pub. Ma, sapete, c’era una volta un impero. Lo dico perché lo ricordo: prendete un mappamondo e provare a immaginare che cosa fosse l’impero britannico che Churchill pronunciava – come ogni buon conservatore – “thi Empaaahh”. L’impero andava dal Canada ai Caraibi, dall’Egitto al Sud Africa, all’India col Pakistan, dall’Australia alla Nuova Zelanda, quelle terre che oggi fanno parte dei “Fine Eyes” i cinque occhi, che comprendono gli Stati Uniti, ma non il Sudafrica. Re Giorgio, il vecchio Bernie che aveva sempre balbettato (“The King’s Speech”, se ricordate il film) e che era stato costretto a fare il re al posto del fratello amato dalle folle, che volle sposare la divorziata americana Wally Simpson e che poi andò a fare la corte ad Hitler a Berlino, tanto che Hitler contava di rimetterlo un giorno di nuovo sul trono. Elizabeth era una ragazzina ciclista e volenterosa e si era innamorata di quello strafico greco che è il principe Filippo (per accudire il quale ha deciso di non esercitare quasi più i suoi uffici regali) sul quale gravava però l’ipoteca del Duca di Mountbatten, il king maker che finì sbriciolato sulla sua barca da una bomba islandese negli anni Settanta. Quando il re morì, Elisabetta viveva felice a Malta con suo marito Filippo, di cui era pazza, e lui faceva la carriera militare nella Royal Navy. La morte del padre era prematura e fece saltare tutti i piani: Filippo dovette lasciare la carriera e trasformarsi in una specie di cameriere consorte; lei smise di correre in bicicletta o guidare da scavezzacollo la sua jeep a Malta e tornò a fare la regina di una Piccola Bretagna che non era più l’impero più grande del mondo. Era successo all’Inghilterra qualcosa di simile a quel che era accaduto con la Prima guerra mondiale all’Austria, che da grande impero centrale fu ridotta a quella piccola nazione che è ancora oggi. Il mondo cambiava radicalmente. Comandavano ormai soltanto Stati Uniti e Urss: Churchill sapeva bene che quello era il prezzo richiesto dagli americani per pagare la salvezza della Gran Bretagna assediata da Hitler: noi vi salveremo, ma voi lascerete l’impero perché noi americani non ammettiamo imperi. Si potrà dire naturalmente che gli americani hanno il loro impero, ma mai tecnicamente: dalla guerra con la Spagna all’inizio del Novecento avevano trattenuto come colonia le Filippine fino alla fine della Seconda guerra mondiale, ma decisero che dovevano a quel popolo la libertà senza condizioni, anche per ricompensare il contributo filippino alla guerra contro i giapponesi. La Francia stava cominciando a perdere i suoi pezzi in Estremo Oriente, cioè nel Sud Est asiatico, le antiche colone del Tonchino del Vietnam, Cambogia e Laos con le loro città edificate imitando Parigi. I rivoluzionari comunisti che avevano combattuto contro i giapponesi avevano studiato tutti alla Sorbonne a Parigi, erano degli intellò cresciuti sotto la protezione del partito comunista francese e la Francia stava per andare incontro alla disfatta militare di Diem Bien-Phu. Il mondo stava cambiando molto radicalmente: non più imperi, re e regine (salvo Elizabeth), molta guerriglia nelle colonie dei Paesi europei che ne avevano ancora, come il Congo belga e le colonie britanniche, stava cominciando quella separazione del mondo fra americani, russi e terzomondisti. E da noi? La televisione. Ne avrete letto tanto e visto e molti di voi c’erano. Ma ricordate che cos’era un televisore? Un marziano tondeggiante in mezzo al salotto con tutte righine dentro che si distorcevano e potevate passare ore a regolare quelle righine lungo tutta la scala dei grigi. Poi, il telegiornale. C’era il martedì pomeriggio un telefilm western per i ragazzi. Qualche cartone animato, non voglio fare la storia della televisione, ma ricordare un’emozione. Io mi emoziono facilmente: dopo l’arrivo del colore non riuscii per anni a separarmi dallo stupore per il fatto che le immagini fossero a colori. E ricordo benissimo proprio l’incoronazione di Elisabetta seconda in diretta, in Mondovisione, una visione tutta distorta, da far schifo, ma era una diretta. Intanto il vecchio Winnie, Winston Churchill, era tornato ad essere primo ministro e annunciò con tono distratto che il suo Paese stava preparando la bomba all’idrogeno. Non se ne poteva fare a meno: russi e americani si erano già portato avanti, i francesi seguivano. Noi italiani non eravamo nessuno. Ancora ci odiavano per il fascismo e anche per aver cambiato fronte quando i tedeschi erano ormai sconfitti. Proprio nel 1952 l’Unione Sovietica mise il veto al nostro ingresso all’Onu, così come fece con il Giappone. Non ci volevano. Ma fummo arruolati nella comunità della difesa europea, cioè l’embrione poi abortito di un esercito europeo che non si è mai fatto e che avrebbe dovuto essere sottoposto al comando anglo-francese. Accadevano fatti dall’esito ignoto: un oscuro generale cubano, Fulgencio Batista, fece un colpo di Stato all’Avana per conto dei grandi casinò americani e prese il potere. I fratelli Castro e altri futuri ribelli studiavano dai gesuiti, In Italia Mario Scelba, il ministro degli interni di ferro, l’anticomunista intransigente (che io conobbi e intervistai sul letto di morte molti anni dopo) decise di varare una legge che mettesse al bando i fascisti vietando la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma. I fascisti dichiarati a quell’epoca erano milioni, per non dire dei monarchici che conquistavano il municipio di Napoli con il sindaco Achille Lauro, di cui si dice che regalasse una scarpa prima e una dopo il voto ai suoi elettori. Ma ricordo perfettamente questa Napoli del 1952 imbandierata con le croci Savoia, il nodo Savoia e tutti quei principi, duchi, e popolani monarchici. E poi, appunto, i fascisti che si organizzavano, celebravano, marciavano e menavano. Gli studenti fascisti passavano a vie di fatto – cioè menavano a pugni e con bastoni – nelle scuole e nelle università. La polizia picchiava e manganellava. Gli inglesi, persino, che amministravano una parte di Trieste, caricavano selvaggiamente i triestini che quell’anno manifestavano per il ritorno all’Italia sulle note di “Trieste mia” e “Vola colomba”, canzoni patriottiche da Sanremo, di un nazionalismo timido. Fu persino necessario bloccare il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, perché voleva formare alleanze con i neofascisti: Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti (suo numero due) si opposero e l’Italia cominciò a prendere una forma più definita: l’anticomunismo non impediva un radicale antifascismo, anche se cresceva la violenza sia verbale che fisica nella vita quotidiana. Agli americani però importava soltanto l’atteggiamento di chiusura e ostilità nei confronti dei comunisti e il Sifar, il nostro servizio segreto al centro di una serie di scandali futuri, seguiva le direttive americane per un maccartismo sempre più energico contro tutti i comunisti e anche i socialisti loro alleati. Lo stesso accadeva in Francia dove il Pcf, riemerso dalle ceneri della vergogna per aver appoggiato con trepidante entusiasmo l’alleanza militare fra Urss e Germania dal settembre 1939 al giugno del 1941, era diventato una forza politica potente e totalmente allineata sulle posizioni sovietiche, molto di più di quanto non lo fosse il partito comunista italiano di Palmiro Togliatti, che trovava sempre un modo sottile per evitare giudizi negativi su Stalin. La Francia, inoltre, era ogni giorno di più un obiettivo sensibile per le sue colonie, non soltanto in estremo oriente, ma specialmente in Nord Africa e in Algeria, dove si profilava uno scontro titanico prima della inevitabile rinuncia all’impero coloniale (benché ancora oggi la Francia sia un Paese europeo con colonie). Una visita del generale americano Ridgway a Parigi provocò moti di piazza repressi nel sangue, con scioperi generali e scontri. Era la guerra fredda nella sua versione quasi calda che provocava fiammate nel momento e nei luoghi più diversi. La Repubblica Democratica tedesca, cioè la Germania Orientale comunista, si fece il suo esercito integrato con quello sovietico, diventando la forza armata più temibile del nascente Patto di Varsavia, ancora non ufficiale, ma che sarà l’alleanza anti-Nato dell’Europa sotto controllo sovietico. Il mondo si spacca sempre di più, si contrappone, la caccia è aperta nei paesi delle ex colonie e ovunque si combattono guerra non dichiarate, insurrezioni popolari non tutte spontanee e gli eserciti occidentali costruiscono reparti antiguerriglia da usare in Africa, Asia e America Latina. Ma il colpo più potente lo sferra Mosca, sostenendo il colpo di Stato in Egitto di quattro ufficiali, fra cui l’astro nascente Nasser, che nazionalizzerà il canale di Suez e l’ingegnere egiziano Yasser Arafat, che fonda il nucleo dirigente del futuro fronte della liberazione della Palestina. Israele nel frattempo crea il più sofisticato e moderno servizio segreto del mondo, con regole e compiti che non condivide con altri. Il Mossad inizia la sua vita operativa dando la caccia nel mondo a tutti i gerarchi nazisti che l’hanno fatta franca. Gli Stati Uniti, dopo Harry Truman, eleggono il vecchio e saggio generale Dwight Eisenhower come presidente degli Stati Uniti, cioè colui che ha guidato gli eserciti alleati alla vittoria contro i nazisti. Una volta alla Casa Bianca, Eisenhower diventa un presidente bipartisan, non ossessionato dall’anticomunismo maccartista, ma piuttosto dai rischi di un eccessivo potere dell’apparato industriale-militare nato dalla concorrenza tecnologica con l’Urss nella guerra fredda. Il mondo sa di essere in bilico fra due blocchi, anzi tre. Nulla è certo, ma tutto è molto scuro e soverchiante. L’esistenzialismo come atteggiamento filosofico si sparge dalla Francia all’Europa e all’Italia, fino a sfiorare New York. Le canzoni esprimono venature angosciose e l’amore è ancora contaminato dall’idea di morte. Charles Aznavour canta “L’amour et la guerre” e i teatri si affollano per le commedie del nonsenso. Anche l’umorismo appare enigmatico o simbolico, come quello del rarefatto Renato Rascel.

25 gennaio – L’Unione sovietica, insieme ad altri quattordici paesi, pose il veto all’ingresso dell’Italia fra i paesi membri dell’Onu. Il nostro Paese entrò poi il 14 dicembre del 1955.

6 febbraio – A soli venticinque anni Elisabetta II diventa regina del Regno Unito e succede al padre re Giorgio VI. La sovrana è da allora alla guida della Gran Bretagna, al quarto posto nella classifica dei regni più lunghi della storia.

10 marzo – L’Esercito Nazionale di Cuba, guidato dal generale Fulgencio Batista, mise in atto un vero e proprio colpo di stato, stabilendo una dittatura militare nel paese.

24 aprile – Alcide de Gasperi e Giulio Andreotti impedirono a don Luigi Luigi Sturzo, in occasione delle elezioni amministrative, di formare liste civiche con il Movimento Sociale Italiano e monarchici in funzione anticomunista.

27 maggio – Italia, Francia, Germania Ovest, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo aderiscono al trattato Ced (Comunità Europea di Difesa) condividendo un unico esercito, la Forza Atlantica.

16 giugno – Il generale statunitense Matter Bunker Ridgway è in visita a Parigi e nella capitale francese: si verificano scontri molto violenti fra manifestanti e forze dell’ordine.

23 luglio – Entra in vigore il trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la Ceca.

A cura di Chiara Viti

Storia d’Italia, 1953: lo Stivale spaccato da guerre di religione. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Avevo dodici anni e, mentre camminavo verso il Senato, gli strilloni dei giornali (esistevamo gli strilloni che vendevano le copie sul braccio) gridarono: «È morto Stalin! È morto Baffone! I comunisti di tutto il mondo in lutto!». Era vero: era proprio morto Stalin. Non che lo conoscessi molto, ma da anni si parlava sempre soltanto di lui, che ci guardava dai manifesti. Ora descritto come belva, ora il buon vecchio Uncle Joe, come lo chiamavano gli americani, ma anche l’uomo nelle cui fauci milioni di persone erano sparite. Era ancora un’Italia da guerre di religione e la religione era un tema politico perché il Papa Pio XII era un anticomunista militante e proprio in quell’anno dagli Usa mandarono a Roma come ambasciatrice Clara Boothe Luce, una anticomunista ossessiva, sicura che i russi avessero avvelenato gli affreschi della sua camera da letto per ucciderla. Clara pretendeva di impartire al Papa lezioni di anticomunismo ed Eugenio Pacelli un giorno esplose: «Signora, le disse: la prego di credere: sono cattolico anch’io». Per fortuna, in quel 1953 si chiuse la sanguinosissima guerra di Corea con armistizio al 38mo parallelo, ancor oggi il confine che Trump ha varcato per stringere la mano al grasso ragazzo che «sparava razzi». Gli americani avevano avuto un altro bagno di sangue, più simile a quello della Prima guerra mondiale delle trincee che a quello della seconda. La Cina aveva perso quasi due milioni di soldati in Corea, mentre intanto il generalissimo Chiang Kai-shek (che con Mao aveva combattuto contro i giapponesi prima della resa dei conti) si era ritirato nell’isola di Taiwan con tutta la sua armata sconfitta. Chiang ricevette dagli americani armi sufficienti per una lunga resistenza e quella resistenza dura fino ad oggi, mentre si addensano su quell’isola e quei mari nuovi venti di guerra nel Mare del Sud della Cina e nello stretto di Formosa dove si sono radunate la flotta americana, quella australiana, l’indiana, la giapponese e perfino la Vietnamita, perché il Vietnam di oggi – scherzi della Storia – è alleato militarmente degli americani contro i cinesi. Il mondo del 1953 lasciò uova di serpente che ancora devono schiudersi. Intanto a Taiwan hanno varato una democrazia pacifista ecologica che attragga gli ecologisti in un fronte anticinese, mentre la Cina cerca di arrestare l’emorragia delle aziende come Samsung e Apple che fuggono dal suo territorio, provocando disoccupazione. Sempre nel 1953 a Bruxelles i sette nani della finanza e dell’industria cercano di trasformare la Comunità del carbone e dell’acciaio in un embrione di Europa. L’idea era caldeggiata dagli americani per un solo motivo: bisognava impedire che per la terza volta dopo il 1870, il 1914 e il 1939 il mondo finisse nell’apocalisse per la faida infinita tra Francia e Germania. Certo, il Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli e i padri fondatori, contava. Ma alla base della concreta idea d’Europa c’era il desiderio di riconoscere alla Germania la supremazia industriale purché rinunciasse ad avere un peso militare: le veniva assegnato solo il minimo sindacale per stare nella Nato, ma la sua fortuna sarebbe consistita nel rinunciare ai carri armati per produrre Mercedes e Audi, lasciando agli Usa il compito e la spesa della sicurezza, posizione che oggi Trump ricusa, tirandosi indietro dagli impegni del secolo scorso. Ci fu un grandioso e appassionante delitto nel 1953: il primo dei grandi delitti italiani e che passò alla storia come “caso Montesi”. Ne parlai con Gabriel Garcia Marquez, dopo aver scoperto che il grande scrittore era stato all’epoca inviato a Roma da Bogotà e aveva scritto tutto sul caso Montesi. Il caso consisteva nel ritrovamento del cadavere di una povera ragazza, Wilma Montesi, nuda e morta sulla riva del mare a Torvaianica. Di che cosa era morta? Non si sa. Dunque, tutte le ipotesi erano buone. Perché non cocaina? Feste fra ricchi potenti che divorano ragazze innocenti? Boss democristiani? E perché no. Non emerse nulla, ma il ministro Piccioni ebbe la carriera stroncata benché innocente. L’opinione pubblica chiedeva che si trovassero i colpevoli fra gli alti papaveri della Dc: era uscita la canzone Papaveri e papere cantata da Nilla Pizzi e per “alti papaveri” si intendeva gli intoccabili, viziosi politici nei cui festini si sacrificavano le sventurate ragazze del popolo. Tutto molto enfatico, con il quotidiano modernissimo Paese Sera (comunista) e Momento Sera (centrista) che uscivano con più edizioni al giorno, i reporter tutti usciti da un romanzo di Chandler, tutti a imitare gli americani, specialmente i comunisti. L’aria da guerra fredda soffiava sempre più greve. Intanto, sempre a proposito di guerra fredda, Charlot, ovvero il popolare comico inglese Charlie Chaplin si vide incriminato dagli americani come sospetto comunista e non tornò più in America fino al 1971 quando ricevette l’Oscar alla carriera. Intanto, sempre in quell’anno, coniugi Julius ed Ethel Rosenberg furono portati nella stanza della morte di Sing Sing di New York (oggi è un museo), legati alla sedia elettrica e – come dicono gli americani – “fritti”. Sembra non ci siano dubbi sul fatto i due – più probabilmente Julius – passarono i segreti atomici ai russi, Ma a mandarli sulla sedia c’era di sicuro il desiderio di vendicarsi contro i commies che avevano superato gli americani nella qualità delle bombe, essendo arrivati a quella al plutonio. L’esecuzione fu atroce, penosa, con le luci gialle che s’abbassavano quando la leva che dirottava l’energia era abbassata e i corpi tremavano davanti ai giornalisti seduti sulle sedie a distanza di sicurezza. Furono fatti friggere a lungo col fumo che usciva dalla calotta avvitata sul loro cranio, finché non morirono. D’altra parte, ancora si fucilavano reduci nazisti, anche con qualche irreparabile errore giudiziario. Le elezioni non fecero scattare la legge truffa, ma furono comunque vinte dal centro e dunque proseguirono i governi democristiani di coalizione, con socialisti di Nenni e comunisti di Togliatti all’opposizione. L’Italia cominciava a riprendersi industrialmente e i consumi crescevano. La moda italiana cominciava a imporsi su quella francese e le auto italiane godevano di buon prestigio. Anche l’alfabetizzazione procedeva, gli analfabeti diminuivano e la televisione era diventata il nuovo dizionario, teatro, maestro di scuola, amico, padre spirituale, scatola dei sogni. Nei paesi capitava che attori come Alberto Lupo, che recitavano il ruolo del cattivo, fossero inseguiti coi forconi. I lettori di telegiornali erano spesso applauditi o insultati per le notizie che davano. Il calcio e il ciclismo dominavano le fantasie dei ragazzi, specialmente maschi e costituivano la valvola di sfogo contro le frustrazioni collettive. Gli sport di massa funzionavano come antidepressivi e come eccitanti. E pochi fecero caso a una notizia che avrebbe cambiato la prospettiva della vita: la scoperta del Dna, l’acido desossiribonucleico sul quale sono scritte in lingua proteica tutte le nostre caratteristiche personali e di specie. La Chiesa non era molto contenta degli eccessivi progressi della scienza. Ma tutti furono felici quando a Roma si inaugurò lo Stadio Olimpico ospitando il match Italia-Ungheria. E nell’Est? Che fanno quelli dell’Est sovietico, adesso che Baffone è morto? Se ne sapeva poco. Si disse che gli ebrei avevano tirato un sospiro di sollievo perché Stalin stava per lanciare una purga contro i medici “cosmopoliti”, cioè ebrei, per fare un repulisti antisemita in tutto il partito. Qualcuno disse che gli avevano fatto la pelle. Quanto meno, nessuno aveva soccorso Stalin crollato a terra. Dopo un periodo di incertezza, in cui sembrava che avesse vinto l’obeso Malenkov, alla fine emerse il nuovo vero leader Nikita Kruscev, contadino e soldato che aveva lavorato a fianco di Stalin e di cui denuncerà le criminali malefatte al XX congresso del 1956. Per ora Nikita è un novizio che conta meno di Palmiro Togliatti e del leader cinese Mao Zedong. Quando gli operai di Berlino Est scioperano per orario di lavoro e salario, il partito dei lavoratori da Mosca gli manda i carri armati. È la prima strage, cui seguiranno quelle di Budapest e di Praga. Il cubano Fidel Castro, appena laureato, raduna in montagna un gruppo di rivoluzionari e decide di assaltare la caserma Moncada. Li prendono tutti e li mettono sottochiave, ma “l’assalto alla Moncada” diventerà l’inizio della rivoluzione. Gli americani si preoccupano: ma questo Fidel Castro, non sarà comunista per caso? Gli americani prendono la guerra fredda molto sul serio: e alla General Electric licenziano i sospetti comunisti. Ma dall’America arrivano anche nuovi oggetti e stili di vita, dalla caramella col buco ai cosmetici a basso costo e i dentifrici per un alito da drago alla menta, e svanisce il sentore delle ascelle e dei piedi in un Paese che era abituato a un bagno in bagnarola settimanale e qualche pediluvio nel bagnapiedi di zinco. Non si usava molto la carta igienica, sostituita da quella di giornale con cui si foderava anche il secchio dell’immondizia che gli immondezzai prelevavano dietro la porta di casa con dei grandi sacchi di juta. I preti erano vestiti come don Camillo e non trovavi un gay neanche col lanternino. I padri e le madri mollavano schiaffoni senza risparmio e i figli se li prendevano zitti, con le orecchie rosse e la testa bassa.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1953

5 marzo. Muore Stalin.

31 marzo. Approvata dal Parlamento italiano la nuova legge elettorale, che le opposizioni chiamano la “legge truffa”. Assegna il 65% dei seggi alla coalizione di liste che raggiungeranno il 50 per cento dei voti.

11 aprile. Una ragazza di 24 anni, Wilma Montesi, viene trovata morta nella spiaggia di Torvaianica. L’inchiesta diventa un giallo politico. Finisce sotto accusa un gruppo di ragazzi della Roma bene che avevano tenuto un festino in una villa lì vicino. Uno di questi ragazzi è Piero Piccioni, figlio di Attilio, probabile successore di De Gasperi alla guida della Dc. La carriera politica di Attilio è travolta. E anche la vita del giovane Piero, che risulterà poi del tutto innocente.

17 aprile. Il grande attore e regista Charlie Chaplin annuncia che non tornerà più negli Stati Uniti dove è stato messo sotto accusa dai maccartisti che sostengono che sia comunista.

17 maggio. A Roma viene inaugurato lo stadio Olimpico con la partita di calcio tra Italia e Ungheria (l’Ungheria, in quegli anni, è considerata la più forte nazionale del mondo).

29 maggio. Un alpinista neozelandese e uno del Nepal conquistano l’Everest, cioè la vetta più alta del mondo.

2 giugno. Elisabetta è incoronata regina d’Inghilterra.

7-8 giugno. Si svolgono le elezioni politiche in Italia, la legge elettorale non scatta perché nessuna coalizione raggiunge il 50 per cento dei voti. La coalizione centrista (Dc, Psdi, Pri e Pli) candidata a ottenere la maggioranza assoluta, si ferma al 49,85 per cento.

19 giugno. A New York vengono uccisi con la sedia elettrica i fisici Julius ed Ethel Rosenberg, marito e moglie, con due figli piccoli, accusati di avere passato segreti militari ai sovietici per costruire la bomba atomica. In tutto il mondo clamorose proteste antiamericane.

26 luglio. Fidel Castro dà l’assalto alla caserma Moncada. Militarmente è un fallimento ma di fatto inizia la rivoluzione cubana.

28 luglio. De Gasperi si presenta alla Camera per avere la fiducia sostenuto solo dal suo partito e dai monarchici. Non ottiene la fiducia. Finisce la carriera di De Gasperi che morirà l’anno dopo, Anche la famosa legge truffa viene cancellata dal Parlamento. Il nuovo presidente del consiglio è Giuseppe Pella.

7 settembre. Il comitato centrale del Pcus elegge Nikita Krusciov segretario generale del partito. Krusciov è il commissario politico che guidò la resistenza di Stalingrado. È lui il successore di Stalin.

Storia d’Italia, 1954: dalla nascita della Tv al caso Montesi che stroncò la carriera di Piccioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Gli americani avevano già portato il dentifricio Colgate, la caramella col buco Life Saver, il tostapane e il burro di arachidi ma nel 1954 ci scaricarono il Rapporto Kinsey: tutto sul sesso. Nell’Italia d’allora il sesso era interdetto – come argomento – alla maniera di un paese islamico, o anche cattolico e perfino comunista. Un po’ tutta l’Europa era così. Gli inglesi dicevano che di due cose non si deve parlare esplicitamente: dei servizi segreti e di quel che succede in camera da letto, perché tutti sappiamo di che si tratta e non è proprio il caso di parlarne. invece il Rapporto Kinsey frutto di anni di studio, interviste, filmati, tutto pubblicato sul settimanale italiano Oggi. Uno shock, uno scandalo, una avidità repressa e anche un grande senso di liberazione. Dunque, a quanto pare, tutti in tutto il mondo, uomini donne e gay, copulano, si accoppiano, ma diciamolo pure, scopano. O se preferite si accoppiano, mettetela come vi pare. Si parlava anche di masturbazione con dettagli da far svenire le madamine per bene, e – senza un velo di riguardo, nemmeno allusivo – di rapporti anali. La Chiesa la prese malissimo ma la gente non parlava d’altro. Non per questo si può dire che il 1954 fosse un anno felice. Tutti nodi seguitavano a venire al pettine: il caso Montesi si ingigantiva benché non uscisse fuori nulla e il ministro Attilio Piccioni dovette dimettersi per il coinvolgimento di suo figlio nelle serate con Wilma Montesi, la giovane morta trovata sulla spiaggia. La storia di Trieste finalmente arrivava a una fine anche diplomatica col passaggio definitivo all’Italia. La Germania smetteva di essere la nazione punita ai margini della comunità – come era accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale, con vessazioni che spianarono la strada ad Hitler– e già esistevano in natura, colpivano paesi e investivano dighe quelle che oggi con orgoglio neolinguistico chiamiamo “bombe d’acqua”. Il 13 gennaio in Austria una bomba d’acqua spianò il villaggio di Blons e uccise duecento abitanti. Nessuno le chiamava così perché i feroci acquazzoni con frane morti e dispersi erano all’ordine del giorno. Era finita l’epopea di Alcide de Gasperi, aveva tentato Amintore Fanfani e fallì, sicché ci provò il ministro di polizia Mario Scelba, l’uomo della “celere” col manganello, ma anche quello che aveva messo al bando ogni possibile riedizione del partito fascista. L’Unione Sovietica perfezionava la sua penetrazione in Egitto appoggiando il nuovo rais Gamal el-Nasser il quale pretenderà da Mosca la gigantesca diga di Assuan, un nuovo esercito fiammante in grado di distruggere Israele e un esercito di istruttori capaci di far funzionare il Paese. Marilyn Monroe non era ancora considerata la bimba del sesso che diventerà fra poco, ma intanto sposa Joe Di Maggio, un super-palestrato italo-americano eroe nazionale di Baseball. Prossimo talamo, Arthur Miller, intellettuale e commediografo. Si chiude anche, con l’eliminazione di Gaspare Pisciotta (il cognato killer per conto dei carabinieri) la faccenda del bandito Giuliano, chiudendo molte bocche che non potranno mai più raccontare la pazzesca avventura dell’esercito separatista, su cui avevano contato in molti prima di liberarsene per sempre. La Dc palermitana resta turbata e spaccata e molti anni più tardi il “resident” del KGB a Roma venne nella Commissione d’inchiesta che presiedevo per raccontarci una serie di spregiudicate operazioni fra americani e russi, condotte in Sicilia e su cui è difficile fare la tara.

I guai grossi cominciano però in Vietnam, una delle colonie francesi nel sud-est asiatico che durante la guerra patriottica contro gli invasori giapponesi si era battuta con valore e che dopo la guerra non aveva alcuna voglia di tornare sotto Parigi. I francesi non si resero minimamente conto di quel che li aspettava e pensarono di avere di fronte dei guerriglieri “Viet-minh” (che gli americani si chiamarono Vietcong”) e invece si scontrarono con uno dei più poderosi eserciti in uniforme del mondo, armato sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina comunista e ben diviso in divisioni, reggimenti e compagnie con un’artiglieria di prim’ordine e per di più affiancato da un esercito partigiano di sostegno in larga parte femminile che aveva portato a spalla su per le montagne, ben smontate, tutte le armi necessarie per la battaglia finale che si combatté sull’altopiano di Dien Bien Phu. La stampa francese criticò in modo sprezzante lo Stato maggiore per l’invio di un vero esercito in Indocina, con quella che sembrava una smisurata potenza di fuoco che aveva spedito in Vietnam per combattere quattro straccioni di guerriglieri nascosti nella giungla. Capirono troppo tardi di trovarsi nel mezzo di una battaglia campale più simile a quella combattuta fra americani e tedeschi nelle Ardenne che a una scaramuccia coloniale. L’esercito francese vide emergere dall’altissima vegetazione grandi pezzi di artiglieria pesante di fabbricazione russa e cinese. Per l’opinione pubblica francese e poi europea e infine mondiale fu un grande shock. A primi del 1900 una potenza asiatica, il Giappone, aveva vinto e umiliato una potenza europea come la Russia zarista. In Corea gli americani erano stati costretti ad arretrare fino al 38mo parallelo da cui erano partiti, e adesso stava accadendo di nuovo: il più forte esercito continentale europeo era tenuto in scacco in mezzo alla giungla da un esercito modernissimo portato sotto le gallerie ed emerso dal nulla. di cui non avevano idea. La battaglia fu lunga e sanguinosa, ma alla fine i francesi dovettero arrendersi e umiliarsi, chiedere e firmare la propria resa. La cosa più interessante, nel corso di questa guerra, fu il ruolo americano: gli americani che avevano sostenuto lo smantellamento dell’impero britannico e l’indipendenza dell’India e dell’Egitto, adesso parteggiavano più o meno apertamente per i vietnamiti e i cambogiani che smontavano l’impero francese. Occorreranno quasi dieci anni prima che gli americani decidano, cotto Kennedy, di sostituirsi ai francesi e perdere, dopo altri dieci anni, un’altra guerra sanguinosissima che terminerà con la fuga degli americani da Saigon aggrappati agli elicotteri che decollavano dalla terrazza dell’ambasciata. Ma nel 1954 gli eroi della guerra antifrancese, Ho Chi Minh, Giap e i cinesi Mao e Chu En Lai erano per lo più grandi ammiratori dell’America che aveva vinto la Seconda guerra mondiale, che aveva sostenuto la Cina. Inoltre, il personale politico delle forze anticolonialiste parlava francese e inglese avendo studiato a Parigi ed essendosi formato sul modello del partito comunista francese. Nello sport il ’54 fu l’anno dell’epico scontro calcistico per la finale dei Mondiali fra Germania Occidentale e Ungheria giocata a Berna il 4 luglio. La Germania vinse 3-2 ma l’eroe celebrato da tutti gli spettatori fu il capitano ungherese Puskas (che fuori dal campo era arrivato al grado militare di colonnello), che segnò tutti i gol della sua squadra, più l’ultimo annullato. E accadde in quel giorno, quasi dieci anni dopo la fine della guerra, qualcosa che dal 1939 non si era più vista: una bandiera tedesca, della Germania occidentale chiamata RFT, salì sul pennone di uno stadio di calcio, accompagnata dalle note dell’inno tedesco. Ciò fece molto piacere ai tedeschi, anche se non entusiasmò il resto del mondo. Ma in Germania già cresceva una nuova generazione che chiedeva rispetto: noi non siamo i nostri padri, siamo innocenti e non vogliamo portare sulle spalle il peso del passato altrui. Del resto, gli ungheresi di Puskas erano allora i maghi del football per eleganza, intelligenza e capacità di sorprendere. Tutti i ragazzini europei giocavano a calcetto nelle strade minacciandosi il mitico “tiro ungherese”. Puskas dopo Berna tornò in patria come un eroe nazionale, ma quando due anni dopo si trovò in Spagna mentre i carri sovietici entravano a Budapest per schiacciare la rivoluzione antirussa, se ne resterà prudentemente in Spagna per diventare una delle stelle del Real Madrid. Il mondo si stava consolidando, Nikita Krusciov era ancora un oggetto sconosciuto, con quella sua faccia da buon contadino, di cui molti conoscevano il passato di ottimo ufficiale e di uomo fedele a Stalin anche negli anni del terrore. L’idea che l’Europa possa costituire da sola un proprio esercito unito e indipendente da quello americano e russo, fallisce bocciata dal Parlamento francese che non aveva alcuna intenzione di sciogliere la Francia nel resto dell’Europa. La Francia, come l’Inghilterra vuole la sua propria bomba atomica e la sua indipendenza di manovra, essendo ancora una delle potenze coloniali e per di più subito dopo aver perso una grande colonia in una umiliante sconfitta coloniale, cosa che stava causando un ritorno del nazionalismo e dell’isolazionismo francese, che aveva serpeggiato anche durante l’umiliante occupazione e collaborazione con i tedeschi. Intanto Achille Compagnoni e Lino Lacedelli scalano il K2 con Walter Bonatti guidati da Ardito Desio e tutto il mondo ne parla e sugli schermi del pidocchietto (cinematografi da quattro soldi, generalmente dei preti) tutti vanno a vedere il cinegiornale dell’impresa. Certo, anche la tv ne parla, ma per vedere la tv bisogna ancora stare tutti accatastati in cucina intorno all’enorme tubo catodico, o nei bar dove te lo appendevano sotto il soffitto. Così, quando l’immagine scarrucolava, qualcuno doveva salire sui tavoli e perché non esisteva il telecomando. A fine estate, dopo aver risolto la questione di Trieste tornata all’Italia, dopo aver riammesso la Germania nel salotto buono con la partita contro l’Ungheria e la sua ammissione nella Nato, quando insomma tutti sognavano un autunno mite e glorioso, ecco che arriva la bomba d’acqua. Di quelle catastrofiche fece franare la Costiera Amalfitana da Cava dei Tirreni a Vietri, Maiori, Minori fino a Salerno, causando più di trecento morti e seimila senzatetto. L’Italia del fango e dello smottamento si conferma la vera frontiera italiana. Il Paese non si regge e si inginocchia sotto i mutamenti climatici, ma anche sotto i temporali. Ma va peggio alla Francia, che non ha ancora digerito la sconfitta indocinese e si trova di nuovo in guerra con la più amata e francesizzata delle sue colonie: l’Algeria, guidata dal Front de Libération National, che alla fine la Francia perderà per referendum e che causerà la più grande trasmigrazione di residenti africani, arabi e coloni, i cosiddetti “Pieds Noirs” sul suolo francese. Ma sarà una lunga e terribile guerra che contorcerà tutta la politica europea e mondiale. È cominciata una nuova era: quella delle guerre non dichiarate, ma guerre di fatto. Le insurrezioni anticoloniali guidano questa nuova tendenza che farà delle guerre e degli eserciti repressivi la nuova costante del futuro mezzo secolo, man mano che tutti i territori coloniali raggiungeranno, almeno nominalmente, l’indipendenza passando per lo più da un regime colonialista a uno dittatoriale.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1954

3 gennaio – Nasce la Tv in Italia.

14 gennaio – Marilyn Monroe sposa il campione di baseball Joe Di Maggio.

9 febbraio – Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, viene ucciso con un caffè avvelenato nel carcere dell’Ucciardone.

Si porta nella tomba il segreto sui mandanti della strage di Portella della Ginestra.

23 febbraio – Nasce il primo vaccino contro la poliomielite.

13 marzo – L’esercito vietnamita guidato dal generale Giap sconfigge i francesi nella battaglia di Dien Bien Phu. I francesi son costretti a lasciare il Vietnam.

18 aprile – In Egitto prende il potere Nasser.

4 maggio – Golpe in Uruguay. Prende il potere Alfredo Stroessner che lo manterrà per più di 35 anni.

17 maggio – La corte suprema americana dichiara illegale la segregazione razziale.

4 luglio – Finale dei campionati mondiali di calcio. La grande Ungheria di Puskas viene sconfitta dalla Germania federale. Strascico infinito di polemiche: i tedeschi erano drogati? L’arbitraggio fu pilotato?

31 luglio – Lino Lacedelli, alpinista ampezzano, conquista il K2, cioè la vetta più difficile dell’Himalaya.

18 settembre – Il caso Montesi porta alle dimissioni del ministro degli esteri Attilio Piccioni, perché suo figlio è sospettato di essere stato coinvolto nella morte della giovane trovata senza vita sulla battigia di Torvaianica. Il figlio di Piccioni in realtà non c’entra niente ma gli equilibri nella Dc cambiano per sempre.

Il guzzantino. Storia d’Italia, 1955: in Tv arriva Mike Bongiorno e la Fiat lancia la 600. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Quando sono nato, l’Italia entrava in guerra con vergogna: attaccando la Francia già arresa ai tedeschi e i francesi ci chiamarono Maramaldi. Inoltre, i francesi all’inizio sulle alpi liguri ci fecero neri e rievocare i primi anni di questa storia e della mia vita è stato poco coinvolgente. Ma con il 1955 la faccenda cambia. Come tutti i quindicenni ero sempre innamorato. Non si andava a vere feste, non parliamo di dormire a casa di amici e quanto alle femmine il loro atteggiamento d’ordinanza era lo stupore. Noi non avevamo coraggio e loro avevano una paura dannata di tutto: della verginità, della gravidanza, malattie, reazioni paterne, matrimoni forzati, non c’era la pillola e non tutte usavano l’assorbente restando sotto il controllo ciclico matriarcale. Ma c’erano i Platters. C’era Pat Bone. C’era il primo Modugno. Noi balli sulla mattonella, si concentravano le digressioni negli angoli strategici di casa. Il giradischi e il Juke-box, la magica scatola luminosa dove i dischi scendevano e le ragazze si stringevano al collo e fra un bacio e una lacrima saliva una disperazione. Era arrivata la Seicento e dunque il sesso in macchina era finalmente possibile, se solo riuscivi a non far partecipare la leva del cambio. Nel 1955 esplose la libertà: arrivò il Rock’n Roll e l’indumento che non sarebbe mai più tramontato: il blue-jeans nella sua versione scorticante, colore unico e tessuto unico, risvolti alti fini, cuciture rosse enormi. Il Rock’n Roll esplose nei cinema quando la gente abbandonava le scomode poltroncine di legno e si metteva a ballare nei corridoi. La chiesa di sua santità Eugenio Pacelli era preoccupatissima: l’americanismo ormai entrava da tutte le fessure della vita tradizionale e della fina modestia italiana, i manifesti mostravano baci prossimi all’orgasmo e ballavamo per strada e con le donne potevi persino accennare al problema sessuale senza beccarti un ceffone e nasceva dopo la Vespa anche la Lambretta e si scriveva con la Olivetti che era il sogno di ogni studente, a rate, mille lire al mese. Gli inglesi si lamentano: noi abbiamo inventato lo scooter e gli italiani se ne sono appropriati. Gli italiani si appropriavano di tutto, inventavano tutto, erano dei draghi, non lamentosi come oggi. Nasceva l’auto Bianchi con la Bianchina, la nostra risposta alla Deux Cheveaux Citroen, meno adatta all’amore, ti saluto la posizione del missionario. Ma con la Seicento parte l’intera famiglia sui primi tratti dell’Autostrada del Sole, vanno a ruba i tavoli da picnic e si sfornano lasagne domenicali. In compenso, chiude la produzione della Cinquecento giardinetta, minuscola imitazione del caravan americano, in cui entravano anche sei persone, purché due nel bagagliaio. Il primo Rock’n Roll era un’estensione del boogie-woogie, e provocò una reazione conservatrice di tutte le Nille Pizzi e i Cinico Angelini, con la riscossa terrificante di “Son tutte belle le mamme del mondo quando il lor bimbo stringono al cuor” e poi milioni di canzoncine innocue, ma rimate, dall’arietta innocente, orecchiabili e cretine fra strazi gioiosi come Piripicchio e Pitricicchio e l’infernale barca che tornò sola come la cavallina storna, perché tre fratelli avevano dato la loro vita per salvare una bella bionda. La poetica italiana per italiani è da asilo infantile, da asilo senile, da allegro convento, e intanto si inaugura a cavolo un frammento della metropolitana di Roma. In politica, si manda al Quirinale il bell’uomo Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra con i voti dei neofascisti, ciò che avrà conseguenze nel 1960. Viene emesso un francobollo sbagliato, il famoso “Gronchi Rosa” che pochi fortunati si contenderanno. Si avverte nell’aria l’impressione che l’Italia “vada a sinistra” perché Gronchi è di sinistra insieme al fido Fernando Tambroni, uno che provocherà un disastro nel luglio del 1960. Il festival di Sanremo si trasmette, ma in differita: dopo il varietà “Un due e tre” di Vianello e Tognazzi che perderanno presto il posto per aver fatto della satira. È il momento del trionfo di Claudio Villa che stravince con Buongiorno tristezza sia pure cantando in playback per una laringite. Villa è l’antimoderno per eccellenza, il Francisco Franco della canzone italiana che ha sempre puntato sulle melodie che piacciono a napoletani e romani. I francesi sono irrequieti: hanno perso il Vietnam, stanno affrontando la ribellione dell’Algeria. La classe media scende in piazza con le casseruole dietro a Pierre Poujade. Tira un’aria indecifrabile di casseruole sbattute, il vecchio mondo imperiale tira le cuoia e Francia e Gran Bretagna sono preoccupatissime per l’egiziano Gamal Nasser che parla di nazionalizzare il canale di Suez. Nasser vuole anche strozzare Israele impedendo alla Stato ebraico l’accesso al petrolio. Da tutto l’Est sovietico arrivano storie di sofferenza, specialmente dall’Ungheria. Se la nuova Repubblica Federale Tedesca è ammessa nella Nato e autorizzata ad avere un suo esercito sotto il comando militare integrato, l’Est sovietico risponde formando la sua “Nato dell’Est” che si chiamerà “Patto di Varsavia” e vi partecipano con l’Urss, la Germania Est, la Polonia, la Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Albania. La Repubblica Democratica Tedesca veste i propri soldati con uniformi della tradizione tedesca e non all’americana come quelli occidentali. Persino la lingua tedesca è accuratamente preservata, nell’Est comunista, dalle influenze occidentali. Ogni anno il Patto di Varsavia programmerà un’unica esercitazione che prevede un attacco improvviso delle forze imperialiste, alle quali le forze del patto socialista, dopo aver respinto l’assalto si spingeranno in un travolgente contrattacco fino a chiudere tutti i porti atlantici impedendo così uno sbarco americano. In Argentina finisce la parabola di Peron, deposto da un colpo di Stato mentre in Italia fa passi avanti la Ceca col mercato comune. Gli Inglesi non sono attratti dall’Unione europea che considerano una vicenda interna tra francesi e tedeschi. Ma sono invece preoccupati con i francesi per il progressivo crollo dei due imperi: quello britannico e quello francese che stava franando nelle rivolte arabe dell’Africa del Nord. Winston Churchill che era tornato brevemente al governo, si dimette definitivamente. L’India è indipendente per colpa dei “cugini” americani che non tollerano alcun impero. A Londra Ruth Ellis di ventinove anni, è impiccata per aver ucciso il suo amante. È l’ultima impiccagione del Regno Unito. La sua storia sarà raccontata in Ballando con uno sconosciuto: un film terribile su una ragazza abusata e perseguitata da un uomo e che, quando lei finalmente si ribella e lo uccide, viene giustiziata. Un’altra epoca finisce: il boia di Londra con la sua scienza di pesi con cui spezzare la terza vertebra e causare una morte istantanea. Antonio Segni sardo democristiano conservatore diventa primo ministro e sarà il futuro presidente della Repubblica. Nasce il Terzo Mondo. Organizzato dal principio: né con l’America né con l’Unione Sovietica. Nasce un nuovo gruppo di Stati, guidato dall’indonesiano Sukarno, che non voleva schierarsi né con gli Usa né con l’Urss. Ma esplodono in tutto il mondo, Africa e Asia in particolare, guerre di decolonizzazione contro i vecchi padroni europei. Gli americani non soccorrono gli europei. Io a quindici anni mi trovavo con mio padre in Austria e vidi partire sia i sovietici che gli americani da Vienna che era stata occupata come Berlino. La partenza delle truppe russe fu guardata dalle finestre in modo torvo e una breve cerimonia per inaugurare la statua al milite ignoto sovietico andò deserta. Furono le mie prime fotografie. L’Est e l’Ovest non sembravano affatto attirati dalla convivenza pacifica ma solo dalla necessità di evitare una guerra per sbaglio. Quanto al resto, si odiano. La guerra non esplose, salvo che in Asia, ma in Europa la vivevamo con una forma d’angoscia particolare che spingeva all’edonismo e al tanto peggio, tanto meglio. Cominciarono i primi “Summit”: gli incontri fra i grandi della terra per assicurarsi che nessuno avrebbe tirato per primo il grilletto. Ce ne fu uno con il presidente russo Nikolai Bulganin (nessuno lo ricorda: aveva il pizzetto e un’aria saggia), il presidente americano Eisenhower, il francese Faure e Anthony Eden per il Regno unito. Si incontrano a Ginevra e rilasciano comunicati cauti. L’unico significato era: non siamo ancora sull’orlo della guerra. Poi si vedrà. Ma la frattura politica fra chi sta con i comunisti e chi è contro i comunisti si faceva nevrotica. Poiché in Italia si parlava di un governo con i socialisti ancora alleati dei comunisti, insorse il cardinal Ruffini di Palermo per battere il pugno sul tavolo: l’alleanza non s’ha da fare. Ma in compenso la televisione italiana manda in onda Mike Bongiorno col suo “Lascia o raddoppia” e gli italiani impazziscono, le ragazze si innamorano di Mike e del suo accento, i bar sono zeppi di spettatori perché solo pochi hanno un televisore a casa. I radicali si separano dal Partito radicale e formano la prima pattuglia di matti libertari. E infine, siamo ammessi alle Nazioni Unite dove non ci voleva nessuno. La Cia, su proposta del Dipartimento di Stato, comincia delle trattative con la sinistra italiana. Prima con i socialisti e poi con i comunisti: separatevi da Mosca e vi manderemo al governo. Io che ero socialista di sinistra, ricordo i primi dibattiti indignati “per l’odiosa interferenza dell’imperialismo americano”. Però, se ne parlava. I socialisti avevano ormai sviluppato una forte corrente autonomista che non ne voleva sapere del matrimonio con i comunisti. Nella Democrazia cristiana si sviluppava parallelamente una sinistra sindacale pronta a fare il governo con chiunque venisse dalla sinistra. Era cominciata una lunga marcia, lunga e contorta. Furoreggiava “La donna ricca non la voglio no perché ogni riccio nasconde ‘nu caporiccio” ed era morto l’idolo James Dean fracassandosi contro un albero ubriaco fradicio. Il Partito comunista, per ordine di Togliatti, metteva all’indice la pittura astratta sponsorizzata dalla Cia che cercava di imporre Pollock e Rothko. Guttuso, che si era dato all’astrattismo, fu preso severamente per le orecchie: “Picasseggia, quando non devesi picasseggiare” aveva commentato sarcastico Nello Ajello. Il vero Picasso picasseggiava poco e tornava realista puntando specialmente sul suo nuovo brand: la colomba ì, simbolo della pace dei popoli amanti della pace (quelli comunisti) contro i popoli amanti della guerra che minacciano l’umanità. La guerra ideologica corre nelle gallerie e nelle pagine della cultura. Togliatti firma un feroce editoriale contro l’arte astratta su Rinascita intitolato “Scarabocchi”. Chi vuol capire, capisce.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1955

19 gennaio – Il presidente americano Dwight D. Eisenhower tiene la prima conferenza stampa trasmessa in tv.

9 febbraio – Dopo 13 anni di lavori viene inaugurata a Roma la prima linea della metropolitana (la tratta Termini-Laurentina che oggi è la metro B).

9 marzo – Al salone dell’auto di Ginevra viene presentata la Fiat 600. Nei successivi 14 anni di produzione verranno vendute 5 milioni di auto di questo modello.

5 aprile – Winston Churchill, dopo anni di sofferenze fisiche e difficoltà politiche nella fase post-bellica, decide di dimettersi. Gli succederà Anthony Eden.

29 aprile – Giovanni Gronchi, esponente della Dc, diventa il terzo Presidente della Repubblica della storia d’Italia. Viene eletto al quarto scrutinio con i voti delle maggiori forze politiche del tempo, compreso il Pci e l’Msi.

15 maggio – Viene firmato a Vienna il Trattato di Stato austriaco che ristabilisce la sovranità e la libertà della nuova Austria democratica.

16 settembre – In Argentina un colpo di Stato militare destituisce il presidente Juan Domingo Peròn.

30 settembre – L’attore James Dean muore a soli ventiquattro anni in un incidente stradale a bordo della sua Porsche Spyder.

19 novembre – In Italia va in onda la prima puntata dell’iconico quiz televisivo Lascia o raddoppia?, condotto da Mike Bongiorno.

11 dicembre – In un convegno a Roma, al cinema Cola di Rienzo, dopo la scissione della sinistra del Partito Liberale Italiano, nasce il Partito Radicale.

14 dicembre – Sulla base di una mozione canadese l’Italia entra ufficialmente a far parte della Nato.

Il guzzantino. Storia d’Italia, 1956: dalle Olimpiadi di Cortina alla tragedia Marcinelle passando per il naufragio dell’Andrea Doria. Paolo Guzzanti Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Quando ho iniziato a scrivere questa serie di articoli dedicati agli anni della nostra storia repubblicana, sapevo che mi aspettava un momentaccio: raccontare il 1956 e renderlo per quanto possibile palpabile, comprensibile a chi non c’era e a chi fosse nato anche mezzo secolo dopo. Per me il 1956 è ieri. Tutto il film è da allora nella mia mente. Mia e dei miei coetanei o di quelli che avevano venti, trent’anni o poco più e che non ci sono più perché così va il tempo e va la storia. Tutti gli anni sono memorabili ma il 1956, ad undici anni dalla fine della guerra, fu quello più feroce. Non soltanto per quel che accadde in Ungheria e nel Medio Oriente, ma per il fatto che per la prima volta lo vedemmo – in bianco e nero sfarfallante – sullo schermo di quel nuovo coso che era il televisore, finalmente installato in tutte le case italiane: un aggeggio tondeggiante, pesante, su cui si accendeva per ore un disegno grafico chiamato Monoscopio. Su questo passavamo ore per regolare uno schermo con oltre seicento righine grigie. Fu lì, su quello schermo, che vedemmo accadere per la prima volta i fatti più gravi, oltre a Mike Bongiorno che trasmetteva Lascia o Raddoppia?. L’altro aggeggio entrato ormai in ogni casa era il frigorifero: non più burro tenuto in fresco nel lavandino, ma tonnellate di ghiaccio e ghiaccioli. E tramontava il gusto per l’arrendamento borghese detto “Rinascimento” (buffet e contro-buffet da una tonnellata con specchi e zampe di leone dappertutto) per cedere ad un nuovo stile razionale “svedese”, lineare e senza fronzoli. Il Paese cresceva molto, l’industria andava a tutta birra, le famiglie mettevano al mondo figli, i nonni restavano in casa come vice genitori e lì morivano. La disciplina era ancora di ferro e volavano schiaffoni e punizioni. I vigili urbani, le “guardie” (cioè i poliziotti e i carabinieri) non erano amichevoli e andavano a spiare le coppie che amoreggiavano in luoghi di fortuna. Era vietato parlare di sesso salvo che nelle surreali barzellette degli adolescenti brufolosi impacchettati nei blue jeans ancora rigidi come lamiere. Ma le donne si vestivano sempre meglio, così come le figlie adolescenti, chi aveva pochi soldi aveva in genere una zia armata di macchina da cucire per confezionare tailleur sui modelli pubblicati dai settimanali femminili. Il genio italiano emergeva, in modo sparpagliato ma anche disciplinato perché le scuole, specialmente pubbliche, erano severissime, con insegnanti dai vestiti un po’ logori, ma temutissimi. Il Paese leggeva i giornali della sera e guardava le notizie al cinema, dove ogni film era preceduto dalla Settimana Incom che era un telegiornale pieno di ministri che tagliavano nastri. Ma quell’anno fu il teatro di avvenimento importanti, sanguinosi, alcuni chiusero un’epoca, anche se non tutti se ne accorgevano. Fu l’anno del rapporto segreto al Ventesimo congresso del Partito comunista sovietico in cui il successore di Stalin, Nikita Krusciov, rivelò un po’ più della metà dei delitti compiuti da Stalin, ma benevolmente classificati come «errori» da imputare non al sistema comunista, ma ad un imprevisto eccesso di narcisismo assassino, chiamato «culto della personalità». Di conseguenza, molti seguaci di quel culto nei vari paesi soggetti all’Unione Sovietica furono eliminati. Per afferrare l’enormità di quel che veniva rivelato – ma tutto si sapeva molto bene – bisognerebbe rendersi conto della natura quasi divina del “compagno Stalin”, che sopravviveva dopo la sua morte avvenuta due anni prima in circostanze tuttora non chiare. Il rapporto era segreto, ma fu fatto trapelare per brani alla stampa occidentale che lo diffuse e pian piano lo ricostruì. Era come se il Papa avesse annunciato che Dio non esiste. I comunisti occidentali e in particolare Palmiro Togliatti, la presero malissimo anche perché molti di loro avevano partecipato ai fasti dello stalinismo. E poi le stragi di Budapest, pudicamente chiamate «i fatti di Ungheria». Quei morti in quasi diretta televisiva per la prima volta nel mondo: la rivolta di operai, studenti e intellettuali anche comunisti, contro i carri armati sovietici. Cittadini in bianco e nero. Sparavano e morivano davanti all’occhio televisivo del mondo. Chi non morì subito – circa cinquantamila uomini – fu poi fatto eliminare da Janos Kadar, che aveva partecipato alla rivolta e poi era passato ai russi che lo mantennero sul trono fino alla morte. E la neve. Le inarrestabili nevicate del 1956 da gennaio alla metà aprile con le città del centro e del Sud paralizzate, con una ondata di una micidiale influenza che ne ammazzava più del Covid. Gli alberi di Roma che crollavano. Infine, l’ultimo guizzo, il colpo di coda coloniale dei francesi e degli inglesi che reagiscono come ai tempi delle cannoniere alla nazionalizzazione del Canale di Suez proclamata da Nasser, il nuovo raìs egiziano e leader del mondo arabo. Ma non è più stagione di cannoniere e accade un fatto nuovissimo e – per i tempi – scioccante: americani e russi sembrano pronti a bombardare Londra e Parigi se non schiodano da Suez. Da dove partire? Certamente da tutti quegli operai e studenti ungheresi che indossavano un trench alla Humphrey Bogart: una cicca nell’angolo della bocca e un mitra in mano. Impassibili, un caricatore dopo l’altro. Le ragazze che riempiono i contenitori di pallottole. Avevo sedici anni e ricordo i profughi ungheresi miei coetanei arrivati a Roma prima di Natale e che accompagnavamo alle bancarelle di piazza Navona. Loro ci mostravano le mani bruciate dall’uso della mitragliatrice. Ragazzi, anzi ragazzini. E i miei amati parenti comunisti che friggevano nel dolore e nella spossatezza di non poter parlare ma piangevano più che altro per le sorti della squadra di calcio ungherese, un mito e una leggenda. Ricordo una manifestazione a Roma da piazza del Popolo a piazza Venezia furiosa e apocalittica piena sia di gente democratica che di molti fascisti: tutto l’anticomunismo della recente guerra tornava proponendo corpi di spedizione, arruolamenti, cose di pura propaganda. E poi Suez. Che cosa era successo a Suez? Il canale costruito dagli europei e di proprietà anglo-francese fu sequestrato, anzi nazionalizzato, da quel colonnello arabo che parlava alle folle senza gridare e dicendo cose mai udite prima: «In questo momento, mentre pronuncio queste parole, le nostre forze armate stanno prendendo possesso del Canale di Suez. Coloro che lavorano al Canale stiano calmi, nessuno li toccherà ma da questo momento il canale è solo egiziano». Delirio. Anthony Eden, primo ministro britannico, bello ed elegante, so british, non credeva ai suoi occhi ed orecchie. Ma come si permette questo beduino, o quel che è? Telefonate con Parigi: bisogna agire, siamo noi le potenze coloniali europee e siamo noi ad avere costruito il canale. Tel Aviv vede che gli arabi vogliono la morte di Israele prendendoli per fame e avverte: noi ci stiamo. Colpo di mano. Sbarchi, paracadutisti, navi: le potenze coloniali europee vanno a dare una lezione ai ribelli. Ma qualcosa di imprevisto ed imprevedibile accade: gli Stati Uniti con il loro presidente-soldato Eisenhower, insieme alla Russia sovietica di Nikita Krusciov sbarrarono a mano armata il passo ad inglesi e francesi: Foster Dulles, il segretario di Stato americano, il creatore della Cia guidata da suo fratello Allan, prese il microfono all’Onu e disse: «E’ per me un momento terribile dovermi opporre agli alleati storici e fratelli inglesi e francesi per dir loro no. Dovete ritirarvi immediatamente. L’epoca degli imperi è finita, l’America non permetterà a nessuno di agire come nell’Ottocento. Lasciate Suez o sarà la guerra». Da Mosca Krusciov disse: «O ve ne andate o io mando i miei bombardieri con le bombe atomiche sopra Londra e Parigi». Per molto tempo tutti fecero finta che non accadesse nulla, ma dovettero sloggiare. Ma l’Unione Sovietica aveva già occupato l’Ungheria con i carri armati: Imre Nagy, il mite capo dei ribelli, con i suoi baffetti arricciati, occhialini e il gilet, fu giustiziato alla maniera di Cesare Battisti: gli fecero salire tre gradini e lo misero di schiena contro una tavola. Un boia gli stringeva il cappio al collo per poi strangolarlo con la forza delle sue mani, facendo a lungo scalciare Nagy al quale erano caduti gli occhialini di mano. Ma la cosa più grave fu che quell’invasione dell’Ungheria e quella repressione che portò a oltre centomila morti in combattimento e quasi altrettanti in vario modo giustiziati o fatti sparire, avvenne per pressione e decisione di Palmiro Togliatti e del gruppo dirigente del Pci e del leader comunista cinese Mao Zedong. Giorgio Napolitano ha raccontato in modo particolarmente addolorato e onesto la tragedia di quella decisione. Allora tutto il partito fu compatto nell’applaudire l’intervento sovietico, salvo una dozzina di intellettuali fra cui Lucio Colletti, Paolo Spriano, Antonio Giolitti che era figlio di Giovanni e che Togliatti esibiva come nome di prestigio e pochi altri. Piero Melograni ha raccontato che ai tempi della rivoluzione ungherese – che il Pci declassò col titolo “Fatti di Budapest” – nella sede del Pci non esisteva un televisore perché il partito era contrario alla diffusione delle immagini che contrastavano il potere dei documenti politici. La realtà fu che tutti, per la prima volta nella storia, vedemmo giorno dopo giorno quel che accadeva a Budapest dove i carri sovietici abbattevano caseggiati per colpire un ribelle, e la città era ridotta un carnaio infernale. I socialisti italiani del Psi si spaccarono fra “carristi” (quelli che approvavano l’intervento dei carri armati) e autonomisti che non volevano più condividere l’alleanza con un partito comunista. Ma non successe nulla di grave e di definitivo. Le ferite, specialmente quella della memoria, si rimarginarono rapidamente. Io ricordo me stesso, sedicenne, molto agitato e disperato per quello che avevo visto. E per la prima volta nella mia vita del giornalista che ancora non ero, fui preso dalla febbre di sapere, essere informato, capire tutto: perché era successo, che cosa era accaduto prima, che fine avevano fatto tutti quegli esseri umani, quei ragazzi, quei vecchi, quelle donne che attraversavano la strada fra i colpi di cannone e di cui non si parlava più? Quella gente che fino a ieri avevo visto viva e piena di un calmo coraggio mentre sparava nello stesso modo e con la stessa epica partigiana con cui i resistenti parigini sparavano ai nazisti. La guerra era finita soltanto undici anni prima ed era già stata dimenticata e superata dalle nuove angosce, ma l’Italia era già uno splendido Paese nuovo e moderno, elegante e pieno di charme, con l’industria che produceva automobili ed elettrodomestici come quelli americani e con la moda e gli stilisti che stavano già rendendoci diversi, brillanti, con quel talento in più, quell’anomalia geniale che è l’unico e solo patrimonio italiano, oltre la storia e la geografia.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1956

26 gennaio – A Cortina iniziano le Olimpiadi invernali. Zeno Colò vince la discesa libera.

3 febbraio – Grande gelo in tutta Europa. Roma per 15 giorni è sommersa dalla neve.

25 febbraio – Krusciov parla al congresso del Pcus e rivela i crimini di Stalin. Il suo rapporto dovrebbe restare segreto ma viene pubblicato dal New York Times.

20 marzo – La Francia concede l’indipendenza alla Tunisia.

19 aprile – L’attrice Grace Kelly abbandona il cinema e sposa Ranieri, principe di Monaco.

21 aprile – Nasce il Giorno, giornale dell’Eni di Enrico Mattei che già pensa al centrosinistra.

19 maggio – Iniziano i lavori per la costruzione dell’autostrada del Sole. Ci vorranno otto anni per inaugurarla.

29 giugno – Marilyn Monroe sposa lo scrittore Arthur Miller.

25 luglio – Affonda il transatlantico italiano Andrea Doria, speronato da una nave norvegese. Ci sono decine di morti, ma oltre 700 superstiti grazie alle operazioni di salvataggio coordinate dal comandante Piero Calamai e ad una eccezionale manovra di una nave francese accorsa in soccorso. Calamai non vuole scendere dalla Andrea Doria, ma i suoi ufficiali lo costringono.

26 luglio – Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza il canale di Suez. Francia e Gran Bretagna furiose. Tensione internazionale alle stelle.

8 agosto – A Marcinelle, in Belgio, crolla una miniera. Muoiono, sepolti 262 minatori dei quali 136 italiani. È la più grave tragedia sul lavoro del secolo.

23 ottobre – Inizia la rivolta d’Ungheria contro l’Unione sovietica.

28 ottobre – Centouno intellettuali comunisti italiani firmano un documento contro l’Urss. La direzione del Pci li condanna severeamente.

Tra le firme quelle di Lucio Colletti, Asor Rosa, Carlo Muscetta, Fabrizio Onofri, Paolo Spriano.

29 ottobre – Inizia la guerra arabo-israeliana.

4 novembre – L’Armata rossa entra a Budapest.

6 novembre – Dwight Eisenhower, repubblicano, ex capo dell’esercito americano durante la guerra, viene eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti. Sconfigge il democratico Stevenson.

27 dicembre – In Italia le donne vengono ammesse nelle giurie popolari.

Storia d’Italia, 1956: quando a Marcinelle morirono centinaia di "fottuti italiani". Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. Il terribile 1956, oltre ai “fatti d’Ungheria”, oltre all’elenco parziale ma ufficiale (però a due anni dalla morte) dei delitti di Stalin, e alla guerra del canale di Suez (di cui ricorderò un retroscena cinematografico legato al sogno americano), fu anche l’anno di due terribili disastri. Entrambi angosciosi e collettivi, dal momento che la televisione ormai era entrata nella nostra vita, funzionava, e tutti potevamo vedere quel che accadeva nel mondo. La prima tremenda tragedia fu a Marcinelle in Belgio, dove 136 minatori italiani immigrati morirono gasati dai fumi in una galleria in cui una scintilla elettrica incendiò un serbatoio di combustibile. Non morirono solo loro: i morti in tutto furono 262, ma più della metà erano nostri concittadini del Sud che vivevano nelle periferie delle località minerarie come Bois du Cazier. Erano tremende immagini in bianco e nero: cadaveri – non si vedevano ancora i cadaveri in televisione – e pianto di vedove, pianto di figli impietriti. Era l’Italia che emigrava, che raggranellava franchi, marchi e dollari. Era la stessa Italia che dal Sud andava nella Milano su cui Visconti avrebbe girato Rocco e i suoi fratelli. Fu allora che ci rendemmo conto, tutti, che il miracolo economico che cominciava a dividere nettamente i ricchi dai poveri, non era lo stesso per tutti. E che mezza Italia aveva la valigia di cartone pronta con lo spago, pronta a prendere treni eterni in cui spargere l’odore delle arance e del cacio, della salsiccia e della pasta al sugo. Era la stessa Italia che ora si trovava in ginocchio impietrita a Marcinelle in mezzo alle bare. L’Italia immigrava e lo faceva in modo umile e modesto. In Francia e in Belgio gli immigrati italiani li chiamavano “les ritails” ed era un termine offensivo. Come in America i “Dagos” (chissà perché). Parole intraducibili. Semplicemente volevano dire “fottuti italiani”. La seconda disgrazia fu l’Andrea Doria. In realtà l’affondamento dell’Andrea Doria avvenne un mese prima di Marcinelle, ma nella catena dei ricordi Marcinelle viene per prima. Era una nave bellissima, la più bella nave italiana dopo il Rex di Fellini. Era la nave dei sogni modesti delle lettrici di rotocalchi. Fu speronata e morirono in cinquantuno. Una strage in mezzo al mare per ragioni incomprensibili. Fu speronata dal mercantile svedese Stockholm della Swedish American Line, al largo degli Stati Uniti. Il disastro del Titanic del 1912 aveva imposto nuovi standard di sicurezza sui transatlantici e sembra che questi standard abbiano impedito una strage più grave, visto che erano a bordo mille e duecento quarantuno passeggeri e centinaia di uomini dell’equipaggio. Si piegò su un fianco, l’Andrea Doria, e restò così a galla, fotografata dagli aerei e dalle altre navi che vennero al soccorso, prima di affondare. Era estate piena, io ero a Ostia con i miei perché a quei tempi Ostia era un meraviglioso quartiere romano sul mare, liberty e gentile e la sera si prendeva il gelato in centro e oppure i krapfen che arrivavano dalla cucina con un siluro d’acciaio su una fune. Gli strilloni gridarono: “Paese sera! Edizione straordinaria! È affondata l’Andrea Doria con centinaia di morti”. I morti non erano centinaia ma la notizia era adatta all’estate dei capannelli e dei caffè. Tutti accesero i televisori e i bar erano allora molto forniti di questi grossi oggetti luminosi. Era bello restare ammutoliti davanti alle immagini e scuotere la testa. Il naufragio in sé era un fatto mondano, più che nautico. La guerra aveva lasciato una scia di memorie, racconti e storie tutte più o meno terrificanti e in fondo la triste fine di quella bella nave diventò un argomento di passione nazionalista e di grande sdegno per gli svedesi che ci avevano affondato la più bella barca di casa. E arriviamo alla guerra di Suez, che fu un grand’evento di cui però allora pochi, anzi nessuno, capì le conseguenze. Immagino che non molti lettori abbiano ben presente, per motivi d’età, chi fosse Gamal Abd el-Nasser: fu il campione del mondo arabo che si ribella agli europei. In realtà si era trattato di una colonizzazione breve, visto che il mondo arabo aveva fatto parte dell’impero Ottomano che fu smantellato nel 1918, insieme all’impero tedesco in Africa e a quello austro-ungarico. L’Egitto era da tempo un protettorato di sua maestà britannica, il cui governo aveva installato un playboy – re Faruk- sul trono del Cairo. Faruk fu mandato a giocare le sue ultime carte al Casinò di Montecarlo da una rivolta di giovani ufficiali cresciuti nel culto del sistema britannico e con una buona preparazione militare. Fu un colpo di Stato poco cruento e fra i giovani ufficiali prevalse Nasser, che era atletico, anzi bello, intelligente, ottimo oratore e discretamente colto. Soltanto recentemente sono stati resi accessibili documenti riservati del Dipartimento di Stato, da cui si è appreso che il giovane Nasser odiava, sì, gli usurpatori inglesi che insieme ai francesi facevano soldi a palate, facendo pagare il transito sul canale di Suez su cui passavano le petroliere che portavano energia in Gran Bretagna, Francia e nell’intera Europa. Ma amava l’America. Questa è la scoperta. Nasser aveva il suo personale American Dream e questo sogno americano era legato ad un film di Frank Capra: It’s a wonderful life del 1946, in cui un giovane James Stewart interpreta il cittadino George Balley, il bravo ragazzo costretto a difendere sé stesso e la sua famiglia dalle grinfie di un malvagio riccone e che Iddio strappa al suicidio mandandogli un angelo custode senza ali perché in punizione. Nasser era convinto che in quel film abitasse l’intero inconscio dei suoi desideri: la vittoria del bene sul male, la fede in Dio e il misterioso fascino dell’America che alla fine soccorre sempre i deboli e costringe i malvagi ad arretrare. Gli americani, sia durante che dopo la guerra, segretamente detestavano gli inglesi, amorevolmente ricambiati. Gli americani avevano costretto la Gran Bretagna a mollare l’India ed erano decisi a sbatterli fuori anche dall’Egitto. Quando l’ambasciata americana rese nota la passione del nuovo “raìs” per il sogno americano del film di Capra, fu immediatamente inviata una copia speciale del film a Nasser, sottotitolata in arabo, benché Nasser parlasse un discreto inglese. Non si sa se gli americani abbiano attivamente spinto Nasser a impossessarsi del Canale di Suez con un colpo di mano e dopo aver costretto la guarnigione inglese ad andarsene. Nasser pronunciò un discorso alla radio e in questo discorso introdusse una parola chiave che era il segnale per i suoi: quando la pronunciò alcuni commandos egiziani penetrarono negli uffici della compagnia del canale e ne presero possesso. Quel che accadde dopo lo abbiamo ricordato nell’articolo precedente. Parigi e Londra decisero di intervenire militarmente, ma avevano bisogno di un pretesto e si rivolsero a Tel Aviv proponendo un accordo: voi israeliani occupate il Sinai e certamente l’esercito egiziano vi attaccherà. A quel punto noi – francesi e inglesi – annunciamo al mondo di aver mandato un corpo di peace keeper, ovvero alcune migliaia di uomini, come forza di interposizione. E lo fecero, sbarcando un vero esercito. Nasser fece per radio un discorso di chiamata alle armi copiato dal celebre discorso di Churchill “We shall fight on the hills… we’ll never surrender” e disse che gli egiziani avrebbero combattuto sui campi e sulle spiagge e mai si sarebbero arresi. Il popolo egiziano sembrò impazzito, in un delirio di patriottismo nazionalista. Fu a quel punto che Nikita Krusciov, il successore di Stalin noto per andare per le spicce, annunciò che avrebbe bombardato con le sue atomiche Londra e Parigi se i loro soldati non si fossero ritirati immediatamente. Anthony Eden, il premier britannico che era stato il ministro degli Esteri di Winston Churchill, cercò di giocare la carta americana rivolgendosi al presidente Eisenhower per chiedergli aiuto. Il vecchio soldato rispose con parole di gelo, più che di fuoco: “Non siamo mai stati informati di questa operazione che disapproviamo totalmente”. Eisenhower criticò Krusciov per aver minacciato di usare le atomiche e malgrado la guerra fredda, malgrado la situazione drammatica in Ungheria, le due superpotenze si trovavano d’accordo nel costringere i colonialisti europei ad andarsene. Nasser vinse, ma perse il senso delle proporzioni. In preda all’enfasi bellica cominciò prima a dire e poi a credere di aver vinto sul campo di battaglia l’Inghilterra, la Francia e anche Israele che odiava per la sconfitta subita nel 1948. E questa fu la sua rovina. Nasser voleva armi per combattere Israele e gli sembrò naturale chiederle a Washington, a causa del suo sogno americano ispirato da Frank Capra. Ma Washington rispose a brutto muso di non avere alcuna intenzione di dare armi all’Egitto e a quel punto Nasser, un anticomunista islamico molto radicale, compì il gesto impensabile: chiese a Mosca un esercito e finanziamenti per la diga di Assuan. Ottenne entrambi provocando una crisi di nervi a Washington. Il regolamento dei conti avvenne dodici anni dopo quando Nasser, sicuro di aver messo in piedi la crociata contro Israele con una gigantesca coalizione araba, fu di nuovo battuto sul campo nella guerra dei 6 giorni dall’esercito israeliano e dal generale Moshe Dayan, quello con un occhio bendato, che travolse gli egiziani; e dovettero fermarlo prima che arrivasse al Cairo. Dodici anni dopo. La stella di Nasser smise di brillare e il suo grande sogno americano si dissolse sulle sabbie del Sinai.

Dopo l'anno nero 1956 era impossibile illudersi sul comunismo. Il centenario della nascita del Pci si avvicina. La nostalgia sembra già farsi strada. Purtroppo. Giuseppe Bedeschi, Venerdì 18/12/2020 su Il Giornale.  Si avvicina il centenario della fondazione del Pci, il 21 gennaio 1920, escono libri e articoli sui giornali. Vorrei portare anch'io una piccola testimonianza personale a proposito della storia comunista, una testimonianza relativa a un anno fatidico, il 1956: che fu l'anno del rapporto segreto di Krusciov al XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, e l'anno della rivoluzione popolare ungherese. Stalin era morto solo tre anni prima. I partiti comunisti di tutto il mondo l'avevano osannato in modo delirante. Ma il 25 febbraio 1956 accadde una cosa stupefacente e sconvolgente. In un lungo discorso a porte chiuse (riservato cioè ai soli congressisti, senza la presenza delle delegazioni dei partiti fratelli e senza i giornalisti), Krusciov fece letteralmente a pezzi la figura di Stalin: il quale aveva governato l'Urss in maniera dispotica e terroristica, e aveva commesso innumerevoli delitti contro esponenti del partito e dell'esercito. Krusciov raccontò cose atroci e rivelò che l'uso delle bastonature e della tortura era diventato prassi corrente contro i supposti dissidenti. I dati forniti da Krusciov erano terrificanti: per esempio, dei 139 membri del Comitato centrale del partito al XVII congresso, il 70% era stato arrestato e fucilato. La stessa sorte toccò alla maggioranza dei delegati a tale congresso: su 1966 delegati, 1108 vennero arrestati e poi fucilati. Purghe altrettanto feroci furono scatenate contro l'esercito, con centinaia di vittime, sicché l'Armata Rossa si trovò in uno stato confusionale di fronte all'aggressione hitleriana. Prima di ripartire da Mosca, Togliatti ricevette dai capi del Cremlino una copia del rapporto segreto. La situazione nella quale il leader comunista veniva a trovarsi era assai sgradevole e imbarazzante. Il Pci, infatti, aveva tributato a Stalin un culto sconfinato. I comunisti italiani lo avevano sempre considerato il capo più amato, lo avevano esaltato in forme ditirambiche e morbose: Stalin era l'uomo che aveva realizzato il socialismo nell'Unione Sovietica, che aveva costruito dighe e deviato il corso dei fiumi, che aveva abolito lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che aveva battuto gli eserciti hitleriani col suo genio politico e militare. Quando Stalin morì, i comunisti italiani lo piansero come si piange un padre. Il giorno in cui fu annunziata la sua fine, l'Unità uscì listata a lutto. «L'anima è oppressa dall'angoscia dichiarò Togliatti alla Camera dei deputati per la scomparsa dell'uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell'amico». In tutta Italia i comunisti organizzarono centinaia di manifestazioni, con enorme partecipazione di popolo, per commemorare il genio che si collocava accanto a Marx e a Lenin. Togliatti rientrò in Italia da Mosca il 6 marzo, e non fece cenno alle denunce kruscioviane contro Stalin. Una settimana dopo, egli tenne una lunga relazione al Comitato centrale del Pci, in cui affrontò anche la questione Stalin. Dopo aver tracciato un quadro grandioso della società sovietica e dei suoi straordinari progressi economici, sociali e civili, egli parlò delle critiche che Krusciov aveva rivolto alla figura di Stalin. Togliatti disse: «Il compagno Stalin ha avuto una grande parte, una parte positiva, nella lotta che ebbe luogo subito dopo la morte di Lenin, per difendere il patrimonio leninista contro i trotzkisti, i destri, i nazionalisti borghesi, per riuscire a prendere la strada giusta di costruzione di una società socialista. Se questa lotta non fosse stata condotta e non fosse stata vinta, l'Unione Sovietica non avrebbe riportato i successi che ha riportato, e oggi forse nell'Unione Sovietica non esisterebbero una economia e una società socialiste. Nel corso di questa lotta Stalin si acquistò prestigio e autorità. Il suo errore successivo fu di mettersi, a poco a poco, al di sopra degli organi dirigenti del partito, sostituendo a una direzione collegiale una direzione personale. Si venne così creando quel culto della persona che è contrario allo spirito del partito e che non poteva non arrecare danni». Nessun accenno, da parte di Togliatti, al rapporto segreto di Krusciov, che però venne pubblicato dal New York Times il 4 giugno, e poi fu riprodotto dai grandi quotidiani italiani. Naturalmente, enorme fu il disagio che si diffuse fra i comunisti. Le rivelazioni di Krusciov erano ben più drammatiche dei toni edulcorati di Togliatti. Si imponeva subito una domanda: il testo del rapporto segreto pubblicato in occidente era vero o no, era autentico o no? L'Unità parlava del «cosiddetto rapporto segreto». Il mistero fu presto sfatato. In un giorno di settembre del 1956, nella mia città (Ravenna) e in molte altre città italiane, fu convocata dalla Federazione del Pci una riunione (che si tenne in un'ampia sala di una sezione comunista), riservata ai dirigenti di Ravenna e provincia: il Comitato federale, il direttivo della gioventù comunista (di cui io facevo parte: avevo 17 anni), i sindaci e gli assessori comunisti, ecc. Questa riunione (alla quale parteciparono alcune decine di persone) fu presieduta da un autorevole esponente della Direzione del Pci, il senatore Arturo Colombi. Il quale fece una lunga introduzione, e a un certo punto disse: «e ora, compagni, veniamo al rapporto segreto di Krusciov pubblicato dai giornali: è vero o non è vero, è autentico o no? Certo, compagni, che è vero, certo che è autentico». Dalla sala si levò un accorato e struggente «ohhh! ohhh!», che durò per parecchi secondi. Colombi reagì con rabbia: «compagni, non dovete dire ohhh, non dovete scandalizzarvi, perché il nostro partito ha un suo costume rigoroso: se non ha sconfessato il rapporto segreto, ciò significa che esso è autentico!». I partecipanti a quella riunione uscirono sconvolti, e molti di essi erano ormai convinti di una verità elementare ma tremenda: che il mito dell'Urss e il mito della società comunista erano morti per sempre.

Storia d’Italia, 1957: dall’Euratom all’omicidio di Albert Anastasia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Fu a Roma che avvenne il fattaccio. O se preferite il fatto meraviglioso. A me, anche allora che uscivo dall’adolescenza selvaggia, sembrava un fatto enormemente burocratico: i grandi della Terra, con le loro rispettabili Signore, segretari, parrucchieri, team ed équipe, si calarono su Roma con ogni aereo, treno di lusso e limousine e il 25 marzo del 1957 fondarono l’Europa. Attenzione: non gli “Stati Uniti d’Europa” come allora tutti speravamo, ma un’altra cosa, più pratica, di tono minore, senza tanti mescolamenti perché moglie e buoi meglio se dei paesi tuoi. Sempre Europa era, ma così doganale da sembrare dozzinale, tutta d’acciaio e carbone da non sapere dove parcheggiarla, con il suo possente reparto economico che trascinava un treno di casseforti su rotelle, e poi l’energia atomica. Ma ci crederete? C’era, con l’Europa, l’Euratom, cioè la forza atomica energetica europea. Non sto a rifare tutta la storia (per adesso) dei referendum che cancellarono la possibilità dell’energia nucleare dal suolo italiano, ma ogni volta che accendo la luce non dimentico che l’energia nella mia lampadina viene dalle centrali nucleari francesi e che alla Francia io come tutti pago la carissima bolletta e quanto ai rischi che possa accadere una sciagura alle centrali francesi, condividiamo anche quel privilegio: di beccarci sia la bolletta alta che il possibile rischio. Come è potuto accadere? Un sussurro, ma non dire nulla intorno a voi, political correctness: le centrali nucleari sono brutte e cattive, tutti gli altri ce l’hanno e noi no perché siamo furbi. Allora l’Europa che vedevamo nascere nel 1957 non emozionava, non aveva ancora una moneta (la più quotata era lo “Scudo”) né bandiere, non aveva un’anima ma dovevamo tutti battere insieme le manine perché si stava realizzando davvero un grande miracolo: Germania, Francia, Benelux, Italia e Austria erano state finalmente denudate, legate e messe nello stesso sacco. Almeno in apparenza. In realtà, Francia e Germania si assumevano la leadership dell’Europa e gli altri sudditi avrebbero fatto finta di essere pari. Già si vedeva e sapeva. Ragion per cui quando si parlava d’Inghilterra, tutti scuotevano la testa: ma figurati, gli inglesi in Europa. Specialmente le prime due, per scongiurare la prossima guerra. Era una scemenza. La Storia non si ripete mai specialmente sotto forma di farsa e a garantire la pace non sarebbe stata l’Unione Europea ma l’arsenale atomico di Usa e Urss, più i sub-arsenali di Francia, Gran Bretagna e Israele, India e poi Cina. Farsi la guerra alla vecchia maniera? Improbabile: se tu mi ammazzi, io prima di morire spingo il bottone rosso e da un sottomarino sotto il Polo Nord e faccio partire un missile che ti farà sparire dal pianeta Terra. Vale la pena soffermarsi un attimo su questo punto ingiustamente trascurato: da che mondo è mondo, gli uomini si sono solo fatti guerre in tutte le generazioni e luoghi. Ci fu una breve pax Romana, ma durò poco. Ciò che durò fu l’intervallo fra la guerra franco prussiana del 1870 alla quale dobbiamo la cattura della Roma papale da parte dell’Italia sabauda, e i colpi di pistola di Sarajevo che innescarono la vera unica guerra mondiale, il cui seguito dal 1939 non fu che la prosecuzione con conseguenze che esposero la malvagità umana oltre i limiti conosciuti. C’era stata dunque la Belle époque, con il can-can, i pittori, le automobili, qualche guerricciola coloniale con periferici bagni di sangue solo indigeno, ma i caffè di Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Roma, Zurigo e Madrid avevano seguitato a servire sontuosi caffè. A Mosca meno, perché Lenin ci insegnò che le rivoluzioni non sono dei pranzi di gala e poi tutto finì nel sangue, nel disonore, nelle uova già dischiuse di guerra fredda, ma pronta a diventare calda. Il gruppo di Altiero Spinelli e dei suoi patriottici sodali a Ventotene aveva lanciato il manifesto ideale degli Stati Uniti d’Europa e tutti avevano sognato questo giorno magnifico in cui francesi, inglesi, tedeschi, italiani, spagnoli, danesi e norvegesi senza trascurare olandesi e austriaci, si sarebbero abbracciati nelle varie lingue dando vita a una federazione come quella americana che unisce cinquanta Stati sovrani.  Nulla di tutto questo. I sacri Trattati di Roma, da allora invocati ed evocati come le leggi che Abramo ricevette da Dio in persona, erano montagne di carte, allegati, traduzioni in dodici lingue e insomma l’idea di base era ancora quella di una zona di libero scambio senza dogane che permettesse ad un gruppo di Paesi ricchi di compensarsi a vicenda per le perdite di denaro alle frontiere e una certa velocità nel trovare soluzioni condivise. Non molto più di questo Sottinteso: così, almeno, Francia e Germania la pianteranno di farsi la guerra. Infatti, Francia e Germania si dichiararono impero carolingio redivivo, la Germania che ne aveva combinate troppe fu caricata di tutti i sensi di colpa di tutti gli altri e invitata a non farsi più un esercito, cosa che Konrad Adenauer prese bene: noi tedeschi dobbiamo smetterla di usare le armi per conquistare ciò che possiamo ottenere attraverso la nostra economia a rullo compressore. Era nato dunque un mercato comune senza dazi e molte sagge istituzioni che accantonavano dentro per coloro che si fossero trovati in stato di necessità. Cambiare bandiera? Ma quando mai. Di qui a un anno la Francia, spappolata dalle termiti della quarta repubblica, sarebbe crollata in ginocchio per andare in pellegrinaggio a Colombay Les Deux Eglises per supplicare le general Charles de Gaulle, eroe della Resistenza non solo ai tedeschi ma anche agli americani, francesi e anglofoni in generale, di prendere le redini de la République. Ma nel 1957 quella crisi non era ancora matura e la Francia stava al gioco. L’Italia era una potenza energetica, nucleare e petroliera, le sue aziende andavano come treni, la Fiat si era impossessata della fabbrica francese Seat che costruiva su licenza le nostre Seicento e Cinquecento. Gli americani erano un po’ contenti ma anche un po’ rosi dall’invidia perché l’America ha tutti i motivi per temere l’Europa e già allora a Washington Adlai Stevenson disse che alla fine la terza guerra mondiale l’aveva vinta la Germania che avrebbe avuto lo stesso bottino che cercava Hitler, ma senza sparare un colpo. In Italia intanto si era stabilito, senza tanto fracasso ma soltanto con qualche acceso discorso, che il nostro Paese avrebbe fatto tesoro del più importante partito comunista occidentale in eccellenti rapporti con l’Unione Sovietica, per un trattamento commerciale di riguardo con il gigante russo, le cui commissioni sarebbero state automaticamente riconosciute al Pci. In cambio, il Pci prometteva di lasciar dormire sepolte e ben oliate le armi conquistate durante la Resistenza, scoraggiando qualsiasi eventuale colpo di mano di frange estremiste. Togliatti in questo senso aveva già dato prova di saggezza quando, malamente ferito in un attentato, aveva fatto di tutto per placare gli animi e spegnere le tentazioni insurrezionali. Il Pci non poteva formalmente approvare l’Unione Europea perché a Mosca quel rilancio della Germania economica non piaceva, seguendo l’eterno filo paranoico secondo cui qualsiasi rafforzamento europeo si sarebbe tradotto in aggressione contro l’Urss. L’Unione Sovietica, così come aveva risposto alla Nato occidentale creando il Patto di Varsavia, con un criterio simile avrebbe rafforzato il già esistente Comecon per confederare le risorse dei paesi satelliti con quelle della casa madre. I comunisti italiani non condividevano granché, circolavano molte tesi eretiche di valutazione positiva, ma per il momento dovevano esprimere sdegno e disprezzo per il trattato di Roma. Il mio adorato professore di filosofia, comunistissimo e anche ragionevolissimo, ci spiegò che questa comunità europea altro non era che la riedizione dello Zollverein fra Paesi di lingua tedesca per una unione doganale poi fallita. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa come la Brexit, o l’Euro, o “andare a battere i pugni a Bruxelles”. Allora si firmarono ben due Trattati e i soci fondatori erano soltanto Francia Germania Belgio Germania (Ovest) e Italia. Questo per la parte politica: economicamente veniva al mondo anche il gemello dell’Unione e cioè la Cee, comunità economica europea. I nostri Padri della patria firmatari erano Antonio Segni capo del governo con il suo ministro degli esteri il liberale Gaetano de Martino. Per il Belgio c’era il volitivo e ben pasciuto Paul-Henri Spaak, padre della ben più amata Catherine Spaak. Konrad Adenauer, il cancelliere tedesco era l’uomo più ossuto e magro e alto del mondo e i suoi zigomi con la sua fronte infossavano gli occhi che sembravano avere uno sguardo inclemente. Belle ragazze che sembravano disegnate da Disney indossarono gonne lunghe multicolori con le bandiere degli Stati e quello fu l’unico aperto riconoscimento alle donne in uno scenario di tavolate chilometriche con decine di camerieri, salviette, calici, brindisi, affreschi, discorsi formali e informali, deposizioni di corone all’altare della Patria e insomma un’orgia di formalità senza molto senso dell’umorismo, che però avevano una forma e una ragione. Significavano non solo che la guerra era finita ormai da più di un decennio, ma che l’Europa distrutta dai combattimenti e ricostruita col piano Marshall era di nuovo competitiva, in prima linea, con questa novità assoluta dei francesi e dei tedeschi che si tenevano per mano dopo essersene date per settantacinque anni, salvo la pausa della Belle époque. Ma nel 1957 un altro grande attore internazionale prese nuove forme e ne parleremo nel prossimo articolo: la mafia. Non Cosa Nostra, ma la grande organizzazione transatlantica che aveva dettato e seguitava a dettare condizioni in America e in Italia. Erano i tempi in cui don Vito Genovese, “il Padrino” diventa il capo della mafia americana. Joe Valachi, racconterà più tardi che le famiglie che contavano nel 1957 erano quelle di don Vito Genovese, Gaetano Lucchese, Giuseppe Magliocco, Joseph Bonanno (alias Joe Bonanno, o Joe Bananas o Joe Bonanni) padrino di Joe Valachi di Castellammare del Golfo e dei Gambino al cui capo, Albert Anastasia fu tagliata la gola sulla poltrona del barbiere come risultato della sentenza decretata dalle famiglie riunite nel summit di Palermo all’Hotel et des Palmes. Grande storia.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1957.

17 gennaio – Cuba: i barbudos castristi attaccano una guarnigione di polizia nella Sierra Maestra. È la prima vittoria militare della guerriglia che poi sconfiggerà Batista.

6 febbraio – Italia: al congresso del Partito Socialista Italiano, il segretario Pietro Nenni annuncia l’avvicinamento al Psdi di Giuseppe Saragat e la fine della collaborazione con il Pci di Palmiro Togliatti.

6 marzo – il Ghana è il primo stato dell’Africa occidentale ad ottenere l’indipendenza.

25 marzo – Sei paesi europei firmano il Trattato di Roma, istitutivo delle Comunità economica europea (Cee) e Comunità europea dell’energia atomica (Euratom): Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo.

Giugno – Urss: fallisce il tentativo di destituire il segretario del Pcus Nikita Kruscev. Egitto: l’Unione Sovietica invia sommergibili nel Canale di Suez.

4 luglio – Italia: esordisce sul mercato automobilistico la Fiat 500.

25 luglio – Tunisia: abolizione della monarchia e proclamazione della Repubblica. Habib Bourguiba diventa il primo Presidente della Repubblica.

12 settembre – Enrico Mattei conclude con lo scià Mohammad Reza Pahlavi un accordo per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iraniani.

24 settembre – Little Rock, Arkansas: una folla di cittadini respinge nove bambini neri da una scuola pubblica. Il presidente Eisenhower invia mille paracadutisti sul posto per far rispettare la legge.

24 settembre – Algeria: truppe francesi catturano Saadi Yacef, uno dei leader del Front de Libération Nationale.

25 ottobre – New York: Albert Anastasia, gangster italoamericano, viene assassinato mentre è seduto sulla poltrona del barbiere. La decisione è stata presa a Palermo in una storica riunione mafiosa all’hotel et des palmes.

3 novembre – Unione Sovietica: lancio nello spazio dello Sputnik 2, con a bordo la cagnetta Laika, che muore 7 ore dopo il lancio.

19 dicembre – La Nato decide di installare basi missilistiche in Europa.

Storia d’Italia, 1958: dall’affermazione della Dc alla morte di Papa Pacelli. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Novembre 2020. Non vorrei che pensaste che il 1958 fosse un anno da buttar via. Ci furono tsunami mai visti con onde alte mezzo chilometro, stragi, catastrofi naturali e innaturali, ma più che altro l’Italia ebbe il suo nuovo e vero inno: Volare. Senza offesa, io detesto il festival di Sanremo e spero mi perdonerete. Detesto il festival, il suo mondo, il 99 per cento della sua musica e del suo parolaio imbecille, soffro per chi ne gode e per chi lo aspetta con trepidazione come il miracolo ligure di san Gennaro, ma con più sorprese. Ciò dipende soltanto dalla mia natura malvagia che ho tentato inutilmente di riparare. Ma Nel blu dipinto del blu fu uno shock benefico benché arrivasse da San Remo del 1958 perché dopo tante barche che tornavano sole, mamme di cui (pure) ce n’è una sola benché in gioventù fosse rimasta avvinta come l’edera fra personaggi psichiatrici sull’orlo del suicidio – “per me è finita” gridava Claudio Villa davanti a un innocente binario- ecco che ti arriva questo Domenico Modugno con un testo e una voce e una postura fra il futurista e il quadro di Chagall. Niente famiglia, niente storia, niente realtà, soltanto un sogno monocromatico blu. Non suona il violino su un tetto come un ebreo notturno che guarda una mucca galleggiante, ma una creatura quantistica e puerile che infila le mani in una poltiglia azzurrastra e se la sparge sulla faccia ciò che gli permette di decollare in verticale e volare nel cielo infinito, oh-oh. Eravamo tutti per strada a cantarla: il fratello di mia madre, un serissimo intellettuale comunista fu trovato di notte a cantare nel blu dipinto di blu sui marciapiedi deserti e subito radiato (non espulso) dal Partito. In America chiesero il significato di quelle parole e poi sussurrarono: “oooh! is he flying in the sky in a deep blu immersion?”. E diventammo ciascuno di noi italiani Mister Volare. Modugno era l’uomo dio di un’Italia più inaspettata che nuova, riscattata perché surreale e lo rimase per anni anche perché responsabile di altri capolavori come Vecchio Frac. A me in quell’anno capitò la ventura di compiere inutilmente 18 anni in un mondo che non prevedeva, la passione, l’amore, meno che mai le coppie. Ce ne stavamo torvi e pieni di ormoni, acne e trasalimenti a ogni zaffata primaverile e ci saremmo innamorati di uno scoiattolo o di una rondine. Invece mi rimandarono in latino e greco sicché la mia austera famiglia mi mandò “a dozzena”, ovvero a pensione, a casa del più grande latinista del tempo, il professore Attilio Fantinati di Ferrara, che preparava le versioni di latino e greco per gli esami di maturità. Si mangiava una zuppa detta “la minestra imminestrata” e poi mi trascinava lungo il Po per ripetere ad alta voce e imparavo a tradurre dal latino in greco antico e viceversa con i discorsi sulla prima decade di Tito Livio del Machiavelli, dove imperversavano parole come “perciossiacosaché” che registravo su un robusto quaderno nero con il filo in rosso con grafia da frate amanuense, Come conseguenza, credo, diventai comunista sovietico leninista intransigente nemico della civiltà occidentale, dogmatico, tassativo, antiamericano, ateo furioso (l’ateismo era una rigorosa religione) e dunque quando il presidente americano Dwight Eisenhower fece sbarcare in Libano, boots on the ground, alcuni reggimenti di marines, restai scioccato dalla potenza delle foto che pubblicò allora l’Espresso in cui si vedevano questi soldati statunitensi calmi e potenti, affardellati e lievemente tristi, su un terra straniera di cui non sapevano nulla e che poi avrei frequentato moltissimo come giornalista, poco manca che ci lasciassi la pelle. Queste mie convulsioni ideali e ideologiche dettero vita a un infuocato carteggio fra me e mio padre a Roma con cui duellavo apertamente e che duellava a sua volta con logica e rabbia, cosa che mi fu molto utile. Fine dei ricordi troppo personali. Quanto all’anno, l’Europa si consolidava ma in realtà si spaccava perché la Francia, dilaniata dalle guerre coloniali e dai numerosi generali e colonnelli pronti al colpo di Stato, era lì-lì per consegnarsi al padre della patria Charles De Gaulle, di cui ieri abbiamo ricordato i cinquant’anni dalla morte. Imperversava la guerra coloniale in Algeria, il Fronte di liberazione nazionale colpiva militarmente e i francesi facevano saltare le case con la gente dentro, ciò che Gillo Pontecorvo raccontò nel suo magnifico film La battaglia d’Algeri. Il sesso era ancora proibito ed era di pessimo gusto parlarne o alluderne, seguendo lo stesso destino dei servizi segreti secondo le buone norme dell’aristocrazia britannica, ma Vladimir Nabokov pubblicò lo spudorato capolavoro erotico Lolita, storia di una dodicenne e di un quarantenne scritto da uno che era scappato a gambe levate dalla Russia sovietica: bestseller, oggi quella storia arderebbe sul rogo nel fuoco perenne perché racconta l’eros e l’istinto, la finzione delle barriere d’età, tanto che se ne impossessò Stanley Kubrick. Mentre nel cosmo esplodeva il primo satellite umano e sovietico Sputnik, nascevano il microchip e il pacemaker e la senatrice socialista Merlin riuscì a far approvare la legge che chiudeva le case chiuse – che sembra un controsenso e lo è – ma chiudeva l’azienda di Stato magnaccia, restava lo Stato spacciatore di alcolici e tabacchi cancerogeni, ma le signorine a settimana furono spedite a cercarsi alloggio altrove. Tralascio la retorica della letteratura dei bordelli perché non fa parte della mia generazione e l’ho trovata sempre un po’ attaccaticcia e retorica. Restarono in voga espressioni come “fare melina”, “ragazzi in camera”, “marchette” e altre di un mondo che era già morto. Bella rapina moderna di stile americano a Milano in via Osoppo con oltre cento milioni di bottino, e promozione dell’Italia al rango di grande paese evoluto anche dal punto di vista criminale. In Sicilia la mafia seguitava a mettere in bocca al morto un sasso o un pesce o, in casi particolari, i suoi propri genitali usati in maniera sconsiderata. Ah, e la pala di ficu d’Igna. Al Sud eravamo ancora arretrati col delitto d’onore, ma anche al Nord, specie da quando partivano i treni delle valigie di cartone che portavano gli ex contadini calabresi, siciliani, pugliesi e campani nelle case di ringhiera di Milano e Torino, trattati come negri in Alabama e famosi per usare le vasche da bagno come pollaio o orto per la cicoria. Ma esce anche il grande capolavoro di Tomasi di Lampedusa – di una famiglia che quando comprava camicie si trasferiva a Londra – il Gattopardo la cui morale ben nota è che tutto deve cambiare affinché possa restare come prima, segue film magnifico di Luchino Visconti con Alain Delon, Burt Lancaster e Claudia Cardinale, uno dei pochissimi film sul nostro Risorgimento. Del resto, Visconti si era già esibito in Senso, dove una perversa aristocratica italiana manda alla fucilazione il suo infedele amante austriaco. A metà giugno sui gradini di legno della forca salgono sul patibolo i due eroi comunisti della rivoluzione antisovietica ungherese Imre Nagy e Pal Malèter. Ma non li impiccano alla maniera londinese con botola e morte istantanea, sono strozzati in piedi legati a una tavola da un boia che stringe loro il collo, con un attrezzo che somiglia più alla garrota spagnola usata da Francisco Franco che alla forca nostrana. Fra tante canzoncine, canzonacce e magnifiche canzoni emerge una diciottenne sconosciuta e pressoché angelica, ma terrestre: Mina. Successo immediato e quasi magico su cui nessuno ha nulla da ridire, neppure io che sono una bestia. Ma c’è di più: Borís Pasternàk, l’autore sovietico dissidente del Dottor Zivago riceve dal comitato della Corona svedese il premio Nobel per la letteratura ed è costretto dalle sue adorabili autorità moscovite a rinunciare. I comunisti occidentali borbottano, disquisiscono, la prendono alla larga, ma leggono tutti il romanzo comprato e pubblicato da un loro editore, Giangiacomo Feltrinelli, che salterà poi in aria a Segrate mentre cercava di sistemare una bomba. E muore Papa Pacelli, Pio XII, l’anticomunista magro, alto e conservatore che aveva combattuto il comunismo come un crociato, ma anche quello che aveva dispiegato le sue bianche ali sulle macerie di Roma dopo il bombardamento del 19 luglio del 1943, quello che causò le dimissioni e l’arresto di Mussolini. Anche la Chiesa volta pagina. E così Santa Romana chiesa elegge un uomo che sembra semplice e anzi semplicione: il patriarca di Venezia Angelo Roncalli che riesuma un antico nome papale: Giovanni. Ed è Giovanni XXIII. Era stato un grande diplomatico sotto papa Pacelli, un uomo erudito e scaltro, ma estremamente onesto. Viene accreditato di una presunta “apertura a sinistra” che manda in bestia i cattolici conservatori italiani. Ma tira proprio aria di apertura a sinistra, senza i comunisti – ancora – ma a sinistra. I socialisti di Pietro Nenni cominciano a prepararsi e a compilare liste sia di occupazione che di proscrizione in quella che il leader socialista chiama la “sala dei bottoni”. Siamo agli albori di una nuova era laica, in cui gli anticomunisti socialisti come Riccardo Lombardi sono però dei radicali di sinistra in fatto di economia e comincia a circolare una parola proibita: nazionalizzazione di banche, enti, elettricità specialmente e si apre un fronte di guerra interno sempre più violento. L’anno volge al termine e se tornate sulle tracce del Padrino, il film, ricorderete che approssimandosi la fine dell’anno, il generale Fulgencio Batista sente che i colpi di mitra di Fidel Castro e dei suoi barbudos si fanno troppo vicini e chiede agli amici americani di trasferirlo in Florida. Fidel è giovane, Ernesto “Che” Guevara è giovane e bello, a Cuba si comincia ad andare al “paradòn” cioè al muro perché i guerriglieri fucilano volentieri ma rassicurano gli americani: non siamo e non saremo mai comunisti, non preoccupatevi. Ma il generale e presidente Eisenhower si preoccupava e lasciò mano libera a chi gli consigliava, in caso di vittoria di Castro, di organizzare uno sbarco di esuli per riconquistare Cuba, ma questa è un’altra storia e bisognerà attendere qualche anno prima di scoprire che Castro aveva un informatore nella Cia, sicché quando lo sbarco avvenne si risolse in un disastro.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1958

1° gennaio – Entra in vigore il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM), firmato da: Italia, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi.

31 gennaio –  Gli USA lanciano nello spazio il loro primo satellite artificiale, Explorer 1.

6 febbraio –  All’aeroporto di Monaco di Baviera un aereo di linea, a bordo del quale viaggia la squadra di calcio del Manchester United, si schianta. Di rientro dal match contro la Stella Rossa, muoiono così 23 persone, fra cui otto giocatori e otto giornalisti. Di quella formazione si salverà, tra gli altri, un ventenne Bobby Charlton, diventato in seguito una leggenda del calcio mondiale: vincerà Pallone d’oro, Mondiali e Coppa dei Campioni, la prima nella storia dei Red Devils.

20 febbraio – Viene approvata la legge Merlin che dichiara illegittime le case di tolleranza.

25 maggio – Alle elezioni politiche si afferma la Democrazia Cristiana.

29 giugno – Ai mondiali di calcio in Svezia, la nazionale di calcio del Brasile vince il titolo per la prima volta.

9 luglio – In Alaska un terremoto di 7.9 gradi sulla scala Richter genera una frana in mare, la quale conseguentemente provoca una colossale onda di 525 metri che travolge l’intera Lituya Bay.

14 luglio – Colpo di Stato militare in Iraq: alla guida del paese viene nominato il generale Abdul Karim Kassem.

29 luglio – Il presidente Dwight D. Eisenhower costituisce la NASA.

28 settembre. In Francia viene approvata con un referendum la nuova Costituzione. Nel paese è istituita la Repubblica presidenziale.

9 ottobre – A Castel Gandolfo, provincia di Roma, muore Papa Pio XII.

23 ottobre – Lo scrittore sovietico Borís Pasternàk vince il premio Nobel per la letteratura. Sarà costretto dalle autorità politiche del suo paese a rinunciarvi.

28 ottobre – Viene eletto a sorpresa come neo pontefice il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, già Patriarca di Venezia, il quale assume il nome di Giovanni XXIII.

7 dicembre – Viene inaugurato il primo tratto dell’Autostrada del Sole, da Milano a Parma.

Il guzzantino. Storia d’Italia, 1959: quando non si parlava della mafia che cresceva. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Novembre 2020. L’anno che venne dopo, il 1960, sarebbe stato un Annus terribilis ma anche fulminante, tra i “fatti di luglio” e “La dolce vita” di Fellini (biglietto a mille lire, mai visto prima). Il 1959 fu uno di quegli anni che somigliano alla prima fase di una partita di scacchi: quando si dispongono i pezzi da usare per piani segreti. La terza guerra mondiale, che non c’è mai stata, fu in quel biennio sempre più incombente e imminente. Il nuovo dittatore sovietico, il contadinesco ma abilissimo, e in guerra anche eroico, Nikita Kruscev, fece organizzare una visita ufficiale in Albania, all’epoca ancora un dominio sovietico, per pronunciare un violentissimo discorso proprio contro di noi: “Se l’Italia si azzarderà ad autorizzare l’installazione di missili americani, sappia che siamo pronti a farla sparire dalla faccia della terra”. Un po’ di chiasso, ma neanche tanto. Era normale. Le minacce militari nonché gli schieramenti di missili erano all’ordine del giorno. In America era ancora presidente l’ex comandante supremo degli eserciti alleati in Europa e Africa, Dwight Eisenhower, un presidente eccellente e calmo, tuttavia bersaglio di tutti gli imitatori e attori satirici per la scheletrica ovvietà dei suoi discorsi. A gennaio Fidel Castro con i suoi barbudos (soltanto i guerriglieri che avevano combattuto alla macchia nella Sierra erano autorizzati a non radersi come prova degli anni passati lì) si insediò formalmente al governo di Cuba, riconosciuto da tutti i grandi Paesi fra cui gli Usa che avevano per quell’isola un amore particolare e piuttosto invadente, poiché era stata anche fino ai primi del Novecento l’ultima colonia spagnola in America. Per quest’ultima motivazione, Cuba era particolarmente curata, specialmente riguardo sanità e istruzione (che diventarono poi due cavalli di battaglia del castrismo) così tutti si chiedevano da che parte stesse. Il vicepresidente di Eisenhower era Richard Nixon, brillantissimo avvocato che poi diventerà presidente e finì dimissionario nel 1972 per lo scandalo Watergate (microspie nel quartier generale del Partito democratico) reso noto da due giornalisti considerati mitici – Carl Bernstein e Bob Woodrow – che ricevevano misteriosi pizzini da uno sconosciuto e diabolico personaggio che nelle intercettazioni era chiamato “gola profonda”. Da allora, ogni volta che si parla di un ispiratore segreto, in inglese oggi si usa il termine “whisteblower”, ossia uno che spiffera ma come agente sotto copertura. La storia è popolata dalle gole profonde e dai whisteblower che agiscono come oscure divinità olimpiche, determinando il destino delle nazioni attraverso intermediari ambiziosi che fanno carriera grazie alle soffiate, capaci di determinare la linea politica e giudiziaria dei loro giornali, appesi alla speranza dello scoop, come in Italia molti anni dopo imparammo da inchieste extraterrestri come Mani Pulite, la vicenda Lockheed e molti dritti e rovesci sulla mafia. Nel 1959, ad esempio, il primo dei grandi pentiti (che poi, trent’anni dopo, fu gestito personalmente da Giovanni Falcone), e cioè Tommaso Buscetta, fu arrestato a Palermo per faccende di piccola criminalità: contrabbando di sigarette, associazione per delinquere e altre piccole immondizie. Aveva 30 anni. Arrestato, ma subito liberato grazie al suo santo in paradiso che era un deputato democristiano. A suo tempo vedremo come questo personaggio diventò un protagonista di quel mondo occulto, costretto alla fuga e riacciuffato in Brasile per essere messo sottochiave da Falcone – siamo ancora lontani da quei tempi, che però maturavano come nelle complesse aperture di una buona partita di scacchi. Le vicende cubane e quelle della mafia siciliana erano procedute per anni in un intreccio che vedeva gli investimenti nella Cuba di Fulgencio Batista e della sua rete di casinò, nel giardino di casa degli americani che la consideravano un Paese accessorio, se non conquistato, a causa della guerra di liberazione dalla Spagna che portò nell’orbita americana anche tutti gli altri territori coloniali spagnoli, fra cui le Filippine che diventarono e sono tuttora un pezzo importantissimo della politica in estremo oriente. Dunque, Fidel Castro era ancora un fanciullone che aveva giocato con le armi e le romantiche notti di agguati e sparatorie sotto le mura della Caserma Moncada, e ancora nessuno poteva immaginare che sarebbe diventato il pezzo più importante della politica sovietica e poi la causa della crisi dei missili per cui il mondo tremò per alcuni giorni, ma soltanto alcuni anni dopo. Allora Fidel era un personaggio elementare e carismatico, non un genio, ma popolarissimo. Eisenhower chiese al suo vice Nixon di capire da che parte stava e Nixon invitò Fidel Castro a Washington per discutere la richiesta cubana di fondi con cui finanziare la ripresa economica dell’isola dove i rivoluzionari avevano distrutto il tessuto di case da gioco, bordelli, poker e scommesse in cui sguazzavano anche le grandi famiglie siciliane. Qualche mese prima, Albert Anastasia, il mammasantissima degli italoamericani, aveva avuto la gola tagliata a New York sulla sedia del suo barbiere, in seguito agli accordi presi dalle grandi famiglie nella riunione del 26 ottobre del 1957 nei saloni splendidi e decadenti dell’Hotel Le Palme di Palermo. Lì, dove si fermava anche Frank Sinatra, un divo stellare i cui rapporti con Cosa nostra erano noti quanto quelli con la sua eterna fidanzata e poi ex moglie Mia Farrow che poi sposò Woody Allen, con tutto il frastuono che ne seguì per le accuse da caccia alle streghe scatenate contro il geniale regista, colpevole di essersi innamorato e poi di aver sposato una delle figlie adottive della ex moglie. Quest’ultima nel frattempo gli aveva donato, come unico suo figlio naturale, un pupo oggi famoso giornalista e femminista che è il ritratto sputato di Frank Sinatra, detto anche “The Voice”, la più calda e passionale voce d’America. Ma, ricordiamolo ancora una volta, tutti questi brandelli di storia che nel 1959 vediamo dispiegarsi sulla scacchiera del mondo, daranno luogo a grandiosi e tragici finali di partita di cui allora ancora nessuno sapeva niente. E così, Richard Nixon accolse Fidel Castro a Washington e passò un paio di giorni con lui per capire che tipo fosse questo guerrigliero che giurava di non essere comunista ma lo sembrava. Poi ne riferì a Eisenhower: “È un tipo che trascina le folle. Ha idee un po’ rozze ma sembra un ragazzo in buona fede. Vorrebbe il nostro aiuto finanziario, ma non intende concedere risarcimenti per le imprese americane che ha nazionalizzato. Dice che è nostro interesse aiutarlo, altrimenti sarà costretto a rivolgersi altrove”. Dove l’avevamo già sentito questo ragionamento? Ma sì, Gamal Nasser il nuovo bellissimo rais dell’Egitto, il quale pensava che gli inglesi o gli americani avrebbero dovuto finanziare i suoi sogni un po’ faraonici come la diga di Assuan e che poi quando si vide sbattere la porta in faccia si rivolse a Mosca. Il gioco, visto oggi a ritroso, era abbastanza semplice, ma allora pochi capivano in che modo girasse il mondo. L’occidente americano era anticomunista e anche in Europa tiravano venti bipolari, nel senso che tutti i gruppi ex fascisti o neofascisti pensavano che fosse giunta la loro ora per tornare al comando. Al Comune di Roma si facevano le prove per giunte anticomuniste col sostegno missino. Ciò spingeva comunisti e socialisti a una radicalizzazione che poi, l’anno successivo, con il governo del democristiano Tambroni (formalmente di sinistra ma che si alleò con i neofascisti del Msi per avere la maggioranza) diventò un’insurrezione popolare con decine di morti e feriti. Quasi una rivoluzione, che Palmiro Togliatti riuscì a contenere e frenare ma che sconvolse il Paese creando premesse per altre inaspettate conseguenze. La situazione internazionale e specialmente cubana portò a riassetti drammatici nella mafia siciliana: il capo dei capi, l’idolatrato e indiscusso signore di tutte le cosche, il medico ma anche assassino nonché capo dei corleonesi Michele Navarra, fu fatto fuori sulla strada statale 118 in località San Isidoro. Si disse subito che a premere il grilletto era stato l’astro nascente del momento, e cioè Luciano Leggio detto – non si sa perché – Liggio. Si sparò per un paio di mesi col bilancio finale di nove morti ammazzati e uno strascico giudiziario eterno che vide alla fine tutti assolti, e stiamo parlando di nomi non ancora famosissimi, ma del calibro dei Provenzano, Liggio, Riina e Bagarella. Di mafia a quei tempi si parlava poco e di malavoglia anche nei tribunali. Il nome di Cosa Nostra diventerà un valore aggiunto portato da Buscetta, che diede a Falcone tutte le password necessarie per leggere il grande libro nero. Nei tribunali e nelle sentenze si parlava con distacco di criminalità organizzata. Ma la grande rete siciliana – quella della calabrese ‘ndrangheta era ancora un fritto misto di piccole ‘ndrine locali, tributarie della mafia siciliana e allora di poco conto – aveva santi in tutti i paradisi: servizi segreti italiani e stranieri, politica locale e nazionale, gerarchie ecclesiastiche, corpi di polizia e giornalismo. In quel coacervo ancora indistinto ed esplosivo come il Big Bang spiccava un personaggio di assoluto rilievo: Michele Sindona, che un quarto di secolo più tardi dopo finirà – come Gaspare Pisciotta, il cognato assassino di Salvatore Giuliano – avvelenato in carcere con una tazzina di caffè corretto. Sindona era un uomo spregiudicato e dinamico, si sentiva con le spalle coperte ed era capace di combattere mediaticamente. Viveva a Milano dove i siciliani di New York avevano una delle loro basi migliori in quegli anni, e nella capitale lombarda entrò nel giro d’affari della mafia ameri­cana attraverso Joe Adonis (al secolo, Giuseppe Antonio Doto, nato a Montemerano, presso Napoli, nel 1902 e che fino al 1972 ebbe lo stesso potere nazionale e internazionale di Lucky Luciano, di cui fu allievo fedelis­simo). Luciano durante la guerra aveva lavorato per la marina militare americana, costituendo un fronte del porto di New York contro le spie tedesche che trasmettevano ai sottomarini U-Boat della marina hitleriana le rotte dei convogli destinati alla Gran Bretagna perché fossero silurati e affondati. Il lavoro di questi mafiosi di New York a caccia di nazisti però fu poco più che una messinscena, utile soltanto per regolamenti di conti nella criminalità di Manhattan. Ma finché la guerra non finì, Lucky – che vuol dire “fortunato” – Luciano ebbe un trattamento carcerario principesco, con puttane, cuochi e camerieri, quadri d’autore e liquori, ma sempre chiuso dentro le turrite mura di Sing-Sing, oggi museo nazionale e curiosità storica. Quando la guerra si concluse, sperò di avere se non una medaglia al valore almeno un perdono per meriti patriottici. Ma non tirava più aria per tipi come lui e gli americani lo espulsero come indesiderato perché era arrivato clandestinamente da bambino senza mai procurarsi uno straccio di certificato che lo rendesse un cittadino americano. Così, fu scaricato all’alba da un bastimento nel porto di Napoli con bauli di vestiario, alla continua ricerca di giornalisti e cineasti con cui sperava di raccontare la propria storia e leggenda. Erano personaggi grandiosi, odiosi e terribili, questi mafiosi di New York, come don Vito Genovese, Carlo Gambino o il bandito finanziere Louis “Lepke” Buchalter che sapeva riciclare i proventi del crimine in fiorenti attività lecite. Adonis fu, come Luciano, uno dei gangster rispediti in Italia dagli Stati Uniti perché, come Luciano, ignoto all’anagrafe. Ma in Italia diventò presto famoso per la sua catena di ristoranti “Joe’s Italian Kitchen” dove riceveva americani di un certo livello cui faceva recapitare dai suoi camerieri armati buste piene di dollari. Questo, anche, era il giro in cui si ritrovò Michele Sindona, il quale entrò fin troppo nello spirito di questa società che sarebbe riduttivo definire semplicemente mafiosa. Fu attraverso i mille canali di affari, ricatti, guadagni, minacce e regolamenti di conti che Tommaso Buscetta trovò la sua strada per levarsi di dosso i fastidi di due accuse di omicidio, mettendosi agli ordini di un altro straordinario e quasi leggendario personaggio di questo mondo infernale: quel Salvatore Greco detto “Chicchiteddu” o anche “Ciaschiteddu”, ovvero l’uccellino, lo scricciolo, che con quella sua aria da passerotto comandava le truppe e le retrovie di Ciaculli e che bisognava sempre citarlo con i soprannomi per non confonderlo con altri e omonimi galantuomini, a loro volta distinguibili per soprannomi come “l’Ingegnere”, “il Lungo”, “il Senatore” o il fratello Michele Greco detto “u’ Papa”. Tutti personaggi con cui entrò in familiarità Buscetta arrivando fino a Lucky Luciano. Al governo nazionale si succedevano i democristiani di valore come Segni, Fanfani e Moro che però fra loro erano in ostile antagonismo, ognuno alla ricerca della formula magica per governare contro i comunisti, senza inimicarseli troppo e con l’aiuto dei fascisti, senza amicarseli troppo. Un gioco pericolosissimo che nel breve giro di un anno portò a tragiche conseguenze cui ancora prolungano i loro effetti.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1959

1° gennaio – Il dittatore Fulgencio Batista abbandona l’Avana e fugge da Cuba. Fidel Castro entra nella capitale del Paese in testa alle sue truppe.

8 gennaio – Al Palazzo dell’Eliseo in Francia, René Coty, ultimo presidente della Quarta Repubblica, passa le consegne a Charles de Gaulle, primo presidente della nuova Costituzione.

26 gennaio – Nel nostro Paese cade il secondo governo Fanfani. Il politico abbandonerà anche la carica di segretario della Democrazia Cristiana.

3 febbraio –  In un incidente aereo perdono la vita i giovani musicisti Richie Valens, Buddy Holly e J.P. “The Big Bopper” Richardson. È ricordato come il giorno in cui muore la musica.

15 febbraio – Il nuovo Governo italiano è presieduto da Antonio Segni.

9 marzo – Viene venduta la prima Barbie, bambola destinata ad avere un enorme successo commerciale.

14 marzo – Aldo Moro è il nuovo segretario politico della Democrazia Cristiana.

17 marzo – Dopo violenti scontri con gli occupanti cinesi, il XIV Dalai Lama fugge dal Tibet alla volta dell’India.

8 maggio – Viene festeggiata ufficialmente per la prima volta in Italia la festa della mamma.

17 maggio – Fidel Castro annuncia alla radio l’approvazione della legge per la riforma agraria. I terreni dei possedimenti americani sono espropriati.

31 luglio – In Spagna viene fondata l’ETA, un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista d’ispirazione marxista-leninista, il cui scopo è l’indipendenza del popolo basco.

24 settembre –  Inizia su Raiuno lo Zecchino d’Oro.

25 settembre – Si incontrano a Camp David il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower e il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Khruscev, dando avvio a una prima fase di distensione delle relazioni internazionali.

7 ottobre – La sonda russa “Luna 3” fotografa per la prima volta la faccia nascosta del nostro satellite.

21 ottobre – Viene inaugurato a New York il Guggenheim Museum, realizzato dall’architetto Frank Lloyd Wright.

29 ottobre – Esce in Francia sul periodico Pilote la prima storia a fumetti di Asterix.

1° dicembre – Firma del Trattato antartico.

2 dicembre – Nel Fréjus crolla la diga di Malpasset e l’inondazione che ne segue provoca 421 vittime. È il più grande disastro nella storia francese.

Il guzzantino. Storia d’Italia, 1960: l’anno delle Olimpiadi di Roma che trasformarono la città in un cantiere. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Novembre 2020. Fu un anno di sangue e gioia, il 1960 con quell’aria così tonda, nitida, da anno-design. Eppure fu un anno anche terribile, oltre che pieno di vittorie e stupore, perché senza quasi preavviso scoppiò una mezza guerra civile antifascista con molti morti e feriti, anche l’avvenimento più grandioso, indimenticabile e pacifico fu quello delle Olimpiadi di Roma con Giovanni Berruti (un ragazzino, un anno più grande di me) che prese l’oro sui duecento metri e il grande Cassius Clay (che poi scelse il nome islamico Mohamed Alì) che conquistò il titolo di campione del mondo nei pesi massimi. Da allora la boxe è stata messa al bando in Europa e pochi possono ricordare le emozioni televisive in bianco e nero del combattimento di un uomo contro un uomo. Le Olimpiadi furono un evento fantastico, urbanistico, televisivo, di costruzioni gigantesche, quartieri interi che sorgevano per gli atleti – il Villaggio Olimpico – poi destinati a edilizia popolare. Ma fino all’inizio ufficiale dei giochi la città sembrava devastata da un terremoto di fango e invasioni aliene di macchinari scintillanti e giganteschi che ci davano la sensazione di essere primi al mondo nel trasformare una città antichissima in una Olimpiade per lo sport. Nacque così la “la Via Olimpica”, oggi tangenziale, che fece scoprire ai romani quanto si potesse correre su quella piccola autostrada che precorreva i raccordi anulari, con l’uso di due gallerie che erano state scavate per caso, un’iniziativa del ministro socialdemocratico Romita, per dar lavoro ai disoccupati messi senza avere idea di come avrebbero potuto essere utilizzate. E furono utilizzate. Ma mentre gli studenti soffrivano agli esami finali della maturità, giornali e telegiornali esplosero con titoli da guerra civile per i drammatici e inattesi “fatti di luglio” con scontri violentissimi fra operai, studenti e polizia che si conclusero col bilancio di una ventina di morti fra Reggio Emilia, Palermo, Genova e altre città italiane. Si trattò di una vera insurrezione, motivata da una mobilitazione antifascista per impedire che i neofascisti del Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante rientrassero nel gioco politico del governo e celebrassero il loro congresso nella città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza. Tutto scoppiò a giugno quando i portuali di Genova – i “camalli”- che usavano un grosso uncino di ferro come strumento di lavoro per scaricare le balle dalle navi, ma anche un’arma leggendaria durante i combattimenti per strada, si radunarono e decisero di impedire ai neofascisti del Msi di fare il loro congresso e scorrazzare a loro piacimento per la città. La guerra era davvero finita? Assolutamente no, secondo una parte del Partito comunista che, ad anni dalla fine della guerra seguiva ancora la linea dell’antifascismo militante, militare e pronto alle armi. Niente fascisti, niente allarme antifascista. Ma le cose andarono subito lontano; l’organizzazione dei portuali e del partito a Genova se ne infischia dei divieti della prefettura e raduna gli iscritti e gli ex partigiani che vengono caricati dalla polizia, come previsto. Il partito, o almeno larga parte di esso, ha deciso di rispondere ai divieti di legge con una mobilitazione che nessuno avrebbe potuto pensare di sciogliere e così fu. La Genova rossa dei camalli, dei lavoratori puri e duri nell’unica città italiana in cui la Resistenza – guidata dal democristiano Paolo Emilio Taviani – ottenne la resa armata delle forze tedesche prima che gli americani arrivassero, dette alla capitale ligure un potere mai eguagliato da altre città. E la Genova rossa vince, La Cgil convoca i suoi iscritti, la Cisl lascia libertà di aderire, la Uil socialdemocratica è contro lo sciopero ma tutti sentono che la massa scesa in piazza non potrà esser respinta con la forza e così gli scontri si prolungano fino al 2 luglio quando il prefetto, cioè il ministero degli Interni, si arrende: il congresso del Msi che avrebbe dovuto celebrare il ritorno di un partito neofascista al centro, viene vietato. Ottenuta la vittoria il gruppo dirigente comunista della Cgil incassa la vittoria e da ordine di sospendere lo sciopero, cosa che fece autonomamente senza neanche dirlo ai socialisti. Pietro Nenni che era stato anche uno dei grandi leader della Resistenza commentò: «Com’era facile prevedere, la vittoria antifascista di Genova viene usata dai comunisti in termini di frontismo, di ginnastica rivoluzionaria, di vittoria della piazza, tutto il bagaglio estremista che pagammo caro nel 1919». Poi disse ai suoi di avere provato la stessa sensazione di quando piombò la notizia-bomba che il Partito comunista aveva dato ordine di fucilare Mussolini, senza consultarsi con gli alleati. Anche quella volta Nenni aveva masticato amaro, si era infuriato e poi però aveva subito dettato il titolo d’apertura del giornale socialista Avanti!: “Giustizia è fatta”. L’antefatto l’abbiamo accennato negli articoli precedenti: sedeva al Quirinale il presidente democristiano Giovanni Gronchi della sinistra Dc – un uomo che veniva dai popolari e che aveva combattuto la prima fase del fascismo e nel Quirinale era diventato famoso per la sua vita galante oltre che per un francobollo con la sua immagine stampata in un lezioso color rosa che fu prontamente ritirato dalla zecca dello Stato ma che diventò un carissimo pezzo per collezionisti: il famoso “Gronchi Rosa”. Gronchi aveva dato subito la sensazione di voler sdoganare i missini per poterli usare nel gioco parlamentare, tirandoli fuori dal cosiddetto “arco costituzionale” che li chiudeva in una sorta di ghetto da cui poi li tirò fuori Cossiga, il quale volle imporre come presidente del Consiglio incaricato e contro il parere del suo partito, un suo uomo, Fernando Tambroni che era anch’esso di sinistra – ricordo mio padre, un ingegnere conservatore, fuori dai gangheri per questa imposizione “di sinistra” del capo dello Stato – ma la Dc non voleva concedere al capo dello Stato un diritto che non gli competeva: quello di scegliere autonomamente il primo ministro, per lo più tra la cerchia dei suoi fidi, ignorando il partito democristiano con tutte le sue complicatissime regole e bilanciamenti interni. A Giorgio Almirante non parve vero di poter tornare in prima linea giocando d’azzardo offrendo a Tambroni la copertura parlamentare per sostenere il governo se i democristiani avessero abbandonato Tambroni. L’effetto fu esplosivo: i neofascisti erano davvero rientrati nel gioco politico da protagonisti e per suggellare la promozione chiesero e ottennero l’impensabile: celebrare il loro congresso a Genova, la città più antifascista d’Italia. Almirante abilmente giocò sia la questione di principio – siamo tutti legittimi rappresentanti – che avrebbe dovuto consentire lo sdoganamento del Msi la cui sigla sintetizzava il nome di Mussolini e che aveva per simbolo il feretro del duce da cui usciva una macabra fiamma ardente. A Botteghe oscure Togliatti era preoccupatissimo perché la frazione di sinistra guidata da Secchia ed altri erano favorevoli a qualsiasi forma di pressione popolare che rimettesse in discussione la posizione internazionale dell’Italia. Togliatti sapeva che questo doveva essere assolutamente evitato e che non avrebbe avuto neppure in caso di successo l’appoggio armato sovietico, così com’era successo nel 1947 quando una parte del partito comunista greco aveva deciso di insorgere per la conquista del potere ad Atene (assegnata all’Occidente) e Stalin non mosse un dito finché gli inglesi, occupanti in Grecia, non sterminarono gli insorti ridotti. Togliatti era stato spedito in fretta e furia da Stalin che lo fece svegliare dal numero uno del Comintern, Dimitrov, il quale trasmise ad “Ercoli” (nome di battaglia di Togliatti) l’ordine di tornare in Italia e far uscire il partito comunista dalla condizione di minuscolo partito militarizzato intransigente, per farne un partito aperto a tutte le alleanze, fino ai liberali, ai monarchici, certamente ai cattolici, purché uniti nel fronte antifascista. Fu quella che poi Togliatti elaborò nella famosa “Svolta di Salerno” con un ampio respiro, ma che comunque significava che i comunisti italiani avrebbero mantenuto la loro posizione in Occidente senza cedere alle forti pulsioni rivoluzionarie. Quelli che poi vennero furono i “fatti di luglio”. E quest’uso della parola apparentemente neutrale “fatti” veniva usata quando si dovevano denominare eventi controversi ma violenti con scontri, morti, occupazioni militari come era avvenuto ini Ungheria e accadrà in Cecoslovacchia. A Roma io mi trovai con altri studenti a Porta San Paolo dove fummo caricati a sciabola piatta dalla cavalleria dei carabinieri guidati dai capitani D’Inzeo, campioni olimpionici di equitazione e posso giurare che una carica di cavalleria è qualcosa di terribile e perduto, potente e inarrestabile perché i cavalli non hanno freni e neanche gli uomini che li cavalcano e ricordo benissimo questi ufficiali che sembravano usciti dal Regno di Umberto primo, con il busto proteso in avanti e la lama scintillante, che lanciavano fra loro parole inaudibili, brevi, militari e l’’apertura a ventaglio dei destrieri puntava nella nostra direzione. Noi fuggivamo come conigli davanti ai cani da caccia mentre quello squadrone di cavalleria cresceva di andatura per arrivare a noi come una forza invincibile per massa e velocità, preparata a travolgere, calpestare e se occorre ad uccidere. Niente a che fare con le camionette della Celere che per quanto brutali temevano i marciapiedi. Fu brutta e fantastica, fu terribile e incredibile. Indimenticabile, quei due fratelli e quell’odore dei cavalli, che avevamo perduto nella memoria. L’otto novembre di quel 1960 gli americani elessero John Fitzgerald Kennedy, giovane e amato miliardario democratico cattolico (il primo presidente cattolico, il secondo credo sia Biden, se non ha cambiato per strada) dopo il primo celeberrimo duello televisivo con Richard Nixon, l’ex vice di Eisenhower che si batté bene, ma vinse il bello e nuovo Kennedy, anche se suo padre era un noto trafficante di alcool che aveva usato il suo ruolo di ambasciatore a Londra per questo commercio illegale con gli Stati Uniti e dove peraltro, essendo irlandese, tifò in un primo tempo per i tedeschi. Si disse anche, con parecchie prove, che l’elezione di John avvenne perchè suo fratello Robert, procuratore, accettò di dare tregua al capo del sindacato mafioso Tom Giancana, che offrì i voti operai in cambio del favore. Ma allora nessuno conosceva questi ed altri dettagli. Il giovane Presidente sembrava perfetto e sarebbe entrato nella White House nel gennaio del 1961 per essere poi assassinato nel 1963 con un delitto di cui non si venne mai a capo. Era uscito anche un filmino divertentissimo con Peter Sellers che si chiamava Il ruggito del topo, e fu durante quel film al cinema Ritz che baciai la mia fidanzata, cosa che non era ancora così scontata. I fatti di luglio preoccuparono moltissimo gli alleati che videro l’Italia come un Paese in balia dei comunisti che prima avevano scatenato la protesta e poi l’avevano disciplinatamente riassorbita. Quanto era potente il Pci e quanto fragile il governo democratico? Questa domanda cominciò a diventare nella Nato una questione di tremenda importanza che avrà molte conseguenze nel 1964. quando il mese di luglio rivelò altri fatti e altri pretesi o veri complotti. “La Dolce Vita” diventò subito un’espressione internazionale coma “paparazzi” usata da Fellini. Anita Ekberg (“Anitona” da allora per tutti i romani che la desideravano come una Venere e l’adoravano come una Madonna) faceva il bagno nella Fontana di Trevi, Marcello Mastroianni arrostiva nell’eros le adolescenti del tempo, accadeva anche che qualche intellettuale si suicidasse e che la vita apparisse di colpo tanto dolce quanto insensata, elegante e inutile, banale e lussuosa. Tutto il mondo guardava all’Italia come un Paese eternamente artistico, vagamente corrotto, terribilmente sexy. Malgrado tutto.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1960

1° gennaio – Il Camerun proclama l’indipendenza. In Africa, nei mesi successivi sarà la volta anche di Senegal, Congo, Somalia (dall’Italia), Burkina Faso, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo, Gabon, Nigeria e Mauritania.

3 febbraio – Esce nelle sale cinematografiche La dolce vita, uno dei capolavori di Fellini e tra i più celebri film della storia del cinema a livello mondiale. La Chiesa cattolica e la destra chiedono invano l’intervento della censura.

18 febbraio – A Squaw Valley in California iniziano gli VIII Giochi olimpici invernali.

29 febbraio – Un terremoto in Marocco uccide un terzo della popolazione di Agadir.

23 marzo – Antonio Segni si dimette da Presidente del Consiglio italiano.

8 aprile – Il nuovo Governo guidato da Fernando Tambroni ottiene la fiducia alla Camera dei deputati grazie ai voti della Dc, del MSI e di quattro ex deputati monarchici.

16 maggio – Il fisico statunitense Theodore Maiman inventa il primo laser.

22 maggio – Con magnitudo 9.5, si abbatte in Cile il terremoto più forte mai registrato. Il maremoto generato dalla scossa tellurica, oltre a distruggere tutti i villaggi lungo 800 km di costa, percorre 17.000 km e arriva fino in Giappone, dall’altra parte dell’Oceano Pacifico.

23 maggio – Il Governo israeliano annuncia l’avvenuta cattura in Argentina del criminale nazista Adolf Eichmann.

7 luglio – A Reggio Emilia durante gli scontri tra forze dell’ordine e lavoratori perdono la vita cinque operai. L’evento sarà noto come la Strage di Reggio Emilia.

10 luglio – L’Unione Sovietica si aggiudica la prima edizione del Campionato europeo di calcio, battendo in finale la Jugoslavia.

21 luglio – Nello Sri Lanka, Sirimavo Bandaranaike è eletta Primo ministro. È la prima donna al mondo a ricoprire tale carica.

20 agosto. Viene inaugurato a Fiumicino il nuovo aeroporto “Leonardo da Vinci”.

25 agosto – A Roma si aprono le XVII Olimpiadi. L’Italia grazie a 13 ori giungerà terza nel medagliere, alle spalle di Unione Sovietica e USA.

8 novembre – John Fitzgerald Kennedy vince le elezioni sconfiggendo il candidato repubblicano Richard Nixon e diventando così il 35° Presidente degli Stati Uniti.

13 novembre – Sammy Davis Jr. sposa May Britt. Il matrimonio tra l’artista di colore e l’attrice svedese desta scalpore, perché le unioni interrazziali sono all’epoca vietate in 31 dei 50 Stati degli USA.

25 novembre – Tre delle quattro sorelle Mirabal, attiviste politiche dominicane, vengono assassinate per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. In loro memoria, questa data verrà ricordata come la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Nicola Graziani per agi.it il 22 settembre 2020. No, non veniva dalla Germania post nazista portando la sua conoscenza in fatto di missili e razzi: si nascondeva semmai tra i sogni bacati di qualche complottardo nostalgico, magari entusiasta di Trujillo, Colui che avrebbe fatto saltare il Mondo con i suoi abitanti. L’infernale archipendio chiamato Macchina di Fine di Mondo non sarebbe scattato per via di un tre stelle convinto che i comunisti gli avvelenassero l’acqua minerale. Sarebbe bastato molto meno: un oscuro paio di stellette o poco più, forse nascosto in qualche caserma periferica o in qualche ufficio al ministero della Difesa in Via XX Settembre. Quando John Fitzgerald Kennedy lo lesse in un rapporto segreto, alla vigilia della tremenda figuraccia della Baia dei Porci, dovette prendere una sofferta decisione. Fu così che grazie al Dottor Stranamore nascosto in Italia cambiò tutto, nella Guerra Fredda: la dottrina nucleare, i rapporti tra Usa ed Urss, persino gli equilibri interni della Nato. Straordinaria potenza di un uomo mai esistito oppure, se esistito, somigliante molto meno al Generale McArthur che non, piuttosto, al Colonnello Buttiglione, lo stralunato ufficiale dell'Esercito italiano creato da Mario Marenco come caricatura del mondo militare. E' quanto emerge da nuovi documenti dei National Archives statunitensi. Della Baia dei Porci si è detto, ma da sola la circostanza non rende il quadro generale. In quel momento infatti Kennedy si trova chiuso tra le pressioni dei repubblicani del Congresso, che lo accusano di essere “soft on communism”, ed un Nikita Krusciov che lo considera e lo tratta da ragazzino viziato. La Nato è in crisi: il Generale De Gaulle non solo medita l’abbandono della struttura militare dell’Alleanza, che arriverà anni dopo, ma si è messo a finanziare gli autonomisti francofoni del Quebec. L’America Latina ribolle tra voglie castriste e caudilli sanguinari. In Europa l’entusiasmo per il nuovo inquilino della Casa Bianca è forte, ma vai a sapere se durerà e se, soprattutto, sarà possibile reggere alle spallate dei bolscevichi: quando Khrusciov parla di coesistenza pacifica non si sa mai se intenda coesistere per sempre da buoni vicini oppure lasciare che l’Urss ricarichi le pile per tornare all’attacco. Infine l’Italia: chiede di poter mettere bocca sull’impiego dei missili nucleari americani presenti sul suo territorio. Ce ne sono, di missili dispiegati in tutta Europa, ben 4.000. La maggior parte in Germania Ovest, certo, ma l’altro paese geograficamente adatto a fare da rampa di lancio in caso di attacco nucleare è la Penisola, e la cosa è stata opportunamente valutata nel destinare vettori e testate.  L’Italia: si apra a questo punto una parentesi. Premessa essenziale per comprendere questa storia, che ci giunge oggi grazie al lavoro del National Security Archive della George Washington University, accademia tra le migliori della Capitale americana: siamo nel febbraio del 1961. Nel 1961 l’Italia incubava un cambiamento politico gravido di conseguenze: finiva il centrismo, era in gestazione il centrosinistra. Con un passaggio traumatico: il Governo Tambroni, frutto di una mai più ripetuta intesa della Dc con un Msi all’epoca dichiaratamente neofascista. Scontri di piazza, morti e feriti. Tambroni messo da parte, al suo posto Amintore Fanfani. La cosa, si vedrà, ha la sua importanza nel lungo periodo. Nell’immediato basti dire che a pretendere il diritto di parola sull’uso dei missili dislocati tra Aviano e Sigonella è proprio lui. Del resto si tratta di un discepolo di Giorgio La Pira, sindaco (che sant’uomo, ma che tormento) di Firenze che si diverte in quegli anni ad andare a Mosca a interloquire con Krusciov – in compagnia dell’altro suo allievo Vittorio Citterich – infischiandosene di quel che si dice di lui sul Potomac. In sintesi: JfK, mentre medita sui complicati equilibri internazionali, osserva John John che gli salta sulle ginocchia in mezzo allo Studio Ovale, ma non sa esattamente che pesci prendere. Da ultimo arriva un avvertimento, a firma di una sottocommissione del Congresso (quella unificata per gli Affari Europei): esistono “questioni imbarazzanti riguardanti l’attenuarsi degli standard di custodia e controllo da parte americana delle armi nucleari, soprattutto in quelle destinate ai bombardieri”. Proprio come nel film di Kubrik, che però uscirà solo nel 1964. Ma il romanzo da cui è tratto, “Red Alert” di Peter George, è in piena circolazione dal 1958, e chissà chi ha suggerito la trama all’Autore. Comunque sia, c’è poco da scherzare, tanto più che il rapporto segreto sottolinea che “i missili nucleari Jupiter sono dislocati in paesi politicamente instabili”. Ora, i Jupiter sono finiti, per l’esattezza, in due capisaldi del fianco sud della Nato. Il primo à la Turchia, il secondo l’Italia. La Turchia, in quel periodo, tira avanti tra un golpe militare e l’altro. Si dirà: In Turchia è così, ma in Italia no. Giusto, ma anche sbagliato: perché questi sono gli anni in cui è in gestazione non solo il centrosinistra, ma anche la reazione a quella che viene considerata da qualcuno un incredibile cedimento alle sinistre, interne ed internazionali. Anni in cui il tintinnar di sciabole si ode sui marciapiedi di Roma, di generali con il monocolo e reduci della X Mas. Cresce così la preoccupazione americana: i ricordi della Seconda Guerra Mondiale sono ben vivi. In particolare lo sono alla luce di un terzo passaggio del rapporto, quello in cui si cita esplicitamente l’eventualità di uno “psicolabile” che ne approfitti per “usare le armi in modo non autorizzato”.  Più esplicitamente: “si impossessi di un’arma nucleare e la spari”. Un Generale Ripper, insomma, ma anche quello che Tognazzi sarà anni dopo in un film di Monicelli: “Vogliamo i colonnelli”. L’onorevole Tritorni, eletto nella circoscrizione di Querceta-Castiglioncello-Vada, è qualcuno che fa veramente paura agli uomini più potenti della Terra.  Dategli in mano non una bomba per far saltare la Madonnina del Duomo di Milano, ma La Bomba, e vedrete che botto. Difficile che Kennedy conoscesse l’onorevole Tritoni, ma ugualmente convocò lo Stato Maggiore Unificato. Pone domande, il Presidente, ma non ottiene risposte esaurienti. Di lì a poco il disastro della spedizione contro Castro aprirà un solco tra politici e militari che non si richiuderà nemmeno ai tempi del Vietnam. Inizia così un intricato scambio di telegrammi, note, avvertimenti tra e all’interno delle cancellerie di mezzo mondo, in cui gli Usa un po’ si impongono, un po’ subiscono, alla fine devono trovare la quadra. Però la soluzione non arriva, si fa aspettare, si allontana e si avvicina come una Fata Morgana ed intanto a Vienna Kennedy viene pubblicamente umiliato da Krusciov, in Sudamerica l’Alleanza per il Progresso langue ed in Europa quel revanscista di De Gaulle si rifiuta di parlare persino inglese in pubblico: Il Continente siamo Noi. E Fanfani? Fanfani tiene duro: o decidiamo anche noi sull’impiego delle armi, o nisba. Il monello è abituato a tenere a bada le correnti democristiane, figuriamoci se gli fa impressione la Casa Bianca. Da ultimo la spunta, quel tremendo. Nel marzo del 1961 il consigliere della Casa William R. Tyler chiede ufficialmente al segretario di Stato Dean Rusk (il che, conoscendo la scarsa autonomia decisionale di Rusk, equivaleva al Presidente che lo imponeva senza mezzi termini) di scrivere a Robert McNamara, il ben più riottoso segretario alla Difesa. Quest’ultimo, un repubblicano di peso alla Corte di Re Artù, doveva essere informato che il permesso preventivo nell’uso delle armi nucleari “non può essere rifiutato ad un paese che ne ospita sul proprio territorio e che ne faccia richiesta, attribuendo alla questione un’importanza di carattere politico”. Del resto, perché rifiutare all’Italia ciò che in fondo già si garantisce a Francia e Regno Unito? Una equiparazione che sa tanto di fine della Seconda Guerra Mondiale: Roma non è più il ragazzo da picchiare, ma un alleato da rafforzare. Tanto più che sarebbe “cosa ben poco felice se si volesse persistere in posizioni negative nei riguardi delle richieste italiane, cosa che potrebbe minare alla base la reciproca fiducia che si è installata nel campo della collaborazione atomica e resiste fino a questo momento”. Frase sibillina che trova la sua spiegazione in una circostanza: i Jupiter erano stati accettati dall’Italia senza che si ricorresse ad un lacerante ed incerto dibattito parlamentare a Montecitorio. In parole povere: Kennedy rinunciò chiedersi se si trattasse di una cessione di sovranità da parte americana, Fanfani a chiedersi se si trattasse di una cessione di sovranità da parte italiana. Entrambi avevano un solo nemico: il Colonnello Buttiglione. Tempo pochi mesi, infatti, e cambiò tutto. Dopo qualche mese Kennedy disse alla Nato che sarebbe stata abbandonata la Dottrina della Distruzione Reciproca Assicurata (Mad), quella che fino ad allora sanciva il principio che ogni pur minimo attacco nucleare sovietico avrebbe avuto come risposta l’impiego di tutte le armi nucleari della Alleanza. Dopo qualche mese – un po’ di più – sarebbe stato trovato il primo accordo Usa-Urss per la limitazione degli esperimenti nucleari nello spazio. Dopo qualche mese, soprattutto, piombò a Bologna per un convegno organizzato da Il Mulino il principale dei consiglieri del Presidente americano, Arthur Schlesinger Jr. Il convegno era di storia contemporanea, e la storia contemporanea fu fatta: da Washington arrivava il via libera definitivo al centrosinistra, che sarebbe stato gestito nella sua primissima fase – indovinate da chi? – da Amintore Fanfani. Il quale non mancò di farsi sentire, il tremendo monello, anche pochi mesi dopo, quando il mondo era di nuovo nelle grinfie del Dottor Stranamore. Krusciov, ancora convinto che Kennedy fosse un ragazzino viziato, gli aveva piazzato una salva di missili nucleari alle porte di casa, vale a dire a Cuba. La vicenda dei Missili di Ottobre, e la sua conclusione tutta a favore degli Usa e del loro giovane presidente, sarebbe stata raccontata da Bob Kennedy in un avvincente libretto, Thirteen Days. Avvincente ma non completo, perché se è vero che Krusciov tornò a casa con le pive nel sacco (lo avrebbero fatto secco al Cremlino più tardi, per questo) e che JfK ne uscì come un eroe nazionale e internazionale, il buon Bob dimenticò di annotare che in mezzo a tanta gagliardia svolse il suo compito anche un accordo – non scritto, ma sono quelli che durano di più – tra le superpotenze, e prevedeva la rimozione di un quantitativo di Jupiter da alcuni anni puntati contro l’Urss. Inutile dire che si trattava dei missili che si trovavano in Italia. Inutile dire che a metterci una parolina piccola piccola, ma alla fine ascoltata, era stato sempre lui, Amintore Fanfani. Diavolo d’un uomo: alla fine della storia si ritrovava ad avere in saccoccia il diritto di dire no all’uso delle armi nucleari, senza avere la seccatura di tenersene in casa nemmeno una. Ma è davvero la fine della storia? No, e per due motivi. Il primo è che Kennedy, sempre dopo qualche mese, arrivò in Italia in visita di stato e fu una marcia trionfale. Bagni di folla, applausi scroscianti: in Europa amavano l’America e De Gaulle si sarebbe rassegnato a non mandare più soldi in Quebec. Lo portarono letteralmente in trionfo in mezzo alla gente su via dei Fori Imperiali, e qui qualche buontempone ebbe l’idea di sfilare dalla fondina la pistola di una gente dei servizi di sicurezza americani. Chissà, magari si sognava di utilizzarla in qualche golpe prossimo venturo. Il secondo motivo è che gli anni passarono, ma i missili restarono. Sul finire degli anni Settanta il governo della Germania Ovest denunciò che l’Urss aveva piazzato di nascosto una selva di SS-20 a testata multipla contro le principali capitali europee. Si proponevano, al Cremlino, di raggiungere anche una serie di obiettivi in America. Occorreva una risposta a suon di Cruise e Pershing-2 da dispiegare in tutta l’Europa Occidentale, Italia compresa. Non si potè evitare, questa volta, il dibattito parlamentare: l’opinione pubblica era troppo divisa. Non si potè evitare, al paritempo, il cambiamento di governo. E chi venne indicato a coprire la carica di Presidente del Consiglio? Ancora lui, Amintore Fanfani. Il monello sapeva fare le monellerie, ma sapeva farle sul serio. Andò alle Camere e, sulla base delle sue ottime conoscenze di latino, usò il periodo ipotetico della realtà e della concretezza: “Si vis pacem, para bellum”. Lo avrebbe detto di sicuro anche JfK.Lo avrebbe detto, chissà, anche Giorgio La Pira.

Quando don Sturzo sognava il "popolarismo" che l'Italia ha rinnegato. Lo storico Flavio Felice ci fa riscoprire il pensiero pluralista e anti nazionalista del sacerdote. Carlo Lottieri, Mercoledì 23/09/2020 su Il Giornale. Nonostante sia stato uno dei protagonisti della storia intellettuale e civile del Novecento italiano, Luigi Sturzo è stato presto museificato perfino da quanti si richiamavano a lui. Nei decenni del potere democristiano, infatti, il sacerdote siciliano è stato ridotto a un piccolo santino da usare in occasione di convegni e commemorazioni, ma senza che le sue idee venissero attualizzate. Anche il fatto che, una volta nominato senatore a vita, egli abbia scelto di aderire al gruppo misto e non a quello della Democrazia cristiana, è stato spesso taciuto: dato che avrebbe evidenziato la sua distanza dal sistema politico impostosi all'indomani della Seconda guerra mondiale. In maniera meritoria torna ad accendere i riflettori su Sturzo un denso studio di Flavio Felice (I limiti del popolo. Democrazia e autorità politica nel pensiero di Luigi Sturzo, edito da Rubbettino e in vendita a 25 euro), che tra i molti pregi ha quello di evidenziare come l'insegnamento sturziano abbia sempre posto al centro l'autonomia della società rispetto al potere. Mostrando una chiara attenzione a dibattiti contemporanei, il volume insiste a più riprese sul fatto che in Sturzo la nozione di popolo sia sempre declinata, per così dire, al plurale. Contrario a ogni visione collettivista e nemico di ogni esaltazione religiosa dello Stato, il sacerdote siciliano considerava le istituzioni quali semplici strumenti, non già nelle mani di un'astratta e indefinibile comunità, ma invece di concrete persone variamente raccordate tra loro. Non a caso, uno degli elementi precipui della prospettiva del popolarismo sturziano è il municipalismo: all'ideologia astratta della nazione, insomma, egli oppone la concretezza di persone che si conoscono, che sono chiamate a farsi carico di problemi condivisi, che si confrontano direttamente e devono farlo in maniera responsabile. Per questo motivo tornare a Sturzo significa immunizzarsi da Jean-Jacques Rousseau, dato che il prete di Caltagirone guardò assai correttamente alla teoria della sovranità popolare assoluta «come a una derivazione della teoria delle monarchie di diritto divino» (per usare le sue stesse parole). Una volta fattosi divinità, lo Stato non poteva che divenire totalitario. Quando esamina la nozione di popolo che è al cuore del popolarismo sturziano, allora, Felice ricorre spesso al termine «plurarchia», a evidenziare che il popolo non è un'unità che possa legittimare il potere sovrano (come per socialisti e nazionalisti), ma invece esso s'esprime «perfino in forma rivoluzionaria come l'antitesi alle classi dirigenti, che detengono il potere e che fanno coincidere la loro stessa esistenza con quella dello Stato». Alla luce di tutto ciò, il fascismo non è più una parentesi entro una storia luminosa. Al contrario, l'autoritarismo mussoliniano è una cosa sola con l'esaltazione della nazione di matrice ottocentesca, con la difesa del potere statale quale unica condizione per la convivenza, con il mito giacobino di una comunità originaria, incontaminata, perfetta. A giudizio di Sturzo è necessario proteggere il confronto aperto tra quanti discutono, contrattano e negoziano, perché nell'imperfezione dei rapporti umani si manifesta quella libertà su cui si reggono gli ordinamenti davvero rispettosi dei singoli e delle comunità. In maniera non sorprendente, per Sturzo le grandi questioni alla fine sono metafisiche. Quando s'oppone alla statolatria egli intende evidenziare lo Stato è solo un mezzo, e mai un fine, e che per questo motivo esso non deve mai neppure possedere, regolare o controllare tutti i mezzi (perché in quel caso disporrebbe di tutti i fini, per ricordare qui una celebre formula di Friedrich von Hayek). Nelle conclusioni al libro Felice ricorda, molto opportunamente, come Sturzo sia stato vittima di una damnatio memoriae: come sia stato marginalizzato dalle culture che hanno dominato la scena intellettuale della nostra età repubblicana. Non a caso, quando egli torna in Italia dopo l'esilio inglese e americano i suoi interventi sull'attualità (non di rado assai polemici) non sono pubblicati sulle grandi testate dell'informazione italiana, ma sul piccolo Giornale d'Italia. Cosa c'era di veramente inaccettabile, nelle idee di Sturzo, per le classi dirigenti del Dopoguerra? Vi era la sua predilezione per l'economia di mercato, contro il clientelismo e la corruzione delle partecipazioni pubbliche (e contro l'assistenzialismo che egli imputò, ad esempio, a un La Pira). Vi era pure il rigetto di ogni celebrazione del potere («l'origine di tutti i diritti e il fine di ogni attività politica», a giudizio di tanti) e la ripresa di quella visione cristiana secondo la quale «la legge era superiore al potere e le sue norme obbligavano sia i sovrani sia i popoli». L'idea di una pari dignità ontologica tra quanti sono governanti e quanti sono governati era insomma cruciale nel popolarismo sturziano. Probabilmente, per uscire dal disastro attuale bisognerà partire proprio da lì.

No cari politici, la memoria non è un mercato delle pulci. Marco Follini il 27 agosto 2020 su L'Espresso. Parlamentari e leader di oggi glorificano a caso quelli del passato, spesso mischiando in un unico elogio figure tra loro contrapposte. Un modo miserabile per cercare di colmare il loro vuoto. All’indomani della Rivoluzione, come è noto, i nobili francesi si rifugiarono a Coblenza a rimuginare sul loro destino e a sognare un improbabile ritorno in patria. Di loro si disse che non avevano imparato niente e non avevano dimenticato niente. Per chi ai giorni nostri non coltiva né la nostalgia di Luigi XVI né l’illusione di Robespierre i conti con l’apprendimento e quelli con il ricordo sono ovviamente un po’ diversi. Un po’, ma non troppo. Infatti anche noi tendiamo a imparare poco e forse anche a dimenticare poco - a dispetto delle nostre stesse parole d’ordine. Ci raccontiamo che tutto è inedito, è vero. Mai accaduto prima d’ora. Ma poi invece rovistiamo quasi ogni giorno negli armadi dei nostri progenitori per cercare ispirazione e conforto. La nostra memoria collettiva continua imperterrita a spulciare negli annali della Repubblica che fu, alla ricerca di nobili precedenti a cui aggrapparsi, di virtuosi esempi a cui ispirarsi e di mitiche figure onuste di gloria da cui trarre qualche spunto per noi stessi. L’affettuoso saccheggio del passato in cerca di esempi, citazioni, aneddoti, consolazioni sembra essere una delle attività preferite dei leader in campo e dei loro ghostwriter. Si compra nel passato il credito di cui il presente non dispone. Da un certo punto di vista, ce ne potremmo quasi rallegrare. Se infatti gli alfieri della Terza Repubblica si rivolgono a Togliatti o a De Gasperi o a Nenni, se il Recovery Plan non è altro che la rivisitazione del piano Marshall, se perfino i populisti preferiscono evocare don Sturzo piuttosto che Guglielmo Giannini, forse vuol dire che le migliori radici politiche del paese sono ancora ben piantate per terra e magari, chissà, possono regalarci qualche frutto. Appena qualche anno fa il passato repubblicano era terra bruciata, e l’unica prospettiva sembrava quella di cavalcare verso territori sconosciuti. Ora invece viene quasi da consolarsi al pensiero che si stia cercando in tutti i modi di onorare il debito che abbiamo con i padri (nonni, a questo punto) della nostra storia. Sarà pure un altro omaggio reso dal vizio alla virtù, ma si può dire che quella virtù è meritevole e quel vizio non è poi così grave. Ora però si dovrebbe cercare di elaborarlo, quel passato. E non lasciarlo lì, vanamente rimpianto e inutilmente ricordato, al modo in cui usavano i nobili rintanati a Coblenza. E qui, invece, il nostro asino finisce per cascare. Il fatto è che tutto questo richiamarsi alla mitologia degli esordi repubblicani ha in sé qualcosa di equivoco. Noi stiamo infatti ingarbugliando i fili del passato e facendo una discreta confusione tra le molte memorie che lo attraversano. Il caso del comune di Terracina, dove si voleva intestare una strada ad Almirante e Berlinguer, accomunati dalla toponomastica di oggi per quanto erano divisi e contrapposti dalla politica di ieri e ieri l’altro, è solo il caso più eclatante. Ma non è l’unico. È già capitato che qualcuno dei nostri attuali statisti in erba abbia dichiarato di ispirarsi al meglio di De Gasperi, di Berlinguer e di Almirante (ancora), tutti insieme appassionatamente, quasi indifferenti l’uno all’altro. E che altri abbiano farcito i loro discorsi di citazioni di questo e di quello, incuranti di evocare di volta in volta i nomi di persone che ai loro tempi se le erano date di santa ragione.

In attesa che arrivi anche il momento di Prodi e Berlusconi, magari finendo con l’accomunare perfino loro, si può segnalare che un po’ tutti i leader della nostra vicenda storica hanno avuto il loro attimo di gloria ad opera di successori che non avrebbero mai immaginato - né, forse, prediletto più di tanto. Una gloria che ora sembra radunarli sotto lo stesso tetto ma che invece non dovrebbe prescindere dalle abissali differenze che correvano tra molti di loro. La bislacca idea che si debba per forza avere una memoria condivisa, uniformando i nostri giudizi laddove i nostri ricordi continuano ad essere difformi, ingenera così una doppia stortura. Una rivolta verso il passato che non sappiamo più elaborare. L’altra rivolta verso il presente che non sappiamo più riconoscere. In una parola noi stiamo coltivando una memoria disordinata e confusa, troppo strumentale e celebrativa. Quasi una sorta di riedizione dell’album delle figurine Panini, dove però non figurano più le squadre e si sbiadiscono i colori delle maglie che accendevano le passioni delle opposte tifoserie. Così, si mettono insieme alla rinfusa fascisti e comunisti, laici e cattolici, notabili di tutti i colori buoni per tutti gli usi. Si celebra un lungo periodo della storia patria come fosse un tutt’uno ma poi se ne occultano pudicamente le differenze, i conflitti, le asprezze. Finiamo così per raccontarci una storia edulcorata, di cui si perde quel senso drammatico e quel gusto controverso che i nostri padri conoscevano fin troppo bene e a cui erano perfino, a modo loro, affezionati. L’esito di tutto questo è che si appannano, insieme, la nitidezza dei ricordi e il valore delle differenze. Si vorrebbe chiamare a raccolta le grandi figure nel nome di un improbabile “embrassons nous”. Dimenticando che il nostro passato si è fatto largo invece a furia di dispute e contrasti. E che non si può raccontarlo oggi come fosse un prato fiorito, in cui ognuno può cogliere il fiore che più gli aggrada, e magari fare un mazzolino in cui radunare con disinvoltura gente che ha speso la vita a combattersi. Il fatto è che i grandi di una volta erano grandi anche per le bufere che attraversavano e per tutti i venti che soffiavano contro di loro. I più convinti delle proprie buone ragioni menavano quasi vanto delle maldicenze degli avversari, vissute all’epoca come un involontario tributo al valore. Molto probabilmente nessuno di loro aspirava alla glorificazione futura. Contavano semmai di trarre la gloria dal loro presente. Che era l’unità di misura delle riuscite e delle cadute, anche per quelli che guardavano più lontano. La gran parte di loro, insomma, non ambiva tanto a farsi celebrare nei manuali di storia. Né, credo, a venire onorati dalle citazioni di lontani successori che non conoscevano (e che magari non avrebbero apprezzato più che tanto). La loro ambizione era piuttosto quella di cambiare e migliorare la vita dei contemporanei. Sospinti dal consenso della loro parte. E magari anche lusingati dal fastidio che potevano arrecare alla parte avversa. L’ecumenismo dei ricordi vorrebbe essere il segno di uno spirito inclusivo e di una costruttiva e pacifica volontà di dialogo. Tutte cose che ci mancano. Così, cerchiamo nel passato quello che non troviamo nel presente. A conferma del fatto che ogni stagione ha le memorie che si merita, oppure quelle che si illude di meritarsi. E che a noi purtroppo tocca più l’illusione che il merito. Dunque, se si vuole dedicare attenzione a quelle storie occorre innanzitutto contestualizzarle. Collocarle nel solco di quegli anni e riconoscere lealmente che il nostro presente - bello o brutto che sia - non ha molto a che vedere con i nostri antenati di maggior pregio. Quegli antenati hanno diritto alla loro storia, che non necessariamente coincide con la nostra. La memoria è sempre uno scaffale bene ordinato di una libreria magari un po’ impolverata. Non è il mercatino delle pulci dove si accumulano alla rinfusa i resti di molti arredi di case e palazzi che la gran parte degli acquirenti che passeggiano lì intorno non ha mai abitato.

Lavoro, parrocchie, partiti mille tramonti e l’oro di Bezos. Silvano Moffa il 31 gennaio 2020 su Il Dubbio. “Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon” il lungo viaggio in Italia dello storico Miguel Gotor.L’inutile vertice sul Britannia di banchieri e manager per invertire l’avvitarsi del debito pubblico. E ora il trionfo della distribuzione sulla produzione. La disfatta di Adua, nel corso della guerra di Abissinia, non fu soltanto una umiliante sconfitta militare ( 6000 soldati italiani uccisi dall’esercito di Menelik). Essa segnò la fine della politica imperialista di Francesco Crispi in Africa e la caduta del suo governo, in carica dal 1893. Parte da questa data, 1° marzo 1896, ” L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon”, volume denso e originale, ultima fatica dello storico Miguel Gotor, docente di Storia moderna all’Università di Torino ed ex senatore dal 2013 al 2018. Una storia dell’Italia osservata e indagata nei suoi aspetti politici, sociali, culturali, di costume. Con l’occhio distaccato del ricercatore che assembla date, avvenimenti, circostanze e coincidenze con la febbrile ottica, quasi un’ossessione per lo studioso, di offrire quanto più materiale possibile al lettore. Ma anche con la passione di chi si nutre di una visione, di un proprio punto di vista, di convincimenti che vengono portati evitando, nei limiti del possibile, di restare prigioniero di un taglio ideologico che mortificherebbe oltremodo la natura della ricerca. Antico e mai superato dilemma per lo storico quello di conciliare le proprie idee con la narrazione oggettiva degli accadimenti. Vale per chi scrive di storia come per il romanziere, per il giornalista, per chiunque si affanni a trovare una motivazione plausibile agli avvenimenti che si affastellano. Miguel Gotor ripercorre il Novecento italiano fino ai giorni nostri con uno stile sobrio e accattivante al tempo stesso, senza fronzoli. Guarda la storia attraverso il susseguirsi dei fatti, e la analizza nei suoi risvolti sociali e culturali. Anzi, se cerca una chiave di lettura dei cambiamenti che segnano le epoche indagate e dei personaggi politici che ne sono protagonisti, la trova scrutando nelle parole e nei sentimenti che agitano canzoni, film, refrain popolari. La cultura popolare, ad ogni tornante della storia, fotografa la condizione in cui versa l’Italia in quel dato momento. La stratificazione storica si intreccia con i mutamenti antropologici e di costume in una società che evolve verso la modernizzazione, portandosi dietro contraddizioni e umori, passioni e rancori, riforme incompiute e pastoie burocratiche, limiti politici insieme a sussulti reattivi, in un quadro solo a tratti edificante. Così, lo storico passa in rassegna il regicidio di Umberto I e la svolta liberale, l’epoca giolittiana e la nascita del nazionalismo con il pullulare di riviste come “Il marzocco”, “Il regno”, “Leonardo”, “Hermes”, “La voce”, “Lacerba”. Riviste nate intorno a carismatiche figure di intellettuali del calibro di Enrico Corradini, Gabriele D’Annunzio, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. Giovani ambiziosi, accomunanti dal gusto per la polemica graffiante e dalla comune voglia di opporsi al decadimento del tempo, una sorta di “avanguardia” intellettuale e nazionale “contro il conformismo imperante della società liberale e le palingenesi rivoluzionarie promesse dai socialisti”. Ancora: la Grande Guerra, il Fascismo, Le Centomila gavette di ghiaccio, epopea di dolore e di morte dei nostri alpini della “Julia” sul fronte russo, raccontata dall’ufficiale medico Giulio Bedeschi, il colpo di Stato del 25 luglio e il tradimento dell’” inglese” Grandi, piazzale Loreto, il “gran sole” di Hiroshima. E poi, il lungo dopoguerra, De Gasperi, Togliatti e la svolta di Salerno. E a seguire: la Repubblica dei partiti, il centrismo, prima, il centrosinistra, poi. Il miracolo economico e la Fiat di Valletta, il film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti che “metteva in scena la realtà dell’emigrazione meridionale al Nord, sullo sfondo delle tensioni e dei contrasti di un Paese in profondo cambiamento” e La dolce vita di Federico Fellini, “uno straordinario affresco onirico di una Roma cinica e gaudente, in cui le luci della ribalta e gli scatti dei paparazzi non riuscivano a nascondere l’incombente sfacelo della città”. Eloquenti le pagine del libro dedicate alla “scossa” del Sessantotto e alla svolta sovversiva del 1974. Qui Miguel Gotor ripropone, ampliandone il contenuto e l’analisi, i suoi studi sul terrorismo e la vicenda di Aldo Moro, cui ha dedicato anni di ricerca e testi fondamentali. La ricostruzione del filo rosso che lega i primi movimenti giovanili di contestazione studentesca che assunsero carattere internazionale, dagli Stati Uniti al Messico, all’Europa, soprattutto in Francia, Germania e Italia, fino alla strategia della tensione degli anni settanta e al terrorismo delle Brigate Rosse, offre al lettore pagine intense e una narrazione degli avvenimenti che lascia ancor oggi molte zone d’ombra e spiegazioni né scontate né esaurienti. Come pure la lotta alla Mafia e l’intreccio, mai del tutto chiarito, tra mafia e politica, con i feroci attentati ai giudici Falcone e Borsellino, la gestione dei pentiti, il processo ad Andreotti, l’ascesa e la caduta di Craxi, Mani Pulite, la fine della Guerra fredda tra i due blocchi che avevano fino allora governato il mondo. “In questi anni di transito tra la fine della decade degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, incentrati intorno all’imprevedibile 1989 – sottolinea Gotor – terminò anche un decennio in cui, tra lacerazioni e contrasti, era avanzata una difficile modernizzazione della società e dei costumi nazionali, in controtendenza rispetto alla progressiva sclerosi della vita politica dei partiti. In quello spazio immaginario tra la crisi dei partiti come agenzie di formazione di uno spirito pubblico e i cambiamenti della società, in cui stavano perdendo la loro presa luoghi di intermediazione e di aggregazione come le parrocchie, i sindacati e le associazioni, sostituiti dai primi grandi centri commerciali, era avanzato un nuovo spirito secolarizzato e sfuggente, che aveva una cifra libertaria di tipo individualista, ma anche un tratto psicologico di solitudine e di smarrimento”. Nell’incedere della nuova epoca e del clima che ne connotava i ritmi, il 2 giugno 1992, si faceva spazio, al largo delle coste di Civitavecchia, il panfilo della regina Elisabetta II. Portava con sé un equipaggio speciale. A bordo della nave Britannia salirono, ospiti di una associazione finanziaria inglese esperta in investimenti, fusioni e acquisizioni, i vertici delle principali banche italiane, i manager pubblici e privati dell’Eni, dell’Iri, dell’Ina, dell’Efim, dell’Agip, della Snam, il direttore generale di Confindustria Innocenzo Cipolletta, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, una selezionata rosa del mondo politico, economico e accademico. Mentre a terra si festeggiava la festa della Repubblica, al largo dell’Argentario gli ospiti britannici prospettavano agli invitati la necessità di diminuire il peso dell’industria pubblica, l’utilità di realizzare un piano di privatizzazioni e liberalizzazioni così da recuperare risorse per ridurre il debito pubblico italiano e per adeguare l’economia del Paese ai nuovi assetti dei mercati internazionali definiti dopo la fine del mondo bipolare. “Il ridimensionamento dell’intervento pubblico in economia – annota lo storico – passava inevitabilmente attraverso l’affossamento del sistema dei partiti”. Un vincolo esterno tornava a condizionare l’Italia nei suoi rapporti con il processo di costruzione europea. Di lì a poco, le conseguenze si sarebbero mostrate in tutta la loro portata. Tramontata la Repubblica dei partiti ( 1945- 94) sotto i colpi secchi della storia, stava sorgendo la “Repubblica dell’antipolitica” che avrebbe accompagnato la vicenda italiana per i venticinque anni successivi e oltre, “giungendo a illuminare, con i suoi chiaroscuri, la tremula e incerta ombra del tempo presente, quello della cronaca”. Nell’epilogo del lungo viaggio attraverso il Novecento italiano, Miguel Gotor, getta lo sguardo sulla straordinaria impresa di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, l’ideatore della piattaforma di commercio online Amazon. La profezia di Bezos, ammette lo storico, si è avverata su scala globale spostando il cuore del lavoro come valore dalla produzione alla distribuzione, con lo scopo di realizzare ingenti profitti facendo pagare poco al maggior numero di persone possibile. Sorge spontanea la domanda: esiste un nesso tra l’affermazione di questi processi sul piano economico, che interrogano l’identità e il valore del lavoro, e gli affanni che ovunque stanno vivendo la democrazia rappresentativa e i cosiddetti corpi intermedi? La risposta è affermativa. Anche perché alla fine della catena di questa storia di commercio e di fatica si trova il magazziniere di Amazon, il cittadino, l’elettore, il padre di famiglia. Soggetti condizionati. Sottomessi. Ripiegati in un imbuto politico, economico, sociale, civile. E’ lecito sperare per l’Italia, la Bella Addormentata nello stagno di oggi, in un prossimo inaspettato risveglio? Sì, forse.

·        E gli "storici"? Tacciono… Il Massone Garibaldi a disposizione della Chiesa di Roma.

L’unità d’Italia (o quasi): Nord acchiappa-tutto, Sud e Sicilia colonie. Un libro per capire come andarono le cose. I Nuovi Vespri il 26 ottobre 2020. Il libro lo ha scritto Michele Eugenio Di Carlo. Il titolo è: “Sud da Borbone a Brigante”. proviamo a illustrare perché è importante leggero seguendo la presentazione di Pino Aprile e citando qualche esempio, perché la storia negata non è una caratteristica della sola Italia, perché ovunque i vincitori hanno scritto e imposto la storia a proprio uso e consumo. Con il titolo di “Sud da Borbone a Brigante” va il nuovo volume di Michele Eugenio Di Carlo. E’ un libro sulla fine del regno delle Due Sicilie con la prefazione dello scrittore e giornalista, Pino Aprile. Poiché siamo legati alla verità, diciamo subito che noi non abbiamo ancora letto il libro. E allora come si presenta un libro che non è stato letto? Non si presenta: e infatti quello che state leggendo non è un nostro articolo di presentazione del libro, che faremo quando lo avremo letto. Noi oggi ci limiteremo a riportare alcuni passaggi della presentazione scritta da Pino Aprile (e non è poco) e a presentare e a commentare l’argomento: e cioè quello che non è stato scritto sulla conquista del Regno delle Due Sicilie dagli storici che hanno nascosto tante verità. Intanto cominciamo col dire che i lettori de I Nuovi Vespri – con riferimento soprattutto a coloro i quali leggono la sezione "Storia e controstoria" – conoscono Michele Eugenio Di Carlo, perché ogni tanto pubblichiamo i suoi articoli che trattano sempre di storia. L’argomento trattato in questo libro è comunque noto ai nostri lettori, perché anche noi, con i nostri mezzi, da quando siamo in rete, abbiamo cercato di raccontare la storia del Sud Italia e della Sicilia prima della ‘presunta’ unificazione italiana. Sul Sud in generale riordiamo i brani del volume Fegato scritto da Domenico Iannantuoni, del quale abbiamo pubblicato ampi brani. poi ci sono gli articoli di Ignazio Coppola che, se è vero che scrive solo quando è ‘confessato’ di fresco’, sono comunque articoli di grande spessore e sempre molto documentati. per non parlare del volume “e nel mese di Maggio del 1860 la Sicilia diventò colonia!” di Giuseppe ‘Pippo’ Scianò. Libro che racconta l’impresa dei Mille con dovizia di particolari, facendo emergere non soltanto le cose rimaste nascoste, ma anche testimonianze importanti che la storia ufficiale ha nascosto. Il tutto – e questo è il grande merito di Scianò – con una puntuale bibliografia che taglia le gambe a chi cerca di sminuire la portata delle tesi del libro, dove Garibaldi, i garibaldini, i mafiosi e i massoni (allora insieme come accadrà spesso negli anni successivi…) ne escono veramente male! Ci hanno colpito, nella presentazione di Pino Aprile, tre domande poste dall’autore di Terroni a proposito del nuovo libro di Michele Eugenio Di Carlo: “Perché un lavoro serio come questo non lo abbiamo da tempo immemorabile a cura di titolari di cattedra di storia? Perché il raffronto con quel che scrivevano autori ‘dalla parte dei vinti’ è stato (salvo poche, tardive e lodevoli eccezioni) scartato a priori? Perché la versione degli sconfitti, da Giacinto de’ Sivo (“Storia delle Due Sicilie”), a Raffaele De Cesare (“La fine di un Regno”) è stata irrisa, ritenuta inattendibile per definizione, perché portatrice del presunto risentimento dei vinti che potrebbe deformare i fatti?”. La storia, si dice, la scrivono i vincitori. E chi prova a opporsi a questa immutabile legge della prepotenza ne paga le conseguenze. Come dimenticare le polemiche al vetriolo che hanno accompagnato Giampaolo Pansa quando diede alle stampe Il sangue dei vinti? Giampaolo Pansa, scomparso nel Gennaio di quest’anno, era un giornalista progressista: tutto di lui si poteva dire, ma non che non fosse un uomo libero. Era un uomo libero e anche progressista. Ma appena ha messo in discussione certi miti della Resistenza – peraltro raccontando fatti molto documentati – è stato travolto dalle critiche. Una critica, in particolare, è rimasta impressa nella nostra mente: la critica di chi non contestava la veridicità dei fatti – che erano incontestabili, perché il libro-inchiesta di Pansa era ineccepibile – ma si limitava a porre la seguente domanda: a che serve parlare oggi di questi argomenti? E’ la stessa critica che mosse a noi una persona intelligente quando abbiamo pubblicato la serie di articoli su Garibaldi di Ignazio Coppola, dove il cosiddetto eroe dei due mondi ne esce a pezzi: “A che serve scrivere oggi queste cose? Sono vere, va bene, ma oggi servono soltanto a minare l’unità del nostro Paese”. Il tema è sempre lo stesso: se la menzogna è stata ben raccontata, se gli storici l’hanno avallata per 150 anni, ebbene, le menzogne sono diventate verità e le verità sono diventate menzogne! E’ così solo in Italia? No, non abbiamo questo primato. Quando al vertice dell’allora impero comunista russo c’era Leoníd Il’íč Bréžnev, si raccontava di un esame di storia di uno studente russo:

“Ci parli di Lenin”, chiedono i professori allo studente.

Risposta: “Il compagno Lenin è stato un grande statista ed è morto da eroe”.

“Bravo. Ora ci parli di Stalin”.

Risposta: “Il compagno Stalin è stato un grande statista, poi ha commesso qualche errore ed è arrivato il compagno Chruščёv”.

“Bravo, ora ci parli di Chruščёv”.

Risposta: “Il compagno Chruščёv è stato un grande statista, poi ha commesso qualche errore ed è arrivato il compagno Bréžnev”.

“Bravo, ora ci parli del compagno Bréžnev ma stia attento”, gli chiedono sempre i professori.

“Risposta: “Il compagno Il compagno Bréžnev  è stato un grande statista e…”.

Lo studente guarda in faccia i suoi professori che lo fissano immobili. A un certo punto aggiunge:

“Il compagno Bréžnev dovrebbe commettere qualche errore, il resto ancora non si sa…”.

I professori saltano dalle sedie:

“Bocciato, lei è andato troppo avanti!”.

Ma se la Russia piange, negli Stati Uniti non si ride. Che dobbiamo dire degli Indiani d’America fatti passare per “selvaggi”. C’è o no qualche legame con i patrioti del Sud che, all’indomani del 1860, combattevano contro gli invasori piemontesi e, ancora oggi, nei libri di storia, vengono chiamati “Briganti”, quando i veri briganti erano i Savoia? “Così, la ‘buona storia’ è la versione dei vincitori – scrive Pino Aprile – che narra come necessaria per un alto fine una invasione senza dichiarazione di guerra, tace di paesi rasi al suolo, di rappresaglie con migliaia di morti, centinaia di migliaia di incarcerati e deportati senza accusa, processo e condanna. Quando chi compie queste cose non vince, ma perde, si parla di crimini di guerra. I fatti e i modi sono sempre quelli nel percorso dell’umanità, cambia il modo di raccontarli: un passo avanti verso una più alta civiltà, nella versione dei vincitori, un delitto in quella dei vinti”. “Così, la storia ufficiale – prosegue Pino Aprile – finisce per giustificare le cose come sono andate, perché così “dovevano” andare e il racconto attribuisce ai protagonisti un disegno chiaro a loro e, a posteriori, a tutti (salvo botte di sincerità quale quella di Oliver Cromwell, che quando gli chiesero come avesse costruito le basi della potenza britannica, rispose, più o meno, che nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando). Mentre il racconto dei vinti avviene attraverso l’arte: la letteratura (“I viceré” di Federico De Roberto, “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa…), la musica (basterebbe “Brigante se more” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò), la pittura (si pensi a Goya, a Picasso con Guernica…)”. Il libro di Di Carlo dà la parola vinti. E scopriamo – e non è una novità – che i vinti dicono la verità. La verità è stata sempre negata? No. Pino Aprile cita alcuni “storici di professione, da Roberto Martucci (“L’invenzione dell’unità d’Italia”) a Eugenio Di Rienzo (“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee”, pur con un successivo rifacimento al ribasso, poco comprensibile), a John A. Davis (“Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee 1780-1860”)” e tanti altri, “storici e no, da Paolo Mieli a Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’opera di Michele Eugenio Di Carlo – dice – è sistematica, onestamente distaccata, senza timori di ‘sembrare’ squilibrata, quindi preconcetta, in un senso o nell’altro”. Il nostro augurio è che a chi legge questo articolo venga la voglia di leggere il libro di Michele Eugenio Di Carlo come di certo faremo noi.

PISACANE E MAZZINI, AL DI LA’ DELL’AGIOGRAFIA RISORGIMENTALE. Michele Eugenio Di Carlo il 09.09.2020.  Anche Ennio Lorenzini con il film Quanto è bello lu murire acciso[i] del 1975, come Florestano Vancini tre anni prima con Bronte, mette in scena un Risorgimento moderno, dove la realtà prende il posto delle illusioni agiografiche e collega direttamente il fallimento degli ideali e dei valori risorgimentali alla crisi sociale e politica degli anni Settanta del Novecento. Il periodo in cui il film di Lorenzini è girato è quello violento del terrorismo che renderà necessario la costituzione di un governo di unità nazionale. Un periodo nel quale, in analogia a quello seguente il Risorgimento, si spengono tante illusioni, quelle nate dalla stagione del Sessantotto. Un periodo nel quale, come scrive Renato Ventura, Assistant Professor presso l’Università di Dayton negli Stati Uniti, studioso della letteratura italiana contemporanea, «… i protagonisti della vita politica e sociale sono gli studenti, i lavoratori, le donne, che sulle piazze italiane ripropongono diversi modelli interpretativi del Risorgimento, ovviamente in controtendenza con la narrativa classica dei patrioti risorgimentali quali eroi che si immolano per un ideale di patria e unità della nazione». Lorenzini visualizza la spedizione di Carlo Pisacane del 1857 in netto contrasto con la storiografia ufficiale sabauda e in antitesi con una letteratura che Ventura elenca e giudica di «scarso valore artistico». Alla costruzione dell’identità nazionale aveva contribuito non poco il poeta marchigiano Luigi Mercantini, diventato noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla drammatica spedizione di Pisacane, graditi agli ambienti governativi per la forte valenza patriottica e nazionalistica, divulgati attraverso la scuola per il notevole valore didattico-pedagogico fino ai nostri giorni. Qualsiasi studente delle Elementari e delle Medie era costretto ad imparare a memoria almeno il celebre ritornello della poesia di Mercantini: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!», al fine di perpetuare nella memoria storica popolare miti falsificati e di incidere intimamente nell’animo dei giovani valori e ideali che proprio il Risorgimento aveva tradito. Utile a questo proposito riproporre un breve excursus storico che si riferisce alla Spedizione di Sapri, al di là della retorica risorgimentale. Appare significativo, innanzitutto, che secondo lo scrittore di fine Ottocento Raffaele De Cesare, la spedizione di Sapri, organizzata da Carlo Pisacane, non avrebbe turbato i sonni di Ferdinando II quanto l’opuscolo di Antonio Scialoja, l’esule napoletano che aveva criticato le finanze del Regno delle Due Sicilie. Lo storico Giacinto De’ Sivo ha raccontato i particolari dell’organizzazione dell’impresa che avrebbe dovuto sollevare le popolazioni rurali contro la dinastia regnante dei Borbone, sin da quando, in maggio, la giovane letterata inglese Jessie White proveniente da Londra raggiungeva il Regno di Sardegna. Non da sola, visto che «con lei anco era giunto, e travestito s’appiattava in Genova, il Mazzini stesso, che moveva tutto». Pisacane, esule napoletano, aveva combattuto a Brescia e a Roma e nello scontro di Velletri del 1849 era stato «capo dello stato maggiore» di Giuseppe Garibaldi. Di idee socialiste e rivoluzionarie, era convinto che il regime costituzionale piemontese nuocesse all’Italia più di quello del «Ferdinando tiranno». È lo stesso de’ Sivo a ricordare che Pisacane, «a mostrar coscienza di libertà», prima di partire per la sua impresa aveva scritto un Testamento politico[4] del tutto slegato dalle idee mazziniane, che proponeva una vera rivoluzione anche nei riguardi del regime costituzionale piemontese, che Pisacane giudicava del tutto insufficiente a far risorgere l’Italia e addirittura teso a ritardarlo. La storia avrebbe dato ragione a Pisacane per come l’unità d’Italia sarebbe stata più tardi realizzata, lasciando da parte le istanze popolari e piegandole agli interessi di aristocratici e borghesi. Già dopo il 1849, il gruppo facente capo a Pisacane si era staccato da Giuseppe Mazzini per percorrere la strada del socialismo rivoluzionario. La critica di Pisacane a Mazzini, poco o affatto analizzata da storici e letterati liberali, è feroce. Francesco Valentini ne ha evidenziato esattamente gli aspetti salienti: «A Mazzini Pisacane rimprovera di non aver visto l’ascesa della plebe e il suo irriducibile contrasto con la borghesia, cioè di non aver inteso la rivoluzione come rivoluzione del povero, e, quanto all’ideologia mazziniana, la considera come suscettibile di involuzioni aristocratiche-pedagogiche». Vista la distanza da Pisacane, la presenza clandestina a Genova di Mazzini, richiamata da de’ Sivo, non sembra doversi collegare direttamente alla spedizione di Sapri, giacché probabilmente finalizzata ad approfittarne per provocare tumulti in alcune città del Regno di Sardegna, che – ricordiamo - aveva condannato Mazzini alla pena di morte. Ma Pisacane per la storiografia ufficiale dell’epoca e per la letteratura filo-sabauda doveva assumere solo le vesti di eroe, martire e patriota, e oscurate dovevano apparire le profonde divergenze da Mazzini e persino da Garibaldi. Nella prefazione del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, pubblicata a Bologna nel 1894, Napoleone Colajanni scrive testualmente: «Carlo Pisacane, come possono farlo oggi i più avanzati socialisti, combatte Giuseppe Mazzini; ma se egli si mostra severo contro la sua dottrina (specialmente nella parte che rispecchia il misticismo cristiano e la vana speranza di farne una leva per la rigenerazione sociale) e contro il suo metodo (e non sempre le sue accuse sono giuste), è sempre pieno di affetto e di rispetto per la persona», inoltre «nel propugnare la formola libertà e associazione da sostituirsi a quella mazziniana Dio e popolo e all’altra francese libertà, uguaglianza e fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i repubblicani italiani». Il 25 giugno 1857 il piroscafo Cagliari, appartenente alla compagnia genovese Rubattino, salpava da Genova al comando del capitano Antonio Sitria con trentadue uomini, tra i quali due macchinisti inglesi convinti all’impresa da una lettera della White. L’epilogo della spedizione è noto, la mattina del 2 luglio gli scampati ad uno scontro del giorno precedente furono sorpresi nel bosco di Sanza, dove le guardie urbane uccisero in uno scontro a fuoco Pisacane, mentre i superstiti furono aggrediti dalla popolazione accorsa al suono delle campane. Singolare destino per «quei liberatori di popolo cacciati dal popolo come belve». Il 4 luglio il Conte di Groppello, ambasciatore piemontese a Napoli, comunicava al Conte di Cavour la sorprendente resistenza della popolazione: «La banda dovunque passò […] trovava avversione grandissima nella popolazione»; circostanza che per de’ Sivo costituiva una testimonianza storica manifesta «che i Borboni sì tiranni gridati fuori, eran nel regno amati, e difesi dai tiranneggianti». Nel suo film Lorenzini valuta attentamente il mancato coinvolgimento delle masse rurali e lo relaziona alla carente presenza al Sud di una classe intellettuale, oltre che ad un Partito d’Azione non maturo e scadente nell’elaborazione politica. Antonio Gramsci ne darà conferma annotando che «Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola ˗ limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano ˗ con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che non conoscessero l’esistenza stessa». Una disattenzione nei riguardi delle masse contadine del Sud che non sarà colmata, nonostante Gaetano Salvemini, dal ceto dirigente e intellettuale del Partito Socialista, poco propenso ad occuparsi fondatamente della irrisolta ripartizione dei terreni per favorire la piccola proprietà contadina. La critica di Gramsci a questo proposito sarà dura e definitiva. D’altro canto, il Conte di Cavour, subito dopo la fallita impresa di Pisacane, tramite il Conte Groppello, ambasciatore a Napoli, si era affrettato ipocritamente a far pervenire la sua disapprovazione per un atto che fingeva di ritenere criminoso, mentre si accingeva a chiedere la restituzione del piroscafo con l’aiuto dell’ambasciatore inglese Hudson a Torino. Un atto sfrontato che non sfuggiva all’attento de’ Sivo, il quale avrebbe poi scritto che «chi facea professione di cacciar d’Italia ogni mano straniera, chiamava or Francesi or Inglesi negli italici piati». Infatti, il nuovo governo inglese, ritenuta illegittima la cattura del piroscafo genovese, prendeva inaspettatamente le difese del Regno di Sardegna chiedendone la restituzione tramite la mediazione del Governo svedese. L’8 giugno 1858, Ferdinando II, in maniera del tutto divergente dalla sua condotta precedente nei rapporti con la Gran Bretagna, poneva fine alla contesa facendo sapere di «non aver mai pensato d’aver forze da opporre ad Inghilterra». Evidente come il diverso atteggiamento del sovrano napoletano era condizionato dalla circostanza che il “nemico” Palmerston non era più il Primo Ministro alla guida del Governo inglese. A distanza di un secolo e mezzo, uno degli storici accademici più accreditati sui rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e le Potenze Europee tra il 1830 e il 1861, Eugenio Di Rienzo, ha scritto sulla vicenda che la diplomazia napoletana si era rivelata incapace «di fronteggiare le manovre di Cavour che, contra legem, aveva preteso e ottenuto, il 22 giugno 1858, la restituzione del Cagliari ». Società di Storia Patria per la Puglia

Quando il massone Garibaldi si mise a disposizione della Chiesa di Roma. E gli "storici"? Tacciono… Ignazio Coppola su I Nuovi Vespri il 10 febbraio 2017. Solo in Italia, per oltre 150 anni, verità storiche con tanto di testimonianze scritte possono essere nascoste dagli storici di regime. Così, ancora oggi, i libri di storia continuano a negare i fatti. Pensate: il ‘condottiero’ protagonista della breccia di Porta Pia, anni prima, aveva messo la sua spada a disposizione della Chiesa di Pio IX che gli disse no. In cambio di denaro era pronto, sono parole sue, “servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane”. E l’hanno fatto ‘padre della patria’ intestandogli viene scuole…Forse non tutti sanno che Giuseppe Garibaldi il massone dei due mondi e primo massone d’Italia si mise per fame, per bisogno e necessità a disposizione del Papa e della Chiesa. A tal proposito vi raccontiamo la storia dell’eroe dei due mondi e il suo lungo e travagliato excursus di adesione alla massoneria e la sua contraddittoria disponibilità, lui massone impenitente, di mettere la sua spada al servizio di Pio IX e della Chiesa romana. Ma cominciamo dall’inizio. Appunto dalla sua iniziazione alla “Fratellanza Universale” che avvenne nelle lontana America del Sud, a 37 anni, nel 1844 per poi concludersi con la sua consacrazione a Gran Maestro nel 1864. Il primo approccio di Giuseppe Garibaldi alla Massoneria avviene nel 1835, ai tempi della sua permanenza in Brasile, in seguito alla frequentazione dell’amico e compatriota Livio Zambeccari, a sua volta affiliato alla loggia massonica di Porto Alegre, ai tempi della Repubblica del Rio Grande do Sul. In seguito, prenderà maggiore dimestichezza con “cappucci, grembiuli, mattoni e cazzuole”, iscrivendosi, nel 1844, a Montevideo alla loggia L’asil de la virtude (loggia irregolare). Sempre nello stesso anno e nella stessa città, aderisce alla loggia Les amis de la patrie sotto il Grande Oriente di Francia. Nel 1850, frequenta le logge massoniche di New York, per poi ritrovarsi negli anni 1853/54 “alloggiato” alla Philadelphes di Londra. Ma è nel 1859 che in Italia è autorevole protagonista della ricostituita loggia del Grande Oriente d’Italia insieme, tra gli altri, a Cavour, a Filippo Cordova, a Massimo D’Azeglio e al gran maestro Costantino Nigra. Siamo nella immediata vigilia della spedizione in Sicilia e, come abbiamo visto, le massonerie di Londra e Torino, preparandola a puntino, avranno un ruolo determinante e incisivo per la buona riuscita dell’impresa.

A Garibaldi, entrato da “conquistatore” nella capitale dell’Isola, nel giugno del 1860 verranno conferiti, dal Grande Oriente di Palermo, tutti i gradi della gerarchia massonica (dal 4° al 33°) e la nomina a Gran Maestro. Officianti della cerimonia, che si svolse a Palazzo Federico, in via dei Biscottari, Francesco Crispi e altri cinque fratelli massoni. Alcuni giorni dopo, sempre a Palermo, il neo Gran Maestro, in virtù del massimo grado appena attribuitogli dalla gerarchia massonica, firma le proposte di affiliazione del figlio Menotti (1 luglio 1860) e di alcuni autorevoli componenti il suo stato maggiore: Giuseppe Guerzoni, Francesco Nullo, Enrico Guastella e Pietro Ripari (3 luglio 1860). Il nostro eroe, da buon stakanovista della Massoneria, come vediamo, ha il suo bel da fare. In una lettera inviata ai “fratelli” di Palermo, il 20 marzo 1862 scriveva di “avere (…) assunto di gran cuore il supremo ufficio conferitogli e ringraziava i liberi fratelli per l’appoggio che essi avevano dato da Marsala al Volturno nelle grande opera di affrancamento delle province meridionali. La nomina a Gran Maestro rappresentava, come scrisse, la più solenne delle interpretazioni delle sue tendenze, del suo animo, dei suoi voti, lo scopo per cui aveva mirato tutta la sua vita. Ma il culmine della sua carriera massonica Garibaldi lo raggiungerà a Firenze, nel maggio del 1864. I settantadue delegati della prima costituente massonica, riunitisi nella città in riva all’Arno, lo elessero, a stragrande maggioranza, Gran Maestro dei Liberi Muratori comprendente i due riti, scozzese e italiano. Ma, a causa di divergenze e divisioni tra le varie anime del massimo organo della Massoneria, non durerà che pochi mesi nella suprema carica. Gli succederà Ludovico Frappolli. Nel maggio del 1867, in una successiva assemblea tenutasi a Napoli, a sua parziale consolazione, verrà eletto Gran Maestro Onorario. Nel 1881, infine, a poco meno di undici anni dalla sua morte, ottenne la suprema carica del Gran Hierofante del rito egiziano del Menphís Misrain. Come dicevamo all’inizio, da quanto abbiamo visto, Garibaldi più che eroe dei due mondi può definirsi a pieno titolo il “massone dei due Mondi”. V’è da credere che nella storia della Massoneria nessuno quanto lui abbia avuto più affiliazioni nelle varie logge sparse nel mondo. Roba da guiness dei primati. Eppure, i libri di testo delle nostre scuole, ipocritamente e in mala fede, continuano a ignorare questa sua appartenenza, come protagonista e figura di primo piano delle consorterie massoniche di mezzo mondo, e il ruolo pregnante che la Massoneria ha avuto e ha continuato ad avere sino ai nostri giorni nella storia del nostro Paese. Come altrettanto ipocritamente e in mala fede, nel mancato rispetto della verità storica, tutto questo è stato sempre sottaciuto in occasione delle celebrazioni del bicentenario della sua nascita e delle celebrazioni di qualche anno fa dell’Unità d’Italia. In dispregio alle verità ed alla trasparenza della storia, abbiamo bisogno di eroi a ogni costo sotto le mentite spoglie di massoni, mercenari, avventurieri e predoni. Tra le mancate virtù di Garibaldi a questo punto, ci piace infine sottolineare e ricordare quella della sua incoerenza: come dire, era suo solito, del predicare bene e razzolare male. Siamo a Montevideo nel 1847 mentre, con poca gloria, si sta esaurendo la sua esperienza uruguaiana. Avendo nostalgia dell’Italia e alla ricerca, da buon mercenario ed avventuriero, di un nuovo padrone cui mettere a disposizione la propria spada e i propri compagni d’arme, non trova di meglio che proporsi, egli massone, anticlericale e mangiapreti impenitente, al servizio della Chiesa e di Pio IX. Nell’agosto di quell’anno così scrive a un suo amico: “Io più che mai, siccome i compagni non aneliamo ad altro che al ritorno in patria comunque sia. Dunque, mio amico, se vedeste fosse possibile servire il Papa, il Duca, il demonio, basta che fosse italiano e ci desse del pane. Siamo pronti a qualsiasi condizione purché non indecorosa”. E con questa propensione all’asservimento alla Chiesa ed a Pio IX cosi scrive il 12 ottobre 1847 a monsignor Gaetano Bedini, nunzio apostolico a Rio de Janiero con giurisdizione sui paesi platensi: “Offro a Pio IX la mia spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa. Ricordando (egli sempre massone, ateo e anticlericale) i precetti della nostra augusta religione sempre nuovi e sempre immortali, pur sapendo che il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. Monsignor Bedini, a nome di Pio IX, rispose con molti ringraziamenti e gentilezza, declinando l’offerta di Garibaldi e della legione Italiana. Più avanti, Garibaldi, come era nella sua indole, non dimostrando altrettanta cortesia, definirà Pio IX e i preti un mucchio di letame. Salvo poi, dopo la conquista della capitale della Sicilia, il 15 luglio del 1860, in occasione della festa di santa Rosalia, non aver alcun pregiudizio, egli mangiapreti e impertinente massone, a sedere sul più alto trono della Cattedrale di Palermo per ricevere l’incenso dall’arcivescovo di quella città, secondo la tradizionale cerimonia della così detta “cappella reale” simboleggiante i poteri della Legazia Apostolica. E lo ritroviamo, poco meno di un mese dopo, a Napoli, con altrettanto fervore religioso, rendere omaggio, se pur Gran Maestro Venerabile della Massoneria, alla Madonna Venerabile nella chiesa di Piedigrotta ed a un breve discorso del sacerdote officiante rispose con parole di devoto amore alla religione cristiana e alle sue grandi e sublimi verità. Il 10 giugno, infine, rispettando le consuetudini religiose di questa città, dispose la celebrazione della ricorrenza del patrono San Gennaro, presenziando autorevolmente assieme agli alti prelati della chiesa napoletana al miracoloso scioglimento del sangue del santo. Misteri della fede massonica o cattolica dell’eroe dei due mondi. Fate voi. Ai lettori l’ardua sentenza.

L’altra storia del Sud. Caro professor Barbero, su Garibaldi e l’unità diciamola tutta… Michele Eugenio Di Carlo su Il Sud On Line il 4 marzo 2020. Professor Alessandro Barbero, essendo lei uno degli storici medievisti più accreditati, perché non lascia la storia del nostro processo unitario a specialisti già in evidente difficoltà? In un suo famoso intervento divulgato dal canale YouTube dal titolo “La verità su Garibaldi”, lei tentando di riproporre la figura dell’ “Eroe dei due mondi” dice molte verità. Ma da quelle stesse verità che lei racconta, omettendone altre che le dirò, il personaggio Garibaldi al vaglio attento dello studioso e dello storico, al di là delle “leggende truffaldine”, non esce affatto fortificato come repubblicano, come patriota, come politico. Lasci allora che un modesto studioso non accademico, non “educato” a frequentare studi televisivi importanti e spesso definito impropriamente “neoborbonico”, spieghi cosa Lei non ha vagliato, forse intenzionalmente, della figura di Garibaldi. Il Giuseppe Garibaldi, ricordato in tutta Italia con statue, intitolazioni di vie e di piazze, godeva di uno stretto legame che lo vincolava alla Gran Bretagna, potenza coloniale che aveva forti interessi politici e commerciali da difendere nel Mediterraneo e che non si era mai fidata di Ferdinando II scatenandogli contro una spietata campagna denigratoria, i cui effetti persistono ancora oggi nei testi di storici assurdamente ancorati ad una storiografia ufficiale liberale sabauda. L’idea di preparare una invasione militare in Sicilia non era stata di Garibaldi. In una lettera del 5 maggio ad Agostino Bertani, pubblicata l’8 maggio 1860 sul “Pungolo”, è lo stesso Garibaldi a renderlo noto. Anche per Camillo Benso Conte di Cavour, non era il momento propizio per sostenere i moti siciliani e impegnarsi nell’organizzazione di una spedizione militare in Sicilia, per le ragioni che lei stesso ha esposto. Infatti, il suo collega Pietro Pastorelli, professore emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Roma “La Sapienza” e presidente della Commissione del Ministero degli Esteri per la pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani, dopo aver consultato l’ultima edizione completa dei Carteggi di Cavour e i documenti editi dagli archivi inglesi, francesi, e prussiani, non ha lasciato alcun dubbio sul fatto che sia stato il Regno Unito ad incoraggiare e sostenere l’azione militare in Sicilia. Gentile professor Barbero, il ruolo della Gran Bretagna non è un elemento irrilevante nella ricostruzione storica della figura di Garibaldi. Le critiche della Gran Bretagna al trattato franco-sardo del 24 marzo erano note, l’annessione della Savoia e di Nizza alla Francia aveva raggelato i rapporti tra Londra e Parigi e indotto il Governo inglese ad emettere un giudizio di totale inaffidabilità sul Conte di Cavour. Il pericolo che si potessero riaprire le porte d’Oriente alla Russia a cui il Regno delle Due Sicilie era particolarmente legato e che la Francia potesse allargare la sua influenza anche in Italia meridionale, mettevano in discussione l’egemonia economica e commerciale della Gran Bretagna nel Mediterraneo. Già il 5 aprile Cavour, sospettando l’azione inglese nell’insurrezione di Palermo, contattava telegraficamente d’Azeglio, ambasciatore a Londra, affinché indagasse su un’ eventualità del genere. Qualche giorno dopo d’Azeglio, sempre in contatto con il Primo Ministro inglese Palmerston, riferiva al Conte che l’atteggiamento di sfiducia nei suoi riguardi non era affatto mutato e che ulteriori altre annessioni italiane favorite dalla Francia non sarebbero state accettate dall’Inghilterra. Pastorelli deduce dai comportamenti la linea seguita dagli inglesi; una linea che si risolse nel sostenere con un accordo segreto l’operazione militare di Garibaldi nel sud Italia senza nemmeno contattare il Primo Ministro sabaudo di cui Palmerston non si fidava. Naturalmente, il sostegno a Garibaldi doveva essere negato anche di fronte all’evidenza per evitare reazioni di Francia, Austria, Russia e Prussia. Il 30 aprile, il ministro degli Esteri inglese Russel trasmetteva all’ambasciatore Hudson le istruzioni sulla linea politica che il Governo torinese avrebbe dovuto seguire per andare incontro agli interessi inglesi. Londra desiderava il non intervento di Torino nelle questioni riguardanti il Regno delle Due Sicilie, perché convinta che un intervento diretto del Piemonte avrebbe comportato l’intervento armato dell’Austria e per reazione quello della Francia a difesa di Torino. Un’eventualità del genere avrebbe comportato l’ulteriore cessione di territori italiani alla Francia (Liguria o Sardegna) e uno squilibrio nella prevalenza inglese del Mediterraneo. Questa la ragione precisa per cui l’Inghilterra si apprestava a sostenere l’impresa azzardata e “piratesca” di Garibaldi. Ed era questo anche il motivo per cui Garibaldi cambiava diplomaticamente atteggiamento nei riguardi di Cavour, dopo la frattura dei loro rapporti seguita alla cessione di Nizza. Finanche lo storico Giuseppe Galasso ha apprezzato il comportamento opportunistico di Garibaldi in quel frangente, scrivendo che aveva «lucidamente inteso le condizioni» che potevano agevolare la sua impresa, mantenendo a ogni costo «il rapporto con Torino, per averne l’appoggio diplomatico e militare». A questo punto professor Barbero, il Garibaldi socialista, repubblicano di cui lei parla già appare come una figura sfumata e dai contorni ambigui. Non solo perché tradisce i suoi ideali, ma perché come scrive il suo compianto collega Galasso è costretto a dimostrare «di non procedere nel Mezzogiorno ad alcuna sovversione dell’ordine sociale, garantendo insieme l’opinione pubblica europea e la borghesia meridionale». Garibaldi, temendo impedimenti e ostacoli, vince la forte inimicizia e scrive a Cavour un messaggio per coinvolgerlo nell’impresa. Convocato il 2 maggio a Bologna, incontra Vittorio Emanuele II e Cavour, illustra i piani dell’impresa, conferma l’appoggio inglese, riceve l’approvazione sotto copertura del Re e del Primo Ministro. Professor Barbero, l’altro suo collega Eugenio Di Rienzo, accademico esperto, direttore della “Nuova Rivista Storica”, noto docente di Storia Moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma, riprendendo una lettera di Massimo d’Azeglio all’ammiraglio Carlo Pellion, conte di Persano, riporta alla luce che il vero piano affidato da Cavour all’ammiraglio era quello di condurre «una guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II». Da quanto riportato si evince chiaramente che il Conte sosteneva un’azione illegale, contro il diritto internazionale, temendone le ripercussioni a livello europeo. Quindi, il compito di Persano non era quello dichiarato di avversare il progetto, ma di fornire assistenza a Garibaldi e a tutte le spedizioni successive di uomini e di mezzi, ponendo tutti gli impedimenti possibili alla reazione della flotta borbonica, anche al costo di continuare a corrompere gli ufficiali napoletani favorendone il trasferimento sotto le insegne della Marina dei Savoia. Professor Barbero, come Lei riferisce, i Mille non erano Mille, ma è bene chiarire che Garibaldi è uno strumento in mano alla Gran Bretagna, affiancata da un Regno di Sardegna che agisce in maniera indegna. Professor Barbero, il tanto vituperato legittimista Giacinto de’ Sivo si sbaglia forse quando, parlando di Cavour, afferma che era un «ipocrita istigatore di guerra civile cui fingeva di deplorare, accennava a italianità, quasi non fossero italiani i combattenti pel diritto. Per esso erano italiani e compatrioti i ribelli, i traditori e i codardi che gli vendevano la patria […] »? Prof. Barbero, Garibaldi nelle sue “Memorie” così descrive l’approdo a Marsala dell’11 maggio 1860: «… la presenza di due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci; e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera d’Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto». Professor Barbero, non la colpisce profondamente constatare che «l’eroe dei due mondi», il rivoluzionario Garibaldi, si riteneva «beniamino» di coloro i quali avevano issato in mezzo mondo la bandiera di quella Gran Bretagna che era ritenuta la più grande potenza coloniale e imperialistica al mondo, che solo da qualche anno aveva abolito lo schiavismo e il traffico di carne umana, che non esitava a passare per le armi i suoi nemici interni e esterni, che manteneva in condizioni di estrema povertà le classi proletarie, che permetteva che milioni di suoi sudditi emigrassero per la fame, che aveva un sistema carcerario tra i peggiori al mondo? Professor Barbero, non desta in Lei nessuna impressione il fatto che chi progettava di unificare l’Italia dal gioco straniero si affidava pienamente alla Gran Bretagna nel tentativo di sopraffare una legittima monarchia perfettamente italiana? Un Garibaldi non poteva andare oltre le semplici dichiarazioni di affezione, amicizia, simpatia e rivelare chiaramente quale fosse stato il ruolo degli inglesi nella spedizione anche se, come spiega ancora il suo collega Di Rienzo, la presenza della flotta inglese non solo nel mare di Sicilia era vista come una minaccia concreta sia dagli ufficiali della Marina napoletana sia da Francesco II e quasi sicuramente la decisione di approdare a Marsala era stata concordata da Garibaldi con i referenti del Governo inglese. E a proposito dei soldi necessari all’impresa bisogna anche qui chiarire meglio il ruolo della Gran Bretagna e della Massoneria. Infatti il 4 marzo 1861, quando l’Italia stava per essere unificata, il deputato John Pope Hennessy riaccendeva la discussione e contestava al Governo inglese di aver interferito nella vittoriosa impresa garibaldina, sostenendola militarmente, finanziariamente e diplomaticamente, mentre ufficialmente caldeggiava ipocritamente la linea del non intervento negli affari italiani. Secondo Pope le due navi della flotta inglese erano presenti nella rada del porto di Marsala col preciso compito di fornire il supporto necessario ad assicurare lo sbarco a Marsala degli uomini in camicia rossa. Pochi erano i dubbi sul coinvolgimento inglese nella conquista militare del Regno delle Due Sicilie; dubbi che si affievolirono del tutto quando lo stesso Pope rese nota la lettera con cui Vittorio Emanuele II aveva ringraziato il Governo inglese. Professor Barbero, come Lei afferma, Garibaldi “socialista” non piaceva a Karl Marx. Marx ed Engels seguirono con attenzione l’azione di Garibaldi, ma solo inizialmente, anche perché sono noti i loro giudizi negativi sull’evoluzione politica italiana. E d’altronde, come poteva piacere a Marx il Garibaldi che supportato da ambienti finanziari e politici inglesi finiva per consegnare il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e alla casta politico-militare dei Savoia, che trattarono il sud Italia come fosse una colonia, instaurandovi un feroce regime repressivo? Professor Barbero, anche sul fatto che la figura di Garibaldi è stata proposta più volte nella storia dalla sinistra come icona positiva – da ultimi i comunisti svizzeri – ha totalmente ragione, ma non c’è da esserne soddisfatti. Pensi quanto sia stata potente la macchina della propaganda agiografica messa in piedi dai governi liberali dopo il processo unitario, se anche la sinistra non è riuscita a distinguere il Garibaldi “socialista” da quello che consegna la conquista militare a Vittorio Emanuele II. Professor Barbero, non si può, d’altro canto, non registrare l’utilizzo strumentale che ne fece anche il fascismo. Fulvio Orsitto, docente accademico esperto di cinema, senza mezzi termini, considera la seconda fase della cinematografia, quella definita «fascista», un periodo storico in cui «la ricostruzione della storia patria si svolge in modo funzionale agli interessi di un regime che intende essere considerato la logica conclusione del processo risorgimentale». Un Risorgimento manipolato strumentalmente al fine di nazionalizzare le masse, dato che non poteva sfuggire all’intellettualità fascista come il cinema fosse un potente mezzo di comunicazione, piegabile ad uso propagandistico, e che il potere poteva efficacemente utilizzare per indottrinare e ideologizzare le masse. Emblematica di questa maniera romantica e fantastica di rappresentare il Risorgimento è il film “1860”, diretto da Alessandro Blasetti nel 1934. Daniele Fioretti, peraltro, docente alla Miami University, non nutre alcun dubbio sulla circostanza che Blasetti non si era affatto proposto di fornire un quadro storico verosimile del Risorgimento, ma una banale celebrazione agiografica dell’epopea garibaldina con un intento smaccatamente propagandistico. Il pericolo concreto fu allora persino avvertito dal filosofo tedesco Walter Benjamin: la storia e le tradizioni erano diventate lo strumento della classe dominante, mentre compito dello storico era proprio quello di sottrarre la storia a questo tipo di manipolazione. Egregio professor Barbero, non Le sembra un ammonimento più che mai attuale. Per finire professor Barbero, – mi riferisco ai suoi giudizi sulle “leggende truffaldine” della sua ultima visita a Napoli – si convinca anche Lei relativamente a quanto ha affermato il suo collega specialista della materia Eugenio Di Rienzo: il lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici del Risorgimento è prezioso. Infatti, tornando a Garibaldi, su una delle questioni centrali della “avventura” in Sicilia, Di Rienzo ha affermato che la longa manus del ministero whig ha «potentemente contribuito (soprattutto ma non soltanto con un supporto economico) al successo della "liberazione del Mezzogiorno"», aggiungendo lucidamente «che la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza» un’ipotesi «che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filoborbonica».

L’altra storia. la verità su Mazzini e Pisacane. Michele Eugenio Di Carlo. Anche Ennio Lorenzini con il film Quanto è bello lu murire acciso del 1975, come Florestano Vancini tre anni prima con Bronte, mette in scena un Risorgimento moderno, dove la realtà prende il posto delle illusioni agiografiche e collega direttamente il fallimento degli ideali e dei valori risorgimentali alla crisi sociale e politica degli anni Settanta del Novecento. Il periodo in cui il film di Lorenzini è girato è quello violento del terrorismo che renderà necessario la costituzione di un governo di unità nazionale. Un periodo nel quale, in analogia a quello seguente il Risorgimento, si spengono tante illusioni, quelle nate dalla stagione del Sessantotto. Un periodo nel quale, come scrive Renato Ventura, Assistant Professor presso l’Università di Dayton negli Stati Uniti, studioso della letteratura italiana contemporanea, «… i protagonisti della vita politica e sociale sono gli studenti, i lavoratori, le donne, che sulle piazze italiane ripropongono diversi modelli interpretativi del Risorgimento, ovviamente in controtendenza con la narrativa classica dei patrioti risorgimentali quali eroi che si immolano per un ideale di patria e unità della nazione» . Lorenzini visualizza la spedizione di Carlo Pisacane del 1857 in netto contrasto con la storiografia ufficiale sabauda e in antitesi con una letteratura che Ventura elenca e giudica di «scarso valore artistico». Alla costruzione dell’identità nazionale aveva contribuito non poco il poeta marchigiano Luigi Mercantini, diventato noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla drammatica spedizione di Pisacane, graditi agli ambienti governativi per la forte valenza patriottica e nazionalistica, divulgati attraverso la scuola per il notevole valore didattico-pedagogico fino ai nostri giorni. Qualsiasi studente delle Elementari e delle Medie era costretto ad imparare a memoria almeno il celebre ritornello della poesia di Mercantini: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!», al fine di perpetuare nella memoria storica popolare miti falsificati e di incidere intimamente nell’animo dei giovani valori e ideali che proprio il Risorgimento aveva tradito. Utile a questo proposito riproporre un breve excursus storico che si riferisce alla Spedizione di Sapri, al di là della retorica risorgimentale. Appare significativo, innanzitutto, che secondo lo scrittore di fine Ottocento Raffaele De Cesare, la spedizione di Sapri, organizzata da Carlo Pisacane, non avrebbe turbato i sonni di Ferdinando II quanto l’opuscolo di Antonio Scialoja, l’esule napoletano che aveva criticato le finanze del Regno delle Due Sicilie. Lo storico Giacinto De’ Sivo ha raccontato i particolari dell’organizzazione dell’impresa che avrebbe dovuto sollevare le popolazioni rurali contro la dinastia regnante dei Borbone, sin da quando, in maggio, la giovane letterata inglese Jessie White proveniente da Londra raggiungeva il Regno di Sardegna. Non da sola, visto che «con lei anco era giunto, e travestito s’appiattava in Genova, il Mazzini stesso, che moveva tutto». Pisacane, esule napoletano, aveva combattuto a Brescia e a Roma e nello scontro di Velletri del 1849 era stato «capo dello stato maggiore» di Giuseppe Garibaldi. Di idee socialiste e rivoluzionarie, era convinto che il regime costituzionale piemontese nuocesse all’Italia più di quello del «Ferdinando tiranno». È lo stesso de’ Sivo a ricordare che Pisacane, «a mostrar coscienza di libertà», prima di partire per la sua impresa aveva scritto un Testamento politico del tutto slegato dalle idee mazziniane, che proponeva una vera rivoluzione anche nei riguardi del regime costituzionale piemontese, che Pisacane giudicava del tutto insufficiente a far risorgere l’Italia e addirittura teso a ritardarlo . La storia avrebbe dato ragione a Pisacane per come l’unità d’Italia sarebbe stata più tardi realizzata, lasciando da parte le istanze popolari e piegandole agli interessi di aristocratici e borghesi. Già dopo il 1849, il gruppo facente capo a Pisacane si era staccato da Giuseppe Mazzini per percorrere la strada del socialismo rivoluzionario. La critica di Pisacane a Mazzini, poco o affatto analizzata da storici e letterati liberali, è feroce. Francesco Valentini ne ha evidenziato esattamente gli aspetti salienti: «A Mazzini Pisacane rimprovera di non aver visto l’ascesa della plebe e il suo irriducibile contrasto con la borghesia, cioè di non aver inteso la rivoluzione come rivoluzione del povero, e, quanto all’ideologia mazziniana, la considera come suscettibile di involuzioni aristocratiche-pedagogiche». Vista la distanza da Pisacane, la presenza clandestina a Genova di Mazzini, richiamata da de’ Sivo, non sembra doversi collegare direttamente alla spedizione di Sapri, giacché probabilmente finalizzata ad approfittarne per provocare tumulti in alcune città del Regno di Sardegna, che – ricordiamo – aveva condannato Mazzini alla pena di morte. Ma Pisacane per la storiografia ufficiale dell’epoca e per la letteratura filo-sabauda doveva assumere solo le vesti di eroe, martire e patriota, e oscurate dovevano apparire le profonde divergenze da Mazzini e persino da Garibaldi. Nella prefazione del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, pubblicata a Bologna nel 1894, Napoleone Colajanni scrive testualmente: «Carlo Pisacane, come possono farlo oggi i più avanzati socialisti, combatte Giuseppe Mazzini; ma se egli si mostra severo contro la sua dottrina (specialmente nella parte che rispecchia il misticismo cristiano e la vana speranza di farne una leva per la rigenerazione sociale) e contro il suo metodo (e non sempre le sue accuse sono giuste), è sempre pieno di affetto e di rispetto per la persona», inoltre «nel propugnare la formola libertà e associazione da sostituirsi a quella mazziniana Dio e popolo e all’altra francese libertà, uguaglianza e fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i repubblicani italiani». Il 25 giugno 1857 il piroscafo Cagliari, appartenente alla compagnia genovese Rubattino, salpava da Genova al comando del capitano Antonio Sitria con trentadue uomini, tra i quali due macchinisti inglesi convinti all’impresa da una lettera della White. L’epilogo della spedizione è noto, la mattina del 2 luglio gli scampati ad uno scontro del giorno precedente furono sorpresi nel bosco di Sanza, dove le guardie urbane uccisero in uno scontro a fuoco Pisacane, mentre i superstiti furono aggrediti dalla popolazione accorsa al suono delle campane. Singolare destino per «quei liberatori di popolo cacciati dal popolo come belve». Il 4 luglio il Conte di Groppello, ambasciatore piemontese a Napoli, comunicava al Conte di Cavour la sorprendente resistenza della popolazione: «La banda dovunque passò […] trovava avversione grandissima nella popolazione»; circostanza che per de’ Sivo costituiva una testimonianza storica manifesta «che i Borboni sì tiranni gridati fuori, eran nel regno amati, e difesi dai tiranneggianti». Nel suo film Lorenzini valuta attentamente il mancato coinvolgimento delle masse rurali e lo relaziona alla carente presenza al Sud di una classe intellettuale, oltre che ad un Partito d’Azione non maturo e scadente nell’elaborazione politica. Antonio Gramsci ne darà conferma annotando che «Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola ˗ limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano ˗ con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che non conoscessero l’esistenza stessa» . Una disattenzione nei riguardi delle masse contadine del Sud che non sarà colmata, nonostante Gaetano Salvemini, dal ceto dirigente e intellettuale del Partito Socialista, poco propenso ad occuparsi fondatamente della irrisolta ripartizione dei terreni per favorire la piccola proprietà contadina. La critica di Gramsci a questo proposito sarà dura e definitiva. D’altro canto, il Conte di Cavour, subito dopo la fallita impresa di Pisacane, tramite il Conte Groppello, ambasciatore a Napoli, si era affrettato ipocritamente a far pervenire la sua disapprovazione per un atto che fingeva di ritenere criminoso, mentre si accingeva a chiedere la restituzione del piroscafo con l’aiuto dell’ambasciatore inglese Hudson a Torino. Un atto sfrontato che non sfuggiva all’attento de’ Sivo, il quale avrebbe poi scritto che «chi facea professione di cacciar d’Italia ogni mano straniera, chiamava or Francesi or Inglesi negli italici piati». Infatti, il nuovo governo inglese, ritenuta illegittima la cattura del piroscafo genovese, prendeva inaspettatamente le difese del Regno di Sardegna chiedendone la restituzione tramite la mediazione del Governo svedese. L’8 giugno 1858, Ferdinando II, in maniera del tutto divergente dalla sua condotta precedente nei rapporti con la Gran Bretagna, poneva fine alla contesa facendo sapere di «non aver mai pensato d’aver forze da opporre ad Inghilterra». Evidente come il diverso atteggiamento del sovrano napoletano era condizionato dalla circostanza che il “nemico” Palmerston non era più il Primo Ministro alla guida del Governo inglese. A distanza di un secolo e mezzo, uno degli storici accademici più accreditati sui rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e le Potenze Europee tra il 1830 e il 1861, Eugenio Di Rienzo, ha scritto sulla vicenda che la diplomazia napoletana si era rivelata incapace «di fronteggiare le manovre di Cavour che, contra legem, aveva preteso e ottenuto, il 22 giugno 1858, la restituzione del Cagliari » . (Pubblicato il 9 settembre 2020 © «Il Sud On Line»)

·        Napoli e Sud poco combattivi? 

L’altra storia del Sud. Napoli e Palermo, capitali contro. Michele Eugenio Di Carlo su ilsudonline.it l'8 ottobre 2020. Nella Sicilia del 1860, gli intellettuali, gli esponenti del decaduto ma ancora vitale baronato, gli esuli, preparavano da tempo il clima funzionale a liberarsi dalla dinastia borbonica. Tra i più attivi cospiratori vi erano i mazziniani Francesco Crispi e Rosolino Pilo; a Malta col consenso britannico agiva il modenese Nicola Fabrizi, mentre il siciliano ex mazziniano Giuseppe La Farina, segretario dell’Associazione Nazionale, in stretta amicizia con Cavour, si era piegato all’idea di un’unità d’Italia sotto le insegne di Casa Savoia, anticipando su questo piano Giuseppe Garibaldi. Già in agosto Crispi era giunto in Sicilia con un falso passaporto, al fine di rassicurare i sovvertitori che Garibaldi e Mazzini avrebbero aderito appoggiando in pieno la loro lotta di liberazione. Il 27 novembre 1859, il capo della polizia Salvatore Maniscalco veniva pugnalato non mortalmente mentre entrava nella cattedrale di Palermo. Il barone Giovanni Riso, nel suo palazzo di via Toledo nel centro della città, organizzava feste danzanti allo scopo di favorire segretamente incontri tra congiurati. Francesco II di Borbone, «stretto fra le mene di famiglia e gli intrighi del partito piemontese, sospettoso nei confronti di Napoleone III», intimorito dalle mire inglesi in Sicilia, decideva di chiedere un parere al Consiglio dei Ministri, il quale giungeva alla conclusione unanime che solo mezzi repressivi avrebbero garantito l’ordine pubblico. Pertanto, quando il Ministro della Polizia mostrò le prove di una vasta cospirazione siciliana contro la dinastia vennero eseguiti diversi arresti. Salvatore Lupo, docente di Storia Contemporanea all’Università di Palermo, ha chiarito gli aspetti del profondo solco che separava Palermo da Napoli, capitali che nel 1816 contavano rispettivamente 114 e 322 mila abitanti. Con la Restaurazione del 1815 e il ritorno di Ferdinando I a Napoli, il modello amministrativo centralizzato francese non era stato disapplicato e non garantiva le periferie. Nel biennio1816-17, Foggia era la seconda città continentale del Regno con appena 20 mila abitanti; in un contesto demografico del genere Palermo non solo passava in secondo piano rispetto a Napoli, ma rischiava di perdere la supremazia isolana rispetto a città come Messina e Catania che già allora superavano i 40 mila abitanti. A seguito dei moti carbonari del 1820, Ferdinando I aveva concesso una costituzione di tipo spagnolo, mentre Palermo mirava a tenersi stretta la Costituzione filo-aristocratica del 1812, oltre che una completa autonomia. Le città orientali della Sicilia si erano schierate contro Palermo, al fianco del governo costituzionale napoletano: «fu guerra civile dei siciliani contro i napoletani, e guerra civile dei siciliani tra loro». La nuova cospirazione siciliana era scattata all’alba del 4 aprile 1860, nella chiesa e nei magazzini della Gancia dei Frati Minori. Andrea Aveto, in “Cronache dell’Unità d’Italia” [4], riporta il racconto della sollevazione siciliana tramite un articolo non firmato pubblicato il 29 aprile 1860 dal giornale «La Nazione», associato ad una nota di redazione riconducente l’autore ad «un’autorevole persona di Palermo» non meglio specificata. È una ricostruzione di parte che viene spedita ad un esule siciliano che, mantenendo l’anonimato, la trasmette alla direzione del giornale di Torino con l’evidente fine di mettere in primo piano la crudeltà della Polizia e dell’Esercito Regio borbonico, oltre che la crudezza di una repressione che si compie il 5 aprile a colpi di cannone con uccisione di donne e bambini, saccheggi, incendio di case, nel sobborgo meridionale di Palermo detto “i Porrazzi ”. La battaglia dei rivoltosi nei giorni seguenti si sposta nei sobborghi e nei villaggi. Il 6 aprile nel villaggio di Baida, l’8 aprile nei pressi della villa reale alla Favorita, il 9 aprile nei grossi comuni di Misilmeri e Bagheria, il 10 aprile a Mondello, l’11 aprile di nuovo a Baida, il 12 a Monreale, quando diventa chiaro al narratore stesso che i rivoltosi hanno perso e che la sollevazione promessa e auspicata dell’intera Sicilia non si è compiuta. Il 15 aprile i tredici arrestati alla Gancia di bassa estrazione sociale vengono fucilati, mentre il barone Riso, il principe Giandinelli, il Cavaliere di San Giovanni, il Principino Monteleone, arrestati il 7 aprile, il Duca di Verduca arrestato alla vigilia dei moti, padre Ottavio Lanza arrestato l’11 aprile, non subiscono lo stesso trattamento. L’anonimo siciliano descrive anche una dimostrazione popolare pacifica avvenuta il 13 aprile a Palermo, alle ore 17 al grido generalizzato ed entusiastico di «Viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele», non impedita misteriosamente dalle forze di polizia in una città già posta sotto stato d’assedio e circondata dall’esercito. Infine, l’articolo fa riferimento con soddisfazione alla circostanza che l’insurrezione, seppur fallita a Palermo, si mantiene viva nella provincia, contrastata dai «regii» che con «ferocia e rapacità» utilizzano da lontano le artiglierie, «ammazzando gli inermi e le donne». Giacinto De’ Sivo ha scritto che il Maniscalco era stato messo al corrente da un frate del convento della Gancia della sommossa, organizzata dal «fontanaio» Francesco Riso. Lo scrittore di Maddaloni, documentatissimo sugli avvenimenti di quei giorni, ha accertato che durante la notte circa settanta rivoltosi erano stati fatti entrare dal frate portinaio nel giardino del convento, mentre altri, accortisi della presenza delle sentinelle, si erano dileguati temendo di essere scoperti. Ciononostante, alle cinque del mattino i congiurati aprivano il fuoco uccidendo il soldato regio Domenico Cipollone, la prima vittima degli scontri. Preso il convento, il “popolino” si dava al saccheggio, impedito dall’intervento dei soldati all’interno della chiesa. Appena giunta a Napoli la notizia dei tredici arrestati alla Gancia, Francesco II dava disposizioni affinché fosse loro concessa la grazia e fossero perdonati coloro che spontaneamente deponevano le armi. Non sarebbe andata come Francesco II aveva raccomandato; infatti il 13 aprile, la manifestazione descritta dell’anonimo siciliano su «La Nazione» (ridotta da de’ Sivo a 200 persone disperse dalla polizia) e l’eventualità di un tumulto previsto per il giorno 15, spinsero verso la convocazione di un Consiglio di Guerra e la condanna a morte dei tredici arrestati, quantunque Francesco II avesse prospettato una soluzione diversa. Gli scontri nel territorio di Palermo terminavano il 18 aprile a Carini con una grave sconfitta dei rivoltosi. Nemmeno un mese dopo, la Gran Bretagna, armando Garibaldi, non rinuncerà al pieno controllo della Sicilia e del Mediterraneo. 

IL TRATTATO DI FERDINANDO II CON L'ARGENTINA DEL 1857. Michele Eugenio Di Carlo il 30 settembre. Ferdinando II, re delle Due Sicilie, nel gennaio del 1857, intraprese trattative con la Repubblica Argentina al fine di confinare prigionieri politici condannati e reclusi e formare una colonia di napoletani. Il Governo inglese, che aveva minacciato Napoli con la flotta da guerra e ritirato la propria delegazione diplomatica, finse di considerarla una soluzione che andava incontro ai propri consigli e inviti, che in realtà altro non erano che minacce. I particolari del trattato con l’Argentina, concluso e sottoscritto il 10 gennaio 1857, mettono in chiaro che il sovrano napoletano avrebbe commutato la pena ai condannati, i quali avrebbero ricevuto in Argentina terra e mezzi per coltivarla oltre a «cento patacconi» in denaro, solo e sempre dietro loro disponibilità. Il trattato non entrò in vigore perché solo pochi giovani si dichiararono disponibili all’emigrazione, mentre gli anziani manifestarono la volontà di restare in carcere, tanto che Carlo Poerio sembra abbia affermato: «lasciatemi morire in galera» . Dopo questo fallito trattato, diventava più problematico per Gran Bretagna e Regno di Sardegna sostenere la propaganda diffamatoria sulle carceri napoletane, ciononostante essa riprese senza tregua alcuna.

Sicilia 1870: il tradimento raccontato ne "I Viceré". De Roberto aveva capito tutto. I Nuovi Vespri il 7 ottobre 2020. Per capire lo schifo da nausea dell’Italia nata nel 1860 all’insegna di quel grande equivoco che fu il Risorgimento basta leggere il romanzo "I Viceré" di Federico De Roberto. Lo scrittore napoletano che scelse di essere siciliano descrive in modo magistrale l’inganno perpetrato dai piemontesi con la connivenza dei siciliani che svendevano la propria terra ai nemici in cambio di benefici personali. Da allora ad oggi cos’è cambiato? “A dargli retta, i beni tolti alla Chiesa dovevano permettere di alleggerir le tasse, e far divenire tutti proprietarii. Invece, le gravezze pubbliche crescevano sempre più, e chi aveva ottenuto quei beni? Il duca d’Oragua, le gente più ricca, i capitalisti, tutti coloro che erano dalla parte del mestolo!…L’opposizione al deputato si confondeva così, a poco a poco, nel generale malcontento, nel disinganno succeduto alle speranze riposte nella mutazione politica. Prima, se le cose andavano male, se il commercio languiva, se i quattrini scarseggiavano, la colpa era tutta di Ferdinando II: bisognava mandar via i Borboni, far l’Italia una, perché di botto tutti nuotassero nell’oro. Adesso, dopo dieci anni di libertà, la gente non sapeva più come tirare avanti. Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d’un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!”. Tratto da I Viceré di Federico De Roberto

Quando Cavour scriveva a Vittorio Emanuele, invitandolo ad “ammazzare” i meridionali e i siciliani. I Nuovi Vespri il 7 ottobre 2020. Cavour – l’abbiamo scritto e lo ribadiamo – è stato uno dei peggiori nemici del Sud e della Sicilia. Non conosceva l’Italia: né il Sud, né il Nord. Era un malo-francese arrogante e detestava i meridionali pur non conoscendoli. E senza conoscerli li definiva “corrotti”. Dimenticando che i veri corrotti erano invece lui e il suo Piemonte. I primati mondiali del Sud Italia prima della "disgrazia" del 1860. La storia ci racconta che Camillo Benso, Conte di Cavour, era un uomo politico accorto e moderato. I più informati (o quasi…) ci raccontano che, se non fosse morto un anno dopo la sciagurata unità d’Italia (per la cronaca, Cavour passò a miglio vita nel Giugno del 1861), mai e poi mai i generali-criminali di casa Savoia avrebbero messo a ferro e fuoco il Sud Italia e la Sicilia.

Ebbene, questa è una grande falsità, perché Cavour, al contrario di quello che hanno cercato di raccontarci, non solo considerava il Sud una colonia conquistata, ma – se fosse vissuto – sarebbe stato perfettamente in linea on i generali-criminali di Casa Savoia, da Enrico Cialdini a scendere. Poche righe di una lettera che Cavour spedisce a Vittorio Emanuele il 14 Dicembre del 1860 – lettera che leggiamo su Malaunità, di P.Aprile, L. Del Boca ed altri – Spaziocreativo edizioni, pag. 64, testo che abbiamo ritrovato su Regno delle Due Sicile.eu – ci danno la misura esatta di che cosa Cavour pensava del Sud, della Sicilia e degli abitanti del Sud e della Sicilia: “Lo scopo è chiaro; non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta e più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica…Ora che la fusione delle varie parti della Penisola è compiuta mi lascerei ammazzare dieci volte prima di consentire a che si sciogliesse. Ma anziché lasciare ammazzare me, proverei ad ammazzare gli altri. Non si perda tempo a far prigionieri”. E, in effetti, il consiglio di Cavour venne messo in pratica: perché furono tantissimi i meridionali e i siciliani scannati dai piemontesi. E tanti furono anche i prigionieri: basti pensare al lager di Fenestrelle. Insomma, per Cavour, nel 1860, a ‘presunta’ unità d’Italia appena raggiunta, il Sud e la Sicilia erano già “parte più corrotta e più debole dell’Italia”. Le cose stavano esattamente al contrario, perché se c’erano corrotti, ebbene, quelli erano i piemontesi di Cavour che, per impadronirsi del Regno delle Due Sicilie, non avevano esitato ad allearsi con i criminali dell’epoca della Sicilia, delle Calabrie e della Campania. E se in Sicilia, durante la farsa dei Mille, i picciotti dell’onorata società non si scoprivano troppo (anche perché non avevano la forza d’animo di combattere: i mafiosi dell’epoca erano solo parassiti), in campania, senza la Camorra, Garibaldi e i garibaldini sarebbero stati presi a calci nel sedere e gettati in mare. Il Piemonte di Cavour non era soltanto corrotto: era anche uno Stato squattrinato che pagò le spese dell’unificazione derubando il Sud (a cominciare dalle banche della Sicilia e del regno delle Due Sicilie. Ma Cavour – che non era italiano ma di fatto francese e che non conosceva nulla dell’Italia, nemmeno dell’Italia del Nord (nella sua vita era stato una sola volta in Veneto e Venezia gli era sembrata una città strana e non la capiva) – prende un’altra cantonata quando definisce “debole” il Sud Italia: debole era il Piemonte, Regione nella quale, ai tempi di Cavour, c’erano per lo più vacche e distese di erba medica, mentre il Sud era una delle capitali della cultura europea. Ecco quali erano i primati del Regno delle Due Sicilie (dati tratti da “Le industrie del Regno di Napoli” di Gennaro De Crescenzo.

I primati del Regno delle Due Sicilie):

1735. Prima Cattedra di Astronomia in Italia

1737. Costruzione S.Carlo di Napoli, il più antico teatro d’Opera al mondo ancora operante

1754. Prima Cattedra di Economia al mondo

1762. Accademia di Architettura, tra le prime in Europa

1763. Primo Cimitero Italiano per poveri (Cimitero delle 366 fosse)

1781. Primo Codice Marittimo del mondo

1782. Primo intervento in Italia di Profilassi Antitubercolare

1783. Primo Cimitero in Europa per tutte le classi sociali (Palermo)

1789. Prima assegnazione di “Case Popolari” in Italia (San Leucio a Caserta)

1789. Prima assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)

1792. Primo Atlante Marittimo nel mondo (Atlante Due Sicilie)

1801. Primo Museo Mineralogico del mondo

1807. Primo Orto Botanico in Italia a Napoli

1812. Prima Scuola di Ballo in Italia, gestita dal San Carlo

1813. Primo Ospedale Psichiatrico in Italia (Real Morotrofio di Aversa)

1818. Prima nave a vapore nel mediterraneo “Ferdinando I”

1819. Primo Osservatorio Astronomico in Italia a Capodimonte

1832. Primo Ponte sospeso, in ferro, in Europa sul fiume Garigliano

1833. Prima Nave da crociera in Europa “Francesco I”

1835. Primo Istituto Italiano per sordomuti

1836. Prima Compagnia di Navigazione a vapore nel mediterraneo

1839. Prima Ferrovia Italiana, tratto Napoli-Portici

1839. Prima illuminazione a gas in una città città italiana, terza dopo Parigi e Londra

1840. Prima fabbrica metalmeccanica d’ Italia per numero di operai (Pietrarsa)

1841. Primo Centro Sismologico in Italia, sul Vesuvio

1841. Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia

1843. Prima Nave da guerra a vapore d’ Italia “Ercole”

1843. Primo Periodico Psichiatrico italiano, pubblicato al Reale Morotrofio di Aversa

1845. Primo Osservatorio meteorologico d’Italia

1845. Prima Locomotiva a vapore costruita in Italia a Pietrarsa

1852. Primo Bacino di Carenaggio in muratura in Italia (Napoli)

1852. Primo Telegrafo Elettrico in Italia

1852. Primo esperimento di illuminazione elettrica in Italia, a Capodimonte

1853. Primo Piroscafo nel Mediterraneo per l’America (il “Sicilia”)

1853. Prima applicazione dei pricìpi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi

1856. Expò di Parigi, terzo paese al mondo per sviluppo industriale

1856. Primo Premio Internazionale per la produzione di Pasta

1856. Primo Premio Internazionale per la lavorazione di coralli

1856. Primo sismografo elettrico al mondo, costruito da Luigi Palmieri

1860. Prima Flotta Mercantile e Militare d’Italia

1860. Prima Nave ad elica in Italia “Monarca”

1860. La più grande industria navale d’Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia)

1860. Primo tra gli stati italiani per numero di orfanotrofi, ospizi, collegi, conservatori e strutture di assistenza e formazione

1860. La più bassa mortalità infantile d’Italia

1860. La più alta percentuale di medici per numero di abitanti in Italia

1860. Primo piano regolatore in Italia, per la città di Napoli

1860. Prima città d’Italia per numero di Teatri (Napoli)

1860. Prima città d’Italia per numero di Tipografie (Napoli)

1860. Prima città d’Italia per di Pubblicazioni di Giornali e Riviste (Napoli)

1860. Primo Corpo dei Pompieri d’Italia

1860. Prima città d’Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli)

1860. Primo Stato Italiano per quantità di Lire-oro conservata nei banchi Nazionali (443 milioni, su un totale 668 milioni messi insieme da tutti gli stati italiani, compreso il Regno delle Due Sicilie)

1860. La più alta quotazione di rendita dei Titoli di Stato

1860. Il minore carico Tributario Erariale in Euro.

Così, tanto per specificare come stavano le cose rima che il Sud e la Sicilia diventassero la colonia della mala Italia – loro sì – di corrotti e corruttori....

Vittorio Emanuele, Garibaldi, Nino Bixio, Cialdini: gli "eroi" che hanno scannato gli abitanti del Sud e della Sicilia. I Nuovi Vespri il 29 settembre 2020. Non c’è città italiana, grande o piccola che sia, che non dedichi vie, piazze, scuole e monumenti bronzei a questi signori che hanno occupato il Sud, ammazzando un numero incredibile di persone e poi costringendone altrettante ad emigrare da una terra diventata la colonia d’Italia. Ha torto la scrittore Nicola Zitara quando dice che il tricolore è il simbolo della sconfitta del Mezzogiorno? “Non c’è cittadina d’Italia dove non ci sia un bronzeo monumento a un qualche risorgimentatore. Vittorio Emanuele, Garibaldi, Nino Bixio, Cosenz, Medici, Lamarmora, Cialdini e tanti altri illustri guerrieri. Se ne stanno tutti su alti piedistalli con la sciabola sguainata. Il bronzo del monumento non riproduce il sangue, ma la sciabola lo presuppone. Questi bronzei signori hanno operato un macello fra i nemici. Però essi non hanno avuto altri nemici da combattere se non gli italiani del Sud. Quindi il sangue che cola idealmente da quelle sciabole appartiene a un qualche mio antenato. Milite Ignoto o Milite Ignobile? Non c’è una lapide che ne ricordi il nome. Mai un fiore è stato deposto sulla sua tomba. Noi siamo i nemici di noi. Il nostro passato è più che brutto, è osceno…Sventoliamo il tricolore. Ma il tricolore è il vessillo della nostra sconfitta. Forse lo abbiamo amato e servito, ma non siamo stati mai ripagati…”

… e Garibaldi ammette: “Senza l’aiuto degli inglesi non sarei mai sbarcato a Marsala…” I Nuovi Vespri il 5 ottobre 2020. In Italia, da oltre 150 anni, ci descrivono Garibaldi come un eroe senza macchia e senza paura. In realtà, a cominciare dalla scuola, c’è stata tanta, troppa disinformazione. Lo stesso nizzardo, infatti, quando ormai era su con gli anni, ammetteva che, senza gli inglesi, non sarebbe mai arrivato in Sicilia e a Napoli. “…la sua spedizione fu assai gradita e costantemente protetta dall’Inghilterra. Paese che in generale (Garibaldi) non avrebbe mai dimenticato di ringraziare, qualche tempo dopo, con un viaggio appositamente organizzato nel 1864. Durante la cerimonia di accoglienza, degna di un principe, (…) avrebbe ammesso: ‘Senza l’ajuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora Borbonica, senza l’Ammiraglio Mundy, non avrei potuto giammai passare lo Stretto di Messina”, perché fu l’ammiraglio George Rodney Mundy che protesse lo sbarco a Marsala e il passaggio dello Stretto di Messina’”.

P.s. E’ giusto aggiungere qualche considerazione, considerato che l’ammissione arriva dallo stesso Garibaldi. Forse bisogna cominciare dal viaggio di Garibaldi in Inghilterra, quando venne “accolto come un principe”. Uno storico di regime – lasciamo perdere il nome – annette tanta importanza a questo viaggio: gli serve per dimostrare che Garibaldi era, agli occhi degli inglesi e del mondo, un “eroe”. E in effetti, per la parte che riguarda l’Inghilterra, Garibaldi era un eroe, perché aveva consentito a questo Paese – che allora considerava il Mediterraneo come “un grande mare inglese” in forza dell’incincibilità della sua flotta navale – di conservare un ruolo centrale in vista dell’apertura del Canale di Suez. Ma, fuori dai domini inglesi – e soprattutto nell’Italia del Sud – Garibaldi non era affatto un eroe: anzi. Sempre quando era ormai avanti con gli anni – gli uomini con il passar del tempo possono diventare saggi e anche intellettualmente onesti – quello che veniva definito l’Eroe dei due mondi ammetterà che, se fosse passato dalle parti del Sud Italia, la gente di quei luoghi non avrebbe esitato a prenderlo a sassate. E lo scrive in una lettera. Resta da capire perché, ancora oggi, l’Italia officiale deve a tutti i costi conservare il falso mito di Garibaldi. Forse perché si teme che questo possa minare l’unità nazionale? Ma se con l’Unione europea dell’euro – a parte il regno Unito che si è giustamente chiamato fuori dalla presunta Europa unita – esiste solo l’Unione della Germania detta impropriamente Unione europea che problemi ci sono? Proprio in questi giorni i tedeschi si sono impossessati del porto di Trieste: e sappiamo tutti che cos’è stato per l’Italia – per la storia d’Italia dell’ultimo secolo – la storia di Trieste. Eppure il Governo italiano, oggi, non ha esitato a cedere il porto di Trieste alla Germania, che finalmente diventa l’affacciata tedesca nel Mediterraneo… Insomma, se il porto di Trieste è ormai tedesco non sarebbe il caso di raccontare la verità su Garibaldi, su Cavour e sui Savoia? 

Il Regno delle Due Sicilie? Mai servo di inglesi e francesi. Il Piemonte? Servo di Inghilterra e Francia! Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri l'1 ottobre 2020. Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie viene conquistato dai piemontesi con l’appoggio dell’Inghilterra. Motivo: negli anni precedenti Ferdinando II di Borbone, orgogliosamente, si era rifiutato di sottomettersi o agli inglesi o ai francesi. Moralmente aveva ragione. Ma in politica non sempre funziona la morale. Il conto lo pagherà suo figlio Francesco II e, soprattutto, lo pagheranno i meridionali, compresi i siciliani. Non è un caso se, ancora oggi, il Sud e la Sicilia sono colonie italiane. Dopo la guerra di Crimea e la sconfitta russa, l’accordo di pace siglato a Parigi il 30 marzo 1856 sanciva l’autonomia di Moldavia e Valacchia, la cessione da parte russa della Bessarabia meridionale alla Moldavia, la tutela dei diritti dei cristiani nell’Impero Ottomano e disponeva la libera circolazione del fiume Danubio secondo principi concordati durante il Congresso. Inoltre, la circolazione del Mar Nero era liberata da ogni restrizione in riferimento alla marina mercantile ed era smilitarizzata, cioè vietata alle navi da guerra di qualsiasi nazionalità. Nel protocollo di pace si faceva impropriamente riferimento agli Stati italiani, al fine di ribadire la necessità di avere regimi più tolleranti, in particolare per quanto riguardava il Regno delle Due Sicilie. Lo storico Giacinto de’ Sivo concludeva in chiave sarcastica che «il mondo vide una gran guerra fatta a difesa del Turco, chiudersi con solenne atto minacciante il papa», mentre «l’Italia presentì ch’aveva ad essere travagliata col consiglio, con l’oro, e col consenso Anglo-Francese» e «l’Europa capì quella pace essere dichiarazione di guerra». Emidio Antonini, ambasciatore di Napoli a Parigi, inoltrava immediate proteste a Walewski e notificava l’indignazione della Corte di Caserta per aver permesso a rappresentanti piemontesi di esprimere giudizi negativi su stati che non erano sotto il protettorato di Torino, ma a buon diritto del tutto indipendenti. Tuttavia Walewski, che era anche il presidente del Congresso, si limitava a ribadire il punto di vista francese sull’opportunità di concordare con le grandi Potenze le debite riforme. La risposta di Ferdinando II, dettata ad Antonini il 5 maggio, manifestava tutta l’amarezza per la diffusione mediatica di prese di posizione e conclusioni che non potevano che rimettere in agitazione gli attentatori della monarchia borbonica. La risposta francese, basata sull’evidenza che piccole e medie nazioni dovevano necessariamente sottostare alle ingerenze delle grandi («il Regno delle Sicilie deve sapere che soffrirà sempre una pressione Francese o Inglese»), era l’occasione per puntualizzare che finalmente Walewski aveva dimostrato quale fosse la vera natura delle pressioni franco-britanniche nei confronti della monarchia borbonica: essa non consisteva nell’attacco ad un governo ritenuto cattivo e dispotico, «negazione di Dio», ma nell’arroganza delle due più grandi Potenze che pretendevano pretestuosamente «che il regno servisse all’uno o all’altro». E non mancava a Gran Bretagna e Francia la «stizza del vederlo non servire a nessuno», mentre l’«italianissimo Piemonte, servo di tutti e due, meritava simpatie e aiuti, perché tutta s’asservasse l’Italia». I “consigli” interessati di Francia e Gran Bretagna continuavano ad essere trasmessi dagli ambasciatori Brenier e Temple tramite Antonini, finendo sempre per essere sdegnosamente respinti da Ferdinando II, nonostante gli sforzi di mediazione di San Pietroburgo, che lungo la scia di avvicinamento a Parigi consigliava Ferdinando II di scarcerare con decisione autonoma i principali prigionieri politici. In settembre tornava in discussione l’ipotesi di aggressione militare franco-britannica al Regno delle Due Sicilie, mediante l’utilizzo della flotta navale da guerra nel golfo di Napoli. Ferdinando II, irremovibile e inflessibile, rispondeva di non «poter riconoscere nessuna dipendenza del reame dallo straniero». Il Re avrebbe continuato a «perdonare chi pentito grazia chiedesse»; non reputava di dover «concederla a chi pertinace non la chiede né la vuole, ma la fa imporre da possenti stranieri». Nonostante i buoni uffici di Austria e Russia e la piena disponibilità della Francia ad agire a tutela del Regno delle Due Sicilie nei confronti della Gran Bretagna, Ferdinando II restava fermo nella convinzione che, qualora fossero state concesse alcune riforme e decisa la scarcerazione di alcuni dei maggiori nemici politici, i rivoluzionari l’avrebbero intesa come un segno di debolezza e ne avrebbero tratto ulteriore forza e vigore. Pertanto, la Corte di Caserta rifiutava i tentativi di mediazione austriaci e russi e declinava l’invito francese. La spedizione navale punitiva nel Golfo di Napoli allo stato delle cose sembrava inevitabile, oltre che fortemente auspicava e sostenuta da Cavour, il quale avrebbe voluto farne parte con una propria squadra navale. La preoccupazione per possibili conseguenze militari su più larga scala a livello europeo, consigliarono i governanti francesi e inglesi di andare incontro ad una banale e meno impegnativa rottura dei rapporti diplomatici con Napoli. Un articolo, apparso a Parigi sul «Moniteur» del 20 ottobre 1856, ribadiva la condanna di un governo che negava «clemenza e riforme» e il cui «rigore» agitava l’Italia e comprometteva la pace in Europa, confermando quanto Walewski aveva riferito ad Antonini: «Napoli deve sottostare o a Francia o ad Inghilterra; e deve impedire non si congiungessero a suo danno». Pur essendone consapevole, Ferdinando II, pur di non diventare «servo ed ingrato» non fece nulla per evitare quella nefasta congiunzione che qualche anno dopo sarebbe risultata nefasta per il Regno delle Due Sicilie. Il Primo Ministro inglese Palmerston, conscio del pericolo murattiano, nonostante «la flotta francese già dimorante ad Aiaccio», rinunciò alla spedizione punitiva contro Napoli , preferendo la via della rottura diplomatica. Il 21 ottobre, tolte le insegne, le delegazioni francesi e inglesi lasciavano Napoli con la speranza vana di provocare una reazione popolare di simpatia promossa dai liberali, ma «i Napoletani non si scomodarono neppure a levarsi il cappello». Cavour, che aveva sostenuto l’intervento contro Napoli, a metà novembre, visto che Ferdinando II aveva resistito alle arroganti pressioni e alle brutali intimidazioni franco-britanniche, propose un riavvicinamento al Piemonte. Giuseppe Canofari, il rappresentante napoletano a Torino, rispose con le seguenti parole: «Il re non è disgiunto da Torino, ma questo dal re. Napoli non ricetta nemici di Torino, non ha officine occulte e riconosciute di calunnie e macchinazioni sistematiche per rivoltare Sardegna». Il Conte, secondo la tesi di Nicola Bianchi, diventato pessimista sulla concreta volontà di Palmerston e di Napoleone III di favorire i disegni egemonici del Regno Sardo, era preoccupato «che un successo del movimento insurrezionale a Napoli, promosso dal partito mazziniano o dalla fazione di Murat potesse pregiudicare i disegni di Casa Savoia», tentava di far quadrato contro un’eventuale, quanto credibile, «deriva eversiva». L’ambasciatore Canofari trasmise al ministro Carafa un preciso resoconto sull’incontro avuto con Cavour che conteneva anche sue personali considerazioni comprovanti la scarsa considerazione e l’assoluta sfiducia nei riguardi del Primo Ministro piemontese. Per Napoli la politica aggressiva e spregiudicata del Regno Sardo non era meritevole di considerazione, anche perché oltretutto cozzava frontalmente con quella borbonica attenta al rispetto del diritto internazionale, improntata al rispetto di valori e principi, rispettosa della tradizione cristiana e del Papa che la incarnava, non sollecita a cambi improvvisi e immotivati del sistema di alleanze al solo fine di assecondare le maggiori Potenze straniere. Ferdinando II, tramite il ministro Carafa e l’ambasciatore Canofari, rispose in via ultimativa il 9 dicembre che il suo governo desiderava buoni rapporti con tutti e «che niuno s’impacci de’ suoi fatti interni». Secondo de’ Sivo, dopo questa ennesima prova di forza e di orgogliosa autonomia dalle grandi Potenze, incominciarono per Ferdinando II «le insidie in lunga serie» che avrebbero finito per punire la pretesa di indipendenza di quella che era considerata solo una media Potenza. Con l’uso della «forza sarebbe caduto un re, con le insidie si precipitò la nazione […] col sangue e con la roba di nove milioni d’uomini innocenti».

1860: ecco come con i soldi dei siciliani i Savoia pagarono le spese del Risorgimento! I Nuovi Vespri il 24 settembre 2020. A risarcire il Piemonte che, grazie agli inglesi, ha invaso e occupato il Sud Italia, hanno pensato – chiaramente senza volerlo – i Sicilia. Garibaldi, da parte sua, rubò i soldi del banco di Sicilia. E con lo scippo dei beni alla Chiesa e venduti ai mafiosi il nascente Stato italiani ricavò 600 milioni di lire, una cifra enorme a quell’epoca! Scrive  Ignazio Coppola in Risorgimento e risarcimento – La Sicilia tradita: “In Sicilia, i due terzi delle terre esistenti erano di proprietà delle corporazioni, delle congregazioni religiose, dei conventi e della Manomorta, che davano lavoro e occupazione a decine di migliaia di famiglie siciliane. La confisca di questi terreni e la loro nazionalizzazione permise allo Stato italiano di mettere all’asta in Sicilia ben 250.000 ettari. Una superficie enorme di terreni fu, così, trasferita dal clero ai latifondisti. Con l’intervento coercitivo della mafia, i contadini, che dovevano essere i legittimi destinatari di queste terre come promesso a più riprese da Garibaldi prima e dal nuovo Governo italiano dopo, furono esclusi dalla possibilità di partecipare alle aste, i banditori sottoposti a intimidazioni, così che pochi potenti compratori stabilirono degli accordi segreti, che eliminarono la concorrenza mantenendo i prezzi a livelli bassissimi. Il ricavo della vendita all’asta di tali terre, anche se a prezzi stracciati, permise al nuovo Stato italiano di incamerare nelle proprie casse ben 600 milioni di lire, una cifra enorme per quell’epoca che, aggiunta ai ducati d’oro rastrellati da Garibaldi alla zecca di Palermo e trasferiti in Piemonte, permise di coprire i costi delle guerre del Risorgimento e i debiti che i piemontesi avevano contratto nelle guerre contro l’Austria, così da portare in pareggio il primo bilancio dello Stato italiano. La Sicilia, ancora una volta rapinata del suo, di tutto questo non ne ebbe nessun ritorno in termini di investimenti, di migliorie o di servizi. Con l’aggravante che i terreni acquistati dai grandi proprietari, che avevano appena i soldi per l’acquisto ma non per le migliorie fondiarie, finirono in gran parte abbandonati e incolti. Le decine di migliaia di famiglie che prima lavoravano tali terre, si ritrovarono improvvisamente senza lavoro, 15.000 unità nella sola Palermo, e furono costrette a emigrare. Fu così che iniziarono i grandi flussi migratori dalla Sicilia verso le Americhe e verso altri Stati europei”. – Ignazio Coppola, Risorgimento e risarcimento – La Sicilia tradita, CNA Edizioni, pag. 97.

Con i 600 milioni di lire rubati alla Sicilia i Savoia e Garibaldi pagarono le guerre del Risorgimento. di I Nuovi Vespri il 4 ottobre 2020. In realtà, lo scippo ai danni della nostra Isola fu maggiore. I 600 milioni derivavano dalle terre tolte alle corporazioni, alle congregazioni religiose, ai conventi e alla Manomorta. A questi vanno aggiunti i ducati d’oro rastrellati da Garibaldi alla zecca di Palermo e trasferiti in Piemonte. Un grande flusso di denaro si trasferì dalla Sicilia al Piemonte, lasciando i siciliani nella povertà e costringendoli ad emigrare. “In Sicilia, i due terzi delle terre esistenti erano di proprietà delle corporazioni, delle congregazioni religiose, dei conventi e della Manomorta, che davano lavoro e occupazione a decine di migliaia di famiglie siciliane. La confisca di questi terreni e la loro nazionalizzazione permise allo Stato italiano di mettere all’asta in Sicilia ben 250.000 ettari. Una superficie enorme di terreni fu, così, trasferita dal clero ai latifondisti. Con l’intervento coercitivo della mafia, i contadini, che dovevano essere i legittimi destinatari di queste terre come promesso a più riprese da Garibaldi prima e dal nuovo Governo italiano dopo, furono esclusi dalla possibilità di partecipare alle aste, i banditori sottoposti a intimidazioni, così che pochi potenti compratori stabilirono degli accordi segreti, che eliminarono la concorrenza mantenendo i prezzi a livelli bassissimi. Il ricavo della vendita all’asta di tali terre, anche se a prezzi stracciati, permise al nuovo Stato italiano di incamerare nelle proprie casse ben 600 milioni di lire, una cifra enorme per quell’epoca che, aggiunta ai ducati d’oro rastrellati da Garibaldi alla zecca di Palermo e trasferiti in Piemonte, permise di coprire i costi delle guerre del Risorgimento e i debiti che i piemontesi avevano contratto nelle guerre contro l’Austria, così da portare in pareggio il primo bilancio dello Stato italiano”.

“La Sicilia, ancora una volta rapinata del suo, di tutto questo non ne ebbe nessun ritorno in termini di investimenti, di migliorie o di servizi. Con l’aggravante che i terreni acquistati dai grandi proprietari, che avevano appena i soldi per l’acquisto ma non per le migliorie fondiarie, finirono in gran parte abbandonati e incolti. Le decine di migliaia di famiglie che prima lavoravano tali terre, si ritrovarono improvvisamente senza lavoro, 15.000 unità nella sola Palermo, e furono costrette a emigrare. Fu così che iniziarono i grandi flussi migratori dalla Sicilia verso le Americhe e verso altri Stati europei”. Ignazio Coppola, Risorgimento e risarcimento – La Sicilia tradita, CNA Edizioni, pag. 97.

1860: Garibaldi e Crispi si rimangiano la promessa di dare le terre ai contadini siciliani. I Nuovi Vespri il 3 ottobre 2020. Occupazione militare, promesse non mantenute e inganni: così l’Italia di Garibaldi e Crispi conquista la Sicilia. Ai contadini avevano promesso la fine delle tasse ingiuste e l’assegnazione delle terre. Invece le terre verranno assegnate ai ‘reduci’ della farsesca impresa del mille, mentre i contadini rimarranno in balìa dei mafiosi amici e sodali di Garibaldi e Crispi. Le città dell’Isola in rivolta. “In quella torrida estate del 1860 non pochi furono i tumulti in vari paesi poveri della Sicilia a seguito delle mancate promesse: Regalbuto, Polizzi Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Castelnuovo, Capaci, Castiglione, Collesano, Centuripe, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta, Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni, Pedara. Tumulti che nascevano appunto dall’illusione, dalla constatazione della mancata promessa di abolire la tassa sul macinato, e altre imposte e balzelli, nonché dal tradimento dell’atto del 2 giugno 1860, firmato da Francesco Crispi, dall’inganno relativamente alla divisione delle terre dei demani comunali, invece, assegnati ai garibaldini combattenti o ai loro eredi, se caduti”. Tommaso Romano, “Sicilia, 1860 – 1870 – Una storia da riscrivere”, ed. ISSPE, pag. 20. Tratto da Regno delle Due Sicilie.eu

Dopo il 1860 in Sicilia i piemontesi bruciavano vivi i familiari dei giovani renitenti alla leva. I Nuovi Vespri il 2 ottobre 2020. Sette anni di servizio militare nell’esercito dei Savoia che aveva invaso il Sud e la Sicilia. Bisognava regalare sette anni della propria vita ai bastardi che, grazie agli inglesi, avevano conquistato e rapinato il Regno delle Due Sicilie. Tanti giovani si rifiutavano e si davano alla macchia. Per ritorsione i piemontesi scannavano e bruciavano vivi i familiari di questi ragazzi. Così nasceva l’Italia…“Vennero chiusi in carcere madri, mogli, padri, sorelle e parenti dei renitenti di leva e sottoposti alle più feroci torture. Furono uccisi giovinetti a colpi di frusta e di baionetta, fatte morire donne gravide. A Trapani, Girgenti, Sciacca, Favara, Bagheria, Calatafimi, Marsala (dove fu distrutta anche la produzione vinicola), toccò la stessa sorte di Licata. E che dire della criminale Barbarie di Petralia, dove, in una misera capanna di contadini circondata dai regi, fu arsa viva una intera famiglia che si era rifiutata di aprire la porta? E delle atroci torture inflitte, a Palermo, al povero sordomuto Cappello, perché ritenuto dagli ufficiali medici si fingesse tale per eludere il servizio di leva? Queste cose vi rappresento in nome dei diritti, della giustizia e dell’umanità così orrendamente violate”. Da un discorso del deputato Vito D’Ondes Reggio alla Camera. Tratto da Regno delle Sue Sicilie.eu

1863: i piemontesi fucilano migliaia di meridionali e ne tengono prigionieri circa 80 mila! I Nuovi Vespri l'1 ottobre 2020. Lo scrive sul giornale “De Naples a Palerme” Oscar De Poli tre anni dopo la ‘presunta’ unificazione. “Cosa rispondono gli organi del Piemontesismo a queste cifre? Essi non rispondono affatto”. E ancora anche in televisione negano di aver ammazzato e fatti sparire nella calce viva migliaia e migliaia di meridionali nella fortezza di Fenestrelle. “Il sedicente “democratico” Regno d’Italia iniziò una politica di spoliazione delle risorse nelle zone conquistate, opprimendo le culture locali e soffocando nel sangue le rivolte popolari che nel Meridione assunsero alle dimensioni di guerra civile. … secondo il ministro della guerra di Torino, 10.000 napoletani sono stati fucilati o sono caduti nelle file del brigantaggio; più di 80.000 gemono nelle segrete dei liberatori; 17.000 sono emigrati a Roma, 30.000 nel resto d’Europa, la quasi totalità dei soldati hanno rifiutato d’arruolarsi… ecco 250.000 voci che protestano dalla prigione, dall’esilio, dalla tomba… Cosa rispondono gli organi del Piemontesismo a queste cifre? Essi non rispondono affatto”. Oscar De Poli, giornalista, in un articolo pubblicato sul giornale “De Naples a Palerme” 1863 – 1864 (Tratto da Regno delle Due Sicilie)

Con l’arrivo dei piemontesi nel Sud e in Sicilia la fucilazione dei meridionali diventa un "bisogno" del nuovo Stato! I Nuovi Vespri il 30 settembre 2020. Oggi proponiamo ai nostri lettori la riflessione amara di un molisano che, ventenne, aveva partecipato ai moti liberali del 1848 e che, nel 1860, vivrà sulla propria pelle la cattiveria, il razzismo e le ruberie dei piemontesi lanciati alla conquista del Regno delle Due Sicilie con l’appoggio degli inglesi. “Il progresso e la civiltà, nei tempi correnti, vengono interpretati diversamente da quello che si intendevano innanzi. Oggi, progresso e civiltà all’uso piemontese vuol dire: abbassamento della suprema autorità, della civiltà, della morale. Secondo la loro moda: la proprietà è furto; il diritto è tirannide; la religione è inceppamento; la pietà è delitto; il fucilare è bisogno; lo spoglio dei popoli è necessità. Chi è dunque cieco anche nella mente, da non vedere in questo civiltà ed in questo progresso l’abbruttimento della società?”. Teodoro Salzillo 1868. (L’autore di questa riflessione è un molisano di Pozzilli. Era nato nel 1826. Il personaggio merita perché ha provato sulla propria pelle la conquista regno delle Due Sicilie da parte dei piemontesi. Di formazione liberale, nel 1848, poco più che ventenne, partecipa ai moti rivoluzionari. Dodici anni dopo, quando i piemontesi, con l’appoggio degli inglesi, cominciano a conquistare il Regno delle Due Sicilie, capisce che c’è qualcosa che non va. E non esita a schierarsi con Francesco II a difesa del regno che pure, da liberale, nel 1848, aveva combattuto. Salzillo è testimone di eccidi e ingiustizie perpetrate ai danni delle genti del Sud Italia. E lo scrive, perché oltre ad essere un valente soldato era anche un valente scrittore. Combatte con tutte le sua forze l’invasione piemontese e partecipa alla difesa di Gaeta. La testimonianza di Salzillo è importante, perché vivrà fino al 1904 e avrà modo di vedere il declino di un Regno che era uno dei più ricchi d’Europa, ridotto a colonia in un’Italia nata sbagliata e cresciuta in peggio.

 Quando nel 1860 i Savoia dovevano sbarazzarsi di mille e 600 meridionali. Li hanno mandati nel lager di Fenestrelle? I Nuovi Vespri il 28 settembre 2020.  La domanda che poniamo è legittima se andiamo a leggere “Il carteggio di Cavour”. Dove si parla di mille e 600 prigionieri del Sud Italia, definiti senza mezzi termini “canaglia”, dei quali i generali piemontesi non sapevano cosa fare. Li hanno rimandati al Sud o sono finiti massacrati a nella fortezza di Fenestrelle? “… Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi… e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al più presto”. Lamarmora; del Carteggio di Cavour, La Liberazione del Mezzogiorno, Zanichelli (tratto da BRIGANTI).

Questo passo del Carteggio di Cavour è importante, perché ci dice che cosa i militari savoiardi pensavano delle genti meridionali, in particolare, in questo caso, dei “prigionieri Napoletani”. Dalle parole di questa lettera si nota il disprezzo verso il Sud e i suoi abitanti che, ad esempio, ritroviamo nella Lega di Bossi di fine anni ’80 primi anni ’90 del secolo passato. Ma c’è un elemento che deve fare riflettere, là dove si legge: “… ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al più presto”. Sarebbe interessante capire che fine hanno fatto questi “vecchi” che si trovavano a Milano all’indomani della ‘presunta’ unificazione italiana. Sono riusciti a tornare nel Sud o, per “disfarsene”, sono stati utilizzati altri metodi? Ce lo chiediamo perché, ancora oggi, in Italia, si continua a negare le atrocità commesse dai Savoia nella fortezza di Fenestrelle che il nostro Ignazio Coppola ha ben raccontato su I Nuovi Vespri: atrocità che hanno anticipato i campi di concentramento nazisti. Come già accennato, ancora oggi la televisione continua a nascondere la storia di una strage ai danni della gente del Sud. La verità è che l’Italia, nata male – con l’occupazione del Regno delle Due Sicilie da parte dei piemontesi appoggiati dagli Inglesi – è cresciuta in peggio. E ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Se, ancora oggi, il Sud viene sistematicamente derubato dal Centro Nord Italia, questo è avvenuto anche perché si continua a negare i fatti storici avvenuti. Gli stolti – e purtroppo non mancano – che dicono che ormai, a oltre 150 anni di distanza, bisogna evitare i parlar male di Garibaldi, dei Savoia e di quel grande equivoco che è stato nel Sud il cosiddetto Risorgimento, rimangono tali: cioè stolti. E finiscono con l’avallare le ingiustizie che, iniziate nel 1860, l’Italia continua a infliggere al Sud!

I soprusi e le torture dei Savoia nel Sud e in Sicilia: il caso di tre sorelle buttate in carcere per una bandiera… I Nuovi Vespri il 27 settembre 2020. Visitando le carceri del Sud Italia appena "conquistato" dai piemontesi Lord Henry Lennox, parlamentare inglese, che era stato un sostenitore dei Savoia, si accorse e denunciò gli incredibili soprusi ai danni dei meridionali. La vicenda di tre sorelle – Francesca, Carolina, e Raffaella Avitabile – che trovò rinchiuse in carcere da 22 mesi perché avevano esposto alla finestra della propria abitazione il vessillo delle Due Sicilie. “Sento il debito di protestare contro questo sistema. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra, deve più a questa che a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia, e però, in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbarie atrocità, e protesto contro l’egidia della libera Inghilterra così prostituita”. Così Lord Henry Lennox, parlamentare inglese, nel 1863, riferì quanto aveva visto in Italia e, precisamente, nel Sud Italia, diventato tale dopo l’unificazione, con la scomparsa del Regno delle Due Sicilie voluto proprio dall’Inghilterra. Lord Henry Lennox era stato un sostenitore di Vittorio Emanuele II di Savoia. Ma dopo essere stato in Italia e aver visitato il Sud Italia, aveva cambiato opinione. E lo disse senza giri di parole in un discorso alla camera del Comuni. Riprendiamo un articolo di Briganti che racconta molto bene quello che Lord Henry Lennox vide e raccontò. “Ciò che il politico britannico si trovò davanti agli occhi – il riferimento è alla visita del politico inglese nell’Italia "unificata" – lo spinse a dubitare della veridicità delle decantate condizioni di giustizia e libertà in cui avrebbe dovuto versare lo Stato unitario. Egli criticò aspramente il nuovo governo sottolineando come qualsiasi voce dissidente fosse immediatamente messa a tacere attraverso un sistema di arresti arbitrari che contemplavano l’incarcerazione senza processo. Per il carcere partenopeo di Santa Maria Apparente, Lennox dovette constatare che, in quel penitenziario, erano reclusi, da oltre 18-24 mesi, uomini, ritenuti rivoluzionari, che erano stati arrestati ed imprigionati senza mai aver subito un interrogatorio, senza mai essere stati processati e senza che fosse stato loro formalizzato alcun capo d’imputazione. Egli notò come molti detenuti "politici", più che avere l’aspetto di pericolosi rivoluzionari, apparissero come sventurati di umili condizioni e spesso in là con gli anni; riportò inoltre, che le numerose petizioni che richiedevano lo svolgimento dei processi per questi detenuti, una volta inviate a Torino, venivano puntualmente ignorate”. Insomma, quando i Savoia non ricorrevano alla fortezza di Fenestrelle, in Piemonte, si "arrangiavano" nelle stesse città del Sud Italia, dove i soprusi con chi non la pensava come i piemontesi erano la norma. “La situazione registrata al carcere della Concordia – leggiamo sempre su Briganti – apparve, agli occhi del Lennox, ben più grave: gli accusati di reati politici erano detenuti in condizioni promiscue con i criminali comuni, tra i quali vi era, finanche, un omicida; tra i detenuti politici, invece, vi erano anche religiosi, anch’essi prelevati dai propri domicili ed imprigionati senza processo e imputazione di capo d’accusa. Nelle carceri femminili, invece, le donne accusate di reati politici erano detenute promiscuamente con le prostitute e le criminali comuni. Della visita al penitenziario femminile di Santa Maria ad Agnone, Lennox riporta il caso delle sorelle Francesca, Carolina, e Raffaella Avitabile, detenute da 22 mesi perché accusate di aver esposto alla finestra della loro abitazione il vessillo delle Due Sicilie”. A Salerno le condizioni dei detenuti apparvero al parlamentare inglese drammatiche: “Il direttore del carcere – leggiamo su Briganti – riferì di un sovraffollamento del suo penitenziario: il numero dei detenuti, 1359 persone, era più che doppio rispetto alla capacità massima della struttura (650 detenuti); ciò aveva comportato lo scoppio di una epidemia di febbre tifoide, che, solo nell’ultima settimana, aveva ucciso, oltre che diversi detenuti, anche il medico della prigione ed un secondino. In una prima cella erano stipate oltre 25 persone, tra civili sospettati di reati politici, religiosi e delinquenti comuni. In un altro locale, trascorrevano la loro intera giornata, fatta salva l’ora d’aria in cortile, 157 uomini, sempre promiscuamente detenuti. Squallore e sporcizia, ancora, erano evidenti in un altro stanzone che conteneva 230 prigionieri in misere condizioni: gli abiti di costoro erano talmente logori, che taluni di essi rasentavano la nudità. A parere di Lennox, il cibo portato ai prigionieri era tale che, in Inghilterra, non sarebbe stato dato in pasto neanche agli animali”. “Con circa 1200 prigionieri, anche il carcere della Vicaria – leggiamo ancora nell’articolo – era sovraffollato, contenendo circa il doppio dei detenuti di cui era capace, dei quali molti erano ancora in attesa di processo. Il grosso di essi era stipato in 5 stanzoni intercomunicanti in pessime condizioni di igiene. Inoltre, non veniva garantito il necessario grado di sicurezza, poiché, rispetto alla mole di detenuti, il personale di sorveglianza era insufficiente”. Lennox invitò Gladstone a intervenire, perché questa vergogna coinvolgeva l’Inghilterra. Ma non intervenne nessuno. Correva l’anno 1863.

14 Agosto 1861: i Savoia del generale Cialdini ammazzano più di mille abitanti di Pontelandolfo. I Nuovi Vespri il 26 settembre 2020. Però, 150 anni dopo la strage, lo Stato italiano ha chiesto scusa. Anche se, ancora oggi, non c’è accordo sul numero degli abitanti ammazzati. Per le cronache ufficiali non arrivavano a venti. Poi è stato detto 400. Oggi si scopre che sono stati più di mille. Perché? Per vendetta contro i patrioti del Sud chiamati "briganti" che si difendevano dall’invasione piemontese! La testimonianza di un bersagliere “Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel Comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, di circa 4500 abitanti. Quale desolazione non si poteva stare d’intorno per il gran calore e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”. Carlo Margolfo, bersagliere entrato a Pontelandoflo, 1861.

GARIBALDI E I MILLE. Mercenari dei Massoni Britannici e complici della Mafia armati contro la Chiesa. Fabio Giuseppe Carlo Carisio l'11 Maggio 2020 su Gospanews.net. «Tutta la spedizione garibaldina fu monitorata dalle massoneria britannica, che aveva l’obbiettivo storico di eliminare il potere temporale dei Papi. Anche gli Stati Uniti, che pur avevano rapporti diplomatici con il Vaticano, diedero il loro sostegno. Il finanziamento proveniva da un fondo di presbiteriani scozzesi e gli fu erogato con l’impegno di non fermarsi a Napoli, ma di arrivare a Roma per eliminare lo Stato pontificio». Il ruolo della Grande Loggia d’Inghilterra, costituita nel 1717 a Londra da facoltosi Protestanti per sconfiggere i Cattolici nella lotta per il Trono della Gran Bretagna, fu determinante nella Spedizione dei Mille – in realtà oltre 20mila – con cui il guerrigliero Giuseppe Garibaldi, un Osama Bin Laden ante-litteram, diede il colpo decisivo all’Unità d’Italia facendo implodere il cristiano Regno delle due Sicilie. Siciliani e campani si pentirono di aver tradito i Borboni per i Savoia quando era ormai troppo tardi e al loro brigantaggio per fame il Regno Sabaudo rispose con fucilazioni di massa…

L’OLOCAUSTO ROSSO VOLUTO DAI COMUNISTI MASSONI. A pronunciare le frasi sopra riportate tra virgolette non è stato uno studioso qualunque ma Aldo Mola, docente di storia contemporanea di Milano e storico della massoneria e del Risorgimento. E’ proprio lui a sostenere con fatti circostanziati che evidenzierò l’intento degli incappucciati del Rito Scozzeze Antico e Accettato per la distruzione della Chiesa Cattolica e, più in generale, del Cristianesimo stesso. Questo torvo progetto si è effettivamente concretizzato con le rivoluzioni in Francia e Russia e con i moti carbonari delle società segrete che ubriacando il popolo bue con gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité hanno consentito nel giro di due secoli alla Massoneria di controllare il mondo grazie alle banche centrali degli alleati finanzieri ed usurai sionisti. Diventando padroni della Lobby delle Armi quanto di quella delle Big Pharma. Oggi è san Fabio e voglio farmi il regalo di smascherare con prove inequivocabili l’immonda impostura di un’unificazione farlocca, del Regno d’Italia prima e della Repubblica Italiana poi, ancora frantumata in regionalismi etnici insanabili dai transalpini piemontesi ai tirolesi trentini, dai borbonici campani ai moreschi sardi, dai bizantini veneziani ai berberi siciliani. A contenerne le istanze secessioniste evitando contrapposizioni e frammentazioni ci ha pensato in due secoli un Deep State alquanto originale costituito da un’amalgama tra potenze militari, massoneria e mafia. Chi fa risalire questa triplice morsa in cui è soffocata la libertà e democrazia dell’Italia allo scellerato patto del 1943 tra l’esercito degli Stati Uniti, la Central Intelligence Agency (allora OSS) e Lucky Luciano, il boss dei due mondi, commette un grosso errore. Perché lo sbarco degli Alleati in Sicilia non fece altro che ripristinare quel dominio occulto di militari stranieri, massoni e mafiosi realizzato dal mercenario dei due mondi Giuseppe Garibaldi (Nizza 1807 – Caprera 1882). Di fatto fu l’inizio di quei successi del Nuovo Ordine Mondiale e del cosiddetto Deep State di cui stiamo sentendo le conseguenze anche oggi a causa di una pandemia da sospetta bio-arma o esperimento pericoloso sfuggito di mano, quale appare il virus SARS-Cov-2 dopo la conferma dell’inserimento di HIV al suo interno di un’ultima clamorosa ricerca francese. Oggi invece che a lui, onorato con vie, piazze e monumenti a celebrazione di quel periodo buio e sanguinario che fu il Risorgimento, vorrei erigere un busto al collega giornalista Giovanni Greco, dottore in Conservazione dei Beni Culturali con laurea in archeologia industriale, dal 1998 direttore responsabile della rivista on line “BelSalento.com – arte, storia, ambiente, politica e cultura della Terra dei Due Mari – Servizi di Fruizione Culturale”. Se ben poco ho dovuto ricercare per questo articolo sul generale corso dalla Giubba Rossa devo ringraziare il meticoloso ed immane lavoro di ricerca condotto da Greco, non a caso freelance internazionale dell’agenzia GNS Press tedesca visto che in Italia – chi tocca i mostri sacri della Massoneria risorgimentale – non ottiene posti di prestigio nel gotha del giornalismo nazionale. Il fatto che io sia corrispondente per il sito americano di geopolitica e intelligence militare Veterans Today non è pertanto ovviamente casuale: avendo rifiutato la cooptazione massonica nel lontano 2000…Giuseppe Garibaldi. Proprio per premiare gli eroici reportages di Giovanni Greco riferirò fatti essenziali invitando i lettori più appassionati a leggersi tutta la saga sui garibaldini al soldo dei massoni britannici nella versione originale. Onde attirare l’attenzione dei più scettici anti-revisionisti sulla Spedizione dei Mille comincio con una citazione imponente per la statura morale di chi la fece. «Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». Queste frasi le pronunciò il giudice Rocco Chinnici, il primo magistrato a morire ucciso da un’autobomba il 29 luglio 1983 a Palermo, che ho ricordato in un reportage insieme ad un’altra vittima eccellente di un attentato: il presidente degli Usa Abramo Lincoln guardacaso assassinato proprio da un Massone dopo che l’Unione Nordista sconfisse i Confederati del Sud tra i quali spiccava per crudeltà il generale Albert Pike, tra i fondatori del Ku Klux Klan ma destinato a diventare il “papa” della Massoneria americana quando nel 1859 divenne Gran Maestro del Rito Scozzese Antico ed Accettato (che più avanti chiameremo per brevità RSSA). Pike fu anche fondatore della Young America grazie all’ispirazione-collaborazione dell’allora terrorista, oggi ahinoi patriota, Giuseppe Mazzini, che aveva creato Giovine Italia e Giovine Europa dando inizio ai moti rivoluzionari nel vecchio continente prima di rifugiarsi a Londra dove fu accoltò nella casa dello zio di Ernest Nathan e dove divenne intimo del Segretario di Stato britannico, Henry John Temple, terzo visconte di Palmerston (1784-1865), ed esponente di spicco della Gran Loggia d’Inghilterra. Nathan, è importante ricordarlo, sarebbe poi diventato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, e Sindaco di Roma capitale (1907), parzialmente sottratta con armi e spargimenti di sangue allo Stato Pontificio dopo la Breccia di Porta Pia. Chiarito brevemente il contesto vediamo l’importanza di alcune date fatidiche. Pike nel 1859 in Nord America diviene Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio Circoscrizione Sud RSSA (Loggia Madre di Charleston poi trasferita a Washington). Nel 1860 Mazzini fonda il Supremo Consiglio di Palermo.

IL RUOLO DELLA MASSONERIA NELLA SPEDIZIONE DEI MILLE. «L’11 maggio 1860 con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. E dello stesso giorno è interessante anche la nota di Garibaldi sull’arruolamento: “Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta”» lo scrive appunto Greco nel primo dei suoi due splendidi reportage. «Nella spedizione dei Mille, il ruolo della massoneria inglese fu determinante, con un finanziamento di tre milioni di franchi ed il monitoraggio costante dell’impresa. Lo sostiene la Massoneria di rito scozzese, dell’Obbedienza di Piazza del Gesù, che nei giorni scorsi ha ricordato la nascita nel luglio 1807 del nizzardo in una conferenza stampa ed un convegno a Napoli, alla presenza del Gran Maestro Luigi Pruneti e del Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Pierre Lambicchi» si legge ancora nell’articolo che cita quindi ampi brani della conferenza dello storico Aldo Mola. «I fondi della massoneria inglese – ha evidenziato lo storiografo del Risorgimento – servirono a Garibaldi per acquistare a Genova i fucili di precisione, senza i quali non avrebbero potuto affrontare l’esercito borbonico, che non era l’esercito di Pulcinella, ma un’armata ben organizzata. Senza quei fucili, Garibaldi avrebbe fatto la fine di Carlo Pisacane e dei fratelli Bandiera». «La appartenenza alla massoneria – ha detto ancora il professor Mola – garantì a Garibaldi l’appoggio della stampa internazionale, soprattutto quella inglese, che mise al suo fianco diversi corrispondenti, contribuendo a crearne il mito, e di scrittori come Alexandre Dumas, che ne esaltarono le gesta. Non che lui non lo meritasse, ma tanti altri meritevoli non hanno avuto la stessa notorietà». «In coscienza e sinceramente credo che l’Ordine massonico sia, se non il più grande, uno dei più grandi mali morali e politici che grava su tutta l’Unione» scrisse John Quincy Adams, VI presidente degli Stati Uniti d’America nelle sue Letters on Freemasonry «Lettere sulla Massoneria», 1833. «C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti. Un unico progetto politico…» gli fecce eco un secolo dopo ancora il giudice Rocco Chinnici seguendo la china di quel Nuovo Ordine Mondiale di cui un ufficiale di marina canadese, il commodoro William Guy Carr, svelò le trame nel suo celebre libro “Pedine nel Gioco” del 1956 dove trovano ampio spazio i carteggi tra Pike e Mazzini. Al di là degli intrecci tra i registi vediamo però le prove che attestano il ruolo della massoneria britannica nella spedizione dei Mille. Il più eclatante è una lettera di credito rilasciata a Giuseppe Garibaldi dalla National Bank of Scotland nel 1860 e pubblicata nel secondo reportage di Greco sull’argomento che evidenzia i numerosi passaggi che consentirono al documento emesso dalla Banca Nazionale Scozzese di Edimburgo il 22 agosto 1860 di essere depositato per il pagamento presso la Glyn & Co. Banking House di Londra. «In realtà, oltre questa lettera di credito proveniente dalla raccolta fondi fatta in Scozia, vi furono molte altre pubbliche sottoscrizioni per la raccolta di fondi a sostegno di Garibaldi, o meglio, per sostenere l’invasione del meridione – aggiunge Greco – A Milano, già il 24 gennaio 1860 commercianti milanesi avevano raccolto una offerta pari a £ 70.226,85 per l’acquisto dei fucili per la spedizione. Ma anche Cavour aveva fatto pervenire a Garibaldi prima della partenza, la somma di Lira Italiana 20.000. Mentre il 9 maggio 1860, tre giorni dopo la partenza da Quarto, un telegramma dell’agenzia Reuter di Marsiglia trasmesso da “The Glasgow Herald” comunicava che Garibaldi partiva e che prima dell’imbarco “l’eroe dei due mondi” aveva acquistato tre milioni di franchi in oro dalla Banca San Giorgio di Genova». Ecco i soldi della Massoneria inglese con cui il rivoluzionario reduce deelle imprese di guerriglia mercenaria in Uruguay acquistò i fucili per la spedizione. Ma questo non fu l’unico supporto inglese determinante al successo della missione garibaldina. «Nel 1860 con l’ingegnosa scusa di una bella “Escursione nel Sud” si invitavano volontari ad invadere il meridione. Infatti presso gli uffici al No. 8 di Salisbury Street, London si poteva fare domanda alla “Commissione Garibaldi” per partecipare alla “Escursione in Sicilia e a Napoli per visitare l’Italia del Sud e aiutare la “Causa di Garibaldi e dell’Italia» rammenta il giornalista del Salento in un terzo articolo. In esso si fa riferimento alla cosiddetta Legione Britannica, un corpo militare di volontari inglesi e scozzesi, che vennero definiti “Garibaldi Excursionists” per evitare problemi di apparenze diplomatiche. I finanziamenti per l’invio della legione in Italia provenivano dal “Garibaldi Special Fund”, nato dopo l’istituzione nel 1859 del “Garibaldi Fund” per raccogliere fondi a favore della causa per l’unificazione italiana, che in Inghilterra era molto sentita (soprattutto in funzione anti francese) e sostenuta anche a livello popolare, anche per la presenza di numerosi rifugiati politici italiani, che tenevano conferenze e fondavano associazioni italo-inglesi per aiutare la causa dell’indipendenza italiana. Non va infatti dimenticato che a livello internazionale non si erano ancora del tutto sopiti gli attriti tra Gran Bretagna e Regno delle Due Sicilie inerenti la cosiddetta Questione degli Zolfi (1838-1840) quando Londra, guidata dal già citato segretario di Stato Temple, minacciò una rappresaglia contro Napoli e la monarchia di Ferdinando II che aveva cercato di svincolarsi da un’esclusiva commerciale per fornitura del prodotto delle solfatare siciliane all’Impero Britannico stipulando un più vantaggioso accordo con la Francia. Proprio nel momento in cui agli inglesi coloniali serviva lo zolfo per la polvere da sparo con cui sterminare gli indiani nativi nel Far West del Nord America…Quelle tensioni si incancrenirono quando i soldati francesi intervennero nel 1948 in aiuto dello Stato Pontificio e fecero cadere la brevissima esperienza della Repubblica Romana, guidata politicamente da Mazzini e militarmente da Garibaldi, che aveva costretto Papa Pio IX a rifugiarsi a Gaeta dopo l’attentato omicida al giurista Pellegrino Rossi nominato ministro dell’Interno e della Polizia dal Vaticano nel tentativo fallito di mediare con i golpisti liberali. Allora, come oggi in Medio Oriente ed in Ucraina, l’astuzia sovversiva anglosassone fece affidamento anche sui media. E come oggi con George Soros anche allora s’incuneò un infiltrato magiaro…Nandor Eber (1825-1885) di discendenza Askenazita e origine ungherese ma naturalizzato inglese, patriota per la libertà dell’Ungheria dall’Impero Austro-Ungarico degli Asburgo, falliti i tentativi insurrezionali, si era rifugiato con altri connazionali in Italia combattendo per la sua libertà e dando vita, assieme al colonnello Istvan Turr, alla “Legione ungherese” che si battè agli ordini di Garibaldi in molte sue imprese. «Nel 1860 lo troviamo accreditato come corrispondente inglese del “Times” a Palermo e grazie ad informazioni acquisite in tale veste, è in grado di fornire a Garibaldi giunto in vista di Palermo l’esatta dislocazione delle truppe borboniche poste a difesa della città» scrive Giovanni Zannini nel suo blog InformaStoria (fonte 4). Ciò facilitò la sua conquista ed in premio della preziosa collaborazione Garibaldi lo nominò subito colonnello brigadiere affidandogli il comando della 15° divisione – di cui faceva parte la Legione ungherese – che attraversato il centro dell’isola passando per Caltanisetta e Castrogiovanni, avrebbe poi raggiunto il 25 luglio 1860 Catania, ormai abbandonata dai Borboni. «Altro protagonista di tale singolare filone giornalistico-militare risorgimentale fu Antonio Gallenga (1810-1895) nato a Parma, figlio di un ufficiale piemontese dell’esercito napoleonico. Negli Stati Uniti insegnò italiano a New York ed a Boston, in Inghilterra ebbe la cattedra d’italiano al Queen’s College di Londra e della Nuova Scozia, insegnò a Eton, tenne corsi su Dante a Manchester, in Italia insegnò a Firenze, tenne conferenze e scrisse un libro» riferisce inoltre Zannini. Gallenga «come giornalista lavorò per il “Times” che alla fine lo utilizzò come inviato all’estero. Politicamente inquieto, in gioventù antimonarchico, aveva progettato di assassinare il re Carlo Alberto al grido di “Lunga vita all’Italia, e muori!”: ma il regicidio era fallito perché l’attentatore non era riuscito a procurarsi l’arma per metterlo in atto. Però il comportamento di Vittorio Emanuele II a favore dell’Unità d’Italia gli fece cambiare opinione, ne divenne entusiasta sostenitore tanto da partecipare alla spedizione garibaldina in Sicilia». Era giunto a Messina a bordo del piroscafo “Washington” mandato dal “Times” per sostituire Eber. «E siccome anche Antonio Gallenga di guerra, di armi e di soldati se ne intendeva per aver menato le mani nel 1848 a Milano ed a Mantova, Garibaldi nominò anche lui colonnello e gli affidò, assieme ad un altro colonnello inglese, John Whitehead Peard, il comando di una colonna di volontari inglesi con l’incarico di precederlo, dopo il passaggio dello stretto di Messina, nella marcia di risalita della penisola». Il riferimento di Zannini è alla famosa Legione Britannica. Accanto agli infiltrati volontari, però, si mosse pure la flotta della Royal Navy. A sostenerlo è lo stesso Garibaldi nelle sue memorie in riferimento alle navi da guerra Argus e Intrepid, provenienti da Palermo, che entrarono nel porto di Marsala circa tre ore prima della comparsa dei legni piemontesi pariti da Quarto. «La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo di ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto». Un ruolo decisivo, infine, lo svolsero le bande di picciotti locali comandate da Antonino Giovanni Francesco Currau, noto con il nome di Giovanni Corrao, passato alla storia come patriota e rivoluzionario ma anche come primo presunto mafioso menzionato dalle cronache ufficiali. Nel 1848 abbandonò il suo lavoro per prendere parte alla rivoluzione siciliana, durante la quale si distinse per coraggio e abilità; con il ritorno dei Borboni, dopo vari anni di detenzione, fu costretto ad abbandonare la Sicilia e vagare per l’Europa; desideroso di far annettere il Sud Italia da parte dei Savoia, nel 1860 tornò in Sicilia col concittadino Rosolino Pilo, preparando il terreno all’impresa di Garibaldi. I due partirono da Genova a bordo della tartana viareggina Madonna del Soccorso e sbarcarono a Messina nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1860. Quindi si recarono a Palermo per organizzare un migliaio di volontari che si scontrarono a Carini con le truppe borboniche.

IL COMPLICE MAFIOSO DIVENTA GENERALE IN SICILIA. Con lo sbarco dei Mille il 14 maggio a Marsala prima guidò una manovra diversiva in cui Pilo cadde in combattimento, poi, il 27 maggio, attaccò Palermo dal lato opposto da quello delle truppe garibaldine. Grazie a ciò fu nominato da Garibaldi prima colonnello dell’esercito meridionale e poi generale al comando della Brigata Sicula. Entrò nell’Esercito Regio ma lo lasciò nel 1862 per seguire nuovamente Garibaldi nella conquista di Roma, un sogno che si dissolse con la Giornata dell’Aspromonte. Tornato in Sicilia, dopo essere stato più volte arrestato dalle autorità locali per presunti coinvolgimenti in alcune azioni criminali, venne misteriosamente assassinato nel 1863 alle porte di Palermo. Nel 1865 il Prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualtiero scrisse il primo documento ufficiale in cui fu menzionato il termine “maffia” proprio in riferimento al Corrao. «Era d’altronde noto al sottoscritto che queste relazioni [tra partito garibaldino e maffia] erano tenute per lo innanzi dal noto general Corrao, e poi da tempo era in cognizione che costui, senza che il Partito d’Azione lo dubitasse neppure, era passato ai servigi del partito borbonico. Alla morte di costui successe un tal Vincenzo Badia fabbro di cera, che era stato il suo primo strumento, ed era altresì noto allo scrivente che costui aveva seguito le tracce del suo facinoroso maestro ed ora si aveva esso posto al servigio dei Borboni». Leonardo Sciascia, poeta e scrittore siciliano, in un suo studio apparso nel 1972 su Storia illustrata, ricostruisce con molta attenzione l’origine del termine mafia. Egli riprende anche la teoria relativa all’introduzione del vocabolo nell’isola, ricondotta all’unificazione del Regno d’Italia, espressa da Charles Heckethorn (Charles W. Heckethorn, Secret Societies of All Ages and Countries, London, G. Redway, 1897), il quale si sofferma sulla missione segreta di Mazzini in Sicilia avvenuta nel 1860 l’anno prima dell’Unità d’Italia. Quando fondò a Palermo il Supremo Consiglio massonico del Rito Scozzese Antico Accettato. Questa teoria, poi ripresa dall’economista e sociologo Giuseppe Palomba, afferma che il termine «MAFIA» non sarebbe altro che l’acronimo delle parole: «Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti».

REGNO D’ITALIA E MAFIA, UN’ALLEANZA STORICA. «Perché il Regno d’Italia sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale?» è la domanda che si pone lo storico Enzo Ciconte nel libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza. «È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione». «Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione» rileva Ciconte. Le conseguenze furono tremende culminando nella legge Pica. «Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare» scrive invece Giovanni Pecora in un dettagliato blog sul fenomeno in cui cita l’eloquente memoria di prebitero e patriota come Vincenzo Padula. «Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti». Tremende e disumane le conseguenze. La legge Pica 1409/1863, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali, precisa sempre Pecora nel suo articolo. Il complesso normativo protrattosifino al dicembre 1865 determinò 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria.

L’AIUTO DELLE COSCHE AGLI ALLEATI. Nacque così l’intreccio perverso tra la mafia, sostenuta successivamente anche da picciotti ribelli in cerca di protezione, e le autorità dotate di poteri talmente eccezionali da non dover rispondere a nessuno per i loro abusi criminali. A nessun’altro se non a quegli uomini d’onore che furono scelti dai potentati locali per fare le veci dei giudici. Tutto ciò fu temporaneamente spazzato via dall’arrivo del duce Benito Mussolini che inviò il Prefetto di Ferro Cesare Mori a dare la caccia ai mafiosi, facendo fuggire curca 500 famiglie di Cosa Nostra negli Stati Uniti dove si consociarono nel Sindacato del Crimine, ma vietò anche le società segrete interrompendo pertanto le occulte relazioni tra cosche e logge massoniche.

CIA-MAFIA-MASSONERIA: L’ITALIA NELLA MORSA. Ciò tagliò fuori i colonialisti anglosassoni che scesero a patti con il famoso boss malavitoso Lucky Luciano, al secolo Salvatore Lucania nato a Lercara Friddi nel 1897, pur di tornare in Sicilia, sbarcare senza troppe perdite ed avere una rete di potere già consolidata. Fu creata anche con l’aiuto di Vito Genovese, l’altro padrino mafioso da cui prende il nome l’omonima famiglia di New York, ritenuto uno dei fondatori della rete distributiva di eroina negli USA ma divenuto l’interprete ufficiale dell’AMGOT, il governo provvisorio anglo-americano di Palermo che controllò la regione dal 1943 alla Liberazione d’Italia del 1945. Fu proprio tale organismo amministrativo alleato a decretare l’inizio della carriera politica di Bernardo Mattarella, spianando la strada al figlio Sergio divenuto ai giorni nostri Presidente della Repubblica.

MATTARELLA, INTOCCABILI SICILIANI DA PALERMO A ROMA. Molti sono gli intrighi siciliani narrati in precedenti reportage. Oggi vogliamo ricordare solo un episodio eclatante come l’uccisione del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa nominato Prefetto di Palermo nel 1982 per combattere la mafia. Vi morì il 3 settembre in un agguato di Cosa Nostra insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. L’ordine di ucciderlo sarebbe giunto dal deputato massone Francesco Cosentino, deceduto prima che i magistrati siciliani facessero il suo nome davanti alla Commissione parlamentare antimafia in relazione agli intrecci mafia-massoneria. Questo serve a riportarci al filo rosso menzionato all’inizio… «L’uccisione del giudice Chinnici fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo e ordinata dalla cupola mafiosa, per le indagini che il magistrato conduceva sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico – economici» scrissero i procuratori antimafia di Palermo. Ma quali erano i santuari politico – economici cui fanno riferimento i magistrati? Qualche tempo dopo la sua morte di tumore, che gli evità di affrontare il maxi-processo, si è scoprì che Nino Salvo era iscritto alla Massoneria universale di Rito Scozzese Antico e Accettato. E non in una loggia qualsiasi ma nel “Supremo Consiglio d’Italia” di via Roma a Palermo, la stessa che cent’anni prima aveva conferito il 33° grado a Giuseppe Mazzini prima e a Giuseppe Garibaldi poi… «Nella Prima Costituente Massonica Italiana (Torino, 26 dicembre 1861 – 1° gennaio 1862), in cui fu eletto Gran Maestro Costantino Nigra, Giuseppe Garibaldi fu acclamato Primo Libero Muratore d’Italia e gratificato di una medaglia d’oro massiccio, avente da un lato l’iscrizione “Costituzione Massonica Italiana” e dall’altra la dedica al “Primo Libero Muratore d’Italia Giuseppe Garibaldi”. Il massone ascolano Candido Augusto Vecchi gliela consegnò al Varignano dove Garibaldi era imprigionato dopo i fatti di Aspromonte» si legge nel sito del Grande Oriente d’Italia. L’11 marzo 1862 il Supremo Consiglio del Rito Scozzese sedente in Palermo conferì a Giuseppe Garibaldi tutti i gradì scozzesi, dal 4° al 33° e lo nominò Presidente del Supremo Consiglio con il titolo di Potentissimo Sovrano Gran Commendatore e Gran Maestro. Incarico che accettò il giorno 20 dello stesso mese. Il 3 luglio successivo, Garibaldi fece diventare confratelli il figlio Menotti e l’intero stato maggiore: pare nella Loggia palermitana “I Rigeneratori del 12 Gennaio 1848 al 1860 Garibaldini”.

SUMMIT DI MASSONI IN SFREGIO AL PAPA PER CELARE I COMPLOTTI DI MAZZINI. Giuseppe Garibaldi era entrato nella fila degli incappucciati già nel 1844 nella Loggia “Asil de la Vertud” di Montevideo (secondo altri del Rio Grande del Sud), una loggia “spuria”, emanazione della Massoneria brasiliana e non riconosciuta dalle grandi Comunioni mondiali. Nello stesso anno, il 18 agosto, fu regolarizzato nella Loggia “Amis de la Patrie” di Montevideo all’obbedienza del Grande Oriente di Francia, nel libro matricola della Loggia gli fu assegnato il numero 50. Frequentò anche la Loggia “Tompkins n° 471” di Stapleton (New York). In tempi assai più recenti, nel marzo 2019, i Fratelli Scozzesi RSSA italiani e stranieri si sono riuniti appositamente a Trento per discettare di “complottismo” e farsi un po’ beffa della memoria del I Congresso Antimassonico Internazionale che si tenne in quella città nel 1896 ed a cui partecipò anche Papa Leone XIII, autore dell’enciclica Humanum Genus con cui il 20 aprile 1984 aveva scomunicato la massoneria. I confratelli del RSAA si incontrarono per irridere le teorie dei complotti storici forse scordandosi di una tremenda analogia storica… C’è infatti davvero quel filo rosso inquietante che lega la massoneria britannica alla Sicilia della mafia. Sono i morti ammazzati per la protezione del commercio della droga. Nel 1840 Lord Palmerston, Henry John Temple, l’amico di Mazzini e ssponsor della spedizione dei Mille, con una flotta di 40 navi intraprese la Guerra dell’Oppio contro la Cina che stava perseguendo i i mercanti inglesi adusi al contrabbando del prezioso stupefacente (fonte 8). Dopo due anni e tanti morti l’impero britannico ebbe la meglio ed ottenne la firma di un Trattato di Pace secondo il quale i commercianti inglese rimasero sotto la giurisdizione esclusiva dei loro consoli. Ciò consentì al contrabbando di oppiacei di proseguire impunemente…Nel 1979 l’FBI avviò l’operazione Pizza Connection anche l’iuto del giudice siciliano Giovanni Falcone per smantellare il traffico della droga tra New York e Palermo. Falcone fu poi ucciso con la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta in un attentato dinamitardo con esplosivo militare mentre si trovava in autostrada nei pressi di Capaci il 23 maggio 1992. Se tutto questo è potuto accadere bisogna senz’altro ringraziare anche Garibaldi e la massoneria britannica che l’ha finanziato per fare dell’Italia una colonia anglosasassone prima, un feudo della NATO poi. Dove ora si è potuta avviare anche la speculazione d’affari nel mercato delle armi con dei pericolosi alleati quali i Fratelli Musulmani, ovviamente soci di quella famiglia Rothschild che consentì agli Illuminati di Baviera braccati dalla giustizia di affiliarsi alla massoneria e farla franca. Fabio Giuseppe Carlo Carisio

MAGGIO 1860, IL RUOLO DELLA GRAN BRETAGNA NELL’ATTACCO ALLA SICILIA E AL REGNO DELLE DUE SICILIE.  Michele Eugenio Di Carlo Giovedì, 28 Maggio 2020 su retegargano.it. Uno dei più dettagliati resoconti della spedizione garibaldina - tanti ne hanno tratto informazioni senza citare la fonte - resta quello di Giacinto de’ Sivo. Con precisione assoluta lo scrittore di Maddaloni descrive l’apparato di sicurezza che il Governo aveva disposto per proteggere la Sicilia dall’invasione ritenuta certa: quattro fregate a vapore, due a vela, nove piroscafi da guerra, che navigavano incessantemente lungo le coste siciliane. Considerate anche le forze di Polizia e le Guardie Urbane, supporre che Giuseppe Garibaldi, nel caso fosse riuscito a sbarcare, potesse andare oltre Marsala non era proprio possibile. Per de’ Sivo era del tutto chiaro: la forza di Garibaldi era stata costruita a tavolino, in particolare dalla potentissima macchina della propaganda inglese. E quanto Cavour, convintosi a favorire la spedizione, cercò di metterne a capo Nino Bixio, «allora dolentissimo il Nizzardo, scordò la venduta patria, e scrisse umilissime lettere al La Farina, scongiurandolo d’aiutarlo… ». Sicuramente era stata proprio l’azione di mediazione di Giuseppe La Farina a spingere Garibaldi ad incontrare Camillo Cavour e Vittorio Emanuele II a Bologna il 2 maggio, al fine di addivenire ad un accordo, come già supposto dallo storico Pietro Pastorelli. Ed è così che «quel marinaio già dalla stampa mazziniana magnificato, quasi promesso da’ fati, per patti segreti tra reggitori di popoli potenti, con l’oro del Piemonte indebitato a posta, doveva lanciarsi a portar guerra civile nelle Sicilie». Mentre tutta Genova era in fermento per i preparativi della partenza, le proteste del ministro degli Esteri napoletano ottenevano l’effetto di far sì che «Cavour si storcea, mendicava parole, e prometteva d’impedire l’andata». E quando dalla Prefettura di Genova si manifestarono le preoccupazioni circa le responsabilità di preparativi alla luce del sole per una invasione militare che nessuno aveva autorizzato, «venne il La Farina con lettere del Cavour al prefetto e nessuno fiatò; anzi s’ebbero aiuti manifesti». De’ Sivo svela anche i retroscena dell’accordo segreto tra la società di navigazione Rubattino. Un accordo che era stato siglato con un atto di vendita dei bastimenti Piemonte e Lombardo a Torino nello studio del notaio Badigni, mentre la propaganda sabauda faceva passare l’episodio della presa dei due bastimenti come un’azione violenta di Bixio allo scopo, attestato dallo stesso Garibaldi, di allontanare i sospetti di complicità dal Governo di Torino. Informato della partenza della spedizione garibaldina, il Governo napoletano con una comunicazione dell’8 maggio informava il luogotenente Castelcicala che, tra le varie eventualità, Marsala era il luogo più probabile dello sbarco. Tra l’altro, il generale Letizia, vecchio carbonaro, due giorni prima dello sbarco si era portato a Marsala per poi, inspiegabilmente, ripiegare su Palermo via Mazara del Vallo, mentre gli subentrava Landi. La costa marsalese era controllata via mare dalla fregata a vela Partenope e da due navi a vapore, la Stromboli al comando del capitano Acton e la Capri diretta dal capitano Caracciolo, entrambi avvertiti della possibilità non remota di un approdo dei garibaldini a Marsala. La sera del 10 maggio due vascelli inglesi avevano avuto l’ordine di lasciare il porto di Palermo e di dirigersi verso Marsala: l’Argo al comando di Ingrham e l’Intrepid al comando del capitano Marryat. Il Piemonte e il Lombardo giunti nei pressi di Marsala erano stati avvistati e la loro presenza era stata immediatamente comunicata ai vascelli napoletani. Dopo l’una di pomeriggio, presenti i due “legni” inglesi, Garibaldi dava l’ordine di sbarcare nel porto di Marsala. Al sopraggiungere tardivo dello Stromboli, mentre erano in atto le operazioni di sbarco, l’inglese Ingrham comunicava ad Acton che doveva necessariamente imbarcare personale inglese presente a terra prima che iniziasse il cannoneggiamento dei legni garibaldini. Un’operazione che richiese tanto di quel tempo da impedire l’azione della flotta borbonica. De’ Sivo ha scritto che già il 12 maggio il ministro Carafa protestava in tutta Europa « per l’atto di pirateria consumato contro il reame, e preparato in territorio di Stato amico», non mancando di elencare con precisione i fatti, i mezzi e le armi utilizzati, i luoghi della raccolta fondi e dell’arruolamento dei volontari e chiedendo che fossero denunciate le responsabilità di promotori, autori e complici dell’invasione avvenuta in totale violazione del diritto internazionale che regolava i rapporti tra Stati indipendenti. La replica all’appello delle Due Sicilie non si fece attendere, infatti Prussia, Austria, Russia e Francia protestarono. Nonostante le richieste di chiarimento e le accuse provenienti da tutta l’Europa, Cavour «s’armò di bugie» e l’ambasciatore piemontese Villamarina a Napoli dichiarò che i sospetti di complicità del Governo di Torino con l’avventura garibaldina erano non solo falsi, ma ingiuriosi. Sul foglio ufficiale, il 17 maggio, il Governo sardo-piemontese dichiarava sfacciatamente la propria estraneità, la totale disapprovazione dell’impresa di Sicilia, oltre allo stretto rispetto per il diritto internazionale. La documentazione registrata sin dai primi anni da de’ Sivo, comprovante le complicità di Torino e di Londra nella spedizione garibaldina, non è mai stata presa in seria considerazione dalla storiografia ufficiale liberale. I documenti di de’ Sivo non potevano essere diffusi, in particolare nel periodo successivo all’unità acquisita, quando il Sud in continuo stato d’assedio subiva l’oltraggio della Legge Pica e un medico al seguito dell’Esercito Italiano lanciava spudoratamente le sue teorie pseudoscientifiche sull’atavismo delle popolazioni meridionali. Eppure le fonti documentali utilizzate da de’ Sivo sono quelle conservate oggi negli archivi diplomatici di mezza Europa. La lettera del 12 maggio citata da de’ Sivo, ripresa nei Carteggi di Camillo Cavour , come chiarisce lo storico Eugenio Di Rienzo, fu consegnata da Carafa agli ambasciatori Salvatore Pes di Villamarina e all’inglese Hudson, e inoltrata celermente alle diplomazie europee. Essa esprimeva un «categorico e durissimo giudizio di condanna sulle responsabilità della Mediterranean Fleet». La lettera ebbe, come sostenuto da de’ Sivo, l’immediato sostegno di gran parte degli Stati europei, come documentato peraltro da Nicodeme Bianchi. Il ministro degli Esteri russo Gorčakov, convocato il 14 maggio l’ambasciatore inglese John Fiennes Crampton, elevava una vibrata protesta, mentre l’ambasciatore russo a Torino comunicava minacciosamente che solo la distanza geografica aveva impedito alla Russia di difendere con le armi il Regno delle Due Sicilie (circostanza citata dallo stesso de’ Sivo). Il giorno stesso, il ministro degli Esteri francese Thouvenel chiedeva spiegazioni all’ambasciatore inglese Cowley sulla palese violazione del diritto internazionale; il giorno 15, il Primo Ministro austriaco, Johann Bernhard von Rechberg, trasmetteva una nota a Londra e Parigi dalla quale si evinceva che Piemonte e Gran Bretagna erano ritenuti responsabili di aver organizzato e favorito la spedizione garibaldina, mentre il 17 dello stesso mese la Prussia proponeva un accordo ad Austria e Russia per tutelare il diritto internazionale leso dal Piemonte con il beneplacito inglese. Sulla questione rimasta controversa il ministro Russel fu costretto a difendersi nello stesso Parlamento inglese. Il 17 maggio, come risulta nei resoconti dei dibattiti parlamentari inglesi (Hansard’s Parliamentary Debates) citati da Di Rienzo, Russel andava incontro ad un duro scontro che proveniva dai banchi parlamentari dell’opposizione e dalla stessa maggioranza, a seguito dell’intervento del deputato George Hope che chiedeva di far cessare l’ ignobile sottoscrizione su suolo inglese a favore della Sicilia in rivolta promossa dal ferrarese Alberto Mario, marito della giornalista del “London Daily News” Jessie White. Una sottoscrizione alla quale avevano contribuito anche elementi in vista del partito whig e, persino, alcuni ministri. La mancata risposta del Governo spingeva il deputato tory Richard Malins a denunciare che la legislazione vietava la raccolta di fondi su suolo inglese per finanziare imprese militari straniere e che se il principio era applicato per le grandi Potenze straniere non poteva non esserlo per il Regno delle Due Sicilie. Il deputato Ralph Bernal, insoddisfatto delle repliche governative, poneva l’accento sulla gravità delle informazioni riportate dalla stampa europea che vedeva un diretto coinvolgimento della Gran Bretagna nell’illegittima spedizione armata di Garibaldi. Come spiega ancora Di Rienzo, la presenza della flotta inglese nel mare di Sicilia era vista come una minaccia concreta sia dagli ufficiali della Marina napoletana sia da Francesco II, consapevoli che il Governo Palmerston non si sarebbe tirato indietro qualora si fosse verificato un benché minimo incidente di natura militare lungo le coste siciliane. Sicuramente la decisione di approdare a Marsala, laddove vi era una discreta presenza di attività produttive e commerciali inglesi, era stata concordata da Garibaldi con i referenti del Governo inglese. Il 4 marzo 1861, quando nel Regno delle Due Sicilie ai garibaldini mandati in congedo era subentrato l’Esercito Sardo-piemontese e l’Italia stava per essere unificata sotto le insegne dei Savoia, il deputato John Pope Hennessy riaccendeva la discussione contestando al Governo inglese di aver interferito nella vittoriosa impresa garibaldina, sostenendola militarmente, finanziariamente e diplomaticamente. Secondo Pope le due navi della flotta inglese erano presenti nella rada del porto di Marsala col preciso intento di fornire il supporto necessario ad assicurare lo sbarco a Marsala degli uomini in camicia rossa. Pochi erano i dubbi sul coinvolgimento inglese nella conquista militare del Regno delle Due Sicilie; dubbi che si affievolirono del tutto quando lo stesso Pope, nella seduta parlamentare citata, rese nota la lettera con cui Vittorio Emanuele II aveva ringraziato il Governo inglese. Non a caso Eugenio Di Rienzo, accademico esperto, direttore della “Nuova Rivista Storica”, noto docente di Storia Moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma, rende i dovuti meriti al prezioso lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici: «Che la longa manus del ministero whig abbia potentemente contribuito (soprattutto ma non soltanto con un supporto economico) al successo della ‘liberazione del Mezzogiorno’ è un’ipotesi che la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filoborbonica».

Tratto da un testo di Michele Eugenio Di Carlo in via di pubblicazione sulla fine del Regno delle Due Sicilie

Un Giuseppe "re" di Sicilia avrebbe cambiato l'Italia. La controcronaca di Alfio Caruso sull'impresa dei Mille. "Il popolo si fidava soltanto di lui..." Stefania Vitulli, Sabato 25/04/2020 su Il Giornale. L'Italia a due velocità, gli anticorpi politici mai fatti ai batteri di una malattia ultracentenaria, il successo inspiegabile di maneggi e congiure: avrebbero ricevuto un duro colpo, forse, se l'impresa dei Mille avesse avuto diverso esito. Per capirlo vale la pena ripartire proprio dal racconto di quello sbarco. Ci ha provato il giornalista e scrittore Alfio Caruso in Garibaldi, corruzione e tradimento. Così crollò il Regno delle Due Sicilie (Neri Pozza, pagg. 316, ebook disponibile a euro 9,99, cartaceo euro 18 in uscita il 21 maggio). Il tentativo qui - perfettamente riuscito dal punto di vista del contenuto e anche della forma, cristallina per chiarezza e tono - è quello di raccontare la spedizione dei Mille, al suo 160º anniversario, «vista dai due lati della barricata», per bilanciare la storia scritta dai vincitori con una gustosa «versione borbonica» dei fatti: «L'impresa dei Mille è forse l'episodio fondante dell'Unità d'Italia», ci spiega Caruso, catanese classe 1950. «Cavour capì che gli italiani andavano fatti anche se non sapeva nemmeno come erano fatti e lo sbarco in Sicilia gli consente di puntare all'intera penisola. Episodio fondante, sì, e tuttavia da sempre e ancora avvolto da scetticismo, oltre che da mistero, perché stiamo parlando di mille ragazzi, pochi dei quali avvezzi alle vicende militari, armati in maniera discutibile. Pochi che riuscirono comunque a impossessarsi di un Regno dove l'esercito contava su 90mila uomini. Come poté avvenire e soprattutto che cosa accadeva nel frattempo nel gustosissimo dietro le quinte? È questo che ho cercato di rievocare». A testi divenuti ormai classici, come Noterelle di uno dei Mille. Da Quarto al Volturno di Giuseppe Cesare Abba, I Mille. Da Genova a Capua di Giuseppe Bandi o la ricostruzione di George Macaulay Trevelyan, Garibaldi e i Mille, Caruso contrappone un resoconto pressoché sconosciuto: Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, di padre Giuseppe Buttà, e su questo fonda le novità della sua «ricostruzione borbonica». «Cappellano di quel 9º battaglione cacciatori comandato dal colonnello Bosco, che con valore si batté contro garibaldini e piemontesi... da Palermo a Gaeta, padre Buttà vide tanti e così eclatanti esempi che inettitudine e avidità non bastano, nemmeno oggi, a spiegare»: così raccontava Leonardo Sciascia con ammirazione nel saggio Garibaldi e il padre Buttà, parlando di un uomo che, nato a Naro, provincia di Messina, nel 1826, nemico giurato del liberalismo, resterà fedele a Francesco II fino all'ultimo giorno. Da quell'osservatorio privilegiato, Buttà visse in prima linea gli episodi cruciali che condussero alla dissoluzione del Regno: «Ne sono venuto a conoscenza - dice Caruso - grazie a un lettore: il libro è sparito dalla circolazione ma rimane un punto di vista originale. Buttà è molto più borbonico di Francesco II, è acceso da un anti-italianismo sparato e da avversione totale nei confronti dei garibaldini. Il racconto è pieno di pettegolezzi, dettagli, voci, dissidi e tradimenti, soprattutto. Quei tradimenti che resero possibile che mille sbandati - come li chiamavano i Borboni - mille farabutti potessero impossessarsi del regno più ampio della penisola italiana, le Due Sicilie». Generali ultrasettantenni, che avevano perso ogni voglia di rischiare, i maneggi dei fratellastri di Francesco che tentano di scalzarlo, i soldi di Cavour che corrono a fiotti, nel suo libro Caruso non ci risparmia nessuno degli aneddoti più paradossali: «E poi le riverenze verso l'ambasciatore sabaudo a Napoli, perché mentre la guerriglia di Garibaldi avanza i diplomatici continuano a trattare sul modo migliori di accordarsi. E Francesco, che si fida, e fa sempre la figura dello scemo. Per non dire dello stesso incontro di Buttà a Milazzo con Garibaldi, che vuole arruolarlo coi Mille: Buttà fa finta di aderire ma alla prima occasione scappa e se ne torna dai Borboni». Una controcronaca, dunque, che Caruso inquadra anche per il peso avuto, oltre che nel dare uno Stato ai Savoia, nella divisione mai sanata tra Nord e Sud: «Se i Savoia e Cavour avessero lasciato mano libera all'amore per Garibaldi, che fu accolto a Palermo come una novella Santa Rosalia, probabilmente tante divisioni non sarebbero sorte. Garibaldi aveva il carisma necessario per far digerire tante soluzioni antipatiche: era un figlio del popolo e il popolo lo sentiva suo. Nella parte finale le operazioni vennero lasciate a Cialdini e Fanti, due generali cui il razzismo scappava dalla pelle e che coi loro comportamenti diedero giustificazione al brigantaggio. Una promessa tradita verso le classi meno abbienti che avevano sperato che l'arrivo di Garibaldi coincidesse con il miglioramento della loro situazione e con la distribuzione delle terre». Se Garibaldi avesse trionfato, o ancora se il Regno delle Due Sicilie non fosse mai stato preso: questi esercizi di immaginazione, oggi tanto in uso per le figure di Hitler e Mussolini, si possono forse tentare anche qui, specie in riferimento a una ricostruzione che tiene conto di vincitori e vinti: «Nel primo caso, con Garibaldi al comando, avremmo avuto un'Italia forse meno settaria da tutti e due i lati, meno segnata dai privilegiati», immagina Caruso. «Forse non saremmo entrati nella prima guerra mondiale come voleva Giolitti. E se non fossimo entrati in guerra non ci sarebbe stato il fascismo. Forse saremmo ancora una monarchia, ma con Vittorio Emanuele IV e non so se ci guadagneremmo. Certo è invece che il Regno delle Due Sicilie era destinato a implodere: condizioni economiche miserrime, diabete già una pandemia, rivolte fatte solo per denaro. E i Florio che non erano gli Agnelli: hanno sfavillato per un paio di decenni, sono sprofondati alle prime vere difficoltà. L'unico che ci ha perso davvero è Francesco II: poteva, per diritti dinastici, ambire a Torino ben più di Vittorio Emanuele II».

NAPOLI E SUD POCO COMBATTIVI? Marco Ascione il 13.04.2020 su movimento24agosto.it. Nell’immaginario collettivo italiano, Napoli e il Sud sono indolenti, per nulla combattivi e restii, se non rifuggenti, la lotta in genere. Si ritiene che essi opportunisticamente preferiscano non sprecarsi in cause riguardanti la collettività per evitare guai. E lo sconclusionato esercito napoletano di Francischiello ne è un esempio. Proviamo a capire se le cose stanno davvero in questi termini. Tanto per cominciare, l’esercito napoletano cosiddetto di Francischiello tutto è stato fuorché sconclusionato. Lo stesso Francischiello, ovvero Francesco II di Borbone, ultimo sovrano duosiciliano, combatté strenuamente fino alla capitolazione nell’assedio di Gaeta, insieme alla regina Maria Sofia, ammirata dai soldati e dal mondo come vera eroina e per questo celebrata da poeti del calibro di Proust o D’Annunzio. Le milizie duosiciliane poi morirono eroicamente resistendo fino alla fine ai subdoli attacchi sabaudi del Generale Cialdini che non riuscendo a sgominarle durante l’assedio di Gaeta ricorse persino al metodo sporco delle armi chimiche. Inoltre, come oramai oltremodo noto, quando Garibaldi arrivò in Sicilia, ai soldati borbonici fu ordinato dai loro generali (come Landi, Lanza ecc., vendutisi ai piemontesi e agli inglesi) di non combattere e di ritirarsi dinanzi ai garibaldini. I soldati duosiciliani all’arrivo di Garibaldi a Palermo furono addirittura chiusi, da detti generali e ufficiali, nelle caserme della città per impedire loro di combattere. La voglia di battersi, il valore e il coraggio, nonché lo zelo e il livore che li animavano furono tali che in un caso essi, intuito il tradimento del loro generale, lo giustiziarono. Circolava, infatti, in quel periodo, una sarcastica vignetta, raffigurante gli ufficiali napoletani con teste da somari, i generali privi di testa (perché venduti) e i loro soldati invece con teste di leoni. I soldati duosiciliani poi, ironia della sorte, appena una dozzina d’anni prima circa erano andati a liberare i lombardi e i veneti dal loro oppressore austriaco. Fu infatti nel 1848, durante quella che è ricordata come Prima guerra d’indipendenza, in cui tutti gli stati italiani scendono in campo contro l’Austria. Ma le truppe del Regno delle Due Sicilie sono quelle che conseguono le maggiori vittorie e si distinguono di più per prerogative di coraggio e combattività. Infatti, i giornali L’Alba d’Italia e la Gazzetta di Genova, il 29 marzo di quell’anno, relativamente alla partenza delle truppe partenopee dal porto di Napoli, avevano scritto [1]: “Quei prodi […] si dimostravano fra tutti i più franchi e coraggiosi amici dell’Italia e della libertà”. L’esercito napoletano era allora il più potente, meglio organizzato e, persino, più disciplinato e corretto d’Italia. Il ligure Giuseppe Ugo Oxilia [1] riporta che, nella seconda metà di aprile del ’48, i napoletani giunti a Pistoia ricevettero una così calorosa accoglienza che i “Pistoiesi […] facevano a gara a invitarli a pranzo”. Il contributo dei soldati duosiciliani durante tale guerra risultò decisivo. In seguito alla loro vittoria in Lombardia, nella battaglia di Curtatone del 13 maggio, il Governo Provvisorio di Milano nell’inviare le proprie congratulazioni, tra le altre cose, scriveva: “O Napoletani, rallegratevi di aver sì gloriosamente aperta la via al vostro valoroso esercito, che […] viene a confermare gli antichi vanti dell’italica milizia nella guerra dell’italica indipendenza!” Tuttavia, nuovamente a Curtatone e a Montanara, stavolta il 29 maggio, l’immane sproporzione di uomini e mezzi tra l’esercito austriaco e le truppe tosco-napoletane determinò la sconfitta di queste ultime. Ciò nonostante, la strenua resistenza da esse opposta fu memorabile: i napoletani e i toscani riuscirono a tener testa, per circa sei ore, ai ripetuti assalti di uno dei più potenti eserciti d’Europa, evitando così che l’esercito piemontese fosse preso alle spalle [1]. Infatti, grazie a questo, i piemontesi riuscirono ad avere il tempo necessario per riorganizzarsi e vincere, il giorno dopo, insieme alle truppe napoletane, la battaglia di Goito, sempre in Lombardia. I cittadini di Goito, poi, nel loro “manifesto di commiato”, esternarono la propria gratitudine alle truppe napoletane dichiarando [2]: “Prodi napoletani del 10° di linea Abruzzo! Voi che appena arrivati vi uniste a noi con fratellevole simpatia, voi che per tutto il tempo che abbiamo passato insieme vi siete distinti per una condotta esemplare, voi che la memoranda giornata del 30 maggio pugnaste [lottaste] così valorosamente nella battaglia combattuta alle soglie del nostro paese e noi dall’alto delle case vi abbiamo veduti e ammirati, accettate i ringraziamenti degli abitanti di Goito, riconoscenti.” Mentre i commilitoni toscani, che con essi avevano combattuto nella battaglia di Montanara, rivolsero ai soldati napoletani il loro saluto dicendo: “Vi abbiamo amati come fratelli negli accampamenti, vi abbiamo ammirati come prodi soldati sul campo di battaglia. Siete chiamati in Patria e noi sentiamo la forza del vostro dovere.” La superiorità dell’esercitò napoletano in Italia (il più potente e numeroso dello Stivale) si evinse anche in occasione della sua risalita a settentrione al seguito di Gioacchino Murat che, per un breve lasso di tempo, occupò, nel 1815, l’Italia intera fino al Po (esperienza questa, poi, terminata a seguito dell’intervento austriaco). E lo sapevano bene i liberali italiani che, nel 1831, “riuniti in congresso a Bologna, decidevano di offrire al Re di Napoli [Ferdinando II] la Corona d’Italia”, identificandolo peraltro come il monarca italiano dalle vedute più ampie e vicine ai loro ideali. Ferdinando II, però - oltremodo rispettoso dei diritti e della dignità degli altri sovrani e principi italiani -, non accettò mai. Finanche il repubblicano veneziano Attilio Bandiera che, insieme al fratello Emilio e ad altri al loro seguito, divenne protagonista del noto tentativo insurrezionale unitario del 1844 – durante la sua detenzione in Calabria, come scrive lo storico britannico Harold Acton, “in una ispirata lettera […] illustrò i suoi ideali a Ferdinando II, promettendogli di servirlo corpo e anima se fosse divenuto sovrano costituzionale di un’Italia unita”, esponendogli quanto il Regno delle Due Sicilie fosse lo Stato italiano maggiormente all’altezza per portare a compimento l’unificazione politica d’Italia [6]. Andando poi ancor più indietro, in particolare, di 400 anni prima del tentativo di Murat, scopriamo che l’esercito napoletano, al seguito del proprio re Ladislao, nel 1414 aveva conquistato una grossissima fetta dell’Italia. Vale a dire, lo Stato Pontificio (escluse Todi e Bologna) e parte della Toscana (con inclusa la presa di Valiano e Cortona e l’occupazione navale dell’Elba e di Talamone del 1409). Firenze, decisamente allarmata, temendo un imminente attacco da parte di Ladislao, con febbrile fare diplomatico si fece in quattro pur di esser difesa o di scongiurare l’offensiva napoletana; e da ultimo vi riuscì, strappando una soluzione di pace al sovrano di Napoli, il quale dal canto suo pensò di acconsentire con l’intento di vedersi anzitutto legalizzati i suoi nuovi domini. Tale esperienza, però, si concluse per la morte del sovrano napoletano che, nel luglio dello stesso 1414, improvvisamente, mentre assediava Todi, venne colpito da una sinistra febbre, che nel giro di poche settimane lo portò, appena trentottenne, alla morte (6 agosto 1414). Non lasciando eredi, gli successe la sorella Giovanna, la quale non perseguì i disegni del fratello e ultima sovrana angioina napoletana stette al trono fino alla sua morte.

La “tradizione” combattiva napoletana ha, però, radici ancor più remote.  Napoli già nel 615 d.C. approfittando della rivolta e dell’uccisione a Ravenna dell’esarca, si dichiara indipendente da Bisanzio (da cui era dominata). Sebbene tale tentativo sia poi vanificato dall’immediata ed energica reazione dell’esarca Eleuterio, la progressiva sete d’indipendenza della città non verrà ad arrestarsi. Tra l’altro, essa non riuscì a esser sostanzialmente mai conquistata dai longobardi (i quali del resto d’Italia invece ne occuperanno quasi l’intero territorio), ma addirittura liberò da essi altre città. Nel 711, ad esempio, su richiesta del papa, Napoli viene in aiuto alla città di Cuma riuscendo a liberarla dai longobardi che inaspettatamente l’avevano conquistata. Successivamente, nel 763, il duca di Napoli Stefano II si ribella apertamente all’autorità centrale di Bisanzio (riconoscendo il pontefice di Roma) rendendo in questo modo il Ducato napoletano, di fatto, pienamente indipendente. Napoli diviene così una vera e propria città-stato (con tanto di territorio circostante, corrispondente orientativamente all’area dell’attuale provincia metropolitana), anticipando di circa 430 anni l’esperienza dei primi comuni in Italia centrosettentrionale, di circa 350 anni quella delle Repubbliche Marinare di Pisa, Ancona e Ragusa (l’attuale Dubrovnik), di più di 300 anni quella di Genova e di 200 anni quella delle Repubbliche Marinare di Amalfi e Gaeta (molto vicine a Napoli, con, inizialmente, Amalfi inclusa in essa ma poi distaccatasi nell’839). In molte occasioni Napoli riesce a contrastare e a respingere anche le tentate invasioni da parte dei franchi e dei saraceni, affrancando o sgominando dalla minaccia finanche di questi ultimi varie e ulteriori città, inclusa la stessa Roma. Infatti, nell’849, con Napoli alla guida la flotta della Lega Campana (formata da Napoli, Amalfi, Gaeta e Sorrento, fu, dal tempo dei romani, la prima Lega di città italiane della storia sorta per opporsi a potenza esterna), venendo in soccorso al pontefice a Ostia, respinge l’attacco saraceno alla città eterna in quello che oggi viene considerato dagli storici il maggior successo navale ottenuto da una flotta cristiana nei confronti di una musulmana (celebrato da un affresco di Raffaello presente in Vaticano; nell’illustrazione), prima di venire combattuta la battaglia di Lepanto (che avrà luogo solo nel 1571). Ciononostante, l’ostilità tra islam e cristianesimo non impedì che nel Sud della Penisola vi fossero avvicinamenti, intese e finanche grande assonanza tra le due realtà, all’insegna del perseguimento dei comuni interessi commerciali e per fini politico-strategici. E di qui nel tempo essenzialmente si generò anche un’amicizia tra il mondo arabo, Napoli e un po’ tutto il Meridione. Prima di cadere in mano normanna (tra gli ultimi territori a cadervi, nel 1137), Napoli oppose una strenua resistenza, addirittura, conquistando l’ammirazione dei nemici; persino successivamente alla resa del duca e alla sua morte, i napoletani insorsero contro il nuovo sovrano normanno costituendo una repubblica aristocratica fino alla definitiva capitolazione che avvenne nel 1139 a Benevento. E sebbene la conquista e la costituzione da parte normanna del nuovo Regno di Sicilia fecero tutt’altro che penalizzare Napoli e il Sud, diverso tempo dopo (oltre un secolo), in particolare sotto la reggenza sveva, alcune realtà del Sud, come Caserta, Acerra, Capua, Napoli, ancora bramanti autonomia, diedero vita a nuove insurrezioni, per poi ritornare (con da ultima l’indomita Napoli) sotto il controllo di Corrado IV nel 1253. Investite di forza economia e politica, per la posizione in sé strategica del Sud Italia (collocato nel cuore del Mediterraneo), molte altre furono le realtà dell’Italia meridionale che poterono permettersi di rivendicare autonomia già a partire dall’Alto Medioevo (molto prima quindi di quelle del Centro-Nord). A maggior ragione quelle della Sicilia che peraltro, più tardi, si distaccherà da Napoli, in seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani del 1282. Come non menzionare, inoltre, in tale rapido excursus, la rivolta popolare sanfedista del Regno di Napoli: la più energica e poderosa d’Italia, contro i francesi di Napoleone; e quelle seguitate alla seconda occupazione francese (liquidate poi come fenomeno di brigantaggio). Come pure la strenua difesa della città di Napoli opposta dalla popolazione per impedire la prima occupazione francese. Riguardo a essa, l’avversario, il generale francese Championnet, nella sua relazione per Parigi, scriverà: “Mai combattimento fu più tenace: mai quadro più spaventoso. I Lazzaroni, questi uomini meravigliosi [...] sono degli eroi rinchiusi in Napoli. Ci si batte in tutte le vie; si contende il terreno palmo a palmo.  I Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il Forte S. Elmo li fulmina; la terribile baionetta li atterra; essi ripiegano in ordine, ritornano alla carica, avanzano con audacia, guadagnano spesso del terreno.” Il capo di stato maggiore francese, il generale Bonnamy, al termine del suo rapporto invece scriverà: “L’azione dei Lazzari farà epoca nella Storia!” Tantissimi sono gli esempi, come quello eclatante dell’insorgenza antipiemontese (impropriamente definito “brigantaggio postunitario”), divampata per la riduzione del Sud nuovamente a colonia, così come era stato ridotto ai tempi di Masaniello. La rivolta di Masaniello scoppiò nel 1647 e Napoli era colonia ormai da 146 anni. La liberazione tuttavia fu effimera. Anzi, finì nel vuoto. Come forse “nel vuoto” è in qualche modo finita un’altra liberazione: quella delle 4 giornate di Napoli del settembre 1943, addirittura, prima insurrezione popolare di una grande città europea contro l’occupante nazista. La Napoli e il Sud di Masaniello dovranno aspettare la fine dell’Impero Spagnolo sul Vecchio Continente e dunque l’arrivo di Carlo di Borbone che concretizzerà nuovamente l’indipendenza per il Sud (nel 1738). La Napoli e l’attuale Sud, invece, stanno ancora aspettando.

 

·        La Grande Guerra.

Parigi 1919. Una vittoria mutilata. Marco Valle il 15 dicembre 2020 su Il Giornale. La discussa e discutibile visita del presidente Mattarella lo scorso luglio a Trieste culminata con lo strambo omaggio ai quattro terroristi slavi del Tigr — fucilati nel 1930 dopo una scia di sanguinosi attentati contro obiettivi civili italiani — e le commemorazioni più o meno felici dell’impresa dannunziana di Fiume hanno fugacemente riportato l’attenzione sulle intricate vicende del confine orientale d’Italia.  Come al solito i media ci hanno afflitto con narrazioni superficiali quando non fuorvianti, riducendo la questione adriatica in schematismi talvolta nostalgici e retorici o, troppo spesso, incredibilmente auto colpevolizzanti. Risultato: la tragedia novecentesca delle terre istriane e dalmate rimane il terreno di scontro per opposte tifoserie. Uno sterile gioco tra struggimenti per la piccola patria perduta e insopportabili negazionismi. Fortunatamente la ricerca storica, seppur faticosamente, prosegue con lavori innovativi e nuove chiavi interpretative che permettono di comprendere lo “zeitgeist” e cogliere la somma delle formidabili implicazioni politiche ed economiche che determinarono (e ancor oggi determinano) confini e memorie. Di assoluto rilievo è il nuovo libro di Paolo Soave “Una vittoria mutilata?” (Rubettino pp.157, euro 14,00) che analizza uno dei nodi centrali quanto scomodi della nostra vicenda unitaria, ovvero la contradditoria (e non pagante) partecipazione nel 1919 dell’Italia alla Conferenza di Versailles, esiziale redde rationem fissato dalle potenze euro-atlantiche ai nemici sconfitti e brusco rappel à l’ordre per agli alleati minori: Italia, Belgio, Serbia, Grecia, Romania, Giappone, Portogallo. In guerra presenze necessarie e, talvolta, indispensabili, in pace fastidiosi coriandoli. Da premiare (Belgio e Giappone), usare (Serbia e Grecia) o marginalizzare. Fu il caso dell’Italia. Soave, brillante docente di Storia delle Relazioni Internazionali, affronta il problema italiano con minuzia archivistica, larghezza di visione e (dato non scontato per un accademico…) scrittura fluida, individuando con precisione le perduranti opacità nel rapporto (sempre disuguale) tra Roma e le capitali occidentali. Il punto di partenza è il Trattato di Londra del 1915, la travagliata decisione della rottura della “Triplice” e l’adesione all’”Intesa” su un accordo segreto che assicurava al regno sabaudo non solo l’arco Trento-Trieste ma anche e soprattutto il controllo dell’Adriatico, un protettorato sull’Albania, il riconoscimento del possesso del Dodecaneso e ampliamenti in Asia minore, diritti sul Mar Rosso, più vaghe promesse per l’amministrazione del Canale di Suez e sull’Africa tedesca. Sulla carta un magnifico bottino per la piccola Italia — “grande potenza solo a titolo di cortesia” come ricordava Giovanni Volpe — ma anche un grande azzardo. Salandra, Sonnino e Vittorio Emanuele (protagonista non secondario) non ebbero troppi dubbi e imposero ad un Paese ancora largamente neutralista l’entrata in guerra. Come nota l’autore uno spregiudicato “giro di valzer” in cui s’intrecciava la tradizionale diplomazia “anfibia” sabauda con la ripresa «della fase espansiva della politica estera unitaria avviata nel 1911 da Giolitti con la conquista della “quarta sponda”. Impegnando le armi si sarebbe espresso il tentativo dell’Italia liberale di costruire una patria comune e una sintesi di nazione, libertà e modernità». Poi il 24 maggio. Il Carso, Gorizia, le Alpi, Caporetto, il Grappa e il Piave e, infine, Vittorio Veneto. Seicentottantamila morti, un milione e più di mutilati su 5.240.000 mobilitati, il 13,78 della popolazione. Un conflitto lungo, sanguinoso che mise a durissima prova l’intero Paese, suscitando energie impreviste all’interno — un inedito patriottismo diffuso, i “ragazzi del ‘99” e l’arditismo — e fortissime diffidenze all’esterno. Puntualmente i franco-britannici sottostimarono lo sforzo militare ed economico del regno e il fronte italiano venne pervicacemente ignorato dalla grande stampa alleata. Con un’unica eccezione Rudyard Kipling. Nel 1917 l’autore del “Libro della Giungla”, premio Nobel per la Letteratura, raggiunse agli alpini sulle vette delle Alpi Giulie e Carniche e si appassionò ai soldati di montagna diventandone uno dei cantori più originali con un libro-testimonianza “La guerra nelle montagne”. Una singolarità.  Ancora oggi per la copiosa storiografia anglo-sassone sulla Grande Guerra il teatro italiano rimane un fatto secondario e l’impegno militare quasi risibile. Lo confermano, una volta di più, le righe dedicate Margaret MacMillian nel suo poderoso volume “Parigi 1919”, dedicato appunto a Versailles. Per l’ex rettrice del Trinity College «i soldati italiani, mal guidati e peggio equipaggiati, erano stati massacrati nel corso delle battaglie svoltesi sulle Alpi, finché l’esercito era crollato a Caporetto nel 1917. Nel 1918, di fronte a oltre mezzo milioni di morti e un numero ancora maggiore di feriti gravi, la domanda che cominciava a circolare era: a che scopo?».  Per la MacMillian e i suoi dotti colleghi la resistenza accanita sul Piave e il Grappa, la “guerra bianca” sull’Adamello e dintorni, le battaglie del Solstizio, il Col Moschin, le imprese di Rizzo, l’armistizio di Villa Giusti nulla contano. Nulla pesano. Una visione daltonica che, come ci avverte Soave, arriva da lontano, dall’incessante lavorio delle cancellerie durante il proseguirsi del conflitto. Mentre le “tempeste d’acciaio” massacravano un’intera generazione, felpati diplomatici, astuti capitalisti e callidi ministri preparavano il dopoguerra, il nuovo ordine post bellico. Un gioco sottile quanto micidiale che non prevedeva le rivendicazioni italiane. Sceso il silenzio sui campi di battaglia a Versailles, riprendendo il colonello T. E. Lawrence, «gli uomini vecchi decisero la loro pace». Purtroppo a rappresentare a Parigi l’Italia vittoriosa di Diaz e di D’Annunzio arrivarono uomini culturalmente ancor più vecchi e, soprattutto, decisamente più inadeguati dei loro agguerriti colleghi: il francese Clemenceau, il britannico Lloyd George, lo statunitense Wilson. Il peggiore. Una volta seduti sulle comode poltrone della “galleria degli specchi”, lustro della reggia di Luigi XIV, Orlando e Sonnino si resero presto conto di contare poco o niente. Gli alleati accusarono l’Italia d’egoismo, sminuirono il nostro apporto alla vittoria, si dimenticarono con facilità estrema dei patti londinesi, rintuzzarono ogni appetito coloniale e — con il sostegno dell’italofobico Wilson — cercarono di bloccare ogni ambizione italiana sull’Adriatico e nei Balcani. Fiume compresa. La nuova Jugoslavia monarchica divenne il contraltare, l’adeguato antemurale ai progetti di Roma. Per i “grandi” lo Stivale doveva rassegnarsi ad un ruolo da junior partner, rinunciare ad ogni ipotesi d’autosufficienza economica e a miraggi d’autonomia politica e accettare una sorta di sovranità limitata. I delegati — già scossi dalla ventura dannunziana a Fiume, preoccupati dai conflitti sociali in atto e angosciati dai tanti debiti — non furono all’altezza della situazione e inanellarono una serie di errori che indebolirono ulteriormente la già debole posizione dell’Italia. Alla fine, come stigmatizza l’autore, la conferenza si ridusse ad un problema di rapporti di forza tra ineguali, un confronto impari che un personale politico ormai logorato non poteva reggere. Salandra e Sonnino strillarono, minacciarono, partirono e poi tornarono e, infine, firmarono. In patria il mito della “vittoria mutilata” divenne facilmente argomento per le opposizioni nazionaliste — D’Annunzio si scagliò contro “i divoratori di carne umana” — e alimentò il nascente fascismo che nel ventennio alternò in politica estera revisionismo e anti revisionismo. I risultati sono noti e ampiamente indagati. Come avverte Paolo Soave, a distanza di un secolo il convegno di Versailles rimane un paradigma per tutti coloro — invero pochi — che si preoccupano e si interrogano sul ruolo internazionale dell’Italia nel terzo millennio. Evaporate le velleità imperiali, rimangono sempre irrisolti i rapporti con gli alleati (veri o presunti) e il significato della nostra collocazione nell’Adriatico, nel Mediterraneo (più o meno allargato), nei Balcani, in Africa. Oggi come nel 1919.

La Grande Guerra italiana narrata da Gioacchino Volpe. Marco Valle il il 17 gennaio 2020 su Il Giornale. Soffiano alle nostre porte gelidi venti di guerra e, una volta di più, la classe politica nostrana si rannicchia aspettando e sperando che la bufera passi in fretta. Intanto, al di fuori dei palazzi del potere, le contrapposte tifoserie si accendono, esasperando e volgarizzando ogni dibattito, ogni confronto, ogni ragionamento. Il nostro peso sugli eventi mondiali è nullo ma quasi nessuno sembra preoccuparsene. È il destino di un Paese a sovranità limitata che ha scelto un’eterna vacanza della Storia. Amen. Eppure vi fu un tempo in cui le élites misuravano con pragmatismo gli scenari globali e valutavano con ponderazione e realismo quali e dove fossero gli interessi nazionali. Fu il caso, come ci ricorda Gioacchino Volpe ne “Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra” (Piccola Biblioteca della Nuova Rivista Storica. Ppgg.303, euro 10,00) dell’intervento del 1915. Si tratta di un prezioso inedito del massimo storico italiano del Novecento, ritrovato e pubblicato da Eugenio Di Rienzo — autore di una poderosa introduzione — e Fabrizio Rudi. Un testo importante, per nulla agiografico e tanto meno retorico che ci riporta al clima infuocato della prima fase del conflitto con riflessi evidenti — non a caso, come nota Di Rienzo, fu redatto tra il 1942-43 — sull’ormai imminente catastrofe bellica. Volpe, fedele alle lezioni di Tucidide e Weber, ben sapeva che solo la coniugazione di coraggio e prudenza e dunque il giusto dosaggio di offensiva e difensiva sono gli ingredienti dell’agire strategico. Una consapevolezza e una lungimiranza che l’autore riconosce alla filiera liberal-risorgimentale stretta attorno al governo Salandra e a lungo indecisa se restare neutrale, affiancarsi agli austro-turco-tedeschi o combattere con l’Intesa. Al netto dell’irruenza degli interventisti e delle narrazioni ideologiche scioviniste e germanofobiche, Volpe offre infatti una lettura degli eventi basata sulla real politik: l’opzione per Londra e Parigi fu il risultato di un freddo, razionale calcolo dei rapporti di forza militari ed economici e le prospettive— allettanti e poi, come noto, disattese dopo la vittoria— di vantaggi territoriali.  Il «sacro egoismo» teorizzato Salandra. Per l’Italia, «grande potenza solo a titolo di cortesia», una scelta obbligata da affrontare con «un esercito povero di quadri e con difficoltà a reclutarli, in una Nazione dove mancava vecchia nobiltà di tradizione guerriera e solida borghesia industriale, abituata a comandare e inquadrare gli uomini, la milizia territoriale esisteva solo sulla carta, e la grande massa dei militarmente abili non era istruita». Accanto alle lacune castrensi vi era poi un tessuto industriale modesto, apparentemente inadatto ad affrontare un’economia di guerra, la cronica mancanza di materie prime e un sistema infrastrutturale inadeguato. Per il regno sabaudo si prospettava — come fu per il Portogallo e la Grecia — un ruolo marginale, subalterno agli alleati, nella speranza di una guerra possibilmente brevissima. Ma incredibilmente, sorprendendo alleati e nemici, la piccola Italia di Salandra e Cadorna (figura ampiamente rivalutata dall’autore), di Sonnino e del socialista Bissolati («l’uomo nuovo dell’interventismo») seppe mobilitarsi e trasformarsi. Una classe dirigente certamente imperfetta, anzi litigiosa e a volte ottusa, ma capace di reggere e guidare dignitosamente l’immane sforzo bellico. Il merito principale, come Volpe racconta con passione, fu però dell’armata al fronte — «il popolo in grigio-verde» — a sua volta sorretta dall’intera società civile. Il popolo italiano, per una volta coeso, seppe affrontare le inedite difficoltà con dedizione ed entusiasmo, mettendo all’angolo le politiche disfattiste della teocrazia romana e ignorando il «mormorio parlamentare». Tra le pagine più interessanti del lavoro segnaliamo la parte in cui lo storico abruzzese analizza lucidamente la diffidente distanza tra l’Intesa e il Regno. Volpe ritrova negli esordi del conflitto i prodomi della «vittoria mutilata» fissando i continui punti di disaccordo tra l’Italia e gli alleati, invero poco amici.  Non a caso la grande stampa e l’opinione pubblica occidentale si disinteressarono del teatro italiano, ignorando la grama sorte delle popolazioni italofone in territorio austro-ungarico (pari se non superiore al molto propagandato “martirio” del Belgio) e il duro impegno del nostro esercito. Ricordiamo a proposito che solo nel 1917 Rudyard Kipling — il cantore di Britannia e Nobel per la letteratura — visiterà il fronte italiano appassionandosi talmente alle imprese degli alpini da scrivere “La guerra nelle montagne”, rieditato qualche anno fa da Mursia. Tornando alla diagnosi volpiana — e agli approfondimenti di Di Rienzo — già nel primo anno di guerra erano evidenti la caducità del Patto di Londra e le profonde divergenze sui futuri assetti postbellici riguardo l’Adriatico, i Balcani, i possedimenti coloniali e le aree d’influenza. Nei disegni imperiali dei franco-inglesi vi era poco, pochissimo spazio per le disturbanti aspirazioni italiane e presto le solenni assicurazioni si ridussero ad un chiffon de papier. Una somma di nodi irrisolti che s’ingroviglieranno definitivamente nel 1919 alla conferenza di Versailles. Aprendo la strada all’avventura fiumana e alla successiva esperienza mussoliniana che Volpe, nazionalista liberale, affiancherà in modo critico per tutta la sua durata.

·        La Seconda Guerra.

L'impresa divenuta leggenda: così i Mas colpirono Alessandria. La notte del 18 dicembre 1941, sei italiani su tre siluri entrarono nella leggenda. E colpirono al cuore la flotta inglese ad Alessandria d'Egitto. Lorenzo Vita, Venerdì 18/12/2020 su Il Giornale. La notte del 18 dicembre 1941, Alessandria d'Egitto dormiva placida insieme alle navi dell'Impero britannico ormeggiate nel suo porto. Il mare era calmo, il vento completamente scomparso. La Luna illuminava con la sua tiepida luce le acque del Mediterraneo, mentre le onde si infrangevano sulle pietre e il cemento del porto di più importante dell'Egitto. Una notte perfetta, che presto si sarebbe trasformata nell'incubo della marina britannica e in uno dei maggiori trionfi per la Regia Marina. Tutto ebbe inizio la notte del 3 dicembre a La Spezia. Dopo settimane di addestramento durissimo con l'obiettivo di lavare l'onta dell'attacco a Taranto di un anno prima, il sommergibile Scirè, comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese, prese il largo. L'ordine prevedeva di simulare un'esercitazione per eludere le reti di spionaggio Alleate nel Mediterraneo. Una questione di importanza fondamentale, dal momento che le capacità di intelligence e le differenze tra i vari schieramenti potevano significare la stessa vittoria in guerra. Mentre la notte calava sulle coste liguri, Borghese diede l'ordine di imbarcare, senza farsi vedere da alcun occhio indiscreto, tre "maiali", i siluri a lenta corsa che sarebbero diventati il marchio di fabbrica della Decima Mas. I tre siluri vennero posizionati all'interno dei cilindri a tenuta stagna posizionati nella pancia del sottomarino. Una volta presi i maiali, l'ordine era quello di recarsi a Porto Lago, nell'isola di Lero, dove lo Scirè avrebbe imbarcato i sei assaltatori pronti a unirsi alla missione. Un viaggio non privo di pericoli: navi e aerei da ricognizione britannici solcavano costantemente cieli e mari sulla rotta del sommergibile italiano, rendendo particolarmente complesso il passare inosservato. Un rischio che l'equipaggio decise non soltanto di accettare, ma anche di prendere di petto, addirittura sfidando un aereo inglese, che venne "salutato" dal sottomarino italiano rilanciando un codice che i servizi segreti erano riusciti a intercettare nelle settimane precedenti l'operazione. Sulla piccola isola del Dodecaneso italiano, Borghese e gli uomini della Mas attendevano il loro destino e le notizie che arrivavano da Alessandria. Le ricognizioni aeree sul porto egiziano avevano dato alcune indicazioni, ma l'ordine tardava ad arrivare. Troppi i dubbi per una missione così complessa come quella che si stava per compiere. Dopo giorni di attesa nella piccola isola immersa nell'Egeo, l'quipaggio dello Scirè e gli assaltatori che erano giunti nell'isola passano per Rodi, ricevettero l'ordine di partenza. Il sommergibile di Borghese avrebbe preso il mare alle ore 7:00 del 14 dicembre: iniziava la penultima fase dell'operazione G.A.3. Quella che sarebbe diventata l'impresa di Alessandria. Il viaggio non fu affatto semplice. Il Mediterraneo orientale, in questo periodo dell'anno, rischia di essere particolarmente tormentato e quel tratto di mare non è protetto da alcuna barriera naturale. Da Lero a Alessandria la rotta era libera da ogni tipo di "scudo" e le condizioni meteorologiche furono considerate anche un funesto presagio dovuto alla scelta del 17 come data per completare la missione. Quella sera, l'ultimo aereo da ricognizione aveva confermato la presenza di due navi da guerra inglesi nel porto di Alessandria. Ed era giunto l'ordine supremo: "DA SUPERMARINA: accertata presenza in porto due navi da battaglia. Probabile portaerei: ATTACCATE". L'equipaggio di Borghese non aspettava altro. Il 18 dicembre il mare si era improvvisamente calmato e il Sole calava coprendo di oscurità le onde del Mediterraneo. Lo Scirè si caricò di energia e di ossigeno e partì alla volta del porto egiziano. Scopo della missione era quello di evitare mine e reti di sroveglianza britannici ed emergere a 1.3 miglia nautiche da Alessandria, mantenendo una profondità al di sotto dei 60 metri. Alle ore 20.47, lo Scirè iniziò ad affiorare e a rilsciare i "maiali". Una volta abbandonati i siluri a lenta corsa, il sommergibile aveva l'ordine di percorrere la rotta dell'andata per tornare a La Spezia. I sei uomini della Decima Mas ora si trovavano soli al cospetto della Royal Navy. Gli uomini della Regia Marina cominciarono ad avvicinarsi al porto di Alessandria. La squadra si divise in questo modo: il tenente di vascello Luigi Durand de la Penne con il capo palombaro Emilio Bianchi, il capitano del Genio Navale Antonio Marceglia era in coppia con il sottocapo palombaro Spartaco Schergat, mentre il capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta era insieme al capo palombaro Mario Marino. Sei nomi che dopo quella notte diventarono immortali. La svolta arrivò quella stessa notte grazie a un clamoroso colpo di fortuna. I sei assaltatori avevano un unico problema: quello di superare la rete di sbarramento. Un problema non insormontabile, certo, ma che avrebbe potuto ostacolare anche in maniera definitiva la buona riuscita dell'operaizone Per fortuna per loro, le cose quella sera erano destinate ad andare diversamente. La Marina inglese, in attesa del rientro di alcuni cacciatorpediniere, avevano aperto la rete per dare loro modo di rientrare alla base. Una breccia che gli uomini della Decima sfruttarono immediatamente, dando il via all'ultima fase delle operazioni: avvicinarsi alle unità nemiche e affondarle. Durand de la Penne e Emilio Bianchi avevano come bersaglio la Valiant. Alle 2 di notte del 19 dicembre, il maiale venne immerso per colpire lo scafo della nave britannica, ma il siluro a lenta corsa iniziò a imbarcare acqua adagiandosi sul fondale. De la Penne provò insieme a Bianchi a far ripartire le eliche, ma il secondo ebbe un malore per un guasto al respiratore, perdendo i sensi. Tuttavia, il tenente di vascello non si diede per vinto: trascinò il siluro da solo, per 40 minuti, fino a raggiungere lo scafo della Valiant e lì piazzò la sua carica esplosiva. Una volta tornato in superficie, De la Penne si ritrovò su una boa insieme a Bianchi, ma furono individuati dagli inglesi che prima li portarono a terra per interrogarli, poi, visto il loro silenzio, vennero condotti a bordo della nave in attesa che svelassero i loro piano. Mezz'ora prima dell'orario dell'esplosione, De la Penne chiese di parlare col comandante della Valiant per dirgli di far abbandonare la nave e salvare l'equipaggio. Ma alle 6:15 la mina esplose squarciando lo scafo della nave. Non troppo diversa fu la missione dell'altro "maiale", il n. 222, con a bordo Vincenzo Martellotta e Mario Marino, sul maiale nº 222. Il primo venne colto anch'esso da malore, costringendo il siluro a navigare in superficie. Una scelta tanto coraggiosa quanto pericolosa, dal momento che sarebbero stati più facilmente individuati dai nemici. I due avevamo come obiettivo la petroliera Sagona. La scelta cadde su quell'imbarcazione perché secondo gli ordini di Borghese, in assenza di portaerei qualcuno avrebbe dovuto colpire il carico di petrolio di Alessandria. Ma era una missione delicatissima, dal momento che far esplodere una petroliera poteva avere conseguenze devastanti per la deflagrazione. I due riuscirono a piazzare la carica esplosiva e una volta raggiunta terra furono catturati dalla vigilanza del porto. Come per la Valiant, anche per la Sagona l'esplosione avvenne verso l'alba, con un incendio così ampio da coinvolgere altre quattro navi. L'ultimo maiale, il 223, aveva invece come obiettivo la Queen Elizabeth. L'operazione di Antonio Marceglia e Spartaco Schergat fu da manuale: i due marinai riuscirono ad agganciare la carica esplosiva alla nave britannica e a raggiungere terra senza essere visti. Furono però catturati il giorno dopo per un tragico errore del Servizio segreto militare: tra gli oggetti utili per la fuga, i funzionari del Sim diedero alla Decima banconote che non avevano più corso legale in Egitto, facendo così smascherare i due palombari. Ma l'operazione era comunque andata a buon fine: alle 06.25 la carica esplose devastando il locale caldaie. La Queen Elizabeth stava affondando. La Mediterranean Fleet britannica aveva subito un colpo che avrebbe potuto essere letale. Dopo l'impresa di Alessandria, gli inglesi sembravano aver perso completamente il controllo del Mediterraneo e le parole di Winston Churchill ci aiutano a capire, ancora oggi, il valore della missione: "Sei italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'Asse". La Storia poi avrebbe dato ragione a Londra: ma la gloria di quell'azione non è stata mai dimenticata nel Regno Unito, tanto che lo stesso Times, quando morì Marceglia, dedicò al valoroso nemico una pagina di necrologio. L'onore delle armi per un uomo che insieme a suoi cinque compagni di viaggio segnò per sempre la Storia della Marina e dell'Italia nella Seconda guerra mondiale.

Tragedia e eroismo dell'Armir: l'armata "sparita" nella steppa. Il 16 dicembre 1942 iniziava la ritirata di Russia. La tragedia dell'Armir ebbe nella battaglia dei corpi alpini contro soverchianti forze sovietiche il suo apice. Andrea Muratore, Mercoledì 16/12/2020 su Il Giornale. Il 16 dicembre 1942, sul fronte russo che vedeva opposta l'Unione Sovietica alle Potenze dell'Asse che l'avevano invasa un anno e mezzo prima, l'Armata Rossa sferrò una poderosa offensiva ("Operazione Piccolo Saturno") nel contesto del teatro del Don, di sostegno alle truppe impegnate nella battaglia che da diverse settimane infuriava nella città di Stalingrado, tenuta metro per metro dai russi durante l'assedio della Sesta Armata tedesca trovatasi poi accerchiata dopo l'Operazione Urano di novembre. L'8° Armata Italiana, nome in codice Armir (Armata italiana in Russia) fu investita da una potenza di fuoco soverchiante da parte dei sovietici e dovette cedere terreno. Iniziò dunque per le forze italiane, in larga parte truppe alpine scarsamente equipaggiate per combattere nel contesto di un'ampia fascia di territorio pianeggiante poco presidiata, una tragica ritirata, una vera e propria Anabasi contemporanea in cui intere unità scomparvero nella battaglia, nelle nevi e nel gelo della steppa, centinaia di migliaia di uomini morirono o furono fatti prigionieri dai sovietici e per l'Italia apparve palese il dramma di un'avventura bellica condotta senza raziocinio strategico dal governo di Benito Mussolini alla semplice rincorsa del carro tedesco.

Dal Csir all'Armir. L'Armir era l'erede del Corpo di spedizione italiano in Russia, attivo con una dotazione di 65mila unità tra il 1941 e il 1942 con la dotazione di due divisioni di fanteria (9° e 52esima) e con la Terza Divisione Celere del Regio Esercito. Impegnato in azioni di attraversamento del fiume Bug e di battaglie difensive nell'inverno nell'attuale Ucraina, il Csir fu fortemente voluto da Mussolini che, nonostante la sempre precaria situazione del fronte africano, ove erano i tedeschi a sostenere attivamente l'alleato italiano, voleva cullare quella che Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del Duce, definì "l'eterea illusione" di poter condurre la guerra parallelamente alla Germania di Adolf Hitler con l'autonomia strategica persa dopo la rovinosa rotta in Grecia e Libia tra l'autunno del 1940 e la primavera del 1941. I generali tedeschi avevano a lungo ritenuto sovrabbondanti o addirittura d'ostacolo le truppe italiane, ritenute una palla al piede del corposo apparato militare della Wehrmacht, ma dopo che l'Operazione Barbarossa fallì l'obiettivo strategico di mettere al tappeto l'Urss e i soldati di Stalin furono in grado di contrattaccare scacciando i tedeschi da Mosca la previsione di nuove offensive primaverili ed estive in un fronte sempre più ampio portò l'Oberkommando e il governo di Berlino a cambiare idea e a chiedere forti incrementi negli effettivi degli alleati dell'Asse (Italia, Ungheria, Romania) stanziati sul fronte orientale. La minorità politica e la dipendenza strategica di Roma dall'alleato tedesco impedì ai comandi italiani di controbattere facendo presente le necessità del teatro nordafricano. Tra il maggio e il luglio del 1942 fu dunque allestita un'unità operativa assai più ampia del Csir, che in esso fu ricondotto come componente, l'8° Armata che sarebbe divenuta nota come Armir. Ne facevano parte il Csir assieme al II Corpo d'armata con le divisioni di fanteria "Cosseria", "Ravenna" e "Sforzesca" e all Comando del Corpo d'armata Alpino con le divisioni alpine "Cuneense", "Julia" e "Tridentina". Thomas Schlemmer nel saggio Invasori, non vittime - La campagna italiana di Russia 1941-1943 ricorda come l'Armir assegnata in comando al generale Italo Gariboldi fu dotata del miglior armamento a disposizione a quell'epoca per il Regio Esercito. Oltre 10mila, alcune fonti affermano anche 12mila, automezzi, dispositivi di montagna di ultima fattura per gli alpini, circa 230mila effettivi, artiglierie di alta qualità e reparti d'élite come il Battaglione Alpini sciatori "Monte Cervino" componevano l'unità. Il cui primo, tragico problema fu la disposizione strategica. L'Armir, che dopo una lunga preparazione e uno sforzo senza precedenti per l'industria bellica nazionale aveva preso la via dell'Est, si radunò a Charkov per assumere operatività il 9 maggio 1942. In quei giorni la Wehrmact stava avanzando a Sud, verso i pozzi petroliferi dal Caucaso, ma l'ampliamento delle linee del fronte rendeva difficile per i tedeschi presidiare le retrovie del fronte e i fianchi. L'Armir, assegnata al Gruppo d'Armate B della Wehrmacht, protesse i fianchi alla Sesta Armata che, dal 23 agosto, rimase impantanata nel tentativo di espugnare la città di Stalingrado.

Dalla difesa al collasso. L'intera Armir fu dunque costretta a coprire un fronte di oltre 250 km alla sinistra dello schieramento tedesco in avanzata su Stalingrado. In più occasioni gli italiani dovettero rintuzzare i tentativi sovietici di controffensiva. Particolarmente infelice fu la scelta di schierare in piena pianura i reparti alpini, che bene avrebbero potuto comportarsi nella corsa al Caucaso. Dal 20 agosto all'1 settembre l'Armir combatté la Prima battaglia difensiva del Don, contrattaccando a un'azione di alleggerimento sovietica; Stalin aveva dato ordine di non dare tregua alle truppe dei Paesi alleati alla Germania, ritenute più vulnerabili, e con questo primo attacco l'Armata Rossa poté saggiare le difese di armate che, soprattutto per la carenza di mezzi corazzati, non potevano certamente competere con le Panzerdivisionen della Wehrmacht. Nonostante l'entrata in linea della 3ª Armata rumena sul fianco destro dell'Armir il fronte italiano nelle settimane successive rimase molto esteso e poco presidiato e venne quindi rafforzato, su ordine diretto di Hitler, con una serie di reparti tedeschi inquadrati assieme alla divisione italiana "Vicenza" al comando di Gariboldi. Stalingrado, divenuta per i tedeschi un simbolo per il suo stesso nome ancor più che per la sua (rilevante) valenza strategica di snodo sul Volga, assorbiva nel frattempo risorse umane, riserve e mezzi militari. La steppa alle spalle dell'Armir andò gradualmente svuotandosi mano a mano che nel buco nero di Stalingrado la Sesta Armata del generale von Paulus chiamava a sè il meglio delle riserve tedesche, trasformando il fronte delle potenze dell'Asse in un'enorme patina di carta velina, senza nessuna consistenza alle spalle. Avendo fatto il passo più lungo della gamba, a novembre i tedeschi furono travolti dall'Operazione Urano, l'offensiva sovietica nell'area di Stalingrado che, accerchiandola, trasformò in assediata l'armata che stava tentando la conquista della città. Nella battaglia che aprì al capovolgimento di fronte della guerra si decise il destino dell'Armir: la scelta sconsiderata del Gruppo di Armate B del generale Maximilian von Weichs, che aveva impostato l'intero assetto del fronte sul sostegno all'offensiva di Stalingrado, si rivelò in tutta la sua drammaticità.

La ritirata di Russia. Per le truppe italiane era solo questione di tempo prima di esser investite a loro volta. A inizio dicembre i sovietici consolidarono una testa di ponte oltre il Don, per poi dare il via, il 16 dicembre all'operazione "Piccolo Saturno". Fin dall'11 dicembre le truppe guidate dai generali Voronov, Vatutin e Golikov avevano iniziato una serie di azioni preliminari condotte da reparti di avanguardia per riconoscere le posizioni difensive nemiche; questo privò i russi dell'elemento sorpresa, e assieme a una serie di condizioni meteo sfavorevoli per l'offensiva aerea e d'artiglieria (nebbia e gelo) portò l'attacco sovietico a risolversi in una dura offensiva frontale cui gli italiani tennero testa finché non furono letteralmente sommersi dalla preponderanza dei numeri sovietici e dalla carenza logistica, materiale e organizzativa. A partire dai giorni successivi l'offensiva sovietica, partita dal settore del 2º Corpo d'Armata del generale Zanghieri (divisioni "Cosseria" e "Ravenna", 318º reggimento tedesco), si avvalse anche di interventi in forza delle riserve corazzate guidate dai nuovi carri T-34, contro cui la carenza di munizioni specifiche e la scarsa attitudine alla lotta contro i mezzi corazzati delle truppe del Regio Esercito poterono ben poco. Le divisioni di fanteria spesso affrontavano avanzate nemiche con forze soverchianti, ma sulla distanza ben poco poterono per frenare i sovietici. Il freddo estremo (si arrivava a -30°C) aveva messo fuori uso buona parte dei mezzi motorizzati italiani, il tracollo di ungheresi e rumeni nelle aree circostanti apriva al serio rischio di aggiramento o, addirittura, accerchiamento, e per l'Armir non vi fu altra scelta che l'avvio di una tragica ritirata. Gariboldi e i tedeschi non avevano appuntato alcun piano strategico per gestirla ordinatamente, né altresì sarebbe stato possibile sotto l'incalzante avanzata sovietica. Scarse erano state anche le dotazioni di divise invernali e nulle le possibilità di organizzare una logistica e il recupero dei depositi strategici nei capisaldi dell'Armir date le circostanze. La ritirata divenne inevitabile, ma l'inverno sovietico, il crollo del fronte e l'assenza di ordine nella reazione tedesca di sostegno alle truppe italiane la trasformarono presto in una rotta. L'Armir si frammentò in miriadi di colonne di militari intenti a indietreggiare nella neve, facendosi spazio combattendo tra i reparti sovietici che rappresentavano le puntate avanzate dell'offensiva. Dopo settimane di marcia, i fanti italiani decimati raggiunsero infine le retrovie tedesche. Poche settimane dopo, nel gennaio 1943, fu la volta delle truppe alpine, che subirono una nuova offensiva sull'asse Ostrogožsk-Rossoš', condotta dalla 40ª Armata del Fronte di Voronež e la 6ª e la 3ª Armata corazzata del Fronte Sud-Occidentale, che prima travolsero la Seconda Armata ungherese e poi si avventarono contro le penne nere. La Julia si immolò per consentire alle truppe italiane e a residui drappelli tedeschi e ungheresi di rompere una situazione di vero e proprio accerchiamento. Una serie di colonne formate da truppe alpine, soldati dell'Asse e pochi, strategici cingolati anti-carro e cannoni da 88 millimetri si mossero per uscire dal giogo sovietico. Fu questa la parte più drammatica di una vera e propria Anabasi nella steppa. I nomi sono oramai entrati nella memoria collettiva: Postojalyi, Seljakino, Varvarovka, Nikolajewka furono i teatri di altrettante disperate battaglie di sfondamento delle sacche sovietiche da parte delle truppe alpine. Nelle nevi russe, nella steppa infinita, a migliaia di chilometri da quelle riarse sabbie nordafricane dove l'Italia aveva in gioco i suoi interessi vitali e a centinaia dalle vette del Caucaso gli alpini guidati dai generali Umberto Ricagno, Luigi Reverberi e Emilio Battisti, comandanti rispettivamente della "Julia", della "Tridentina" e della "Cuneense", scrissero pagine di eroica resistenza e di fatua e vana gloria militare.

Fatua, perchè dettata dallo spirito di sopravvivenza, dal timore di una lunga prigionia negli abissi della Russia e della Siberia, nella consapevolezza che anche l'Armir era un esercito invasore e come tale sarebbe stato trattato, nonostante i continui casi di ospitalità agli italiani in rotta da parte della popolazione civile. Vana, perchè non necessaria ai fini strategici del conflitto, figlia della sconsiderata strategia tedesca e delle sue conseguenze di lungo termine, ma anche dell'irrefrenabile volontà del Duce di assecondare e blandire l'alleato tedesco. L'Armir si dissolse in un'ampia serie di colonne, unità, drappelli, singoli battaglioni in cerca della salvezza di fronte alla marea montante sovietica. Gli attacchi "mordi e fuggi" degli alpini sciatori del Cervino, le battaglie tra uomini e macchina a colpi di molotov, gli sfondamenti operati con la forza della disperazione furono i segni della volontà di non abbandonare l'armata ai destini già scritti della disfatta e della prigionia. Quello che si ritirava nella neve non era più un esercito, ma una somma di combattenti in disperata ricerca della sopravvivenza. La colonna della "Tridentina" ruppe la sacca a Nikolajewka il 26 gennaio 1943, mentre sorte peggiore toccò alle divisioni "Cuneense", "Vicenza" e ai sopravvissuti della "Julia", costretti alla resa dai sovietici. Non mancarono casi di cedimento del cameratismo con gli alleati tedeschi, che più volte sottrassero i mezzi funzionanti che potevano rappresentare una speranza di salvezza agli italiani o peccarono di scarsa cooperazione in battaglia. A fine gennaio 1943 l'Armir non esisteva più. Poche settimane dopo, con la resa italo-tedesca in Tunisia, si chiudeva il fronte africano e si apriva la strada all'invasione della Sicilia, che sarebbe scattata il 10 luglio. L'Anabasi in terra russa segnalò il definitivo fallimento del progetto bellico di Mussolini, la sconsideratezza della scelta di affidare in mani tedesche, per ragioni di puro prestigio e di presenza nella "crociata contro il bolscevismo", le sorti di unità di punta del Regio Esercito. L'Unione nazionale italiana reduci di Russia (UNIRR) sostiene che i caduti e i dispersi furono in quel drammatico inverno circa 95.000, mentre decine di migliaia di prigionieri morirono nelle marce verso i campi o in detenzione. Giorgio Scotoni in L'Armata Rossa e la disfatta italiana (1942-43) parla di circa 85mila morti e dispersi e poco meno di 30mila feriti e congelati. Un bagno di sangue per i cui superstiti la vittoria fu, dopo la rottura dell'accerchiamento, il definitivo rimpatrio. La tragedia dell'Armir, tra le più ricordate nella storia militare italiana, ha generato una memoria collettiva che vive ancora. Da quando l'illusione di potenza del regime fascista perì congelato nella steppa russa, assieme a decine di migliaia di militari mandati allo sbaraglio in una battaglia dove il loro ruolo strategico poté essere minimo e in cui furono consegnati a un destino già scritto.

·        Carmine Crocco, il Brigante Generale.

CARMINE CROCCO, IL BRIGANTE GENERALE. Imgpress.it il 19 Marzo 2020 Culture. Domenico Bonvegna su Ilsudonline.it il 5  maggio 2020. Chi è Carmine Crocco? Ce lo spiega il professore Tommaso Pedio, in «Come divenni brigante», di Carmine Crocco, Lacaita Editore (1964, Manduria Taranto). Nacque a Rionero in Volture, il 5 giugno 1830, pastore, soprannominato “Donatelli”, si arruolo nell’esercito borbonico, disertò nel 1852, costituì con Ninco Nanco una banda armata. Arrestato e condannato, ma ben presto evase dal carcere e nel 1860 aderì al movimento insurrezionale garibaldino, ben presto ritornò alla vita di fuorilegge, nel 1861, formando una banda armata, di soldati sbandati, disertori e malcontenti. Il libro dopo un’introduzione di Pedio, raccoglie l’autobiografia di Carmine Crocco. Nel 1903, quando fu annunziata la pubblicazione della autobiografia, molti dei superstiti di quei galantuomini che, direttamente o indirettamente, erano stati coinvolti nei fatti svoltisi in Basilicata tra il 1860 ed il 1864, erano abbastanza preoccupati. Temevano che il “sepoltovivo”, adesso poteva cominciare a fare i nomi di quelli che lo avevano incoraggiato, favorito, sorretto, sovvenzionato. Che cosa avrebbe scritto il generale brigante «nei confronti della classe dirigente lucana i cui maggiori esponenti, pur schieratesi con il movimento liberale, ad eccezione di pochi, sostanzialmente contribuito a favorire e ad alimentare il brigantaggio». Il vecchio pastore semianalfabeta di Rionero in Volture, che aveva terrorizzato un’intera regione portando ovunque terrore e la desolazione dell’assassino crudele e vendicativo, ora «magnanimo e generoso, non rivelò i nomi di coloro che, sin dall’ottobre del 1860, avevano promosso in Basilicata la resistenza armata contro il nuovo regime […]». La lettura dell’autobiografia di Crocco «non stanca, anzi appassiona, scrisse Basilide del Zio, contiene pagine splendide, episodi sorprendenti, considerazioni sociali e più di tutto ironia lenta, continua, caustica…pel caduto governo borbonico». Tuttavia la ricostruzione dei fatti porta pochi contributi per una vera storia del brigantaggio in Lucania, anche perché Crocco spesso mentisce in molti punti, ed esagerando in altri. Sostanzialmente Crocco resta un brigante, anche se comprese «l’enorme vantaggio che mi sarebbe venuto facendomi banditore d’una lotta reazionaria – scrive nelle Memorie – Seppi in breve accaparrarmi tutti coloro ai quali la rivoluzione era stata di danno, dai più sfegatati borbonici, ai mellifui liberali, dagli impiegati, che avevano perduto il lauto stipendio, ai preti e ai frati, resi furibondi dalla legge contro i possessi del clero». Pedio sintetizza egregiamente il pensiero di Crocco, nonostante l’apparente entusiasmo, il Crocco, sente di lottare per una causa perduta. «Promettevo a tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza di impadronirsi degli armenti affidati alla loro custodia […]». Alla fine sostanzialmente scrive Carmine Crocco, «a poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m’ingolfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria». In questa biografia Crocco, intende smentire quella leggenda che ne hanno fatto come di un essere bestiale e feroce per il quale era inconcepibile la pietà e il perdono. Non credo che ci sia riuscito. L’autobiografia è composta di otto capitoli, nell’appendice si possono leggere il Verbale di interrogatorio, reso da Crocco il 3 e 4 agosto 1872, preso dall’Archivio di Stato di Potenza.

Il I° capitolo descrive la sua infanzia a Rionero, il suo forte legame con la madre, disgraziatamente interrotto da quel tragico episodio del cane che venne ferito mortalmente da una randellata. Poi l’intervento del padrone del cane che infierì violentemente contro la povera donna che da quel momento rimase menomata fino a diventare pazza. Da questo momento la vita di Carmine cambia bruscamente, cresce in lui un odio forte nei confronti di tutti i ricchi, possidenti e cosiddetti galantuomini.

Nel II° capitolo, racconta il suo primo delitto, commesso contro il signorotto che aveva cercato di disonorare una sua sorella. Il III° capitolo comincia a raccontare la sua vita da brigante politico. Crocco riesce a descrivere i luoghi della sua vita di fuorilegge, i terreni eminentemente boschivo, le campagne, le montagne. Cominciano le sue azioni di assalti e di guerriglia, non sempre ricorda tutto precisamente.

Il IV° e il V° capitolo sono quelli dove racconta le sue intense battaglie contro l’esercito regolare sardo piemontese e soprattutto contro la Guardia Nazionale. Prima di ogni scontro il generale brigante abitualmente scrive al sindaco o chi per lui comanda il paese da conquistare. E’ interessante la descrizione dei suoi “briganti”, ci tiene a precisare che non tutti erano pastorelli. Il suo piccolo esercito aveva quadri completi, erano presenti: «un capitano, un luogotenente, un medico, sergenti maggiori, caporali tutti appartenenti al disciolto esercito borbonico. Avevo seicento soldati di tutti i corpi, cioè cacciatori, cavalleria, artiglieria, volteggiatori, zappatori […]». Anche se lui preferiva combattenti provenienti dal ceto contadino e non studenti.

Il V° capitolo affronta il suo rapporto con il generale spagnolo Josè Borjes, naturalmente dal suo punto di vista. «Quest’uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in conseguenza l’ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell’animo mio una forte antipatia poiché compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto». Ecco sostanzialmente qui ci sono tutte le motivazioni della sconfitta della reazione legittimista del Mezzogiorno d’Italia. «Era un povero illuso – scrive Crocco – venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un’armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincere me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione […]». Borjes nelle sue memorie è stato esplicito quando ha capito che difficilmente sarebbe riuscito a portare a termine la missione che gli ha affidato il generale Clary. Mi manca un mio esercito di 300 o 400 uomini, allora si che si poteva tentare di conquistare il Regno e consegnarlo a Francesco II. Comunque Crocco nelle sue risposte dell’interrogatorio racconta che il generale spagnolo doveva venire in suo aiuto con un suo corpo di truppe di sette od ottomila uomini. Una volta che Borjes ha lasciato il territorio lucano, Carmine Crocco continua la sua guerra banditesca con attacchi isolati contro gli agguerriti eserciti di Pallavicini. «Attacchi parziali n’ebbi a centinaia, non mi ricordo le date ed i luoghi con precisione, poiché in quei giorni non prendevo appunti […] espongo, perciò, senz’ordine cronologico,  quanto mi si affaccia alla memoria lasciando da parte il futile ed il superfluo». Negli ultimi capitoli Crocco descrive la sua fuga dai boschi lucani e poi la sua prigionia.

·        Re galantuomo o Re caporale?

Re galantuomo o Re caporale? Di certo Savoia sino al midollo. Si avvicina il genetliaco di Vittorio Emanuele II, primo monarca d'Italia. Riuscì a conciliare liberalismo e dinastia. Francesco Perfetti, Mercoledì 11/03/2020 su Il Giornale. Fu una felice invenzione di Massimo d'Azeglio la fortunata etichetta di «Re Galantuomo» che insieme a quella di «Padre della Patria» accompagnò il processo di «mitizzazione» della figura di Vittorio Emanuele II durante tutto il Risorgimento e diffuse l'idea di lui come di un Re garante delle libertà costituzionali e paladino del processo di unificazione nazionale. E, fra tutti i politici del suo tempo, D'Azeglio, chiamato alla presidenza del Consiglio dal nuovo Re subito dopo l'abdicazione di Carlo Alberto, fu, probabilmente, il più vicino a Vittorio Emanuele II. Non è un caso che questi, al di là e al di fuori di ogni rigida regola o etichetta di corte, lo trattasse con grande familiarità entrando senza preavviso nel suo studio e sedendosi informalmente sulla sua scrivania per discutere di politica, ma anche di altro. L'espressione «Re Galantuomo» venne coniata agli inizi del nuovo regno, quando, dopo la sconfitta di Novara e l'abdicazione del padre, il giovane Vittorio Emanuele si incontrò a Vignale con il generale austriaco Radetzky per discutere i termini dell'armistizio. Di quell'incontro non si hanno resoconti diretti perché i due si parlarono da soli, l'uno di fronte all'altro in uno spiazzo, mentre gli ufficiali e le persone al seguito osservavano la scena da lontano attenti a cogliere sui volti dei due espressioni rivelatrici dei loro sentimenti. Di ciò esiste traccia nell'iconografia coeva perché gli artisti, a seconda che fossero austriaci o piemontesi, rappresentarono la scena in modo da trasmettere sensazioni contrastanti. Quel che è certo è che il Re di Sardegna rifiutò di abolire lo Statuto concesso dal padre, il che sarebbe stato possibile con l'aiuto delle baionette austriache. Lo fece, probabilmente, soprattutto per realismo politico. Ma l'immagine del «Re Galantuomo», del sovrano che non si lascia convincere dalle lusinghe austriache di trasformare la sconfitta in una vittoria e che riesce a tener testa al feldmaresciallo dell'imperial-regio governo, divenne popolare. E tale immagine finì per indicare, nell'immaginario collettivo, una vera e propria identificazione in Vittorio Emanuele II del programma liberale e costituzionale con le pulsioni nazionali e unitarie. Vittorio Emanuele II era cresciuto, per così dire, nell'assolutismo ed era poco propenso agli studi umanistici, storici o filosofici. Sanguigno ed esuberante, amava la caccia allo stambecco così come le avventure galanti e la vita all'aria aperta. Disinibito nei rapporti sociali, era insofferente alle rigide regole dell'etichetta di Corte e, comprensibilmente, non nutriva simpatie per teorie e movimenti politici democratici o liberali che potessero mettere in discussione la pienezza dei poteri sovrani. Non a caso, ancora Massimo D'Azeglio, accennandone alle idee, parlò di un «malcerto liberalismo» del sovrano. La verità è che Vittorio Emanuele II fu un uomo sostanzialmente pragmatico e realista capace di conciliare le aspirazioni di unità e indipendenza dei patrioti, fossero anche liberali e democratici, con gli interessi della propria antichissima dinastia cui, malgrado il suo anticonformismo comportamentale, egli era legato da un sentimento di orgogliosa appartenenza. È sintomatico il fatto che, con l'andar del tempo, il processo di identificazione tra i Savoia e il processo risorgimentale andò sempre più rafforzandosi come conferma, per esempio, l'esortazione dalle carceri borboniche di un liberale moderato, il napoletano Carlo Poerio, a vedere «sempre e solo nel Piemonte la nostra stella polare». All'immagine iconica del «Re Galantuomo» se ne aggiunse un'altra, che contribuì a rafforzare la leggenda del «padre della patria», quella del Re ardimentoso che non si risparmiava in battaglia e che, malgrado le raccomandazioni e gli inviti alla prudenza, voleva essere vicino ai suoi soldati condividendone gli sforzi e le sofferenze. L'episodio più significativo si svolse all'epoca della seconda guerra di indipendenza, in occasione della battaglia di Palestro il 31 maggio 1859. Quel giorno Vittorio Emanuele II si gettò a capofitto nella mischia guidando all'assalto i bersaglieri piemontesi e gli zuavi francesi capovolgendo le sorti dello scontro. A notte inoltrata un ufficiale francese, accompagnato da una delegazione di zuavi, si presentò presso l'alloggio da campo di Vittorio Emanuele II offrendogli simbolicamente i galloni di caporale. E, a quanto si racconta, da allora in poi, ogni sera per tanti anni, il Terzo zuavi chiamava regolarmente all'appello «il caporale Vittorio Emanuele di Savoia» e il sergente anziano rispondeva: «assente perché Re d'Italia». Solo la sera del 9 gennaio 1878 il sottufficiale francese rispose commosso alla chiamata: «il caporale Vittorio Emanuele di Savoia è morto questa mattina». Non è da escludere, come ha ipotizzato qualche studioso, che l'agiografia abbia colorito l'episodio ma rimane il fatto che i galloni di caporale degli zuavi sono conservati nell'Armeria Reale di Torino. La seconda guerra di indipendenza era giunta al termine di quel «decennio di preparazione» che aveva visto, grazie all'azione del conte Camillo Benso di Cavour, prima, la partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea e l'internazionalizzazione della «questione italiana» e, poi, gli accordi di Plombiéres con Napoleone III. E questi accordi erano costati sacrifici di non poco conto come il matrimonio della figlia di Vittorio Emanuele II, la devota e giovanissima Clotilde, con l'attempato e libertino Gerolamo Napoleone, oltre alla promessa della cessione di Nizza e della Savoia. La guerra con l'Austria si concluse, lasciando l'amaro in bocca, con l'armistizio di Villafranca, voluto dall'imperatore dei francesi, preoccupato dal paventato intervento delle armate prussiane ma ancor più dalla prospettiva di un eccessivo ingrandimento del Piemonte. In questi anni il pragmatismo di Vittorio Emanuele II si era incontrato, ma anche scontrato, con il pragmatismo del conte di Cavour. I due uomini erano profondamente diversi se non per altro per la diversa concezione che essi avevano del ruolo dei ministri e dello stesso Parlamento, ma in comune avevano, entrambi, l'idea della necessità della guerra all'Austria. E, malgrado le differenze fra i due, il «decennio di preparazione» aveva gettato le basi per portare avanti il processo risorgimentale. Anche di fronte alla spedizione dei Mille le posizioni dei due erano state inizialmente diverse con un Vittorio Emanuele II da subito favorevole all'impresa forse affascinato dalle personalità guerriera di Giuseppe Garibaldi, il quale, messe da parte le suggestioni mazziniane e repubblicane, avrebbe inalberato l'insegna «Italia e Vittorio Emanuele» a avrebbe, poi, riconosciuto che il Re era stato «il perno» attorno al quale lui e i suoi si erano raggruppati e avevano fatto quel che avevano fatto. Il maggior contributo al Risorgimento, però, Vittorio Emanuele II lo dette non solo e non tanto con il suo pragmatismo ma anche, e soprattutto, con la sua azione in politica estera. Qui egli e lo hanno riconosciuto storici del calibro di Gioacchino Volpe e di Federico Chabod ebbe la capacità, affiancando e talora sovrapponendo la sua diplomazia personale alla diplomazia di governo, di rassicurare le Corti europee sull'esito non destabilizzante, a livello di equilibri internazionali, del Risorgimento italiano. Sotto questo profilo, almeno, egli fu davvero il «padre della Patria».

·        Anche le donne a capo del casato.

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 17 dicembre 2020. «Il cancello». Vent' anni dopo quel primo giorno da militare è ancora quella l'immagine che torna negli occhi di Carla Brocolini: il momento in cui, da volontaria in ferma breve del primo corso di donne soldato, ha varcato l'ingresso della caserma. «Un'emozione fortissima, che ancora sento sulla pelle», confessa, mentre disegna un circoletto rosso sulla foto che la ritrae con quel plotone. Ragazze che nel 2000, alla caserma Emidio Clementi di Ascoli Piceno, marciarono sopra un tabù: le caserme non erano più un posto per soli uomini. Come le era venuto in mente? Una sfida? Un gioco? «Mi aveva affascinato mio fratello, allora 16enne, che frequentava la Nunziatella. Mi parlava di valori, ideali, sacrificio, spirito di corpo, cameratismo. Io ne avevo 18, volli provare e mi ritrovai a vivere un'esperienza difficile, che mi avrebbe messo alla prova sia dal punto di vista fisico che mentale, ma assolutamente positiva, come mi aveva detto mio fratello. Tanto che riconfermai la scelta, entrai in Accademia e diventai ufficiale», racconta Carla, ancora vibrante per la passione di un mondo, dice, che «mi ha insegnato disciplina, sacrificio, sudore, ma anche la soddisfazione di raggiungere i risultati sperati». Quella scelta le avrebbe cambiato la vita. Ora è ufficiale pilota militare dell'Aviazione dell'esercito, sposata con un militare, «elicotterista e facciamo sempre a gara a dire chi è il vero pilota», con un bambino di due anni e mezzo. Ma non fu una scelta indolore. Il padre non gradì. «Quando arrivò la cartolina sfiorò l'infarto. Era in polizia, ma avrebbe preferito facessi altro. E anch' io pensavo di fare l'avvocato. Ma, soprattutto, ero all'ultimo anno di liceo classico. Non voleva che lasciassi la scuola. Litigammo, poi raggiungemmo un compromesso: mi permisero di partire a patto che mi fossi diplomata a luglio da privatista». Promettere fu un attimo. Mantenere «una delle cose più difficili della mia vita. Perché mio padre aveva la costanza di darmi ogni giorno i compiti da fare. Ma dopo le sette di sera, dopo aver fatto ginnastica, marcia, topografia, esercitazioni, ero distrutta», ricorda. «Però feci uno sprint finale e sono contenta di aver tenuto fede a quella promessa. Anzi, due anni fa sono anche riuscita a laurearmi in Giurisprudenza». Per lei e la sua compagnia ci furono flash, telecamere, e domandine maliziose su come venivano trattate in caserma. «Anch' io avevo un'idea di un mondo maschilista, dovuta ai filmetti anni Settanta. Ma ho trovato un ambiente di professionisti, dove al centro della formazione e dell'addestramento c'era il militare. Non una donna o un uomo». Nulla venne risparmiato alle allieve nel Rav: circuiti alla Platoon, salti, muretti da scavalcare, armi, lezioni. I primi tre mesi di addestramento, comunque, furono solo femminili. E da quelle ragazze del plotone Carla non si separò mai più. «Sono le mie amiche più strette. Due sono state le mie testimoni di nozze. È un legame difficile da spiegare. Al Rav ho compreso il profondo significato e la forza della parola insieme. E ancora oggi abbiamo una chat dove ci scambiamo foto e ricordi». Ancora ridono per quello più buffo: «Ad Ascoli Piceno faceva freddo e pioveva, alla continuativa, il percorso più pesante, non vedevamo l'ora di fermarci a mangiare la razione K. Ed eravamo così stanche che una ragazza scambiò la diavolina con una zolletta di zucchero e la addentò».

Ottavio Fabbri per Libero Quotidiano il 2 luglio 2020. 1991. Il mio amico Serge di Yugoslavia, già mio aiuto regista in Viaggio d'Amore, mi dice che ha convinto sua nonna Maria Jose' a fare una intervista sulla sua vita. La Rai è interessata e la nonna è già pronta nella sua villa vicino a Ginevra dove abita da tanti anni. La regina ci riceve in una sobria e un po' maliziosa eleganza: è nel suo carattere mi bisbiglia Serge, sottolineata da uno sgargiante foulard tenuto in fronte alla moda hippy. Mi è subito molto simpatica e riconosco in lei, più che ottantenne, tutte quelle leggende o verità di una donna eccezionale che ha tenuto la testa alta in difficili momenti della Storia. Mentre la piccola troupe prepara macchinari e luci per l'intervista e Maria Jose' si è già accomodata sul suo divano preferito, appare in fondo alla sala uno smilzo ragazzo dall'aria timida e gentile. «Ciao Carletto ... scusa stiamo facendo una intervista importante a mia nonna». «Figurati Serge ... intanto mi faccio una canna in cucina». «Eh no ... vai in giardino o ci vediamo un'altra volta». Tutto è pronto per l'intervista in cui la nonna racconta tanti episodi più o meno noti della sua straordinaria esistenza. Mi colpisce uno in particolare. «Un giorno mi chiama Einstein. Buongiorno professore...». «Madame, sono a Ginevra, posso venire a renderle omaggio?». «Ma certamente professore ...». «Porto anche il violino!». «Allora non venga professore». La sua famosa schiettezza contrasta con le sue maniere di straordinario garbo. Chiede scusandosi se qualcuno della troupe ha una Marlboro rossa, le viene subito offerta dall'elettricista che poi vorrà un autografo per i parenti a Viterbo ancora monarchici. La nonna fuma con sguardi persi nella memoria, poi allunga il collo. «Serge ...viene uno strano odore da quella parte, forse nelle cucine». «Nonna, non so ... sarà l'arrosto che brucia», e mi guarda ridendo. «No. No, vai a vedere». intervista storica Senza scampo Serge si dirige verso l'origine dello strano odore e spunta Carletto con un lungo spinello in mano. «Vai via!!!». «Serge,non mi presenti il tuo amico?». Che tabacco fuma? L'odore è buono...mi faccia sentire». Carletto intimidito allunga lo spinello alla regina che lo aspira incuriosita mentre con la mano sinistra tiene la sua Marlboro. «Nonna basta, adesso passami quello che stai fumando, magari ti fa male», e lei con nonchalance veramente regale gli allunga la Marlboro e si tiene lo spinello. Intervista conclusa. «Adesso non so perché ma mi viene tanto da ridere, grazie a tutti e vado a fare un riposino». Ciao nonna... grazie a te». Carletto è già fuggito. Serge felice.

La svolta dei Savoia dopo mille anni «Anche le donne a capo del casato». Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Casa Savoia apre alle donne. Dopo mille anni di storia, la svolta. Vittorio Emanuele e il figlio Emanuele Filiberto anticipano al Corriere la decisione. «Addio legge Salica. Oggi sarà comunicato per scritto alle sorelle dopo una telefonata in serata, alla Consulta dei senatori del regno e agli Ordini dinastici, un cambio delle regole di successione che era tempo di aggiornare». Dunque, dopo Emanuele Filiberto, la prima in linea di successione ora è sua figlia, Vittoria, 16 anni. Il principe ha due figlie, qualcuno dirà che la decisione l’avvantaggia. «In realtà Clotilde ed io potremmo ancora avere un maschio... — replica lui —. E di certo era anacronistico, in una società che vuole riconoscere la parità di genere, pensare che in Casa Savoia si discriminassero le donne». Può suonare anacronistico anche parlare di successione al trono, in una Repubblica, ma i Savoia ci sono ancora e vogliono innovarsi. Vittorio Emanuele, figlio di Umberto II, il «re di maggio» che lasciò l’Italia dopo il referendum Monarchia-Repubblica, spiega che «la decisione è stata meditata e non è frutto di particolari circostanze o urgenze, la società va verso la parità tra i sessi e la stragrande maggioranza delle case reali sono andate in questa direzione». E cosa avrebbe detto nonna Maria Josè, donna di grande intelligenza e autonomia? «A guerra finita si ipotizzò una reggenza in suo favore mentre mio padre era bambino, e lei avrebbe avuto quell’intuito e sensibilità che solo le donne hanno — dice Filiberto —. E poi quante donne forti nel Novecento, da Elisabetta II a Madre Teresa». Chissà se a sua figlia Vittoria piace l’idea del nuovo ruolo nel casato, che invece sta scomodo alla duchessa di Sussex... «La prima cosa che mi ha chiesto è stata “papà, dovrò studiare di più?” Le ho detto che l’aiuterò. Anche se sogna l’arte, la moda, mentre la piccola Luisa vuole fare la Nunziatella, l’Accademia militare: ha una passione per Esercito, Polizia, Nuclei speciali». Ma è realistico immaginare Vittoria con la corona? «Mai dire mai — risponde il principe — e intanto si tratta di guidare verso il futuro un casato con mille anni di storia, gli ordini dinastici, le charities. Poi ci sono i rapporti con gli altri casati: mio padre comunicherà la svolta a case reali regnanti, e non. Il rapporto è stretto con re Felipe di Spagna, l’erede Leonor e Sofia sono quasi coetanee di Vittoria e Luisa, e poi con Belgio, Svezia, Norvegia, Alberto di Monaco e i Windsor. Triste vedere ora qualcuno che vuole allontanarsi dalla famiglia Windsor: reale o no, una famiglia». Per la verità tra Savoia non sono mancate tensioni. «Troppi veleni e io sono sempre stato un pacificatore — dice Filiberto —. Ma noi cugini della nuova generazione andiamo d’accordo e papà ha passato il Natale con Maria Gabriella. Anche se sulla sepoltura dei Savoia la mia idea resta che Vicoforte è una soluzione transitoria: ho scritto al premier Conte per chiedere di portare le salme di re Umberto II e Maria José, i miei nonni, al Pantheon. Ma ora penso a Vittoria, alla sua prima uscita pubblica il 14 marzo ad Altacomba. E per lei la priorità deve restare lo studio. Meno male che c’è Clotilde che è severa nel gestire orari delle uscite con gli amici,e tempo con il telefonino!». Lui capì di essere l’erede da piccolo. «Avevo 5-6 anni, vennero a Ginevra dei monarchici e quando presero il pulmino per tornare in Italia dissi “salgo anch’io”. Mi dissero che no, io non potevo andare in Italia». Il padre Vittorio Emanuele ricorda invece «c’era la guerra, ero in Svizzera con mamma, Hitler aveva un piano per rapirmi. Sentivamo le notizie dalla radio... infine l’esilio durato 57 anni».

Vittoria di Savoia, chi è la sedicenne erede del casato dei re d’Italia. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Vittoria di Savoia, da oggi erede del casato dei re d’Italia dopo il padre Emanuele Filiberto, nata il 28 dicembre del 2003 a Ginevra, ha conosciuto presto l’Italia dalla quale papà Filiberto, nonno Vittorio e il bisnonno Umberto II sono invece rimasti lontani per anni. Per l’esilio che dal referendum Monarchia-Repubblica del giugno 1946 impedì loro di rientrare in patria per 57 anni (qui la storia della dinastia). Vittoria è stata infatti battezzata nella basilica di Assisi il 30 maggio 2004, per amore dei Savoia per l’Italia e perché Vittoria ha per secondo nome anche quello di Chiara, il nome della Santa che ad Assisi è celebrata. Cresciuta tra Ginevra, Montecarlo, Francia e Italia, studia a Parigi. È la primogenita di Emanuele Filiberto e Clotilde Courau che si sposarono a Roma nella Basilica di Santa Maria degli Angeli nel settembre del 2003, con il principe Alberto II di Monaco testimone di nozze della coppia. La tredicesima disposizione transitoria finale che per quasi sessant’anni aveva tenuto lontano dai confini italiani ormai era stata abrogata ed Emanuele Filiberto, nipote dell’ultimo sovrano d’Italia, il «re di maggio» Umberto che aveva lasciato l’Italia su un Savoia Marchetti «per non far spargere sangue sull’Italia» come dirà, poté quindi dire sì nella Capitale dove aveva vissuto bambino, papà Vittorio Emanuele nella Manica lunga del palazzo del Quirinale. Vittoria che come ha detto al Corriere il padre Filiberto «ha subito chiesto che cosa comporterà il nuovo ruolo di erede del casato, se dovrà studiare di più?» ha una sorella minore, Luisa (secondi nomi Giovanna Bianca Agata Gavina Maria) nata il 16 agosto del 2006. E se con la nuova disposizione ora emanata dal Capo di Casa Savoia, Vittorio Emanuele, la primogenita Vittoria diventa erede della storia millenaria del casato, prende anche nuovi titoli. «Come tratto di speciale benevolenza confermiamo alla nostra diletta nipote Vittoria Cristina Chiara Adelaide Maria il trattamento di Altezza Reale, la qualità di Principessa Reale e le conferiamo il titolo di principessa di Carignano seguito dal titolo di marchesa d’Ivrea», ha infatti disposto Vittorio Emanuele. Nominandola anche Dama di Gran Croce, decorata del Gran Cordone, dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Mentre la sorella minore è principessa di Chieri e contessa di Salemi. Perché questi titoli? «In particolare, Carignano, Ivrea e Chieri richiamano territori da sempre sabaudi, nel cuore dell’antico Piemonte — ha spiegato al Corriere il nonno Vittorio Emanuele —. Il titolo relativo alla contea di Salemi, creato da re Umberto I nel 1889, estinto e successivamente tornato alla corona, richiama invece una splendida città del Mezzogiorno d’Italia, omaggio alla bellissima terra siciliana che mi è particolarmente cara».

Vittorio Emanuele: «Vittoria di Savoia? Sui social è già regina, ma per me lei e la sorella sono uguali». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. «Viva la regina, brava. Mia figlia Vittoria credo sia rimasta lei per prima sorpresa, guardando il suo account Instagram dove ha ricevuto tanti messaggi che la incoraggiano ad affrontare la sua nuova vita, o meglio il suo nuovo ruolo di capofila di Casa Savoia. È un po’ impaurita dalla responsabilità, dalla novità, ma direi felice delle reazioni. Dei messaggi da ragazzi giovani, come lei», racconta al Corriere il papà Emanuele Filiberto, mentre l’Italia si appassiona alla saga del casato che — come annunciato in anteprima da Filiberto con Vittorio Emanuele — ha deciso di aprire alle donne la guida del casato. Sui social c’è chi la chiama Altezza Reale e dice «sarete sempre Regina dei cuori di tutti coloro che credono nella libertà e che sono disposti a dare la loro vita per il loro paese e per la loro unica sovrana: Vittoria Di Savoia» (Monarchicoliberale). Su Instagram la sedicenne Savoia si firma con la bandiera tricolore italiana. Nessuno stemma sabaudo, solo il tricolore. «Perché sempre quegli occhi tristi? Facci sentire orgogliosi della dinastia Savoia, forse politicamente non sarai mai chiamata a guidare il nostro Paese, ma rimarrai sempre Regina nei nostri cuori, e non siamo in pochi» (Roberto tr59). Molti i complimenti sulla bellezza. Qualcuno chiede: «Ma parli anche l’italiano?».

Ad appassionare gli italiani, per la verità, non c’è solo l’apertura alle donne, ma pure le liti. Se le aspettava, così tante e velenose, principe?

«Mah un po’ me le aspettavo e perlopiù sono legate alle vecchie generazioni».

In che senso?

«Tra cugini, con Aimone, si ragiona, so che è una persona di buon senso e gli apro le braccia. Dobbiamo avere tutti un unico obiettivo: lavorare per traghettare nel futuro la storia del nostro casato... poi la storia non si cambia e il nostro è il ramo principale. Ma gli dico: lascia perdere l’antica polemica tra i nostri genitori, di tuo padre Amedeo d’Aosta con mio padre Vittorio Emanuele, e pensiamo al futuro. Noi, nuove generazioni Savoia dobbiamo andare oltre le divisioni. Possiamo lavorare bene assieme, spero lo faremo. In fondo è quel che già sta funzionando con i figli delle sorelle di mio padre, Serge, Dimitri, Elena...anche la figlia di Maria Gabriella».

Principe, andrà domani a Roma al Pantheon al raduno delle Guardie d’Onore?

«Certo sarò lì alle 9 per onorare i re d’Italia. E al Pantheon spero presto possano arrivare anche gli ultimi re , il nonno Umberto II e la nonna Maria José. E poi...decaduta la XIII disposizione transitoria finale non c’è ormai più alcun divieto a riportare in patria i morti». Pensa già nel 2020? «Per Umberto II e Maria José spero che questo sia un anno decisivo, sì. Anche con il Vaticano abbiamo già affrontato questo tema portato all’attenzione anche del premier Conte. E a proposito del Vaticano, ricordo quando con Vittoria abbiamo incontrato il Papa, a Torino in occasione dell’ostensione della Sindone anni fa — continua Filiberto —. Vittoria e la sorella più piccola Luisa erano emozionatissime, come se dovessero incontrare il loro personaggio di cartoni animati preferito...erano piccole e sono rimaste molto impressionate dal Santo Padre».

Due sorelle, due destini. Però solo una erediterà il casato.

 «Sono due sorelle e da loro mi attendo infatti un bel gioco di squadra, l’ho visto in questi giorni in cui hanno capito il crescere dell’attenzione attorno a loro — dice al Corriere Filiberto —. Con la piccola a incoraggiare la più grande. E poi per me saranno sempre sullo stesso piano. Casa Savoia passa alla maggiore ma lavoreranno assieme per portare il casato nel futuro».

Suo padre, contesta la Consulta dei senatori, non può cambiare le regole con un motu proprio.

«E perché mai? Umberto II non ha mai detto di voler cambiare, intendo il ramo di discendenza, dunque sono io con Vittoria il legittimo discendente dell’ultimo re... e poi dicono che servirebbe una pronuncia del parlamento di una monarchia costituzionale? Ma se non c’è una monarchia oggi, il casato ora è continuato da papà che in quanto capo della Real Casa può intervenire con una norma di sua iniziativa». Intanto domani al Pantheon si vedrà la reazione dei monarchici. Oltre a quella delle Consulte.

Donne e Savoia, monarchici divisi. I Duchi d’Aosta: «La legge Salica non si tocca». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Le reazioni dopo l’apertura alla successione femminile al trono. I Borbone d’accordo: «Escluderle una discriminazione». «Legge Salica? Anch’io come casa Savoia l’ho abolita perché per il diritto internazionale ed europeo tenere fuori dalla successione al trono le donne è una discriminazione... impugnabile», dice al Corriere Carlo di Borbone delle Due Sicilie, capo della real casa che guidò il regno di Napoli. «Anzi, proprio Vittorio Emanuele e suo figlio Emanuele Filiberto di Savoia mi hanno chiesto un parere mesi fa su questa questione, sui tempi e le modalità: io l’ho fatto il 12 maggio del 2016 in occasione della cresima di mia figlia Maria Carolina, ho aspettato che lei ne avesse la consapevolezza e l’ho fatto con un documento, l’Atto di Roma, che cita il Trattato di Lisbona del 2007, la Convenzione di New York delle Nazioni Unite nel 1979 e il trattato dell’Unione Europea modificato nel 2009». Così, come indica l’Atto di Roma, Carlo di Borbone modificò «le regole di successione sinora in vigore nella Real casa di Borbone delle Due Sicilie, allo scopo di renderle compatibili con l’ordinamento internazionale ed europeo vigente che proscrive qualsivoglia forma di discriminazione tra uomo e donna, non solo nel godimento dei diritti e delle libertà, ma anche nell’esercizio di qualsiasi funzione pubblica. D’ora in poi sarà applicata alla sua diretta discendenza la regola della primogenitura assoluta». E non ha mai pensato che potesse suonare anacronistico modificare la legge di successione a un trono che non c’è? «Non solo non c’è ma per farlo tornare bisognerebbe dividere nuovamente il Paese in due — fa notare il principe che è zio di Felipe di Spagna, nel suo albero genealogico ci sono anche i re di Francia e mezzo Gotha europeo —. Lo so che sembra incredibile nel 2020 parlare di Ordini dinastici, di fondazioni legate alla storia del casato, ma si tratta di storia, storia che mia figlia ora deve proseguire. E lei, che come tanti ragazzi giovani ha un’attrazione per l’arte, le professioni creative, si è resa conto dell’importanza storica del suo ruolo per il futuro». L’erede del casato dei Borbone delle Due Sicilie studia a Parigi, privatamente, per conseguire un Baccalaureat internazionale. E come ha detto al Corriere la mamma Camilla (che ha sposato nel 1998 Carlo, il fidanzamento fu annunciato a Palazzo Reale), Maria Carolina e la sorella Maria Chiara «frequentano corsi di napoletano quando siamo a Napoli, perché torniamo spesso a Napoli dove è comunque rimasta una certa simpatia verso il casato: la città sotto i Borbone prima del 1860 era la terza grande capitale d’Europa, dopo Londra e Parigi». Dopo la decisione del principe Vittorio Emanuele di Savoia, i monarchici della Consulta dei senatori del regno e quelli più vicini al ramo Savoia-Aosta hanno risposto che «no la legge Salica non si può cambiare». «Mah qualunque decisione si prenda ci saranno sempre delle voci contro, io quando scelsi così lo feci dopo essermi consultato con la famiglia allargata e non ho trovato obiezioni. E ripeto, da un punto di vista giuridico c’è un diritto internazionale ed europeo che va nella direzione della parità di possibilità per le donne». Ma è già lite sotto le insegne di casa Savoia. Questa volta non tra i figli dell’ultimo re, per la verità, ma tra i vari rami del casato che da Umberto Biancamano arriva fino ad oggi. A contestare la decisione di Vittorio Emanuele di mandare in pensione la legge Salica che da sempre blocca la strada al trono alle donne nel casato — mossa anticipa al Corriere ieri da una doppia intervista con Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto di Savoia — è adesso la Consulta dei senatori del regno con il principe Aimone di Savoia, duca delle Puglie, e la duchessa Silvia di Aosta, consorte del principe Amedeo di Savoia, duca di Aosta. «Fino alla restaurazione della monarchia costituzionale, la legge Salica è immodificabile». E dunque, sostengono i monarchici vicini agli Aosta, non essendoci un trono «operativo», il trono resta ereditario secondo la legge salica che esclude la discendenza femminile. Per giustificare la posizione, il presidente della Consulta Aldo A. Mola, cita una lettera del 25 gennaio 1960 di Umberto II da Cascais sulla immutabilità e inviolabilità «della legge della nostra Casa, vigente da ben 29 generazioni». Per la Consulta dei senatori la parola di Umberto II resta l’unica valida. Già, ma quale Consulta considerare? Perché l’uscita allo scoperto della Consulta guidata da Mola ha sollevato la reazione dell’altra Consulta dei senatori del regno guidata da Pier Luigi Duvina (le due entità da anni si contendono il ruolo): «Vittorio Emanuele ha adattato le leggi dinastiche alla normativa europea». Intanto Vittorio Emanuele, figlio del «re di maggio» da Ginevra sta in queste ore comunicando a tutte le altre case reali regnanti, e non, la svolta: «Da oggi e poi in futuro, la successione nella qualifica di capo della nostra real casa e Gran maestro dei nostri Ordini dinastici, sarà riservata alla nostra discendenza di ambo i sessi, in infinito, secondo il criterio della primogenitura assoluta». Dietro allo scontro c’è l’antica contrapposizione tra ramo Savoia Carignano (quello dei re d’Italia) e ramo Savoia Aosta. Una rivalità antica che ebbe nella contrapposizione di stili e di vita di due donne, entrambe di nome Elena, la sua espressione più immediata. Elena di Montenegro moglie di Vittorio Emanuele III re d’Italia, ed Elena d’Orleans, della quale cantò in versi il Vate d’Annunzio, che sposò a Londra Emanuele Filiberto di Savoia Aosta. Da Elena d’Orleans discende anche l’attuale principe Aimone di Savoia Aosta, che ha due figli maschi. «Eppure la legge che adesso abroga la legge Salica in casa Savoia non è stata varata per questo — ribatte Emanuele Filiberto —. Non è proprio così, a parte che mio padre aveva in mente questo aggiornamento già tre anni fa ma sono io che ho rallentato perché volevo che Vittoria raggiungesse i 16 anni e capisse che cosa stava succedendo, ma un conto sono i rami cadetti un altro il ramo principale, così è la storia. A volte ci sentiamo con Aimone... suo figlio primogenito sarà l’erede legittimo del ramo dei Savoia Aosta. Ma i Savoia Carignano, il ramo principale, continuano con Vittoria». Aimone di Savoia, manager per Pirelli a Mosca, intervistato dal Corriere della Sera a proposito delle infinite divisioni tra cugini aveva detto di «guardare al futuro, ai piccoli Umberto, Amedeo e Isabella... e con Emanuele Filiberto, dopo una causa che ci ha divisi per anni, potremmo riavvicinarci». Già, ma adesso, ancora una volta è Savoia contro Savoia.

Guerra tra i monarchici: "Emanuele Filiberto non può passare la corona a sua figlia Vittoria". I Senatori del Regno contrari all'apertura del Savoia che ha annunciato di abbandonare la legge salica scritta mille e cinquecento anni fa. Paola Griseri il 15 gennaio 2020 su La Repubblica. I Senatori del Regno non ci stanno. E scoppia la guerra tra i Savoia. Il primo ad attaccare è stato Emanuele Filiberto che ha annunciato oggi al Corriere della Sera l’intenzione di dire “addio alla legge salica”. Così le donne potranno diventare regine ereditando il potere dai maschi e violando la regola scritta ai tempi di Clodoveo (scritta, forse, intorno al 495 dopo Cristo), che in casa Savoia stabilisce l’ereditarietà solo per via maschile. “Legge di altri tempi ormai superata, provvedimento anacronistico”, dichiara Emanuele Filiberto annunciando che, di conseguenza, la figlia Vittoria, 16 anni, sarà la sua erede designata. Terremoto che non poteva rimanere senza conseguenze dopo un millennio di strettissima osservanza salica da parte dei Savoia. E infatti poche ore fa la Consulta dei Senatori del Regno ha detto no ricordando che “solo nell’esercizio effettivo dei loro poteri e nell’ambito di una nuova Costituzione la Corona e le legittime Rappresentanze degli italiani potrebbero procedere a eventuali modifiche dello Statuto”. Il riferimento è allo Statuto Albertino del 1848  che confermava la legge salica. Un principio, ricordano i Senatori del Regno, confermato nel 1960 da Umberto II nel suo esilio di Cascais, in Portogallo: “Tale legge (la Legge salica ndr) io, 44esimo capo famiglia, non intendo e non ho diritto di mutare”. Dibattito appassionante quanto, ovviamente, del tutto inutile. Fino a quando l’Italia sarà una Repubblica.

Dagospia il 16 gennaio 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. A un certo punto si parlava di Sanremo a La Zanzara su Radio 24 con il principe Emanuele Filiberto di Savoia. Perché non va lei a Sanremo, Principe, al posto di Rula Jebreal?: “Perché costo troppo”. Ma lei dovrebbe andarci gratis, per la patria: “No, Sanremo non è la patria. Vado a San Patrignano ad aiutare per la patria, ma non a Sanremo. Sono due santi diversi. Io ho già fatto il mio Sanremo. E l’ho stravinto”. Avevate vinto tu e Pupo e vi hanno fregato, diciamola tutta: “Ma questo lo sappiamo dai, era scritto a tavolino, ci siamo divertiti, abbiamo fatto divertire il pubblico. C’è stato un piccolo trucco finale che è il famoso trucco della linea chiusa, no?”. Dunque ti hanno fregato come nel referendum sulla monarchia. Anche la monarchia fu fottuta, no? : “Beh, questo si sa. Sicuro. Parenzo obietta? Ma sei un cocciuto della Madonna, Parenzo. Incontrai Andreotti e mi disse la stessa cosa”. Ma il tuo cuore è ancora monarchico?: “I valori sono monarchici, il cuore è monarchico, però voglio dire guardo l’attuale Repubblica Italiana e mi sento bene lì dentro. Però quello che sono, lo sono. Io ho un nonno che ha sofferto nel ’46 lasciando l’Italia, ho un trisavolo che ha unificato questo bellissimo paese, non può essere altro che monarchico il mio cuore”. In questo casino italiano la monarchia sarebbe un elemento di stabilità?: “Io ho sempre detto una cosa. Poi non voglio parlare dell’Italia perché poi entriamo nelle polemiche e non finiamo più. Quando guardo fuori dalla finestra e guardo altri paesi che hanno la monarchia, oggi la monarchia è simbolo di stabilità. Un simbolo malgrado da dove tu provenga, destra, sinistra, alto o basso, come vuoi, sei sempre attaccato ad una persona, ad una famiglia che è apolitica”. Interviene Parenzo e dice: “Ma se in Italia la monarchia non è rispettata ci sarà un motivo o no?”: “Parenzo, che cazzo stai dicendo? O la storia la impari oppure passiamo ad altre cose. In Italia c’è stata una Repubblica che ha riscritto la storia dopo un po’, no?”. Ancora Parenzo: “Forse perché c’era ‘sciaboletta’ che è scappato nottetempo?: “Amore mio, non sto dicendo adesso niente su nessuno, ma non dimenticare una cosa. Che l’Italia all’epoca non era una monarchia assoluta. Era una monarchia costituzionale. E allora le merde di legge che avete avuto, le ignobili leggi razziali che avete avuto, che ha avuto l’Italia, son ostate votate non dal re, dal parlamento. Ma erano controfirmate dal re? Era obbligato a controfirmare le leggi. Ci sono ancora molte persone in Italia che guardano positivamente alla monarchia”. Oggi chi voteresti in Emilia Romagna, la Borgonzoni o Bonaccini?: “Io sempre le donne. E’ anche una bella figliola? Lo so, lo so, non è male. Ma poi è anche una persona intelligente e preparata. Io parlo solo per Emanuele Filiberto, a titolo personale”. Mettiamo che il Re potesse avere un potere assoluto, come ai vecchi tempi. Lei legalizzerebbe la prostituzione, riaprirebbe i bordelli?: “Sì. Io preferirei vedere una prostituzione controllata e chiusa, perché per la strada ci sono delle cose ignobili, malattie e tossicodipendenti”. E le droghe leggere?: “Questo no. No, no. Su questo non sono d’accordo. Per me non esiste droga leggera o droga dura. Le droghe sono droghe. E si sa che una porta all’altra. Ho molti amici che sono passati dall’uno all’altro”. E della vicenda dei reali inglesi che pensa?: “E’ sempre triste una famiglia che si rompe o si divide. Ma hanno fatto bene, anche se l’hanno fatto in un modo brutto”.

Aimone d’Aosta: «Per ora non alimento la polemica». Intanto è guerra di carte tra i Savoia. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Dopo la svolta che ha aperto alla successione femminile al trono, il principe risponde: «La monarchia non tornerà in Italia». Aimone di Savoia — Juan Carlos il suo padrino di battesimo con re Costantino II di Grecia — è un uomo riservato. E preferisce tirarsene fuori, per ora, dall’ultimo scontro in Casa Savoia. «Preferirei non alimentare ulteriormente la polemica — risponde al Corriere da Mosca dove da anni è impegnato per Pirelli — in quanto la dichiarazione fatta dalla Consulta copre già la posizione che avrei assunto e che avrei potuto esprimere direttamente se fossi stato consultato in simultanea con mio cugino. Continuare la polemica, a questo punto, non serve». Principe manager, che parla il russo. «Sono rientrato due volte in Italia per brevi periodi ma il mio destino evidentemente era a Mosca, una realtà che in 25 anni ho conosciuto bene. Continuo a studiare il russo, adesso mi dedico a Dostoevskij perché un Paese si capisce a fondo studiandone la cultura». È lui il Savoia che parte dei monarchici vorrebbe a capo del casato. «Realisticamente? Non credo che la monarchia tornerà mai in Italia e non ho avuto alcuna esitazione a giurare fedeltà alla repubblica quando, dopo il Morosini a Venezia e i corsi dell’Accademia navale, sono salito a bordo della fregata Maestrale...», ha detto al Corriere. «Quanto al rientro delle salme Savoia è la cosa giusta: ricordo che 15 anni fa mio padre si interessò per far rientrare anche la salma del duca degli Abruzzi sepolto in Somalia, oggi la sua tomba è stata profanata e distrutta. Dunque era giusto, specie considerata l’instabilità dell’area del Nord Africa, rimpatriare la salme di re Vittorio Emanuele III da Alessandria d’Egitto e quella della regina Elena. E dovrebbero andare al Pantheon, dove riposano i re d’Italia». Sposato con Olga, secondogenita di Michele di Grecia, che conobbe «a un ricevimento reale, al matrimonio dell’Infanta Elena, figlia di re Juan Carlos. Ci siamo sposati nel 2008», racconta. Aimone è vegetariano: «ai fornelli mi metto sempre io: preparo la pasta e anche il ragù per i bambini con i quali parliamo italiano, francese, russo, inglese». Umberto, il primogenito (10 anni) dice di amare scherma ed equitazione e porta il nome dell’ultimo re Umberto II, mentre Amedeo, nato nel 2011 (poi c’è la piccola Isabella), alla storia e alla scherma dice di preferire il calcio e l’hockey. E confessa: «Da grande vorrei fare l’esploratore o lo scienziato». Sulle orme del prozio Luigi Amedeo duca degli Abruzzi. Papà Aimone, intanto, insegna loro la storia di casa Savoia: «non che sono principi, ma la storia di famiglia sì. Poi dovranno trovare anche loro un mestiere, non abbiamo le risorse per vivere senza lavorare, ma anche se le avessimo non credo che un principe possa rinunciare oggi a un lavoro». Amedeo (ramo Savoia Aosta), padre di due maschi e una femmina, ed Emanuele Filiberto (ramo Savoia Carignano), padre di due femmine (Vittoria e Luisa) «a volte si sentono», come racconta il cugino Emanuele Filiberto, precisando «come il figlio primogenito di Aimone sarà l’erede legittimo del ramo dei Savoia Aosta. Ma i Savoia Carignano, il ramo principale, continuano con Vittoria. Un conto sono i rami cadetti, un altro il ramo principale, così è la storia». Sul «pensionamento» della Legge Salica i monarchici intanto si sfidano a colpi di lettere, dopo la doppia intervista al Corriere di Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto. Dalla tenuta di Castiglion Fibocchi dove vive Amedeo d’Aosta il messaggio è perentorio: «La titolarità della Real casa di Savoia spetta al principe Amedeo duca di Savoia e d’Aosta, e ai suoi successori dinastici». E la Consulta dei senatori del regno vicina ad Aimone di Savoia, Silvia e il principe Amedeo di Savoia, duca di Aosta dice che «fino alla restaurazione della monarchia costituzionale, la legge Salica è immodificabile». E dunque, sostengono i monarchici vicini agli Aosta, non essendoci un trono «operativo», il trono resta ereditario secondo la Legge Salica. Tagliando fuori la discendenza femminile. Per giustificare la sua posizione, il segretario della Consulta dei senatori Gianni Stefano Cuttica e il presidente della Consulta Aldo A. Mola, citano una lettera del 25 gennaio 1960 di Umberto II da Cascais sulla immutabilità e inviolabilità «della legge della nostra Casa, vigente da ben 29 generazioni e rispettata dai 43 Capi Famiglia, miei predecessori, succedutisi secondo la legge Salica (…) Nessuno potrebbe riconoscere valido il mio operato». Per la Consulta dei senatori la parola di Umberto II resta l’unica valida. Perché secondo la fronda che contesta la scelta di Vittorio Emanuele «solo nell’esercizio effettivo dei loro poteri e nell’ambito di una nuova Costituzione la corona e le legittime rappresentanze degli italiani (i due rami del Parlamento) potrebbero procedere a eventuali modifiche dello Statuto». Adesso è una «legge perpetua ed irrevocabile della monarchia come dichiarò re Carlo Alberto», dicono. E intanto hanno chiesto parere a giuristi e storici. Pier Luigi Duvina, presidente della Consulta vicina (invece) a Ginevra, al ramo Savoia Carignano ribatte che «la Consulta dei senatori del regno che io presiedo è l’unica riconosciuta... e Vittorio Emanuele non ha abrogato la legge Salica ma l’ha adeguata, in base al Trattato di Lisbona del 2009 (nel 2007 la firma) che impone ai Paesi dell’Unione Europea l’uguaglianza di genere e quindi la parità dei diritti tra uomo e donna. Legge recepita anche dalla Repubblica italiana». Il 19 gennaio Emanuele Filiberto dovrebbe intervenire all’Assemblea annuale delle Guardie d’Onore al Pantheon a Roma, e si vedrà la reazione dei circoli monarchici che già si stanno dividendo sulla questione.

·        Liberatori d’Italia dal nazifascismo: pellerossa e non comunisti.

Quei "buoni scalpi" che liberarono l'Italia. Tremila pellerossa erano volontari nelle truppe canadesi e molti combatterono nella penisola. Luca Crovi, Mercoledì 24/06/2020 su Il Giornale. Quando il regista Quentin Tarantino nel film Bastardi senza gloria raccontò le gesta di un gruppo di soldati americani capitanati da Brad Pitt che agiscono in Francia atterrendo le truppe tedesche scalpandole, alcuni spettatori pensarono subito a un'esagerazione e a un falso storico. Eppure ci sono stati davvero momenti in cui le truppe alleate si sono dovute misurare con la riapplicazione di quella terribile tortura e sono state invitate a praticarla. Lo racconta nel dettaglio il giornalista Matteo Incerti nel volume I pellerossa che liberarono l'Italia (Corsiero Editore, pagg. 398, euro 18). Il 4 luglio del 1943 a bordo della His Majesty Transport Circassia in mezzo all'Oceano Atlantico venne fatto ascoltare agli uomini diretti verso le coste della Sicilia meridionale un messaggio speciale del generale Christopher Vokes che scosse non poco l'equipaggio: «Il nostro motto è: siamo la divisione dei buoni scalpi! Alla vigilia del nostro battesimo del fuoco, per il quale ci siamo tutti addestrati così duramente e a lungo, desidero indicare lo spirito che guiderà tutti noi fino alla fine di questa campagna e le successive. Primo: siamo uomini liberi, in lotta per una giusta causa; quindi siamo invincibili. Secondo: snideremo e distruggeremo il nemico ovunque si troverà. Terzo: saremo duri e spietati; non dovremo mai rilassarci o arrenderci fino a quando la vittoria sarà nostra. Quarto: non dovremo fare prigionieri fino a che non sarà nostra prerogativa essere clementi. Quinto: solo i codardi si arrendono. Presenterò a ogni unità una copia del secondo stendardo della brigata, sarà conosciuto come George Baker. Lo porteremo con noi attraverso l'Italia e la Germania. Buona fortuna e buoni scalpi a tutti voi!». La Brigata Baker comprendeva nelle sue forze molti soldati di origine pellerossa che si erano arruolati nelle forze canadesi come volontari. Uomini coraggiosi che si illusero come già accaduto ai loro padri che schierandosi con l'Impero britannico avrebbero difeso i loro diritti. Fra gli uomini reclutati per quello sbarco, che in codice era stato battezzato come Operazione Husky, c'era anche Jerry Brant, un ventisettenne Irochese Mohawk della Baia di Quinto nell'Ontario, che si sentì offeso dalle parole del generale Vokes e sfogò tutta la sua rabbia con Roy Durnford, il cappellano dei Seaforths: «Siete giunti dall'Europa accusando tutti noi di essere selvaggi che scotennavano donne e bambini. Ma è falso. Solo pochi guerrieri prendevano scalpi dei nemici uccisi in battaglia. E solo di uomini già morti e in segno di onore e rispetto... L'uomo bianco ha iniziato alla fine dello scorso secolo uno squallido mercato di scalpi, non noi. Anche se ucciderò un tedesco, io non prenderò mai uno scalpo dei miei nemici». Jerry Brant, che portava sul suo corpo le cicatrici del suo lavoro di stalliere, faceva parte degli oltre tremila pellerossa di diverse tribù del Canada che si erano arruolati volontari. «Lo aveva fatto sulle orme di chi aveva combattuto sui fronti europei nella Grande guerra. Ora i pellerossa erano di nuovo pronti a sacrificare la propria vita per l'Impero di Sua Maestà. Vestire la divisa dell'esercito dell'acero, oltre a una paga più dignitosa di quella offerta per gli umili lavori nelle riserve, era anche l'inizio di un rischioso percorso di riscatto sociale». E così centinaia di indiani Mohawk, Creek, Irochesi, Ojibwa, Cherokee sbarcarono in Italia e contribuirono con il loro coraggio a liberarla, battaglia dopo battaglia, da Agira a Salerno, da Ortona ad Anzio, da Cassino fino alla Linea Gotica orientale in Romagna. Eroi presto dimenticati. Una cinquantina di loro morirono sul suolo italiano e vi vennero seppelliti con onore. I pellerossa che sopravvissero alle missioni di guerra, tornati in patria cercarono di ricostruirsi un'identità di uomini liberi come operai, capi tribù, attori, pittori. Molti di loro compresero però che la loro battaglia avrebbe avuto inizio e fine solo in Italia, come il Creek Joseph Flavien St. Germain che, decorato sul campo dal maggiore Stone, confessò amaramente: «Prima che questa guerra sia finita spero di morire maggiore. Tutti qui mi chiamano il Santo ma quando tutto finirà, quando torneremo a casa, sarò di nuovo un cittadino di seconda classe. Sarò nuovamente quello che voi chiamate un indiano e non potrò nemmeno entrare in un bar».

Quelli che…o tutti o nessuno e poi vogliono la secessione!

Lo sproloquio del saggista e sociologo storico Antonio Giangrande. Da far riflettere…

2 e 3 giugno: Si festeggiano il giorno della Repubblica ed il giorno della libera circolazione tra regioni.

Il tutto sotto diktat della Padania.

I Padani hanno voluto l’Unità d’Italia per depauperare l’Italia meridionale.

I Padani comunisti hanno voluto la Repubblica per continuare a saccheggiare l’Italia Meridionale.

I Padani con le sedi legali delle loro aziende nei paradisi fiscali vogliono continuare a dettar legge con la scusa della secessione.

L’Italia divisa in due.

MAGGIO 1860, IL RUOLO DELLA GRAN BRETAGNA NELL’ATTACCO ALLA SICILIA E AL REGNO DELLE DUE SICILIE.  Michele Eugenio Di Carlo, Giovedì, 28 Maggio 2020 su retegargano.it. Uno dei più dettagliati resoconti della spedizione garibaldina - tanti ne hanno tratto informazioni senza citare la fonte - resta quello di Giacinto de’ Sivo. Con precisione assoluta lo scrittore di Maddaloni descrive l’apparato di sicurezza che il Governo aveva disposto per proteggere la Sicilia dall’invasione ritenuta certa: quattro fregate a vapore, due a vela, nove piroscafi da guerra, che navigavano incessantemente lungo le coste siciliane. Considerate anche le forze di Polizia e le Guardie Urbane, supporre che Giuseppe Garibaldi, nel caso fosse riuscito a sbarcare, potesse andare oltre Marsala non era proprio possibile. Per de’ Sivo era del tutto chiaro: la forza di Garibaldi era stata costruita a tavolino, in particolare dalla potentissima macchina della propaganda inglese. E quanto Cavour, convintosi a favorire la spedizione, cercò di metterne a capo Nino Bixio, «allora dolentissimo il Nizzardo, scordò la venduta patria, e scrisse umilissime lettere al La Farina, scongiurandolo d’aiutarlo… ». Sicuramente era stata proprio l’azione di mediazione di Giuseppe La Farina a spingere Garibaldi ad incontrare Camillo Cavour e Vittorio Emanuele II a Bologna il 2 maggio, al fine di addivenire ad un accordo, come già supposto dallo storico Pietro Pastorelli. Ed è così che «quel marinaio già dalla stampa mazziniana magnificato, quasi promesso da’ fati, per patti segreti tra reggitori di popoli potenti, con l’oro del Piemonte indebitato a posta, doveva lanciarsi a portar guerra civile nelle Sicilie».

Dopo l’unificazione artefatta e truffaldina dell’Unità d’Italia venne la nascita della Repubblica, altrettanto artefatta e truffaldina voluta sempre dalla gente del nord.

L’Italia divisa in due.

Referendum 2 giugno 1946, Monarchia o Repubblica? Come votarono le regioni. Circa 25 milioni di cittadini (gli aventi diritto al voto erano 28 milioni) si recarono alle urne: il risultato fece emergere un’Italia divisa tra Nord e Sud. Silvia Morosi il 2 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Ogni anno, il 2 giugno, l’Italia ricorda il referendum del 1946 con cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra la Monarchia e la Repubblica. Esaurito il ventennio di dittatura fascista, per la prima volta la società italiana visse l’esperienza di libere elezioni a suffragio universale maschile e femminile: si votò (domenica 2 e lunedì 3 giugno, ndr) per l’elezione di un’Assemblea Costituente, alla quale sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale (come stabilito con il decreto legislativo luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944), e contemporaneamente si tenne un referendum istituzionale per la scelta — appunto — tra Monarchia (che ottenne 10.719.284 voti) e Repubblica (12.717.923). Un milione e mezzo furono le schede bianche e nulle. Nel 1946 gli aventi diritto al voto erano 28 milioni, i votanti furono quasi 25 milioni (24.946.878 per la precisione), pari all’89,08% (qui i dati sul sito del Quirinale). Certo, è bene ricordare che non tutti gli italiani poterono recarsi alle urne: ad essere esclusi furono, ad esempio, i militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati; gli internati in Germania; gli abitanti della provincia di Bolzano; e nemmeno a Trieste, Pola, Fiume e Zara.

Un'Italia divisa in due. La Repubblica ottenne, quindi, poco più del 54 per cento dei voti. A esprimersi, fu un’Italia spaccata tra Nord e Sud. Ma come si espressero gli allora «compartimenti»? Il Nord votò a maggioranza repubblicana mentre il Sud confermò la tradizionale fedeltà all'istituto monarchico. Qualche esempio? In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottenne 1.250.070 voti, in Toscana 1.280.815. In Sicilia, al contrario, furono 1.301.200 i voti per la monarchia e «solo» 708.109 quelli per la Repubblica. In Campania, ancora, 1.427.038 quelli per la monarchia, 435.844 quelli per la Repubblica. Una curiosità? La Repubblica ottenne il risultato più ampio a Trento, dove conquistò l’85 per cento dei consensi; mentre Napoli fu la città dove la Monarchia ottenne il risultato migliore (79%).

La Repubblica parlamentare. Da monarchia costituzionale l'Italia diventava, così, una Repubblica parlamentare. Il primo luglio fu nominato il primo presidente della Repubblica Italiana, Enrico De Nicola, mentre Alcide De Gasperi fu il primo presidente del Consiglio, e con il primo gennaio del 1948 entrò in vigore la nuova Costituzione.

 

 

REGIONE NORD

SEZIONI

REPUBBLICA

MONARCHIA

Piemonte

3529

1.250.070

938.945

Liguria

1470

633.130

284.692

Lombardia

5241

2.270.335

1.275.183

Venezia Tridentina

(Escluso Bolzano e Trieste)

465

191.450

33.728

Veneto

3636

1.403.441

954.372

Emilia Romagna

2928

1.526.838

454.589

Toscana

2781

1.280.815

506.167

Marche

1126

498.607

213.621

Umbria

631

301.209

117.755

TOTALE

21.807

9.355.895

4.779.052

 

REGIONE SUD

SEZIONI

REPUBBLICA

MONARCHIA

Lazio

2212

753.978

795.501

Abruzzo e Molise

1264

347.578

459.478

Campania

2770

435.844

1.427.038

Puglie

1950

465.620

954.754

Lucania

394

107.653

158.210

Calabria

1337

337.244

514.633

Sicilia

2827

708.109

1.301.200

Sardegna

859

206.098

319.557

TOTALE

13613

3.362.124

5. 930.371

Con la Repubblica inizia il declino dell’Italia Meridionale e la differenza tra le due Italie si perpetua.

Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Mezzogiorno e regala al Nord è l’origine del declino italiano. E tutti i Governatori del Sud tacciono. Come sempre. Roberto Napoletano il 30 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tutti tacciono. Come hanno fatto negli ultimi venti anni. Hanno sempre qualche emergenza di cui occuparsi. Spicciano pratiche. Hanno una conference call dietro l’altra (prima incontravano gente). Zitti e muti. I soldi loro vanno da un’altra parte, ma loro non se ne accorgono. Se glielo spieghi, ti guardano strano. Preferiscono il silenzio. Dopo diranno che non hanno capito. Si spartiranno le briciole – se ci sono – che i ricchi lasceranno cadere dai tavoli imbanditi con le pietanze rubate ai poveri. Che sono loro. Quelli che stanno zitti quando dovrebbero urlare e strepitano o piagnucolano quando non serve a nulla. Facciamo presente che se avere chiuso un occhio con 60 e passa miliardi di spesa pubblica dovuti al Sud e regalati al Nord ogni anno negli ultimi dieci anni è stato grave. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Sud e regala al Nord – è l’origine del declino italiano – lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. Mi raccomando  – lo dico provocatoriamente ma vale per tutti e per chiunque abbia un po’ di sale in zucca della classe dirigente meridionale – non disturbiamo il manovratore e occupiamoci di distanze in casa e al bar.

Quando il Governo Letta penalizzò le Università del Sud per favorire quelle del Nord. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 6 maggio 2020. La sottrazione di risorse alle Università povere (quelle del Sud) per favorire le università ricche (quelle del Nord, che non sono affatto le migliori) ha determinato la migrazione di studenti (e di risorse finanziarie) dal Sud al Nord. Una vergogna infinita e uno scandalo ignorato. Sentire che tanti nostri studenti universitari, e i propri familiari, in questi giorni si lamentano di dover pagare affitti mentre le università sono praticamente chiuse, mi fa proprio male e mi costringe a riferire quello di cui pochi sono a conoscenza. Fu un provvedimento del governo di Enrico Letta e della ministra dell’Istruzione di allora, Maria Grazia Carrozza, a penalizzare fortemente le università del Sud con una sorta di decreto ammazza università meridionali che ha dato soldi alle università ricche e li ha sottratti a quelle povere. Badate bene, non a quelle migliori, a quelle più ricche. Lo scrive peraltro l’amico Pino Aprile nel suo ultimo testo “L’Italia è finita”, come sempre una miniera di informazioni. Tanto che l’economista barese Gianfranco Viesti – ricordo che è anche cittadino onorario della città di Vieste – ne scrisse un libro di denuncia: “La laurea negata”, arrivando a dire che tanto valeva farle chiudere. Un decreto che andò a peggiorare le già antimeridionali norme dei precedenti ministri Profumo e Gelmini. Ora uno studente meridionale su due (8 su 10 in Basilicata) sceglie un università del Nord e questo comporta l’ennesimo esborso di miliardi che passano da Sud a Nord, quasi non bastasse la tristissima e abominevole emigrazione sanitaria.

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa  fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

Tgnorba Il Fatto del 29-05-2020. Editoriale a cura del direttore Enzo Magistà di venerdì 29 maggio. Nel presentare il “decreto rilancio” e le riaperture del 18 maggio il presidente Conte annunciò che il 3 giugno, cioè da mercoledì prossimo, sarebbe stato possibile prevedere la ripresa anche della libera circolazione tra le regioni italiane. Però precisò: tutto sarebbe stato collegato alle condizioni della pandemia territorio per territorio, regione per regione. Tanto che si creò una specie di misuratore che indicava il rischio: alto, medio, oppure, assente. Le regioni a rischio alto, disse Conte, sarebbero rimaste chiuse; quelle senza rischio sarebbero state riaperte. Avrebbero potuto collegarsi fra loro. In pochi giorni, però, le cose sono cambiate. Ieri le regioni hanno fatto sapere al Governo di non essere d’accordo sulle riaperture differenziate. O tutti o nessuno. Il Governo si è un po’ spazientito, però, sembra essere disponibile. Però non tutte le regioni italiane sono a rischio controllato, è molto probabile che la libera circolazione sull’intero territorio nazionale possa slittare di una settimana: non più il tre, ma il 10 giugno. Non ci cambia la vita, però ci fa rabbia lo stesso. Perché ancora una volta ci si inchina al volere, per non dire al diktat, delle regioni del nord: Lombardia e Veneto in particolare. Sono le regioni italiane più a rischio. E quindi Fontana e Zaia sono stati loro a cavalcare la tesi del “tutti o nessuno”, perché, altrimenti, sarebbero rimaste chiuse. A loro, stavolta, fa comodo, sposare questa tesi, “tutti o nessuno”. Ma in altre occasioni non è stato così. Anzi, in tantissime altre occasioni non hanno fatto altro che rivendicare il contrario, fino a chiedere una autonomia esagerata. Vogliono l’autonomia su tutto: sulle tasse, sulla salute, la scuola, ecc.. Però quando si deve riaprire, siccome loro non possono riaprire: no! O tutti o nessuno. Sarebbero le sole a restare chiuse: allora no! O tutti o nessuno. Purtroppo, però, questo è il dramma: vincono sempre loro.     

Gli strani risultati del referendum del 2 giugno 1946: Repubblica sconfitta dalla Monarchia al Sud. Redazione Bufale.net il 2 Giugno 2020. Ci state segnalando in massa una foto riguardante il referendum del 2 giugno 1946, quello che a conti fatti ha segnato la storia recente del nostro Paese. Stiamo parlando della sfida tra Repubblica e Monarchia, con la vittoria davvero risicata del fronte repubblicano e l’addio ai Savoia per l’Italia. Insomma, una vera e propria votazione “costituzionale“, ben diversa da quelle che abbiamo analizzato in questi anni anche sul nostro sito, come probabilmente avete notato con alcuni nostri approfondimenti.

I risultati per regioni con referendum del 2 giugno 1946 tra Repubblica e Monarchia. Come sono andate esattamente le cose con il referendum del 2 giugno 1946? Vi diciamo subito che la foto in questione è reale. La battaglia elettorale tra Repubblica e Monarchia è stata estremamente tirata soprattutto per le scelte che sono state fatte al Sud. Sorprendono, ma sono reali, i numeri riscontrati dal Lazio in giù, visto che più si scende nello stivale, più si nota la propensione degli italiani a preferire la seconda opzione. Nonostante il particolare e complesso momento storico che si stava vivendo in quella fase. Se da un lato i dati del Lazio sono tutto sommato molto equilibrati, con una leggera preferenza per la Monarchia, dalla Campania in poi si assiste ad un vero e proprio dominio. Addirittura, in questa regione i voti per la Repubblica risultano tre volte inferiori rispetto all’altra opzione. Dunque, le foto che stanno circolando in queste ore sui social a proposito del referendum del 2 giugno 1946 sono reali, coi dati che possono essere consultati più da vicino tramite il sito Storiologia. Negli anni, i sociologi non hanno mai seguito una linea comune nell’analisi dei risultati riguardanti il referendum del 2 giugno 1946. C’è chi parla di meno scolarizzazione al Sud, chi imputa alla presenza degli Alleati nel Mezzogiorno, per anni, la voglia di tornare alla Monarchia, o più semplicemente della scarsa propensione al cambiamento con l’opzione Repubblica. 

Referendum 02/06/1946  Area ITALIA

Elettori 28.005.449

Votanti 24.946.878 89,08%

Voti validi 23.437.143

Schede bianche 1.146.729

Schede non valide (bianche incl.) 1.509.735

Repubblica 12.718.019 54,27%

Monarchia 10.709.423 45,73% 

2 GIUGNO 1946 L'ITALIA E' REPUBBLICANA (LO SDEGNO NEL PROCLAMA DI UMBERTO) (dal Libro-Agenda "FINO AL 2001 E ....RITORNO" di Francomputer- Copyright - deposito SIAE)

2 GIUGNO - "Roma - Notizie pervenute all'Ansa dai più importanti centri italiani confermano che le operazioni di voto

si sono svolte ovunque regolarmente e con notevolissima affluenza di votanti".

DA NOTARE QUESTA ANOMALIA, CHE AL REFERENDUM NON HA PARTECIPATO LA POPOLAZIONE DI BOLZANO, DI TRIESTE E TUTTE QUELLE LOCALITA' ASSEGNATE ALL'ITALIA DOPO IL TRATTATO DI PACE DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE, E CHE POI SONO STATE TOLTE O ASSEGNATE ALL'ITALIA SOLO DOPO IL TRATTATO DI PACE DEL 10 FEBBRAIO 1947.

INSOMMA LA PROVINCIA DI BOLZANO NEL 1946 NON ERA ITALIA !!

NE' LO ERANO I TERRITORI ASSEGNATI NEL 1919.

NESSUNO - NE' ALLORA NE' DOPO - HA MAI TROVATO DA RIDIRE SU QUESTA ANOMALIA.

E LO SCRIVENTE NON LO HA MAI CAPITO, ANCHE PERCHE' NESSUNO LO HA MAI SPIEGATO.

Totale definitivo comunicato il 18 giugno dalla Corte di Cassazione in Parlamento. Dopo i controlli le cifre sopra subiscono queste variazioni:

1) da apportare le seguenti modificazioni

a) sottrarre ai voti attribuiti alla Repubblica 4 voti;

b) sottrarre ai voti attribuiti alla Monarchia 30 voti; 

c) aggiungere ai voti attribuiti alla repubblica 18 voti; 

d) aggiungere ai voti attribuiti alla monarchia 25 voti.

2) Integrare i risultati delle varie sezioni mancanti

a) aggiungere voti alla repubblica 45.142;

b) aggiungere voti alla monarchia 30.384.

A FAVORE DELLA REPUBBLICA VOTI 12.717.923

A FAVORE DELLA MONARCHIA  VOTI 10.719.284

SCHEDE VOTI NULLI 1.498.136 ( scarto di 1.998.639 )

(il dato esatto con le correzioni successivamente apportate fu l'originario (per la monarchia) 10.688.902 , più 30.384 e meno 30, più 25 - totalizzando un totale a favore della monarchia in 10.719.281 anzichè 10.719.284 voti).

I comunicati ANSA.

11 GIUGNO - Roma - Il consiglio dei ministri si consulta.  Ha interpretato nel senso più corretto l'art. 2 del decreto del 15 marzo 1946 il quale fa sì che, proclamato l'esito del referendum, "ope legis" i poteri del capo dello stato debbano essere assunti dal presidente del consiglio. Nessun'altra interpretazione è possibile. La Corte di cassazione ha respinto le eccezioni riguardanti il quorum e la mancata votazione a Trieste e Bolzano, che non costituisce motivo per invalidare i risultati del referendum. (Ag. Ansa, 11 giugno, ore 15.30)

11 GIUGNO ORE 14.30 - L'opinione di re Umberto espressa al presidente del consiglio, è che la Corte di cassazione debba emettere in un altra adunanza il necessario giudizio definitivo prima dei passaggi dei poteri. - ORE 21.00. Difficile passaggio dei poteri dopo vari incontri del presidente del consiglio  De Gasperi con il re. I partiti invitano De Gasperi a uscire dalla situazione, prendendo rapidamente una decisione perchè l'incertezza è pericolosa per il Paese. La seduta prosegue nella nottata. (Ag. Ansa. 11-6- ore 14,30)

12 GIUGNO ORE 01.50 - Conflitto di interpretazione tra governo e Corona. - ORE 02.40 Il governo prende atto della proclamazione dei risultati comunicati dalla Corte di Cassazione. (Ag. Ansa. 12-6- ore 02.40)

13 GIUGNO ORE  01.45 - Il governo riafferma la promulgazione dei risultati fatti dalla Corte di cassazione ha portato automaticamente alla instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l'Assemblea costituente non abbia nominato il capo provvisorio dello stato, l'esercizio della funzione del capo dello stato medesimo spetta "ope legis" al presidente del consiglio in carica. Tale situazione costituzionale, creata dalla volontà sovrana del popolo nelle forme previste dalle leggi luogotenenziali, non può considerarsi modificata dalla comunicazione odierna di Umberto II al presidente del consiglio.(Ag. Ansa. 13-6- ore 01.45)

13 GIUGNO ORE 18.45  - "Roma - Umberto II è partito oggi in aereo dall'aeroporto di Ciampino alle ore 16.07.  farà scalo a Madrid e proseguirà domattina per Lisbona" (Ag. Ansa, ore  18.45 . Seguiranno particolari).

PROCLAMA di UMBERTO  (testo integrale) (Ag. Ansa, ore 22.30)

13 GIUGNO ORE 22.30 - "AG. Ansa - Roma - Ecco il testo del proclama lanciato da Umberto II agli italiani prima di partire: --- "Italiani! Nell'assumere la Luogotenenza generale del Regno prima, e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello stato. Eguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte di cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori o parziali fatta dalla Corte di cassazione; di fronte alla sua riserva di pronunciare  entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta nel modo di calcolare la maggioranza, io ancor ieri ho ripetuto che era mio diritto e dovere di re attendere che la Corte  di cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza. Confido che la magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono uno delle glorie d'Italia, potrà dire la sua libera parola; ma non volendo opporre la forza al sopruso, nè rendermi complice della illegalità che il governo ha commesso, io lascio il suolo del mio paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come italiano e come re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta: protesta nel nome della corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto. A tutti color che ancora conservano la fedeltà alla monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all'ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l'esortazione a voler evitare l'acuirsi di dissensi che minaccerebbero l'unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l'animo sereno colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia Patria. Si considerano sciolti dal giuramento di fedeltà al re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d'Italia e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l'Italia!" (Ag. Ansa, ore 22.30)

13 GIUGNO ORE 24 - LA REAZIONE DEL GOVERNO - (Com. Ag. Ansa, ore 24)- "Roma - La Presidenza del Consiglio comunica: "La partenza del re, avvenuta alle ore 15,40 da Ciampino, è stata con ogni cura tenuta nascosta al governo. Gli organizzatori della partenza, dovendo chiedere l'aeroplano al ministro dell'Aeronautica, gli telefonarono all'ultimo momento di non avvertire il presidente del consiglio, al quale avrebbero essi stessi fatta comunicazione. Il presidente invece ne fu avvertito da altra parte.  Poco dopo la partenza si è sparsa la voce che si stesse formulando un proclama. Questa sera infatti l'Ansa trasmetteva alle ore 22.30 il proclama del re al popolo italiano. "Il proclama è un documento penoso impostato su basi false e su argomentazioni artificiose. Esso afferma il falso quando definisce come semplice comunicazione di dati la proclamazione dei risultati del referendum fatta dalla Cassazione il 10 giugno. Esso mente quando parla di una improvvisa affermazione del Consiglio dei ministri avvenuta nella passata notte, circa gli effetti costituzionali della proclamazione. E' vero al contrario che già nella notte del 10-11 giugno il Consiglio "prese atto della proclamazione dei risultati del referendum che riconosceva la maggioranza alla repubblica, riservandosi di decidere sui provvedimenti concreti che ne derivano. Dopo ciò e nonostante questa affermazione risolutiva il sovrano continuò a trattare col presidente del consiglio per i due giorni successivi circa la proposta di una delega dei poteri regi al presidente non denunciando in tale presa di posizione del Consiglio alcun "gesto rivoluzionario nè alcun "atto unilaterale e arbitrario". Ieri mattina il sovrano mandava la nota lettera, la quale ignorava la proclamazione avvenuta dalla Corte di cassazione e costringeva così il governo a ribadire il suo punto di vista circa gli effetti costituzionali della proclamazione. A proposito di questo secondo ordine del giorno del Consiglio che il proclama del re parla di "gesto rivoluzionario e dell'assunzione unilaterale e arbitraria di "poteri che non gli spettano", mentre nel testo dell'ordine del giorno non si parla affatto di effettiva assunzione di poteri, cioè dell'esercizio di essi, ma si fa solo la questione di principio circa la competenza. Anzi risulta evidente che il governo per far opera di concordia aveva differita la deliberazione dei provvedimenti, già annunziati lunedì scorso. Nessun pretesto quindi nè di accusare "di spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura nè di aver posto il sovrano "nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza". Egli avrebbe potuto tranquillamente continuare le discussioni e le consultazioni, oppure mantenere semplicemente le sue riserve. Gli uomini che stanno al governo e in particolare il presidente del Consiglio gli avevano dato fino all'ultimo la prova che desideravano e ricercavano tenacemente una soluzione pacifica. Bisogna aggiungere che il re personalmente aveva riconosciuto più di una volta la lealtà e la correttezza di tale atteggiamento, cosa che i compilatori del proclama sembrano ignorare. Il re poteva quindi attendere con serenità il giudizio sulle contestazioni e sui ricorsi da parte della Cassazione (la cui libertà il governo intende rispettare pienamente) senza temere soprusi e senza essere costretto a partecipare all'illegalità. I due ultimi periodi del proclama, quello che scioglie dal giuramento e quello che rivolge un saluto ai caduti ed ai vivi sono due periodi superstiti del proclama che Umberto aveva in precedenza preparato per un pacifico commiato. Ameremmo credere che quanto di fazioso e di mendace vi si è aggiunto in questa definitiva sciagurata edizione sia prodotto dal clima passionale e avvelenato degli ultimi giorni. La responsabilità tuttavia è gravissima e un periodo che non fu senza dignità si conclude con una pagina indegna. Il governo e il buon senso degli italiani provvederanno a riparare a questo gesto, rinsaldando la loro concordia per l'avvenire democratico della Patria. 

(Ag. Ansa, ore 24) (Facciamo qui presente che Re Umberto II non ha mai abdicato ed anzi in base alle dichiarazioni fatte successivamente dal medesimo durante il suo lungo solitario ed estenuante esilio forzato (a seguito del discusso referendum istituzionale che lo stesso Massimo Caprara segretario dell'on. Palmiro Togliatti ha rivelato che vi fu un aiutino di oltre tre milioni di schede), ha sempre affermato che si trattò di un golpe del governo che non avrebbe riconosciuto neppure l'esito del referendum in caso di vittoria per la monarchia. Sia il testo di Luciano Regolo, sia le dichiarazioni dello stesso Umberto registrate dalla Rai, sia i testi di Gigi Speroni, Silvio Bertoldi e dello stesso Amedeo Duca d'Aosta, mai smentite da nessuno eccetto da stampa di parte, sono a sostegno di ciò, nonchè numerosi testi di storia costituzionale e di diritto, tra i quali in dotazione in numerosi atenei. Inoltre la Repubblica non è stata mai Proclamata all'indomani da parte della Suprema Corte di Cassazione che aveva competenza giurisdizionale per il risultato dei voti e per la pronuncia dell'esito del referendum.)

18 GIUGNO - Alle ore 18.00 nell'aula di Montecitorio, il Presidente della Corte di cassazione, Giuseppe Pagano, ha dato lettura del verbale relativo al giudizio definitivo e ha comunicato i risultati  dopo le contestazioni, le proteste e i reclami dei monarchici. (le cifre che abbiamo già riportato  sopra). Rimase sempre il mistero sul numero complessivo degli aventi diritto al voto, conteggiati in 28.005.449 contro (dicono alcuni - vedi "Il Re di Maggio", accurata biografia scritta da Lucio Lami) i 24.000.000 effettivi; e il numero delle schede nulle non conteggiate nella definizione del quorum di maggioranza. (vedi l'anomalia di Bolzano, Trieste ecc. citata sopra) "La Corte di Cassazione, alla quale competeva de jure legis di verificare la regolarità del voto e di proclamare ufficialmente i risultati  referendari, fu "intimidita e sopraffatta" - come spiega nei dettagli Lami - da Togliatti. E il Governo, con un colpo di mano (che fu in effetti un vero e proprio  colpo di Stato) nella notte tra il  12 e il 13 giugno s'impadronì del potere, nominando Alcide De Gasperi capo provvisorio dello Stato". Lo riportiamo come dovere di cronaca.

"Le schede truccate del referendum del '46, mio padre vide tutto". Negli scantinati del Viminale "pacchi di fogli con la croce per la Repubblica". Parla il figlio del brigadiere testimone dei brogli. Luca Fazzo, Lunedì 12/12/2016 su Il Giornale. Pacchi su pacchi di schede: «Così grossi, raccontava mio padre, che ci si potevano infilare le braccia». Tutte schede già votate, e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull'Italia turrita che simboleggiava la Repubblica, contro la monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia. Il giovane brigadiere Tommaso Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno del 1946, e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce nei palazzi romani già girava: vittoria alla Repubblica, Umberto II si preparava all'esilio di Cascais. Di ombre su quel risultato si è sempre parlato. Ma ora, a settant'anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni, e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del duca Giovanni Riario Sforza, comandante in capo dei corazzieri reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere. Sono passati settant'anni, Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. Oggi è suo figlio Gianpiero a raccontare in presa diretta al Giornale l'immagine quasi fotografica del referendum truccato, così come riferita da suo padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, Beltotto non lo sapeva, e non lo sappiamo noi oggi: erano già state conteggiate come vere, o dovevano servire in caso di bisogno per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo. Suo padre si era scandalizzato? «Era un uomo concreto, realista. Semplicemente, quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva: c'è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi». Il brigadiere Tommaso Beltotto non era lì per caso, la notte del 4 giugno. Nel settembre del 1943, quando comandava la stazione dell'Arma a Monterotondo, aveva avuto l'ordine di arrendersi ai tedeschi e consegnare le armi: se ne era ben guardato, e si era unito alla Resistenza con i suoi fucili e i suoi carabinieri. Durante la guerra civile aveva fatto da collegamento tra le truppe partigiane di montagna e i reparti che operavano a Roma: e fu testimone dei tentativi vani del Cln di bloccare l'attentato di via Rasella. «Insomma - dice suo figlio - aveva una fama di persona equilibrata e devota. Sono convinto che il maggiore Riario Sforza quei sacchi di schede truccate li avesse già visti prima, e che avesse bisogno di un testimone affidabile». Qualcuno, cioè, che non andasse a raccontare al bar l'incredibile scoperta: e che però fosse pronto, nel momento del bisogno, ad attestarne la verità. Così quando il duca Riario Sforza (che pochi giorni dopo verrà ritratto in foto rimaste storiche, mentre saluta per l'ultima volta Umberto che lascia il Quirinale) dovette scegliere qualcuno che controfirmasse il suo rapporto, la scelta cadde quasi inevitabilmente su Beltotto, che non era un suo subalterno, ma che aveva avuto modo di conoscere in quei frangenti delicati e complessi. Erano due uomini perbene e rigorosi, il duca e il brigadiere. Il primo devoto di casa Savoia. Il secondo carabiniere fin nel midollo, «ma al referendum - dice il figlio - aveva votato Repubblica». Mettono per iscritto ciò che hanno visto, e sanno di avere fatto il loro dovere. Dell'esistenza del rapporto si è saputo nel settembre scorso, nell'aula del processo a Palermo per la presunta trattativa Stato-mafia, ormai evoluto in una bizzarra ricognizione giudiziaria dell'intera storia della Nazione. Un generale in congedo dei carabinieri, Niccolò Gebbia, ha raccontato che la relazione di Riario Sforza venne trasmessa al generale Romano Dalla Chiesa. L'originale, o una copia, arrivò nelle mani del figlio del generale, Carlo Alberto: che proprio per questo sarebbe stato corteggiato dal capo della P2, Licio Gelli, cui quel rapporto avrebbe fatto gran gioco; ma evidentemente non lo ottenne. E i fogli erano forse nella cassaforte della prefettura di Palermo che venne svuotata nel 1982 poco dopo che Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato ucciso. Che fine abbia fatto il rapporto, insomma, non si sa: e potrebbe essere uno dei tanti misteri delle nebbie impenetrabili che avvolgono quegli anni. D'altronde Riario Sforza è morto da tempo, e sono morti anche i suoi due figli: e la nuora, Elisa, racconta che «in casa di questa vicenda non ho mai sentito parlare». Ma per fortuna nelle cantine del Viminale il duca non era da solo. C'era con lui il brigadiere Beltotto. Era nato nel 1918 a Trinitapoli, in provincia di Foggia: e l'unica vera marachella della sua vita era stata alzarsi l'età, per arruolarsi nell'Arma prima ancora di essere maggiorenne. La sua biografia negli anni convulsi dopo l'armistizio è simile a quella di tanti italiani disabituati a decidere dal ventennio fascista, e che pure al momento di fare una scelta non si tirarono indietro. Ma Beltotto ad orientarlo aveva una stella polare: l'Arma. Perché gli alamari da carabiniere li aveva sulla pelle. E scelse la sua strada liberamente solo perché era stato il Re a scioglierlo dal giuramento che aveva prestato. D'altronde proprio Monterotondo, dove Beltotto era comandante, era stato teatro di uno dei primi e più cruenti scontri tra reparti italiani e truppe tedesche, paracadutate dalla Luftwaffe sulla cittadina per conquistare Palazzo Barberini, sede provvisoria dello Stato Maggiore. Fece la sua parte, con semplicità e concretezza, e non immaginava che di lì a poco si sarebbe trovato, in quella cantina del Viminale, a fare da testimone a un crocevia della storia. Della sorte del suo rapporto probabilmente non si preoccupò più, perché il suo dovere lo aveva fatto e concluso firmandolo. Di come una copia, o l'originale, potesse essere arrivata nelle mani di Dalla Chiesa forse non seppe niente, e comunque a casa non ne parlò. «Ma io sono convinto - dice il figlio Gianpiero - che un esemplare fosse comunque approdato a re Umberto, e che se si cercasse attentamente nelle carte di Cascais qualcosa forse salterebbe fuori». Una sola volta Beltotto ne parlò con un politico: avvenne a Ortisei, dove negli anni Sessanta, ormai maresciallo, indagava sugli attentati degli indipendentisti. Un politico passava spesso le vacanze in zona, e Beltotto confidò a lui la storia dei sacchi di schede. Ma il politico si chiamava Giulio Andreotti e, ovviamente, non lo disse a nessuno.

2/6/1946: repubblica a ogni costo, tra inganni e minacce. La storia non detta. Antonio Pannullo giovedì 2 giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. In questi giorni assistiamo a solenni celebrazioni della Repubblica, convegni, mostre fotografiche, e lo stesso capo dello Stato ha parlato della festa della Repubblica invitando gli italiani a riaffermarne i valori. Ma quali sono questi valori? E soprattutto, come nacque questa repubblica, quell’ormai lontano 2 giugno di 70 anni fa? Non è corretto, verso i nostri giovani, nascondere loro la metà della storia. I nostri governanti, ormai tutti repubblicani da tempo, sanno benissimo come nacque la repubblica e in quale clima di guerra civile si svolse il referendum, e con quali garanzie di trasparenza. Anzi, non era un clima di guerra civile, era ancora guerra civile. Nel nord Italia le bande partigiane comuniste continuavano ad assassinare chi non la pensava come loro: preti, fascisti, possidenti, cattolici, e anche semplici nemici personali. La guerra non era finita da un anno, e ancora si regolavano i conti con coloro che si pensava avessero potuto essere di ostacolo alla dittatura comunista che si pensava di installare in Italia quanto prima, con la complicità, l’appoggio, le armi e i soldi dell’Unione Sovietica.

2 giugno 1946: la vittoria repubblicana non era certa. Sconfitto il fascismo, ora bisognava cacciare la monarchia, e non sembrava facile farlo, in quanto la maggioranza degli italiani era attaccata alla vecchia istituzione. Si pensò, per far apparire le cose in regola, di indire un referendum in cui il popolo italiano potesse esprimersi. Ma la vittoria non era certa, tutt’altro. Per cui, con la regia degli occupanti americani, e d’intesa con il Cln (Comitato di Liberazione nazionale), si stabilirono le regole: si privavano del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia, dell’Alto Adige, della Libia; inoltre non poterono votare tutti i prigionieri, gli sfollati, gli epurati, e tutti i loro familiari. In tutto il nord le bande armate non permisero un solo comizio elettorale dei monarchici, e allora esporsi e fare propaganda equivaleva a morte certa. Le settimane precedenti alla consultazioni si svolsero tra tensioni e incidenti gravissimi: il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, trovandosi a corto di uomini per le forze dell’ordine, pensò di inquadrare nella polizia ausiliari provenienti dalle bande partigiane comuniste del nord, i quali trattavano la popolazione, soprattutto quella del Sud, come un nemico. Furono soprannominate dal popolo “le guardie rosse di Romita”. I nuovi vincitori insomma, con l’ombrello americano, avevano deciso di istituire la repubblica a qualsiasi costo. Lo disse chiaramente il leader socialista Pietro Nenni con la sua frase “O la repubblica o il caos”. Lo disse il ministro comunista delle Finanze Scoccimarro in un comizio, che in caso di vittoria della monarchia a referendum i comunisti avrebbero scatenato la lotta armata; e tutto mentre Pertini chiedeva la fucilazione di re Umberto di Savoia. Per evitare un’altra guerra civile molti italiani pensarono di votare la repubblica. Ma ancora poteva non bastare: non si disse quanti erano gli aventi diritto al voto, le schede uscite dalle urne sembra fossero un po’ troppe, molti ricevettero più di un certificato elettorale, defunti compresi. Ovviamente, in uno Stato uscito da una guerra devastante e flagellato da una guerra civile strisciante, non si poteva pretendere uno svolgimento corretto, anche se vi fosse stata buonafede. Nessuno sapeva bene cosa fare, le schede furono inviate a Roma con mezzi di fortuna, chiunque poteva toccarle, chiunque poteva immetterne di nuove, non c’era controllo, anche perché non ci poteva essere. Dopo il referendum, le cose andarono ancora peggio: man mano che le istituzioni dichiaravano la vittoria della repubblica, molte città insorsero, conscie della scarsa regolarità delle consultazioni, come Palermo, Taranto, Bai, Messina, ma soprattutto Napoli, dove per giorni centinaia di migliaia di persone dimostrarono in favore della monarchia. Tutte queste proteste furono soffocate nel sangue, e in particolar modo a Napoli, dove gli ausiliari mitragliarono la folla assassinando una dozzina di persone, perlopiù giovanissimi. L’episodio è noto come la strage di via Medina, ma non la si insegna a scuola né ci fu un processo né c’è una lapide che ricordi le vittime. Era l’11 giugno 1946, e i feriti furono oltre cento. Pochi giorni prima uno sconosciuto aveva tirato una bomba a mano contro un corteo di monarchici, causando un morto e numerosi feriti. Perché la popolazione era insorta? Perché si erano sparse notizie, e forse qualcuno le aveva anche verificate, relative ai brogli di cui si parlerà per gli anni a venire, prima che la cortina del silenzio calasse anche su questa vicenda, come era calata per le foibe, per i crimini dei partigiani, per l’esodo degli istriani. Su 35mila sezioni elettorali furono presentati 22mila ricorsi, tutti respinti in pochi giorni. Lo spoglio delle schede pervenute avventurosamente nella capitale si svolse nella sala della Lupa a Montecitorio alla presenza della corte di Cassazione e degli ufficiali angloamericani occupanti. L’Italia risultò ancora una volta divisa in due: il centronord per la repubblica, il sud per la monarchia, tanto che dopo il referendum ci fu chi propose di separare il sud dal Paese per creare un regno con a capo re Umberto.

2 giugno 1946: il senso di responsabilità di re Umberto. E mentre la proclamazione ufficiale era attesa per il 18 giugno, e mentre la corte di Cassazione stava ancora esaminando i ricorsi, il governo la notte del 12 giugno, a scrutinio non ultimato, trasferì i poteri del capo dello Stato – che fino allora era il re – al presidente del consiglio in carica. Il giorno dopo, il 13, re Umberto lasciò per sempre l’Italia per andare in esilio in Portogallo. Lo fece per non far precipitare in una nuova guerra civile la sua Patria, dimostrando un altissimo senso di responsabilità e amore verso gli italiani. La Stampa di Torino titolò: “Il governo sanziona la vittoria repubblicana”, mettendo in dubbio la proclamazione stessa della repubblica. Perché neanche allora lo si era capito. Poche ora prima di partire per il Portogallo, re Umberto in un proclama denunciò l’illegalità commessa dal governo e partì dopo aver affidato la patria agli italiani (e non ai suoi rappresentanti eletti). “Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto”.

2 giugno 1946: a scuola si insegni tutta la storia. Come finì la storia? Che il 18 giugno la corte di Cassazione respinse tutti ricorsi e stabilì che per “maggioranza degli elettori votanti” si dovesse invece intendere “la maggioranza dei voti validi” e che quindi aveva vinto la repubblica. La vicenda ha una coda, perché nel 1960 in un’intervista il presidente della suprema corte quel 18 giugno, Giuseppe Pagano, disse che in quelle ore «l’angoscia del governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi». Secondo l’alto magistrato, tuttavia, non vi furono brogli. Tra gli altri “gialli” di questa storia vi sono anche il fatto che Tito aveva pronte le sue truppe per invadere l’Italia dalla Jugoslavia in caso della vittoria della monarchia; si disse che l’allora segretario del Pci Togliatti intervenne presso Mosca per ritardare il rientro delle decine di migliaia di prigionieri italiani in Urss; i primi rapporti dei carabinieri, presenti nei seggi, sia al Vaticano sia al governo, indicavano una netta vittoria della monarchia, posizione poi invertitasi in poche ore; il numero degli elettori è sembrato poi superiore a quello degli aventi diritto al voto, comprensibile nel disordine dovuto al periodo bellico. Possibile anche che molti abbiano votato più volte con documenti di identità falsi o appartenenti a defunti o dispersi. Lo stesso Togliatti, infine, ministro della Giustizia, di fronte alle migliaia di ricorsi, disse che probabilmente le schede non sarebbero potute essere controllate perché alcune erano andate distrutte… Meglio la monarchia della repubblica? Certo non la monarchia italiana, meglio forse quella inglese. Però almeno, che ai nostri figli sia raccontata anche l’altra metà della storia.

2 giugno 1946: come andò veramente il referendum istituzionale monarchia repubblica. Giovanni Bortolone e Giovanna Canzano il 04/02/2008. Fonte: politicamentecorretto.

GIOVANNA CANZANO INTERVISTA GIOVANNI BARTOLONE.

CANZANO. Come giudichi il libro del prof. Aldo Mola: “Declino e crollo della monarchia in Italia?”

BARTOLONE. E’ un’opera molto importante perché contribuisce a far chiarezza, alla luce di nuovi documenti della Corte di Cassazione, sul referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Ci sono molti dubbi sulla vittoria della repubblica. Per molti la repubblica è nata nel sangue e nella truffa. Altri aggiungono grazie ad un colpo di stato commesso dal governo, in un clima di guerra civile strisciante. Il ritorno alla democrazia non significò il suffragio universale. Moltissimi, troppi, italiani furono privati del diritto di voto.

CANZANO. Puoi spiegarti meglio? Si dice che il voto fu regolare, a parte qualche disfunzione dovuta al lungo periodo di non voto, dovuto alla dittatura, ai registri elettorali non aggiornati, all’inesperienza degli scrutatori e dei presidenti di seggio ecc.

BARTOLONE. Andiamoci in ordine. Il referendum si svolse in un Italia sconfitta, che avrebbe firmato qualche mese dopo il trattato di pace, il famoso Diktat. Era un'Italia ancora sotto il controllo di un governo militare straniero d’occupazione. In intere regioni dell’Italia centro-settentrionale, dove il predominio delle sinistre era assoluto, non si tenne nessuna manifestazione monarchica.

CANZANO. Vuoi dire che in qualche modo la sinistra non ha permesso manifestazioni di propaganda elettorale?

BARTOLONE. Propagandare il voto per la Monarchia avrebbe significato esporsi a rappresaglie, minacce e violenze d’ogni tipo. In queste zone operavano ancora le “volanti rosse”, che quasi impunemente assassinavano gli avversari politici nei numerosi “triangoli della morte”. Nella stessa Roma le manifestazioni di massa monarchiche, come ad esempio quella del 10 maggio 1946, erano assaltate dagli “ausiliari di Romita”, ex partigiani inquadrati nella polizia. A Napoli i cortei monarchici erano attaccati a colpi di bombe a mano come accadde in Via Foria il 15 maggio 1946.

CANZANO. Come si svolsero le operazioni di voto?

BARTOLONE. Vero è che il 2 giugno si votò nella massima calma. Ma il clima delle settimane precedenti era stato, per dirla con il socialista Pietro Nenni: “O la repubblica o il caos”. Il ministro comunista delle Finanze, Mauro Scoccimarro, parlando a Frascati minacciò la rivoluzione in caso di vittoria monarchica al referendum. Sandro Pertini chiedeva la fucilazione del Luogotenente Umberto di Savoia. In molti benpensanti per evirare il caos decisero di votare repubblica.

CANZANO. Però il 2 giugno votarono per la prima volta tutti gli italiani.

 BARTOLONE. Non è vero. E’ falso. E’ un’altra leggenda da sfatare. Vero è che per la prima volta poterono votare le donn e per elezioni politiche. Per favorire la vittoria della repubblica, il governo composto nella quasi totalità di repubblicani, emise un decreto legislativo, il numero 69/1946, contrario Re Umberto – dalla caduta del fascismo al 1948, il governo godeva anche del potere legislativo – nel quale si privavano del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia e dell’Alto Adige. Questi cittadini sarebbero stati consultati “con successivi provvedimenti”. In altre parole mai più. Si dimenticarono della Libia – allora territorio metropolitano. I cittadini italiani residenti in Libia furono privati del diritto di voto. Forse erano già convinti di cedere queste parti del territorio nazionale a stati esteri, oppure pensavano che gli abitanti potessero votare “Monarchia”, ritenendo che un'Italia monarchica potesse difendere meglio la permanenza delle loro terre all’Italia. Meglio non rischiare, fac endo votare questi cittadini italiani. Furono inoltre esclusi dal voto i prigionieri, gli sfollati, gli epurati. Gli epurati erano coloro che essendosi compromessi con il Regime, furono privati del diritto di voto. Idem i loro familiari. Ma chi, a parte una piccola minoranza, non si era compromesso col Fascismo durante il Ventennio? Non è contraria ad ogni civile principio di civiltà giuridica una legge con effetto retroattivo in materia penale? E i loro familiari che colpa avevano? Nei comuni c’era molta faziosità. Molti degli esclusi dal voto non erano fascisti, ma erano monarchici. In totale furono privati del diritto di voto circa il 10 percento degli italiani, esclusi i “libici”.

CANZANO. Però la repubblica ottenne la maggioranza dei voti.

BARTOLONE. Non è detto. Il governo non comunicò in anticipo, come avviene in tutte le elezioni del mondo, il numero degli aventi diritto al voto. Anzi, secondo molti stu diosi, dalle urne non potevano venir fuori tutte quelle schede. In ogni Paese del mondo, c’è un rapporto costante tra gli aventi diritto al voto e la popolazione. I numeri sono numeri. Le leggi della demografia non lo consentono. I conti non tornano tra i “risultati” del referendum, i probabili aventi diritto al voto e la popolazione italiana del tempo. Ci sarebbero stati circa 2 milioni di voti in più nelle urne. Numerose persone ricevettero 2 o 3 certificati elettorali. Lo stesso accadde per molti defunti. Due operai comunisti impiegati ai Monopoli furono arrestati, mentre trafugavano pacchi di schede elettorali prima del voto. Prendendo per buoni i “risultati” ufficiali la repubblica avrebbe vinto per circa 250 mila voti in più rispetto al numero dei “votanti” ufficiali. Su circa 35 mila sezioni elettorali, furono presentati circa 21 mila ricorsi. Furono esaminati e respinti tutti in meno di 15 giorni. Mentre la Corte di Cassazione esaminava i ricorsi, il governo, prendendo per buoni i risultati provvisori del referendum, emise la notte del 13 giugno 1946, una dichiarazione con la quale trasferiva le funzioni di Capo dello Stato al Presidente del Consiglio in carica. Si poteva aspettare il 18, data della proclamazione dei risultati definitivi. Forse si sarebbe potuto avere una repubblica proclamata per decreto reale. Invece, forse per paura che i brogli sarebbero stati scoperti, il governo pose Umberto II di fronte al fatto compiuto. Il Re, con i risultati ancora provvisori e sub judice, fu ridotto al rango di privato cittadino e posto di fronte al dilemma: partire per l’esilio o scatenare una nuova guerra civile. Una nuova guerra civile avrebbe comportato, oltre a nuovi lutti, la probabile perdita di parti del territorio nazionale a favore della Francia, della Jugoslavia e dell’Austria e forse la secessione d’alcune regioni. In poche ore a Napoli furono raccolte decine di m igliaia di firme a sostegno di un manifesto del Movimento Separatista del Mezzogiorno d’Italia, dell’ing. Carlo Rispoli. I promotori sostenevano che con la vittoria repubblicana si era sciolto il Patto del 1860 con il quale si era accettata l’Unità d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Volevano ricostituire il Regno delle Due Sicilia con Re Umberto. Una simile dichiarazione emise ad Enna il 10 giugno il Movimento per l’Indipendenza Siciliana. Volevano un Regno di Sicilia con sovrano Umberto di Savoia. Incidenti, con morti e feriti, scoppiarono a Palermo, Taranto, Bari, Messina, e soprattutto a Napoli. A Napoli ci furono una dozzina di morti e moltissimi feriti.

CANZANO. Perché a Napoli i disordini furono più numerosi?

BARTOLONE. La situazione era particolarmente critica a Napoli. La città aveva votato per più dell’80%, in favore della Monarchia. Per controllare la situazione napoletana il governo, nel la persona del ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, non aveva trovato niente di meglio che militarizzare la città, facendovi affluire numerosi reparti di polizia ausiliaria. Questi reparti, alle dirette dipendenze dello stesso ministro, erano formati per la maggior parte da ex partigiani comunisti del nord. Da qui l’appellativo di “guardie rosse di Romita”. Usarono sempre con la mano pesante nei confronti della popolazione, considerata alla stregua di un nemico ideologico.

CANZANO. Quale fu il bilancio?

BARTOLONE. Il sangue a Napoli ricominciò a scorrere la sera del 6 giugno 1946, quando uno sconosciuto lanciò una bomba a mano, vicino la chiesa di Sant’Antonio a Capodimonte, contro un numeroso gruppo di giovani, reduci da una dimostrazione monarchica. Sono ferite otto persone. Una, Ciro Martino, morirà agli Incurabili. CANZANO. Come si organizzarono i napoletani? BARTOLONE. Quella stessa notte , al numero 311 di Corso Umberto I si costituisce il Movimento Monarchico del Mezzogiorno (uno dei nuclei fondatori del futuro Partito Nazionale Monarchico) e si adotta il simbolo di “Stella e Corona”. La mattina del 7 giugno, a Napoli si diffonde la notizia dell’arrivo d’Umberto. Il Re ha deciso di battersi per il suo buon diritto e ha scelto la città come suo quartiere generale. E’ un’esplosione di gioia popolare. Tutti i monarchici napoletani sono in piazza. Bisogna accogliere degnamente il Sovrano. Si forma un imponente corteo che, accompagnato dalle note solenni della “Marcia Reale” suonata da un’improvvisata banda musicale o da alti inni della Patria, avanza lungo il Rettifilo, diretto Palazzo Reale o a San Giacomo, ove si pensa che sia il Re. Si ricongiunge con il grosso concentramento degli universitari, in attesa presso la Federico II. A Piazza Nicola Amore c’è un largo, impenetrabile sbarramento di camionette degli “ausiliari di Romita”. Alla testa del corteo, che nel frattempo si è fermato dubbioso, un giovane scugnizzo di 14 anni, Carlo Russo, completamente avvolto in un grande tricolore con lo stemma sabaudo. E’armato solo di quella bandiera. E’ deciso a passare, nonostante i celerini. Avanza deciso. I mitra degli ausiliari sparano ad altezza d’uomo. Si contano molti feriti. Uno dei primi a cadere è Carlo Russo. Con la fronte squarciata, s’abbatte avvolto nel tricolore, diventato ora il suo sudario. Solo il deciso intervento dei Reali Carabinieri permetterà poi agli ausiliari di sfuggire al linciaggio della folla inferocita. Carlo Russo morirà, dopo un’atroce agonia, due giorni dopo. L’8 giugno muore lo studente Gaetano D’Alessandro, d1 16 anni. Il ragazzo stava tornando a casa dopo una manifestazione monarchica di protesta per le violenze del giorno prima. Aveva alle spalle un grande tricolore con lo stemma sabaudo. Nei pressi di Piazza dei Vergini, è fermato da una camionetta piena d’ausiliari. Gli intimano provocatoriamente di consegnare la bandiera. Il ragazzo sfugge ai poliziotti e si arrampica sul cancello di una vicina chiesa, sventolando la bandiera e gridando a squarciagola: “Viva il Re!” Alle grida accorre numerosa la popolazione, che subito circonda minacciosa la camionetta. I celerini devono abbandonare, scornati, il campo sotto un subisso di fischi e pernacchie provenienti da una schiera di giovanissimi scugnizzi. Un celerino, rabbioso, però vuole vendicarsi. Con fredda determinazione, con una raffica di mitra uccide il ragazzo ancora aggrappato al cancello. Nel cadere, il suo corpo si avvolge in quel tricolore che ha difeso a con la vita. Ora anch’egli ha una bandiera per sudario.

CANZANO. Ci furono ancora molti morti per la bandiera tricolore?

BARTOLONE. L’11 giugno è una gi ornata di passione e di sangue. Al balcone della Federazione del PCI di Via Medina, accanto alla consueta bandiera rossa con falce e martello, è esposta una strana bandiera tricolore. Si vede l’effigie di una testa di donna turrita nel campo bianco al posto del tradizionale stemma sabaudo. Per Napoli, che ha votato per l’80% Monarchia, è una vera e propria provocazione. Fulminea si sparge la notizia per la città. A migliaia, spontaneamente, si dirigono a Via Medina. La stragrande maggioranza è composta di giovani e giovanissimi. In molti hanno partecipato con coraggio nel 1943 alle cosiddette “quattro giornate “contro l’occupazione tedesca. Qualcuno ha le stesse armi di allora: pietre, solo pietre. L’obiettivo è: strappare e distrugge quel vergognoso vessillo, poi si tornerà festeggiando a casa. Dall’altra parte c’è qualcuno però che ha deciso di farla finita una volta per sempre e di soffocare nel sangue le proteste popolari. In Via Medina ora, oltre le camionette, vi sono decine di blindati e celerini in assetto di guerra. La sede comunista è difesa da numerosi militanti armati. I primi gruppi di dimostranti appena arrivati, rovesciano i tram per rendere difficoltosi i micidiali caroselli degli automezzi della Celere. Seguono salve di fischi, urla, insulti all’indirizzo della bandiera esposta. Poi un giovane marinaio di leva, Mario Fioretti, aggrappandosi ai tubi e alle sporgenze inizia a scalare il palazzo della federazione per arrivare al 2° piano e asportare quella bandiera. In minuto è quasi giunto al drappo conteso. Basterà allungare la mano, impadronirsene e tutto sarà finito. Da una finestra della federazione comunista però spunta un braccio armato di pistola, che a bruciapelo spara sul giovane marinaio. Mario Fioretti stramazza cadavere sul selciato, mentre dai presenti si levano urla d’orrore e di rabbia. Altri giovani, per nulla spaventati dalla morte del loro coetaneo, cominciano anch’essi la scalata verso quel balcone. Un gruppo di dimostranti duramente contrastato da un gruppo di celerini, cerca di guadagnare le scale per salire al piano superiore. Tra poco i dimostranti avranno la meglio, ma dalla caserma di polizia, posta quasi di fronte al palazzo assediato, s’incomincia a sparare contro i nemici che sono quasi arrivati alla bandiera. Sparano per uccidere. Cadono uno dopo l’altro e si sfracellano a terra: Guido Bennati, Michele Pappalardo, Felice Chirico. Michele Pappalardo doveva sposarsi l’indomani e invece della fidanzata è andato a sposarsi con la morte. Aveva detto alla madre: “Mammà piglio ‘a bandiera e po’ torno…’ Una bandiera tricolore con lo scudo sabaudo diventa il suo sudario. A Via Medina scoppia l’inferno. I feriti si contano a decine. Muore in un lago di sangue, sempre colpi to da pallottole, l’operaio monarchico Francesco D’Azzo. Le autoblindate della Celere hanno avuto finalmente ragione delle rudimentali barricate, alzate dai monarchici, e stanno per avventarsi con i loro terribili caroselli sui dimostranti, quando la studentessa Ida Cavalieri fa barriera col proprio corpo inerme nel disperato tentativo di fermarne la corsa. L’ordine è disperdere la folla, costi quel che costi. A Napoli, quel giorno, la vita umana non vale niente. Così Ida Cavalieri è stritolata dagli automezzi repubblicani. Non accade il miracolo di Piazza Tienanmen, a Pechino. Un appartenente alla Regia Marina, Vincenzo Guida cerca di organizzare la resistenza, innalzando una grande bandiera sabauda su di un palo. E’ colpito mortalmente alla nuca da un colpo di un moschetto, sparato da un celerino. Quando la strage è finita arriva la polizia militare americana che, insieme ai Reali Carabinieri, a stento riesce a sottrarre i celer ini e gli attivisti comunisti alla collera popolare. Alla fine della tragica giornata di sangue, si conteranno, oltre i morti circa 50 feriti gravi. Tra questi ultimi, tutti colpiti da armi da fuoco, Gerardo Bianchi di 15 anni, Alberto De Rosa di 17, Gianni Di Stasio di 14, Antonio Mariano di 12, Giovanni Vibrano di 11, Raffaele Palmisano di 10 e Tino Zelata di 8. Gli altri feriti avevano in media 20-30 anni.

CANZANO. Che successe dopo?

BARTOLONE. Il Re partì. Non voleva avere sulla sua coscienza di cattolico osservante i lutti di una nuova guerra civile e la fine dell’Unità nazionale conquistata durante il Risorgimento. Vi furono promesse e pressioni sulla Cassazione. Alla fine fu accolta a maggioranza, 12 contro 7, compreso il voto favorevole alle tesi monarchiche del presidente della Corte, Giuseppe Pagano, sostenute dal parere favorevole del procuratore generale Massimo Pilotti, la tesi repubblicana: è “votante” solo colui il q uale abbia compiuto “una manifestazione positiva di volontà”. In pratica un milione e mezzo circa di votanti, in bianco o nulli, non avevano votato. Sicché la presunta maggioranza per la repubblica si ridurrebbe a 200 mila voti circa. La prova inconfutabile che fu un colpo di stato, è desumibile dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana del 1° luglio 1946. Pubblicando il decreto del passaggio dei poteri di Capo dello Stato da De Gasperi a De Nicola, si precisò che De Gasperi deteneva tali poteri dal 18 giugno, cioè dal giorno in cui la Corte emise la sentenza definitiva.

BIOGRAFIA.

Giovanni Bartolone, nasce a Palermo nel 1953, ove insegna Diritto ed economia nelle Superiori. Vive a Bagheria (PA). E’ laureato in Scienze Politiche, indirizzo Politico Internazionale, con una tesi sul Referendum istituzionale del 1946. E' da molti anni impegnato in ricerche sulla II guerra mondiale, il Fascismo, il Nazionalsocialismo, il fenomeno della mafia, la Sicilia dallo sbarco Alleato alla morte di Salvatore Giuliano. Ha pubblicato nel 2005 a sue spese il libro “Le altre stragi”, dedicato alle stragi alleate e tedesche nella Sicilia del 1943/44 e il saggio Luci ed ombre nella Napoli 1943-1946, ISSES, Napoli, 2006. 

·        Le oche starnazzanti.

La conferenza stampa del governatore. De Luca contro le Regioni del Nord: “Campania per il massimo rigore, pronti alla battaglia per impedire il furto di risorse al sud”. Redazione su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Vincenzo De Luca è per la linea del massimo rigore. Sempre. Il Presidente della Campania nella consueta diretta del venerdì lancia come al solito accuse e strali. Al governo, soprattutto, chiede rigore in questa fase dell’emergenza coronavirus. Se la Campania si è salvata, ha detto sottolineando che la Regione è quella con la densità abitativa più alta d’Italia, è stato per le decisioni prese dalla Regione stessa, prima dell’esecutivo. E non per il dpcm delle Zone Rosse, Arancioni o Gialle. “Fesserie”, le ha definite. E quindi è infastidito dall’informazione che vuole le Regioni premere contro il governo per ottenere più riaperture. “Secondo i media c’è un assedio delle Regioni nei confronti del Governo per chiedere provvedimenti meno rigorosi. La Regione Campania chiede provvedimenti più rigorosi, non meno. Mi auguro che anche il sistema informativo trasmetta notizie rispondenti alla realtà”. Insomma, De Luca auspica che il governo non ceda alle richieste di aperture, in occasione delle festività natalizie, sulle pressioni delle Regioni del Nord. “Siamo talmente abituati a considerare ‘le Regioni’ soltanto le due, tre o quattro del Centro Nord – ha aggiunto De Luca – che scambiamo le posizioni di tre o quattro Regioni come le posizioni delle Regioni d’Italia. Non è così. La Campania sostiene una linea di rigore, è contraria al rilassamento, all’apertura della mobilità, a queste manfrine alle quali stiamo assistendo su Comuni grandi o piccoli, su che dobbiamo fare a Natale, alla vigilia, a Capodanno”.

RECOVERY FUND – Un passaggio, che sottolinea ancora uno sfondo tra Regioni del Nord e del Sud, anche sul Recovery Fund, il fondo europeo da 750 miliardi miliardi di euro sbloccato dall’accordo dei ventisette. “Sullo sfondo c’è un problema che riguarda noi meridionali: e cioè le ipotesi del Governo configurano l’ennesimo furto nei confronti delle Regioni del Sud – ha aggiunto De Luca – I 209 milioni stanziati dall’Europa arrivano per recuperare il divario del sud rispetto al nord, mentre il Governo invece di dare il 66% al sud e il 34% al nord,  ipotizza di fare tutto il contrario. Dobbiamo prepararci a una battaglia politica chiara e forte per impedire che questo ennesimo furto a danno del Sud sia consumato nell’indifferenza del Paese e, quello che è peggio, delle Regioni meridionali stesse”. E quindi ha anticipato come “nei prossimi giorni vedremo di proporre un incontro con altre regioni del sud per mettere in campo una risposta istituzionale forte, anche per verificare se i parecchi ministri campani diano cenni di esistenza oppure no”. Un’altra stoccata al governo e in particolare ai ministri campani come quello degli Esteri Luigi Di Maio, agli Affari Europei Vincenzo Amendola, all’Università Gaetano Manfredi, allo Sport Vincenzo Spadafora, all’Ambiente Sergio Costa.

Il dibattito sul Recovery Fund. Recovery Fund, l’Europa è contro il divario tra Nord e Sud. Luigi Famiglietti su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. L’Italia ha ottenuto i 209 miliardi del Recovery Fund innanzitutto perché la Commissione ha riconosciuto come il divario Nord-Sud sia un punto critico per l’economia nazionale e, quindi, ha posto lo sviluppo del Mezzogiorno come prima condizione per l’utilizzo dei fondi. Nella bozza del Piano di resilienza portata in Consiglio dei ministri dal premier Giuseppe Conte si fa riferimento alla clausola del 34% come tetto per l’utilizzo dei fondi al Sud. In realtà, tale clausola, ancora non rispettata, è stata introdotta nel nostro ordinamento per fare in modo che, rispetto agli investimenti in conto capitale interni al Paese, almeno il 34% riguardi il Sud. Tale quota rappresenta la percentuale di popolazione meridionale rispetto al dato complessivo nazionale. Perciò c’è stata una levata di scudi degli istituti meridionalisti. In particolare, il presidente di Svimez, Adriano Giannola, ritiene che, in base alle linee-guida del Recovery Fund, debba essere riconosciuto al Sud almeno il 60% delle risorse a disposizione dell’Italia proprio perché il divario con il Nord è stato riconosciuto tra i più ampi tra i Paesi europei. Il Governo precisa che i fondi destinati al Sud nei prossimi anni saranno più che sufficienti in quanto va considerato anche il Piano Sud 2030 e la programmazione dei fondi strutturali 2021/2027. Mai come in questa occasione, tuttavia, il problema non sta tanto nella quantità dei fondi messi a disposizione del Sud, quanto nella qualità dei progetti anche rispetto agli effetti che produrranno. Diventa fondamentale curare non solo il supporto alla progettazione, ma soprattutto il monitoraggio sul corretto utilizzo delle risorse. Bisognerà coniugare al futuro questo intervento straordinario che non a caso si chiama Next Generation. L’Europa ci chiede nuove politiche di sviluppo basate sull’innovazione digitale, sulla transizione ambientale e sull’eliminazione del divario Nord-Sud sia dal punto di vista infrastrutturale che nella fruizione dei cosiddetti diritti di cittadinanza: istruzione, sanità e mobilità. Nel Rapporto del G30 Mario Draghi spiega bene come per lo sviluppo servano uno sguardo lungo e progetti ad alto rendimento tali da giustificare l’investimento pubblico e garantire la crescita e la diminuzione del debito. Tuttavia, stando alla bozza del Piano italiano circolata nei giorni scorsi, sembrerebbe che ben pochi tra i progetti indicati possano garantire quei rendimenti elevati auspicati da Draghi. Intanto, buona parte dei crediti europei servirà a coprire programmi di spesa già esistenti, come nel caso della ferrovia Napoli-Bari, per liberare risorse nazionali già impegnate ed evitare un significativo aumento del debito pubblico. Rispetto ai nuovi investimenti, nella bozza circolata, si parla, per esempio, del potenziamento dei porti di Trieste e di Genova e non si fa cenno ai porti meridionali e alla funzione del Sud come grande piattaforma logistica integrata proprio quando, nel nuovo contesto internazionale, per l’Europa diventa fondamentale guardare al Mediterraneo. È scomparso dal dibattito il ponte sullo stretto di Messina che pure sarebbe utilissimo per estendere la rete alta capacità/alta velocità alla Calabria e alla Sicilia. L’Italia non eccelle nell’utilizzo dei fondi europei e le regioni del Sud hanno il dovere di fare autocritica per la gestione delle risorse comunitarie. Tuttavia la soluzione non può stare nella nomina dell’ennesima task-force nazionale che andrebbe a sovrapporsi all’Agenzia per la Coesione e alle strutture ministeriali. Il ministro Giuseppe Provenzano e il direttore di Svimez Luca Bianchi, in una pubblicazione del 2010 dal titolo Ma il cielo è sempre più su?, di fronte alla scarsa efficienza delle Regioni e delle amministrazioni centrali avevano suggerito una terza via: concordare con Bruxelles poche priorità da finanziare, definire obiettivi da raggiungere chiari e verificabili e accettare un sistema di valutazione indipendente, europeo. Già Carlo Trigilia, nel 2009, aveva invocato una Maastricht per il Mezzogiorno con un intervento su Il Mattino e considerazioni simili erano state espresse nel rapporto predisposto da Fabrizio Barca per la Commissione europea in vista della definizione della nuova politica di coesione per il post 2013. Quindi, per sfruttare al meglio i fondi europei stanziati per le prossime generazioni e provare a ridurre il divario Nord-Sud in un disegno unitario con una logica di sviluppo nazionale, bisogna ripensare il sistema di governance delle politiche pubbliche attraverso l’imposizione di vincoli esterni assai più stringenti che nel passato: occorre un rafforzamento della capacità di indirizzo e controllo da parte della Commissione europea sia nella fase di progettazione che in quella di monitoraggio della spesa.

TUTTI CON DE LUCA PER SCONGIURARE «IL FURTO AI DANNI DEL SUD». Giovedì 17 dicembre, ore 17. Il Sud s'è desto. La sommossa istituzionale contro la ripartizione dei fondi europei a fondo perduto diventa sempre più concreta. Michele Inserra su Il Quotidiano del Sud il 17 dicembre 2020. Giovedì 17 dicembre, ore 17. Il Sud s’è desto. Questa volta si fa sul serio, almeno così sembra dai buoni propositi. Lo sceriffo si è svegliato, detta la linea per il Mezzogiorno, si mette di traverso, contesta il governo e il suo partito, il Partito democratico, che supporta e sostiene il percorso politico dell’esecutivo nazionale. Così su invito del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, oggi si ritrovano i presidenti delle regioni meridionali per confrontarsi sul riparto nazionale dei fondi previsti nell’ambito del programma “Next Generation” che, secondo le ipotesi di governo, destina al Sud la misera quota del 34%: Marco Marsilio (Abruzzo), Vito Bardi (Basilicata), Nino Spirlì (Calabria), Donato Toma (Molise), Michele Emiliano (Puglia), Christian Solinas (Sardegna) e Nello Musumeci (Sicilia). De Luca sollecita i colleghi a fare fronte comune al di là dei partiti, per scongiurare “un vero e proprio furto ai danni del Sud” e contrastare le “inaccettabili ed estemporanee ipotesi di governance tecnocratica e centralistica”. Fanno benissimo adesso i governatori del Sud a “sposare” la campagna di questo giornale, condotta in assoluta solitudine e avallata dalle principali istituzioni economiche, statistiche e contabili della Repubblica italiana. Un sussulto di dignità per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni affinché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola. Un cammino comune quello intrapreso dai governatori che ha ne Il Quotidiano del Sud-L’Altra voce dell’Italia la sua casa naturale per promuovere un atto istituzionale formale. La sommossa istituzionale contro la ripartizione dei fondi europei diventa sempre più concreta. Era l’ora, dopo un soporifero letargo delle istituzioni meridionali. «Gli Stati membri potranno beneficiare di un contributo finanziario sotto forma di un sostegno non rimborsabile. L’importo massimo per Stato membro sarà stabilito in base a un criterio di ripartizione definito. Tali importi saranno calcolati in base alla popolazione, all’inverso del prodotto interno lordo (Pil) pro capite e al relativo tasso di disoccupazione di ciascuno Stato membro». Alle pagine 8 e 9 della proposta di regolamento, il parlamento europeo fissa i paletti sui criteri di ripartizione delle risorse a fondo perduto del Recovery Plan. Sono tre gli indicatori: popolazione, tasso di disoccupazione e Pil pro capite. Dovranno essere destinate maggiori risorse a quei territori con più residenti, con maggiore disoccupazione e prodotto interno lordo inferiore. Seguendo i criteri Ue, il governo Conte deve investire per il Nord Italia il 21,20% dei 65,4 miliardi a fondo perduto previsti dal Piano nazionale ripresa e resilienza; il 12,81% deve andare al Centro e il 65,99% al Sud, ben oltre, quindi, il 34% previsto dal piano dell’Esecutivo nazionale. Quasi il doppio. Anziché 22,23 miliardi, quindi, al Sud dovrebbero andare 43,15 miliardi, una differenza di 20,9 miliardi; mentre al Centro-Nord, anziché 43,16 miliardi dovrebbero essere destinati 22,24 miliardi, secondo i criteri dell’Unione Europea. Un «vero e proprio furto in danno del Sud e delle sue Regioni» di fronte al quale «si rende urgente e necessaria un’iniziativa forte delle Regioni meridionali che devono ritrovare una comunità di visione e di azione, al di là delle rispettive collocazioni di schieramento politico» ha scritto De Luca nella lettera di invito ai colleghi. Un programma «imponente – spiega il governatore campano – che prevede l’impegno di ben 209 miliardi di euro, di cui 193 miliardi del solo Piano di Ripresa e Resilienza (Pnrr) , a loro volta divisi in 65,4 miliardi a fondo perduto e 127,6 miliardi a titolo di prestito da rimborsare. Risorse che l’Europa rende disponibili per un rilancio economico finalizzato, in primo luogo, a colmare il divario tra aree più sviluppate ed aree con Pil molto al di sotto della media europea e con più alto tasso di disoccupazione. Del resto, se l’Italia è il Paese cui è destinata la maggiore quota di risorse è proprio perché comprende una consistente area con tali requisiti di debolezza: il Mezzogiorno». Di tutto ciò, sottolinea De Luca, «non vi è traccia del dibattito politico di queste settimane, tutto incentrato su inaccettabili ed estemporanee ipotesi di governance tecnocratica e centralistica. Anzi, vi è di peggio. I criteri europei di riparto delle risorse sono totalmente occultati in tutti i documenti ufficiali. Da ultimo, è circolato un Piano del governo che capovolge i criteri europei e ripropone la banale distribuzione delle risorse fra Centro-Nord e Sud secondo un criterio esclusivamente demografico, cioè il contrario dei principi di coesione sociale e territoriale sanciti nel Trattato di funzionamento dell’Unione e nella nostra Costituzione». Ecco perché, secondo De Luca, «si prepara un vero e proprio furto in danno del Sud e delle sue Regioni. Solo per la parte a fondo perduto del Pnrr tale furto assomma a ben 20,92 miliardi di euro. Peraltro – prosegue De Luca – anche la ripartizione delle risorse nelle 6 missioni proposte dal Governo è davvero sconcertante. Basti pensare alla mortificazione di settori importanti, in particolare per il Sud, come la sanità, il turismo ed i servizi idrici. Si rende, pertanto, urgente e necessaria un’iniziativa forte delle Regioni meridionali, che devono ritrovare una comunità di visione e di azione, al di là delle rispettive collocazioni di schieramento politico. Se non avvertissimo con forza questa responsabilità comune non svolgeremmo il ruolo che le nostre comunità si attendono da noi tutti». Da qui la proposta, rivolta dal presidente della regione Campania ai governatori di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, di un incontro da remoto «per discutere insieme di questi temi e per definire le più opportune iniziative in ambito nazionale ed europeo». Plauso all’iniziativa Doriana Buonavita, segretaria generale della Cisl Campania. «Ci aspettiamo una forte sinergia fra tutte le regioni del Sud, che possano superare le legittime divisioni sul piano politico e trovare alleanze profonde, anche per dare un forte contributo nel ridisegnare politiche nuove per il Mezzogiorno e per il Paese». L’iniziativa intrapresa da De Luca è riuscita anche ad incassare il sostegno di Forza Italia nel consiglio regionale campano. «Ribadiamo al presidente De Luca – ha detto il capogruppo consiliare degli azzurri, Annarita Patriarca – la disponibilità da parte di Forza Italia a collaborare e a dare il nostro apporto in termini di progetti e azioni politiche. Questa è una battaglia comune, dell’intero Meridione, e per tale motivo siamo disposti ad affiancare il governatore affinché la Campania sia alla testa delle regioni del Sud per impedire quello che si configura come un furto ai danni del Sud». «Il Recovery fund è una occasione irripetibile per il Mezzogiorno di vedere ridotto il gap con le regioni del Nord – ha aggiunto – Per questo, non dobbiamo spaventarci di ingaggiare una battaglia per far arrivare al Sud il 70% dei fondi, e non il 34% come deciso dal Governo Conte, contravvenendo alle stesse disposizioni della Commissione europea». Gli fa eco l’europarlamentare forzista, Fulvio Martusciello. «La decisione del Governo di concedere al Sud solo il 34% dei 209 miliardi destinati al nostro Paese, contrariamente a quanto stabilito dalla Commissione Europea, cioè di assegnare al Mezzogiorno il 70% delle risorse del Recovery fund, è l’ennesima mortificazione che riceve il nostro Sud, dal Governo Conte – ha detto – questo ennesimo furto va bloccato. Bisogna invertire questa decisione inaccettabile del Governo e far in modo che il 70% dei fondi vadano al Sud non al Nord. La Campania e tutte le regioni del Mezzogiorno hanno bisogno di questi fondi. Ci batteremo fino alla fine coinvolgendo tutti i parlamentari affinché il Governo cambi questa sua assurda decisione». Fa la voce grossa anche Stefano Caldoro, il candidato alla presidenza sconfitto da De Luca alle scorse elezioni regionali. «Le risorse europee vanno destinate in maniera massiccia ed intelligente al Sud perché qui ci sono più margini di crescita per l’economia e perché i trasferimenti statali di spesa corrente, negli anni, hanno penalizzato le regioni meridionali – ha detto il capo dell’opposizione in Consiglio regionale della Campania». I motori sono caldi. Si parte, a difesa del Mezzogiorno.

CALABRIA SENZA SPERANZA. Emergenza Covid, siamo al punto di massimo tradimento delle istituzioni. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 7 novembre 2020. Possiamo tollerare che il 27 ottobre, sette mesi dopo la prima ondata, il ministro della Salute si ricordi di nominare il generale Cotticelli commissario attuatore per il piano Covid in Calabria e che il medesimo generale non ritenga di dovere neppure leggere la comunicazione che lo riguarda? Non sa che è commissario per la sanità in Calabria e ritiene che il ministero debba fare il lavoro suo. Non sa che è stato nominato commissario attuatore per il piano Covid. Non sa che tocca a lui fare il piano B. Non conosce il numero dei posti letto in terapia intensiva della Regione a lui affidata e chiede assistenza tecnica all’usciere del suo piano. Non sa probabilmente neppure come si chiama. Non abbiamo la minima idea di chi possa avergli dato le stellette di generale. Riteniamo un’offesa al decoro delle istituzioni avere nominato una persona così incompetente alla guida della sanità calabrese. Si chiama Saverio Cotticelli. Non può rimanere nemmeno un secondo di più seduto su quella poltrona perché la sua sola presenza può rappresentare un oltraggio alle donne e agli uomini della Calabria. Rimuoverlo da quella poltrona è obbligatorio ma resta una decisione tardiva che nulla toglie alle responsabilità di chi lo ha nominato e di chi lo ha fino ad oggi mantenuto in questo incarico. Siamo molto oltre la barzelletta di un generale chiamato da uno Stato patrigno a fare un mestiere che non conosce. Siamo al punto massimo di tradimento delle istituzioni quando si decide che alle ruberie della politica locale regionale, ai falsi in bilancio e alle corruttele delle aziende sanitarie, si deve aggiungere un altro stipendio pagato da tutti noi per non fare nulla. Anzi peggio. Per non leggersi neanche le carte che lo riguardano. Per cumulare debiti su debiti. Per aggravare ciò che nessuno riteneva possibile aggravare ancora di più. Possiamo tollerare che il 27 ottobre, sette mesi dopo la prima ondata, il ministero della Salute si ricordi di nominare il generale Cotticelli commissario attuatore per il piano Covid e che il medesimo generale non ritenga di dovere neppure leggere la comunicazione che lo riguarda? Ministro Speranza, erano spariti tutti i manager di settore al momento della nomina di Cotticelli, c’erano disponili solo uomini dell’arma? E, soprattutto, che cosa ha fatto Lei da marzo a ottobre, forse era più urgente leggere le bozze del suo libro che occuparsi dell’emergenza sanitaria calabrese? Commissario Arcuri, possiamo ricordarLe che la Calabria fa parte dell’Italia e che doveva essere la prima delle sue preoccupazioni? Che cosa Le fa ritenere che dobbiamo sopportare ancora il peso della Sua tanto manifesta quanto presuntuosa incapacità? Per quanto vi possa apparire paradossale ci tocca addirittura assistere ad un Presidente facente funzioni della Regione, tale Nino Spirlì, che scopre che la sua Regione è finita in codice rosso, occupa le tv da mattina a sera ma non sa niente di quello che è avvenuto prima di lui e non trova mai un minuto per informarsi che l’attuazione del piano Covid non doveva farlo la Regione ma il commissario Cotticelli. Anche qui siamo alla farsa di una tragedia vera. La tragedia vera è che a ogni cittadino calabrese vanno 15,9 euro per investimenti fissi in sanità e a ogni cittadino emiliano-romagnolo ne vanno 84,4. La tragedia vera è che tutto ciò avviene da undici anni in un luogo nascosto della democrazia italiana che si chiama Conferenza Stato-Regioni dove, con il trucco della spesa storica, esistono cittadini di seria A e cittadini di serie B grazie a una solida alleanza tra la Sinistra Padronale tosco-emiliana e la Destra lombardo-veneta a trazione leghista. Siamo alla tragedia di un misfatto che si ripete nel silenzio complice di tutti senza che un solo presidente della Regione Calabria o di una qualunque delle Regioni del Mezzogiorno abbia ritenuto di sollevare il problema in quella sede o, meglio ancora, davanti alla Corte Costituzionale. Siamo nel caso della Calabria alla tragedia supplementare di uno Stato che subentra alla Regione nella gestione della sanità da oltre dieci anni per una serie di scandali che hanno riguardato le aziende sanitarie locali, ma riesce a fare peggio di chi li ha preceduti. Siamo allo Stato patrigno che non vede, non sente, non parla, e fa male. Molto male. Non ha consapevolezza o non vuole avere consapevolezza che con un finanziamento così ingiustificatamente ridotto non è possibile fare alcuna azione di risanamento e, tanto meno, di riorganizzazione e di sviluppo delle attività sanitarie. Lo Stato è fuori. Non ha la cassa. I soldi sono stati trasferiti alle Regioni e, come questo giornale documenta in assoluta solitudine da mesi e mesi, la ripartizione delle risorse di fatto non appartiene più alla potestà nazionale, ma all’arbitrio negoziale tra i Capetti delle Regioni che si sono autonominati “Capi di stato” e che hanno in mente loro una precisa gerarchia. Per cui gli “Stati” del Centro-Nord lombardo-veneto e dei “granducati” toscano e emiliano-romagnolo, quello piemontese di origine sabauda e la consorella Liguria che contribuiscono insieme al primo e al secondo posto alla realizzazione del deficit sanitario nazionale, sono tutti Stati di serie A, lo staterello calabrese può giocare al massimo la sua partita nei campionati minori. Il finale di questo circolo perverso di un Paese che è diventato terra di nessuno, dove non si sa più chi comanda, dove non si sa chi decide, dove tutto è opinabile, è che una regione come la Calabria dove il tasso di contagio non è per fortuna esploso, deve subire la beffa di finire in codice rosso come regioni infinitamente più foraggiate dallo Stato (Lombardia e Piemonte) che hanno tassi di contagio infinitamente superiori, per la semplice ed esclusiva ragione che non è stata messa nelle condizioni di assicurarsi un livello di protezione ospedaliera adeguato. Il finale di questa maledetta storia italiana che ne fotografa le ragioni profonde della sua crisi strutturale è che un’economia già in ginocchio come quella calabrese viene rasa al suolo non perché c’è una pandemia globale, ma per colpe che non appartengono a questa comunità. Che cosa hanno fatto, mi chiedo, le donne e gli uomini della Calabria per meritarsi un tale trattamento di “riguardo”? Ma vi rendete conto a quali abissi di irresponsabilità ci ha condotto il federalismo incompiuto all’italiana che mette insieme il miope egoismo del Nord e la rassegnazione al degrado del Sud? Lo ripetiamo come un disco incantato ogni giorno, ma se non si mette mano con urgenza immediata alla riforma dello Stato e della sua macchina amministrativa, non abbiamo speranze. Se non si restituisce allo Stato ciò che è dello Stato, se non la smettono i Capetti delle Regioni di muoversi come Capi di Stato ombra, non solo non supereremo la crisi terribile del Covid ma faremo lentamente precipitare il Sud intero nella povertà e il Nord intero in un regime di sudditanza coloniale tedesca e francese come subfornitori di industria e di finanza. Nel frattempo c’è una sola realtà che riguarda i cittadini calabresi. Che hanno visto aumentare, di addizionale in addizionale, le loro tasse per coprire i buchi della sanità. Cioè per non avere nulla. Come dire: “stracornuti e stramazziati”. Questa realtà fa paura.

Andrea Bassi per “il Messaggero” il 6 novembre 2020. Un miliardo di euro. Sull'unghia. Mentre il resto del Paese arranca tra la pandemia e la crisi economica, c' è un pezzetto d' Italia che può viaggiare su un binario parallelo, più veloce. O, se si vuole, in un' altra classe. Migliore ovviamente. Basta prendere le parole spese dal ministro delle infrastrutture, Paola De Micheli, che con un entusiasmo che stride con il momento, ha celebrato la sua decisione di firmare il decreto che finanzia con il suddetto miliardo le infrastrutture lombarde in attesa delle Olimpiadi invernali del 2026 di Milano e Cortina. «Faremo compiere un salto di qualità infrastrutturale - è stata la spiegazione della ministra - a una delle aree più sviluppate del Paese con una ricaduta importante per la qualità della vita delle persone e anche un miglioramento competitivo per le imprese». Che va bene. Chi prospera ha diritto di stare meglio. Anche se a Milano non si scierà, perché montagne e piste non ce ne sono. Ma nemmeno si può sorvolare sul fatto che, ancora una volta, il governo ha deciso di sostenere la parte più ricca del Paese a scapito del Sud. Quelle stesse Regioni settentrionali che sono state, come ha appena sottolineato la Banca d' Italia nel suo studio sulle economie regionali, la culla della recessione italiana. Recessione la cui onda d' urto, tuttavia, ha spiegato sempre via Nazionale, ha messo al tappeto soprattutto le famiglie del Centro-Sud. Basta pensare alla crisi nera del turismo, o all' ecatombe dei lavoratori a termine e stagionali concentrati soprattutto nelle Regioni meridionali. Il punto sta proprio qui. Nel continuare a pensare, erroneamente, solo alla presunta locomotiva, mentre i vagoni deragliano. La prova? Proprio mentre la ministra De Micheli celebrava il decreto pro-Milano, il governo ha preso una decisione controversa, immediatamente contestata dagli interessati: dichiarare il lockdown di una regione, la Calabria, non perché i contagi sono fuori controllo, ma perché se lo fossero, avrebbe un sistema sanitario talmente disastrato da non poter reggere l' onda d' urto. Insomma, lo stesso governo che ha trovato un miliardo per i giochi invernali del 2026, ha alzato le mani davanti al disastrato sistema sanitario calabrese, scegliendo la via più semplice: la chiusura. Con le pesanti conseguenze economiche che questo comporta per un territorio che ha il reddito medio più basso d' Italia: solo 15.430 euro contro gli oltre 25.600 euro della Lombardia. La colpa, si potrebbe obiettare, è in fin dei conti della stessa classe politica. La sanità calabrese è da oltre 10 anni commissariata con lo scopo di ripianare il debito. Solo che lo stesso debito, da quando la Regione è sottoposta al piano di rientro, è passato da 150 milioni a quasi 1 miliardo. E ora il commissariamento è stato allungato di 3 anni. Il vero problema è che l' unica ricetta messa in campo sono stati tagli ai posti letto e agli ospedali. Il risultato è che i commissariamenti non hanno aiutato la Calabria a migliorare il sistema sanitario e se oggi si ritrova zona rossa è più per la fragilità della rete degli ospedali e del tracciamento che per una reale esplosione del contagio. La debolezza del sistema sanitario calabrese negli anni è anche stata accentuata dall' effetto perverso del mancato rilancio, perché i cittadini cercano assistenza in altre regioni. Secondo un report della Fondazione Gimbe, diffuso a settembre, la Calabria ha uno dei saldi peggiori nel calcolo che valuta la mobilità attiva e passiva: 287,4 milioni di euro che finiscono soprattutto in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana dove i calabresi sono costretti ad rivolgersi per curarsi a causa delle carenze della sanità locale povera di investimenti. Difficile che si possa uscire da questa situazione senza un vero intervento emergenziale che possa contare su finanziamenti straordinari cospicui. Magari gli stessi assegnati per rifare le strade lombarde in vista delle olimpiadi. Anche perché, se da un lato non si possono nascondere le responsabilità politiche, dall' altro il sistema sanitario calabrese è andato in difficoltà, come altri del Mezzogiorno, anche per i criteri di riparto del fondo sanitario che per anni hanno premiato le regioni settentrionali. Alla Calabria, con quasi 2 milioni di abitanti, sono stati destinati soltanto 3,6 miliardi. Dunque, 1.800 euro pro capite contro i 1.916 destinati alla salute di un cittadino del Friuli o, ancora, i 1.935 impiegati per un piemontese. Un meccanismo che, secondo la Corte dei Conti, ha portato a una distribuzione sbilanciata verso il Nord delle risorse. Dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei regioni settentrionali hanno visto aumentare la loro quota mediamente del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud hanno visto lievitare la loro parte solo dell' 1,75%: significa più o meno 1 miliardo in meno in 5 anni. Proprio la stessa cifra destinata ai giochi del 2026.

ITALIA TERRA DI NESSUNO. Siamo al punto finale di un Paese che si crogiola nell’eccesso di debito e nella carenza di Stato. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 5 novembre 2020. Lo Stato patrigno si permette di dare 84,4 euro pro capite a un cittadino emiliano-romagnolo e 15,9 euro a un cittadino calabrese di investimenti nella sanità come se nulla fosse, e poi che fa? Arriva a chiudere la regione, che lo Stato ha commissariato da dieci anni e che i tedeschi hanno indicato come zona meno infetta, perché non ha nulla o quasi per proteggersi sul piano sanitario. Praticamente stracornuti e stramazziati. Otto mesi fa il commissario Arcuri la conosceva o no la situazione delle terapie intensive della Calabria? Che cosa hanno fatto lui e Speranza per acquistare posti letto e prepararsi alla seconda ondata? Stracornuti e stramazziati. C’è un punto dell’Italia dove il Paese Arlecchino dei Capetti Regionali che danno ai ricchi e tolgono ai poveri e il rigore ottuso di ragionieri ministeriali graduati con le stellette e muniti di poteri commissariali, possono decretare la morte sanitaria, economica e civile di una intera nazione. Benvenuti in questa terra di nessuno che non è solo la Calabria ma l’Italia dove non si capisce più chi comanda e tutti i poteri istituzionali non sono impegnati a fare ma piuttosto a fare molto perché nessuno di loro faccia qualcosa dentro un inverecondo scaricabarile di responsabilità. Benvenuti nel pezzo estremo di questa terra di nessuno dove aziende sanitarie che non presentano bilanci e altre accusate di infiltrazioni della criminalità organizzata hanno portato giustamente al commissariamento della sanità regionale senza che questo abbia migliorato di fatto qualcosa. Perché tra un piano di rientro e l’altro dello Stato patrigno e un taglio alla fonte di investimenti fissi in sanità che permette di dare 84,4 euro pro capite a un cittadino emiliano-romagnolo e 15,9 euro a un cittadino calabrese come se nulla fosse, l’unico risultato possibile è che si arrivi a chiudere la Regione che i tedeschi hanno indicato come zona meno infetta perché non ha nulla o quasi per proteggersi sul piano sanitario. Chiudendo la Calabria peraltro, forse, metti ulteriormente in crisi anche il livello sanitario, ma soprattutto riconosci che hai un deficit patologico strutturale e che tu Stato patrigno non hai fatto nulla per risolverlo. Otto mesi fa, commissario Arcuri, la conosceva o no la situazione delle terapie intensive della Calabria? Sì o no? Che cosa ha fatto per acquistare posti letto e prepararsi alla seconda ondata? Otto mesi otto: che cosa ha fatto lei, lo Stato, i suoi commissari sanitari perché la Calabria venisse prima di tutti in quanto partiva da più indietro di tutti e non ha più potestà regionali in materia? Che cosa ha fatto per fare capire ai commissari che l’equilibrio finanziario che prevede la morte del paziente non guarisce la sanità, ma condanna un popolo intero al turismo sanitario e la sua economia alla disfatta? Che cosa può avere spinto a trattare il Piemonte, principale responsabile del deficit sanitario nazionale, meglio della Puglia o la Liguria, corresponsabile con il Piemonte dello stesso deficit, meglio della Sardegna? Perché mai tutti questi soggetti regionali che hanno sempre avuto di più della Calabria sono trattati meglio anche in piena Pandemia? Quale logica si è voluto seguire? Ci troviamo di fronte al paradosso che le Regioni pluriforaggiate dalla spesa pubblica e con un accesso al capitale privato molto più elevato diventano zona rossa (Piemonte e Lombardia) perché nonostante tutte le risorse di cui ingiustificatamente beneficiano non sanno fare prevenzione e hanno tassi abnormi di contagio. Viceversa le Regioni svantaggiate come quella calabrese che hanno comunque un basso tasso di contagio devono chiudere ciò che resta della loro economia e della loro vita sociale. Perché prima il federalismo della irresponsabilità li ha privati dei diritti di cittadinanza sanitaria e scolastica e poi perché uno Stato patrigno – che indossa l’abito dei commissari-ragionieri e di quello all’emergenza affetto da acuto strabismo nordista – fa strame non delle sue pretese ma dei suoi più elementari diritti. Come si spiega, commissario Arcuri e ministro Speranza, questa insopportabile differenza tra Centro-Nord e Sud anche nella ripartizione degli interventi di emergenza? Perché si comprano più letti di terapia intensiva per una parte rispetto all’altra? Siamo, forse, al punto finale di un Paese che si crogiola da troppo tempo nell’eccesso di debito e nella carenza di Stato come ammonivano molto tempo fa in un libro famoso (L’economia italiana, edizioni il Mulino) Ignazio Visco e Luigi Federico Signorini. Questo tentativo lombardo di buttarla tutta in politica è deplorevole anche se il Governo deve essere in grado di fornire tutte le spiegazioni necessarie per capire bene come funzionano i criteri uguali per tutti. Un punto importante dell’Italia di oggi è quello di decidere i progetti a partire dalla sanità e, ancora di più, l’esecuzione dei progetti individuati come cruciali dalle strutture con team motivati. Non siamo in grado di avere una capacità di intervento pubblico strutturale, ma solo congiunturale che fa crescere il debito. Questa situazione è frutto anche della cattiva disposizione dei politici nei confronti di chi lavora nelle amministrazioni pubbliche dei ministeri e nei governi regionali e dal loro conseguenziale, progressivo scadimento, ma ancora prima da un assetto istituzionale che è fatto apposta per non decidere e aumentare gli squilibri territoriali. Per questo mi viene spesso di pensare che solo l’Europa potrebbe liberare il Mezzogiorno dallo Stato patrigno e dai feudatari regionali del Nord che hanno messo le mani sulla cassa da dieci anni in qua e non la mollano più. Il ministro Speranza è molto preoccupato per la salute della Calabria, apprezziamo la sua preoccupazione, ma farebbe bene a chiedersi che cosa ha fatto lui e che cosa hanno fatto i suoi collaboratori da otto mesi in qua per la Regione Calabria.

LO STATO IN TERAPIA INTENSIVA. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 6 novembre 2020. Con questo groviglio di poteri di veto e venti “capi di Stato” ombra, uno per Regione, il Paese non ce la fa. Se non si torna a dare allo Stato quello che è dello Stato non si va da nessuna parte. Anche se nessuno ve lo dirà mai ufficialmente non si chiude tutto come è stato fatto a marzo perché lo Stato italiano non ha i soldi per risarcire tutti. Ma la fiducia si è esaurita e nessuno è più disposto ad attendere. Uno Stato dove nessuno è in grado di imporre un ordine. Che dipende al 100% dai soldi della Banca Centrale Europea. Uno Stato che è tenuto in vita da quegli acquisti che dureranno a lungo, ma sapendo che senza di essi fallisce un minuto dopo. Siamo al Pandemonium italiano. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo. Le Regioni messe in codice rosso vivono una misura sanitaria come un fallimento politico. Altre Regioni messe in codice giallo esigono il codice rosso. Altre regioni finite nel codice arancione reclamano il giallo. Tutti la buttano in politica. Tutti straparlano. Tutti quelli che straparlano hanno fatto poco e male. Non è da meno il governo. Che arriva tardi, sei giorni dopo e senza soldi. Che arriva male e, cioè, dopo avere bruciato credibilità e gran parte degli effetti concreti delle nuove restrizioni per essersi rinchiuso in un conclave eterno allo scopo di strappare un consenso impossibile su una regola comune ai “padroni d’Italia” che sono i Capetti delle Regioni del Nord. Non si può chiedere alla Conferenza Stato-Regioni, dove la regola è l’arbitrio e dove è morto per miope egoismo lo spirito unitario del Paese, che improvvisamente approvi una regola uguale per tutti. Una regola che prevede parametri uguali per i cittadini lombardi e campani o per i cittadini emiliano-romagnoli e quelli calabresi. Al massimo, come è accaduto, questa regola comune si può solo imporla. Perché è l’esatto opposto di quello che ha fatto fino a oggi la Conferenza Stato-Regioni da sempre saldamente nelle mani della Sinistra Padronale tosco-emiliana e della Destra lombardo-veneta a trazione leghista in combutta tra di loro. Sapete che cosa vuol dire tutto ciò? Che non è vero che è stata tagliata la sanità come si sente dire in giro perché nel lungo termine la spesa è cresciuta mediamente del 3,5 % l’anno. Chi lo sostiene dice una balla e lo fa per nascondere i trasferimenti indebiti alle Regioni del Nord. Chi invece dice che le Regioni del Sud hanno subito un taglio drastico soprattutto nelle assunzioni non dice una balla. Questa è la sacrosanta verità. Ergo: quando la Pandemia era solo nelle regioni del Nord si soffriva molto, ma si poteva immaginare di resistere per gli ingenti trasferimenti avuti e il tasso presunto di organizzazione, ora invece che la Pandemia è anche al Sud si sente sulla pelle delle persone il morso di quei tagli ingiusti. Al punto che con i parametri comuni adottati devi chiudere la Calabria che ha un contagio leggero e, quindi, sei costretto a uccidere un’economia in ginocchio non per colpa delle pandemia, ma per colpa di un sistema sanitario che non è in grado di affrontare l’emergenza per almeno due ragioni. La prima: è stato spoliato ingiustificatamente di risorse dalla ripartizione incostituzionale tra le Regioni che lede i diritti di cittadinanza della comunità calabrese nel silenzio complice dei suoi amministratori. La seconda: perché, una volta commissariata la sanità regionale per scandali veri e presunti, si è deciso di affidarne la gestione a uno Stato Patrigno che non ha saputo fare altro che tagliare, tagliare, tagliare, con criteri ragionieristici. Questo significa abolire il Mezzogiorno e, di fatto, l’Italia. Questo significa, di fatto, dire ai calabresi che sono penalizzati due volte fino all’inverosimile. C’è una verità più profonda, però, che nessuno dice. Siamo dentro un pasticcio di Stato che non ha precedenti. Perché c’è un sistema istituzionale dilaniato dal federalismo dell’irresponsabilità. Perché in cassa non c’è più un euro nonostante le balle che abbiamo raccontato sulla ripresa portentosa italiana unica al mondo e sui soldi europeiche arriveranno ma non ora. Se fai un decreto di cosiddetti ristori per un paio di miliardi fai una scelta assolutamente sottodimensionata. Anche se nessuno ve lo dirà mai ufficialmente non si chiude tutto come è stato fatto a marzo pur avendo dati peggiori di marzo, perché lo Stato italiano non ha i soldi per risarcire tutti i soggetti economici di cui decreta la cessazione delle attività e dare quindi a loro tutto ciò che è dovuto. Non ha tutta la cassa che serve per impedire che la tensione sociale già esplosa incendi l’intero Paese. Siamo davanti a un Paese sfibrato che va in piazza. La gente non è più disposta come la prima volta a eseguire l’ordine alla cieca. Per questo hanno chiuso i negozi di vestiti, i bar, i ristoranti, questo e quello, ma non hanno toccato l’altro lavoro, almeno per ora ci provano. Affrontiamo la seconda ondata della più grande crisi sanitaria globale e conseguentemente del nuovo ’29 mondiale con un dpcm post-datato e un governo che non ha o, peggio, addirittura non può avere la mano ferma sulla leva di comando perché il sistema Italia si è infilato con le sue mani in un tunnel di egoismi da cui sarebbe stato difficile vedere la luce anche senza Covid. Figuriamoci oggi che tutto congiura contro. Per almeno tre motivi. Punto uno. Tutti hanno capito che i soldi veri non ci sono. Per cui se io faccio il barista e devo morire perché né Governo né Regione hanno risorse reali per me, allora io combatto come un pazzo con tutti i mezzi possibili perché non sono disposto a morire. Punto secondo. L’inefficacia evidente dei risarcimenti della prima ondata di modesta entità arrivati tardi o mai rende tutti diffidenti. La fiducia si è esaurita e nessuno è più disposto ad attendere. I proclami ripetuti di ottimismo fuori dalla realtà del ministro Gualtieri sono miscela esplosiva. Punto terzo. Ci è toccata anche la peggiore opposizione europea che ha sbagliato toni e comportamenti fin dal primo momento. Soffia sul fuoco e si salda con il protagonismo inconsulto dei Capetti delle Regioni. Quando la curva dei contagi si aggraverà ancora e il morso della fame supererà il livello di guardia i Capi delle opposizioni sovraniste e i governatori che fanno oggi le star non sapranno dove andare a nascondersi. Forse, a questo punto, è più chiaro a tutti perché si fa fatica a capire chi ha la forza, l’autorità e i soldi per imporre quella disciplina civile che abbiamo visto esprimersi a marzo e che si è rivelata fino a oggi l’unico modo per ridurre i contagi. Perché si fa fatica a capire se chi ha la regia della politica economica ha o non ha il controllo della barra e del motore per condurre la barca italiana fuori dagli scogli dove marosi mai visti la hanno scagliata. Con questo groviglio di poteri di veto e venti “capi di Stato” ombra, uno per Regione, che si fanno belli con i soldi degli altri, il Paese è destinato a uscire dal novero delle grandi economie industrializzate e la Depressione mondiale può solo accelerare il processo. Questo giornale in assoluta solitudine, dal suo primo giorno di uscita un anno e mezzo fa, sostiene che se non si esce dal federalismo dell’irresponsabilità e non si torna a dare allo Stato quello che è dello Stato non si va da nessuna parte. Se ci fosse la politica con la P maiuscola avrebbe la doppia consapevolezza della gravità del momento globale e della gravità del momento italiano. Il frastuono dei Capetti e dei loro piccoli e grandi sponsor non impedirebbe a quella Politica di metterli a posto.

I CALABRESI PAGANO TANTO PER LA SANITÀ. RICEVONO NULLA E I SOLDI VANNO AL NORD. Dieci anni di burocrazia e commissariamenti, di piani di rientro e scontri furibondi. Velerio Panettieri su Il Quotidiano del Sud il 6 novembre 2020. La Calabria non è in zona rossa da oggi, lo è da almeno dieci anni. Dieci anni di burocrazia e commissariamenti, di piani di rientro dal debito sanitario e scontri furibondi tra politica e tecnici. Di decreti speciali rinnovati ogni diciotto mesi e una gestione della burocrazia sanitaria impossibile da controllare. Non è una questione di contagi (che ci sono e preoccupano), o il problema del controllo dei tracciamenti e del numero di posti letto che non soddisfa neanche gli standard basilari dettati dal ministero della Salute. Tutto questo è una conseguenza, un problema radicato dietro le cifre ragionieristiche, i tagli lineari che hanno chiuso reparti e interi ospedali nel corso di un decennio e mandato a casa 3mila 700 operatori sanitari che non sono mai stati rimpiazzati per effetto del blocco del turnover imposto dallo stesso piano di rientro dal debito sanitario. La Calabria è un buco nero se si guarda ai conti: lo è per l’emigrazione sanitaria, che genera un saldo negativo allo stato attuale fermo sui 278 milioni di euro. Milioni che la Calabria paga ad altre regioni. Lo è perché due aziende sanitarie, quella di Catanzaro e Reggio Calabria sono state sciolte per infiltrazioni mafiose, per una gestione assurda degli appalti sanitari affidati a ditte in chiaro odore di mafia, per le doppie e triple fatture pagate ai privati e la contabilità creativa che ha generato mostri, per anni di bilanci mai presentati che hanno generato milioni di euro di debito. Lo è per un’altra azienda, la più grande di tutte, che da anni si ostina a non presentare neanche un bilancio. Solo a Reggio Calabria il volume dei contenziosi sfiora un miliardo di euro. Tutto messo nero su bianco dalla commissione prefettizia che in questo momento sta reggendo l’Azienda sanitaria provinciale. L’ultima rilevazione sul crack finanziario della sanità calabrese ha certificato un debito di 200 milioni di euro circa, parte del quale non risulta coperto né dal fondo sanitario nazionale né dall’aumento progressivo del gettito fiscale Irap e dall’addizionale Irpef, altra conseguenza puramente punitiva per non essere stati bravi a fare i conti a casa. E poi ci sono i livelli essenziali di assistenza. In Calabria sono sotto soglia da tempo, a gennaio 2020 finalmente abbiamo raggiunto la soglia dei 162 punti. Una soglia basata su 33 indicatori che raccontano lo stato della sanità in Calabria dai ricoveri agli screening oncologici, passando per l’assistenza alle fasce più deboli. E il fatto che negli anni siano piombati da ministero dell’Economia e della Salute una marea di commissari non ha cambiato le carte in tavola. Perché è la ricetta ad essere sbagliata: investimenti ridotti all’osso e politica al risparmio. È innegabile che lo strumento del commissariamento dopo oltre dieci anni, non abbia prodotto i risultati sperati. Men che meno adesso che la regione si è trovata in mezzo ad una pandemia. L’ultima riunione interministeriale con l’attuale commissario, il generale Saverio Cotticelli, è finita letteralmente in un bagno di sangue. Una resa dei conti nei confronti dello stesso commissario che non avrebbe fatto quello per il quale era stato mandato da queste parti. Il debito è fermo sui 200 milioni di euro, non tutto coperto dall’aumento delle tasse. E qui la beffa è doppia: i calabresi pagano tanto per la sanità, ma ricevono sostanzialmente poco o nulla. E tutto è anche frutto di una reiterata politica predatoria e clientelare che ha interessato tutti i colori politici per oltre un decennio. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ospedali che chiudono reparti per giorni perché non funziona un ascensore, strutture con 2,5 posti letto ogni 100mila abitanti, ben al di sotto di qualsiasi media nazionale e ritardi sul pagamento dei fornitori che superano ampiamente i tre anni. Il punto è tutto qui, non sono le eccellenze mediche a mancare in Calabria, spesso infilate in scenari di vera e propria guerra, c’è uno sperpero continuo di risorse e una burocrazia tremenda che tutto fagocita. Anche la nuova proroga al decreto Calabria, che dovrebbe consegnare ulteriori poteri al prossimo commissario (Cotticelli ha già annunciato le sue dimissioni) non fa dormire sonni tranquilli. Ma da questo labirinto del Minotauro fino ad oggi nessuno è riuscito a trovare una via d’uscita.

PERCHÈ LE OPERE PUBBLICHE AL SUD FANNO RUMORE? LA TRAGICOMMEDIA DELLA FERROVIA ADRIATICA E ALTRE STORIE. Raffaele Vescera su movimento24agosto.it il 19.10.2020. “Fa più rumore una scorreggia fatta a Napoli che una bomba esplosa a Milano”. E’ un detto ormai proverbiale per denunciare la scarsa attenzione dei media italiani verso quanto di clamoroso accade al Nord nel campo del malaffare, al contrario del rilievo sovrabbondante che viene dato a quello del Sud, bollato come Gomorra. Eppure i numeri diffusi dal ministero degli interni parlano chiaro: le città con il tasso di criminalità più alto sono tutte al Nord, a partire da Milano, seguita da Rimini, Bologna, Venezia, Firenze, Genova, etc. Per trovare la prima città meridionale bisogna scendere a metà classifica, Napoli dopo il 30° posto. Ma queste sono altre storie. Quanto invece oggi ci sta a cuore, è l’ennesima decisione di impedire la costruzione del raddoppio di binario ferroviario sulla linea adriatica al Sud, tra Foggia e Pescara, dove un tratto di 27 km tra Lesina e Termoli è ancora fermo al binario unico inaugurato 157 anni fa. Un binario unico che obbliga i treni a fermarsi alla stazione precedente per permettere il passaggio del convoglio proveniente in senso inverso, con attese che possono a volte superare il quarto d’ora, laddove oggi, da Bologna in su, in 15 minuti i Tav a 300 km l’ora fanno 75 km di strada. Senza dire che nel caso di lavori urgenti da farsi su quel vecchio binario meridionale, triste e solitario, la circolazione si può bloccare per giorni interi. Quale sarebbe la causa del nuovo impedimento alla costruzione del secondo binario e perché la realizzazione, pur finanziata dal 2001 è ferma da vent’anni? Farebbe troppo rumore. Sic! “La sottocommissione Via-Vas del ministero dell’Ambiente ha chiesto a Rfi alternative progettuali in termini di tracciato meno impattanti sul territorio e verso la popolazione: nella relazione è evidenziata «l’inopportunità di risolvere il problema esclusivamente attraverso il sistema delle barriere, unanimemente ritenuto inadeguato. È opportuno che Rfi ponga in essere ulteriori opzioni risolutive innovative».” Insomma, il nuovo tracciato risulterebbe insopportabilmente rumoroso per gli abitanti. Eppure chi conosce quella zone sa che tra la cittadina di Lesina, dove peraltro il binario passa ad alcuni km di distanza, e Termoli, non vi sono centri abitati. Il vecchio binario, sempre triste e solitario, corre tra piatti campi di grano con rare masserie e disabitate pinete marine. Allora chi disturberebbe il rumore del ciuf ciuf elettrico in quelle desolate campagne? Ah, sì, altro pretesto tirato fuori lo scorso anno, il rumore arrecherebbe fastidio all’uccello fratino, tipico di quelle zone. Tanto sostiene il ministero dell’ambiente e cotanto parere deve osservare Ferrovie dello Stato. Confesso la mia tarda età. Quaranta anni fa, fermo a Termoli per una precedenza da dare a un treno proveniente da Foggia, giovane insofferente, domandai a un anziano capostazione il perché di tanta attesa. “Se ne parla dagli anni ’20, ma io credo che noi il doppio binario, non lo vedremo mai." Mi rispose quell’uomo profetico. Dunque, pur di non disturbare l’uccello fratino, anziché affiancare il secondo binario a quello esistente, si è progettato una deviazione del percorso, dal costo aggiuntivo di 170 milioni di Euro, per portare il binario nella valle del Biferno, che a detta del ministero a causa del rumore diventerebbe una valle dell’inferno, pur per gli scarsi abitanti del luogo, stante che l’intero Molise conta meno abitanti della sola città di Bari. Il commissariamento dell'opera per valenza strategica nazionale ed europea, no? Eppure, si è fatto in Val di Susa, dove i binari attivi sono quattro e sottoutilizzati, e la devastazione ambientale con la costruzione dell’inutile e dannoso tunnel, dal costo astronomico di 12 miliardi di euro, va avanti, fregandosene delle proteste degli abitanti, represse con manganelli e galera. Eppure anche il terzo valico ligure (ne esistono già due) tra Milano e Genova, dall’altrettanto inutile, dannoso e dall’astronomico costo di alcuni miliardi di Euro per risparmiare pochi minuti di viaggio, va avanti indefesso. (Qui mi risparmio una battuta volgare.) In conclusione, al Nord si deve investire purchessia, per volare sui binari in concorrenza agli aerei, al Sud invece ogni pretesto è buono per non spendere un centesimo e bisogna continuare a viaggiare a mezza velocità, in concorrenza alle diligenze del tempo andato. Bari-Reggio Calabria in treno? Dalle 8 alle 14 ore, fino a 4 cambi, sulla linea ionica per 450 km. Trapani Siracusa in treno? 11 ore con tre cambi per 360 km. I conti della velocità fateli voi. In mezzo c’è lo Stretto di Messina, con un ponte fantasma progettato da decenni. Ma questa è un’altra storia.

Sudismi. Italia senza Lep da 10 anni, il Nord pensa all’autonomia. Per la vera perequazione il Sud dovrà imparare a lottare. Non sono bastati il fallimento della sanità lombarda e l’anarchia delle Regioni per convincersi a tornare a un sano centralismo? Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 23 ottobre 2020. Siamo rimasti fermi per 10 anni alla spesa storica in attesa dei livelli essenziali di prestazioni (Lep) e adesso sembra che dobbiamo correre per arrivare velocemente all’autonomia differenziata chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Forse dipende dal buon risultato che ha dato l’autonomia nel settore sanitario che porta Francesco Boccia, in realtà il Pd, a spingere perché si arrivi al più presto a vararla? Non è bastato il fallimento che anche in questi giorni registra la sanità lombarda, ma in generale l’andare in ordine sparso delle Regioni, per convincersi a tornare, per lo meno in alcuni settori chiave come la scuola, la sanità e l’infrastrutturazione, a un sano centralismo?

ROBIN HOOD AL CONTRARIO. Troppo forte l’accordo tra la sinistra padronale emiliano romagnolo e la destra leghista lombardo-veneta per potere resistere? Certo, la battaglia condotta da parte della intellighenzia meridionale, con in testa la Svimez, ha rallentato il percorso e ha fatto sì che si siano poste alcune condizioni propedeutiche per il varo delle autonomie differenziate, come la perequazione infrastrutturale e la definizione dei Lep, che ora dovrebbero essere calcolati, dopo che per tanti anni la loro assenza ha permesso uno scippo di 60 miliardi l’anno, distribuendo le risorse sulla base della spesa storica. Anche se in molti non concordano su tale sottrazione, compreso il “candido” Carlo Cottarelli, che in realtà, oltre a contestare i dati dell’osservatorio dei Conti pubblici, non perde occasione per ribadire che la distribuzione della spesa pubblica non debba avvenire sulla base della popolazione esistente nelle varie zone, ma, come ancora sostiene in un’intervista del 21 ottobre scorso al Mattino «le risorse devono essere distribuite anche oltre la proporzionalità del Pil pro capite». Quindi, secondo tale interpretazione, lo Stato diventa un Robin Hood al contrario, che dà di più a chi più ha e meno a chi ha meno. Infatti quella parola “anche” sembra una concessione, cioè vuol dire che normalmente dovrebbero essere distribuite in base al Pil prodotto, ma si può anche qualche volta derogare, facendo entrare dalla finestra quello che sembrava uscito dalla porta, quel concetto di residuo fiscale che ormai sembra essere stato abbandonato da tutti, se Svimez in una sua recente nota afferma: «Le motivazioni di quel rivendicazionismo sono gradualmente uscite di scena perché troppo evidenti erano i limiti dell’interpretazione “territoriale» . Sommessamente ricorderei che tale distribuzione strana delle risorse avviene anche per le Università, per le quali esse sono state date sulla base di un meccanismo che a prima vista premia i migliori. Ma mettendo insieme i parametri di efficienza del sistema, della sua capacità di competere nel mondo attraverso le citazioni internazionali e infine sul placement dei propri studenti, sono state premiate le università ovviamente penalizzando gli studenti, che senza colpa si ritrovano man mano, al Sud , a studiare in super licei, mentre la parte di ricerca viene lasciata alle Università del Nord. E questo è un altro capitolo della stessa storia. 

FONDO DI PEREQUAZIONE. Ma torniamo alla autonomia differenziata. Dopo l’inserimento della legge quadro nel Nadef, la nota di aggiornamento al Def, come promesso dal ministro Boccia, arriva anche, sempre all’interno della legge di Bilancio, il fondo di compensazione per il divario infrastrutturale. «Le risorse sono state incluse nelle tabelle della manovra e saranno a disposizione del Mezzogiorno, delle aree interne e delle aree di montagna non appena sarà approvata la legge sull’autonomia». Si tratta di 4,6 miliardi. Vale a dire quel «fondo di perequazione infrastrutturale» che è uno dei cardini della legge quadro sull’autonomia firmata dal ministro per gli Affari regionali. II principio è che l’autonomia vada a braccetto con il superamento del gap infrastrutturale del Sud. Nella legge quadro si parla anche di «aree interne montane» e di «aree disagiate». Quindi le risorse per la perequazione infrastrutturale possono anche andare a finanziare aree a 20 km da Milano, che abbiano problemi particolari. Al solito: una sorta di complesso di colpa del Sud che, per far passare alcuni finanziamenti, deve estenderli anche al Centro Nord. Ma al di la di tale aspetto, sembra molto ingenuo pensare di eliminare il ritardo di infrastrutturazione con 4 miliardi e mezzo, con i quali al massimo si potranno fare 90 , dico 90, chilometri di vera alta velocità ferroviaria. Anche perché bisognerà vedere come andranno destinate. Si potrà dire che è un primo passaggio, ma intanto è interessante vedere il dibattito tra De Menech, coordinatore dei parlamentari veneti del Pd a Roma e la neo vicepresidente regionale Elisa de Berti, chiamata “la doghessa”, il mastino che prenderà il posto di Luca Zaia alla fine del terzo mandato. Il primo sostiene che il fondo consentirà di finanziare opere per esempio in Lessinia Polesine altopiano di Asiago e provincia di Belluno. «Convocherò presto i sindaci, le associazioni di categoria e le parti con cui stabilire le priorità; spero la Regione capisca che quei soldi servono a dire a Rfi e Anas che quei soldi non saranno destinati solo sulla base del bacino di utenza». E la risposta della vice presidente che accusa il parlamentare Pd di essere stato all’estero negli ultimi cinque anni: «Si è perso per strada centinaia di milioni che negli ultimi anni, grazie anche ai mondiali di Sci e Olimpiadi, stiamo spendendo nel bellunese. Ti ricordo che elettrificazione delle linee ferroviarie verso nord l’abbiamo ottenuta puntando i piedi. Con Anas vengono investiti una marea di soldi, sull’Alemagna, per gli impianti a fune, per le varianti di Cortina Longarone. Su Lessinia, altopiano di Asiago e Polesine si può fare di più, certo, ma ci vuole onestà intellettuale».

LOTTA PER LA PEREQUAZIONE. Illuminante questo scambio di battute di come potrà andare la perequazione infrastrutturale e di come le risorse potranno essere spese. E di come bisognerà lottare per non essere beffati. Ma questa battaglia chi la dovrà fare? La nostra classe dominante estrattiva occupata a raccogliere mancette per i propri clientes? Si può rimproverare ai veneti di fare in modo che arrivino più risorse nelle loro zone? O vanno premiati per l’impegno che pongono nel difendere i propri rappresentati? Purtroppo le nostre responsabilità non sono poche e di certo dobbiamo competere con chi ha fatto del proprio mandato una missione da portare a compimento, sapendo che l’elettore lo premierà se avrà perseguito il bene comune. Forse dobbiamo imparare.

STUDENTI IN FUGA DALLE CITTÀ SETTENTRIONALI. Si svuotano gli appartamenti al Nord, ora conviene investire al Sud. Luca La Mantia il 7 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Storie di anni a spartirsi stanze e spazi comuni, di convivenze forzate dalla necessità, di liti per il lavandino pieno o per i turni in bagno. Di festini improvvisati fra quattro mura, di sogni e di nostalgie, di moke che sbuffano fumo di caffè bruciato mentre gli occhi corrono sui libri. Di lavori occasionali per pagarsi l’affitto, una serata in compagnia e per riempire frigo e dispensa di junk food; giusto per andare avanti sino al prossimo ritorno a casa, per Natale e per Pasqua, quando le valigie torneranno cariche di parmigiane, lasagne e vasetti di pesto e ragù, stipati nei freezer. È una vera e propria generazione quella degli studenti fuori sede Il dato che emerge da un’analisi dell’Ufficio studi di Immobiliare.it secondo cui l’epidemia sta letteralmente svuotando le città universitarie più quotate, in particolare quelle del Nord. La conseguenza è un boom dell’offerta di stanze singole e posti letto in affitto nel 2020, con picchi che sfiorano il più 300% rispetto al 2019. È il caso di Milano, la metropoli maggiormente colpita dal fenomeno, dove l’incremento raggiunge il 290%. Segue la Bologna dell’Alma Mater, con un più 270% di vani sfitti. A Padova in un anno l’offerta è quasi triplicata (+ 180%) e lo stesso vale per Firenze + 175%). Raddoppiata, invece, a Roma + 130%), Torino (+ 108%) e Napoli (+ 100%), appena fuori dalla Top 5. Le altre città del Mezzogiorno che figurano nella classifica sono Bari (+60%), Palermo (+ 43%) e Catania (+ 30%). I locatori meno interessati sono quelli di Pisa (+ 12%), mentre la media nazionale segna un + 143%. «Didattica a distanza, smart working e South working hanno fatto registrare quest’anno un boom dell’offerta di stanze e posti letto che in alcuni casi, come a Milano, risulta quasi quadruplicata rispetto al 2019 – ha spiegato l’Ad di Immobiliare.it Carlo  Giordano –  Studenti e lavoratori che sceglievano soluzioni abitative transitorie, come quelle di una stanza singola o di un posto letto in una doppia, hanno preferito in molti casi abbandonare momentaneamente le città». La crescita dell’offerta ha frenato quella del caro prezzi, rimasti sostanzialmente invariati. Anche perché nel 2020 non si è rilevata alcuna impennata sui costi di questa tipologia di locazioni. La città più salata resta Milano, dove la media del canone mensile richiesto è di 565 euro per una singola e di 345 euro per un posto letto in doppia. Al secondo posto – a debita distanza – c’è Roma; nella Capitale la media del prezzo richiesto è di 438 euro per una stanza e di 287 euro per un letto. Seguono  Bologna  e  Firenze  dove per affittare una singola sono necessari circa 400 euro. Sotto la soglia dei 400 euro si trovano poi  Venezia  – dove per una singola si chiedono  in media 358 euro  –  Napoli (338 euro la singola) e Torino (330 euro).  La maggior convenienza delle città del Sud può offrire interessanti prospettive di investimento e, quindi, di rilancio del Meridione. Se ne parla in un’altra analisi di Immobiliare.it nella quale si sottolinea che con la progressiva messa a sistema del lavoro agile potrebbe venir meno la necessità di trasferirsi stabilmente nelle altre macroregioni. Piuttosto che mettere in conto 3/4mila euro al metro quadro, richiesti ad esempio a Milano per comprare casa – sostiene il portale – si potrebbe optare per le località del Mezzogiorno, dove il prezzo spesso non supera i mille euro al metro quadro e addirittura, nelle realtà più economiche, non raggiunge i 750 euro. Senza dimenticare, conclude l’articolo, le politiche di quei comuni meridionali che promuovono il ripopolamento vendendo immobili “a cifre simboliche o che addirittura  pagano chi si trasferisce in un piccolo centro con pochi abitanti”.

VETTE DA SCALARE PER CHI VIVE AL SUD. Il costo medio pro capite della mobilità. Roberto Napoletano il 30 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Abbiamo calcolato quanto deve spendere di più o di meno un cittadino a seconda dei territori in cui vive per muoversi e per comprare merci. I primi risultati fanno tremare vene e polsi visto che tutte le aree metropolitane del Mezzogiorno, esclusa quella di Napoli, non dispongono di adeguate reti di trasporto su guida vincolata, cioè non sono supportate da reti metropolitane. Non c’è peggiore sordo di chi non vuol sentire. Qualunque indicatore si prenda della spesa pubblica italiana viene fuori l’anomalia miope di una sperequazione abnorme nella spesa sociale e nella spesa infrastrutturale tra Nord e Sud del Paese. Una sperequazione che, a suo modo, “urla” fino a scassare i timpani degli interlocutori che non solo ci sono cittadini di serie A,B,C…zeta ma che questa differenziazione voluta è l’origine del problema competitivo italiano e, a seguire, del suo sviluppo negato. Non potremo mai crescere se non fermeremo il pilota automatico con cui i capetti delle cosiddette regioni forti estraggono ogni anno dal bilancio pubblico italiano decine di miliardi dovuti alla popolazione meridionale per scuole, ospedali, treni veloci, bus scolastici, trasporto locale e mobilità in genere e li regalano alla popolazione settentrionale in parte per fare buona spesa sociale e buone infrastrutture e in parte – purtroppo sempre crescente – sia per alimentare clientele/assistenzialismo sia per finanziare indirettamente la crescita delle attività criminali in combutta con mafie imprenditrici endogene in settori sempre più estesi. Come rifiuti, movimento terra, grande e piccola distribuzione, turismo, sanità, e così via. Questa è la malattia italiana e la temperatura della febbre è salita di anno in anno nella Conferenza Stato-Regioni dove la Sinistra Padronale emiliano-romagnola e la Destra lombarda a trazione leghista hanno fatto e fanno il bello e il cattivo tempo. Ridurre il numero dei parlamentari senza cambiare i compiti di Camera e Senato votando sì al referendum, significa dare un altro colpo durissimo al Mezzogiorno non assistenziale perché ne diminuisce le rappresentanze dei territori, ma soprattutto aumenta indirettamente il tasso di inamovibilità dei “parlamentari regionali” e di quel sistema di venti Staterelli che ha dato agli “austro-olandesi” di casa nostra il potere incostituzionale di rapinare a loro (ingiusto) favore le risorse pubbliche, ponendo le premesse del “crack italiano” che riguarda Nord e Sud perché il primo è diventato una colonia franco tedesca e il secondo – privato di tutto – è stato condannato al sottosviluppo. Se è vero, come è vero, che sono gli unici due territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007/2008, è chiaro che dobbiamo uscire in fretta da questa spirale perversa. Se è vero, come è vero, che l’emergenza Covid mette a nudo davanti agli occhi di chi vuol vedere gli effetti territoriali su scuole, trasporti e ospedali pubblici di una distorsione così incredibile di trasferimenti, a maggior ragione dobbiamo invertire totalmente la rotta. Questo giornale in assoluta solitudine ha documentato, sulla base dei conti pubblici territoriali della Repubblica italiana, il misfatto dello scippo di 60 e passa miliardi di spesa pubblica lorda (ogni anno aumenta perché il pilota automatico della spesa storica scava sempre più in profondità) operato dal Nord a sfavore del Sud che ha determinato il record storico negativo di un reddito pro capite dei cittadini del Mezzogiorno ridotto alla metà dei restanti due terzi del Paese. Potremmo dire due nazioni separate in casa: una che è diventata Grecia (il Sud d’Italia) una che è diventata Sud (il Nord d’Italia). Adesso con la competenza tecnica indiscutibile di Ercole Incalza e di uomini di valore delle istituzioni europee il Quotidiano del Sud-l’AltraVoce dell’Italia sta elaborando quello che abbiamo voluto definire il CPCM e, cioè, il costo medio pro capite della mobilità. Che cosa significa? Quanto deve spendere di più o di meno un cittadino a seconda dei territori in cui vive per muoversi e per comprare merci. I primi risultati fanno tremare vene e polsi visto che tutte le aree metropolitane del Mezzogiorno, esclusa quella di Napoli, non dispongono di adeguate reti di trasporto su guida vincolata, cioè non sono supportate da reti metropolitane. La distanza  tra costo di trasporto privato (5.000 euro l’anno) e costo di trasporto pubblico  (250 euro l’anno) determina un CPCM esplosivo – non ha nulla a che vedere con i DPCM della stagione Covid – che si attesta su un valore variabile tra 15 e 20 volte  superiore per chi vive nei territori meridionali rispetto a chi vive nei territori settentrionali. Sì, avete capito bene, siamo ridotti così, e chi ne prescinde per interesse o ignavia è un pazzo da legare. Capite allora perché l’Italia, non il Sud, si gioca tutto con il piano Next Generation? Perché con questi differenziali interni o l’Italia si presenta in Europa con un piatto unico che sono le reti digitali e materiali del Mezzogiorno (fibra anche nel Comune più sperduto, treni veloci, porti e retroporti, Ponte sullo Stretto) o continuiamo a fare i pasticci di prima (vedi accordo Tim-Cdp) e allora facciamo il male irrimediabile dell’Italia. Anche perché non si può giocare con la Commissione Europea che è fatta di persone collaborative ma rigorose e di spirito critico. Se il 15 ottobre non dovessimo superare l’esame perché non vogliamo dare al Sud la priorità che serve per salvare l’Italia e che l’Europa ci chiede o perché siamo incapaci di fare progetti in grande e preferiamo continuare a mercanteggiare con i capetti del disastro Regioni, il segnale di poca credibilità italiana a livello europeo avrebbe effetti devastanti in casa e ci procurerebbe problemi a livello internazionale. Non ce lo possiamo permettere.

Faide tra Regioni e veti surreali fanno deragliare il treno Italia.  Claudio Marincola il 21 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. C’è un mistero che mette una contro l’altra due regioni del Sud. Che fine ha fatto il Fratino? Chi l’ha fatto scomparire? Perché questo volatile dagli occhi marroni e il becco nero non nidifica più in quello che fine a qualche tempo era il suo habitat preferito? Sembrerebbe una questione prevalentemente ornitologica, ma non lo è. L’uccellino, dalle piume grigio cenere, è lungo appena 16 cm ma non sa di portare sulle ali una grande responsabilità: da anni fa litigare Molise e Puglia. È una specie protetta. In tutti i sensi. Blocca la realizzazione dell’Alta capacità ferroviaria adriatica, una delle 130 opere infrastrutturali, una di quelle opere che secondo il governo andrebbero fatte subito, senza perdere un solo minuto.

IL COLPO DI SCENA. È invece notizia di 40 giorni fa che la valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente ha dato parere negativo. Quello che non si sapeva è che è bastato un solo voto contrario. Quello del segretario della commissione, l’avvocato romano Sandro Campilongo, esperto di diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto amministrativo e civile. Uno di che di volatili ne sa poco o niente. Era tutto pronto. Costo: circa 500 milioni di euro. Raccolti i pareri, appaltati i 14 chilometri della tratta pugliese, un bando da 106 milioni di euro. Mancava solo il via libera agli altri 20 km in territorio molisano per completare il raddoppio della Termoli-Ripalta, una tratta in cui da sempre si viaggia su binario unico. I finanziamenti ci sono. Il cronoprogramma Rfi si sarebbe concluso nel 2022. C’era l’ok della Ue per inserirlo nel quadro dello Spazio unico ferroviario e il sì di tutti gli altri ministeri interessati. Aprire quel corridoio avrebbe effetti benefici sul turismo e anche per il trasporto merci, che in questo modo verrebbe trasferito su ferro alleggerendo l’autostrada da Tir e bisonti. Per il via libera mancava solo la valutazione sull’impatto che la ferrovia avrebbe avuto sull’ambiente avifaunistico. In quel tratto i binari potrebbero infatti disturbare il Charadrius Alexandrinus, un migratore euroasiatico che viene a svernare al Sud. Stesso dicasi per un’altra specie dai colori più vivaci, la ghiandaia marina che ha la coda blu e riflessi verdastri.

L’UCCELLO FANTASMA. Qualcuno nel frattempo si è preso però la briga di esplorare in lungo e in largo la zona interessata dal progetto per trovare tracce di questi nidi. Steli, paglia, radichette. Appostamenti tra la vegetazione, sabbia e sassi, fenditure di rocce. C’è chi ha provato persino con i richiami: «Zit, tziu, tzi, zi, zirr…». Del Fratino nessuna traccia. Il parere del ministero, arrivato con 90 giorni di ritardo, ha gelato le aspettative di sviluppo e collocato l’opera su un (doppio) binario morto. Un’opera considerata strategica boccata perché, come si legge nel dispositivo della commissione, 70 pagine di valutazioni e studi molto accurati, «manca la caratterizzazione qualitativa e quantitativa della fauna nidificante e la sua distribuzione nell’area di intervento». Nel frattempo, però, in quella specifica zona il Fratino e la Ghiandaia (Coracius Garrulus), sono scomparsi. Chi li ha visti? Che fine hanno fatto? «Il Fratino è una specie dunale e nidifica sulla spiaggia, non arriva mai oltre la pineta – ha dichiarato al sito primonumero.it Nicola Morante, presidente del Gruppo ornitologico molisano che da 40 anni frequenta la zona e conosce quel territorio come le proprie tasche – Il Fratino non è mai stato disturbato nemmeno dalla linea attuale, ben più vicina alla spiaggia di quella che si dovrà fare e che corre a 300 metri dall’arenile nella zona a sud di Campomarino, all’altezza del Saccione, e in alcuni punti a sole poche decine di metri dalla spiaggia”. Anni e anni di progettazioni, studi, ricerche e lavori buttati per il fantasma di un uccello che non c’è e se c’è vola indisturbato, innocuo, accanto alla ferrovia. Una storia di veti incrociati, di ostruzionismo tra Regioni. Di cavilli. I tecnici del ministero non avrebbero, tra l’altro, raccolto alcun parere scientifico in materia di ornitologia. Con il risultato che ora un uccellino fantasma blocca un’opera considerata strategica e di interesse nazionale anche dal ministro della Cultura e del turismo, Dario Franceschini.

UN SOLO NO CONTRO 30 SÌ BLOCCA TUTTO. Il Fratino: siamo sicuri che la questione ambientale non sia solo un pretesto? Il presidente della Regione Molise, Donato Toma, eletto nelle file del centrodestra, prende un impegno: «È impossibile che ogni volta che insorge un problema ambientale ci fermiamo. E una volta un uccello, un’altra una formica… serve uno sviluppo che sia sostenibile. Noi il fratino lo abbiamo sulle dune di Termoli e lo tuteliamo. Ho già programmato una giunta politica con il mio dirigente alle infrastrutture per convocare un tavolo e invitare Rfi. Vogliamo trovare un soluzione per riuscire a realizzare il raddoppio ferroviario». Ma chi è che non vuole il completamento della linea? Tanto più che, a parte il segretario Campolongo, l’intera commissione ministeriale Via e Vas, compreso il presidente, l’ingegner Guido Monteforti Specchi, aveva dato parere favorevole: 30 sì contro un solo no non bastano a togliere il freno. «È un’opera strategica non solamente per il Mezzogiorno, ma per tutto il Paese – sostiene l’assessore ai Trasporti della Regione Puglia, il dem Giovanni Giannini, in questi giorni in piena campagna elettorale – realizzarla vorrebbe dire completare un lavoro iniziato con l’innalzamento della galleria di Cattolica per consentire il passaggio dei grandi container e raggiungere in quella tratta i 200 chilometri orari. Il Molise ha preteso e ottenuto di trasferire la linea accanto all’autostrada e ora tutti gli ostacoli si potrebbero superare».

MANDIAMO A CASA I PREDONI. Roberto Napoletano il 19 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Avviso ai naviganti. Non è possibile fare una legge dove è scritto che la crisi economica è vietata per legge. Si possono vietare per un po’ i licenziamenti, ma non si può impedire all’infinito alle aziende che non hanno più commesse di chiudere le loro attività. I consumi sono crollati ai livelli di venticinque anni fa e sono quasi tutti assorbiti dalle cosiddette spese obbligate. In silenzio hanno tirato giù le loro saracinesche per non riaprirle più da un capo all’altro del Paese troppi commercianti e artigiani. Precipita inascoltato e abbandonato negli abissi della Grande Depressione quel pezzo di economia di mercato del Mezzogiorno che era rimasto comunque in vita nonostante uno Stato che ha fatto figli e figliastri nella spesa per infrastrutture e nella spesa sociale e un accesso al credito di fatto negato. Diciamo le cose come stanno. La Grande Illusione sovranista italiana che ha costretto il Paese a pagare un conto superiore a quello dei danni prodotti da una terza guerra mondiale persa sull’altare delle due grandi crisi globali – finanziaria e dei debiti sovrani – ha radici uniche nel panorama europeo e mondiale. Sono le radici di un regionalismo predone che ha fatto crescere nei territori padani la mala pianta di un egoismo miope che ha aumentato il peso delle clientele e dell’assistenzialismo in economia mettendo fuori mercato la grande impresa privata e allargando a macchia d’olio la penetrazione della criminalità organizzata e della mafia imprenditrice endogena in settori sempre più vasti come smaltimento rifiuti, movimento terra, sanità, turismo, piccolo e grande commercio. Questo Paese Arlecchino dei mille conflitti di interessi territoriali non regge più e ci espone al ridicolo. Tutte le potestà legislative sono concorrenti fino alla paralisi. Il ricco è sempre più ricco e il povero sempre più povero, senza rendersi conto il primo che l’eccesso di povertà a cui il suo egoismo condanna il secondo alla lunga farà diventare lui stesso povero. Dai tamponi alle discoteche per prendere la più banale delle decisioni ci vogliono i tempi di una guerra punica moderna. Le decisioni puntualmente impugnate davanti al primo giudice che si incontra per strada arrivano quando metà del disastro è già avvenuto. A fare in modo che anche l’altra metà si realizzi ci pensano strutture amministrative, sanitarie, aeroportuali che non riconoscono l’autorità dello Stato e sono la degna espressione della peggiore burocrazia mondiale che è quella delle Regioni e delle società da esse controllate con primati sorprendentemente irraggiungibili in Lombardia, come dimostrano gli ultimi casi di Orio al Serio e di Malpensa. Parliamoci chiaro. Un cittadino lombardo riceve come spesa sanitaria pro capite 2533 euro e un cittadino emiliano-romagnolo 2142 contro i 1593 della Campania e i 1701 della Sicilia. Sono i dati del settore pubblico allargato del 2018 elaborati dai conti pubblici territoriali a prezzi costanti del 2015. Con gli stessi indiscutibili criteri sempre pro capite un cittadino emiliano-romagnolo riceve 2069 euro per le reti infrastrutturali, un cittadino lombardo 1946 e un cittadino campano 731. Sono i numeri, una minima parte, del regionalismo predone all’italiana. Fino a quando il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Bonaccini, non risponde in Parlamento di queste vergogne civili, non rimuove tali vincoli che sono macigni sulla competitività del Nord e del Sud del Paese, e soprattutto continua a scappare dal suo dovere costituzionale di varare i fondi di perequazione sociale e infrastrutturale ordinati dalla legge Calderoli del federalismo fiscale del 2009, non potrà mai aspirare alla guida del Partito democratico ma bensì della rediviva Lega secessionista del primo Bossi. Farebbe bene nel frattempo a non chiedere più l’autonomia ma l’indipendenza degli emiliano-romagnoli, come dice lui, magari insieme ai suoi “compagni di merende” lombardi. Questo sistema perverso e iniquo inizia e conclude il problema competitivo italiano. Perché ha azzerato la spesa per infrastrutture e tagliato brutalmente quella sociale al Sud portando il reddito pro capite dei suoi cittadini alla metà degli altri due terzi del Paese. Perché ha riempito di droga assistenziale il Nord privandolo del suo primo mercato di esportazioni che sono i consumi del Mezzogiorno e ha di fatto convertito all’assistenzialismo e ai vizi della rendita pubblica settori sempre più vasti dell’impresa privata. Che, non a caso, è deceduta alla voce grande impresa, se la passa non bene alla voce media impresa, soffre terribilmente alla voce piccola impresa. Facciamola finita prima che scadano i tempi delle leggi che bloccano i licenziamenti. Il Nord faccia soffiare il suo vento, ma per chiedere che alla fiscalità di vantaggio nel Sud e al piano di opere infrastrutturali sempre nel Sud – Alta velocità ferroviaria, porti retroporti, Ponte sullo Stretto e rete unica in fibra – si affianchi un massiccio piano di investimenti delocalizzati al Sud da parte di ciò che è sopravvissuto delle imprese del Nord, ugualmente agevolati. Lo si faccia cogliendo con convinzione l’occasione del Recovery Plan e sapendo che si fa oggi quello che si doveva fare almeno venti anni fa. Ci si attrezzi all’istante con una struttura centrale tipo prima Cassa del Mezzogiorno scegliendo per una volta i migliori sul mercato e usando tutti i poteri possibili: straordinari, speciali, commissariali. L’alternativa è che prosegua il saccheggio interno e si consumi ogni reputazione residua in Europa. In mezzo ci potrebbero essere un bel ricorso alla Corte Costituzionale e una sentenza che obblighi le Regioni del Nord a restituire centinaia di miliardi alle Regioni del Sud. Noi ci auguriamo che finisca questa sceneggiata di uno Stato diviso in venti Staterelli, dove i governatori degli Staterelli a differenza di quello che avviene in America non tassano e spendono, ma spendono solo. Quasi sempre male e sempre “rubando” ai poveri per favorire i ricchi. Comunque, con soldi non loro.

IL PAESE ARLECCHINO NON ATTIRA TURISTI. Roberto Napoletano il 21 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se si vuole avere turismo stanziale nel Mezzogiorno servono una buona sanità, un buono aeroporto, treni veloci e una buona gestione dei rifiuti. Serve insomma tutto quello che è stato rubato fino a oggi. Nord e Sud sono obbligati a crescere insieme, ma il Paese Arlecchino delle venti Regioni, delle venti sanità, delle venti reti digitali, delle venti reti ferroviarie, impedisce che ciò avvenga perché è concepito su misura di ogni genere di egoismo e di miopia. Impedisce di fare grandi opere. Ruba sistematicamente spesa pubblica sociale e di sviluppo alla popolazione del Sud per regalare a piene mani assistenzialismo alle famiglie e alle imprese del Nord. Scarica sui poveri il costo della rendita pubblica che sostiene il reddito privato dei ricchi, non la produzione e la capacità di produrre a livelli competitivi nell’arena globale. Di fatto ha messo fuori mercato la grande impresa familiare del Nord in crisi di suo e drogata dai soldi facili e ha condannato al sottosviluppo il Mezzogiorno desertificato di scuole, ospedali, treni e fibra veloci, e così via. Siamo arrivati al capolavoro assoluto di fare scendere il reddito pro capite di un terzo della popolazione, venti milioni di persone, alla metà degli altri due terzi, privando il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” e l’economia italiana di quella dimensione nazionale integrata minima per potere rimanere nel novero dei Grandi Paesi industrializzati. Diciamo le cose come stanno: questo sistema insulsamente regionalista dove perfino sulle discoteche – aperte, chiuse, aperte a metà – ognuno si permette di fare di testa sua, per non parlare dei treni regionali e locali, è cromosomicamente predisposto per fare dell’Italia quello che oggi è. La grande malata d’Europa. Per capire quanto sia importante ristabilire con urgenza la parificazione dei diritti di cittadinanza sociale e infrastrutturale dove con il trucco della spesa storica ballano decine di miliardi l’anno tolte ai territori meridionali e “regalate” ai territori settentrionali da almeno dieci anni in qua, basti pensare alla questione del turismo e a quanto questa dipenda dalla manomorta della Conferenza Stato-Regioni che toglie e dà a chi vuole senza rendere conto a nessuno. Se si vuole avere turismo stanziale inglese e tedesco non la settimana di vacanza, ma turisti che svernano tre mesi da Londra o da Francoforte nelle perle del mare, delle campagne e dei monti del Sud, che si innamorano dei suoi paesini e delle sue città piene di storia e di cultura, servono una buona sanità con ospedali vicini e efficienti, un buon aeroporto, treni veloci e una buona gestione dei rifiuti perché l’immondizia sotto casa fa scappare perfino il turista giornaliero. Serve insomma proprio tutto ciò che è stato rubato con il più clamoroso scippo della storia recente alle donne e agli uomini del Sud. Si è fatto in Italia l’esatto contrario di quello che si è fatto in Spagna, dove l’alta velocità ferroviaria è partita dal Sud per arrivare al Nord, mentre da noi si è tornata a fermare all’altezza di Eboli dimostrando che lo Stato non va oltre Salerno e “frega” così un pezzo di Italia abbandonato dolosamente al suo destino. Quasi non lo riconosce. Per questo la Conferenza Stato-Regioni deve tornare a essere ad horas un luogo di consultazione non di decisione e il governo deve adottare il parametro della spesa media nazionale in rapporto alla popolazione sulla base della serie storica degli ultimi venti/trenta anni. Chi è sopra restituisce, chi è sotto finalmente riceve ciò che gli spetta. Si utilizzi il Mes per consentire alle Regioni ricche di avere una fase di transizione per provare a camminare con i soldi propri non con quelli degli altri, ma si comincino a ammodernare e fare ospedali e scuole nei territori meridionali e si rimettano in rete le loro bellezze e le loro città con alta velocità, porti e retroporti. Questo significa pensare al futuro dell’Italia e avere turismo di lunga durata negli angoli più belli del suo Mezzogiorno. Non avere buoni ospedali, buoni treni, buona rete in fibra è esiziale per vincere questa scommessa. Se si continua con l’andazzo predatorio regionalista attuale averli oggi è impossibile. Liberiamo l’Italia dal Paese Arlecchino e dalla sua furia masochista.

Pino Aprile aggiorna "Terroni" e chiama a testimone il virus. Il presunto fallimento nella gestione dell'emergenza è il pretesto per minacciare (nuovamente) la secessione. Carlo Lottieri, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. Quello uscito a firma di Pino Aprile con il titolo Il male del Nord. Perché o si fa l'Italia da Sud o si muore (Pienogiorno, pagg. 175, euro 16,90) può apparire un instant-book sulla pandemia. In realtà, il pamphlet è un'altra, ennesima, riformulazione delle tesi di Terroni, solo che ora il Coronavirus è sfruttato per sostenere la tesi che di fronte all'emergenza il Nord è stato pessimo e il Sud eccellente. Il volume dedica tante pagine al fallimento di un Nord che, in fondo, dinanzi al virus avrebbe mostrato tutta la sua inefficienza. Uno degli epicentri non è stato forse quel Trivulzio da cui partì l'inchiesta di Mani Pulite? Tutto torna. Il Nord riempitosi di bare ha avuto, in fondo, quel che era inevitabile. L'altro aspetto su cui Aprile insiste è l'eccellente prova offerta dalle istituzioni regionali di Campania e Puglia di fronte all'emergenza, oltre che di quei sistemi sanitari. Al di là di questa vittoria schiacciante (pochi morti al Sud, tantissimi al Nord), ad Aprile è altro che interessa. Come già nei libri precedenti, all'autore preme soprattutto evidenziare come troppi segnali ormai ci mostrino quanto «lo squilibrato, iniquo sistema-Italia sia al capolinea, esasperato dall'ingordigia del Nord». Allora il Sud non ha soltanto vinto il derby: lo ha stravinto, dato che ha retto dopo molti decenni di sfruttamento territoriale. Anche qui quella del Sud continuamente depauperato dal Nord è la vera tesi del libro. Aprile ha ragione quando ricorda che l'unificazione italiana fu una criminale guerra di conquista, ma mescola tutto ciò con mille altre cose. Ad esempio, afferma che la relativa prosperità goduta dalle popolazioni settentrionali nei decenni passati sarebbe stata conseguente al fatto - come disse il ministro Provenzano - che Milano e il Nord prendono e non danno. Quel benessere non poggiava allora sul tessuto delle piccole imprese e neppure sull'ingegno di Caprotti, Del Vecchio o Ferrero. No. Se nel Settentrione si è avuta una certa agiatezza è perché si è sfruttato il Mezzogiorno. Attenzione: Aprile non sottolinea - come sarebbe giusto - che l'interventismo pubblico crea enormi opportunità per gli imprenditori che vivono all'ombra della politica, ma colloca l'intero Settentrione entro questo schema. Sullo sfondo c'è non soltanto un'evidente antipatia verso quanti vivono a una certa latitudine, ma anche un'opzione socialista. E in effetti perfino l'Italia giallo-rossa appare ad Aprile come iper-liberista. Così nelle sue pagine il rapporto tra Nord e Sud d'Italia evoca la stessa relazione tra Nord e Sud del mondo della letteratura terzomondista. In entrambi i casi i ricchi prosperano e i poveri declinano, «al punto che il club dei super-ricchi diviene sempre più esclusivo e se appena qualche decennio fa poche migliaia di paperoni avevano la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale, oggi è una mezza dozzina di loro a possedere altrettanto». Fin qui siamo nell'ambito di una scrittura emozionale, che in qualche modo fa leva su una delle conseguenze più spiacevoli dell'unificazione: avere creato una tensione identitaria tra popolazioni che in passato si erano sempre rispettate e avere costruito (su questo Aprile ha ragione) un astratto modello a cui adeguarsi, estraneo alle potenzialità del Mezzogiorno. Queste pulsioni, però sono incompatibili con l'argomento cruciale. Fin dal titolo, dopo aver maledetto (con moltissime ragioni!) l'unificazione della penisola e dopo aver versato fiumi di bile su lombardi e veneti, Aprile ripropone la medesima ricetta: «O si riparte dal Sud e dall'uguale diritto per tutti o la prossima tappa è la secessione». La prossima tappa? Ma come fa Aprile a immaginare di restare entro un universo così iniquo? O crede alle cose che ha scritto, e allora deve pretendere l'immediata secessione, oppure l'intero volume non ha alcun senso. Sarebbe come se gli schiavi neri delle piantagioni si fossero rivolti ai loro padroni, a metà Ottocento, dicendo che o alla svelta gettavano le fruste, oppure si sarebbero ribellati No: di fronte a un'istituzione tanto ingiusta c'è solo la strada dell'abolizionismo. D'altro canto, egli è contrario pure a modeste forme di autogoverno, dato che «con l'Autonomia differenziata, le Regioni ricche puntano ad arricchirsi ulteriormente, sottraendo ancora alle più povere oppure mirando alla secessione per non dividere con chi ha meno». Insomma, nella visione politica di Aprile il Nord usa l'Italia per sfruttare il Mezzogiorno e la risposta a tutto questo sarebbe una strenua difesa della Repubblica unitaria d'impianto giacobino. Alla fine, nonostante gli attacchi all'Italia «matrigna», con questo volumetto Aprile appare davvero il prototipo dell'italianità: di quella mancanza di rigore e coerenza che tanti, da fuori, giustamente ci rimproverano. Per fortuna nel Mezzogiorno c'è moltissima gente che si rende perfettamente conto come sia proprio il comunismo territoriale difeso da Aprile a distruggere il Sud, dato che solo l'autogoverno implica responsabilità, riduzione del potere politico, fine di ogni illusione statalista. Il Mezzogiorno non si merita questa confusione di idee e per questo fa bene - nella sua maggioranza - a tenersi lontano da tesi tanto discutibili.

FITTO, CANDIDATO GOVERNATORE DELLA PUGLIA PER IL CENTRODESTRA: “I FONDI DEL RECOVERY FUND NON VANNO DATI AL SUD, BENSI’ AL NORD”.  Raffaele Vescera il 13.08.2020 Giovanni Palmulli su movimento24agosto.it. Aberrante, raccapricciante! La dichiarazione di Raffaele Fitto, candidato governatore in Puglia, fa accapponare la pelle e davvero tocca il fondo dell’aberrazione politica in Italia.

Andiamo per ordine. Cosa ha detto Fitto nel corso del programma “In onda” dell’altra sera?

“Io non sarei nemmeno d’accordo sul gruppo di parlamentari meridionalisti perché è una iniziativa assolutamente sbagliata. Noi dobbiamo intervenire sulle misure e le risorse per il Covid nelle parti del paese che hanno subito questo tipo di impatto in modo molto maggiore. Nel Sud i problemi sono diversi, sono molto più complessi e andrebbero affrontati con una logica diversa”.

Insomma Fitto, allineandosi al politicamente corretto del copione politico italiano, riserva soldi e l’indicativo presente al Nord (dobbiamo intervenire nelle parti del paese…) lasciando al Sud promesse, al condizionale e/o al futuro (nel Sud i problemi andrebbero affrontati…). Fin qui siamo nella vecchia e logora prassi politica degli ultimi 160 anni. Ma Fitto va oltre. Fitto prende posizione nel nuovo scenario della politica italiana. Mentre nasce uno schieramento meridionalista trasversale in Parlamento, mentre il P.U.N. (il Partito Unico del Nord, trasversale da sempre) si schiera lungo la linea Maginot a difesa della vecchia politica di privilegio del Nord e sopraffazione verso il Sud, lui, Fitto, dice a chiare lettere di stare dalla parte della fazione politica che lo ha candidato. Fazione politica che sta a Nord, con il Nord, per il Nord. E così il nostro bravo candidato salentino dichiara che sbagliano i meridionalisti trasversali (ma non i nordisti trasversali – misteri della politica italiana!) e che i Recovery Fund va destinato al Nord, come il Piano Marshall e tutto il resto da 160 anni in qua. Perché lì il virus ha colpito pesante! Fitto (e il sig. Senaldi) ignorano deliberatamente che il R.F. non viene dato per curare le ferite da Covid (altrimenti la Spagna – ben più pesantemente colpita dal virus – avrebbe ottenuto somme ben maggiori delle nostre), ma per rilanciare le economie dei vari paesi europei. E l’Itala ha avuto più di tutti perché ha al suo interno la più vasta Macroarea economicamente depressa esistente in Europa. Il R.F. deve dunque servire a far ripartire questa Macroarea (il nostro Sud) perché se riparte il Sud riparte l’Itala e si salva la stessa Europa! Ma Fitto, (come hanno già fatto Bonaccini, Sala, Malan, Martina, Zingaretti ecc…) non può né accettare né ammettere questo assunto, peraltro evidente e messo per iscritto dalla Comunità Europea. Fitto, come gli altri politici citati, deve portare acqua al mulino del Nord, lì dove vivono i suoi politici di riferimento e i rimboccatori di maniche, quelli che si sono fatti da soli, con il loro lavoro (trascurabili gli abbondanti foraggiamenti statali!). E lo deve fare a costo di tradire la sua terra e perdere la sua stessa faccia. Una considerazione va fatta: Fitto e similari hanno sempre attuato questa politica, ma prima lo facevano senza che nessuno se ne accorgesse. Ci davano una briciolina e la presentavano come una grande vittoria. Ora questo non lo possono più fare perché li abbiamo smascherati, noi del M24A-ET sicuramente, ma non da soli. Il ringraziamento è d’obbligo verso tutta l’onda meridionalista iniziata da qualche anno in qua. Ora non lo possono più fare, dicevamo, e sono costretti a schierarsi apertamente, o con la Puglia (e il Sud) o con chi li candida e li sostiene politicamente, pazienza se ciò comporta sostenere le loro assurde e arroganti tesi. Se si sono esposti, per noi è un bene. Ora potremo chiedere ai candidati schierati con Fitto e a chi ha intenzione di votarli: “Ora lo sai con chi sta il tuo capolista! Intendi restar zitto? Intendi ancora votarlo?” Ma con questo non vogliamo affatto spezzare una lancia a favore dell’altro candidato, indugiando in questo infimo teatrino di periferia. L’altro candidato – lo facciamo notare – non ha parlato o perlomeno noi non lo abbiamo sentito. Non si è esposto a dire: “Fitto ha sbagliato, invece io…”. Perché non ha approfittato di questo assist? A voi la risposta, e entro novembre. Il momento è topico, quindi. Con noi o contro di noi. Con il Sud o con il PUN. Noi siamo convinti di aver scoperchiato un pozzo nero maleodorante e pieno di scheletri. Se questo pozzo non viene bonificato al più presto, il rischio è di veder inghiottita l’Itala intera!

LA LEZIONE DEL VIRUS A UN CERTO NORD: “L’ALTRO” SEI PURE TU, PRIMA O POI. Pino Aprile il 4 Marzo 2020 … E, SFIDANDO IL RIDICOLO, GRIDA AL “RAZZISMO”! ‘O munn è cagnate! Chelle ca stev ‘ngopp è gghiute sotte, e chelle cha stev sott è gghiute ‘ngopp! Un certo Nord (la cui prima vittima è il resto del Nord, coinvolto in un grossolano giudizio che tutti accomuna nel peggio) fa i conti con i suoi comportamenti e scopre di non stare simpatico e, anzi, proprio sulle palle. I fenomeni sociali sono di lenta costruzione, ma di fulminea espansione: decenni di insulti padani, di supponenza, prepotenza, arroganza, presunzione, “Prima il Nord” e presunto diritto etnico all’offesa dell’altro, sino all’aggressione (zingaro, terrone, migrante, poco importa), hanno tanto caricato il piatto della bilancia, che l’arrivo di coronavirus (il “Cigno nero” l’imprevisto che sconvolge gli assetti consolidati), lo ha fatto calare, ribaltando l’equilibrio.

INSULTATI E PICCHIATI CINESI AL NORD, QUANDO IL VIRUS “ERA CINESE”. E SE DIVENTA PADANO? Ribaltare, vuol dire che le cose vengono viste e valutate al contrario. Per esempio: Ci sono stati episodi di intolleranza nei confronti di cinesi (presunti colpevoli di virus), alcuni di loro cittadini italiani, ma di origine orientale. In qualche caso, l’inciviltà è giunta ad atti di violenza. Un cinese che gestisce con la moglie un bar a Bassano del Grappa è stato picchiato da un avventore in un locale, a Cassola; altri sono stati offesi, dileggiati (una donna e i figli al supermercato), un adolescente aggredito durante la partita, perché orientale… Poi si scopre che il ceppo di coronavirus che imperversa in Lombardia e Veneto, e da lì dilaga, potrebbe essere padano: autoctono. E se gli incivili che han “fatto pagare” ai cinesi la presunta provenienza del virus fossero insultati, aggrediti, solo perché lombardo-veneti? Razzismo? Chiamatelo come volete, ma sarebbe quella roba di prima, all’incontrario (ricordando che l’imbecillità è universale e se l’aggressore a Cassola è stato aiutato a dileguarsi, a Bassano il cinese aggredito e sua moglie hanno avuto la solidarietà dei loro clienti).

LA PIÙ FLORIDA INDUSTRIA LOMBARDO-VENETA È QUELLA DEI “RISARCIMENTI”, ANCHE PER I DANNI PROVOCATI AD ALTRI. Con il virus, puntuale come le tasse, è riapparso il riflesso condizionato padano: l’Italia ci copra di miliardi, per risarcirci (modello di moderazione, si accontenterebbero di quattro volte quel che Trump ha chiesto per tutti gli Stati Uniti). Perché loro “producono” e qualunque cosa interrompa o rallenti il flusso ininterrotto di denaro pubblico, scatta il diritto a essere sovvenzionati (Tav, Mose, Expo, Human Technopole, Pedemontane…, ora virus). Nella corsa a chi la spara più grossa, politici di ogni schieramento, ma ugualmente privi di vergogna e senso del ridicolo, si sono rincorsi nel reclamare “risarcimenti”: abolire tasse, non pagare i mutui… Per ora, vince il campionato delle cazzate il Cazzaro Magno, Matteo Salvini, arrivato (per adesso) a 50 miliardi, venti volte la cifra per gli Stati Uniti (2,5 miliardi di dollari). Ma se gli date tempo (e altri mojitos?) vedrete che saprà superarsi. Avviso: stabilite voi la cifra; al Sud chiederemo il doppio, per i danni provocati dalla gestione dell’epidemia, che ne ha favorito l’espansione al Sud.

DOPO FONTANA CON LA MASCHERINA E ZAIA CHE INSULTA I CINESI, CHI INVESTE IN ITALIA? Perché, se sono i presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia a distruggere la nostra economia con le loro cretinate, si può chiedere a Lombardia e Veneto di pagare i danni o no? Ha fatto il giro del mondo la foto di Fontana con la mascherina (vabbe’ che è carnevale…) che si autodenuncia a rischio infezione, perché una sua collaboratrice è stata (dice, e noi ci crediamo. Non dovremmo?) trovata positiva al coronavirus. Che dite: ci viene ora uno In Italia o ci pensa? Le esternazioni di Zaia su presunte, discutibili abitudini alimentari dei cinesi mangiatori di i topi vivi hanno arricchito lo stupidario della stampa internazionale e indotto Pechino a intervenire. I veneti (“l’anno della fame”) i topi li preferivano essiccati (forse per evitare che tale riserva alimentare si assottigliasse, altri veneti sono mangiagatti)? Come vedete, a sparare cazzate siamo bravi tutti. Il guaio è prenderle sul serio. E quelle da cabaret dei due presidenti sono state un danno serio. Che fanno: ci risarciscono?

FAVORITA LA SANITÀ PRIVATA, QUANDO ARRIVA L’EPIDEMIA E QUELLA PUBBLICA SOFFRE…I lombardoveneti hanno sempre vantato l’eccellenza della loro sanità regionale, privilegiando, però (specie la Lombardia) quella privata. Ma quando arriva l’epidemia, la sanità pubblica va in apnea e si cercano posti letto per carità a Sud, in strutture pubbliche, confermandosi l’eccellenza padana speculazione pura. E ora mandiamo fatture maggiorate come successo per i nostri malati costretti a farsi curare al Nord? I campioni della diffamazione del Sud via tv e carta (igienica) stampata si sono scatenati nella “denuncia del razzismo” meridionale contro il Nord (certe facce non dovrebbero andare in giro senza mutande). Hanno scatenato l’inferno contro “l’odio razziale” di chi, a Ischia, protestò per l’arrivo di 150 turisti lombardi a rischio virus. I sindaci dell’isola avevano vietato l’accesso; il prefetto lo ha imposto. Brutto sentirsi discriminati, eh? Rita Dalla Chiesa, perdendo una buona occasione per tacere ha criticato l’autodifesa dell’isola invitando a boicottarla come meta turistica. Ma vogliamo scherzare: lombardi trattati come fossero terroni, migranti?

SI È IMPEDITO A ISCHIA DI TUTELARSI E FRA I TURISTI PADANI FATTI SBARCARE A FORZA CE N’ERA UNO A RICHIO VIRUS. ECONOMIA DISTRUTTA. Poi si scopre che uno di quei turisti potrebbe essere positivo al virus. Ischia ha un ospedale con 60 letti, per 60mila persone, vive di solo turismo e ora è considerata l’equivalente di un lazzaretto. Chi paga? Salvini fu accolto con entusiasmo, da molti ischitani, ma i risarcimenti li chiede solo per il Nord, anche quando è il Nord (inconsapevole: mica vorremo prendercela con i turisti lombardi) a rovinare l’economia di una delle capitali turistiche italiane e del Mezzogiorno. La Lega (punta di diamante di una comunità in larga parte consenziente, visti i voti che prende) faceva le campagne contro i terroni che portano sporcizia al Nord, i migranti con la peste, la lebbra, il colera e la scabbia, e chiedeva protezione e…?: risarcimenti (come avete fatto a indovinare?); ora dal Nord arriva al Sud l’epidemia e la distruzione di un sistema economico basato sul turismo, e la Lega chiede risarcimenti. Ma al Nord, anche per i danni che produce agli altri (mentre i governatori del Sud tacciono, come da costume coloniale e gregario).

MA NESSUNO HA CANTATO: “SENTI CHE PUZZA/ SCAPPANO ANCHE I CANI/ ARRIVANO I PADANI”. PER NAPOLI, INVECE…Ci si stupisce che gli altri si siano rotti i coglioni di un Nord la cui capofila, la Lombardia (più il Veneto, ora), è entrata nell’Italia unita con poco più dell’un per cento del denaro circolante nella Penisola (contro il 66 del Regno delle Due Sicilie) e da allora cresce a spese del Paese, vantando un credito inestinguibile e inesistente. Presumendo di maturare su questo pure un diritto all’insulto, alla denigrazione. Che ora si rivolta contro. Alle persone perbene (e non c’è latitudine che le distingua) chiedo un giudizio sulla colpevole tolleranza verso “il folclore” leghista (vera anima del peggior Nord, con propaggini coloniali a Sud); per farmi meglio capire, applico la legge della reciprocità: immaginate che oggi un terrone un po’ cretino (o… folcloristico?), si mettesse a cantare: “Senti che puzza/ scappano anche i cani/ dal Lombardo-Veneto/ arrivano i padani/ contagiosi, alluvionati/ con l’amuchina/ non vi siete mai lavati/ coronavirus (o Po, a scelta) pensaci tu!”. È ancora folclore? Brucia? E agli altri no? Immaginate di esser chiamati da ministri: porci, topi da derattizzare, merdacce, colerosi…, sol perché padani. E vedere quei figuri rimanere al loro posto, rispettati e riveriti. Brucia? E agli altri no? (A proposito, se quel terrone cretino dovesse davvero parodiare un “grande leader” del Nord e delle sue propaggini coloniali del Sud, prima di censurarlo, pensateci bene: potreste ritrovarvelo vice presidente del Consiglio). Ma io ho fiducia nella potente legge della reciprocità che il virus sta ricordando a chi pensava che toccasse il peggio sempre agli altri, perché gli altri se lo meritano; e ho fiducia nella gente per bene, che se si vede e si sente poco, nel casino dei cialtroni (gli inglesi dicono che è il barattolo vuoto a far rumore. Vale pure per i cervelli). C’è chi mi oppone che il mio è una sorta di atto di fede. Non è vero: è un fatto di cui si scorgono tracce. Ve ne suggerisco una: un’offesa al giornalismo ha titolato “Virus alla conquista del Sud”. E millanta questo (godendoci, pare) come “Unità d’Italia: ora sì che siamo tutti fratelli”. E capite cosa vuol dire: nel bene, noi siamo il Nord e voi merdacce; diventiamo “fratelli” quando il male che vi abbiamo portato ci accomuna (come nel 1860-61, con l’“Unità” intesa quale bagno di sangue a Sud, carcerazioni, deportazioni, trasferimento a Nord delle industrie, delle commesse e dell’oro meridionali).

MA I CAMPIONI DELLA DIFFAMAZIONE DEL SUD PERDONO COPIE IN EDICOLA E ARRANCANO IN TV. Quella schifezza stampata è un insulto quotidiano al Sud e suscita reazioni disgustate dei terroni. I quali, sbagliando, rischiano di considerarla “la voce del Nord”. Non è così: il giudizio dei lettori si misura in edicola. Sotto la guida del campione di tanto livore nei confronti dei meridionali, la tiratura del fogliaccio è scesa da 120mila a meno di 25mila copie. Ed è il Nord ad averlo schifato. Mentre i programmi di “approfondimento” anti-Sud vedono boicottati i loro inserzionisti. Quindi, qualcuno sa e comprende. Ora forse anche chi non sa e non comprende potrebbe porsi qualche domanda. La reciprocità (a volte, anche tramite un virus) questo dice: attento, che “l’altro” prima o poi, sei tu.

Ma se siamo così diversi! Domenico Bonaventura,  Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista il 21 Luglio 2020.  Quella che la narrazione mediatica sta facendo passare è la distanza, la differenza di approccio tra gli oculati e gli scialacquoni. L’utilizzo di “frugale”, con riferimento ai Paesi nordeuropei, non può che andare in questa direzione. Semplice, modesto, parco, parsimonioso. Sono questi i sinonimi che si possono leggere in qualunque dizionario. Insomma, il termine “frugale” – e lo dico da giornalista – sembra soltanto una scorciatoia giornalistica per creare contrapposizione, per continuare a vivere di quel racconto (che in parte poggia anche sulla realtà) che vede Sud e Nord Europa l’un contro l’altro armati. D’altronde, “si è sempre meridionali di qualcuno”, aforizzava il leggendario professor Bellavista parlando con il supermilanese ingegnere Cazzaniga, il quale a sua volta descriveva le strambe abitudini della sua signora tedesca. Un aforisma, ad esempio, ripreso e adattato anche dal governatore De Luca, che nel suo politelling (come Francesco Giorgino definisce lo storytelling politico) lo utilizza nel frame del “leghismo meridionale” (come lo definiscono Alessio Postiglione e Angelo Bruscino in “Popolo e populismo”) per provare a compattare – dalla sua parte – i campani contro i vichinghi settentrionali. Mai come in questi giorni, l’Europa si sta rivelando una fusione a freddo tra Paesi che nulla o quasi hanno da dividersi, se non la consapevolezza della necessità di stare insieme per fare da contraltare alle potenze sino-russo-statunitensi. Che esista più di qualche differenza tra il Sud e il Nord del continente è un fatto solare. Differenze sociali, politiche e, di conseguenza, mediatiche. Quelle politiche stanno venendo fuori in queste ore in tutta la loro dirompenza. Ma non sono che lo specchio di una distanza relativa alle altre due categorie. Ci fermiamo su quella mediatica, prendendo come riferimento “Modelli di giornalismo” di Daniel Hallin e Paolo Mancini (2008, Editori Laterza). Il saggio divide i Paesi, europei e non, in tre gruppi, in base ai rapporti tra media e politica:

modello mediterraneo o pluralista-polarizzato;

modello dell’Europa centro-settentrionale o democratico-corporativo;

modello nord-atlantico o liberale.

L’Italia, naturalmente, rientra nel primo, insieme a Portogallo, Spagna, Francia e Grecia. Ciò che distingue questi Paesi è che le istituzioni liberali, l’industrializzazione capitalistica e la democrazia politica sono arrivate con ritardo rispetto al resto d’Europa (la Francia viene spesso trattata come caso border-line). Si riscontrano esempi molto frequenti di sovrapposizione tra media e politica, forte parallelismo politico e abbondante intervento statale in ambito mediatico – come elargitore di fondi e come regolatore -, oltre a uno sviluppo generalmente debole dei media commerciali. Ciò ha condotto, nel tempo, a un giornalismo orientato più al commento che ai fatti, a media fortemente politicizzati e a un notevole sviluppo del fenomeno della partigianeria politica dei giornalisti, spesso considerata da questi ultimi come un vanto, piuttosto che come un’anomalia (retaggio dell’enorme sviluppo della stampa di partito e della peculiarità della politica sulla televisione). Nel modello dell’Europa centro-settentrionale o democratico-corporativo, che oggi in molti chiamerebbero “modello frugale”, rientrano i Paesi che in queste ore a Bruxelles stanno rendendo il negoziato un campo minato. Austria, Belgio, Finlandia, Olanda, Danimarca, Norvegia. E Germania, che però ha presentato una propria proposta con la Francia. Anche qui si ravvisa un forte intervento dello Stato, ma teso più alla tutela della elevata professionalizzazione e della libertà di stampa. Il servizio pubblico radiotelevisivo è forte, caratterizzato dalla presenza della politica nella televisione. Tutto questo per dire non che le differenze di tipo mediatico influiscano sulle politiche (piuttosto sul racconto che gli stessi media ne fanno). Ma che, al contrario, se ci sono tutte queste distanze nell’ambito di tv, giornali e rete, non c’è da meravigliarsi se a livello politico gli abissi che separano Sud e Nord d’Europa appaiano percorribili soltanto da compromessi ad estremo ribasso.

Barbara Jerkov e Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 14 agosto 2020. Prima il Nord, anche ad agosto. Appena 9 città meridionali (su un totale di 29) potranno infatti accedere agli oltre 500 milioni di euro di indennizzi a fondo perduto previsti per le attività commerciali delle città d'arte colpite dal calo dei turisti stranieri. A penalizzare il Sud sono i criteri adottati dal ministero per i Beni culturali e il Turismo. Questi parametri, basandosi su dati statistici, non solo hanno finito per considerare Verbania più meritevole di Roma o Napoli, ma soprattutto per escludere intere Regioni (come Umbria e Calabria) e città che sono un fiore all'occhiello del turismo made in Italy. Ad esempio tra tutti i centri storici pugliesi, l'unico ad essere ammesso tra quelli che hanno diritto al bonus è Bari. Non c'è spazio quindi per gli imprenditori tarantini, né tantomeno per quelli leccesi. Al contrario sono invece ben 20 le città d'arte del centro-Nord che avranno accesso «all'aiuto mirato» voluto dal ministro Dario Franceschini e in dirittura d'arrivo in Gazzetta Ufficiale. A far discutere è dunque il curioso metodo utilizzato dal ministero per selezionare le città d'arte che hanno diritto ai fondi. Nel computo usato dal Mibact, infatti, sono inclusi i capoluoghi di provincia e le città metropolitane che secondo l'Istat hanno registrato nel 2019 presenze turistiche tre volte superiori al numero di residenti oppure i comuni capoluogo di città metropolitane che hanno ospitato un numero di viaggiatori pari a quello dei residenti. Un sistema complesso che «abbiamo adottato per individuare un certo numero di centri urbani su cui avere degli effetti immediati in termini economici» spiegano con un certo imbarazzo dal ministero, sostenendo che «la misura andava circoscritta e si necessitava di un parametro». «Chiaramente - aggiungono - Verbania in termini di presenze assolute è al di sotto della Capitale mentre in termini percentuali è sopra Roma». A testimonianza che la statistica può ingannare e, soprattutto, penalizzare. Ciò che non si comprende è perché mai questa riflessione non è stata fatta dal ministro. Grazie a questo calcolo e alla decisione di escludere certe tipologie di comuni, un centro come Sassari ad esempio resta tagliato fuori nonostante tra le città della sua provincia abbia Alghero o Arzachena che contano tra i propri turisti circa il 70% di presenze straniere ogni anno, più o meno come Roma e Milano. E fuori resta anche Messina che, comprendendo Taormina nella sua città Metropolitana, è una delle principali mete raggiunte dai viaggiatori non italiani. A svantaggiarle in questo caso sembra essere il mancato riconoscimento dello status di città metropolitana per quanto Alghero, ad esempio, vanti più residenti e più turisti di Verbania. La classifica realizzata ad hoc dal Mibact è quindi un'evidente semplificazione statistica dello scenario turistico italiano e, in quanto tale, non rispecchia la complessità del settore. Sono ben 6 infatti le regioni ad essere escluse dal contributo che copre fino al 20% del fatturato (tetto di 150 mila euro) per le imprese che hanno subito un calo di almeno un terzo rispetto all'anno prima, e sono Valle d'Aosta, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Molise, Abruzzo e Calabria. Un caso limite è ad esempio rappresentato da Perugia, capoluogo umbro, che stando alle stime effettuate dall'istituto Demoskopica su dati di Banca Italia e Istat, è la più penalizzata in assoluto di tutta la Penisola in termini di presenze turistiche (circa il 50% in meno). Una specificità che il Mibact però non ritiene danneggi i commercianti: «È vero che alcune città d'arte non avranno accesso al bonus - spiegano - ma ciò non vuol dire che saranno abbandonate perché potranno usufruire di altre misure previste nel decreto Agosto». Statistica permettendo.

Lo scippo al Sud continua anche sui centri storici: gli aiuti a fondo perduto premiano quelli del Nord. Si perpetua il trucco della spesa storica: tra le città selezionate, 20 su 29 sono centrosettentrionali. Nessun aiuto per chi è indietro ma ha forti margini di crescita. Pietro Massimo Busetta il 14 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quando si pensa al “non rubare” del settimo comandamento si pensa immediatamente ai ladri e agli scassinatori. In realtà, il “non rubare” si riferisce a tutto il mondo dell’economia che permea la nostra vita. È un comandamento al quale chi crede, ma anche chi non crede, si ispira come condotta di vita. E la prima reazione alla scoperta di un furto è la pretesa della restituzione di quello che si è sottratto al prossimo. Stupirsi del fatto che ciò non avvenga sarebbe da ingenui. Ma vedere come con protervia e arroganza si continui da parte di alcuni a far finta di nulla, rispetto allo scippo di 60 miliardi l’anno, anzi a rivendicare, ogni volta che vi è un provvedimento a favore del Sud, una pretesa questione settentrionale a cui verrebbero sottratte risorse dovute, mi pare intollerabile. Il campione mediatico di tale atteggiamento, per ora, é quel sindaco di uno dei lati del triangolo Milano-Bergamo-Monza, area più ricca d’Italia, Giorgio Gori, anche esponente ascoltato del Pd. A cui si aggiungono frequentemente Stefano Bonaccini e Giuseppe Sala. Non si fa riferimento a Luca Zaia e Attilio Fontana o Giancarlo Giorgetti, perché è nella loro identità la caratteristica di difendere gli interessi illegittimi del Nord bulimico.

I SOLITI FAVORITISMI. Stupisce invece che lo stesso principio, che si rifà alla spesa storica, cioè che se tu hai avuto di più continuo a darti di più, anche se ci si è resi conto che ad alcuni viene dato quello che non spetterebbe, venga adottato da un ministro, che sembrerebbe più sensibile alle esigenze e alle ragioni del Mezzogiorno che sono poi quelle di tutto il Paese. Parlo del ministro Dario Franceschini e dell’aiuto di oltre 500 milioni di euro, il contributo a fondo perduto che spetterebbe alle attività dei centri storici. Perché l’ inserimento nel gruppo avviene sulla base dei dati di presenze (non di arrivi) di turisti stranieri avuti nel 2019. La logica della legge è di preparare i nostri centri storici, più frequentati dagli stranieri, alla fine dell’emergenza, non facendo trovare un deserto di attività, nel frattempo chiuse. La via dell’inferno però è lastricata di buone intenzioni. Perché l’inserimento, in mancanza di correttivi, come per esempio la quantità di beni culturali esistenti nelle zone o un calcolo di potenziale inespresso, arrivano a coloro che hanno già sviluppato un dimensione turistica consistente. E i dati parlano chiaro: tra le città selezionate, 20 su 29 sono collocate nelle regioni del Centro Nord e resterebbero esclusi i Comuni di almeno tre regioni: Calabria, Molise e Friuli Venezia Giulia. In realtà, anche questi aiuti seguono la logica della cassa integrazione e degli altri sostegni: li dai a chi ha perso, sostieni il reddito di chi ha avuto calo di fatturato, e chiaramente a Venezia, Firenze, Milano o Roma le perdite sono state molto più consistenti di quelle delle realtà meridionali. Ma è lo stesso gioco della spesa storica, se non metti dei correttivi si aiuteranno i soliti più ricchi e non farai nulla per indirizzare un aiuto alle realtà più indietro e con margini di crescita interessanti. Per esempio non inserisci tra queste città la bellissima Lecce o Taormina o Caserta, la cui reggia è l’ultima grande opera che sia sta fatta nel Mezzogiorno, ma ci trovi Verbania.

IDEA COMPLESSIVA. Il modo più facile di distribuire risorse a pioggia e di alimentare il consenso, non utilizzando questa occasione per indirizzare verso una diminuzione dei divari, in questo caso di presenze turistiche. Costretto magari poi a mettere il numero chiuso in alcune città d’arte perché invivibili e lasciare abbandonate altre realtà, che sono scrigni d’arte e che scoprì per caso dopo anni come Matera. Ma poi, quando devi individuare la capitale italiana della cultura, stai attento che una volta tocchi al Sud e una al Nord, invece di stabilire per legge che le capitali della cultura italiane ed europea, quando ci tocca, per i prossimi dieci anni devono essere solo al Sud. Perché i Gori si lamenteranno, anche se le loro comunità hanno un reddito pro capite triplo di quello medio del Sud e in una famiglia lavorano due persone contro meno di una in media al Sud. E anche se i grandi eventi vengono tutti localizzati al Nord, come l’Expo recente e le prossime Olimpiadi invernali, che in genere portano come dote qualche miliardo per completare la rete infrastrutturale, di cui non si parla e un incremento di presenze straniere che poi determinano l’inserimento delle città nel gruppo delle città d’arte da finanziare. Guardare al singolo intervento senza una visione di insieme è molto pericoloso ma è quello che si sta facendo: forse una idea complessiva non sarebbe male.

L’Italia dei paradossi: il Sud perde soldi e il Nord si lamenta…Marco Demarco su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Molte “voci“ che si alzano dal Sud lamentano con crescente allarme la sottrazione di risorse a vantaggio del Nord. Tra queste ci sono le voci di chi non si accorge di muoversi in sostanziale sintonia con quanti in Europa fanno la stessa cosa, cioè difendono aspettative e interessi particolari, maturati prima dell’emergenza sanitaria, e agitati senza riguardi per la mutata situazione post-Covid. Solo che le voci del Sud ci appaiono giustificate dalla criticità del contesto sociale, e dunque legittime; mentre le altre risultano a noi odiose, perché cariche di irresponsabile egoismo. Eppure, se in nome della solidarietà censuriamo le spinte nazionali che tendono a insabbiare gli obiettivi comunitari, non possiamo poi, asimmetricamente, assecondare tutte le rivendicazioni che hanno origini localistiche e si alimentano di risentimenti e frustrazioni risalenti nel tempo. Bisogna dunque valutare, distinguere, e non farsi prendere dal manicheismo populista o dal riduzionismo demagogico. Del tipo: è tutta colpa di Orban e di Salvini, per intenderci. Tanto più che fino a ieri davamo per scontato che i “cattivi” fossero esclusivamente i paesi dell’Europa dell’Est, in particolare quelli del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Mentre oggi il quadro è molto cambiato: nell’ambito del negoziato sul Recovery Fund, dall’Est arriva all’Italia un imprevisto sostegno, e la minaccia più seria viene invece dal Nord, dai cosiddetti “Stati frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia). Chi avrebbe potuto immaginarlo solo qualche mese fa? Non a caso, su Repubblica, Ezio Mauro ieri ha scritto – ed è una novità significativa – che «sta emergendo un nuovissimo nazionalismo non sovranista». È la riprova che le cose si stanno complicando e che prendersela con Salvini e Orban può rivelarsi una debole manovra diversiva. In questa situazione, specialmente se ci caliamo dentro i confini nazionali, la posizione più imbarazzante diventa quella di chi vuole furbescamente ricoprire tutte le parti in commedia; di chi prova a stare con i buoni e con i cattivi contemporaneamente; di chi a parole difende le ragioni del Sud e polemizza con “quelli del Nord”, ma sotto sotto fa in realtà l’esatto contrario. Si scopre così che nell’ultimo provvedimento sulla semplificazione, il cui valore è stato più volte sottolineato dal governo e dalla maggioranza giallorossa, al comma b dell’articolo 47 si stabilisce che le risorse del fondo Sviluppo e Coesione – come è noto in gran parte destinati al Sud – sono ora a disposizione di “programmi nazionali”. Una svolta che implica una scelta precisa: in nome dell’emergenza e della semplificazione, i fondi vanno dove si possono spendere subito, senza alcun riguardo per la collocazione geografica dei progetti. L’esatto opposto, insomma, di quel principio, ribadito anche nel piano per il Sud del ministro Provenzano, secondo cui lo Stato è impegnato a destinare il 34% degli investimenti pubblici alle Regioni meridionali. Le due cose non si tengono, questo è evidente. Ma è così che si procede in questa Italia dell’equivoco elevato a valore strategico. Il colmo, poi, è dato da un Nord che ciò nonostante non si ritiene soddisfatto. E che ancora l’altro giorno, per bocca di Elisabetta Gualmini, europarlamentare Pd, docente di Scienze economiche e vice di Bonaccini, il governatore dell’Emilia Romagna, ha tuonato contro «la sfumatura assistenzialista, a trazione meridionale, del governo».

FAZIOSI, INCOMPETENTI E BUGIARDI. Le balle della sinistra padronale: il Sud è stato come sempre abolito dai grandi investimenti. Roberto Napoletano il 10 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Dicono che faranno l’Alta velocità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria e Palermo-Catania-Messina ma non è vero. C’è un solo cantiere già aperto: Napoli-Bari. Una vergogna che blocca le potenzialità di crescita dell’Italia intera perché senza la riunificazione infrastrutturale il Nord non riavrà il suo mercato di consumi interno e si determina una situazione di pericolosità estrema. Passano i giorni, la catastrofe economica italiana è sotto gli occhi di chiunque vuole vedere, ma non succede niente. “Parole, parole, parole” abbiamo titolato ieri. Oggi abbiamo il dovere di aggiungere che non solo, come ovvio, le parole non sono fatti, ma in molti casi sono parole pericolose. Perché creano illusioni destinate a tradursi in delusioni violente e sono benzina pura sul fuoco della polveriera sociale italiana che ha le sue “capitali” nel Mezzogiorno. Abbiamo un buco di cassa di 50 miliardi di cui abbiamo parlato per primi nel silenzio opaco dei cosiddetti giornali di qualità. Non diciamo come lo copriamo, facciamo gli spocchiosi con il Mes (tacciamo per carità di patria delle opposizioni sovraniste e dei loro anziani mentori in malafede) e passiamo le giornate a litigare su come spendere soldi che non abbiamo e che, quand’anche li avessimo, non saremmo in grado di spendere. Questo giornale non nasconderà mai ai suoi lettori la verità, non asseconderà mai nessun potere di turno. Il Presidente Conte che gira l’Europa come una Madonna pellegrina per convincere Capi di Stato e cancellerie europee che il Paese cambierà, farà le riforme, aprirà i cantieri, deve sapere che ha in mano tanti due di picche e nessun re di cuori. Una lista di priorità di grandi opere stilata da una ministra delle infrastrutture e dei trasporti che ha conquistato il podio della Sinistra Padronale – quella sdraiata come un tappetino al servizio del capitalismo privato della rendita – e che è riuscita a bloccare una regione senza fare mai marcia indietro, è il peggiore biglietto da visita che si possa esibire in Europa e scava la fossa al governo Conte 2 che proprio grazie all’iniziativa del suo Presidente ha affrontato bene l’emergenza sanitaria. Basta balle! Il Mezzogiorno è stato come sempre abolito dai grandi investimenti infrastrutturali e, come documenta Ercole Incalza della cui competenza nessuno può dubitare, tranne il cantiere già aperto della Napoli-Bari, nulla si muoverà di concreto per i prossimi due anni nell’Alta velocità ferroviaria del Mezzogiorno. Siamo in una situazione di pericolosità estrema perché si dice che si faranno la Salerno-Reggio Calabria e la Palermo-Catania-Messina ma non è vero perché al massimo si butteranno un altro po’ di soldi pubblici per fare studi e progetti già fatti. Una vergogna assoluta che blocca per sempre le potenzialità di crescita dell’Italia intera perché senza la riunificazione infrastrutturale del Paese il Nord non riavrà il suo mercato di consumi interno e diventerà l’appendice meridionale del gigante tedesco a sua volta stretto nella tenaglia cinese-americana. Una tragedia di cui tutti coloro che hanno responsabilità politica nel Mezzogiorno saranno corresponsabili se continueranno a tacere come hanno fatto negli ultimi venti anni. Questo giornale li stanerà uno a uno perché la situazione di oggi è molto differente da quella di ieri e dell’altro ieri perché la Grande Depressione mondiale prima non c’era. Abbiamo apprezzato il realismo di Marco Tronchetti Provera che ha messo nero su bianco una previsione del 15/20% di calo del fatturato della Pirelli avendo il coraggio di dire la verità che è proprio quello che serve. Anche qui vogliamo ricordare che nel silenzio generale, sulla base di mere analisi empiriche, ci siamo permessi di parlare di una caduta del Pil italiano di almeno il 15%. Ovviamente lo abbiamo fatto non perché siamo catastrofisti ma per spingere tutti a uno scatto fatto di cose concrete che solo la consapevolezza della situazione può dare. Se tagliamo il Sud, apriamo i cantieri forse tra due anni, prolunghiamo le “vacanze” degli statali fino alla fine dell’anno, chiudiamo l’Italia e non la riapriamo più. Se si vuole fare davvero l’alta velocità ferroviaria nel Mezzogiorno si lanci un bando di gara internazionale, si faccia cadere il tabù del ponte di Messina, e si segua da Palazzo Chigi il modello del progetto integrato e dei consorzi con partner selezionati utilizzato per il piano strategico dell’alta velocità ferroviaria del Nord di molti anni fa. Questo significa occuparsi del Mezzogiorno e riparare ai torti che ha subito. Questo significa salvare l’Italia. Con i cento e passa decreti attuativi mai adottati del Tesoro e la ministra zerbino De Micheli ci possono anche riempire di soldi europei, ma non ce la faremo mai. Perché siamo incapaci e a dettare legge saranno sempre i Soliti Noti. Quelli che usano il bilancio pubblico per le loro porcherie e rubano il futuro ai nostri giovani.

IL CONTO DELLA SINISTRA PADRONALE. Per quanto tempo l'Italia potrà sopportare i disastri del Pd e della ministra De Micheli? Roberto Napoletano l'8 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ora tutti hanno scoperto che in cassa c’è un buco da 50 miliardi e che la lista degli appalti prende in giro metà Paese dando briciole al Sud e soldi veri al Nord. Fanno bene i governatori del Mezzogiorno a chiedere conto dei soprusi miopi che impediscono la ricostruzione dell’economia italiana. Ce la faranno i nostri eroi, Francesco Boccia e Giuseppe Provenzano, ministri delle Regioni e del Mezzogiorno, a fare ragionare la Sinistra Padronale che tiene in ostaggio Conte e il Paese? Che cosa si deve fare per liberare le due Italie dall’ossessione del codice degli appalti dell’ex ministro del Pd Delrio e liberare quel partito e l’economia italiana dal più clamoroso calcio negli stinchi che un Paese può dare a se stesso? Ci sarà qualcuno nel Pd in grado di ricordare a Delrio che aveva preso l’impegno di ridurre le stazioni appaltanti da 35 mila a 5 mila e, cioè, al doppio di Germania e Francia, ma che non è successo assolutamente nulla e questa inerzia la paga un’economia paralizzata che non fa investimenti e precipita in fondo a tutte le classifiche? Ma per quanto tempo ancora si può pensare che l’Italia possa sopportare l’azione e i disastri del peggiore ministro della storia repubblicana che risponde al nome di Paola De Micheli, sempre del Pd, che si permette di prendere in giro i cittadini italiani confondendo opere cantierabili con risorse disponibili e che arriva perfino, cosa che non le perdoneremo mai, a prendere in giro i cittadini calabresi e del Mezzogiorno scambiando progetti per cantieri, treni di media velocità per alta velocità, sempre a favore del Nord e sempre subdolamente contro il Sud? È riuscita a bloccare una regione intera, la Liguria, questa impresentabile ministra senza chiedere scusa e ritirare ad horas le sue demenziali disposizioni, riuscendo nel miracolo di fare apparire il predecessore grillino Toninelli un pozzo di competenza al suo confronto. Con splendido tempismo è riuscita a affidare la gestione del ponte Morandi ai Benetton nello stesso giorno che la Consulta ha ritenuto legittimo escluderli dalla ricostruzione dello stesso Ponte. Ma in che mani, ci chiediamo, siamo finiti? Che cosa aspetta Zingaretti a prendere le distanze da questo pericolo pubblico che è la De Micheli e il Presidente Conte a chiedere per impresentabilità e incompetenza acclarate le sue irrevocabili dimissioni? Da Palazzo Chigi è uscito un documento a firma del capo del Dipartimento, Antonio Scino, di designazione leghista, che voleva fare saltare il vincolo del 34% delle risorse al Sud e destinarle come sempre al Nord, possiamo chiedere, come giustamente ripete giorno e notte Provenzano, per quale misteriosa ragione è ancora lì al suo posto? Ci fermiamo qui. Non abbiamo voglia di proseguire. Quello che deve essere chiaro a tutti è che esiste un giornale che si è permesso di segnalare nel silenzio servile dei cosiddetti giornali di qualità che c’è un buco di cassa di 50 miliardi che ora hanno scoperto tutti e che la lista degli appalti del decreto semplificazioni (vero De Micheli?) continua a prendere in giro metà Paese dando briciole al Sud per continuare a studiare e soldi veri ai cantieri nel Nord ovviamente con il plauso di buona parte anche dell’informazione che nella migliore delle ipotesi non capisce. Basta!!! Fanno bene i governatori del Sud a abbracciare la campagna di questo giornale, condotta in assoluta solitudine e avallata dalle principali istituzioni economiche, statistiche e contabili della Repubblica italiana, e a dire chiaro e tondo che con i soprusi delle Regioni del Nord di Sinistra e di Destra se la vedranno davanti alla Corte Costituzionale perché ogni limite ha una pazienza. Come direbbe il grande Totò. A tutti i sapientoni del pensiero unico ci permettiamo di ricordare che abbiamo sfondato il pavimento e distrutto le cantine, siamo sotto gli ultimi in tutto perché continuiamo a fare regali a un Nord assistenziale e togliamo risorse produttive al Mezzogiorno che può salvare l’intero Paese. Se ne è accorta perfino la Merkel non i cosiddetti giornali di qualità e la Sinistra Padronale con i suoi ministri impresentabili. Presidente Conte questa volta o riuscirà a cambiare rotta con i fatti o salterà. Sia chiaro: chi prenderà il suo posto o cambierà rotta o farà saltare l’Italia. Questi sono i punti veri. Il resto sono chiacchiere. Penose.

I SOLDI DELL'EUROPA DIROTTATI AL NORD. Siamo alla vergogna delle vergogne. Non sarà mai troppo tardi quando gli amministratori delle Regioni meridionali avranno la dignità di rivolgersi alla Corte costituzionale per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni. Roberto Napoletano il 6luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Noi vogliamo bene all’Italia e solo per questo ci siamo imposti di non soffiare sul fuoco della polveriera sociale che può incendiare il Paese in autunno. Siamo sull’orlo del baratro e ci comportiamo come se avessimo il portafoglio pieno e i miliardi che ci ballano. Calpestiamo il Mezzogiorno e il lavoro privato con la brutalità che solo l’ignoranza delle cose può consentire. Non riapriamo il pubblico impiego, il sindacato tutela privilegi fuori dal mondo, e raccontiamo la favola della didattica a distanza in una scuola colpevolmente dimezzata. Lasciamo morire il commercio, chiudiamo l’economia a partire dal turismo, e crediamo di potere ricominciare come se nulla fosse ridando i soldi ai Soliti Noti e regalando spesa pubblica ai ricchi rubandola ai poveri facendo l’esatto contrario di quello che ci chiede l’Europa. Facciamo finta di cambiare la macchina pubblica per cui gli investimenti rischiano di non partire mai e litighiamo su chi nomina i commissari e su quali opere devono avere la priorità quasi che fosse discutibile il dato di fatto che negli ultimi venti anni si è azzerata la spesa per investimenti nel Mezzogiorno (0,15% del Pil) e si vuole addirittura proseguire con l’andazzo incostituzionale di fare figli e figliastri nella sanità pubblica adesso addirittura anche con i fondi europei del Mes che non abbiamo nemmeno il pudore di chiedere ma sottobanco già ci dividiamo. Non so se si è capito bene quello che sto dicendo: con la consueta miope arroganza vogliamo prenderci i soldi europei per fare regali a Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, la governance reale del Paese che unisce Destra e Sinistra, quando l’Europa ci aiuta eccezionalmente per l’ultima volta affinché facciamo finalmente gli ospedali pubblici, terapie intensive e ricerca nelle regioni del Mezzogiorno arbitrariamente private dei loro diritti costituzionali. Siamo alla vergogna delle vergogne. Non sarà mai troppo tardi quando gli amministratori delle Regioni meridionali avranno la dignità di rivolgersi alla Corte costituzionale per tutelare i diritti di cittadinanza delle proprie popolazioni. Questo giornale con l’avallo delle principali istituzioni economiche, contabili, statistiche della Repubblica italiana ha condotto ben tre operazioni verità (mai smentite da chicchessia) che documentano lo scippo da 60 e passa miliardi di spesa pubblica l’anno del Nord a danno del Sud e che sono la base giuridica della necessaria azione davanti alla suprema Corte. Ritenevamo che almeno il Coronavirus avrebbe consentito di bandire certe pratiche da Nord ladrone. Non è così se è vero come è vero che si è predisposta una bozza di ripartizione degli eventuali aiuti del Mes che continua a dare smaccatamente di più alle Regioni del Nord rispetto a quelle del Sud e si litiga sulle grandi opere da inserire nelle liste delle priorità con l’obiettivo della Sinistra Padronale di continuare a privilegiare in modo miope il Nord a spese del Sud. Questa è l’amara realtà e francamente siamo allibiti davanti allo spettacolo di un ministro dell’Economia che ha un buco di cassa di 50 miliardi, qualcosa che vale tre manovre, e non dice come intende coprirlo con l’assestamento di bilancio né anticipa il Def. Si permette di dire che è assolutamente urgente utilizzare le risorse comunitarie mentre continua a fabbricare leggi inattuabili e a prevedere decreti attuativi che non vengono adottati. Non perde una parola per ricordare a tutti che l’Europa pone una sola condizione: dovete spendere bene i quattrini che vi diamo mettendo al centro il Mezzogiorno. Dovete spenderli per fare quelle infrastrutture di sviluppo negate al Sud che consentono di perseguire il riequilibrio territoriale e di fare ripartire l’economia dell’Italia intera. Non lo dice, ma è così: dovete fare l’esatto opposto di quello che avete fatto fino a oggi. Soprattutto, dovete farlo in fretta. La Sinistra Padronale deve smetterla con il vizietto di aiutare gli amici degli amici ovviamente sempre ricchi e deve dare una mano a Conte per sbloccare poteri commissariali, alta velocità ferroviaria al Sud e smontare senza ipocrisie abuso d’ufficio e codice degli appalti. A sua volta Conte deve avere la forza di imporre ai grillini di uscire dal tunnel delle politiche assistenzialiste e dalla pratica delle regalie agli amici incompetenti perché la priorità è fare ripartire il lavoro. Sempre Conte deve abolire quota 100 per le pensioni che è il frutto della stessa cultura assistenzialista ma di impronta grillina. Se si vuole evitare il baratro, fatto di crollo dell’economia reale e di sfiducia dei mercati, il percorso è obbligato. Per poterlo percorrere insieme o con altri bisogna almeno capirlo.

Non bastano i soldi scippati al Sud: la Lombardia ha 320 milioni di buco. Claudio Marincola il 9 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. È proprio vero che nulla sarà più come prima. È caduto infatti anche l’ultimo tabù: ora anche la Lombardia ha i conti in rosso. Perdite straordinarie per circa 320 milioni di euro, da ripianare tagliando i costi e risparmiando sul welfare. Cose mai viste da quelle parti. La cifra è scritta nero su bianco nel Dfr, il Documento di finanza regionale 2020-2022 e fa un certo effetto considerando che da sempre è la Regione che incassa la fetta più grossa dei finanziamenti previsti dal piano sanitario nazionale. A determinare l’insolito sforamento è stata ovviamente l’emergenza Codiv-19 che ha colpito duramente la Regione del presidente Attilio Fontana. Più uscite ma anche minori entrate per 33 milioni di euro pari a un – 11% circa, da attribuirsi per il 27% ai minori introiti per il bollo auto, addizionale Irpef (-21%) e al decremento dell’Irap, (-43%) sia per quanto riguarda il saldo del 2019 che il primo acconto 2020. Un ulteriore 9% lo si deve alle minori riscossioni dell’Agenzia delle entrate per la tregua da lockdown. Il “buco” è chiaramente di derivazione sanitaria. Dai tabulati della Regione si evince che degli 894.100.214,35 euro spesi sono stati autorizzati finora solo 52.035.024,92 euro sul totale degli oltre 566.035024,92 euro rendicontati, Il Pirellone ha richiesto al commissario straordinario 502.808.621,77 milioni di euro. Ma ad oggi – sui fa notare dall’assessorato al Bilancio della regione Lombardia – queste risorse non sono state ancora assegnate. Si tratta di spese sostenute durante l’emergenza per l’assistenza medica, per la sanificazione di strutture sanitarie, acquisto di apparecchiature medicali, dispositivi di protezione e quant’altro è stato necessario per fronteggiare l’esplosione dell’epidemia nei giorni più caldi. Altri 63 milioni di euro sono stati richiesti al Dipartimento di Protezione civile. Spese varie ma sempre prettamente sanitarie. Esempio; l’assistenza alberghiera ai pazienti positivi o quarantenati e a medici e infermieri; la distribuzione dei medicinali; il trasporto salme da presidi ubicati al di fuori della provincia o della regione delle vittime e l’allestimento di strutture temporanee. Un calderone, insomma, in cui c’è di tutto. Restano invece in capo alla Regione Lombardia alcune spese che non sono state autorizzate. Tipo: rafforzamento della pianificazione della prevenzione e i costi aggiuntivi di personale, tra tutte quest’ultima resta la voce di spesa più importante: 148.246.093,69 milioni di euro. Mai come in questo esercizio finanziario ogni voce di spesa racconta il dramma che si è consumato nella regione considerata fino a ieri la Locomotiva d’Italia. Un ente locale, che a differenza di altre aree geografiche, può contare su entrate consolidate, introiti stabili, solidità finanziaria. Nel 2019 l’avanzo di bilancio ammontava infatti ad 1 miliardo e 324 milioni di euro, di cui 518 milioni provenienti dal bilancio di competenza. Una riserva ingente a cui sarà necessario attingere ora che la crisi da Covid 19 ha imposto una brusca inversione di tendenza. “Il nostro problema – conferma infatti il consigliere regionale Dem Raffaele Straniero – è stato semmai il contrario: la capacità di spesa”. Non la pensa così l’assessore al Bilancio Davide Carlo Carapini, bresciano e leghista della prima ora che ha più volte chiesto di accelerare le procedure dei rimborsi. La Conferenza delle regioni e delle Province autonome ha fatto di recente la ricognizione delle spese sostenute da tutti gli enti locali tra il 31 gennaio e il 31 maggio 2020 in relazione all’emergenza Codiv-19 ma le procedure per applicare i rimborsi previsti dal decreto Cura Italia viaggiano ancora molto al rilento. Arriveranno? Ma quando? Nell’incertezza della copertura, il Pirellone non esclude di utilizzare i proventi delle donazioni, circa 52 milioni di euro. Sono il frutto di raccolte fondi tra i privati ma anche delle aziende territoriale della sanità (Ats): Ats Brianza; Insubria; Val Padana; Bergamo e Città metropolitana. Risorse sono arrivate anche dagli Irccs di Besta; San Matteo; Policlinico e dall’Istituto nazionale dei tumori. Ognuno ha fatto la sua parte. Un discorso diverso è quello delle donazioni arrivate per il padiglione di Rho Fiera destinato alle terapie intensive. Pazienti che si contano sulle dita di una mano: costo 20 milioni circa di euro. Secondo molti uno spreco inutile, risorse sottratte al pubblico e regalate ai privati. Il nuovo ospedale messo su con la collaborazione di Bertolaso e il contributo di Berlusconi, per intenderci. Sebbene dei 52 milioni raccolti, ben 25 indicavano nella lettera di accompagnamento o nella delibera di autorizzazione la preferenza per la destinazione Rho, la Regione chiederà ai donatori l’autorizzazione a destinarle ad altre “iniziative” legate comunque all’emergenza. Il Codiv 19 ha stravolto i bilanci di tutte le regioni italiane, nessuna esclusa. Ma se quelle povere saranno ancora più povere questa volta anche i ricchi piangono. Lacrime e sangue è costato il coronavirus anche all’Emilia-Romagna, l’altra eccellenza. Un colpo duro alle casse regionali non ancora del tutto quantificato. Si dà il caso però che nel riparto delle risorse nazionali, la regione guidata dal governatore Bonaccini aveva scoperto proprio a marzo, in piena emergenza, di poter incassare 175 milioni in più dell’esercizio precedente. Un tesoretto da cui ripartire. Chissà certe sorprese nel Mezzogiorno non si verificano mai.

TRADITO IL SUD, TRADITA L'ITALIA. Roberto Napoletano l'8 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. I PAESI che fanno parte dell’Unione Europea sono 27. Un bel numero. Una squadra di pallone con le riserve e le riserve delle riserve più un’altra mezza squadra di titolari. Tra tutti questi giocatori non c’è nessuno che va peggio di noi. Con il Regno Unito impegnato in una eterna Brexit saremmo stati 28. Il risultato resterebbe invariato. Sempre ultimi. Questo è l’unico risultato clamoroso certo che riguarda l’Italia. Segnala il rischio Paese che è in cima alle preoccupazioni dell’Europa che per scongiurarlo è pronta per la prima volta a dare all’Italia non solo prestiti a tassi di favore ma anche fondo perduto ovviamente sempre a fronte di progetti esecutivi attuati e rendicontati. Un Paese che ha un buco di cassa di oltre 50 miliardi, non lo dice nessuno ma è così, e si appresta a raggiungere vette inesplorate di debito pubblico non può consentirsi il lusso di unire alla peggiore performance di crescita pre Covid, frutto di vent’anni di scelte sbagliate di politica economica e di una macchina pubblica centrale e regionale incapace di spendere, anche il record negativo di essere l’ultima economia europea a ripartire dopo il Covid. Le previsioni del prodotto interno lordo tutte negative e tutte per l’Italia ancora una volta da recordman tra i Paesi sotto zero peccano, a nostro avviso, di eccesso di ottimismo. Questo giornale sulla base di valutazioni empiriche, la somma dei mesi di chiusura totale e di quelli a chiusura parziale delle attività economiche, ha parlato in tempi non sospetti di un Pil negativo del 15% quando tutti, mettendo la testa sotto la sabbia come gli struzzi, si trastullavano con previsioni inferiori di un terzo. Non vogliamo tirarla lunga perché sull’orlo del baratro ci toccherebbe occuparci di tanta vaghezza assortita, chiacchiere lunari di rimpasto, una ministra delle infrastrutture (De Micheli) che riesce a bloccare una regione e spicca per incompetenza, una squadra di ministri del Pd che difende il codice degli appalti e non vuole i commissari perché bisogna difendere le riforme di Delrio che hanno bloccato gli appalti in Italia senza scalfire il patrimonio imbarazzante di 35 mila stazioni appaltanti contro le duemila di Francia e Germania. Vogliamo invece dire una sola cosa che nessuno vuole dire, nessuno vuole vedere, nessuno vuole sentire. Che è la sola cosa che blocca la crescita del Paese da almeno un quarto di secolo: l’abolizione del Mezzogiorno dalla spesa pubblica produttiva e sociale. Il vizietto dei ricchi della Sinistra (Emilia-Romagna e Toscana) e della Destra (Lombardia e Veneto), di fare il pieno di finanziamento pubblico a spese degli altri territori italiani. Purtroppo, anche in un quadro di semplificazione oggettiva che è il massimo che Conte è riuscito a strappare al Pd, i soldi europei finanzieranno al Nord subito opere e al Sud studi di fattibilità, progetti. Se si vuole fare per davvero l’alta velocità ferroviaria al Sud si fa come si è fatto ormai tanto tempo fa al Nord. Non si finanzia uno studio di fattibilità ma si fa un atto concessorio per un Progetto integrato per l’alta velocità ferroviaria con un bando di gara rivolto a un pool di imprese selezionate. Se si vuole fare sul serio si fa così se no si continua a prendere in giro il Sud e con i soldi di oggi del Sud a finanziare assistenza e opere al Nord, avendo cura al Sud di assegnare sempre i soldi di domani. Quelli che quando arriva l’oggi non ci sono più perché li ha già presi il Nord. Sul capitolo sanità è addirittura peggio. Si è predisposta una bozza per cui con i soldi del Mes si vuole dare alla Lombardia da sola quasi quanto riceve tutto il Mezzogiorno continentale e si continua a non capire perché il Veneto con un milione di abitanti in meno deve prendere più o meno quello che prende la Campania e l’Emilia Romagna sempre più della Puglia. Siamo alla violazione palese, insistita e scandalosa dei diritti costituzionali di cittadinanza e siamo contenti che due presidente di Regione (Campania e Sicilia) abbiano finalmente accolto il nostro suggerimento di rivolgersi alla Consulta per tutelare i diritti violati e, cosa ancora più importante, dare contro tutti e contro tutto l’ultima chance all’Italia per tornare a crescere. Fare, cioè, l’unica cosa che deve fare da quasi trent’anni e non fa. La riunificazione infrastrutturale delle due Italie. Serve al Nord per tornare ad avere il suo mercato di consumi interno. Serve al sistema produttivo italiano per recuperare una dimensione di impresa accettabile a livello globale che è cosa diversa da essere l’appendice meridionale del gigante tedesco. Serve al Paese intero per tornare ad essere la base logistica del Mediterraneo e recuperare la sua leadership sui mercati strategici della sponda Sud del mondo. Serve all’Europa che è stanca di dovere chiedere il permesso a Erdogan o a Abdel Fattah al-Sisi per fare un investimento in Libia e non sa più come spiegare che apre i cordoni della borsa perché l’Italia persegua e realizzi il suo riequilibrio strutturale non altro. Chi glielo spiega a Bonaccini e Fontana che, causa Covid, hanno perso sei mesi di “turismo sanitario” e hanno un buco di bilancio da sanare? Con i giochetti di prima non si va da nessuna parte perché questa volta l’Italia affonda e perché l’Europa non si vuole fare prendere in giro. Consigliamo al Presidente Conte di sfidare i guappi di cartone del Pd per fare scelte più radicali e condividere non a parole la priorità italiana del Mezzogiorno. Anche perché se l’Italia non recupera questo pezzo così vasto di territorio esce dal novero dei Paesi industrializzati.

Dagospia il 9 giugno 2020. QUANTO STARNAZZANO I LOMBARDI - E’ BASTATO METTERLI DUE MESI NEL RUOLO DI UNTORI-DISCRIMINATI PER ASSISTERE A UNA REAZIONE FURIBONDA, DE BORTOLI IN TESTA - MA COME? IL SUD E I MERIDIONALI VENGONO TRATTATI CON SPREGIO, SEMPRE. (DO YOU REMEMBER: “NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI”?) E ORA PER QUALCHE SFOTTO’ SI GRIDA ALL’INVIDIA SOCIALE? L’ESAGERAZIONE DI FELTRI: “CONTRO LA LOMBARDIA, PROVENIENTI DAL MERIDIONE, SONO STATI LANCIATI STRALI VELENOSI. UN PESTAGGIO SENZA PRECEDENTI CHE COLPISCE POLENTONI QUASI FOSSERO DELINQUENTI”.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”  il 9 giugno 2020. È ora di riaprire il fuoco che pure mi ha strinato. Un paio di mesi orsono, forse meno, ero ospite del programma televisivo «Fuori dal coro» condotto dall'ottimo Mario Giordano. Alle sette di sera registrai una intervista su temi di attualità. Il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l'intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo, aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D'Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile. Chiunque sa che il Mezzogiorno soffre di arretratezza in campo produttivo: il reddito dei suoi cittadini è la metà di quello dei lombardi, è devastato dalla criminalità organizzata, è privo di infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo. Queste sono verità incontestabili. Nonostante ciò sono stato linciato quasi avessi offeso il popolo del Sud, il quale peraltro si lamenta proprio perché lo Stato non ha mai provveduto a colmare certe lacune che lo rendono appunto inferiore (che non è una parolaccia) al settentrione. È un fatto noto a chiunque conosca la realtà patria. Mi sono preso valanghe di insulti. Addirittura Massimo Giletti, factotum dell'Arena della 7, ha organizzato una puntata durante la quale i suoi ospiti, da Luca Telese al sindaco di Benevento, mi hanno brutalizzato volgarmente, accusandomi di antimeridionalismo, ignorando la mia storia. Solamente Alessandro Sallusti mi ha generosamente difeso. Non contento, Giletti ha incaricato la ex ministra De Gregorio di raccogliere le contumelie dirette a me ad opera di un considerevole numero di sudisti che hanno parlato per sentito dire, cioè senza avere udito il mio intervento tv. Più scorretti di così è impossibile. Naturalmente me ne sono infischiato. Alla superficialità di certa gente sono avvezzo. Ora però si dà il caso che si è scatenata una bufera contro la Lombardia, accusata di aver commesso ogni nefandezza in occasione del Covid, come se il virus fosse stato realizzato da Attilio Fontana e dai suoi collaboratori. Contro questa regione pilota, provenienti dal meridione, sono stati lanciati strali velenosi. Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c'è stata e non c'è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta, se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo.   

Feltri difende il Nord, nuovo titolo discutibile di Libero: arriva l'ironico commento di Di Mare. Vittorio Feltri, giornalista e Direttore di Libero, ha pubblicato un altro editoriale che prende di mira i Meridionali.  Redazione areanapoli.it il 9 giugno 2020. Renato Farina, giornalista, ha scritto un articolo su Libero dal titolo: "Tutti odiano la Lombardia, nessuno odia il Mezzogiorno". Farina scrive che “bisognerebbe aggiungere un comma alle leggi che tutelano dalle discriminazioni razziali, religiose, sessuali. Andrebbe dedicato alla lotta contro la lombardofobia”. Cita Giuseppe Verdi e annuncia l’organizzazione di un Lombard-Pride. Per l’occasione Ferruccio de Bortoli potrebbe lanciare il suo movimento territoriale. Vittorio Feltri, sempre su Libero, ha invece scritto: “Se nomini il Sud ti massacrano, se insulti il Nord. Io contro il Mezzogiorno? Ho detto verità incontestabili. Sono stato linciato quasi avessi offeso il popolo del Sud. Si è scatenata una bufera contro la Lombardia accusata di aver commesso ogni nefandezza in occasione del Covid, come il virus fosse stato realizzato da Fontana e i suoi collaboratori. Senza la Lombardia chi oggi accusa tornerebbe alla mezzadria e al latifondo”. Gino Di Mare, giornalista e fratello di Franco (ora Direttore di Rai 3), ha commentato in modo ironico su Facebook: "I titoli di Libero andrebbero protetti, tutelati, esposti. Secondo me una permanente al Thyssen-Bornemisza di Madrid avrebbe il suo perché. Almeno facciamo ridere anche agli spagnoli".

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 12 giugno 2020. Illustre Sergio Pinto, pubblichiamo volentieri la sua lettera garbata sperando dimostri ai nostri lettori come stanno effettivamente le cose. Nessuno qui a Libero è ostile ai terroni, termine scherzoso esattamente come lo è polentoni. Certi modi di dire non devono assumere una connotazione dispregiativa, al contrario vengono usati con affetto. Io sono stato recentemente criticato perché ho parlato delle tribolazioni del Sud, abbandonato dalla politica e reso così incapace di fronteggiare una arretratezza che risale a tempi lontani. Da oltre sessanta anni i meridionalisti più provveduti si lamentano poiché il Mezzogiorno è male amministrato dallo Stato Centrale, e hanno mille ragioni. Sono sempre mancati investimenti tesi allo sviluppo del territorio, privo di infrastrutture, di trasporti adeguati alle esigenze degli imprenditori che, di fatto, non sono riusciti a sfondare sul piano economico lasciando la loro gente in una situazione di subalternità rispetto al Nord. Negare tutto questo significa non aver capito nulla delle problematiche che affliggono da secoli le regioni più sfortunate d' Italia. Personalmente insisto da lustri: la rinascita delle due Sicilie dipende dalla volontà degli uomini. I quali non devono favorire piogge di denaro sulle zone depresse, quattrini che poi vengono raccattati dalla malavita organizzata e destinati ad arricchire le famiglie mafiose. I soldi pubblici vanno investiti in grandi opere che siano importanti ai fini di un rilancio definitivo del Meridione, bisognoso di strade, ponti, aeroporti, ferrovie, altrimenti esso non sarà mai in grado di competere con i connazionali più vicini all' Europa. Quando affermo che molti napoletani sono inferiori ai lombardi scopro l' acqua calda, nel senso che le possibilità dei vesuviani, perseguitati dalla miseria, dalla camorra e da un caos cittadino incontrollabile, sono evidentemente più modeste rispetto a quelle di cui dispongono gli abitanti di Milano. Chi non riconosce che esiste un gap tra una parte e l' altra dello stivale o è cieco o è sciocco. Non si tratta di differenze antropologiche tra polentoni e terrori, tuttavia smentire che le due categorie abbiano un reddito e un modus vivendi dissimili costituisce una manifestazione di ottusità.

Da casanapoli.net il 12 giugno 2020. Il direttore di “Libero Quotidiano“, Vittorio Feltri, torna ad attaccare Napoli e il Sud in generale, per rispondere alle accuse rivolte contro la Lombardia. Vittorio Feltri torna a parlare contro Napoli e il meridione d’Italia. Il direttore di Libero, rispondendo alle accuse rivolte contro la Lombardia attacca Napoli e il sud a testa bassa. Queste le sue parole: “Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c’è stata e non c’è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta. Se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo“. Il direttore di Libero continua la sua invettiva contro i Napoletani: “Ricordo quando il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l’intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo. Aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D’Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile. Chiunque sa che il Mezzogiorno soffre di arretratezza in campo produttivo: il reddito dei suoi cittadini è la metà di quello dei lombardi, è devastato dalla criminalità organizzata, è privo di infrastrutture idonee a favorire lo sviluppo. Queste sono verità incontestabili. Nonostante ciò sono stato linciato quasi avessi offeso il popolo del Sud, il quale peraltro si lamenta proprio perché lo Stato non ha mai provveduto a colmare certe lacune che lo rendono appunto inferiore (che non è una parolaccia) al settentrione. È un fatto noto a chiunque conosca la realtà patria. Mi sono preso valanghe di insulti”.

Libero e Feltri difendono la Lombardia e attaccano il Sud: “Offese sanguinose sparate sui lombardi”. Da Chiara Di Tommaso il 9 giugno 2020 su vesuviolive.it. Fa discutere il nuovo titolo di apertura di ‘Libero’ e il relativo editoriale in prima pagina firmato da Vittorio Feltri. Questa volta il giornale mette direttamente a confronto il Nord e il Sud alimentando odio come si evince del titolo che recita: “Tutti odiano la Lombardia, nessuno odia il Mezzogiorno”, con tanto di foto di Attilio Fontana. Una difesa a spada tratta del governatore contro le accuse fatte da ‘Report’ e da ‘Il fatto quotidiano’ sulla gestione della sanità lombarda: “Giù le mani da Fontana”, “Attacco al potere economico”. Peccato che a parlare siano i dati e le varie inchieste aperte contro Fontana per indagare sulla gestione dell’emergenza. Ma per ‘Libero’ e Vittorio Feltri gli attacchi a Fontana vengono esclusivamente dai ‘meridionali invidiosi’ della Lombardia. Guai a sottolineare qualcosa che non va, subito arriva l’editoriale in difesa del Nord e contro il Sud troppo permaloso: “Se nomini il Sud ti massacrano, se insulti il Nord…”. Feltri ricorda una sua frase quella sull’inferiorità dei meridionali e la spiega meglio, sottolineando come non sia solo economica. “Un paio di mesi orsono, forse meno, ero ospite del programma televisivo «Fuori dal coro» condotto dall’ottimo Mario Giordano. Alle sette di sera registrai una intervista su temi di attualità. Il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l’intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo, aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D’Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile“. Ed ecco la sua difesa della Lombardia: “Contro questa regione pilota, provenienti dal meridione, sono stati lanciati strali velenosi. Un pestaggio senza precedenti che colpisce polentoni quasi fossero delinquenti oltre che untori indefessi. Il migliore dei settentrionali è dipinto quale un bastardo intento solo a impestare i connazionali e ad accumulare denaro, speculando su tutto, anche del virus. Ma le offese sanguinose sparate sui lombardi non hanno suscitato polemiche: solo approvazioni. Non c’è stata e non c’è anima che si indigni e invochi punizioni nei confronti dei detrattori dei miei conterranei. Niente, neanche un sospiro. Se io dico che i napoletani sono spettinati, vengo infilato nel tritacarne e ridotto a polpetta, se invece il Paese intero imputa ai lombardi di essere un popolo di gentaglia arraffona, avida e senza dignità, tutto va bene madama la marchesa. Non mi aspetto le scuse di chi sputtana i miei concittadini, mi accontenterei che chiudesse la bocca e pensasse che senza la Lombardia tornerebbe alla mezzadria e al latifondo“. In democrazia vi è libertà di parola ma un conto è raccontare i fatti, altro difendere l’indifendibile accusando il Sud. Forse sono in tanti che dovrebbero chiudere la bocca.

Libero e il “Sud infettato”. Next Quotidiano l'11 ottobre 2020. La prima pagina del quotidiano “Libero” di oggi, nella solita difesa della Lombardia e della sua disastrosa gestione dell’epidemia, regala un’altra delle sue chicche di razzismo: “Altro che Lombardia, il Sud è infettato”, ci avvisa. E nell’occhiello si legge quasi una nota di compiacimento quando scrive: “Il Covid dilaga nel Mezzogiorno”, per poi scrivere nel sommario che “sono bastati pochi contagi per mandare la sanità da Roma in giù in tilt”. Evidentemente il quotidiano diretto da Feltri (che preferisce dedicarsi alla crociata contro i monopattini nel suo editoriale) e da Pietro Senaldi, non dispone di calcolatrice. Basta andare, per esempio, ai dati di ieri, per constatare che la Lombardia, da sola, contava 1140 su 5724 casi di nuovi contagi (circa il del 20% di quelli registrati in tutta Italia). E il Sud “infetto”? Sommando quelli di Abruzzo (94), Molise (28), Puglia (184), Campania (664), Basilicata (42), Calabria (68) e Sicilia (285), il totale di nuovi casi registrato ieri è stato di 1365 (225 in più della sola Lombardia che “Libero” indica quasi come una eccellenza). Anche volendo fare un confronto con la popolazione residente e l’incidenza su questa dei contagi (uno dei refrain a difesa della Lombardia è di essere la regione più popolosa d’ Italia, con oltre dieci milioni di abitanti), il titolo di “Libero” si rivela la solita bufala. A fronte di quei dieci milioni, le regioni del Sud contano quasi il doppio dei residenti lombardi. E’ vero che i contagi stanno aumentando soprattutto in Campania, ma questo non vuol dire che “il Sud è infetto”. Ma tanto, si sa, a lavare la testa agli asini di “Libero” ci si rimette solo acqua e sapone…

Il tempismo di Libero che dice che il sud è infettato, quando la Lombardia supera i 1000 casi in 24 ore. La prima pagina di Libero di oggi, alla luce dei dati Covid di ieri, non può che risultare fuori luogo. Ilaria Roncone su Giornalettismo l'11/10/2020. “Il Covid dilaga nel Mezzogiorno. Altro che Lombardia, il sud è infettato”: questo il titolo da prima pagina dell’edizione di Libero oggi. Non mancano le puntualizzazioni su quanto siano bastati “pochi contagi per mandare la sanità da Roma in giù in tilt“. Che Libero non faccia titoli lusinghieri nei confronti del sud Italia lo sappiamo da sempre, ma oggi possiamo sottolineare quanto risulti ironica la prima pagina in virtù dei numeri coronavirus della giornata di ieri in Lombardia, in Campania e nel sud in generale.

Dati coronavirus Lombardia: solo ieri 1.140 nuovi contagi. Continua la crescita esponenziale dei nuovi contagi in Italia. Nella giornata di ieri sono stati registrati 5.724 nuovi casi positivi di Covid con 133.084 tamponi effettuati e 29 morti. Una crescita generalizzata dei contagi, certo, ma ieri la regione che ha pagato il prezzo più alto è stata proprio quella Lombardia che Libero contrappone al sud: 1.140 nuovi positivi con Milano città che ha fatto registrare oltre 300 nuovi casi.

Perché la prima pagina Libero sul sud infettato non ha senso. Anche il sud è in salita per quanto riguarda i dati coronavirus, con la Campania – in particolare – che vede il governatore De Luca iniziare a parlare della possibilità di lockdown Campania qualora il rapporto tra nuovi contagi e guariti dovesse diventare eccessivamente sbilanciato. I nuovi contagi in Campania ieri? 664, dato leggermente in calo rispetto ai giorni precedenti, seppure comunque alto. Chiariamolo: i contagi salgono ovunque, nessuna regione risulta da un po’ di tempo ormai a contagi zero; la crescita della curva è visibile ovunque e in ogni regione crea preoccupazione. Andando però a guardare ai numeri è evidente come il paragone fatto da Libero tra il sud e la Lombardia non sia propriamente corretto.

Campania in prima pagina su “Libero”: “La ruota gira. Canta Napoli e si infetta, ora il lanciafiamme fa cilecca”. Veronica Ronza il 9 ottobre 2020 su vesuviolive.it. Il quotidiano “Libero”, negli ultimi giorni, ha posto particolare attenzione alla questione Covid in Campania. Ormai è risaputo che la Regione è una delle più colpite in fatto di Covid-19. Situazione che desta dispiacere ai più ma, probabilmente, non ai giornalisti della testata in questione. Già Angelo Forgione, nella giornata di ieri, ha utilizzato il suo account Facebook per evidenziare le parole poco carine di Renato Farina, co-fondatore della testata insieme a Vittorio Feltri. Il suo pezzo, infatti, ha come titolo “La Campania colpita dal virus adesso ricorda la Lombardia” e come occhiello “La ruota gira”. Inoltre, si legge: “Quando il Covid infuriava al Nord, molti al Sud infierirono su milanesi e bergamaschi. Ora che l’emergenza tocca a loro, il Pirellone apre ai napoletani l’ospedale in Fiera. Il gesto dei lombardi alla Prima Crociata anti-Covid è una magnifica offerta di fraternità. La piccola vendetta lombarda è il far del bene. A questo punto, dopo esserci presi la soddisfazione della memoria, pace.” A rincarare la dose, la prima pagina del numero di oggi in cui sovrasta il seguente titolo: “Canta Napoli e si infetta. Ora il lanciafiamme di De Luca fa cilecca.” E ancora si descrive in maniera distorta ciò che sta accadendo, infierendo ancor di più su una popolazione già provata: “Per le vie del capoluogo campano la gente si accalca come se nulla fosse, le terapie intensive della Regione si riempiono e lo ‘sceriffo’ è impotente.” Del resto, è parte della linea editoriale del quotidiano “Libero” la critica al Sud, dunque non poteva non essere rimarcato il peggioramento della situazione Covid in Campania. Proprio nel pieno della pandemia, il direttore editoriale Vittorio Feltri, nonostante l’emergenza che ha colpito e messo in ginocchio tutta l’Italia, si impegnava ad accusare di inferiorità i meridionali nei salotti televisivi.

Quei pagliacci di Libero che deridono il Sud infetto. Da thewam.net il 10 ottobre 2020. Un altro attacco gratuito da giornali del nord al meridione. Dopo «De Luca uomo di merda, a fanculo i campani», scritto su Affari Italiani, questa mattina Libero titola: «Il Covid dilaga al Sud. Altro che Lombardia, il Sud è infetto». Con un tono dispregiativo e proprio il giorno in cui la Lombardia fa il doppio dei contagi della Campania...

Il quotidiano Libero deve avere un problema patologico con il Sud e i Meridionali. Articolisti e titolisti fanno a gara a chi è più becero, alimentando spaccature in un Paese che è in bilico, travolto da una emergenza sanitaria senza precedenti. Un po’ come il tipo di Affari Italiani che oltre a definire De Luca “un uomo di merda” (vero giornalismo d’altri tempi…), si è sentito in dovere di mandare “a fanculo” i campani. Una volta certe gente non avrebbe avuto diritto di parola neppure al bancone di un bar. Ora scrive sui giornali.

Il Sud è infetto, altro che la Lombardia. Ma torniamo a Libero, la perla quotidiana è questa: «Il Covid dilaga nel Mezzogiorno. Altro che Lombardia, il sud è infettato». Ora, che il Covid dilaga al Sud è vero, purtroppo: ma perché questo paragone con la Lombardia, oltretutto proprio nel giorno in cui proprio la Lombardia fa registrate 1.100 casi, ovvero 500 contagi in più della Campania, che è seconda.

Una informazione che fa schifo. Come fosse una gara, una competizione tra Regioni. Una specie di Giochi senza frontiere del coronavirus e Libero il quotidiano di riferimento degli ultrà settentrionali. In tutta franchezza: siamo schifati da questi atteggiamenti. Siamo schifati da questa informazione. Siamo schifati da chi continua a contrapporre, in modo anacronistico, il Nord contro il Sud. La presunta efficienza contro il presunto fannullonismo para mafioso. Basta.

Solo per dire che la nostra sanità non è come quella lombarda. Libero ha fatto quel titolo per poter dire, con esibita soddisfazione: «Sono bastati pochi contagi per mandare in tilt la sanità da Roma in giù». E ribadire come invece il sistema lombardo è sì stato messo in crisi in primavera, ma a fronte di una vera emergenza. Embè, lo sappiamo, lo sanno tutti che la sanità lombarda è più efficiente di quella al Sud. E allora? Si vince un premio, ci si sollazza su un giornale a osservare le difficoltà meridionali nell’intima speranza di assistere a una tragedia? Per fare cosa, dire a tutti che il “sud piagnone” si è piegato davanti al Covid? Libero, così come il Giornale, non sono nuovi a uscite di questo tipo. Il tiro al meridionale viene subito dopo il tiro all’immigrato, ma sta guadagnando terreno. Evidentemente l’immigrato invasore non interessa più.

Ancora una risposta a De Luca. Forse bruciano ancora, e dopo mesi, quelle dichiarazioni di De Luca («al nord non hanno chiuso e ora contano i morti»), o l’aver assistito impotenti al crollo di tante certezze, come l’efficientismo settentrionale, messo in ginocchio da un microscopico virus, o ancora fa male quel pezzo di El Pais sulla «fine del modello lombardo», proprio a causa della risposta alla pandemia. A dire il vero capire le ragioni di tanta beceraggine, di questa ignobile volgarità che imbratta i giornali, non ci interessa per nulla. Restano lì, titolacci e pezzacci scritti per spaccare il Paese, magari ci scappa anche una ospitata in un talk show di terza serie. Nel frattempo l’Italia, tutta intera, soffre dello stesso male, della stessa emergenza sanitaria e della stessa crisi economica. Solo qualche pagliaccio dell’informazione può pensare ad altro.

Le fake news su Attilio Fontana di Travaglio e Report che alimentano il clima d’odio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Per il pubblico ministero Alberto Nobili, che lo ha interrogato venerdi scorso, è persona offesa. Per il Fatto quotidiano e la trasmissione Report è una sorta di faccendiere in perenne conflitto d’interessi. Per Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, non c’è pace, da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19. Marco Travaglio lo ha messo nel mirino e ogni giorno ne chiede le dimissioni, se non è proprio possibile l’arresto. E due giorni fa si è fatto dare in prestito dai suoi amici della trasmissione scandalistica Report una finta notizia su un conflitto di interessi nella speranza che qualche procuratore voglia aprire un fascicolo e indagare Attilio Fontana. Speranza presto esaudita visto che secondo indiscrezioni la Procura di Milano ha aperto un’indagine conoscitiva, senza ipotesi di reato né indagati. Contemporaneamente sono apparse sui muri di Milano scritte del tipo “Fontana assassino” (rivendicata dai Carc, comitati di appoggio alla resistenza comunista), oppure “Fontana assassino, Sala zerbino”, che viene attribuita a un centro sociale di nome Zam. E il legale della Regione Jacopo Pensa ha anche consegnato al pm Nobili un dossier di trenta pagine intitolato «Clima d’odio», tanto per chiarire di che cosa si tratti. Non proprio una situazione rilassante per uno che da tre mesi sta affrontando la tragedia di malati e morti come mai si era visto, e la marea montante di revanscismo che sale da Scidda e Cariddi verso la Regione più popolosa, più progredita e più colpita d’Italia. Lo scoop di Report è – si può dirlo? – una vera stupidaggine. E l’uso che ne viene dato dal Fatto, cui è stata concessa in esclusiva graziosamente l’anticipazione, anche per aumentare l’ascolto alla trasmissione di ieri sera, una vera porcata. Soprattutto nei confronti di una persona unanimemente (anche dagli stessi cronisti di Report, ci pare) ritenuta per bene. Lo “scandalo” si snoda tra il 16 aprile e il 20 maggio. Nei giorni in cui erano introvabili i presidi sanitari e il governo aveva già fatto pasticci con le mascherine, l’Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia, lancia un invito per la fornitura di camici idrorepellenti e altri indumenti di presidio sanitario. E contemporaneamente molte aziende lombarde iniziano a riconvertire le proprie attività per dare una mano, per solidarietà. Chi si mette a cucire mascherine, chi produce camici e cappellini. All’invito di Aria rispondono tre aziende, una delle quali amministrata dal cognato di Fontana, Andrea Dini. La Centrale acquisti della Regione emette fatture che nel giro di un mese vengono però stornate, perché la società Dama Spa aveva chiarito dal primo momento di aver avuto intenzione, come già altri come Giorgio Armani, di fare una donazione dei camici. Del resto la stessa società Dama non era nuova a questo tipo di gesti, visto che aveva già versato 60.000 euro al Fondo per le emergenze della Regione e aveva fatto diverse donazioni agli ospedali della provincia di Varese. In ogni caso non un euro dei cittadini è entrato nelle sua casse, anzi ne sono usciti parecchi. Ma che cosa stuzzica la fantasia sospettosa di Travaglio? Il fatto che Fontana non ne sapesse niente, prima di tutto (ah, ma allora è come Scajola!) e il lasso di tempo trascorso tra l’invito di Aria e lo storno della fattura. La spiegazione è stata data ed è molto banale, l’assenza del Ceo in quei giorni dall’azienda. In ogni caso l’inchiesta di Report è stata avviata “dopo”, quindi quale è il problema? È sempre il solito: manette manette! Un po’ di scandalismo. Un bel soffiare su quel fuoco pericoloso che si sta sviluppando, tanto da far preoccupare lo stesso Presidente Mattarella, soprattutto nelle regioni del sud, nei confronti dei cittadini lombardi, tanto da far chiedere l’istituzione di una sorta di apartheid della regione più produttiva d’Italia, considerata anche la più contagiosa. Lo si è visto fin dall’articolo di Gad Lerner (che giustamente si è poi guadagnato un passaggio al Fatto quotidiano) su Repubblica del 4 aprile in cui accusava la Regione Lombardia di aver compiuto una strage al Pio Albergo Trivulzio. Si è poi scoperto che le inchieste sulle Rsa sono 40 in tutta Italia e che i dati dei contagi e delle morti nelle case di riposo degli altri Paesi europei erano ben più elevati di quelli lombardi. Poi c’è stata la vicenda del reparto terapia intensiva alla Fiera di Milano costruito con fondi privati in quindici giorni nel momento dell’emergenza più tragica, irriso da Travaglio perché, per fortuna, la situazione è poi migliorata e non c’è stato bisogno di riempirlo. Poi la campagna per la mancata istituzione della zona rossa nel bergamasco, quasi come se spettasse alle Regioni istituire posti di blocco con carabinieri e polizia. Per fortuna è stata la stessa pm di Bergamo a mettere i puntini sulle “i” dicendo che era compito del governo quella decisione che purtroppo non fu presa. Ma, considerazioni politiche a parte ed errori fatti un po’ da tutti di fronte a qualcosa di inedito e tragico come una gravissima pandemia, il problema è che l’opera di sputtanamento in questo Paese sembra non finire mai. Anche senza le intercettazioni, anche senza il trojan, resta il fatto che nella sub-cultura grillino-travagliesca il sospetto continua a essere l’anticamera della verità, un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca, un indagato è peggio di un condannato e un presidente di Regione “non poteva non sapere”. Oggi tocca a Fontana. Ma domani? Ma quando arrivano i famosi più puri che epurano i puri?

L'odio contro la Lombardia ​per attaccare il centrodestra. Sinistra e Cinque Stelle montano una campagna contro i lombardi. Dietro c'è un preciso disegno politico per attaccare la Regione guidata dal centrodestra. Andrea Indini, Lunedì 08/06/2020 su Il Giornale. È un odio violento, atavico, a lungo taciuto e in questi mesi, complice l'epidemia di coronavirus che ha piegato il Nord Italia, esploso con una virulenza senza precedenti. Un odio che ha investito in particolar modo i lombardi e la Lombardia, non solo in quanto tali, ma per quello che rappresenta: da sempre fortino del centrodestra e, negli ultimi anni, capitanata da governatori leghisti. Nonostante i morti, che contiamo a migliaia, e nonostante la fatica a combattere un nemico tanto piccolo quanto letale, la sinistra e i Cinque Stelle si sono scagliati (senza alcun rispetto) per biechi fini politici. Se, all'inizio, quando l'Italia si è ritrovata - con il fiato sospeso - nella morsa della quarantena, i colpi bassi erano più radi, non appena è scattata la "fase 2" l'odio è esploso con un vigore senza precedenti, fino a immaginare cimiteri pieni di morti con il centrodestra al governo. L'odio è iniziato in sordina. Sembravano semplici scaramucce politiche. Come quando il 26 febbraio, meno di una settimana dopo la scoperta del "paziente 1" a Codogno, il governatore Attilio Fontana pubblica su Facebook un video in cui annuncia il contagio di una collaboratrice. Il suo viso è coperto da una mascherina chirurgica, verde. In quei giorni non se ne vedono tante in giro. È probabilmente il primo politico italiano a indossarne una in pubblico. È un messaggio, certo. Un messaggio a tutti i lombardi affinché prendano le precauzioni necessarie per evitare il più possibile occasioni di contagio. "Da oggi qualcosa cambierà perchè pure io mi atterrò a quelle che sono le disposizioni dell'Istituto Superiore di Sanità per cui per due settimane vivrò in una sorta di auto quarantena - spiega - oggi ho già passato la giornata indossando la mascherina e continuerò a farlo nei prossimi giorni". Gli sono subito saltati tutti al collo. I primi ad attaccare sono stati quelli del Partito democratico. Da Matteo Orfini, che arriva addirittura a negare l'utilità di metterla in Aula alla Camera ("È un gesto inutile e dannoso per il messaggio che diffonde"), a Maurizio Martina che lo accusa addirittura di "alimentare il panico" e di "danneggiare i cittadini e il Paese". I grillini (ovviamente) non sono da meno. "Sono immagini che non aiutano perché spaventano ed espongono l'Italia al rischio di un isolamento economico che non ha alcuna giustificazione", tuona Danilo Toninelli. "Il panico deve essere assolutamente arginato, non alimentato in alcun modo - conclude - serve una corretta informazione, che non faccia inutili allarmismi, un linguaggio equilibrato e altrettanto deve valere per i gesti". Sin dai primi giorni il Prirellone si trova in forte contrasto con Palazzo Chigi. In Regione Lombardia si accorgono sin da subito che a Roma non stanno capendo la gravità della situazione. E così, mentre i vari Nicola Zingaretti, Beppe Sala e Giorgio Gori fanno campagne per tenere aperto, sono costretti a rimboccarsi le mani e fare da soli. Non solo. Devono pure "parare" le apre critiche del premier Giuseppe Conte, che prova ad addossare all'ospedale di Codogno le colpe del focolaio nel Lodigiano, e ingaggiare un estenuante braccio di ferro sempre con la presidenza del Consiglio per allargare al più presto la "zona rossa" alla Val Seriana e al Bresciano, dove già il 2 marzo - dati alla mano - appare chiaro che la situazione è ormai sfuggita di mano. Non ci riuscirà. La chiusura della regione arriverà troppo tardi e Fontana & Co. dovranno pure sorbirsi le critiche per non essersela fatta da soli, quando anche il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha messo in chiaro ai microfoni del Tg3 che tale decisione spettava all'esecutivo. Se non è la polemica sulle "zone rosse" mancate, sono le critiche al sistema sanitario regionale che fatica a reggere l'urto del Covid-19. Il 15 aprile, in un articolo apparso su Le Monde, Roberto Saviano non perde occasione per tirare in ballo "il territorio di Silvio Berlusconi" e si erge sul piedistallo per impartire ai lombardi "la debolezza insita nel credersi invincibili". A sinistra è un sentimento diffuso. Sono molti, infatti, quelli che credono che il coronavirus abbia dato una lezione al Pirellone e che soprattutto il centrodestra non sia stato all'altezza di gestirlo. Per dimostrarlo vengono montati ad arte teoremi sulla gestione del sistema sanitario, vengono scomodati (senza nemmeno leggere le ordinanze della Regione che sono identiche, in tutto e per tutto, a quelle emanate da altri governatori iscritti al Pd) gli anziani morti nelle Rsa, viene screditata la costruzione dell'ospedale in Fiera (quando è stato il governo Conte a chiedere alle Regioni di aumentare del 50 per cento il numero dei posti letto). Il 21 maggio, durante l'informativa del premier sulla "fase 2" alla Camera, si viene quasi alle mani quando il grillino Riccardo Ricciardi se ne esce con accuse senza precedenti (guarda il video). "Chiedono collaborazione alle opposizioni e poi vengono qui a prendere per il culo sui morti? Ecco, prendersela coi morti anche no", sbotta Giancarlo Giorgetti invitando il ministro della Salute Roberto Speranza a tenere a bada i Cinque Stelle. "Tira male, io ve lo dico, qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga, coi morti che ci sono stati. Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire in aula a provocarci sui morti". Il punto è che anche all'interno di Liberi e Uguali, partito a cui è iscritto Speranza, la pensano allo stesso modo. Qualche settimana più avanti Pierluigi Bersani se ne andrà in televisione a dire che "se avesse governato questa gente qua (il centrodestra, ndr) non sarebbero bastati i cimiteri". E non ci si deve, poi, stupire se ci ritroviamo i muri di Milano lordati dagli antagonisti con la scritta choc "Fontana assassino". Lo stesso slogan urlato dai sindacati scesi in piazza ai primi di giugno. La campagna (mediatica) di denigrazione tocca probabilmente il suo apice con il falso scoop di Report, poi ripreso dal Fatto Quotidiano, in cui si fa passare una donazione di materiale sanitario per un conflitto di interessi. Un "attacco politico vergognoso", come lo ha definito lo stesso Fontana, che ora finirà in aula di tribunale. L'odio politico, però, si mischia all'odio regionale. E così sono troppi quelli che stanno portando avanti una vera e propria campagna contro i lombardi. Lo fa persino chi, come lo scrittore Massimo Mantellini, dovrebbe preservare il Paese dalla violenza verbale. Conte lo ha, infatti, voluto nella task force governativa (una delle tante) per epurare il web dall'odio dilagante. Nei giorni scorsi se ne è uscito con un post a dir poco delirante: "La dico piano: chiudiamo i lombardi in Lombardia. Almeno per questa estate". Lo stesso che vorrebbero fare alcuni governatori di sinistra per sminuire gli sforzi che dal 20 febbraio il Pirellone sta compiendo per vincere la partita contro il coronavirus. Sicuramente Regione Lombardia, come anche il governo, ha fatto errori. Li ha fatti perché si è trovata a dover combattere una battaglia senza precedenti. Usarli, ingigantirli e distorcerli per fini politici è una bieca campagna di disinformazione che non rende giustizia a tutti quei morti che stiamo ancora piangendo.

Nicola Mirenzi per huffingtonpost.it l'8 giugno 2020. Il conto si paga con la vergogna: “Ancora oggi mi sento un po’ appestato. Non esco da Milano. Rimango a casa il più possibile. Ascolto racconti di amici che sono andati fuori dalla Lombardia e sono stati accolti da battutine, insinuazioni, cattiverie. Alcuni hanno dovuto subire anche un cartellone che diceva: “Torna a casa tua”. Sono cose che mettono a disagio e feriscono le persone. Uno spirito anti lombardo è emerso nel Paese. Come se vedere colpita questa Regione, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: schadenfreude, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta”. Nato a Milano nel 1953, Ferruccio De Bortoli – giornalista, saggista, per due volte direttore del Corriere della Sera, di cui oggi è uno dei principali editorialisti – non aveva mai considerato l’ipotesi che il luogo di nascita riportato sulla sua carta d’identità potesse diventare un marchio, se non d’infamia, almeno di diffidenza: “Il razzismo al contrario, cioè l’idea che ora i cittadini italiani discriminati siano quelli del Nord, mentre prima erano quelli del Sud, è un concetto che trovo esagerato. Io credo che si tratti più precisamente di un pregiudizio radicato, che ha moventi sociali, politici, economici. Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il Paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove”.

La Lombardia non ha sbagliato niente?

«Anche la Lombardia ha commesso degli errori. Soprattutto, di comunicazione. La Giunta farebbe bene a riconoscerli e spiegare perché li ha commessi. Io però – da lombardo – mi faccio anche un’altra domanda. Mi chiedo: "Perché siamo diventati antipatici?"»

Ha una risposta?

«Credo che, a volte, siamo stati troppo orgogliosi dei nostri primati, esaltando le nostre virtù fino a sfiorare l’arroganza. Forse, abbiamo avuto anche un atteggiamento semi-colonialista, proiettando un’immagine di noi stessi che chiedeva un adeguamento ai nostri numeri. Senz’altro, abbiamo sbagliato qualcosa anche noi».

Però?

«Però la Lombardia è stata investita dal contagio con una violenza inusitata. Si è trovata di fronte un nemico che nessuno conosceva e, all’inizio, tutti abbiamo sottovalutato, incluso io. La giustizia deve andare sino in fondo, perché i familiari delle vittime e il Paese devono conoscere la verità. Non si può però accettare la criminalizzazione preventiva che è stata fatta. Stiamo parlando di una terra che è stata martoriata, con decine di migliaia di morti. Dobbiamo avere rispetto. Un conto è capire cosa non ha funzionato. Un altro conto è alimentare processi sommari. Che sono inaccettabili».

Da dove è venuta fuori questa pulsione?

«Le posizioni sbrigative e sprezzanti contro Milano e la Lombardia nascondono un’invidia sociale nei confronti di chi è stato sempre ritenuto migliore. Sta succedendo in Italia qualcosa di simile a quello che accade in Spagna con la Catalogna ed è successo in Gran Bretagna con Londra, ed è all’origine della Brexit: si detesta chi è più ricco, chi è riuscito a cavarsela nel mondo, chi ha espresso al meglio le proprie capacità».

Perché non scatta, invece, l’emulazione?

«Perché bisognerebbe partire dal riconoscere le proprie mancanze, dandosi come obiettivo quello di colmarle. L’Italia, invece, è un Paese di continui e incessanti dualismi. Quello tra Nord e Sud è uno dei più longevi. Negli ultimi anni, il dislivello si è tradotto in un risentimento del Sud verso il Nord. Infatti, già prima della pandemia, il ministro Provenzano aveva detto che Milano non restituisce nulla. Ora, questo rancore si è manifestato più platealmente».

Che cosa ci vede dentro?

«Un disprezzo dell’impresa, una diffidenza nei confronti dell’industria, una rivincita della statalizzazione contro il mercato. Sottilmente, il liberismo viene ritenuto responsabile di quello che è successo. Non ci sono prove che sia così. Però lasciarlo intendere serve a proporre un ritorno al ruolo dello Stato, il cui luogo d’elezione naturale è Roma».

La sanità privata ha funzionato bene?

«Gli ospedali privati, in Lombardia, si sono dati da fare, come si sono dati da fare tutti. La solidarietà con il pubblico è scattata. Forse si può rimproverare un ritardo, ma non si può attaccare il privato in quanto privato, il modello lombardo in quanto lombardo. Dimenticando che ogni anno 165 mila persone vengono a curarsi qui da altre Regioni. In Italia, la sanità di sette Regioni è stata commissariata. Abbiamo visto malcostume, ruberie, cattive gestioni scaricate sulle spalle dei contribuenti. E ora il problema italiano sarebbe la sanità lombarda?»

È un attacco politico?

«Il pregiudizio anti lombardo è radicato in una parte della sinistra italiana. Politicamente, Milano è percepita come la città di Craxi, di Berlusconi, di Bossi, ora di Salvini. È qualcosa di estraneo, che la sinistra non è mai riuscita ad afferrare fino in fondo. Anche Sala, che oggi è sindaco della città, è come se venisse da fuori, non facendo parte della tradizione Pd».

Basta a fondare un preconcetto?

«C’è anche il fatto che la sinistra non ha mai parlato la lingua delle imprese piccole e grandi che costituiscono l’economia del Nord. Però, anziché interrogarsi sul perché, cercando di rimediare, oggi imbocca la scorciatoia della diffidenza. Ma non si può risollevare il Paese coltivando un sentimento anti industriale, sospettando chi intraprende e produce. La Lombardia vale il 22% del Pil italiano. Ha 54 miliardi di residuo fiscale, pur contando il 16% della popolazione nazionale. Come si fa a non capire che senza Milano e la Lombardia l’Italia non si metterà mai in piedi?»

Cosa propone?

«Una tregua. Sospendiamo le polemiche. Rimettiamo insieme il Paese. Cerchiamo di comprendere cosa è successo, non per colpire l’uno o l’altro, ma per riparare gli errori e farci trovare pronti in autunno, se ce ne sarà bisogno. Nel frattempo, la giustizia farà il suo dovere».

Quante probabilità ci sono che accada?

«Non le so calcolare. Quel che so – e che mi addolora – è che ci stiamo lasciando andare alle piccinerie. Alla volgarità di frasi come ‘Milano da bare’. Alla grettezza regionalistica. Tanti piccoli noi contro voi. Ma veramente vogliamo tornare ai pregiudizi? Al milanese bauscia, al ligure tirchio, al calabrese scansafatiche? C’è davvero qualcuno che crede che si possa uscire dall’angolo così?»

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2020. «Io ho vissuto la vicenda Covid con un'angoscia personale grandissima. Terribile. Quello che mi ha aiutato a non fermarmi, è stato proprio il cercare tutte le soluzioni per uscirne. Immaginare una strada anche per le fasi di ripartenza che abbiamo di fronte».

Attilio Fontana è nel suo ufficio, provato dopo mesi a ritmi serrati. Ma quale lezione ha tratto da questa vicenda?

«Quello che mi porto dentro è stato il vedere centinaia di persone che non si sono date tregua, con dedizione assoluta, per aiutare gli altri».

Lei quali errori si imputa?

«Noi, ma credo quasi tutti, siamo stati colti di sorpresa da un'emergenza bestiale, di errori ne abbiamo commessi fin che ne vuole. Però, a marzo prendere decisioni era durissima. Per questo ora io sto studiando, cercando di vedere in quello che è accaduto le indicazioni per fare meglio in futuro».

Per esempio?

«Inutile che anticipi adesso. Sto per nominare un mio gruppo di lavoro che entro la metà di agosto indicherà le cose da fare e quelle da evitare, proprio sulla base di questi mesi. La competenza viene prima di tutto, e la Lombardia, me lo lasci dire, sulle competenze è fortissima».

Ferruccio de Bortoli ha detto che prendersela con la Lombardia e Milano, che riescono a competere nel mondo, «alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto».

«Guardi, io di Ferruccio de Bortoli ho la massima stima, e certo non lo si può accusare di simpatie leghiste. Io penso che Milano e la Lombardia sono e resteranno la locomotiva della Nazione, e a breve ricominceranno a tirare con tutta la loro forza. Certo, se poi qualcuno cerca di usare la vicenda Covid per fini politici, significa che non solo ha del tempo da perdere, ma che ha anche l'animo dello sciacallo. Chi si gingilla con questa politichetta, ha capito male il nostro Paese».

A proposito, quali i rapporti con il sindaco Beppe Sala? Anche con lui avete avuto momenti complicati.

«Mi creda, la mia non è una risposta di stile. Ma devo dire che io ho una grande stima di Sala. Certo, non sempre sono d'accordo con lui. Ma quando c'è da collaborare, l'ho sempre fatto. Peraltro, la sinergia è indispensabile, perché la Lombardia non può fare a meno di Milano e Milano non può fare a meno della Lombardia».

Perdoni, presidente. Ma dell'ospedale nell'ex Fiera non è pentito? Di fatto, ha ospitato pochissimi pazienti.

«Lei vuole scherzare... Anche quello è nato sotto una pressione terribile, l'ho deciso quando un medico, con le lacrime agli occhi, mi ha detto che non voleva più scegliere chi far vivere. Detto questo, di strutture simili ne sono state create ovunque nel mondo, 19 nei soli Stati Uniti. Ma di queste, 13 non sono mai entrate in funzione. L'ospedale in Fiera è stato uno straordinario regalo alla città da parte di più di 5.000 donatori nel momento più drammatico della pandemia. Per costruirlo in tempi da record, grazie a Fondazione Fiera Milano, non è stato speso un euro di soldi pubblici».

Ma adesso che ne fate?

«Lo teniamo pronto, sperando di non usarlo, per fronteggiare un'eventuale seconda ondata. E dopo, nulla sarà disperso: con il coordinamento del Policlinico entrerà nella rete ospedaliera lombarda. Un piano, le anticipo, che prevede 1.446 posti letto di terapia intensiva e ulteriori 704 letti di terapia semi intensiva, almeno metà dei quali devono poter essere tempestivamente convertiti in intensivi. Come peraltro chiede il governo».

Presidente, dica la verità: la sanità lombarda è uscita molto ammaccata da questa vicenda. O no?

«Di nuovo: non scherziamo. Qui viene gente a curarsi da tutto il mondo. E c'è un perché: abbiamo strutture pubbliche formidabili che vanno potenziate, sostenute, arricchite. E abbiamo un settore privato forte in grado di consentire ai cittadini di scegliere. Mi chiedeva un mea culpa? Probabilmente, negli ultimi anni abbiamo trascurato i medici di famiglia. Le anticipo che a settembre lanceremo un importante piano d'azione a loro dedicato. Sono il primo presidio sanitario delle nostre comunità e lo renderemo più forte».

Il Tar ha appena bocciato l'acquisto dei test sierologici senza procedure di evidenza pubblica della Diasorin dal San Matteo di Pavia.

«Guardi che però io non sono parte attiva in questa vicenda».

Molto criticata anche la decisione di ricoverare pazienti Covid nelle Rsa, su cui è in corso anche un'indagine. Qui nessun mea culpa?

«I pazienti sono stati ospitati in 18 case di riposo su 709. Il problema non viene da quello, ma dire il contrario è una finta verità facile da smerciare. Del resto, il 17 aprile l'Iss ha proprio previsto che siano realizzate unità Covid dentro le Rsa».

E poi c'è la vicenda dei camici forniti da un'azienda di cui è socia sua moglie.

«A parte il fatto che mia moglie è socia al 10% e non controlla nulla, vuole sapere la verità? In quei giorni la Regione ha chiesto camici e mascherine da chiunque li avesse. Il punto è questo».

“Caccia al milanese” la nuova moda dell’Estate 2020. Francesco Caroli su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Caro Beppe Sala, altro che scuse. Avevi proprio ragione e sì, ce ne dovremo ricordare. Ce ne dovremo ricordare quando ci si dovrà giustificare di voler tornare a respirare l’aria della propria terra. Ce ne dovremo ricordare quando si subiranno delle occhiate di disappunto o di sospetto. Ce ne dovremo ricordare quando ci sentiremo estranei non graditi lì dove siamo cresciuti, dove andiamo in vacanza da anni o semplicemente dove ci sentiamo a casa. Qualche giorno fa il Presidente della Regione Sardegna, il filo leghista (non è un ossimoro, ma il frutto di epoca malata) Christian Solinas, parlava della necessità di un patentino immunitario per i turisti milanesi e lombardi in arrivo sulla loro isola. Il sindaco di Milano Beppe Sala commentò cosi «Alcuni presidenti di Regione dicono che per i milanesi ci vuole una patente d’immunità? Io però, e parlo da cittadino più che da primo cittadino, quando poi deciderò dove andare per un weekend o per una vacanza, me ne ricorderò», salvo poi a distanza di poche ore scusarsi per questa considerazione. Non troviamo ci sia niente di male nel ricordarsi i trattamenti e le parole che si ricevono, soprattutto quando si è in difficoltà, sulle gambe, feriti ed a dirle è chi amministra una terra meravigliosa legata in maniera viscerale con i cittadini lombardi. Questo avveniva ormai alcune settimane fa. Tutt’oggi navigando nel web e tra i social ma, purtroppo, anche durante videochiamate o nelle prime nuove riunioni di famiglia e cene con gli amici di sempre è immancabile il momento di battutine o peggio insinuazioni ed insulti velati su lombardi, milanesi acquisiti e non. Sono momenti, attimi, emozioni e parole che feriscono, che creano disagio, che crepano i primi sorrisi di molti che per mesi sono stati lontani dai propri affetti, perché rispettosi ed attenti alla salute degli altri oltre che della propria, e che solo ora rientrano nella propria Regione o si concedono qualche giorno di svago. Eh sì, perché il lockdown, dicono gli esperti, può avere pericolosi effetti sulla salute e sull’equilibrio mentale di molti, soprattutto di chi ha vissuto questa tragica esperienza solo o distante dagli affetti più veri. E’ quindi tragico per queste persone sentirsi ancora una volta soli in un oceano di pregiudizi, di chiacchiere sparate ai quattro venti con la presunzione di saper leggere dei dati. Ed eccoci ad un’altra annosa questione: i dati che dovrebbero raccontare anche questa Fase 3. Dati che letti superficialmente racconterebbero ai più una tragedia ancora in atto in Lombardia. Dati che non tengono conto degli ormai pochissimi accessi in Pronto Soccorso in Lombardia, come nel resto d’Italia. Dati che non tengono conto che le terapie che ci stanno facendo uscire da questa crisi sono state sviluppate col lavoro sul campo svolto nella trincea degli Ospedali lombardi, invasi per primi da un nemico spietato. Dati che a volte nascondono il volto più umano di questa tragedia, dei suoi morti, dei lavoratori che non sanno quando e se potranno ripartire, dei cittadini italiani da sempre fieri della propria cultura dell’accoglienza. Nessuno ma proprio nessuno può permettersi oggi di dire ad un giovane studente, manager, poliziotto o infermiere o chicchessia di non poter ambire a sorridere, magari vicino alla sua famiglia in Puglia o in Campania, di non poter desiderare di respirare la libertà tanto desiderata di una birra con gli amici, di non poter restare incantato davanti al proprio mare, spesso capace di ricaricare le batterie come poche cose al mondo per chi ci è nato. Eppure questa “caccia all’untore” è di moda oggi. “Come se vedere colpita questa Città, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: schadenfreude, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta” si è espresso cosi, e non poteva fare di meglio a nostro avviso, anche Ferruccio De Bortoli – in un intervista recente all’ Huffingtonpost. “Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il Paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove”. E’ ovvio che anche la Lombardia ha commesso degli errori. Senz’altro, abbiamo sbagliato qualcosa anche noi. Ma la Lombardia è stata investita per prima dalla più grande emergenza sanitaria del dopoguerra e si è trovata di fronte un nemico che nessuno conosceva e che in moltissimi avevano sottovalutato. Va sicuramente capito cosa non ha funzionato. Ma alimentare oggi processi sommari, spesso basati su paure infondate o dettate da fake news, è inaccettabile. Sono inaccettabili le posizioni sprezzanti contro Milano sia che nascano da un’invidia sociale nei confronti di chi è da sempre considerato la locomotiva italiana, sia che nascano da timori sanitari o di ingestibilità di un’eventuale seconda ondata. Non possiamo accettare che succeda in Italia qualcosa di simile a quello che accade in Spagna con la Catalogna ed è successo in Gran Bretagna con Londra, all’origine della Brexit: si detesta chi è più ricco, chi è riuscito a cavarsela nel mondo, chi ha espresso al meglio le proprie capacità. Non si può soprattutto permettere che a vincere sia la paura dell’altro, propria di un’ignoranza gretta e meschina, magari avvallata dalla convinzione di avere una propria insulsa verità in tasca senza mai essere riusciti a guardare un problema da più punti di vista, imparando e migliorando sé stessi. In questi giorni l’Italia e gli italiani hanno il dovere morale di rialzarsi, di migliorare sé stessi, di progettare un futuro che ci veda protagonisti di un nuovo Rinascimento. Ed il dito in questi casi va puntato lì dove si vuole arrivare, verso l’alto e non verso l’altro. L’invidia e il rancore troppo spesso invece rappresentano ormai il puzzo che sovrasta il profumo del genio, delle competenze e dello spirito che da sempre hanno contraddistinto l’Italia tutta, Paese che oggi, invece, si nasconde dietro i propri alibi o in uno scaricabarile verso colpe reali o meno di altri. Svilenti emozioni che bloccano la ripartenza. Parlando di sanità, non va dimenticato che ogni anno 165 mila persone vengono a curarsi qui da altre Regioni. Non va dimenticato che la sanità di sette Regioni è stata commissariata. Abbiamo visto malcostume, ruberie, cattive gestioni scaricate sulle spalle dei contribuenti. E ora il problema italiano sarebbe la sanità lombarda? Ma davvero c’è chi pensa che si può risollevare il Paese coltivando un sentimento anti industriale, sospettando chi intraprende e produce. La Lombardia vale il 22% del Pil italiano. Ha 54 miliardi di residuo fiscale, pur contando il 16% della popolazione nazionale. Come si fa a non capire che senza Milano e la Lombardia l’Italia non si rialzerà mai in piedi, più forte di prima? Uniti e coesi per ripartire. Umani e consapevoli per riabbracciarsi. Capaci ed illuminati per sognare. Insieme e non più da “semplici” Italiani, ma da Europei. Questa riflessione è stata scritta a 4 mani con Francesco Scarcia, Ingegnere spaziale e già Presidente di Erasmus Student Network del Politecnico di Milano.

Renato Farina: "La Camorra è il cancro d'Italia ma tutti infangano la Lombardia". Libero Quotidiano l'11 giugno 2020. E il cancro d'Italia sarebbe la Lombardia? Da cui difendersi con filtri e passaporti sanitari, intimando minacce ai lombardi e a chi li rappresenta? Questi sguazzano nella camorra fino alle ginocchia, e invece di bonificare la loro palude che inquina il mondo, si permettono di tirar sassi alla Madonnina? Ieri a Napoli è stata per l'appunto sgominata una rete di camorra, 59 persone sono state arrestate. Le accuse: associazione mafiosa, concorso esterno, corruzione elettorale, estorsione e turbata libertà degli incanti. In pratica erano i padroni di un comune, Sant' Antimo. Ci sono di mezzo anche attentati dinamitardi. Il clan Puca si era comprato un sacco di voti. Ma la lista prediletta perse ugualmente. Dopo di che, invece di aspettare cinque anni, si proposero di costringere i vincitori a dimettersi con i modi tipici di queste brave persone: il fuoco. Ci sono di mezzo anche politici - i fratelli Cesaro, di cui uno senatore di Forza Italia - ed esponenti delle forze dell'ordine - due carabinieri sarebbero stati a libro paga dei clan. 

PESTE MORALE. Ovvio: le misure sono "cautelari", preventive cioè. Siamo noiosi, togliamo pathos alla faccenda, ma bisogna ridirlo: per stabilire la colpevolezza dei soggetti non basta un mandato di cattura, e vale la presunzione d'innocenza, non c'è eccezione a questa regola. Registriamo la notizia, e con risalto, perché ci sembra parecchio simbolica dello stato della nazione e di dove siano i bubboni e dove abiti la radice purulenta della nostra peste morale: in Campania, al Sud. Questa retata sarà certo trascurata. L'abitudine ci ha indotti a ritenere la criminalità organizzata un tratto folkloristico e persino cinematograficamente trendy, uno starnuto endemico. Che sarà mai. In fondo è tutto fatturato: vuoi per la malavita, vuoi per chi narrandola la trasforma in mito. Senza risalto mediatico era stato pure il blitz natalizio ordinato da Nicola Gratteri contro la 'ndrangheta, con 330 carcerazioni in Calabria e dovunque. Anche in Lombardia, ovvio: non sono scemi i mafiosi, investono dove il business gira, e, grazie a comunità di migranti per la grande maggioranza perbene, ci si può mescolare inserendosi nel tessuto economico sano, inquinandolo. A proposito. Tutti zitti sulla volontà dei colleghi di azzerare Gratteri, come risulta dalle intercettazioni di Palamara, dove il procuratore di Catanzaro era gratificato da titoli come «folle, persona da fermare»: per molto meno se lo avesse detto un qualsiasi politico di centro destra all'indirizzo di un qualunque magistrato antimafia sarebbe stato impalato. Torniamo al Nord. Il giornale unico nazionale - tivù + stampa + social - insiste. Ancora ieri ha infilato nella sua macina di carne umana la Lombardia. È questa regione, con i suoi dieci milioni e passa di abitanti, e i suoi 16.300 morti da Covid la cui catasta non ha meritato la visita del capo dello Stato, a essere ancora sotto attacco. Non bisogna essere ingenui. L'attacco mediatico e politico, seguito subito da quello giudiziario (fascicolo senza ipotesi di reato e senza nomi di indagati, ma fa brodo anche la zampa della gallina) ad Attilio Fontana, è sì contro un singolo, maoisticamente però serve a educare tutti i lombardi. Avvocato integerrimo e capace, è da mesi assaltato, vivisezionato, appeso con Wanted sulle prime pagine perché è il governatore di questo strano mondo superiore (in latitudine, reddito, sanità, amministrazione pubblica, produttività, occupazione) che l'idiozia italica dominante, nel momento della sua debolezza nella catastrofe da virus, vuole sottomettere al neo-statalismo giallorosso. La Lombardia come modello economico, morale e politico era (ed è) un'alternativa radicale allo status quo. 

CORTINA DI FERRO. Oplà. Moralmente essa è stata con manovra a tenaglia stritolata come fosse il cancro del Paese. La donazione da parte di un'azienda di attrezzi sanitari è diventata il pretesto inverosimile per provare a trasformare l'oro in sterco. Ed ecco la nostra idea. La Lombardia vi fa così schifo? Fatecela, una bella cortina di ferro intorno. Isolateci sul serio. Anzi, giacché è un'idea del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, eseguite il suo proposito che aveva manifestato come una minaccia per non indurre i lombardi untori in tentazione, mica che cerchino di andare ad Ischia o a Pozzuoli trasferendovi il virus. De Luca è troppo simpatico per essere criticato. Feltri lo ripete sempre. D'accordo. Assecondiamolo. Un bel muro per difendere il festoso popolo campano dall'infezione nordista, dovuta - come ha scritto seriamente Angelo Forgione, autore immortale di "Napoli, capitale morale" - al vizio del lavoro esagerato. Questa è stata l'idea dell'ex sindaco di Salerno (Pd). Separare i campani dal contagio dei lombardi. Non è che gli è mancata la volontà politica, crediamo, di imitare l'amato Xi Jinping e innalzare la Grande Muraglia di tipo cinese. Ma dove trovava i muratori napoletani disponibili a tirarlo su, con 'sto virus e 'sto caldo? Per costruirlo avrebbe dovuto attingere ai carpentieri e pavimentisti delle valli bergamasche. Tranquillo, Enzino, vengono e pure gratis. Insieme alle maestranze friulane che hanno rimesso a posto il Friuli in tre anni dopo che era stato raso al suolo, ci mettono un mesetto. Importante però è anche fissare la reciprocità del provvedimento. I lombardi e il Sud non vengono da voi, ma per favore potete badare ai vostri terroni? Non è un linguaggio nostro, ma una citazione. È di Luigi De Magistris, che fu il primo a evocare il passaggio dal confinamento al muro. L'idea, O' Sindaco partenopeo la buttò sulla faccia dell'omologo milanese Beppe Sala, in un dialogo animato da forte solidarietà verso le sofferenze dei lombardi: «Se fosse stata Napoli e non Milano epicentro della pandemia, alzavate il muro sparando ai terroni!». Oh come godeva De Magistris a trattare i milanesi come razzisti, che voglia di tirar su una parete di cemento armato per fargliela ai lombardi e blindarli in un lazzaretto come contrappasso. Fatelo, dài. Ma per favore, potete bloccare "le batterie di rapinatori" che salgono da Napoli a Milano, Varese, Segrate per rapine volanti e poi ritornano giù a tarantellarsi il bottino? Trascrivo da un ritaglio del settembre scorso: «"Ha appena parcheggiato una persona con un orologio interessante al polso". Bastava un avvistamento comunicato via cellulare per mobilitare la banda di rapinatori in trasferta, a Milano dal Napoletano. I sei componenti puntavano ai Rolex». L'ultimo caso ieri. Hanno arrestato sette napoletani, specialisti di rapine in trasferta. Si erano fermati a Bologna stavolta, perché - come dice De Luca - Milano è pericolosa. Bisogna dire però che i sette portavano correttamente, da tradizione, la mascherina. E dunque De Luca può risparmiare sul lanciafiamme. 

Dagospia il 9 giugno 2020. “POTRESTE SMETTERE DI MANTENERCI E DUNQUE DI STARNAZZARE?” LETTERA DI OTTAVIO CAPPELLANI A DAGOSPIA. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, da siculo, al contrario di Sallusti, ti ringrazio per la "confezione" alla lamentazione (molto napoletana, in verità) di Vittorio Feltri sui poveri lumbard. Da siculo, vorrei notificare a Sallusti che l'idea migliana del federalismo, e anche del federalismo fiscale, era bello e buono e santo e probabilmente avrebbe salvato la Sicilia e tutto il Meridione. L'idea è stata abbandonata proprio da Salvini, al quale, evidentemente, essere re di polentonia non gli bastava. Lo capisco, è un territorio rozzo e barbaro, senza alcuna raffinatezza, dove esibite il portafoglio in pubblico. E infatti la Lega si è precipitata sull'assessorato alla Cultura, ai Beni Culturali e all'Identità Siciliana. Cosa che manco Lercio. Potreste smettere di mantenerci e dunque di starnazzare? grazie Ottavio Cappellani

Dagospia il 9 giugno 2020. ''TE LO SPIEGO IO PERCHÉ STARNAZZIAMO''. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Da consumatore compulsivo di Dagospia (lettore è riduttivo), mi è saltata all’occhio la confezione con cui avete presentato l’editoriale odierno di Vittorio Feltri sulla Lombardia sbertucciata. “Quanto starnazzano i lombardi”, vi chiedete, anzi affermate (in realtà molto poco, se penso alla compostezza calvinista delle famiglie bergamasche, tutte con almeno un lutto causa pandemia in casa). “È bastato metterli due mesi nel ruolo di untori/discriminati per assistere a una reazione furibonda, De Bortoli in testa”, aggiungete, e se è “furibonda” la sobria e analitica difesa debortoliana di questa landa non esattamente irrilevante ai fini del Pil italico, mi chiedo con che aggettivazione descrivereste la fissazione monomaniacale di chi, Fatto Quotidiano in testa, da mesi sbatte la mia regione in prima pagina come una cricca di malavitosi e assassini. Ma il punto non è nemmeno questo. La notarella che vorrei sottoporvi, dalla periferia polentona dell’impero, riguarda quello che c’è sotto il nostro “starnazzamento”. Nientemeno che 54 miliardi di euro. La cifra, raccolta con le tasse dei suoi abitanti, che la Lombardia ogni anno vede volatilizzarsi, risucchiata dall’idrovora dello Stato centrale. I tecnici lo chiamano “residuo fiscale”, a noi bauscia poveri di spirito pare una rapina che non ha pari nel mondo civile (la Baviera ha impostato un braccio di ferro con Berlino per 3 miliardi di residuo, la Catalogna è in stato di rivolta permanente contro Madrid per circa 10 miliardi). Allora, lo starnazzare, perdipiù in meneghino gutturale, può senz’altro essere volgare. Capirete però che a noi pare assai peggio mantenere da decenni il Paese senza fiatare, e alla prima difficoltà essere presi a calci in bocca dai mantenuti.

Cordialmente, Giovanni Sallusti

DAGO-RISPOSTA. Caro Giovanni Sallusti, scomodare il “residuo fiscale” della Lombardia per giustificare la stizzita reazione di alcuni lombardi è un argomento un po’ grossier. Dire di “mantenere da decenni il Paese senza fiatare” è un’affermazione degna del “Dogui” Nicheli e del suo “lavoro, guadagno, pago, pretendo”. Per la serie: noi cacciamo i dane’ e voi non dovete rompere le palle. E neanche criticare. La Lombardia contribuisce in proporzione alla sua ricchezza, più di altre regioni. E’ vero. Ma se la redistribuzione avviene con la progressività delle imposte sulle persone fisiche, con cui si finanziano i servizi, è chiaro che i trasferimenti non vanno a zonzo da un territorio a un altro, ma dai più “ricchi” ai più “poveri”. Non è un dettaglio: è un principio che s’aggancia ad almeno tre o quattro articoli della Costituzione. E se è vero che i lumbard trascinano l’Italia è pur vero che ricevono dal resto del Paese - e dallo Stato centrale idrovora - più di quanto siano disposti a riconoscere: dall’Expo (fu il governo Prodi a proporre Milano) al sostegno per i giochi Milano-Cortina 2026, ad esempio. Fino alla forza lavoro, spesso molto qualificata, in arrivo dal resto d’Italia. Se una regione diventa fulcro e locomotiva di un Paese non è solo per la laboriosità dei “bauscia poveri di spirito” (a proposito: quanti non lombardi lavorano e pagano le tasse da quelle parti?): è il sistema-Paese che contribuisce a rendere una città o una regione un magnete che poi, come denunciava il ministro Provenzano, finisce per risucchiare tutto (investimenti, eventi, lavoratori).  Sentirsi vittima di un “pestaggio senza precedenti” (Feltri dixit) e assistere alla diffusione di uno “spirito anti lombardo” (De Bortoli dixit) sembra la reazione un po’ fregnona dei primi della classe bacchettati dalla maestra. Di quelli che per diritto divino e quattrino non possono essere mai biasimati. Ma poi, di preciso, di cosa stiamo parlando? Quando scrivi di “essere presi a calci in bocca dai mantenuti” a cosa ti riferisci? Alle critiche (opinabili ma legittime) al governatore Fontana e al suo assessore Gallera da parte dei giornalisti? Alle inchieste (legittime) sulla sanità lombarda? A qualche battuta da social sugli untorelli? Questo presunto sentimento anti lombardo da cosa è avvalorato? Dal divieto di sbarco (poi revocato) ai turisti a Ischia? Siamo seri. De Bortoli ha parlato di “pregiudizi radicati” contro i lombardi. E i meridionali allora cosa dovrebbero dire? Ancora oggi qualche “bauscia povero di spirito” non affitta casa a chi viene dal Sud. “L’unità morale” degli italiani vale solo quando s’avanza qualche critica tra l’Adda e il Ticino? Lo stesso De Bortoli è costretto ad ammettere che i lombardi hanno esaltato le loro virtù “fino a sfiorare l’arroganza” con “un atteggiamento semi-colonialista”. E chi semina vento, raccoglie pernacchie. Ps: la “rapina” dei 54 miliardi di euro di residuo fiscale che lo Stato centrale ciuccia alla Lombardia è molto pubblicizzata sopra la linea del Po. Lo è meno l’altra rapina: quella che vede la Lombardia in testa alla classifica delle regioni dove l’evasione fiscale è più alta. Ma è meglio non parlarne, dovesse adombrarsi qualcuno sotto la Madunina.

Dagospia il 10 giugno 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Giovanni Sallusti: Caro Dago, Vi importuno per la seconda volta in due giorni dall’Estremo Nord (ho casa a Como, nemmeno a Milano, quindi immagino di aggiungere all’assodato “starnazzamento” lombardo una sgradevole sfumatura di uggiosità lacustre) per felicitarmi della notizia. Sono stato scavalcato, quanto a spirito “federalista”, dal siculo Cappellani, con tanto di citazione del comasco Miglio. Il che del resto sta nella storia della splendida isola, anch’essa vittima del centralismo italico, seppur vittima di altro genere. Lì infatti sono schiavi sotto l’assistenzialismo, qui siamo schiavi sotto la rapina fiscale. Per cui faccio mie le parole ipernordiste di Cappellani, che davvero non avrei potuto scrivere meglio: se ne esce solo se noi lombardi “smetteremo di mantenervi” e dunque di “starnazzare”. I 54 miliardi del residuo fiscale, da domani, restano sopra il Po. E no, caro Dago, qui vengo alla vostra risposta, non è un argomento “grossier”. Sono 5500 euro a lombardo, e vi assicuro che nel post-Covid fanno la differenza tra la vita e la morte professionale per molti artigiani brianzoli, per molti negozianti bresciani, per molti casciavit milanesi, altro che ironia sul “Dogui” Nicheli (che poi è pur sempre qualcuno che ha il dannato vizio di creare posti di lavoro). Che non si stia palesando poi nel dibattito uno “spirito anti-lombardo”, di fronte a programmi tivù che da mesi attaccano la Lombardia (uno su tutti, il “Piazzapulita” del mangiatore compulsivo di involtini cinesi Formigli), testate nazionali che da mesi attaccano la Lombardia (una su tutte, il Fatto del capoufficio stampa di Palazzo Chigi Travaglio), scrittori o presunti tali come Massimo Mantellini, che dimostrano la propria appartenenza alla task force governativa contro l’odio online blaterando la proposta d’odio offline di “chiudere i lombardi in Lombardia”, è tesi che dei brillanti frequentatori dell’attualità come voi non possono certo sostenere. Quanto all’evasione fiscale, cito la Nota di aggiornamento al Def 2019 del governo giallorosso, non esattamente una velina filopadana, quando si va ad analizzare la “distribuzione territoriale dell’incidenza dell’Economia Non Osservata”. Ebbene, essa in Calabria è al 20,9% del valore aggiunto complessivo, in Campania al 20%, in Sicilia e Puglia al 19%. In Lombardia è al 10,8%. Ecco, lo dico col maggior tatto possibile, ho la leggerissima sensazione che l’evasione abbia più a che fare con i traffici criminali di Don Carmelo, piuttosto che con i Rolex del Dogui. Cordialmente, Giovanni Sallusti.

Dagospia il 10 giugno 2020. Riceviamo e pubblichiamo: La replica della replica della replica non meriterebbe una replica. Epperò cvd (come volevasi dimostrare) Sallusti si rotola beato nello stagno di chi, oramai è evidente, gode nel mantenerci per potere starnazzare: siamo ai limiti dello stalking secondo la legislazione di Paperopoli. E ci volete mollare o no? Non una parola ha speso il Sallusti per richiamare all'ordine padano e federalista il centralississimissimo Salvini. In ultimo le mie non sono parole ipernordiste perché (quack) il federalismo (quack) non l'ha inventato la Lombardia (quack quack sberequeck). Proprio non ce la fate, appena aprite bocca partono i cani da riporto. Saluti e baci cordiali, ma davvero, non manteneteci più, come se avessimo accettato. Ottavio Cappellani

 Lettera di Pino Aprile a Dagospia l'11 giugno 2020. Caro Dago, è un fenomeno culturale interessante l'incapacità, persino di alcuni dei migliori esponenti della classe dirigente lombarda (quindi, per non offendere i Ferruccio de Bortoli, non c'entra la robaccia da rivista del Ku Klux Klan dei Feltri Vittorio e consimili; o la schifezza televisiva da bar sport leghista dei Del Debbio e consimili) di capire perché l'opinione pubblica nazionale stia rivedendo, alla luce dei disastri e degli scandali della gestione dell'epidemia di covid-19, lo stereotipo del Nord efficiente, “locomotiva” e onesto (pare ci credano davvero, nonostante retate da decine e centinaia di arresti per l'Expo, l'interminabile sequenza di appalti truccati e carcerati eccellenti della Sanità “migliore d'Italia” e delle “grandi opere”).  Per essere più precisi, il Nord si riduce alla Lombardia, per il declino del Piemonte, finito in fondo alla classifica (ingrata Italia, lamenta Aldo Cazzullo, mentre al Sud, dopo 159 anni, non hanno ancora finito di contare i morti e i deportati, per i quali essere grati) e l'imbarazzante paragone, per i lombardi, con il Veneto che, pur investito dalla stessa bufera epidemica, ne è uscito molto prima e molto meglio. Ne scrivo, tra l’altro, in un mio libro uscito appena ieri l’altro: Il male del Nord, il mio Terroni dieci anni dopo, e ai tempi della pandemia. “Locomotiva” è la citazione della quota lombarda del prodotto nazionale lordo. Ma si omette di citare quanto di quello si deve a investimenti pubblici concentrati lì a produrre superfluo, sottraendo il necessario a due terzi del Paese (Sud e aree interne), condannate al rango di terre non-europee, per servizi e infrastrutture, e incolpate delle della privazione di diritti di cui sono vittime); “locomotiva” che si è venduta tutto, dai gioielli (grandi società, grattacieli, fabbriche, maison dell'italian style) ai giocattoli (le squadre di calcio), e mantiene il suo livello di vita grazie ai trasferimenti di risorse pubbliche destinate al Sud e dirottate al Nord: almeno 61-62 miliardi all'anno, stando a quanto documenta l'ente statale dei Conti Pubblici Territoriali (significa rubare al Sud circa dieci ponti sullo Stretto di Messina all'anno); e che in 15 anni, 2000-2015, è stata capace di “trainare” il Paese, unico nel continente, a una crescita di zero-zero virgola, mentre le medie del resto d'Europa vanno dal 18 al 38 per cento (zona euro-zona non euro). Interessante pure il modo in cui la classe dirigente lombarda mira a banalizzare (trasformandola ancora una volta in una colpa terrona) la sua caduta dal podio di “regione che fa grande l'Italia nel mondo” (ovvero di regione che l'Italia fa grande nel mondo, dotandola di risorse e servizi che nega alle altre): il disconoscimento della primazia lombarda (“Prima il Nord” o “prima i bianchi”, la pretesa è la stessa: razzista) sarebbe un malanimo dei meridionali che coglierebbero la situazione di debolezza della regione devastata dal virus, per manifestare la loro “invidia per i primi della classe“ (aridaje!) e mancanza di solidarietà. È un modo subdolo per non riconoscere il proprio fallimento, tale già da un bel po', ma nascosto dietro l'illusione ottica dei soldi che girano, perché requisiti al resto del Paese. È stato il Los Angeles Time a parlare di “tempesta perfetta: il disastro del virus in Lombardia è una lezione per il mondo” e quegli errori commessi “saranno studiati per anni”; è stato lo spagnolo El Pais a scrivere: “il virus inverte i ruoli storici del Nord e del Sud d'Italia”, a proposito della più efficiente risposta meridionale al morbo; sono state le tv anglosassoni a documentare l'eccellenza degli ospedali di Napoli; è stato il quotidiano francese Le Monde a dedicare un inserto di quattro pagine, con il titolo: “Lombardia: autopsia di un disastro”. Cosa c'entrano i terroni? Sono stati i tedeschi, gli austriaci, i greci e quasi tutti gli altri Paesi europei a escludere l'Italia dai loro flussi turistici, per via della Lombardia e del Nord-Ovest ancora troppo infestati dal virus; è stato il presidente della Liguria, Giovanni Toti, a protestare per l'esodo incontrollato di lombardi a rischio morbo nelle seconde case liguri; sono stati imprenditori turistici della Versilia a dire che i lombardi non li vogliono, per non rischiare di compromettere la stagione già danneggiata; è stato il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, a dire che se al posto della Lombardia ci fosse stata una regione del Sud, l'avrebbero tenuta blindata e commissariata. E quanto a solidarietà, migliaia di infermieri e medici meridionali si sono offerti volontari per aiutare la Lombardia e i malati gravi lombardi sono stati ospitati e guariti negli ospedali del Sud, mentre il Veneto non ha offerto un operatore sanitario, né un posto letto di terapia intensiva, pur avendone il 60 per cento vuoti. Che c'entrano i terroni? C'entrano, perché “anche” i meridionali hanno criticato la disastrosa gestione lombarda dell'epidemia. E i giornali del Nord, i politici del Nord, la classe dirigente e tanti intellettuali del Nord (quoque tu, Ferrucce!) tacciono su tutto il resto e riducono la figuraccia alla presunta “invidia” dei meridionali per chi è più bravo di loro (sì? Vogliamo parlare dell'ospedale-covid costruito a Napoli con 7 milioni in 30 ore “e 45 secondi”, 72 posti letto, e della sceneggiata di quello della Fiera di Milano, costato da 21 milioni a forse il doppio, inaugurato finito dopo due settimane, ma finito dopo altre due, per tre posti letto, poi faticosamente portati a una dozzina, forse 20?). Ancora una volta, la Lombardia (e il Nord in generale) trasforma una propria debolezza in colpa dei terroni: se fallisce come “locomotiva” è per la palla al piede, il Sud, che dice di “mantenere” (“residuo fiscale”: quoque tu, Ferrucce!), mentre gli sottrae decine di miliardi all'anno; se si rivela un disastro nella gestione l'epidemia, colpa dei terroni è mostrarsi più efficienti (lo scrivono in tutto il mondo, meno che i giornali del Nord, in Italia), per “invidia dei primi della classe” (un modo per rimettersi in testa, quando ci si scopre ultimi, dopo il Veneto, il Sud e e tutti gli altri). Ora, a parte che, fosse pur vero, il malanimo terrone, sarebbe ampiamente giustificato quale ritorsione per decenni di insulti, discriminazioni, razzismo padano contro i meridionali. E che la classe dirigente del Nord, specie lombarda, ha aizzato, tollerato, minimizzato e di fatto condiviso, tanto che uno dei giornali più rappresentativi dello spirito padano, fallita la razzistissima Padania, è il portavoce del Feltri-pensiero (parola grossa), quanto di più anti-meridionale ci sia (“sono inferiori”). La fine di un popolo si misura con un sentimento-termometro: la vergogna, il guardiano delle norme della convivenza. Sparita quella, c'è solo una indistinta massa umana che non riconosce ad altri la stessa dignità, gli stessi diritti, lo stesso rispetto. I Feltri, i capi partito con condanna per razzismo che fa curriculum sono la prova di questa dissoluzione delle basi di convivenza. Interventi pur più sfumati nella sostanza e civili nella forma, quale quello di de Bortoli, a me paiono persino più rivelatori, perché mostrano che i veleni di quel sentire sono entrati nel dialogo e nei temi dell'area moderata; quindi sono “culturalmente” dominanti, rappresentativi di una comune, diffusa convinzione. Il che spiega quel misto di sorpresa e sconcerto, persino contenuta irritazione (o spudorata, vedi Feltri: «Senza di noi farete una brutta fine, meritata») di chi vede violato un dogma, la certezza fondante della propria identità: siamo noi, i migliori per autodefinizione, a decidere la classifica e a porre tutti gli altri in quell'ordine “naturale delle cose” che va da “Prima il Nord” a “terroni di merda” (i più costumati, invece: «Non sono razzista, figurati. La mia cameriera è di Molfetta, ho un operaio di Trapani, il mio compagno di bocce è napoletano. Brava gente, ma non sono come noi»). Stupisce il loro risentito stupore dinanzi a critiche più che motivate (che non accettano, perché non abituati a esser giudicati, ma a giudicare) e che vengono declassate a invidia per il primo della classe; invidia per la Sua Eccellenza la Sanità lombarda, patrona dei privati allevati a dismisura con soldi pubblici (e alla prova del virus letteralmente franata, al contrario di quelle veneta, emiliana, meridionale). Quel risentito stupore denuncia la natura del rapporto squilibrato: se noi vi insultiamo, è espressione di un sentimento popolare e diffuso di insofferenza per le vostre colpe; se voi osate discutere la nostra primazia, persino quando tutto il mondo e il resto d'Italia la contestano, la cosa ci risulta intollerabile, una sorta di aggressione. Il Nord ha paura, perché il Sud non accetta più la condizione di sudditanza: si mette alla pari! Si incrina la base del sistema di potere coloniale su cui si regge l'economia del Nord, dall'Unità (trasferimento selvaggio di risorse da Sud a Nord) a oggi (trasferimento selvaggio di risorse da Sud a Nord): una economia che genera una politica, su cui fiorisce una cultura. Se prima questo avveniva in forme sfumate, non immediatamente riconoscibili, oggi, con la consapevolezza sempre più diffusa, a Sud, di come stanno davvero le cose e con la fine, nell'euro, del controllo della propria moneta, senza l'elasticità della svalutazione, il gioco si è fatto scoperto: il razzismo si mostra senza sfumature e il sistema si è arroccato. Yanis Varoufakis, in “Adulti nella stanza”, narra la domanda che gli fece l'allora segretario di Stato degli Stati Uniti, Larry Summers, quando il docente greco fu eletto al Parlamento, poi ministro alle Finanze nel momento più buio del suo Paese: «Ci sono due specie di politici, quelli che “giocano dentro” e quelli che “giocano fuori”. Tu come giochi?». Giocare dentro vuol dire essere garantiti ma complici; giocare fuori sono liberi, ma inascoltati. Quando il blocco di potere padano si sentiva forte, poteva permettersi il lusso di avere Pasolini a fargli il controcanto sulla prima pagina del Corriere della sera; oggi non si legge un economista, uno storico fuori dal coro “noi locomotiva, voi terroni mantenuti” (i Viesti, i Sales, i Daniele, eccetera, tutti esclusi) e se il ministro Peppe Provenzano dice una coraggiosa banalità («Milano prende e non restituisce») si alzano le barricate giornalistiche e non si spiega la verità di quella frase; i documenti truccati per rubare risorse al Sud si possono leggere in alcuni libri, rimbalzati su qualche giornale al Sud, vedere a Report, ma non sporcano le “macchine del consenso” del potere padano. Le colpe degli intellettuali del consenso (alcuni per ignoranza, in buona fede; altri, sapendo, per convenienza e viltà), sono di portata storica in questa miserabile stagione di allevamento di una classe dirigente razzista. Tale lettura suona troppo terrona, di parte, esagerata, ai sostenitori di quel sistema? Basterebbero le analisi e i documenti dello Svimez, dell'Eurispes), volendo capire. È la chiusura al dubbio e alla possibilità di riconoscere sbagliato quel che si crede di sapere la ragione prima della mancata conoscenza reciproca degli italiani, del pregiudizio, del razzismo, inutilmente denunciato da oltre un secolo, da Ciccotti e Gramsci a oggi. Una chiusura troppo spesso sospetta: non conviene, si campa male “fuori”. Ma, alla fine, anche il virus, come è stato detto, può essere il pettine che mostra i nodi. Il risentito stupore alla pretesa terrona della parità, anche di giudizio dei fatti, disorienta il “prima il Nord”, il lombardo presunto “trainante” incapace di accettare equiparazione ai presunti “trainati”. Se dallo stupore e dalla stizza per la lesa maestà derivasse anche un interrogarsi su se stessi (parlo per quelli in buona fede, e de Bortoli lo considero tale), forse si farebbe in tempo a diventare un popolo. Altrimenti, la frattura già conclamata diverrà insanabile. O equità, o secessione. “Prima io” è razzismo; e quel tempo è finito: se non alla pari, meglio da soli. La lente impietosa del coronavirus ha fotografato con brutale evidenza l’Italia com’è: non è un Paese, non c’è. Se ne può stupire solo chi in tutti questi anni, per interessi privatissimi ben più che per miopia, non ha voluto vedere. Ma le gigantesche falle che la pandemia e la crisi economica hanno reso palesi, frutto velenoso di mali remoti e recenti, ci hanno messo di fronte anche a un’antica, virulenta verità: ciò che si fa agli altri, si fa a se stessi. Ora, mentre vanno in scena grandi generosità e incalliti egoismi, siamo al punto di non ritorno. Se l’Italia non sarà in grado di ripartire da Sud, se si tenteranno di imporre nuovamente i fallimentari modelli del passato, allora si spezzerà definitivamente. Se non sarà finalmente equa e unita, allora non sarà proprio più niente. PINO APRILE giornalista e scrittore, è autore di saggi di straordinario successo, tradotti in diversi paesi. Terroni, uscito nel 2010 e diventato un caso editoriale da mezzo milione di copie, e i successivi lavori, tra cui Giù al Sud e Carnefici, hanno fatto di lui il giornalista “meridionalista” più seguito d’Italia, al Sud come al Nord. A New York è stato proclamato “Uomo dell’Anno” dall’Italian Language Inter-Cultural Alliance.

CORRUZIONE, LOMBARDIA È DA RECORD. sinistraxmilano.org il 7 ottobre 2019. L’articolo di ieri su Avvenire rilancia l’allarme di Transparency International Italia sulla corruzione italiana. Record Lombardo, Milano e Brescia su tutti. Da leggere. Luca Bonzanni. Grandi mazzette e micro-corruzione. È la quotidianità del malaffare che s’intreccia con la pubblica amministrazione attraverso matrici diverse, chiaramente criminali o mimetizzate negli interstizi di imprenditoria e politica. La Lombardia, centro economico e di potere dell’intero Paese, resta giocoforza terra di collusione e connivenze: l’ultimo campanello d’allarme arriva da Transparency International, ong impegnata nel campo della legalità, che ha mappato censendo le notizie apparse sui media il fenomeno in Italia, individuando nella Lombardia la regione più interessata da condanne, inchieste e arresti per corruzione o malversazione nella sfera pubblica. Sono stati 66 gli episodi individuati in regione nei primi mesi del 2019: nella classifica del Belpaese, il podio è completato dalla Sicilia (59 casi) e dalla Campania (52), col Lazio al quarto posto (46). Un dato, quello del primo semestre di quest’anno, tendenzialmente in linea con i dati registrati sull’intero 2018: negli scorsi dodici mesi, Transparency aveva censito in Lombardia un totale di 125 casi di corruzione e reati affini; a spiccare, le 36 “voci” di Brescia e le 33 di Milano. Scorrendo nel dettaglio i fatti elencati da gennaio a giugno 2019, 23 sono localizzati a Milano e provincia. Maggio è stato il mese mediaticamente più caldo: prima l’inchiesta “Mensa dei poveri” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo lombardo, con un centinaio di indagati e una quarantina di misure cautelai (tra cui l’arresto del consigliere comunale di Milano Pietro Tatarella e i domiciliari per il consigliere regionale Fabio Altitonante, entrambi di Forza Italia) a scoperchiare un presunto sistema di appalti pilotati, finanziamenti illeciti ai partiti, persino i tentacoli della ‘ndrangheta sullo sfondo; poi la vicenda di Legnano, con accuse di corruzione elettorale e nomine pilotate che portarono ai domiciliari il sindaco Gianbattista Fratus (Lega) e l’assessora alle opere pubbliche Chiara Lazzarini e in carcere il vicesindaco Maurizio Cozzi. Sono invece 24, tra condanne e inchieste in corso, i casi censiti in sei mesi nel Bresciano, altro centro nevralgico della corruzione, soprattutto quella “micro”. «Non ci stupiscono i tre settori più critici si legge nel report semestrale di Transparency International, con considerazioni sulla situazione nazionale che trovano riflessi anche nello scenario lombardo -: pubblica amministrazione, sanità e politica. Quello che colpisce di più è il fatto che proprio questi tre settori, così cruciali nella vita di tutti noi, da soli rappresentino quasi i due terzi dei casi riportati dai media. E addirittura un caso su tre è relativo ad appalti pubblici. Questo dimostra nuovamente quanto alto sia il rischio di corruzione in un settore tanto delicato come quello dei lavori pubblici. La tipologia di reato contestato vede la corruzione come la più diffusa con il 40% dei casi, ma non possiamo dimenticare tutti i reati affini come peculato, abuso d’ufficio e turbativa d’asta». 

Milano vs Resto d’Italia: è il Sud che ruba al Nord o avviene il contrario? Francesco Bruno il 13 Novembre 2019 sueconopoly.ilsole24ore.com. Le parole su Milano del ministro Giuseppe Provenzano sono state un po’ strumentalizzate, come sempre accade quando si solleticano i vari campanilismi che interessano il nostro Paese. Lo stesso ministro ha poi corretto il tiro in un post su Facebook, scritto a mente fredda. Ma se la polemica è abbastanza stantia, la questione sottesa non è irrilevante. Essa  potrebbe interessare diversi tipi di dualismi, come quello tra metropoli e provincia ad esempio. Ma nel caso italiano i divari più significativi restano quelli regionali o per macroaree. Milano è sicuramente in forte ascesa come città, ma è anche il centro di un sistema industriale avanzato e inserito nelle catene globali del valore. Piuttosto che soffermarsi sul ruolo -limitato- che una singola città può avere a livello nazionale, se non quello di fungere da esempio come correttamente scritto da Massimo Famularo, l’occasione appare propizia per riflettere sui divari infranazionali, tra le principali fonti di polemiche interne nel dibattito mediatico e politico. Perché in fin dei conti, da 158 anni, si finisce nel solito vicolo cieco: è il Sud che ruba al Nord o avviene il contrario? La domanda riguarda due principali temi. usati dalle opposte fazioni. Da un lato il Nord che reclama lo “scippo” di risorse economiche, dall’altro il Mezzogiorno che lamenta il drenaggio di capitale umano. Entrambe le tesi sono suffragate dai dati, ma presentano alcune distorsioni da un punto di vista del rapporto causa-effetto. Partiamo dal primo punto. Per provare ad elaborare alcune riflessioni, possiamo utilizzare la recente pubblicazione della Banca d’Italia sulle economie regionali. Iniziamo con le istanze del Settentrione. Veniamo da anni in cui alcune regioni del Nord, Veneto in particolare, seguito da Lombardia ed Emilia-Romagna, chiedono nuove forme di autonomia differenziata. A prescindere dal merito della riforma (in aggiornamento e già trattato spesso su Econopoly), la movimentazione politica muoveva dalla retorica sul cosiddetto residuo fiscale (stima, a livello locale, di un ipotetico saldo fra le spese e le entrate del bilancio pubblico). Nel citato rapporto si legge a tal proposito che «(…) nel 2017 (ultimo anno per il quale è possibile effettuare la ricostruzione) il bilancio pubblico avrebbe erogato risorse nette pari all’incirca al 3,6 per cento del PIL nazionale alle regioni meridionali, contro un prelievo netto pari al 5,6 per cento in quelle del Centro Nord (corrispondenti a circa il 16 e il 7 per cento del PIL delle rispettive macroaree e a 2.900 e 2.400 euro in termini pro capite)». Se andiamo a vedere le tabelle, in percentuale al PIL nazionale, la Lombardia è nettamente la regione con il residuo fiscale più alto.

Quindi, è vero che la Lombardia ad esempio -e in particolare il suo capoluogo- dà tanto al resto del Paese, ma occorre chiarire due un aspetto fondamentale, che rappresenta un equivoco nella battaglia politica degli autonomisti. La forma di redistribuzione principale del nostro sistema è la progressività delle imposte sulle persone fisiche, con la quale si finanziano poi i vari servizi dello stato sociale. I trasferimenti, pertanto, non viaggiano da un territorio a un altro, ma dai “ricchi” ai “poveri” per capirci. Il fatto che sia più abituale che il ricco abiti a Nord piuttosto che a Sud, rappresenta un dato che non muta il principio costituzionale di base, che garantisce alcuni diritti a prescindere dalla residenza. Se così non fosse, finiremmo nel paradosso di una Milano che potrebbe rivendicare il residuo fiscale positivo nei confronti del resto della Lombardia. Si tratta di un principio insuperabile, a meno di secessione. Chiarito quanto sopra, passiamo alle tipiche istanze meridionali, che -in tema di risorse- lamentano una spesa pubblica pro capite, corrente e in conto capitale, inferiore a quella del Nord. Secondo il rapporto di cui sopra, «In termini pro capite tale spesa è valutabile in circa 10.600 euro per un cittadino residente nelle regioni meridionali, a fronte di 12.000 euro per un residente al Centro Nord». Ma come precisa lo studio la differenza è dovuta principalmente alla componente pensionistica, sebbene restino carenze sul lato dei livelli essenziali delle prestazioni. Anche per le spese in conto capitale il Sud appare sfavorito a livello pro capite, ma in misura minore.

Da qui si potrebbe evincere la figura di un Nord ladrone? La Storia d’Italia suggerisce di no. Semplicemente perché non è tutto riconducibile ad una questione di quantum, ma anche di qualità della spesa pubblica. Inebriati dalle varie teorie sul famigerato moltiplicatore, sono in molti (non solo al Sud naturalmente) ad immaginare virtù miracolose della spesa stessa, salvo poi scontrarsi con una realtà differente. I risultati sono sotto i nostri occhi, ma non vogliamo levare le fette di prosciutto. La Banca d’Italia ci dà un suggerimento sul perché innanzitutto il miracolo non avvenga. Inoltre, il Mezzogiorno ha un rapporto ancor più controverso con la spesa pubblica, perché la stessa è molto alta se rapportata al PIL dell’area. Questo ha inevitabilmente prodotto forme di assuefazione, spesso sfociate in richieste di assistenzialismo. Ma nonostante questo ci si ostina a ritenere l’intervento dall’alto come possibile panacea, dimenticandosi che la spesa viene poi sistematicamente dirottata al sostegno dei redditi piuttosto che ad investimenti produttivi. Con una torta sempre più piccola da dividere. Ciò non significa che il sistema di finanziamento degli enti locali non debba essere corretto nelle sue distorsioni ed inefficienze, ma appare del tutto utopistico sovrastimare gli effetti sullo sviluppo derivanti da un’eventuale aumento delle risorse pubbliche a disposizione. In definitiva sul punto delle risorse economiche, entrambi gli schieramenti appaiono vittime di alcune informazioni fuorvianti e di illusioni di lunga data. A livello di effetti però, le illusioni sono più pericolose per il Mezzogiorno, che sembra non voler imparare le lezioni che la sua storia gli impartisce. In merito alla seconda questione, relativa all’emigrazione ed al drenaggio di capitale umano, mi scuso per l’autocitazione, ma posso aggiungere ben poco rispetto a quanto scritto qualche mese fa su questi pixel. Oltre a riflettere amaramente su come questo Paese faccia così fatica a comprendere le ragioni dei ragazzi che emigrano dal Mezzogiorno al Centro-Nord o dall’Italia all’estero, mi unisco alla provocazione di Massimo Famularo rivolta al Ministro. Si chiede perché Milano non formi classe dirigente come un tempo,  ma il Ministro farebbe bene a guardarsi intorno, anche all’interno dell’Esecutivo di cui fa parte. Vede meritocrazia intorno a sé? Nella politica? O nei principali incarichi a nomina pubblica? Forse è per questo che le menti migliori scelgono un’altra via, che ad alcuni potrà apparire egoistica nei confronti del Paese, ma che spesso altro non è che una normale e sana ambizione di raggiungere traguardi che siano in linea con gli sforzi e le fatiche di una vita. E su questo non deve riflettere solo Milano, che sembra peraltro aver capito il trend imposto dai nostri tempi, ma il resto d’Italia.

Lo stato spende più al Nord o al Sud? Da ilpost.it venerdì 20 dicembre 2019. Dipende molto da come si conta la spesa pubblica, ma se si tiene conto di tutto-tutto gli abitanti del Sud ricevono meno degli altri. Il divario crescente tra Nord e Sud del paese è tornato ancora una volta di attualità, negli ultimi anni, grazie al dibattito sulla maggiore autonomia chiesta da alcune regioni del Nord Italia. Uno dei motivi che spesso motivano questa richiesta è l’idea che le regioni più ricche vedano una parte significativa delle risorse pubbliche – che contribuiscono in gran parte a creare – impiegate per finanziare una spesa pubblica inefficiente, improduttiva e clientelare nel resto del paese. Di recente però lo SVIMEZ, il centro di ricerca pubblico sullo sviluppo del Sud Italia, ha ricordato che quando si include nel conteggio ogni voce, il Nord riceve una percentuale della spesa pubblica molto superiore al Sud: circa 4 mila euro a persona in più. È un dato che non è molto conosciuto dai non addetti ai lavori, anche perché di recente il dibattito sul divario Nord-Sud si è concentrato sulla questione del residuo fiscale, ossia quante tasse raccolte in una regione rimangono effettivamente sul territorio e quante invece vengono redistribuite nel resto del paese. Com’è facile immaginare, le regioni del Nord sono quelle con il residuo fiscale più alto: principalmente per il fatto che hanno un PIL maggiore e abitanti più ricchi, quindi pagano più tasse delle regioni meno sviluppate e con abitanti meno ricchi (e, spesso, più disoccupati e indigenti). Ridurre o addirittura eliminare il divario fiscale è l’obiettivo rivendicato da molti dei sostenitori dell’autonomia. Accanto alla questione del residuo fiscale, cioè di quanto i territori pagano in tasse in proporzione a quanto ricevono, è importante osservare anche quanto ricevono in assoluto. In altre parole, al di là di chi paga di più (sappiamo che la risposta è il Nord), è interessante sapere anche chi riceve di più. A questo proposito, negli ultimi tempi sono circolati molto i dati della Ragioneria generale dello Stato sulla “spesa statale generalizzata” (furono pubblicati per esempio dall’ex ministra leghista per gli Affari regionali Erika Stefani). Secondo questi dati le regioni del Nord – Lombardia e Veneto in testa – sono quelle che ricevono meno risorse: ogni anno un lombardo riceve circa 2.700 euro di spesa statale regionalizzata, un veneto 2.900, mentre un abitante del Lazio ne riceve ben 5.700. Come ha ricordato però lo SVIMEZ lo scorso aprile – e poi, di nuovo, in un’audizione parlamentare pochi giorni fa – i dati della Ragioneria generale dello Stato sono parziali. È la stessa Ragioneria, infatti, a spiegare che su circa 590 miliardi di euro l’anno di pagamenti effettuati dallo Stato, ne considera “regionalizzabili” – cioè ripartibili a livello regionale – circa 270. Da questo conto mancano alcune voci molto importanti, per esempio la spesa previdenziale e per assistenza sociale: quindi pensioni, politiche sociali e per la famiglia, che da sole costituiscono quasi il 70 per cento della spesa che la Ragioneria considera “non regionalizzabile”. Il conto della Ragioneria, infine, tiene conto solo dei pagamenti dello Stato centrale, quindi non considera le risorse proprie impegnate nella sanità dalle regioni, per esempio, né quelle spese dalle società controllate pubbliche che forniscono servizi molto importanti per la qualità della vita dei cittadini, per esempio i trasporti locali e la raccolta dei rifiuti. Per avere un quadro più completo di quanta spesa pubblica effettivamente raggiunga ogni regione, i ricercatori dello SVIMEZ sostengono che sia meglio utilizzare dati diversi da quelli parziali della Ragioneria: quelli raccolti dal sistema Conti Pubblici Territoriali (CPT), che fa parte dell’Agenzia per la coesione territoriale. A differenza dei dati della Ragioneria, quelli del CPT includono tutti i flussi finanziari, compresi quelli previdenziali e quelli del cosiddetto “settore pubblico allargato” (che include per esempio società di diritto privato ma a controllo pubblico). Tenendo conto anche di questi dati, la classifica di chi riceve più spesa pubblica cambia. Se per la Ragioneria, infatti, il Sud e i suoi abitanti ricevono circa 3.800 euro di spesa pubblica pro capite ogni anno, mentre al Centro-Nord la cifra scende al 3.375, guardando i dati del CPT sul totale della pubblica amministrazione (comprensivo anche di regioni, enti locali ed enti previdenziali) il Centro-Nord passa in vantaggio con una spesa pro capite di 13.400 euro contro i 10.900 del Sud. Se nel conto si include anche il settore pubblico allargato (quindi ENI, Ferrovie dello Stato, società municipalizzate, ecc.) il divario arriva a quasi 4 mila euro a persona, con una spesa pubblica pro capite al Centro-Nord pari a 17 mila euro e al Sud pari a 13.300. Andando a vedere le singole regioni, emerge che la regione che riceve nel complesso la maggior quantità di spesa pubblica pro capite è la Valle d’Aosta, con 25 mila euro annuali. Tra le regioni non a statuto speciale riceve più spesa pubblica il Lazio, con 22 mila euro, seguita dalla Liguria, con 18 mila. La regione dove invece si spende meno è la Campania, con 12 mila euro: meno della metà della regione che riceve di più.

Storie di “Gallo” e “Paglietta”, il Nord vuole farsi Stato Dal trucco della spesa storica alle mani sulla cassa centrale fino allo “scippo” delle tasse. Roberto Napoletano il 2 luglio 2019 su Il Quotidiano del Sud. C’è qualcosa di veramente misterioso che gonfia il petto per gli strilli dei Governatori padani. Fingono di avere qualche numerino sconosciuto ai più, ma ancora prima alle regole generali della contabilità e degli Stati unitari o federali, per non parlare della decenza, che li fa reclamare senza rossore la “restituzione” di non si capisce che per sanare l’ingiustizia perpetrata da non si capisce chi. Hanno la pancia piena di una abbuffata di decine e decine di miliardi l’anno (61, per la precisione) indebitamente sottratti alle donne e agli uomini del Mezzogiorno per trasferirli in mille rivoli assistenziali nei portafogli dei loro cittadini-elettori e si permettono di pretendere, oltre ogni limite, di avere restituito ciò che loro dovrebbero restituire con gli interessi e la recita di una cinquantina di rosari se non vogliono perdere la speranza che qualcuno possa pensare di assolverli un giorno dai loro peccati.

SCOPRI I CONTENUTI SULLO SCIPPO PERPETRATO AL SUD. La banda del buco del Grande Partito del Nord, di cui loro fanno oggi autorevolmente parte, ha inventato il gioco delle tre carte di Pontida e Varese, che ha fatto fare la figura dei principianti a quelli di Forcella. Di che si tratta? Con destrezza lumbard, nel silenzio complice di tutti, hanno buttato nel cestino le due carte – livelli essenziali di prestazione e fabbisogni standard – che sono imposte dalla Costituzione e perfino dalle regole federali dell’ex ministro leghista Calderoli, ma danno il giusto ai meno ricchi e per questo (solo per questo) non sono stati mai dolosamente determinati. Sul tavolo resta solo la terza carta che è la moneta dei ricchi e, cioè, la spesa storica perché li fa stravincere e ne arma le mani predoni dentro la cassa pubblica. Ogni anno i lamentosi signorotti della politica del Nord vanno al bancomat dello Stato e inseriscono la moneta telematica che ha il cambio della refurtiva incorporato. Ogni anno assumono sempre più gente, buttano soldi qua e là, aumentano la spesa storica e, poi, il bancomat paga in contanti per ogni loro desiderio. Ignorano i “Governatori” che in uno Stato unitario o federale esiste un atto costitutivo che tiene insieme diritti e doveri tra cittadini e Stato e che questo patto nulla ha a che vedere con il genetico e generico diritto del mitizzato territorio del Nord. Anche se si accondiscendesse a questi inammissibili (e penosi) conti territoriali di dare e avere in salsa leghista, mai emergerebbe una quantificazione legittima di pretese ma un obbligo costituzionale cogente di restituzione di tutto ciò che è stato fino a oggi egoisticamente rubato dal Nord al Sud attingendo alla spesa pubblica, ignorando i diritti di cittadinanza di molti. Tutto ciò, principi, metodo, numeri (veri) non quelli loro (mai esibiti) e, tanto meno, quelli falsi raccontati dalla portavoce-Pinocchio in Parlamento, la ministra Erika Stefani, i Governatori fanno finita di non sapere, di non vedere, di non sentire, confermando che c’è del metodo nella follia. Questo metodo fa cadere la maschera e rivela il loro vero obiettivo: farsi Stato.

STORIA DI “GALLO” E “PAGLIETTA”. A Napoli, questo agitato strombazzare è argutamente assimilato alla mattutina performance del “gallo ‘ncoppa ‘a munnezza” che, a pieni polmoni, come un brontolone di provincia, ripete il suo antelucano verboso rituale. Sempre a Napoli, l’insistenza fastidiosa di certi comportamenti, per cui la questione delle quote latte è un problema di Stato e la Regione Emilia Romagna si ritaglia il ruolo di concorso esterno in autonomia differenziata, l’inevitabile, supplementare, carico di quotidiane litanie sull’autonomia “virtuosa” configura un mestiere ben noto, quello del “paglietta”. Personaggio retorico e inconcludente ma pericoloso se – come accade nelle pianure del Nord – governa milioni di ricchi, male informati, decadenti fedeli. Per evitare equivoci, nella settimana che si propone (auspicabilmente e verosimilmente solo a parole) di definire una proposta di autonomia differenziata e di presentarla all’approvazione del Consiglio dei ministri, vogliamo riepilogare alcuni punti fermi e alcuni punti interrogativi che il nostro lavoro di inchiesta giornalistica ha messo a fuoco in questi mesi. Ci rivolgeremo di volta in volta al “gallo” o al “paglietta” di turno avendo, però, la consapevolezza di sottolineare che questi bizzarri elementi comportamentali emergono solo quando si parla di autonomia e di cassa pubblica a testimonianza che si tocca un nervo scoperto. In più circostanze, e intendo qui ribadirlo, abbiamo parlato della buona amministrazione dei territori del Nord (non tutti e non sempre, ovviamente) e dei loro Governatori, nonché della forza del tessuto civile. Il punto da noi posto nell’interesse del Nord quasi prima che del Sud, è quella di una più equa distribuzione delle poche risorse pubbliche perché si smetta di pensare che tutti i soldi pubblici nazionali per fare investimenti siano proprietà delle regioni ricche e alle regioni povere restino solo i fondi comunitari come un Paese terzo a cui, poi, puntualmente si sottraggono i cofinanziamenti nazionali per soddisfare l’ultima corporazione di turno nordista tipo quote latte e dintorni. Per fortuna, non siamo più soli, e siamo certi che l’operazione-verità avviata da questo giornale avrà nell’indagine conoscitiva proposta dalla presidente della Commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco, una sede competente e attenta. Sottoponiamo, di seguito, alcuni elementi di valutazione.

STORIA DEI 61 MILIARDI E DINTORNI.

a) I dati dei conti pubblici territoriali più aggiornati misurano algebricamente la spesa del settore pubblico allargato e sono inequivoci. Sono gli unici completamente veritieri (qualcuno informi la ministra Stefani) perché riguardano amministrazioni centrali, Regioni, Province, Comuni, Comunità montane, Inps, Anas, Ferrovie, e così via. Il conto è presto fatto: a una popolazione del Sud pari al 34,3% corrisponde il 28,3% della spesa pubblica, al 65,7% della popolazione del Centro-Nord arriva il 71,7%. Balla il 6% che viene indebitamente sottratto al Sud povero e regalato al Nord ricco. Sono 61 miliardi l’anno, avete capito bene. C’è qualcuno disposto a chiedere al “gallo” o al “paglietta” nordisti, alla loro prima egoistica lamentazione general generica, di mettere mano al portafoglio e di cominciare a restituire quanto di ciò arbitrariamente sottratto da almeno dieci anni in qua?

b) Come è stato possibile tutto ciò? Lo abbiamo già detto, hanno fatto il gioco delle tre carte e continuano senza un minimo di decenza a ben guardarsi dal definire i Lep e i fabbisogni, concepiscono di aggredire anche la cassa delle amministrazioni centrali dove la Costituzione e le regole generali di uno Stato unitario vengono rispettate. C’è qualche motivo, governatore Zaia, governatore Fontana e, in concorso esterno, governatore Bonaccini perché a dieci anni dalla legge Calderoli non solo non si varano i parametri per rispettare i diritti di cittadinanza dalle Alpi a Pantelleria, ma addirittura non trovate il tempo neppure per costituire un Fondo di perequazione tra Regioni come, almeno formalmente, hanno fatto i Comuni? Di che cosa avete paura? Volete togliere alle Regioni del Sud indebitamente penalizzate lo strumento giuridico per agire e chiedervene conto nelle sedi giudiziarie competenti? Il “gallo” e il “paglietta” hanno nulla da dire, in proposito, tra un’ingiustificata lamentazione e l’altra?

c) Siete a conoscenza che nella sua classica definizione di federalismo fiscale di stampo cooperativo, J.M. Buchanan esplicitò negli anni 50 il criterio di equità orizzontale che ritroviamo nello spirito della riforma del titolo V sintetizzato dal motto: si trattano in modo uguale gli uguali. In base a questo principio FEDERALE “un individuo dovrebbe avere la garanzia che dovunque egli desideri risiedere nella nazione, il trattamento fiscale complessivo che egli riceverà sarà approssimativamente lo stesso”. Ho parlato un linguaggio difficile? Allora mi spiego meglio: che giudizio avrebbe, governatore Zaia, di una persona con un reddito X che paga regolarmente le sue tasse e vorrebbe che lo Stato si impegnasse a investire il gettito delle sue tasse per rifare per la terza volta la villa comunale (attualmente in ottimo stato) su cui si affaccia la sua abitazione mentre le strade comunali continuano ad essere piene di buche, il pronto soccorso dell’ospedale perde pezzi, e così via? Ci pensi un attimo è quello che state chiedendo di fare voi trattenendo una cassa che nessuno è neppure in grado di determinare e che anche voi avete difficoltà a mettere nero su bianco in documenti da presentare nelle sedi competenti? Che cosa ve lo impedisce? Perché non lo fate?

d) Per evitare equivoci la base del patto sociale nel quale si riconosce una comunità, sia che si organizzi in modo federale che unitario, non consente simili giochetti, non sa che cosa sia il presunto diritto alla restituzione del cosiddetto residuo fiscale che nessuno sa e potrà mai davvero sapere che cosa esattamente sia. In una comunità di eguali dove il trattamento fiscale deve essere approssimativamente lo stesso e dove i principi di solidarietà sono fondanti, questo oggetto misterioso di cui si narra nelle vallate del Nord non ha neppure diritto di asilo. Diverso è il caso di uno Stato Confederale che collega comunità diverse e dove il principio di equità orizzontale vale all’interno delle singole comunità e non per individui di comunità diverse, modello al quale di fatto aspira il sedicente regionalismo a geometria variabile che intende realizzare il regime di autonomia rafforzata. Si tratta di questo? Sì, allora ditelo: volete farvi Stato? Tutto si può fare, ma bisogna dirlo e non bastano di certo referendum consultivi e le compiacenze del mite Gentiloni, premier pro tempore, per fare sparire l’Italia senza nemmeno chiedere ai cittadini italiani di esprimersi tutti nell’urna. Qualcuno, tra una lamentazione e l’altra, del “gallo” o della “paglietta” di turno, potrà spiegare questi elementari ragionamenti?

e) Siete al corrente che la Ragioneria dello Stato in un documento a uso interno ha fatto presente che se non sanate i difetti costituivi di questo federalismo all’italiana, il federalismo dei ricchi, il volume di criticità mette a rischio l’intero impianto in vigore? Non quello che follemente sognate?

f) Qualcuno vi ha informato che 65 Comuni del Sud si sono rivolti al TAR del Lazio perché ricevono zero euro spaccato per asili nido e altra spesa sociale garantita dai diritti di cittadinanza e che la presidenza del TAR ha chiesto al ministero dell’interno una “documentata relazione” relativa alla questione perché da questo ministero dipende il fondo di perequazione tra Comuni? Qui almeno hanno avuto la decenza di costituirlo.

g) Sapete che cosa è successo, di saccheggio in saccheggio del Nord al Sud dalla cassa di Stato, nella mappa dell’impiego pubblico? Che la capitale del posto fisso è diventata il Nord Est che ha 4,9 dipendenti pubblici ogni mille, ultimo censimento Istat, contro i 4,5 del Sud, isole comprese? Non vi sembra che dietro questi numeri non c’è solo la fine di un luogo comune insopportabile ma anche l’alterazione del corso sano di flussi pubblici che si traducono in assistenzialismo al Nord (non ne ha bisogno) e tolgono risorse per gli investimenti al Sud fino ad azzerarle? Ma dove ci condurranno mai logiche così miopi e regressive?

h) Che cosa dire del rapporto sulla finanza pubblica della Corte dei conti che segnala che le Regioni del Nord hanno assunto dieci volte di più di quelle del Sud e che gran parte del buco (copre tutto il bancomat della spesa storica) viene da tre regioni a statuto ordinario del Nord, nell’ordine Piemonte, Liguria e, meno, Toscana?

i) Come si fa a parlare con tanta leggerezza di residuo fiscale di una regione piuttosto che un’altra in uno stato unitario o federale che dir si voglia? Ma davvero volete ripetere, anche su questo versante, la figuraccia fatta dalla ministra Stefani sulla regionalizzazione della spesa pubblica? Volete anche voi sentirvi dire che i numeri esposti sono fragili, indimostrabili, comparativamente lacunosi, comunque senza diritto di cittadinanza in uno Stato federale? Come si fa a dire che una tassa pagata in una determinata città è frutto del lavoro di quella città mentre il reddito prodotto potrebbe essere (molto spesso è) il frutto del lavoro di altri cittadini italiani svolto in altri territori? E poi, come li calcolate? Che cosa rispondete al presidente della Svimez, Adriano Giannola, che sostiene che dovete almeno scalare gli interessi che percepite sui titoli di Stato perché “rappresentano una spesa erogata a titolo di servizio del debito pubblico” che una prassi consolidata non computa anche se resta una delle poste con un significativo impatto redistributivo?

QUEI NUMERI AL LOTTO. Il ragionamento di Giannola è il seguente: vista la pretesa del diritto alla restituzione in base a un presunto residuo fiscale che sottrarrebbe risorse da un territorio per finanziare un altro territorio (aggiungo io come sarebbe giusto, ma come qui non avviene perché l’abbuffata di spesa pubblica sottratta dal Nord al Sud ammazza tutto) allora questo dato va integrato con l’imputazione territorialmente corretta della spesa pubblica impiegata per corrispondere il servizio del debito. Tanto più che (equivalenza ricardiana) il valore delle imposte presenti e future necessarie a soddisfare il debito tende a coincidere con l’ammontare degli interessi percepiti dai detentori del debito. Per questi, insomma, gli interessi percepiti sono una forma di restituzione di imposte. Secondo Giannola e tanti altri, quindi, anche in termini quantitativi questo presunto residuo fiscale non avrebbe nulla da spartire con i numeri al lotto dati al bar o sui giornali, mai in documenti ufficiali presentati oggi all’esame del governo, ma si ridurrebbe a poco più di un terzo di quanto indebitamente acquisito di anno in anno dalle Regioni del Nord con la spesa pubblica non dovuta. Potremmo dire: di che cosa parliamo? Invece no, la nostra critica è molto più radicale: questo numero (qualunque sia la sua dimensione) in uno stato unitario o federale non può essere frutto di “appropriazione indebita” da parte di chicchessia e minerebbe, tra l’altro, in modo clamoroso, unico al mondo, le ragioni fondanti dello Stato e quelle altrettanto importanti (obbligate) di perequazione fiscale. Senza di esse non esisterebbe lo Stato, siamo stati chiari? Ma come vi permettete di dire li spendo io questi quattrini (molto molto meno di quello che pensate voi) quando sono dell’intera comunità nazionale? Certo che possono essere vostri – solo vostri se esistono. – Ma vi dovete perlomeno fare uno Stato per i fatti vostri. Ovviamente non vi conviene, ma se avete tanta voglia di consegnarvi mani e piedi a francesi, tedeschi, cinesi, che farebbero di voi un solo boccone, accomodatevi. Perché ciò avvenga, ancorché masochistico, dovreste almeno svestire i panni del “paglietta” e dire come stanno le cose. Soprattutto, dovreste dire al “gallo” di cantare un’altra canzone.

Roberto Maroni: «Continuerò a difendere l’Autonomia, ma la spesa storica va superata».  L’ex ministro leghista: «Il Veneto ha chiesto 23 materie, la Lombardia 20: siamo sicuri che servano tutte?» Claudio Marincola il 31 ottobre 2019 su Il Quotidiano del Sud. Conosce bene le regole del galleggiamento, Roberto Maroni. Ex segretario federale della Lega Nord, ministro dell’Interno e poi del Lavoro nei governi Berlusconi, governatore della Lombardia fino allo scorso anno, finito in fuorigioco per una lunga vicenda giudiziaria. A 64 anni il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia lo ha chiamato a far parte della commissione che tratterò con le regioni la difficile partita dell’autonomia differenziata.

Lei ha detto di essere disposto a trattare anche con il diavolo se questo potrà servire alla causa dell’autonomia. Ma chi è il diavolo, scusi?

«Era solo un modo di dire».

Sembrava riferito al ministro.

«Guardi, conosco Boccia, ed è tutt’altro che un diavolo. Con quella espressione mi riferivo a un episodio del passato. Quando Umberto Bossi mi disse, era il ’94, di andare a trattare con Alleanza nazionale. Loro erano contrari al federalismo, noi al presidenzialismo. Non se ne usciva. Alle elezioni si rischiava di andare l’uno contro l’altro. Fisichella e Miglio, due professori, si incontrarono per trovare un’intesa ma invano. Poi arrivò Pinuccio Tatarella, uscì dalla stanza e disse ai giornalisti: “Trovato l’accordo”. E nacque il governo. Ecco, io penso che se ci si mette intorno a un tavolo e si trova una soluzione, si riesce a fare quello che al governo precedente non è riuscito. Una cosa utile a tutti. Al Sud e al Nord. Per questo ho accettato l’offerta di Boccia».

Lei andrà a trattare con le regioni. Ma come la mettiamo con i 61 miliardi l’anno di mancati investimenti sottratti al Sud? Noi lo chiamiamo scippo. E cosa pensa sul 34% degli investimenti che il governo destinerà al Mezzogiorno?

«So di cosa parla, leggo il vostro giornale. Ma sullo scippo non sono d’accordo. O meglio, dipende dai criteri».

Sono numeri certificati dalla contabilità nazionale. E c’è un’indagine conoscitiva in Parlamento.

«I criteri con cui si fanno questi calcoli sono tutti discutibili. E comunque, anche ammettendo lo scippo, e io non sono d’accordo, potremmo parlare del residuo fiscale, la differenza tra quello che le regioni versano e le risorse che tornano indietro ai territori».

Il residuo fiscale dei territori non esiste, esiste solo quello individuale. Non lo diciamo noi, lo dice la Ragioneria generale dello Stato…

«…la interrompo. La verità vera è che alla modifica del Titolo V della Costituzione, pensato per dare più autonomia alle regioni, non si è dato attuazione».

Obiezione. Al governo ci siete stati anche voi.

«Certo, verissimo. L’autonomia è una sorta di contenitore rimasto vuoto. E allora io dico: mettiamoci intorno a un tavolo e discutiamo. Voi parlate di scippo? E volete che tutto resti uguale e si continui così? Non conviene a nessuno, vediamo come rimediare, troviamo una forma di win to win che vada bene anche alle regioni. E anche al diavolo, se occorre. L’autonomia può essere una buona soluzione per tutti».

Il Veneto vuole il via libera su 23 materie, la Lombardia su 20. E poi c’è il nodo dell’istruzione. Le pare facile trovare un’intesa?

«Aspetti. Il confronto serve proprio a questo. Può servire a superare quello che voi chiamate “scippo”. L’autonomia è prevista dalla Costituzione, gli articoli 116 e 119 non hanno nulla di eversivo. Partiamo dunque dalla pre-intesa che io stesso, da governatore della Lombardia, ho firmato il 28 febbraio del 2018 con l’allora primo ministro Gentiloni, a Palazzo Chigi».

C’è un’Italia che viaggia sull’Alta velocità in business class e un’altra dove tutte le rotaie del Meridione non raggiungono quelle della sola Lombardia. Dove un malato su 5 non si cura perché non se lo può permettere. A lei questa Italia piace?

«No, non piace neanche a me. Ma senza voler sostituire i governatori, perché non voglio parlare per nome e per conto loro, posso dire che ci sono molte cose, per esempio a proposito dell’articolo 117, che si possono rivedere. La disponibilità di Boccia a parlarne c’è».

Esempio?

«Il Veneto chiede 23 materie concorrenti. Ma servono proprio tutte, ci siamo chiesti? Sono materie che ci interessano quelle sull’ordinamento delle Casse Rurali e delle Casse di Risparmio che tra l’altro non esistono più? E che dire dell’ordinamento sportivo? Siamo sicuri che ai territori gliene freghi qualcosa? Stesso dicasi per la materia che regolamenta porti e aeroporti, visto che c’è l’Anac e un eventuale devoluzione potrebbe anche essere vista con sospetto da compagnie straniere che potrebbero investire. Anche per ciò che comporta le competenze in materia di Grandi reti di trasporti e di navigazione. A prescindere che in Lombardia non c’è il mare ma siamo sicuri che sia essenziale incartarsi su questioni del genere? Ordinamento della comunicazione. Ma davvero c’interessa? E il trasporto dell’energia perché non può rimanere nazionale? Capisco la produzione, lì potremmo incassare le accise, ma il trasporto? Che se ne fa la Lombardia?».

Lo scippo nasce dal criterio della spesa storica. Per anni i servizi sono stati finanziati alle regioni e ai comuni che già li avevano. Zero asili, zero mense scolastiche, zero trasporti a tutti gli altri.

«La spesa storica andava di pari passo con la definizione dei fabbisogni standard e dei Lep. Era un calcolo transitorio. Di chi è la colpa se si è andati avanti così? Non è certo della Lombardia, ma è dei governi. Poi c’è il discorso di chi le risorse le sa utilizzare e chi no. Lo sa che restituiremo il 75% dei fondi europei, decine di miliardi?».

Il Nord spesso ha gestito quei fondi peggio del Sud.

«Purtroppo esistono anche nel Nord zone di inefficienza. Abbiamo un nostro “Sud”. Voglio raccontarle un episodio. Quando ero ministro mi presentarono una graduatoria: i Comuni che facevano meglio la raccolta differenziata. Al quarto posto, dopo alcune città del Nord, c’era Salerno. Non volevo crederci. Feci controllare, pensavo a un errore, ma a un secondo controllo verificai che era tutto vero. Allora andai a Salerno e volli conoscere di persona il sindaco. Era De Luca, siamo rimasti amici».

Appunto. Ammetterà che la favoletta di un Sud inefficiente e sprecone che non merita le risorse perché non sa gestirle non regge più.

«Ci sono buone pratiche anche al Sud, certo ne sono perfettamente consapevole. Ma se mi dice che il Nord ha depredato il Sud glielo contesto».

E lo scippo, dunque?

«Se mi convincete che effettivamente c’è stato uno scippo sarò il primo ad ammetterlo. In quanto al lavoro che farò in commissione non terrò la bandiera del Nord, non ho accettato per questo. Terrò alta la bandiera dell’autonomia».

Il falso mito dello "scippo" di risorse del Nord a danno del Sud: al Mezzogiorno la spesa pubblica pesa di più. a cura di OSSERVATORIO CPI,  Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, su La Repubblica il 26 settembre 2020. Lo Stato spende di più per i cittadini del Centro-Nord che per quelli del Mezzogiorno? Al netto della spesa per interessi e di quella pensionistica - che lo Stato non può decidere come allocare a livello territoriale - la risposta è negativa. Se poi si tiene conto del diverso costo della vita, il Meridione sembra beneficiare di un trattamento migliore rispetto al Centro-Nord. Di recente, il presidente dell'Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno (Svimez) ha dichiarato che "il Nord ha sottratto al Sud 60 miliardi all'anno". Come è stata ottenuta questa stima? Nell'analisi della Svimez vi sono una serie di peculiarità che a nostro avviso distorcono notevolmente il risultato. Innanzitutto, l'analisi è basata sui dati di spese ed entrate di fonte CPT (Conti Pubblici Territoriali a cura dell'Agenzia della Coesione) la cui somma per regioni è molto diversa dai totali nazionali ISTAT, un punto (di notevole gravità) che è già stato messo in evidenza dalla Banca d'Italia e dall'Ufficio Parlamentare di Bilancio. In secondo luogo, viene considerata la spesa  della cosiddetta P.A. allargata, ovvero l'insieme di società partecipate, enti locali e amministrazioni centrali. Di conseguenza, in questi 60 miliardi sono incluse le spese di società come Eni, Enel, Poste Italiane e Leonardo che sono quotate in borsa e non operano in base a obiettivi di perequazione geografica, bensì di profittabilità e che devono comunque cercare di soddisfare la domanda effettiva per i beni e servizi prodotti. È quindi pressoché inevitabile che la spesa di queste società sia maggiore nelle regioni più ricche, in cui la domanda è più elevata e  le opportunità d'affari sono tipicamente maggiori. Consegue che considerare tutta la P.A. allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica. In terzo luogo, nel calcolo dei 60 miliardi "sottratti" al Mezzogiorno, secondo Svimez, ci sono anche le pensioni, che rappresentano più di 250 miliardi all'anno di spesa pubblica. Tuttavia, lo Stato non ha alcun controllo sulla loro allocazione regionale: dato che al Nord i lavoratori (provenienti sia dal Nord che dal Sud) hanno versato più contributi, i pensionati settentrionali hanno mediamente diritto a pensioni più alte, il che fa inevitabilmente lievitare la spesa pubblica pro capite nelle loro Regioni. Infine, la Svimez non tiene conto delle differenze molto rilevanti nel costo della vita tra regioni.

La distribuzione regionale della spesa. Passando alla pars costruens, per fare un'analisi solida della distribuzione regionale della spesa, occorre fare riferimento all'aggregato della Pubblica Amministrazione (che a livello nazionale è calcolato dall'ISTAT, in base ai criteri Eurostat), la cui disaggregazione per regioni e macroaree è calcolata dalla Banca d'Italia.

 Tav. 1: Spesa pro capite della P.A.

Tav. 1: Spesa pro capite della P.A.

 

Centro-Nord

Mezzogiorno

Gap

SPESA NOMINALE PRO CAPITE (MEDIA 2014-2016, EURO)

11850

10900

-950

SPESA NOMINALE PRO CAPITE SENZA PENSIONI (MEDIA 2014-2016, EURO)

6800

7150

+350

SPESA PRO CAPITE SENZA PENSIONI A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO (MEDIA 2014-2016, EURO)

6550

8500

+1950

 

Tutti i dati sono al netto degli interessi sul debito. Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati della Banca d’Italia e ISTAT. Se si considera il dato grezzo dell'intera PA al netto degli interessi sul debito, con riferimento alla media del periodo 2014-2016, il Mezzogiorno appare leggermente svantaggiato nel senso che la spesa pro capite è pari 10.900 euro a fronte di 11.850 euro nel resto del paese, con un gap di 950 euro (Tavola 1, prima colonna). Va detto subito che questo dato non è statisticamente significativo perché, come si mostra più avanti, vi sono differenze significative fra regioni a Statuto ordinario e a Statuto speciale, nonché fra regioni di diverse dimensioni all'interno delle stesse macroaree. In ogni caso, moltiplicando questo gap per la popolazione del Mezzogiorno (20,5 milioni) si ottiene la cifra di 19,5 miliardi all'anno, che è rilevante, ma molto lontana dal dato citato dalla Svimez. Tuttavia, se si sottraggono le pensioni, sulla cui allocazione geografica il decisore politico non ha alcun controllo, la spesa pro capite di tutta la P.A. nelle varie regioni rimane abbastanza eterogenea, ma la "classifica" non sembra discriminare il Meridione rispetto al Centro-Nord; anzi il gap si rovescia a favore del Mezzogiorno e diventa positivo (+350 euro pro capite, Tavola 1, seconda colonna). L'altra correzione ai dati grezzi sulle uscite della P.A. muove dalla considerazione che nel Mezzogiorno i prezzi sono più bassi che al Centro-Nord; ogni euro di spesa in una regione del Sud ha quindi un potere d'acquisto - e quindi un valore reale - maggiore rispetto al resto del Paese. Per eseguire l'aggiustamento a Parità di Potere d'Acquisto (PPA) della spesa, è stata utilizzata l'unica fonte ufficiale disponibile che è rappresentata dalle soglie di povertà definite dall'ISTAT. La soglia di povertà nel Mezzogiorno è inferiore del 20 percento circa rispetto al Centro e del 24 rispetto al Nord, rispecchiando una considerevole differenza nel costo della vita. Quando si opera anche questa correzione, il gap diventa molto rilevante (+1950 euro pro capite) e decisamente favorevole al Mezzogiorno (Tavola 1, terza colonna). In valori assoluti, si tratta di una maggiore spesa "reale" nel Mezzogiorno pari a quasi 40 miliardi. Anche per quanto riguarda le singole Regioni, la spesa non pensionistica pro capite a Parità di Potere d'Acquisto non sembra penalizzare il Mezzogiorno, ma piuttosto appare favorire le Regioni a Statuto Speciale e quelle più piccole (Figura 1).

Il Mezzogiorno è discriminato? Per un'analisi più accurata occorre tenere conto delle differenza di spesa determinata da fattori diversi da quelli che sono oggetto di questa indagine, ossia la dimensione delle regioni (dato che vi sono notevoli economie di scala) e il loro status costituzionale (regioni a Statuto Ordinario e a Statuto Speciale). Per fare questo è necessario effettuare una regressione multivariata, che consenta di cogliere separatamente l'effetto della grandezza e dello status di ogni regione sulla spesa pro capite della P.A., lasciando che l'appartenenza al Mezzogiorno spieghi le differenze restanti. In altre parole, si individua la differenza nella spesa pro capite tra una regione del Mezzogiorno e una del Centro-Nord a parità di popolazione e status.

 

Tav. 2: la spesa della P.A. è più bassa al Mezzogiorno? (regressioni)

 

Tav. 2: la spesa della P.A. è più bassa al Mezzogiorno? (regressioni)

 

(1) Variabile dipendente:
Spesa PA pro capite

(2) Variabile dipendente:
Spesa PA pro capite
senza pensioni

(3) Variabile dipendente:
Spesa PA pro capite
senza pensioni e PPA



POPOLAZIONE (MILIONI)



-402,5
***



-341,7
**



-356,2
***

 

(-3,63)

(-2,78)

(-3,07)



STATUTO SPECIALE



2160,9
***



2398,9
***



2094,7
***

 

(3,54)

(3,55)

(3,28)



MEZZOGIORNO



-1560,1
***



-393,7



1397,1
**

 

(-2,92)

(-0,67)

(2,50)




COSTANTE




13758,6***
(25,00)




8421,9***
(13,82)




8219,4***
(14,27)

OSSERVAZIONI

21

21

21

 

0,74

0,65

0,69

 

Statistiche tra parentesi. *** significativo al 99%, ** significativo al 95%, *significativo al 90%. I valori di popolazione e spesa pro capite sono medie 2014-2016. Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati della Banca d’Italia e ISTAT. I risultati sono presentati nella Tavola 2. Come anticipato, la spesa pro capite è minore nelle regioni grandi (350-400 euro pro capite in meno per ogni milione di abitanti) e maggiore in quelle a Statuto Speciale (oltre 2.000 euro pro capite in più). Al netto di questi fattori, se non si escludono le pensioni dalla spesa della P.A., la differenza tra spesa pro capite nel Mezzogiorno e al Centro-Nord è significativa e negativa: i cittadini meridionali riceverebbero ciascuno circa 1.560 euro in meno (colonna (1)). Tuttavia, se si escludono le pensioni da questo calcolo, la differenza tra Sud e Centro-Nord non è più statisticamente significativa. In altre parole, il Sud non è discriminato nella distribuzione geografica della spesa pubblica nominale non pensionistica (colonna (2)). Infine, se si considera la spesa della P.A. a Parità di Potere d'Acquisto (PPA), ovvero se si tiene conto delle differenze nei prezzi, il Sud appare significativamente favorito, nell'ordine di quasi 1.400 euro pro capite (colonna (3)). Questo risultato dipende ovviamente dal fatto che quasi tutti gli stipendi pagati dalla P.A. sono uguali tra regioni e rispecchia quindi il loro maggior valore reale nel Mezzogiorno. In altre parole, tenendo conto anche delle differenze nel costo della vita, il Mezzogiorno riceverebbe un trattamento più generoso del resto dell'Italia. A livello aggregato, questa maggiore spesa pro capite equivarrebbe a circa 28,6 miliardi all'anno.

Quante risorse redistribuisce lo Stato? La combinazione tra un ampio divario in termini di PIL pro capite tra Centro-Nord e Meridione e una spesa pubblica nominale pro capite più equilibrata tra le due macroaree, fa sì che, anche includendo la spesa pensionistica e senza tenere conto delle differenze di potere d'acquisto, il peso della P.A. sul PIL regionale sia estremamente alto nel Mezzogiorno e più contenuto nel resto del Paese. Agli estremi ci sono la Lombardia, in cui la spesa pubblica è poco più del 33 percento del prodotto regionale, e la Calabria, dove questo dato raggiunge l'80 percento, una cifra davvero elevata. Poiché il peso delle entrate della P.A. sui PIL regionali è molto più omogeneo, l'esistenza di massicci trasferimenti (i cosiddetti residui fiscali) tra regioni è inevitabile (Figura 2). La Banca d'Italia calcola che nel periodo 2002-2016, i trasferimenti pubblici a favore del Mezzogiorno sono oscillati fra il 15 e il 20% del Pil dell'area; rapportato alla media del PIL 2014-2016, queste percentuali corrispondono a cifre annuali tra 57 e 76 miliardi di euro. Le regioni che hanno sostenuto la quasi totalità di quest'onere sono la Lombardia, l'Emilia Romagna, il Lazio, il Veneto, il Piemonte e la Toscana. Da parte della Svimez (e di molti meridionalisti) si argomenta che quello dei residui fiscali è un falso problema perché il prelievo riguarda gli individui, non i territori e perché i diritti di cittadinanza non possono variare in base alla residenza. L'argomento è comprensibile e in parte condivisibile. Occorre però tenere conto che in tutte le strutture federali è prevista una qualche corrispondenza fra la capacità contributiva di una regione e la sua spesa. Se si pensa che questa corrispondenza non possa o non debba verificarsi, allora non si capisce che senso abbia dire che l'autonomia delle Regioni prevista dalla Costituzione vada contemperata con i livelli essenziali delle prestazioni; bisognerebbe dire chiaramente che non si ritiene auspicabile alcuna forma di federalismo o tantomeno di autonomia differenziata. In ogni caso, non sembra in alcun modo accettabile distribuire in ragione della popolazione anche la spesa delle imprese partecipate che operano sul mercato, nonché le pensioni che dipendono dai redditi percepiti nel passato. Quanto alla questione delle Parità di Potere d'Acquisto, si può essere dell'opinione che gli stipendi pubblici e forse anche quelli privati debbano essere gli stessi in tutto il paese, ma non si può negare che un euro al Sud ha un potere d'acquisto - e quindi un valore - maggiore che nel resto del Paese. Questo insieme di fattori fanno sì che il Mezzogiorno d'Italia sia una della poche aree al mondo in cui il livello dei consumi (privati più collettivi) è superiore al PIL: sempre con riferimento al periodo 2014-2016, tale rapporto è pari a 1,025 nel Mezzogiorno e a solo 0,746 nel resto d'Italia. In un'altra nota di prossima pubblicazione, mostriamo che ciò è vero dagli anni cinquanta del secolo scorso ed è la ragione principale per la quale la bilancia commerciale del Mezzogiorno è costantemente in deficit, per cifre anch'esse tipicamente comprese fra il 15 e il 20% del PIL.

Conclusione e problemi irrisolti. Alla luce di queste considerazioni la dichiarazione del presidente della Svimez circa i 60 miliardi "sottratti" ogni anno dal Nord al Sud - al netto dei gravi limiti dei dati sottostanti - è vera soltanto se si considera l'intera P.A. allargata, senza tenere conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni). Questa dichiarazione è infatti ispirata ad un'interpretazione estremamente estensiva del principio costituzionale di perequazione della spesa pubblica, in quanto sottintende che la distribuzione geografica della spesa pro capite dovrebbe essere simile in tutte le aree del paese, includendo nella valutazione anche le imprese partecipate che operano con criteri di mercato e le pensioni che non possono che dipendere dai redditi passati. In ogni caso, per quanto riguarda la spesa della P.A. in senso stretto - e quindi la spesa che il decisore politico può decidere dove allocare - già al netto delle pensioni il Meridione non appare discriminato; se poi si corregge per il costo della vita sembrerebbe addirittura favorito. Questo trattamento, equo nominalmente e vantaggioso a Parità di Potere d'Acquisto si traduce in ingenti trasferimenti da parte delle amministrazioni pubbliche dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno. Questa considerazione è puramente quantitativa e non è detto che "più sia meglio": come mostrano gli indicatori della stessa Svimez, la qualità dei servizi pubblici al Sud è generalmente peggiore; quindi l'assenza di discriminazione nell'ammontare di risorse non esclude una carenza di servizi, anche essenziali, che pesa negativamente sulle persone e sulle imprese di molte aree del Mezzogiorno. Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani

L'operazione verità ritorna in Parlamento. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. Nel Paese dei bugiardi i cani miagolano e i gatti abbaiano. Poi arriva qualcuno che, come il Gelsomino del racconto di Gianni Rodari, inizia a dire pane al pane e vino e al vino e la verità viene a galla. Una favola? No. La storia della ripartizione delle risorse pubbliche tra il Nord ed il Sud e del modo in cui per anni è stato perpetrato lo  “scippo”. Una battaglia che questo giornale porta avanti da sempre e che ora verrà affidata a livello istituzionale ad una sorta di “sottocommissione” formata da Banca d’Italia, Istat e  Upb (Ufficio parlamentare di bilancio). Poi succede che grazie ad un articolo («Quei privilegi differenziati che come la bussola indicano sempre il Nord», a firma del professor Adriano Giannola, presidente della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), la questione finisca in Parlamento. E che un’interrogazione firmata dal senatore pentastellato Vincenzo Presutto e da altri 23 senatori M5S e la senatrice di Forza Italia Gabriella Giammarco, finisca sul tavolo del ministro dell’Economia chiamato a rispondere circa l’esistenza di una forte sperequazione tra Nord e Sud nell’allocazione della spesa pubblica a tutto vantaggio del primo: “il ministro Roberto Gualtieri chiarisca…”. Arriva in Parlamento. O meglio torna. La commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario guidata dalla deputata Carla Ruocco aveva infatti già avviato una indagine conoscitiva durata 6 mesi sui sistemi tributari delle regioni convocando in audizione tra l’ altro anche il ministro per gli affari regionali Francesco Boccia. Il primo passo dell’ operazione verità per smascherare le storture che l’attuazione del federalismo fiscale nella prospettiva dell’autonomia differenziata si trascina dietro.  

LA CAMPAGNA PREVENTIVA CONTRO IL SUD: “EVITIAMO SPRECHI”. Il Nord riceve annualmente 60 miliardi di euro più del Sud in termini di risorse complessive. Il costo delle erogazioni pensionistiche non coperto dai versamenti contributivi che va incluso nella valutazione della spesa pubblica attribuibile ai diversi territori e non spalmato sulla fiscalità generale. «Il Nord – si legge nell’interrogazione – riceve maggiori erogazioni per pensioni anticipate (metodo contributivo) grazie ad una platea di individui che, essendo entrati prima nel mondo del lavoro, godono della pensione per un numero maggiore di anni e che in genere hanno pensioni di importo superiore rispetto alle pensioni di vecchiaia». Va calcolato il complesso della spesa pubblica attivata da un aggregato pubblico ampio, insieme delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali, degli enti previdenziali e delle società partecipate. Le quali, di norma, attivano spese per importi maggiori al Nord rispetto al Sud. Sarà un caso da qualche mese a questa parte – fatalmente in vista del Recovery fund – è partita una campagna in direzione opposta e contraria. Prima il professor Andrea Giovanardi su Il Foglio, poi Giampaolo Galli e Giulio Gottardo (Osservatorio sui conti pubblici italiani) su Repubblica, hanno sostenuto che l’operatore pubblico non può decidere come allocare a livello territoriale. Né la spesa pensionistica (che dipende dai contributi versati), né le imprese pubbliche (che dipendono dalle regole del mercato. Con il paradosso che, essendo al Sud il costo della vita notevolmente inferiore rispetto al Nord, il Mezzogiorno risulterebbe addirittura favorito (sig..). Fin qui il dibattito sulla diversa allocazione delle risorse tra Nord e Sud. Con l’aggiunta di qualche ulteriore intervento finalizzato a scoraggiare l’utilizzo dei fondi del programma Next Generation Eu nel Mezzogiorno.  Sud. in quanto – hanno sostenuto di recente Francesco Drago e Lorenza Reichlin – nel Mezzogiorno non ci sarebbero gli interlocutori adatti, i soggetti che «possano dare le gambe». Per cui meglio, la conclusione meglio «evitare sprechi».

PRESUTTO: RISPETTARE ALMENO LA CLAUSOLA DEL 34%. Quanto tutto questo chiacchiericcio scomposto si ricolleghi al tema dell’autonomia differenziata, alla capacità fiscale di una regione e ai meccanismi perequativi è di tutta evidenza. Vincenzo Presutto è il vicepresidente della Commissione parlamentare bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale. Fa parte del gruppo dirigente pentastellato con la qualifica di “facilitatore” in ambito economico. Ma va da sé che l’interrogazione presentata ieri richiede una risposta tutta politica. Chiede in che modo si vogliano utilizzare i 209 i miliardi di euro che l’Unione europea ha concesso all’Italia. La quota più alta in assoluto, di cui una parte consistente per rilanciare lo sviluppo delle aree più arretrate. E chi è più arretrato del nostro Meridione, dove l’ultima serie di grandi interventi risale agli anni ’50, gli anni in cui operava la Cassa del Mezzogiorno? «L’Italia – ricorda Presutto – sarebbe chiamata per lo meno a rispettare la clausola del 34 per cento, il che darebbe al Mezzogiorno la disponibilità di 71 miliardi di euro, percentuale che allo stato dei fatti risulta inadeguata a colmare il divario tra Nord e Sud. Per la prima volta nascerà una sorta di sottocommissione. Un gruppo composto da un rappresentante di Banca d’Italia, Istat e l’Ufficio parlamentare di bilancio per stabilire i criteri e chiarire la discordanza tra le valutazioni della Svimez e quelle dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani e i dati di spese fonte CPT (conti pubblici territoriali elaborati dall’Agenzia della coesione)». Da qui l’opportunità di un confronto anche sul piano metodologico per un corretto utilizzo dell’informazione statistica nella valutazione dei flussi territoriali delle spese e delle entrate pubbliche.  Si chiede di fare chiarezza sulla ripartizione della spesa pubblica, fornire voci di spesa, valutare l’intervento pubblico per far luce sul reale gap esistente, superando qualsiasi contrapposizione di carattere accademico, e togliendo qualsiasi dubbio interpretativo. Quello che noi abbiamo “operazione verità”.

Ennesimo colpo al Sud: altri 70 milioni dirottati al Nord. Fondi Ue, Italia bocciata dalla Corte dei conti europea. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'11 novembre 2020. Un nuovo “sgarbo” sembra profilarsi nei confronti del Mezzogiorno a vantaggio del Nord, una sottrazione di risorse che vale 70 milioni. A segnalarlo è stato il deputato Paolo Russo, responsabile nazionale del dipartimento Sud di Forza Italia: «Per dare un nuovo colpo ai bilanci dei territori del Sud mancava solo l’adozione dei nuovi criteri per la revisione della metodologia dei fabbisogni standard dei Comuni appartenenti alle Regioni a statuto ordinario per il servizio smaltimento rifiuti». L’obiettivo, si è sostenuto, sarebbe costruire meglio i piani finanziari dei Comuni per lo smaltimento dei rifiuti. Ma la sostanza, ha avvertito Russo, « è che è destinata a incidere, a danno degli enti locali del Sud, sulla ripartizione del fondo di solidarietà perequativo nazionale dei comuni. Il risultato è, infatti, che i grandi centri del Nord saranno ulteriormente avvantaggiati. Questo governo quando c’è da togliere al Meridione è rapido ed efficiente, quando, invece, c’è da definire i fabbisogni standard sul fronte dei trasporti, degli asili o della salute cincischia, rallenta o ritarda. Ci dicono che questa sperequazione ulteriore valga poco in termini economici e la chiamano sterilizzazione. Per me è un altro regalo al Nord che vale 70 milioni di euro tolti al Sud».

I FONDI STRUTTURALI. Ieri, intanto, la Corte dei conti europea ha bacchettato l’Italia per l’uso dei fondi strutturali. Il Paese è al penultimo posto in Europa per l’utilizzo dei fondi strutturali europei nel 2019. Con il 30,7% di fondi spesi – rispetto a una media europea del 40% – condivide la posizione di fanalino di coda con la Croazia, che fa anche peggio arrivando solo al 30% e si aggiudica l’ultimo posto nella classifica che vede in testa la Finlandia con il 66,2%, seguita dall’Irlanda con il 60,6% e dal Lussemburgo con il 57%.

LA CLASSIFICA. La “pagella” – che suona come l’ennesima reprimenda nei confronti del Paese in merito alla sua capacità di spesa, alimentando le “perplessità” dei Paesi frugali sulla reale possibilità di mettere a terra le risorse del Next Generation Eu – compare nella relazione in cui la Corte europea paragona l’assorbimento dei fondi del 2019 e del 2012, rappresentativi dei cicli di spesa a valere sui bilanci settennali della Ue per il 2007-2013 e il 2014-2020. La “giustificazione”, accompagnata dai numeri a sostegno dell’impegno per un cambiamento di rotta, arriva dal ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, in un’audizione in commissione Politiche europee del Senato.

La dotazione complessiva di tutti i Programmi dell’attuale ciclo vale oltre 53 miliardi, due terzi dei quali sono destinati alle regioni del Sud, sia meno sviluppate sia in transizione, ha ricordato il ministro. «I ritardi accumulati in partenza dal ciclo di programmazione ne hanno reso complessa l’attuazione, ma negli ultimi mesi abbiamo registrato importanti segnali di accelerazione – ha detto Provenzano – Diversamente da quanto accaduto negli anni precedenti, tutti i Programmi operativi hanno raggiunto le soglie minime di spesa previste al 31 dicembre 2019».

LA CONTESTAZIONE. I ritardi ci sono stati, quindi, ma il ministro contesta la comparazione con il ciclo precedente adottata dalla Corte dei conti europei per due motivi: innanzitutto, per «il ritardato avvio del ciclo 2014-20, a seguito di un negoziato molto lungo, mentre lo sforzo delle Amministrazioni regionali e centrali era ancora tutto indirizzato alla chiusura del ciclo precedente onde evitare di perdere risorse. E poi la regola dell’N+3 che dilata di un ulteriore anno i tempi di assorbimento rispetto al ciclo precedente (quando valeva l’N+2)». Tuttavia, ha riconosciuto il ministro, «nonostante il raggiungimento del target, la situazione di avanzamento della spesa a fine 2019 non era affatto soddisfacente e si attestava a un dato tra i più bassi dell’intera Ue. In particolare, nelle regioni del Mezzogiorno e nel Centro Nord era pari, rispettivamente a circa il 26% e il 32%». Il monitoraggio Igrue, aggiornato al 30 agosto, mostra «un apprezzabile miglioramento», destinato, secondo Provenzano, a migliorare ulteriormente quando saranno «visibili» gli effetti della riprogrammazione delle risorse nell’emergenza Covid 19 operata con le Regioni per circa 11,5 miliardi. Da febbraio ad agosto, intanto, risulta una crescita degli impegni dal 60,5% al 69,2 e dei pagamenti dal 31,7% al 39,2% dell’intera spesa programmata, che vale 3 miliardi. I programmi procedono in maniera disomogenea, alcuni sono particolarmente in ritardo, come i Por di Calabria, Marche e Abruzzo in ambito Fers, o di Sicilia, Campania e Abruzzo per il Fse. E i comunque riguardano anche le amministrazioni centrali. Per quanto riguarda l’obiettivo di spesa di fine 2020, stimato in 12,1 miliardi di quota Ue, «restano da certificare e richiedere rimborsi per circa 2 miliardi di contributi comunitari», pertanto l’Italia, ha affermato il ministro, è «in linea con gli impegni previsti».

IL CICLO 2021-2027. Intanto, per quanto riguarda il prossimo ciclo 2021-2027, ha detto Provenzano, l’Italia è tra i pochi Paesi che vede aumentare la dotazione di Fondi Ue di 6,8 miliardi. Inoltre, ha aggiunto, «a seguito di un lungo confronto con il Mef abbiamo deciso» in legge di Bilancio 2021 «di aumentare l’impegno finanziario di cofinanziamento nazionale dei programmi di uso dei fondi strutturali Ue rispetto ai minimi fissati dalla Commissione, così riequilibrare e aumentare il cofinanziamento anche nelle Regioni meno sviluppate e in quelle in transizione. Questo ci porterà ad avere una dotazione di fondi strutturali, tra cofinanziamento europeo e cofinanziamenti nazionali, di circa 80 miliardi di euro. Se ci pensate, è un ammontare di aiuti superiore alla quota dei sussidi, ad esempio, della Recovery and Resilience Facility». Quanto al Next Generation Eu, il ministro ha ribadito la necessità che la clausola del 34% per il Sud sia «applicata anche alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma – ha sottolineato – come una quota minima».

TRASPORTI, I FURBETTI DELLE REGIONI. Il virus sul bus porta i soldi al Nord. Roberto Napoletano il 14 ottobre 2020 su Il Quotidiano del Sud. I governatori della terza camera dello Stato fanno finta che devono rispettare il tetto dell’80% e chiedono una compensazione per il restante 20%, ma i pulmini viaggiano zeppi, le persone sono strette come sardine. Per cui gli incassi saranno quelli di sempre, ma a questi incassi vogliono aggiungere pure le compensazioni. Che federalismo è quello che mette la cassa dei ricchi prima di ogni cosa e che ignora la perequazione perfino in tempi di Pandemia? Governano i governatori. Sua Maestà, Stefano Bonaccini, parla e si muove come uno specialissimo Presidente del Senato delle Regioni di impronta monarchica. Nessuno gli ha dato questo mandato, ma lui lo esercita e lo fa a modo suo. Prima i ricchi, poi i poveri. Volessimo affrontare per una volta un tema serio: come mai gli investimenti in sanità sono pari a 85 euro pro capite per ogni cittadino emiliano-romagnolo e a 16 euro pro capite per ogni cittadino calabrese? Buon ultimi a certificare questi numeri-verità sono arrivati i ricercatori del Crea di Tor Vergata che si sono addirittura spinti a dire che sull’efficienza delle singole regioni pesa per il 40% la quantità di finanziamenti ricevuti. Chissà che cosa si inventeranno i professorini in servizio permanente effettivo della squadra della diseguaglianza per negare questa elementare evidenza! Sono arrivati al punto di mettere in discussione la statistica nazionale pur di proteggere l’indifendibile. Francamente impressiona. Per chi come questo giornale sottolinea dal primo giorno di uscita la gravità della questione istituzionale meridionale per le evidentissime incapacità della sua classe dirigente c’è proprio da sorridere nel vedere come ci si affatica contro ogni regola e ogni logica a smontare quello che non è smontabile. Vale a dire che, grazie al trucco della spesa storica, in sanità scuola e trasporti si fanno figli e figliastri fino al punto che le Regioni del Nord si azzannano perché lo Stato rifinanzi i servizi aggiuntivi di pulmini e scuola-bus mentre il Sud questi bus navetta non li ha mai visti nemmeno in cartolina. Scusate, una domanda: ma questa apertura delle scuole Sua Maestà Bonaccini della Sinistra Padronale e i pari-dignitari Fontana e Zaia della Destra a trazione leghista se la aspettavano o no? Sono stati presi in contropiede, come mai? A queste linee aggiuntive, visto che loro i bus navetta ce li hanno, non potevano pensarci prima? Ora Zaia vuole la didattica a distanza, come facciamo con le aree interne del Nord e quasi tutto il Sud che la banda ultra veloce se la possono solo sognare? Ma forse forse, siamo arrivati al punto che non esiste più l’impresa globale o l’impresa nazionale, ma solo quella regionale pagata dagli altri e, cioè, sovvenzionata dallo Stato? Che federalismo è quello che mette la cassa dei ricchi prima di ogni cosa? Che ignora la perequazione perfino in tempi di Pandemia. Che arriva addirittura a fare affari sul Covid. Sui trasporti locali i controlli sono una finzione, non esistono, non sono stati proprio previsti, probabilmente neppure potrebbero funzionare. I ras regionali non li vogliono svuotare, i loro bus. Ovviamente non esiste il biglietto nominativo, zero tracciabilità. Morale: fanno finta che devono rispettare il tetto dell’ottanta per cento e chiedono una compensazione per il restante 20%, ma i pulmini viaggiano zeppi, le persone sono strette come sardine. Per cui gli incassi saranno quelli di sempre, ma a questi incassi vogliono aggiungere le compensazioni negate a ristoratori e operatori turistici, questi sì, davvero in brache di tela. Non sappiamo come fare a rinnovare la cassa integrazione e, al di là degli annunci fuori misura e fuori luogo di chi guida la politica economica italiana, la Grande Depressione avanza, e il nostro problema è quello di soddisfare le pretese di lorsignori governatori! Gli stessi che fanno le pulci al governo per qualunque tipo di provvedimento prenda ma non hanno le carte in regola per rimproverare alcunché, e non hanno nemmeno la dignità morale di ragionare in termini solidaristici. Quando la finiranno di rivendicare le loro autonomie e le loro competenze sul territorio solo se devono bussare a quattrini? Ci ha colpito che la Francia nel suo piano nazionale di Recovery Fund ha assegnato la quota più rilevante (36 miliardi) alla coesione sociale e territoriale, lo ha fatto per tabulas e senza grandi proclami. Questo accade nella nazione della città-Stato per eccellenza. Presidente Conte, non c’è più tempo per traccheggiare e fare compromessi con i mille cantastorie dell’interesse predominante e del miope privilegio dei ricchi. Per noi il Recovery Plan deve avere una sola declinazione: l’equità sociale e territoriale e il superamento di una frammentazione decisionale che ha nella incapacità di molti governatori meridionali e nell’arroganza di molti governatori del Nord la causa prima del declino strutturale italiano.

Resta un mistero lo stato di soggezione dei governatori del Sud nei confronti di quelli del Nord.

Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Invece di elemosinare posti di terapia intensiva e qualche assunzione in più nella sanità per fare fronte alla seconda ondata della pandemia, perché i Capi delle Regioni del Sud non si rivolgono tutti insieme alla Corte Costituzionale affinché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola? Che cosa impedisce loro di chiedere l’attuazione della legge Calderoli e vedere finalmente riconosciuti i diritti di cittadinanza degli abitanti delle loro comunità? E che dire del ministro Gualtieri che parla dell’economia italiana come di una specie di turbo che umilia le grandi economie del mondo! Ma dove vive? Siamo allibiti. Viviamo i giorni durissimi della seconda ondata della Pandemia. Il mondo è tornato a tremare, noi non sappiamo che cosa ci aspetta in casa. Lo sceriffo De Luca ha voluto più di tutti chiudere la Campania quando il Covid non c’era e rischia ora di doverla richiudere perché ha terrorizzato di nuovo i suoi cittadini. Che si sono rimessi tutti in fila a fare il tampone rischiando di moltiplicare i contagi perché nulla è stato fatto in questi lunghissimi sei mesi per garantire servizi celeri e rafforzare la medicina sul territorio. Ovviamente l’economia della regione più importante del Mezzogiorno è stata chiusa, ma nessuno se ne cura perché i professionisti dell’anti-Covid dispongono della vita umana e della vita economica delle persone e i Capi delle Regioni sanno solo presentare il conto allo Stato, pavoneggiarsi in tv da mattina a sera, insidiare Crozza come imitatore professionale e, in genere, come showman. I ristoranti sono di nuovo vuoti, il trasporto veloce e quello aereo sono in ginocchio. Il mondo dell’intrattenimento ha fatto finta di ripartire, la scuola se la è cavata meglio del previsto anche se soffre e le Italie pure nelle sofferenze sono ovviamente due. Il pubblico impiego ha persone di valore che si sacrificano, ma non ha gli strumenti digitali per fare da casa quello che faceva in ufficio e dà il suo contributo silenzioso al lento spegnersi della piccola economia di consumi. Tutti i dipendenti privati che sono in cassa integrazione sono consapevoli che l’anno prossimo rischiano di rimanere a casa. Il quadro, insomma, è nerissimo, ma non serio. Al punto che per unire farsa alla farsa tocca di vedere un ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che a Porta a Porta, sotto gli occhi sbigottiti di Bruno Vespa, parla dell’economia italiana come di una specie di turbo che umilia le grandi economie del mondo. Scusatemi, ma dove vive? E ancora: che cosa deve accadere per capire che il gallismo dei Capi delle Regioni porta l’Italia alla rovina? È possibile continuare, anche ai tempi del Covid, in questo circuito perverso di miopi egoismi che non è nient’altro che l’Italia ridotta in venti staterelli? Ma quale dignità possono avere davanti ai nostri occhi i Capi delle Regioni del Nord che si nascondono dietro lo scudo della spesa storica per fare incetta di spesa pubblica sociale e infrastrutturale e, ancora di più, i Capi delle Regioni del Sud che elemosinano posti di terapia intensiva e qualche assunzione in più nella sanità ma si guardano bene dal ricorrere alla Corte costituzionale per chiedere l’attuazione della legge Calderoli e vedere finalmente riconosciuti i diritti di cittadinanza degli abitanti delle loro comunità? In quali mani siamo finiti! Che cosa impedisce ai Capi delle Regioni del Sud di rivolgersi tutti insieme alla Corte costituzionale perché cessi lo sconcio della spesa storica e si riconoscano finalmente gli investimenti dovuti in sanità e scuola? Possibile che neppure l’occasione storica del nuovo piano Marshall europeo – le somme oggi in gioco sono molto di più di quelle di allora – permetta di riequilibrare la spesa sociale e di avviare la riunificazione infrastrutturale immateriale e materiale delle due Italie? Per noi che in assoluta solitudine abbiamo condotto l’operazione verità e denunciato la grande balla di un Sud che vive sulle spalle del Nord, resta un mistero insondabile lo stato di soggezione dei governatori del Sud nei confronti dei governatori del Nord. Non si tratta di dichiarare guerra a nessuno, ma di rinunciare alla pratica poco dignitosa di presentarsi sempre con il cappello in mano e di imboccare la via maestra che consente di ristabilire la verità una volta per tutte. Nell’interesse dei ricchi come dei poveri. Se non si passa da qui l’Italia tutta conoscerà la fase estrema del suo lunghissimo declino e uscirà dal novero delle grandi economie industrializzate.

SUD, DOVE TUTTO CIO’ CHE FA LO STATO E’ MENO DELLA META’ DEL NORD. Raffaele Vescera il 04.10.2020 su Il Movimento 24 agosto. La differenza di dotazione delle infrastrutture tra Nord e Sud è semplicemente scandalosa, come si evince dalla seguente tabella:

Chilometri di autostrada ogni 100 kmq. Nel Nord-Ovest 3,3%. Nel Sud l’1,7%.

Chilometri di ferrovia ogni 100 kmq. Nel Nord-Ovest del 7,2%. Al Sud del 4,7%.

Alta velocità ferroviaria, nel Nord è del 9,6. Nel Sud del 1,4%.

Aeroporti: Tra Albenga e Trieste, ben 17, al Nord 1 x 50 km. Tra Napoli e Bari solo 1, al Sud 1 x 300 km.

Porti: Porto franco a Trieste, inclusione del porto di Genova nella nuova “via della seta”, con esclusione dei porti del Sud, Messina, Gioia Tauro, Taranto etc. Ma questo è il meno, tra Bari e Napoli non esiste un solo treno che colleghi le due maggiori città del Sud continentale, mentre da Bari a Reggio Calabria occorrono ben 14 ore di treno per fare 450 km, a una velocità media di 30 km l’ora. Il nordico ministro Delrio, nel precedente piano ferroviario da 5 miliardi di euro ne ha destinati il 95% al Nord per 69 progetti e 2 al Sud, promettendo di intervenire per migliorare la condizione della ferrovia jonica, chiudendola però per 4 anni, il sospetto che voglia chiuderla per sempre è legittimo. E sia, tutto ciò è parte della Questione meridionale, mentre i media denunciano scandalizzati presunti sprechi al Sud, al Nord si investe e si spreca per davvero, dall’inutile autostrada doppione Bre-Be-Mi, alla pedemontana lombarda per la spesa di svariati miliardi di euro, fino al vergognoso costo dell’alta velocità al Nord di 67 milioni di euro a km, la stessa che in Francia è costata 10 e in Spagna 9. Alta velocità italiana che si ferma a metà dello Stivale, fatta con i soldi stanziati per farla arrivare a Lecce sulla dorsale adriatica a Palermo su quella tirrenica. Tutti ci chiediamo come mai il Sud non si ribelli unito a fronte di tale vergogna, Antonio Gramsci ne spiegò le ragioni nel suo “Il Risorgimento”, eccole, valide ancora oggi: “Il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco “urbano” (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmi e di imposte ed era tenuto “disciplinato” con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini… Misure poliziesche-politiche con i favori personali al ceto degli “intellettuali” o “paglietta”, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permesso di saccheggio impunito delle amministrazioni locali…cioè di incorporamento “a titolo personale” degli elementi più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con particolari privilegi giudiziari, burocratici etc. Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece lo strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata.” Che altro aggiungere alle esaustive parole di Gramsci? Solo una, la mafia, mai combattuta dallo Stato, in quanto anch’essa accessorio di polizia segreta utile alla spoliazione del territorio meridionale e al successivo trasferimento di capitali da investire al Nord.

LE DUE ITALIE ANCHE PER I TAMPONI. IL SUD SOTTO LA MEDIA NAZIONALE. L’obiettivo dei 400mila al giorno è ancora lontano e le procedure sono ancora lente e farraginose. Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Milioni di mascherine sfilano per strade delle città italiane in ossequio all’ultimo Dpcm adottato per fronteggiare l’emergenza coronavirus dopo quasi 10 settimane di ricrescita dei contagi giornalieri. Ma sull’efficacia della protezione, indossata all’aperto, la comunità scientifica si è più volte divisa. Lo stesso Andrea Crisanti – non certo annoverabile nel partito dei negazionisti – ha recentemente spiegato a Sky Tg24 che la stessa, da sola, non è sufficiente per risolvere il problema.

NUMERO MAGGIORE. Il microbiologo da mesi sostiene, infatti, che l’unica vera arma contro il Covid19 sia estendere il numero di tamponi effettuati fino a portarlo a quota 400mila ogni 24 ore. L’auspicio si scontra, però, con la realtà quotidiana dei test realizzati, che fanno segnare un record quando si avvicinano alle 130mila unità (come accaduto ieri). Un dato che, fra l’altro, risente dei mezzi e dell’efficienza dei singoli sistemi sanitari regionali, col risultato che il Paese – per quanto riguarda l’aggressione al virus – si presenta più che mai a macchia di leopardo. La questione non è di poco conto: aumentare la quantità di tamponi significa non solo intercettare per tempo contagi e potenziali focolai ma anche valutare l’andamento e l’incidenza dell’epidemia in termini statistici. A oggi gli unici dati “reali”, a parte i decessi, sono quelli che derivano dalle ospedalizzazioni (4.473 secondo l’ultimo bollettino) e – all’interno di queste – dalle terapie intensive (387). Va da sé che questi numeri hanno un peso maggiore o minore nella valutazione della gravità della pandemia in Italia a seconda della quantità di persone attualmente positive. Le oltre 70mila registrate ieri sono, quasi certamente, solo una frazione di un volume più ampio, i cui contorni possono essere definiti solo allargando il campione di soggetti testati. Semplificando: se in Italia ci fossero 10 ricoverati a fronte di 1000 positivi la situazione sarebbe meno grave rispetto a un rapporto di 10 a 100.

IL REPORT E I RITARDI. Ma sul punto siamo ancora indietro, specie in alcune zone del Paese. Lo dimostra l’ultimo istant report sul Covid19 realizzato dall’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università cattolica del Sacro Cuore. A oggi, spiega lo studio, la media nazionale di tamponi effettuati ogni mille abitanti è pari a 10,13. Fra le regioni che superano questo valore non ce n’è nemmeno una del Mezzogiorno. In testa troviamo il Veneto con 17,67; seguono Pa di Trento (17,55), Friuli Venezia Giulia (16,07), Pa di Bolzano (14,64), Umbria (12,68), Toscana (12,5), Emilia Romagna (12,27), Liguria (12,13) e Lazio (12,05). Se si eccettuano Lombardia (appena sotto il coefficiente mediano con 10,12), Abruzzo, Piemonte Valle d’Aosta e Marche, i valori sotto la media nazionale sono interamente appannaggio di Sud e Isole. La peggiore è la Puglia (5,32), poi Calabria (5,54) e Sicilia (6,39). La Campania, che sta facendo registrare continui boom di contagi, non fa meglio (7,17). Le regioni dunque, sottolinea il documento allegato al report, “continuano a differenziarsi in termini di strategia di ricerca del virus attraverso i tamponi, anche se il trend nazionale è in aumento dalle scorse settimane”. Sullo sfondo dell’andamento altalenante dei tamponi è la questione dei costi. La stessa Altems ha calcolato che dal 24 febbraio ai primi di settembre la spesa sostenuta dal Sistema sanitario per l’individuazione dei casi di Covid è stata pari a oltre 300 milioni di euro. Ipotizzando una media di 35 euro per tampone – il prezzo in realtà varia di regione in regione – la stessa Scuola ha calcolato quanto viene investito in ciascun distretto territoriale nell’attività di ricerca del virus. In testa alla classifica questa volta troviamo la Lombardia dove, nella settimana dal 30 settembre al 6 ottobre, sono stati spesi circa 4 milioni e 500mila euro. Seguono il Veneto (poco meno di 3 milioni), il Lazio (più di 2 milioni e 500 mila) e l’Emilia Romagna (quasi 2 milioni e 400mila). In coda c’è la Valle d’Aosta – anche per una questione legata all’esiguità della popolazione – ma subito dopo troviamo due regioni del Sud: Molise (neanche 70mila euro) e Basilicata (poco più di 139mila e 500). Nel panorama del Mezzogiorno la regione dove si è speso di più nello stesso periodo è la Campania (oltre un milione e mezzo di euro). Un’inchiesta dell’associazione Altroconsumo offre, invece, un quadro interessante sui cosiddetti “tamponi volontari” eseguiti da persone che sospettano di essere entrate in contatto con potenziali contagiati o accusano sintomi riconducibili al Covid. Per accorciare i tempi di attesa del Ssn questi individui si rivolgono spesso a laboratori privati, nei quali i costi risultano spesso elevati. L’indagine ha riguardato 154 strutture di questo tipo situate in sei regioni. In Lombardia il prezzo richiesto può andare dai 70 ai 152 euro, in Veneto dai 65 ai 102. Dalla Campania – unico territorio meridionale entrato nel campo d’analisi – non sono arrivati dati utili allo studio per quanto riguarda i tamponi. Tuttavia per l’alternativo test sierologico possono essere chiesti dai 25 ai 60 euro. Costi elevati un po’ ovunque quindi. Ma sull’efficienza delle strutture anche in questo caso emergono importanti differenze fra Nord e Sud. “Più di tre volte su dieci l’appuntamento è addirittura per il giorno stesso – afferma Altroconsumo -. Non mancano però le eccezioni: in Campania e in Lazio, per esempio, nella prima metà di settembre non era possibile eseguire il tampone privatamente”.

IL VERO TIMORE. I dati ancora bassi relativi all’attività di testing preoccupano in vista dell’incipiente stagione delle influenze che rischia di mandare in tilt il Ssn. «Abbiamo speso miliardi per il bonus bici e i banchi, invece di investirli per creare un sistema sanitario di sorveglianza– si è lamentato di recente Crisanti a Repubblica – a fine agosto ho presentato un piano per quadruplicare i tamponi al governo che lo ha sottoposto al Cts. Poi non ne ho saputo più nulla»

La sanità iniqua smascherata anche dal virus: per i pazienti del Nord ci sono sempre più soldi. Complice il sistema della “spesa storica” che lo penalizza, il Sud continua a ricevere risorse insufficienti dallo Stato. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. I numeri del turismo sanitario dal Sud verso il Nord raccontano da anni la “malattia” del sistema sanitario del Mezzogiorno con cui i suoi cittadini sono costretti quotidianamente a fare i conti per assicurarsi le cure. La pandemia ha mostrato all’intero Paese la gravità della situazione, certificando che il diritto alla salute si declina su base territoriale. La prima ondata è stata “contenuta” nel meridione, ma la seconda si annuncia molto più minacciosa, come dimostra il boom dei contagi in Campania e il tasso di ospedalizzazione dei pazienti Covid al Sud rispetto alla media. Mettendo alla prova un sistema già in forte sofferenza. E che da anni è costretto a fare i conti con una dotazione di risorse da parte dello Stato inferiore rispetto al resto del Paese, come dimostra anche la ripartizione del Fondo sanitario nazionale di quest’anno.

I NUMERI DEL DIVARIO. Qualche numero: per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 lo Stato spenderà complessivamente 1.826 euro pro capite, contro i 1.918 riservati a un emiliano e i 1.877 a un veneto. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827. La Calabria veste i panni della “Cenerentola”, con appena 1.800 euro per ogni suo cittadino contro i 1.916 per ciascun friulano, i 1.935 di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 della Toscana. Come accade ormai da oltre 15 anni, il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, complice il meccanismo della spesa storica. Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi del fondo sanitario 2020, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Il quadro della spesa pro capite fotografa chiaramente le disparità: per la salute e le cure di un pugliese lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite, mentre la Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi – 1.880 euro per ogni sua cittadino – per la sua sanità che pur non ha dato una bella prova di sé durante l’emergenza Coronavirus. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Ancora: il Friuli Venezia Giulia, che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino; il Piemonte, che pure negli ultimi anni come ha certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Infine, la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite.

L’INCREMENTO. Negli ultimi 10 anni, poi, sempre le regioni del Nord hanno registrato un incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale maggiore rispetto alle altre: tra il 2010 e il 2020, infatti, la quota della Lombardia è cresciuta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, al contrario, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei regioni settentrinali hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%, mentre altrettante regioni del Sud, che erano già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solamente dell’1,75%, cioè oltre mezzo punto percentuale in meno. Fatti i conti, quindi, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. E chi volesse giustificare questo stato di cose con una migliore performance nella gestione delle risorse da parte delle Regioni del Nord troverebbe una facile smentita nei conti del settore sanitario che tra il 2018 e il 2019 registrano un peggioramento del disavanzo del 10 per cento: dai 990 milioni di euro del 2018 si è infatti passati a poco meno di 1,1 miliardi di euro nell’esercizio appena concluso.

LE RESPONSABILITÀ. Un peggioramento che, come ha certificato la Corte dei conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, è da ricondurre «in prevalenza alle Regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019». «“Un risultato – si legge ancora nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata». Le regioni in Piano, sostanzialmente quasi tutte quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri, mentre quelle a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le differenze tra le Regioni emergono anche dal numero del personale impiegato nella sanità: la Campania conta 5,8 milioni di residenti e può contare soltanto su 42mila operatori sanitari; in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, i dipendenti a tempo indeterminato impegnati negli ospedali supera di poco le 35mila unità, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, in Emilia Romagna (4,4 milioni) sono invece oltre 57mila mentre in Lombardia si arriva quasi alla soglia delle 100mila unità.

IL DIRITTO ALLA SALUTE NON È UGUALE PER TUTTI. Anche in pandemia il Nord prende più soldi per gli ospedali. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2020. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino. Il diritto alla salute è costituzionalmente garantito, ma lo Stato italiano non spende la stessa cifra per la cura dei suoi cittadini. Per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 spenderà complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e i 1.877 ad un veneto. È questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale dell’anno in corso. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spetta appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana. Chi sperava in una inversione di rotta almeno dopo una pandemia che ha stravolto le nostre vite e i nostri sistemi sanitari resterà deluso. Il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. È un dato di fatto certificato che le Regioni settentrionali continuano a ricevere maggiori fondi, è lo scippo della spesa storia che prosegue. Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi del fondo sanitario 2020, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino.

La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia ancora il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%.

Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

Si dirà, le Regioni del Nord ricevono più soldi perché le spendono meglio. Falso mito. Tra il 2018 e il 2019, in Italia si è registrato un peggioramento del disavanzo nei conti del settore sanitario del 10 per cento: dai 990 milioni del 2018 si è passati a poco meno di 1,1 miliardi nell’esercizio appena concluso. Un peggioramento – certifica la Corte dei Conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica – da ricondurre “in prevalenza alle regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019”. I giudici contabili stanno parlando proprio delle Regioni del Nord, lo chiariscono in un passaggio successivo: “Un risultato – si legge nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata”.

Le regioni a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le regioni in Piano, cioè sostanzialmente quasi tutti quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri. Le differenze sono palesi anche sul numero di dipendenti a disposizione: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari. 

L'Altravoce dell'Italia. Le due Italie. SUDISMI - Direbbero perfino che la terra è piatta pur di non ammettere i miliardi sottratti al Sud. Pietro Massimo Busetta l'1 ottobre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ieri audizione in Commissione Federalismo fiscale del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Francesco Boccia. La sua relazione si può riassumere nella determinazione di calcolare i livelli essenziali di prestazione prima di procedere a qualunque allargamento delle autonomie differenziate. Oltre che aspettare, prima di operare, l’equiparazione infrastrutturale. Buone notizie quindi, perché se un marziano venisse dallo spazio si renderebbe immediatamente conto che i Paesi sono due: per infrastrutturazione, per servizi scolastici, per Università , per occupazione, per servizi sociali. Si contestano i dati del furto, ormai diffusi in tutto il Paese, perché vi sono i fondi del Recovery Plan, una quantità più rilevante dati dall’Unione proprio perché il Paese ha questi territori arretrati, che devono essere distribuiti. Ma c’è un ladro che si aggira nel Paese. Ormai è riconosciuto anche dallo stesso protagonista che è reo confesso. Prova a difendersi dicendo che si è vero che ha rubato, ma non quanto qualcuno direbbe, che ha rubato meno, ma è confesso. Parliamo dei 60 miliardi che ogni anno verrebbero sottratti al Sud se nascere a Reggio Calabria fosse indifferente rispetto a nascere a Reggio Emilia. Se invece passasse il principio che ognuno si trattiene il reddito che produce questo furto non ci sarebbe. Ma in quel caso i brianzoli, i bergamaschi o i comaschi dovrebbero stare attenti. In quel caso, anche la ricca Cortina potrebbe sostenere che i suoi studenti hanno diritto ad essere presi in auto la mattina da un autista privato, perché il loro reddito prodotto lo consente e pazienza se nei borghi montani si dovrebbero chiudere alcune scuole. La Svimez ed il nostro quotidiano, sulla base dei dati dei conti territoriali, rilevano che se si calcola quanto viene speso al Sud ed al Centro Nord si rileva una differenza di 60 miliardi sottratti al Mezzogiorno e dati in sovrappiù all’altra parte del Paese. Il calcolo viene fatto sulla base della spesa procapite effettuata includendo aziende tipo Ferrovie dello stato, Anas, Fincantieri, Poste italiane. Quello che viene chiamato settore pubblico allargato. Ovviamente le potenti lobbies nordiste, che vedono in tale affermazione un rischio per una distribuzione dei fondi, che non li veda prevalere come sempre è accaduto, si mobilitano. Soprattutto dopo un’intervista al presidente della Svimez, Adriano Giannola, che contestava lo scippo e individuava una qualche possibilità che ci fosse un criterio di riequilibrio. Apriti cielo, parte all’attacco un professore ordinario di diritto tributario a Trento, Andrea Giovanardi, e poi arrivano le truppe pesanti. Il laboratorio diretto da Carlo Cottarelli con un articolo firmato da Gianpaolo Galli, già direttore del centro studi Confindustria per anni e poi deputato al Parlamento per il PD. Quale il tema? Per riassumerlo vero è che vi sono queste differenze ma il calcolo è errato per tre motivi. D’altra parte se i numeri li torturi prima o poi ti diranno quello che vuoi far dire loro. È lì tabelle, grafici, per dimostrare che la terra è piatta, che l’uomo non è mai andato sulla luna, che i vaccini non hanno effetti e che le due torri gemelle sono state abbattute dal Pentagono. Le contestazioni: la prima che l’ammontare delle pensioni non deve essere inserito perché esse sono state pagate dai contribuiti dei lavoratori. Ed il fatto che per anni molta parte delle pensioni sia stata pagata con la fiscalità generale, considerato che il sistema è stato prima solo retributivo ed adesso misto? Non conta nulla, non incide in questo calcolo per gli illustri ricercatori. Il secondo tema riguarda la contestazione sull’inserimento di società come le Ferrovie dello stato o dell’Anas o delle Poste. Il tema è che queste ed altre sono società che seguono le regole del mercato e quindi investono laddove il mercato esiste. Giustamente quindi non si fa il ponte sullo stretto di Messina che servirebbe a trasportare quattro ceste di arance, che possono tranquillamente viaggiare con i ferry boat! Ma la dimensione di piattaforma logistica del Mediterraneo del Paese ed il collegamento tramite Augusta a Suez? Irrilevante! Non pervenuta. Lo sviluppo di un territorio grande più di un terzo del Paese che viene lasciato nel sottosviluppo, con 100.000 persone che ogni anno emigrano con un danno di 20 miliardi, più di quanti poi ne arrivano con i fondi strutturali con tutte le difficoltà di spese che esse comportano? Non è rilevante. Terzo ed ultimo elemento: in ogni caso il costo della vita al Sud è più basso. Quindi se diamo 50 milioni per costruire la linea di alta velocità con essi al Nord si possono costruire un chilometro mentre al Sud se ne costruiscono due? E se hanno un reddito pro capite che è un terzo di quello brianzolo? In realtà a parità di potere d’acquisto una famiglia napoletana riesce con un solo reddito per famiglia, pari a un terzo di quello del Nord, a mantenere molte più persone, considerato che il valore dell’euro duosicilie è molto più pesante dell’euro brianzolo. Siamo alla arrampicata sugli specchi. Dispiace che tali ragionamenti vengano condotti da coloro che sono conosciuti come ricercatori attenti. Ma si sa “ a guerra è guerra e quando viene, viene per tutti”. Adesso Boccia mette un punto fermo sulla necessità, prima di procedere, che tutti abbiano i Lep, e per recuperarli di utilizzare i fondi del Recovery Plan. Ma siamo ancora alle prime scaramucce. Ne vedremo delle belle.

SUDISMI - L’operazione verità che nessuno vuole vedere: neanche i governatori del Sud che reggono il gioco di Bonaccini. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2020. SI SONO scatenati. Articoli, video su YouTube, interventi, comparsate in televisione per dimostrare che è tutto falso. Parlo del dibattito in corso sullo “scippo” che ogni anno si consuma nei confronti del Sud. Tutto falso! Gli asili nido? A Reggio Calabria non li vogliono. Le ferrovie? I meridionali preferiscono utilizzare i bus o andare a piedi. E poi il mantra che ormai è diventato virale: «La realtà è che hanno avuto un mare di soldi che giacciono, non spesi. E quando li utilizzano servono a foraggiare la criminalità organizzata. Se il Nord non avesse il peso morto del Sud volerebbe e sarebbe comparabile alla Baviera. La colpa è loro, perché se avessero una classe dirigente non sarebbero nelle condizioni in cui sono».

MILLE PERCHÉ. A parte la considerazione che se è vero che la mancanza di classe dirigente, quella che ha come obiettivo il bene comune, e anzi la presenza di una classe dominante estrattiva, che pensa ai propri clientes, è un problema fondamentale, è altrettanto vero che la soluzione non può essere quella di affermare che se ci fosse non ci sarebbe il problema, perché è come dire che se lo zoppo non fosse zoppo potrebbe vincere le Olimpiadi. Bisogna invece fornirgli delle protesi per farlo correre. Ma la domanda che ci si pone è perché il Nord ha paura dell’operazione verità e perché invece i governatori del Sud non ne fanno un cavallo di battaglia per chiedere, se non il risarcimento (cosa estremamente complicata e inattuabile, considerata la cifra che si aggira, a seconda di come si vogliono fare i calcoli, da 300 a 600 miliardi) una diversa aggiudicazione delle risorse, e invece continuano a tollerare che, grazie alla Conferenza delle Regioni, si continui con la spesa storica? Perché di fronte a un ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che afferma in maniera tranquilla che il ponte sullo stretto di Messina, quello che dovrebbe permettere all’alta velocità ferroviaria di arrivare fino in Sicilia e quindi collegare Suez e Hong Kong al nostro Paese, non si farà per i prossimi cinque anni, non ci sono reazioni serie? Perché si consente alla ministra Paola De Micheli di contrabbandare un’alta velocità/capacità farlocca, come se i meridionali avessero l’anello al naso e non capissero che quando si parla di alta velocità a 160 chilometri orari ci stanno prendendo in giro? 

IL RISCHIO UE. Lo strano è che non si vedono nemmeno posizioni avvertite e progressiste nel Nord, che accettino quello che è evidente a chiunque guardi la realtà italiana senza pregiudizi. Come fa la Ue, che prima con Le Maitre, minaccia di togliere le risorse all’Italia se continua a spenderle in maniera sostitutiva delle risorse ordinarie e ora con il Recovery plan destina all’Italia una cifra maggiore, proprio perché le condizioni del Sud sono precarie.  «Se non verrà mantenuto un adeguato livello d’investimenti pubblici nel Mezzogiorno, l’Italia rischia un taglio dei fondi strutturali». È l’allarme della Commissione Ue, che ha inviato una lettera al governo «indicando le cifre più che preoccupanti sugli investimenti al Sud, che sono in calo e non rispettano i livelli previsti per non violare la regola Ue dell’addizionalità».

IL TAVOLO DEL GIOCO. È per la paura di perdere finanziamenti, e quindi di dover rinunciare all’ennesima corsia su una qualche autostrada del Nord o di dover diminuire gli scuola bus per darne qualcuno anche a Canicattì? Possibile che tutta la classe colta, vera classe dirigente del Paese, si trinceri dietro l’arrampicata sugli specchi di Andrea Giovanardi, che arriva a sostenere che «livelli essenziali non vuol dire uniformi» e che quindi è corretto che in parti diverse del Paese i cittadini abbiano alcuni servizi di serie A e altri di serie B, nella scuola , nella sanità, nel traporto. Oppure che Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, andati in avanscoperta, e poi il candido Carlo Cottarelli affermino che lo scippo c’è ma anzi no, e le pensioni non vanno calcolate e che le ferrovie se investono a Milano mica li possiamo obbligare a investire a Napoli e che poi vivere a Palermo costa meno che vivere a Brescia o a Bergamo. Come mai non si accetta, come fece persino Calderoli, che i livelli essenziali di prestazioni sono un must irrinunciabile per tutto il Paese? E Confindustria e i sindacati? Nessuno che si strappi le vesti e dica che le risorse del Next Generation Ue vanno investite prevalentemente al Sud perché è lì che servono. Altro che il 34 %, minimo sindacale. Perché questa difesa dell’indifendibile, perché continuare a dire come il lupo che l’acqua può anche sporcarla chi sta in basso al ruscello? E dall’altra parte, se una “Operazione verità” è stata fatta come mai gli Emiliano, presidente di una regione di 4 milioni di abitanti, i De Luca che ne ha 6 milioni e i Musumeci con 5 milioni, che da soli rappresentano un quarto del Paese, di fronte a un’ingiustizia così palese, invece di continuare a fare la corte a un Bonaccini che fa il gioco delle tre carte, nel quale alla fine vince sempre il banco, ciò il triangolo emiliano- veneto -lombardo, non fanno saltare il tavolo del gioco?

IL SILENZIO TOMBALE. Il Vangelo dice che se non parleranno le persone per gridare la verità, parleranno le pietre. Ma qui la sensazione è che non parli nessuno e che ciò che doveva essere dirompente rispetto al sistema, e cioè che anche un euro venisse sottratto al Sud per darlo al Nord, sia stato assimilato come un veleno inevitabile, che continua a distruggere un corpo malato. E che in realtà il Mezzogiorno non sia più capace neanche di indignarsi. E invece di sbandierare i dati dello scippo si continuino a chiedere piccole mancette e non pretendere quello che ci tocca e ci è dovuto come cittadini di questa Italia.

Spesa statale, la beffa del Mezzogiorno: 499 miliardi in meno in 20 anni. Marco Esposito Lunedì 27 Luglio 2020 su Il Mattino.it. Recuperare i divari Nord-Sud. L'impegno, vecchio come il mondo verrebbe da dire, ha preso sfumature meno vaghe da quando, complice la crisi della pandemia, l'Italia è diventata primo beneficiario in Europa delle risorse del Recovery fund. Ci sono soldi veri da spendere in modo oculato e il Mezzogiorno è senza dubbio l'area italiana a maggiore potenziale di crescita, così come è stata trent'anni fa la Germania Est per i tedeschi. Però il Sud, si afferma spesso e talvolta anche tra i meridionali, è una pentola bucata, un pozzo senza fondo che assorbe risorse a vuoto, un territorio che ha goduto per decenni di leggi di favore con i risultati mediocri che sono sotto gli occhi di tutti.

Due false informazioni, due fake news si direbbe oggi. Entrambe dimostrabilmente false. La prima utilizzando i valori ufficiali dei Conti pubblici territoriali. La seconda elencando le norme scritte in favore del Mezzogiorno - tante, questo è vero - ma rimaste inattuate. Sui soldi è presto detto. Il Sud non è affatto una terra inondata di risorse spese male. Sia chiaro: di soldi spesi male ce ne sono stati in passato e ve ne sono ancora, al Sud non diversamente che al Nord, come dimostrano le inchieste giudiziarie e le condanne. Ma sulla quantità di risorse siamo ben lontani dall'equità. Tuttavia sui numeri si fa non poca confusione, per cui è l'occasione di fare chiarezza. A inizio 2020 il Rapporto annuale dell'Eurispes, in particolare, ha calcolato in 840 miliardi la somma di spesa pubblica che il Sud avrebbe dovuto ricevere dal 2000 al 2017 se ci fosse stato perfetto equilibrio territoriale in base agli abitanti. Una denuncia forte (e documentata) che però ha ricevuto l'accusa di essere una bufala da parte dei cacciatori di fake news di Pagella Politica. Come stanno in realtà le cose? La base dati è unica e si chiama Conti pubblici territoriali e in effetti se si confronta la spesa media procapite per i cittadini del Centronord e quelli del Mezzogiorno il divario è molto forte, di quasi 4mila euro. Per l'esattezza, in base ai valori più aggiornati e relativi al 2018, 16.612 euro al Centronord e 12.706 nel Mezzogiorno con una media di 15.282. Quindi se tutti fossimo trattati in modo matematicamente uguale, il cittadino meridionale dovrebbe salire a 15.282 euro, cioè beneficiare di una spesa pubblica di oltre 2.500 euro superiore. E visto che i meridionali sono più di 20 milioni, il totale sottratto al principio d'equità in un solo anno fa circa 50 miliardi, ovvero gli 840 miliardi per l'intera serie storica calcolati da Eurispes fino al 2017. Ma è giusto - ci si deve chiedere per onestà intellettuale - che tutta la spesa pubblica sia ripartita con equità territoriale? C'è una voce importante, peraltro la principale nel bilancio statale, nella quale il conteggio è strettamente individuale: la pensione. Se due fratelli gemelli hanno vite professionali diverse - uno fa carriera e diventa docente universitario e l'altro fa l'insegnante alle medie - ci aspettiamo che abbiano stipendi diversi e troviamo del tutto naturale che prendano pensioni diverse. Ecco, al Centronord grazie a un'economia più florida ci sono più persone che iniziano a lavorare prima e che hanno redditi elevati, per cui visto che i soldi attirano soldi, le pensioni sono di solito più generose. Lo Stato, in tale caso, fa da cassa comune tramite l'Inps e limita la solidarietà all'erogazione delle pensioni minime e di quelle sociali. La spesa per le pensioni da sola giustifica la metà del divario Nord-Sud e va depurata dal conteggio.

Cosa dicono i numeri netti? Li trovate in pagina. Intanto sono aggiornati rispetto a quelli Eurispes e arrivano al 2018. E poi sono ripuliti sia della spesa previdenziale, sia della cassa integrazione, la quale anch'essa va soprattutto al Nord perché per restare senza lavoro devi prima averne uno, sia degli interessi sul debito che dipendono dai risparmi (ovviamente superiori al Nord). Il risultato è forse meno roboante ma è tecnicamente inattaccabile: anche pulendo i valori delle spese inevitabili, in tutti gli anni considerati lo Stato spende mediamente più al Centronord che nel Mezzogiorno e l'importo perso dai meridionali rispetto alla media va da un minimo di 11 miliardi nel 2000 (il primo anno della serie storica) a un massimo di 34 miliardi nel 2008. La somma dei diciannove anni (2000-2018) porta a 499 miliardi, con una media di 26 miliardi all'anno di minore spesa pubblica per servizi sociali, sanità, trasporto, scuola, investimenti. Se si entra nel dettaglio delle tipologie di spesa, il Mezzogiorno cade nella voce acquisti di beni e servizi. Quando c'è da pagare stipendi pubblici, infatti, lo Stato si comporta in modo equanime. C'è una sola (vistosa) eccezione: la sanità, settore nel quale il Mezzogiorno è trattato decisamente peggio. Ma in generale, per enti locali, scuola, sicurezza, giustizia le spese per il personale al Sud sono in linea con la media e talvolta superiori. A frenare il Mezzogiorno è l'acquisto di beni e servizi per far funzionare la macchina pubblica: i dipendenti pubblici meridionali sono poco produttivi perché operano in strutture meno dotate.

Ma perché ciò è accaduto nonostante le tante norme di favore? Questo è l'altro corno del problema. Carlo Azeglio Ciampi, da ministro del Tesoro del governo Prodi, a partire dal 1996 ha colto l'importanza di una spesa pubblica concentrata nel Mezzogiorno e, proprio per capire come spende la macchina statale, Ciampi volle un sistema specifico di contabilità, diventato poi i Conti pubblici territoriali. Più volte si è provato a rendere cogenti le regole di equità. Per esempio nella finanziaria 2005 e poi nella finanziaria 2007 si è stabilito (una volta al comma 17, la seconda al comma 873) che le imprese pubbliche devono spendere almeno il 30% degli investimenti ordinari nel Mezzogiorno. Ma la legge è rimasta inapplicata perché la principale società pubblica per investimenti, le Ferrovie dello Stato, in quegli anni era impegnata nella realizzazione dell'alta velocità ferroviaria, come noto realizzata quasi tutta al Centronord. Infatti le Fs nel 2005 investirono al Sud appena il 15%, compresi gli interventi straordinari, mentre nel 2007 la quota fu del 20%. Ma ovviamente non ci fu alcuna sanzione perché l'azienda di stato non fece altro che rispettare i contratti di programma. Non andò molto meglio nel 2009. Roberto Calderoli preparò un sistema di decreti di attuazione del federalismo fiscale ben congegnato e che rispettava il principio d'equità. In particolare per superare di divari di infrastrutture tra Sud e Nord era prevista una ricognizione dell'esistente, che però non è neppure partita. Clamoroso, infine, il ritardo nella definizione dei Lep, sigla che sta per «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (Costituzione, articolo 117). Tocca al Parlamento fissare l'asticella dei diritti, ma dal 2001 non è mai stato fatto con il risultato paradossale che quando nel 2014 si è dovuto determinare il fabbisogno standard di un determinato territorio (operazione effettuata per i Comuni) si è deciso che in assenza del servizio non c'era il fabbisogno. Fino all'assurdo degli asili nido zero, corretto solo (e parzialmente) a partire dal 2020. Il 2020 dovrebbe essere anche il primo anno di attuazione della cosiddetta «legge del 34%» ovvero la norma che impone di destinare il 34% degli investimento ordinari al Mezzogiorno, sulla base del banale principio che al Sud vive il 34% degli italiani. La legge c'è dal 2017 ma nonostante la sua ovvietà, è rimasta inapplicata con i ministri del Sud Claudio De Vincenti e poi Barbara Lezzi. Ora ci sta provando Peppe Provenzano. Ma perché è così difficile applicare persino le regole ovvie? Semplice. Perché è più facile (e per nulla costoso) convincere i meridionali che se le cose non vanno è colpa di una mediocre classe dirigente (che anche c'è, sia chiaro) piuttosto che impegnarsi a far funzionare le cose per davvero, come se fossimo tutti tedeschi, anche ad Est. Pardon, tutti italiani, anche al Sud. 

Il rischio povertà al Sud e le politiche coloniali dello Stato italiano. Michele Di Pace il 27.09.2020  su Il Movimento 24 agosto. Di Roberto Cantoni – Referente M24A-ET Spagna. Uno spettro di aggira per l’Europa: lo spettro della povertà. A guardare meglio, in realtà, non si aggira per tutta l’Europa, ma soltanto per alcune sue aree ben specifiche: segnatamente, il Sud Italia. La notizia è assurta agli onori – o meglio, ai disonori - di cronaca in luglio, in seguito alla pubblicazione del Rapporto 2020 dell’Eurostat. Da tale rapporto risulta che, nella poco onorevole classifica delle zone UE col maggior tasso di popolazione a rischio di povertà, la Campania occupa il gradino più alto del podio, con un 41,4%, seguita dalla Sicilia (40,7%) e, in ottava posizione, dalla Calabria (32,7%). Aggiungendo al rischio-povertà anche il dato sul rischio di esclusione sociale, la Campania arrivava al 53,6%, mentre la Sicilia al 51,6%). Cioè, oltre metà della popolazione delle due regioni. Come spiega il rapporto, “Il numero o la quota di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale combina tre criteri distinti che coprono le persone che si trovano in almeno una delle seguenti situazioni:

- a rischio di povertà - persone con un reddito disponibile mediano equivalente (dopo i trasferimenti sociali) al di sotto della soglia di rischio di povertà;

- persone che soffrono di gravi privazioni materiali - persone che non possono permettersi almeno quattro su nove oggetti materiali considerati desiderabili (o addirittura necessari) dalla maggior parte delle persone per avere una qualità di vita adeguata;

- persone che vivono in una famiglia a bassissima intensità di lavoro, dove gli adulti in età lavorativa non hanno lavorato più del 20% del loro potenziale totale nei 12 mesi precedenti.”

Questo dato va considerato insieme a quello sulla disoccupazione di lungo-termine, endemica delle nostre zone, tutte caratterizzate da percentuali superiori al 50%. Tuttavia, se si vanno a scorporare i dati sulle fasce d’età, si vede che la disoccupazione giovanile è una vera e propria piaga nel Meridione, con tutte le regioni con tassi superiori al 25%, cioè un giovane su quattro (al di sopra dell’Umbria, soltanto il Piemonte è nelle stesse condizioni in Italia). Altro dato interessante riguarda le famiglie a bassissima intensità di lavoro: la Sicilia, per dirne una, ha una percentuale quasi otto volte maggiore della provincia di Bolzano. E, almeno in teoria, sarebbero parte dello stesso paese. Idem per il PIL pro-capite, con tutte le regioni del Sud caratterizzate da PIL di oltre il 25% al di sotto della media europea (con la parziale eccezione dell’Abruzzo, tra il 10 e il 25%). In tutte le regioni del Nord, al contrario, il PIL pro-capite è pari o superiore alla media europea. E ancora: tra il 2008 e il 2018, una delle regioni con la maggior crescita del numero di lavoratori nel settore scientifico-tecnologico è stata la Lombardia (+300.000 unità), mentre la Calabria è stata una delle otto regioni europee in cui i lavoratori in questi settori sono diminuiti. Ora, l’Unione Europea è piuttosto prodiga di fondi per le regioni in condizioni socioeconomiche disagiate, e ha una politica di coesione territoriale ben definita, che porta avanti con serietà. È evidente, quindi, che il problema è più a valle: al livello nazionale. Certo, c’è da dire che, se il Sud fosse uno stato a sé, avrebbe diritto, oltre ai fondi strutturali che ricevono tutti i paesi membri, anche al Fondo di coesione, che finanzia progetti nei paesi in cui il reddito nazionale lordo (RNL) pro-capite è inferiore al 90% della media dell’UE. Il paradosso è che il contributo del Centro-Nord al RNL rende l’Italia un pese relativamente agiato, almeno per le statistiche. È come la storia dei polli di Trilussa: quella secondo cui, se una persona ha due polli e un’altra nessuno, per la statistica hanno un pollo a testa, e quindi stanno relativamente bene. La media nazionale finisce per sfavorire il Sud, che invece, secondo la maggior parte dei parametri socioeconomici, è in condizioni simili a Bulgaria, Romania e repubbliche baltiche. Al livello europeo, purtroppo, fino a poco fa si è dato per scontato che il governo italiano si adoperasse nella funzione di ridistribuzione dei fondi nazionali, nel senso di favorire la perequazione. Ciò non avviene, e se ne sono accorti recentemente anche a Bruxelles, (qui un intervento del referente per la Lombardia di M24A-ET Massimo Mastruzzo in proposito) dove la Commissione ha minacciato l’Italia di tagli ai fondi strutturali in mancanza di un intervento massiccio al Sud, usando però la spesa pubblica nazionale, e non i fondi europei, che – ha ricordato la Commissione – sono aggregativi, non sostitutivi di quelli nazionali. Ricordiamo, tra l’altro, che l’Eurispes nel suo rapporto 2020 ha certificato la sottrazione al Sud di 840 miliardi di euro in 17 anni. 840 miliardi di euro: cioè oltre 49 miliardi di euro all’anno. Soldi che sono andati indebitamente al Centro-Nord. C’è quindi un problema spaventoso di gestione della spesa pubblica: ed è un problema che genera i dati illustrati nel rapporto della Commissione Europea. Il Sud è trattato dal governo nazionale come un territorio coloniale, sotto qualunque punto di vista. I paralleli con le colonie africane di Francia e Regno Unito del XX secolo sono illuminanti e calzanti. Dobbiamo, da meridionali, prenderne coscienza e agire di conseguenza, decolonizzandoci prima mentalmente e poi economicamente. Occorre agire nei confronti dello Stato italiano facendo perno sull’unico parametro cui è sensibile: i fondi europei. Per farlo, abbiamo però bisogno dell’aiuto di un organismo che abbia più potere coercitivo dell’Italia: l’Unione Europea. Forse chiedere ai meridionali di vedere la Commissione europea come un’istituzione amica è eccessivo, ma sicuramente, pur con tutte le sue tare, lo è di più del governo italiano degli ultimi decenni. Per questo motivo credo che, come Movimento, dovremmo fare pressione perché la Commissione passi dalle parole ai fatti nei suoi procedimenti contro lo Stato italiano, obbligandolo a capovolgere la politica coloniale seguita finora, e a restituire al Sud almeno il maltolto degli ultimi 17 anni. Finché ciò non avverrà, potranno continuare a eleggere presidenti della repubblica meridionali, ma la sostanza della nostra subalternità socioeconomica non cambierà. Il reddito disponibile delle famiglie è determinato sommando tutti i redditi monetari (a prescindere dalla fonte da cui siano percepiti, compresi i redditi da lavoro, gli investimenti e le prestazioni sociali) di ciascun componente della famiglia ai redditi percepiti a livello di famiglia e detraendo le imposte e i contributi sociali versati.

ECONOMIA, INFRASTRUTTURE E TRASPORTI. CHI SI RIVEDE, LA POLITICA RISCOPRE LA QUESTIONE MERIDIONALE. STAI A VEDERE CHE E’ PER MERITO DI QUEI QUATTRO URLATORI MERIDIONALISTI? Raffaele Vescera l'01.10.2020 su Il Movimento 24 agosto. Dopo decenni di negazionismo, di autofustigazione nel ripetere che “è tutta colpa dei meridionali”, i politici del Sud scoprono l’acqua calda e riconoscono che esiste una Questione meridionale, data da uno Stato che nega ai cittadini del Sud i diritti elementari. Lavoro, infrastrutture, salute, istruzione, tutto in meno al Sud, nella misura di 61 miliardi l’anno di investimenti, dovuti al Mezzogiorno e “trasferiti” al Nord, come se niente fudesse, nel silenzio generale dei partiti e dei media, saldamente detenuti nelle mani del Partito Unico del Nord. Non che i politici meridionali riconoscano la totalità del furto, se così fosse dovrebbero stracciarsi le vesti per i tanti anni di ignavia nel migliore dei casi, di vergognoso collaborazionismo nel peggiore, praticato in cambio di privilegi economici e giudiziari. Tuttavia  dal negazionismo sono passati a un’ammissione, timida nella maggioranza dei  casi, decisa in pochi altri. E’ così che, mettendo da parte l’antimeridionale lega e suoi alleati, dopo le parole del leader M5s Di Maio che negava l’esistenza della Questione meridionale in nome di un movimento non territoriale ma nazionale, sono sempre di più le voci di parlamentari pentastellati che ne riconoscono l’esistenza. Così la portavoce del M5s Conny Giordano scrive che “Il Recovery Fund è un'opportunità storica per il Sud. Grazie ai soldi del Recovery Fund abbiamo l'occasione storica per colmare il gap tra Nord e Sud d'Italia. Abbiamo fatto passare in Commissione un parere che concede la priorità allo sviluppo strutturale del Mezzogiorno d'Italia. Dobbiamo individuare tutti i criteri che assicurino un maggiore afflusso di risorse nei territori storicamente svantaggiati.” Benissimo, meglio avrebbe fatto ad aggiungere che i fondi europei non devono essere sostitutivi ma aggiuntivi a quelli dello Stato negati al Sud, secondo logica e  volontà della stessa Commissione europea, se si vuole sanare il vergognoso squilibrio Nord-Sud, frutto di 160 anni di trattamento coloniale del Mezzogiorno. Ed è così che i parlamentari meridionali del Pd, nelle commissioni congiunte trasporti e ambiente della Camera, scrivono che “Il ritardo economico del Mezzogiorno è inaccettabile e ingiustificabile perché non consente a un terzo della popolazione italiana di godere appieno di diritti, opportunità e prospettive che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini. Ed è oltremodo ingiustificabile perché le ricchezze culturali, ambientali, di capacità produttive inespresse presenti nel Mezzogiorno possono e devono essere utilizzate per il rilancio dell'economia dell'intero Paese”. E così aggiungono: “per affrontare il tema del gap infrastrutturale Nord – Sud, con proposte operative, devono essere previste già nei prossimi finanziamenti nazionali ed europei, dal Recovery Fund ai contratti Rfi e Mit. Tra queste, innanzitutto l’alta Velocità al Sud, da Salerno a Reggio Calabria e poi fino a Palermo con l'attraversamento stabile dello Stretto di Messina, realizzando una infrastruttura che ponga fine all'isolamento della rete dei trasporti siciliani da quella del resto del Paese. Oggi abbiamo registrato un fatto molto positivo avendo ottenuto sull'impostazione del nostro testo, la condivisione di tutti i gruppi parlamentari, di maggioranza e opposizione”. Bene, ignorano totalmente l’alta velocità ferroviaria dell’asse adriatico, da  Bologna a Lecce, ma riconoscono la necessità dell’Alta velocità tirrenica da Salerno a Reggio e poi fino a  Palermo, con “attraversamento stabile” dello Stretto, dicono, ma senza avere il coraggio di nominare la parola “ponte”, un struttura già progettata e immediatamente fattibile. Di grazia, diteci come superare lo Stretto? In antesignano traghetto, ambientalista bicicletta o fantascientifico tunnel? Vediamo chi la spara più grossa dopo la ministra De Micheli. Che i parlamentari del Sud comincino a  prendere coscienza, sino a formare un intergruppo meridionale è un dato positivo, tuttavia non possiamo ignorare la forza sovrastante del Partito Unico del Nord che ricorre ad ogni mezzo per contrastare l’equità territoriale nella distribuzione delle risorse, nazionali ed europee, sino a fare il gioco delle tre carte, come fanno certi stracotti economisti alla Cottarelli, i quali arrivano a sostenere che il Sud ha avuto fin troppo dall’Italia? Ah, sì, signori miei, e i 110 miliardi dell’Alta velocità ferroviaria, di cui 50 miliardi destinati per fare le ferrovie Av al Sud, chi li ha mangiati se non il Nord che si è preso tutto, distribuendo in tangenti buona parte dei soldi? E le strade statali, gli ospedali, le scuole, i tribunali e altre opere mancanti al Sud forse non spettava allo Stato farle? E’ per questa ragione che occorre una forza politica “decisamente” meridionalista, che pur riconoscendo il diritto all’equità per tutto il territorio nazionale, ove essa sia negata come in alcune zone interne, si batta per cancellare la più grande ingiustizia italiana, la disparità Nord-Sud. Intanto possiamo ascrivere alle nostre “urla nel deserto” l’iniziale presa di coscienza dei politici meridionali. Noi del Movimento 24 Agosto per l’Equità territoriale non ci fermeremo, continueremo a urlare la verità. A partire dal 6 ottobre in Piazza Monte Citorio a Roma, per poi arrivare a Bruxelles.  Dopotutto, “basta sollevare un pugno di sabbia nel deserto, per modificarlo”, dice il filosofo. Noi di pugni ne abbiamo molti da sollevare.

Provenzano contro chi nega lo scippo al Sud: i numeri parlano da soli e la matematica non è un’opinione. La relazione del ministro: «Al Mezzogiorno spetta almeno il 34% delle risorse del Recovery Fund». Lia Romagno  il 29 settembre su Il Quotidiano del Sud. Le «ricostruzioni» che negano lo squilibrio nella ripartizione della spesa pubblica a beneficio del Nord, e la ventennale penalizzazione del Mezzogiorno, «difettano di matematica», mettono in dubbio «dati ufficiali», mentre la «vecchia teoria dei residui fiscali», poi, «è da rigettare alla radice». Ma soprattutto, conducono a un errore strategico, perché è indubbio che «ogni 10 euro investiti al Sud, 4 tornano al Centro Nord in termini di attivazione di domanda di beni e servizi». Con quattro passaggi della sua relazione sulle priorità per il Recovery Plan davanti alle commissioni riunite del Senato, Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, ha liquidato l’analisi dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Quattro punti di un discorso ben più articolato che ha smontato quello che nelle sintesi giornalistiche è diventato il “falso mito”, la favola della sottrazione di risorse al Sud, mettendo in discussione l’indagine della Svimez elaborata sulla base dei Conti pubblici territoriali curata dall’Agenzia per la Coesione territoriale. «I dati sono ufficiali – ha affermato Provenzano – ci raccontano di uno squilibrio, di uno svantaggio, soprattutto nella spesa pro capite per investimenti tra le aree che va colmato». «Soprattutto in giorni in cui vedo nuove ricostruzioni dei giornali che negano addirittura lo squilibrio e la penalizzazione che nel corso di questi anni le regioni meridionali hanno invece subito nella spesa in conto capitale» il ministro ha ribadito che «che c’è un gap che dobbiamo colmare anche in termini di investimenti». Secondo il ministro, «queste ricostruzioni, non solo difettano di una visione politica capace di capire quanto investire nelle aree meno sviluppate sia essenziale a liberare un potenziale di sviluppo anche nel resto del del paese, ma difettano proprio di matematica e il tentativo di rispolverare la vecchia teoria dei residui fiscali è da rigettare alla radice, perché questo concetto se applicato ai territori è del tutto discutibile anche sul piano scientifico, e comunque riduce il rapporto Nord e Sud, e tra le aree del Paese, a una contabilità misera di cui dovremmo fare a meno». Mentre la storia del nostro Paese, confortata dall’analisi economica, ha evidenziato, mostra l’interdipendenza tra le diverse aree del Paese, sia sul piano economico e commerciale: «La Banca di Italia, ma anche la Svimez, ha ricordato come un investimento nelle aree meno sviluppate è capace di attivare reddito e lavoro in misura maggiore per tutto il Paese. Sappiamo che per ogni 10 euro investiti al Sud 4 tornano al Centro Nord in termini di attivazione di domanda di beni e servizi». Intanto, il Sud entro la fine dell’anno rischia di perdere 600-800mila posti di lavoro. La fiscalità di vantaggio, con la riduzione strutturale del cuneo fiscale del 30% per le imprese private del Sud – su cui, ha riferito il ministro, è in corso «un negoziato molto difficile con la Commissione europea» – ha proprio lo scopo di scongiurare la «voragine occupazionale» e rilanciare gli investimenti. L’occasione per ripartire arriva dall’Europa, che proprio il risanamento delle fratture territoriali, ha messo al centro della strategia per il rilancio e superare la crisi con più sviluppo ed equità. Ora, tra Recovery Fund e fondi europei, le risorse aggiuntive attivabili sia per il Paese sia per il Mezzogiorno «raggiungono quote mai realizzate», ha spiegato il ministro: oltre ai «65, quasi 70 miliardi di aiuti», «avremo complessivamente una quota di 43 miliardi di fondi strutturali europei per il ciclo 2021-2027», cui vanno aggiunti il cofinanziamento nazionale e regionale che dovrebbe attivare una quota di risorse per i programmi operativi nazionali e regionali pari a 80 miliardi. «Queste risorse riguardano in particolare, per i fondi strutturali, soprattutto le aree meno sviluppate: di questi 80 miliardi circa 52 miliardi sarebbero destinati, secondo il riparto attuale, al Mezzogiorno», ha aggiunto Provenzano, sottolineando, poi che «per il ciclo di programmazione 2021-2027, considerando almeno anche il 34% della parte di aiuti del Recovery Fund, avremo circa un punto e mezzo di Pil all’anno di investimenti maggiori aggiuntivi nel Mezzogiorno». Almeno il 34% perché, ha ribadito, ci sono settori, «come quello per il completamento dell’alta velocità di rete, in cui i fabbisogni di investimento sono anche maggiori». Ora la sfida, ha detto il ministro sta nel definire obiettivi e fabbisogni di investimento ben precisi, puntare su uno sviluppo che garantisca i «diritti di cittadinanza», non disperdere le risorse in un progetto sponda in cui infilare tutti i progetti finora irrealizzati. E recuperare il deficit di credibilità che ha reso «difficile rispondere alle obiezioni dei Paesi frugali, non del tutto infondate, sulla nostra capacità di messa a terra degli investimenti. Ora – ha concluso Provenzano – abbiamo un’opportunità storica».

Federalismo fiscale, nel dibattito politico assume il ruolo delle bomboniere nella credenza. Della “storia incredibile e vera dell’attuazione perversa" si occupa con garbo e dovizia di dettagli il giornalista Marco Esposito nel suo libro Zero al Sud. Alessandro Cannavale il 21 Settembre 2020 su Basilicata 24. Nel dibattito politico degli ultimi anni, il federalismo fiscale assume il ruolo delle bomboniere di famiglia nella credenza. Nessuno – quasi – osa metterne in discussione la presenza. Della “storia incredibile e vera dell’attuazione perversa del federalismo fiscale”, come promette il sottotitolo in prima pagina, si occupa con garbo e dovizia di dettagli il giornalista Marco Esposito, responsabile Economia del “Mattino”. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) ha, come noto, rivisto la ripartizione delle competenze tra Stato ed enti locali, fondandosi su tre articoli decisivi (117, 119 e 120). Il carburante del dibattito politico che ha sospinto i partiti – da destra a sinistra – a dare ascolto alle sirene del federalismo, attuando quella riforma così sostanziale del testo costituzionale, è stato offerto dalla crescente demonizzazione dell’intervento pubblico, unitamente al crescente “disegno leghista di concentrare le risorse disponibili sui propri territori di elezione, premiando in primo luogo i propri cittadini; e quindi riducendo gli interventi nel Mezzogiorno”. Esposito affronta il nodo delle cosiddette narrazioni, come quella sul “residuo fiscale”, a più riprese affrontata dal Presidente di Svimez, Adriano Giannola, o quella sugli “sprechi del Sud”. Per fugare i dubbi, Esposito ricorda quanto sia falso che la spesa pubblica sia omogenea sul territorio nazionale, visto che, citando i Conti pubblici territoriali del 2015, pubblicati nel 2017, “la spesa pubblica complessiva pro capite in Italia era di 15.801 euro nel Centronord e di 12.222 euro nel Mezzogiorno”. Lo Stato, lo sanno tutti ormai (si spera), spende al Sud meno del 30% delle risorse, a fronte di una popolazione del 34.4%. Dove ha condotto l’applicazione del federalismo fiscale, dalle sue origini ai giorni nostri? Di questo parla “Zero al Sud”. Lo fa combattendo da un lato la deficitaria informazione su un tema tanto delicato come la ripartizione nazionale delle risorse per i servizi fruiti dai cittadini italiani, dall’altro la marea di luoghi comuni che sono diffusi tra i meridionali stessi, inficiando ogni nascente possibilità di iniziativa concreta. Se al lettore, temi come il federalismo e la sua attuazione possano sembrare da addetti ai lavori, il saggio di Esposito, edito da Rubbettino, mette in campo una secca e urgente smentita. Dal modo in cui il federalismo si è andato attuando, sono scaturiti livelli discutibili dei servizi essenziali per tutti i cittadini italiani. Di cosa parliamo? Di cose che ci sono più vicine di quanto crediamo: degli asili nido, ad esempio, ma anche degli altri servizi, che sono tutt’altro che astratte elucubrazioni. Stiamo parlando della qualità delle nostre vite di cittadini, sui nostri territori. Il libro ricapitola quasi venti anni dell’intricato percorso federalista, passando per la cruciale approvazione della Legge 42/09, che aveva ribadito la necessità di stabilire i Livelli Essenziali delle Prestazioni e i cosiddetti “obiettivi di servizio”, per le amministrazioni locali. Quella Legge fu firmata da Berlusconi, Tremonti, Bossi e dal Ministro per i rapporti con le Regioni di allora, Raffaele Fitto. Il fondo di perequazione, stabilito dall’articolo 13 di quella legge, si trovò di fronte al limite della “neutralità finanziaria per il bilancio dello stato”, cioè “dalla presente legge […] non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Quindi, quel testo sanciva che le risorse aggiuntive per i comuni in stato di bisogno di perequazione finanziaria dovessero e potessero giungere solo dai comuni più abbienti, in modo orizzontale e non più verticale. Minando l’attuabilità della perequazione stessa. Cosa scaturì da tutto questo? Ne parla con dovizia di dettagli Marco Esposito, narrando le discussioni delle varie commissioni parlamentari di cui l’epilogo fu il seguente: “Si considerò essenziale e quindi meritevole solo l’asilo nido dove c’era e superfluo, se non inutile, dove non c’era”. Se hai è giusto che tu mantenga il tuo status; se non hai, invece, peccato per te. Con amarezza, il testo ci ricorda che fu debole la risposta e la partecipazione dei parlamentari meridionali, nei vari contesti in cui si discussero questi temi, come si sforza di documentare Esposito, nelle pagine di “Zero al Sud”. Come chiarisce l’autore, “in cinque anni di lavori, nei verbali della Bicamerale risultava solo una manciata di interventi di parlamentari dell’Italia meridionale, perlopiù concentrati nel primo mese di lavori della Bicamerale, dicembre 2013”. Forse ora, dopo queste brevi battute, emerge chiaro a cosa faccia riferimento il titolo, Zero al Sud: in Italia, l’attuazione del federalismo fiscale andava sancendo la consuetudine secondo cui “per riconoscere i livelli alti in alcuni territori bisognava mantenere bassi quelli nei territori più in difficoltà”. L’assenza della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (o LEP) conduce l’Italia a distorsioni che Esposito a buon diritto definisce gravissime, “come considerare “fabbisogno standard” la vacanza estiva per i ragazzi delle scuole in cui il servizio sia attuato, come a Bologna, e di giudicare inutile la mensa scolastica là dove il servizio era inesistente, come a Reggio Calabria”.  Nel 2017 entrava infine in funzione quello che Esposito battezza “federalismo fiscale disuguale”, capace di moltiplicare persino gli “zeri”, per molti comuni, dagli asili nido all’istruzione, ai servizi sociali, al trasporto locale. Nel libro, è riportata una tabella che merita qualche attenta considerazione da parte di tutti gli italiani che credano nella Costituzione. Qualche auspicabile riflessione in più, da parte dei meridionali. Essa infatti sancisce che l’attribuzione delle risorse tra Nordest e Sudovest, ad esempio – sia che si ricorra al fabbisogno standard che alla spesa storica – sia in rapporti pari a 80 a 45 e 86 a 32, rispettivamente; tanto, pur con tutta la gravità del divario Nord- Sud che persiste da sempre. Ecco perché è stata davvero importante la recente presa di posizione dell’Unione Europea sulle modalità in cui verranno distribuite le risorse comunitarie che giungeranno nel nostro Paese. Alla luce di queste premesse, risultano più dolorose le parole del presidente di Svimez, Adriano Giannola, secondo cui “Il Sud potrebbe recriminare per l’eccessivo danno subìto a causa delle scelte del Nord: sono stati sottratti 60 miliardi ogni anno da 10 anni”. Sono fioccati tentativi di smentita e il dibattito sui media è aperto. Conoscere le premesse di questo dibattito diventa più facile, leggendo il libro di Marco Esposito.

Ospite di Bruno Vespa nel programma “Porta a Porta”, il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca si è detto pronto ad un stretta nelle misure anti-Covid. Domingo Palma il 29 settembre 2020 su zerottonove.it. Allarme e preoccupazione ma anche rigore e fermezza. Questo è quanto emerge dalle parole del Presidente della Regione Vincenzo De Luca ospite di Bruno Vespa nel programma televisivo “Porta a Porta”. Il neo-riconfermato Governatore si è espresso sulla situazione Covid-19 in Regione. “Sono molto allarmato – ha dichiarato De Luca – credo che dobbiamo aprire gli occhi e dire con chiarezza ai cittadini che siamo già nella seconda ondata dell’epidemia. Ricordo che la Campania è la Regione che ha la più alta densità abitativa d’Italia e il 60% dei positivi oggi sono nelle Asl Napoli 1 e 2 e a Caserta cioè quelle a maggiore congestione abitativa“. “Se vogliamo convivere con il virus per altri 10 mesi, quando avremo disponibilità del vaccino se ci va bene, il controllo del territorio dev’essere rigoroso e capillare. Io rilevo che da 2-3 mesi le Forze dell’Ordine da questo punto di vista sono scomparse, non trovo più una pattuglia dedicata al lavoro di controllo anti Covid. Se pensiamo di convivere con il Covid in queste condizioni per altri 10 mesi dobbiamo dire chiaramente agli italiani che tra un mese dobbiamo chiudere tutto. La Campania viene depredata ogni anno di 300 milioni di euro, perché nel riparto del fondo sanitario nazionale si applica solo un criterio, quello dell’età anagrafica, e siamo la popolazione più giovane. Ma c’è un secondo criterio che andava applicato, che era quello della deprivazione sociale, cioè il livello di reddito, la disoccupazione. Siamo usciti da 10 anni di commissariamento della sanità facendo un miracolo e scontando il fatto che in 10 anni di commissariamento abbiamo perduto 13.500 dipendenti della sanità. Sfido chiunque a gestire un sistema sanitario in queste condizioni“.

Recovery Fund, De Luca: «Se ci danno 300 milioni l’anno va bene». Da supersud.it il 29 settembre 2020. “Sul recovery fund discuteremo con amicizia e troveremo una soluzione, l’importante e’ che ci diano 300 milioni l’anno poi siamo d’accordo su tutto”. Lo ha detto con un sorriso il governatore della Campania Vincenzo De Luca a Porta a Porta dove era ospite insieme al collega veneto Luca Zaia. I due hanno discusso anche della ripresa del dibattito sull’autonomia differenziata: “Mi piace – ha detto De Luca – chiarendo dei presupposti come la difesa senza equivoci dell’unita’ nazionale, il rispetto dell’articolo 119 della Costituzione che prescrive una norma perequativa tra regioni con maggiore base fiscale e regioni che ne hanno meno. E poi l’assunzione piena dell’obbligo costituzionale di riequilbrio tra nord e sud. Noi abbiamo chiesto di avere maggiore autonomia a partire dal superamento della spesa storica, bisogna fare operazione verita’ per sapere quante risorse vanno al sud e quante al nord, perche’ con la spesa storica il sud molto penalizzato a partire dalla sanita’, in cui la Campania nel fondo sanitario riceve meno di tutte le altre Regioni e viene depredata di trecento milioni di euro l’anno”. Sulla sanita’, De Luca ha sottolineato che “abbiamo raddoppiato i livelli essenziali di assistenza facendo un risanamento finanziario, ma scontiamo la perdita di 13.500 dipendenti nel settore. Quindi se ci sono elementi di sprechi e clientela li spazziamo via ma siamo prointi ad affrontare sfida efficienza nei confronti di chiunque”.

Ma come può il Sud fidarsi del Nord dopo tutti i soprusi che ha subito? Pietro Masimo Musetta il 30 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se vai in montagna in cordata ti devi fidare ciecamente di chi sta sopra di te. Se pensi che in un qualunque momento chi sta sopra può tagliarti la corda e farti precipitare allora devi evitare di andare. Purtroppo il Sud si è reso conto in molte occasioni che del Nord non ci si può fidare. Ma non solo della Lega che per molti anni ha fatto del “ dai al terrone” il mantra su cui impostare la propria politica. Ma anche delle uscite dei Sala e dei Gori in sintonia con i Bonaccini con lo slogan facciamo ripartire la locomotiva. In un accordo, nella conferenza delle regioni, che piuttosto che politico è diventato territoriale, con Lombardia e Veneto, per emarginare e contenere le esigenze del Sud. Il tema si ripropone da parecchi anni ed ha riguardato tutti i settori. Dalle banche meridionali, che sono state massacrate, come nel caso del Banco di Napoli, le cui cosiddette sofferenze hanno portato all’azzeramento del valore del Banco di Napoli e quindi all’eliminazione del patrimonio della Fondazione che lo possedeva. Tranne poi scoprire che le sofferenze erano garantite e sono state recuperate quasi integralmente. Ma il tema ha riguardato tutto il sistema bancario meridionale dalla Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele al Banco di Sicilia che invece di essere salvato andava a salvare la Banca di Roma. Anche nell’Università il discorso continua ad essere analogo per cui i criteri stabiliti sono tali per cui gli atenei del Sud stanno sempre più diventando dei super licei, mentre la ricerca e i soldi per farla vanno tutti agli atenei del Nord, per dei parametri tutti da rivedere. Perché tale approccio penalizzante avvenga è necessario qualcuno che operativamente agisca ma anche che vi sia un clima favorevole al quale pensano i media, monopolio del Nord sia nel settore della carta stampata che in quello televisivo. E che rappresentano interessi molto precisi e che danno lo spazio che serve al momento opportuno ai centri di ricerca e studi che fanno uscire dai numeri quello che vogliono. Per cui si dimostra che il Sud ha avuto un mare di soldi che non si capisce dove sono finiti, evidentemente, si sottintende, rubati dai malavitosi meridionali. Considerato che opere pubbliche non se ne vedono, si parli di alta velocità ferroviaria o di autostrade o di cantieri navali o di porti. Se ne è accorta che il gioco è truccato anche l’Unione europea, che non riesce a vedere gli effetti che si aspettava dall’utilizzo dei fondi strutturali. E che ha svelato l’arcano. Non hanno avuto effetti adeguati poiché hanno sostituito in parte le risorse ordinarie per cui era naturale che non avessero effetti perché non sono stati aggiuntivi ma sostitutivi. Le conseguenze di tale scippo si sono già viste politicamente con la nascita del movimento cinque stelle al grido dei meridionali “o mi sviluppi o mi mantieni” . E dopo la delusione lo sbandamento e la ricerca di movimenti autonomisti o separatisti. Ma se ne é accorta anche la destra che adesso comincia a cavalcare il progetto Sud, per cui i più accesi fautori del ponte sullo stretto di Messina diventano Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Forza Italia. Non solo la vera classe dirigente del Paese, come invece è accaduto in Germania, non capisce che senza mettere a regime il Mezzogiorno il nostro Paese non sarà capace di recuperare il divario rispetto alle altre grandi economie europee, ma tenta in tutti i modi di accaparrarsi tutte le risorse, rischiando rivolgimenti sociali che potrebbero portare a sconvolgimenti non prevedibili. Nell’assenza e spesso con la complicità di sindacati e imprese. Per cui diventano nemici da abbattere coloro come la Svimez, che analizzano i dati dimostrando quello che è visibile a chiunque abbia voglia di vedere. Abituati ad un Mezzogiorno non reattivo ci si stupisce della contestazione dell’autonomia differenziata, ma anche alla pretesa incredibile di avere una parte considerevole del recovery plan. Abituati a considerare il Sud colonia perfetta per allocarci gli hot spot per i migranti, per le produzioni inquinanti, che continuano a restare in attività dietro il ricatto o la salute o il lavoro, o per seppellire rifiuti tossici, non riescono a capire le inattese reazioni di una società civile, che superando le rappresentanze elette, sempre molto prone alle dinamiche dei partiti di appartenenza, comincia a far capire alla gente che si è discriminati rispetto alla spesa pubblica. L’approccio che il Nord ha nei confronti del Sud si è visto in modo plastico, quando si è fatto in modo che gli studenti ed i lavoratori emigrati scappassero dal Nord, in modo da alleggerire le terapie intensive, senza pensare che il trasferimento di un numeroso gruppo di meridionali , studenti e lavoratori, nelle località di origine avrebbe trasportato con essi anche il virus, come puntualmente è avvenuto. c. Capisco che è difficile passare dall’abitudine di fare l’asso pigliatutto a condividere le risorse, ma prima il Nord si abitua e meglio è per tutto il Paese. L’alternativa farebbe male a tutti.

ISTRUZIONE, SANITÀ, AMBIENTE E TERRITORIO. MA COME SI FA A PARLARE DI PARITÀ NORD-SUD. Non c’è bisogno neanche dei Lep per fare semplici elaborazioni. Fabrizio Galimberti il 29 settembre su Il Quotidiano del Sud. L’insistenza di questo giornale sulla maladistribuzione delle risorse pubbliche fra Mezzogiorno e resto del Paese ha cominciato a percolare nella coscienza nazionale. La "questione meridionale" non è più solo argomento di ponderosi saggi e pacati (non sempre) dibattiti; si è vestita di cifre, di miliardi, di addizioni e sottrazioni, e così facendo ha toccato il portafoglio, cioè a dire un nervo scoperto. Ecco che la "cifra magica" al centro del dibattito – i circa 60 miliardi di euro all’anno ‘sottratti’ al Sud – cominciano, come era da prevedere, a innescare accese contestazioni. Naturalmente, sia i proponenti della saldezza di quella cifra che i denigratori portano ognuno acqua al proprio mulino, con diverse giustificazioni e definizioni della spesa pubblica da ripartire fra le regioni italiane: aggiungi questo, togli quest’altro, tieni conto del costo della vita, ridefinisci il perimetro e i parametri della spesa… Confermando, insomma, l’antica battuta, secondo cui se si torturano i dati abbastanza a lungo gli si può far confessare qualsiasi cosa…Un recente studio dell’Osservatorio CPI (Conti Pubblici Italiani) ha contestato i famosi "60 miliardi", cominciando col dire che «Innanzitutto, l’analisi è basata sui dati di spese ed entrate di fonte CPT (Conti Pubblici Territoriali a cura dell’Agenzia della Coesione) la cui somma per regioni è molto diversa dai totali nazionali ISTAT, un punto (di notevole gravità) che è già stato messo in evidenza dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio». Salvo poi, nella riga seguente, a dire che la ragione della differenza sta nel fatto che i CPT considerano il Settore Pubblico Allargato (SPA), che include, oltre alle Amministrazioni pubbliche (PA) di cui ai calcoli dell’Istat, anche le aziende pubbliche, dalle grandi alle piccole (municipalizzate). Quindi il fatto che la somma per regioni di fonte CPT è molto diversa dai totali nazionali ISTAT non è un punto di ‘notevole gravità’, ma il semplice risultato di un diverso universo di riferimento. A proposito, chi si voglia prendere in carico un’analisi delle differenze fra i conti PA e i conti CPT, può rivolgersi al sito della Agenzia per la Coesione Territoriale, dove è possibile scaricare l’intera banca dati dei conti e una ponderosa guida metodologica.

Non si può accusare l’Agenzia di mancare di trasparenza…E in effetti, nelle Conclusioni, lo studio dell’Osservatorio CPI conclude – appunto – che la cifra dei 60 miliardi ‘sottratti’ ogni anno dal Nord al Sud «è vera soltanto se si considera l’intera P.A. allargata». Ma…, e qui veniamo alla sostanza delle controdeduzioni: quella cifra non tiene «conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni)». Cominciamo dalle partecipate (cioè le imprese pubbliche). Dai tempi della famosa ‘Programmazione’ di Giorgio Ruffolo, alle imprese pubbliche sono stati assegnati compiti di redistribuzione territoriale degli investimenti e della presenza in loco, nell’ospedale da campo di questi tempi e di questo Paese. Compiti ribaditi anche recentemente da norme e leggi che assegnano alle grandi imprese pubbliche percentuali di spesa per gli investimenti nel Mezzogiorno. Ma l’Osservatorio afferma che «considerare tutta la P.A. allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica». Non si capisce allora perché queste imprese si portino appresso l’aggettivo ‘pubbliche’. Poi, per quanto riguarda le municipalizzate, queste forniscono servizi pubblici, anche se sono fuori dal perimetro della PA, ed è quindi legittimo includerle nei conti SPA. Veniamo alle pensioni. L’inclusione delle pensioni nella spesa per Regioni – si dice – non ha senso dato che lo Stato non può usare le pensioni a scopo redistributivo: queste dipendono dai contributi versati (beh, in parte – come ha argomentato Giuliano Cazzola, una buona parte delle pensioni pagate viene dalla fiscalità generale e non dai contributi versati – col sudore della fronte – da imprese e lavoratori). C’è del vero in questo argomento, ma l’argomento è a doppio taglio. Ci sono più pensioni pagate al Nord perché in passato ci sono stati (e ci sono ancora) maggiori salari e più occupazione al Nord. Ma più occupazione e più salari dipendono dal fatto che lo Stato, malgrado la famosa "coesione territoriale" sia sempre stata presente nei programmi di tutti i Governi, non ha fatto abbastanza per ridurre la piaga del dualismo Nord-Sud. L’inclusione delle pensioni nella ripartizione territoriale della spesa si giustifica come un eco di questo fallimento, un triste testimone della minorità da sempre assegnata allo sviluppo del Mezzogiorno, che soffre da sempre di una inadeguata dotazione infrastrutturale. Per quanto riguarda la spesa per interessi (che è compresa nei conti CPT), la sua inclusione non altera sostanzialmente i calcoli. Uno studio della Banca d’Italia sulla distribuzione territoriale della ricchezza finanziaria (costituita in gran parte dai titoli pubblici) suggerisce che la quota del Mezzogiorno sul totale è all’incirca eguale alla quota degli abitanti sul totale Italia. Veniamo, infine, alla questione del livello dei prezzi. Secondo l’Osservatorio, il fatto di ignorare il più basso costo della vita al Sud «si traduce in ingenti trasferimenti da parte delle amministrazioni pubbliche dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno». Ora, questo più basso costo della vita (che la Banca d’Italia ha quantificato in circa il 10%, tenendo conto dei fitti effettivi) vuol dire che lo stipendio di un dipendente pubblico – che, a parità di mansioni, è ovviamente identico in tutte le zone del Paese – "vale" di più nel Mezzogiorno. Qui si innestano sottili questioni di metodo e di concetto. Ora che abbiamo imparato a distinguere fra Pil e benessere, è legittimo dire che un dato stipendio ‘vale’ di più, se altri elementi del benessere – qualità dei servizi pubblici, sicurezza, mobilità… – scarseggiano? E in ogni caso, il livello dei prezzi di cui si parla è quello del costo della vita. Ma la spesa non è fatta solo di stipendi: è fatta anche di investimenti, di acquisti di beni e servizi (il costo di una macchina per la risonanza magnetica o di una uniforme per un poliziotto è davvero più basso al Sud?). Non abbiamo i dati per una "parità di potere di acquisto" per tutte le sfaccettature della spesa pubblica. Ci sono molte pesanti evidenze della minorità del Mezzogiorno nella distribuzione territoriale della spesa; evidenze che potrebbero essere quantificate se il Governo procedesse davvero al calcolo dei "Livelli essenziali di prestazioni" (Lep) previsti dalla legge 42/2009, e mai messi in opera. Ma non c’è bisogno dei Lep per fare semplici elaborazioni, già più volte presentate su questo giornale, sulla spesa pubblica per abitante in tema di istruzione, sanità, ambiente e territorio…Cifre su cui pensioni o interessi o imprese pubbliche non incidono significativamente, ma che danno la misura di quanto il Sud sia stato penalizzato da molti anni a questa parte.

TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE. Dopo le “Operazioni verità”, il “Manifesto per l’Italia” e l’appello per gli Stati generali dell’economia la battaglia condotta del nostro giornale continua. Claudio Marincola il 13 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. «L’unica battaglia che si è persa in partenza è quella che non si è mai combattuta». A qualcuno sembrerà esagerato scomodare addirittura il comandante Che Guevara per raccontare le campagne di questo giornale. Se diciamo però che aprire l’involucro delle mistificazioni e rovesciare le tante falsità spacciate per verità non è stato facile, credeteci. Per troppo tempo al Sud sono state sottratte risorse, investimenti produttivi, spesa pubblica. Un artificio contabile, un gioco da prestigiatori e, oplà, i conti tornavano. Una foresta pietrificata di pregiudizi, decenni di affabulazioni da smascherare.

OPERAZIONE VERITÀ SCIPPO SMASCHERATO. Sul Mezzogiorno, per anni, la fabbrica all’ingrosso della manipolazione ha prodotto fake. Numeri contraffatti diffusi come granitiche certezze. Presunti vizi antropologici diventati luoghi comuni, caricature geografiche. Siamo partiti dai numeri. Dai 61,5 miliardi l’anno. Con il trapano della Spesa storica lo Stato ha continuato a regalare al Nord, finanziando ogni genere di assistenzialismo. Abbiamo raccontato, cifre alla mano, come la Regione Piemonte spenda per i suoi servizi generale cinque volte più della Campania pur avendo un milione e mezzo di abitanti in meno. Da sola più di quanto sommano insieme Campania, Puglia e Calabria. Da queste colonne s’è sollevata, in britannica solitudine, la campagna fatta propria da questo governo e inserita nella legge di bilancio: l’iniqua distribuzione che ha privato il Sud di risorse destinando quote ben inferiori alla soglia del 34%, la quota di popolazione residente. Scippo raccontato frame dopo frame, come in un film. Titolo: “Operazione verità”. La banca del buco che ha scavato sottotraccia per anni – abbiamo scritto – nelle pieghe del bilancio italiano. Risultato: al Nord 735, 4 miliardi, il 71,7% della spesa pubblica totale totale, al Sud solo 290,9 miliardi. Uno scarto rispetto alla quota dovuta del 6%, pari, appunto, a 61,5 miliardi. Che vuole dire meno mense, meno servizi pubblici, asili zero o quasi, etc., etc.

IL MANIFESTO PER L’ITALIA E LA LETTERA DI CONTE. La lotta per ridurre le disuguaglianze vale al Nord come al Sud. Questo concetto, valido anche in Europa, lo abbiamo chiaro, ed è con questo spirito che nel settembre 2019 è stato sottoscritto il Manifesto per l’Italia (LEGGI), uno stimolo per politici, sindacalisti, ricercatori, studenti per far ripartire il Paese. Senza tuttavia mai perdere di vista la bussola: il Mezzogiorno, area geografica dal perimetro ben delimitato, il luogo in cui si è perpetrato un “delitto all’italiana” gettando le basi culturali ed economiche della mancata crescita nazionale. A rimetterci è stato infatti l’intero Paese, se è vero come è vero che già prima del Covid-19 Nord e Sud d’Italia erano gli unici territori europei a non aver raggiunto i livelli pre-crisi del 2008. Per l’esattezza: il nostro Meridione 10 punti sotto. Il 12 settembre la lettera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Caro direttore, accolgo con favore la dichiarazione di intenti del Manifesto, serve una fase nuova, ho condiviso con von der Leyen i contenuti dell’agenda riformatrice…». La favola di un Sud pigro e sprecone – generata da una classe dirigente inadeguata e corrotta – ha fatto da carburante per alimentare la macchina dello scippo perfetto. Ed ecco in che modo gli aiuti di Stato sono finiti in larga parte alla locomotiva d’Italia, la Lombardia che ora riesce a malapena a trainare se stessa. Dalla metà del 2017 la regione del presidente Fontana – un governatore che a volte sfiora forme di masochismo e si fa male da solo – ha incassato ben 3,5 miliardi di euro contro i 600 milioni della Campania. “Aiutini” di Stato andati anche a Veneto (1,5); Piemonte (1,3); Emilia-Romagna (1,3); Lazio (1,1); Toscana (1,0); Trentino-Alto Adige (1,0).

LE MANI DEL NORD SUI FONDI EUROPEI. Sono i numeri di un’Italia rovesciata. Con il Mezzogiorno che invece di aumentare la spesa degli investimenti pubblici la vedeva ridurre dello 0,5% rispetto all’anno precedente (Fonte Cresme). Il rischio di uno scenario da deriva greca, un Sud dove il reddito pro-capite è la metà o quasi del Nord, un sistema Paese che non tira più, il fantasma della Troika che avanza. Appena due mesi prima che si scoprisse la diffusione del virus a Cologno una nostra inchiesta sui carrozzoni suonava profetica: Il 42 per cento delle risorse sanitarie incassate dalle Regioni del Nord, il 20 per cento dalle regioni del Centro e il 23 per cento da quelle del Sud. Dati della Corte dei conti, diffusi in tempo non sospetti, in cui si diceva tra l’altro che la quota di riparto del fondo sanitario nazionale era cresciuta in Lombardia del 1.07 per cento contro lo 0,75 per cento della Calabria, lo 0,42 per cento della Basilicata e lo 0,45 per cento del Molise. In pieno lockdown c’è stato anche chi, qualche tecnico del Mef, ha pensato di sfruttare la catastrofe del contagio per dare alla Lombardia i finanziamenti dei fondi europei destinati al Sud. La catastrofe della catastrofe. Una “rapina di Stato” in tempo di pace.

RI-FATE PRESTO IL DECRETO ILLIQUIDITÀ. Con il protagonismo dei governatori si è scoperto l’inganno dell’autonomia differenziata. La sanità pubblica svuotata, i presidi territoriali dismessi, i vantaggi concessi al privato. I viaggi della speranza dei cittadini del Mezzogiorno per gonfiare le tasche dei privati. Il modello-Formigoni che stiamo ancora pagando a caro prezzo. In questo clima è partita la campagna “Ri-fate presto”. Un conto alla rovescia contro la burocrazia e contro “l’esproprio” del decreto di lancio. L’assurdo di uno Stato che invece di risarcire il danno arrecato ne approfitta per entrare nel capitale sociale delle aziende con Invitalia e Cdp. L’assenza di una cabina di regia, le responsabilità del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri. Il fallimento del decreto “illiquidità”, l’incapacità di fornire prestiti agli italiani e alle imprese in difficoltà. Il “tappo” delle banche ammesso ancora ieri da Bankitalia, la rabbia degli italiani e di quanti saranno costretti ad abbassare la saracinesca. Il ruolo della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario presieduta dalla deputata Carla Ruocco. Il caso limite degli “appestati”, i tanti italiani finiti per avventura o per disgrazia nella famigerata Centrale rischi della Banca d’Italia, Condannati “a morte” magari solo per una rata scaduta.

L’APPELLO PER GLI STATI GENERALI. Difficile in questi giorni liberarsi dall’impaccio del reale e sognare una ripartenza di slancio. La crisi da Covid ha messo a dura prova le difese immunitarie di un Paese già in sofferenza. La liquidità che arriva con il contagocce, le aziende che chiudono, il terrore di una seconda ondata, le nuove stime negative della Federal Reserve. Da qui l’urgenza di abbattere le burocrazie ministeriali e bancarie e dotarsi di un piano strategico di lungo respiro. È partito da queste considerazioni l’appello lanciato dal Quotidiano del Sud per la convocazione degli Stati generali dell’economia, l’esigenza di gestire in modo ottimale ed efficiente il fiume di denaro che arriverà dall’Unione europea. Un appello raccolto dal premier Conte, osteggiato da falchi, gufi e altri volatili in libera uscita, da gabbia o da voliera. E la battaglia continua.

EQUITÀ: UNA SCELTA ETICO-POLITICA A VANTAGGIO (NON SOLO) DEL MERIDIONE. Raffaele Vescera il 12.06.2020 su Movimento 24 agosto. Di Roberto Cantoni. Il meridionalismo fa più bene o male alle istanze meridionaliste? La domanda può sembrare senza senso, ma la riflessione nasce da una critica spesso formulata da parte di pensatori e pensatrici di sinistra a movimenti come il nostro che, seppur teso all’equità territoriale in tutto il territorio italiano, nasce come geograficamente ancorato a una realtà macroregionale ben precisa. Semplificando all’osso, per i pensatori di sinistra di estrazione marxista, la cosiddetta politica “della singola questione”, cioè quella che si concentra su un tema in particolare – sia questo inerente al genere (movimenti femministi), all’etnia (movimenti antirazzisti), al territorio (movimenti regionalisti), all’ecologia  (movimenti ambientalisti), alla sessualità (movimenti anti-omofobia) – fa perdere di vista la lotta principale, che è quella di classe, che vede opposti gli interessi del capitale a quelli dei lavoratori, di qualunque etnia, provenienza e genere siano. Le altre lotte possono essere sussunte in quella di classe. Quella della politica della singola questione è una miopia, continuano i critici, che non fa che indebolire la classe degli sfruttati, dividendoli in sottoclassi antagoniste che potrebbero invece associarsi per combattere gli interessi del capitale. E mentre la sinistra si frammenta sulle singole questioni, scindendosi fino all’inverosimile (celebre la satira di Guzzanti-Bertinotti sulla “viralità” della nuova sinistra), la destra, che per sua natura è meno pluralista e più monolitica, se non si consolida, almeno non si frammenta, e di conseguenza risulta percettivamente più coesa, più convincente, e, in breve, vince le elezioni in mezzo mondo. Che poi è la tendenza generale degli ultimi anni. È la tesi, per esempio, del geografo marxista statunitense David Harvey. La domanda che Harvey ci potrebbe porre è quindi: e se calcando la mano sul meridionalismo ci perdessimo dei possibili alleati politici? Alleati che potremmo trovare, per esempio, in movimenti e partiti cui sta a cuore, come a noi, la questione dell’equità territoriale, ma che non ne fanno il principale cavallo di battaglia della loro linea politica? Non è, insomma, che concentrarsi sugli sfruttati del Meridione ci tagli fuori dalla possibilità di ricevere il sostegno degli sfruttati di altri territori? Non è una tesi nuova. Gramsci sosteneva, per esempio, che fosse possibile un’alleanza tra contadini nel Sud e operai del Nord, in nome di una società socialista. Ma erano gli anni Venti del secolo scorso. Cent’anni dopo, possiamo dire che quest’alleanza non si è verificata: in parte è stata una conseguenza della strategia di quella che Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani negli anni ’70 chiamarono ‘razza padrona’: mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri. In parte, è stato perché le premesse su cui si basava l’idea gramsciana in questo caso erano deboli. Troppo lontani gli interessi immediati di contadini e operai, troppo diverse le loro mentalità (anche se va riconosciuto che il figlio del contadino meridionale emigrava diventando operaio al Nord, quindi i confini tra i due gruppi non sono così netti come si potrebbe credere). Contadini meridionali troppo conservatori, quindi. Ironico, sei si pensa che il brigantaggio, stroncato dall’esercito piemontese, nacque proprio come lotta di classe. Ma quelle velleità di lotta erano state appunto annullate nel post-Conquista, o erano confluite in altre istanze rivendicative, non di classe ma di potere, ben radicate localmente. L’occasione persa di una possibile alleanza contadini-operai, e la presa d’atto del conservatorismo politico della classe agricola meridionale, portarono gradualmente la sinistra meridionale a distaccarsi dai suoi sfruttati, e ad assumere la narrativa operaista settentrionale come dominante. La rivoluzione si sarebbe fatta a partire dalle fabbriche, non dalle campagne. Questa narrativa si è poi espansa nei decenni, includendo pian piano istanze anticolonialiste, antisessiste e, a volte, anche antispeciste (o ecosistemiche). Ma, con buona pace di Gramsci, Salvemini e compagnia, quello della subalternità politica del Sud è rimasto un tabù, a sinistra, e lo è tuttora. In alcuni ambienti della sinistra massimalista meridionale riesce più accettabile battersi per le lotte basche, palestinesi e curde, che per la fine della subalternità del Sud al Centro-Nord o, per citare Nicola Zitara, del colonialismo interno italiano. Ma torniamo al punto: si perde o si guadagna, in termini strategici, puntando su una politica che abbia come cardine il Meridione? Dipende da come si struttura il discorso politico. Finita l’epoca dell’utopia gramsciana, occorre ricordare due punti: il primo sono i tantissimi meridionali che vivono al Centro-Nord; il secondo è che l’iniquità territoriale c’è anche in quelle zone. Se il Sud è la periferia d’Italia, laddove il Nord ne è il centro, il Nord rurale è la periferia del Nord centrale. Di conseguenza, le nostre rivendicazioni devono essere inclusive, e avere un obiettivo di ampia portata, il più universale possibile. È una scelta etico-politica, che il nostro movimento ha compiuto puntando sull’equità territoriale come obiettivo primario, e coniugando così gli interessi del Sud, territorio che subisce una forte iniquità territoriale, con quelli di altre zone del territorio italiano. “Ovunque qualcuno sia discriminato, lì c'è lavoro per M24A-ET. Non è una questione geografica, ma pratica (e morale)”, riporta la pagina di presentazione del Movimento. Il posizionamento è chiaro. La questione non è più, quindi, soltanto quella del Meridione, ma si tratta di una rivendicazione più ampia, potenzialmente in grado di coinvolgere anche realtà non meridionali. Una rivendicazione che però non può e non deve prescindere dalla storia politica del territorio italiano. 

RAZZISMO CONTRO IL SUD E DIRITTI NEGATI. Raffaele Vescera il 06.06.2020 di Roberto Oliveri del Castillo, su Movimento 24 agosto. Il senso del 2 giugno, tra razzismo strisciante e diritti negati. Le celebrazioni della Festa della Repubblica cadono quest’anno in un momento molto delicato. Fuori dalla retorica, esse coincidono con il termine della mobilità tra regioni bloccata dal marzo scorso per l’emergenza Covid19, e nel pieno delle polemiche innescate dalle dichiarazioni del sindaco di Milano Sala, ed altri politici del Nord,  in risposta alle richieste provenienti da alcuni presidenti di regione del Sud, che chiedevano controlli e attestazioni di negatività al  Covid19 per consentire gli ingressi ai turisti provenienti da nord. A questa richiesta, che appare di puro buon senso, il sindaco Sala ha risposto con un minaccioso “Ce ne ricorderemo”  (“Patente di immunità chiesta ai milanesi? Ce ne ricorderemo”, Corriere della Sera, 27 maggio 2020). In tema di ricordi, anche noi ne abbiamo qualcuno. Ad esempio ci ricordiamo ancora come furono trattate Napoli e Bari all’epoca del colera, per una epidemia che fece a Napoli 24 morti e poco più di 200 ricoverati nel 1973. Ebbene, si scatenò una vera e propria psicosi, incrementata e fomentata dagli articoli dei maggiori quotidiani  dell’epoca. L’assessore regionale alla Sanità della Lombardia, diramò una nota in cui raccomandava a chiunque provenisse da “zone infette” di presentarsi agli uffici sanitari comunali per controlli; a Sanremo, una famiglia di napoletani fu rifiutata dall’albergatore perché gli ospiti presenti (pare tedeschi, milanesi e torinesi) non erano disposti a condividere l’albergo con i malcapitati napoletani; l’incontro di calcio Genoa-Napoli di Coppa Italia fu vietato per evitare l’arrivo in Liguria di tifosi napoletani al seguito della squadra, “per evitare pericoli di diffusione del colera”; la Lega Calcio dispose l’inversione del campo, ma di giocare a Napoli si rifiutarono i giocatori del Genoa, per gli stessi pericoli di infezione; per gli stessi motivi i giocatori del Verona si rifiutarono di scendere  a giocare a Bari, dove si registrava un altro piccolo focolaio infettivo. “Rifiuti giusti”, dirà il Corriere della Sera del 16 settembre 1973. Nonostante  i numeri veramente esigui dell’epidemia di colera, subito isolata e sconfitta grazie al lavoro di quella che già all’epoca era una eccellenza nazionale come l’Ospedale Monaldi, il blocco subito da Napoli si protrasse per diversi mesi. Non si registrarono, tuttavia, commenti indignati, strali contro il razzismo più o meno strisciante, invocazioni contro sentimenti antinapoletani o altro. Invece in questi mesi abbiamo perso il conto di quanto giornalismo-straccio abbia scaricato sul Sud ogni genere di invettiva, quasi come se il Covid19 al Nord l’avesse portato qualche napoletano o qualche calabrese. Come non ricordare ad esempio la domanda posta da Barbara Palombelli (Stasera Italia del 20 marzo 2020): “Il 90% dei morti è nelle regioni del nord. Cosa può esserci di diverso? persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?”. Quindi a noi ci avrebbero salvato disoccupazione e nullafacenza. O ancora, sempre in risposta alle perplessità avanzate dal presidente della regione Campania De Luca ed alla prospettiva di chiudere la Campania agli arrivi da nord in caso di contagio ancora in atto,  alla trasmissione di Rete4 “Fuori dal coro”, Vittorio Feltri rivolto a Mario Giordano, che gli chiedeva se pensava di andare in Campania, “Perché mai dovremmo andare in Campania? A fare cosa?  I posteggiatori abusivi?” per poi aggiungere: “I meridionali sono inferiori”. Innumerevoli poi i servizi giornalistici finalizzati a scoprire violazioni delle indicazioni antiassembramento a Napoli, con la giornalista RAI Serena Bortone (Agorà 15 aprile 2020) che chiede all’inviata milanese (ma a proposito, la RAI non ha una sede a Napoli? perché inviare una giornalista milanese? a spese di chi? misteri…) “tu che hai uno sguardo nordico sul nostro amato sud, puoi dirci se Napoli è vuota o no?”. L’inviata risponde “siamo qui da mezz’ora e fin’ora cera  un passaggio di auto abbastanza forte nonostante sia una zona pedonale”. Ebbene, la scaltra giornalista era al limite tra una zona carrabile e la zona pedonale del Vomero (via Scarlatti), e comunque le immagini ritraevano durante tutto il servizio giusto un paio di vetture. Ma il massimo lo raggiunge dopo pochi secondi, quando è costretta a dire “Niente, non siamo fortunati, in questo momento non c’è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio di auto intenso”. Certo, ci crediamo. Ma il pregiudizio antinapoletano può colpire involontariamente chiunque, anche una giornalista napoletana come Myrta Merlino, che  a “L’aria che tira” su La7, dirà sull’ospedale Cotugno, “Per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli. La storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”, costringendola poi alle scuse per le successive polemiche. Il servizio parlava del fatto che per tutto il periodo dell’epidemia nell’ospedale napoletano attrezzato per il Covid19, non si era registrato alcun contagio tra il personale medico e paramedico, come rimarcato da testate straniere (SkyNews UK). Qualche riflessione su questo tipo di giornalismo scandalistico e discriminatorio, e sull’atteggiamento di certa politica, ai limiti del razzismo,  va pur fatta. E la riflessione va fatta partire, a mio avviso da lontano, dai primi anni ’90 del secolo scorso, grosso modo con l’esplosione del  “leghismo”, quando nel dibattito politico fanno irruzione concetti di critica smodata a presunte  politiche assistenzialiste alle regioni del Sud, con le risorse del ricco Nord produttivo, invalse soprattutto dagli anni ’50 del secolo scorso fino agli anni ‘90. Su tali argomenti il “leghismo” ha costruito le sue fortune politiche sin dalla nascita, al grido di “Roma ladrona”, “Sud parassita”, “indipendenza del Nord” e così via, quasi che tutti i mali dell’Italia che produce fossero sintetizzati nella parola “Sud”, e che l’unica soluzione fosse staccarsene, o meglio minacciare il distacco per ottenere vantaggi di tipo politico ed economico. Ma in fondo, i fatti sono realmente come vengono esposti da questa facile vulgata di provincia? Esiste sul serio questo Sud improduttivo che consuma le risorse del Nord? O invece, scavando un po' nel passato e nel presente, troviamo che è vero il contrario, ovvero che storicamente il Nord ha ampiamente saccheggiato  le risorse del Sud, le sue energie migliori, ed ha continuato per decenni a destinare percentuali minime di bilancio alle infrastrutture del Sud a vantaggio del Nord, più omogeneo alla nuova classe dirigente sabauda? Ed a tutt’oggi,  continua o meno, con la complicità delle organizzazioni criminali e di una classe politica meridionale collusa e corrotta, ad utilizzare il nostro Meridione come una colonia d’oltremare, una terra da riempire di spazzatura spesso pericolosa come una enorme discarica, per traffici illegali, o con industrie obsolete ed inquinanti come l’ex Ilva, lasciandoci in una costante situazione di sudditanza? E infine, quello che sta accadendo intorno al calcio, con cori razzisti e discriminatori in molti stadi del centronord sempre contro Napoli e i napoletani, visti come simbolo di “Sud”, di “diversità”, di “minorità socioculturale”, con agguati organizzati da centinaia di teppisti contro una carovana di tifosi napoletani con famiglie al seguito, è ancora qualificabile come follie di pochi facinorosi, oppure è ormai reale sintomo di una società malata di razzismo e di odio discriminatorio nei confronti del “diverso”, di colui che appartiene ad altra collocazione geografica, il meridionale per antonomasia? Le cronache di questi mesi sono l’ennesima riprova che probabilmente la malattia non può essere confinata al mondo del calcio, ed ha invece contaminato ed eroso le radici stesse della nostra convivenza civile, come dimostrano le polemiche dei mesi dell’emergenza Covid19. Proviamo allora a riflettere su quanto questo razzismo strisciante, carsico,  che esplode e viene in emersione ciclicamente in occasione di incontri di calcio (dove le tifoserie avversarie si coalizzano addirittura insultandone una terza estranea,  o organizzando addirittura agguati armati nei confronti di famiglie inermi che si recano allo stadio) come in occasione di emergenze nazionali, quanto sia profondo, e quanto radicato nella nostra società, poiché quanto più queste radici affondano nella storia, tanto più sarà difficile estirparlo e bruciarlo come si conviene ad una gramigna che soffoca la pianta buona. Volendo affrontare la questione con qualche base attendibile dal punto di vista storico, si dovrà quindi mettere necessariamente in discussione qualche certezza storica, in realtà priva di fondamento, e rimettere al contempo in discussione quanto la vulgata risorgimentale ha  sapientemente instillato in 150 anni di celebrazioni di una unità nazionale densa di retorica ma a ben vedere priva di fondamento. Una unità nazionale che,a fare attenzione, appare essere stata imposta dalla dinastia sabauda – contro la volontà dello stesso Cavour - per propri scopi di potere e arricchimento personale, con il ricorso alla forza, a due popoli quello del nord e quello del sud,  che non avevano alcuna intenzione di essere uniti, e con il ricorso ad un vero e proprio genocidio della popolazione meridionale gestito dalle sfere militari piemontesi, col beneplacito del Re Vittorio Emanuele II e  del Conte di Cavour, dal famigerato gen. Enrico Cialdini e i suoi sottoposti. Ma ciò che non molti sanno, soprattutto perchè in questi 150 anni sapientemente censurato ed espunto dai  libri di storia ed emerso solo in saggi storici di autori non di regime, sono i giudizi e le affermazioni di stampo razzista, spesso provenienti da riconosciuti “padri della Patria”, che costituiscono l’antecedente culturale diretto delle attuali vergognose cronache a margine di molte partite di calcio. Il primo ad esprimersi in termini inequivocabilmente razzisti sull’unione tra nord Italia e stati del Sud fu Massimo D’Azeglio, che in un lettera privata scrisse: “La fusione con i Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso” (cit. da Giordano Bruno Guerri, Il sangue del sud – antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio, Mondadori). Ma D’Azeglio è solo uno degli esempi di eroi del Risorgimento che in privato dimostrava di detestare i meridionali e in un certo senso svela quali logiche e quali inconfessabili motivi hanno portato i piemontesi all’annessione del Regno di Napoli. Cavour e Farini, suo ministro degli interni nel 1860, avevano fitte corrispondenze dove il secondo scriveva al primo: “Che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro (che all’epoca comprendeva le province di Caserta e Frosinone, ndr.). Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a confronto di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. Anche nei resoconti giornalistici il Sud viene considerato una terra da annettere e civilizzare piuttosto che una regione che entrava alla pari in un nuovo stato, sicuramente più simile ad una colonia d’oltremare che ad un territorio di pari dignità. E l’emblema di questa presunta arretratezza ed inciviltà risiedeva nella vecchia capitale, vista come una terra caratterizzata da “incapacità, corruzione, inerzia, abitata da un popolo ignorante, ozioso, instabile” come scrive un parlamentare impegnato, come Costantino Nigra, nella campagna contro il brigantaggio, e addirittura un parlamentare di sinistra come Aurelio Saffi, deputato di un collegio lucano, definì il Sud “un lascito della barbarie alla civiltà del XIX secolo”. Il famoso luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, scriverà al Generale: “ (il Sud) è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandare in Africa a farsi civile”. Il presidente del Consiglio unitario dopo Cavour, Bettino Ricasoli, definì Napoli, fino a pochi mesi prima una delle prime e più brillanti capitali d’Europa, “una cloaca massima dove tutti gli uomini più  onesti sono destinati a perire”. E i pochi meridionali che facevano parte dei primi governi unitari non furono da meno quanto a pregiudizio antiborbonico e antimeridionale, essendo ormai di cultura piemontese e schierati con lo stato sabaudo dal quale traevano vantaggi politici e benefici economici come l’economista napoletano Scialoja e l’abbruzzese Spaventa, ed avendo ormai da anni reciso i legami con le terre d’origine. La realtà è che la spedizione dei Mille e tutto il clima politico e sociale precedente lo sbarco di Marsala, aveva creato l’attesa di una svolta epocale e un alba di nuovi diritti, soprattutto nelle classi meno abbienti;  i contadini, da sempre sfruttati dal regime baronale, credevano che con Garibaldi finalmente si sarebbe affrontato il tema della distribuzione delle terre, da sempre respinto dai grandi latifondisti. E tuttavia, nei momenti critici come in caso di carestie, la ricchezza del regno borbonico e la sua vocazione paternalistica consentiva interventi a sostegno delle popolazioni con distribuzioni di farina e pane, cosa che invece non si verificò più con i nuovi regnanti. Inoltre, le promesse di terre fatte da Garibaldi furono subito smentite dai Savoia, che cercarono il consenso dei vecchi ceti nobiliari e della nuova borghesia imprenditoriale sempre a scapito dei contadini. Ciò determinò l’emarginazione del vecchio Generale che di fatto si ritirò a Caprera dopo l’incontro diTeano proprio per il naufragare degli ideali unitari e nel vedere la guerra al brigantaggio condotta con criteri cruenti e colonialistici.  Su quella che si avviava a diventare una vera e propria guerra civile il vecchio Generale ravvisava “una questione sociale, che non si poteva risolvere col ferro e col fuoco, di cui erano responsabili il Governo e la borghesia, e che in gran parte dovuta allo scioglimento dell’esercito borbonico senza che lo stesso fosse assorbito nel nuovo esercito nazionale”(cfr. E.Perino, Vita di G. Garibaldi, 1882, p.796). Già nel 1861, quando i focolai di rivolta erano diffusi in tutto il territorio dell’ex Regno di Napoli, Cavour nominò luogotenente generale per le zone annesse il principe Eugenio di Carignano, al quale veniva affidato il compito di normalizzare la situazione dell’ordine pubblico nelle zone del Sud, con una lettera dal tenore inequivoco: “Il Paese e il Parlamento reclamano a gran voce che si adotti un sistema di rigore e di fermezza che si imponga alla razza volubile e corrotta del Regno di Napoli”. Non c’è da meravigliarsi, se queste erano le disposizione governative, se la guerra al brigantaggio assunse accenti da vera e propria crociata quando morto Cavour, e salito al potere Ricasoli, di idee ancora più estreme, il compito di sovrintendere all’ordine pubblico fu dato al famigerato generale Enrico Cialdini. A costui non solo si deve la distruzione,con l’uccisione deliberata di gran parte dei suoi abitanti, compresi donne vecchi e bambini, dei due paesi simbolo di quella che a tutti gli effetti può essere chiamata “la guerra civile risorgimentale”, ovvero Pontelandolfo e Casalduni, ma si devono anche le cifre delle sue attività solo nelle province napoletane: circa 9.000 fucilazioni, oltre 7.000 prigionieri, 6 paesi distrutti, oltre 13.000 prigionieri deportati, 1.400 paesi posti in stato d’assedio. Non sono numeri da lotta alla criminalità, ma numeri da guerra civile nei confronti di popolazioni colonizzate malvolentieri e tutt’altro che aderenti con liberi plebisciti (per lo più taroccati) ad un nuovo stato unitario su basi paritarie. Tra il luglio e l’agosto 1861 Abruzzo, Molise, Sannio, Ciociaria, rappresentano i luoghi più sconvolti da insorgenza, ribellioni, massacri di massa. Solo a Napoli, e solo nel mese di Luglio 1861, il gen. Cialdini aveva fatto fucilare quasi 600 oppositori, oltre a centinaia di incarcerazioni sommarie. Tra questi i briganti veri e propri erano una minima parte, per il resto vi erano soggetti che per la storiografia ufficiale viene ascritta al brigantaggio, mentre per la versione borbonica erano semplici oppositori del regime sabaudo e pubblici critici della monarchia piemontese.  Tra gli arrestati figura addirittura il Cardinale Sisto Riario Sforza e il suo vicario, lasciati in carcere qualche giorno e poi portati in nave a Genova. La ribellione armata in quei giorni montava, Castellammare era tornata sotto il controllo borbonico, e la stessa Napoli era in procinto di essere assediata da truppe legittimiste borboniche. Cialdini chiese aiuto (di nuovo, dopo quanto era avvenuto durante lo sbarco di Marsala, evidentemente secondo precisi accordi presi da Cavour) al commodoro inglese che era di stanza in zona, e ben 400 soldati inglesi sbarcati dalla nave da guerra Exmouth (a proposito, ma che ci facevano nel porto di Napoli?) aiutarono i piemontesi a respingere gli assalti. Poco dopo altre sette navi britanniche giunsero con compiti di supporto e se necessario, di intervento armato, ovvero bombardare gli insorti. In quei giorni Pontelandolfo era tornata sotto controllo borbonico con l’intero paese che aveva festeggiato il ritorno delle insegne di Francesco II. Cialdini fece muovere le truppe del generale de Sonnaz da Campobasso, tra queste un drappello di una quarantina di soldati agli ordini del tenente Cesare Augusto Bracci che  doveva restare nei dintorni di Pontelandolfo, in attesa dei rinforzi, senza addentrarsi nell’abitato, affatto sicuro. Invece l’incauto Bracci entrò nel paese e fu circondato da una folla di contadini armati. Decise così di fare rotta verso Casalduni, ma la strada era controllata da reparti dell’esercito borbonico sbandati, agli ordini del sergente Angelo Pica, detto “Picuozzo”, lo scontro fu inevitabile e i piemontesi (l’esercito si sarebbe potuto chiamare italiano solo se fossero stati implementati i reparti borbonici, ma non essendovi soldati napoletani, l’esercito continuava in sostanza ad essere quello piemontese) ebbero la peggio, alcuni soldati savoiardi morirono, e gli altri furono disarmati efatti prigionieri.  Condotti a Casalduni, il sergente Pica voleva liberarli dopo averli interrogati, trovandoli non colpevoli delle precedenti razzie nella zona, ma la folla ne decretò la fucilazione come rappresaglia per le violenze commesse dai soldati piemontesi in quei mesi nella zona, quando le soldataglie razziavano, uccidevano, violentavano civili inermi nel tentativo di avere notizie e informazioni sulle bande di briganti della zona, che tali erano le modalità della raccolta di informazioni in questa vera e propria guerra civile. La rappresaglia decisa da Cialdini fu quella che si percepisce tra le pagine non dei manuali di storia, che non ne parlano, ma nelle pagine di saggistica specifica, di siti internet alternativi (tutti citati da G.B.GUERRI, Il sangue del Sud, cit.)  e non censurate dalla retorica di Stato. I due paesi furono distrutti ed incendiati di li il 14 agosto 1861 con tutti i loro abitanti (Pontelandolfo ne contava 5.000, Casalduni 3000: oggi sono ridotti a meno della metà). Le cronache ufficiali parlano di circa 160 morti. Quelle ufficiose di almeno 900 morti ed un numero imprecisato di dispersi, tanto che il deputato milanese Giuseppe Ferrari in Parlamento si espresse così rivolto a Cavour, dopo aver fatto un viaggio nei due paesi distrutti, rievocando l’orrore visto direttamente a Casalduni: “A destra e a sinistra le mura erano vuote e annerite, dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati…edifici puntellati  minacciavano di cadere a ogni istante…”, e a poche anime che ancora vagavano come fantasmi si vedeva in faccia l’orrore vissuto delle razzie dei piemontesi che depredavano le case prima di incendiare e uccidere al grido di “Piastre! Piastre!” mentre cercavano gioielli e preziosi, addirittura strappandoli di dosso alle donne prima di violentare ed uccidere. “Di fronte ad un uditorio dal quale provenivano anche risate e sghignazzi, Ferrari concluse: “Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so come esprimermi” (cfr. “ Il sangue del sud”, G.B. Guerri, cit. , pag. 150, 151). A fronte di dati difficilmente discutibili date le stesse cronache di soldati piemontesi (basta leggere i resoconti dell’eccidio redatti da Carlo Mangolfo, un bersagliere di Sondrio citato da Giordano Bruno GUERRI nel suo ultimo saggio citato sopra) ci sono ancora ricostruzioni  di storici filo- piemontesi tese a minimizzare i fatti e gli eventi di quell’agosto di sangue del 1861, per lo più  prive di fondamento storiografico o basate su letture di parte, oltre che infarcite di luoghi comuni giustificazionisti con la “lotta al brigantaggio”, in cui “bisogna tenere conto del contesto” e “dell’uccisione di 41 soldati del Regio Esercito” (cfr. “Il doppio massacro di Pontelandolfo”, Sergio Boschiero, in Storia in rete del 12.6.2018, pag. 62 e ss., o ancora “Borbonia felix…o infelix?”, altro articolo folcloristico e irridente, Pierluigi Romeo di Colloredo, ivi, pag. 18 e ss.). In questa pseudo saggistica filo-piemontese , dove si giustifica tutto, si mette  quasi in burla il Regno delle Due Sicilie, si legittima l’operato di Cialdini e Negri (il comandante sul campo che si occupò della rappresaglia verso i due paesi),  dove si afferma che “le violenze c’erano da entrambe le parti”, e che c’era la legalità da una parte e i terribili briganti dall’altra,  (con ciò da una parte negando la realtà di una vera e propria guerra civile che infiammò il decennio tra il 1860 e e il 1870, e dall’altra legittimando il concetto di rappresaglia nei confronti di inermi popolazioni civili, che costituisce a tutti gli effetti  un crimine contro l’umanità come hanno dimostrato i processi instaurati solo 80 anni dopo contro i nazisti (Fosse Ardeatine, Marzabotto, etc.), stranamente si tace un aspetto. Ma alla fin fine, perché? Perché queste trame diplomatiche, questi accordi internazionali tra Regno sabaudo, Francia, Inghilterra, questa ansia di procedere alla unificazione delle terre  italiane, questi movimenti di truppe senza bandiera e senza uniforme, quando le popolazioni che si volevano unificare erano così arretrate, barbare, povere, incolte, e piene di difetti, tali da essere più africane che italiane? Per gli ideali di unità, di Patria, di italianità? o non c’erano dietro ben definiti interessi economici che condividevano I Savoia con Francia e Inghilterra, magari paludati e occultati da grandi ideali patriottici? Ci sarebbe materia per un'altra ben più lunga riflessione, che non è il caso di infliggere al paziente lettore di queste note. Sta di fatto che spesso i più biechi interessi economici vengono veicolati nella popolazione con ben più allettanti principi e ideali, basti pensare alla dottrina Wilson e all’autodeterminazione dei popoli, che se da una parte si poneva come argine al totalitarismo, dall’altra consentiva la rivendicazione di autonomie anche violente per il crogiulo di popoli costituito dall’Europa soprattutto nell’Est, o in tempi più recenti ai processi di integrazione europea basata solo su criteri di matrice economica. Ebbene, forse la risposta sta, come sempre, nelle analisi economiche piuttosto che negli ideali dei patrioti. Citando uno studio di Francesco Saverio Nitti, non certo uno studioso “neoborbonico” contemporaneo, G.B. GUERRI riporta dati economici inequivocabili. Nel 1860 la riserva aurea del Regno di Sardegna ammontava a 27 milioni di lire, il Granducato di Toscana aveva da parte 85, 2 milioni di lire, Romagna Marche ed Umbria 55,2, mentre le riserve auree del regno delle Due Sicilie ammontavano alla astronomica cifra di 445, 2 milioni.  Ecco spiegato, forse, il motivo di tanto fervente ardore ideale nel Re sabaudo, e perché invece uomini politici più avveduti come lo stesso Cavour, a fronte delle differenze sociali e culturali, auspicavano invece soluzioni federaliste, purtroppo non considerate né da Vittorio Emanuele II per ingordigia, né da Francesco II per incapacità e miopia politica, non volendosi inimicare il Papa. L’annessione si rivelò, quindi, un grande affare per il Piemonte, e mentre da una parte il Sud era letteralmente depredato delle sue ricchezze, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche all’avanguardia tecnologica,  dall’altra parte lo stesso Sud era ridotto a colonia di smistamento dei prodotti industriali del nord Italia, ed in più, oltre ai danni, la beffa delle cronache folkloristiche sulla presunta inferiorità civile e morale dei meridionali, quasi a giustificare il sacco che stava avvenendo. Se oltre a questo aggiungiamo che la spesa per le terre nell’ex regno di Napoli raggiungeva percentuali minime di bilancio rispetto a quanto era speso al Nord, con la complicità di una classe dirigente meridionale parassitaria, collusa e cialtrona, ben descritta da Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”,  il quadro di insieme di quella che già allora era definita “la questione meridionale” appare completo. Ce n’è abbastanza per cominciare a rivendicare, magari proprio per il 14 agosto, la data per il ricordo delle vittime del genocidio della gente meridionale che si opponeva all’invasore piemontese e che tradì tutti gli ideali di svolta sociale e di rivendicazioni libertarie che venivano evocate in quel periodo, procedendo ad una annessione colonialistica basata sul saccheggio e sul sangue dei vinti. E sarebbe l’ora che le sonnacchiose e inerti classi politiche meridionali trovassero un minimo di coraggio ed orgoglio identitario per far finalmente riscrivere una pagina di storia negletta e soffocata da una retorica di regime ormai insopportabile e appestata dal tanfo mefitico della menzogna. Con ciò non si vuol certo difendere un regime reazionario, autoritario e sanguinoso come quello borbonico sotto il Re Ferdinando II, o dire che tutto era perfetto  nel Regno delle Due Sicilie come fosse una Città del Sole, (come vuol fare apparire in modo poco storico e molto folkloristico  l’articolo “Borbonia felix o …infelix?” lo storico  Pierluigi Romeo di Colloredo sulle tesi neoborboniche, in Storia in rete, cit., pag. 18 e ss.). Si vuol solo dire che gli ideali di libertà, riforme economiche, diritti civili, utilizzati nella propaganda filo-sabauda e che tanti convinse a sposare la causa “unionista” si è rivelato un autentico specchietto per le allodole, e la dimostrazione di ciò si ebbe con la saldatura tra la classe dirigente piemontese e le classi abbienti soprattutto siciliane, a danno dei ceti contadini e produttivi del Sud, e ancora di più, sotto il profilo militare, con la battaglia d’Aspromonte tra piemontesi e garibaldini, dove Garibaldi fu bloccato nel proposito di spingersi fino a Roma, e arrestato per impedirgli altri colpi di mano. “Loro hanno creduto”, si potrebbe dire parafrasando il famoso romanzo di Anna Banti, a proposito dei patrioti meridionali che tra il 1848 e il 1860 pensavano di instaurare un regime di riforme e di libertà al Sud grazie ai Savoia, mentre invece consentirono ad un regime autoritario di sostituirsi ad un altro, come si vede anche nel bel film di Mario Martone. Quindi non tanto deprecare un’unità che, come si è visto, in realtà si voleva solo per interessi economici,  ma deprecare e stigmatizzare il modo attraverso il quale si è giunti a tale unità, a colpi di cannone e di stragi piuttosto che di riforme sociali e diritti civili,  che consentissero di rendere omogenei due territori e due popoli tanto diversi per storia, cultura, costumi, lingua. Partendo da tale consapevolezza, non è escluso che possa ripartire con maggiore serietà anche una più incisiva battaglia per debellare il razzismo negli stadi italiani, esemplificato dai cori discriminatori e razzisti, sospendendo le partite e chiudendo settori di stadi allorquando queste vergogne avvengano. Gli anni tra le due guerre mondiali e dal secondo dopoguerra ad oggi, con spese in bilancio caratterizzate sempre da fondi destinati in gran parte al centro nord, ed al sud erogati con criteri emergenziali e di stampo assistenzialistico, che hanno finito per ingrassare criminalità organizzata e ceto amministrativo parassitario meridionale, costruendo generazioni di politici di respiro strettamente localistico, è fenomeno tutt’ora particolarmente evidente con l’assenza di interventi strutturali seri e credibili per la vita delle comunità locali (le vicende kafkiane del Palagiustizia di Bari, atteso da 20 anni, o dell’ILVA di Taranto, per restare in Puglia, sono emblematiche del  gattopardismo nostrano  e  connotano da decenni la vita pubblica meridionale). In tutto questo, non c’è risvolto della vita quotidiana nel quale questo odioso cripto-razzismo non faccia a volte biecamente capolino, come in occasione della vicenda della annunciata nascita di un distaccamento della Scuola Superiore Normale di Pisa a Napoli, d’intesa con l’Università Federico II. Il progetto, dopo aver avuto tutti gli assensi dei due Atenei coinvolti e del competente Ministero, è stata fatta naufragare dal sindaco leghista di Pisa, insorto all’idea che Pisa e Napoli potessero unirsi in un progetto formativo di alta qualità. Le dichiarazioni rese alla stampa sanno tanto della frase di Massimo D’Azeglio sui napoletani, e costituiscono una brutta pagina per l’autonomia dell’Università: “Non ci sarà nessuna Normale al Sud. La scuola d’eccellenza è e resta pisana e rimane nella nostra città. Abbiamo fatto una battaglia per Pisa e la dimostrazione che quando le amministrazioni locali insieme ai deputati eletti lavorano per il territorio i risultati arrivano”. Il sindaco leghista di Pisa, Conti, può andare fiero di sé. Pisa è salva, anche se non si sa da cosa. Forse questo oscuro funzionario di partito non sa, tutto chiuso nell’angusto spazio di piazza dei Miracoli, che l’Università di Napoli, primo Ateneo laico d’Italia, vanta ben più blasonate join-venture, come quella con la californiana Apple, che da quest’anno ha aperto con il Politecnico partenopeo la Apple Developer Academy per 400 sviluppatori, e forse nemmeno sa che la Scuola Superiore Normale a Napoli si farà lo stesso, anche senza il connubio con il rinomato Istituto pisano. Si chiamerà Scuola Superiore Normale Meridionale e siamo certi che darà nuova linfa alle energie intellettuali del nostro Sud in un’ottica nazionale ed internazionale, e potrebbe costituire l’occasione, anche grazie alle vicende politiche contingenti  (che hanno portato l’ex rettore della Federico II Gaetano Manfredi a diventare ministro per la ricerca scientifica e l’università) a rimettere al centro del dibattito gli Atenei meridionali, troppo spesso bistrattati ed ignorati dai media anche nei tratti di eccellenza che pure ci sono. Una rivalutazione che passa anche per maggiori flussi di finanziamenti e una maggiore, si spera, attenzione alla qualità dell’insegnamento ed alla qualità dei docenti, magari cominciando a sospendere gli indagati per gravi reati (“Bari, docente universitario accusato di violenza sessuale resta in servizio”, Giuliano Foschini, la Repubblica, 25 maggio 2019). Quindi, in definitiva, se deve avere un senso la festa del 2 giugno, questo senso non può che partire dal recupero effettivo dell’art. 3 della Costituzione, e della necessaria effettiva parità tra tutti i cittadini, a prescindere dal territorio dello Stato a cui appartengono; parità di diritti e di prestazioni essenziali, che potrà essere assicurata solo quando l’accesso alla sanità, alla scuola, alla giustizia, all’università, al credito, all’attività d’impresa non sarà più negato ad interi territori, costretti alla migrazione al nord o all’estero per accedere a quelle prestazioni. Fino a che tali diritti e prestazioni essenziali saranno precluse a larga parte del sud, finchè politica e media continueranno a praticare il discredito del sud come mezzo di persuasione di massa, non ci saranno molti motivi per festeggiare la festa della Repubblica. Fino a quel momento, l’ unica distinzione tra le forze antagoniste nella società non sara’ tra destra e sinistra, o tra cattolici e laici, o tra moderati ed estremisti. L’unica  distinzione sara’quella che già nel 1946 (Cristo si è fermato ad Eboli, L’orologio) aveva intuito un intellettuale del calibro di Carlo Levi, ovvero tra  Luigini e Contadini, con tali termini intendendo i primi gli appartenenti al ceto degli sfruttatori, di quelli che si approfittano dei deboli, di quelli che impediscono agli altri pari diritti e pari dignità, qualunque sia la funzione in concreto svolta e a qualunque latitudine appartengano, e i secondi gli sfruttati, anch’essi trasversali al tempo ed allo spazio, destinatari di una patria minore e senza l’accesso ai diritti fondamentali come alle prestazioni essenziali (per una approfondita analisi del dibattito, e sull’autonomia differenziata, cfr. M. Esposito, Zero al sud, Rubbettino). Quando la politica, finalmente equa, non porrà più le premesse per il mantenimento di due società distinte all’interno della stessa nazione e dello stesso popolo e la Storia, finalmente con la S maiuscola, verrà scritta rispettando gli accadimenti reali e non paludati dalla retorica monarchica prima e fascista poi, solo allora l’art. 3 della Costituzione potrà dirsi applicato nella sua integrità senza discriminazioni territoriali all’interno dell’unica Repubblica Italiana, frutto della resistenza al nazifascismo; allora e solo allora  il 2 giugno finalmente avrà la dignità che gli spetta di diritto.

·        La Questione Settentrionale.

Scusate l’errore: ai Comuni del Sud i fabbisogni vanno incrementati del 67% La controllata del Mef ridefinisce i criteri. Vuol dire 650 milioni in più per la spesa sociale e in gran parte a favore dei Comuni meridionali: Cancellato dopo anni l’obbrobrio di “zero servizi”. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 27 ottobre 2020. C’è voluta una lunga campagna di smascheramento per sgretolare omissioni, manipolazioni, pregiudizi bilaterali. Ma ora è scritto nero su bianco. E ad ammetterlo sono gli stessi che per anni si sono rifugiati dietro tecnicismi e vertiginose negazioni: i fabbisogni standard dei comuni delle regioni del Sud dovranno crescere del 67 %. Lo ha stabilito la Commissione tecnica del Sose, (Soluzioni per il sistema economico, società controllata dal ministero dell’Economia per l’88% e per le restanti quote dalla Banca d’Italia). La decisione avrà due effetti immediati: rovescerà i criteri adottati finora nelle valutazioni delle funzioni e dei servizi forniti dagli enti territoriali di prossimità, cioè i Comuni e al tempo stesso determinerà la ripartizione del fondo di solidarietà 2021 per i comuni delle regioni a statuto ordinario. Tradotto vuol dire 650 milioni in più per la spesa sociale e in gran parte a favore dei comuni del Sud.  Ma anche i comuni delle regioni del centro vedranno un incremento del 12 %, mentre i comuni delle regioni del Nord/ovest un decremento del 1,6% e i comuni delle regioni del Nord-Est un decremento dei fabbisogni del 6%. Viene dunque rovesciato quel principio che se un territorio non offre un servizio vuol dire che non serve. Un criterio a lungo utilizzato per negare al Mezzogiorno le risorse necessarie a garantire il cosiddetto minimo sindacale.

NASCE L’INDICE COVID DI AGGRAVIO SANITARIO. Una svolta epocale? In un certo senso sì. Se non fosse che già altre volte agli annunci sono seguite docce gelate o entrate a gamba tesa. Uno studio, sempre del Sose, ha messo a fuoco “l’indice di aggravio sanitario” determinato dalla pandemia. Un complesso rapporto che prende in considerazione vari parametri, ospedalizzati, posti letto, numero medi di casi di contagio, con una lunga serie di variabili. L’obiettivo finale è quantificare l’impatto che la prima ondata ha avuto sul tessuto sociale e sul reddito di aziende, persone fisiche, dipendenti in relazione alle spese dei comuni italiani. A livello nazionale la riduzione media è del 18,69%. Pe rle aziende è del 5,43%. Dati parziali e già da rivedere purtroppo in seguito alla seconda ondata. È un fatto però che la Commissione Tecnica abbia approvato u nuovi fabbisogni e che verranno utilizzati per determinare il Fondo di solidarietà comunale per l’anno 2021. Per anni, in attesa dei Lep, ci si è nascosti dietro calcoli “sballati”. La determinazione dei fabbisogni standard nasce per misurare le necessità degli enti locali a garantire servizi adeguati ai cittadini. Il confronto tra fabbisogni standard e capacità fiscale serve poi a commisurare l’entità delle perequazione. Peccato che non è andata cosi. Con il meccanismo della spesa storica – come più volte denunciato da questo giornale – si è finanziato solo l’esistente. Se in un Comune – per  fare l’esempio più noto  – l’asilo  c’era allora vuol dire che era essenziale e dunque  meritevole di finanziamento. E se non c’era? Pazienza. Zero finanziamenti. Un obbrobrio storico. Uno scippo in palese violazione di qualsiasi principio costituzionale.

UNIFORMARE I SERVIZI SUL TERRITORIO NAZIONALE. Da cosa nasce il ricalcolo? I nuovi fabbisogni prevedono l’adozione di nuove metodologie in particolare per le funzioni sociale e ambiente e territorio. Ciò comporta  variazioni soprattutto per la funzione sociale dove vi è stato un vero e proprio stravolgimento rispetto alle stime precedenti. Per la Sose – una Spa finita in questi giorni nell’occhio del ciclone per i presunti incarichi d’oro, collaborazioni da 247 mila euro l’anno a un pensionato co.co.co e per le acrobazie dell’ad Vincenzo Atella, un docente dell’università Tor Vergata,   che si sarebbe auto-nominato direttore generale – si tratta di una vera e propria inversione di tendenza. I filo conduttore che ha guidato le scelte della commissione per la funzione sociale è stato quello di prevedere una uniformazione del livello dei servizi, in tutto il territorio delle regioni a statuto ordinario. In alcuni punti il report della Ctfs sembra scoprire l’acqua calda. Ad esempio, quando, in base all’analisi dei dati desunti dal questionario e dai differenti livelli di spesa per il Settore sociale, riconosce le sostanziali  differenze  nell’erogazione dei servizi lungo l’intero territorio nazionale. In molti comuni l’intensità i – ma meglio sarebbe dire l’inesistenza dei servizi – è così bassa da apparire del tutto inadeguata a quanto richiesto per la tutela dei diritti civili e sociali. Ciò ha spinto la CTFS a definire “regole di normalizzazione” prendendo come  riferimento “il livello di servizi e i costi delle realtà più virtuose”. Per rendere più credibili e robusti i risultati, si è per la prima volta innovato il meccanismo metodologico scegliendo non più una sola provincia come riferimento ensì un gruppo di province “benchmark” ritenute particolarmente efficienti per aver offerto nel triennio di analisi un livello di servizi superiore alla media nazionale a fronte di una spesa inferiore alla media.

RISARCIMENTO TARDIVO. Queste scelte hanno determinato l’incremento delle risorse necessarie per poter garantire i fabbisogni standard dei comuni per poter erogare i servizi relativi alla funzione sociale, risorse che sono state stimate in un maggior fabbisogno, a regime, di circa 650 milioni di euro in più rispetto alla spesa storica di riferimento della funzione sociale. L’individuazione di un livello uniforme del servizio, individuando dei gruppi di comuni benchmark di riferimento (aggregati per provincia) ha determinato una forte variazione dei fabbisogni standard. In alcuni comuni del Sud l’assegnazione del fabbisogno raddoppia la spesa storica. Un risarcimento tardivo (meglio tardi che mai).

Sud e Nord, questione di fondi.  Giuseppe Coco su Il Corriere della Sera il 9/10/2020. La correlazione empirica tra crescita di un paese e evoluzione del sistema della finanza evidente. Ma gli economisti si dividono sulla sua interpretazione. Alcuni ritengono che il principale nesso di causalità vada dalla finanza alla crescita, altri nella prevalenza del nesso opposto. La finanza evoluta sarebbe il prodotto della crescita più che la sua conseguenza. In realtà esistono entrambi i nessi causali e certamente la finanza importante come precondizione per la crescita. In uno Stato unitario come il nostro quindi la fornitura di opportunità di finanziamento anche a imprenditori delle aree più svantaggiate deve essere un obiettivo di politica economica. Purtroppo questo obiettivo stato spesso travisato. In effetti esso non significa che il sistema bancario debba rispettare una qualche distribuzione territoriale del credito, e nemmeno che tutti i progetti di investimento debbano essere finanziati ovviamente. Significa che bisogna solo creare le migliori condizioni di finanziamento per gli imprenditori compatibili con la solidità degli intermediari. Ci sono una serie di ragioni per cui un mercato senza correzioni probabilmente non assicura questa condizioni nel Mezzogiorno. L’assenza di grandi banche meridionali rende più difficile l’accesso al credito (si veda la letteratura sulla distanza funzionale tra testa e sportelli delle banche di Zazzaro e Ferri per es.). In anni più recenti il credito bancario peraltro diventa sempre meno importante per finanziare lo sviluppo. Le restrizioni e i requisiti prudenziali sempre più stringenti sul credito rischioso assieme alla normativa antiusura, restringe i margini di manovra delle banche nel finanziare imprese innovative necessariamente più rischiose. La nuova finanza passa attraverso intermediari più evoluti. Si tratta dei fondi di private equity. La forma tipica di questi investimenti l’acquisizione di quote di capitale di rischio delle imprese. Un tipico fondo di private equity identifica imprese ad alto potenziale di crescita in settori fortemente innovativi (o che applicano tecnologie innovative in settori tradizionali) e ne finanzia la partenza o lo sviluppo, anche intervenendo nel governo dell’impresa. Trattandosi di una forma di investimento rischiosa e costosa in termini di acquisizione di informazione, consulenza e monitoraggio dell’impresa, anche per le professionalità evolute che richiede, riservata a imprese che possono dare rendimenti molto elevati. Ma queste sono anche le imprese che in maniera crescente faranno la differenza per la crescita dei territori. Fino al 2018 la quasi totalità degli intermediari di private equity era collocata al Nord. Anno su anno i finanziamenti a imprese meridionali si attestavano sul 2/3% del totale. Nel 2018, per iniziativa dell’allora ministro De Vincenti entrato in attività il cd Fondo Imprese Sud. Finanziato con fondi del FSC, questo fondo poteva finanziare solo la crescita di imprese con testa e sede nel Mezzogiorno, col vincolo di dover investire con soci privati. La successiva Finanziaria ne modificava la destinazione di fondi (dalla crescita d’impresa al finanziamento di startup innovative) e lo spostava sotto il cappello del Fondo Nazionale Innovazione presso Cassa Depositi e Prestiti. Purtroppo la transizione societaria da Invitalia ha comportato un ritardo di più di un anno nell’utilizzo dei finanziamenti, ma questo fondo oggi finalmente sta investendo velocemente le sue risorse su imprese innovative e brillanti, contribuendo a creare le condizioni per una imprenditoria di successo al Sud. Contemporaneamente il ministro per il Sud ha opportunamente reinserito nell’ultima Finanziaria una norma che rifinanzia il Fondo Imprese Sud con le caratteristiche e la vocazione originaria riaffidandolo con modalità identiche ad Invitalia. Il Fondo sarebbe in fase di partenza e colmerebbe un vuoto importante che potrebbe creare un tessuto di medie imprese utili a passare la tempesta anche a imprese minori nei territori di riferimento. Nel complesso la politica, o almeno la parte pi intelligente, stata sensibile a una esigenza di finanza evoluta per il Mezzogiorno. Si tenga presente che per le risorse riservate al Sud nel Fondo Nazionale Innovazione, sono al momento il 15% del totale. importante che il resto delle risorse non venga pensato come riservato al Nord. Alla stessa maniera importante che questa finanza non venga utilizzata per esigenze di ciclo politico. La progettazione dei fondi e la loro organizzazione fortunatamente al momento una garanzia che entrambe queste esigenze siano soddisfatte. 

Ecco la lobby che gonfia le casse della triade. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 25 settembre 2020. E’ la Terza Camera della Repubblica. Gestisce le risorse, ha voce in capitolo su tutto, anche su materie che sarebbero di esclusiva competenza dello Stato. Un oggetto misterioso che da 37 anni vive e convive  all’ombra del potere e costituisce essa stessa una sorta di contropotere. La sede nazionale è in via della Stamperia, al centro di Roma. Palazzo Chigi è a poche centinaia di metri ma le porte comunicanti non mancano.  Quando nacque, ufficialmente nel 1983, in pochi la presero sul serio e forse nessuno, neanche i fondatori, avrebbe immaginato il peso che poi avrebbe avuto in seguito. L’ultima formulazione conosciuta, riveduta e corretta, è “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Province autonome di Trento e Bolzano”.   E adesso, che l’avete scoperta, immaginateli, i presidenti, notabili di ieri e di oggi, immolati alla causa del federalismo, nella Sala delle riunioni. Un antico palazzo rinascimentale edificato da un cardinale. Tra affreschi, stucchi e antiche colonne si  decidono i destini delle nostre regioni, la quantità di asili nido, i ticket, il costo dei biglietti dell’autobus.  Destini che da tempo si ripetono con le stesse modalità e sempre nella stessa direzione. A chi tanto e chi niente, seguendo criteri imprescindibili e, casualmente, sempre a tutto vantaggio della triade: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, con incursioni toscane e piemontesi. In realtà, quando i fondatori si riunirono scelsero Pomezia, cittadina poco nota dell’hinterland romano. Più Centrosud che Centro. Più periferia che Roma. Era il 15 gennaio del 1981, quando alla stregua di carbonari, in una zona commerciale semi-disabitata e scarsamente illuminata, i presidenti delle regioni italiane si incontrarono all’Hotel Selene. Non pensavano certo che quella loro creatura sarebbe diventata un giorno l’appendice misconosciuta del Parlamento. Tutt’al più immaginarono di dar vita ad una conferenza consultiva, un organismo che avrebbe coordinato e semplificato i rapporti tra enti e governo.

IL VERBALE DEL 1981 “MAI CONTRO LA REPUBBLICA”. Nel verbale della prima riunione, poco meno di un documento storico,  un pezzo raro, custodito dallo Svimez come una reliquia, l’allora  presidente della Regione Liguria, il giurista Giovanni Persico, iscritto al Partito repubblicano e scomparso a 90 anni 5 anni fa,  volle fare una premessa: «È importante prevedere una organizzazione unificata,  uffici e strutture, per la documentazione e la ricerca che curi i rapporti tecnici con gli uffici amministrativi: ma la somma delle Regioni che è la Repubblica non può contrapporsi alla stessa Repubblica». Parole che oggi suonano come visionarie. Si pensi al gigantesco contenzioso con lo Stato, un’idrovora che si nutre di ricorsi e di burocrazia e paralizza sia enti che  ministeri. E si pensi al confronto/scontro quotidiano tra i governatori e il governo durante l’assedio della pandemia. Per evitare che la Conferenza diventasse un palcoscenico si propose che la presidenza avesse un unico potere:  convocare le assemblee e decidere l’ordine del giorno.  La definitiva istituzione, arrivata due anni dopo, nel 1983, ne ribadì lo spirito cooperativo.  Una conferenza come organo di raccordo per favorire il principio della leale collaborazione e favorire la concertazione. Non certo quello che poi sarebbe diventata, il centro decisionale della parte più sviluppato del Paese con una più o meno rigida separazione di funzioni. D’allora, dicevamo, molto è cambiato.  La spinta regionalista non si è tradotta in una Camera delle Regioni. Il referendum del 4 dicembre 2016, che avrebbe dato vita al Senato delle regioni, fu bocciato. Cosi che a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione sono cambiati gli assetti tra i diversi livelli di governo, la riforma è rimasta a metà e la Conferenza è stata riconosciuta a tutti gli effetti anche dalla Corte costituzionale. «I criteri con i quali vengono distribuite le risorse però non sono cambiati – punta il dito il professor Adriano Giannola, presidente della Svimez – i fondi della sanità, ad esempio, continuano ad essere ripartiti in base all’età della popolazione. Cosi che la Campania, una delle regioni più povere e più giovani d’Europa, continua a ricevere meno risorse. E questo discorso vale in genere per tutto il Mezzogiorno». Non è l’unica anomalia. «Se quel referendum voluto da Matteo Renzi avesse avuto un esito diverso, per il Sud la fregatura ci sarebbe stata comunque. In pochi rilevarono, e tra questi Massimo D’Alema che ne parlò una volta e poi basta, che i senatori sarebbero stati rappresentati in base alla popolazione. E dunque avremmo avuto anche allora più lombardi, piemontesi e veneti che calabresi o pugliesi».

LO STRAPOTERE DELLA TRIADE E GLI EQUILIBRI DI SALVINI. La Conferenza Stato-Regioni, presieduta dal ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia (Pd) si occupa impropriamente della ripartizione dei fondi per la sanità, fondi che costituiscono il 75% del bilancio delle regioni e la cui competenza generale resta a carico dello Stato. Gestisce le materie di attribuzione per ciascuna regione. Fatalmente economia, lavoro e sanità finiscono sempre agli stessi, cioè nell’orbita della triade. Ciononostante, non più tardi di ieri, il capo leghista Matteo Salvini, ha chiesto «nuovi equilibri nella Conferenza Stato-Regioni». il governatore veneto Luca Zaia, un minuto dopo ha rivendicato l’autonomia. Sarà un caso ma nella nuova segreteria del Carroccio è riapparsa come d’incanto l’ex ministro degli Affari regionali, Erika Stefani, la stessa che durante il suo mandato spacciò il Mezzogiorno come il paradiso dell’assistenzialismo prendendo per buoni solo i numeri della Ragioneria centrale dello Stato (il 22,5% del totale) e tralasciando quelli della spesa regionalizzata del settore pubblico (il 77,5%). Un’esperta nel gioco delle tre carte, insomma. L’assalto alla diligenza è pronto. La Lega vuole tornare al vecchio amore: autonomia e secessione. L’ultima casamatta è la Conferenza Stato-Regioni, destinata ad assumere sempre più rilevanza dopo la vittoria del Sì al referendum che ha tagliato la rappresentanza parlamentare. Per il gioco dei pesi e contrappesi crescerà invece il ruolo ipertrofico dei Super governatori. Forse qualcuno dovrebbe ricordare che le varie competenze degli enti regionali – politiche finanziarie, erogazione dei servizi pubblici; promozione di accordi di programma; processi di ricostruzione; consulenze socioassistenziali e gestione delle risorse Tpl – dovrebbero confluire in un solo obiettivo: la riduzione del disagio sociale: la creazione posti di lavoro, la lotta alla disuguaglianza e la perequazione infrastrutturale, (art.22 della legge Calderoli).  Temi ormai scomparsi dall’ordine del giorno della Conferenza. Con buona pace del ministro Boccia.

POVERI AL SUD E SPRECONI AL NORD. I soldi del Recovery Fund li mette l’Europa ma l’interlocutore non può essere la Conferenza Stato-Regioni. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 23 settembre 2020. La Regione Piemonte spende per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania che è così bene amministrata da avere il primato europeo del rischio povertà. La Regione Emilia Romagna ha la stessa popolazione della Puglia ma spende il doppio per i suoi servizi generali. Serve una interlocuzione politica e tecnica centrale di livello e vanno messi in riga i capetti delle regioni del Nord e del Sud. MA DAVVERO credete che il futuro di questo Paese possa essere nelle mani di chi ha amministrato una regione che ha conseguito il primato europeo del rischio di povertà? Se più di uno su due dei cittadini della Campania è a rischio povertà vuol dire che questo territorio sta messo peggio delle aree più svantaggiate di Grecia, Romania, Bulgaria, Spagna! Vi rendete conto di che cosa stiamo dicendo? Dove sono finiti i 7,5 miliardi l’anno del reddito di cittadinanza e i proclami del super ministro degli Esteri grillino, Luigi di Maio, di abolizione della povertà? Ma vi rendete conto che la Regione Piemonte spende per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania che è ridotta così e addirittura spende da sola di più di quanto spendono tutte insieme le Regioni Campania, Puglia e Calabria? Vi rendete conto che la Regione Emilia-Romagna dell’efficientissimo Bonaccini ha la stessa popolazione della Puglia ma spende esattamente il doppio per suoi servizi generali? Vogliamo parlare poi dei miliardi al vento bruciati dai carrozzoni burocratici e dallo stuolo di municipalizzate, società in house e appendici clientelari varie delle Regioni Lombardia e Emilia-Romagna? Lasciando per un momento da parte la vergogna di una spesa sociale e infrastrutturale che toglie indebitamente sviluppo al Sud e regala assistenzialismo al Nord, la spesa pro capite per scuola e sanità oscilla della metà da un capo all’altro del Paese, ma davvero davvero pensate che si possa affidare nelle mani dei “capi bastone” regionali del più grande sprechificio nazionale il futuro del Paese e la gestione del Recovery Fund? L’Europa si è rifatta viva ieri per chiedere ai singoli Paesi che cosa metteranno nelle loro leggi di bilancio. Per chiedere di fare bene i conti, quelli delle spese e quelli delle entrate, tenendo a mente le previsioni del Recovery Fund. Siamo al monitoraggio sistemico giorno per giorno. Questo impone all’Italia, più che altrove, di attrezzarsi con una interlocuzione politica e tecnica centrale di livello, concludente, che esprime la visione strategica del Paese e gli obiettivi operativi con il massimo della concretezza. I soldi li mette l’Europa e l’interlocutore dell’Europa non può più essere, come è stato di fatto fino a oggi, la Conferenza Stato-Regioni. A fare le riunioni, a definire il programma 2021/2027 ci vanno loro. Ognuno per conto suo. Ognuno facendo male per conto suo. I risultati raggiunti fino ad ora sono così scadenti che dovrebbero escluderci a priori. Il punto è che se chiedi alla De Micheli che cosa è il programma 21/27 c’è il rischio concreto che ti risponda che è un ambo. Il punto è che in Italia, nella sede della Conferenza Stato-Regioni in via della Stamperia a Roma, passa tutto, si definisce o si bollina tutto. Si decide la spesa pubblica territoriale in tutte le sue voci, qui non altrove c’è la governance reale di quanto si dà e a chi per scuola, ospedali, treni, mobilità. Sempre qui si contrattano le leggi di bilancio e gli obiettivi della Nadef. Qui si fa e si disfa tutto e ciò è inaccettabile perché fino a oggi questi poteri anomali e il modo in cui sono gestiti hanno prodotto la peggiore crescita europea in termini quantitativi e qualitativi perché non solo siamo gli ultimi ma anche i più diseguali. No, noi non crediamo in un Paese che vende il sogno della abolizione della povertà attraverso sussidi assistenziali e che affida il suo futuro nelle mani di capetti esigenti di baracconi clientelari che ragionano come se il loro territorio sia uno Stato, non un pezzo di una nazione. I governatori degli Stati americani tassano e spendono loro, hanno la responsabilità diretta del bilancio. Questi spendono solo e non hanno nessuna responsabilità diretta. Soprattutto i capi delle cosiddette regioni ricche spendono alla grande e scavano nel bilancio di tutti per soddisfare le loro clientele mettendole sul conto di chi ha meno. Se non si spezza questa spirale perversa tutta l’Italia diventerà Sud e il mondo avrà trovato la sua capitale mondiale della povertà. Mettiamoli al loro posto i presidenti delle regioni, si occupino dei loro territori e la smettano di saccheggiare il bilancio pubblico per soddisfare le mille clientele delle mille liste che hanno sostenuto i capi dei potentati regionali. Questa è la prova decisiva del governo Conte. L’Italia deve uscire dal suo federalismo ingiusto e deve recuperare un’idea unitaria di Paese con un piano di opere materiali e immateriali definito e gestito dal centro con una sola priorità. La riunificazione infrastrutturale del Paese e almeno il 50% delle risorse europee attribuite al Mezzogiorno. Questo serve all’Italia prima ancora che al Mezzogiorno. Questa dopo venti anni di distrazione è l’unica possibilità che ha il Paese di tornare a misurarsi con i suoi problemi reali.

Regioni, spese senza più freni. E la sprecopoli abita al Nord. La sola macchina burocratica piemontese, con i suoi 911 milioni l’anno, costa più di quelle di Calabria, Puglia e Campania messe insieme. Nord al top anche per le partecipate in perdita. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2020. La macchina burocratica e istituzionale della Regione Piemonte è tra le più costose d’Italia, i numeri sono praticamente da record: 911 milioni all’anno per stipendi di consiglieri e dipendenti, gestione immobili, segreteria generale, servizi generali, per citare alcune delle principali voci di spesa. Certo, Lombardia (742 milioni), Emilia Romagna (528 milioni) e Veneto (482 milioni) non sono da meno, ma considerando anche la popolazione di ogni regione il Piemonte ha una spesa superiore.

LE SPESE. Se poi questi numeri, estratti dai bilanci di previsione 2019-2021 di ciascun ente, vengono paragonati a quelle delle Regioni del Sud, il divario diventa imbarazzante: la Puglia, ad esempio, per i “Servizi istituzionali, generali e di gestione” spende 256 milioni, la Campania 207 milioni, la Calabria poco più, 302 milioni. Sommando i costi dei tre Enti meridionali la cifra che scaturisce (765 milioni) è di gran lunga inferiore a quella del solo Piemonte, di poco più alta rispetto a quella della Lombardia. L’Emilia Romagna ha la stessa popolazione della Puglia ma spende il doppio. In Italia, complessivamente, solamente gli stipendi dei consiglieri, assessori e presidenti delle Regioni costano alle casse pubbliche circa 800 milioni di euro e rappresenta una delle voci più onerose per i bilanci, terza dopo il costo del personale (2,8 miliardi) e le generali “spese per servizi” (1,3 miliardi), ed esclusi i trasferimenti. Andando a spulciare i bilanci delle singole Regioni arriva la conferma di un costo eccessivo dei carrozzoni chiamati Regioni. Un problema che riguarda tutta l’Italia, ma è il Nord a spendere di più per il funzionamento della macchina burocratica. Entrando più nel dettaglio, per il funzionamento degli “organi istituzionali” c’è un buon divario: 75 milioni il costo messo in bilancio dalla Lombardia, 70 milioni dal Piemonte, 52 milioni, invece, dalla Puglia, 60,8 dal Veneto e 66 dalla Campania.

IL CASO PIEMONTE. Insomma, i dati dei bilanci parlano da soli. I numeri della Regione Piemonte, poi, sono impressionanti. La bellezza di 70 milioni è stata spesa nel 2019 per il funzionamento degli organi istituzionali. Se mettiamo insieme tutte le voci che vanno a completare la cosiddetta “Missione 1” superiamo gli oltre 911 milioni. Insomma, vicini al miliardo di euro soltanto per garantire quotidianamente i servizi istituzionali (70 milioni), i lavori della segreteria generale, la gestione delle risorse umane, gli altri servizi generali, quelli informativi – altra spesa enorme, 65 milioni – e infine la gestione dei beni demaniali.

IL PIANETA PARTECIPATE. Il Nord è anche la terra delle società partecipate inutili e spendaccione: il record spetta alla Lombardia, dove le società accumulano debiti per 26,5 miliardi. Sul podio salgono altre due regioni del Nord, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna: rispettivamente: 12,71 e 8,89 miliardi. Una legge statale, la Madia, ha provato a mettere ordine nel settore e a ridurre i costi, obbligando le Regioni a dismettere le partecipazioni o le società stesse che producono solo passivi. Eppure, nonostante i record negativi delle partecipate del Nord, il trend sembra proprio non cambiare. Basti pensare che, come evidenzia la Corte dei conti, nel 2018 «solamente in riferimento alle società a partecipazione maggioritaria della Regione Toscana il risultato economico complessivo risulta negativo per circa 7 milioni di euro. Rispetto all’esercizio 2017, quando la perdita di pertinenza regionale si assestava su 3,6milioni di euro, si rileva, quindi, un peggioramento». Insomma, anziché migliorare queste società continuano a produrre maggiori perdite. E a chi prova a spiegare questi continui passivi nei bilanci con una congiuntura economica sfavorevole, la Corte dei conti replica così: «In molti settori, (termale, creditizio e fieristico), la crisi assume un carattere strutturale e non congiunturale». Società nate per produrre debiti.

LA CLASSIFICA. In tutta Italia sono 7.090, di cui attive 5.766, e danno lavoro a 327.807 persone, ma producono più debiti (104 miliardi) che crediti (53 miliardi). Si occupano di attività diverse (rifiuti, trasporti, acqua) e, soprattutto, gestiscono un fiume di danaro, con risultati spesso non lusinghieri, soprattutto al Nord. Lo dicono i numeri: le prime 12 società in profondo rosso sono quasi tutte al Nord, più precisamente 10 al Nord e 2 al Centro, nessuna al Sud. Insomma, le partecipate del Nord realizzano più debiti di quelle del Sud (Campania e Sicilia con 3,87 e 3,24 miliardi sono quelle con più “copponi”) e danno anche più lavoro: nei 962 organismi della Lombardia sono impiegati 59.924 dipendenti, in Emilia Romagna 557 enti danno occupazione a 30.342 persone, in Veneto sono 29.296 gli impiegati; di contro, in Campania i dipendenti sono 16.805, in Puglia 10.199, in Calabria 4.391, in Basilicata 668, solo la Sicilia (Regione, però, a statuto speciale) si avvicina ai numeri delle Regioni del Nord con 23.512 dipendenti. La Lombardia è la regione con più società partecipate: 962, quasi il 17% del totale. E stacca non di poco l’Emilia Romagna, seconda con 557 enti.

IL PAESE ARLECCHINO CHE SI NUTRE DI FAKE. Chi lavora per consegnare l'Italia a un destino greco. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2020. Questo giornale ne ha fatto una bandiera dal suo primo giorno di uscita. Nessuno potrà mai convincerci che i diritti di cittadinanza sono garantiti quando se nasci a Reggio Calabria ricevi 19 euro di spesa pubblica per gli asili nido, se vieni al mondo a Altamura, nella Murgia pugliese, di euro “addirittura” te ne toccano zero mentre appena esci dalla culla in Brianza hai la fortuna di trovare ai tuoi piedi un assegno di tremila euro. Abbiamo denunciato questa vergogna italiana e gli amministratori coraggiosi di alcuni Comuni del Sud si sono rivolti al Tar del Lazio e hanno avuto ragione. La risposta del Governo “all’ordinanza istruttoria” dei giudici amministrativi è stata quella di mettersi subito in regola. Oggi i 3.300 bambini di Altamura non ricevono più zero euro per gli asili nido, ma 688 mila euro. La strada della parificazione dei diritti è ancora lunga, ma il primo passo è stato compiuto e lo rivendichiamo come un risultato di questo giornale. Tutto ciò è stato possibile perché i Comuni non sono usciti dalla trappola della spesa storica che privilegia i ricchi ai danni dei poveri, ma almeno il Fondo di perequazione previsto dalla legge Calderoli sul federalismo fiscale lo hanno fatto. Nella Conferenza Stato-Regioni, la “terza Camera” dello Stato, i galli delle Regioni del Nord e del Sud alzano tutti la cresta e trattano lo Stato italiano come la gallina che deve fare ogni giorno l’uovo dei loro desideri, quindi non uno ma venti, si rifiutano ostinatamente di varare anche i Fondi di perequazione sociale e infrastrutturale. Siamo alla vergogna delle vergogne. Non si tratta di chiedere risarcimenti ma di attuare l’ineludibile operazione verità e sulla base di questa costruire il Progetto Paese che si identifica con la riunificazione delle due Italie. Credetemi: non possiamo andare avanti con il miope egoismo dei Governatori della Sinistra Padronale tosco-emiliana in combutta con quelli della Destra a trazione leghista lombardo-veneta e lo sceriffo campano che prima ha chiuso la sua regione per tutelare la sicurezza senza che il Covid vi fosse e che ora che il Covid c’è davvero ha spaventato così tanto i suoi concittadini che le file per fare il tampone rischiano di trasformarsi in un grande focolaio a cielo aperto. Liberiamo il Paese da questi gendarmi che vanno peraltro ognuno per i fatti suoi.

Oggi apriamo il giornale con un’esclusiva di Giuliano Cazzola che documenta, dati alla mano della relazione annuale della Corte dei Conti, il pesantissimo effetto redistributivo che ha la spesa previdenziale perché le pensioni più pregiate sono, come è noto, al Nord e perché permane il “premio” del calcolo retributivo per quote importanti di ogni storia lavorativa. Ora sappiamo che con quota 100 paghi 673 euro di contributi e ricevi 2033 euro. La più grande fake che si può commettere parlando di spesa pubblica territoriale è togliere il peso di questo smaccato privilegio dal computo. Non importa se lo si fa per servilismo nei confronti di chi si permette di liquidare la questione sostenendo che le pensioni si pagano con i contributi (questa sì che è una fake) e, quindi, vanno dove c’è più lavoro ben retribuito o se lo si fa per guadagnarsi patenti di neutralità dicendo il falso. Ovviamente dopo avere detto che sono “falsi” i dati dei Conti Pubblici Territoriali si può dire che sono “falsi” anche quelli della Corte dei Conti. Così, però, non si costruisce il dialogo tra Nord e Sud che noi vogliamo per capire come stanno davvero le cose e fare ripartire l’Italia più coesa e finalmente riunificata, ma si lavora per consegnare il Paese tutto a un destino greco. Nessun interesse e nessuna forma di narcisismo possono consentire di sporcare l’operazione verità.

Pensioni, paghi 673 euro e ne incassi 2033: il calcolo retributivo che arricchisce il Nord. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 9 ottobre 2020. È incomprensibile l’interesse suscitato dall’annuncio di Giuseppe Conte al Festival dell’economia di Trento: il governo non ha intenzione di prorogare quota 100 dopo la scadenza del 31 dicembre 2021. Non c’è proprio nulla di nuovo. Quota 100 è una misura voluta fin dall’inizio a carattere sperimentale e derogatorio per un triennio, che avrebbe dovuto fare da ponte con un intervento più organico.

QUOTA 100. Sarebbe, tuttavia, il caso di spiegare all’opinione pubblica che “quota 100’’ non ha mancato soltanto l’obiettivo di sostituire gli anziani in uscita con l’assunzione di giovani (come ormai è riconosciuto da tutti gli osservatori), ma non ha convinto neppure i destinatari di questo provvedimento (va ricordato, però, che quanti maturano i requisiti previsti entro la fine del 2021 si portano appresso la possibilità di esercitare successivamente il diritto al pensionamento anticipato) il cui numero, nel 2019, è risultato inferiore alle previsioni (confermate per il 50% nel pubblico impiego; solo per il 15% nel settore privato). La questione della spesa pensionistica è entrata di prepotenza (per il suo rilievo) anche nel dibattito sulla ripartizione della spesa tra Nord e Sud, dopo la “denuncia’’ della sottrazione di 60 miliardi alle regioni meridionali. Alcuni economisti – pur ammettendo ciò che è risaputo e cioè che le pensioni più pregiate (in particolare quelle di anzianità) sono erogate al Nord a ex lavoratori maschi – hanno sostenuto che è sbagliato includere la spesa pensionistica nel computo, perché i trattamenti di cui si tratta sono coperti dai contributi. Sul Quotidiano del Sud abbiamo dimostrato che questo sinallagma pensioni/contributi non esiste neppure al Nord, perché i trattamenti corrisposti alle generazioni del baby boom (quelle che sono andate in quiescenza negli ultimi anni e che ci andranno in quelli prossimi) hanno fruito del “premio’’ garantito dal calcolo retributivo per quote importanti della loro storia lavorativa.

LA CORTE DEI CONTI. La Corte dei conti – si vedano i grafici di questa pagina – ha dimostrato che l’introduzione di quota 100 (notoriamente più diffusa nelle regioni settentrionali e tra i lavoratori maschi: si calcola una donna ogni sei uomini) ha amplificato (mettendo a confronto il pannello A con quello contrassegnato B) il divario tra la pensione erogata e i contributi versati. Ovviamente tale divario si amplia lungo tutto il periodo in cui la prestazione viene percepita, incluso il conteggio della reversibilità ai superstiti. Sempre la Corte dei Conti, infatti, ha messo in campo anche dei numeri. Considerando 100 euro di retribuzione pensionabile in regime retributivo, corrispondenti a un trattamento di 62 euro, e tenendo conto di una speranza di vita di 25 anni, il lavoratore in ipotesi (con 62 anni e 38 di contributi) beneficerà di trattamenti complessivi pari a 1.550 euro nel 2044 quando cesserà la pensione diretta; il superstite beneficerà poi, sotto forma di pensione indiretta, per ulteriori 13 anni di 37 euro di assegno annuo con il che i benefici pensionistici complessivi dell’assicurato in questione assommeranno a 2.033 euro. A fronte di ciò il grafico mostra che a fine 2018 i contributi sociali cumulativamente versati tra il 1981 e il 2011, cioè quelli validi per la sola quota retributiva di cui ci si sta qui occupando, erano pari a 673 euro.

L’ALLARME. Intanto è scoppiato l’allarme: «Le previsioni della spesa pensionistica continuano a scontare il sensibile aumento del numero di soggetti che accedono al pensionamento anticipato, con  “Quota 100” e le altre opzioni. Secondo la previsione a legislazione vigente, una crescita della spesa per pensioni più contenuta rispetto a quella dell’economia contribuirà a far scendere il rapporto tra tale spesa e Pil, dal 17,1% del 2020 al 16,2% nel 2023. Cionondimeno, la spesa per pensioni a legislazione vigente nel 2023 risulterà più alta di 0,8 punti percentuali in rapporto al Pil in confronto al 2019».  Così è scritto nel Nadef. Insomma, le politiche previdenziali del Conte 1 presentano la nota spese al Conte 2. Qualche sindacalista è arrivato a sostenere che il governo si è sbagliato (sic!) a fornire il dato all’Unione europea, dimenticando che le statistiche si fanno sulla base di indicatori concordati e comuni.

L’EQUIVOCO. È la solita mania di equivocare tra le spese previdenziali e quelle assistenziali, in nome di una separazione tra i due comparti che è già stata compiuta nel 1984 e perfezionata nel 1998, prima dell’ingresso nel club dell’euro. Ne deriva che la spesa pensionistica è una sola e che è finanziata attraverso i contributi e i trasferimenti. Pretendere di ‘‘sterilizzare’’ quanto è posto a carico del fisco perché l’ammontare dei contributi non basta a coprire il costo del sistema, più che una partita di giro costituirebbe un falso in bilancio, in stile greco. Tutto ciò premesso, la questione si sposta sul come uscire dal regime delle deroghe sperimentali alle regole della riforma Fornero, perché, senza adeguate modifiche, esse tornerebbero in vigore “più gagliarde’’ di prima, con lo “scherzo da prete’’ di uno “scalone’’ (da 62 a 67 anni) per quei soggetti che non avessero i requisiti per il pensionamento ordinario di anzianità. A risolvere il problema sono in azione le confederazioni sindacali in un clima di “cordiale intesa’’ con il ministro Nunzia Catalfo. Perché “uscire in avanti’’ quando è più facile e confortevole farlo “all’indietro’’?

SINDACATI IN ERRORE. In soldoni, la proposta di Cgil, Cisl e Uil “supera’’ la riforma Fornero, riportando il sistema pensionistico alla belle époque del secolo scorso. Si andrebbe in quiescenza con almeno 62 anni di età (e 20 di anzianità contributiva) oppure con 41 anni di versamenti a qualunque età (evitiamo di elencare la gamma di ulteriori sconti che sarebbero previsti come contribuzione figurativa per la maternità, i lavori usuranti e disagiati e quant’altro). I dirigenti sindacali non sono degli sprovveduti, tanto che accompagnano queste loro proposte con un ragionamento, fondato sul piano tecnico, ma sbagliato su quello politico. Nelle future pensioni – affermano – sarà crescente la quota da calcolare col metodo contributivo. In tali casi il relativo montante verrà moltiplicato per un coefficiente ragguagliato all’età, in applicazione del quale sarà incentivato il posticipo e disincentivato l’anticipo. Ma è proprio questo l’errore; perché non ha senso, al cospetto degli scenari demografici attesi e del ritardo delle nuove generazioni nell’ingresso nel mercato del lavoro, premiare la durata della pensione (anticipandone la decorrenza) a scapito dell’adeguatezza del trattamento. I sindacati – anche se chiedono una pensione di garanzia per i giovani (è singolare volerli tutelare da pensionati, visto che non riescono a farlo da lavoratori) – rimangono prigionieri della condizione dei baby boomers (maschi e settentrionali): i soli che possono continuare a trarre beneficio da siffatti requisiti.

A riposo in anticipo e sistemi premiali: le pensioni “regalate” abitano al Nord. Su 12 miliardi spesi per i trattamenti di anzianità la parte sostenuta dalla collettività è in media intorno al 28%. Giuliano Cazzola il 18 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nel dibattito aperto sull’allocazione delle risorse che il governo ha “prenotato" in conto Recovery Fund si è aperta una certa dialettica tra le priorità territoriali dei progetti e degli interventi. L’argomento non è affatto secondario, perché se è vero che il “motore’’ dell’economia sta nelle regioni del Nord (per questo motivo deve continuare a funzionare nel migliore dei modi possibili nell’interesse di tutto il Paese) è altrettanto vero che il salto di qualità che l’Italia deve compiere, grazie alle risorse rese disponibili da parte della Ue, riguarda un impegno per un effettivo riequilibrio e per una maggiore coesione territoriale.

IL DIVARIO. Nel dibattito è stata chiamata in causa la spesa pensionistica previdenziale e assistenziale. Alcuni economisti hanno riconosciuto che la quota maggiore della spesa per le pensioni è erogata al Nord, anche in rapporto al netto prevalere dei trattamenti di anzianità sostenuti da robuste e continuative storie contributive che consentono alle generazioni del baby boom di andare in quiescenza intorno ai 60-61 anni con prestazioni che, mediamente, sono di importo doppio rispetto a quello riservato alla vecchiaia. Ovviamente non c’è nessun inganno: l’assetto del sistema pensionistico non è che la fotografia del mercato del lavoro, non di quello attuale, ma di quello di ieri. E quindi quanti hanno fruito – sia pure con fatica, sottoponendosi allo sradicamento dell’immigrazione interna, iniziando precocemente l’attività lavorativa, sopportando condizioni di lavoro assai critiche e integrazione sociale complicata (“Non si affitta ai meridionali!’’) – si trovano a vivere una quiescenza più serena (ma non troppo) sul piano economico, avendo davanti a sé un’attesa di vita in aumento, come mai prima nella storia dell’umanità. I “nordisti’’ non negano il divario previdenziale con un Sud in cui prevalgono le prestazioni assistenziali (a carico della fiscalità generale e quindi dei contribuenti che pagano le imposte), ma rivendicano di trovarsi in questa situazione in conseguenza dei maggiori contributi versati. E pertanto di non avvalersi di alcun “privilegio’’.

LO SBILANCIAMENTO. E’ un ragionamento che fila, ma ci sono degli aspetti che è utile chiarire. Coloro che si sono guadagnati il diritto di usufruire del “pezzo pregiato’’ del sistema pensionistico, hanno potuto avvantaggiarsi pure del suo risvolto “premiale’’. Mi spiego meglio avvalendomi della tabella pubblicata in basso, relativa ai flussi del primo semestre 2020 in confronto con quelli del 2019. Come si può vedere il numero maggiore di pensioni erogate ha nel proprio montante contributivo una quota importante sottoposta al calcolo retributivo. Fino al 1° gennaio 2012, poi, la stragrande maggioranza delle pensioni era liquidata in regime retributivo. Ma è vero che le pensioni di anzianità – tesoretto dei lavoratori maschi del Nord – sono coperte dalla contribuzione anche quando sono calcolate secondo il metodo retributivo o misto? Uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca ha dimostrato che i veri protagonisti dello “sbilanciamento” tra pensioni contributive e retributive sono i trattamenti di anzianità, ovvero proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, a ogni piè sospinto. Considerando, come nello studio, le pensioni di anzianità maturate (in media a 58,5 anni di età) da 486mila lavoratori dipendenti privati tra il 2008 e il 2012, per un importo medio di quasi 2mila euro lordi mensili, la spesa per questa platea è stata di 12 miliardi di euro. La parte non giustificata da contributi versati è in media pari al 28% e si concentra prevalentemente (in quota del 37% dei pensionati) nelle fasce con più di 2.500 euro mensili, che accumulano il 63% dello squilibrio totale.

IMPORTI INGIUSTIFICATI. Lo studio, pertanto, calcola che sui 12 miliardi di spesa circa 3,5 miliardi siano “non giustificati” dai versamenti contributivi. Lo squilibrio diminuisce nel caso di pensionamento di vecchiaia (al 15% medio) per effetto della più ridotta attesa di vita. Aggiungendo anche le pensioni di anzianità (2008-2012) dei dipendenti pubblici, (il cui squilibrio tra calcolo contributivo e retributivo è valutato in 2,5 miliardi) la parte “non giustificata” sale nell’insieme a 6 miliardi. Il bello, però, deve ancora venire. Più aumenta l’importo dell’assegno (oltre 44mila euro l’anno) più si riduce la parte “non giustificata”, perché sul valore dell’assegno opera la rimodulazione al ribasso dei trattamenti più alti fino a ridursi al 5% per pensioni intorno ai 12mila euro lordi mensili. Il grafico in alto evidenzia questo stato di fatto.

Quei privilegi differenziati che come la bussola indicano sempre il Nord. Adriano Giannola il 18 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Una nota  vagamente  “tecnica” penso sia lo strumento  migliore per illustrare uno degli aspetti del  tema della perequazione che l’ operazione verità ha portato alla luce del sole in tutta la sua macroscopica urgenza grazie al contributo di documentazione dei Conti Pubblici Territoriali. L’ evidenza dei mitici 60 e passa miliardi all’anno per il periodo 2000-2018 è un dato  da analizzare con  il massimo  scrupolo perché è solo a valle di analisi accurate che si possono proporre le necessarie e   rapide  correzioni  e, soprattutto, individuare  un percorso  operativo che  consenta di  ripristinare  il rispetto della legge e  della Costituzione. Si tratta, in parole povere,  di liquidare il tradizionale  metodo  fin qui in uso  del  rinvio a messianiche attese  (LEP,  fabbisogni standard in regime di costi standard prevista dalla Costituzione e dalla legge 42/2009  sui quali va fatta finalmente una sintesi). Il Paese non può continuare  in queste  sceneggiate rituali della commissione Stato-Regioni  che,  al motto  ad  impossibilia nemo tenetur ,  legittima  la  “provvisoria”  spesa storica rivelatasi  un formidabile,  inerziale meccanismo  di sistematiche  sperequazioni territoriali.  Se non si comprende che tutto ciò fa molto male non solo al Sud ma – alla lunga-  anche alle  nostre  locomotive in ultradecennale affanno e si continua a equivocare su presunte richieste  di risarcimenti, magari per contanti, senza voler capire che il “risarcimento” a vantaggio dell’ intero Paese è  quello di ristabilire regole certe: quelle  scritte e  approvate dal Parlamento in applicazione della Costituzione. Proprio in omaggio a questo spirito è  più che  legittima la pretesa di verificare se e quanto corretto sia  misurare la sperequazione  sulla base di un  nesso logico  “indiziario”  fondato su  una ragionevole  aspettativa di coerenza tra  quota della spesa e  quota della popolazione  nei diversi territori. Una  ipotesi di lavoro  che impone, dunque,  una  più  che mai  scrupolosa verifica. È  perciò  benvenuto  ogni  serio  contributo in merito. Non  pare rispondere a questo  auspicio il problematico argomentare del prof. Giovanardi  recentemente apparso sul Foglio che elenca  ben  sei motivi  per definire una “favola” la contabilità  dei dati dei CPT  ritenendo così di  delegittimare l’ operazione verità. L’esposizione dei sei errori  non fa  onore  alla  scienza del valido  scienziato  nella misura in cui propone  considerazioni di buon senso strumentalmente adattate alla bisogna,  senza quantificazioni di sorta, neanche indiziarie. Né incanta  l’ insistere sul le itmotif del “diritto alla restituzione” esplicitamente accampato  sui mitici residui fiscali per i quali – se non  se ne  è ancora reso conto – alla inconsistenza giuridica  si accompagna  la crescente  inconsistenza  quantitativa. In una recente – più conciliante –  occasione  il  prof.  giustifica il diritto  alla  restituzione  sostenendo che la sua  più sincera disponibilità  ad “aiutare il Mezzogiorno” si scontra con il fatto che il Sud  non cresce, anzi  (in linea con  una certa econometria  à la carte)  “muore di aiuti  e  di  vana  filantropia”. L’unico  serio  motivo “tecnico”  addotto per  argomentare criticamente non certo per  porre in dubbio la contabilità dei 60 miliardi  concerne la  spesa per  la previdenza che, a suo dire,  andrebbe  totalmente esclusa dal novero della spesa pubblica. Davvero  curiosa  l’ultratempestiva  sollecita adesione  di Marco Esposito a questa tesi, “… perché è le pensioni sono una forma di reddito differito e lo Stato non può decidere a chi pagarle indipendentemente dai contributi versati”…  aggiungendo  che “… scomputare la previdenza dimezza la cifra …. che diventa 30 e non 60 miliardi” . Non che 30 miliardi all’anno siano pochi, ma è un fatto che risulta incomprensibile con quali criteri si possa fare questo calcolo e come si possa abbandonare l’unica cifra certa che sono i 60 miliardi certificati da CPT e sui quali gli argomenti sociologici fin qui addotti che non hanno nessuna forza documentale. Il tema  del come, quanto  e  se la previdenza sia  rilevante  o no  nell’ operazione verità  e  come vada contabilizzata  è certo serio  e la versione del prof.  Accolta da Esposito  merita  considerazione  anche perché  altri ben attrezzati tecnici informati dei fatti non sono per nulla inclini a sottoscriverla. Una prima considerazione è  che  le pensioni sono liquidate attingendo al  serbatoio  delle contribuzioni dei futuri pensionati  oltre che  dallo stock esistente dei contributi versati (e in via di liquidazione) da quelli che via, via sono entrati nel mondo dei pensionati. Il fatto di attingere ai contributi versati  non significa che quella previdenziale non sia da computare come spesa pubblica ma, semmai, di considerare con cura il meccanismo per il quale  chi  eroga le pensioni attinge alle disponibilità  correnti  (diciamo prende a prestito dai futuri pensionati  oltre ad usare i contributi  versati in via di  esaurimento dei pensionati).  Si tratta del metodo  “a ripartizione”  per il quale pago oggi  prelevando dallo stock cumulato e in via di accumulazione per corrispondere  le pensioni a soggetti che non alimentano più  lo stock. La prima osservazione è che nel 2017 (Sesto Rapporto 2019) il saldo tra pagamenti ed incassi  contributivi  vede un deficit per le pensioni di 68 miliardi  a tutto titolo da considerare  spesa pubblica,  perché  posti a  carico della fiscalità generale.  Cioè il “fondo”  si è rivelato  insufficiente. Ma un altro motivo fa  sì che è più che legittimo considerare  spesa pubblica  una  parte  significativa  delle pensioni pagate anche se non eccedono  il monte contributi. Si dimentica infatti  di prendere in considerazione  quella quota di prestazione che  in passato e ancor oggi  corrisponde alla “rendita”  della quale fruiscono i percettori di pensioni (sia di anzianità che  di vecchiaia) definite nel loro ammontare con  il metodo retributivo  e non con quello contributivo.  Il che assicura  il godimento (si fa  per dire) di  una pensione superiore a quella che sarebbe erogata facendo meramente riferimento ai contributi versati.  Attualmente questo  aspetto è  assolutamente prevalente  e rilevante  per quello che riguarda  lo stock di pensionati  e  tale si conferma nonostante  la modifica introdotta  dalla  “riforma Dini” (1995)  e poi nel 2012  del governo Monti che traghetteranno  solo dopo il 2036 a un sistema contributivo integrale.  Il prof Giovanardi lo sa o no? Dubito che non ne sia perfettamente consapevole. Giuliano Cazzola che al tema ha dedicato profonde analisi si chiede  se ” le pensioni di anzianità – tesoretto dei lavoratori maschi del Nord – sono coperte  dalla contribuzione anche quando sono calcolate secondo il metodo retributivo o misto” e rinvia  a uno studio di  Fabrizio e Stefano Patriarca  per  concludere  che  “i veri protagonisti  dello «sbilanciamento» tra pensioni contributive e retributive sono i  trattamenti di anzianità… proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, ad ogni piè sospinto”.  Nel quadriennio 2008-2012  risulta che  quota  non giustificata da contributi versati  le  pensioni di anzianità “… maturate (in media a 58,5 anni)  da 486mila lavoratori dipendenti  privati  è in media pari al 28%  su   12 miliardi di spesa”.

I  percettori di pensione  che  hanno un introito superiore al teorico flusso “garantito”  dai contributi versati  sono per questa  quota  eccedente opzionalmente  a  carico della fiscalità generale. Dunque  lo Stato, fino al limite della capienza ” prende a prestito ” quanto necessario  senza pagare interessi dai futuri pensionati  (fino a capienza del fondo contributi)  per  erogare  le prestazioni  da  corrispondere ai pensionati inclusi ve di  quel’ ammontare in eccesso  che  non hanno contribuito a determinare.  Tutto ciò coinvolge  le pensioni di anzianità  e quelle di vecchiaia con una distinzione da sottolineare e che per molteplici ragioni  ha un chiaro  significato:  quelle di anzianità sono corrisposte a  una platea “più giovane”  (il sopra citato “tesoretto dei lavoratori maschi del Nord”)  che quindi godrà più a lungo  un più ricco  bonus che eccede il calcolo contributivo. Questa platea, grazie alle condizioni del mercato del lavoro di riferimento  ha iniziato il percorso e quindi  maturato  in tempi più rapidi i requisiti conseguendo pensioni più elevate sia per la continuità che per la rapida entrata nel mercato del lavoro. Ben diverso  ma  sempre a carico della fiscalità generale  è il privilegio riservato  alle  pensioni  di vecchiaia  (dove comunque il Nord prevale nettamente sul Sud) considerevolmente meno ricche riferibili a  una  platea relativamente più anziana proprio in conseguenza  delle maggiori difficoltà di  realizzare  un percorso contributivo legato alle  problematiche  caratteristiche  del  “loro”  mercato del lavoro. Ovvio che la “anzianità” premia il Centro-Nord con, di  conseguenza,  una  sistematica differente incidenza  sulla fiscalità generale  riconducibile al “bonus” di cui sopra  ed ai diversi tempi di fruizione. Ovvio  che  il metodo retributivo svanirà  all’ orizzonte (in virtù delle  riforma del 1995 e poi del 2012)  più rapidamente nel caso della  vecchiaia, più lentamente per la più giovane platea  dei percettori  di quelle di anzianità  che, in aggiunta, gode di ammontati decisamente  più elevati  (e quindi più onerose per la fiscalità generale visto che  il  retributivo  commisura la pensione  alle ultime retribuzioni che  – specie nel caso dell’ anzianità –  è  ben diverso e più elevato dalle retribuzioni di ingresso). Una avvertenza è  d’obbligo. L’ impatto  della previdenza  nel determinare squilibri  ha una valenza del tutto particolare perché  inscindibile  dalle specifiche  condizioni del mercato del lavoro, a loro  volta  condizionate dalla dinamica dell’economia. In questo caso  quindi  le distorsioni e i connessi rilievi sugli  aspetti redistributivi  non  evidenziano  certo  una “negazione  di diritti di cittadinanza”  come  avviene esplicitamente  nel caso dei diritti alla  mobilità, salute e formazione che,   nell’esperienza del nostro sbilenco federalismo, sono frutto della  non applicazione di regole che esistono. Nella previdenza, al contrario,  gli squilibri  nascono  proprio  dall’applicazione precisa e puntuale  di  regole, riforme, che  si calano sui territori  con il loro carico implicito di vantaggi e svantaggi. Evidentemente lo sviluppo dei territori  è  segnato dalle  condizioni sia all’ingresso che  all’ uscita  dei mercati del lavoro locali,  non fosse altro perché  da esse dipenderà la facilità di  accedere  o meno  a una  pensione  e se essa sarà  di anzianità o di vecchiaia. Nell’esperienza italiana occorre ovviamente fare mente locale sulla pessima evoluzione di performance di un  Paese  che,  fino a  che era su un sentiero significativo di crescita,  poteva  scaricare sulla fiscalità generale  il finanziamento di  “privilegi” differenziati. Oggi, a valle di  oltre venti annidi stagnazione e crisi  le differenze  previdenziali  a carico della fiscalità generale rappresentano  un’ oggettiva  sottrazione  di risorse  proprio rispetto all’obiettivo di  promuovere  lo sviluppo  dei territori,  a fare infrastrutture per connettere il Paese e recuperare la leadership nel Mediterraneo,  ridurre le disuguaglianze e   far crescere la coesione.  Guarda caso proprio gli obiettivi ai  quali con durezza ci richiama l’ Europa. 

ANDREA BASSI per Il Messaggero il 9 settembre 2020. Il dossier, per lungo tempo, era stato insabbiato. Ora il progetto dell'Autonomia differenziata chiesta dalle Regioni del Nord, è tornato nell'agenda del governo e a ottobre, dopo le elezioni regionali, potrebbe essere presentato in Parlamento. Nonostante i tentativi di correzione rispetto a quella che era stata ribattezzata «la secessione dei ricchi», resta alto il rischio che le regioni con maggiori risorse possano lasciare ancora più indietro quelle che già oggi sono in affanno, ossia le Regioni del Sud. Il ministro degli Affari Regionali, Francesco Boccia, ha messo a punto una nuova bozza della legge quadro dentro la quale dovrebbero muoversi le intese con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Nell'ultima versione del testo, si torna a parlare per il finanziamento delle funzioni che dovrebbero essere trasferite di «compartecipazione al gettito erariale maturato nel territorio regionale». Cosa significa? Che lo Stato cederebbe un pezzo dell'Iva o dell'Irpef per pagare il costo delle funzioni trasferite dallo Stato centrale alla Regione. Il costo delle funzioni, questa volta, verrebbe stabilito attraverso il meccanismo dei fabbisogni standard e non più sulla base del costo storico, come prevedevano le intese dell'era giallo-verde. Ma resta il fatto che se anno dopo anno, il costo del servizio resta immutato e il gettito fiscale aumenta, quel surplus rimarrebbe nelle casse della Regione e non andrebbe più in quelle dello Stato centrale. Che il punto sia estremamente delicato lo dimostra anche la «clausola di salvaguardia» inserita nella bozza della legge quadro. In sostanza, dice questa clausola, se sul fronte dei conti pubblici le cose vanno male per lo Stato, allora si potrà chiedere alle Regioni che hanno ottenuto l'autonomia di partecipare al risanamento. Un principio di equità che nemmeno dovrebbe essere messo in discussione e che, invece, viene affidato a una disposizione di rango primario e a patto che le stesse misure vengano contestualmente imposte a tutte le altre regioni a statuto ordinario. Grande assente della proposta del governo, invece, è ancora una volta Roma, di nuovo dimenticata. L'autonomia regionale avviene per «sottrazione» di risorse alla Capitale, senza che il governo, ancora una volta, si preoccupi del destino della città. Il decentramento di funzioni amministrative, oggi svolte dai ministeri romani, avrà inevitabilmente un impatto, sul quale al momento all'interno del governo non c'è nessuna riflessione o discussione. L'altro tema sul quale si era molto dibattuto, è il ruolo del Parlamento nell'emendare le intese tra governo e Regioni. Nel precedente tentativo del governo giallo-verde, le intese erano state blindate, il Parlamento avrebbe potuto approvare o rigettare gli accordi ma senza poterli modificare. Le cose, in realtà, cambiano poco anche con la nuova legge quadro. Il Parlamento potrà pronunciarsi sulle pre-intese tra governo e Regioni. Avrà 60 giorni per fare delle osservazioni che potranno o meno essere recepite. Passato questo termine, governo e Regioni potranno firmare gli accordi che, a quel punto, potranno essere approvati o rigettati dal Parlamento. Alcuni passi avanti rispetto al passato sono comunque stati fatti. Il principale riguarda la circostanza che le funzioni non potranno essere trasferite fino a quando non saranno pronti i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Asili, trasporti, mense, insomma, devono avere un analogo livello su tutto il territorio nazionale. È un passo avanti decisivo rispetto alla vecchia impostazione in cui di Lep non si parlava affatto. Nei tre articoli della bozza, poi, è prevista anche la nascita di un fondo di perequazione infrastrutturale. Entro il 30 giugno del 2021, dovrebbe essere fatta una rilevazione del deficit infrastrutturale nelle Regioni meridionali. Poi entro sei mesi andrebbero presentati dei progetti per colmare questo deficit, da finanziare destinando una percentuale (che nella bozza della legge quadro non è ancora indicata) delle risorse statali per le infrastrutture. È ovvio che la valenza di questa norma (che potrebbe essere spostata direttamente in legge di bilancio), dipenderà proprio da quella percentuale. Che dovrà superare il minimo sindacale del 34%.

Rispunta la secessione dei ricchi. Ma ora i paletti sono invalicabili. Torna l’autonomia differenziata con la strana alleanza fra sinistra emiliana e leghisti lombardo-veneti. Pietro Massimo Busetta il 10 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tornano le problematiche accantonate con il lockdown. Tra queste l’autonomia differenziata è già al centro del dibattito. Forti della pressione delle regioni, in una strana mescolanza tra quelle di sinistra come l’Emilia Romagna e quelle leghiste come la Lombardia ed il Veneto. Ma ormai è abbastanza assodato che vi sia un accordo tacito tra la sinistra emiliana con le punte di Milano e Bergamo e la gestione leghista di Lombardia e Veneto, a cui presto si aggiungeranno le altre regioni del Nord. Il tema di fondo riguarda l’esigenza e la volontà da parte delle regioni ricche di tenersi il loro surplus fiscale. Come fossero degli Stati autonomi vogliono utilizzare le risorse che producono, in maniera da poter consentire ai propri concittadini degli standard di welfare, che lo Stato non potrebbe consentire se dovesse trovare le risorse per tutti. Asili nido ? Scuolabus? Sanità ? Scuola? Perché non dare servizi sempre più completi se la Regione ha un surplus fiscale che lo consentirebbe? Dopo anni di propaganda leghista su un Sud sprecone e parassita che aspira ad un reddito senza lavoro, ritornare indietro ai concetti di solidarietà e di diritti di cittadinanza uguali per tutti non ë complicato ma impossibile. E quindi Francesco Boccia non potrà che riprendere il vecchio progetto e cercare di renderlo più equo possibile, avendo chiaro però che la pressione delle forze politiche, con poche eccezioni, anche all’interno del PD, é verso una regola: ognuno si tiene le risorse che produce. Quella che é stata definita la secessione dei ricchi, quella che é stata contestata con dati inequivocabili di risorse pro capite assolutamente sperequate tra una parte e l’altra del Paese, alla fine avrà una sua legittimazione normativa, visto che ad oggi la distribuzione delle risorse ha aspetti di incostituzionalità. Già se vi saranno i correttivi relativi ai livelli essenziali di prestazioni, i cosiddetti Lep, e se la riforma non andrà avanti fino a quando tali livelli, come peraltro era previsto, non saranno calcolati, se ciò avverrà sarà un gran risultato. Suona strano che tutto questo possa avvenire malgrado la presa di coscienza di molte regioni meridionali, ed il dibattito ampio che ha coinvolto enti di ricerca, come la Svimez, tanti ricercatori e molte delle università meridionali, che hanno concluso che l’autonomia differenziata in realtà porta a tanti staterelli. E malgrado che l’esperienza Covid abbia mostrato l’esigenza di una linea di comando unica, visto i danni che le decisioni di singole Regioni hanno portato al bene comune, con decisioni su distanziamenti, mezzi pubblici, chiusura di Universitá che hanno avuto ripercussioni su le altre regioni estremamente rilevanti. Peraltro si vuole portare l’accordo in Parlamento in una forma blindata, che non consenta molte modifiche perché é chiaro a molti che se si apre un dibattito e più parlamentari del Sud, in genere disattenti e concentrati sulle loro esigenze spicciole, realizzano gli effetti di una tale riforma potrebbe avvenire che si blocchi tutto. Anche se la forza di “moral suasion” ed il potere dei partiti non é da sottovalutare. Se dovesse passare diventerebbe normale ciò per cui si é gridati allo scandalo e cioè che alcuni servizi siano differenziati per aree, per cui le realtà più ricche li avrebbero di un livello diverso e superiore rispetto a quelle più marginali e periferiche. L’effetto sarà quello di alcuni comuni del Trentino che hanno i marciapiedi di marmo ed altri comuni del Sud che non hanno nemmeno i marciapiedi in cemento. Ma al di là degli effetti rispetto alle popolazioni delle singole regioni, alcune delle quali saranno molto soddisfatte ed altre invece molto meno, è evidente rispetto gli effetti che produrrà una tale normativa rispetto al sistema Paese. Le regioni del Sud avranno un processo di sviluppo più lento, cosa che inciderà sull’evoluzione dei territori in termini socio culturali. Per cui per esempio meno investimenti nella scuola porteranno il permanere della dispersione scolastica, una qualità più scadente dei territori e delle città ad un più difficile sviluppo turistico. In generale il processo di messa a regime di un terzo del territorio e della popolazione del Paese sarà più lento con conseguenze sullo sviluppo turistico, già molto contenuto, e di quello manifatturiero perché é evidente che una realtà con servizi meno efficienti avrà più difficoltà ad attrarre investimenti dall’esterno dell’area. Insomma tutto il contrario di quello che ha fatto la ricca Germania con la ex DDR, per la quale ha previsto un prelievo fiscale apposito per accelerare lo sviluppo di quelle aree, cosa che ormai é quasi avvenuta, e che ha portato la Germania a primeggiare in Europa e nel Mondo. Sono scelte: ogni Paese fa le sue. Noi possiamo continuare ad utilizzare il Sud come area per le produzioni inquinanti, non valorizzare la piattaforma logistica del Mediterraneo, non investendo adeguatamente nelle infrastrutture ferroviarie di alta capacità e velocità, magari privilegiando in tal modo Genova o Trieste , ma prevalentemente Rotterdam ed Aversa. Possiamo diventare terzi o quarti per presenze turistiche, superate da Spagna e Francia, pur avendo Pompei ed Ercolano, due vulcani attivi, Stromboli ed Etna, i parchi archeologici più belli del Mediterraneo come Paestum, Selinunte ed Agrigento, i bronzi di Riace in una città sporchissima; possiamo fare tutto questo ma dobbiamo pure sapere che il problema non sarà di Reggio Calabria o Agrigento, ma che quello che perde in presenze turistiche il Mezzogiorno lo perde il Paese, che presto sarà costretto a intervenire con il numero chiuso a Venezia e Firenze. Mentre le realtà bulimiche del lodigiano, del bresciano o del bergamasco soffriranno sempre di più per un inquinamento dovuto ad una concentrazione di manifatturiero che alla popolazione potrà portare poco. Perché al massimo in una famiglia potranno lavorare marito moglie e i figli, ma se serviranno altri occupati si dovranno far venire dal Sud, dalla Polonia o dalla Romania se non dalla lontana Cina. Sembra una logica facile da comprendere ed invece il nostro Paese, in una visione campanilistica e provinciale, non riesce ancora ad avere chiaro che se non cresce lo stivale esso si tira dietro tutti. E che l’ipotesi di staccarsi e lasciare alcuni territori annegare non é praticabile, perché le reazioni, strutturate o alla Masaniello, costringeranno il Paese a fare i conti con un disagio diffuso ed amplificato da una mobilità che sbatte in faccia le differenze tra i marciapiedi di marmo e la mancanza di essi.

Il Nord smascherato dai numeri certificati nega al Sud gli stessi diritti di cittadinanza. Provate a spiegare perché un bambino nato a Reggio Calabria debba avere meno servizi, meno tutele, meno possibilità di un coetaneo nato a Reggio Emilia. Pietro Massimo Busetta il 9 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud.  Sessanta miliardi in meno al Sud, ogni anno. Questo l’importo che viene sottratto ai cittadini italiani/meridionali con la spesa storica. Questo il dato che va assolutamente contestato da parte delle lobbies degli interessi della sinistra tosco emiliana con le propaggini dei comuni di Milano e Bergamo e della destra leghista lombardo veneta. I centri studi, gli studiosi, gli accademici, la commissione appositamente costituita da Zaia, avranno modo di analizzare la cifra e la logica di tale impostazione. Malgrado lo stato della sanità, della scuola, delle infrastrutture stradali e ferroviarie, conseguenza anche del minore importo destinato di risorse nazionali, bisogna a tutti i costi dimostrare che tale evidenza è falsa, che in realtà il Mezzogiorno è stato invece sovra assistito, che le risorse sono state non abbondanti, ma assolutamente enormi e che il Sud è solo un enorme pozzo, che assorbe ed inghiotte fondi che il generoso Nord concede. Che in realtà è solo una palla al piede di quell’Italia operosa e lavoratrice, che ha sempre dato e che ora è stanca di continuare a farlo. Anche se i dati sono quelli della Corte dei Conti, dell’Istat e non di un centro studi periferico, bisogna trovare il modo di contestarli. Povero agnello che sporca l’acqua del lupo, che sta in alto. E che vorrebbe dimostrare che normalmente l’acqua scende verso il basso. Troppo comoda è stata la possibilità di avere una colonia, che per tanti anni è servita da mercato di consumo, che ha dato risorse formate quando servivano, la cui dimensione demografica può essere giocata sui tavoli internazionali per poter dire che siamo un grande Paese, con 60 milioni di abitanti, e che quindi è giusto dare l’Expo internazionale a Milano, le Olimpiadi invernali a Cortina/Milano, l’agenzia del farmaco persa ma richiesta da Milano, il tribunale dei brevetti a Milano e l’agenzia dell’innovazione a Torino. La forza di fuoco dei quotidiani, dei media, dei ricercatori asserviti, delle istituzioni nazionali silenti rispetto a tali problematiche, dei dati medi che nascondono i due Paesi è talmente ampia che non sarà certo il Quotidiano del Sud a svegliare coscienze e politici. Anche se ormai il gruppo di chi vuole vederci chiaro diventa un po’ più ampio ed alcuni, prima silenti e distratti, cominciano a svegliarsi, la reazione sarà tale da andare avanti ancora per qualche anno. In attesa che le pietre, che finora sono state zitte, parlino. Con lo stato delle ferrovie, della scuola, della sanità al Sud, con lo spopolamento dei territori, con un mercato di consumo sempre più contenuto. Ma sopratutto con una sempre maggiore marginalità di un Paese, che non valorizza la sua posizione di piattaforma logistica del Mediterraneo, che perde i grandi traffici marittimi a favore di Rotterdam ed Anversa, che perde il primato per presenze turistiche in Europa, che non riesce a crescere ai ritmi degli altri partner europei, che continua a non capire che mettere a regime un terzo del territorio non è un favore che viene fatto ai “cafoni” meridionali ma una strada obbligata per tutto il Paese. Per contestare le evidenze che negli ultimi mesi sono diventate le basi per qualunque discorso sul Sud bisogna negare che vi siamo gli stessi diritti di cittadinanza. Ed affermare che ognuno debba gestire le risorse che produce. Se la base di partenza diventa questa non vi è alcuna sottrazione di risorse. È infatti noto che ogni anno risorse prodotte nel Nord del Paese vengono destinate al Sud. Che il saldo è certamente tale per cui l’affermazione che il Sud sia assistito è corretta. Un ragionamento che sarebbe valido se fatto tra Stati diversi, che diventa pretestuoso se fatto tra Regioni e che metterebbe in discussione i principi fondanti della Costituzione. In particolare l’articolo tre che al primo comma stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di razza, di lingua, di condizioni personali e sociali. Accettato il principio che le risorse vengono utilizzate da chi produce dovremmo dare servizi migliori alle aree ricche delle città, che hanno un reddito pro capite più elevato a scapito delle periferie dove, normalmente abitano i più poveri. È quello che si è fatto con il Mezzogiorno negli ultimi anni e che si voleva statuire con la richiesta di autonomie differenziate, fatte approvare con dei referendum ai lombardi ed ai veneti con il mantra “non vogliamo più mantenere il Sud”. Il principio se attuato prevederebbe che malgrado i doveri di ogni cittadino sia come contribuente che rispetto alla sicurezza del Paese siano uguali, in realtà poi abbia diritti diversi se nato a Reggio Emilia rispetto a Reggio Calabria, per cui in un caso ha diritto agli asili nido ed ai scuolabus gratuiti, nell’altro invece no. In realtà se confrontiamo i diritti degli svedesi e degli italiani rispetto allo Stato sociale ci accorgiamo che in Svezia essi sono molto più ampi che in Italia. Il concetto era di fare in modo che si ripetesse tale situazione in Italia, per esempio tra Emilia Romagna e Sicilia. Se ai “cafoni” meridionali avessimo chiesto perché andavano a combattere sul Carso ed a difendere aree che parlavano dialetti diversi la risposta sarebbe stata “vado a difendere i confini del mio Paese”. Aree che avevano un clima diverso dal suo di origine ma che avevano la stessa bandiera e lo stesso inno. Se adesso si vuole mettere in discussione l’Unità nazionale lo si può fare. La Cecoslovacchia si è divisa in due parti. La ricca Repubblica Ceca e la povera Slovacchia, entrambi appartenenti all’Unione, vanno avanti con incremento di reddito che vedono la già povera Slovacchia avere tassi di crescita più elevati. Mentre la Germania in una visione ampia ha deciso la riunificazione tra le due parti, diventando la potenza economica industriale più importante dell’Europa, assistendo per decenni l’ex DDR, in una visione di rafforzamento del Paese che ha dato già oggi i suoi risultati. Le strade possono essere diverse, ma nessuno pensi di comportarsi come se i Paesi fossero due e poi giocarsi sui tavoli internazionali una dimensione demografica importante. Lo ha fatto fino adesso il Nord, ma il treno ha fischiato, ed anche l’Europa ci ricorda che così non si può andare avanti.

CE L'HANNO FATTA: SIAMO ULTIMI IN EUROPA. Tutti i disastri della Conferenza Stato-Regioni: ecco perchè va abolita. Roberto Napoletano l'11 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Con una politica miope la governance lombardo-emiliana ha fatto in modo che Sud e Nord dell’Italia siano i due unici territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007-2008 e che il Pil pro-capite dell’Italia sia sotto la media europea. I “NOCCHIERI intraprendenti” lombardo-emiliani hanno portato a sbattere la nave italiana sugli scogli con una forza d’urto che non ha pari in Europa superando perfino la Grecia. Sono stati venti anni di mare sempre più tempestoso, i nocchieri hanno sbagliato tutto con sempre maggiore convinzione, cercavano approdi sicuri solo per loro e i loro cari, facevano la morale agli altri e continuavano a riempire le stive di ogni genere di vettovaglia e mercanzia che sottraevano agli altri a cui facevano la morale.

Non hanno deposto l’arroganza, vogliono continuare come pazzi a farci sbattere, si rifiutano di prendere atto dei disastri che hanno prodotto, non intendono cambiare la rotta. Anzi. Hanno ripreso a fare soffiare il vento del Nord. Puntano senza neppure capirlo all’eutanasia dell’Italia facendo del Nord il nuovo Sud dell’Europa e del Sud un’area di sottosviluppo del mondo. Siamo sinceri: abbiamo paura. Avere azzerato gli investimenti pubblici produttivi nel Mezzogiorno per “regalare” 600 miliardi (molta assistenza) al Nord negli ultimi dieci anni, ha fatto dell’Italia un Paese con un reddito pro capite nazionale che è precipitato sotto la media europea e dove un terzo della popolazione a sua volta ha un reddito pari alla metà degli altri due terzi. A furia di estrarre dal bilancio pubblico italiano sottraendo alle aree deboli le risorse necessarie per fare infrastrutture di sviluppo e distribuendole alle aree forti per aumentare la rendita sanitaria privata e mille privilegi assistenziali-clientelari, ci si ritrova con il Piemonte sotto la media europea, Marche e Umbria già Sud da quel dì, Toscana due punti sopra, Friuli Venezia Giulia e tutto il Nord lì lì sull’orlo del burrone per raggiungere il Piemonte sotto la soglia fatidica, il Sud d’Italia fuori dall’Europa a livelli da continente africano. Questa politica miope dell’irresponsabilità appartiene alla Sinistra Padronale tosco-emiliana e alla Destra leghista lombardo-veneta che hanno da sempre saldamente nelle loro mani congiunte il controllo della Conferenza Stato-Regioni e, suo tramite, la governance reale della spesa pubblica. Questa politica miope ha fatto in modo che Sud e Nord dell’Italia sono i due unici territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007/2008 ma anche quelli che hanno perso cumulati quasi 4 punti di Pil dal 2001 a oggi (3,9% per la precisione), si collocano addirittura del 6,18% sotto la media europea e si avviano a conseguire la peggiore performance in Europa nell’anno della Grande Depressione mondiale da Covid “umiliando” perfino la Grecia. Di fronte a questo scempio, bisogna avere almeno il coraggio di dire le cose come stanno. La Conferenza Stato-Regioni va abolita. Il luogo decisionale dell’iniquità più miope che abbia mai conosciuto un Paese occidentale va eliminato ad horas senza riguardi. La perequazione dei diritti di cittadinanza per la spesa sociale (scuola e sanità) e quella per la spesa infrastrutturale va fatta direttamente dallo Stato centrale. Che si deve dotare di una squadra di prim’ordine, composta badando esclusivamente alla competenza e alla esperienza, e adottare un criterio rigoroso nella ripartizione territoriale della spesa che assomigli a quello del proporzionale puro se no il vento del Nord e dei suoi irresponsabili nocchieri continuerà a impoverire il Sud e a fare assistenzialismo al Nord violando la Costituzione e portando l’Italia intera ai margini dell’Europa. Parallelamente va disegnato e attuato un progetto organico di interventi con un modello che metta insieme Alta velocità ferroviaria, porti, retroporti, Ponte sullo Stretto e fiscalità di vantaggio chiamandolo per quello che è: progetto Italia, non progetto Mezzogiorno. Non si scherza più perché questa volta indulgere alla solita regola ottusa dei ricchi che espropriano i poveri significa l’eutanasia dell’Italia. È l’ultimo obiettivo che gli è rimasto da raggiungere con la loro gioiosa macchina da guerra. Se non li si ferma in tempo, si placheranno solo quando tutto sarà raso al suolo in una spirale di egoismi senza freni. Siccome da soli non si fermeranno mai bisogna togliergli il giochetto dalle mani. Per un po’ sbraiteranno, ma non fanno più paura a nessuno. Dopo qualche anno ringrazieranno. Perché capiranno la differenza tra un’idea generosa di Paese che si muove unito costruendo il suo futuro e un’idea egoista che racconta la favola del Nord produttivo senza rendersi conto che è diventato Sud da quel dì perché si è tagliato le gambe da solo. Questo non lo ammetteranno mai, sarebbe troppo, ma ringrazieranno le classi dirigenti europee e italiane che li avranno fatti ragionare.

Il disastro della politica che omaggia il Nord: il Pil pro capite sprofonda sotto la media Ue. Adriano Giannola, Presidente Svimez, l'11 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. invano – si provava a mettere in guardia i nocchieri che la scialuppa tricolore stava scendendo, in omaggio all’ormai risibile questione settentrionale, con inesorabile, rara maestria nel gorgo con la prospettiva di infrangersi sul fondale roccioso della realtà. È ora ufficiale la notizia (Eurostat) che nel prepandemico 2019 il Pil pro capite italiano, espresso in euro 2010, ha toccato quota 26.860, attestandosi su un livello inferiore alla media Ue del 6,18% (-1769,3 euro), e (udite, udite) ha accusato un calo del 3,9% (-1090 euro) rispetto al 2001. Che questo esito fosse ineluttabile era chiaro da anni, ma non era politicamente corretto parlarne senza essere accusati di essere una “Cassandra sfascista”, tanto più se il fastidioso flebile richiamo veniva dal ghetto meridionale ove i nocchieri avevano confinato circa venti milioni di persone in regime di cittadinanza limitata.

LA LINEA D’OMBRA. Il postino della Ue non ha avuto bisogno di suonare due volte per notificare che il Bel Paese da orgoglioso “contributore netto” passa a “prenditore netto”. Abbiamo superato la linea d’ombra, uno spartiacque che dovrebbe far seriamente riflettere lombardi, emiliani, veneti, per non dire liguri, friulani, piemontesi e toscani che non potranno più fingere di non sapere e non vedere o, come si dice a Napoli, non potranno continuare a fare gli scemi per non andare alla guerra. Che siamo in guerra lo si dice da anni; che la stavamo perdendo era evidente, non fosse altro per il fatto che con buona pace delle locomotive, il “vento del Nord” nel 2019 era ancora in debito rispetto al Pil del 2007 di 3 punti percentuali, per non parlare degli oltre 8 punti resi dal Sud. Ritardi che ora si moltiplicano a valle del corto circuito della pandemia e che – pur considerata la ripresa del 2021 – aumenta a dismisura il ritardo dall’Europa. A complemento del dato nazionale la tabella in basso mostra come già nel 2017,oltre a Marche e Umbria già arruolate, Piemonte, Toscana e Friuli erano buone candidate a entrare nel gregge delle regioni della coesione e tutte le regioni, a partire da Lombardia ed Emilia Romagna, patiscono vistosi arretramenti nei ranghi delle 280 regioni europee.

IL PD NON VEDE OLTRE. L’attesa, o meglio l’auspicio di una seria presa d’atto del disastro annunciato e di una franca disponibilità di fare punto e a capo, è andata finora completamente delusa. Certo – dismessa la iniziale baldanzosa tracotanza – il ridotto del Lombardo-Veneto-Emiliano oggi implora di non dimenticare il Nord, non tanto per bocca della frastornata Lega (partito “neo-nazionale” né carne né pesce) bensì per bocca del solipsistico Pd a trazione emiliana ancora ebbro della vittoria – sardine, nume tutelare di non si sa quale progetto di usurato localismo mitteleuropeo oggi in oggettiva sintonia con una incomprensibile Confindustria. Preoccupante che il Pd nazionale si accodi, non riesca a vedere molto oltre i campanili, succube dell’assioma che l’Italia è il ridotto Lombardo-Veneto-Emiliano.

IL PROGETTO-SISTEMA. Ragionare per assiomi – per definizione indimostrabili – è già pericoloso. Diabolico sarebbe insistere su questo mal posto, che in oltre venti anni ha provocato danni incalcolabili. Ricordiamo sempre che all’alba del 20 luglio a Bruxelles l’Italia ha vinto solo una battaglia; ha ottenuto un mandato dall’Unione che chiede un drastico cambiamento di rotta, non per la manutenzione del motore bensì per un’operazione capace di attivare da Sud quel secondo motore indispensabile per riagganciare il Mediterraneo all’Europa. Che questa transizione si accompagni a una macroscopica operazione perequativa nell’uso delle risorse non è una novità; caso mai dovrebbe essere l’occasione di un confronto oggi reso possibile proprio perché la disponibilità delle risorse consente di intervenire sulle scandalose evidenze documentate dall’operazione verità senza avviare una strisciante guerra civile.

Spetta perciò all’Unione europea garantire il rispetto di condizionalità perentorie: investimenti su progetti finalizzati a ridurre le disuguaglianze e a garantire sviluppo sostenibile; spetta al governo avere il coraggio di avere coraggio e di impegnarsi su un progetto-sistema che non può continuare a esorcizzare il tema del dualismo alimentando vizi e storture che hanno fatto di noi il grande malato d’Europa.

L’INQUALIFICABILE SCIPPO AL SUD CHE MANDA IN ROVINA L’INTERO PAESE. Un’ingiustizia, certificata da Corte dei Conti e Parlamento, che sottrae al Mezzogiorno i servizi essenziali. Vincenzo Damiani l'11 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. L’Italia resta spaccata in due e lo Stato continua a fare figli e figliastri. Un’evidenza certificata da fonti autorevoli: dalla Corte dei conti alla Svimez, passando dal Parlamento stesso e dalla recente indagine promossa dalla presidente della commissione Finanze. I numeri sono sotto gli occhi di chi vuol vedere, il primo è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che nel solo 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale al Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo ai cittadini del Sud.

SCARTO INIQUO. Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti pubblici territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico. Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4%, in crescita dello 0,4% rispetto al triennio precedente, fra quanto il Sud avrebbe dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto ha avuto in realtà. I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2% degli italiani, portano a casa appena il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Tendenza invertita dal Centro- Nord che riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe: il 65,7% della popolazione accede al 72,1% delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno; per uno del Sud appena 13.144.

GLI INVESTIMENTI. La situazione non cambia se guardiamo a quanto spende lo Stato per gli investimenti, cioè la spesa in conto capitale: se negli anni Settanta allo sviluppo del Sud veniva destinato lo 0,85% del Pil, nel periodo 2011-2015 tutto si è ridotto allo 0,15%. Altro che Alta velocità, infrastrutture moderne, ponti sullo Stretto: di questo passo continuerà a essere difficile rattoppare una strada provinciale del Sud.

FONDI DI COESIONE. Come se non bastasse, lo scippo è proseguito sui soldi che spettano di diritto al Mezzogiorno, quello del Fondo coesione: in questi anni i fondi europei sono stati la pezza sui buchi creai dai governi nazionali. Una pezza che in teoria dovrebbe essere “aggiuntiva” rispetto agli investimenti nazionali, ma negli ultimi 13 anni è successo esattamente il contrario: l’Italia ha tagliato i fondi di Sviluppo e coesione, destinati per l’85 per cento al Sud, e ha dirottato le relative risorse su altre voci di spesa. Ecco i numeri, elaborati sui dati della Ragioneria generale dello Stato. L’importo complessivo destinato dalla Finanziaria per il 2007 al Fondo sviluppo e coesione per la programmazione 2007- 2013 ammontava a 63,273 miliardi. Oltre un terzo, 22,3 miliardi, è stato dirottato con una successiva delibera Cipe sul risanamento dei conti pubblici durante la crisi dei debiti sovrani. A crisi arginata, nel periodo di programmazione 2014- 2020, i 68,8 miliardi del Fondo hanno subito una decurtazione di 9,5 miliardi, che sono andati a coprire altri provvedimenti legislativi. A conti fatti, 31,8 miliardi di tagli in 13, di cui oltre 27 (l’85%) pagati dal Mezzogiorno.

GLI AIUTI DI STATO. E non è finita qui: a completare l’opera l’impiego degli aiuti di Stato, risorse destinate dall’Amministrazione centrale alle imprese, nel rispetto delle norme europee. Da agosto 2017, la Lombardia ha ricevuto 3,5 miliardi di euro in aiuti di Stato, quasi sei volte i 600 milioni incassati dalla Calabria. A primo impatto, il dato generale risulta equilibrato: le risorse concesse vanno infatti per il 38,3% a imprese delle regioni Meridionali e per il 61,7% ad aziende del Centro Nord. Ma approfondendo la questione, ecco che salta fuori qualcosa che non va: basta scomputare dal totale il denaro proveniente dai fondi europei, per trovarsi davanti tutto un altro film. Il Centro Nord si accaparra il 73,2% degli aiuti, al Sud va appena il 26,8%. Ben al di sotto della quota di garanzia del 34%. Nel Mezzogiorno solo tre regioni su otto ricevono risorse uguali o superiori al miliardo di euro: la Campania (2,2 miliardi), la Sicilia (1,7 miliardi) e la Puglia (1,6 miliardi). L’Abruzzo, regione il cui tessuto economico è stato messo in difficoltà anche dagli eventi sismici degli ultimi anni, si fermato a 600 milioni.

BANKITALIA. Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, recentemente ha ribadito due concetti fondamentali per la ripresa: giustizia sociale e riduzione delle disuguaglianze. Non è entrato nel merito dei temi, ma è evidente che l’unica manovra economica che abbia un senso è quella che mette al centro il rilancio del Sud, per azzerare le diseguaglianze con il Nord. Il primo punto che Visco ha posto è il recupero del ritardo accumulato nelle infrastrutture: sia quelle tradizionali, da rinnovare e rendere funzionali, sia quelle ad alto contenuto innovativo, come le reti di telecomunicazione. Ecco, all’Italia serve correggere questa stortura. Come? Riportando gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del Pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi.

LA RETE STRADALE. Nel Mezzogiorno si contano anche meno autostrade, a discapito di cittadini e del tessuto produttivo nazionale: al Sud ogni impresa può contare su meno di 20 km di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest, con la Puglia fanalino di coda con appena 7,9 km per azienda. Partiamo dalle autostrade: a fronte di una media nazionale di 23 km ogni 1.000 kmq, al Sud si scende a 20 km/1.000 kmq, con la Basilicata ferma a 3 km/1.000 kmq e il Molise a 8 km/1.000 kmq.

LA SANITÀ. Persino in un settore delicato come la sanità, il Sud è storicamente penalizzato: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno, infatti, visto aumentare la loro quota, in media del 2,36%; mentre per altrettante regioni del Mezzogiorno la fetta è lievitata solo dell’1,75%, cioè oltre mezzo punto percentuale in meno. Sembra poca roba, ma tradotto in euro significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Infatti, mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati solo 685 milioni in più. Lo squilibrio ha permesso alle Regioni del Nord, non in Piano, di investire e assumere: le Regioni settentrionali, nel 2018, hanno speso 14 miliardi e 190 milioni per gli stipendi del personale sanitario a tempo indeterminato, nel 2019 c’è stato un incremento sino a 14 miliardi e 475 milioni. Le Regioni del Sud, invece, per i contratti di medici, infermieri, operatori sanitari a tempo indeterminato hanno potuto spendere meno della metà, cioè 6 miliardi e 726 milioni nel 2018, divenuti 6 miliardi e 805 milioni nel 2019. Gli aiuti e i soldi vanno quasi sempre al Nord, è un dato di fatto.

COVID E PRESTITI. Persino durante l’emergenza Covid-19 è stato così: lo ha denunciato a maggio la Federazione autonomi bancari italiani (Fabi) che ha svolto uno studio su come e a chi sono stati elargiti i prestiti garantiti dallo Stato da 25 a 800mila euro sino a quel periodo. Bene, il 50,7% era ad appannaggio di quattro regioni del Nord dove, però, era attivo solo il 38% di partite Iva e pmi italiane. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si erano assicurate oltre la metà dei finanziamenti con paracadute pubblico, ma in quelle zone del Paese opera, in proporzione, un numero di imprese e professionisti nettamente inferiore alla quota di crediti in arrivo grazie al decreto liquidità. Nel resto del Paese, opera il 62% di soggetti economici, ma la quota di prestiti a fine maggio si era fermata al 49,3%. Nulla di nuovo, d’altronde ogni giorno il Sud “perde” circa 170 milioni: a tanto ammonta, su base giornaliera, il bottino da 62,3 miliardi che ogni anno, dati del Sistema dei conti pubblici territoriali alla mano, viene sottratto al Sud e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale.

LA QUESTIONE SETTENTRIONALE CHE L’ITALIA NON VUOLE VEDERE. L'editoriale di Roberto Napoletano il 10 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Così si è riusciti nel capolavoro di fare vincere clientelismo e criminalità organizzata in territori sempre più estesi del Nord e di ridurre il reddito pro capite delle donne e degli uomini del Sud alla metà di quello del resto del Paese. Privando il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” e l’economia nazionale di una dimensione di impresa diffusa sui suoi territori e degna di un grande Paese. Il punto di forza dell’Italia di oggi è un Presidente del Consiglio libero dal condizionamento di questi interessi deteriori che sono quelli degli egoismi miopi del Nord che stanno conducendo l’Italia fuori dal novero dei Paesi industrializzati. La vera questione settentrionale sono i 600 miliardi malcontati indebitamente sottratti dalle Regioni del Nord alle risorse pubbliche di spesa sociale e di sviluppo dovute alle Regioni del Sud negli ultimi dieci anni. La vera questione settentrionale è l’azzeramento (0,15% del Pil) degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno d’Italia per consentire alla Regione Piemonte di spendere per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania riuscendo nel capolavoro di fare vincere clientelismo e criminalità organizzata in territori sempre più estesi del Nord e di ridurre il reddito pro capite delle donne e degli uomini del Sud alla metà di quello del resto del Paese. Privando così il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” che sono i consumi interni di venti milioni di persone e l’economia nazionale di una dimensione di impresa diffusa sui suoi territori e degna di un grande Paese industrializzato. La vera questione settentrionale sono gli spifferi lombardo-emiliani sull’imminente lockdown fatti filtrare dalla conferenza Stato-Regioni nei giorni caldi del Covid 19 che hanno determinato la fuga di notte dal Nord al Sud di studenti e lavoratori meridionali e hanno costretto la classe politica di governo e delle Regioni meridionali a chiudere economie regionali che potevano rimanere aperte. Sorvoliamo sul tam tam sanitario lombardo-emiliano che accusa le Regioni più indecentemente foraggiate dal bilancio pubblico italiano di avere voluto “scaricare” nelle regioni meridionali parte della loro emergenza sanitaria. Non ce la facevano con tutti i soldi in più che ingiustificatamente ricevono e volevano trasferire parte del problema su chi ingiustificatamente riceve molto meno di loro. La vera questione settentrionale è la caduta totale, rovinosa, delle grandi famiglie del capitalismo privato del Nord drogato da questa massa di denaro pubblico “rubata” per decenni al Sud che ha dato alla testa a molti e ha fatto smarrire il gusto della fatica e di competere nell’arena globale. La vera questione settentrionale è la perdita di un’idea di Paese come fu negli anni del Dopoguerra e che fu patrimonio comune del trentino De Gasperi e dei grandi lombardi come Vanoni e Bassetti. Ma davvero davvero vogliamo andare avanti con i Bonaccini che scappano dai loro doveri istituzionali di fare il fondo perequativo per la spesa sociale e per le infrastrutture di modo che il saccheggio continui indisturbato fino a radere al suolo l’economia del Nord e del Sud e che si preoccupano solo di proteggere il loro orticello di indebiti finanziamenti pubblici? Che cosa deve accadere perché i Bonaccini, i Gori, le Gualmini si rendano conto che il vero interesse del Nord, dell’Emilia-Romagna e della Lombardia, è la fiscalità di vantaggio e un piano di opere da attuare in quattro anni per fare ripartire il mercato interno del Sud e ridare al Nord la sua gallina dalle uova d’oro? È possibile che lo abbiano capito l’Europa tutta, la Bce, la Bei, la Banca d’Italia e non lo abbiano capito i big della Sinistra Padronale? Che cosa di terribile è accaduto perché persone di spessore come Bonaccini, Gori, Gualmini parlino e si comportino come il peggiore Bossi e ripetano il peggiore urlo padano secessionista nelle sue varie salse leghiste? Ma vi rendete conto di quanto pesa il silenzio della impresa privata e delle sue organizzazioni di rappresentanza che avrebbero dovuto chiedere loro, pretendere loro, e poi plaudire, la fiscalità di vantaggio nelle aree svantaggiate? In queste ore sarebbero dovute andare tutte insieme dal Capo del governo a ringraziarlo e a comunicargli: questi sono i nuovi investimenti che andremo a fare noi nel Mezzogiorno, questi sono quelli che siamo in grado di attrarre dall’estero. Che cosa possiamo fare noi per aiutare la comunicazione nel mondo che il nuovo mercato degli investimenti in Europa è il nostro Mezzogiorno oltre a dare il buon esempio? Invece no, senti addirittura dire nei conciliaboli privati: a noi non ce ne frega niente! Ma dove siamo finiti? Di che razza di capitalismo stiamo parlando? Lo diciamo con la consueta franchezza: crediamo che il punto di forza dell’Italia di oggi sia un presidente del Consiglio libero dai condizionamenti di questi interessi deteriori che sono quelli degli egoismi miopi del Nord che stanno conducendo l’Italia intera fuori dal novero dei Paesi industrializzati. Lo si accusa di essere un temporeggiatore ignorando che nella politica ci sono momenti in cui bisogna accelerare e altri in cui bisogna rallentare perché le cose vanno fatte nel momento giusto per farle. Sulla fiscalità di vantaggio Conte si è rivelato una teste d’ariete e così è stato anche per l’abuso d’ufficio e la responsabilità erariale, ancora prima quando si è trattato di buttare giù il muro della iniqua distribuzione della spesa pubblica e questo giornale era assolutamente solo, dopo le nostre inchieste e gli autorevoli interventi di Conte sul tema sono venuti dietro tutti. Così è stato e sempre più sarà per il pacchetto organico di interventi al Sud – alta velocità ferroviaria porti e retroporti – e sarà anche, auspichiamo, per il Ponte sullo Stretto. Oggi si parla di tunnel marino, poi si farà il Ponte perché abbiamo un Presidente del Consiglio che sa coinvolgere la sua base grillina e sa leggere i numeri. Al momento giusto il temporeggiatore tornerà a essere testa d’ariete. Ovviamente vigileremo.

Benvenuti al Sud: qui la vita si allunga. Al Nord l’aspettativa si sta accorciando. Nel Meridione si può arrivare  in media a 82 anni  ma in certe zone della Sicilia si va oltre. Carlo Porcaro il 25 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Al Sud è stata bloccata l’ondata del virus e si vive di più. Al Nord il Covid ha assunto i contorni della tragedia e si vive mediamente di meno. A fotografare la longevità degli italiani è l’Istat alla luce della pandemia, i cui effetti sono ancora in corso. Lo “scatto” è impietoso per chi ha già sofferto molto la cattiva gestione sanitaria del coronavirus. È infatti calata di 2 anni, da 84 a 82, l’aspettativa di vita nelle province del Nord Italia, in particolar modo in quelle colpite dal Covid-19, soprattutto nel Nord-ovest e lungo la dorsale appenninica. Si può vivere fino a 82 anni in media nel Meridione, ma in alcune province della Sicilia il post-Covid ha fatto persino salire la media e si “campa” di più.

I DATI. Sono i dati emersi dal Report dell’Istat focalizzato sugli “scenari di mortalità da Covid-19”, secondo cui invece «l’intensità nel cambiamento della speranza di vita alla nascita appare decisamente minore, e nella maggior parte dei casi trascurabile, in corrispondenza di buona parte delle province del Centro e del Sud. Per alcune di esse – ha registrato l’Istituto di statistica – si ha persino modo di registrare un miglioramento, ad esempio per talune province della Sicilia». I problemi più preoccupanti riguardano gli anziani, già deboli di loro, vittime preferite dal virus. Le stime sulla speranza di vita degli over 65enni si sono abbassate molto. In particolare, in tutte le province del Nord e parte di quelle del Centro un individuo al 65° compleanno poteva aspettarsi di vivere, in epoca pre-Covid, per altri 21 anni (mediamente), mentre con gli effetti di mortalità dovuti alla pandemia, tale durata – facendo riferimento allo scenario intermedio “moderato” – scenderebbe a circa 19. E il Mezzogiorno? Le Province meridionali «non sembrano tuttavia registrare variazioni di rilievo», il che significa che la situazione è rimasta di fatto invariata o leggermente migliorata. Stare chiusi in casa è servito a salvare la pelle, oggi e domani insomma.

LA CLASSIFICA. Bergamo e Cremona segnano una  riduzione della speranza di vita alla nascita che risulta superiore ai 5 anni; riduzione che a Bergamo arriva a raggiungere i sei anni allorché la si misura al 65° compleanno. Per cogliere meglio il significato delle variazioni osservate, «può essere utile collocare i livelli della speranza di vita localmente ipotizzati attraverso gli scenari disegnati per il 2020 nel quadro delle dinamiche rilevate, nel corso degli anni, per quegli stessi indicatori». Per alcuni territori si torna indietro di circa 20 anni, mentre al Sud la longevità è la stessa di prima. «La marcata incidenza della mortalità in corrispondenza della popolazione in età più avanzata porta con sé, là dove è presente, anche un significativo allentamento di quel fenomeno, noto come invecchiamento demografico, che identifica la crescita della componente anziana e che tradizionalmente era stato visto – almeno sino ad ora e stante le dinamiche demografiche da tempo in atto – come qualcosa di ineluttabile. Non a caso – si legge nel Report dell’Istat – la simulazione per il 2020 in assenza di Covid-19, mette chiaramente in luce come la quota di ultra 65enni sul totale dei residenti fosse destinata ad aumentare di altri 0,3 punti percentuali a livello nazionale, segnalando un incremento in pressoché tutte le Province».

PATRIMONIO DEMOGRAFICO. Il “patrimonio demografico” di ogni Provincia, inteso come il totale di anni-vita che competono ai suoi residenti in base alle aspettative di vita (e di riflesso alle condizioni di mortalità) di un dato periodo. In questo senso, «se si tiene conto dei cambiamenti nella speranza di vita alle diverse età prospettati dai diversi scenari si ha modo di cogliere come, ad esempio nello scenario moderato, alle condizioni di mortalità (di speranza di vita) ipotizzate vi siano alcune Province in cui si registra una riduzione del patrimonio demografico anche nell’ordine del 5-10%. Ciò è quanto accade per le Province di Bergamo, Cremona, Lodi, Piacenza, Brescia, Lecco, Parma e Pavia, mentre nel Centro e nel Sud, ad eccezione della Puglia, Calabria e Sardegna, si registrano variazioni del patrimonio demografico sostanzialmente nulle o in molti casi positive. In generale, va ricordato che la popolazione italiana di età tra 15 e 64 anni si ridurrà di oltre 3 milioni nei prossimi quindici anni. Lo ha detto Bankitalia nella sua ultima relazione annuale. «Le nostre proiezioni demografiche non sono favorevoli, anche tenendo conto del contributo dell’immigrazione, stimato da Eurostat in circa 200.000 persone in media all’anno», annunciò il governatore Ignazio Visco.

SUDISMI - Geo-paradosso e alta incapacità: isolati i porti del Sud vicini a Suez. Il Paese non si è attrezzato per sfruttare la posizione geografica che ne fa una piattaforma logistica nel Mediterraneo. Pietro Massimo Busetta il 24 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quattro cose da fare subito! Così la campagna che ha iniziato il nostro quotidiano ieri. La prima cosa da fare sarebbe di partire con gli investimenti pubblici. In particolare fare un elenco di quelli che si possono realizzare, partendo dall’alta velocità al Sud. Sembrerebbe tale priorità dettata solo da una voglia di perequare il territorio e dare gli stessi diritti di cittadinanza a tutti, anche nel diritto al trasporto. Ma in realtà questo diritto in Italia non lo hanno tutti allo stesso livello. Se uno abita sulle Dolomiti ha una possibilità di movimento inferiore rispetto a chi abita a Milano e nessuno pensa di costruire una linea di alta velocità ferroviaria per raggiungere da lì un grande centro, anche se con il decreto rilancio sono stati destinati 2 miliardi per la Bergamo -San Candido, per quelle Olimpiadi, che dovevano essere a costo zero per il Paese.

TEMPI DI PERCORRENZA. Quindi se qualcuno avesse in Calabria tempi di percorrenza per raggiungere un grande centro superiori a chi abita in Toscana non sarebbe scandaloso. Invece la logica é un’altra ed é solo economica: il nostro Paese ha la fortuna di essere a forma di uno stivale che si protende verso l’Africa, con la Sicilia che é a 100 chilometri dalla Tunisia. Tanto che nei giorni limpidi da Pantelleria si sorgono le coste tunisine. E lo sanno bene i Nord africani che arrivano in surf o in barchini improvvisati. L’unico che sembra non saperlo é il nostro Governo e la nostra classe dirigente che consente a Mario Monti, complici tutti i partiti che lo appoggiavano, di cancellare il collegamento stabile tra Sicilia e Calabria, che doveva servire a fare arrivare quell’alta capacità/ velocità ferroviaria che congiungendosi con la linea in funzione che parte da Salerno avrebbe potuto collegare Berlino ad Augusta e quindi a Hong Kong tramite la piattaforma italica. Ed il Paese negli ultimi cinquant’anni non si é attrezzato per sfruttare la posizione geografica che ne fa una piattaforma logistica nel Mediterraneo, proiettata verso Suez. Quindi ci troviamo a due passi da Canale di Suez raddoppiato ma non ne utilizziamo il vantaggio. Nel frattempo il Mondo va a velocità supersonica. Qualche giorno fa La HMM Algeciras, la più grande nave portacontainer al mondo, ha concluso il suo viaggio inaugurale a Londra.

LA HMM ALGECIRAS. Partita il 26 aprile dal porto di Qingdao nella provincia dello Shandong, in Cina orientale, lunga 399,9 metri, ha una larghezza massima di 61,03 metri e una superficie di oltre 24.000 metri quadrati, circa le dimensioni di tre campi e mezzo di calcio regolamentari. La HMM Algeciras può trasportare circa 200 container in più rispetto alla precedente nave portacontainer più grande. A pieno carico, tutti i 24.000 container, se posti in fila, raggiungerebbero una lunghezza totale di 150 chilometri. La nave prima di raggiungere Londra ha navigato verso Busan con 4.560 TEU di prodotti chimici, meccanici ed elettrici e prodotti alimentari non di base. I porti nella rotazione della nave portacontainer sono stati anche Ningbo, Shanghai, Yantian, il canale di Suez, Rotterdam, Amburgo e Anversa. Ha viaggiato ad una velocità massima di 12,9 nodi e una velocità media di 10,9 nodi. Questa la notizia che riportano le agenzie del 16 giugno scorso. Tutti i numeri sono impressionanti: dalla lunghezza dei container messi uno dietro l’altro, alla dimensione di tre campi di calcio della tolda, alla velocitá.

I TRAFFICI. Ma quello che é veramente impressionante é che nel Mediterraneo lungo le coste del Nord Africa si concentra attualmente il 19% del traffico mondiale. Per capire di cosa stiamo parlando i numeri sono importanti. Nei porti che si affacciano sul Mediterraneo transitano ogni anno 2 miliardi di tonnellate di merci: i primi 30 scali nel 2015 hanno movimentato 48 milioni di teu. L’incremento di questi trasporti negli ultimi 20 anni è stato esponenziale (+ 425%) se si tiene conto che nel 1995 erano stati 9,1 milioni. Ed il nostro Paese si é trovato impreparato ad intercettare tali traffici, dimostrando la mancanza di visione che abbiamo avuto.

L’ASSURDO. Invece di potenziare i porti più vicini a Suez, come Augusta, Catania, Palermo, Gioia Tauro, Taranto, Bari, Napoli abbiamo lasciato che gli altri da Atene a Tangeri si attrezzassero. Noi abbiamo lasciato Augusta con il suo inquinamento, aspettando la verità e le bonifiche da oltre mezzo secolo. Situazione molto simile a Taranto come abbiamo appreso dalle cronache sulla ex Ilva. Un Mezzogiorno che é servito da discarica per le produzioni inquinanti, e che poi é stato abbandonato a se stesso. E adesso ci ritroviamo a dover correre per recuperare il ritardo accumulato; il rischio é di rimanere emarginati dai grandi traffici internazionali pur essendo geograficamente centrali. E di perdere migliaia di posti di lavoro che invece sono stai creati nei retro porti di Anversa o Rotterdam.

URGENZA NON PERCEPITA. Questo é il motivo dell’alta velocità/ capacità al Sud. Ma non mi pare che questa urgenza sia stata percepita se ancora Leu o i 5 stelle disquisiscono su ponte si, ponte no, come se il problema fossero quei tre chilometri di mare e non di completare la lunga linea ferrata per arrivare ad Augusta, davanti al canale di Suez, ed intercettare una parte dei traffici. Mentre l’Europa, che sa bene quanto sia rischioso ed inquinante, da un punto di vista ambientale, far viaggiare questi giganti per lunghi tratti, ci raccomanda di far presto, magari mettendoci a disposizione le risorse per completare la rete. Speriamo che il nostro Paese riuscirà a recuperare il tempo perduto ed a far partire il progetto che ci farebbe diventare i protagonisti del Mediterraneo e non continuare a rimanere ai margini dei traffici, periferia del mondo.

IL CASO DELLE ZES. E riuscire dopo gli Stati generali ad avere una visione per l’Italia 2030. O continueremo a pensare alle prossime elezioni o alle parole in libertà di Di Battista? Dobbiamo essere ottimisti certo, ma anche pretendere risposte concrete. Peraltro le Zes potrebbero costituire delle realtà di retroporto, dove procedere alla trasformazione dei prodotti che arrivano dalla vicina Cina, niente di diverso di quello che fanno a Rotterdam, creando migliaia di posti di lavoro. La logistica é uno dei driver che sempre Adriano Giannola e la Svimez hanno individuato come uno dei pilastri sui quali fondare lo sviluppo del nostro Paese con la valorizzazione della piattaforma logistica che il fato ci ha donato insieme alle coste ed al mare. Ma come dice qualcuno tutto quello che non si paga si pensa non abbia valore .

Per salvare il Meridione il ministro Provenzano deve abbattere il feudo. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 24 Giugno 2020. I piani per il Sud si rinnovano ciclicamente, con una cadenza sinistra simile alle epidemie o alle carestie. Niente di buono è mai successo se le condizioni di sottosviluppo, i problemi, continuino a permanere, immutabili, quasi fosse davvero il destino il padrone del gioco meridionale. Ora è il ministro Provenzano che si propone di disarticolare il fato. Aree interne, restanza e ritorno dei giovani, le linee guida del suo rilancio. Cose giuste, imprescindibili, per chi vuol cambiare le cose, ma perfettamente inutili senza il verificarsi di una precondizione. E la mafia è un ostacolo enorme allo sviluppo, ma non è la causa è il prodotto del mancato sviluppo, che in un circolo vizioso si nutre di fallimenti e a sua volta ne origina di nuovi. Il Sud ha un sistema produttivo striminzito, embrionale, quello privato non ha le risorse per fare da solo e ha bisogno di un forte intervento pubblico per partire, e l’intervento pubblico è saldamente in mano a una classe dirigente che trova la sua esistenza, sopravvivenza, nel mancato sviluppo. È il feudo il grande, intonso, problema del Sud. Fino a quando non si scardinerà il feudo nessuno sviluppo sarà in grado di sovvertire le sorti del Meridione. Le aree interne si sono spopolate perché le classi dirigenti hanno operato perché si spopolassero, e i giovani sono stati costretti a partire per sfuggire, non sottomettersi, non scendere a patti con una razza padrona. In questo sistema perverso, in fondo, le mafie hanno giocato il ruolo che era loro consono, soffocare il ribellismo, o farlo confluire in un percorso criminale, soffocare e assoggettare l’intraprendenza privata, in un meccanismo, tra mafie e classe dirigente, che quando non è stato di complicità, è stato di reciproca convenienza, di convergenza di interessi. La magistratura per lungo tempo ha assistito, per tanto tempo ha poi perseguito il versante mafioso del problema, e spesso prediligendo la parte stracciona del crimine. E anche quando l’intervento è diventato massiccio, è mancata l’azione politica, la costruzione di una classe dirigente capace, libera. Le forze centrali della politica hanno lasciato sussistere in loco casati che si susseguono di generazione in generazione, con una logica del ricambio che è quella dei figli al posto dei padri, e poi dei nipoti. E non è una questione di colori. Un blocco unico, solo apparentemente variegato continua a governare. Tutto è saldamente in mano al feudo, chi si integra, è integrato, resta, gli altri si devono arrangiare, nel senso di partire. E continuerà a esserci un piano per il Sud di tipo epidemico, fino a quando, la politica, non deciderà di scardinare il feudo, di aprire le porte del potere politico, istituzionale, imprenditoriale ai figli di nessuno. Fino a quando ciò non si verificherà, i borghi resteranno deserti e i giovani continueranno a riempire valigie.

Italia, allunga il passo e torna a essere unita. Analisi e riflessioni post pandemia in «Il male del Nord» di Pino Aprile. La divisione del Paese in due parti, una che ha tutto e l’altra niente, nella spesa pubblica sottrae al Sud 61 miliardi l’anno. Lino Patruno il 21 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. E infine venne il virus a dimostrare che «il re è nudo». Tutti a chiedersi come mai la Lombardia, la regione più potente d’Italia, sia stata la peggiore nella lotta alla pandemia. Non solo compromettendo se stessa, ma compromettendo il resto del Paese. E come la vocina della bambina nella novella di Andersen, quella del Covid ha rivelato gli inganni sui quali quella sensazione di intangibilità e immunità si reggeva. Parliamoci chiaro: sono stati tanti gli errori commessi fra Bergamo e Milano, che se fossero stati fatti altrove avrebbero portato allo stesso disastro. Il fatto è che non sono stati commessi altrove, ma proprio lì dove meno ce li si aspettava. Anzi è andata molto meglio dove più ce li si aspettava. Ma a loro non poteva succedere. E allora? Ha una spiegazione meno legata al caso «Il male del Nord», titolo dell’ultimo libro di Pino Aprile (Pienogiorno ed., pag. 171, euro 16,90) uscito mentre ancòra lassù si contano i morti quotidiani e altrove no. È vero che con un governatore come Fontana e un assessore come Gallera si può addirittura dire che il male sia andato fin troppo bene. È vero che se lasci diffondere il contagio negli ospedali e nelle residenze per anziani non è che il virus faccia finta di niente. È vero che se dici «Milano non si ferma», meno che mai si ferma la diffusione degli ammalati. È vero che se fai svolgere la partita (con pubblico) Atalanta-Valencia te la vai proprio a cercare. È vero che se non istituisci immediatamente le «zone rosse» di blocco totale, la pandemia va e viene come vuole. Ma ecco, perché le «zone rosse» solo a tempo scaduto? E perché la leggerezza e la protervia di tutto il resto? Perché appunto il re era nudo, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo. Non sfortunate coincidenze, ma inevitabili conseguenze di un modo di essere. Una ingordigia economica che ha fatto tenere aperte il 70 per cento delle aziende trasformate in focolai poi indomabili (i «danè»). Una indisciplina civica figlia di un’arroganza da ricchezza e di una concezione sfrontata di autonomia. Un sistema sanitario pubblico talmente smantellato per far fare soldi ai privati che al momento opportuno non ci sono state più terapie intensive sufficienti. Tutto quanto fosse camuffato dai suoni e dalle luci della Milano città europea è miseramente e dolorosamente esploso alla prova dei fatti. Insomma non è fallita solo una sanità lombarda. È fallita una presunta locomotiva talmente sfiatata che il Paese è sempre ultimo nelle classifiche del reddito. Ma questa locomotiva non arraffa sempre carburante senza che ciò non costi qualcosa al resto d’Italia. Carburante come spesa pubblica che sottrae al Sud 61 miliardi l’anno che vanno agli altri. Costa la divisione in due Italie, una che ha tutto l’altra niente. Costa una sperequazione che non fa crescere l’intera Italia, non solo il Sud. Una mancanza di equità non solo territoriale, ma umana e sociale in cui la parte meglio attrezzata, la più ricca, la maggiormente servita e finanziata, quella alla quale va tutto non capisce il suo male, appunto. Un male di congestione, inquinamento, accaparramento, abbondanza, scandali, cattiva amministrazione. Memorabile in tal senso il discorso di Fontana: da noi la bistecca spetta al padre che lavora, niente ai figli. Insegniamogli la civiltà mediterranea che tutto divide. Finché, in un giorno di marzo dell’anno bisestile 2020, tutto diventa un boomerang per mano di un virus. Il libro di Aprile non è solo un instant book su ciò che è avvenuto (anche se il giornalista-scrittore pugliese lo scrive al passato come un memoriale che resti nella storia: avvenne, ci fu). È un libro che parte dallo scandalo di un Paese ingiusto per arrivare alla urgenza di un Paese più giusto. Partendo da Sud, che così non è il problema del Paese, ma è la soluzione. E Sud in cui col virus doveva succedere e invece non è successo. Anche se la notoria vis polemica di Aprile si chiede (per la verità senza che la polemica sia campata in aria) cosa avrebbero detto a parti inverse. Un Muro di Berlino avrebbero eretto contro i meridionali peste d’Italia. Contro i colerosi. E dove, invece, con meno mezzi e meno uomini, si è fatto molto meglio di dove mezzi e uomini li sottraggono agli altri senza nulla restituire. Compresi, stavolta, tamponi e reagenti. Aprile non fa la fantacronaca di un disastro. Ridicolizza il pregiudizio contro il Sud. Smonta il giudizio sul Nord. Dice chiaro e tondo che se l’Italia non cambia non solo resta ultima, ma si spezza (a costo di essere tacciato di separatismo). Suggerisce che solo partendo da Sud c’è un futuro per tutti, dalle terre dimenticate alle terre di mezzo. Sud come un affare. Si è finora lasciato credere che il male del Paese fosse appunto il povero Sud. E invece si scopre il male del Nord. Frigge dirlo, ma questo virus non sarà stato del tutto inutile (e infame).

Pino Aprile, dopo Terroni, Giù al Sud, e saggi seguenti in cui metteva a nudo l’iniquità italiana, ne “Il male del Nord” toglie anche le mutande a questa malfatta nazione fondata sulla disparità territoriale, e lo fa con un’avvertenza: se l’Italia non cambia, è destinata a spezzarsi. Il Sud non può più tollerare il modello del “Prima il Nord”.

 “IL MALE DEL NORD” DI PINO APRILE? IL RE E’ NUDO E QUALCUNO GLI VEDE IL LATO B. Raffaele Vescera il 18.06.2020 su Movimento24 agosto.it. Rompere un pregiudizio è più difficile che spezzare un atomo, diceva il grande Einstein, che l’atomo lo spezzò per davvero, mentre infuriava il pregiudizio contro gli ebrei, popolo cui apparteneva e che pagò con milioni di morti innocenti la follia di tale preconcetto razziale. Prevenzione razziale che, se in Europa infuriava contro gli ebrei, in America dove Einstein si era rifugiato infuriava contro i neri, trattati men che bestie dagli ottusi razzisti yankee, dei quali il Ku Klux Klan, estremista e assassino, era solo la punta dell’iceberg.

Il tutto mentre in Italia infuriava e ancora infuria il pregiudizio contro i meridionali, “terroni, merdacce, esseri inferiori, topi di fogna da sterminare con le eruzioni vulcaniche”, nella vulgata leghista. Più semplicemente “indolenti, scansafatiche, mandolinari, inadatti” in quella perbenista “democratica”. Ma il pregiudizio, si sa, è funzionale a spogliare i popoli delle loro ricchezze e a utilizzarli come braccia da lavoro a basso costo, neri che siano o “mezzi neri” com’erano classificati i meridionali. A tal fine si impegnano veri e propri plotoni di esecuzione “intellettuali”, giornalisti, filosofi, storici che, falsificando informazione, sapere e storia, devono diffondere nel popolo inconsapevole il comodo pregiudizio di superiorità della propria razza sulla presunta razza inferiore. Ci riescono puntando sullo spirito da “caporali” piuttosto che da uomini, ampiamente imperante. E Pino Aprile, che tutti conosciamo come giornalista e scrittore, principale demolitore del pregiudizio antimeridionale, nel suo appena uscito e già bestseller, “Il male del Nord”, pubblicato dal nuovo editore “Pienogiorno”, facendo un’analisi spietata delle cause che affondano questo paese, definisce la “Questione meridionale” come una questione razzista, con tutte le conseguenze che discendono da tale trattamento riservato agli “inferiori”. Insulti, derisione, spallucce, ammiccamenti, sì ma più di tutto impoverimento del Sud, disoccupazione, mancanza di servizi e quant’altro deve convincere il meridionale ad emigrare al nord per lavorare, pur se disprezzato, per poi rifarsi con le successive generazioni una verginità “padana”, magari leghista, per essere accettato nell’ambiente in cui vive. Nord in cui, per scelta politica della cattiva unità d’Italia, è stata concentrata l’industria e la finanza italiana, a danno ed esclusione dell’intero Paese, determinando urbanizzazione forzata e inquinamento d’ogni genere, lasciando nell’abbandono altri territori in cui si poteva sviluppare un’economia sostenibile. E’ nelle aree di massima concentrazione che si è maggiormente diffuso il virus nel mondo, piuttosto che in quelle scarsamente antropizzate, mostrando il fallimento del modello capitalistico ultraliberista, creatore di tali diseguaglianze e iniquità. Fallimento che fa emergere la necessità del cambiamento: ripartire da Sud per salvare questo Paese disunito, ultimo in Europa per crescita economica, in virtù della esclusione di oltre un terzo della sua popolazione dai piani di sviluppo e dalla possibilità di crescita economica, danno che si ripercuote sull’intera economia nazionale. L’Italia è un uomo che cammina con una sola gamba, usando l’altra come carne da macello, è un treno munito di una locomotiva che non può correre perché deve trainare vagoni malandati. Locomotiva man mano sfiatata, come ci segnala Pino Aprile, enumerandoci la svendita alle multinazionali straniere delle grandi aziende del Nord, un Nord che ormai vive in modo parassitario “assorbendo le risorse del Paese, senza nulla restituire”, secondo la definizione del ministro per il Mezzogiorno Provenzano. I grandi cambiamenti sociali, avverte Pino Aprile, non procedono con casualità ma per sbalzi e catastrofi. E, a quanto pare, la catastrofica epidemia da covid convince strati sempre più ampi di cittadini della necessità di cambiare l’attuale modello di sviluppo fondato sulla disuguaglianza territoriale. Catastrofe epidemica più che altro evidente in Lombardia, cuore del Nord, dove ha trovato condizioni ideali per riprodursi. Non solo per via delle cattive condizioni ambientali, ma anche e soprattutto a causa delle pessime condizioni politiche. Non data certo da oggi la cattiva amministrazione della sanità lombarda, definita eufemisticamente “eccellenza” e “top”, certo non lo è stata nella sciagurata privatizzazione della sanità pubblica, non lo è stata nella distribuzione di tangenti che vede che vede il “celeste” Formigoni condannato ad anni di galera, non lo è nella creazione dell’ospedale in fiera con 21 milioni di euro spesi per 25 posti letto, come non lo è nella mancata creazione di zone rosse e nello scaricare i malati di covid nelle case di riposo degli anziani, facendone strage. Ora il re è nudo, ma lo era già dagli anni delle Tangentopoli uno, due e seguenti, lo era negli anni della corruzione miliardaria sulla costruzione dell’alta velocità ferroviaria, al Nord costata 67 milioni al Km, a fronte dei 10 milioni in Francia, lo era negli sprechi miliardari dell’expo e di altre infrastrutture utili più a far mangiare i “prenditori” che a far muovere i lombardi. Eppure, la forza mediatica, concentrata al Nord, ha lasciato credere che il male del Paese fosse il povero Sud, pur rovinato dalle mafie, con le quali pezzi dello Stato e finanza del Nord andavano a braccetto. 

L’EMERGENZA NAZIONALE E’ IL SUD, ALTRO CHE “QUESTIONE SETTENTRIONALE”. Raffaele Vescera il 22.06.2020  Movimento24 agosto.it.. Di Enzo Lionetti. Negli ultimi 17 anni, lo Stato italiano ha tolto 840 miliardi di euro dalle regioni meridionali e li ha assegnati al Nord ricco e opulento. Nell'ultima legge finanziaria pre-covid, per le Olimpiadi di Milano-Cortina è stato stanziato 1 miliardo di euro e per la seconda linea metropolitana di Torino sono stati stanziati 800 milioni di euro. E' sempre in corso di approvazione lo stanziamento per il TAV Torino - Lione che ammonta a 10-12 miliardi di euro. Senza dimenticare l'autostrada BREBEMI e la Pedemontana Veneta. E come non citare il famoso caso storico del MOSE di Venezia, voragine dello Stato italiano che costa dai 4 ai 6 miliardi di euro, affidati in maniera grottesca ad un Consorzio privato, senza un minimo di procedura di evidenza pubblica. Gli stanziamenti per la sanità pubblica e per i servizi di assistenza sociale sono da decenni a favore del Nord Italia. Al capitalismo del Nord Italia piace vincere facile. Con i soldi dello Stato italiano si produce e si guadagna. E questo modello di riferimento, che ha funzionato e per questo è stato replicato nel corso del tempo in maniera sempre più crescente, ha visto la complicità di partiti come la Democrazia Cristiana, come il Partito Comunista negli anni sessanta e settanta, con il Partito Socialista negli anni ottanta dello scorso secolo. L'evoluzione del modello è arrivata con la discesa in campo di Berlusconi e della Lega Nord, simboli di un capitalismo arrembante e di una barbarie culturale e politica, a cui il salotto buono di Piazzetta Cuccia a Milano e di Viale dell'Astronomia a Roma non hanno saputo resistere. In molti casi non hanno voluto resistere. Il modello della Questione settentrionale fondato sul razzismo nei confronti della Popolazione meridionale per affermare le ragioni della supposta superiorità del sistema industriale settentrionale, alla ricerca di continue fonti di approvvigionamento pubblico per mantenere la propria sopravvivenza, ha determinato un tale sconquasso di proporzioni inimmaginabili, portando il PIL dell’Italia a valori miseri nei confronti dei competitor mondiali, lasciando una parte del Paese nell’arretratezza economica. Questo modello non ha più ragion d’essere, non ce lo possiamo permettere, il sistema Italia non se lo può permettere più. Non ha senso un’Italia duale, non ha senso infrastrutturare una sola parte dell’Italia già di per sé ricca, con iniziative ridondanti ed a bassissimo se non nullo effetto moltiplicatore, anzi foriero di un consumo di suolo e di un’industrializzazione selvaggia che ha determinato e determinerà sempre più condizioni di disequilibrio ambientale, di inefficienza e di forti tensioni. La Questione meridionale si pone come elemento di forte attualità in quanto applicazione del principio di Equità sancito in Costituzione. I padri costituenti hanno lasciato un’eredità disattesa, violentata da logiche partitocratiche saldate da un becero capitalismo, che occorre riprendere e valorizzare, perché frutto di un lungo ragionamento in Assemblea Costituente che cementò le istanze territoriali alle giuste rivendicazioni sociali e culturali. Un lavoro lungo ben 16 mesi, da giugno 1946 a dicembre 1947, in cui una volontà di riscatto, di rinascita, di rivendicazioni morali e culturali, diede vita ad un favoloso equilibrio istituzionale e di elementi programmatici per il futuro del Paese. La Questione Meridionale è il vero anello di congiunzione tra l’esigenza di apprestare un futuro sviluppo equilibrato ed armonico tra aree territoriali, di riconquistare un ruolo nel panorama internazionale e di dare opportunità di libera espressione imprenditoriale, sociale e culturale ad un territorio, la parte meridionale della penisola italiana ed insulare, fin troppo bistrattata artatamente ed in maniera beffarda da un sistema politico-imprenditoriale egoista. Vediamo i risultati che la Questione settentrionale ha portato. Sulla base di questi risultati analizziamo la convenienza a ripercorrere un processo di decisioni pubbliche che vede il Nord in prima fila ed il Sud “a traino” del sistema imprenditoriale nordcentrico. Il risultato è fallimentare, è inadeguato, è inefficiente, è insulso e retrogrado.

Nel ventesimo secolo ha potuto avere spazio per un annicchilimento della classe dirigente politica e sociale.

Nel ventunesimo secolo gli spazi di manovra si sono ridotti ampiamente, la mobilitazione culturale e sociale, oltre che ampi strati di sistema imprenditoriale, pongono la Questione Meridionale come unica ed irrinunciabile strategia di azzeramento del divario Nord/Sud, di recupero di una dignità offesa e di valorizzazione delle risorse presenti nel Meridione d’Italia.

Solo con forti investimenti in infrastrutture necessarie al Meridione, il moltiplicatore degli investimenti pubblici può esercitare la sua funzione di propagazione di effetti positivi nel sistema economico e sociale, in quanto va ad aumentare l’efficienza e la produttività unitamente all’innalzamento dei livelli di prestazione sociale che uno Stato moderno ed efficiente deve perseguire, nel solco degli auspici dei nostri Padri Costituenti e prefigurati da grandi Economisti come Salvemini o Caffè. Solo con una forte azione statale di contrasto all’inefficienza e di ampio controllo della spesa pubblica, possono determinarsi le condizioni idonee allo sviluppo dei territori meridionali, grazie ad un rinnovato spirito collettivo di Giustizia e Legalità che sta pervadendo il tessuto connettivo sociale e culturale meridionale, purtroppo sulla scorta di tragedie collettive come quelle di Falcone e Borsellino o con l’opera di egregi ed inossidabili uomini di Stato come Nicola Gratteri e Nino Di Matteo. O con l’abbattimento delle Vele di Scampia, simbolo di una politica miope di ghettizzazione di ampi strati sociali in quartieri monstre che il grande Pasolini aveva già denunciato. Il Sud ha voltato pagina. Le Vele di Scampia sono state demolite. La nuova Questione Meridionale è l’emergenza nazionale e l’occasione di riscatto di un intero Popolo, che vuole continuare ad essere unito ma nel rispetto delle reciproche prerogative di sviluppo ed equità. Lungamente dimenticato e sacrificato sugli altari di un neo colonialismo capitalistico, bistrattato ed oltraggiato per mano di scribacchini e per bocca da insulsi politicanti entrambi pagati con le tasse di tutti gli Italiani, il Sud si appresta a vivere il momento più decisivo della sua Storia. La sua lunga tradizione di Popolo pacifico ed operoso, culminata nel periodo dorato ottocentesco del Regno delle Due Sicilie che lo ha portato a divenire la terza potenza economica europea, dove a Pietrarsa e Mongiana, rispettivamente Campania e Calabria, erano presenti i due più importanti stabilimenti siderurgici dell'intera penisola e tra i più grandi in Europa, con migliaia di addetti, che distanziavano notevolmente gli addetti di Genova della nascente Ansaldo. Meccanica pesante e di precisione, costruzioni ferroviarie e industria energetica erano già allora uno dei settori più importanti dell'economia meridionale. L'unità d'Italia ha provveduto a distruggere il sistema economico della parte meridionale della penisola italiana, nel nome di una precisa volontà politica di distruggere tutto ciò che era riconducibile alla famiglia reale dei Borbone, visti come antagonisti della famiglia reale dei Savoia e quindi da annientare non solo fisicamente ma anche e soprattutto culturalmente. La Questione Meridionale parte in quegli anni, suggellata dal radicale lombardo Antonio Billia, per confezionare la più grande fake news di tutti i tempi, ovvero dipingere il Regno delle Due Sicilie come il male assoluto ed il luogo dell'arretratezza economica e sociale, il luogo del malaffare e della dissolutezza, il luogo della pedante burocrazia borbonica. Il Mezzogiorno, nell'accezione costituzionale repubblicana, è stato visto come luogo di scambio, ovvero assistenza versus consenso politico, in cui le industrie di costruzione del Nord hanno fatto affari d'oro con la Cassa del Mezzogiorno, sottopagando gli operai con subappalti da miseria, finanziando le Mafie, la Camorra e la 'Ndrangheta per ottenere chissà quali protezioni, ma sempre a spese dello Stato con revisione dei prezzi e varianti in corso d'opera che hanno portato a costi esorbitanti le opere pubbliche meridionali. Ma l'elemento distintivo del capitalismo italiano, prettamente radicato a Nord, è caratterizzato da un elemento distintivo pregnante, il ricorso al contributo dello Stato italiano che si è sempre prestato nel concedere indennizzi, elargizioni e grandi appalti pubblici. L'industrializzazione del Nord Italia avvenuta con il Piano Marshall ed in seguito con la grande opera di infrastrutturazione del territorio, ha generato una redditività enorme nelle famiglie capitalistiche, alle spalle di uno Stato italiano sempre pronto ad approvare leggi di favore e concedere posizioni di vantaggio alle regione settentrionali. Questo succede anche oggi. Lo Stato italiano pensa solo al Nord concedendo benefici e contributi senza un minimo di rendiconto sociale nei confronti dell'intera nazione italiana.

·        Il metodo della “Spesa Storica”. Il ladrocinio degli evasori. Sorpresa: il Nord si prende la gran parte dei soldi pubblici.

Infrastrutture, 20 anni di spesa iniqua. Nord batte Sud 139 a 51: Suicidio Italia. Il Paese ha del tutto abbandonato il giacimento di crescita potenziale che si trova sotto il Garigliano. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 14 dicembre 2020. «Datemi una leva e vi solleverò il mondo», disse Archimede. Più modestamente, quella parte d’Italia in cui visse Archimede potrebbe dire: «Datemi le infrastrutture e solleverò il tasso di crescita». Chissà se il solito proverbio cinese – «Se volete creare ricchezza costruite una strada» – data da prima o da dopo Archimede, ma ambedue i detti esprimono lo stesso concetto: le infrastrutture sono una precondizione per la crescita. Il recente rapporto della Svimez si china, in uno dei più pregnanti capitoli, sul divario infrastrutturale fra Nord e Sud del Paese. La tabella sulla “Dotazione di infrastrutture terrestri” presenta un confronto fra quelle dotazioni nell’Europa a 15 e l’Italia, declinata, quest’ultima, per regioni meridionali e per grandi ripartizioni territoriali. Le infrastrutture terrestri (quantificate in rapporto alla popolazione) riguardano i trasporti, essenzialmente strade e ferrovie.

LA FOTOGRAFIA. La tabella fotografa la situazione a due date: 1990 e 2017. Gli indici non sono assoluti, ma relativi: cioè a dire, nelle due date l’Europa a 15 viene fatta eguale a 100, e l’Italia e le regioni sono parametrate ai valori medi europei. Come si vede, per le autostrade nel 1990 l’Italia era sulla media europea, e il Mezzogiorno, se pure con un indice inferiore a quello del Centro-Nord, non sfigurava. Ma con l’andar del tempo il “doppio dualismo” di cui abbiamo già parlato – Italia/Europa e Centro-Nord/Mezzogiorno – ha colpito ancora. La posizione relativa dell’Italia è scesa di molto, a quota 72, ma è scesa ancora di più quella del Sud rispetto al Nord (in queste analisi useremo indifferentemente “Nord” per “Centro-Nord” (C/N) e “Sud” per “Mezzogiorno”). Per quanto riguarda le ferrovie, l’Italia anche qui era sulla media europea per l’elettrificazione nel 1990, ma, come i polli di Trilussa, quel valore medio di 101 era composto di un 118 per il C/N e di un 71 per il Sud. Comunque, passando al 2017, l’Italia è scesa rispetto all’Europa (dualismo esterno…) ed è continuato, seppure un po’ ridotto, il dualismo interno. Là dove il confronto si fa più interessante (o desolante) sta nel comparto ferroviario dell’Alta Velocità (AV). Nel 1990 l’Italia del C/N aveva un indice perfino superiore a quello europeo (121), ma, a livello della penisola intera, l’indice scendeva a 77, grazie allo 0 (zero) del Mezzogiorno. Da allora le cose sono migliorate per l’Italia e nel 2017 l’indice, rispetto all’Europa, sale da 77 a 93, ma il C/N batte il Mezzogiorno 125 a 34. Le infrastrutture fisiche, comunque, non sono solo quelle dei trasporti. Se guardiamo all’intero comparto delle opere pubbliche, abbiamo dati più recenti, aggiornati al 2019. Il grafico spazia su mezzo secolo, dal 1970 al 2019, e le cifre (in volume, milioni di euro a prezzi costanti del 2010) descrivono, anche qui, desolanti traiettorie. Un’osservazione si impone: fin verso il 1990, i fondi spesi per le opere pubbliche, al Nord e al Sud, non erano molto differenti (anzi, in euro per abitante, erano più elevati al Sud). Ma dal 1990 in poi si assiste a una divaricazione; e, guarda caso, è proprio quello il momento in cui inizia la stagnazione italiana e va crescendo il divario con l’Europa. È come se l’Italia avesse rinunciato a sfruttare quel giacimento di crescita potenziale che si trova sotto al Garigliano e così facendo, governo e Parlamento avessero trasformato il Mezzogiorno in una palla al piede della crescita italiana.

HARAKIRI ECONOMICO. Gli ultimi dati, al 2019, danno, per il Sud – un’area dove vive il 34% della popolazione – un livello di spesa in opere pubbliche pari al 19% del totale. Un’interessante analisi degli stadi di avanzamento per gli investimenti pubblici conclude che «le opere non prioritarie (cioè non sottoposte ad approvazione del Cipe) presentano uno stato di avanzamento relativamente migliore, un aspetto che evidenzia il “peso” del Cipe (con tutti i vari passaggi impliciti, tra Ministeri e Corte dei conti) sul processo decisionale e di avanzamento programmatico». Torna, insomma, il problema dei lacci e lacciuoli, delle competenze concorrenti, dei passaggi burocratici, delle minuzie regolamentari che tanto hanno fatto per impastoiare la crescita della penisola. Una meritoria elaborazione della Svimez costruisce un indice sintetico della dotazione infrastrutturale complessiva, che viene elaborato per le singole ragioni meridionali, oltre che per le ripartizioni (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Isole). Il proverbio cinese citato all’inizio (“Se volete creare ricchezza, costruite una strada”) si potrebbe declinare in “Se volete creare ricchezza, costruite una strada, una ferrovia, un porto, un aeroporto, un interporto, un terminale intermodale…”. E tutte queste reti e questi nodi sono stati collassati in un indice impietoso (vedi tabella): facendo l’Italia = 100, il Centro/Nord è a quota 139,6 e il Mezzogiorno a 51,1. Questa non è solo un’ingiustizia; è anche un suicidio economico per l’Italia tutta.

La propaganda di Stato umilia il Sud: dal Governo solo promesse e inganni. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 30 ottobre 2020. In passato il bombardamento di annunci poco veritieri da parte di chi ricopriva ruoli importanti nel governo del Paese erano meno virulenti e, quasi sempre, trovavano una immediata denuncia da parte di coloro che erano alla opposizione o ricoprivano ruoli chiave nel mondo del sindacato o in quello della informazione.

PROPAGANDA DI STATO. Da almeno due anni assistiamo a sistematiche dichiarazioni, a quasi giornalieri annunci che, a mio avviso, si configurano come una vera “propaganda di Stato” e come tale sarebbe opportuno invocare la stessa norma prevista per la “pubblicità ingannevole”; sì, quella norma che colpisce chi, con un messaggio falsato e distorto, esalta delle qualità che il prodotto non possiede, ingannando il consumatore. Secondo l’ordinamento giuridico  italiano la pubblicità ingannevole è «qualsiasi  pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente» (Decreto legislativo 145/2007). Ebbene, per motivare il mio sconcerto e per poter giustificare questo riferimento alla “pubblicità ingannevole” riporto alcune dichiarazioni prodotte da personalità che attualmente ricoprono delle cariche di elevata responsabilità come, solo a titolo di esempio, la ministra De Micheli, il ministro Gualtieri o, addirittura, il presidente del Consiglio.

L’ELENCO DEGLI INGANNI. Entro la fine del 2020 disporremo di un vaccino contro il Covid 19. Poi scopriamo che nel migliore dei casi il vaccino sarà disponibile nel secondo semestre del 2021. Il Trasporto pubblico locale è sicuro. Poi scopriamo che è sul banco degli imputati per essere sospettato di alimentare in modo virulento il Covid; poi scopriamo che i mezzi di trasporto usati hanno ancora una occupazione fino all’80 per cento, numero che deriva da criteri di omologazione dei mezzi per i quali l’80 per cento di occupazione degli spazi consente la presenza di 5 persone per metro quadrato, mentre i servizi ferroviari di lunga distanza Freccia Bianca e Freccia Rossa rimangono con tassi di occupazione pari al 50 per cento, mettendo in crisi sia Italo che Trenitalia e generando la più grande forma di discriminazione nell’erogazione dei livelli di servizio ferroviario che la Repubblica italiana ricordi. Il Programma Italia Veloce, che contiene un elenco di opere infrastrutturali, ha un costo globale di circa 200 miliardi di euro, di cui 130 sono già disponibili. Poi abbiamo appreso che le disponibilità non superavano, nell’arco del triennio 2020-2022 i 6 miliardi di euro. Entro la fine del corrente anno potremo disporre di un venti per cento della quota che è stata destinata all’Italia dal Recovery Fund. Poi abbiamo scoperto che il Recovery Fund era semplicemente una aspirazione e che per difficoltà nei negoziati tra il Consiglio e il Parlamento europeo non sarebbe stato possibile disporre del Recovery Fund prima della seconda metà del 2021; sempre se il Parlamento europeo riuscirà ad approvare tale proposta. Abbiamo stanziato e resi disponibili per gli investimenti nell’anno 2020 ben 19,7 miliardi di euro. Poi scopriamo, come ho già ricordato in un precedente blog, che tali risorse dopo dieci mesi non sono ancora state rese disponibili e ancora che la quota assegnata alle infrastrutture ammonta a 6.091 milioni di euro e che inoltre nel triennio 2020- 2022 sono erogabili solamente 1.730 milioni di euro (356 milioni nel 2020, 668 milioni nel 2021 e 774 milioni nel 2022). Il terzo trimestre del 2020 ha visto una forte crescita del Prodotto interno lordo e, addirittura, entro il 2021, massimo il 2022 torneremo ai valori del Pil prima del Covid 19. Poi, però, scopriamo che tra l’inizio e la fine del 2020 la Piccole e Medie Imprese potrebbero perdere un milione di posti di lavoro. Arcelor Mittal ha pagato tutte le imprese dell’indotto del centro siderurgico di Taranto ed è in fase conclusiva l’ingresso di Invitalia nella Società. Poi scopriamo che Arcelor Mittal non ha ancora chiuso nessun accordo con Invitalia e che ha chiesto la Cassa integrazione speciale per altre 13 settimane, ha chiesto una proroga di una Cassa integrazione speciale (Cigs) che dura dal mese di luglio del 2019. E per quanto riguarda i pagamenti delle imprese dell’indotto abbiamo appreso che i pagamenti di tali attività sono piuttosto critici e che i tempi di attesa superano i 150 giorni. Entro il 30 dicembre 2019 sarà disponibile il nuovo Regolamento unico del codice dei contratti nel comparto delle opere pubbliche. Poi scopriamo che pur se tale provvedimento, secondo il decreto Sblocca cantieri, sarebbe stato disponibile entro dicembre 2019, in realtà il nuovo Regolamento probabilmente vedrà la luce non prima della fine del 2020. Questo nonostante, come ripeto spesso, i lavori pubblici siano fermi al palo da almeno cinque anni a causa di un Codice appalti assolutamente folle e indifendibile. Il governo si impegna a realizzare e ad inserire nel Recovery Plan l’alta velocità ferroviaria da Salerno fino a Reggio Calabria-Messina e Palermo e come tale non ci sono più pregiudiziali per la realizzazione del ponte sullo Stretto; sarebbe infatti un non senso realizzare un asse ferroviario veloce senza prevedere un collegamento stabile. Poi scopriamo che il ministro dell’Economia e delle finanze rilascia questa dichiarazione: «Siccome dubito che costruiremo il ponte di Messina nei prossimi cinque anni, per me il dibattito può continuare ma non dovrà essere collegato al Recovery Plan». Ogni futura iniziativa programmatica legata agli investimenti in infrastrutture contemplerà risorse finanziarie destinate al Mezzogiorno pari alla quota del 34% e, in particolare, nel Recovery Plan in corso di definizione tale soglia potrà addirittura superare il 40 – 45 per cento. Poi scopriamo, anche alla luce delle linee guida per la definizione del Recovery Plan prodotte dal governo, che per il Centro Nord sono pronte opere per oltre 70 miliardi di euro, mentre per il Mezzogiorno l’importo non supera i 6 miliardi di euro.

CREDIBILITÀ MINATA. Potrei continuare nella triste elencazione di annunci che, mese dopo mese, incrinano la credibilità di chi attualmente è preposto alla gestione del Paese, e non è la mia una boutade quella di ricercare davvero un garante, un certificatore sistematico delle dichiarazioni, ormai giornaliere, su interpretazioni della realtà e su prospettazioni di un futuro prossimo che poi, nei fatti, diventa sempre più un futuro lontano o, addirittura, il nulla. In particolare sarebbe bene che almeno per il Sud il governo evitasse questo comportamento offensivo per una realtà territoriale che partecipa alla formazione del Pil del Paese, ma che utilizza limitati benefici diretti o indiretti dalla sua crescita. Voglio solo ricordare, per pura e banale informazione, che i cittadini del Sud hanno difeso sempre la realizzazione dei valichi come il Brennero e il Frejus, perché convinti che tali opere fossero il cordone ombelicale che legava l’intero Paese all’Europa. Finora, però, non ho letto una sola frase a difesa della realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina da parte di chi vive nel Centro Nord: eppure il ponte è, a tutti gli effetti, un cordone ombelicale essenziale per l’economia del Paese, è il terzo grado di libertà che oggi l’isola, per quanto concerne la mobilità, non possiede, è la condizione per cui si motivi davvero una rete ferroviaria efficiente e veloce nell’isola. Sì, lo so, i miei sono sfoghi inutili perché il ministro Gualtieri ha detto no.

Divario Nord-Sud, anche gli industriali corrono a due velocità. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. C’è poco da fare, tenere insieme il Nord e il Sud dell’Italia è una missione quasi impossibile. Ne sanno qualcosa quei partiti che sfondano nelle regioni settentrionali e non al Mezzogiorno (vedi la Lega) oppure viceversa (vedi il Movimento 5 Stelle). Questa difficoltà sembra comune anche agli imprenditori, stando a quanto emerge dalle recenti dichiarazioni di Carlo Bonomi, presidente nazionale di Confindustria, e di Maurizio Manfellotto, numero uno degli industriali napoletani. Del primo è ben nota l’avversione per il “Sussidistan”, cioè quella giungla di bonus, sussidi e denaro a pioggia in cui l’Italia rischia di trasformarsi, a cominciare dal Sud. Il secondo ha appena presentato programma e squadra di governo, chiarendo come il rilancio del Mezzogiorno costituisca «un pilastro fondamentale per la crescita dell’intero Paese». Il dualismo sembra evidente e richiama alla memoria le dinamiche interne a molti partiti. Prendiamo il caso della Lega: vuoi per la mancanza di una classe dirigente già solida e strutturata, vuoi per le origini antimeridionaliste, alle ultime regionali il partito di Salvini ha registrato una battuta d’arresto al Sud. Segno della difficoltà di accreditarsi come forza politica nazionale con un programma nazionale. Ma la Lega non è l’unica compagine a vivere una simile contraddizione. Il M5S, per esempio, riscuote più consensi al Sud che non al Nord. E lo stesso Partito democratico, al suo interno, accoglie diverse declinazioni del regionalismo. Anche Confindustria sembra trovare difficoltà nell’individuare una strategia condivisa. L’obiettivo sembrava più alla portata quando al vertice dell’associazione c’erano meridionali come Antonio D’Amato e Vincenzo Boccia e, soprattutto, quando il Covid non aveva ancora messo in crisi l’economia. Ora che il gruppo degli industriali è a trazione nordista, le divergenze sembrano esplodere soprattutto su alcuni temi. Il primo? Gli aiuti dello Stato. Bonomi, per esempio, è contrario ai bonus a pioggia. Questa avversione non si percepisce nel programma presentato da Manfellotto, dove manca il rifiuto degli aiuti statali e si ribadisce l’importanza tanto della riserva di spesa del 34% a favore del Mezzogiorno quanto delle risorse straordinarie messe a disposizione dall’Europa tramite il Recovery Fund. Altro tema cruciale è quello della legalità. In occasione dell’assemblea degli industriali di Cremona, Bonomi è stato chiaro: «Se non si risolve il tema della legalità, non arriveranno gli investimenti al Sud». Nel merito, l’affermazione è discutibile perché dà l’idea che le infiltrazioni criminali nell’economia affliggano solo il Mezzogiorno e non anche il Nord; in più, il problema dell’illegalità si supera proprio attraverso gli investimenti, cioè creando occasioni di lavoro e di sviluppo, non solo assecondando le spinte repressive. Al netto di queste considerazioni, però, è singolare il fatto che Manfellotto, nel testo di presentazione del suo programma, citi solo incidentalmente il tema della legalità, limitandosi a sottolineare l’urgenza di riforme che garantiscano la trasparenza degli appalti pubblici e contrastino l’evasione fiscale. Insomma, le contraddizioni sono evidenti e rischiano, oltre che di screditare la comunità economica, di ostacolare la definizione di una politica nazionale che tuteli il Nord, pur sempre locomotiva del Paese, e nello stesso tempo dia una spinta forte al Sud, senza l’apporto del quale l’Italia intera resterà ferma al palo. E questo nessuno se lo può permettere.

Schiena lucida e schiavitù. Cioè il Sud. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 20 Luglio 2020. - “Ti scriverò” disse lui. Lei si sedette sul bordo del letto e i suoi sei figli, di sposa bambina, le si cinsero intorno come un cerchio di fate. Lui spinse dentro gli ultimi panni e chiuse a forza la lampo della valigia di plastica morbida, maleodorante di petrolio. “Ti scriverò”, disse ancora, e andò via a testa bassa. Lei si sciolse la corona corvina, i lunghi capelli coprirono le spalle e il petto e gli occhi scaricarono un temporale di lacrime.- L’emigrazione era un lutto, e le corone o le trecce delle spose e madri del Sud si scioglievano solo per il dolore. In quel Sud, l’ultima operazione di poche ore fa, fra Calabria e Basilicata, ha contato 52 misure cautelari per contrastare il caporalato che ha per vittime esseri umani che arrivano da un Sud che sta più giù di questo. E noi che nel Sud ci viviamo, lo sappiamo dei tuguri e degli accampamenti in cui i migranti vengono costretti, ci vediamo superati a ogni ora dai furgoni carichi all’inverosimile di lavoratori stranieri. Li incontriamo i ragazzi indiani, le volte che ci svegliamo all’alba, correre più che camminare per raggiungere i loro luoghi di pena, avvolti nei turbanti colorati che li salvano dalle macchine, schivati all’ultimo, e al tramonto scorgiamo il bianco degli occhi dei ragazzi di colore che finiscono la fatica su vecchie bici che si mangiano il margine di carreggiate striminzite, ai bordi di disastrate statali. Il Sud è una terra di schiavi, in cui le tendopoli di Rosarno sono la regola e i sogni di Riace vengono fatti sparire al sorgere del sole. Il Sud sono le schiene lucide, piegate a raccogliere ortaggi, le mani allungate all’inverosimile a raggiungere frutti. Delizie che arriveranno su tavole lontane, profumate per celare la puzza che le produce. Il Sud è una terra di nuovi schiavi, giunti a sostituire quelli scappati. Una storia che si ripete, che nessuno ha davvero voglia di interrompere. Basta farsi un giro fra i campi, fra le tende, tendere agguati, all’alba e al tramonto, lungo le strade.  -A sei anni capii la partenza, il distacco. Smisi di essere bambino e soffrii tanto da non volerlo fare più. “Ti scriverò” disse mio padre andando via, con quei suoi ricci in testa da marocchino. Era ottobre e per dicembre avevo imparato a leggere. La lettera che arrivò a Natale la rubai di nascosto e la lessi sotto il nespolo dell’orto. Seppi cos’era la lontananza, la nostalgia, la solitudine, la condizione di un emigrato -.

Lo scippo al Sud non si ferma più: dirottati al Nord altri 64,5 miliardi. Fabrizio Galimberti il 2 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Da un anno e mezzo questo giornale batte, come la goccia che scava la pietra, su un fatto semplice e iniquo: lo Stato italiano, che dovrebbe favorire la coesione sociale e alleviare il disagio delle regioni meno sviluppate, ha pervicacemente fatto il contrario. La spesa pubblica è andata spargendosi nel territorio in modo da favorire le regioni più ricche e sfavorire quelle più povere. Senza scomodare il Vangelo, basta guardare all’Articolo 2 della Costituzione, che statuisce come «La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

QUALE SOLIDARIETÀ. Come può esistere solidarietà quando in una metà della penisola (il Meridione) il reddito per abitante è poco più della metà rispetto a quello del Centro-Nord? E c’è da chiedersi perché sia rimasta lettera morta la disposizione di cui all’articolo 119, secondo cui lo Stato «istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». E non basta: «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». Ma le regioni ricche non hanno mai voluto i fondi perequativi. Per forzare la situazione furono creati i Lep, i Livelli essenziali di prestazioni. Se si vuole dare “pari dignità” ai cittadini, bisogna che i servizi pubblici assicurino a tutti un minimo essenziale (per esempio, in termini di letti di ospedale, addetti ai servizi sanitari, metri quadrati di spazio scolastico, posti in asili nido… il tutto espresso per 100mila abitanti).

LO SCANDALO DEI LEP. Torna a onore del legislatore di aver legiferato, almeno dieci anni fa, questi Lep; e torna a disonore di Parlamenti e governi il fatto di non averli mai realmente introdotti da dieci anni a questa parte. A livello di Comuni c’è un pallido e parziale rimedio all’assenza dei Lep, il Fondo di perequazione. Ma a livello regionale non c’è niente. E, in assenza dei Lep, si è continuato a usare la “spesa storica” per erogare le risorse: prendendo cioè a base di partenza una situazione iniqua, si continua ad allargare il solco fra Nord e Sud. Si crea un circolo vizioso: le minori risorse destinate al Sud indeboliscono l’economia e questa debolezza lascia spazio a corruzione e criminalità organizzata. Questi secolari difetti vengono presi ad argomento per giustificare la minore spesa pubblica per il Mezzogiorno: tanto, poi quei soldi sono spesi male… Per uscire da questa triste situazione bisogna cominciare col definire i Lep: questa è la base dell’edificio per una vera coesione territoriale. Ecco una prima linea di azione per il Piano di riforme che l’Europa chiede all’Italia. Naturalmente, è normale che l’economia e il benessere delle diverse aree del Paese siano diversi, riflettendo la dotazione di risorse naturali, il diverso capitale umano e fisico, i diversi fattori culturali che determinano il grado di sviluppo economico. Non si potrà mai avere un totale livellamento fra regioni ricche e meno ricche, un certo grado di dislivello è fisiologico e perfino desiderabile. Ma quando le differenze sono troppo grandi, è ugualmente desiderabile che lo Stato intervenga per assicurare un maggiore grado di coesione.

DIVARIO ALLARGATO. Il problema, che è venuto alla luce con le analisi dei Conti pubblici territoriali (Cpt), sta nel fatto che l’intervento dello Stato è andato in senso esattamente contrario: come detto sopra, ha esacerbato le differenze, invece di ridurle. Tutto questo è stato ripetutamente cifrato, ricorrendo alle meritorie analisi dei Cpt. Quando i dati erano disponibili solo fino al 2017, questo giornale aveva cifrato in circa 60 miliardi le risorse sottratte al Mezzogiorno; una “sottrazione”, questa, che deriva da un semplice calcolo: basta confrontare le spese pubbliche del Settore pubblico allargato che vanno al Mezzogiorno con quelle che “dovrebbero” andare al Mezzogiorno se le spese fossero ripartite in base all’elementare criterio della quota della popolazione rispetto al totale nazionale.

CALCOLI CERTIFICATI. Ma questo non è successo, ed è stato così violato il più elementare parametro della redistribuzione territoriale. Quel semplice confronto faceva emergere, per il 2017, un ammanco di 61,3 miliardi di euro. Ora sono disponibili le stime per il 2018 e, come si vede dal grafico, la “sottrazione” è aumentata a 64,5 miliardi. E questo per un solo anno: come si vede, ogni 12 mesi le risorse sono sottratte al Mezzogiorno all’incirca allo stesso ritmo, al passo di quel “furto istituzionalizzato” che è il criterio della spesa storica. E il criterio usato per cifrare l’ammanco è generoso: in linea di principio, proprio per soddisfare le esigenze di riequilibrio territoriale, la spesa pubblica dovrebbe andare alle aree disagiate più che in proporzione alla quota di popolazione. A proposito di spesa pubblica, va precisata la ragione per cui l’Agenzia per la Coesione territoriale (un ente pubblico che ha la missione di assicurare la «pari dignità dei cittadini attraverso lo sviluppo e la coesione in tutti i territori del nostro Paese» e che costruisce i Cpt) ha scelto la spesa del Settore pubblico allargato (Spa). Questo comprende, oltre alla Pubblica amministrazione (Pa, cioè Stato, Comuni, Province, Regioni ed Enti di previdenza), anche le grandi e piccole imprese pubbliche, incluse le municipalizzate. La ragione di questa scelta sta nel fatto che lo Stato, per lenire le diseguaglianze territoriali, ha fra i suoi strumenti anche le imprese pubbliche e in passato sono stati fatti provvedimenti che imponevano, per esempio, una distribuzione territoriale degli investimenti di quelle imprese al fine di attenuare le diseguaglianze. La definizione della spesa del Spa include le partite finanziarie, dato che, ad esempio, anche i prestiti sono parte di un’erogazione volta ad aiutare i territori. È stato insomma documentato, con cifre provenienti da istituzioni ufficiali – dall’Istat all’Agenzia per la coesione, dalla Corte dei conti alla Ragioneria generale – come dietro alla minorità del Sud non vi siano solo indubbie insufficienze della classe dirigente, ma vi sia stata una devastante e ingiusta sottrazione di risorse da parte di quel bilancio pubblico che avrebbe dovuto invece porsi come primo obiettivo la redistribuzione in favore delle aree più disagiate.

IL FATTORE CRESCITA. Non si tratta solo di una questione di equità. Si tratta anche, e principalmente, di una questione di crescita. Il Mezzogiorno è un giacimento di crescita potenziale per un Paese che non cresce.  E il Mezzogiorno non cresce anche, e magari soprattutto, per le documentate scandalose disparità nella dotazione infrastrutturale del Sud rispetto al resto dell’Italia (fra le infrastrutture non contiamo solo le opere pubbliche, pur essenziali, ma anche i servizi pubblici nella loro dimensione di dotazione di risorse fisiche e umane). L’Italia – bisogna ricordarlo – è un Paese che, rispetto ad altri, ha più bisogno di (buona) spesa pubblica: per addensamento demografico, conformazione orografica, dissesto idrogeologico, inquinamento, conservazione dell’immenso patrimonio archeologico/artistico, dualismo territoriale, criminalità organizzata… Tutti problemi, questi, che non abbisognano, per essere risolti, di “reddito di cittadinanza” o di “quota 100”: abbisognano di investimenti e ancora investimenti. E il Mezzogiorno più che del resto del Paese. L’Italia non crescerà se non vengono dati al Meridione i mezzi per sollevarsi da questa storica e iniqua minorità. Il mercato interno del Sud è la gallina dalle uova d’oro del Nord. La priorità agli investimenti nel Mezzogiorno è una soluzione win-win per l’Italia intera.

Feltri straparla sul Sud ma lo sa che in 17 anni il Mezzogiorno ha regalato al Nord 840 miliardi? Antonio Tisci giovedì 23 aprile 2020 su Il Secolo D'Italia. 840 miliardi di euro in 17 anni, questa la somma che è stata sottratta al Sud per essere destinata alle altre aree d’Italia, lo hanno denunciato lo Svimez e Eurispes nelle loro ultime relazioni. 46,7 miliardi di euro ogni anno che si sarebbero dovuti usare per realizzare opere pubbliche, università, strade, ferrovie nel Mezzogiorno e che avrebbero costituito uno strumento moltiplicatore per l’occupazione di cui avrebbe beneficiato l’intera nazione. A queste somme vanno aggiunte le quote dei fondi FAS utilizzate fuori dal Mezzogiorno, con i soldi per il Sud è stato ripianato il disavanzo delle Ferrovie dello Stato, sono state realizzati i trasporti sul lago di Garda e di Como, è stato realizzato l’aeroporto di Vicenza, sono stati coperti gli sconti della benzina per le regioni vicino alla frontiera settentrionale, i contratti di servizio con Trenitalia per l’alta velocità (che al Sud non arriva), l’alta velocità Milano-Verona e Milano-Genova, la Metropolitana di Bologna, il tunnel del Frejus, la pedemontana Lecco-Bergamo e il MOSE di Venezia, infine, anche le risorse per il Jobs Act di Renzi sono state prese dai fondi FAS. Senza voler contare tutta la vicenda legata al Banco di Napoli con risorse sottratte all’economia meridionale e destinati ad implementare il fondo Atlante destinato ad operazioni a favore delle banche del Nord che hanno privato il Sud di qualsiasi istituto di Credito. Insomma, per anni i fondi destinati al Mezzogiorno sono stati utilizzati in larga parte per il Nord e non per gli scopi per i quali gli stessi venivano dati all’Italia. Oggi, mentre tutti i meridionali sono distratti dalle sciocche quanto vacue parole di Vittorio Feltri, il governo si accinge, secondo le parole del ministro Provenzano, non solo a ridurre ulteriormente le quote di investimento per il Mezzogiorno dei fondi ordinari ma anche ad utilizzare il fondi strutturali per le misure per la ripartenza su tutto il territorio nazionale. Un vero è proprio scippo ai danni del Mezzogiorno che si vedrebbe negata la possibilità di accedere alle proprie risorse per poter immaginare la ripartenza dopo la chiusura imposta dal governo Conte. E’ necessario ribadire con forza che non soltanto quota 34% deve essere mantenuta e deve essere estesa a tutto il settore pubblico allargato (compreso le partecipate e le imprese pubbliche) ma deve essere investita tutta la somma dei fondi strutturali nelle regioni meridionali. La maggiore libertà di azione nella spesa di questi fondi, infatti, non deve essere l’occasione per sottrarne ulteriormente al mezzogiorno ma deve essere l’occasione per dare alle regioni meridionali la libertà di spendere come meglio credono i soldi che dall’Europa vengono loro destinati, una libertà di azione, non una modifica di territorialità nella spesa che sarebbe francamente insopportabile. Il Sud ha la grande occasione di diventare il motore dello sviluppo per l’Italia e per l’Europa intera, interesse nazionale sarebbe investire nella zona d’Europa che ha maggiormente dimostrato capacità di resistere all’epidemia di Covid anche in considerazione della centralità che il Mediterraneo sta tornando a rivestire negli scambi globali. Dicono che questo sia il governo con il maggior numero di ministri meridionali della storia ma la differenza tra classe politica e classe dirigente è una antica lezione di Gramsci che non è possibile dimenticare e che, se la sottrazione delle risorse dovesse avvenire nelle intenzioni del governo, dovrebbe vedere la ferma presa di posizione di tutti i parlamentari e le forze sociali del Mezzogiorno. La questione meridionale è quanto mai attuale e una classe dirigente meridionale non può rimanere silente rispetto a quanto sta per avvenire e tutto ciò non soltanto per un interesse localista ma perché è interesse nazionale sviluppare il Mezzogiorno allo stesso livello delle altre aree della nazione.

Recovery Fund, il premier Conte dà la priorità al Mezzogiorno per ricevere i fondi dell'Europa. Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. Giuseppe Conte deve decidere gli interventi del Recovery plan. Lo farà in un vertice questa sera. Alla vigilia ha dato ai ministri due indicazioni: arrivare con le bozze dei progetti e dedicare un'attenzione particolare al Sud. "Perché lo sviluppo del Mezzogiorno deve essere una priorità. Se si rilancia il Sud, riducendo il divario con il Nord, ripartirà meglio e con più velocità l'intero Paese". Il Mezzogiorno, insomma, diventa il primo capitolo del Recovery plan che verrà presentato dal governo alla Commissione europea a metà ottobre. Anche se i soldi l'Europa ce li ha dati per aiutare le zone più colpite dal coronavirus che in Italia sono state quelle del Nord. Da Bruxelles, scrive il Messaggero, arriva un'indicazione precisa: almeno 70 miliardi dovranno andare a colmare gli squilibri territoriali. Nel Recovery plan non ci sarà spazio però solo per il Sud. Lucia Azzolina, ministra dell'Istruzione, ritiene che "la scuola può fare un salto di qualità grazie ai soldi del Recovery Fund, con stanziamenti per l'edilizia scolastica e per ridurre il numero degli alunni per classe". E Stefano Patuanelli, responsabile dello Sviluppo, indica tra gli interventi da finanziare "l'innovazione e la digitalizzazione delle imprese e il rafforzamento del pacchetto 4.0 per arrivare alla detassazione totale di quello che viene investito in azienda". Il tutto verrà deciso nella cabina di regia del Recovery plan che altro non è che il Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae), con sede a palazzo Chigi e presieduto da Conte.

 Vincenzo De Luca: «Sarebbe uno scandalo intollerabile perseverare con criteri da rapina al Sud». Carlo Porcaro il 31 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non usa mezze misure, come suo consueto, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca in merito alla futura distribuzione dei fondi derivanti dal Recovery Fund. «Per dieci anni la Campania è stata penalizzata, al di là di ogni decenza istituzionale e di ogni ragionevolezza. Sarebbe uno scandalo non tollerabile, perseverare con criteri da rapina verso il Sud e la Campania perfino per l’assegnazione di risorse aggiuntive e straordinarie», ha detto. «Rapina al Sud» e «scandalo non tollerabile» i due concetti principali espressi dal governatore campano adesso ricandidato, fortemente intenzionato ad abbracciare una battaglia anche col suo partito, il Partito democratico, ed il governo se non verranno rivisti i criteri della spesa storica. Gli stessi che non si volevano applicare all’autonomia e gli fecero dire: «Il progetto del governo e del ministro Boccia è di partire dai livelli essenziali delle prestazioni, cioè da un punto di equità, che è quello che chiede la Regione Campania: stesse risorse per tutte le regioni e poi un fondo di perequazione per recuperare il divario tra Nord e Sud».

CONFERENZA? NO, E' DIFFERENZA STATO-REGIONI. Perchè bisogna abolirla e rifare il Servizio Sanitario Nazionale. Roberto Napoletano il 31 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bisogna rifare la prima Cassa del Mezzogiorno, quella di 300 ingegneri che apriva e chiudeva i cantieri, che non rubò una lira e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Allora vedrete che il Sud avrà i suoi bandi internazionali e i suoi treni veloci. Altrimenti sono solo chiacchiere. Vorremmo occuparci di quello che accade non di quello che si dice accadrà. Soprattutto, cerchiamo di spiegare perché accade l’esatto contrario di quello che si dice e come fare per uscire non a parole da questa contraddizione. Assistiamo a una nobile gara tra il ministro della Sanità, Speranza, che stimiamo, e il ministro delle Infrastrutture, De Micheli, che non ne ha indovinata una e non stimiamo, a chi fa prima a annunciare che il Sud avrà finalmente più risorse pubbliche per la sua sanità e per gli investimenti infrastrutturali, che le cose cambieranno, che tutto è pronto perché si volti pagina rispetto al passato. Non è vero, purtroppo. Perché il mostro spesa storica non ha perso in rapacità e rischia di spostare un altro miliardo dal Sud al Nord per la sanità e se non cambiano le regole i cantieri si apriranno al centronord entro un anno e se tutto va bene tra quattro anni al Sud. Tutto nasce da un’anomalia solo italiana che si chiama Conferenza Stato-Regioni. Ha avuto il sopravvento perché ai governi italiani alle prese con i famosi vincoli europei di bilancio è convenuto: fate voi, decidete voi, e loro hanno fatto e deciso come volevano loro, spesso non rispettando i vincoli sempre a favore di alcuni e a spese di altri. Il controllo della spesa pubblica sociale e infrastrutturale è finito nelle mani di un oligopolio di potentati regionali, anzi meglio in quelle del duopolio lombardo e emiliano-romagnolo che ha gestito di fatto la ripartizione delle risorse e lo ha fatto a suo uso e consumo. Uno speciale ministero composto di due Regioni ha fatto il bello e il cattivo tempo. Praticamente la Regione Lombardia fa i calcoli per tutti e l’unico punto di mediazione è con l’Emilia-Romagna. I funzionari delle altre Regioni neppure vanno più perché non hanno strumenti per opporsi e non sono messi politicamente nelle condizioni di farlo. Non si è mai neppure pensato di fare un servizio studi per le regioni composto da enti indipendenti che inserisse nei parametri di valutazione i valori della cosiddetta deprivazione sociale. Per carità, si dovesse mai tenere conto nella ripartizione dei trasferimenti del tasso di disoccupazione o del tasso di povertà di questa o quella regione! Benché raccomandato più volte da vari governi di questo non si è nemmeno parlato, si è sempre scelto senza discutere che a guidare fosse il criterio della età per cui le regioni del Nord dove ci sono più anziani e dove le speranze di vita sono superiori fanno bottino pieno e la Campania, ad esempio, che è piena di giovani senza lavoro e senza reddito e di poveri si arrangi, si prenda i tagli, e non disturbi il manovratore. Dite che, forse, ci vorrebbe una commissione di scienziati indipendenti? No, vi sbagliate! I soldi sono quelli che sono e, quindi, non si cambia nulla: l’Emilia-Romagna si conferma un modello di sottrazione di risorse altrui, ma molto attento al territorio e alla sua popolazione con tassi riconosciuti di efficienza. Il modello lombardo di sottrazione di risorse altrui si conferma capace di fare quattrini, soprattutto a Milano, con alti tassi di specializzazione e di ricerca, ma molto meno presente nei territori e troppo poco attento agli ospedali pubblici. Entrambi i modelli hanno una priorità: portare l’acqua al proprio mulino e evitare che regioni come la Campania e la Puglia abbiano le risorse per attrezzarsi meglio e ridurre di conseguenza il turismo sanitario di cui loro sono beneficiarie nette. Per queste ragioni, a prescindere dai primati indiscutibili emiliani e lombardi, non si è mai fatto il fondo di perequazione sanitario e tanto meno quello infrastrutturale, entrambi previsti dalla legge del federalismo fiscale approvata e mai attuata violando i diritti costituzionali di cittadinanza. Sono arrivate in compenso le mille Basilee per le università di modo che gli atenei del Sud pagassero pegno come gli ospedali e le scuole. Con questo quadro può succedere solo che le regioni del Sud perdano un altro miliardo in più nella ripartizione dei fondi sanitari, che si aprano i cantieri al Nord e si continuino a buttare i soldi in studi di fattibilità al Sud. Servono decisioni coraggiose.

Primo. Abolire la Conferenza Stato-Regioni.

Secondo. Ricostituire il servizio sanitario nazionale che rispetti i diritti di tutti e favorisca l’efficienza complessiva del Paese.

Terzo. Rifare la prima Cassa del Mezzogiorno, quella fatta di 300 ingegneri che apriva e chiudeva i cantieri, non rubò una lira, e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Allora vedrete che il Sud avrà i suoi bandi di gara internazionali, i suoi concessionari e i suoi treni veloci. Se si vuole fare sul serio, si fa così. Se no si prosegue con gli annunci delle interviste ministeriali e si continua a spargere benzina intorno ai mille focolai della polveriera sociale italiana. Prima o poi ci scappa l’incendio.

STRANGOLI IL SUD, UCCIDI L'ITALIA. LO SCIPPO IGNORATO: PRIGIONIERI DEI GIOCHETTI DELLA CONFERENZA STATO-REGIONI. Roberto Napoletano il 30 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se si continua con gli annunci, i cantieri fantasma e la forza inerziale di Sua Maestà Spesa Storica si impedisce al Paese di affrontare e risolvere il suo primo problema competitivo. Va cambiata la macchina centrale e regionale e i governatori del Sud devono chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Questo giornale in assoluta solitudine e prima di tutti dal suo giorno di uscita ha denunciato lo scandalo ventennale di una distorsione abnorme nella distribuzione territoriale della spesa pubblica. Siamo arrivati al punto che il Mezzogiorno è stato abolito nella spesa per infrastrutture di sviluppo. È stata ridotta allo 0,15% del prodotto interno lordo. Sono stati aboliti i diritti di cittadinanza della popolazione meridionale nella sanità, nella scuola e nei trasporti. Abbiamo documentato (dati 2016 RGS-CPT) che al 34,3% della comunità meridionale dal 2009 a oggi è toccato il 28,3% della spesa pubblica allargata che riguarda Stato, enti locali, soggetti pubblici economici. Al 65,7% della popolazione del centronord è andato il 71,7% delle erogazioni della spesa pubblica allargata. Lo squilibrio ovviamente continua ad aggravarsi. Insomma, c’è un 6% e passa sottratto al Sud e indebitamente regalato al Nord. Vale oltre 60 miliardi l’anno, sì avete capito bene, 60 e passa miliardi in meno ogni anno di finanziamenti per costruire ospedali, rifare le scuole, collegare le città con treni veloci, manutenere le strade, attrezzare le aree portuali e così via. In una parola 60 miliardi di sviluppo negato al Sud per fare un po’ di sviluppo e molto assistenzialismo al Nord. Lo abbiamo chiamato scippo e ne abbiamo denunciato la sua consacrazione giuridica con la legge Calderoli (2009) sul federalismo fiscale che costituisce l’edizione più moderna del gioco delle tre carte. Si è detto: non possono esistere cittadini di serie A e cittadini di serie B e, quindi, bisogna fissare i livelli essenziali di prestazione e i fabbisogni standard e varare il fondo di perequazione. Questo dice la legge che aggiunge, però, siccome ci vorrà un po’ di tempo per farlo, nel frattempo usiamo il criterio della spesa storica in base al quale il ricco diventa sempre più ricco e il povero sempre più povero. Per cui carta vince carta perde, le prime tre carte dell’equità sono finite nel cestino e la carta dei ricchi ha fatto piazza pulita delle altre. Questa scelta miope ha danneggiato pesantemente le aree interne del Nord, ma ha messo fuori mercato un terzo del Paese privandolo di treni veloci, fibra digitale, molto altro, e condannandolo alla povertà. Una vergogna e una scelta miope. La denuncia del nostro giornale è stata subito sottoscritta dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, certificata dai Conti Pubblici Territoriali della Repubblica italiana, dalla Corte dei Conti che chiede invano ogni anno di superare l’anomalia della spesa storica, e dalla indagine della commissione finanze nata dalle nostre inchieste e gestita con maestria dalla presidente Carla Ruocco. Lo scippo decennale è potuto avvenire grazie alla forza di un’alleanza di interessi tra la Sinistra Padronale del Nord e la Destra lombardo-veneta e al silenzio complice di troppi esponenti della classe politica e dirigente del Mezzogiorno. A mio avviso i governatori delle regioni meridionali devono fare una sola cosa: chiedere tutti insieme l’intervento della Corte Costituzionale ma in Italia purtroppo c’è sempre un’elezione che fa rinviare l’appuntamento con la storia. La presa di coscienza comune dei Governatori del Sud resta comunque un passo gigantesco in avanti e anche lo sforzo in atto di Conte e di ministri come Provenzano e Boccia per mettere al primo punto del Recovery plan la fiscalità di vantaggio e l’alta velocità ferroviaria al Sud è da apprezzare. Il punto è che mancano i fatti. Perché con i giochetti della ministra De Micheli i cantieri si aprono al Nord e al Sud si continuano a finanziare gli studi di fattibilità. Perché con i giochetti della Conferenza Stato-Regioni si è introdotta la “nuova premialità dei ricchi” per cui il Nord prenderà ancora di più del Sud nella sanità di quanto prendeva prima dimostrando che la lezione del Covid non ha insegnato nulla. Questi sono i fatti che sono l’esatto opposto delle numerose interviste ministeriali che annunciano ogni giorno di dare più soldi al Sud che nessuno ha visto e nessuno potrà vedere senza cambiamenti profondi nella macchina pubblica centrale e regionale e una condivisione della parte più illuminata della classe dirigente del Nord. Se viceversa si continua con gli annunci, i cantieri fantasma e la forza inerziale di Sua Maestà Spesa Storica non solo si fa il male del Sud, ma si “uccide” l’Italia perché si impedisce al Paese di affrontare e risolvere il suo primo problema competitivo. Peraltro si va anche contro le richieste dell’Europa e della Banca Centrale europea e si mettono perfino a rischio i fondi europei. Un gioco pericoloso.

NON SI PUÒ PIÙ PROCEDERE IN ORDINE SPARSO. RECOVERY: FISCALITÀ DI VANTAGGIO E RIEQUILIBRIO DELLA SPESA TERRITORIALE LE PRIORITÀ. Robero Napoletano il 29 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nonostante gli aut aut degli “olandesi emiliani” di casa nostra, l’Italia si salva se si salva il suo Mezzogiorno, non se si continuano a rapinare le risorse del bilancio pubblico nazionale e del Fondo di coesione europeo destinato al Sud per finanziare il privilegio assistenziale del Nord. Non è più consentito alla classe politica meridionale di non agire unita riducendosi a scendiletto del potere tosco-emiliano di sinistra e lombardo-veneto della destra pur di continuare a litigare tra di loro. Piovono dal cielo 209 miliardi. Non abbiamo mai avuto tanti soldi. Ogni partito fa la sua proposta. Ogni ministro. Anche quelli che aprono bocca senza mai pensare. Ogni sindaco. Ogni Presidente di Regione. Facciamo questo. Facciamo quello. Facciamo la rivoluzione digitale. Apriamo un negozio di pizze e fichi. Rifacciamo tutti gli ospedali del Sud e diamo più soldi alla sanità del Nord. E chi più ne ha più ne metta. La verità è che il Paese stava fallendo e rischia ancora di fallire per cause pandemiche sopravvenute e colpe sue che vengono da lontano. La verità è che l’Europa franco tedesca non disinteressatamente sta facendo di tutto per tenerci in vita perché ha paura della pesantezza del botto che potremmo fare e vuole finalmente provare a fare l’Europa. La verità è che la Cancelliera Merkel ha dovuto fare ragionare olandesi e austriaci mettendo mano al portafoglio in nome di un’idea europea solidaristica che chiede all’Italia di investire sul suo Mezzogiorno e risolvere il problema del riequilibrio territoriale senza sapere che nulla può (nemmeno lei) contro il muro di privilegi che “olandesi e austriaci di casa nostra” difendono alla morte. La verità è che assistiamo sgomenti a una narrazione propagandistica di una valanga di soldi che sta rotolando sulle nostre teste fino al punto di schiacciarci. Fino al punto di spezzare il filo che ci consente di danzare sull’orlo del baratro senza caderci dentro. A tutti questi signori che fanno propaganda consigliamo la lettura meno amena ma decisamente più veritiera del noiosissimo ddl sull’assestamento di bilancio dove c’è scritto in italiano che abbiamo un saldo netto da finanziare con un tetto massimo di 390 miliardi. Ai quali vanno aggiunti i 250 miliardi di titoli in scadenza che vanno rinnovati e fanno salire a oltre 600 miliardi il monte titoli italiani da finanziare per fare fronte agli effetti della crisi che ha determinato un colpo da 51 miliardi di finanza pubblica tra minori entrate e maggiori spese. Tutta roba scritta, sia chiaro, in un disegno di legge governativo. A fronte di tutto ciò in versione Mark Rutte in salsa emiliano-romagnolo dall’alto dei suoi successi elettorali e forte delle chiavi di comando della cassaforte della Sinistra Padronale, Bonaccini intima al sottosegretario Fraccaro della Presidenza del Consiglio di non permettersi di toccare l’impianto dei trasferimenti pubblici alle sanità regionali e, cosa giusta, che non si fa una legge di assestamento di bilancio senza passare dalla conferenza Stato-Regioni da lui presieduta. A un Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che mette sul tavolo in modo sacrosanto le ragioni non più eludibili di un riequilibrio dei trasferimenti che penalizza in modo abnorme il cittadino pugliese rispetto a quello emiliano-romagnolo, per non parlare del cittadino campano al confronto con quello lombardo, la risposta secca è: puoi dare qualcosa in più al Sud ma guai se tocchi l’impianto dei trasferimenti alla sanità. Che noi traduciamo: la sanità dei ricchi. L’avvertimento è chiaro: puoi fare quello che vuoi ma guai se tocchi l’impianto del privilegio che nega i diritti di cittadinanza sanitaria, ma anche scolastica e ancora di più infrastrutturale, al Sud e li regala indebitamente al cubo al Nord con i soldi del Sud. Siccome il bravissimo Bonaccini non può non sapere che questo giochetto che vale 60 miliardi l’anno è incostituzionale perché è figlio di una legge sul federalismo fiscale (Calderoli, 2009) mai attuata perché non si sono fatti i fabbisogni standard, i livelli essenziali e perfino il fondo di perequazione e non può non sapere che la cassa europea ha il vincolo dell’obiettivo strategico del riequilibrio territoriale la situazione si fa davvero delicata e ricalca alla perfezione l’ottuso interessato egoismo che ha segnato il “frugale” comportamento di olandesi e austriaci intenti solo a scroccare quattrini. Siccome in autunno la luna di miele finirà e anche se le tensioni sui mercati saranno ancora una volta attutite dagli acquisti della Bce sarà chiara a tutti la bomba sociale di milioni di disoccupati che rischia di esplodere nel 2021, le forze illuminate del Pd hanno il dovere di fare capire ai padroni della Sinistra Padronale che non si può continuare a scherzare con gli studi di fattibilità per l’alta velocità ferroviaria al Sud e i cantieri veri che tornano a riaprirsi al Nord. Deve essere il Nord illuminato a chiedere la fiscalità di vantaggio e la riunificazione infrastrutturale delle due Italie. Questo ci chiede l’Europa. Questo ci chiede la Bce. Questo serve all’Italia. Conte, Provenzano e Boccia hanno in mano la partita del futuro dell’Italia. Quando tutti torneremo con i piedi per terra, molto presto, si capirà che non si hanno i soldi per fare tutto e che, questa volta, l’Italia si salva se si salva il suo Mezzogiorno non se si continuano a rapinare le risorse del bilancio pubblico nazionale e del Fondo di coesione europeo destinato al Sud per finanziare il privilegio assistenziale del Nord. Questa operazione verità deve servire a riunire il Paese in casa e a costruire una credibilità nuova in Europa e nel mondo. Dipende solo da noi perché in questo caso il problema riguarda noi non l’Europa. Se la classe politica e dirigente del Mezzogiorno uscisse dal letargo almeno ventennale e chiedesse alla Corte Costituzionale italiana di intervenire farebbe un quarto del suo dovere. Se siamo ridotti così, però, è proprio perché questa classe politica non ha mai saputo agire unita preferendo ridursi a scendiletto del potere tosco-emiliano di sinistra e lombardo-veneto della destra pur di potere continuare a litigare al loro interno. Questo mercimonio al ribasso della dignità loro e nostra non è più consentito.

Sanità, il piano scellerato per sottrarre risorse al Sud: a rischio un altro miliardo. E intanto è iniziata la battaglia per la ripartizione delle risorse del Recovery Fund. Il Nord non vuole perdere i privilegi. Lia Romagno il 31 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. È anche sulla sanità che si misura la tutela dei diritti di cittadinanza che un Paese è in grado di assicurare ai propri cittadini. E se guardiamo al nostro di Paese non servono i conti della spesa statale per dire che il diritto alla salute “distingue” i cittadini del Sud da quelli del Nord. Lo provano gli ospedali poco attrezzati, con strutture spesso fatiscenti, che accolgono i pazienti nelle regioni meridionali, l’esiguo numero di medici e infermieri che ne popolano le corsie, i macchinari obsoleti, le liste d’attesa. E i numeri del turismo sanitario che ogni anno registrano le partenze di calabresi, pugliesi, siciliani, lucani e campani in cerca di cure migliori negli ospedali del Nord, a vantaggio di una sanità che crea profitti per i privati, mentre nel Mezzogiorno apre “buchi” nei bilanci degli enti locali. Ma i numeri contano e in questo caso spiegano le ragioni di una sanità “malata” al Sud, che risiedono nel riparto dei fondo sanitario nazionale sulla base della spesa storica che da anni fa sì che, a parità di popolazione, il Nord riceva più soldi per le sue strutture ospedaliere. E nel futuro non andrà meglio, dal momento che il nuovo sistema di valutazione e verifica dei Lea (Livelli essenziali di assistenza), approvato nel dicembre del 2018 e che entra in vigore quest’anno, rischia di penalizzare ulteriormente le regioni meridionali. Nessuna sorpresa, quindi, nello scoprire che nel documento circolato qualche settimana fa che “abbozzava” la ripartizione dei 37 miliardi del Mes – su cui nella maggioranza ancora restano alte le resistenze del Movimento 5 Stelle – ancora una volta veniva cristallizzata la sperequazione delle dotazione delle risorse a beneficio delle regioni settentrionali e la sopravvivenza di un sistema sanitario che distingue tra serie A e serie B. Alle risorse comunitarie del Recovery Fund – e alle pressioni delle istituzioni europee affinché i Paesi intervengano sui rispettivi divari territoriali – è affidata la possibilità di un riequilibrio e di dotare il Mezzogiorno di una sanità efficiente, ma nelle prime riunioni della cabina di regia sono già emersi orientamenti egoistici e miopi: chiedendo che il trasferimenti dei dei fondi avvengano secondo i criteri in uso, il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini – che è anche presidente della Conferenza delle Regioni – ha già chiesto più soldi per il Nord.

LO SCIPPO DELLA SPESA STORICA. Da oltre 15 anni il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. E nel 2020 non è andata diversamente, dal momento che il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito lo stesso spartito di sempre. Così, su 113,3 di dotazione complessiva, alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, sono stati riservati 7,49 miliardi mentre all’Emilia Romagna, con 4,4 milioni, 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. E se si considera il Veneto, con i suoi 4,9 milioni di abitanti, la sproporzione resta, visto che la Regione governata da Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione guidata da Emiliano. Considerando la spesa pro-capite, ne discende che per curare un cittadino pugliese lo Stato spende 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. Qualche altro numero per illustrare la scena: restando al Sud, la Campania, avrà 10,6 miliardi, 1.827 euro per ciascuno dei suoi 5,8 milioni di residenti che possono far affidamento su 42mila operatori sanitari impiegati a tempo indeterminato; la Calabria 3,6 miliardi e 1.800 euro per cittadino (ha quasi due milioni di abitanti che possono contare su un personale che conta 18mila unità). Guardando al Nord, alla Lombardia e al Piemonte andranno, rispettivamente, 18,8 miliardi (1.880 euro pro capite per i 10 milioni di residenti curati da 95mila tra medici e infermieri) e 8,33 miliardi (4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. E un staff sanitario di 53mila persone). Dal 2012 al 2017, poi, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno visto aumentare la loro quota del fondo del 2,36%, ricevendo quindi dallo Stato poco meno di un miliardo in più (944 milioni), rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria per le quali l’aumento è stato pari soltanto dell’1,75%.

LA RIFORMA DEI LEA PENALIZZA IL MEZZOGIORNO. Alla luce di questi numeri, il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea rischia di penalizzare ulteriormente le regioni meridionali, che potrebbero ritrovarsi con minori trasferimenti da parte dello Stato. Sono previsti, infatti, criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e per quelli del Sud, dopo decenni di tagli, è difficile superare l’esame. Come mostra una simulazione svolta dal Comitato Lea, organo del ministero della Salute: solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse e le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud, ovvero Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna. Ad ottenere la promozione sarebbero soltanto Puglia e Abruzzo. Superare l’esame con la “sufficienza” vuol dire poter contare su una premialità del 3% nel riparto del fondo sanitario, al netto delle entrate proprie, che per le regioni del Sud equivale a circa un miliardo di euro.

LE RISORSE DEL MES. Lo scippo al Sud sulla base della spesa storica rischierebbe di perpetrarsi anche sulla ripartizione tra le regioni dei fondi del Mes, stando alla bozza che, secondo quanto si è raccontato, sarebbe servita per ingolosire i governatori del Veneto e Lombardia, provati dall’emergenza Covid 19, spingendoli a far pressione sulla Lega e a scioglierne le resistenze. Alla Lombardia e al Veneto, infatti, andrebbero oltre 9 dei 37 miliardi riservati all’Italia, un quarto di tutta la torta: il 16,64% alla prima, l’8,14% alla seconda. In particolare, alla Lombardia, che prima del Covid era considerata una eccellenza sanitaria nazionale, andrebbero 6 miliardi e 158 milioni: più risorse di quante ne spetterebbero a Puglia, Calabria, Basilicata, Marche, Umbria e Molise messe insieme.

Fontana risponde a De Luca: “14 mila campani si curano in Lombardia”. Irene Barbato su internapoli.it il 20 Aprile 2020. Non si placa la polemica dopo le esternazioni del Governatore Vincenzo De Luca. Il Presidente della Regione sarebbe pronto a chiudere la Campania poichè è preoccupato dai residenti delle regioni del nord. Oggi Il Governatore della Lombardia Attilio Fontana lo ha risposto attraverso un post su Facebook: “Caro governatore Vincenzo De Luca, sappia che qualunque cosa accada noi non chiuderemo mai la porta ai 160mila italiani, tra cui circa 14mila campani, che ogni anno scelgono di venire in Lombardia per farsi curare“. Nei giorni scorsi anche il Presidente del Veneto Luca Zaia ha commentato: “Non penso che tutti i veneti che vanno in vacanza in Campania siano contenti. Non credo che il presidente De Luca stia facendo un grande servizio alla sua Regione”.

LE PAROLE DI DE LUCA. “Gli esperti ci dicono che in tante parti di Italia siamo ancora alla Fase 1, poi sento alcuni miei colleghi che vogliono ripartire tutto. Invece io credo che ci voglia un maggiore senso di responsabilità. Lombardia, Veneto e Piemonte hanno una situazione che non è ancora tranquilla. Lombardia e Veneto, soprattutto, sono in alto mare e vogliono aprire. Così facendo, però, si rischia di mettere in pericolo tutta l’Italia. Per questo saremo costretti a chiudere i confini. La cosa più drammatica sarebbe riaprire tutto e dopo due settimane tornare a chiudere: a quel punto l’Italia non reggerebbe più. Le riaperture dovranno essere sempre accompagnate da un piano di sicurezza sanitaria che è imprescindibile. La ripresa sarà su due piani: economico e sanitario” , ha detto venerdì scorso De Luca.

Dal “Fatto quotidiano” il 21 aprile 2020. A “Libero” devono aver perso la memoria. Ieri il direttore Vittorio Feltri si è lanciato in un editoriale per tentare di convincere i lettori che il suo quotidiano sia estraneo ad Antonio Angelucci, deputato berlusconiano proprietario di diverse cliniche private oltreché di giornali (Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria ecc.). E se l'è presa con la 5 Stelle Barbara Lezzi, rea di aver insinuato, ribattendo al direttore Pietro Senaldi, “che l'editore del foglio che leggete (Libero, appunto, ndr) sia Antonio Angelucci, mentre la testata è di una fondazione con le carte perfettamente in regola”. Certo. Angelucci è talmente estraneo a Libero che sul sito della Tosinvest, il gruppo di famiglia, si legge: “... proprietaria della testata giornalistica Opinioni Nuove - Libero Quotidiano”. Sul finire dell'editoriale, già che c'è, Feltri si concede il lusso di un pizzino sui palinsesti televisivi: non essendogli piaciuto come Veronica Gentili (Stasera Italia, Rete4) ha gestito l'ospitata della Lezzi contro Senaldi (non l’ha uccisa su due piedi, a distanza), prima la insulta e poi chiede “che la rete berlusconiana possa rimediare”. Magari cacciandola? Nel caso, Veronica non provi neanche a chiedere un lavoro ad Angelucci: lui con Libero non c'entra niente.

Lezzi: “L’on. Angelucci è colui che fa insultare i Meridionali dai suoi Senaldi e Senalducci”. Alfredo Di Costanzoil 19 aprile 2020 su iltabloid.it. Così Barbara Lezzi sulla sua pagina Facebook: L’ on. Antonio Angelucci è colui che fa insultare i Meridionali dai suoi Senaldi e Senalducci tacciandoli di essere nullafacenti e mantenuti mentre intasca finanziamenti pubblici, dal 2003 al 2017, per la bellezza di 53 milioni di Euro. Poco più di 3 milioni l’anno. Poco meno di 260 mila Euro al mese. Una scena pietosa ieri sera resa ancora più squallida dalla conduttrice. Senaldi attacca gratuitamente i cittadini del Mezzogiorno d’Italia. Una provocazione inutile in quel contesto ma che io non lascio passare. Detesto le ingiustizie e ancor di più detesto chi succhia dalle casse pubbliche e poi fa il liberale dei miei stivali con la pelle degli altri. Il grande e coraggioso Senaldi si cimenta in un piagnisteo da premio Oscar chiedendo aiuto alla conduttrice, Veronica Gentili: “gne gne gne, non mi hai difeso.” Guardate il video, dice davvero così. E lì la Gentili a scusarsi quasi prostrata senza minimamente prendere in considerazione, magari per un retaggio di una lontana buona educazione, di chiedere scusa al 34% della popolazione del Paese che era stata bellamente infamata dal suo gradito ospite. Non paghi entrambi, hanno ribadito, in chiusura, le scuse per mio conto (io non mi scuso affatto) ad Angelucci sol perché avevo parlato della sua grigia reputazione. Questo mi ha molto infastidita non per il merito che qualifica lo spessore (infinitamente basso) dei due giornalisti che confondono la sacra libertà d’opinione con la libertà di insulto ma perché non mi ha permesso di rispondere all’altro giornalista “molto indipendente” che ha accusato il m5s di non volere le grandi industrie come, ad esempio, l’ex Ilva. Beh, Barisoni, caro il mio competente giornalista economico, se le multinazionali devono venire in Italia a farsi i fatti loro scudate da una bella immunità penale e amministrativa, in me avranno sempre un nemico. Ma chiunque voglia far crescere il nostro Paese nel rispetto della legge e della salute dei miei concittadini è il benvenuto. Chiaro? Spero di sì. Per il resto, sugli interessi passivi che non contano, sulla politica monetaria contrapposta agli eurobond come se la prima potesse durare per sempre, sulla lezioncina con la quale voleva svelarmi il gran segreto che gli eurobond sono prestiti ( il MES che lei vorrebbe cosa sarebbe, Barisoni?) magari avremo qualche altra occasione per discuterne, sempre se riuscirà a liberarsi dal desiderio che la muove più per contraddirmi che per fare informazione. Perché le Barisonate “competenti” sono la ragione per cui finora abbiamo ingoiato austerità e trattati capestro. A Maria Giovanna Maglie che pettegola in mia assenza glielo regaliamo un velo pietoso, anzi penoso? Ma sì, perché negarlo.

Carlo Tarallo per Dagospia il 22 aprile 2020. “Follow the money”, dice il saggio. Segui il denaro e arriverai alla verità. In questo caso, se si vuole andare oltre le sparate cabarettistiche che in queste settimane alcuni giornalisti e politici del Nord stanno mettendo in scena contro le regioni meridionali, che fino ad ora hanno contrastato con maggiore efficacia l’epidemia da coronavirus, bisogna ricordare bene cosa è il “turismo sanitario”. Comprendere il meccanismo è semplicissimo, come bere un bicchiere di vino (anche due) e andare in tv a sparare contro i “meridionali inferiori”. Il tema è questo. Il Servizio sanitario nazionale è articolato su base regionale, per cui ogni cittadino ha diritto a prestazioni gratuite, ovviamente nei limiti dei ticket così via, su tutto il territorio nazionale, ma chi paga è la Regione di residenza. Quindi il signor Gennaro Esposito, residente a Napoli, ha diritto a farsi curare in Calabria, in Trentino o in Lombardia, ma i costi saranno a carico della Regione Campania. Cosa accade, dunque: ogni anno, per effetto di questa migrazione sanitaria, il saldo è negativo, per la Regione Campania,per circa 320 milioni di euro. Soldi che ogni anno la Campania paga alle regioni del Nord dove vanno a farsi curare i pazienti campani. Ogni anno, dalle regioni del Sud partono centinaia di migliaia di malati che vanno a farsi curare al Nord, portando con sé un vero e proprio fiume di denaro. Secondo il Sole24Ore, le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro in relazione a questo fenomeno (dati 2017) sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni). Se si aggiunge a tutto ciò l’indotto rappresentato dai familiari dei pazienti, che spendono soldi per vitto, alloggio, spostamenti, annessi e connessi, la cifra aumenta ancora. Naturalmente, la scelta di andare a curarsi al Nord è dettata dalle croniche inefficienze della sanità meridionale, in particolare riguardo alle lunghissime liste d’attesa, ma c’è anche un fattore per così dire “emotivo”, che spinge i meridionali a fidarsi di più della sanità settentrionale. Anzi, per meglio dire, spingeva. Con l’epidemia coronavirus che ha flagellato il Nord, infatti, questo fiume di denaro è destinato a ridursi e di molto: innanzitutto, per i prossimi mesi i cittadini del Sud avranno oggettive difficoltà a raggiungere le strutture sanitarie del Nord; in secondo luogo, ci sarà un’inevitabile preoccupazione dovuta al coronavirus; in terzo luogo, la sanità settentrionale dal punto di vista dell’immagine esce male da questa emergenza, mentre quella meridionale sta dimostrando di poter raggiungere risultati di eccellenza. Meno turisti della salute, meno soldi che vanno dalle regioni del Sud a quelle del Nord, quindi. Questo è quanto, il resto è cabaret. 

IL BUSINESS DELLA SANITA’. LA NEGAZIONE DEL SUD. Michele Di Pace il 27.09.2020 su Movimento 24 agosto. Di Ambrogio Carpentieri. Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna vendono una sanità che assorbe risorse pubbliche del Sud a centinaia di milioni di euro, spingendo il Sud a funzionare sempre peggio cosicchè il Nord possa guadagnare sempre di più. I cervelli migliori emigrano insieme ai clienti. La riforma del titolo V della Costituzione e il federalismo fiscale hanno indotto le Regioni non virtuose a pagare un prezzo alto. E non si tratta di maggiori capacità o migliore organizzazione ma soprattutto di marketing. I mass media italiani e i giornalisti compiacenti sono nelle mani dei giganti della finanza ed è acclarato la loro appartenenza alle lobby del Nord. “Nelle aree regionali maggiormente colpite dal Covid19, quali Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi, si è assistito ad una straordinaria capacità degli ospedali di passare da un sistema competitivo ad una cooperazione positiva e solo così, in uno sforzo comune, si è potuto evitare il collasso del sistema ospedaliero. In particolare, in regione Lombardia gli ospedali sono stati in grado di passare dai circa 850 posti letto in terapia intensiva di febbraio agli oltre 1500 di fine aprile. Uno sforzo immane che si è ottenuto grazie alla capacità dei manager ospedalieri (pubblici e privati) di ridisegnare il proprio assetto organizzativo. Nessun’altra Regione ha ottenuto risultati paragonabili.(sussidiario.net)”. “I dati ufficiali sulla diffusione del virus in Lombardia, fondamentali per valutare la riapertura dei confini a fine maggio, sono verosimilmente sottostimati» ribadisce il presidente Gimbe. “La Lombardia, la più colpita dall’epidemia, non è pronta per quattro motivi. Uno: la percentuale di positivi al giorno è più alta di quella che viene comunicata. Due: il numero dei positivi è sottostimato perché manca ancora un tamponamento massiccio. Tre: i nuovi casi giornalieri, per 100 mila abitanti, sono il triplo della media nazionale, ma sono i meno noti. Quattro: la Lombardia sovrastima i guariti perché li comunica insieme ai dimessi di cui non è noto lo status di guarigione, clinica o virologica.” Il Nord, che sfrutta l'arte della manipolazione mediatica, è capace di un marketing più incisivo, che trae vantaggio dal pregiudizio: tutti credono che la sanità al Sud non funziona ed è pericolosa! A partire dal 2018 sono stati riscontrati 96 casi di infezione da batterio killer presso l'Ospedale della donna e del bambino di Verona. Il Citrobacter era presente nel rubinetto del lavandino usato dal personale della Terapia intensiva neonatale per prendere l'acqua e darla ai bambini, mescolata anche con il latte. Per questo motivo sono morti quattro bambini e altri nove hanno subito danni cerebrali permanenti. Il TGR Veneto sottolineava che si tratta di un batterio solitamente innocuo e definiva l’Ospedale “una colonna portante della sanità regionale”.

Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.

Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.

In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.

Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:

Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;

Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.

Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.

In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.

Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.

Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.

Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:

la presunta efficienza crea morte nei loro territori;

la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa  fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

Radiografie e Tac, affare d'oro per la sanità lombarda. Vincenzo Damiani il 7 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud.  In Lombardia il sorpasso del privato sanitario sul pubblico è già avvenuto e si registra in una branca nemmeno secondaria, quella della diagnostica strumentale e per immagini: già nel 2015 il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato ha inciso per il 52% sul valore totale delle prestazioni (fonte: Opendata della Regione Lombardia). Parliamo di Tac, ecografie, risonanze, endoscopia, insomma una grossa fetta degli esami a cui si sottopongono, quotidianamente, migliaia di persone.

IL SORPASSO. Ma il sopravvento del privato sul pubblico è attestato da altri dati e altre fonti autorevoli che andiamo a presentare. Ad esempio: l’Osservatorio Assolombarda Bocconi, analizzando quanto accaduto nel decennio tra il 1997 e il 2006, consegna alla Lombardia anche il record di crescita degli ospedali privati. Nel 1997 erano 55, nel 2006 sono diventati 73, +18, una variazione che non ha eguali nel resto dell’Italia. L’unica regione che mostra un andamento simile è la Sicilia (che sale da 49 a 61, +12), ma complessivamente nel resto del Paese c’è addirittura una contrazione: nel Lazio, ad esempio, si riducono di 15 unità, la Campania perde 4 ospedali privati, complessivamente in tutto il Paese si passa da 537 strutture ospedaliere private a 563, +26. Abbiamo parlato di esami medici e ospedali, ora vediamo quanto accade sui costi: secondo quanto certifica il ministero della Salute (anno 2016) in Lombardia su 1.931 euro di spesa sanitaria pro capite totale il 27,9% è incassato dalle strutture private (ospedali, ambulatori, laboratori), cioè 538 euro. Nessun’altra regione come la Lombardia: il Lazio si avvicina (24,6%) ma resta distante, in Calabria dei 1.749 euro pro capite ai privati ne vanno 265 (15,1%), in Basilicata la fetta scende addirittura all’11,8% (219 euro su 1.854), in Campania si attesta al 20,6%, in Sicilia al 20,7% e in Puglia al 21.4%.

RICOVERI E AMBULATORI. Lo sbilanciamento lombardo a favore del privato è fotografato da altri numeri ancora, ad esempio quello dei ricoveri relativi all’anno 2017: su 1.441.657 ricoveri totali, il privato ne ha eseguiti 494.501, il 35% circa, il pubblico 947.157, pari al 65%. Nel complesso, i ricoveri hanno generato un valore di 5,4 miliardi di euro e la Lombardia ha versato a titolo di rimborso ai privati circa 2,1 miliardi, cioè il 40% dei 5,4 miliardi. Ricapitolando: nel 2017 le strutture private hanno garantito il 35% dei ricoveri, ma hanno incassato il 40% di quanto il sistema sanitario lombardo ha generato. Come è possibile? C’è solo una spiegazione: i servizi offerti dai privati costano di più rispetto alle prestazioni del pubblico. Stesso discorso, anche se in maniera meno evidente, per visite ambulatoriali ed esami: nel 2017, su 160 milioni di prestazioni, il 42% è stato svolto in centri privati (66 milioni); le strutture, però, hanno incassato il 43% del valore totale di visite ed esami, 1,24 miliardi su 2,8 miliardi complessivi (fonte Regione Lombardia).

LA DIAGNOSTICA. Se ci spostiamo sul campo della diagnostica strumentale e per immagini, il sorpasso del privato sul pubblico c’è già stato nel 2015: infatti, se consideriamo il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato sul valore totale delle prestazioni pubbliche e private dello stesso ambito, il privato incide per il 52% (Fonte: Opendata della Regione Lombardia). Scendendo più nel dettaglio e nel locale, a Milano e provincia sono presenti 57 strutture di ricovero ordinario e day hospital, 26 sono pubbliche, 31 a gestione privata (54,4%), a Bergamo 14 su 23 sono private (60,9%), a Brescia 14 su 28. In Lombardia gli Irccs privati sono circa il triplo dei pubblici (14 contro 5, fonte ministero della Salute). Nel 2018, in una struttura privata che non lavorava con il servizio sanitario, una risonanza magnetica muscoloscheletrica (ginocchio, spalla, mano, anca, piede) costava ai cittadini circa 90 euro.

RIMBORSI E DIVARIO. Qual è il rimborso che la Lombardia garantiva nel 2018 ai suoi centri privati convenzionati? Circa 169 euro, l’89% in più. Il gruppo San Donato – GSD è il principale gruppo privato d’Italia e in Lombardia, solo a Milano e provincia le strutture di ricovero e cura sono 7, delle quali 3 sono istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs). Nel 2017, in termini di valorizzazione dei ricoveri, il gruppo San Donato ha raggiunto il 35% del totale privato, mentre complessivamente, calcolando anche il pubblico, ha superato il 14% della valorizzazione dei ricoveri. Questa è la fotografia della sanità lombarda che in media ogni anno può contare su circa 19 miliardi di soldi pubblici. Nel 2019, la Regione Lombardia – che ha il doppio della popolazione della Puglia – ha speso quasi il triplo della regione amministrata da Emiliano. Circa 19,3 miliardi per 10 milioni di residenti, contro i 7,7 pugliesi per 4,2 milioni di abitanti. I dati sono estrapolati dai bilanci di previsione 2019-2021 delle singole Regioni. Alla voce “Tutela della salute”, nel suo bilancio la Puglia (4,1 milioni di residenti) nel 2019 iscrive la somma 7,7 miliardi. L’Emilia Romagna (popolazione 4,4 milioni), invece, quasi 10,2, ben 2,5 in più nonostante uno scarto residuale di abitanti; il Veneto (4,9 milioni) spende 10,1 miliardi; la Lombardia che ha poco più del doppio della popolazione della Puglia (10 milioni di residenti) addirittura spende quasi il triplo, 19,3 miliardi. Insomma, una “tutela della salute” a macchia di leopardo: in alcune zone è più garantita, in altre meno grazie a una distribuzione del fondo nazionale non propriamente equo. D’altronde, è accertato dalla Corte dei conti che dal 2012 al 2017 nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei Regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, in media, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%. Tradotto, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni di euro in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Così è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati soltanto 685 milioni in più. Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% da quelle del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali.

Da Bergamo a Chieti, le cliniche assoldano i più bravi. Il cardiochirurgo lombardo: "Su 532 persone operate, 150 sono pugliesi". La Regione Puglia spende ogni anno 200 milioni per le cure in trasferta. Antonello Cassano l'11 aprile 2016 su La Repubblica. A metà strada tra le star e i guru. Sono i grandi professionisti della medicina, specialisti in branche importanti come l’oncologia o la cardiochirurgia, camici bianchi dalle mani d’oro che con la loro fama e il loro talento riescono a far spostare masse importanti di pazienti dalla Puglia verso altre regioni. Anche di questo si nutre la mobilità passiva pugliese, flusso in uscita di pazienti che ogni anno costa alle casse della Regione Puglia più di 200 milioni di euro. Secondo il Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero in Italia, nel 2014 i ricoveri fatti fuori dalla Puglia sono stati 39.615, pari all’8,1 per cento dei ricoveri totali erogati. Dove vanno principalmente i pugliesi per farsi curare? Lombardia (8.308 ricoveri), Emilia Romagna (7.641), Lazio (4.791). Non si tratta di semplice turismo sanitario, ma di una reale ricerca dell’eccellenza nelle cure. Ed è qui che intervengono i grandi professionisti del settore. Molti di questi sono pugliesi, si sono formati nelle nostre università, poi hanno lavorato all’estero per qualche anno e sono tornati in Italia. Anni di lavoro tra i corridoi degli ospedali pubblici di Bari o Lecce, poi il salto nelle cliniche private o private convenzionate. In questo modo riescono a creare un bacino di pazienti considerevole, diventando “appetibili” per le grandi cliniche del Nord. E quando decidono di trasferirsi per lavoro negli Irccs o nelle cliniche del Centro- Nord, “portano via” un gran numero di pazienti pugliesi. Il fenomeno è esteso. Nel centro nazionale di alta tecnologia dell’università di Chieti-Pescara, diretta dal professore Leonardo Mastropasqua (originario di Barletta), arrivano pazienti da tutta Italia. «Nella mia clinica facciamo 5800 operazioni all’anno, dalla cornea alla retina — conferma Mastropasqua — e il 60 per cento dei ricoveri è effettuato su pazienti provenienti da fuori regione, molti pugliesi, attratti anche perché sono miei conterranei». Qualche centinaio di chilometri più a nord, precisamente a Bergamo, c’è l’Irccs privato Humanitas. Ed è qui che, dopo anni di lavoro in Puglia, è arrivato Giampiero Esposito, cardiochirurgo salentino di fama internazionale. I suoi pazienti non lo hanno abbandonato. Solo lo scorso anno su 528 ricoveri totali effettuati da Esposito, 130 riguardavano pazienti pugliesi: «Ma devo dire la verità — ammette Esposito — mi dispiace molto vedere intere famiglie spostarsi insieme ai pazienti in cerca di cure». Basta scendere un po’ più a sud, in Emilia Romagna, per trovare altri pazienti pugliesi. Succede alla Casa di cura San Lorenzino di Cesena. Qui ogni anno centinaia di pugliesi, spesso giovani sportivi, vengono a sottoporsi alle cure di Antonio Rizzo, chirurgo ortopedico di origini salentine. «Molti pazienti pugliesi che hanno problemi seri come la rottura del crociato — dice Rizzo, che ha lavorato nel privato convenzionato pugliese — vengono qui da noi. L’anno scorso lo hanno fatto in duecento circa». Ma quello dei grandi chirurghi pugliesi che “portano via” pazienti dalla Puglia è solo uno dei motivi che alimentano il fenomeno della mobilità passiva. Ora la Regione sta provando a organizzare una strategia difensiva. L’idea è quella di consentire ai più grandi ospedali di eccellenza di riportare i pugliesi a curarsi nella loro regione anche attraverso premialità extra tetto. Un’idea che trova sostegno pure tra i banchi dell’opposizione. È quello che pensa Luigi Manca, consigliere regionale dei Conservatori e Riformisti: «Su questo fenomeno bisogna lavorare molto, anche attraverso un aumento del tetto di spesa delle cliniche private accreditate pugliesi. Solo così si possono sostenere le punte di eccellenza della nostra sanità».

Mobilità Sanitaria, ecco come la Campania “foraggia” le casse delle Regioni settentrionali. Rocco Corvaglia il 22 Aprile 2020 su anteprima24.it. Ieri sera è andato in onda, negli studi della nota trasmissione televisiva “Porta a Porta“, il dibattito tra il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana e il governatore della Campania Vincenzo De Luca. Un “duello” atteso al pari di una finale di Champions League, tra i due personaggi politici che – per ragioni opposte – hanno saputo catalizzare l’attenzione pubblica in questo periodo di emergenza sanitaria. Ora, è proprio da una dichiarazione di Attilio Fontana che vogliamo partire. Qualche giorno fa, in risposta a una provocazione di De Luca, Fontana sentenziava tronfio: “Noi non chiuderemo le porte ai campani che si curano nei nostri ospedali“. Bene. Anzi, benissimo ci verrebbe da dire. Lo slancio umanitario di un governatore leghista è sempre meritevole di considerazione. Ma – cosa volete? – nell’ascoltare questa dichiarazione il tarlo del dubbio si è impossessato di noi. Pertanto, abbiamo deciso di porci qualche domanda. Banalmente: ha la Lombardia un qualche interesse economico ad accogliere i cittadini campani nelle proprie strutture sanitarie? Ecco, la risposta non la forniamo noi, ma il rapporto elaborato dalla “Fondazione GIMBE” che si occupa da anni di monitorare lo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale. Il Rapporto della Fondazione Gimbe (anno 2017) affronta il tema della Mobilità Sanitaria nazionale (in sostanza, quanti pazienti si spostano da una regione all’altra per usufruire di prestazioni sanitarie): “Dal punto di vista economico, la mobilità attiva rappresenta per le Regioni una voce di credito, mentre quella passiva una voce di debito; ogni anno la Regione che eroga la prestazione viene rimborsata da quella di residenza del cittadino“. Di fatto, le prestazioni sanitarie offerte dalle regioni che accolgono pazienti da altre regioni vengono rimborsate dalle regioni nelle quali questi ultimi risiedono. Se un cittadino campano si cura in Lombardia, alla Regione Campania toccherà l’onere del rimborso. Nel 2017 il valore della mobilità sanitaria ammonta a € 4.578,5 milioni (oltre 4.5 miliardi di euro). Nella tabella di seguito i valori in termini di crediti, debiti e saldi per le 19 Regioni e 2 Province autonome per l’anno 2017 (fonte Fondazione GIBEM): Come si evince dalla Tabella, la Campania presenta il peggior saldo con un passivo di oltre 320 milioni di euro, mentre la Lombardia presenta un attivo per oltre 800 milioni di euro.

Di seguito una tabella che mostra la Mobilità Sanitaria Attiva, che identifica le prestazioni erogate da ciascuna Regione per cittadini non residenti: in termini di performance esprime il cosiddetto “indice di attrazione” e in termini economici identifica i crediti esigibili da ciascuna Regione:

Di converso una tabella che mostra la Mobilità sanitaria passiva, che identifica le prestazioni erogate ai cittadini al di fuori della Regione di residenza: in termini di performance esprime il cosiddetto “indice di fuga” e in termini economici identifica i debiti di ciascuna Regione: “Il valore della mobilità sanitaria regionale nel 2017 supera i € 4.578,5 milioni, una percentuale apparentemente contenuta (4%) della spesa sanitaria totale (€ 113.131 milioni), ma che assume particolare rilevanza per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, per l’impatto sull’equilibrio finanziario di alcune Regioni, sia in saldo positivo (es. Lombardia + € 784 milioni), sia in saldo negativo (es. Calabria -€ 281 milioni; Campania -€ 318); in secondo luogo, per la dispersione di risorse pubbliche e private nelle Regioni con offerta carente di servizi“, queste alcune delle conclusioni del Rapporto della Fondazione GIMBE.

Senza voler incorrere in banali semplificazioni (appare evidente che se vi è mobilità sanitaria ciò lo si deve, anche e soprattutto, alla diversità – in termini di qualità – di prestazioni sanitarie offerte), il tema è proprio quello di un riequilibrio complessivo della qualità del nostro Sistema Sanitario Nazionale su tutto il territorio nazionale.

Se, come scriveva Barbara Gobbi dalle colonne del Il Sole 24 Ore “l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata – mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania”, è chiaro che il sistema non può reggere e che forse le parole di Fontana non erano animate solo da francescano spirito di solidarietà. 

La Calabria è la Beirut dell’assistenza socio sanitaria. Ettore Jorio, Università della Calabria, il 7 gennaio 2020 su quotidianosanita.it. Speranza cercasi in Calabria. Una ce l'ha regalata la DDA di Catanzaro. L'altra è insita nel cognome dell'attuale ministro della salute e, soprattutto, fondata sulla sua storia politica e la sua sensibilità sul tema. Io ci credo, nonostante le debolezze dimostrate nel lasciare in vigenza un provvedimento dagli effetti macabri. La Calabria ha chiuso il proprio bilancio, quello del 2019. È più maledetto dei precedenti. Come ogni documento «contabile» che si rispetti anche quello politico-istituzionale calabrese rintraccia nei suoi saldi finali il valore del risultato. Il prodotto finale è certamente da bancarotta, verosimilmente fraudolenta. A fronte delle «rimanenze finali», invero mai state così precarie e pericolose per la popolazione, c'è necessità di effettuare velocemente, nell'anno appena iniziato, un importante «reso ai fornitori»: il decreto legge Grillo, convertito nella legge 60/2019. Uno strumento legislativo che, a memoria d'uomo, non ha modo di rintracciare uguale perniciosità sociale, da restituire pertanto al mittente. Esso ha generato un autentico disastro per i calabresi, solo perché capricciosamente voluto dalla allora ministra alla salute che, si spera, abbia a suo tempo agito inconsapevolmente.

Le colpe e i rimedi elusi. L'anno appena trascorso è iniziato male e finito peggio, così come meritava. I calabresi (gente onesta e sofferente, compromessa dai ben noti!) sono finiti nel solito mirino della solita peggiore ignominia, solo perché considerati come soggetti appartenenti alla patria della 'ndrangheta e alla regione infiltrata nelle istituzioni e nei ceti dominanti. Un bel regalo per i nostri giovani costretti a lavorare altrove. Una responsabilità grave, la nostra, quella di non aver saputo generare, negli anni che furono e che sono, gli anticorpi giusti per porvi rimedio. Per imporre quel freno sociale e istituzionale che il fenomeno avrebbero meritato, man mano che andava ad assumere l'attuale dimensione. Certamente un adempimento collettivo molto difficile da concretizzare a causa dell'efficienza «aziendale» del nemico e delle megarisorse a disposizione della 'ndrangheta. Basta, infatti, constatare il proliferarsi ovunque di una siffatta organizzazione delinquenziale, tale da rendere permeabile con la sua vis mafiosa qualsivoglia organismo pubblico/privato e tutti i segmenti che costituiscono il Mercato. Da qui, la certezza che la 'ndrangheta rappresenta un problema nazionale (e non solo) con la conseguenza che le politiche governative devono essere improntate alla depurazione del sistema, cominciando dalla Calabria, con la previsione di importanti investimenti strutturali, sia in termini di bonifica che di prevenzione.

Il catalogo dei princìpi. Meno male che quest'anno c'è stato il giudice Nicola Gratteri e il gruppo dei bravi magistrati che gli collaborano alla DDA di Catanzaro a lasciare la speranza sotto l'albero di Natale dei calabresi. Essi non si sono resi solo autori di una importante retata ma hanno somministrato a tutti noi una lezione dalla quale assumere il «catalogo» dei nuovi principi e dei rinnovati canoni cui deve ispirarsi la società civile. Non solo. Anche quelli cui deve attenersi il sistema istituzionale ed essere improntato l'andamento della Pubblica amministrazione nostrana. In proposito, spero proprio - da calabrese desideroso di investire sul futuro della propria regione - che i candidati alle elezioni del prossimo 26 gennaio ne sappiano approfittare, assumendo le nuove regole ad ispirazione, prima da parte di tutti i competitor, della campagna elettorale e, poi per gli eletti, dell'esercizio del mandato legislativo regionale!

Toccano alla politica i presupposti per la rinascita. Ritornando alle «giacenze di magazzino», a risorgere dovrebbe essere soprattutto la sanità che, dalle nostre parti, oltre ad essere terreno fertile per le consorterie di ogni genere e grado, è fonte di disperazione, di morti colpevoli, di spreco di danaro pubblico, del peggiore clientelismo ma soprattutto di insicurezza sociale. Ivi, fanno gola i 320 milioni di euro di mobilità passiva, che la Calabria regala al centro-nord (Lombardia in primis), in favore della quale, pare, lavorino personaggi che eccellono molto di più nell'esercizio della mediazione commerciale retribuita dai destinatari che in quello delle arti mediche. Ivi, oggi più che mai attraggono gli incarichi extraregionali e le conduzioni straordinarie delle aziende della salute (Asp, Ao e Aou), caratterizzate da decenni da una malagestio da manuale e dall'assenza assoluta dei controlli aziendali, regionali e commissariali. A tal proposito, risulta da dieci anni inutile e costosissima la presenza degli advisor, nei confronti dei quali si fa davvero fatica a giustificare l'inerzia di chi dovrebbe mandarli a casa. Insomma in Calabria, tra sprechi vergognosi e incapacità, si registra una inefficienza da scandalizzare chiunque. Basterebbe pensare che da queste parti vengono ancora tollerate aziende sanitarie territoriali senza bilancio da anni, altre sciolte per 'ndrangheta, aziende ospedaliere che, pare, non esercitino il pronto soccorso e chiudano nei week-end. Tutto questo nonostante dieci anni di commissariamento ad acta, che si sta svendendo la pelle dei calabresi anche attraverso pratiche occupazionali orride e gestite nel peggiore cinismo verso il fabbisogno epidemiologico e sociale, che (audite!) mai nessuno ha rilevato.

Peccato non aver usato la scopa della Befana per spazzare via il decreto Grillo. A tutto questo ha ampiamente contribuito il decreto salva-Calabria, vero campione di sadismo certificato, che a distanza di otto/nove mesi impone la conta dei saldi, con le partite in dare che non provano alcun apporto migliorativo e quelle in avere che registrano danni irreversibili alle persone e al sistema, destinati sensibilmente a crescere! Insomma, un provvedimento così cinico e un risultato così aberrante sarebbero stati ovunque improponibili e assolutamente non tollerati dalla società civile, certamente produttivi di dimostrazioni pubbliche ad elevatissima partecipazione sociale. Avrebbero meritato altro che sardine! In Calabria nulla, nonostante l'incredibile prodotto generato a sfavore dell'utenza, finanche demolitivo di quel poco che c'era. Neppure nei programmi dei candidati alle elezioni regionali del 26 gennaio prossimo c'è la proposta della benché minima soluzione. Tutto scorre come se qui ci fosse l'assistenza sanitaria della Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana ecc.Per non parlare dell'assistenza sociale ulteriormente affossata da un improvvido e improvvisato regolamento approvato dalla Giunta regionale uscente che metterà al tappeto imprese del settore, che a fatica sbarcano il lunario aziendale, e famiglie con persone disabili e caratterizzate da fragilità psico-fisiche.

La Calabria è la Beirut dell'assistenza socio sanitaria. L'inventario di fine anno. Tre aziende ospedaliere della quali, per il momento, soltanto una con una manager ufficiale concretamente preposta alla direzione di una Ao (Cosenza) e due mandate avanti alla bene meglio da esponenti della burocrazia interna, che hanno campicchiato tra una dimissione e l'altra. Un'azienda ospedaliera universitaria senza testa né coda ovverosia senza manager e impegnata in un molto creativo percorso di integrazione, "interpretativo" di una procedura di fusione che non c'è con l'azienda ospedaliera operante nel territorio cittadino di Catanzaro. Cinque aziende territoriali provinciali delle quali nessuna gestita sino ad oggi da manager nominati, atteso che ci vorrà ancora qualche giorno perché si insedino quelli individuati a circa un anno dalla loro previsione normativa. Due aziende territoriali (l'Asp di Reggio Calabria e quella di Catanzaro) sciolte per infiltrazione/condizionamento mafioso, ex artt. 143 e 146 Tuel ed entrambe "fantasiosamente" dichiarate in dissesto, ex art. 244 Tuel e seguenti, con qualcun'altra destinata più che verosimilmente a seguire la medesima (assurda) sorte. Una novità in assoluto in diritto, quest'ultima, intendendo per tale il superamento (incostituzionale) di quell'autonomia riconosciuta alla Regione dalla Carta, atteso che le aziende sanitarie in default obbligano le Regioni di appartenenza al risanamento dei loro bilanci, a partire dalla copertura delle loro perdite annue sino ad arrivare al ripianamento dei deficit patrimoniali prodotti. Un dovere ineludibile e una prassi peraltro evidenziabile dal pagamento del rateo annuo di circa 31 milioni di euro del mutuo a suo tempo contratto a fronte del debito pregresso contabilizzato al 2009 dal Commissariamento di protezione civile all'epoca attivo. E ancora. I danni sono tendenzialmente in crescita per incapacità gestionale di preposti a generare la programmazione del cambiamento. L'attuale improvvisata governance commissariale sta facendo, infatti, di peggio di quanto si faceva prima del suo insediamento, che rappresentava il massimo del deterioramento progressivo del servizio. L'ultima vicenda è il segno evidente dell'assenza totale di una saggia pianificazione degli investimenti che sottolinea la mancanza di una idea complessiva di organizzazione della salute che si ha il dovere costituzionale di rendere ivi efficiente ed efficace come altrove. A fronte di programmazione di spesa delle risorse ex art. 20 legge 67/1988, finalizzate all'acquisizione di tecnologie rafforzative delle eccellenze operanti in Calabria (tra tutte, in contrapposizione ad una programmazione aziendale tendente a consolidare quelle già rese dall'AO di Cosenza, gli stop: all'acquisizione di una risonanza magnetica di tipo 3Tesla da rendere disponibile alla neuroradiologia interventistica di assoluto riconosciuto pregio nazionale; all'acquisto del robot chirurgico Leonardo da Vinci da «consegnare» alla urologia e alla chirurgia toracica di altrettanto indiscusso valore professionale, attività peraltro segnatamente impattanti positivamente avverso l'enorme mobilità passiva di settore che impoverisce annualmente il Ssr), si è pensato di disperdere le relative risorse distribuendole a pioggia nei diversi presidi spock e di conseguenze renderle di fatto improduttive di erogazione qualificata di assistenza. 

Tante le aspettative, sino ad oggi deluse. Speranza cercasi in Calabria. Una ce l'ha regalata la DDA di Catanzaro. L'altra è insita nel cognome dell'attuale ministro della salute e, soprattutto, fondata sulla sua storia politica e la sua sensibilità sul tema. Io ci credo, nonostante le debolezze dimostrate nel lasciare in vigenza un provvedimento dagli effetti macabri. L'augurio è anche quello che la Calabria riesca a trovare un/una Presidente della Regione capace di esercitare la riscossa e materializzare il rinascimento di una terra che ha ormai capitalizzato un credito di civiltà così alto da apparire difficile da essere riscosso nonché il risarcimento dei drammi sopportati da una società generalmente impoverita.

TURISMO SANITARIO. I PAZIENTI CON LA VALIGIA SPOSTANO 4,6 MILIARDI DI EURO DA SUD A NORD. Barbara Gobbi per amp.ilsole24ore.com il 31 Luglio 2019. Le Regioni del Nord come una calamita per il Sud Italia. La mobilità sanitaria, il fenomeno dei pazienti con la valigia in cerca di assistenza migliore che muove ogni anno circa un milione di malati più i familiari, si traduce in un fiume di denaro pari nel 2017 a 4,6 miliardi di euro, certificati dalla Conferenza delle Regioni nei mesi scorsi previa compensazione dei saldi. E il flusso ha una direzione chiara: l’88% del saldo in attivo (chi riceve pazienti) va ad alimentare le casse di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – che sono anche le tre Regioni più avanti nel processo di autonomia differenziata - mentre il 77% di quello passivo (chi “esporta” pazienti) pesa su Puglia, Sicilia, Lazio, Calabria e Campania. Un quadro che racchiude sfaccettature fisiologiche ma anche patologiche, imputabili alle liste d’attesa o alla scarsa qualità dell'assistenza nelle Regioni di partenza, da cui riesce a “fuggire” per curarsi solo chi può permetterselo. A fare il punto è la Fondazione Gimbe: «Abbiamo analizzato – spiega il presidente Nino Cartabellotta – esclusivamente i dati economici della mobilità sanitaria aggregati in crediti, debiti e relativi saldi, in attesa di ottenere il prospetto dei flussi integrali trasmessi dalle Regioni al ministero della Salute, che permetterebbero di analizzare la distribuzione delle tipologie di prestazioni erogate in mobilità, la differente capacità di attrazione del pubblico e del privato e la Regione di residenza dei cittadini si curano fuori casa». Elementi fondamentali per scovare il «lato oscuro» della mobilità sanitaria e su cui non a caso indagherà il Patto per la salute in via di definizione tra governo e Regioni. Perché il fenomeno è la cartina di tornasole di un'Italia delle cure spaccata in due, dove troppo spesso si emigra in assenza di alternative valide nella propria realtà. E «in tempi di regionalismo differenziato – avvisa Cartabellotta – il report Gimbe non solo dimostra che il flusso di denaro scorre prevalentemente da Sud a Nord, ma che anche se la bozza di Patto per la Salute prevede misure per migliorare la governance, difficilmente la fuga in avanti delle tre Regioni che cumulano l'88% del saldo attivo potrà ridurre l'impatto di un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche».

Sei Regioni vantano crediti superiori a 200 milioni di euro (mobilità attiva): in testa Lombardia (25,5%) ed Emilia Romagna (12,6%) che insieme contribuiscono ad oltre 1/3 della mobilità attiva. Un ulteriore 29,2% viene attratto da Veneto (8,6%), Lazio (7,8%), Toscana (7,5%) e Piemonte (5,2%). Il rimanente 32,7% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre 15 Regioni, oltre che all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (217,4 milioni di euro) e all'Associazione dei Cavalieri di Malta (39,7 milioni).

Le 6 Regioni con maggiore indice di fuga (mobilità passiva) generano debiti per oltre 300 milioni: in testa Lazio (13,2%) e Campania (10,3%) che insieme contribuiscono a circa 1/4 della mobilità passiva; un ulteriore 28,5% riguarda Lombardia (7,9%), Puglia (7,4%), Calabria (6,7%), Sicilia (6,5%).

Il restante 48% si distribuisce nelle altre 15 Regioni. Le differenze Nord-Sud risultano più sfumate quando si guarda al passivo: gli indici di fuga, alti in quasi tutte le Regioni del Sud, sono rilevanti anche al Nord grazie alla facilità di spostamento dei cittadini. In Lombardia si arriva a -362,3 milioni di euro, in Piemonte a -284,9 milioni, in Emilia Romagna a -276 milioni, in Veneto a -256,6 milioni e in Toscana a -205,3 milioni.

Le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro sono tutte del Nord, quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte del Centro-Sud. In particolare: in Lombardia il saldo è pari a 784,1 milioni, in Emilia Romagna a 307,5 milioni, in Veneto a 143,1 milioni e in Toscana a 139,3 milioni. Saldo negativo rilevante per Puglia (-201,3 milioni di euro), Sicilia (-236,9 milioni), Lazio (-239,4 milioni), Calabria (-281,1 milioni), Campania (-318 milioni)

INIQUITÀ E MOBILITÀ SANITARIA. Ambrogio Carpentieri, Antonio Milici, Giuseppe (Josè) Galiero, Marcello Fulgione, Francesco Carbone, Antonio Marsiglia, Elio de Lorenzis, Pippo Satriano, Commissione Sanità ET-M24A, il 02.05.2020 su Movimento 24 Agosto. La mobilità sanitaria annuale dovuta a cittadini meridionali che vanno a curarsi al Nord ha spostato soprattutto nelle casse di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna 4,6miliardi di euro che vanno a sommarsi ai 4 miliardi di euro che annualmente sono sottratti al Sud per una iniqua distribuzione dei fondi. Di conseguenza, pur avendo una Sanità di eccellenza, le Regioni meridionali sono costrette ad offrire una assistenza in mancanza di 100.000 medici e operatori sanitari e nella situazione carente di 2 posti letto contro gli 8 posti letto per 1000 abitanti negli ospedali del Nord. Eppure i Centri di Eccellenza del Sud sono particolarmente attivi. Basti pensare agli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e privati come:

Oncologia: Istituto nazionale tumori Fondazione G. Pascale – Napoli

Gastroenterologia: Ente ospedaliero S. De Bellis – Castellana Grotte (BA)

Oncologia: Istituto Tumori Giovanni Paolo II - Bari

Oncologia: CROB Centro di riferimento oncologico della Basilicata – Rionero in Vulture (PZ)

Neuroscienze: Centro Neurolesi Bonino Pulejo – Messina

Neuroscienze: Istituto neurologico mediterraneo Neuromed – Pozzilli (IS)

Diagnostica: SDN Istituto di ricerca diagnostica e nucleare – Napoli

Genetica: Ospedale Casa sollievo della sofferenza – San Giovanni Rotondo (FG)

Insufficienze terminali d'organo: ISMETT Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione – Palermo

Ritardo mentale: Oasi di Maria santissima – Troina (EN)

In Italia esistono 49 Irccs di cui 21 pubblici e 28 privati. Solo 5+5 sono localizzati al Sud e nessuno in Sardegna, Abruzzo e Calabria. In tali casi è auspicabile un polo oculistico in Sardegna, un polo pediatrico in Calabria e un centro per le malattie immunitarie in Abruzzo. Da evidenziare anche la mancanza della Facoltà di Medicina e chirurgia presso la Università della Basilicata. Ma i centri di Eccellenza non si limitano agli Irccs trattandosi di Ospedali specializzati in grado di affrontare prestazioni ad alta complessità che richiedono sicurezza e realizzano una condizione favorevole all'efficacia dei risultati. Basti pensare per esempio al Monaldi ad indirizzo cardio-pneumologico o al Cotugno di Napoli ad indirizzo infettivologico o il DCA di Chiaromonte (PZ) per i disturbi del comportamento alimentare e del peso. Il concetto di EvidencedBasedMedicine oramai è surclassato dal ValueBM dove per Valore si intende non certo una entità astratta o una parola in codice per indicare tagli finanziari ma rappresenta l'unità di misura più concreta e innovativa per guidare le strategie organizzative e le politiche sanitarie del terzo millennio, perchè mette in relazione diretta i risultati ottenuti dall'assistenza sanitaria (efficacia, sicurezza) con le risorse utilizzate (efficienza). (Gimbe) La organizzazione sanitaria, secondo cui tali Centri dovrebbero lavorare con i Presidi ospedalieri della “periferia” fondamentali per la cura e assistenza in prossimità dei cittadini, è la modalità della rete articolata in hub e spoke. Le Reti nascono quando nei sistemi aumentano le interazioni e si aprono opportunità per rendere più conveniente la collaborazione rispetto alla competizione. Tale modello organizzativo si è reso indispensabile in sanità per la crescente complessità dei percorsi di cura che difficilmente possono trovare risposte in un'unica struttura. Favorisce un accesso equo e tempestivo del malato diffuso su tutto il territorio, concentra esperienze professionali e tecnologie nelle sedi opportune, migliora la circolazione del know how con il riconoscimento delle vere dalle false innovazioni, è in grado di monitorare la qualità delle prestazioni erogate, rende possibile al paziente una scelta informata e consapevole dei Centri di Riferimento. La iniquità sanitaria particolarmente vissuta al Sud, secondo quanto disse Francesco II partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861 al comandante Vincenzo Criscuolo: “Ai Napoletani non lasceranno neanche gli occhi per piangere”, va contrastata non in termini di profitto (che danni incommensurabili ha fatto al Nord) ma in termini di partecipazione alla creazione di salute.

LA SCHEDA O IL FUCILE. Di Salvatore Domenico Bevilacqua M24A Spagna. Pubblicato da Michele Di Pace il 02.05.2020 su Movimento 24 Agosto. Il 3 di aprile del 1964 davanti ad una folla ammutolita Malcom X incitava tutta la fratellanza afroamericana con il mítico discorso La scheda o il Fucile. Il fulcro dell’oratoria era una analisi sulla possibile rivolta della nazione negra e le conseguenze della stessa. Malcom X citava gli altri attivisti afroamericani e affermava che nonostante avessero differenze sostanziali nel come la comunità dovesse identificarsi nella società, il momento richiedeva unità . Non importa se siete colti o analfabeti, se abitate in zone eleganti o nel ghetto, siete anche voi in questo inferno, proprio come me. Siamo tutti nelle stesse condizioni e tutti dovremo vivere nello stesso inferno che ha organizzato per noi lo stesso uomo. Quell'uomo è il bianco e tutti noi abbiamo sofferto qui, in questo paese, l'oppressione politica, lo sfruttamento economico, la degradazione sociale ad opera dell'uomo bianco. Il dire queste cose non significa che siamo contro i bianchi come tali, ma contro lo sfruttamento, contro la degradazione e contro l'oppressione. (Malcom X) Esiste una incredibile analogia, nel 1964 il discorso veniva rivolto a una comunità di 22000000 di persone, tante quante siamo oggi noi TERRONI. Esiste un passaggio di quel mítico discorso che urlato oggi da un palco alla nostra platea calzerebbe a pennello: “A questo punto vorrei fermarmi per sottolineare una cosa. Cercate di capire che quando volete ottenere ciò che vi appartiene, chiunque vi privi di tale diritto è un criminale. Quando volete ottenere ciò che è vostro, siete nel pieno diritto di esigerlo e chiunque cerca di privarvene infrange la legge ed è un criminale.” (Malcom X). Oramai tutti sappiamo che lo stato ogni anno ci da meno di quello che ci spetta, ci toglie invece di darci, lo dicono quelli della SVIMEZ,EURISPES, giornalisti, ricercatori, attivisti, etc… ogni anno 65 miliardi di euro che ci servirebbero per i nostri figli, i nostri padri ci vengono tolti. La nostra terra viene volontariamente abbandonata per farcela abbandonare, ma noi siamo in tanti e loro lo sanno, siamo 22000000 di persone, tre volte il Portogallo, tanti come la Svezia, Danimarca e Norvegia assieme, 3 volte l’Olanda e non abbiamo neanche treni che ci uniscono in tempi decenti, strade che ci facciano incontrare e lo sapete perchè? Ci vogliono divisi!!!!! Uniti facciamo paura!!!! Sorelle e Fratelli meridionali il cambio è lento e alle volte doloroso per quelli che veramente lo cercano e per questo che in questo viaggio dobbiamo imbarcarci tutti assieme e cercare il valore e la forza nella compagna e compagno di fianco a noi. Quello che in cui possiamo fare unicamente affidamento è la nostra fratellanza ,la nostra nazione. Nessuno ci dirà mai che il viaggio sarà corto, lungo o doloroso, però sappiamo che il camino sarà illuminato, perché il popolo sarà la luce del camino. Per fare un popolo ci vuole il tempo e quello ne abbiamo di più che tanti altri, sono quasi 1000 anni che viviamo assieme. Per fare un popolo ci vuole il sangue e di sangue ne abbiamo versato tanto e oggi più che mai sappiamo che non fu invano. Il sangue è quello che ci vogliono togliere lentamente, separando figli dai padri, fratelli dalle sorelle, amici dagli amici ,amori dagli amori, perché il sangue serve da sfruttare in un'altra parte di questa penisola. Non si tratta più di una lotta di classe, non si tratta più di rivendicare diritti social, si tratta di una oppressione ad un intero popolo, il nostro. Catalani, Baschi, Scozzesi riescono ad ottenere risultati nelle lotte ai propri diritti sociali, perché? Perchè lo rivendicano come popolo ,lo rivendicano tutti assieme. Dobbiamo finalmente capire che assieme siamo un popolo ,separati siamo la regione più povera d'Europa, assieme siamo 22000000 di persone, soli siamo povera gente. Salvatore Domenico Bevilacqua M24A Spagna

Coronavirus, Feltri: «Santelli dice che se non si riapre arriva la 'ndrangheta? Non se ne è mai andata». Il Quotidiano del Sud il 2 maggio 2020. Lo scorso giovedì 30 aprile la governatrice della Calabria Jole Santelli aveva sottolineato in collegamento con “La Vita in diretta” su Rai 1 la necessità di partire al più presto con la fase 2, per scongiurare un’avanzata della criminalità organizzata. Una difesa della discussa ordinanza firmata qualche ora prima), in netto contrasto con le disposizioni del governo nazionale sul contenimento del contagio da coronavirus. Tra le reazioni si registra quella di Vittorio Feltri, che ha commentato così su Twitter le parole della presidente di Regione: Jole Santelli, governatrice della Calabria avverte: “se restiamo fermi arriva la ‘Ndrangheta”. Non si preoccupi: é già arrivata, anzi non se ne è mai andata. 10:49 - 2 mag 2020. Risale a pochi giorni fa la polemica che ha visto protagonista il giornalista lombardo a causa delle sue parole contro i meridionali che scatenarono la reazione indignata di tanti cittadini calabresi.

CARO FELTRI, TI RACCONTO LA NOSTRA STORIA E TI INVITO IN CALABRIA PER DIMOSTRARTI CHI È DAVVERO INFERIORE. Di Francesco Patrizio Lapietra. Pubblicato da Raffaele Vescera il 30.04.2020 su Movimento 24 Agosto. Dopo aver sentito le ignobili e gratuite offese al popolo meridionale, non me la sono sentita a far finta di nulla e tacere. È d’obbligo mettere mano alla tastiera del pc e urlare tutta la mia indignazione quando, per la ennesima volta, Vittorio Feltri si permettere di offendere il mio popolo. Andando ai fatti, il giornalista Feltri, ospite della trasmissione televisiva su Rete 4 Fuori dal coro, dopo aver prima rinfacciato che 14mila malati oncologici campani vengono curati in Lombardia, si lancia in una esternazione lombrosiana dicendo che «i meridionali, in molti casi, sono inferiori a quelli del nord», il tutto alla presenza di un giornalista, Mario Giordano, a tratti compiacente, che con il sorriso sulle labbra si è solo limitato ad accennare un minimo di rimprovero di circostanza al suo collega. Feltri, non pago di quanto avesse detto, quando Giordano gli rammenta che qualche meridionale avrebbe potuto prendersela a male per le espressioni utilizzate, questi infierisce dicendo «chi se ne frega». Mi sono domandato se fosse stato giusto adottare indifferenza nei confronti dell’offesa perpetrata ai danni di noi meridionali in diretta nazionale. La risposta che mi sono data è che non si può e non si deve più chinare il capo. Il sottoscritto è un meridionale, fiero ed orgoglioso di esserlo, il quale ha studiato e si è formato nella sua terra superando le difficoltà, non poche, che ogni giorno ci vengono dal nostro Sud depauperato e umiliato. Premesso che, come ho detto tante altre volte, il Sud oggi è impoverito dalla criminalità organizzata e dalla mala gestione politica che va di pari passo con il malaffare, è altrettanto doveroso non dimenticare chi siamo stati, cosa abbiamo fatto e capire il perché della arretratezza odierna.

CHI SONO DAVVERO I MERIDIONALI. Visto che il Feltri è molto perspicace nel capire le cose, vorrei ricordargli quando e quanto i meridionali erano inferiori. Un tempo, se non vado errato su taluni testi è riportato che, esisteva una certa Magna Graecia, culla di cultura filosofica, arte, letteratura, scienza medica. Nell’attuale zona del Catanzarese, pare vi fosse una popolazione denominata “italioti” e che, da questi derivi il nome della nostra penisola. Nell’attuale Crotone (Kroton) si dice che predicasse un certo Pitagora, dicono che sia stato un matematico e un filosofo scopritore di alcune cose che ancora oggi sono utili alla umanità. Alcuni hanno, tra l’altro, l’ardire di dire che i l’Impero Romano conquistò la Grecia (e la Magna Graecia) con la forza delle armi ma, Roma – popolo di guerrieri e pastori – imparò e trasfuse a sé tutto dalla cultura greca. La Democrazia, quella nata da Pericle in avanti, è frutto della inferiorità delle popolazioni meridionali della Magna Grecia. Per arrivare ad una storia un po’ meno remota, il nostro popolo era assai inferiore, arretrato, povero ed incolto.

Ecco, allora, quanto noi terroni eravamo inferiori, su alcune cose: prima cattedra di astronomia in Italia (1735), prima cattedra di economia al mondo; primo cimitero in Italia per inumare i poveri (1763); primo codice marittimo al modo (1781); primo intervento di profilassi anti tubercolosi in Italia (1782); prima assegnazione di case popolari in Italia (1789- San leuco, Caserta); prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (1789); prima scuola di ballo in Italia (1812); primo istituto per sordomuti in Italia (1835); primo tratto ferroviario in Italia (1839- Napoli, Portici); Napoli prima illuminazione a gas in una città italiana, terza in Europa dopo Londra e Parigi (1839); prima fabbrica metalmeccanica in Italia per numero di assunti (1839 Pietrarsa); primo centro sismologico in Italia (1840) e primo sismografo (1856); primo telegrafo elettrico (1852); prima luce elettrica (1852 Capodimonte); più grande industria navale in Italia (1860); prima della unificazione il mezzogiorno era il primo in Italia per numero di orfanotrofi e ospizi, collegi, centri di formazione, conservatori musicali, nel 1860 il sud varò il primo piano regolatore in Italia e, Napoli fu la prima città al mondo a portare l’acqua corrente nelle case; Mongiana, in Calabria, era il primo complesso siderurgico in Italia; nel 1860 si aveva ala più alta percentuale di medici per numero di abitanti e il più basso tasso di analfabetismo , mortalità infantile in Italia, indici di benessere e di sviluppo.

Ragionando in termini economici, il sud aveva la migliore finanza pubblica in Italia, con la più alta rendita dei titolo di Stato pari al 120% (1860 Borsa di Parigi) e, il minor carico tributario erariale in Europa.

Non dobbiamo dimenticarci che il meridione, all’atto dell’annessione possedeva il 65,7% di tutte le monete circolanti in Italia, più di tutti gli altri Stati pre unitari messi insieme (fonte tratta dal saggio “Nord e Sud” di Francesco Saverio Nitti).

Premesso che in alcun modo deve essere messa in discussione l’Unità della nostra Nazione, non si può e non si deve infangare il meridione con aggettivi non degni di un paese civile.

La storia chi ha consegnato pensieri abominevoli che per forza di cose ci hanno resi volutamente, inferiori, basti pensare a quanto affermato da Carlo Bombrini (Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882) il quale asserì che «i meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Una ferita altrettanto indimenticabile fu quanto detto dal Generale e Senatore del Regno Enrico Cialdini, che con impavido disprezzo cosi affermò:«Li voglio tutti morti! questi terroni sono tutti africani e contadini. A morte i nemici del Piemonte, dei Savoia, dei Bersaglieri e del mondo intero. Non vogliamo testimoni, diremo che sono stati briganti».

ANCHE IN QUESTO PERIODO DI PANDEMIA dal meridione, è iniziata la sperimentazione del farmaco anti artrite contro la polmonite da Covid-19 che, ha prodotto ottimi risultati ed è stato inserito nei protocolli farmaceutici. A dare inizio a questa sperimentazione è stato l’acume e la scienza del Dottore Paolo Ascierto, direttore dell’unità di oncologia e terapie innovative dell’istituto tumori Pascale di Napoli. Il Dottore Ascierto dopo i primi interventi in lacune dirette televisive per la sua scoperta che ha salvato, certamente, molte vite, ora i media di “regime” non ne fanno più accenno.

POSSIBILE DANNO ALL’ORDINE DEI GIORNALISTI. Ritornando al caso Feltri, pare che nelle ultime ore il presidente dell’ordine dei giornalisti abbia deciso di procedere legalmente contro questi per valutare il danno di immagine all’Ordine stesso. Pare, che lo stesso Ordine stia puntando il dito anche contro Giordano, puntualizzando che questi avesse l’obbligo di intervenire nel momento dello sproloquio riprendendo Feltri. Sembra che anche il presidente dell’ordine della Lombardia, voglia trasmettere al consiglio di disciplina quanto accaduto. Nei prossimi giorni sapremo cosa succederà, professionalmente, a Feltri. Immediata, invece, è stata la reazione di molti edicolanti del sud che hanno deciso di non vendere il giornale Libero diretto da Feltri, in alcuni casi le edicole hanno affisso delle vere e proprie locandine in cui si dice che i meridionali essendo inferiori non sono in grado di comprendere gli articoli contenenti nello stesso giornale. Noi giovani generazioni, siamo consci della nostra storia, di cui ne andiamo orgogliosi perché, chi non conosce il proprio passato e non ne fa tesoro non potrà mai capire il presente ed il futuro. Nessuno deve arrogarsi il diritto di reputarci inferiori perché non lo siamo mai stati e né mai lo saremo. Siamo solo consapevoli di una cosa, che alcune, pochissime, menti del Nord che, purtroppo, godono di una penna e di una cassa di risonanza ignorando la storia del loro Paese infangano ed offendono gli altri. Se c’è qualcuno che è in debito con qualcun’altro, di certo quel qualcuno non siamo noi meridionali perché, abbiamo pagato (24 milioni di emigrati) e paghiamo (80mila nuove emigrazioni l’anno di laureati) un prezzo salatissimo. Sono del parere che alle offese si risponde con gentilezza e con la propria storia.

LA STORIA DEVE ESSERE MAESTRA DI VITA per non ricadere in errore, in questo caso, noi meridionali non dimenticheremo mai da dove proveniamo e chi erano i nostri avi. Sarò lieto, dopo aver chiesto venia (ovviamente), di invitare personalmente il Dottore Feltri a far visita alla nostra Calabria cosi da potersi rendere conto chi tra lui e la storia, la cultura, l’arte del mezzogiorno sia realmente l’inferiore…in molti casi.

Dichiarazioni Feltri, Wanda Ferro: “Tra delirio e falso storico”. I due pazienti di Bergamo guariti a Catanzaro sono stati un momento di commozione e verità. Redazione catanzaroinforma.it il 22 Aprile 2020. «Le considerazioni di Vittorio Feltri sulla presunta inferiorità dei meridionali non meritano commento, tanto sono stupide e deliranti, così come le farneticazioni secondo cui qualcuno avrebbe gioito per l’ecatombe causata dal coronavirus in Lombardia. Non è neppure il caso di ribadire quante siano le eccellenze calabresi – e meridionali – nei più svariati campi delle professioni, della cultura, delle arti, della ricerca, del giornalismo: non abbiamo complessi di inferiorità che ci spingono a rivendicare il riconoscimento del nostro valore». E’ quanto afferma il deputato di Fratelli d’Italia Wanda Ferro, che prosegue: «Meritano invece una replica, anche perché rappresentano una narrazione molto diffusa, le considerazioni secondo le quali i meridionali scelgono di curarsi nelle strutture sanitarie del Nord perché più “rassicuranti”, come dice Feltri, o comunque più valide o efficienti. Questo è solo un racconto parziale della realtà, perché è vero che molti pazienti calabresi, ad esempio, sono costretti a rivolgersi alle strutture del nord per farsi curare, ma questo non avviene certo per la mancanza di medici di grande competenza e professionalità – sanno tutti che moltissimi dei luminari che guidano le strutture di eccellenza del nord sono meridionali – o per  la situazione disastrata di alcune strutture sanitarie depredate dalle inefficienze, dal malaffare e dalla ‘ndrangheta, che continuano ad arricchire giustamente i reportage televisivi. Ma anche quella è solo una parte della realtà, perché in Calabria ci sono tantissime strutture d’eccellenza, nella sanità pubblica e in quella privata, con dotazioni strutturali efficienti, a volte all’avanguardia, e che soprattutto possono contare su risorse professionali di straordinario valore. La guarigione dal coronavirus di due pazienti lombardi curati a Catanzaro è stato un momento emozionante, ma in fondo solo una delle infinite pagine di buona sanità che i medici e gli operatori sanitari che hanno scelto di restare in Calabria continuano a scrivere ogni giorno, anche operando in condizioni difficili. Il vero problema  è proprio il circolo vizioso dell’emigrazione sanitaria, che sottrae al Sud risorse che potrebbero essere investite nel potenziamento delle strutture, e che invece continua a ingrossare i bilanci delle regioni del Nord con risorse che vengono così investite nei sistemi sanitari che continueranno così a richiamare pazienti meridionali e così via. Il bisogno di salute del Sud, quindi, è usato come un bancomat dalle regioni settentrionali, che per decenni hanno costruito e retto i propri sistemi di eccellenza proprio sulla mobilità sanitaria interregionale. Che la sanità meridionale non sia capace di dare cure di elevato livello è un falso storico, un racconto che serve proprio ad alimentare il sentimento di sfiducia nei cittadini, che si trasforma in un fiume di risorse che in maniera ormai strutturale passa da Sud a Nord, depauperando i sistemi sanitari delle regioni meridionali per consentire a quelli settentrionali di dotarsi delle strutture a cinque stelle di cui parla Feltri. E’ giusto raccontare il marcio che si annida in tanti gangli della sanità meridionale, ma è giusto dire che quella è solo una parte del racconto, e non può essere il pretesto per sfuggire alla responsabilità dei governi nazionali dopo anni di tagli alle risorse e commissariamenti che non hanno raggiunto l’obiettivo di migliorare i livelli di assistenza, e soprattutto per sottrarsi al dovere di destinare al Sud gli stessi investimenti che vengono da sempre indirizzati, copiosi, al Nord. Per fare della sanità meridionale una realtà “rassicurante” e spezzare finalmente la catena della migrazione sanitaria».

Non è l'Arena, le Sardine contro Massimo Giletti: "Trasmissione contro il Sud e in difesa della Lombardia". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Le Sardine sono sempre ben liete di comparire in tv - soprattutto in un periodo in cui sono irrilevanti politicamente - non importa che sia una puntata di Amici di Maria De Filippi o di Non è l’arena. Alla trasmissione della domenica sera di La7 ha preso parte Jasmine Cristallo, una delle esponenti di punta del movimento ittico, che però non è parso molto grato a Massimo Giletti per l'ospitata in prima serata. “Non avremmo voluto essere interrotti su Tina Anselmi - frignano le Sardine sui social - partigiana e primo ministro donna che sulla sanità molto ha fatto. Né avremmo voluto ascoltare una trasmissione contro gli ospedali del Sud, tacendo invece le responsabilità della Lombardia. Ma questo è Giletti”. La prossima volta allora i pesciolini possono gentilmente declinare l’invito, se non aggrada loro la discussione prevista in trasmissione. 

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio. Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Nunzia De Girolamo a Non è l'arena: "Se metti le mani nella sanità muori. Calci nel sedere a chi non sa usare i soldi". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. "Se ci metti le mani, muori". Nunzia De Girolamo è drastica: a Non è l'Arena da Massimo Giletti si para ancora di sanità al Sud e l'ex ministra puntualizza: "Si tratta di un settore pieno di interessi, non trasparente. Se parli, vieni punito e quando fai inchiesta improvvisamente si svegliano". Poi però il Sud non ha preso il 34% degli investimenti pubblici, ha preso il 24% per anni, quando non il 19%, e questo è un altro discorso, "Ma come fai a chiedere più soldi se li sprechi o li rubi?", le chiede Alessandro Cecchi Paone, in collegamento video. "No, i soldi devono arrivare perché i cittadini non possono pagare per la loro classe dirigente. E chi non li sa usare va preso a calci nel sedere".

Sanità in Puglia, lo scandalo dell'Ospedale di Mottola. La7 30/03/2020. Nell'Italia in emergenza per il Coronavirus a Mottola, vicino Taranto, c'è un Ospedale nuovo che è praticamente chiuso. Danilo Lupo è andato a scoprirlo. Giampiero Barulli, il Sindaco di Mottola: "E' una vergogna italiana!".

Tgnobaonline 31-03-2020. Ospedale di Mottola attaccato da La 7, ma la Asl svela falso scoop. Un ospedale nuovissimo, chiuso e inutilizzato per l’emergenza coronavirus, parliamo dell’Umberto primo di Mottola finito nel tritacarne mediatico

Servizio di Francesco Iato.  Riprese e montaggio di Pasquale D'Attoma. Intervista a Stefano Rossi, direttore generale Asl Taranto.

Giletti fa il giustiziere fazioso e getta ancora fango sul sud. Claudio Marincola il 31 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. Chi lo conosce lo evita. Ma se proprio non ci riuscite e incappate nel suo programma fatelo proteggendovi, tipo mascherina, e comunque a vostro rischio e pericolo. Lui è Massimo Giletti, già da tempo caparbio testimone di sé stesso, ostinato Torquemada da salotto. Il suo programma si chiama “Non è L’Arena” e va in onda la domenica sera su La7, un clone rivisitato e corretto del vecchio format targato Rai. In questi giorni in cui le tv di casa si surriscaldano con facilità, anche lui, Giletti, è salito di qualche decibel. Il suo pezzo forte sono le “inchieste” sul Sud, un Sud che dipinge sempre allo stesso modo. Terra di malaffare, ‘ndrangheta, camorra, mafia. Insomma, tutte queste cose che sappiamo benissimo anche da soli e che vorremmo estirpare sia nel Mezzogiorno che altrove. Più le immagini si fanno crude, più la sua espressione rivela sofferenza, patimento. E sì, il Sud gli procura un consumo di succhi gastrici sempre molto elevato. Anche in queste ore drammatiche in cui Il Nord, compreso il suo Piemonte, gli offrirebbe materiale in abbondanza, Giletti si esibisce nella specialità della casa. Puntare i riflettori sul Mezzogiorno. Prima mette le mani avanti, «lo faccio con lo spirito di chi fa servizio pubblico». Un talk style alla Funari ma senza le sue battute tranchant: l’indice puntato, la giustizia sommaria che si compie in favore di telecamera, capo d’accusa, sentenza, condanna per direttissima. Un metodo intriso di grillo-leghismo che lasciò perplessi anche i vertici di viale Mazzini, che infatti lo fecero fuori. Uno che tratta più o meno tutti con il bazooka, Giletti. Non se la prenderà dunque se per una volta gli ricambiamo il trattamento. Non dopo aver chiarito, però, qualora ve ne fosse bisogno, che noi, più di lui, abbiamo in grande considerazione il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Ma sappiamo anche che il patto di sangue della criminalità organizzata da tempo ha stretto vincoli ovunque. Che la versione stracciona, casereccia, da fenomeno tipico dell’arretratezza e della monocultura da faida, è una narrazione che non sta più in piedi. I continui arresti di camorristi e mafiosi in Lombardia, Piemonte, Veneto, e di recente anche in Val d’Aosta, descrivono qualcosa di molto più ampio e tentacolare del vecchio focolaio e della scoppola. Ma torniamo al suo programma tv. Eccolo allora mostrarci, come se fosse il video del secolo, le immagini dell’Umberto I, a Mottola, una struttura post Codiv-19 in provincia di Taranto. Per i giornalisti locali, cioè per chi conosce tutta la storia dell’ospedale, è un evergreen. Un’opera compiuta a metà, finanziamenti a singhiozzo, lungaggini, etc., etc., un dejà vu. Risultato: corridoi deserti, reparti vuoti, fili che pendono dalle pareti. In tempi in cui nella Bergamasca e nel Bresciano si allestiscono tende all’esterno degli ospedali è un pugno allo stomaco. Da qui l’indignazione degli ospiti della trasmissione, e tra questi del vice e ministro alla Sanità Pierpaolo Sileri che si limita ad annuire. Prima ancora del servizio sull’ospedale di Mottola era andata in onda un’intervista al sindaco di Messina, Cateno De Luca, entrato in rotta di collisione con il ministro dell’Interno Lamorgese per aver cercato di bloccare lo sbarco dai traghetti sullo Stretto. Ma lo sguardo sul Mezzogiorno resta lo stesso, idem per i veri o presunti assenteisti di Crotone. Cosa avrebbe fatto il servizio pubblico, caro a Giletti? Per fare informazione e non disinformatio, si poteva forse ricordare in che modo il Sud è stato ridotto: investimenti passati da 3,4 miliardi del 2010 a 1,4 del 2017, un terzo delle risorse destinate al Nord. Con gli stessi tagli in Lombardia o in Veneto immaginate che le cose sarebbero andate diversamente? Altro che Mottola! Si poteva ricordare che il maggior contributo al deficit sanitario, fonte Corte dei conti, viene da Piemonte, Liguria e Toscana. Qualcuno insomma dica a Giletti, e a beneficio di chi facendo zapping, finisse su quelle frequenze, che gli investimenti pubblici in sanità hanno creato squilibri e disuguaglianza forse ormai irrecuperabili. La spesa per ogni cittadino calabrese è pari a 15,9 euro pro-capite. In Emilia-Romagna è di 89,4 euro. Lombardia 40,8; Veneto 61,3; Marche 48,8%; Umbria 34,9; Valle d’Aosta 89,4, Bolzano 183,8, Trento 116,2, Liguria 43,9 e Piemonte,44,1. Tre volte la Calabria, il doppio della Campania, 22,6 e del Lazio.

Si fa a cambio? No. Lo scandalo sono i 28 traghettati da Villa San Giovanni a Messina. Possibili untori. Ma non si parla dei 4,5 milioni di persone che secondo il governatore della Lombardia, Attilio Fontana dal 10 marzo, giorno del primo decreto, si sarebbero diretti al Sud e in altre zone del Paese. Magari si poteva ricordare che a Catanzaro è stato trasportato dal Nord un paziente in terapia intensiva. E che la stessa cosa è avvenuta in Molise. Che 550 sanitari sono partiti per il fronte. Che nonostante la disparità di dotazioni tra regioni Puglia e Calabria hanno lasciato la porta aperta. Che la mobilità in uscita degli ammalati oncologici del Sud è diventata l’unica possibilità di farsi operare in tempi più o meno rapidi e che ora, data l’emergenza, chi ha il cancro se lo tiene. Il graduale depotenziamento ha messo alle corde il sistema sanitario pubblico del Mezzogiorno. Vogliamo dirlo, caro Giletti? Certo, è difficile. Specie se gli ospiti sono il leader del Carroccio Matteo Salvini. O Vittorio Sgarbi, un critico d’arte di valore che si accapiglia con un virologo. O la sua ex Alessandra Moretti e Flavio Briatore, collegato dal suo resort a Malindi. Quando si dice un servizio pubblico senza frontiere.

Numeri. Caro Giletti, così ci siamo. Roberto Napoletano il 6 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Bravo Giletti, il suo viaggio nel Sud a Non è l’Arena questa volta ci è piaciuto. Ai nostri occhi si è riscattato perché ha coperto con onestà il buco nero informativo della sua trasmissione che questo giornale ha denunciato perché insopportabile. Che a un cittadino calabrese lo Stato italiano elargisca 15,9 euro per investimenti in attrezzature sanitarie contro gli 89,9 che riceve un cittadino della Valle d’Aosta è uno scandalo morale, prima ancora che economico, perché lede i diritti di cittadinanza inviolabili della Repubblica italiana. A prescindere dal fatto, sia chiaro, che gli amministratori della Valle d’Aosta si sono dimessi perché indagati per associazione politico elettorale mafiosa e che il Comune di Saint Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta. Giletti ha mostrato le tabelle del Quotidiano del Sud che sono poi quelle dei Conti Pubblici Territoriali e ha detto con assoluta chiarezza che il capitolo degli investimenti sanitari dopo lo tsunami Coronavirus dovrà essere riscritto perché non equo. Non era scontato. Queste parole gli fanno onore e sono quelle che avremmo voluto sentire già due domeniche fa. Ogni volta che il conduttore di Non è l’Arena denuncerà gli sprechi e il malaffare calabrese nella sanità pubblica e privata ci avrà sempre al suo fianco. Perché questo giornale, come ho scritto la settimana scorsa, non ha e non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi pubblici e al coacervo di interessi massonici e amministrativi che a volte hanno spartito con essa il bottino e a volte ne hanno bloccato l’impiego per calcoli inverecondi. Questa vergogna deve essere esplorata e denunciata senza riguardi per nessuno perché la sanità è un bene pubblico e le vittime sono le donne e gli uomini del Mezzogiorno. Saremo sempre in prima linea nel sostenere a tutto campo l’azione di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori dall’Italia, e non ci stancheremo mai di ringraziarlo. C’è un punto rimasto in sospeso che aiuta a capire come sono andate davvero le cose, caro Giletti. È vero che i commissariamenti delle regioni del Sud hanno comportato un taglio dei trasferimenti per colpe loro, come hai opportunamente sottolineato, ma sono scattati per bilanci regionali in rosso per importi rilevanti che non hanno però paragone con quanto prima, durante e dopo è stato tolto alle stesse regioni del Sud per regalarlo alle regioni del Nord. Dal 2000 al 2017 su 47 miliardi di investimenti complessivi 27,4 sono andati al Nord, poco più di un terzo al Sud (10,5). Per la sanità italiana, un cittadino della Calabria ha ricevuto cinque volte di meno di un cittadino emiliano-romagnolo. A seguito dei giusti commissariamenti frutto di sprechi e inefficienze le Regioni del Mezzogiorno taglieggiate pesantemente per quasi un ventennio nella distribuzione delle risorse pubbliche hanno dovuto mandare a casa un altro 10% di personale. Ho scritto la Grande Balla perché questa ineludibile operazione verità che riguarda la sanità come la scuola, gli asili nido come i treni veloci, fosse chiara a tutti. Questa distorsione incostituzionale della spesa pubblica è tra l’altro all’origine dell’abnorme crescita della rendita sanitaria privata lombarda a discapito degli ospedali pubblici lombardi e del Mezzogiorno. Ogni battaglia sacrosanta di moralizzazione e di ricostruzione economica e sociale del Paese può partire solo da questi numeri. Che parlano perché hanno un cuore e un’anima. 

VERGOGNA. Questo giornale sostiene l’azione a tutto campo di un grande uomo di Stato come Gratteri contro il malaffare in Calabria, in Italia e fuori dall’Italia ma denuncia un racconto sul Sud che nasconde il taglieggiamento degli investimenti pubblici per la sanità. Al Mezzogiorno va un terzo rispetto al Nord e lo Stato spende per  un calabrese 15,9 euro e per un valdostano 89,9 euro. Robero Napoletano il 30 marzo 2020 su Il Quotidiano del Sud. DAL 2000 al 2017 ogni cittadino calabrese ha ricevuto pro capite 15,9 euro per investimenti fissi in sanità dal bilancio della Repubblica italiana. Ogni cittadino piemontese tre volte tanto (44,1), chi è nato in Emilia-Romagna cinque volte di più (84,4), ai cittadini veneti la dote personale (61,3) è pari a quattro volte la spesa pubblica attribuita a un abitante di Vibo Valentia o di Reggio Calabria. Campani e pugliesi si devono accontentare della metà esatta di quanto ricevono i lombardi e di un terzo di quello che incassano i veneti. Al colmo dell’equità in Valle d’Aosta dove il Governatore si è dimesso perché indagato per scambio elettorale politico mafioso e il Comune di Saint-Pierre è stato sciolto per ‘Ndrangheta ogni cittadino riceve 89,9 euro: i suoi diritti di cittadinanza sanitaria pubblica sono di quasi sei volte superiori a quelli dei concittadini calabresi e valgono quattro volte di più di quelli dei suoi concittadini campani e pugliesi. Questo certificano i Conti Pubblici Territoriali della Repubblica italiana voluti da Carlo Azeglio Ciampi per cercare almeno di capire a che cosa avrebbe condotto, anno dopo anno, la scelta di abolire il servizio sanitario nazionale e la nascita dei venti staterelli in guerra tra di loro chiamati Regioni. Che cosa si intende, mi chiederete, quando si parla di investimenti fissi in sanità? Per capirci, sono attrezzature scientifiche e sanitarie, macchinari, respiratori, posti letto di terapia intensiva, unità ospedaliere pubbliche. Tutto ciò che abbiamo scoperto mancare drammaticamente come dimostra l’ecatombe di vite umane da Coronavirus di questi giorni. Ci permettiamo, altresì, di ricordare che, parola della Corte dei Conti, il peggioramento dei conti della sanità pubblica italiana è interamente attribuibile a Regioni a statuto ordinario del Nord, a partire dal Piemonte. Scusate se sono andato lungo, ma era solo per esprimervi compiutamente il senso di ribrezzo che ha determinato in me assistere a un’ora e mezza di processo televisivo alla sanità del Mezzogiorno, ai suoi medici, ai suoi ospedali (Non è l’Arena di Massimo Giletti, La7) senza che si desse conto mai di uno solo dei numeri del taglieggiamento dei fondi per gli ospedali pubblici del Sud a favore dei prenditori della rendita sanitaria privata del Nord. Questo giornale non avrà mai nessuna indulgenza di fronte alla peggiore classe politica meridionale che ha lucrato sui fondi della sanità pubblica e al coacervo di interessi criminali, massonici e amministrativi a essa collegati ed è in prima linea nel sostenere l’azione a tutto campo di un grande uomo di Stato come Gratteri che sta alzando il coperchio più nauseabondo del malaffare in Calabria, in tutta Italia e fuori Italia (grazie Procuratore), ma non può nascondere il sentimento di vergogna per un racconto omissivo che appartiene a uno scenario scolastico di informazione leggerissima già mal digeribile nei tempi di pace. Non si rinuncia al più becero sensazionalismo saltellando sulle macerie italiane. La grande guerra è cominciata, ma ci sono alcuni “colonnelli della politica” e i loro “portavoce” che non hanno capito niente. Giocano alla guerra senza sapere che siamo in guerra per davvero non per finta. Sono i padroni delle telerisse. Non hanno rispetto nemmeno dei morti. Sono accecati da loro stessi, l’ego sconfinato del nulla. Dio ce ne scampi.

Dall’estero elogi al Cotugno: “E’ l’ospedale migliore d’Italia contro il coronavirus”. Redazione de Il Riformista il 1 Aprile 2020. E’ il Cotugno l’ospedale modello in Italia per la lotta al coronavirus. L’elogio arriva dalla stampa inglese e nello specifico da Sky News britannico che in un lungo e dettagliato servizio sull’emergenza pandemia covid-19 sottolinea il duro lavoro di tutto il personale sanitario dell’ospedale che rientra nell’azienda dei Colli insieme al Mondali e al Cto. “Questo ospedale è un’eccezione nel sud del paese” spiega l’inviato Stuart Ramsay, l’unico dove non ci sono medici e infermieri contagiati. “Mentre il diffondersi dell’epidemia ha colto tutti di sorpresa nel nord e il personale medico si è trovato senza protezioni, le cose in questo ospedale sono andate diversamente. Siamo stati portati, completamente vestiti di tute e occhiali di protezione, in una delle loro Unità Intensive. Qui siamo ad un livello completamente differente rispetto a tutto quanto visto finora”. Sky News spiega come nel “nord Italia in centinaia del personale sanitario si sono ammalati combattendo la pandemia del coronavirus e dozzine hanno perso la vita”. Al sud invece hanno avuto tempo per prepararsi. Il Cotugno, che ora tratta solo pazienti malati di covid-19, “era già il più avanzato, ma adesso ci rendiamo conto che tenere al sicuro il personale sanitario è possibile. Quello che ci dicono è che tutti e nessuno si possono infettare, non solo gli anziani. Ci sono molti giovani pazienti giovani in trattamento ed è interessante notare che i più colpiti sono della classe sociale media. Chiedo perché? La risposta è ovvia: lavorano. Quello che ci preme sottolineare è che le severe regole di separazione tra materiale infetto e pulito vengono seguite da tutti, ma le guardie di sicurezza nei corridoi di connessione lo ricordano in caso qualcuno lo dimentichi”. E poi ancora: “Le guardie di sicurezza sorvegliano i corridoi. Entrando, passiamo sotto un macchinario di disinfezione che sembra lo scanner di un aeroporto, ma che ti pulisce completamente. Lo staff che assiste i pazienti indossa maschere super avanzate simili a maschere antigas diverse da quelle normalmente indossate negli altri ospedali. Sono rivestiti da una tuta ermetica che fa in modo che medici ed infermieri siano davvero isolati. Incredibilmente, almeno per ora, nessun membro dello staff si è infettato, sembra che quindi questo sia possibile, basta avere le giuste forniture e seguire i giusti protocolli”. Protocolli rispettati anche nell’assistere i pazienti: “Avvertiamo un improvviso cambiamento. Un infermiere ci passa disperatamente veloce accanto con una siringa, Un paziente all’interno di una camera è improvvisamente peggiorato. Possiamo vedere che prepara un’iniezione fuori dalla stanza del trattamento. Non entra mai nella stanza ma comunica attraverso una finestra collegata col paziente. Questi non escono mai dalle loro stanze durante la crisi, e questo è uno. Quando è pronta, la medicina passa attraverso una porta a compartimento. Ricordate: non è mai entrato nella camera, non ha toccato niente e nessuno, ma immediatamente si toglie guanti e camice. l’attenzione ai dettagli è costante”.

La napoletana Myrta Merlino: “E’ incredibile, non mi sarei mai aspettata un’eccellenza come il Cotugno” . Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. La conduttrice de “L’aria che tira” su La7 si è lasciata andare a una considerazione infelice sull’eccellenza dell’ospedale Cotugno, rimarcata la scorsa settimana anche da Sky News britannico. Nel corso della trasmissione andata in onda questa mattina, martedì 7 aprile, la Merlino, durante un collegamento con il direttore del giornale Alessandro Sallusti si è lasciata andare a una dichiarazione del genere: “Poi a Napoli… per me è incredibile, non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli… la storia del Cotugno napoletano ci ha tutti sorpresi”. Il solito luogo comune arriva al termine di un discorso sull’impreparazione degli ospedali della Lombardia, messi in ginocchio dal boom di contagi di coronavirus, compresi medici e infermieri. “Il vero tema – ha argomentato la Merlino – è questo: quando il Covid-19 arriva, un ospedale deve avere la capacità di creare una sorta di chiusura ermetica. Questo è mancato in una fase iniziale. E’ anche il motivo per cui a Napoli, invece… Ecco, per me è incredibile: non ci aspettavamo mai che l’eccellenza arrivasse da Napoli, ma la storia del Cotugno ci ha sorpreso, perché hanno creato una situazione quasi da astronave rispetto all’elemento Covid”.

Pandemia di coronavirus, se le eccellenze le trovi nella sanità del sud. L’equipe del professor Paolo Ascierto (al centro) dell’Istituto Pascale di Napoli, il primo a sperimentare l’efficacia di un farmaco anti-artritico contro il Covid-19. Carlo Porcaro il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Lo storytelling del Coronavirus svela un’Italia rovesciata. Le storie crude, dai reparti Covid degli ospedali, raccontano la caduta contemporanea di due miti: il primato della sanità lombarda, l’inefficienza di quella meridionale. È stato il Sud ad aiutare il Nord, a praticare con i fatti quella solidarietà nazionale tanto auspicata dal Quirinale in questa drammatica emergenza. Tre le ragioni sostanziali di questo capovolgimento destinato a riscrivere gli equilibri geopolitici e le relative narrazioni: il vantaggio di essersi organizzati per tempo in attesa dello tsunami; le straordinarie eccellenze mediche presenti in molte strutture del Mezzogiorno; il rispetto del divieto di uscire di casa da parte della maggioranza dei cittadini. I numeri parlano chiaro, andrebbero forse scanditi ad alta voce: su circa 17mila morti, il Sud isole comprese ne ha fatti registrare 850 vale a dire appena il 5 per cento; i contagiati a livello nazionale sono oltre i 95mila, ma da Roma in giù (insieme a Sicilia e Sardegna) se ne sono contati circa 10mila il che significa poco più del 10 per cento del totale. Il sistema, seppur con meno risorse e mezzi della parte settentrionale del Paese, non solo ha retto ma si è persino distinto. Allungando la mano a chi soffriva ed aveva bisogno di aiuto immediato. Tanti i casi da citare, a dimostrazione che non conta la provenienza geografica quanto la qualità associata alla passione.

IL CASO. In queste settimane la Cross, Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario per il coordinamento dei soccorsi sanitari urgenti, ha attivato la rete tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud. Ieri, per fare un primo esempio, è uscito dalla rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo uno dei due bergamaschi che erano stati trasportati a Palermo in aereo nei giorni scorsi per mancanza dei posti in terapia intensiva al nord; l’altro paziente arrivato dalla città lombarda si trova ricoverato ancora in rianimazione. Poi sono stati estubati e sono in via di guarigione i due pazienti lombardi, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, ricoverati nelle scorse settimane in gravi condizioni nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro: vi erano arrivati a bordo di un aereo militare atterrato nel vicino aeroporto di Lamezia Terme. Ora sono stati trasferiti nel reparto di malattie infettive. “È stato un atto di grande generosità – ha commentato il direttore della struttura Giuseppe Zuccatelli – da parte della Calabria. È ora di smettere di dipingere questa regione in termini negativi”. Non è finita qui. È guarito il primo paziente Covid atterrato in Puglia da Bergamo la notte del 20 marzo scorso a bordo di un aereo C-130J della 46esima Brigata Aerea di Pisa con una barella ad alto biocontenimento: a darne notizia sono stati direttamente i medici dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari), dove l’uomo, 56 anni, era stato ricoverato con una insufficienza respiratoria severa, a seguito della richiesta dell’azienda ospedaliera Giovanni XXIII di Bergamo. Il paziente adesso è stato dichiarato fuori pericolo dopo essere stato sottoposto a due tamponi risultati negativi. In Campania, infine, dall’ospedale di Boscotrecase alle pendici del Vesuvio sono stati dimessi ben 11 pazienti affetti da Coronavirus, alcuni dei quali anziani. A Napoli, la Regione sta facendo costruire con uno stanziamento di oltre 7 milioni di euro un ospedale da campo con 72 nuovi posti di terapia intensiva.

LA POLEMICA. Incredibile. Letteralmente da non credere, la risposta del Sud all’emergenza secondo alcuni giornalisti e opinionisti. Il caso che in queste ore ha fatto indignare riguarda la giornalista napoletana Myrta Merlino su La7. Quest’ultima, in diretta tv si è detta meravigliata (“che sorpresa”, la sua espressione) che l’ospedale Cotugno di Napoli fosse stato un’eccellenza nazionale e internazionale con il suo zero contagiati. Una meraviglia del tutto fuori luogo per chi dovrebbe conoscere in maniera approfondita le caratteristiche di un territorio che, tra mille difficoltà e senza le risorse di altre parti d’Italia, riesce ad esprimere le migliori intelligenze in tanti settori. Poi, una volta tornata a casa, la conduttrice di ‘L’aria che tira’ ha provato a chiarire il suo pensiero. “So benissimo che a Napoli ci sono moltissime eccellenze, ma le eccellenze che abbiamo non cancellano i nostri problemi e non mi va di essere ipocrita. Io però amo Napoli, viva Napoli, è la mia città”. In studio si è scusata, ma il dado era ormai tratto. In una fase in cui si discetta tanto di fake news e corretta informazione, non si dovrebbero cavalcare luoghi comuni né si dovrebbero alimentare pregiudizi evidentemente inconsci. Basterebbe fare la cronaca. Di ritardi ed inefficienze, dove emergono, e di eccellenze e primati dove si palesano. La cronaca di queste settimane, come sopra elencato, ha parlato di una Napoli pronta e di un Sud efficiente. Non si tratta di una questione di appartenenza campanilistica. L’Italia, e la sua opinion-leadership, è decisamente nord-centrica e tende a tutelare gli interessi del Nord. La classe dirigente meridionale, per lo più grillina dopo le elezioni di due anni fa, non sa farsi rispettare a livello centrale ed ha fatto consolidare l’idea di un Meridione piagnone seduto sul divano a godersi il reddito di cittadinanza. Il vento però è cambiato, è nato un variegato movimento di pensiero – va detto, anche grazie ai social – che finalmente respinge al mittente le “scivolate” mediatiche e si libera dalla condizione di colonizzazione mentale. Ognuno faccia la sua parte.

L’accusa della Gabanelli: “Il Nord non ha interesse che il Sud e la sua Sanità si sviluppino”. Da Salvatore Russo su Vesuviolive 19 marzo 2020. “Esiste un interesse del Nord che il Sud non si sviluppi?“. La domanda viene posta dal giornalista Giovanni Floris alla collega Milena Gabanelli, nel corso della trasmissione Di Martedì in onda su LA7. La conduttrice di Report non si lascia pregare e risponde in maniera inequivocabile: “Il Nord ha certamente questo interesse, attrae i pazienti dal Sud. Vale sia per gli ospedali pubblici che per le strutture private. Quindi certamente non ha interesse a spingere affinché la sanità al Sud migliori”. Dall’asserzione della Gabanelli si intravede un filo conduttore che riporta alla mente ai fatti incresciosi accaduti nelle ultime ore, rafforzando la tesi della giornalista. A “Carta Bianca” il dottore napoletano Ascierto, l’uomo che ha avuto l’intuizione di utilizzare un farmaco per combattere i sintomi del Covid, è stato duramente attaccato da un suo collega del Nord, Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. L’accusa è quella di aver scippato “alla napoletana” un’idea della cosiddetta eccellenza sanitaria lombarda che avrebbe prima dell’equipe napoletana utilizzato quel farmaco. Ascierto in quella sede è stato accusato di fare del provincialismo. La ciliegina sulla torta è arrivata meno di 24 ore fa quando un servizio di Striscia La Notizia, seguito da milioni di telespettatori, rafforza la denuncia di Galli, con la consegna di un tapiro d’oro al professore partenopeo. Agli occhi di molti italiani, Ascierto viene presentato come il solito napoletano furbetto che ruba il lavoro altrui. Eppure bastava porre una domanda al dottore del Sacco. Come mai se il farmaco veniva utilizzato da tempo, nessuno era stato avvertito? Come mai l’efficientissima sanità lombarda, oggi al collasso, non si è accorta che il virus era probabilmente arrivato già alla fine del 2019 quando si sono registrati dei picchi di polmoniti cosiddette anomali? Forse si vuole provare a soffiare l’intuizione per paura che in futuro gli ospedali napoletani possano ricevere più trasferimenti da parte dello Stato? I fatti parlano di altro. E contato questi, non le chiacchiere. L’AIFA (Agenzia italiana del Farmaco) approva l’utilizzo del farmaco, cominciando la sperimentazione proprio a partire dai casi positivi della Campania. Il New York Times, non un giornaletto rionale, dedica un articolo interamente all’ingegnosità di Ascierto e del Pascale. Solo i media italiani sembrano non digerire la circostanza che sia proprio un cervello napoletano ad aver elaborato una strategia efficace per contrastare i sintomi del Covid-19. Perché evitando prematuri trionfalismi, il farmaco comincia a dare segnali molto positivi. Non si manda giù che un prodotto della sanità campana stia emergendo, nonostante i fondi destinati al settore siano ai minimi termini. Lo ha ribadito il Governatore Vincenzo De Luca qualche giorno fa in una video postato sulla sua pagina facebook. I trasferimenti in materia di sanità che lo Stato gira alla Campania sono i più bassi d’Italia. Un malato di Napoli, di Avellino o di Caserta vale molto meno di uno di Milano o Reggio Emilia. Per ogni 1000 abitanti la Regione può mettere a disposizione 2 posti letto, al Nord la media è di 8. A questa storica sperequazione Nord-Sud va ad aggiungersi il dirottamento in 17 anni di ben 840 miliardi di euro stranamente dirottati al Nord (fonte Eurispes). Parte di questi quattrini potevano servire per rafforzare un sistema precario e pieno zeppo di buche da rattoppare.

Report copre Consip e attacca la sanità, ma Napoli esulta per nuovo centro Covid. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Non poteva essere meno opportuno il servizio di Report. La trasmissione di RaiTre, infatti, ha mostrato lunedì sera un servizio in cui ha pesantemente attaccato la sanità campana e in particolare l’Asl Napoli 1 Centro diretta dall’ingegner Ciro Verdoliva. In particolare nel video un anonimo parla addirittura di “omicidio colposo di massa” per il fatto che medici e operatori sanitari non avrebbero mascherine e i cosiddetti DPI. Il servizio prima fa vedere le tende inutilizzate al San Giovanni Bosco (che non è ospedale Covid) e al San Gennaro (che non ha pronto soccorso…) e poi parla di mascherine e DPI che non sarebbero adeguati. Forse i colleghi di Report non sono aggiornati sul fatto che, come sottolineato dal governatore De Luca, “le forniture di Consip sono saltate” per cui la regione sta facendo da se per quel che può in una situazione di emergenza non solo nazionale ma mondiale. Infatti il governatore ha annunciato di aver chiesto 400 ventilatori ma di averne ricevuti solo 41 dalla Protezione Civile (il 10%), mentre il 50% sono stati donati da un privato, Alfredo Romeo (editore di questo giornale ndr). Il giornalista poi si è avventurato negli ospedali ormai chiusi da anni di Napoli e della Campania facendo diventare il servizio la classica inchiesta di Report sugli sprechi che forse in questo momento si poteva anche evitare. Intanto il video di Report è uscito proprio nel momento in cui Napoli è esplosa letteralmente in un tifo da stadio. Infatti negli stessi minuti della messa in onda della trasmissione di RaiTre, all’Ospedale del Mare sono arrivati gli oltre 50 automezzi che trasportavano i moduli per il nuovo centro Covid che l’Asl Napoli 1 Centro sta realizzando a tempo di record. Il tutto per incrementare i posti in terapia intensiva e sub intensiva e costruire i tre monoblocchi per oltre una settantina di posti. Una risposta che più concreta non si può ad accuse strumentali e inopportune nel momento in cui, come sottolineato anche da Giulio Cavalli su queste pagine, “non è il momento delle polemiche ma di salvarci tutti”.

Coronavirus, Palombelli: “Al Nord più diffuso perché ligi al dovere”. Asia Angaroni il 21/03/2020 su Notizie.it. Sono le regioni del Nord Italia a essere più colpite dall'allarme Coronavirus: Barbara Palombelli ha dato una spiegazione, ma molti non hanno gradito. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte: è il Nord Italia a essere più coinvolto dall’emergenza Covid-19. Secondo gli esperti, sono le polveri sottili ad accelerare la diffusione dell’infezione, in particolare nella Pianura Padana. Intervenuta sull’allarme Coronavirus al Nord, Barbara Palombelli ne ha dato una sua interpretazione. In molti, tuttavia, pare non abbiano gradito il suo commento. Spiazzati i cittadini del Sud, che ora fanno appello al marito Francesco Rutelli, affinché prenda le distanze dalle moglie. “Il 90% dei morti è al Nord perché sono tutti ligi e vanno a lavorare”. Con queste parole Barbara Palombelli, nel corso della sua trasmissione Stasera Italia, in onda su Rete 4, ha spiegato qual è per lei il motivo per cui siano più numerosi al Nord Italia i contagi e i morti causati dal Covid-19. Sicuramente la celebre presentatrice, moglie dell’ex sindaco di Roma, si riferiva alla facile trasmissione del virus legata al maggior numero di persone che si muove da una città all’altra. Le cifre, nelle grandi metropoli del Nord, risultano più consistenti. Essendoci più gente che si muove, la rapidità e la facilità del contagio rischiano di salire esponenzialmente. Tuttavia, il Sud non ci sta e attacca: “Non ci sono giustificazioni: è un’infamia“. Per alcuni, simili parole esigevano delle “scuse immediate” da parte della Palombelli. E ancora: “Uno scivolone, anche se intollerabile, può capitare”. Ma a dare l’esempio, secondo il giudizio di alcuni, deve essere il marito Francesco Rutelli. A detta di alcuni, infatti, in nome del suo ruolo istituzionale e del suo passato politico, dovrebbe discostarsi dalle affermazioni della moglie, prendendo le difese del Sud.

Barbara Palombelli, polemica sul coronavirus: "Più morti al nord perché più ligi? E il Sud insorge. Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Barbara Palombelli nel mirino dei social. La conduttrice di Stasera Italia è finita al centro della polemica a causa di una frase sul coronavirus. "Il 90 per cento dei morti è nelle regioni del nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?" ha chiesto la Palombelli ai suoi ospiti nello studio di Rete Quattro. Una frase che ha immediatamente fatto indignare gli utenti del web che si sono scagliati così: "Un esempio di razzismo, in piena emergenza coronavirus. Seconda la Palombelli, il coronavirus ha fatto più morti al Nord perché lì 'sono più ligi e vanno a lavorare'", è uno dei commenti più leggeri che su Twitter si sono susseguiti. Eppure il contesto era totalmente diverso e la frase estrapolata e interpretata in malo modo.

L’assurda tesi anti Sud della Palombelli: “Al Nord più contagiati perché vanno a lavorare”. «Come il 90% dei morti da coronavirus in Italia si è registrato al nord?”. Barbara Palombelli, giornalista e conduttrice del programma d’informazione, ‘Stasera Italia’ (Rete 4), porge la domanda al sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, una delle aree più colpite dal coronavirus. Ma prima di passare la parola al sindaco, Palombelli aggiunge: “Vi sono delle motivazioni particolari? Ci sono delle persone più ligie che vanno sempre a lavorare?”. Redazione de Il Riformista 21 Marzo 2020

Barbara Palombelli nella bufera per battuta sul Sud: «Più casi di coronavirus al Nord perché tutti lavorano?» Il Mattino Sabato 21 Marzo 2020. Barbara Palombelli nella bufera sui social per una domanda sul coronavirus. «È venuto fuori che il 90% dei morti» per coronavirus «è nelle regioni del Nord. Che cosa ci può essere stato di più? Comportamenti di persone più ligie che vanno tutti a lavorare?». Così Barbara Palombelli parlando dell'emergenza coronavirus in Italia durante la trasmissione Stasera Italia su Rete4. La domanda che la conduttrice del programma ha rivolto ai suoi ospiti ha innescato una bufera sui social. «Cara Barbara Palombelli, che brutta caduta di stile. In un momento così difficile per l'Italia intera, lei cosa fa? Squallide insinuazioni»; «Per cotanta bassezza intellettuale provo solo tanta pena»; «Scivolone assurdo di Barbara Palombelli, considerazione spicciola e gretta. Andiamo anche noi terun a lavurà»; «Ma davvero? Ma questa gente non è mai stata a sud di Assago? Ma che credono che noi viviamo sugli alberi? Io non ho parole!!! #barbarapalombelli si vergogni!», sono alcuni dei commenti che si leggono su twitter.

Simioli: "Ascierto l'ha fatta grossa: il vaccino per il Covid-19! Voglio dire una cosa a Gerry Scotti". Francesco Manno il 22 marzo 2020 su areanapoli.it. Gianni Simioli, speaker di Radio Marte e di Rtl 102.5, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social. Lo speaker di Radio Marte e Rtl 102.5, Gianni Simioli, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Facebook. Ecco quanto si legge: "Caro Dott. Gerry Scotti, di seguito le giro le ultimissime sulla cura Ascierto. E’ lo stesso Ascierto che lei ha deriso e ridicolizzato a Striscia la notizia: si deve vergognare! Lo so, poi ha spiegato a una radio locale che lei legge un copione e che la “colpa” del suo “errore di valutazione“ è tutta da addebitare a chi scrive i testi del programma. Ma lei veramente pensa che siamo i meridionali napoletani che le ha raccontato qualcuno? Signor Gerry Scotti io non sono nessuno, non valgo ciò che vale lei per le aziende del sud che la pagano, spero profumatamente, per dire che è buonissimo questo o quel prodotto di Napoli o del meridione d’Italia (pur di conquistare i mercati del nord), eppure sono in grado di rifiutarmi di leggere una promozione che trovo distante kilometri dalla mia etica, filosofia o sentimento di vita". Gianni Simioli ha poi aggiunto: "È arrivata un’altra notizia da accogliere con ottimismo e un orgoglioso sorriso. Mentre la penisola si divide tra i runner che non rinunciano alla corsetta e la Palombelli che non si da ragione delle basse percentuali di contagio al Sud, qui, a Napoli, c’è un pazzo visionario, spinto da un’intera regione, che non si ferma. Si, sempre Lui, il Dottor Ascierto. Questa volta ha deciso di farla grossa: il vaccino per il Covid19! È di queste ore una sua intervista, registrata ai microfoni di SKY, nella quale è riassunta una speranza di tutto il paese. Il Dottore ha infatti dichiarato: “La Takis è un’azienda che lavora con noi per dei vaccini su alcuni melanoma che studiamo. In collaborazione con il Pascale e il Cotugno sperimenteranno anche un vaccino per il Coronavirus. Proprio qui al Cotugno, e questa è certamente una buona notizia. Non sarà una cosa di domani ma l’impressione è che con cauto ottimismo e lavoro ce la faremo, noi andiamo avanti”. Questa è la risposta di Napoli e di Ascierto a giorni di mala stampa e fake news su di Lui e sulla sanità campana. Questa è la risposta che unirà l’Italia di coloro che da Nord a Sud lottano e sperano di festeggiare presto, insieme, l’uscita dal periodo più buio della nostra storia. E ci arriveremo, credetemi. Non so quando ma così sarà. E sarà una grande festa per tutti. Anche per Striscia la Notizia, Barbara Palombelli e ilFatto Quotidiano. Si, esatto, perché noi siamo l’Italia che lotta, vince, ama ed include tutti. Anche chi non lo meriterebbe".

Luca Marconi per corriere.it il 22 marzo 2020. «Diffamazione aggravata», per un servizio televisivo «gravemente lesivo» nei confronti del direttore della Struttura complessa Melanoma e Terapie intensive del Pascale di Napoli, Paolo Ascierto, il «promotore» dello studio Aifa , l’Agenzia italiana del farmaco, sul Tocilizumab, il farmaco per le complicanze da artrite reumatoide che agisce anche sulle polmoniti da covid-19, liberando quota parte delle terapie intensive di cui oggi si ha tanto bisogno: è quel che contestano i vertici dell’istituto Pascale a Striscia la Notizia, intervenuta a suo modo per raccontare l’attacco polemico subìto da Ascierto a “Carta Bianca”, da parte dell’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Nel servizio ancora online Striscia riprende l’intervento di Galli, ma affidandosi ai commenti di Gerry Scotti («il professore Galli ha scoperto che l’alunno Ascierto ha copiato») per poi recuperare un vecchio meme con un incolpevole Emilio Fede che conclude: «Che figura ...». Ma ecco il comunicato del Pascale: «Con riferimento al programma televisivo “Striscia la notizia” del 17 marzo 2020, nel corso del quale è andato in onda un servizio che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto avvenuto tra il prof. Paolo Ascierto del Pascale di Napoli e il prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, si precisa quanto segue: l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto esprimono innanzitutto la più viva gratitudine verso tutti coloro che in questi giorni hanno manifestato la loro solidarietà e vicinanza nei confronti al prof. Ascierto». «Ritengono il servizio di “Striscia la notizia”, montato ad arte, gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi. Per tali motivi, la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto hanno dato mandato all’avv. prof. Andrea R. Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del conduttore della trasmissione, di quanti hanno curato il servizio e del Direttore Responsabile».

Dal profilo Facebook di Barbara Palombelli il 23 marzo 2020: Venerdì sera, si parlava dei bergamaschi e del loro senso del dovere e del lavoro... di andare a lavorare anche con la febbre. Con il sindaco Gori e gli ospiti in collegamento ci si chiedeva come mai proprio Bergamo fosse la città martire, se le aziende aperte fossero state, insieme alla partita giocata col Valencia, responsabili di questo dramma... qualcuno ha capito male e ha montato una immaginaria tempesta... non è il momento delle polemiche, non risponderò a nessuno.

Da liberoquotidiano.it il 23 marzo 2020. Barbara Palombelli  con un post duro su Facebook annuncia che passerà alle vie legali. Tutto parte dalla sua trasmissione, Stasera Italia in onda tutte le sere su Retequattro, in collegamento con diversi ospiti tra cui il sindaco di Bergamo Giorgio Gori,  commentando la drammatica situazione della città bergamasca, piegata dal Coronavirus, la giornalista specificava: “Il 90% dei morti è nelle regioni del Nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?. Considerazione che ha causato una pioggia di insulti e critiche. “La libertà di opinione è sacra. La diffamazione via web è un reato. Tutti i post e gli autori contenenti ingiurie, calunnie e diffamazioni vengono e verranno identificati e chiamati a rispondere in sede civile di quanto hanno scritto“. Così la moglie di Francesco Rutelli sul suo profilo Facebook. “I miei avvocati sono al lavoro. Estrapolare una frase da un contesto in cui si parlava esclusivamente della tragedia di Bergamo, travisandone il contenuto, è un’operazione scorretta. Di tutto il resto si occuperanno polizia postale, magistratura e avvocati.” 

 “Ascierto non ha saputo replicare a Galli”, niente scuse di Striscia la Notizia. Redazione de Il Riformista il 22 Marzo 2020. Niente scuse e nessun passo indietro da parte di “Striscia la Notizia” dopo la querela presentata dall’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal professor Paolo Ascierto in seguito al servizio andato in onda la scorso 17 marzo che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra l’oncologo campano e il profersso Massimo Galli, dell’Istituto Sacco di Milano. La trasmissione di Canale 5 in una nota fornisce alcune precisazioni sul tipo di servizio andato in onda, dove accusava Ascierto di aver “copiato” il trattamento del farmaco anti-artrite Tocilizumab dai cinesi accusandolo di una “pessima figura”. “In merito alla notizia della querela presentata dalla Direzione dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal prof. Paolo Ascierto nei confronti di Striscia la notizia, vogliamo precisare, come già specificato nei giorni scorsi, che non era nostra intenzione entrare nel merito del curriculum e della storia professionale dei due esperti. Né, a maggior ragione, valutare i protocolli sanitari in atto per attribuire il primato della scoperta a uno o all’altro o a nessuno dei due. Il nostro servizio si è semplicemente limitato a riproporre il confronto televisivo tra i due medici, andato in onda nel programma di Bianca Berlinguer, durante il quale il dottor Ascierto non è stato in grado di controbattere in modo efficace alle contestazioni del professor Galli. La missione di Striscia la notizia è da sempre quella di fare satira televisiva ed è quello che continuerà a fare. Cogliamo l’occasione per ringraziare medici, infermieri, operatori sanitari e tutte le figure coinvolte per lo straordinario lavoro che stanno svolgendo”. La controparte ha invece ritenuto il servizio” montato ad arte e gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi”.

Perchè Striscia la Notizia dimentica le parole di Galli e si accanisce con Ascierto? Data cruciale.... Il noto giornale satirico dovrebbe ricordare le parole del famoso infettivologo dell'ospedale "Sacco" di Milano: una previsione totalmente sbagliata.  Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 marzo 2020. E' di oggi la notizia che la Direzione generale dell'Istituto nazionale tumori Irccs Fondazione Pascale e il professor Paolo Ascierto hanno dato mandato all'avvocato Andrea Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del direttore responsabile e del conduttore di Striscia la Notizia e di quanti hanno curato il servizio trasmesso il 17 marzo che ha richiamato la trasmissione "Carta Bianca" di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra Ascierto e il professor Massimo Galli sul tema della sperimentazione del farmaco Tocilizumab su pazienti affetti da coronavirus. L'Istituto Pascale e il professor Ascierto "ritengono il servizio su richiamato di Striscia la notizia, montato ad arte, gravemente lesivo dell'onore e della reputazione di Paolo Ascierto e dell'Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi". Al di là di ogni possibile polemica e satira, una domanda sorge spontanea senza alcun tono polemico: perchè Striscia la Notizia che definisce "figuraccia" quella del Prof. Ascierto (ovviamente in maniera forzata e del tutto fuori luogo anche se è un giornale satirico), non va a ripescare le parole del Prof. Galli? Quali? C'è una data cruciale, ovvero il giorno 10 febbraio. Quel giorno, in un convegno Medico a Milano, il noto infettivologo dichiarò: "In Cina è in netta crescita per quanto riguarda la zona di Wuhan, anche se negli ultimi due giorni l’incremento è stato proporzionalmente inferiore rispetto ai giorni precedenti. Quindi dobbiamo attendere una o due settimane per capire dove si andrà a parare e sarà molto importante considerare le epidemie satelliti, ovvero la presenza del virus in altre grandi aree urbane della Cina. Rispetto a quanto ci si poteva attendere, la diffusione a livello internazionale di questo virus è stata molto inferiore rispetto a quanto è capitato ad esempio per la SARS nel 2003. Questo vuol dire che le misure di limitazione dei viaggi  assunte abbastanza presto hanno consentito di contenere il fenomeno e questo vale soprattutto per il nostro Paese dove abbiamo solo tre casi importati. Si tratta – ha proseguito – di due cittadini cinesi e uno italiano, persone che si sono infettate poco prima di partire dalla Cina e da Wuhan nel caso specifico. La malattia da noi difficilmente potrà diffondersi: l’esiguità del numero dei casi riscontrati fino ad ora e la modalità con cui si sono manifestati in persone che si sono infettate poco prima di partire da Wuhan, ci dà la dimensione del contenimento complessivo della problematica". Forse è più questa una brutta figura? Forse... Del resto, errare è umano. Restiamo umani.

Striscia la Notizia nei guai: la fake news su Reggio Calabria. Linda l'01/04/2020 su Notizie.it. Striscia la Notizia smentita dall'ospedale di Reggio Calabria: la fake news denunciata dalla struttura sanitaria. Tutti sono ormai a conoscenza del grande gesto compiuto da Fedez e Chiara Ferragni nel raccogliere fondi per il San Raffaele di Milano. La loro iniziativa ha del resto spinto molte persone ad aprire altre sottoscrizioni destinate a diverse strutture ospedaliere di tutta Italia. Proprio in questo frangente anche Striscia la Notizia ha voluto realizzare un servizio per aiutare gli italiani a scegliere delle campagne solidali serie e che non siano delle truffe. Prima di fare la propria donazione, ognuno deve quindi assicurarsi che l’attività sia svolta su siti web ufficiali e confermati. In tale contesto, anche l’ospedale di Reggio Calabria ha deciso di aprire una campagna solidale sul sito GoFundMe. Tuttavia qualche giorno fa Striscia la Notizia ha fatto notare al suo pubblico come sulla piattaforma non risultasse ancora tale struttura nell’accettazione della campagna. Il tg satirico di Antonio Ricci ha invece precisato come il San Raffaele di Milano abbia dato la propria autorizzazione. Stando dunque al programma di Canale 5, il rischio era che il denaro raccolto potesse finire sul conto corretto del soggetto creatore della campagna e non all’ospedale vero e proprio. La replica non è tuttavia tardata ad arrivare. La notizia è stata infatti smentita direttamente dei colleghi del tg satirico di Mediaset. Nelle ultime ore il GOM ha di fatto firmato una delibera con cui ha autorizzato ufficialmente la donazione della raccolta fondi dei cittadini calabresi. È stato infine messo in chiaro come nel servizio di Striscia la Notizia sia stata data sostanzialmente una fake news.

Enrico Mentana, un "anche" di troppo? Criticato da alcuni napoletani, replica: "Ridicoli piagnoni, imparate l'italiano". Libero Quotidiano il 02 aprile 2020. Enrico Mentana nella bufera. A far discutere è un post pubblicato dal direttore del Tg La7 sul suo profilo Facebook. Qui il giornalista condivide un articolo dal titolo: “Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta al coronavirus: il Cotugno”. A rimarcare il pezzo, il suo commento: "A Napoli c’è anche un’eccellenza“. E così, per l'"anche", è stato preso di mira da non pochi utenti: sono più di 9mila i commenti lasciati e ai quali Mentana non evita di rispondere. “Ridicoli piagnoni che vi attaccate a un semplice anche, imparate l’italiano - scrive -. Amo Napoli più di voi evidentemente”. Una frase che ha gettato benzina sul fuoco, alimentando ancora di più la polemica in corso: "'Anche', è proprio più forte di voi. Intanto qui nessuno ci pensa e l'eccellente personale sanitario fa i salti mortali per assistere con i pochissimi mezzi messi a disposizione chi ha la "fortuna" di poter essere curato. L'eccellenza qui c'è sempre!" scrive una ragazza mentre qualcuno le fa eco: " ... “anche”...Non cambierà mai. E non parlo di lei, direttore. Ma della discriminazione generale verso il Sud. Insomma, tutti contro Mentana.

Per i media inglesi il Cotugno è un modello per l’Italia. Per Mentana: “A Napoli c’è anche un’eccellenza”. Da Chiara Di Tommaso l'1 aprile 2020 su Vesuvio Live. Il Cotugno di Napoli è un’ospedale modello per tutta l’Italia, una mosca bianca. A dirlo è un servizio, ricco di elogi, fatto da Skynews, una delle fonti più autorevoli nel campo dell’informazione. Sotto la lente di ingrandimento finisce un dato significativo: quello dei medici e infermieri che non sono stati contagiati dal coronavirus nell’Ospedale napoletano. Un dato in controtendenza rispetto a quello di tutta Italia dove si registrano oltre 8 mila contagi nel personale sanitario. Ma in un articolo di Open, questa notizia viene leggermente cambiata. Come? Semplicemente nel titolo:

“Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta contro il Coronavirus: il Cotugno”.

Il ma a inizio frase indica un certo atteggiamento avversativo a una notizia che è invece solo positiva. Una scelta ben precisa perché come sostiene la Treccani, “Il caso più noto e studiato è quello del ma che, oltre a essere usato come congiunzione coordinativa con valore avversativo, ha una serie di usi pragmatici, che segnalano cioè un atteggiamento del parlante rispetto all’enunciato stesso o all’enunciazione. In questi casi il ma è solitamente collocato in apertura di frase. Un primo esempio è rappresentato da frasi esclamative abrupte in cui il ma segnala la contrarietà del parlante (ma tu guarda!, ma bravo!, ma no!). Il ma può essere inoltre usato a inizio di frase con un valore parafrasabile all’incirca come «nonostante sia vero quanto detto (o presupposto) finora, più importante ancora è quello che segue …». Lo si incontra nello scritto dopo una pausa forte (marcata da un punto o punto e virgola) o a inizio assoluto di testo, per segnare il passaggio ad altro argomento o per rinviare enfaticamente a un argomento noto”.

Peccato che l’intero articolo racconti solo dell’elogio di Sky News al Cotugno e manchi del tutto il riferimento a un altro argomento, appunto avversartivo. Resta quindi un titolo fuorviante che genera solo commenti negativi. Anche il fondatore di Open, Enrico Mentana, posta questa notizia sul suo profilo Facebook riportando, in parte, il titolo dell’articolo.

“A Napoli c’è anche un’eccellenza”

Qui è la parola ‘anche’ ad aver suscitato più di una reazione nei lettori. In tantissimi infatti sotto al post criticano la scelta del giornalista di aver usato quella congiunzione.

Scrive Raffaele: “Che significa “a Napoli c’ è anche un eccellenza”? lo ritengo abbastanza offensivo da un professionista come lei. Ha perso tutta la mia stima”.

Mentre Tiziana commenta: “L”anche” poteva essere evitato… mettendolo sta affermando che il resto non è eccellenza o, addirittura, induce a pensare che il resto è al di sotto dei livelli standard (per non dire, alla napoletana, il resto è munnezz)”.

Ma c’è anche chi pensa che questa sia stata solo una mossa per ottenere più like, come Paolo che scrive: “Quell’ “anche” è molto triste, so che l’ha messo per far sollevare un ennesima polemica, ma offende tanti che in questo momento, fuuri dal Cotugno, si stanno facendo in quattro contro il Virus. Rettifichi il titolo, non approfitti di questo momento di grande emotività per racimolare qualche commento o like in più”.

La gaffe l'inviata di Agorà: "Non siamo fortunati, non c'è nessuno". Delusione per l'inviata Rai a Napoli per testimoniare il rispetto del decreto coronavirus: voleva documentare le violazioni ma la strada è deserta. Le sue parole scatenano l'indignazione sui social. Paola Francioni, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Da oltre un mese la televisione italiana è diventata quasi monotematica. L'argomento principale, trattato in ogni sua sfaccettatura, è il coronavirus. Difficilmente potrebbe essere diversamente, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale che sta facendo decine di migliaia di morti. I programmi televisivi delle reti nazionali si occupano prevalentemente di questo: sono stati soppressi momentaneamente tutti gli spazi di intrattenimento, relegati nella maggior parte dei casi a repliche di programmi già editi. Gli editori hanno preferito mettere momentaneamente da parte l'attualità leggera per concentrare le energie sul racconto del coronavirus. In questa spasmodica caccia alla notizia si è inserito anche Agorà, che negli ultimi giorni sta facendo discutere animatamente la rete. Il programma di informazione che va in onda al mattino su Rai3 è spesso elogiato la qualità del suo lavoro e dei suoi servizi ma in queste giornate così complesse i social hanno qualcosa da ridire sulle modalità con le quali la trasmissione ha deciso di informare. La polemica più accesa è scoppiata oggi e la protagonista è un'inviata del programma in collegamento da Napoli. La città Partenopea è spesso presa come esempio della scarsa attitudine degli italiani di rispettare le regole imposte dal governo. In un momento in cui si chiede il massimo rispetto delle distanze di sicurezza e in cui si chiede ai cittadini di limitare le loro uscire per contenere il contagio da coronavirus, sono molte le testimonianze contrarie che giungono da Napoli. In rete girano i video delle strade brulicanti di pedoni e di auto, sui social rimbalzano le immagini provenienti da ogni angolo della città che vorrebbero documentare una sorta di "allergia" alle regole da parte del sud. Forse in quest'ottica voleva inserirsi il servizio di Agorà di questa mattina, quando l'inviata si è recata in una delle principali arterie commerciali di Napoli per riprendere e testimoniare con la sua viva voce l'elevata circolazione dei mezzi nella città campana. Eppure, alle 8.37, alle sue spalle non circolavano che pochissime auto, nulla a che vedere con i racconti che provengono dalla città campana. "Io ti voglio far vedere quest'immagine. Noi siamo in una zona che sarebbe pedonale, siamo qui da circa mezz'ora. C'è in realtà un passaggio di auto abbastanza numerose, abbiamo visto furgoncini", racconta la giornalista ma, alle sue spalle, si vedono pochissime auto in transito. A quel punto, l'inviata pronuncia una frase che ha fatto indignare ben più di qualche telespettatore: "Non siamo fortunati in realtà, in questo momento si stanno comportando... Non c'è nessuno, ma fino a pochi minuti fa c'era un passaggio intenso." Il fatto che la giornalista consideri una circostanza sfortunata quella di non poter rilevare con le telecamere un elevato passaggio veicolare, sinonimo di possibile trasgressione del decreto contro il coronavirus, sarebbe una circostanza sfortunata. Non la pensano così i napoletani, che sui social hanno fatto sentire la loro voce: "Ore 8.30, la giornalista in diretta dice che a Napoli c'è troppa gente per strada ma la telecamera inquadra una via Scarlatti deserta. Lei: 'Non siamo stati fortunati, fino a pochi minuti fa qui c'era un traffico intenso'... Come fate a non vergognarvi?", "Mi spiace non se ne parli, ma nel mio piccolo vorrei sottolineare quanto in basso stia scavando #agorai: l'inviata, in barba a ogni regola di distanziamento, tocca l'ospite; 'Non siamo fortunati, i napoletani si stanno comportando bene'. Mi vergogno per loro." Questi sono solo alcuni dei commenti che si trovano su Twitter, dove per altro si fa anche notare come l'inviata, trasgredendo una delle regole base imposte dal decreto contro il coronavirus, mette una mano sulla spalla di un suo ospite e non rispetta il distanziamento sociale. Solo poche ore fa il programma era stato criticato per aver mandato in onda un concitato inseguimento a un anziano runner con un drone della polizia, utilizzando come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie.

“A Napoli traffico intenso”: in strada non c’è nessuno e la giornalista tocca l’uomo. Da Francesco Pipitone il 15 Aprile 2020 su VesuvioLive. Questa mattina è andata in onda, come al solito, il programma di informazione Agorà in onda su Rai Tre. In collegamento da via Luca Giordano al Vomero c’era la giornalista Elena Biggioggero, che ha intervistato Luigi Sparano, segretario della sezione napoletana della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale. In realtà la Biggioggero fa domande molto interessanti a Sparano, il quale mette in luce problematiche estremamente importanti per quanto riguarda la gestione del pericolo della diffusione del contagio da coronavirus. Napoli, viene evidenziato, è una città in cui ci sono molti nuclei familiari numerosi, dunque il contagio avviene spesso tra le mura domestiche. Situazione che si fa più grave nei quartieri più popolari, dove le esigenze economiche spingono alla convivenza tra più persone, in particolar modo con gli anziani. Il problema sorge quando la conduttrice, Serena Bortone, si collega alle polemiche dei giorni scorsi sulla presunta eccessiva presenza di persone in strada domandando ad Elena Biggioggero se fosse vero o meno: “Siccome sono state fatte un po’ di polemiche – Napoli vuota, strade occupate eccetera – da testimone – per altro tu sei milanese, per questo hai uno sguardo nordico sul nostro amato Sud… non toccarlo, non vi avvicinate… – voglio sapere se Napoli è vuota oppure no, se si rispettano le regole oppure no”. A quel punto la giornalista fa girare il cameraman per fargli inquadrare la strada, che però in quel momento è vuota: “Guarda Serena, io ti voglio far vedere questa immagine. Noi stiamo in una zona che sarebbe pedonale. Siamo qua da circa una mezz’ora. C’è un passaggio di auto, insomma, abbastanza numerose; abbiamo visto furgoncini, sarebbe una zona commerciale in cui il commercio è interrotto perché i negozi sono chiusi. Ecco, non siamo fortunati in realtà perché in questo momento non c’è nessuno ma fino a pochi minuti fa c’era un passaggio intenso”. Serena Bortone replica: “No perché ieri ci siamo sentiti con Elena e mi ha detto che Napoli era deserta. Quindi se poi qualcuno si sposta, insomma…”. In realtà via Luca Giordano è sì pedonale, ma soltanto in parte, come sa bene qualsiasi napoletano. Elena Biggioggero ha dunque fornito un’informazione sostanzialmente sbagliata, poiché fa intendere che nonostante la pedonalizzazione ci sia un passaggio intenso di auto. Secondo, quando la giornalista fa inquadrare la strada, viene ripresa la parte dove le auto possono passare e se ne vede transitare soltanto una, poi un autobus. Durante il collegamento furgoncini non se ne vedono, soltanto un mezzo dell’Asia per la raccolta dei rifiuti, e tra l’altro se anche fossero passati dei furgoncini molto probabilmente poteva trattarsi di lavoratori che consegnavano merci, chissà. Giornalisticamente l’informazione che ha dato è irrilevante poiché nulla faceva intendere una illiceità del passaggio – presunto – dei furgoncini. Ma la parte “migliore” l’abbiamo vista quando la Biggioggero ha messo la mano sulla spalla del dottor Sparano passandogli molto vicino, sfiorandolo addirittura, ed entrambi non avevano la mascherina posizionata sul volto. Serena Bertone infatti l’ha avvertita: “…non toccarlo, non vi avvicinate…”.

Ennesima figuraccia Rai. Napoli Est applaude la polizia, Tg1 vergogna: “Ma da voi non è ben accetta”. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Sorprendersi perché i residenti del Bronx di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli, applaudono la polizia intervenuta con mezzi speciali per sanificare le strade durante l’emergenza coronavirus. La Rai ci ricasca ancora e a pochi giorni dall’inviata della trasmissione Agorà, che dal nord è stata spedita a Napoli per dichiarare in diretta televisiva di essere stata sfortunata a non beccare auto o persone in strada, porta a casa un’altra figuraccia con un servizio andato in onda venerdì sera, 17 aprile, al Tg1. “Qua di solito la polizia non è ben accetta” chiede il giornalista a un residente del Bronx dopo aver ripreso l’accoglienza calorosa riservata dagli abitanti delle case popolari omaggiate qualche anno fa da due dipinti dello street artist Jorit. Un pregiudizio gratuito che resta tale a prescindere nella concezione di chi viene spedito a raccontare quello che accade nel capoluogo partenopeo senza conoscere a fondo la realtà stessa che dovrebbe documentare. Per l’opinione pubblica nel Bronx c’è solo la camorra, così come a Scampia, nel Rione Traiano, nel rione Conocal a Ponticelli o nel centro storico a Forcella. Tutte le persone oneste che vi abitano sono destinate a portarsi dietro questa etichetta e a finire, in chiave negativa, in un servizio del Tg1 nonostante gli applausi alla polizia.

STATO DI SALUTE AL SUD E INIQUITA’ SANITARIA. Michele Di Pace - Ambrogio Carpentieri il 30.07.2020 su movimento24agosto.it. Sono stati analizzati i dati di Health Search e Osservatorio Salute negli anni 2016-2018 relativamente ad alcuni indicatori sullo stato di salute dei cittadini tra il Sud e il Nord del Paese.

ASPETTI DEMOGRAFICI (tasso di fecondità totale e speranza di vita alla nascita), MORTALITA', STILI DI VITA e PREVENZIONE (quota di fumatori tra la popolazione di età 14 anni e oltre e trend, prevalenza di persone di età 18 anni e oltre in condizione di sovrappeso, prevalenza di persone di età 18 anni e oltre obese, coloro che dichiarano di non praticare sport, copertura vaccinale antinfluenzale negli ultra-sessantacinquenni), SALUTE MENTALE (consumo di farmaci antidepressivi e trend), SALUTE MATERNO-INFANTILE (proporzione di parti con taglio cesareo), ASPETTI ECONOMICI (spesa sanitaria pubblica pro-capite), ASSISTENZA OSPEDALIERA (percentuale di pazienti di età 65 anni e oltre operati entro 2 giorni per frattura del collo del femore) esaminandone la variabilità territoriale in un’ottica di valutazione dell’efficacia dei singoli SSR e di equità a livello nazionale.

Le condizioni di salute degli italiani si mantengono buone in termini di sopravvivenza, ma non migliorano le condizioni patologiche per le quali è forte il ruolo della prevenzione e degli stili di vita. In particolare, andamenti non positivi si riscontrano per alcune patologie tumorali causate dalle abitudini al fumo, dalla condizione di obesità e dalla scarsa adesione ai programmi di screening. Un altro elemento di criticità riguarda la qualità degli anni di vita degli anziani, vissuti in cattive condizioni di salute.

Infatti per gli aspetti demografici il tasso di fecondità totale rimane alto per Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, pur inferiore al livello di sostituzione (circa 2,1 figli per donna) che consentirebbe il ricambio generazionale, mentre è basso per Sardegna ma anche Molise, Basilicata e Puglia. Inoltre la speranza di vita alla nascita risulta più alta in Toscana e Veneto per gli uomini e ancora Veneto per le donne seguite da Emilia Romagna, Lombardia mentre è il più basso in Campania sia per uomini che donne seguita da Sicilia.

I dati di mortalità (per 10000) risultano elevati per la Campania rispetto alla media nazionale seguiti dalla Sicilia mentre sono bassi per le donne in Molise e gli uomini in Toscana.

Seguire corretti stili di vita è un eufemismo per il Sud dove si fuma molto in Campania anche se in diminuzione, si è in sovrappeso in Basilicata e obesi in Puglia mentre in Sicilia si segue poco sport rispetto ai pochi fumatori in Calabria con trend in aumento, pochi in sovrappeso in Piemonte e obesi in Toscana e molto sportivi in Veneto.

La copertura vaccinale contro la influenza, nel campo della prevenzione, si mantiene nella media su tutto il territorio nazionale ed è basso solo in Sardegna.

Il consumo di farmaci antidepressivi è molto elevato in Toscana con trend in aumento e alto in Emilia-Romagna mentre è inferiore alla media in Campania seguita da Puglia, Molise, Basilicata e Sicilia.

La proporzione di parti con taglio cesareo, indice di salute materno-infantile, è molto basso, quindi positivo, in Veneto, Emilia-Romagna, Toscana ed alto nelle regioni del Sud in particolar modo in Campania.

Il valore dell'indicatore relativo alla spesa pubblica pro-capite è alto rispetto alla media in Sardegna e Molise, più basso in Campania seguita da Calabria e Sicilia.

Infine la assistenza ospedaliera rappresentata dalla percentuale di pazienti di età 65 anni e oltre operati entro 2 giorni per frattura del collo del femore è ottima in Toscana, buona in Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte, nella media per le altre regioni e scarsa in Molise seguita da Calabria. Ambrogio Carpentieri - Commissione Sanità ET M24A

LA MOBILITA’ SANITARIA DA SUD VERSO NORD, FORMA DI SFRUTTAMENTO ECONOMICO DEI MERIDIONALI. Michele Di Pace - Pasquale Biscari il 29.07.2020 su movimento24agosto.it.

1°- Studio dei Fattori Primari. Seguiranno : 2° - Studio dei Fattori Secondari, Criticità, Eccellenze; 3° - Correttivi, Proposte e Considerazioni finali. Il problema della Mobilità Sanitaria in Italia è da sempre l’emblema delle disuguaglianze regionali e del colonialismo economico imposti alle regioni del Meridione. Oggi si può dire che questa criticità sia diventata il primo paradigma responsabile dello squilibrio nella Struttura Sociologica della Sanità. Lo è in quanto ne mina la qualità sociale, la qualità organizzativa e la qualità erogata attraverso le prestazioni sanitarie. Sia pure esistesse fin dal secolo scorso, la Mobilità Sanitaria ha manifestato tutta la sua criticità con la Riforma del Titolo V° della Costituzione (ottobre 2001) e con l’art 117 che afferma il Principio della Sussidiarietà Verticale; un criterio di ripartizione delle funzioni amministrative tra organi di governo, che inverte il riparto delle competenze e riconosce in capo alle Regioni il compito di legiferare in tema di Sanità. La gestione della Salute viene di fatto affidata alle Regioni e il tutto con una marcata scelta federalista che lascia allo Stato Centrale la competenza sulle cosiddette “Leggi Quadro di Cornice”. Allo Stato viene riconosciuta in modo esclusivo la competenza sui Livelli Essenziali dell’Assistenza (LEA) e delle Prestazioni Sanitarie (LEP), con livelli minimi al di sotto dei quali non è possibile andare; il tutto finalizzato a garantire l’uniformità delle prestazioni sull’intero territorio nazionale. Da questo momento legislativo, le Regioni del Sud coi servizi sanitari già ai limiti dei minimi costituzionali, hanno subito tagli al personale ( numero chiuso a Medicina, mancato turnover degli operatori) e ai posti letto ospedalieri (rapporto posti letto per numero abitanti), ancora più consistenti di quelli operati in passato da ministri e governi disorganici. La Fondazione Gimbe nella sua attività di monitoraggio indipendente delle emergenze globali ha accertato e documentato in circa 40 miliardi di euro i fondi sottratti alla Sanità del Sud e fatti affluire al Nord solo negli ultimi dieci anni. In nome di una ingiustificata Spesa Storica, costantemente pretesa e applicata a favore della Sanità Privata e affaristica del Nord, si è creato un divario ipertrofico tra le Strutture Sanitarie. Un divario alimentato dallo spostamento di pazienti verso le Regioni del Nord a cui le Regioni del Mezzogiorno pagano, a un prezzo maggiorato, i DRG dei migranti della salute (circa 4,5 miliardi l’anno). Si tratta di una criticità cronica che, nel tempo, ha generato un disparità sul territorio nazionale nel godimento del servizi sanitari da parte del cittadino utente. Una criticità nazionale perdurante che ha gravato e grava sui cittadini del Meridione che vedono sempre più ridotta la loro aspettativa di vita nei confronti dei cittadini del Settentrione. Una disparità diventata ancora più manifesta oggi, a causa dell’attuale pandemia da Covid19, che ha evidenziato la gestione sanitaria fallimentare nelle Regioni del Nord. Nonostante le maggiori entrate, queste, si sono trovate impreparate a reggere l’onda d’urto del virus per aver privilegiato una sanità imprenditoriale privata, di èlite, di liberismo spinto e di profitto, a una sanità pubblica di servizio per l’Emergenza - Pronto Soccorso e per le Terapie Intensive - Rianimatorie. Quantunque penalizzato dalle risorse sottratte, dalle nequizie di sedicenti governatori di regione e dalle invettive di una stampa asservita, il Sud ha dimostrato di reggere molto meglio la virulenza del Covid19, ivi compresi i flussi di studenti e lavoratori fatti arrivare, a ondate, dalle regioni del Nord nella prima fase disordinata della pandemia. Tutti questi fattori hanno avuto l’amara conseguenza di evidenziare maggiormente il fenomeno migratorio della salute denominato “della speranza”. I pazienti che migrano nelle strutture sanitarie del Settentrione per una presunta aspettativa di assistenza sanitaria qualificata, in realtà, si vedono ancora più utilizzati e sfruttati a fini di un mero guadagno economico barattato sulla loro pelle. E non sono neppure da trascurare le ripercussioni che tale squilibrio esercita sulla economia sociale. Nell’ultimo rapporto Kelony si evidenzia come, il rischio di una crescente esasperazione causata dalla insufficiente soddisfazione delle popolazioni, possa portare a forme di rivolta senza precedenti. In questo rapporto viene ipotizzata persino una sorta di “dittatura sanitaria” a cui potrebbe seguire una rivolta sociale con conseguenti interventi repressivi da parte di Stati autoritari. Destabilizzare, impaurire, terrorizzare è sempre servito a garantire la sicurezza delle oligarchie finanziarie e a conservare i loro privilegi a discapito delle fasce sociali deboli. Se qualcosa di simile dovesse accadere, perderebbe del tutto i suoi effetti la legge quadro 328/ del 2000, nata per regolamentare l’Assistenza finalizzata agli interventi socio sanitari. Non verrebbe più garantito un aiuto concreto alle persone non autosufficienti, ai minori, agli anziani e alle famiglie in difficoltà all’interno del loro nucleo familiare. Ancora più di queste ne soffrirebbero le strutture speciali come le RSA e gli altri Centri Assistenziali. C’è da dire, inoltre, come nuove situazioni di precarietà e instabilità politica, neppure tante remote, porterebbero a veri disastri sociali ed economici qualora i mezzi della generosa Recovery Fund appena elargiti dall’Europa e mai visti prima di adesso, non andassero nella direzione giusta. Bisogna augurarsi davvero che si metta fine alle egemonie ideologiche partitiche e si dia luogo a un impegno comune nello spendere subito e bene i tanti miliardi che arriveranno, sia pure con un certo ritardo. Intanto restano e continuano a esistere i “cammini della speranza” che ogni anno costano alle Regioni del Sud l’esborso di oltre quattro miliardi di euro. Sicuramente ci vorrà del tempo per fermare e invertire il cammino di queste migrazioni. Non sarà semplice correggere le disuguaglianze che hanno generato i migranti della salute e dirottarli verso le strutture del Sud dove, come vedremo nel prossimo studio, se ne contano tante di eccellenze sanitarie distribuite sul territorio. Al fine di evitare malcontenti e insoddisfazioni nel tessuto sociale ed economico della Nazione diventa, dunque, necessario procedere con le riforme raccomandate anche dall’Europa e approntare un Piano di Spesa equo ed efficace che risollevi il Sud e vada incontro alle esigenze dei cittadini, degli indigenti, dei lavoratori cassa integrati, degli esercenti del terziario, del manifatturiero e dei piccoli e grandi imprenditori dei settori primari agricolo e industriale.

Sanità, bugie sul Nord virtuoso: il buco fatto da Piemonte e Liguria. Il falso mito che le Regioni settentrionali ricevano più fondi dallo Stato perché li spendono meglio. Invece il disavanzo è proprio creato da queste. Perché un calabrese deve ricevere 1800 euro l’anno e un piemontese 1935 o un toscano 1917? Vincenzo Damiani l'1 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Per la salute e le cure sanitarie dei propri cittadini, lo Stato italiano fa figli e figliastri. Per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 spenderà complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e i 1.877 ad un veneto. È questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale dell’anno in corso. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spetta appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana. Chi sperava in una inversione di rotta almeno dopo una pandemia che ha stravolto le nostre vite e i nostri sistemi sanitari resterà deluso. Il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. E nel 2021 potrebbe persino incassarne ancora di più, la doppia beffa si potrebbe concretizzare a fine anno. Anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni del Sud per la loro sanità rischiano seriamente di ritrovarsi con meno fondi trasferiti dallo Stato. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza), che entra in vigore da quest’anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse. Le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo Report sul coordinamento della Finanza pubblica. Superare il giudizio del Comitato Lea non è fine a sé stesso: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce alle Regioni lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie. Per intenderci, parliamo di svariati milioni di euro, complessivamente per il Mezzogiorno circa un miliardo di euro. Insomma, superare “l’esame Lea” significa poter ricevere soldi. Peccato, però, che prima di “inasprire” i criteri per valutare la qualità delle cure, nessuno si sia preoccupato di mettere fine allo “scippo” che il Mezzogiorno subisce da almeno 15 anni anche nel settore sanitario. Depauperate delle risorse economiche, le Regioni del Sud oggi si ritrovano con meno personale, meno soldi da spendere e macchinari più obsoleti. E adesso, rischiano di perdere un’altra barca di soldi. Da una prima simulazione di valutazione dei Lea svolta sui dati già consolidati del 2017, quasi tutto il Sud risulta inadempiente, ma appare evidente che non avendo messo il Mezzogiorno nelle condizioni di recuperare il gap dal Nord, inasprire i criteri di valutazione finisce per danneggiarlo due volte. È un dato di fatto certificato che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. Anche nel 2020, infatti, il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito logiche inique: meno risorse a parità di popolazione. È lo scippo della spesa storica che prosegue, qualche esempio? Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Figli e figliastri, dicevamo. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia ancora il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Si dirà, le Regioni del Nord ricevono più soldi perché le spendono meglio. Falso mito. Tra il 2018 e il 2019, in Italia si è registrato un peggioramento del disavanzo nei conti del settore sanitario del 10 per cento: dai 990 milioni del 2018 si è passati a poco meno di 1,1 miliardi nell’esercizio appena concluso. Un peggioramento – certifica la Corte dei Conti nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica – da ricondurre “in prevalenza alle regioni non in Piano e a statuto ordinario, che vedono ampliarsi il disavanzo dai 69,1 milioni del 2018 ai 165,5 del 2019”. I giudici contabili stanno parlando proprio delle Regioni del Nord, lo chiariscono in un passaggio successivo: “Un risultato – si legge nella relazione – dovuto soprattutto al Piemonte, che quest’anno sembra chiudere l’esercizio con uno squilibrio di circa 79 milioni. Più limitati gli squilibri di Liguria, Toscana e Basilicata”. L’esame dei dati è tratto dai conti economici consolidati. Le regioni a statuto speciale segnano un incremento più contenuto (+6,6 per cento), pur confermando il risultato fortemente negativo a cui fanno fronte immettendo risorse aggiuntive. Le regioni in Piano, cioè sostanzialmente quasi tutti quelle del Mezzogiorno, nel 2019 continuano a registrare un riassorbimento degli squilibri. Le differenze sono palesi anche sul numero di dipendenti a disposizione: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità.

La cicala e la formica. Giulia Carcasi il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud.

Trenta gradi all’ombra. Sbracata sotto la tettoia de ‘na foglia, ‘na cicala cantava a voce alta. Quer canto, monotono e continuo, infastidiva ‘na formica che s’affannava a fa provviste pe’ l’inverno e, barcollando, trasportava sulla schina ‘na briciola grossa quanto ‘na collina.

«Pe’ cortesia. Puoi sta un minuto zitta?» chiese alla cicala.

Ma quella de canta’ nun smise affatto: «Si nun canto mo che è estate, quanno lo faccio?».

«C’ho mal de testa» la pregò la formica. «Solo un minuto, damme tregua. Smettila co’ ‘sto fri fri».

«Fri fri?!?» sbottò a ride’ la cicala, sfottendo la formica «Come sei antica! Sei rimasta alla preistoria. ‘Na volta noi cicale facevamo fri fri, ma ormai semo internazionali, parlamo inglese come lingua madre, l’avemo imparato dai turisti al camping» e sottolineando la differenza de pronuncia disse «Io non dico mica “fri fri”, ma “free free”, che vor di’ “libera, libera”…».

«A me me pare uguale…» commentò la formica tra sé e sé.

«Ma che ne voi capi’ te che nun fai manco ‘n verso…» l’offese la cicala «Raccatta le molliche, va’, ch’é mejo…».

Fino a quer punto s’era spinta l’ingratitudine! Da che mondo è mondo, le cicale, a furia de canta n’intera estate, se ritrovano d’inverno a mani vote e, si nun morono de fame, è proprio grazie alle fatiche costanti e silenziose delle formiche, che generosamente condividono er cibo della loro dispensa. Ner tempo nun solo la riconoscenza era scomparsa, ma le frivolette ce battevano pure de cassa e l’aiuto pareva dovuto.

Mentre la formica s’allontanava risentita, la cicala sapeva d’esse stata indelicata, ma nun voleva abbassa’ le antenne e, anziché chiede scusa, rincarò la dose: «Cara mia, lo sai perché te la piji a male? Perché te piacerebbe esse’ come me. La tua se chiama invidia. Te nun lo sai cos’è la vita. Sai solo sgobba tutto er giorno. Nun c’hai da fa altro. D’altronde la natura mica t’ha dato le qualità ch’ha dato a me. Canta’ nun sai canta, le ali nun ce l’hai…».

«Vedi de falla finita» l’avvertì la formica. «E st’inverno nun veni’ a frignare alla mia porta. Anzi, pardon, a freegnare. I tempi so’ cambiati, nun te ne sei accorta? Quest’anno nun se trovano più tante molliche a terra. Esse generosi è diventato un mestieraccio e, a forza d’offese, pure su un cuore morbido se fa er callo.»

La cicala capì d’avella detta grossa: «Ascolta. Poggia ‘nattimo sta briciola». La formica se tolse quer carico dalle spalle e se fermò a sentilla. «Io nun so vive come te,» le spiegò la cicala «ma nun te crede che so felice de canta tutto er giorno. Certe vorte ce s’annoia pure. Tu ce sai sta ar buio, io devo anna’ sempre a sbatte’ contro la luce. È tarmente breve la vita nostra che, si me fermo a pensa’, m’assale l’angoscia…»

Allora anche la formica se rabbuiò. «E a me chi m’assicura che nun me capita un colpo secco de ‘na scarpa in testa o ‘na spruzzata d’insetticida? E che me so’ goduta? La vita è pe’ tutti n’incognita.»

C’hai ragione pure te» ammise la cicala. «Si tu me dai ‘na mano a porta’ sta mollica, si famo mezzo e mezzo de fatica come famo mezzo e mezzo de raccolto, tu forse nun t’annoieresti tanto, c’avresti meno angoscia, e io c’avrei er tempo d’assaporà la vita. È vero, nun so canta’ e nun c’ho l’ali, ma nun sai quanto me piacerebbe sta ‘na settimana in ferie a nun fa niente, a riposa’ la schina, a fa ‘na camminata a vanvera, a fa du’ chiacchiere co quarche amica» disse la formica. «Pe’ ‘na settima vorrei falla pure io la cicala».

A buon intenditor poche parole. E pe’ la prima volta ne la storia, ‘na cicala e ‘na formica se caricarono, una da un lato e una dall’altro, ‘na briciola.

La lepre e la tartaruga. Giulia Carcasi il 2 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud.

Te puoi sforza’ quanto te pare, ma certe doti o ce l’hai o nun ce l’hai: nun se imparano.

La lepre c’era nata veloce e s’era meritata er titolo de scheggia der bosco. A vedella pareva ‘n conijo un po’ più grosso, ma mentre quello c’aveva l’espressione domestica de chi s’acquatta dentro a ‘n nascondiglio, la lepre nell’occhi selvatici c’aveva ‘n guizzo. Faceva certi salti che pure i grilli je facevano i complimenti.

Un giorno nacque ‘na tartaruga col complesso de superiorità: a tutte quelle della sua specie spettava ‘na vita lunga e lenta, ma a lei nun je bastava. “Mamma, papà, guardate come so’ svelta!” se metteva ar centro dell’attenzioni, muovendo a più non posso le sue zampe a rallentatore. Era più rapida la terra a gira’ attorno al sole.

“Ammappa!” fingevano de stupisse i genitori pe’ falla contenta, “se continui de ‘sto passo a te la lepre te fa ‘n baffo”.

Dall’apprezzamenti familiari era passata a pretende’ pure quelli dell’altri animali. E un po’ pe’ compassione un po’ perché ai matti je se dà ragione, “Come sei brava!” je ripetevano in coro “Sei ‘n siluro!”. A forza de bucie era diventata così viziata da nun accetta’ più critiche: si quarcuno s’azzardava a faje nota’ che in un giorno faceva a stento mezzo metro e nun se po’ certo definì un record, la tartaruga dava in escandescenze. “Nun t’avvelenà, nun ne vale la pena” la consolavano allora i genitori credendo de fa’ er suo bene “Pe’ un meschino che te dice ‘na cattiveria, nun puoi mette’ in dubbio un talento che tutti te riconoscono…”.

La presunzione si spinse ar punto che la tartaruga un giorno se presentò alla lepre. “Te sfido a chi arriva prima a quell’albero. Scommetti che te batto?”

“È ‘no scherzo?” je rispose quella.

“Nun te crede” l’avvertì la tartaruga “Parto piano, ma so’ un diesel”. E in uno stato di esaltazione aggiunse “Si nun te la senti, lo capisco… C’hai paura de fa ‘na figuraccia e rovinatte la piazza?”

A ‘na simile provocazione la lepre pensò che era troppo: “Paura io de te?!?” e accettò la gara.

Stabilirono un orario, un punto de partenza e un punto d’arrivo.

Al “Via!” la tartaruga scattò subito, ma, pur affannandosi, pareva ferma.

Incontrastata la lepre avanzava, ma sentiva che stava svendendo quer talento che j’aveva dato la natura: se corre pe’ scappa’ da li cani o dalle schioppettate dei cacciatori, se corre pe’ senti’ sul muso la libertà der vento, la carezza dei fili der prato, ma corre pe’ ‘na sfida nun ha senso. Se la vita è ‘na sfida, è solo co’ se stessi e no coll’altri, figurarsi co ‘na tartaruga. Vincere sarebbe stata ‘na sconfitta. Così, arrivata a ‘n passo dar traguardo, se fermò e, senza tajiarlo, se mise lì ad aspettare per ore e ore.

La tartaruga, quanno finalmente la raggiunse, esclamò “T’ho ripreso!” e pe’ l’emozione nun stava più ner carapace. Ma se sgonfiò ben presto, vedendo che la lepre, scansandosi, la faceva passare avanti e je diceva “Prego!”.

La corazzata tajò comunque er traguardo, ma fu ‘na misera conquista, che nun la rese soddisfatta.

A chi je chiede come quer giorno annarono le cose, la tartaruga, vantandosi, racconta ‘na menzogna: “Er segreto è la costanza! Chi va piano va sano e va lontano”. Alle lepre je scappa da ride ogni vorta che la voce arriva alle sue lunghe orecchie. Si je chiedessero de rifa’ la sfida, farebbe vince la tartaruga n’artra vorta, che tanto sempre e comunque ‘na tartaruga resta. 

Sanità, uno scippo senza fine: al Sud sottratto un altro miliardo. Vincenzo Damiani il 24 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La doppia beffa si potrebbe concretizzare tra pochi mesi, a fine anno. Anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni del Sud per la loro sanità rischiano seriamente di ritrovarsi con meno fondi trasferiti dallo Stato. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza), che entra in vigore da quest’anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse. Le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo Report sul coordinamento della Finanza pubblica. Attenzione, superare il giudizio del Comitato Lea non è fine a sé stesso: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce alle Regioni lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie. E pensare che il ministro Speranza aveva promesso più risorse per la Sanità del Sud. Per intenderci, parliamo di svariati milioni di euro: oltre 200 per la Campania, ad esempio, complessivamente per il Mezzogiorno circa un miliardo di euro. Insomma, superare “l’esame Lea” significa poter ricevere soldi. Peccato, però, che prima di “inasprire” i criteri per valutare la qualità delle cure, nessuno si sia preoccupato di mettere fine allo “scippo” che il Mezzogiorno subisce da almeno 15 anni anche – e non solo – nel settore sanitario. Depauperate delle risorse economiche, le Regioni del Sud oggi si ritrovano con meno personale, meno soldi da spendere e macchinari più obsoleti. E adesso, rischiano di perdere un’altra barca di soldi. Sì perché, come dicevamo, da fine 2020, sarà in vigore il nuovo sistema di garanzia dei Lea, approvato nel dicembre 2018 in Conferenza Stato-Regioni. La nuova metodologia valuta distintamente le tre aree di assistenza e attribuisce loro un valore compreso in un range 0-100. La garanzia di erogazione dei Lea si intende raggiunta qualora, entro ciascun livello, sia raggiunto un punteggio pari o superiore a 60. Il punteggio di ogni area è determinato dalla media pesata di 22 indicatori, così suddivisi: 6 per l’area della prevenzione (copertura vaccinale pediatrica a 24 mesi per esavalente e MPR, controllo animali e alimenti, stili di vita, screening oncologici); 9 per l’attività distrettuale (tasso di ospedalizzazione di adulti per diabete, Bpco e scompenso cardiaco e tasso di ospedalizzazione di minori per asma e gastroenterite, intervallo chiamata-arrivo mezzi di soccorso, tempi d’attesa, consumo di antibiotici, percentuale re-ricoveri in psichiatria, numero decessi da tumore assistiti da cure palliative, anziani non autosufficienti nelle RSA); 6 per l’attività ospedaliera (tasso di ospedalizzazione standardizzato rispetto alla popolazione residente, interventi per tumore maligno al seno eseguiti in reparti con volumi di attività superiore a 150 interventi annui, ricoveri a rischio inappropriatezza, quota di colecistectomie con degenza inferiore ai 3 giorni, over 65 operati di frattura al femore entro 2 giorni; parti cesarei in strutture con più e meno di 1000 parti l’anno). Da una prima simulazione svolta sui dati del 2017, quasi tutto il Sud risulta inadempiente, ma appare evidente che non avendo messo il Mezzogiorno nelle condizioni di recuperare il gap dal Nord, inasprire i criteri di valutazione finisce per danneggiarlo due volte. E’ un dato di fatto certificato che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. Anche nel 2020, infatti, il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito logiche inique: meno risorse a parità di popolazione. E’ lo scippo della spesa storia che prosegue, qualche esempio? Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi per la sua sanità che non ha brillato durante l’emergenza Coronavirus: fatti due calcoli, significa 1.880 euro per ogni sua cittadino. La Campania, 5,8 milioni di residenti, avrà 10,6 miliardi: 1.827 euro pro capite. La Calabria (quasi due milioni di abitanti) ottiene nella ripartizione del fondo sanitario nazionale da 113 miliardi solamente 3,6 miliardi: 1.800 euro per ogni cittadino. Potremmo continuare: il Friuli Venezia Giulia che conta 1,2 milioni di residenti, incassa 2,33 miliardi: 1.916 euro per ogni suo cittadino. E ancora: il Piemonte, che pure negli ultimi anni come certificato dalla Corte dei Conti, non ha brillato nell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa sanitaria, incassa dallo Stato 8,33 miliardi per 4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. Chiudiamo con la Toscana, 3,73 milioni di abitanti e 7,1 miliardi: 1.917 euro pro capite. Figli e figliastri. Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale premia ancora il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiare di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Le differenze sono palesi anche sul numero di dipendenti a disposizione: in Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità . Parlare di liste di attesa e mobilità passiva a fronte di questi numeri diventa quasi superfluo: provate a immaginare una partita di calcio dove una squadra schiera regolarmente 11 giocatori e l’altra invece 5, 6 al massimo 7. Come crediate possa finire? La risposta è abbastanza scontata. Come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 22mila lavoratori in più? Ecco perché criteri di valutazione più severi finiranno per danneggiare due volte il Mezzogiorno.

BERLUSCONI INVOCA UN NUOVO PIANO MARSHALL PER IL SUD? E' PER PORTARE ALTRI SOLDI AL NORD. GLI "ERPIVORI", QUANDO DE GASPERI RUBO' AL SUD I RISARCIMENTI AMERICANI DEL DOPOGUERRA. Di Annamaria Pisapia, vicepresidente nazionale M24A. Su "Il Popolo" del 25 luglio 1948, Don Luigi Sturzo si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori", cioè consumatori parassiti di fondi ERP,(european recovery program). Gli ERP, meglio conosciuti come Piano Marshall, erano i fondi destinati dal governo americano per la ricostruzione e il rilancio delle aree maggiormente devastate dall'evento bellico della seconda guerra mondiale. Don Luigi Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si batteva affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno, che era l'area maggiormente colpita, rispetto al nord, pressando i ministri in tal senso. Purtroppo il governo, presieduto da De Gasperi, ritenne di dirottarli in misura dell'87% al nord e solo del 13% al Sud favorendo il rilancio delle industrie settentrionali. Il ministro dell'agricoltura Segni inviò una lettera a Don Sturzo il 22 luglio 1948 in cui diceva: " A POCO A POCO, INDUSTRIA E NORD STANNO TENTANDO DI ACCAPARRARSI TUTTO. IO NEGOZIO, SINO ALLE ESTREME CONSEGUENZE, MA LA LOTTA E' IMPARI, SOLO, COLL'OTTIMO RONCHI; CONTRO QUASI TUTTI GLI ALTRI". (ALS 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Era nell'idea del governo e degli industriali del nord di puntare sull'emigrazione a basso costo del Sud per il decollo dell'economia italiana(nord). Così, di 1 miliardo e trecentomilioni di dollari, al Sud arrivarono le briciole. Purtroppo anche quelle briciole Don Sturzo dovette difenderle con i denti contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. E come era ovvio il pil di zone come il Veneto, fino ad allora povero, schizzò a +22% e al Sud diminuì del 10%. Ma con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , per istituire "La Cassa per il Mezzogiorno". Così, mentre i soldi dei fondi ERP se ne andarono in silenzio al nord, la "Cassa per il Mezzogiorno" venne annunciata con tanto di grancassa. Insomma, la prepotenza del nord fece in modo che i fondi ERP risultassero un risarcimento che gli era dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Inutile dire che il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Sud.

"GLI ERPIVORI: NEL 1948 DE GASPERI DIROTTO' I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA'? Di Annamaria Pisapia, vicepresidente nazionale M24A. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicopensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque (ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto (la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall'ospedale di Padova e di Brescia come "primi" ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l'emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce com“ nord, motore propulsivo". Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l'unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l'America annunciò l'avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell'Europa. Il piano prevedeva l'impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l'Italia, il Sud era l'area maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall'evento bellica. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l'87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su "Il Popolo" del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori" (consumatori parassiti di fondi Erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si battè affinché gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: "a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il Pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita "La Cassa per il Mezzogiorno" (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente".

Mes, De Luca furioso rilancia i temi dello scippo al Sud e della Grande Balla. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 30 giugno 2020. «Per dieci anni la Campania è stata penalizzata al di là di ogni decenza istituzionale e di ogni ragionevolezza. Sarebbe uno scandalo non tollerabile, perseverare con criteri da rapina verso il Sud e la Campania perfino per l’assegnazione di risorse aggiuntive e straordinarie. Siamo pronti ad accettare la sfida dell’efficienza nei confronti di chiunque ma ci tuteleremo in ogni caso in tutte le sedi», compreso rivolgendosi «al Capo dello Stato oltre che alla Corte Costituzionale, nel caso in cui dovesse essere formalizzata tale ipotesi». VIncenzo De Luca, governatore della Campania, rilancia con decisione, in alcune dichiarazioni quella che è una battaglia che il Quotidiano del Sud l’Altravoce dell’Italia ha intrapreso fin dal suo primo numero: porre fine allo scippo ai danni del Mezzogiorno in base al quale miliardi di euro, con il trucco della spesa storica, vengono fatti confluire verso le regioni del Nord a discapito delle regioni del Sud. Una operazione che inevitabilmente fa il paio con la grande balla, denunciata dal direttore Roberto Napoletano, secondo la quale il Sud vivrebbe sulle spalle del Nord. Una falsità dimostrata dai numeri della finanza pubblica e certificata dagli enti istituzionali della Repubblica e non certo da consulenti di parte. L’occasione per tornare sull’argomento a De Luca l’ha data la simulazione, pubblicata dal Corriere della Sera, in base alla quale è stata disegnata una mappa delle assegnazioni dei possibili fondi del Mes tra le regioni Italiane qualora il Governo vi facesse ricorso. Lo schema assegna le risorse in base agli attuali criteri di spesa, quindi la spesa storica, e porta come risultato l’ennesimo squilibrio a vantaggio del Nord e discapito del Sud ossia l’ennesima incarnazione dello Scippo al Sud. Le somme del Mes, sempre se il governo vi farà ricorso, hanno un unico vincolo ossia devono essere destinate alla sanità con specifico riferimento ad investimenti e spese dirette e indirette collegate alla pandemia da coronavirus Covid-19 e da spendere nel 2020 e nel 2021 per un ammontare complessivo di circa 36 miliardi di euro. Fondo immensi fondamentali per rimettere in piedi un settore, quello sanitario, fatto letteralmente a pezzi nel corso degli ultimi quindici anni al Sud molto più che al Nord. Con la scusa dei piani di rientro e delle spese poco chiare, infatti, in tutto il Mezzogiorno, e non solo in Campania, sono stati progressivamente tagliati ospedali, punti nascite, poliambulatori, assunzioni di medici e di infermieri, riducendo la sanità del Sud ad una piccola porzione della sua struttura originaria. Tagli effettuati badando esclusivamente ai bilanci spessa senza considerare l’importanza della presenza di un ospedale in un’area montana o la necessarietà di prevedere la presenza del giusto numero di addetti (infermieri, medici e personale amministrativo) nei vari reparti progressivamente ridimensionati o addirittura chiusi. Ma De Luca si infuria perché quel criterio da oltre un anno denunciato dal Quotidiano Del Sud (LEGGI TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE) si basa ricalcandolo pedissequamente sull’attuale criterio di riparto tra le Regioni del fondo sanitario nazionale basato sul principio che bisogna ignorare il numero totale degli abitanti presenti in regione in luogo delle incidenze di giovani e anziani sul totale della popolazione causando in questo modo una forte riduzione delle somme trasferite al Sud a tutto vantaggio, ancora una volta, del Nord. Appare palese, a questo punto, che per far ripartire l’Italia serve veramente cambiare i presupposti di partenza, rompere il diabolico meccanismo per cui chi è più ricco ottiene più fondi e chi è più povero ne ottiene sempre meno e ricordarsi che un cittadino italiano è tale in qualunque luogo della Repubblica risieda e, pertanto, alcuni servizi, e la sanità è indubbiamente il principale tra questi, non devono assolutamente soffrire decurtazioni in base a latitudine e longitudine. La crisi del coronavirus può veramente essere l’occasione per fare quell’Italia unita che in 160 anni non è stata fatta.

TUTTI I NUMERI DELLO SCIPPO AL SUD CHE AFFOSSANO IL FUTURO DEL PAESE. Dopo le “Operazioni verità”, il “Manifesto per l’Italia” e l’appello per gli Stati generali dell’economia la battaglia condotta del nostro giornale continua. Claudio Marincola Il Quotidiano del Sud il 13 giugno 2020. «L’unica battaglia che si è persa in partenza è quella che non si è mai combattuta». A qualcuno sembrerà esagerato scomodare addirittura il comandante Che Guevara per raccontare le campagne di questo giornale. Se diciamo però che aprire l’involucro delle mistificazioni e rovesciare le tante falsità spacciate per verità non è stato facile, credeteci. Per troppo tempo al Sud sono state sottratte risorse, investimenti produttivi, spesa pubblica. Un artificio contabile, un gioco da prestigiatori e, oplà, i conti tornavano. Una foresta pietrificata di pregiudizi, decenni di affabulazioni da smascherare.

OPERAZIONE VERITÀ SCIPPO SMASCHERATO. Sul Mezzogiorno, per anni, la fabbrica all’ingrosso della manipolazione ha prodotto fake. Numeri contraffatti diffusi come granitiche certezze. Presunti vizi antropologici diventati luoghi comuni, caricature geografiche. Siamo partiti dai numeri. Dai 61,5 miliardi l’anno. Con il trapano della Spesa storica lo Stato ha continuato a regalare al Nord, finanziando ogni genere di assistenzialismo. Abbiamo raccontato, cifre alla mano, come la Regione Piemonte spenda per i suoi servizi generale cinque volte più della Campania pur avendo un milione e mezzo di abitanti in meno. Da sola più di quanto sommano insieme Campania, Puglia e Calabria. Da queste colonne s’è sollevata, in britannica solitudine, la campagna fatta propria da questo governo e inserita nella legge di bilancio: l’iniqua distribuzione che ha privato il Sud di risorse destinando quote ben inferiori alla soglia del 34%, la quota di popolazione residente. Scippo raccontato frame dopo frame, come in un film. Titolo: “Operazione verità”. La banca del buco che ha scavato sottotraccia per anni – abbiamo scritto – nelle pieghe del bilancio italiano. Risultato: al Nord 735, 4 miliardi, il 71,7% della spesa pubblica totale totale, al Sud solo 290,9 miliardi. Uno scarto rispetto alla quota dovuta del 6%, pari, appunto, a 61,5 miliardi. Che vuole dire meno mense, meno servizi pubblici, asili zero o quasi, etc., etc.

IL MANIFESTO PER L’ITALIA E LA LETTERA DI CONTE. La lotta per ridurre le disuguaglianze vale al Nord come al Sud. Questo concetto, valido anche in Europa, lo abbiamo chiaro, ed è con questo spirito che nel settembre 2019 è stato sottoscritto il Manifesto per l’Italia (LEGGI), uno stimolo per politici, sindacalisti, ricercatori, studenti per far ripartire il Paese. Senza tuttavia mai perdere di vista la bussola: il Mezzogiorno, area geografica dal perimetro ben delimitato, il luogo in cui si è perpetrato un “delitto all’italiana” gettando le basi culturali ed economiche della mancata crescita nazionale. A rimetterci è stato infatti l’intero Paese, se è vero come è vero che già prima del Covid-19 Nord e Sud d’Italia erano gli unici territori europei a non aver raggiunto i livelli pre-crisi del 2008. Per l’esattezza: il nostro Meridione 10 punti sotto. Il 12 settembre la lettera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Caro direttore, accolgo con favore la dichiarazione di intenti del Manifesto, serve una fase nuova, ho condiviso con von der Leyen i contenuti dell’agenda riformatrice…». La favola di un Sud pigro e sprecone – generata da una classe dirigente inadeguata e corrotta – ha fatto da carburante per alimentare la macchina dello scippo perfetto. Ed ecco in che modo gli aiuti di Stato sono finiti in larga parte alla locomotiva d’Italia, la Lombardia che ora riesce a malapena a trainare se stessa. Dalla metà del 2017 la regione del presidente Fontana – un governatore che a volte sfiora forme di masochismo e si fa male da solo – ha incassato ben 3,5 miliardi di euro contro i 600 milioni della Campania. “Aiutini” di Stato andati anche a Veneto (1,5); Piemonte (1,3); Emilia-Romagna (1,3); Lazio (1,1); Toscana (1,0); Trentino-Alto Adige (1,0).

LE MANI DEL NORD SUI FONDI EUROPEI. Sono i numeri di un’Italia rovesciata. Con il Mezzogiorno che invece di aumentare la spesa degli investimenti pubblici la vedeva ridurre dello 0,5% rispetto all’anno precedente (Fonte Cresme). Il rischio di uno scenario da deriva greca, un Sud dove il reddito pro-capite è la metà o quasi del Nord, un sistema Paese che non tira più, il fantasma della Troika che avanza. Appena due mesi prima che si scoprisse la diffusione del virus a Cologno una nostra inchiesta sui carrozzoni suonava profetica: Il 42 per cento delle risorse sanitarie incassate dalle Regioni del Nord, il 20 per cento dalle regioni del Centro e il 23 per cento da quelle del Sud. Dati della Corte dei conti, diffusi in tempo non sospetti, in cui si diceva tra l’altro che la quota di riparto del fondo sanitario nazionale era cresciuta in Lombardia del 1.07 per cento contro lo 0,75 per cento della Calabria, lo 0,42 per cento della Basilicata e lo 0,45 per cento del Molise. In pieno lockdown c’è stato anche chi, qualche tecnico del Mef, ha pensato di sfruttare la catastrofe del contagio per dare alla Lombardia i finanziamenti dei fondi europei destinati al Sud. La catastrofe della catastrofe. Una “rapina di Stato” in tempo di pace.

RI-FATE PRESTO IL DECRETO ILLIQUIDITÀ. Con il protagonismo dei governatori si è scoperto l’inganno dell’autonomia differenziata. La sanità pubblica svuotata, i presidi territoriali dismessi, i vantaggi concessi al privato. I viaggi della speranza dei cittadini del Mezzogiorno per gonfiare le tasche dei privati. Il modello-Formigoni che stiamo ancora pagando a caro prezzo. In questo clima è partita la campagna “Ri-fate presto”. Un conto alla rovescia contro la burocrazia e contro “l’esproprio” del decreto di lancio. L’assurdo di uno Stato che invece di risarcire il danno arrecato ne approfitta per entrare nel capitale sociale delle aziende con Invitalia e Cdp. L’assenza di una cabina di regia, le responsabilità del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri. Il fallimento del decreto “illiquidità”, l’incapacità di fornire prestiti agli italiani e alle imprese in difficoltà. Il “tappo” delle banche ammesso ancora ieri da Bankitalia, la rabbia degli italiani e di quanti saranno costretti ad abbassare la saracinesca. Il ruolo della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario presieduta dalla deputata Carla Ruocco. Il caso limite degli “appestati”, i tanti italiani finiti per avventura o per disgrazia nella famigerata Centrale rischi della Banca d’Italia, Condannati “a morte” magari solo per una rata scaduta.

L’APPELLO PER GLI STATI GENERALI. Difficile in questi giorni liberarsi dall’impaccio del reale e sognare una ripartenza di slancio. La crisi da Covid ha messo a dura prova le difese immunitarie di un Paese già in sofferenza. La liquidità che arriva con il contagocce, le aziende che chiudono, il terrore di una seconda ondata, le nuove stime negative della Federal Reserve. Da qui l’urgenza di abbattere le burocrazie ministeriali e bancarie e dotarsi di un piano strategico di lungo respiro. È partito da queste considerazioni l’appello lanciato dal Quotidiano del Sud per la convocazione degli Stati generali dell’economia, l’esigenza di gestire in modo ottimale ed efficiente il fiume di denaro che arriverà dall’Unione europea. Un appello raccolto dal premier Conte, osteggiato da falchi, gufi e altri volatili in libera uscita, da gabbia o da voliera. E la battaglia continua.

Quando il Governo Letta penalizzò le Università del Sud per favorire quelle del Nord. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 6 maggio 2020. La sottrazione di risorse alle Università povere (quelle del Sud) per favorire le università ricche (quelle del Nord, che non sono affatto le migliori) ha determinato la migrazione di studenti (e di risorse finanziarie) dal Sud al Nord. Una vergogna infinita e uno scandalo ignorato. Sentire che tanti nostri studenti universitari, e i propri familiari, in questi giorni si lamentano di dover pagare affitti mentre le università sono praticamente chiuse, mi fa proprio male e mi costringe a riferire quello di cui pochi sono a conoscenza. Fu un provvedimento del governo di Enrico Letta e della ministra dell’Istruzione di allora, Maria Grazia Carrozza, a penalizzare fortemente le università del Sud con una sorta di decreto ammazza università meridionali che ha dato soldi alle università ricche e li ha sottratti a quelle povere. Badate bene, non a quelle migliori, a quelle più ricche. Lo scrive peraltro l’amico Pino Aprile nel suo ultimo testo “L’Italia è finita”, come sempre una miniera di informazioni. Tanto che l’economista barese Gianfranco Viesti – ricordo che è anche cittadino onorario della città di Vieste – ne scrisse un libro di denuncia: “La laurea negata”, arrivando a dire che tanto valeva farle chiudere. Un decreto che andò a peggiorare le già antimeridionali norme dei precedenti ministri Profumo e Gelmini. Ora uno studente meridionale su due (8 su 10 in Basilicata) sceglie un università del Nord e questo comporta l’ennesimo esborso di miliardi che passano da Sud a Nord, quasi non bastasse la tristissima e abominevole emigrazione sanitaria. Questa politica di sottrazione di fondi e di risorse al Sud è stata condotta senza interruzione e indifferentemente da governi di tutti i colori, destra, centro e sinistra. Ma pochi di noi se ne sono accorti, perché la politica ormai è diventata il regno degli incapaci e degli ignoranti. La manipolazione politica-mediatica al servizio dei poteri finanziari e politici nord-centrici, quotidiana da almeno 35 anni (vedere i dati riportati dagli studiosi di processi comunicativi Cristante e Cremonesini) ci ha invece fatto credere che sia tutto normale. Non lo è affatto! Nonostante tutto, nonostante la continua e discriminante sottrazione di fondi, molte delle nostre università restano ad alti livelli. Vorrei inoltre ricordare che la prima, grande università italiana è stata la Federico II di Napoli da cui fino al 1861 uscivano la maggior parte dei laureati in Italia. Infatti la Federico II è nata nel 1224, mentre le tanto decantate “Politecnico di Milano” e la super propagandata “Bocconi” sono sorte rispettivamente nel 1863 e nel 1902. Non vi cito neppure poi quelle sorte durante la lunga parentesi leghista e nordista che abbiamo attraversato e da cui non siamo ancora usciti.

Recensioni - 23 Maggio 2018 “La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria” di Gianfranco Viesti. Recensione a: Gianfranco Viesti, La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 154, 12 euro (scheda libro). Scritto da Francesco Corti 28 maggio 2018. Un libro tascabile, come recita il nome della collana dell’editore Laterza che lo ha pubblicato, è la caratteristica principale dell’ultimo saggio di Gianfranco Viesti La laurea negata. Un testo che, nelle intenzioni rese subito esplicite dall’autore, ha, in primo luogo, l’obiettivo di essere divulgativo, di dare al vasto pubblico, quello lontano dalle università, alcune risposte a domande e interrogativi che spesso accompagnano il dibattito mediatico sul mondo accademico e sul suo rapporto con il mondo del lavoro e dell’amministrazione pubblica. Viesti presenta una rassegna dettagliata e precisa dei principali problemi che investono l’università italiana, riprendendo alcuni stereotipi ad essa connessi, dalla bassa qualità dei docenti alla scarsa competizione con le università all’estero. Per ognuno di questi temi, l’autore offre una presentazione sintetica ma, allo stesso tempo, esaustiva e soddisfacente, che stimola approfondimenti e nuove riflessioni. L’obiettivo principale del libro è chiaro: rompere i tabù e i luoghi comuni intorno all’università italiana, offrire un quadro d’insieme sulle evoluzioni più recenti del sistema accademico italiano e provare a lanciare alcuni stimoli per un tavolo di discussione sulle sfide a venire. Per fare questo, Viesti inizia la sua analisi offrendo una prospettiva storica, che muove da un’iniziale presentazione delle problematiche strutturali del sistema di educazione terziaria in Italia per poi concentrarsi, sulle più recenti evoluzioni. Il dato generale rilevato è allarmante. A partire dal 2010, anno della riforma Gelmini, e inizio della parabola discendente degli investimenti pubblici dell’Italia nell’università, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Contrariamente ad altri Paesi dell’Unione Europea, Germania in primis, che, invece, hanno aumentato la spesa per le università, l’Italia ha assistito ad una riduzione drastica del personale docente, attraverso il blocco del turnover e quindi delle assunzioni di giovani ricercatori, i quali hanno rinunciato a proseguire il percorso accademico in Italia o hanno rinunciato alla prospettiva accademica in via definitiva. Al taglio strutturale delle risorse, si è accompagnato un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Questo disinvestimento nell’università ha evidentemente determinato, come conseguenze, maggiori difficoltà da parte delle famiglie a mantenere il percorso di studi dei figli, e conseguentemente una contrazione delle immatricolazioni.

Risparmiare sull’istruzione. Questa riduzione delle iscrizioni è stata ovviamente diversificata a seconda del settore disciplinare, con le materie di area umanistica che hanno osservato un calo ben superiore al 20% della media nazionale, e a seconda della provenienza geografica, con un effetto ben più marcato al Sud Italia rispetto al Nord. La mancanza di un sistema di infrastrutture e trasporti adeguato, specialmente nel Meridione e la conseguente necessità di trasferirsi per poter studiare, ha portato le famiglie che hanno potuto permetterselo a mandare i propri figli nelle università del Nord, considerate di migliore qualità e con maggiori possibilità di trovare un lavoro successivamente alla laurea. Anche in questo caso, spiega bene Viesti, la retorica delle università di serie A e di serie B non ha indubbiamente aiutato a contenere quello che, oggi, si è trasformato in un vero e proprio fenomeno di migrazione dal Sud al Nord Italia. L’esito è stato la creazione di un gruppo ristretto di università di “eccellenza” in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre il resto delle università italiane (prevalentemente del Centro, del Sud e delle Isole, ma anche del Nord “periferico”) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse. La retorica dell’eccellenza, supportata da quella che Viesti chiama «una densa cortina di indicatori ed algoritmi», non ha però aiutato ad individuare i problemi strutturali presenti nelle regioni meno sviluppate e svantaggiate del paese. Al contrario, essa è stata utilizzata come giustificazione per l’attuazione di ulteriori disinvestimenti. Il tutto sotto il motto “meritocrazia virtuosismo valutazione”, che è stato fatto proprio dal vero nuovo giudice e deus ex machina della politica universitaria italiana: l’ANVUR. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, commenta Viesti, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. I suoi commissari sono scelti nominativamente dal Ministro e non sono rappresentativi di tutte le componenti del sistema universitario. Il potere dell’ANVUR nella valutazione è pressoché totale tanto da poter ignorare, come già accaduto in passato, anche il parere dello stesso Parlamento. Solo il ministro ha il potere di controllarne l’operato ma, spesso, questo non succede. Per questo si lascia che un’agenzia decida, attraverso una serie di indicatori che si dicono essere “oggettivi”, la valutazione delle performance degli atenei e la destinazione dei finanziamenti. Taglio degli investimenti, de-responsabilizzazione politica e delegazione della valutazione delle performance degli atenei ad un gruppo ristretto di tecnici sono fattori che hanno determinato un cambio strutturale all’interno del mondo accademico italiano. A questo cambiamento nelle forme di finanziamento, nei meccanismi di governance e di controllo, come sottolinea bene Viesti, si è accompagnato anche un cambio di paradigma, a livello normativo. Insieme agli attori, si potrebbe dire, sono cambiate anche le idee. A partire dal 2008, infatti, nel clima delle riforme dettate dalle necessità di maggiore austerità, l’Italia si è sempre di più avvicinata ad un modello neo-liberale di finanziamento del sistema universitario, molto simile all’esempio anglosassone. Commenta Viesti: «L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati” (n.d.r. l’ANVUR), in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico». Troppi studenti, troppi professori, assunzioni facili, troppi costi, bassi standard internazionali, poca voglia di studiare, poco merito: questi sono stati gli argomenti che hanno accompagno la nuova retorica del merito, con la quale poi si sono giustificati, come necessari, i tagli indistinti ai finanziamenti. Indicatori “oggettivi” per premiare il “merito” e fermare gli “sprechi”: quale migliore argomento in tempi di austerità e crisi?

Il modello di università a cui dovremmo ambire secondo Viesti. Eppure, come mostra bene Viesti, nel suo saggio, le performance del sistema universitario italiano non sono al di sotto di quelle degli altri stati membri dell’UE, sia in termini di numero pubblicazioni sia in termini di qualità della ricerca. Addirittura se confrontati a parità di condizioni di partenza, l’università italiana avrebbe un potenziale anche maggiore. Il che sorprende se pensiamo che l’investimento italiano nel settore dell’educazione terziaria è di gran lunga inferiore agli altri stati membri dell’UE. Per dare un’idea, nel 2015 il finanziamento pubblico in Italia è stato di 7 miliardi, contro i 28,7 della Germania, dei 23,7 della Francia e dei 9,8 del Regno Unito, che prevalentemente si basa su un sistema di risorse private. Ancora, rapportando la spesa pubblica alla popolazione, si vede che nei Paesi Scandinavi la spesa media annua per l’educazione terziaria per abitante è di 600 euro, 350 in Germania e Francia, 150 nel regno unito e solo 110 in Italia. Se dunque la realtà dell’università non corrisponde all’immagine che se ne è voluto dare, cadono anche le giustificazioni retoriche che hanno accompagnato i tagli di questi ultimi anni. A meno che, chiaramente non si ritenga che, nonostante, tutta l’università non sia importante.  Su questo aspetto, non è mancata la retorica di chi ha voluto sottolineare l’assenza di un collegamento con il mondo del lavoro, l’incapacità delle università italiane di fornire ai propri studenti strumenti, capacità e competenze oltre che nozioni. Anche su questo punto, Viesti offre una prospettiva alternativa, che non nega il problema esistente relativamente al passaggio tra mondo dell’università e quello del lavoro, ma inserisce il dibattito in una cornice più complessa e meno semplicistica. Ad esempio, portando i dati riguardo l’indice di occupazione dei neo-laureati, che è di gran lunga maggiore rispetto ai non laureati, a prescindere dal tipo di settore disciplinare. Ma la riflessione del professore di economia, non si limita ad una semplice analisi dei costi benefici. L’argomentazione va ben oltre e si inserisce in un quadro più ampio di visione della politica e della società. Abbracciare, come è stato fatto in questi anni, un approccio all’università basato sui tagli e sull’investimento in presunti centri di eccellenza significa, infatti, perdere di vista la funzione politica dell’università, come motore di progresso sociale, emancipazione di luoghi e spazi geografici, creazione di idee e novità e culla di coscienza critica e partecipazione democratica. Ed è proprio questa riduzione dell’università ad una logica di mercato, ad un’analisi dei costi e benefici che Viesti critica. Non dovrebbe essere questo, infatti, il modello di università cui vorremmo ambire, secondo l’autore, che per questo, alla fine del suo saggio, prova ad offrirci un quadro alternativo e inizia ad abbozzare anche alcune prime risposte.

Scritto da Francesco Corti. Nato nel 1992. Dottorando in Studi Politici presso l'Università degli Studi di Milano, dove si occupa di Unione Europea e politiche sociali. Fa parte del team di ricerca "REScEU: Reconciling economic and social Europe" e della FEPS YAN. Ha lavorato al Parlamento Europeo e continua, tuttora, come prestatore di servizi.

“LA LAUREA NEGATA. LE POLITICHE CONTRO L’ISTRUZIONE UNIVERSITARIA”. Di Gianfranco Viesti su letture.org.

Prof. Gianfranco Viesti, Lei è autore del libro La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria edito da Laterza: qual è lo stato dell’università italiana?

«L’università italiana aveva problemi di quantità e di qualità. Era molto più piccola, in comparazione con gli altri paesi avanzati. Mostrava criticità nel suo funzionamento. Le riforme l’hanno portata in una direzione estremamente discutibile: l’hanno fatta diventare di dimensione inferiore, ma non di migliore qualità. Nel giro di pochi anni l’Italia ha percorso a grandi passi all’indietro il cammino verso un maggiore livello di istruzione superiore della sua popolazione. L’università italiana, per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola: di circa un quinto. La riduzione è stata molto maggiore di quanto non sia avvenuto negli altri comparti dell’intervento pubblico. Né ha paragoni negli altri Paesi colpiti dalla crisi. Va comparato con aumenti anche sensibili registrati altrove, a partire dalla Germania. Il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Per tagliare così tanto la spesa si è ridotto il numero dei docenti (che rappresentano la principale voce di costo delle università) attraverso un prolungato blocco del turnover, cioè del ricambio del personale andato in pensione. I docenti sono diminuiti di quasi quindicimila (e il personale tecnico-amministrativo si è pure notevolmente ridotto). Le porte dell’università sono state chiuse a tutta una leva di giovani ricercatori. Una parte di essi si è dovuta accontentare di posizioni precarie, sottopagate e senza prospettive chiare di carriera. Un’altra parte ha preso la via dell’estero: ha avuto accesso ai sistemi universitari degli altri paesi, soprattutto europei, cui abbiamo regalato un “capitale umano” formato e di qualità. L’età media dei docenti, senza ricambio, è cresciuta molto. Al taglio draconiano delle risorse pubbliche è corrisposto un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Ciò ha acuito le difficoltà economiche delle famiglie; non poche hanno rinunciato all’istruzione universitaria per i propri figli. Anche le immatricolazioni – già molto inferiori a quelle degli altri paesi europei – sono diminuite di circa un quinto rispetto ai livelli massimi del passato. Hanno rinunciato all’università più degli altri i diplomati degli istituti tecnici e professionali; quelli provenienti da famiglie a reddito più modesto; quelli del Mezzogiorno. I tagli non sono stati uguali per tutti: e il sistema, oltre che più piccolo è divenuto molto più differenziato al suo interno. Si sono ridotti molto di più gli insegnamenti di area umanistica. Si è teso a creare una netta suddivisione fra atenei di serie A, relativamente protetti, e atenei di serie B, su cui si sono concentrati i tagli. Si è creato un piccolo gruppo di università di serie A in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; il grosso delle università italiane (del Nord “periferico”, del Centro e del Sud continentale) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse; gli atenei di Sicilia e Sardegna sono stati ridotti ai minimi termini. Si è deciso di disinvestire, per la prima volta nella storia unitaria, nella formazione superiore proprio nelle aree del paese in cui i livelli di istruzione sono più bassi (bassissimi in comparazione europea), e il ruolo delle università più importante. Sono state messe in atto una serie di misure che hanno favorito la migrazione degli studenti dal Mezzogiorno verso il resto del paese. Si è provato a mascherare questa scelta dietro una densa cortina di indicatori ed algoritmi, e dietro i ripetuti, onnipresenti, richiami al merito e all’eccellenza. In realtà si è operata una scelta politica esplicita, frutto della convinzione che sia bene concentrare le risorse sulle aree più forti del paese. La vita delle università e degli universitari è venuta sempre più ad essere dominata da un insieme minuzioso di regole e prescrizioni emanate dal Ministero, e, ancor più dall’Anvur. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. Composta da Commissari scelti nominativamente dal Ministro, non rappresenta le diverse componenti del sistema universitario; non si cura di raccogliere e suscitare consenso intorno alle sue decisioni. È depositaria della verità: conosce tutti i problemi, e soprattutto tutte le soluzioni; e le mette in atto attraverso poteri coercitivi. Il sogno del riformatore illiberale: un gruppo di saggi, di “prescelti” che finalmente illumina la via, e costringe un sistema anarchico e irresponsabile a seguirla. In barba al Parlamento e al dibattito pubblico, l’Anvur ha fatto e fa una parte molto importante della politica della ricerca nel nostro paese. Stabilisce cosa è ricerca di qualità e non; quali sono i campi e le metodologie di indagine opportune e quali meno; e a tutto applica rigidi indicatori numerici. Vicende che potrebbero assumere anche connotanti divertenti, nelle loro dimensioni orwelliane, se non stessero plasmando a rigida indicazione di un ristretto numero di sapienti le dimensioni di istituzioni, che dovrebbero godere di autonomia ed essere fucina di saperi critici e confronto di opinioni».

Perché l’università è importante?

«In primo luogo perché il minore livello di istruzione della popolazione, e in particolare la scarsa diffusione degli studi universitari, è certamente uno dei fattori che ha ostacolato e ostacola il complessivo sviluppo economico del nostro paese. Quantomeno per mantenere il proprio posizionamento nel quadro internazionale del futuro, all’Italia serviranno nei prossimi lustri molti più laureati. Soprattutto considerando che la percentuale di laureati fra gli occupati italiani è oggi molto inferiore a quella degli altri paesi europei (circa la metà rispetto a Regno Unito, Francia, Spagna); lo stesso accade fra i manager e gli stessi imprenditori. Averli non garantisce di per sé la prosperità futura. È necessario che siano dei “buoni” laureati: con un elevato bagaglio di conoscenze, ma soprattutto con un processo formativo che consenta loro di acquisirne continuamente di nuove. È necessario che essi siano assunti dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche con contratti che garantiscano loro prospettive di impiego e di carriera, con stipendi che premino le loro capacità. Va favorita la loro possibilità di auto-impiego e di avvio di nuove imprese, attraverso lo sviluppo di canali finanziari specializzati e la riduzione degli ostacoli che essi trovano sul loro cammino. Una politica per l’istruzione richiede una buona politica industriale e dell’innovazione per produrre forti risultati economici. La disponibilità di molti buoni laureati è condizione necessaria ma non sufficiente. Ma, appunto, è necessaria. Ed è un investimento profittevole per la collettività. I calcoli dell’OCSE producono risultati indiscutibili: la circostanza che un cittadino italiano arrivi alla laurea invece che fermarsi al diploma determina un beneficio monetario pubblico intorno ai duecentomila dollari, sei volte superiore al costo pubblico dei suoi studi. L’accesso all’università è, e sarà sempre di più, una opportunità essenziale di realizzazione personale. Specie per chi proviene da famiglie senza rilevanti patrimoni o redditi elevati; per le donne; per chi nasce nelle regioni più deboli. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa: le disparità economiche e sociali si trasmettono molto dai genitori ai figli. La formazione universitaria continua a rappresentare un motore di mobilità: fra i laureati italiani solo tre su dieci hanno almeno un genitore laureato; solo due su dieci a Bari o a Cagliari; ancora meno in Basilicata: sono le percentuali più basse fra tutti i paesi avanzati. Offre la possibilità a chi proviene da condizioni economiche e sociali più modeste di modificare la propria collocazione sociale; di impedire, per quanto possibile, che le caratteristiche delle famiglie e dell’ambiente d’origine determinino lo status economico e sociale. Ci si riesce solo in parte: le probabilità di frequentare l’università resta ad esempio decisamente più alta per chi proviene da famiglie a maggior reddito. Motivo per estendere l’istruzione superiore a fasce più ampie di giovani, specie promuovendo strumenti che rendano concreto il diritto allo studio per chi ha minori possibilità economiche. Ma l’importanza dell’università non si ferma ai benefici per chi la frequenta. Come la scuola, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo civile e sociale di un paese. Avere più laureati produce effetti positivi per l’intera collettività. Una popolazione con un maggiore livello di istruzione è in grado di badare meglio alla propria salute: è maggiore la consapevolezza dell’importanza della prevenzione, e del costo di comportamenti a rischio. Questo consente, oltre che un migliore benessere individuale, notevoli risparmi per i sistemi sanitari pubblici. Le tavole di mortalità per livello di istruzione mostrano che mediamente un laureato (maschio) ha una aspettativa di vita di 5,2 anni superiore rispetto ad un italiano con al più la licenza media. L’istruzione produce cittadini più attivi e responsabili, con una maggiore partecipazione alla vita politica e culturale: la presenza di università in una regione è collegata ad un atteggiamento favorevole ai valori democratici dei suoi cittadini. L’innalzamento del livello medio di scolarizzazione della popolazione implica una consistente riduzione della probabilità di commettere reati sia contro la persona che contro il patrimonio; l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere perché ne riduce il guadagno aggiuntivo, aumenta le opportunità di socializzazione e rende meno probabili gli effetti imitativi devianti diffusi in comunità deprivate. Anche in Italia, gli ambiti sociali e le aree geografiche in cui è minore il livello di istruzione sono quelli in cui vi è maggiore diffusione della criminalità».

Quali politiche universitarie sono state adottate nel nostro Paese?

«L’Italia ha compiuto, a partire dal 2008, una delle scelte che più peseranno sul suo futuro: quella di comprimere e distorcere il proprio sistema universitario pubblico. Il processo è stato avviato prima delle politiche di austerità e dell’enfasi sulle “riforme strutturali”. Ma dal clima politico-culturale cui si è accennato ha tratto forte alimento. La volontà politica del Ministro Tremonti di colpire finanziariamente le università ha incontrato gli interessi di alcuni atenei a definire un sistema su più livelli di qualità, in cui essi fossero al vertice. Le parole d’ordine neo-liberali, derivate in particolare dall’esperienza del Regno Unito, sono penetrate anche in ambienti del centro-sinistra “moderno”. L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati”, in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico. Il sistema è stato radicalmente trasformato da una valanga di norme. Il Parlamento ha approvato una legge di riforma (la “Gelmini” del 2010) di portata piuttosto ampia, ai tempi del governo Berlusconi. Ma i suoi effetti sono stati amplificati e precisati da un vasto insieme di provvedimenti successivi. Cambiato il governo, non sono mutate per nulla le scelte politiche; anzi un filo coerente si è dipanato attraverso l’azione di esecutivi apparentemente di indirizzo ben diverso: da Berlusconi a Monti, a Letta, con forte slancio con Renzi. Come se questi governi avessero idee identiche sul presente e sul futuro di una istituzione così complessa e articolata come l’università. Come se non ci fossero più differenze sui grandi temi che le politiche universitarie coinvolgono: l’universalismo dei diritti, costi e benefici dei servizi pubblici, lo sviluppo territoriale, gli indirizzi per la ricerca. Condividendo un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio. Un pensiero che corrisponde a una narrazione sommaria: l’università italiana, come si vede dalle classifiche internazionali, è scadente e i suoi professori non sono promossi per merito; lavorano poco e in modo antiquato: fanno poca ricerca sugli standard internazionali; gli studenti sono troppi, e molti fra di essi sono pigri, “fuori corso” e vogliono studiare sotto casa. Non vale quanto costa allo Stato. È un prodotto dell’Italia del passato, della Prima Repubblica, della spesa pubblica e delle assunzioni facili. Occorre allora praticare la valutazione e premiare il merito; selezionare diversamente i docenti e incentivare gli studenti a muoversi e a frequentare gli atenei migliori; è necessario sostenere i corsi di laurea moderni e utili, legati direttamente al mondo del lavoro. Disboscare la rete delle università; concentrare le risorse finanziarie su alcune, di eccellenza e fare in modo che le altre costino molto meno alla collettività. Una comunicazione che a strizza l’occhio all’Italia preoccupata dalla crisi e attenta al proprio particolare. “Risparmio”, per tutelare il portafoglio del contribuente; “merito” al posto della spesa pubblica a pioggia del passato, per combattere i corrotti e i fannulloni; indicatori “oggettivi” e tecnici al posto di scelte politiche; la tutela degli interessi dei territori più forti. L’attuazione di questo pensiero è stato affidata ad una piccola élite: alcuni dei Ministri che si sono succeduti, specie quelli provenienti dalle fila delle università; alcuni dirigenti apicali del Ministero; alcuni consulenti della Presidenza del Consiglio; alcuni docenti chiamati a guidare la nuova Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, l’Anvur. Come sta avvenendo per altre importanti politiche pubbliche (ad esempio i criteri di finanziamento degli enti locali), l’effettivo potere decisionale è stato di fatto sottratto alle rappresentanze parlamentari e concentrato nelle mani di pochi esperti. Essi, apparentemente, sono immuni dai condizionamenti deteriori della politica, sanno quel che serve al paese, operano in base a criteri oggettivi di efficienza e di merito. In realtà, sono orientati dalle proprie convinzioni politico-ideologiche, in ossequio alle quali costruiscono gli indicatori e le norme: che presentano però sempre come scelte tecniche, mascherandone i criteri di scelta e le conseguenze politiche».

Di quali riforme ha bisogno l’università italiana?

«Non si sfugge: serve un investimento pubblico molto più grande sull’università italiana; che ci avvicini progressivamente alla situazione degli altri paesi europei e inverta le tendenze delle politiche degli ultimi anni. Bisogna investire risorse pubbliche molto maggiori in primo luogo sul diritto allo studio, e in generale sui servizi per gli studenti per accrescere progressivamente i tassi di passaggio dalle superiori all’università, specie per i ragazzi e le ragazze di estrazione sociale più modesta e provenienti dai territori più deboli; per accompagnarli meglio nel loro percorso di studio, abbattere gli abbandoni e aumentare così il livello complessivo di istruzione. È necessario ricondurre la tassazione universitaria ad una funzione ancillare rispetto al finanziamento statale, ben delimitata e governata da principi condivisi: tetti invalicabili rispetto al finanziamento pubblico e interventi di esenzione validi per l’intero paese. Porsi questi obiettivi significa anche investire sulle città: intervenire sulla qualità della vita urbana, sui trasporti, sulla produzione e fruizione di cultura per i ragazzi. Investimenti proficui: città con più studenti non sono solo più vive e più belle: ma sono anche incubatori di idee, progetti, imprese. In secondo luogo l’investimento va mirato sui giovani studiosi: umiliati, vilipesi, tenuti al margine, spinti a fuggire. La politica degli ultimi anni ha chiuso le porte agli atenei e li ha resi un mondo sempre più anziano. È necessario un grande investimento per immettere progressivamente nelle università una nuova leva di studiosi, dare certezze a chi è precario, offrire una chance a chi è all’estero e accoglienza a giovani stranieri. Attraverso processi selettivi trasparenti, non bizantini né particolaristici; in cui siano valutate complessivamente capacità e conoscenze, abilità nell’insegnamento e qualità dei percorsi di ricerca dei candidati e non solo applicati algoritmi tanto complicati quanto distorsivi. Non servono regole dettagliate calate dell’alto: ma pochi principi e direttivi e una grande trasparenza. Un tema, quello del reclutamento, decisivo per ricreare fiducia nelle università e sulle università; e per renderle, grazie ad una nuova grande e qualificate leva di studiosi, un’infrastruttura culturale e scientifica di qualità sempre maggiore. L’investimento va fatto in tutto il paese. Anche in questo campo l’Italia deve guardare con attenzione molto più al modello tedesco che alle sirene del neoliberismo anglosassone. Un paese forte ha un sistema universitario diffuso e di buona qualità, presente sui territori, ricco di opportunità di collaborazione e con un’ampia mobilità, in tutte le direzioni, di docenti e ricercatori. Fra i frutti più avvelenati delle politiche degli ultimi anni vi sono certamente la grande incertezza della disponibilità di risorse, con la conseguente impossibilità di programmare; una sotterranea guerra fra sedi per spartirsi qualche briciola del finanziamento; l’attenzione al proprio particolare perdendo di vista l’interessa generale e del paese. Per raggiungere questo obiettivo, il sistema di finanziamento va semplificato e reso stabile. Il fondo di finanziamento ordinario potrebbe essere integralmente costruito sul costo standard, così come opportunamente, recentemente, riformulato dal Parlamento. Individuando così le risorse per ogni ateneo; e nella loro somma il fabbisogno complessivo di base del sistema da soddisfare. Meccanismo che, essendo parametrato al numero di studenti, stimola non poco le università a disegnare offerta formativa e servizi sempre migliori. La cosiddetta quota premiale, con i suoi meccanismi discrezionali e distorsivi andrebbe semplicemente abolita. Si dovrebbe saggiamente riconoscere di aver realizzato una lunga sperimentazione, ma con esiti molto negativi, e cambiare verso introducendo nel sistema altri schemi e meccanismi di governo, di incentivo e di premio per il miglioramento della qualità».

Gianfranco Viesti è Professore Ordinario di Economia Applicata presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro

La Grande balla al Tg4, Napoletano: «Il Sud è stato di fatto escluso dal decreto liquidità». Roberto Napoletano il 16 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud.

(LaPresse il 27 maggio 2020) - Il 50,7% dei prestiti garantiti dallo Stato, fino a 25.000 euro e fino a 800.000 euro, è appannaggio delle quattro grandi regioni del Nord dove, però, è attivo “solo” il 38% di partite Iva e pmi italiane. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si assicurano oltre la metà dei finanziamenti con paracadute pubblico, ma in quelle zone del Paese opera, in proporzione, un numero di imprese e professionisti nettamente inferiore alla quota di crediti in arrivo grazie al decreto liquidità; nel resto del Paese, opera il 62% di soggetti economici, ma la quota di prestiti si ferma al 49,3%. È quanto emerge da un’elaborazione realizzata dalla Fabi, secondo la quale, su complessivi 17,1 miliardi di euro di prestiti richiesti in Italia fino al 25 maggio, sfruttando il Fondo centrale di garanzia, in Lombardia le domande ammontano a 3,9 miliardi pari al 22,5% del totale, ma le imprese e le partite Iva, rispetto all’intero territorio nazionale, sono il 15,7%; in Veneto le domande valgono 1,9 miliardi ovvero l’11,5% del totale, mentre la quota di pmi e partite Iva si ferma al 7,9%; situazione simile a quella dell’Emilia-Romagna, con 1,7 miliardi di richieste, pari al 10,1% del totale, da confrontare con il 7,4% di imprese e partite Iva operanti sul territorio regionale; in Piemonte, unico caso fra le quattro maggiori regioni settentrionali, c’è un sostanziale equilibrio considerando che le domande valgono 1,1 miliardi, pari al 6,5% del totale nazionale e la quota di pmi e partite Iva si attesta al 7%. Dall’analisi della Fabi, dunque, emerge "un evidente divario tra la ripartizione, su base regionale, dei prestiti protetti dallo Stato col decreto “liquidità” e la distribuzione territoriale di partite Iva e piccole medie imprese. Ne consegue che alcune zone del Paese, di fatto, sono significativamente premiate e altre, specie al Sud, pesantemente penalizzate. Nel resto d’Italia, con l’eccezione di Marche e Umbria, il rapporto tra prestiti richiesti e percentuale di imprese è sempre in “deficit”, la quota di finanziamenti, in sostanza, è inferiore alla quota di pmi e partite Iva presenti rispetto al totale nazionale: nel Lazio le domande di prestiti valgono il 9,4% del totale (1,6 miliardi), le pmi e partite Iva rappresentano il 10,9% del bacino nazionale; in Toscana si raffronta il 6,2% delle richieste di finanziamento (1,1 miliardi) con il 6,2% di soggetti economici operanti; in Campania, i prestiti arrivano al 7,7% (1,3 miliardi) e le pmi/partite Iva al 9,8%; in Puglia, il confronto è tra il 4,8% di finanziamenti (812 milioni) e il 6,3% di operatori economici; in Sicilia il 5,0% di prestiti (848 milioni) va rapportato al 7,7% di pmi/partite Iva; in Abruzzo, le domande ammontano al 2,1% del totale (353 milioni), ma imprenditori e professionisti pesano per il 2,4%; in Calabria, il 3,1% di pmi e partite Iva italiane ha presentato richieste per l’1,6% del totale; in Liguria il 3,1% di pmi e partite Iva italiane ha presentato richieste per l’1,6% del totale; in Sardegna si raffrontano l’1,5% delle richieste di finanziamento (262 milioni) con il 2,8% di soggetti economici operanti; in Basilicata lo 0,7% di prestiti (114 milioni) va rapportato all’1% di pmi/partite Iva; in Trentino-Alto Adige, le domande ammontano all’1,3% del totale (221 milioni), ma imprenditori e professionisti pesano per l’1,8%; nel Molise le domande di prestiti valgono lo 0,4% del totale (64 milioni), le pmi e partite Iva rappresentano lo 0,6% del bacino nazionale; in Val d’Aosta, le domande ammontano allo 0,1% del totale (19 milioni), ma imprenditori e professionisti pesano per lo 0,2%". Proporzione quasi rispettata in Friuli-Venezia Giulia - sottolinea Fabi - i prestiti richiesti ammontano all’1,8% del totale (307 milioni), percentuale leggermente più alta della quota di pmi e partite Iva rispetto all’intero bacino nazionale (1,7%). Due le eccezioni ovvero le situazioni “favorevoli” lontane dal Nord: quella della regione Marche, dove la quota di finanziamenti è pari al 3,6% del totale (618 milioni), mentre le pmi e le partite Iva sono il 2,8%; e quella della regione Umbria, dove i prestiti valgono l’1,6% (277 milioni), mentre gli operatori economici sono l’1,5%. "Alcune banche, per loro convenienze, stanno penalizzando determinati territori e ne stanno favorendo altri: il risultato è che in specifiche aree del Paese, soprattutto del Sud, si sta allargando il rischio usura per le imprese, perché chi non ottiene finanziamenti in banca finisce molto probabilmente in mano alla criminalità organizzata. Sarebbe interessante conoscere i dati relativi ai tempi di erogazione da parte dei singoli gruppi bancari". Lo ha dichiarato il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, intervistato durante la trasmissione Tg2 Italia su Rai2, commentando il nuovo studio della Fabi sui prestiti a imprese e partite Iva garantiti dallo Stato. Secondo Sileoni "non c’è proporzione tra l’ammontare dei prestiti e il numero di partite Iva e pmi, ciò perché da parte di alcuni istituti c’è molta attenzione verso i territori settentrionali".

Gli aiuti al Nord con i soldi del Sud: lo scippo continua anche in piena crisi. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2020. Anche la sanità penalizzata per lo scippo al Sud. C’è quel 0,15% che dovrebbe essere cancellato e invece il tentativo è ancora quello di sottrarre soldi al Sud: dai finanziamenti per l’emergenza Covid che stanno finendo quasi esclusivamente nelle casse delle più grandi aziende del Nord, alla ridistribuzione e reimpiego dei Fondi coesione per pagare la Cig al Nord. C’è un’Italia che dovrebbe ripartire e rapidamente, dovrebbe farlo guardando allo sviluppo del Sud e invece proseguono gli scippi. Servirebbe una manovra che prenda le mosse da un punto fermo: ridare al Sud quello che gli è stato sottratto negli ultimi 20 anni.

FARE GIUSTIZIA. Per risollevare il Paese servirebbe un atto politico che rimetta le cose a posto, rendendo “giustizia” a un Mezzogiorno rimasto senza investimenti. All’Italia intera servirebbe correggere questa stortura, riportare gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del Pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi. Occorre riequilibrare la spesa pubblica che toglie ai poveri (il Sud) per dare ai ricchi (il Nord): basti pensare ai 62 miliardi dirottati verso le Regioni del Centro-Nord Italia. E se la cifra di 62 miliardi di euro riesce a inquietarvi, beh, pensate che la situazione è addirittura peggiorata: tra il 2016 e il 2017, infatti, il Mezzogiorno ha perso quasi un altro miliardo di euro l’anno.

IL DECLINO. Insomma, serve una manovra finalmente equa, che ridia ai cittadini del Sud la stessa qualità di servizi di cui gode chi vive al Nord. Perché è facile immaginare cosa voglia dire, ad esempio, 62 miliardi in meno: sanità meno efficiente, meno treni, meno bus, meno asili, scuole più insicure. In breve: meno diritti e opportunità. Al Mezzogiorno servono strade e ferrovie moderne. Ma non sulla carta, non solo sui progetti annunciati. La sintesi del declino della spesa infrastrutturale in Italia, e al Sud in particolare, sta nel tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2018, pari a -2% a livello nazionale: -4,6% al Sud e -0,9% nel Centro-Nord. Gli investimenti infrastrutturali nel Sud negli anni ’70 erano quasi la metà di quelli globali, mentre negli anni più recenti sono calati a quasi un sesto del totale nazionale. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro. Nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro. La conseguenza è che nel ranking regionale infrastrutturale della Ue a 28, la regione del Mezzogiorno più “competitiva” è la Campania, a metà graduatoria (134ª su 263), seguita da Abruzzo (161°), Molise (163°), Puglia (171ª), Calabria (194ª), Basilicata (201ª), Sicilia (207ª) e Sardegna (225ª). Basterebbe questa graduatoria a raccontare il gap infrastrutturale che il Sud ha accumulato negli anni non solo rispetto al Nord, ma nei confronti del resto d’Europa.

IL DISIMPEGNO. Al Sud, a parte la realizzazione di alcune tratte autostradali con terze corsie e l’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria, l’incremento di autostrade è stato molto limitato e si è concentrato tutto o quasi in Sicilia. «Il segnale del disimpegno degli investimenti pubblici in questo ambito – recita l’ultimo rapporto Svimez – sta nel peggioramento della dotazione relativa di autostrade nel Mezzogiorno. Rispetto alla media europea a 15 (posta uguale a 100), la dotazione di autostrade del Sud è passata dal 1990 al 2015 da 105,2 a 80,7». Per quel che riguarda la dotazione di linee ferroviarie, molto carente al Sud è lo sviluppo dell’Alta Velocità (AV), con soli 181 chilometri di linee, pari all’11,4% dei 1.583 chilometri della rete nazionale; nel Centro-Nord la rete è di 1.402 chilometri, pari all’88,6% del totale. Nel confronto con la Ue (rete AV ponderata sulla popolazione dei soli Stati membri dotati), l’indice di dotazione dell’Italia nel 2015 è pari a 116, con il Centro-Nord a 156,5 e il Mezzogiorno appena a 38,6. D’altronde basta guardare la cartina delle direttrici dell’Alta velocità – esistenti o ancora da realizzare – per accorgersi che l’Italia delle ferrovie – non solo quella, per carità- è spaccata in due: su tutta la linea adriatica, da Bari sino a Bologna, c’è il vuoto, così come dalla Puglia alla Sicilia. Mentre al Nord è fitta la “ragnatela” di linee che si intrecciano e uniscono ogni angolo dell’Italia settentrionale.

OCCASIONI PERSE. Se al Sud c’è solo il 16% dell’Alta velocità è merito di decenni di mancati investimenti. Si spiega così il fatto che le linee sono elettrificate per l’80% al Nord e per il 50% al Sud; oppure che al Sud circolano meno treni che nella sola Lombardia. I porti del Mezzogiorno, pur vantando numero e lunghezza degli accosti nettamente superiori a quelli del Centro-Nord, presentano una dotazione estremamente modesta, con un indice sintetico pari a 58,9, dovuto alla forte carenza di capacità di movimentazione e stoccaggio delle merci. Relativamente migliore risulta l’indice sintetico degli aeroporti (69,4), ma anche in questo comparto si scontano carenze qualitative dell’offerta (distanza dai centri urbani, aree di parcheggio aeromobili e superficie delle piste).

Basta scempi, svegliati Sud. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Mezzogiorno e regala al Nord è l’origine del declino italiano. Ora lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. E tutti i Governatori del Sud tacciono. Come sempre. Roberto Napoletano il 30 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tutti tacciono. Come hanno fatto negli ultimi venti anni. Hanno sempre qualche emergenza di cui occuparsi. Spicciano pratiche. Hanno una conference call dietro l’altra (prima incontravano gente). Zitti e muti. I soldi loro vanno da un’altra parte, ma loro non se ne accorgono. Se glielo spieghi, ti guardano strano. Preferiscono il silenzio. Dopo diranno che non hanno capito. Si spartiranno le briciole – se ci sono – che i ricchi lasceranno cadere dai tavoli imbanditi con le pietanze rubate ai poveri. Che sono loro. Quelli che stanno zitti quando dovrebbero urlare e strepitano o piagnucolano quando non serve a nulla. Allora, prendiamone nel gruppo uno a caso. Ci rivolgiamo al Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, e mettiamo tutto per iscritto a futura memoria. Non sappiamo con quale lanciafiamme sta facendo strage di virus contagiosi e non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscerle che ha dimostrato polso e testa nel contrastare questo brutto mostro. Ora, però, ci dobbiamo occupare dei morti di debiti e di fame non più di quelli da Coronavirus. Le facciamo presente che se avere chiuso un occhio con 60 e passa miliardi di spesa pubblica dovuti al Sud e regalati al Nord ogni anno negli ultimi dieci anni è stato grave, stare zitti oggi di fronte al nuovo scempio significa accettare in silenzio la sparizione del Mezzogiorno e di quel che resta della sua economia. La fervida mente dei burocrati del Tesoro ha approfittato della debolezza politica del ministro “politico” Gualtieri e ha fabbricato il più poderoso “decreto di illiquidità” concepito da un Paese occidentale alle prese con la Grande Depressione Mondiale. Se per avere 25 mila euro ti devi fermare davanti a 12 stazioni della morte e non vedi il becco di un quattrino, per i finanziamenti fino a 800 mila euro e poi fino a 5 milioni non ci sono neppure le istruzioni per chiederli. Il tasso di fragilità delle imprese meridionali è quattro volte superiore a quello delle imprese del Nord. Non hanno avuto nulla e quando arriverà qualcosina avranno già chiuso per sempre. A fronte di tutto ciò si arriva a concepire lo scempio di una dote straordinaria di 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti – a sostegno dell’economia l’anno scorso ha mobilitato 36,4 miliardi di risorse – per prendere partecipazioni temporanee nel capitale di imprese private ovviamente in crisi ovviamente al Nord. Basta prendersi in giro. La Cassa Depositi e Prestiti tedesca (Kfw) è il braccio armato fuori bilancio della Cancelleria Merkel e ha inondato di liquidità le piccole e medie imprese del suo Paese con passaggi bancari velocissimi. Finanzia grandi infrastrutture e grandi eccellenze tecnologiche. Noi alla nostra Cdp non chiediamo di inondare di liquidità le imprese italiane, a partire da quelle meridionali più vicine al default, ma la vogliamo azionista di Stato delle imprese decotte del Nord per la bellezza di 50 miliardi. Proprio quelli che servirebbero per l’unificazione infrastrutturale del Paese tra Nord e Sud a partire dai treni veloci. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Sud e regala al Nord – è l’origine del declino italiano – lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. Mi raccomando Governatore De Luca – lo dico provocatoriamente a lei ma vale per tutti i suoi colleghi e per chiunque abbia un po’ di sale in zucca della classe dirigente meridionale – non disturbiamo il manovratore e occupiamoci di distanze in casa e al bar. Gli acquisti della Banca Centrale Europea consentono a lei e all’allegra brigata di distrarsi ma non così a lungo. Qui gli acquisti sono poderosi non illimitati come in America, in Giappone, in Inghilterra e, per di più, la Lagarde a differenza di Draghi non sa parlare ai mercati. Consiglierei a tutti da Roma in giù di svegliarsi e di farsi sentire. Se questo tempo in più che il governo si è preso servirà per fare meglio, allora questo tempo è benedetto. Se servirà, complice l’imperdonabile silenzio del Mezzogiorno, a partorire il solito topolino, che si preoccupa di tenere in vita (male) solo un pezzo di Paese, allora sarà la fine del mondo. Errare è umano. Perseverare nell’errore è diabolico. Produce effetti non più controllabili.

BASTA REGALI CON I SOLDI DEL SUD. Hanno costruito al Nord tutte le infrastrutture con i soldi del Sud, ora approfittano della pandemia per regalare 50 miliardi alla Cdp e salvare le aziende decotte del Nord. Che cosa aspettano i Governatori del Sud a ribellarsi? Ultima chance per Gualtieri e Rivera: riequilibrate liquidità e spesa pubblica infrastrutturale. Roberto Napoletano su  Il Quotidiano del Sud il 29 aprile 2020. Non abbiamo più voglia di scherzare. Hanno regalato al Nord tutte le infrastrutture con i soldi del Sud per venti anni. Ora, approfittando della Pandemia globale, vogliono regalare 50 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti per dare alle aziende private decotte del Nord un socio di capitale che si chiama Stato e copre per sempre le loro nefandezze. Ancora una volta vogliono farlo con i soldi del Sud. Basta! Ministro Gualtieri, direttore del Tesoro Rivera, ve lo diciamo con chiarezza, la stagione degli scippi in tempi di pace è maleodorante, ma in tempi di guerra fa ribrezzo. Questo giornale non vi darà tregua da qui al decreto, vi controllerà a vista. Scruteremo riga per riga il testo. Andremo a vedere i bilanci a uno a uno delle aziende che finiranno nella lista dei regali pubblici. A chi appartengono? Dove si trovano? Chi le sponsorizza e perché? Scoperchieremo il pentolone senza riguardi per nessuno. Non vi daremo tregua, prima e dopo, perché la misura è colma. Non avete sbagliato un colpo per il peggiore sottogoverno nelle nomine nei Cda delle società pubbliche inventando mestieri e facendo strame di ogni regola di competenza. Non siete riusciti a togliere alle banche un solo vincolo, come la segnalazione alla centrale rischi, che taglia dall’accesso al credito la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese meridionali. Non riuscite a erogare contributi a fondo perduto perché avete escogitato (vero, dottor Rivera?) ogni genere di bizantinismo burocratico per cui i soldi a molte piccole imprese arriveranno quando avranno chiuso per sempre. Mentre voi occultate con mani sapienti ogni tipo di liquidità possibile tra Sace, Mediocredito, INPS, banche senza tutela penale, in Lombardia stanno “rimpatriando” dalla Svizzera i soldi della ‘Ndrangheta nel bresciano e si moltiplicano i faccendieri che danno le fideiussioni alle aziende che non hanno le garanzie che voi volete per avere prestiti e mutui. E così, di interposizione fittizia in interposizione fittizia, gli uomini dell’area grigia mettono un piede sempre più largo in un’economia reale che ha bisogno per colpe non sue di quella liquidità che una miope classe burocratica e una servile classe di governo impediscono loro di avere. Vergognatevi! Al Paese oggi, non domani, serve liquidità. Non azionisti pubblici amici degli amici che continuano a rapinare il soccorso pubblico dovuto al Mezzogiorno per foraggiare amministrazioni regionali assistenzialiste del Nord e un capitalismo privato del Nord che da tempo non sa più vivere di mercato. Al massimo, si affidino a Cdp strumenti di partecipazione tipo bond convertibili che finanziano l’impresa ma non entrano nel capitale. Non avremmo francamente mai creduto che i Gualtieri e i Rivera ci potessero regalare la società finanziaria comunista per cui, grazie al risparmio postale fortissimo al Sud, si diventa soci di capitale delle imprese decotte del Nord. Se non sbloccate entro una settimana la liquidità necessaria, che Paesi come Germania, Francia, Svizzera, hanno già trasferito da un mese a chi ne ha bisogno, ci sarà la rottura del patto sociale che garantisce la pace in tempi di guerra, ma se addirittura non date la liquidità oggi e architettate i vecchi trucchetti per togliere domani al povero e dare al ricco succede il finimondo. Avete un’ultima, residua, possibilità per riscattarvi. Siamo davanti a un evento straordinario? Sì, e ci sia allora un riequilibrio strutturale nella ripartizione di liquidità a fondo perduto e di spesa pubblica infrastrutturale di questo Paese tra Nord e Sud. Governatore De Luca, lo stesso lanciafiamme che ha usato nei confronti dei suoi concittadini per chiuderli in casa, vogliamo usarlo per garantire alla comunità e alla economia della sua regione i soldi che sono dovuti per la ripartenza? Vuole continuare a stare zitto e a subire, lei e gli altri Governatori del Sud, lo scippo da 60 miliardi l’anno di risorse pubbliche dovuti alle regioni meridionali per le loro sanità, le loro scuole e i loro trasporti, e regalati invece a un Nord che continua a tenere in scacco l’intero Paese? Perché non fa in pubblico qualcuno dei suoi numeri televisivi che lo hanno reso così popolare per difendere diritti che incidono sulla carne viva delle donne e degli uomini meridionali? Noi attenderemo tutti al varco perché questa volta sono in gioco la vita e la morte delle persone, la vita e la morte dell’economia. Questo giornale è nato per fare l’operazione verità sui conti pubblici e ci è pure riuscito, figuriamoci se ci tiriamo indietro in un momento come questo. Il Sud, presidente De Luca, deve riaprire prima del Nord, deve dimostrare di esserne capace, e deve avere le risorse che gli spettano. Commissario Arcuri, le fabbriche delle mascherine sono in Lombardia, vero, i soldi vanno in Lombardia, vero? Esiste un piano epidemiologico della Lombardia? No. Esiste un piano di tamponi? No. Esiste un piano di presidi sul territorio per affrontare nuove emergenze in Lombardia? No. Legga il grido di allarme che Carmela Rozza lancia dalle colonne di questo giornale. Siamo consapevoli che senza una sanità lombarda sotto controllo rischia il sistema produttivo lombardo e si tengono sotto scacco la società e l’economia di un Mezzogiorno che ha avuto comportamenti esemplari e continua a pagare un conto pesantissimo che non è suo? Che cosa si aspetta a commissariare la sua sanità regionale? Nessun Paese può vivere con una sola locomotiva peraltro “infettata” di provvigioni e prebende pubbliche senza limiti che hanno diffuso il male dell’assistenzialismo al Nord, sottratto linfa vitale al Sud, indebolito l’intero Paese. Presidente Conte, lei ha tenuto la rotta in momenti durissimi in casa e in Europa e è un uomo del Sud, non consenta a tecnocrati che pure avevamo apprezzato nelle trattative internazionali di mettere sotto scacco la politica per continuare a fare i soliti giochetti tra Nord e Sud. Non sappiamo come dirlo, ma non è aria.

Produzione delle mascherine, un affare appaltato al Nord ai danni del Sud. Claudio Marincola il 29 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le mascherine? C’è il rischio che diventeranno come la polenta o il Lambrusco. Specialità del Nord. Di origine controllata, made in Lombardia. Dei 50 milioni 195mila euro previsti dal decreto Cura Italia per riconvertire le aziende e spingerle a produrre dispositivi di protezione, ben 9 milioni 856.515 sono andati infatti a imprese lombarde. Prima del Codiv-19 producevano altro. Alla Basilicata, per dire, ne sono andati solo 960.700 mila, alla Sardegna 567mila, alla Calabria 1 milione 431mila, al Lazio 1.224.455mila. Insomma, la parte del leone, come al solito, l’ha fatta la nostra locomotiva. Finita in panne, come sappiamo, ma pronta a ripartire di slancio.

LA LEZIONE NON È SERVITA. Il grafico è disponibile sul sito di Invitalia.it: il 20% del budget complessivo è andato alla Lombardia. Alimenta il sospetto che l’esperienza drammatica che stiamo vivendo non abbia cambiato niente. La lezione del coronavirus, insomma, non è servita. Tutto, anche la produzione di dispositivi di protezione, continuerà a concentrarsi entro lo stesso perimetro industriale, sovrapponibile, guarda caso, alla diffusione del contagio. E agli altri? Le briciole. Le domande presentate e accolte dall’Ufficio del super commissario all’emergenza Domenico Arcuri sono state in totale 107. Con l’unica eccezione della Campania, che se n’è vista accogliere 13, il“ ”visto si finanzi” è andato a Lombardia, 17; Toscana, 14; Emilia-Romagna, 11; Marche e Puglia, 8; Abruzzo e Umbria, 5; Sicilia, 3; Basilicata, Sardegna e Piemonte, 2, Liguria, 1. Settanta domande hanno riguardato la riconversione, 37 l’ampliamento dei locali. Di mascherine ne servono diverse decine di milioni al giorno. Un business non da poco. E la truffa è sempre in agguato. Si va da aziende improbabili, pronte a sfruttare il momento, alle mascherine con il marchio Ce, che, però, non vuol dire certificate in Europa ma China export. Produrle al Nord vorrà dire intasare un’area già congestionata. Senza dire che al Mezzogiorno un po’ di posti di lavoro in più, diciamolo, non avrebbero fatto male. Sono scesi in campo i colossi: Armani e il gruppo Prada-Montone, inizialmente a scopo benefico. A ruota gli altri: Fippi Spa di Rho; Malex di Correggio; Nuova Sapi di Casalgrande; Md Massaflex di Massa Carra, che fino a ieri produceva materassi. E si è mosso anche il mondo della Legacoop, con 12 cooperative dedicate, In Veneto, tra le prime a riconvertirsi alla produzione di mascherine la veronese Quid.

MASCHERINE DI STATO. A CHI? Ancora da definire resta la questione delle macchine che serviranno per la produzione. Lo Stato ne ha acquistate 51. Le prime 17 verranno consegnate in comodato d’uso a 4 aziende di cui ancora non è noto il nome. Quando il Paese diventerà autosufficiente – sempre troppo tardi, purtroppo – il Mezzogiorno continuerà probabilmente a dipendere in gran parte dal Nord. E non viceversa. Occasione persa o solito strapotere? Ci sarebbe anche da dire che le aziende riconvertite sull’onda dell’emergenza lasceranno ai concorrenti consistenti quote di mercato. Più dispositivi facciali per difendersi dal virus malefico vuol dire meno capi di abbigliamento o meno altro che si produceva prima. Non era meglio, una volta tanto, puntare sul Sud, isole comprese?

LA PROPOSTA DEI DOCENTI SARDI. Da questa considerazione è partita forse la proposta del giurista Giuseppe Valditara, dell’Università di Torino e coordinatore di Lettera 150, un gruppo di docenti che si sta battendo per rallentare la corsa alla riapertura e uscire in sicurezza dal lockdown. La drammatica carenza di tamponi e reagenti e la chiusura dei mercati internazionali a seguito dei divieti di esportazione rendono sempre più urgente la necessità di pensare a una “produzione statale” di presidi strategici, come appunto le mascherine. E cosa propongono il professore e i suoi colleghi? «Di localizzare la produzione in aree naturalmente protette come Sardegna e Sicilia», anche perché così si potrebbero «rivitalizzare aree economicamente depresse oltre a garantire l’autosufficienza del Paese». Già. È cosi difficile?

Nuova crisi, vecchio rimedio. I soldi? Sempre e solo al Nord. La proposta indecente dei tecnici del Governo. Ivana Giannone il 19 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nuova crisi economica, vecchi rimedi. Come accadde dal 2009 in poi, anche oggi con l’emergenza Coronavirus in corso, il Governo ha bisogno di risorse da investire qua e là per salvare il salvabile. Questa volta non serviranno a ripianare i conti pubblici, che grazie alla sospensione del patto di stabilità non dovrebbero essere un problema, ma a investire nelle zone più colpite. Con quali soldi? Con quelli destinati al Mezzogiorno. La proposta arriva dal Dipe, il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica che fa capo a Palazzo Chigi. In un documento dal titolo “L’Italia e il Covid-19” (aprile 2020), che il Quotidiano del Sud è riuscito a visionare, si propone la «sospensione del riparto delle risorse dei programmi di spesa». Tradotto: la messa in pausa della cosiddetta clausola del 34% che destina alle regioni meridionali una quota di investimenti pari alla popolazione residente. Un colpo di mano che rischierebbe di mettere una pietra sopra su una disposizione approvata a fine 2016, ma ancora largamente inattuata. Sospendere, poi, fino a quando? Questo il Dipe non lo dice. L’emendamento proposto cita testualmente: «Il riparto delle risorse dei programmi di spesa di cui al comma 2 è sospeso sino al …….».

Puntini sospensivi. Che potrebbero valere mesi, o più probabilmente anni, di quello che questo giornale ha sempre definito “scippo” e che questa volta troverebbe una nuova giustificazione nell’emergenza che però, è bene ricordarlo, colpisce tutto il Paese, specie i territori che già prima scontavano povertà e disoccupazione. Due rilievi possono aiutare a capire cosa significherebbe dirottare altrove gli investimenti destinati al Sud. Secondo una stima della Svimez, già prima dell’inizio dell’emergenza Covid-19, il Mezzogiorno faceva i conti una pesante recessione: il pil meridionale era circa dieci punti al di sotto dei livelli pre-crisi del 2009. Secondo dato: il lockdown dovrebbe far calare il prodotto interno lordo del Mezzogiorno di circa altri 8 punti. A fine anno quindi il Sud potrebbe contare circa 20 punti di pil in meno rispetto al 2007. Tutto questo ovviamente al netto della proposta del Dipe. Senza investimenti o con una quota significativamente ridotta, i numeri potrebbero essere ben altri.

Le giustificazioni si sprecano: «A seguito dell’esplosione della crisi sanitaria e delle sue conseguenze economiche nel Paese – si legge nella relazione illustrativa allegata alla proposta – si rende necessario operare una sospensione del criterio di riparto delle risorse dei programmi di spesa in conto capitale finalizzati alla crescita o al sostegno degli investimenti, consentendo all’Autorità Politica la valutazione delle zone ove concentrare la maggior quantità di risorse per investimenti in considerazione del mutato scenario sociale e produttivo». Leggi: i soldi vanno dirottati in quello che fino a un paio di mesi fa era il cuore produttivo del Paese, con buona pace di quelle regioni che quest’estate non potranno contare più neanche sulle entrate garantite dal turismo.

E non finisce qui. Proprio come già accaduto nel 2010, quando il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, si propone una sforbiciata anche ai Fondi di sviluppo e coesione, le risorse che almeno in teoria sarebbero destinate al riequilibrio territoriale. L’attuale ripartizione affida l’80% dei fondi al Sud e il 20% al Centro-Nord. Percentuali che ora si vorrebbero rivedere, anche se il documento non specifica in quale misura, rimandando tutto al “coinvolgimento delle Regioni e degli Enti locali”. Le risorse prese in considerazione sono quelle relative alla programmazione 2014-2020, in particolare i 4,87 miliardi di euro che oggi risultano ancora «liberi da utilizzi». Un set di proposte indecenti che non è passato inosservato dalle parti di Montecitorio. «È imprescindibile che il Governo mantenga, ribadendola con forza, una linea politica per lo sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali che da un lato favorisca una pronta ripartenza del proprio tessuto produttivo e dall’altro permetta il recupero progressivo dei divari economici e infrastrutturali con il resto del Paese», scrivono i deputati meridionali del Partito Democratico. «A tal fine consideriamo i seguenti punti come componenti fondamentali e non derogabili di questa strategia: 1. mantenere il vincolo di destinazione territoriale delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) congiuntamente a quelle degli altri Fondi strutturali, al fine di promuovere le politiche per lo sviluppo della coesione sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e infrastrutturali tra le regioni; 2. considerare le risorse di cui al punto 1) aggiuntive rispetto a qualsiasi altro strumento di finanziamento ordinario e/o straordinario, non derogando così al criterio dell’addizionalità previsto per i fondi strutturali dell’Unione Europea; 3. rispettare la cosiddetta “clausola del 34%” che prevede la distribuzione degli stanziamenti in conto capitale delle Amministrazioni Pubbliche in proporzione alla popolazione nelle varie regioni italiane». Ora tocca al ministro dell’Economia, il democratico Roberto Gualtieri, e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte battere un colpo.

Il virus rischia di togliere i fondi europei alla Calabria: soldi alle regioni colpite. Massimo Clausi il 19 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Altro che Mes. Il vero acronimo che dovrebbe preoccupare i calabresi è CRII+ (Coronavirus Response Investment Initiative Plus). Si tratta di un pacchetto di misure finalizzate a fronteggiare l’emergenza coronavirus in tutta Europa. L’elefantiaco procedimento legislativo di Bruxelles sul tema non si è ancora concluso, ma in linea di massima il pacchetto prevede una straordinaria flessibilità dei fondi affinché tutto il sostegno finanziario non utilizzato a titolo dei Fondi strutturali e di investimento europei possa essere pienamente mobilitato. Nello specifico la flessibilità è garantita mediante: possibilità di trasferimento tra i 3 fondi della politica di coesione (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo di coesione); trasferimenti tra le diverse categorie di regioni; e flessibilità per quanto riguarda la concentrazione tematica. Naturalmente è il secondo punto quello che più interessa alla Calabria ovvero lo spostamento dei fondi di Coesione (pensati per colmare i gap socio-economici fra le regioni) a regioni diverse da quelle definite “convergenza” come la Calabria. In base a questo pacchetto i fondi non utilizzati dalle regioni più “deboli” possono essere trasferiti ad altre regioni per contrastare gli effetti della pandemia. Attualmente gli Stati membri possono trasferire tra le regioni fino al 3% dei fondi stanziati. Nella proposta odierna non vi è più alcun limite, poiché l’impatto del coronavirus non rispetta la consueta categorizzazione delle regioni più o meno sviluppate prevista dalla politica di coesione. Ciò significa che la Lombardia, dove il virus ha colpito più che altrove, può prendersi i fondi della Calabria. Al fine di garantire una continua attenzione alle regioni meno sviluppate, gli Stati membri dovrebbero valutare in primo luogo altre possibilità di trasferimento dei finanziamenti prima di prendere in considerazione il trasferimento dai bilanci delle regioni meno sviluppate a quelli delle regioni più sviluppate. In altre parole, i trasferimenti non dovrebbero ostacolare gli investimenti essenziali nella regione di origine o impedire il completamento delle operazioni selezionate in precedenza. Inoltre, i trasferimenti possono essere richiesti dagli Stati membri solo per operazioni connesse al coronavirus nel contesto della relativa crisi. Va ricordato che l’obiettivo della politica di coesione è ridurre il ritardo delle regioni meno favorite. Tale principio è sancito dal trattato e dovrebbe essere rispettato anche nelle circostanze attuali. Questo in linea di principio. In Italia però bisogna sempre prendere tutto con le molle perchè già abbiamo avuto un’esperienza simile con i fondi Pac “dirottati” sulle quote latte lombarde. Questa possibilità che i fondi comunitari non impegnati possano essere trasferiti ad altre regioni interessa molto la Calabria che ha diversi investimenti ancora fermi al palo. La tabella che potete leggere in pagina è contenuta fra i documenti allegati al bilancio di previsione 2020 che sarà discusso nel prossimo consiglio regionale. Secondo i conti del Dipartimento Bilancio della Regione, la quota delle risorse a fronte delle quali non si registrano obbligazioni giuridicamente vincolanti ammonta ad almeno 3 miliardi di euro nel pluriennale 2020-2023. A questi vanno aggiunti anche i quattrini della programmazione 2016/2020 calata in un quadro economico che oggi è totalmente mutato per gli effetti del coronavirus. Da qui la proposta del consigliere regionale del Pd, Carlo Guccione, di approvare insieme al bilancio un piano strategico per far ripartire gli investimenti pubblici e impegnare quante più risorse possibile per evitare futuri scherzi da parte del Governo e della Ue. La maggioranza, dal canto suo, vuole riproporre una commissione consiliare che i occupi di fondi comunitari proprio per evitare che queste risorse prendano altre strade. Non sappiamo quale delle due proposte sia confacente alla situazione, ma quel che è certo è che bisogna iniziare a discutere della futura programmazione per far ripartire la Calabria. Al momento si registra solo l’atto di indirizzo della giunta, su proposta dell’assessore Fausto Orsomarso (approvato con Delibera di Giunta Regionale del 01.04.2020) in cui vengono stanziati 150 milioni, che verranno gestiti da Fincalabra, per prestiti alle imprese calabresi. Un primo passo, che a breve verrà concretizzato, ma il dibattito non può che essere più ampio se non vogliamo rischiare un altro scippo al Sud.

VOGLIONO FAR PAGARE AL SUD SPRECHI E MALAGESTIONE DEL NORD. Pino Aprile 20 Aprile 2020.

FONDI COESIONE E 34% A RISCHIO. MINISTRO PROVENZANO, E SOTTOSEGRETARIO TURCO: NO. “L’Italia è finita”, sembrò un titolo esagerato, ad alcuni: racconta quello che sta succedendo, e perché, anche se uscito due anni fa. Preveggenza? Figurati: lo diceva già Indro Montanelli molti anni prima. Il destino dell’Italia si gioca in questi giorni, forse, in queste ore: dipenderà da come finisce lo scontro fra chi pensa di “tornare a prima del Covid-19”, ovvero al Paese diviso fra chi si arroga tutti i diritti e i meriti (ma la gestione dell’epidemia ha dimostrato quanto sia presuntuoso e falso), e chi è ritenuto titolare di minori diritti (lo si vorrebbe persino sancire costituzionalmente, con l’Autonomia differenziata) per la sua pochezza e incapacità (ma la gestione dell’epidemia ha dimostrato quanto sia presuntuoso e falso, pur se lo insegnano da cattedre in “Tutta colpa del Sud” generosamente elargite). Il modo in cui si vorrebbe tornare a “prima del Covid-19” è lo stesso che ha creato l’Italia duale: una parte che rastrella risorse (e non “restituisce”, come ha detto il ministro al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano e confermano economisti non schierati) e una parte tenuta in stato coloniale, cui sottrarre risorse e diritti.

L’APPELLO L CAPO DEL GOVERNO: LA RIPARTENZA SIA MERIDIONALE. Le proposte allo studio del governo sono le peggiori possibili: rubare i fondi per lo sviluppo e la coesione, FSC, destinati al Sud e darli a chi è stato capace di buttare da 21 a 50 milioni (non si sa ancora), per attrezzare in un mese una dozzina di posti letto di terapia intensiva, mentre gli incapaci e ladri, a Napoli, in 30 ore, costruivano un ospedale (non solo tirando su tramezzi in un edificio esistente), per 72 posti letto, spendendo 7 milioni. E vorrebbero pure sospendere la clausola, appena imposta, del 34 per cento della spesa pubblica al Sud, almeno proporzionale alla popolazione! Questo, mentre centinaia di cittadini (primi firmatari, decine di docenti universitari, intellettuali, imprenditori) lanciano una lettera dal Sud al capo del governo, per dire che la ripartenza dalla tragedia non può che essere meridionale, perché le circostanze lo consentono, senza rischiare, e perché l’Italia è giunta al punto di rottura: o si avvia il recupero del divario Nord-Sud (frutto di scellerate scelte politiche e discriminatore a danno del Mezzogiorno, in un secolo e mezzo), o il Paese non reggerà alla brutalità di questo ennesimo strappo e si spezzerà.

LA PAROLA D’ORDINE: “FOTTERE IL SUD”. A livello di governo e dintorni, ormai c’è chi dice, esplicitamente, che “bisogna fottere il Sud” (la disperazione degli incapaci e ladri fa cadere le finzioni ed emergere la vera natura delle cose). E i trombettieri di regime coloniale annunciano la secessione possibile del Nord, se non potrà ancora saccheggiare il Sud, mentre si dice stufo di mantenerlo (e sono pure bugiardi, visto che ormai anche la Gazzetta di Paperopoli, non i giornali del Nord, non la Tv di Stato, salvo eroiche eccezioni, vedi Report, pubblica che l’ente di Stato Conti Pubblici Territoriali, gli studi della Svimez, le ricerche dell’Eurispes, eccetera eccetera eccetera, dimostrano che ogni anno son sottratti al Sud, dalle risorse che gli spetterebbero, almeno 61-62 miliardi. Quindi: chi mantiene chi?

Più volte, il giornale portavoce della Confindustria, il Sole24ore, nelle settimane scorse, aveva riportato “voci” chiaramente ispirate da ambienti ministeriali, senza dire quali, secondo cui “era allo studio” l’idea di “riprogrammare” i fondi per lo sviluppo e la coesione, eliminando il vincolo della destinazione. Che voleva semplicemente dire: i soldi del Sud, ce li prendiamo al Nord, e chissene pure del vincolo del 34 per cento (infatti il ministro ai Trasporti, purtroppo Paola de Micheli, Pd, nella ripartizione di parte dei fondi per il rinnovo dei parchi degli automezzi per il trasporto urbano, assegnò tutto alle città del Nord, meno una del Sud: l’equità di lorsignori). La mossa di oggi, quindi, viene da lontano.

"GLI ERPIVORI: NEL 1948 DE GASPERI DIROTTO' I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA'? Annamaria Pisapia il 23 aprile 2020 su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicopensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque (ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto (la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall'ospedale di Padova e di Brescia come "primi" ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l'emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce com“ nord, motore propulsivo". Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l'unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l'America annunciò l'avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell'Europa. Il piano prevedeva l'impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l'Italia, il Sud era l'area maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall'evento bellica. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l'87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su "Il Popolo" del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori" (consumatori parassiti di fondi Erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si battè affinché gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: "a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il Pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita "La Cassa per il Mezzogiorno" (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto, mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente".

IL MINISTRO DEL MEZZOGIORNO E IL SOTTOSEGRETARIO ALLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA: IL SOLDI DEL SUD NON SI TOCCANO. C’è da dire che, nel pieno del casino suscitato dalla divulgazione della proposta giunta sul tavolo di governo, ci sono due esponenti di peso del governo che sono venuti allo scoperto: il ministro al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega alla programmazione economica, Mario Turco. Provenzano, a cui ho chiesto cosa dobbiamo aspettarci, ha risposto: «Quelle proposte non sono le mie. Non sono state nemmeno discusse nel governo. Ma la clausola della sospensione del 34 per cento non passa, non può passare; io la sto già applicando. Quando ai fondi FSC, sviluppo e coesione, ho già detto pubblicamente che sono già stati programmati e non è previsto il loro trasferimento». Ricordo che questo, il ministro lo scrisse già replicando al Sole24ore. Ma… se il governo dovesse decidere diversamente? «Prima di essere chiamato a fare il ministro, ero vice direttore dello Svimez, e il mio compito fu documentare la fine che facevano i fondi destinati al Sud, invece di essere investiti a Sud. Ora quei fondi dipendono dal mio ministero. E non intendo sprecare questa occasione di rilancio a partire da Sud». E il sottosegretario Turco, ha diffuso una nota in cui si legge: “Anche se l’Italia è alle prese con l’emergenza coronavirus, non subiranno alcuna modifica le norme per il Mezzogiorno”. Spiega che il documento “L’Italia e la risposta al covid-19” è solo “una bozza di lavoro propedeutico ad uno studio del Dipartimento per la programmazione ed il coordinamento della politica economica”, non ancora sottoposta “perché incompleta, al vaglio dell’autorità politica”. Sulla determinazione del ministro Provenzano e del sottosegretario Turco, non ci sarebbero dubbi, a giudicare dalle loro parole (che, se non risultassero coerenti con le azioni, si ritorcerebbero contro). Ma il documento è stato prodotto e qualcuno lo ha fatto arrivare alla stampa, spiazzando non solo il ministro Provenzano e il sottosegretario Turco (in quota uno al Pd, l’altro ai cinquestelle), ma forse lo stesso Conte. Un capitolo di quel documento più esplicito non potrebbe essere: “Proposta di sospensione della clausola del 34%”; e altrettanto per i fondi FSC. Qualcuno lo ha scritto e prima che il governo ne discutesse, divulgato (meglio così, a questo punto, qualunque sia stata l’intenzione, se far passare la cosa per già fatta o per stroncarla). Provenzano dice: non passa, e nella nota del sottosegretario Turco, lo di dice due colte: “le soluzioni alla crisi economica connesse con il coronavirus non vanno ricercate modificando le norme a tutela del Mezzogiorno”, e quindi “è impensabile sospendere la clausola che destina il 34% delle risorse dei Fondi Ordinari per la spesa in conto capitale al Sud. Così come il criterio di ripartizione dei fondi Fsc”: tutte misure “per garantire una maggiore equità territoriale” (parole sante…, le ultime due, per fatto quasi personale).

SE ANCOR UNA VOLTA LA FURIA PREDATORIA DEL NORD DOVESSE PREVALERE, L’ITALIA SI SPEZZEREBBE. Lo scontro si preannuncia duro, quindi. Abbiamo tutti il dovere di operare e sperare che ci si possa salvare insieme, perché in una gara planetaria, meglio essere più grandi che più piccoli; ma se più grandi e divisi, in un conflitto irrisolvibile, allora, meglio piccoli coesi e forti, senza dover a che fare con il peggior nemico in casa. Le grandi tragedie sono occasione di verità e di scelte definitive; sono i momenti in cui si decide se continuare nel modo che ha portato al disastro o cambiare totalmente indirizzo. L’Italia è migliore di come ce l’hanno descritta e ce la descrivono: un Nord onesto, efficiente e generoso con il Sud disonesto, incapace e sprecone. Questo racconto, su cui è stata costruita una economia, non regge più; e quella economia non è più possibile, appartiene al tempo delle colonie; il Sud s’è scetato: o un Paese che sia lo stesso per tutti nei diritti, o non ci sarà più (la finzione di) un Paese, ma due.

PER LA LOMBARDIA, RAZZISTA E’ IL SUD (E LORO CI DAREBBERO 100 MILIARDI L’ANNO). Lino Patruno del direttivo nazionale M24A-ET. Proprio non la vogliono capire. Neanche un docente universitario e filosofo come Carlo Lottieri, bresciano. Il quale sul <Giornale> di Milano si lancia in una difesa della Lombardia a suo parere, e non solo suo al Nord, oggetto di razzismo da parte del resto d’Italia per i problemi della sua sanità (così magari capiscono cosa è il razzismo che riservano da sempre al Sud). Poi però si avventura in tesi sulle quali lui e gli altri farebbero bene a non insistere: il cosiddetto <residuo fiscale>. Sostiene con coraggio pari alla avventatezza che il Nord passa al Sud ogni anno 100 miliardi (e la Lombardia in particolare 54 miliardi). Anche a quella Campania la quale chiude le frontiere ai lombardi ma poi passa all’incasso. E’ la stessa faccia ineffabile con la quale Fontana e Zaia meditavano l’autonomia rafforzata. Facendo un autogol clamoroso. Perché allora si è scoperto (con le cifre ufficiali dei Conti pubblici territoriali) che:

- non c’è alcun residuo fiscale del Nord verso il Sud

- ogni anno lo Stato spende per ogni cittadino meridionale circa 4 mila euro in meno rispetto a un cittadino settentrionale

- dal 2009 sono stati sottratti al Sud 61 miliardi all’anno

- con un diverso conteggio questi miliardi dal 2000 al 2017 sono stati 840 (Eurispes)

- i posti fissi che secondo Ottieri i campani e i meridionali vorrebbero con i soldi del Nord, sono più numerosi al Nord che al Sud (dati Istat).

Consiglio finale ad Ottieri: studi di più.

Sorpresa: il Nord si prende la gran parte dei soldi pubblici. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. 15.062 euro pro capite al Centro-Nord e 12.040 euro pro capite al Meridione. In altre parole, ciascun cittadino meridionale ha ricevuto in media 3.022 euro in meno rispetto a un suo connazionale residente al Centro-Nord. Questi i primi dati della 32esima edizione del Rapporto Italia 2020 di Eurispes in merito al Mezzogiorno. L’Istituto di ricerca degli italiani nel 2017 rileva un’ulteriore diminuzione della spesa pubblica al Mezzogiorno, che arriva a 11.939 (-0,8%), mentre al Centro-Nord si riscontra un aumento dell’1,6% (da 15.062 a 15.297 euro). Emerge una realtà dei fatti ben diversa rispetto a quanto diffuso nell’immaginario collettivo che vorrebbe un Sud «inondato» di una quantità immane di risorse finanziarie pubbliche, sottratte per contro al Centro-Nord. Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. Per contro, tutte le Regioni del Nord Italia si vedono irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale. Se della spesa pubblica totale, si considera la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere in percentuale alla sua popolazione, emerge che, complessivamente, dal 2000 al 2017, la somma corrispondente sottrattagli ammonta a più di 840 miliardi di euro netti (in media, circa 46,7 miliardi di euro l’anno).

Il piano per il Sud presentato con la foto di Trieste: e tu? Quanto conosci l'Italia? Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 da Corriere.it. La copertina del progetto con il titolo «Un piano per il Sud è un progetto per l’italia», l’hashtag «#Sud2030» e la foto di Duino, il Comune in Friuli-Venezia Giulia, con una splendida vista sul Golfo di Trieste e le sue falesie. Non proprio un panorama meridionale, insomma. È stata questa la svista che ha attirato critiche e ironie contro il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina (M5S). Diventando un caso politico, ma anche una facile battuta da salotto. E allora, vale la pena mettersi alla prova. Quanto conosciamo noi i luoghi simbolici dell'Italia? Proviamo a scoprirlo attraverso questo quiz.

Il governo presenta il Piano per il Sud ma in copertina c'è il Golfo di Trieste. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Un piano per il Mezzogiorno da 123 miliardi di euro. Lo hanno presentato venerdì a Gioia Tauro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina (M5S). Ma a diventare oggetto di discussione — e dell’ironia via Twitter — non sono state le misure previste per i giovani, la svolta ecologica, l’innovazione, il potenziamento dell'edilizia scolastica o l'estensione della No Tax area bensì la copertina del progetto con il titolo «Un piano per il Sud è un progetto per l’italia», l’hashtag «#Sud2030» e la foto di Duino, il Comune in Friuli-Venezia Giulia, con una splendida vista sul Golfo di Trieste e le sue falesie. Non proprio un panorama meridionale, insomma. La segnalazione arriva via Twitter dal giornalista Ferdinando Giugliano, raccoglie centinaia di «Mi piace», retweet e commenti sarcastici: «Il Sud dell'Impero Austro-ungarico!», «Lo ha fatto per vedere se stiamo attenti», «A sud di Oslo». E anche una replica del ministro Provenzano — «È un progetto per l'Italia, appunto. Sul serio» — che però non riesce a spegnere gli sfottò.

Tolti al Sud e dati al Nord 840 miliardi di euro in 17 anni. Chi riteneva e ritiene che parlare di rapina al Sud è una bufala, è servito. Cosa ti accerta il rapporto 2020 del noto Centro studi? Che dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto appunto al Sud 840 miliardi di euro. Lino Patruno il 07 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. E ora anche l’Eurispes. Chi riteneva e ritiene che parlare di rapina al Sud è una bufala, è servito. Cosa ti accerta il rapporto 2020 del noto Centro studi? Che dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto appunto al Sud 840 miliardi di euro, in media 46,7 miliardi all’anno. Non solo sottratti, ma dati al Nord. Effetto del mancato rispetto del famoso 34 per cento, la percentuale della popolazione meridionale che avrebbe dovuto essere anche la percentuale della spesa al Sud. Ecco perché il divario aumenta invece di diminuire. Ecco perché i giovani del Sud sono costretti a partire per la mancanza di lavoro. Uno scandalo nazionale ancòra più grande quanto più assoluto è stato il silenzio per tutto questo tempo. Con l’aggiunta delle tre regioni del Nord che chiedono autonomia perché stanche, dicono, di dare soldi al Sud. Non ha usato mezzi termini Gian Maria Fava, il sociologo presidente dell’Eurispes. Ha detto che sulla Questione meridionale dall’Unità a oggi si sono consumate le più <spudorate> menzogne. Col Sud di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia. Come luogo di concentrazione del malaffare. Come ricovero di nullafacenti. Come zavorra che frena la crescita economica e civile del Paese. Come dissipatore della ricchezza nazionale. Ma un Sud che attende ancòra una parola di onestà da parte di chi ha alimentato questo racconto. Mentre la situazione è letteralmente capovolta rispetto a quanto finora comunemente creduto e spacciato. E rivelata dai dati delle più autorevoli agenzie nazionale e internazionali. Ma anche questa volta si è tentato di far scivolare tutto nel silenzio. Scarsi accenni sulla stampa nazionale, impegnata col Festival di Sanremo. Ancòra più scarse reazioni dal mondo politico, impegnato a litigare. Eppure l’Eurispes ha più o meno confermato ciò che pure la Svimez aveva solo qualche mese fa denunciato. E in base agli stessi dati governativi dei Conti pubblici territoriali, non a piagnonismo meridionale. E cioè i 61 miliardi all’anno sottratti al Sud dal 2009, da quando si sarebbe dovuto riequilibrare la spesa pubblica <storica> che favorisce il Nord. Quanto lo stesso ex ministro nord-leghista Calderoli aveva ammesso invitando a cambiare. Non se ne è fatto nulla, tranne l’iniziale impegno del ministro Boccia a provvedere quando si è riparlato dell’autonomia a Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. E tranne un impegno verbale del presidente Conte. Ma intanto la spesa storica ai danni del Sud continua. E ai danni del Sud continua a essere usata la consueta arma di distrazione di massa. Di chi la colpa del suo incompleto sviluppo? Delle incapaci classi dirigenti meridionali. Della mancanza di mentalità imprenditoriale. Della società civile che non c’è. Delle mafie che al Sud farebbe piacere avere. Descrizione con la complicità di anime belle meridionali, tanto capaci di brillante autocritica (ma quale?) quanto incapaci di uscire dal loro colonialismo mentale. O forse interessate a non muovere nulla per sfruttare piccoli miseri vantaggi personali. Così storici, giornalisti, saggisti, benpensanti. Che molti dei mali attribuiti al Sud ci siano, è sicuro. Ma sono la causa del suo sottosviluppo o un effetto di questo sottosviluppo? Scrive in questi giorni un lettore (settentrionale) a un giornale nazionale: non ci sono dubbi che fare politica al Sud è più difficile con una disoccupazione da quarto mondo. Non ci sono dubbi che la pressione per avere di che vivere è il peso con cui ogni amministratore del Sud deve confrontarsi. Non ci sono dubbi che i bisogni non soddisfatti delle persone sono alla base di ogni problema. Non ci sono dubbi che senza servizi e infrastrutture adeguati non c’è possibilità di miglioramento né di allentamento delle tensioni sociali. Ma come si risponde a tutto questo? Si risponde che il Sud deve rimboccarsi le maniche e riconoscere le proprie colpe. La colpa è vostra. E troppo Sud ignaro o rassegnato o complice risponde che, sì, la colpa è solo nostra.

Inutile dire cosa si poteva fare con 46,7 miliardi l’anno. Quante strade, quanti treni, quante scuole, quante università, quanti ospedali, quanti asili nido, quanti anziani curati, quanti figli. Quanto lavoro per i giovani che non emigrino più. Tutto quanto non c’è mentre si parla di sprechi <del> Sud quando c’è soprattutto spreco <di> Sud come unica possibilità di crescita dell’intero Paese (che infatti non cresce). E condizioni di partenza diseguali che restano il comodo alibi di chi si adegua invece di reagire. Non si trova altrove un tale clima di colossale ribaltamento della verità e un tale clima di colossale sfruttamento di una parte del Paese a danno dell’altra. Non si trovano altrove una ingiustizia e una menzogna così lunghe e impunite. Lino Patruno

IL MEZZOGIORNO AL DI LÀ DELLE FAKE NEWS NEL RAPPORTO EURISPES 2020. Michele Eugenio Di Carlo il 4 febbraio 2020 su movimento24agosto.it. Gli studi, le ricerche, gli articoli dei meridionalisti trovano pieno conforto nella recentissimo Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani. Non ha usato mezzi termini il presidente dell’ Eurispes Gian Maria Fara, prendendo il via nella sua analisi proprio dal processo unitario italiano: «Sulla questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne. Il Sud, di volta in volta descritto come la sanguisuga del resto d’Italia, come luogo di concentrazione del malaffare, come ricovero di nullafacenti, come gancio che frena la crescita economica e civile del Paese, come elemento di dissipazione della ricchezza nazionale, attende ancora giustizia e una autocritica collettiva da parte di chi – pezzi interi di classe dirigente anche meridionale e sistema dell’informazione – ha alimentato questa deriva». L’accusa alla classe dirigente italiana e al sistema d’informazione è precisa e dello stesso tenore di quella che i meridionalisti muovono da decenni inascoltati e, spesso, oscurati proprio dai media. Non è un caso che riguardo all’informazione, tra mille difficoltà, si è cercato di diffondere ad esempio le conclusioni  avanzate nel testo “La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo” da Stefano Cristante e Valeria Cremonesini, docenti di sociologia dei processi comunicativi e culturali; conclusioni che lasciano sconcertati: negli ultimi 35 anni i media nazionali hanno messo in rilievo quasi solo i mali del Mezzogiorno creando negli stessi meridionali un immaginario percepito falsato. Raccapricciante la constatazione che, come aggiunge Fara, le più autorevoli agenzie nazionali ed internazionali certificano che riguardo al Mezzogiorno «siamo di fronte ad una situazione letteralmente capovolta rispetto a quanto creduto». Ed ecco i dati nero su bianco del Rapporto Italia 2020, che non si differenziano da quelli spesso divulgati nel passato ma ignobilmente contestati e ignorati:

1 – Lo stato italiano nel 2016 ha speso per ogni cittadino del Centro-Nord 15.062 euro, mentre per ogni cittadino del Sud la spesa è stata di 12.040 euro, una differenza di ben 3022 euro pro-capite;

2 – Nel 2017 l’Eurispes rileva per il Centro-Nord una spesa pro-capite aumentata a 15.297 euro, per il Sud una spesa pro-capite diminuita a 11.939 euro per una differenza che aumenta a 3358 euro e che moltiplicata per il numero di abitanti del Mezzogiorno ammonta a oltre 60 miliardi annui.

Dov’è quel Sud dalle mille risorse finanziarie sprecate raccontato nei salotti televisivi di quei talk show nazionali dove giacciono onnipresenti i soliti conduttori e opinionisti? E dov’è quel Sud a cui verrebbe distribuita gran parte della spesa pubblica, se al contrario i dati confermano che sono le regioni del Nord ad essere beneficiate da una spesa annua nettamente superiore? Il Rapporto Italia 2020 attesta incontrovertibilmente che, in relazione alla percentuale di popolazione residente, al Sud dal 2000 al 2017 è stata sottratta una somma pari a 840 miliardi. Un dato impressionante di cui politica e media non hanno mai tenuto conto negli ultimi decenni, tanto da averci costretto a coniare l’acronimo PUN per indicare l’insieme dei partiti nazionali indifferenti alla crescita economica, sociale e culturale del Sud. Eppure il PIL (prodotto interno lordo) del Nord si basa essenzialmente sulla vendita di beni e servizi al Sud, mentre lo scambio import-export tra le due aree del paese è interamente a vantaggio del Nord, tanto che riesce difficile comprendere come un’intera classe politica, sostenuta dai media, abbia potuto nell’ultimo trentennio pensare che lasciare il Sud senza infrastrutture e servizi potesse avvicinare il Nord all’area ricca dell’Europa. E’ del tutto evidente che abbassare il tenore di vita dei meridionali ne ha limitato il potere d’acquisto e di conseguenza il PIL delle regioni più avanzate economicamente d’Italia. Infatti, sempre dal Rapporto Italia 2020, si rileva che per 45 miliardi annui di trasferimenti da Nord a Sud ben 70,5 miliardi si trasferiscono in direzione contraria. Dati a noi ben noti visto che Pino Aprile nel suo recente “L’Italia è finita”, citando gli economisti Paolo Savona, Riccardo De Bonis della Banca d’Italia e Zeno Rotondi autore di “Sviluppo, rischio e conti con l’estero delle regioni italiane”, ha indicato lo stesso saldo attivo per il Nord. Chiaro il monito del Presidente dell’Eurispes: «… ogni ulteriore impoverimento del Sud si ripercuote sull’economia del Nord, il quale vendendo di meno al Sud, guadagna di meno, fa arretrare la propria produzione, danneggiando e mandando in crisi così la sua stessa economia». Tuttavia, nonostante l’analisi socio-economica dell’Eurispes, l’altro giorno il Governatore del Veneto Luca Zaia, in un’audizione alla Commissione Parlamentare per le questioni regionali, ha continuato a sostenere il suo progetto di Regionalismo differenziato continuando a riferire di sprechi e di cattiva amministrazione al Sud, mentre anche il neo rieletto Presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini sembra spingere nella stessa direzione. Una direzione che nel corso degli ultimi dieci anni ha visto aumentare le disuguaglianze sociali ed economiche tra aree geografiche diverse e che lo Stato, tenuto per Costituzione a rimuoverle, ha aggravato sostenendo una ripartizione territoriale per i servizi pubblici in base al principio iniquo della “spesa storica”. Disuguaglianze che, proprio attraverso il Regionalismo Differenziato, i Governatori delle regioni del Nord e i partiti nazionali del PUN (Lega, PD, FI, FDI) vorrebbero conservare stabilmente. Sta maturando il tempo in cui questi partiti nazionali, per lo più portatori di propaganda spicciola, pagheranno il prezzo di scelte politiche che hanno imposto condizioni di vita e di lavoro drammatiche ai cittadini del Sud, due milioni dei quali sono dovuti dolorosamente emigrare negli ultimi decenni.

Le grandi aziende che lavorano nel Sud Italia hanno la sede legale al Nord e lì pagano le tasse.

Le grandi aziende del Nord Italia hanno la sede legale nei paradisi fiscali e lì pagano le tasse.

Gianluca Zapponini per formiche.net il 6 aprile 2020. Un brand italiano che sposta la sede legale (ma la produzione resta ben piantata qui) in un Paese dove si pagano meno tasse, magari in Olanda. Film già visto. Fca, su tutti, ma anche Mediaset, Cementir, Luxottica e Ferrero, quest’ultima però in Lussemburgo. Ora tocca a Campari e l’Italia paga il conto di certa indifferenza tutta politica. Gli azionisti dello storico marchio italiano nato nel 1860 (in primis la famiglia Garavoglia, tramite la cassaforte Lagfin che detiene il 51% del capitale) e che oggi fattura 1,8 miliardi e fa base a Sesto san Giovanni, alla fine di marzo hanno dato il via libera definitivo allo spostamento della sede legale nei Paesi Bassi, mentre quella fiscale rimarrà in Italia. Libero mercato, si dirà. Forse, ma a rimetterci però è quasi sempre l’Italia e il suo Pil. Perché spostare la sede legale vuol dire versare tasse in un nuovo Paese. E con la holding di solito si muove anche un certo indotto: consulenza, audit, avvocati… con il risultato che il nostro Paese perde entrate non certo trascurabili, nonostante i ricavi vengano generati sempre qui, negli stabilimenti italiani. Lo ha sottolineato anche il premier Giuseppe Conte, in una recente intervista, nel quale oltre a criticare l’atteggiamento di certi Paesi (Olanda, proprio lei, in testa) verso l’uso degli eurobond, attaccava proprio la natura di paradiso fiscale del Paese dei tulipani. “L’Olanda è anche tra i Paesi che si avvantaggiano molto del contributo delle imprese italiane. Perché molte grandi imprese che pure hanno i principali stabilimenti in Italia e ricavano i maggiori profitti nel nostro Paese poi beneficiano della legislazione fiscale olandese, molto più conveniente”, ha detto Conte. E non è stato da meno l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che in una recente intervista a Formiche.net, ha definito l’Olanda un Paese che importa holding. Ma cosa può fare il governo italiano dinnanzi a tutto questo? Perché se è vero che da una parte il nostro esecutivo si sta prodigando giustamente, attraverso il Golden power, per impedire che le imprese che decidono di rimanere vengano acquisite, non si può dire avvenga lo stesso per impedire che le stesse aziende se ne vadano all’estero con le loro gambe. Un filtro in entrata, insomma, ma non in uscita. Un esperto qualificato spiega a Formiche.net cosa c’è dietro la scelta di certe aziende. Tutto ruota intorno ai diversi trattati stipulati dall’Italia in passato al fine di evitare a un’azienda di dover pagare le tasse in due Paesi differenti ma che hanno stipulato l’accordo. Quello con l’Olanda è datato 1990. “Lo spostamento delle sedi legali in Olanda e Lussemburgo è qualcosa che accade da molto tempo. La scusa, in parte vera, sono spesso le norme locali per gestire meglio le società. Ma per l’Italia c’è un danno: questi spostamenti, cambi di sede non sono indolore”, spiega. “Il punto è che se è vero che il Fisco è attento in queste situazioni, e spesso fa accertamenti, non dimentichiamoci di quelli fatti su Fca stessa, in questo momento in cui l’Olanda sembra fare la furba sugli eurobond, deve esserlo ancora di più. Perché è vero che se io delocalizzo porto fuori solo la holding. Ma è anche vero che questo vuol dire non pagare più le tasse in Italia. È un aspetto di cui tener conto. Ricordiamoci che l’Olanda può beneficiare di tutto ciò perché siamo in un mercato comunitario, altrimenti lo Stato Italiano non consentirebbe a un’azienda di spostarsi così. Occorre verificare, controllare, stare insomma ancora più attenti ai movimenti di chi decide di mettere la sede legale in altri Paesi”, spiega ancora l’esperto. E pensare che l’Italia “potrebbe anche denunciare quel trattato. Si può”. In ogni caso vale la pena chiedersi il perché di tale inerzia politica nel tentare di arginare simili operazioni in uscita, che certo non bene fanno al nostro Pil.

Grandi evasori e politici corrotti: ecco la lista veneta. Dalle tangenti del Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con più di 250 milioni nascosti dal fisco da imprenditori del nordest Paolo Biondani e Leo Sisti il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Si chiama “lista De Boccard”. Dal computer del professionista svizzero Bruno De Boccard, sequestrato dai magistrati della Procura di Venezia, è emerso un elenco di dozzine di imprenditori, soprattutto veneti, protagonisti di una colossale evasione fiscale, celata all’ombra del super condono targato Berlusconi del 2009-2010. Un fiume di denaro di “oltre 250 milioni di euro”, finora mai completamente ricostruito, dove si mescolano le tangenti ai politici e i fondi neri degli stessi clienti. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti autostradali, in grandi alberghi o studi di commercialisti. Lo rivela L’Espresso in edicola domenica 28 aprile e  in anteprima online su Espresso+ . L’indagine della Guardia di Finanza, nata sulla scia dello scandalo del Mose di Venezia, ha già portato al sequestro di oltre 12 milioni di euro. E ha fatto scoprire un traffico di tangenti per 1,5 milioni nascoste prima in Svizzera e poi in Croazia da una prestanome di Giancarlo Galan, ex governatore veneto e ministro di Forza Italia, già condannato per le maxicorruzioni del Mose. Questa nuova indagine ha fatto emergere anche una serie di documenti informatici con i dati di centinaia di società offshore utilizzate da politici e imprenditori per nascondere nei paradisi fiscali più di 250 milioni di euro. Molti casi di evasione sono stati però cancellati dalla prescrizione o dallo scudo fiscale. Secondo L’Espresso, il “re delle valigie” Giovanni Roncato ha ammesso di aver rimpatriato, grazie proprio allo scudo, 13,5 milioni di euro, detenuti all’estero e accumulati in passato “in seguito a minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa…la Mala del Brenta…nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona”. Ed ecco partire il carosello del denaro, affidato a “malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova Ovest”. Si chiama Alba Asset Inc, la offshore spuntata nei file di De Boccard, creati insieme al suo boss, il nobile italo-elvetico Filippo San Germano d’Aglié, nipote della regina del Belgio. Un altro nome eccellente che compare nell’inchiesta ribattezzata Padova Papers, germinazione dei più famosi Panama Papers, è quello di René Caovilla, titolare di un famoso marchio di scarpe, e boutique in tutto il mondo. Anche lui, al quale faceva capo la offshore Serena Investors, riporta L’Espresso, si è avvalso dello scudo fiscale, facendo rientrare in Italia 2,2 milioni di euro, “somme non regolarizzate affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera”. Anche tre commercialisti di uno affermato studio di Padova, giù emersi nelle vicende del Mose, entrano qui in scena come presunti organizzatori del riciclaggio di denaro nero: Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. Tutti collegati al duo San Germano-De Boccard, punti di riferimento di proprietari di hotel, fabbriche di scarpe, imprese di costruzioni e, ancora, big delle calzature. Come Damiano Pipinato, che attiva lo spostamento dei soldi attraverso proprio Guido Penso: “Lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori…Io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova”. Il dottor Penso non contava il denaro, si fidava, si accontentava della cifra indicata da Pipinato e “rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato”. Pipinato ha confessato di aver esportato all’estero 33 milioni di euro: 25 in Svizzera, 8 a Dubai.

In Veneto si fa, ma non si dice. Lo rivela “Il Corriere della Sera”. Scoperti dalla Guardia di finanza in Veneto oltre 2.300 falsi poveri che usufruivano dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario. Il controllo è stato svolto, per ora, in cinque Ussl sulle 22 esistenti nella regione, con un bacino d'utenza di circa 1.200.000 assistiti residenti in 183 comuni delle province di Venezia, Belluno, Padova, Treviso e Vicenza. I finanzieri proseguiranno gli accertamenti per verificare altre 8 mila posizioni di persone fisiche dichiaratesi «disoccupate». Il report di analisi, condotto su 30 mila prestazioni in esenzione per «disoccupazione e reddito» nel biennio 2009-2010, ha evidenziato appunto 2.300 prestazioni elargite nei confronti di cittadini con redditi superiori alla soglia prevista per godere del beneficio e 10 mila prestazioni rese nei confronti di assistiti rivelatisi non disoccupati, nei confronti dei quali le fiamme gialle compiranno ulteriori accertamenti per escludere ulteriori condotte fraudolente.

Ma di non solo truffe si ciba il ricco nord-est. Vi è anche l’evasione fiscale. In Veneto sparisce il 22,4% del reddito. E lo racconta “La Repubblica”. Un Paese unito nel nome dell'evasione fiscale: nascondere una parte o la totalità del reddito agli occhi dello Stato è un' attività diffusa su tutto il territorio italiano. Ma gli evasori non sono tutti uguali: c' è chi si accontenta di truffare il fisco solo in parte, e chi mette via ogni remora pur di accumulare entrate senza versare le tasse. Al Nord come al Sud, anzi al Nord un po' di più. Contrariamente a quanto si pensa per via della maggiore diffusione dell'economia sommersa, il picco dell'evasione si raggiunge nel Settentrione. La regione che sottrae più ricchezza ai fini dell'Irpef è il Veneto, che nasconde in media il 22,4 per cento dei suoi redditi, la più virtuosa è la Sardegna dove l'evasione si contiene al 13,7%. Fra i due estremi, c'è il ritratto di un Paese che si attrezza in mille modi per ingannare il fisco quando il contribuente non versa la ritenuta alla fonte: dalle prestazioni professionali in nero agli scontrini mai emessi. A differenziare il fenomeno in base al territorio ci ha pensato lo Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, in uno studio che calcola le percentuali del reddito dichiarato rispetto a quello disponibile nel 2008 (al netto delle prestazioni sociali e delle quote esenti, più diffuse al Sud). Il Paese in complesso ne esce male anche se, contrariamente ai luoghi comuni, la quota di reddito nascosto è più alta al Centro-Nord, con il 19,3 per cento, che al Sud (il 18). Al Veneto (22,4), nella classifica dei meno virtuosi, seguono le Marche (22 per cento di ricchezza evasa). Ma a parte un intermezzo fra il terzo e quarto posto - Basilicata (21%) e Calabria (20,6 per cento, pari merito con l'Emilia Romagna) - è l'Italia del Centro Nord a dominare la parte alta della graduatoria. Lombardia e Sicilia, regioni con notevoli differenze nel livello di vita, evadono quote simili (17,6 per cento la prima, 17,2 la seconda). Quanto a virtuosismo, alza la media settentrionale solo la Liguria (14,7 per cento di reddito evaso). L'andamento non cambia di molto se si considerano le percentuali di reddito dichiarato rispetto al Pil: il Mezzogiorno dichiara il 51,2 per cento rispetto al 49,5 del Centro-Nord. E non sembra che nel breve periodo le posizioni possano invertirsi visto che - secondo una indagine di Contribuenti.it - nei primi mesi del 2010 l'evasione era data in aumento soprattutto in Lombardia e in Veneto. Commenta lo Svimez: «Non cadiamo nella tentazione di etichettare il Centro Nord come terra di evasori fiscali - si legge nello studio -. Ma questi dati mostrano comunque che non si può attribuire questa stessa etichetta al Mezzogiorno: la realtà è che l'Italia non ha raggiunto l'unità economica, ma è unificata dall'evasione». Secondo i ricercatori dell'associazione una precisazione però va fatta: «Le informazioni della Guardia di Finanza - che non riguardano tutti i contribuenti, ma solo quelli sottoposti a controllo fiscale - indicano che nel Mezzogiorno ci sono più evasori che nascondono importi modesti». Al Centro Nord si verifica il caso opposto: «Al limitato numero di evasori corrisponde una massa imponibile non dichiarata rilevante». In sostanza, conclude lo studio Svimez «si può figurare un'evasione per sopravvivenza al Sud ed una evasione per accumulazione di ricchezza al Nord».

A tal riguardo Antonio Melli dice la sua Su “La Vera Cronaca”: Il Veneto leghista campione di evasione fiscale. Se li sentite parlare con quelle voci stridule ed inequivocabili, non pensereste mai che dietro quelle urla folkloristiche si nasconde una realtà completamente opposta al senso politico ingabbiato in esse. Parlano soprattutto della Padania, antica terra laboriosa dove il senso civico bene si amalgama con l'onestà sociale. Salvo poi a scoprire che in questo territorio si annida un'evasione fiscale che non conosce vergogna e che fa del Veneto una regione dove la pratica dell'illegalità fa quasi parte del Dna di molti dei suoi abitanti. Parlano i numeri. É Venezia la culla dell’evasione in Veneto dall’alto dei suoi 384 milioni maturati nei primi quattro mesi dell’anno. La provincia veneziana è seguita a distanza da Vicenza, con 250 milioni, Verona con 222 e Padova con 59. Fanalino di coda Belluno con 13. Città che risulta essere "virtuosa" anche per quanto riguarda l’Iva, il lavoro nero e i lavoratori irregolari. Il quadro del resto del Veneto è invece alquanto pesante: complessivamente da gennaio ad aprile l’ammontare dell’evasione è stato di 1 miliardo e 34 milioni di euro. Pesante anche "l’ammanco" dell’Iva: 242 milioni e mezzo di euro in quattro mesi, sempre con Venezia in vetta alla classifica con quasi 93 milioni, seguita da Vicenza con 51 e Padova con 49. Anche in questo caso Belluno ha fatto registrare la cifra più bassa, 1 milione e mezzo di euro. Ma non c’è solo l’ evasione. La Guardia di finanza ha anche scoperto 975 lavoratori in "nero" o irregolari, sempre nel periodo che va da gennaio ad aprile 2010. Quello del lavoro nero è un fenomeno che presenta caratteri diversi e differenze numeriche macroscopiche da provincia a provincia. La provincia con più violazioni è quella di Treviso, dove sono stati scoperti 352 lavoratori del tutto "in nero" o irregolari; poi seguono Verona (149), Venezia (130), Vicenza (119) e Rovigo (115). Ma c’è anche chi è virtuoso, come Belluno dove le posizioni irregolari sono risultate essere appena 16. Sul fronte imprese e professionisti, quelli risultati completamente sconosciuti al Fisco sono stati 288; il maggior numero è stato scoperto a Venezia (83), Verona (57) e Vicenza (47). Detto questo, non vediamo proprio quali basi etiche la Lega Nord ed i suoi adepti vogliono suggerirci per adempiere alle loro richieste di federalismo fiscale, senza attendere i giusti tempi per un'approfondita analisi dei processi che esso andrebbe ad innescare. Forse sarebbe meglio che continuassero a preoccuparsi di combattere gli immigrati clandestini che, seppur a costo di lacerazioni culturali senza precedenti nella storia del nostro Paese, rappresentano per loro il terreno ideale su cui continuare a consolidare il loro potere politico. Perchè è solo a quello che essi mirano.

E poi per ripicca contro il Sud c’è chi diventa leghista. Interessante, però è il pensiero di Emanuele Bellato su “Il Popolo Veneto”. Si è scritto tanto dello scandalo che ha travolto la Lega Nord, alcune volte con competenza ed onestà intellettuale, ma il più delle volte propinando il solito corollario di inutilità e gossip. Comunque il quadro che emerge dalle indiscrezioni sull’inchiesta è sicuramente squallido: si parla di un vorticoso giro di soldi e di investimenti all’estero, di versamenti ai famigliari del Senatùr e al cosiddetto Sindacato Padano di Rosy Mauro. Proprio per questi motivi l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, è indagato per riciclaggio, appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato. Inoltre la magistratura indaga sui rapporti del tesoriere Belsito e la ‘ndrangheta. Non mancano nemmeno le intercettazioni ad inchiodare i “furbetti”, e poi le “gole profonde”: da Nadia Dagrada, segretaria amministrativa del Carroccio ad Alessandro Marmello, autista del giovane rampollo di casa Bossi (soprannominato “Trota”), che hanno già “vuotato il sacco”. Le dimissioni di Bossi senior e junior (quest’ultime tardive) più che un esempio da imitare rivelano una certa fragilità nel sostenere una causa ed una posizione troppo scomoda. Se l’informazione fa più o meno bene il suo dovere, lo stesso non può dirsi per i partiti dell’arco parlamentare. PDL, PD, UDC nell’attaccare ferocemente l’avversario in difficoltà hanno ritrovato una verginità che non gli appartiene. Viene in mente il detto: “il bue che dice cornuto all’asino”. Nel frattempo, la santa trinità - Alfano, Bersani, Casini - nell’indifferenza più totale, ha approfittato per approntare una riforma elettorale fondata, come ha giustamente criticato Vendola, “sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo” e cosa ancor peggiore ha dato il via libera alla manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, avallando di fatto il licenziamento discriminatorio sotto mentite spoglie. Il PD si ritaglia un ruolo addirittura grottesco nell’autoassegnarsi una vittoria inesistente. In Toscana hanno persino stampato dei manifesti “tragicomici” con su scritto “Vince il lavoro, vince il PD”. Il trionfalismo regna sovrano anche nelle vuote dichiarazioni del segretario Bersani e nelle mail inviate dal gruppo dei DeputatiPD.it. Questo il testo: “Grazie al Pd evitato colpo di mano sull'articolo 18. […] Sono state apportate correzioni che avvicinano la regolamentazione italiana dei licenziamenti senza giusta causa a quanto avviene in altri paesi europei. Aspettiamo di vedere le norme che verranno presentate in Parlamento ma, da quanto hanno detto il presidente Monti e il Ministro Fornero, è stato recepito il modello tedesco che prevede la possibilità di reintegrazione dei lavoratori per ogni caso di ingiusto licenziamento, anche per ragioni economiche”. A smentire i tanti “Pinocchio” del PD è lo stesso Monti che sul reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa dichiara: “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. E’ dura ammetterlo, ma questi tecnici stanno riuscendo nell’impresa mancata da Berlusconi, ovvero schiavizzare i lavoratori, privarli dei diritti fondamentali, o più semplicemente umiliarli. E poco importa se Confindustria si lamenta, è nel gioco delle parti. Ma ritorniamo a parlare della Lega. Adesso tutti sembrano accorgersi delle anomalie del Carroccio. Tutti si indignano per i favoritismi al “Trota”. Finanche dentro alla Lega i “maroniani” o “barbari sognanti” scalpitano in cerca di notorietà al grido di “pulizia, pulizia, pulizia”. Ma dove erano questi signori fino a ieri? Esistono decine di libri sulle malefatte della Lega. Tra i più significativi, vale la pena di citare alcuni titoli: “Un Po di contraddizioni. Il libro verde della Lega” a cura di Roberto Busso, Stefano Catone, Andrea Civati, Giuseppe Civati e Marcello Volpato; “Inganno Padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, 2010) di Fabio Bonasera e Davide Romano con prefazione di Furio Colombo; “Razza Padana” (Bur, 2008) di Adalberto Signore e Alessandro Trocino; “Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Dichiarazioni e scandali di un partito” (Newton Compton, 2010) di Eleonora Bianchini; “Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo” (Laruffa, 2011) di Luigi Pandolfi; “Avanti Po” (Il Saggiatore, 2010) di Paolo Stefanini; “Dossier Bossi-Lega Nord” (Kaos, 2011) di Michele de Lucia; “LegaLand. Miti e realtà del Nord Est” (Manifestolibri, 2010) di Sebastiano Canetta ed Ernesto Milanesi; “Metastasi” (Chiare Lettere, 2010) di Gianluigi Nuzzi; “Lo spaccone. L'incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega” (Editori Riuniti, 2004) di Rossi Giampieto e Simone Spina; “Umberto Magno. La vera storia del'imperatore della Padania” (Aliberti, 2010) di Leonardo Facco. In tutti questi libri si parla delle contraddizioni del partito padano, degli sperperi di denaro pubblico, delle collusioni con la malavita organizzata, della tangente Enimont, del fallimento della banca Crediteuronord, degli investimenti esteri: dal villaggio in Croazia alla Tanzania, del clientelismo, dei doppi e tripli incarichi, passando per le provocazioni xenofobe e razziste. Ma il libro più profetico ed illuminante è indubbiamente: “Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio” (Oscar Mondadori 1994) di Gianfranco Miglio. Si tratta di un libro datato, ormai introvabile se non in qualche bancarella dell’usato, mai più ristampato dalla casa editrice di proprietà della famiglia Berlusconi forse per compiacere il leader del Carroccio, quando l’alleanza tra il Cavaliere e il Senatùr sembrava inossidabile. In questo volumetto, dedicato “ai miei amici leghisti della base”, il giurista e politologo lombardo tratteggia un ritratto impietoso di Bossi, tacciandolo come primitivo, imbroglione, geloso. Il professor Miglio, a dispetto di chi tuttora lo vuole inserire nel Pantheon degli ideologi della Lega o gli dedica poli scolastici, senza aver mai letto un suo libro, scriveva del leader leghista: “Chi ha avuto rapporti continuati con lui (Bossi), sa che il suo primo e fondamentale difetto è la mancanza di sincerità. Beninteso: in politica esistono delle occasioni (fortunatamente rare) in cui il dovere di dire la verità si attenua; ma Bossi mente sempre, e anche gratuitamente: molte volte si vantò con me, divertendosi, di avere imbrogliato un avversario, o anche un compagno di strada. Può darsi che questa brutta abitudine sia un retaggio degli anni difficili, in cui la “lotta per la vita” fu per lui particolarmente dura, e lo costrinse a sviluppare la furbizia, che egli considera quindi una virtù”. (pp.37, 38) Continuando nella lettura si viene a conoscenza che il metodo di selezione della classe dirigente, vedi il “cerchio magico” o il tesoriere, non è un difetto attribuibile alla recente malattia ed alla presunta perdita di lucidità: “Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Anche perché qui si è rivelato un altro suo difetto incoercibile: la gelosia. Bossi è sempre stato morbosamente geloso di chi ottenesse, fra i “leghisti”, una simpatia e un credito eguali, se non addirittura superiori, a quelli a lui tributati. (pag.40) […] E naturalmente, avendo adottato un criterio selettivo “a rovescio” di quel genere, il segretario non solo impedì a molte persone qualificate di entrare nella Lega, ma riuscì a circondarsi di una squadra di “colonnelli”, tutti (si fa per dire) meno “dotati” di lui: magari, presi uno per uno, brava gente (e in attesa dell’occasione favorevole per mostrare la loro autonomia), ma consapevoli di dovere la loro fortuna politica esclusivamente alla fiducia del capo, e quindi pronti a ripetere come pappagalli le sue parole d’ordine. (pag.41) Miglio nutriva seri dubbi anche sulle reali aspirazioni federaliste dei vertici leghisti (...Il “federalismo” era per il segretario e per i suoi accoliti uno strumento per la conquista del potere, una specie di “piede di porco” con il quale scardinare le difese degli avversari - pag.48), ma questa è un’altra storia. Concentriamoci piuttosto sulla questione morale. Forte era la delusione dell’inventore di Bossi, o se non altro della persona che più ha contribuito a dare pensiero e spessore ad un partito animato solo dal sentimento della protesta. Miglio stese “sette comandamenti” per la Lega lombarda, con la relativa interpretazione. Il punto 5 ordinava: “Là dove, e quando, i leghisti prenderanno responsabilità di amministrazione e di gestione, esercitare su di loro un controllo morale. Espellere senza pietà i disonesti, gli incapaci e coloro i quali rompono la solidarietà del gruppo. A questo fine, far firmare a ogni leghista, che assume un pubblico incarico, una lettera in bianco di dimissioni. Dare la massima pubblicità a queste operazioni di controllo”. Commento: “Questa regola diventò sempre più importante man mano che i rappresentanti del movimento entrarono nelle pubbliche amministrazioni. L’espediente della lettera di dimissioni in bianco era da parte mia un’ingenuità. Piuttosto avrei dovuto raccomandare il rigore morale nella gestione (soprattutto finanziaria) delle strutture della Lega sul territorio. Con il passare del tempo, mi accorsi infatti che il controllo economico delle organizzazioni periferiche era potenzialmente un punto molto debole”. (pp.19, 20) Era già tutto scritto, dunque c’è poco da stupirsi, sia da una parte che dall’altra della barricata. Inutile dipingere Bossi come il “Caro Leader” di nordcoreana memoria vittima di un complotto, o consideralo solo ora come il “male assoluto”. I campanelli d’allarme suonavano già da un pezzo ma nessuno ha voluto ascoltarli. Speriamo almeno che sia altrettanto profetico il futuro immaginato dal vituperato professor Miglio: “La politica non la si fa certo con le belle maniere e con i ‘minuetti’; ma quando saremo emersi da questa vicenda, ci renderemo conto che il bullo di Cassano Magnano ha rappresentato il momento più clamoroso - ma anche il più triviale - della crisi. Un’esperienza che un Paese serio non dovrebbe ripetere più”. (pag.71)

Appare strano che si diventi leghisti per differenziarsi dai meridionali, pur avendo se non di più, almeno gli stessi difetti. A parlare di mafia nel Nord Est italiano si fa peccato, però…..ne parla Lorenzo Frigerio ed “Il Fatto Quotidiano”. La presenza della criminalità mafiosa in Veneto fu ufficialmente ammessa soltanto nel corso dell'ultimo decennio. Fino ad allora si sostenne che la regione fosse tutt'al più affetta da fisiologici problemi di criminalità locale. Agli inizi degli anni Ottanta, la vertiginosa ascesa della "mala del Brenta" e la contemporanea scoperta dei traffici di armi e droga e delle operazioni di riciclaggio delle cosche furono le drammatiche realtà in cui si imbatterono improvvisamente le forze dell'ordine e l'opinione pubblica.

Grandi evasori, ecco la lista. Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici. Paolo Biondani e Leo Sisti il 24 aprile 2019 su L'Espresso. Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti ai caselli autostradali, in grandi alberghi, ristoranti o studi professionali. Un traffico di contanti che parte dal Veneto e arriva in Svizzera, nelle banche di fiducia di due altolocati tesorieri di denaro nero, con parentele in famiglie reali. Professionisti del pianeta offshore, al servizio di alcuni dei più rinomati commercialisti veneti. Tutti accusati di aver gestito per più di vent’anni una centrale internazionale dell’evasione fiscale. E del riciclaggio di tangenti intascate da politici poi condannati. Ma collegati da legami societari e familiari con parlamentari ancora al vertice delle istituzioni. Eccoli qua, i Padova Papers. Sono le carte riservate della maxi-indagine fiscale della Procura di Venezia, che pochi giorni fa ha portato al primo sequestro di oltre 12 milioni di euro. Soldi bloccati setacciando un fiume di denaro molto più ampio, «oltre 250 milioni», scrivono i magistrati, dove si mescolano le mazzette dei politici e i fondi neri degli evasori. Tutto parte dalle indagini sul Mose di Venezia, il più grande scandalo di corruzione in Italia dopo Tangentopoli. Tra il 2013 e il 2014, mentre scattano decine di arresti e condanne, la Guardia di Finanza scopre che imprenditori e politici usano gli stessi canali per nascondere soldi all’estero. In società offshore e conti bancari spesso intestati, sulla carta, a tre commercialisti di un affermato studio di Padova. Si chiamano Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. E lavorano per molti ricchi imprenditori veneti, proprietari di grandi alberghi, fabbriche di scarpe, industrie di valigie, aziende di costruzioni, immobiliari, centrali del gioco d’azzardo e altre ditte che non c’entrano con il Mose. Nel maggio 2015 le autorità svizzere accolgono la richiesta del procuratore aggiunto Stefano Ancillotto di perquisire gli uffici dei due presunti tesorieri del denaro nero: un nobile italo-elvetico, Filippo San Germano di San Martino d’Agliè, nipote della regina del Belgio, e il suo braccio destro, Bruno De Boccard. Nel computer di quest’ultimo salta fuori una lista di clienti, aggiornata dal 2002 fino al 2014, finora inedita. I giudici veneti la ribattezzano «lista De Boccard». In quel computer il professionista svizzero ha trascritto i dati di centinaia di società offshore, con gli azionisti, gli amministratori e l’attività, che si riduce alla gestione di conti esteri o di partecipazioni (riservate) in aziende italiane. In qualche caso compare il vero titolare, in molti altri c’è solo il fiduciario: un altro professionista, in rappresentanza di un cliente che vuole restare anonimo. La Guardia di Finanza concentra le indagini su 48 offshore, controllate da 46 cittadini italiani e da 9 società di capitali, che sembrano ancora attive. I dati però riguardano molti altri evasori. Solo nel 2014 risultano annotate 161 offshore. Nel 2011 se ne contavano 190, nel 2007 erano 232. Già nel 2002, il primo anno inserito nella lista, le offshore erano 228. Questo significa che c’è un esercito di grandi evasori non ancora smascherati. Visto che la lista è aggiornata a cinque anni fa, molti casi di evasione sono ormai cancellati dalla prescrizione. Mentre gli imprenditori più importanti, interrogati in caserma, spiegano in coro di aver approfittato dello studio fiscale: il super-condono varato nel 2009-2010 dal governo di Berlusconi e Tremonti (sostenuto dalla Lega). Un esempio è la deposizione del “re delle valigie” Giovanni Roncato: «Sono lo storico titolare della Valigeria Roncato spa, attualmente mi occupo di coltivazioni di riso in Romania. Conosco Filippo San Martino da 15 anni, in quanto è anch’egli produttore di riso. Siamo diventati amici (...). L’ho contattato alcuni anni fa, in quanto avevo dei capitali all’estero, da rimpatriare con lo scudo. Avevo iniziato a tenere soldi all’estero parecchi anni prima, a seguito di gravi minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa che immaginavo essere la Mala del Brenta: si trattava di minacce di morte per i miei figli fatte nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona. Queste minacce mi indussero all’epoca a consegnare cospicue somme di denaro a malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova ovest. Si tratta di fatti che non ho mai denunciato in quanto temevo per la morte dei miei figli allora piccoli». Chiudendo il verbale, Roncato sottolinea di aver regolarizzato tutto con lo scudo fiscale, da cui risulta che ha rimpatriato 13 milioni e mezzo. Nella lista De Boccard, il suo nome è collegato a una offshore chiamata Alba Asset Incorporation, attiva proprio fino al 2009. Per lui, quindi, nessuna contestazione. Il suo interrogatorio apre però uno squarcio sui rapporti tra imprenditori veneti e criminalità di stampo mafioso: perfino il re delle valigie pagava il pizzo per evitare rapimenti. Proprio come Silvio Berlusconi ad Arcore (tramite Marcello Dell’Utri e lo stalliere mafioso Vittorio Mangano). E come gli impreditori lombardi che negli anni dell’Anonima sequestri affidavano collette di soldi al generale Delfino per placare la ‘ndrangheta. Anche Renè Caovilla, titolare di un famoso marchio di calzature, conferma a verbale di avere avuto soldi in Svizzera e di aver «aderito allo scudo fiscale del 2009». L’industriale, che controllava la offshore Serena Investors, aggiunge che «le somme non regolarizzate venivano affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera», tra cui ricorda proprio Filippo San Germano, che gli fu presentato da «un commercialista di Venezia, G.B., poi defunto». Caovilla ha rimpatriato con lo scudo 2 milioni e 287 mila euro. Tra albergatori di Abano Terme, costruttori e imprenditori del gioco d’azzardo, l’oscar dell’evasione va a Damiano Pipinato, un altro big delle calzature, che è anche il più eloquente nella confessione: «Verso il 1997 o 1998 chiesi al mio commercialista, Guido Penso, come poter gestire i proventi dell’evasione, in quanto i controlli erano sempre più stringenti. Il commercialista mi propose di consegnarglieli, affermando che avrebbe messo lui a disposizione gli strumenti per aprire un conto svizzero, senza necessità che io apparissi. Quindi iniziai a consegnare somme consistenti a Penso. La cosa funzionava così: lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo, essendo preconcordato, che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori. Spesso lui aveva bisogno di liquidità per compensare partite di giro con altri clienti dello sudio. Infatti più volte ho visto che i miei accrediti, anche di un milione, venivano spezzettati e mi arrivavano da conti diversi. Fatto sta che io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova. Qui Penso non apriva la scatola, non contava il denaro, in ragione della decennale fiducia: io gli indicavo la cifra esatta, lui la riponeva nell’armadio e mi rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato». L’imprenditore è il primo a chiamare in causa anche i partner di Penso: «Alla metà degli anni Duemila, Guido, suo figlio Christian e il loro socio Paolo Venuti mi proposero di investire nell’immobiliare a Dubai, con altri imprenditori, spiegandomi che stavano organizzando una gestione di fondi all’estero per i clienti dello studio. Iniziai con un piccolo investimento che in un paio di mesi si rivalutò del 40 per cento. Quindi decisi di investire di più, attingendo alle precedenti disponibilità della mia famiglia nella banca svizzera Zarattini. Allora Guido Penso mi spiegò che a gestire il denaro in Svizzera era Filippo San Germano, che era la persona di sua fiducia che copriva anche me. Infatti tutte le mie società e conti esteri erano amministrati da San Germano». In totale, Damiano Pipinato ammette di aver portato all’estero, tramite il commercialista padovano e il suo nobile fiduciario, almeno 33 milioni: 25 in Svizzera, 8 a Dubai. Dove però, dopo la crisi immobiliare, «nel 2013 ho visto che l’investimento continuava a perdere valore». Scoppiato lo scandalo del Mose, l’imprenditore cerca di sanare tutto con la voluntary disclosure, che però non è uno scudo anonimo, ma una vera autodenuncia: l’interessato deve farsi identificare e rivelare come ha fatto a creare il nero. Quindi l’Agenzia delle entrate gli boccia l’istanza. E lui alla fine vuota il sacco. I due fiduciari svizzeri sono accusati di aver occultato e riciclato fondi neri per molti altri imprenditori veneti. Il tesoro già scoperto dall’accusa sale così di altri 29 milioni, mandati all’estero (attraverso apposite offshore) da imprenditori come Flavio Campagnaro (5 milioni, divisi in 50 consegne), Luca e Roberto Frasson (1,5 milioni), Sergio Marangon (1,2 milioni), Primo Faccia (250 mila dollari), Ignazio Baldan (250 mila euro), Mauro Mastrella (800 mila), Odino Polo (un milione), Maria Rosa e Stefano Bernardi (3 milioni) e Giovanni Gottardo (mezzo milione). In caserma, pur con qualche imbarazzo, tutti finiscono per ammettere i fatti, sottolineando però di essersi messi in regola grazie allo scudo. Alcuni rimarcano di aver soltanto ereditato conti esteri creati dal padre fin dagli anni Sessanta, «quando fare il nero era la regola». Altri, come Pipinato, si vedono contestare società offshore ancora attive, ma rispondono di averle dimenticate «perché furono usate per investimenti in Nicaragua, ma sono andati male e quei soldi li abbiamo perduti». In almeno vent’anni di traffici di denaro nero, ai tre commercialisti padovani dello studio Pvp (dalle loro iniziali) non sono mai mancate le coperture politiche. Paolo Venuti è stato già arrestato e condannato (a due anni) per le tangenti del Mose, come tesoriere-prestanome di Giancarlo Galan, governatore veneto dal 1995 al 2010 e poi ministro del governo Berlusconi. Quel troncone d’indagine ha svelato un nuovo sistema di corruzione: società private svendute a politici, che incassano le tangenti sotto forma di profitti aziendali. In particolare la Mantovani spa, azienda leader del Mose, ha intestato proprio a Venuti, come paravento di Galan, il 5 per cento di Adria Infrastrutture, la società del gruppo che vinceva appalti stradali con la Regione Veneto. E con lo stesso sistema la Mantovani ha arricchito anche il super-assessore Renato Chisso, altro condannato per il Mose. La nuova ordinanza ora accusa il commercialista di aver nascosto anche contanti incassati da Galan: almeno un milione e mezzo di euro. Soldi finiti in Croazia su un conto intestato alla moglie di Venuti, sempre come prestanome dell’ex doge, come conferma un’intercettazione della coppia in auto, al ritorno da una cena nella villa di Galan (ristrutturata con altre tangenti e quindi sequestrata). La pista dei soldi è emersa grazie ai Panama Papers, le carte segrete delle offshore. Dove L’Espresso nel 2016 ha scoperto un’anonima società panamense, Devon Consultant Assets, intestata a Venuti e mai dichiarata. Questi, i fattacci del passato, dalla corruzione per il Mose al riciclaggio. Dallo studio Pvp parte però un filo segreto di rapporti professionali e familiari che arriva al presente e porta fino alla seconda carica dello Stato. Lo studio Pvp ha legami molto stretti con una società di Padova, Delta Erre, che è una specie di club dei più affermati fiscalisti veneti. Tra gli azionisti compare Paolo Venuti, che si è visto sequestare la sua quota in questi giorni. La stessa società ha accolto tra i suoi azionisti anche Giambattista Casellati, un grande avvocato di Padova. Che è il marito di Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’attuale presidente del Senato. Che ai tempi dello scudo fiscale era sottosegretario alla Giustizia, oltre che parlamentare di Forza Italia. Marito e moglie sono anche soci d’affari in una piccola azienda italiana chiamata Esa, creata nel 1983, che nell’ultimo bilancio (2017) dichiara 55 mila euro di ricavi. La Delta Erre, costituita nel lontano 1971, è un club esclusivo, con partner selezionati. Fino al 2017 era una fiduciaria, poi si è concentrata sulle consulenze fiscali. Da anni è un punto di riferimento per le aziende di area ciellina. E da sempre ha forti legami con alcuni protagonisti dello scandalo Mose. Tra i soci fondatori spicca infatti Guido Penso, che è stato presidente del consiglio d’amministrazione fino al 1996. Già allora il commercialista manovrava fondi neri degli evasori, come spiega l’ordinanza che oggi accusa lui e suo figlio di aver orchestrato, con il collega Venuti, anche il riciclaggio del tesoro di Galan. I Panama Papers confermano che proprio Penso, attraverso un suo studio di Londra, gestiva già nel 2000 alcune offshore, come la Sorenson Holding delle Bahamas, ora accusate di nascondere i milioni degli evasori. La Delta Erre non è coinvolta direttamente in questi scandali. Però compare più volte negli atti delle indagini. Ad esempio l’imprenditore Damiano Pipinato, oltre ai 33 milioni dell’evasione, ha parlato anche di una serie di offshore utilizzate per mascherare le sue proprietà a Padova e spostare all’estero i soldi degli affitti. Tra quegli immobili così schermati (con una società italiana controllata da anonime panamensi) c’è una palazzina in via Corciglia 14. Dove ha sede lo studio Cortellazzo e Soatto. Che paga da anni un affitto notevole: 240 mila euro più Iva, poi ribassato a 185 mila. Soldi che, attraverso le offshore, finivano nei conti svizzeri di Pipinato. Sia Soatto che Cortellazzo ricompaiono anche tra i soci della Delta Erre, al fianco di Venuti (il prestanome di Galan) e dell’avvocato Casellati (il marito della presidente del Senato). Allo studio Soatto e Cortellazzo è dedicato perfino un capitolo spinoso della sentenza sul Mose: sono loro ad aver firmato una perizia che, secondo i giudici, ha consentito alla Mantovani spa, l’azienda simbolo delle tangenti venete, di sopravvalutare le sue attività. Il loro studio è registrato con la sigla “Servizi professionali organizzati” e ha come socio di maggioranza il commercialista Lucio Antonello, che è anche l’attuale numero uno della Delta Erre. Come presidente del Senato, la signora Casellati è sicuramente dalla parte della legalità e della lotta all’evasione fiscale. Il problema è che i soci di suo marito giocano nella squadra avversaria.

DEMOCRISTIANI. L'editoriale di Roberto Napoletano il 4 marzo 2020 su quotidianodelsud.it. Nessuno fa niente per il suo Paese. Tutti stanno a guardare quello che fanno gli altri. Lo sport nazionale è giudicare o porre veti. Il motore dei comportamenti dei singoli sono il proprio interesse e l’invidia sociale. Una moltitudine ripetitiva di comportamenti individuali di questo tipo produce una collettività che riconosce le “capitali” dei loro egoismi e smarrisce l’identità comune di una nazione. Ne viene fuori una comunità in stato confusionale capace di fabbricare con le sue parole inutili una recessione in casa. Moro e Fanfani facevano lezione all’università e poi nel resto della giornata facevano politica. Molti della classe dirigente di governo di oggi – centrale e, soprattutto, regionale/locale – non potrebbero nemmeno seguire i corsi dei grandi professori democristiani. Ho pensato a Moro e Fanfani leggendo le dichiarazioni di Bruno Tabacci, politico di lungo corso e ex presidente della Regione Lombardia, al nostro Claudio Marincola: “Eravamo democristiani. E finché ci siamo stati noi la sanità pubblica non è mai stata messa in discussione. Poi è successo qualcosa, non mi chieda però cosa. So solo che ci fu un grande cambiamento, famiglie importanti già attive in altri settori iniziarono a investire nella sanità cifre notevoli e poco dopo arrivarono i tagli. Meno medici, meno infermieri, meno ospedali, meno posti-letto”. In queste parole c’è la chiave di quello che è avvenuto a Milano e, a catena, nell’intero Paese. Dietro la perdita di valore della sanità pubblica e di ciò che rappresenta in termini di sicurezza, di igiene e di prevenzione, c’è quello che l’attuale sindaco di Milano, Beppe Sala, ha definito “l’ecosistema sanitario” lombardo. Qualcosa che coniuga tagli lineari alla sanità pubblica e business dei privati. Si passa dalla chimica petrolifera alle cliniche, ma soprattutto si prenotano quote ingenti di risorse pubbliche con il moltiplicatore della Spesa Storica che favorisce il ricco a discapito del povero. Nessuno vuole discutere le eccellenze private, ma è sotto gli occhi di tutti come prevenzione e organizzazione dell’accoglienza pubblica abbiano sofferto con l’emergenza coronavirus. La sanità privata lombarda ha fatto incetta di finanziamenti sottratti alle Regioni del Sud – la sanità ospedaliera meridionale è finita sotto processo per clientele a volte vere ma di più per una moda funzionale agli interessi privati nordisti – e se ne guarda bene oggi da restituire qualcosa. Il virus che i focolai di Lodi e della bergamasca portano in superficie è la perdita del primato della cultura del servizio sanitario nazionale e della sanità pubblica. Quegli stessi micro-interessi degli azionisti-clienti di Banca Ubi che si oppongono per ragioni di bottega al disegno da sistema Paese di Intesa Sanpaolo si possono riscontrare nella cultura della fatturazione pubblica e dei super-rimborsi che appartiene alle famiglie private dell’ecosistema sanitario lombardo. Se la politica non dà una spallata a questi micro-interessi, l’Italia non potrà mai rialzare la testa.

La grande balla, il nuovo libro di Roberto Napoletano: «Il Nord vive sulle spalle del Sud». Redazione de ilgolfo24.it il 6 Marzo 2020. Si intitola “La grande balla” ed è il nuovo libro di Roberto Napoletano, frequentatore di Ischia, “Giornalista dell’Anno” nel 1990 al Premio Internazionale di Giornalismo, già direttore de Il Sole 24 ore. Con dati e statistiche ufficiali alla mano, l’autore racconta lo scippo di 61 miliardi che ogni anno il Nord effettua ai danni del Sud. E capovolge lo stereotipo del meridione d’Italia assistito che, al contrario, è stato abbandonato. Un’inchiesta esplosiva sulle vere cause, e le vere responsabilità, di un’Italia divisa in due, che si fa la guerra invece di unire le forze. La questione meridionale come non l’avete mai vista. È quanto assicura Roberto Napoletano, che torna in libreria con un saggio rigoroso e inedito sul divario tra Nord e Sud. Il titolo “La grande balla”, edito dalla Nave di Teseo. Secondo la ricostruzione dell’autore, «la regione Veneto fa pagare allo stato italiano non ai contribuenti veneti, per la sua sanità, lo stipendio a sedicimila dipendenti in più, non medici, di quanti ne fa pagare la sempre vituperata regione Campania che ha un milione di abitanti in più». «Sapete che l’Emilia Romagna e la Puglia, a quasi parità di popolazione, ricevono la prima tre miliardi in più e la seconda tre miliardi in meno per la sanità? Che a fare il deficit sanitario – si legge in un estratto del libro –  sono tre regioni a statuto ordinario del Nord non del Sud, per la precisione Piemonte, Liguria, Toscana, parola della corte dei conti?». «Vi siete mai chiesti chi ha il primato dei dipendenti pubblici in Italia? Penserete in automatico ai mille carrozzoni comunali e regionali dei mille Sud italiani, vero? No, sbagliato! – scrive Napoletano – Il Nordest, che comprende Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli, vince alla grande: ha cinque dipendenti pubblici ogni cento abitanti contro i 4,4 del solito diffamato Mezzogiorno e, addirittura, alla pari con Roma, senza avere neppure uno dei ministeri, delle authority, delle ambasciate che ‘popolano’ la Capitale di una nazione. Se dubitate dei numeri o il confronto non vi aggrada prendetevela con l’ISTAT che è la firma statistica dell’Italia nel mondo». Domande articolate, per certi versi con risposte sorprendenti e del tutto inedite, quelle che vengono fuori nel volume, appena edito da La nave di Teseo: quanti cittadini sanno che 61 miliardi dovuti al Sud vengono ogni anno regalati al Nord? Per Napoletano «si tratta del più grande furto di stato mai conosciuto nella storia recente della Repubblica italiana. I numeri di questa operazione verità fanno tremare vene e polsi, e permettono legittimamente di chiedersi se l’Italia esista ancora». Nord assistito, Sud dimenticato “La grande balla” di Roberto Napoletano intende portare il lettore a intraprendere un lungo viaggio nelle piccole grandi patrie dell’assistenzialismo, che – secondo l’autore – non sono al Sud, ma tutte al Nord. «La politica si è abituata da vent’anni a togliere investimenti al Sud per soddisfare le pretese dei questuanti di turno, sistemare gli amici degli amici nel coacervo di enti pubblici proliferati con la spesa facile. Tutti collocati nelle ricche regioni del Nord». Non dimentichiamo che il giornalista, per anni è stato direttore del Sole 24 Ore e, quindi, ha avuto modo di conoscere il sistema economico italiano dall’ interno.

Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio. Silvia Siniscalchi il 21 Agosto 2017 su iconfronti.it. In considerazione della disastrosa situazione della sanità campana, si ripropone qui uno studio sui fondamenti filosofico-giuridici e socio-sanitari del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, che suscitarono un profondo interesse già presso i contemporanei (come il Luppoli, il D’Onofri, il Galdi e il Cuoco, tanto per accennare a dei nomi di intellettuali di valore). Senza volere accogliere le ragioni del revanscismo borbonico e senza entrare nella questione dell’autentica paternità del Codice, ci si limita a constatare l’assoluta modernità di una legislazione sanitaria che rappresenta uno degli esempi in tema più avanzati del XIX secolo e attuato nel Meridione d’Italia.

Sul colle detto di S. Leucio, adiacente alla famosa reggia vanvitelliana, nel sito di una diruta chiesetta longobarda dedicata a quel santo, Ferdinando IV di Borbone, dopo aver murato l’intero bosco circostante, aveva fatto costruire un piccolo casino di caccia (1773-74), che poco dopo abbandonò perché vi era morto il suo primogenito Carlo Tito, trasferendo la propria residenza nell’attigua località detta Belvedere (da allora chiamata estensivamente, ma a torto, S. Leucio), di bella vista, ottima aria e fertilità del terreno per ogni tipo di produzione, vite in particolare. «Vi fece perciò subito costruire – soccorre qui uno stralcio della sintetica “voce” di un quasi coevo Dizionario – delle nuove fabbriche, ed un’antico salone lo convertì in chiesa nel 1775, che eresse benanche in parrocchia per la popolazione, che vi fece radunare al numero di circa 350 individui addetti non solo alla custodia del bosco, che alla coltivazione de’ terreni, che sono in quei contorni. Nel 1776 ampliò maggiormente le fabbriche, e vi stabilì una casa di educazione, e quindi da tempo in tempo vieppiù rese il luogo abitabile e popolato con istabilirvi una colonia di artefici a formare ottime manifatture di seta, cioè stoffe, fettucce, veli, calze, da non farci affatto invidiare le decantate manifatture forestiere. Il numero di questi artefici è oggi [fine ‘700] giunto a circa 800. Nel 1789 il suddivisato nostro Clementissimo Sovrano con molta saviezza scrisse le leggi per questa sua nuova Colonia, da far veramente in tutti i tempi avvenire gloria all’Augusto Suo Nome»

L’ultimo riferimento è ovviamente al famoso Statuto della real Colonia, che sarà analizzato nei paragrafi seguenti, specie per la normativa socio-sanitaria, ma del quale occorre subito anticipare, in estrema sintesi, una finalità altamente etica, quella di prevedere una “città degli uguali”, dove appunto vigesse «l’assoluta uguaglianza tra donne e uomini, il diritto all’istruzione, alla successione e alla proprietà, alla casa e all’equo salario, alla tutela in caso di bisogno, all’assistenza sanitaria, alla prevenzione del vaiolo, alla formazione e al lavoro».

Se questi sono, assai scarnificati, i fatti incontestabili della nascita e vita primiera della colonia e del suo contenuto statutario, assai più discutibili e discussi sono i valori e i significati ad essi attribuiti, a partire dalla paternità dell’idea e fino al processo normativo, progettuale ed effettuale. Poiché il merito maggiore si riconosce alla stesura dello statuto, gli studiosi si sono accapigliati sul nome del vero artefice, dando per scontato che – data l’ignoranza, l’indolenza intellettuale, la rozzezza di comportamenti del re “nasone” o “lazzarone” (come spregiativamente veniva e verrà chiamato) – non poteva esser stato lui l’estensore: dopo aver di massima condiviso che l’autore del codice fosse il massone Antonio Planelli, con varie sfumature al sovrano si è accreditato al massimo un contributo maldestro ed episodico, riscontrabile nella scarsa organicità della normativa, come riconoscimento di un’indole sostanzialmente buona e benevola verso il popolo, con cui “si trovava bene” e nel quale spesso si identificava nelle sue note stranezze quotidiane (vari travestimenti, scherzi, ecc.). In questa farragine di titubanti ipotesi è intervenuta di recente la ricerca, seria e documentata, di una giovane studiosa, a risolvere forse definitivamente il dilemma. Mi riferisco ai lavori, impostati anche in utile chiave collegiale e didattica, di Nadia Verdile, in particolare a quello portato avanti col progetto “Carolinopoli: l’utopia di una regina”, svolto nell’anno scol. 2003-2004 presso l’ist. Statale d’Arte “San Leucio”, e concretizzato in un volume intitolato Carolina (2004). Senza disattribuire l’autoralità materiale al Planelli, la Verdile sostiene che quella spirituale e filosofica vada riconosciuta alla regina Carolina, cui andrebbe altresì il merito di tutte le riforme realizzate nel Regno di Napoli prima della rivoluzione francese. Oltre che sulla bibliografia più accreditata (Coniglio,1981; Tescione,1932, in testa a decine di altri autori), la ricercatrice si basa sull’analisi e la parziale stampa delle lettere, custodite all’archivio di Stato di Napoli e mai prima edite, che da S. Leucio il re inviò alla regina tra il 1788 e il 1799, nonché di quelle di Carolina al marito (Verdile, 2008), la cui lettura «ha consentito una lucida definizione delle personalità dei due sovrani e degli interessi degli stessi» (Verdile, 2004, p.11). Quanto alla sovrana, emerge il ritratto di una donna che, lungi dall’essere solo crudele e sanguinaria (come vuole il cliché appostole dopo la repressione della rivoluzione del 1799), attiva i “malfamati” intrighi di corte solo nel desiderio alto e nobile di sconfiggere il partito filospagnolo (incarnato prima dal “tardo” Tanucci e poi dal Sambuca) a favore di quello filoasburgico, capitanato dall’ammiraglio Francesco Acton e di poi da Domenico Caracciolo, con il seguito di tutti gli intellettuali, i nobili e i borghesi progressisti, facenti spesso capo alle logge massoniche, cui stava a cuore il risollevamento delle sorti del Regno. Di più: Carolina, degna figlia della più progressista tra le personalità dei principi illuminati (l’imperatrice Maria Teresa d’Austria), appare come una sovrana coltissima, che legge e scrive quattro lingue (francese, tedesco, italiano e spagnolo) oltre a saper tradurre il latino, che, fin dal suo arrivo a Napoli, cura l’incremento della sua biblioteca (formata da 6443 volumi, oltre a molti periodici) e se la fa trasportare al seguito nelle parentesi di fuga in Sicilia, che è istruita in letteratura, storia, botanica, musica, canto e – fatto assai indiziario – filosofia, etica, diritto, pedagogia, economia e botanica. Dall’altro lato, troviamo un sovrano meno zotico e tartufesco di come si è voluto far credere, ma “giustamente” insofferente della etichetta e degli squallidi personaggi di corte, come della partecipazione al Consiglio di Stato (in cui ben presto sedé autorevolmente Carolina), in nome di una vita sana, all’aperto, dedita alla caccia, alla pesca, al nuoto e a varie attività ginniche, nel contatto “diretto” dei suoi sudditi (spesso al femminile, come si malignava…): un re che ben volentieri cedette “lo scettro” alla sua metà, con la quale in certo senso caratteriologicamente si compensava, comunque fungendo da elemento equilibratore tra i poteri. Sulla base di tali valutazioni, la conclusione della Verdile appare abbastanza plausibile, anche alla luce della stima che a Carolina manifestarono personaggi del calibro di Pietro Colletta, Vincenzo Cuoco e altri.

Accantonato, con sufficiente persuasività, il problema dell’attribuzione autorale, non meno interessante sarà soffermarsi, sia pur in breve, sulle fonti ispiratrici (teoriche e pratiche) della legislazione e delle esperienze effettive realizzate dalla colonia reale, compreso il progetto “utopico” di «Ferdinandopoli». Sapere che l’ideazione fu di Carolina non semplifica la soluzione e, a parer di chi scrive, la stessa regina avrebbe trovato difficoltà a rintracciare precisamente i suoi “modelli” ispiratori, in una temperie storica illuminata da tanta letteratura utopistico-socialistico-riformistica e da innumerevoli esperimenti pratici, realizzati in varie parti del mondo, di comunità autogestite. Di antecedenti, infatti, ce ne sarebbero molti e anche molto remoti nel tempo. Scrive a riguardo il Tescione: «Se si dovesse risalire ai primi germi delle idee, delle dottrine e dei progetti di costituzioni politiche a cui potrebbe ricollegarsi la costituzione di S, Leucio, occorrerebbe fare un ardito volo oltre gli orizzonti del mondo moderno e medioevale e di là dalle vie battute da Cicerone e da Aristotele, per raggiungere le pure scaturigini del pensiero platonico. Non sarebbe fuor di luogo allora ricordare il piano di quella Platonopoli di cui fin dal terzo secolo dopo Cristo il filosofo Plotino proponeva l’attuazione ad un tiranno della decadenza romana, il Galieno, chiedendo per lo scopo appunto un distretto della Campania, o la concezione di quella fantastica repubblica aristocratica e monastica ch’è la Città del Sole, con cui il Campanella, nel XVI secolo, perfezionando il sistema comunista di Tommaso Moro, precorreva, in un certo modo, le utopie del secolo XVIII» (Tescione, 1932, p.’’’..; in proposito cfr. Dematteis, 1963). Quanto ai precorrimenti teorici più prossimi, il Battaglini crede di dover citare: Francesco Saverio Salfi nel suo Elogio del Filangieri; il Dumas, che trova affinità col socialismo e richiama Fourier e il suo falansterio; lo Stefani che parla di colonia socialistica borbonica e chiama in causa il pensiero e i tentativi storici di Robert Owen; Francesco Longano, un riformatore napoletano che distingueva tra il politico che dà lavoro ai bisognosi, e l’uomo superstizioso che gli fa l’elemosina; il Mercier per un suo romanzo fantapolitico e la creazione di una città fantastica; il Gori che parla di impronta comunista; infine il Croce e seguaci, fermi sull’errata interpretazione del “capriccio” del sovrano.

Circa la posizione ideale e fattuale dell’Owen in confronto a quella borbonica, intanto, registriamo uno studio specifico condotto dalla più recente studiosa leuciana, che, al di là delle forti differenze, trova anche delle collimanze, in questi termini: «Eppure i telai uniscono le due utopie anche se da San Leucio la seta va verso le grandi residenze del potere mentre da New Lanark le tele di cotone vengono distribuite ai mercati della nazione. E da ultimo, ma prima riflessione da fare, l’utopia leuciana e quella newlarkiana sono nate dalla forza ideologica e culturale di due personalità profondamente diverse: da una parte il pensiero illuminato di Maria Carolina d’Asburgo, colta, amica e sostenitrice della massoneria progressista, sovrana, e dall’altra il pensiero illuminato di Robert Owen, operaio, poi imprenditore, economista. E dunque è nell’etica dell’Illuminismo che si fonda l’incontro di due grandi progetti utopici che hanno avuto il merito di dimostrare che una società degli uguali può e deve essere perseguita» (Verdile, 2006, p. 28). Molto più ricco, profondo e articolato è il contributo che il Tescione, il maggiore studioso in materia, aveva offerto in proposito nel suo monumentale volume del 1932, poi riedito nel 1961 senza sostanziali aggiunte e in forma più agile (senza note a piè di pagina). Dei più importanti autori richiamati, infatti, egli ricostruiva articolatamente la storia individuale e il pensiero. In questa sede si possono solo ricordare i nomi degli esponenti, attivi nel Napoletano già prima dell’ascesa al trono di Carlo III di «quel progredito movimento intellettuale mercé il quale lo spirito dell’Europa civile e laica era penetrato nel regno di Napoli, destandovi scintille di fecondi dibattiti, forza e luce alla lotta per svincolare lo stato e l’organismo sociale dalle pastoie feudali».

In definitiva, sulla scorta del Tescione (1932, passim) si può affermare, per un verso, che l’ispirazione più profonda e più prossima delle leggi di S. Leucio proviene dalla Scienza della legislazione del Filangieri, che in precedenza aveva dettato i principi anche alla politica del Tanucci contro la mendicità e per l’educazione del popolo alle arti e ai mestieri (specie con l’editto del 1769), per l’altro – accogliendo la Verdile e in riferimento alle ricezione etico-politica da parte di Carolina – dalle «riforme messe in pratica […] nell’impero austriaco da sua madre prima e da suo fratello, l’imperatore Giuseppe II in seguito, e nel Granducato di Toscana dal fratello Pietro Leopoldo» (Verdile, 2004, p. 25). Meglio chiarisce la questione il Kruft, sostenendo che lo statuto in parole «è una sintesi delle concezioni giusnaturaliste-istituzionali e delle teorie economiche formulate a Napoli da Vico a Filangieri. In questa idea dello Stato è insita una impostazione paternalistico-monarchica. Il re si pone al vertice di una rivoluzione sociale fondata sul diritto naturale: è una “rivoluzione dall’alto”. Segno tangibile del vincolo tra il re e la colonia è il collegamento tra il palazzo e la fabbrica. L’esperimento filantropico del 1789 diventa involontariamente un’alternativa in piccolo alla Rivoluzione francese».

Si può infine condividere con il maggior studioso della materia l’idea che, all’atto pratico, l’istituzione leuciana dava a Carolina «la possibilità di conciliare, su di un terreno particolarmente favorevole, le sue tendenze romantiche con i capricci del re» (Tescione, 1932, p. 136): che vale a riconoscere come l’intrapresa complessiva della colonia fosse l’unica maniera per la regina di far impegnare un sovrano tendenzialmente refrattario alle cose di governo verso un obiettivo serio e fruttuoso per la corona e il popolo, in un sito prediletto perché dava sfogo alle sue passioni e, sul versante aziendale, gli consentiva inoltre di applicare la sua particolare competenza in fatto di macchinari e anche di agrimensura.

Ciò ci induce a non sottovalutare il contributo ferdinandeo alla formulazione pratica (al di là della difettosa conoscenza della lingua italiana), specie nel settore dell’organizzazione della giornata lavorativa, della massimizzazione nell’uso ottimale delle macchine e dei risultati produttivi (e simili), degli articoli del Codice e soprattutto del più analitico Regolamento di gestione interna della fabbrica, stilato da Domenico Cosmi. Lo stesso valga rispetto al progetto solo parzialmente realizzato di «Ferdinandopoli», che – come tra breve diremo – essendo un riflesso degli statuti leuciani (Schiavo, 1986), conserva sì la sua matrice nella spinta ideale della regina, ma dovette avere nel “praticone” Ferdinando una sicura e consapevole guida per l’architetto progettista Collecini. In realtà, da tempo è maturata in alcuni studiosi la convinzione che il discorso locale di S. Leucio si inquadrasse in una più ampia strategia politico-territoriale, che – alla luce dell’intuizione della Verdile – non poteva che maturare nella fervida mente di Carolina, in accordo col generico “populismo” ferdinandeo. Innanzitutto, l’esperimento leuciano era la prova che si potesse fare a meno della componente più retriva della feudalità e si dovesse invece puntare su un rapporto diretto tra dinastia e popolo, in funzione accentratrice e antibaronale. Inoltre, si trattava di un tentativo non isolato di diversificazione funzionale dei “siti reali” (da riserva di caccia a villaggio operaio, azienda agricola o caserma) per organizzare e valorizzare il territorio tra intorno di Napoli e Caserta (Alisio, 1976; Caputo, 1977; Battaglini, 1983, p. 25). In tale programma rientrava infatti anche l’esigenza di trasformare Napoli da parassitaria metropoli di consumo a centro di produzione, decentrando però nei centri limitrofi le attività industriali, per decongestionare la capitale e alleggerirne la pressione demografica (Caputo, 1977; Battaglini, 1983,  p. 25). Del resto nella città partenopea era evidente da tempo la crisi della sericoltura, per cause complesse che vanno dal peso enorme delle tasse alla carenza di manodopera specializzata e di strumenti e macchine più moderne: questo spiega perché l’esperimento delle seterie fosse fatto proprio a S. Leucio, dove quella industria poteva diventare sicuramente competitiva, grazie alle caratteristiche geografico-naturali e geoantropiche del sito: come riconoscerà in una relazione del 1826 il De Welz, appaltatore della ormai ex-colonia, il clima e suolo amici del gelso (nota pianta di supporto alla coltivazione del baco) e di tante produzioni agroalimentari (da cui l’abbondanza di viveri a basso prezzo), la «bassezza della mano d’opera, i prezzi leggieri delle materie prime, […], il motor d’acqua instancabile e gratuito [azionato dallo stesso acquedotto della Reggia], operai destri, artefici intelligenti» (citato da Battaglini, 1983, p. 14) costituivano fattori positivi della conduzione aziendale. Al fondo dell’operazione non poteva non celarsi la battaglia contro la miseria, la mendicità, l’accattonaggio e la degradazione fisica e morale di tanta parte della popolazione urbana e rurale (che era la causa di temute turbative all’ordine pubblico), per cui tutto l’apparato economico-manifatturiero e urbanistico aveva una destinazione prevalentemente sociale: non a caso, per quanto riguarda gli oziosi, lo Statuto prevedeva che i “Seniori del popolo”, addetti al controllo della colonia, hanno il dovere di vigilare «rigidamente sul costume degli individui della Società, sull’assidua applicazione al lavoro, e sull’esatto adempimento del proprio dovere di ciascuno. E trovando, che in ess’alligni qualche scostumato, qualche ozioso, o sfaticato, dopo averlo due volte seriamente ammonito, ne posseranno a me l’avviso, acciò possa mandarsi o in casa di correzione, o espellersi dalla società, secondo le circostanze». Stessa sorte è riservata ai giovani che, giunti ai sedici anni di età, si rifiutino di lavorare o di apprendere il mestiere (Ferdinando IV, 1789, paragrafo XIV). Siamo dunque di fronte a una utopia laica e paternalistica, a parere dei Eugenio Battisti (cit. in Battaglini, 1983, p. 25), alla quale è lecito aggiungere anche l’aggettivo «religioso», sia pur nella particolare accezione dei regnanti borbonici che, pur avendo in precedenza osteggiato l’ideologia “indipendentista” espressa nelle colonie paraguayane dai Gesuiti (tanto da espellerli dal regno), dopo la parentesi rivoluzionaria si accostarono all’”altare” in quanto utile garante del “trono”.

Il sistema sanitario meridionale nel codice di San Leucio.  Silvia Siniscalchi l'8 Marzo 2018  su iconfronti.it. In Campania − regione dei maggiori ritardi e disguidi nella politica sanitaria, che tanto pesano su tutti i cittadini − vi fu un periodo, alla fine del XVIII secolo, di grandi conquiste civili e sociali proprio in questo settore. Ci riferiamo ad alcuni interessanti aspetti del Codice borbonico della colonia “utopica” di San Leucio, con particolare riguardo alla straordinario stadio di avanzamento proprio dei suoi aspetti sanitari. Analizzare gli aspetti assistenziali e socio-sanitari, quali emergono dallo Statuto della Real Colonia borbonica dei lavoratori della seta, costituisce un’impresa alquanto problematica; alla complessità intrinseca dell’indagine (dove entrano in gioco storia, diritto, medicina e urbanistica), si aggiunge infatti la scarsità di studi in materia disponibili (soprattutto per il Mezzogiorno), che si sono dovuti misurare  con la multiforme situazione assistenziale dell’Italia pre-unitaria. Ciò nonostante, gli studi dedicati al settore si sono notevolmente accresciuti negli ultimi vent’anni, ponendo l’attenzione sullo sviluppo delle modalità diagnostiche e curative della medicina nelle varie epoche, sulla sua contaminazione con pratiche magiche, religiose e credenze popolari, sulla sua attenzione per le malattie legate al lavoro e, particolarmente, sul processo che da scienza a carattere individuale l’ha trasformata in sistema di assistenza, cura e prevenzione collettiva controllato dallo stato. A tal proposito, eventi e riforme del XVIII secolo sono apparsi determinanti per l’ammodernamento della sanità e la sua trasformazione in sistema statale, sebbene, secondo alcuni studiosi, solo nel periodo successivo alla Rivoluzione francese i presupposti sociopolitici, istituzionali, ideologici ed epistemologici di tale epocale mutamento sarebbero giunti a maturazione (Keel, 2007). Perciò, in tale prospettiva, il Decennio napoleonico è stato ritenuto molto significativo, soprattutto per il Mezzogiorno dell’Italia: grazie ai processi di centralizzazione burocratica avviati dai napoleonidi, infatti, «l’avocazione degli arrendamenti[3] e l’abolizione di altre entrate richiesero profonde trasformazioni nelle strutture amministrative dell’assistenza e della beneficenza e resero necessario un più diretto impegno finanziario da parte dello stato» (Lepre, 1985, p. 10).

Se il 1789 rappresenta uno spartiacque della storia moderna europea anche dal punto di vista sanitario, appare sorprendente il tempismo con cui, proprio nel novembre di questo stesso anno, come già evidenziato, il Re di Napoli in persona avesse autorizzato la stampa del Codice di S. Leucio, il cui carattere etico-egualitario (ispirato a un programma di rinnovamento sociale di stampo illuministico redatto vent’anni prima dall’allora ministro Bernardo Tanucci) appariva molto aggiornato e moderno anche nella cura degli aspetti socio-assistenziali. Tale circostanza era del tutto coerente rispetto alle finalità complessive della colonia leuciana – ispirata al concetto, tipicamente settecentesco, di “pubblica felicità” (ossia di benessere psico-fisico della collettività, come ribadito da illuministi del calibro di L. A. Muratori)[4] e, quindi, di salute pubblica – ma rifletteva, al contempo, un obiettivo politico primario dei governi “illuminati”, che nella seconda metà del XVIII secolo vi avevano dato ampio spazio nei loro programmi, ponendo mano a una profonda riorganizzazione del sistema ospedaliero (Garbellotti, 2003, p. 124). Il Real Albergo de' Poveri di Napol (stampa di Gatti e Duca). Secondo le sue originarie finalità doveva essere un luogo di carità e assistenza per bisognosi e indigenti. L’interesse dei monarchi nei confronti della salute pubblica, d’altra parte, non era semplicemente un atteggiamento di tipo filantropico, ma espressione della necessità di controllare globalmente il corpo sociale su cui esercitavano la propria legislazione nonché «garanzia di efficienza, di produttività, di ricchezza», che li spingeva altresì a «interessarsi direttamente delle condizioni di vita di tutta la popolazione e delle condizioni di lavoro della popolazione attiva» (Cosmacini, 1988, p. 253). Alla luce delle precedenti considerazioni, è logico supporre che anche sotto questo aspetto il re Ferdinando dovesse essere stato non poco influenzato dalla cultura e dalle idee progressiste di sua moglie, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, nonché dal confronto con il cognato Pietro Leopoldo, esempio emblematico di riformismo illuminato nella gestione sanitaria della Toscana. La regolamentazione della sanità pubblica nella Real Colonia di S. Leucio, organicamente correlata ad altri tipi di forme assistenziali contemplate dall’intero corpus normativo, non si limitava tuttavia a emulare le tendenze ideologiche ad essa contemporanee: lo Statuto, infatti, si ispirava concretamente ai più avanzati criteri sanitari del XVIII secolo, che si sarebbero affermati in Europa e nel resto della penisola italiana solo nel corso della prima metà dell’800. Pertanto, diviene possibile rilevarne e apprezzarne il pregnante significato solo ponendoli in correlazione con i principi di regolamentazione sociale, istituzionale ed etica che caratterizzano il documento nel suo insieme, nonché analizzandoli alla luce del contesto utopistico-pianificatorio e, almeno in parte, della coeva situazione storica della medicina e della sanità in Italia. Lo studio del medico (tratto da Paul Lacroix, "L'école et la science jusqu'à la Renaissance", Paris, Firmin-Didot, 1887) Rispetto a quest’ultima, la concezione sanitaria del Codice è senza dubbio all’avanguardia, recependo i dettami di «nuova impostazione del problema salute, sia sul piano individuale che sul piano sociale», alla cui luce medici e non medici, «nel clima di razionalità e fervore creato a Milano come a Firenze dalle riforme teresiane-giuseppine-leopoldine, nutrono interessi di medicina razionale, di salubrità ambientale, di sanità, di scientificità, fortemente ravvivati dalla circolazione d’idee che muove dall’Inghilterra e dalla Francia» (Cosmacini, 1988, p. 251). È insomma evidente l’influenza dell’Austria sull’orientamento ideologico dell’autore dello Statuto, che, a prescindere dalla sua identità, dà prova di avere ben compreso l’importanza di alcuni risultati scientifici della scienza medica dell’epoca (spesso contestati e rifiutati dalla popolazione per ignoranza e sulla base di insensati pregiudizi), considerando la salute pubblica come un bene da preservare e curare, sia dal punto di vista materiale che spirituale, sulla base di procedure controllate e in luoghi deputati allo scopo. Di qui, contrariamente alla prassi diffusa del tempo, la concezione statutaria dell’ospedale come luogo destinato esclusivamente alla cura dei malati, dotato di una classe medica fornita direttamente dal re (al servizio dello stato e quindi qualificata) e monitorato quotidianamente per il rispetto delle più elementari nozioni igienico-sanitarie (Ferdinando IV, 1789, pp. 37-38). Il riformismo dello Statuto contribuisce a dare così avvio al processo formativo dell’ospedale così come oggi concepito, basandosi su una concezione medico-sanitaria lontana dalle finalità genericamente assistenziali, curative ma anche formative, rieducative e repressive degli istituti ospedalieri d’età moderna. Questi ultimi costituivano infatti dei veri e propri centri di accoglienza, controllo e rieducazione per malati, mendicanti, indigenti e disadattati in generale, generalmente considerati (a eccezione dei casi di oggettiva inabilità al lavoro) dei fannulloni e dei parassiti sociali. Pertanto l’istruzione, a partire dalla seconda metà del Settecento, «cominciò ad essere considerata anche come una sorta di arma per sconfiggere l’ignoranza che stava alla base dei comportamenti devianti», per educare i poveri al lavoro, alla disciplina e ottenerne il recupero sociale. Tali erano i presupposti ideologici dello stesso Albergo dei Poveri di Napoli, conformemente al programma di Tanucci («che moveva dalla premessa etica fondamentale del Genovesi» della necessità di educare il popolo, sollevandolo dallo stato di ignoranza e abiezione in cui versava: Tescione, 1932, p. 126). Il Codice di S. Leucio, pur accogliendo tali istanze, le affronta con criteri moderni, predisponendo per ciascuna di esse una differente e peculiare destinazione istituzionale: la “Cassa della Carità”, per il sostegno materiale ed economico di quanti fossero divenuti inabili al lavoro per causa di forza maggiore (nonché, in caso di morte, per il pagamento delle spese necessarie all’esequie); la “Casa degli Infermi” (ossia l’ospedale), con funzioni curative e assistenziali di tipo sanitario; la “Scuola normale”, per la formazione scolastica e lavorativa dei fanciulli di entrambi i sessi, obbligatoria a partire dai sei anni di età. Tra questi istituti, la “Cassa della Carità” è dunque delegata a sostenere le spese di assistenza socio-sanitaria ai coloni in difficoltà. La sua denominazione, tuttavia, risulta ingannevole, lasciando immaginare che si fondi su principi generici di associazione e di solidarietà umana (che pure ne costituiscono un presupposto). Al contrario, la “Cassa della Carità” non rappresenta un istituto di elemosina collettiva, ma una sorta di “fondo malattie”, con finalità analoghe a quelle degli attuali enti di previdenza sociale, «nei quali direttamente o indirettamente si attua l’attività dei gruppi o dello Stato volta ad eliminare negli individui il bisogno di ricorrere alla beneficenza, a prevenire la miseria mediante il concorso di cloro stessi che sono destinati a beneficiarne» (Dal Pane, 1958, p. 317). Pertanto, la “Cassa della carità”, fondata sul risparmio degli interessati (i contributi mensili e proporzionali al reddito dei lavoratori della colonia) rappresenta un esempio di ente previdenziale ante litteram. I leuciani caduti in miseria «o per vecchiaia, o per infermità, o per altra fatal disgrazia, ma non mai per pigrizia, ovvero infingardaggine» hanno maturato il diritto di essere assistititi in virtù del loro pregresso e costante contributo “previdenziale”. Non a caso, i coloni morosi a oltranza perdono il diritto all’assistenza, sia in caso di disgrazia che di morte, mentre i maleducati, gli oziosi e gli sfaticati recidivi sono espulsi dalla colonia. La concezione della previdenza socio-sanitaria dello Statuto di S. Leucio s’inserisce quindi a pieno titolo nel moderno sistema di norme e istituti fondati sul diritto dei lavoratori all’assistenza, «compiuta a mezzo di fondi costituiti dai risparmi dei lavoratori stessi». A tale proposito, risultano molto interessanti anche le norme sull’orario di lavoro (tanto più perché quasi sconosciute in quest’epoca), che lo fissavano in due turni, di durata analoga a quella della luce solare, con il solo intervallo del pranzo. Assistenzialismo, economia e politica, dunque, nello Statuto s’intrecciano indissolubilmente, a partire da un’idea di pubblica assistenza, cura e prevenzione molto più ampia di quella strettamente medica, essendo inteso il benessere della persona nel suo significato complessivo, fisiologico, morale, psicologico e giuridico (come emerge anche dal nesso individuato da Ferdinando IV tra il rapido aumento degli abitanti della colonia e la bontà dell’aria, la tranquillità e la pace domestica in cui vivevano).

La modernità degli aspetti sanitari del Codice è ulteriormente confermata se comparata con le disposizioni sanitarie relative all’amministrazione del Regno di Napoli emanate nel 1808 da Gioacchino Murat (con la separazione delle istituzioni medico-ospedaliere da quelle filantropiche, la nascita di nuovi ospedali e il controllo statale dell’assistenza sanitaria), le cui disposizioni sarebbero state ampiamente recepite dalla legge del ripristinato regno borbonico del 20 ottobre 1819 «sulla pubblica salute ne’ domini di qua e di là del Faro». Non a caso, negli anni Venti, data organica e definitiva sistemazione a tutta la decretazione in materia sanitaria, la legislazione del Regno delle Due Sicilie si rivela «una delle più analitiche e dettagliate degli stati preunitari» (Botti, 1988, pp. 1222-1223). Se tale circostanza può essere attribuita all’influenza francese sulla presa di coscienza borbonica dell’importanza della salute pubblica per il buon governo del Regno (Botti, 1988, p. 1222), non si può tuttavia dimenticare che il Codice dimostri come, almeno sul piano ideologico e “laboratoriale”, i Borbone avessero impostato in chiave moderna la gestione del problema sanitario ben prima della conquista francese del Regno di Napoli. Gli aspetti innovativi in campo sanitario del Codice, d’altra parte, rientrano nelle finalità sociali insite nell’esperimento di S. Leucio e nel piano di iniziative organicamente coordinate promosse da Ferdinando IV, basate su un consolidato corpus legislativo: gli articoli richiamano infatti elementi di diritto privato, pubblico, civile e penale e, per alcuni versi, riflettono atteggiamenti culturali caratteristici della cultura del XVIII secolo (tra cui la condanna senza appello dei fannulloni e dei renitenti al lavoro). L’ispirazione giuridica del Codice coesiste inoltre con quella religiosa, subito affermata nella pagina iniziale del testo, con il richiamo all’obbligo di osservare la Legge divina dell’amore verso Dio e verso il prossimo (prima regola che Ferdinando impone ai suoi coloni: Ferdinando IV, 1789, p. 11), seguito dall’elencazione dei “Doveri negativi” (Cap. I) e dei “Doveri Positivi” (Cap. II: cfr. nota 2). Nell’ambito di questi ultimi rientrano le regole sanitarie, con preliminari e importanti richiami alle norme igieniche fondamentali per il vivere civile. Ai coloni-lavoratori, infatti, è innanzitutto ordinato «che estrema sia la nettezza, e la polizia sopra le vostre persone […]: che questa polizia sia anche esattamente osservata nelle vostre case, acciò possa godersi di quella perfetta sanità, ch’è tanto necessaria nelle persone, che vivono con l’industria delle braccia». L’osservanza della norma è oggetto di verifica e controllo quotidiano da parte dei magistrati civili (detti “Seniori del popolo”), vigilanti della colonia con funzioni di giudici di pace, i cui rapporti sono consegnati direttamente al re (Ferdinando IV, 1789, pp. 23-24 e p. 44). Se il richiamo alla scrupolosa cura della pulizia personale e delle abitazioni può oggi sembrare quasi superfluo, se ne comprenderà appieno la ragione in considerazione della sua estrema importanza non solo per il decoro personale e il rispetto della convivenza sociale, ma anche per la prevenzione delle malattie infettive ed epidemiche, a fronte dell’esistenza tra la popolazione del XVIII secolo di abitudini e convincimenti arcaici e pseudo-religiosi, spesso sostenuti dagli stessi medici, tra cui quello di lavarsi poco o di non lavarsi affatto, soprattutto in caso di malattia (Cosmacini, 1988, pp. 214-215). D’altra parte le condizioni materiali dei lavoratori del tempo erano decisamente miserrime: nei primi stabilimenti manifatturieri, tra cui quelli dei fabbricanti di seta, le testimonianze storiche sottolineano come «gli imprenditori non si preoccupassero dell’igiene del lavoro»: i procedimenti tecnici in uso, spesso pregiudizievoli alla salute degli operai, «non erano accompagnati dalle misure igieniche necessarie a prevenire le dannose esalazioni delle materie lavorate, le attive condizioni dell’ambiente di lavoro, le malattie professionali […] Del resto lo stato di fatto si rivela in tutto rispondente alla modesta cultura igienica del tempo alle scarse preoccupazioni governative per questo ordine di pubblici interessi, per la stessa igiene generale». Nel secolo successivo la situazione non era migliore. La “Statistica” del Regno di Napoli (redatta nel 1811 per volere di G. Murat) offre, per bocca del redattore canonico Francesco Perrini, ampie testimonianze delle infelici condizioni di vita della popolazione delle provincie del Regno: colpisce l’abituale uso di acqua poco pulita, l’alimentazione scadente, le condizioni igieniche disastrose (la vita quotidiana si svolgeva in case piccole, male areate, umide e fatiscenti, in promiscua coabitazione con gli animali da cortile e/o da allevamento), la diffusione della malaria (Demarco, 1988, pp. 209-254). Aggiunta alla denutrizione e alla fatica eccessiva dei lavoratori, tale situazione favoriva il proliferare dei contagi, drammaticamente diffusi in questo periodo: se a metà Settecento la peste era scomparsa dall’Europa (con l’eccezione in Italia dell’epidemia di Marsiglia del 1720 e di quella di Messina e Reggio nel 1743), «un altro flagello, il vaiolo, ha preso il suo posto nel determinare la morbosità-mortalità catastrofica della popolazione europea. Ciò vale ancor di più per la popolazione italiana, risparmiata dalla peste con alcuni decenni d’anticipo rispetto alla popolazione di altri paesi e flagellata invece dal vaiolo con grande frequenza e intensità» (Cosmacini, 1988, p. 238). Di qui il richiamo del Codice all’ordine e alla massima pulizia possibili, con particolare riguardo alla “Casa degli Infermi”, il centro di accoglienza e di cura per i malati, amministrato da specifici regolamenti interni, e anch’esso quotidianamente ispezionato dai “Seniori del Popolo”, aventi il compito di verificarne le condizioni igieniche e l’esatta e scrupolosa assistenza materiale e spirituale offerta ai malati[18]. La “Casa degli Infermi” è dunque progettata in ossequio ai principi di salubrità e disinfezione richiesti dalle sue finalità specifiche. Nel passaggio dalla cosiddetta medicina ‘al letto del malato’ (ossia a domicilio) a quella clinica ‘ospedaliera’ (secondo la definizione del Keel, 2007), nonché alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche del tempo, il Codice si allinea in tal modo alle informative mediche del Settecento, che richiedevano la creazione di ambienti spaziosi, riscaldati e ben ventilati (Scotti, 1984, citato da Garbellotti, p. 126), progettando la costruzione di questa Casa come «separata totalmente dall’altre in luogo d’aria buona, e ventilata», per la cura di tutti gli ammalati, cronici e non (Ferdinando IV, 1789, p. 47). Questo semplice progetto, pur rimasto tale, appare in tutta la sua importanza se si considera l’abituale stato di disordine, sporcizia e cattivo odore degli ospedali settecenteschi (eclatante, a riguardo, la diffusa e inumana pratica di risparmiare spazio sistemando due malati in uno stesso letto), progressivamente superato solo nel corso del XIX secolo. Ciò premesso, la funzione prioritaria assegnata dal Codice alla “Casa degli Infermi” è innanzitutto di tipo preventivo: ogni anno, infatti, nei periodi precedenti le grandi epidemie (primavera e autunno), per tutti i ragazzi e ragazze della colonia leuciana è «prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s’interponga autorità o tenerezza de’genitori» (Colletta, 1856, tomo I, p. 138), al fine di scongiurare i pericoli derivanti da una loro eventuale esposizione al contagio della terribile malattia. Il richiamo all’obbligatorietà dell’innesto del vaiolo si richiamava a un dispaccio reale che prescriveva tale pratica in tutto il Regno è uno dei principali elementi di modernità del Codice, che si inserisce in tal modo nel dibattito su una delle più accese questioni scientifiche e culturali dell’Italia del Settecento. Il metodo dell’innesto, detto «della variolizzazione, cioè della inoculazione a scopo profilattico del vaiolo umano (la cui forma più grave, o variola maior, prevale nel Settecento sulla forma più lieve, o variola minor), nasce da una pratica che circassi e cinesi, esperti del male […], attuavano da secoli in Oriente», volta a provocare una manifestazione della malattia in forma lieve, che immunizzava la persona dal contagio. Il dibattito tra fautori e oppositori dell’innesto, tuttavia, a cui presero parte anche intellettuali del calibro di Pietro Verri, non si riduceva schematicamente a una lotta tra progressisti e conservatori, essendo controversi i risultati dell’inoculazione: quest’ultima, di fatto, era priva di un sicuro metodo applicativo e, dunque, se praticata in modo erroneo, diventava rischiosa, in alcuni casi, addirittura letale.

Ciò nonostante, la pratica produceva senza dubbio più benefici che danni; nel 1756, infatti, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria (la cui stessa famiglia era stata decimata dal male), sentiti i pareri favorevoli di vari consulenti, dava l’assenso affinché venisse impiegata in Toscana, colpita da una violenta epidemia di vaiolo. Di qui il «”primato della Toscana nella battaglia per l’innesto”, sullo sfondo del temperato riformismo della Reggenza lorenese e poi del riformismo progressista del granduca Pietro Leopoldo» e ancora di qui la convinta adesione alla pratica dell’innesto da parte di Ferdinando IV di Borbone, che, dopo aver perduto due figli nel 1788 a causa del contagio, vi avrebbe sottoposto il resto della prole.

I VENTICINQUE PRIMATI DI MESSINA AL TEMPO DEL BORBONE. Michele Eugenio Di Carlo su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 250 maggio 2020. Di Alessandro Fumia.

Nel 1735: Primo Teatro d'opera con orchestra (teatro della Munizione restaurato), fondato nel regno delle due Sicilie nel 1724 durante il governo della dinastia austriaca.

Nel 1741: Prima Operetta dedicata da un autore italiano a un ambasciatore turco, giunto a Messina con delegazione imperiale per firmare trattato di pace, libero commercio e navigazione, stipulato tra il regno delle due Sicilie e la Porta Ottomana.

Nel 1751: Prima Compagnia di Real Bandiera per il commercio internazionale in Italia fondata a Messina.

Nel 1752: Prima Banca Commerciale Nel 1752: Prima Banca Commerciale Azionaria in Italia, attiva nel Regno duo siciliano, fondata a Messina.

Nel 1801: Prima opera pubblica per dimensione, la Palazzata, fu considerata l’ottava meraviglia del mondo per estensione lineare duemila metri, alta venti metri ricopriva tutta la cortina del porto.

Nel 1803: Primo Palazzo della Borsa (stanze della Borsa presso palazzo Broadbent nella Palazzata) d’Italia fondato a Messina.

Nel 1804: Prima spedizione di casse di cedrate di Messina in Russia.

Nel 1805: Primo Cacciatorpediniere (gun-boats) costruito nel cantiere navale di Messina venduto alla marina degli Stati Uniti d’America, su mandato del presidente Thomas Jefferson.

Nel 1807: Prima spedizione di arance di Messina in America.

Nel 1810; Prima sconfitta di un esercito di Napoleone Bonaparte presso i villaggi di mezzogiorno di Messina.

Nel 1819: Primo Compressore Chirurgico brevettato in Europa, eseguito per la fasciatura dell’aorta e dei grandi vasi sanguigni, dal professore messinese, dottore Natale Catanoso, consistente in una piccola tenaglia a molla per bloccare le suture aortiche, eseguendo con questa tecnica due interventi chirurgici riusciti, presso il grande ospedale di Messina.

Nel 1819: Prima Scoperta dell’Acido Borico Libero in Natura al mondo, del chimico messinese Gioacchino Arrosto, presso una cavea nell’isola di Vulcano, segnalata dal Sig. Lucas in una lettera emessa e datata a Messina, il 31 luglio 1819.

Nel 1824: Prima riproduzione di Flora Artificiale a Rilievo al mondo, prodotta per fini scientifici (botanica) dal dottore Anastasio Cocco, e realizzate in pasta di cera dai maestri messinesi Pasquale Principato ed Emmanuele Calamita.

Nel 1825: Prima Cattedra di Ostetricia, Anatomia e Clinica Cerusica del Regno delle due Sicilie fondata in Italia, istituita a Messina presso l'Accademia Carolina.

Nel 1832: Primo Acquario Pubblico per osservazione animali marini al mondo, la celebre gabbia alla Power costruita a Messina dall’affermata studiosa di scienze naturali Jannette Villepreux Power.

Nel 1833: Prima Cattedra di Diritto Nautico Commerciale d'Italia, istituita a Messina.

Nel 1834: Prima Catena Meccanica di trasmissione, o di trazione costruita in Italia inventata dal messinese Antonio Grillo.

Nel 1835: Prima Preparazione pura di Acido Citrico al mondo, inventata da Letterio Centorrino.

Nel 1836: Prima Vettura a Vapore a ruote di ferro per strade carrabili (automobile), prodotta da Tommaso Anselmi (torinese) e Giuseppe de Natale (messinese) in Italia, su decreto reale del 1836.

Sempre nel 1836: Prima Pistola a percussione per quattro colpi inventata da Francesco Moschella di Tripi (Messina) fabbricata in Europa.

Nel 1845: Prima applicazione di Acido Ascorbico solubile per produrre vitamina C al mondo, scoperta a Messina dal chimico Natale Aloisio.

Sempre l’anno 1845: Prima invenzione di un Sonometro in Italia realizzato dal fisico messinese Antonio Costa Saya.

Nel 1846: Prima Cura Cataratta incipiente al mondo, eseguita attraverso un metodo chimico-terapeutico inventato dall'oftalmologo dottor M. Pugliatti di Messina.

Nel 1851: Primo Smacchiatore per fibre tessili al mondo, inventato a Messina.

Nel 1860: Prima Pila al cloruro di sodio, brevettata dall'elettrotecnico messinese Tommaso Lucifero, ma registrata in Italia sei mesi dopo presentandola nell’esposizione di Firenze.

·        Il Sud Sbancato.

MEZZOGIORNO BANCO-ROTTO: Il sistema bancario del Sud non c’è più, è stato espropriato dalle banche del Nord. La soluzione adottata per far fronte ai problemi legati al territorio è stata quella di azzerare il sistema, sostituendolo con operatori esterni. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. Pubblichiamo la premessa del libro “Mezzogiorno banco-rotto” scritto da Pietro Massimo Busetta e Rainer Masera. Presso i romani coloro che commerciavano in denaro, banchieri o cambia-valute, stavano dinanzi ad un banco che veniva chiamato mensa argentaria, sul quale disponevano il denaro necessario per gli affari della giornata. Da tale uso derivano i termini Banchiere e Banca rotta, che poi passarono anche nel linguaggio inglese e francese grazie ai fiorentini (…) Tale terminologia deriva, quindi, dal Medioevo: quando un commerciante o un banchiere dichiarava Bancarotta (…) In realtà il banco che si è rotto, del titolo, è quello del Mezzogiorno (…) Il tema di fondo, attorno al quale ruotano i lavori che sono stati raccolti in questo volume, riguarda la domanda se serva un sistema bancario articolato in realtà piccole, medie e grandi, o piuttosto sia più efficiente una concentrazione in strutture grandi (…) La teoria che le maggiori dimensioni siano sempre le più efficienti trova sostenitori ma anche detrattori. Peraltro le esperienze sul campo dei vari paesi sono molto diversificate. Ed anche la teoria che le economie di scala debbano riverberarsi positivamente sui costi di intermediazione è tutta da dimostrare (…) In tale dibattito si inserisce il tema dei controlli che l’Organo di Vigilanza ormai, con sempre maggiori oneri, continua ad imporre, con richieste simili alle piccole come alle grandi strutture bancarie, penalizzando in tal modo le realtà minori o less significant. In questo volume vi sono cinque contributi, scritti da sette Autori che hanno grande competenza nel settore del credito (…) Piero Alessandrini e Luca Papi, partendo da un’analisi sugli effetti della recente crisi finanziaria, iniziata nel 2007, sul sistema bancario, sia sotto l’aspetto strutturale, che in rapporto alla qualità del credito, cercano di delineare le possibili prospettive per il sistema bancario ed in particolare pongono l’attenzione sugli effetti che l’innovazione tecnologica e la regolamentazione bancaria avranno sulle banche locali e less significant. Pietro Busetta e Salvatore Sacco, propongono una riflessione sull’atteggiamento con cui la classe dirigente nazionale ha costantemente affrontato l’irrisolta problematica del dualismo, che, nella vicenda del sistema bancario del Mezzogiorno, trova il suo acme e la sua metafora. Infatti, a fronte degli enormi problemi che, inevitabilmente, per le banche espressione di quel territorio comportava l’operare in quelle aree (compresi, talvolta, i collegamenti perversi con la criminalità organizzata), la soluzione adottata è stata quella dell’azzeramento di quel sistema, sostituendolo con operatori esterni (…) Il lavoro propone un confronto con quanto avvenuto a seguito delle due grandi crisi strutturali del sistema bancario nazionale (1992-95 e 2007-2010), in termini di soluzioni adottate e di costi per la collettività (e per il Mezzogiorno in particolare). Vengono evidenziate anche le differenze dell’impatto sui sistemi bancari nazionali di altri paesi europei, anche in funzione dell’azione delle diverse autorità competenti, del progressivo appesantimento della regolamentazione comunitaria e sovranazionale, registratosi negli ultimi due decenni. Giovanni Ferri si interroga sugli effetti degli interventi di ristrutturazione del sistema bancario, intercorsi negli ultimi 30 anni, sul processo di convergenza del Mezzogiorno. Particolare rilevanza assumono nel suo lavoro i temi dell’allontanamento dei centri decisionali, gravoso per il Mezzogiorno in termini di perdita di capitale umano, oltre che del mutamento della struttura proprietaria e quindi dei soggetti di riferimento; non più gli stakeholder ma gli shareholder, determinando la fine della funzione sociale della banca nel proprio territorio di riferimento . Viene evidenziato come tale approccio non sia in linea con quanto avvenuto in realtà confrontabili come il Sud della Spagna o la Germania Est (…) Adriano Giannola pone l’attenzione sulle problematicità che comporta l’attuale struttura del sistema creditizio italiano, che finiscono con l’accentuare, nel contesto nazionale, alcune distorsioni presenti a livello sovrannazionale. Infatti, proponendo una misurazione dell’impatto della cosiddetta “austerità espansiva” sul sistema economico nel suo complesso, evidenzia come il mercato creditizio interno abbia svolto una rilevante funzione pro ciclica, aggravando ulteriormente la situazione complessiva del contesto economico italiano (…) Infine, Rainer Masera, nel suo contributo, cerca di individuare le similarità o le divergenze nella regolamentazione e nella operatività, delle banche di comunità degli Usa e dell’Eurozona (…) È necessario per Masera, che i policy maker rivalutino criticamente il loro operato, che, ricercando oggettive ed astratte economie di scala, rischia di generare diseconomie di regolamentazione, con gravi effetti distorsivi sulla concorrenza. In sintesi scopo di questo volume è quello di alimentare un dibattito sul sistema bancario nazionale, che, contrariamente a quello che è avvenuto in altri Paesi industrializzati, in Italia ha visto prevalerne alcune, senza un vero dibattito. (…) Quindi doppio problema, quello dimensionale e quello localizzativo, che ha portato le piccole e medie imprese a non avere più quel credito che a loro serve, attraverso l’accentuazione delle perniciose pratiche di razionamento. Ed il tema che si affronta in diversi lavori è quello che le realtà più piccole potrebbero avere più bisogno delle cosiddette banche di contiguità, che per le loro dimensioni, meglio dialogano con strutture più contenute e con i loro centri decisionali vicini. Senza contare il fatto che spesso alcune realtà imprenditoriali, per il sommerso che hanno, mal vengono rappresentate dai dati ufficiali dei bilanci (…). Fatti che incidono sulla redditività di qualsiasi attività e che, probabilmente, solo una banca di contiguità può tenere adeguatamente presente. L’obiettivo che si vuole perseguire con questo lavoro è quello di mettere in discussione alcuni assunti che sembrano, anche se non dimostrati, assurgere a verità incontrastate,…

IL SUD SBANCATO: CAUSE E RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA AL SERVIZIO DELLA FINANZA DEL NORD. Michele Eugenio Di Carlo il 04.09.2020 su movimento24agosto.it. Negli ultimi trent’anni il sistema bancario del Sud è stato praticamente smantellato e acquisito in gran parte da istituti del Nord. E’ un altro segno inequivocabile dello strabismo con cui le politiche governative hanno inteso garantire un’inesistente Questione settentrionale di fattura leghista al fine di annullare l’esistente e sempre più preoccupante Questione meridionale, tanto che il tasso di disuguaglianza del Mezzogiorno nel confronto con il resto d’Italia e d’Europa è arrivato a livelli tali che chi ha governato negli ultimi trent’anni non dovrebbe fare altro che pentirsi e chiedere scusa. Giova nuovamente segnalare il punto di quasi non ritorno in cui politiche discriminatorie hanno portato il Mezzogiorno: esodo forzato di milioni di cittadini costretti ad emigrare con perdita di un enorme capitale umano, fattore principale nei processi di crescita e di sviluppo; desertificazione di intere aree interne che hanno perso servizi e infrastrutture fondamentali; disoccupazione giovanile in alcune aree al 60% con un processo di invecchiamento della popolazione che non riserva nessuna possibilità di futuro; carenze ormai croniche di infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, aeroportuali, portuali, penalizzanti lo sviluppo in tutti i settori; nuove tecnologia applicate all’economia, alla cultura, ai servizi spesso inesistenti, altre volte inadeguate; perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche, fattore che alimenta populismi e genera disagio sociale.

Quali le cause che hanno reso cieche le politiche governative degli ultimi trent’anni e del tutto inutili i partiti nazionali del PUN (partito unico del nord)?

Innanzitutto il trasferimento del potere decisorio reale dalla politica alla finanza con politiche che hanno privilegiato gli interessi privati di grandi gruppi finanziari, spesso multinazionali, a scapito di quel “bene comune” (ambiente, salute, occupazione e qualità del lavoro, diritti, partecipazione, assistenza, solidarietà, servizi sociali, cultura, ricerca e formazione), che la politica aveva saputo conservare e alimentare fino agli anni Ottanta. La foga delle privatizzazioni, ad esempio: una vera tendenza verso le politiche ultraliberiste reaganiane e thatcheriane che ha sottratto al controllo dello Stato italiano importanti e vitali settori, messi a disposizione di gruppi finanziari che hanno seguito la logica utilitaristica del libero mercato nell’ambito della finanziarizzazione dell’economia, spesso solo virtuale, e basata su transazioni finanziarie che spostano senza limiti e senza controllo capitali da una parte all’altra del mondo. In altre parole, questi gruppi hanno assunto, anche grazie al devastante sistema del finanziamento ai partiti, un controllo importante nell’ambito delle decisioni politiche ed economiche, sostituendosi alla politica, rendendo nulle le pretese sindacali, azzerando i diritti delle classi lavoratrici e, in generale, dei cittadini comuni appartenenti alla classe media. La crisi finanziaria che ci portiamo dietro dal 2008, e che penalizza particolarmente il Mezzogiorno, iniziata con il fallimento della Lehman Brothers a seguito della bolla immobiliare legata ai prestiti dei mutui subprime,  è il frutto dell’invasione della finanza nella politica con partiti ridotti ad un ruolo gregario, al comando dei quali spesso vengono ormai messe personalità vuote di capacità progettualità e manovrati da media asserviti che li creano e li distruggono a seconda degli interessi di chi controlla realmente il potere. É sotto questi aspetti complessi e articolati che bisogna analizzare il crollo che ha portato allo smantellamento del sistema bancario del sud Italia. Un crollo che presenta fasi ben precise che sono state illustrate puntualmente, in relazione agli ultimi decenni, dal giornalista del  “Mattino” di Napoli Marco Esposito, nel testo “Separiamoci” (Separiamoci. Il Sud può fare da sé, Milano, Magenes, 2019, 3ª ediz.). Nel 1990, con la legge del piemontese Giuliano Amato inizia il processo di trasformazione del sistema creditizio italiano in soggetto di diritto privato, spingendo con incentivi fiscali le banche, enti di diritto pubblico, «a separare la propria attività in due: una fondazione e una banca società per azioni, con la prima proprietaria al 100% della seconda». Se nella prima fase la legge obbliga le fondazioni a mantenere il controllo delle banche, nella seconda impone l’obbligo di scendere al di sotto del 50% con il risultato finale che le banche passano ad un sistema che permette la scalata del più forte. Dopo il referendum del 1993, la nomina dei vertici delle fondazioni passa dal Governo agli Enti Locali e Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, consente che i grandi gruppi finanziari del Nord assorbano anche i colossi creditizi del Sud, come ad esempio il Banco di Napoli. Ed ecco che «le fondazioni bancarie erogano fondi e sostengono servizi per il 93% al Centro-nord e per il 7% al Sud». Nel mentre i gruppi bancari del Nord acquisiscono una alla volta le banche meridionali e quelle romane, l’’elenco delle fondazioni, all’origine banchi e casse di risparmio risalenti anche al Cinquecento, che cedono il controllo negli anni Novanta a Istituti del Nord è «impressionante». Gli istituti acquisiti dalla sola Banca Popolare dell’Emilia-Romagna tra il 1994 e il 2000 sono i seguenti: Banca del Monte di Foggia, Cassa Rurale di Sicignano negli Alburni, Banca Popolare del Materano, Banca Popolare di Lanciano e Sulmona, Banca Popolare di Crotone, Credito Commerciale Tirreno, Banca Popolare della Val D'agri, Banca Popolare del Sinni, Banca Popolare di Castrovillari e Corigliano Calabro, Banca Popolare di Salerno, Carispaq-Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila, Banca Popolare dell’Irpinia. Ma l’elenco non sarebbe completo se non si tenesse conto della perdita dei seguenti altri istituti: Banca Sannitica, Banca del Salento, Banca Popolare di Napoli, Banca della Provincia di Napoli, Credito Commerciale Tirreno, Banca Mediterranea. Appena qualche giorno fa, Marco Esposito sulle pagine del “Mattino” del 21 agosto, in un articolo titolato “Fondazioni bancarie, trent’anni di egoismi: Nord batte Sud 20-1”, precisa ancora meglio la questione delle fondazioni bancarie, ripercorrendo le tappe della loro evoluzione degli ultimi decenni e precisando che gli 88 enti che sostengono l’arte, la cultura, la sanità, la ricerca, la solidarietà, erogano i propri fondi con una percentuale sempre più sbilanciata a favore del Nord; infatti dei 40 miliardi assegnati in 28 anni, mai il Sud ha superato la soglia del 5% per sostenere la propria cultura, sanità, ricerca, arte. Si ripropone nuovamente la tesi che il divario del Mezzogiorno dal resto del paese non è più un caso a sé, ma da analizzare e risolvere nel contesto in cui agiscono potenti multinazionali e lobby finanziarie inseriti pienamente nei gangli vitati della politica, al fine di condizionarne le scelte. Pubblicato sul quotidiano l'Attacco il 4 settembre 2020.

LA DISTRUZIONE DELLE BANCHE MERIDIONALI. CONCENTRAZIONE BANCARIA ED ELIMINAZIONE DEI PLAYERS BANCARI DEL SUD ITALIA: DAL BANCO DI NAPOLI AL BANCO DI SICILIA. Michele Di Pace il 15.09.2020 su movimento24agosto.it. Di Luca Lozupone.

Il quadro normativo. A partire dal 1990 per effetto di pressioni internazionali, e dal 2005 anche di Banca d’Italia, è stato avviato un energico processo di concentrazione bancaria. La legge Amato del 1990, infatti, recepiva le Direttive europee ed equiparava gli istituti creditizi pubblici con quelli privati e favoriva l’adozione, per le imprese sotto il controllo pubblico, di forme societarie privatistiche. Le banche vengono incentivate a diventare società per azioni. Per quanto riguarda il credito a medio-lungo termine venne resa possibile la riunificazione in una sola società dell’attività di intermediazione mobiliare svolta in precedenza da istituti diversi. Rendendosi necessaria una separazione tra gestione e controllo delle banche, le partecipazioni bancarie vennero affidate a determinati enti, le fondazioni, da cui venne scorporata l’attività bancaria, conferita a società per azioni di cui le fondazioni stesse possedevano inizialmente l’intero capitale: una forma dunque di privatizzazione “formale” delle banche. Con la Legge 474 del 1994 si disciplinò poi la privatizzazione “sostanziale”, cioè la dismissione delle partecipazioni in capo alle fondazioni, incentivata attraverso vantaggi fiscali. Il Testo Unico del 1994 delle leggi in materia bancaria e creditizia sancisce l’attività bancaria come attività imprenditoriale: le banche possono operare senza limitazione di operazioni, servizi, scadenze nella raccolta ed impiego dei fondi, e possono emettere obbligazioni e strumenti di deposito. Le parole d’ordine diventano “imprenditorialità e libero mercato”. Cade la distinzione tra le banche di deposito e istituti speciali di credito, presente fino ad allora nel sistema italiano. Sotto la vigilanza della Banca d’Italia è consentita la commistione dell’azionariato di banche e industrie. A partire da questo momento tutte le banche diventano contendibili e inizia il processo frenetico di fusioni ed acquisizioni a tutt’oggi non concluso. Se nel 1995 la quota di mercato detenuta dalle prime cinque banche è del 32,36%, alla fine del 2017 passa al 43,3% (sul totale degli attivi totali del sistema bancario italiano).

EFFETTI DELLA DEREGULATION BANCARIA AL SUD ITALIA: IL CASO BANCO DI NAPOLI. Dopo l’approvazione del Testo Unico bancario l’IRI cede le quote maggioritarie dei due istituti bancari del Sud Italia: il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia definiti dal Ministero del Tesoro come in “sostanziale fallimento”. Nel 1997 il ministero del Tesoro cede il 60% del capitale del Banco di Napoli alla BN Holding, detenuta al 51% dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) e al restante 49% dalla BNL. Nel 2000 la holding verrà acquisita da San Paolo-Imi. La modalità di questa privatizzazione destarono subito la netta contrarietà dell’allora presidente della fondazione del Banco di Napoli, Gustavo Minervini. Infatti nel 1996 il ministero del Tesoro azzera il capitale sociale e ricapitalizza il Banco, senza riconoscere alcun corrispettivo relativo al diritto di opzione dei vecchi soci tra cui la Fondazione del Banco di Napoli. Quindi nel 1997 la Fondazione è stata costretta a vendere ex-lege il Banco per 61 miliardi di lire alla Bnl e Ina (entrambi ancora di proprietà del ministero del Tesoro), che l’hanno poi rivenduta nel 2000 a San Paolo-Imi per 3.600 miliardi. L’autore Rispoli Farina nel suo libro “Il caso Banco di Napoli” descrive l’accaduto come una precisa volontà “espropriativa” della principale banca del Sud Italia, espropriata appunto per salvare una banca italiana come la Banca Nazionale del Lavoro. Infatti l’enorme plusvalenza permise il salvataggio della Bnl che prima di allora era in perdita. A rendere l’operazione di privatizzazione del Banco di Napoli ancora più sospetta è il passaggio a valore di bilancio e pro soluto dei crediti deteriorati alla SGA (società di gestione delle attività), quale bad bank. Ricapitolando il Banco paga SGA a valore di bilancio per liberarsi dei suoi crediti deteriorati e, in caso di minusvalenze, si impegna a ripianare le perdite della SGA. Quindi era stato predisposto un ulteriore strumento di garanzia a favore dei futuri acquirenti del Banco di Napoli che sarebbero stati sollevati dalle eventuali perdite generate dalla SGA. È da notare che gli utili maturati dalla Società per la Gestione delle Attività (SGA) sono stati acquisiti dal Tesoro e destinati al fondo Atlante II. Questi capitali sono stati utilizzati dallo Stato italiano per intervenire nelle crisi di Mps, banche venete che nulla hanno a che vedere con il territorio in cui operò il Banco di Napoli. Purtroppo il saldo attivo della SGA non è mai stato calcolato, e questo ha sicure responsabilità politiche, e quindi è impossibile ad oggi ristorare i soci, cioè la Fondazione Banco di Napoli.

LA PRIVATIZZAZIONE DEL BANCO DI SICILIA. Come per il Banco di Napoli, anche per il Banco di Sicilia e Sicilcassa la legge Amato del 1990 ed il Testo Unico Bancario del 1994, uniti alla confusione portata dallo scandalo “Tangentopoli”, sono l’occasione per la sottrazione di importanti istituti di credito alle regioni del Sud Italia. All’inizio degli anni novanta la linea della Banca d’Italia appare chiara: togliere alla Regione siciliana il controllo del Banco di Sicilia. Infatti la regione esprime tre componenti su cinque del Comitato esecutivo del Banco. Il piano della Banca d’Italia è la sua fusione con la Banca di Roma. Sarà aiutata in questo dal membro del consiglio di amministrazione espresso dall’Istituto di vigilanza. Nel 1994 gli azionisti del Banco di Sicilia sono tre: Fondazione con il 60%, Tesoro e la Regione siciliana con il 20% del capitale ciascuno. Lo Stato italiano attraverso il Tesoro scende in campo per realizzare il piano di Banca d’Italia: con 600 miliardi di lire di ricapitalizzazione punta ad acquisire la maggioranza delle azioni. La fondazione però, guidata da Carlo Dominici, chiede invece che prima venga determinato il valore del Banco e poi si passi alla ricapitalizzazione. Dominici riesce a prevalere. Per la valutazione del patrimonio viene incaricata Sofipa, società di Mediocredito a sua volta controllato dal Tesoro. Per Sofipa il valore del Banco di Sicilia ammonta a 3. 400 miliardi di lire. Ciò significa che con 600 miliardi di lire il Tesoro non potrebbe acquisire il controllo del Banco. Ma questa valutazione non viene tenuta in conto, anche perché risulta essere superiore alla stima dei periti del Tribunale in sede di costituzione del Banco di Sicilia spa. Viene quindi incaricata la Giuberga Worburg che valuta il Banco 1.200 miliardi. Cifra che corrisponde esattamente al capitale sociale. Più che una valutazione sembra una svalutazione. Nel 1996 esplode il caso Sicilcassa che registra perdite per 4mila miliardi di lire. L’occasione viene sfruttata da Roma (Banca d’Italia e Tesoro) per spingere il Banco di Sicilia ad acquisire Sicilcassa, che era in stato comatoso. Il ministro del Tesoro è Ciampi, Mario Draghi è il direttore del Ministero del Tesoro e Vincenzo Fazio è il governatore della Banca d’Italia. Probabilmente l’obiettivo è quello di rendere il rilancio del Banco impossibile e quindi non in grado di resistere ad un’acquisizione di un gruppo di fuori regione, quale sarà in seguito la Banca di Roma. Quindi utilizzando la legge Sindona lo Stato inietta 3 mila e 600 miliardi di lire per ricapitalizzare il Banco di Sicilia-Sicilcassa attraverso Mediocredito Centrale che detiene ora il 40% delle azioni. Finalmente lo Stato italiano ha la maggioranza delle azioni del Banco (forse era questa la vera ragione dietro la spinta dello Stato ad acquisire la fallimentare Sicilcassa). Il Banco può essere ora definitivamente spolpato e consegnato alla Banca di Roma. L’ultimo passaggio avviene nel 2002. La rete bancaria del Banco di Sicilia viene fatta confluire nella Banca di Roma mentre la holding che ne detiene le azioni prende il nome di Capitalia. La Regione siciliana e la Fondazione Banco di Sicilia, che detenevano ancora il 39% del capitale del Banco si ritrovano ora azionisti di minoranza della holding Capitalia. Quindi il Banco risanato con i soldi statali contribuirà agli utili della Banca di Roma, che diventerà Capitalia e poi Unicredit. In conclusione la partecipazione al Banco di Sicilia è costata alla Regione siciliana 600 miliardi di lire in aumenti di capitale per una banca che ha spostato il suo centro decisionale prima a Roma e poi a Milano. Questo evento avrebbe meritato ben altra attenzione pubblica e mediatica.

LA DISTRUZIONE DEL SISTEMA BANCARIO AL SUD (PARTE II): LA BANCA POPOLARE DI BARI. Michele Di Pace il 23.09.2020 su movimento24agosto.it. Di Luca Lozupone. “La decisione di realizzare un’acquisizione resta sempre del vertice delle banche, la Vigilanza non può imporla”. È quanto affermato dalla vicedirettrice della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli, nel corso di un’audizione alla Camera dei Deputati il 9 gennaio 2020. Intercettazioni telefoniche e l’analisi dei fatti raccontano però una storia diversa. La domanda era il perchè Banca d’Italia avesse autorizzato alla Banca Popolare di Bari (BPB) di acquisire la Cassa di Risparmio di Teramo, mossa che provocherà la crisi irreversibile della banca pugliese. Non è la prima volta che Banca d’Italia finisce sul tavolo degli imputati in merito alla carente vigilanza bancaria negli ultimi anni. Veneto Banca, Banca Popolare di Vicenza e Monte dei Paschi di Siena sono gli esempi più lampanti. Si ricorda che, con l’introduzione dell’Euro, la Vigilanza bancaria è l’unico compito rimasto in capo a Banca d’Italia. La Popolare di Bari è stata una banca guidata, fin dalla sua fondazione nel 1960, dalla famiglia Jacobini e gestita secondo il modello di impresa familiare. Nel corso degli anni aveva accresciuto la propria penetrazione commerciale espandendosi in Italia meridionale e centrale anche grazie all’acquisizione di piccole banche locali e di sportelli di altre banche. Nell’aprile 2009, però, dopo che BPB acquisisce la Cassa di Risparmio di Orvieto la Banca d’Italia le richiede di astenersi da iniziative di ulteriore sviluppo. La ragione è che deve irrobustire il proprio assetto organizzativo e di controllo. O forse non si vuole una banca meridionale indipendente ed attiva che faccia concorrenza ai giganti tosco-padani. È proprio per venire incontro ai rilievi della Vigilanza che nel luglio 2013 viene nominato Luca Sabetta Chief Risk Officer con il compito di verificare, ed in caso bloccare, tutte le operazioni della Banca. A novembre di quell’anno si verifica un evento che avrebbe cambiato per sempre la storia della Popolare: subentra infatti ad un prestito di 480 milioni di euro che la Banca d’Italia aveva concesso alla Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas), la quale non era in condizioni ottimali essendo in amministrazione straordinaria (l’anticamera del fallimento) da 18 mesi. In pratica Tercas non sarebbe mai stata in grado di ripagare il prestito di quasi mezzo miliardo di euro e l’intera operazione appariva da subito come un favore di BPB a Banca d’Italia.

BANCA D’ITALIA BLOCCA L’ESPANSIONE DELLA POPOLARE BARI. ANZI NO, PER TERCAS SI PUÒ FARE UN’ECCEZIONE. La cosa stranissima ed inquietante è che BPB continua ad avere il vincolo alla non espansione da parte della Vigilanza. Infatti per effetto di questo stesso vincolo non ebbero esito un suo progetto di integrazione con un’altra popolare nel 2010 e l’acquisizione di una partecipazione qualificata in una finanziaria nel 2011 (fonte: Banca d’Italia – Domande e risposte sulla crisi della Banca Popolare di Bari). Quindi integrazione con un’altra banca popolare no, acquisizione di una banca in amministrazione straordinaria, prossima al fallimento, sì. Stranissimo ed inquietante. “La decisione di realizzare un’acquisizione resta sempre del vertice delle banche, la Vigilanza non può imporla” raccontava in sede istituzionale l’alta dirigente di Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli. Non sembra questo il caso. Le condizioni contabili e patrimoniali di Tercas appaiono subito drammatiche. “Abbiamo cominciato a ricevere dei rapporti riservati sulla situazione di questa banca [Tercas] perché quello che trovo qui è una situazione drammatica. Questi vanno cacciati tutti” disse l’allora amministratore delegato Vincenzo De Bustis al c.r.o. Sabetta riferendosi ai dirigenti della banca abruzzese. Il 25 novembre 2013 Sabetta riceve una presentazione in power point sulla situazione di Tercas in cui spiccano i 3,46 miliardi di euro di crediti deteriorati. La posizione di Sabetta, in qualità di capo del rischio, è quella di non approvare l’aquisizione. La BPB non hai i mezzi per integrare una Banca così problematica. Ma qui avviene il colpo di scena. Il 13 dicembre del 2013, infatti, De Bustis convoca Sabetta dicendogli che il Responsabile del Dipartimento di Vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, ravvisava un conflitto di interessi tra Sabetta e egli stesso poiché Sabetta e De Bustis avevano lavorato insieme in altre banche (Banca del Salento-Banca 121 e Monte dei Paschi di Siena). Barbagallo indicava quindi la necessità di una immediata risoluzione del conflitto di interessi. Sabetta aveva effettivamente lavorato con De Bustis, ma dodici anni prima ed in contesti diversi. Secondo un’intercettazione telefonica della Procura della Repubblica di Bari pubblicata sul sito fanpage.it sempre quel 13 dicembre De Bustis dice a Sabetta: “No, no, mo’ prima devo dire ‘sta cosa a te. No, in questa circostanza c’è un po’ di protezione in Banca d’Italia, no? Però non voglio creare casini a loro con... per un... proprio quisquilia, capito?” Ora sappiamo che De Bustis considera 4,36 miliardi di crediti deteriorati “quisquilia” e che Banca d’Italia guida l’operazione. Presumibilmente l’obiettivo della Vigilanza e del Governo era quello di costringere BPB a trasformarsi in società per azioni, azzerando il capitale dei soci dei soci, così come abbiamo visto nella distruzione del Banco di Napoli e Banca di Sicilia, per poi regalarla ad un gruppo bancario “nazionale” cioè tosco-padano. Piano che si sta velocemente realizzando. Quindi, senza Sabetta, l’acquisizione di Tercas può procedere spedita. Nel luglio 2014 Banca d’Italia autorizza l’operazione con un contributo di 330 milioni di euro del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, comunque insufficienti rispetto alla mole dei crediti deteriorati. Dobbiamo aspettare però il luglio 2016 affinché l’operazione vada in porto a causa della cattiva abitudine del governo italiano di concedere aiuti senza la preventiva autorizzazione della Commissione Europea. Infatti i 330 milioni di Euro erano stati considerati “aiuti di Stato” e pertanto bloccati. Con l’acquisizione di Tercas la situazione di BPB diventa sempre più preoccupante. Gli NPL (non performing loans) passano dal 14,8 al 21,8 percento nel corso del solo 2014 (fonte: Banca d’Italia). Anche l’aumento di capitale per 553 milioni di euro (fonte: Banca d’Italia) effettuato nel biennio 2014-2015 tra nuove azioni e emissioni di obbligazioni subordinate, il cui valore è andato ora distrutto, non saranno sufficienti a puntellare il capitale. Si tratta di sottoscrizione di capitale di rischio e di strumenti finanziari ibridi (cioè che in caso di necessità l’emittente può trasformarli da debito in capitale) da parte di ignari correntisti che vi investivano i risparmi di una vita. Colpisce, anche in questo caso, l’assordante silenzio della Vigilanza.

I PROBLEMI AUMENTANO. I revisori contabili (almeno loro) iniziano a mettere in risalto le criticità della Popolare. Nella relazione al bilancio del 2017, il primo che consolida le poste di Tercas, PwC riporta una sezione sugli “aspetti chiave della revisione contabile”. In essa vengono fatte minuziose considerazioni sulla valutazione dei crediti verso la clientela, recuperabilità delle imposte anticipate, riduzione di valore degli avviamenti. La relazione scrive anche dell’esplicita responsabilità degli amministratori per la valutazione dell’utilizzo del presupposto della continuità aziendale. È un vero e proprio campanello d’allarme. Probabilmente PwC lo fa anche per difendersi. Carmelo Barbagallo, il capo della Vigilanza tanto solerte nell’estromettere Sabella (“per conflitto di interessi”) che aveva ravvisato criticità nell’acquisizione di Tercas, tace. Tace l’intera Banca d’Italia, guidata da Ignazio Visco, che pure ha come unico compito quello della Vigilanza bancaria. Anzi alla fine del 2017 a Visco viene rinnovato dal governo Gentiloni il mandato della durata di sei anni di Governatore della Banca d’Italia. Evidentemente la bravura non passa inosservata. Banca d’Italia continua a non far pervenire segni di vita neanche quando il bilancio 2018 della Popolare registra una perdita record di 420 milioni di euro e PwC nella sua relazione al bilancio scrive di “incertezza significativa relativa alla continuità aziendale” e che “gli amministratori ritengono di poter confermare la sussistenza della continuità aziendale”. Seguono, come per il 2017, pagine intere relative alle “procedure di revisione in risposta agli aspetti chiave”, in cui PwC elenca tutti i controlli effettuati sulle poste contabili maggiormente critiche. Il revisore elenca i controlli effettuati per difendersi nel caso di problemi, ritenuti evidentemente imminenti. Infatti al revisore spettano i controlli, ma è la Vigilanza che deve prendere decisioni sulla base di quegli stessi controlli. Infatti Banca d’Italia ha dal 2015 il potere di rimuovere i vertici di BPB (art. 53-bis, comma 1, lett. e) del Testo Unico Bancario). Questo potere può essere esercitato anche nei confronti di esponenti che soddisfino i requisiti di idoneità previsti dalla normativa (art. 26 del TUB), ma che evidentemente non sono dei validi amministratori. Nel silenzio di Banca d’Italia De Bustis, che aveva lasciato BPB nel 2015, incredibilmente vi ritorna alla fine del 2018 come amministratore delegato. Carica che viene confermata nel luglio 2019. Nel frattempo il dissesto della Popolare aveva attirato l’attenzione della Procura della Repubblica di Bari che apre un fascicolo. Nel luglio 2019 il presidente Jacobini si dimette, ma a sostituirlo è il nipote Gianvito Giannelli. Secondo l’audio pubblicato su fanpage.it è proprio Giannelli che ancora il 10 dicembre 2019 (a pochi giorni dal commissariamento della Popolare) tranquillizza dirigenti e dipendenti spiegando che non c’è da temere il commissariamento perché “ci appoggia il mondo politico, e ci appoggia anche la Vigilanza”. Ottimismo condiviso da De Bustis che anche lui fatica a comprendere il non interventismo di Banca d’Italia. Infatti interviene a quella stessa assemblea dicendo: “Bontà loro, e per ragioni strategiche altissime, qualcuno ha deciso che la Banca debba sopravvivere”.

EPILOGO. Il 13 dicembre 2019 arriva infine quello che molti temevano: la BPB entra in una irreversibile crisi di liquidità e pertanto viene commissariata da Banca d’Italia con la nomina di Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari. Nel salvataggio interviene il Fondo interbancario di tutela dei depositi per 1,17 miliardi di euro e Mediocredito Centrale (Mcc, di proprietà del Ministero dell’Economia e Finanze attraverso Invitalia) per 430 milioni di euro. Il buco provocato dalla Popolare di Bari ammonta quindi a 1,6 miliardi di euro. Il Fitd, dopo aver ripianato le perdite e ricostruito il capitale, cederà le azioni a Mcc al prezzo di un euro. Mcc avrà alla fine il 97% del capitale mentre il 3% rimanente è stato assegnato agli attuali soci. Il 29 giugno 2020 l’assemblea straordinaria della Banca ha approvato l’aumento di capitale e la sua trasformazione in SpA, probabilmente fin dall’inizio vero obiettivo dell’operazione Tercas. Infatti in una SpA gli azionisti non possono opporsi all’ingresso di nuovi investitori, e la Banca diventa quindi contendibile. Nel giro di 18 mesi la ex-BPB, risanata e dotata di capitali freschi, si teme, sarà pronta per essere consegnata ad un gruppo bancario dell’asse Toscana Nord-Ovest.

ANALOGIE TRA BANCO DI NAPOLI, BANCA DI SICILIA E POPOLARE BARI. La fine del Banco di Napoli, Banca di Sicilia e Banca Popolare di Bari presenta delle caratteristiche comuni che possono essere riassunte qui di seguito:

Induzione da parte di Banca d’Italia di una banca di medie dimensioni verso scelte strategiche sbagliate (acquisizione di Sicilcassa per Banca di Sicilia e Tercas per la Popolare di Bari mentre per il Banco di Napoli si passa direttamente al punto successivo);

Azzeramento del valore delle azioni di soci o azionisti;

Iniezione di denaro pubblico (attraverso il Fitd, Mcc o Mef);

Svendita della Banca meridionale ora risanata e ricapitalizzata ad un gruppo bancario dell’area Toscana Nord-Ovest (Banco di Napoli a Bnl prima Banca Intesa poi, Banca di Sicilia a Unicredit, Banca Popolare di Bari a Monte dei Paschi di Siena?).

CONSIDERAZIONI FINALI. Notizie di questi giorni danno già adesso un’indicazione della strada che la ex Popolare seguirà nei prossimi mesi ed anni. Infatti il 15 settembre 2020 l’azionista statale Mcc ha nominato il bolognese Giampiero Bergami direttore generale. Bergami è stato fino all’agosto scorso vicedirettore di Banca Monte dei Paschi di Siena e proprio nel 2021 lo Stato (rappresentato dal Mef che ora ne detiene il 68%) dovrà uscire dal capitale della Banca senese, secondo gli accordi dell’Italia con la Commissione Europea. È naturale quindi pensare che la ex-Popolare, risanata e ricapitalizzata con soldi pubblici, e cioè di tutti, sarà svenduta a Mps, una banca moribonda e dissestata, caratterizzata da innumerevoli problemi di carattere gestionale, finanziario ed esistenziale. A chi sta a cuore Bari, la Puglia ed il Sud Italia non può e non deve rassegnarsi alla perdita di una Banca che è parte integrante del nostro territorio, della nostra vita e del nostro successo. La ex-Popolare di Bari deve avere la possibilità di restare indipendente e di contribuire al progresso economico dei territori in cui opera. Stupiscono il silenzio del sindaco di Bari Antonio Decaro, del presidente di regione Michele Emiliano, quasi che la Banca Popolare di Bari non faccia parte della nostra terra, del nostro lavoro e delle nostre aspirazioni. Vorrei che questo articolo abbia la più ampia risonanza possibile e che tutti noi facessimo qualcosa, per esempio contattando i parlamentari che ci rappresentano (di tutti i partiti e di tutti gli schieramenti) che hanno il potere di bloccare l’ennesimo furto bancario ai danni di una parte del Paese. Vorrei che a questa battaglia di civiltà si unissero i nostri amici veneti, a cui hanno sottratto nel corso degli anni Banca Antonveneta, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza, secondo dinamiche già viste in questa ed in altre sedi. Siamo in tanti ma non lo sappiamo.

·        A-Nazionalità ed Anti-Italianità. Ecco chi ha ucciso la nostra Patria.

"Il vero uomo è martire": polemiche per il messaggio del 4 novembre. Marco Ugo Filisetti, direttore dell’Ufficio regionale delle Marche, ha rivolto un pensiero agli studenti riprendendo un pensiero del filosofo Giovanni Gentile. Gabriele Laganà, Giovedì 05/11/2020 su Il Giornale. La scorsa primavera era finito al centro delle polemiche per aver impedito, con una circolare, ai presidi di rilasciare interviste ai tempi delle polemiche per la didattica a distanza. Sono passati diversi mesi e Marco Ugo Filisetti, direttore dell’Ufficio regionale delle Marche, è di nuovo sotto i riflettori. Il dottore, infatti, per celebrare la ricorrenza del 4 novembre, Giorno dell’Unità nazionale e Giornata delle Forze armate, ha rivolto un pensiero particolare ai suoi studenti. Rivolgendosi agli studenti delle scuole marchigiane Filisetti ha preso a prestito anche le parole di Giovanni Gentile, il filosofo e ministro dell’Istruzione ai tempi del Fascismo, contenute nel suo "Sommario della pedagogia" incentrando il pensiero su patriottismo, coraggio e sacrificio. "In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria, una gioventù che andò al fronte e là vi rimase. Una gioventù lontana dai prudenti, dai pavidi, coloro che scendono in strada a cose fatte per dire: "Io c’ero"", ha scritto Filisetti sul documento dell’Ufficio Scolastico Regionale per le Marche. "Giovani che vollero essere altro- ha aggiunto- non con le declamazioni, ma con le opere, con l’esempio consapevoli che "Un uomo è vero uomo se è martire delle sue idee. Non solo le confessa e le professa, ma le attesta, le prova e le realizza". Combatterono per dare un senso alla vita, alla vita di tutti, comunque essi la pensino". Un messaggio davvero particolare e d’altri tempi, questo di Filisetti, che si conclude con il "PRESENTE", parola scritta rigorosamente in maiuscolo e che è ricordata nel Sacrario di Redipuglia dove sono i resti di centomila soldati italiani della Grande Guerra. "Per questo quello che siamo e saremo lo dobbiamo anche a Loro e per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: PRESENTE!". Le parole cariche di amore per la Patria messe nero su bianco dal direttore dell’Ufficio regionale delle Marche non sono passate inosservate. Beatrice Brignone, segretaria nazionale di Possibile, ha chiesto alla ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina di intervenire sul dirigente regionale che "esalta nazionalismo e fascismo". "Ieri il dirigente scolastico regionale delle Marche, Marco Ugo Filisetti, ha inviato a tutti gli studenti della regione una comunicazione in cui elogia la guerra. Più esattamente lo spirito del nazionalismo e del fascismo per parlare della giornata delle Forze armate", ha affermato la Brignone. “Il documento- ha proseguito- oltre a essere inviato alle scuole per studenti e docenti, è stato pubblicato anche sul sito Usr Marche e lascia senza parole. La ministra dell'Istruzione, Lucia Azzolina, intervenga tempestivamente. Il contenuto di quella comunicazione è inaccettabile". La segreteria della Flc Cgil Marche stigmatizza con forza le affermazioni di Filisetti: "Nella nota non troviamo un passaggio sul ripudio alla guerra sancito dall’art. 11 della nostra Costituzione, non un accenno al differente ruolo svolto oggi dalle nostre forze armate, bensì una evocazione della guerra come fabbricatrice di senso della vita". Per il sindacato il dottore farebbe meglio, anziché citare il filosofo Gentile, a ricordare "questo breve passaggio del libro "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque: "Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro".

Perché si celebra il 4 novembre. Il 4 novembre è la Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate. In questo giorno, nel 1921, fu sepolto a Roma il milite ignoto. Matteo Carnieletto, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. La scena è ormai arcinota. Peppone, sapendo che don Camillo lo sta ascoltando, comincia a sbraitare contro l'esercito e il Re, che hanno mandato al massacro tanti giovani durante la Prima guerra mondiale: "Reclute! Ascoltate la voce del vostro popolo! Andate nelle caserme perché così vuole la barbara legge nemica dei lavoratori, ma dite chiaro e tondo a coloro che tentano di armarvi per combattere i fratelli proletari del grande paese che voi non combatterete! Dite che voi...". Don Camillo non ne può più. Sa che Peppone ha combattuto in trincea e che, anche se forse malvolentieri, ha fatto il suo dovere in battaglia. Vorrebbe far qualcosa, ma non sa cosa. All'improvviso il colpo di genio: vede un altoparlante e, quasi senza rendersene conto, fa partire L'inno del Piave. Bastano poche note per risvegliare i veri sentimenti di Peppone che, con una manata, si attacca al microfono: "Dite a coloro che ingannano il popolo, a coloro che diffamano il popolo, che i nostri padri hanno difeso la patria dall'invasore allora e noi siamo pronti oggi a tornare sul Carso e sul Monte Grappa dove abbiamo lasciato la meglio gioventù italiana. Dovunque è Italia dappertutto è Monte Grappa quando il nemico si affaccia ai confini sacri della Patria. Dite ai diffamatori del popolo italiano che, se la patria chiamasse, i vostri padri, ai quali brillano sul petto le medaglie al valore conquistate nelle pietraie insanguinate, giovani e vecchi si ritroveranno fianco a fianco e combatteranno dovunque e contro chiunque nemico, per l'indipendenza d'Italia e al solo scopo inseparabile del Re e della Patria". E poco importa che il re non ci fosse ormai più. Per Peppone, che quella guerra l'aveva vissuta, il 4 novembre era tutto questo. Erano i caduti, il Monte Grappa da difendere ad ogni costo, ma soprattutto era il Piave, il fiume su cui gli italiani, dopo la rovinosa ritirata di Caporetto, ottennero la vittoria che cambiò il corso del conflitto. Lì si assistette a quello che Mario Silvestri, autore di diversi libri sulla Prima guerra mondiale, definisce un vero e proprio "mistero". I fanti reagirono con forza inaudita. Secondo Aldo Cazzullo, autore de La guerra dei nostri nonni (Mondadori), il motivo è da ricercare nello spirito di quegli uomini preoccupati più per ciò che avevano alle loro spalle - famiglie e affetti - che per ciò che si trovavano davanti: "Non si combatteva più in terra straniera, per conquistare montagne dal nome slavo, il Matajur e il Kuk, per avanzare in campagne dove non si sentiva una parola in italiano, per prendere città italianissime - Trento e Trieste - in cui però nessuno era mai stato. Si combatteva la guerra di casa, per difendere una patria giovane, per impedire che anche alle altre donne venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave e del Grappa. Una guerra che ai nostri nonni, fanti contadini abituati a badare alla terra e alla famiglia, risultava quasi naturale. Se non giusta, inevitabile". Forse i nostri nonni (e bisnonni) non hanno mai letto Gilbert Keith Chesterton, ma di certo hanno messo in pratica i suoi insegnamenti: "Un vero soldato non combatte perché ha davanti a sé qualcosa che odia. Combatte perché ha dietro di sé qualcosa che ama". Questo fu - ed è ancora oggi - il 4 novembre. Come ci spiega il colonnello Fabrizio Giardini dell'Ufficio storico dell'Esercito italiano: "Non è facile immaginare le indicibili sofferenze di coloro che hanno combattuto, per anni, sulle Alpi o nelle trincee del Carso, lungo l’Isonzo o sul Piave, ma anche in Francia, Albania, Macedonia e Palestina. In questa ricorrenza, è giusto e opportuno ricordarne il sacrificio. Essi combatterono, caddero, o portarono per sempre il segno delle atroci ferite sofferte in battaglia per essere all’altezza di un giuramento prestato all’Italia e agli Italiani". L'Italia non si fece con il Risorgimento, che fu un progetto realizzato da pochi, ma con la Prima guerra mondiale. Fu quell'esperienza, drammatica e devastante, a unire il popolo italiano che, proprio il 4 novembre del 1921, si trovò unito attorno a un figlio comune: il "milite ignoto". "Il senso ed il valore di questo giuramento - ci spiega il colonnello Giardini - è rimasto immutato nel tempo, per sottolineare e rinnovare il profondo legame che unisce la realtà militare con quella della collettività nazionale". Oggi come ieri.

Riprendiamoci l'Amor patrio: il valore più nobile di tutti. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 03 novembre 2020.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Ci hanno rubato tutto: distrutta la Famiglia, eliminato Dio (almeno, quello nostro), la Patria ormai è una parola proibita, al massimo rimpiazzata col suo freddo, impersonale, corrispettivo al maschile: “il Paese”. Una parola che sa di economia, di Pil, di parmigiano reggiano, un eufemismo fuorviante, un po’ come chiamare “Genitore 2” la Mamma.  I tre motori che hanno prodotto per noi italiani (e per il mondo) quel fiotto interminabile di arte, cultura, eroismo, sapienza, poesia, bellezza, produttività, valori morali, tradizione, che conosciamo sono stati disattivati e portati allo sfasciacarrozze da chi ha sempre avuto interesse a svendere l’Italia, a trance, al miglior offerente. Un sabotaggio cominciato già negli anni ’60: un lavorìo disgregatore di piccole termiti industriose che hanno fatto del tradimento continuativo e "sottotraccia" la loro missione di vita nella politica, nella cultura, nell’arte, nell’informazione, nella scuola, ovunque. Un processo che culmina oggi visibilmente con i conati iconoclasti di chi vorrebbe eliminare le targhe intitolate a re e generali, di chi imbratta i monumenti ai caduti, mette le braghe alle statue classiche o stupra la lingua di Dante per “non turbare la sensibilità” di questo o di quest’altro. A permettersi di denigrare le basi della nostra CIVILTA’, un’armata aggressiva, sostenitrice di istanze che promettono un ordine mondiale “nuovo” -  ma nato già vecchio e muffito – e che finora non hanno prodotto niente, se non diritti senza doveri e grottesche censure, isterie che sanno solo distruggere, rimproverare, rimuovere, lamentarsi, creare  neologismi ridicoli come “matria”, “presidenta” o mettere l’asterisco al posto delle desinenze su aggettivi e sostantivi. Inaudito che nessuno ancora li abbia ammutoliti chiedendo loro: “Sì, quelli del Dio, Patria, Famiglia, hanno anche fatto alcuni errori nella storia, ma voi cosa avete fatto, cosa avete prodotto?”. Nulla. Ebbene, fra i tre valori fondativi della nostra civiltà, possiamo dire – senza timore di blasfemia - che l’amore per la Patria sia senz’altro il più nobile, per i motivi che illustreremo. Come è possibile, infatti, non amare la propria famiglia? Per quanto i familiari possano essere talvolta "difficili" e le responsabilità pesanti, i legami di sangue con i propri genitori, figli, fratelli sono fortissimi, naturali e istintivi. Il ritorno pratico e affettivo che una famiglia offre all’individuo è evidente: protezione, mantenimento, calore umano, amore, educazione, esercizio della sessualità coniugale, gioia della genitorialità, assistenza da anziani e il prolungamento della propria vita nei figli. E Dio? Se da un lato non è così palese la Sua esistenza - cosa che consente a molti di ignorarLo senza troppi rimorsi – certamente, per chi vi crede, per quanti sacrifici possa comportare, fornisce "in cambio" pace interiore, forza spirituale e, infine, la VITA ETERNA: un premio incommensurabile. Invece la Patria no: amarla è la COSA PIU’ DIFFICILE, più rischiosa, più dura, col minore compenso. Almeno a chi indossa un’uniforme, essa riconosce, al massimo, un grado, una decorazione, nei casi peggiori una linda croce di pietra o pochi caratteri di bronzo sul monumentino nella piazza del paese. Ai nostri soldati che vanno all’estero, qualcuno oggi si permette di dire che lo fanno per soldi, come dei mercenari. Vediamo quanti, fra questi critici, per gli stessi soldi, sarebbero capaci di mollare per sei mesi la propria famiglia e rischiare tutti i giorni di saltare in aria su un ordigno improvvisato o di essere colpiti da un cecchino. Tuttavia, amare la Patria non è solo appannaggio dei militari, ma anche di tutti coloro che fanno il loro DOVERE senza frignare continuamente, bravi cittadini che contribuiscono al bene dell’Italia, onorando un valore reale come la propria famiglia, ma allo stesso tempo spirituale come una religione, e che tuttavia richiede una consapevolezza, una maturità da Uomini adulti per essere compreso. La Patria è, infatti, la terra dei padri, il frutto di sacrifici enormi e di centinaia di migliaia di vite,  l’espressione della collettività nazionale in cui si riassumono i valori e gli interessi dei suoi concittadini. Non è qualcosa di facile, di immediatamente vicino come il fiato del proprio bambino o il soffio dello Spirito nel proprio cuore. La Patria è popolata da individui sconosciuti, che in alcuni casi sono perfino ignoranti, disonesti o poco apprezzabili. Quando la Patria chiama, non è per gettarvi le braccia al collo come un figlio piccolo, una madre, o una moglie, né per spalancarvi le porte dell'immortalità ultraterrena: di solito è sempre per una "fregatura", per un'emergenza sopravvivenziale. La Patria è laica e “anaffettiva” ed esige il più grande degli sforzi, quello di subordinare la propria individualità al bene collettivo, (mentre Dio e la Famiglia, al contrario, la esaltano al massimo). Primordiale tribù allargata, la Patria chiede di fare il tuo dovere anche se non condividi gli obiettivi che essa si è prefissata. L’amore per essa richiede quindi lo SFORZO SUPREMO, comporta l’intelligenza razionale più alta, il più nobile dei sentimenti e il più faticoso dei sacrifici, ben oltre qualsiasi ritorno ego-individualistico dai propri familiari o a beneficio della propria anima. La sua difesa “è sacro dovere del cittadino” recita l’art. 52 della Costituzione: oggi l’unico ideale trascendente, ma oggettivo, palpabile, che può unire laici e credenti, oltre che i nuovi italiani, è solo l’amore per la Patria. Riprendiamocelo perché è il momento giusto.

Monte Bianco, cresce la tensione tra Italia e Francia: Macron vuole la vetta. Macron in visita al Monte Bianco, sul ghiacciaio della Mer de Glace, il 13 febbraio scorso. L'ultimo motivo di attrito: due leggi a favore della biodiversità violano la sovranità italiana sul proprio territorio. Di Maio protesta formalmente: "Forte disappunto". La Repubblica il 21 ottobre 2020. Riguarda due misure di protezione del sito naturale del Monte Bianco adottate dalla prefettura dell'Alta Savoia il primo ottobre scorso il "forte disappunto" italiano espresso formalmente, su istruzione del ministro Luigi Di Maio, dall'ambasciata di Parigi alle autorità francesi. Il progetto era stato annunciato già il 13 febbraio dal presidente francese Emmanuel Macron, durante la visita del ghiacciaio Mer de glace. Si tratta di nuovi provvedimenti - in francese Aphn (arrêtés de protection habitats naturels) - create dal ministero per la Transizione ecologica e che mirano a "proteggere in modo specifico habitat naturali in quanto tali, indipendentemente dalla presenza di specie protette da misure normative". Un modo per "garantire una protezione efficace di alcuni ambienti rari che fino ad oggi non hanno beneficiato di uno strumento legislativo adeguato". Il perimetro dell'area protetta sul massiccio del Monte Bianco copre una superficie di 3mila 175 ettari e crea due zone: una centrale (pari all'80 per cento del totale) riservata alla pratica dell'alpinismo e dello scialpinismo, l'altra "di transizione", accessibile a tutti, escursionisti ma anche semplici turisti. Ma proprio nell'area centrale rientra anche la zona del ghiacciaio del Gigante, dove si trovano il rifugio Torino e la stazione "Punta Helbronner" della funivia Skyway, che parte da Courmayeur. Un territorio che l'Italia considera proprio. Le misure francesi hanno l'obiettivo di evitare le "derive osservate", come "l'atterraggio di un aereo" e di "un centinaio di parapendisti" sulla cima del Monte Bianco, ma anche l'"installazione di una Jacuzzi" e "l'ascensione da parte di persone non equipaggiate in modo sufficiente o mal preparate". Secondo l'Italia la linea di confine del Monte Bianco - e più in generale del massiccio - passa sullo spartiacque, mentre per la Francia sul Monte Bianco di Courmayeur, con il Monte Bianco interamente nel proprio territorio. Nel giugno 2019 un'ordinanza dei comuni francesi di Chamonix e Saint-Gervais aveva fatto divampare la polemica, dato che aveva esteso nell'area contesa tra i due Stati il divieto di atterraggio in parapendio su un perimetro di 600 metri attorno alla cima del Monte Bianco. A fine 2017 Google maps aveva rivisto i confini dell'area (che prima rispecchiavano la cartografia francese), delineando con linee tratteggiate la zona contesa. Alcuni mesi prima c'era stata una riunione tra le autorità dei due Stati durante la quale si era deciso che nessuno avrebbe intrapreso iniziative unilaterali in quelle aree. Il 4 settembre 2015 era scoppiato un 'caso' diplomatico quando il sindaco di Chamonix (Francia) aveva fatto bloccare con una transenna e dei lucchetti - poi rimossi da ignoti - l'accesso al ghiacciaio del Gigante, dal rifugio Torino, sotto la stazione di arrivo della funivia italiana Skyway, considerandolo nel proprio territorio. L'Italia fa riferimento al Trattato fra Regno di Sardegna e Impero francese (Torino, 24 marzo 1860) e alla Convenzione di delimitazione tra Sardegna e Francia (Torino, 7 marzo 1861) in esecuzione dello stesso trattato. La cartografia francese invece sposta il confine sul versante sud del massiccio per un'area di 82 ettari, rifacendosi a quelli sanciti con l'armistizio di Cherasco del 1796 dopo la prima campagna Napoleonica in Italia ed entrati - dopo una decisione unilaterale francese - sulle carte ufficiali a partire dal 1865.

"Ripristinare sovranità italiana". Esplode caso del Monte Bianco. In una nota il capodelegazione di Fdi, Carlo Fidanza, chiede che i vertici europei intervengano sulla questione dei confini del Monte Bianco. Gabriele Laganà, Martedì 20/10/2020  su Il Giornale. Nel passato l’annessione unilaterale compiuta da uno Stato di un territorio, seppur poco esteso, avrebbe portato alla guerra due Paesi. Oggi, per fortuna, la situazione è diversa. Le armi tacciono mentre a divampare sono le polemiche. Nella Ue si è creata una frattura tra Italia e Francia per la questione Monte Bianco. E le conseguenze possono essere imprevedibili, soprattutto perché ora saranno coinvolte le istituzioni europee. "Di fronte all’atto unilaterale delle autorità francesi che nelle loro cartografie hanno annesso alla Francia la vetta del Monte Bianco e alcune aree adiacenti, chiediamo che i vertici dell’Unione Europea intervengano. La vicenda sollevata dal Capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Francesco Lollobrigida, che ha correttamente richiamato il governo Conte a difendere la sovranità del territorio italiano, non può lasciare inerti i vertici di Consiglio e Commissione europea". È quanto dichiara in una nota il capodelegazione di Fratelli d’Italia, Carlo Fidanza. Il tema è delicato e si aggiunge alle tensioni tra il nostro Paese ed i cugini transalpini sul tema dei migranti. La cima del Monte Bianco a chi appartiene? I confini tra Italia e Francia nella zona del massiccio sono da tempo oggetto di una controversia internazionale riguardante la stessa cima del monte e la zona del Colle del Gigante - Punta Helbronner, di rilievo per l'Italia come punto di arrivo della funivia proveniente da Courmayeur e come sito dello storico rifugio Torino. Politica ed economica si intrecciano. Secondo un accordo del 1860, la sovranità di Punta Helbronner era stata concessa al nostro Paese. Questo nonostante storicamente essa appartenesse alla contea della Savoia passata alla Francia nell'ambito dei trattati risalenti all'unità d'Italia. Ma ciò ai francesi non è mai andata a genio. E così ora i comuni transalpini di Chamonix e St. Gervais hanno unilateralmente modificato i propri confini, facendo ricadere il rifugio Torino all'interno del territorio francese. La situazione è venuta alla luce nel giugno del 2019, quando le autorità transalpine hanno vietato l'atterraggio in parapendio in tutta la zona. A rendere pubblica la vicenda è stato un articolo su Libero, in cui si fa presente come i francesi riscuotano adesso tutti i proventi degli impianti di risalita e delle stazioni sciistiche della zona. In sostanza, gli accordi del 1860 sono divenuti carta straccia. La Francia unilateralmente si è annessa un pezzo di Val d'Aosta. L'attenzione su quanto compiuto dai "cugini" d’oltralpe la si è dovuta solo dopo un'interrogazione presentata dal deputato di Fdi, Francesco Lollobrigida. Nel documento è stato chiesto al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri in che modo si stava affrontando la vicende "per conoscere quali iniziative intendessero intraprendere per tutelare l'interesse nazionale e la sovranità dello Stato italiano nelle aree del Monte Bianco per supportare le istituzioni territoriali coinvolte nella gestione dei problemi amministrativi ed economici relativi alle attività turistiche, sportive ed alpinistiche che si svolgono in quelle zone nevralgiche per l'accesso al massiccio e alla vetta del Monte Bianco; per giungere alla definitiva risoluzione di un contenzioso diplomatico che si trascina ormai da oltre 70 anni, durante i quali l'Italia ha sempre subito le iniziative unilaterali ed arbitrarie delle autorità francesi". Lo scorso 12 ottobre è stato il sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Ivan Scalfarotto, a rispondere, a nome dell'esecutivo: "Il governo tramite l'ambasciata a Parigi ha subito proceduto a rappresentare formalmente e con fermezza alle autorità francesi, la tradizionale posizione italiana riguardo ai confini". Ma Parigi si è fatta beffe di noi. Per il governo transalpino quell'intesa del 1860 non rappresenta ad oggi una base giuridica di rilievo e di conseguenza i provvedimenti dei comuni francesi si inseriscono nel contesto di una disputa internazionale non ancora risolta. La questione non può finire qui. Nel documento, il capodelegazione di Fdi, Carlo Fidanza ha ricordato che "il rispetto delle sovranità territoriali degli Stati membri, la cooperazione transfrontaliera e i rapporti di vicinato sono tra i fondamenti dell’Unione e non possono essere violati unilateralmente da uno Stato membro senza che l’Ue intervenga". L’esponente del partito della Meloni ha garantito che "la delegazione di Fratelli d’Italia-ECR al Parlamento Europeo ha indirizzato una lettera alla presidente della Commissione Ue Von der Leyen e al presidente del Consiglio Michel". Mentre si aspetta Bruxelles, i comuni francesi si tengono rifugio Torino e i soldi proventi delle attività della zona. Un doppio smacco per l’Italia.

Ecco quali sono i territori che l’Italia rischia di perdere. Mauro Indelicato e Sofia Dinolfo su Inside Over il 25 ottobre 2020. Dalla montagna al mare, dalle Alpi al Mediterraneo, il territorio italiano è per eccellenza la maggiore espressione di un Paese adagiato tra due entità non solo geografiche ma anche culturali e identitarie. Eppure, tanto lungo le delimitazioni alpine quanto lungo quelle marine, esistono non pochi problemi. I confini italiani in alcuni punti non sono ben definiti. È una questione forse sottovalutata, ma concretamente reale e non secondaria: a quasi 160 anni dall’unità, sono diversi i fronti aperti con gli Stati vicini per la delimitazione delle frontiere.

Il caso del Monte Bianco. Di recente ha fatto scalpore la vicenda legata al rifugio Torino. Si tratta di un’importante struttura non lontana da Punta Helbronner, nei pressi del Monte Bianco. La questione riguarda quindi i confini tra Italia e Francia. Il 27 giugno del 2019 le autorità transalpine hanno vietato il sorvolo in parapendio della zona, una circostanza che ha iniziato a destare sospetti: perché i francesi hanno preso un provvedimento del genere in un’area ricadente in territorio italiano? Molto semplice: poche settimane prima i comuni di Chamonix e St. Gervais, ricadenti sul versante francese, hanno unilateralmente esteso i propri confini anche su Punta Helbronner. In tal modo è stata fatta propria la posizione storicamente sostenuta da Parigi e cioè che il rifugio Torino ricade in territorio francese. Nei mesi successivi un deputato di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, ha portato la questione in parlamento con un’interrogazione. Soltanto il 12 ottobre è arrivata una prima risposta dalla Farnesina, secondo cui l’Italia si è opposta a questa scelta unilaterale dei comuni francesi. In concreto però non sembrano essere stati fatti passi per dirimere la controversia risalente addirittura all’anno dell’unità italiana. In cambio infatti della Savoia, nel 1860 la Francia ha lasciato sovranità a Roma su Punta Helbronner. Per gli italiani quell’intesa è ancora valida, per i francesi invece no. E mentre la controversia va avanti, i comuni transalpini intanto intascano i proventi degli impianti sciistici della zona. Anche perché è proprio su Punta Helbronner che arriva la funivia di collegamento con la località turistica valdostana di Courmayeur.

Il rifugio alpino. Lungo il confine tra l’Italia e la Svizzera vi è una contesa fra le due Nazioni che ha a che vedere con la struttura denominata Guide del Cervino. Si tratta di un rifugio, con annesso ristorante, che si trova nel Plateau Rosa e capace di fruttare diversi milioni di Euro per il turismo valdostano. La struttura è divenuta oggetto di rivendicazioni da parte della Svizzera a causa dello scioglimento dei ghiacciai alpini e, in particolar modo, del Valtournenche . Quest’ultimo si è ritirato di circa 230 metri. Il nocciolo della questione deriva dal regolamento dei confini nelle Alpi, i quali vengono tracciati secondo “la direzione del verso delle acque”. Se il verso segue il lato italiano, una determinata struttura viene considerata appartenente all’Italia, se invece segue il lato svizzero, la stessa viene considerata sotto sovranità svizzera. È proprio questo modo di regolare i confini e l’arretramento del Valtournenche che ha fatto sorgere le pretese di Berna sul rifugio. Secondo Alain Wicht, sovrintendente alle frontiere elvetiche per Swisstopo, l’arretramento del ghiacciaio ha determinato un cambiamento nel verso dello scorrimento delle acque nella zona del rifugio verso la Svizzera e per tale motivo la struttura deve ritenersi appartenente al territorio elvetico. A questa tesi si oppone l’Istituto Geografico militare di Firenze, secondo cui il rifugio si trova senza dubbio in territorio italiano. Una commissione tecnica adesso sta cercando di definire i confini ma le operazioni non sono del tutto semplici. Berna è disposta a riconoscere la sovranità del rifugio all’Italia in cambio di 650 metri quadrati di territorio, lo stesso in cui si trovano il rifugio, il ristorante e la nuova ala della struttura in progetto. Ma da Roma è arrivato il no.

La contesa con l’Algeria dell’Italia sulla Zee. Dal 21 marzo del 2018 v’è una questione che ha portato l’Italia e l’Algeria a trattare in merito alla vicenda legata alla Zee, ovvero la Zona Economica Esclusiva. Quest’ultima è regolamentata dalla convenzione di Montego Bay, un documento che funge da base del diritto internazionale del mare e che la stabilisce entro le 200 miglia nautiche dalla linea di base dello Stato costiero. In quest’area la Nazione interessata esercita il diritto di gestione delle risorse naturali avendo anche giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fissa, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. L’Italia non ha mai stabilito i confini della propria Zee e, nel 2018, l’Algeria ha allargato i propri estendendoli fino alla Sardegna. Il caso sollevato dall’ex presidente della Regione Sardegna, Mauro Pili, è arrivato in Parlamento. Tra Algeri e Roma viene adesso portato avanti un dialogo diretto a risolvere le rivendicazioni dell’Italia. Nel dicembre del 2019 è stato depositato alla Camera un disegno di legge per istituire una Zee italiana. Prima firmataria è stata Iolanda Di Stasio, deputata del M5S che ad InsideOver ad agosto ha confermato il coinvolgimento trasversale da parte delle forze politiche: “La proposta di legge sulla Zee – ha affermato Di Stasio – ha ricevuto la piena approvazione da parte della Commissione esteri della Camera, con un appoggio trasversale che ne valorizza ulteriormente l’importanza strategica per il Paese e attendiamo dunque la calendarizzazione per il voto dell’Aula”.

Le controversie legate al trattato di Caen. Non è soltanto l’attuale mancanza della Zee a dare grattacapi all’Italia sul fronte dei confini marittimi. C’è un altro caso che riguarda ancora una volta i rapporti con i cugini transalpini. Nel marzo 2015, nella cittadina francese di Caen, Roma e Parigi hanno firmato un trattato con cui sono stati fissati i nuovi confini. In particolare, in cambio di alcune secche tra la Corsica, Capraia e l’Isola d’Elba, l’Italia ha ceduto alcune porzioni del mar di Sardegna e del mar Ligure. In un primo momento la firma del trattato non ha avuto eco mediatica. La situazione è cambiata nel gennaio 2016, quando il peschereccio italiano Mina è stato fermato dai francesi nella zona denominata “Fossa del Cimitero”. Si tratta di uno dei punti ceduti dall’Italia alla Francia:  “È un tratto di mare molto ricco dal punto di vista della pesca, con una vivace presenza proprio di gamberoni rossi”, ha spiegato nel suo blog l’ammiraglio De Giorni alcuni mesi dopo. Da qui le polemiche più importanti contro il trattato. Alcuni partiti, tra cui Fratelli d’Italia, Lega e M5S, hanno accusato l’allora governo Renzi di aver regalato tratti di mare molto pescosi alla Francia. Tuttavia la controversia è ancora in corso: il parlamento italiano non ha mai ratificato il trattato di Caen, che dunque ufficialmente non è in vigore. Le stesse autorità francesi, dopo aver sequestrato il peschereccio Mina, hanno chiesto scusa visto che i nuovi confini formalmente non esistono. La questione quindi non è stata risolta.

Ecco chi ha ucciso la nostra Patria. Marco Gervasoni, 29 luglio 2020 su Nicolaporro.it. Può sembrare assurdo evocare oggi l’interesse nazionale quando abbiamo un presidente del Consiglio che a Bruxelles chiede soldi e invoca “pietà” agli olandesi in nome dei “morti di Covid” (come se lo fossero stati sui campi di battaglia) oppure quando il più inetto ministro dell’Interno della storia unitaria (non era facile battere Alfano) fugge di fronte a immigrati tunisini con barboncino. Aveva forse ragione il giurista Salvatore Satta, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, quando tra il 1944 e il 1945 in De profundis lamentò la “morte della patria”? Però poi, nella prima repubblica, De Gasperi, Fanfani, Andreotti, Cossiga, Craxi, l’interesse nazionale l’hanno difeso. Anche per quello Tangentopoli fu organizzata, per distruggere una classe politica che sapeva tutelare l’Italia, e far posto a una nuova politica tecnocratica da un lato e post comunista dall’altro, che il senso della nazione non l’avevano mai coltivato, e che videro nell’adesione alla Ue un modo per sbarazzarsi finalmente della nostra nazione. Chi si oppose a questo progetto, Silvio Berlusconi, fu perseguitato in tutti i modi. E alla fine fu sconfitto. Eppure di interesse nazionale bisogna parlare perché senza nazioni noi non esistiamo, essendo la nazione lo spazio in cui le persone possono agire in comunità. E, come ha scritto il politologo Stephen Walt di recente su “Foreign Policy”, non certo un organo nazionalista, il XXI secolo sarà più che mai quello delle nazioni. Perciò bisogna assolutamente leggere il voluminoso rapporto sull’interesse nazionale prodotto dalla Fondazione Fare Futuro (Italia 20.20. Rapporto sull’interesse nazionale, Roma, Fondazione Fare futuro, 25 euro). Perché il primo concreto e realistico pericolo è quello che sparisca non solo la nazione ma con lei anche gli italiani, come scrive nella sua introduzione il senatore Adolfo Urso. E crisi demografica da un lato e progetti di grand replacement con gli immigrati dall’altro (come esplicitamente teorizzato da un partito come più Europa favorevole alla sostituzione etnica) ci dicono questa ipotesi tutt’altro che peregrina. Dal presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo all’ex ministro e ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, agli storici Giuseppe Parlato ed Ernesto Galli della Loggia, dal giurista Alessandro Mangia al generale Carlo Jean fino a Guido Crosetto, ognuno affronta, dal punto di vista delle proprie competenze e esperienze questo tema; come salvare l’Italia? Senza nulla togliere ai numerosi autori mi soffermo solo su gli interventi di due Giuli, Sapelli e Tremonti, Il primo punta l’attenzione sulle ragioni del declino economico, di quella che negli anni Ottanta era la terza economia europea. Secondo Sapelli, l’Italia è crollata da un lato perché, attraverso un golpe tecnocratico e giudiziario, le privatizzazioni hanno distrutto un sistema che, al di là degli eccessi, era virtuoso. E poi perché, a cominciare dal cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca Italia, nel 1981, è stato imposto all’Italia un’adesione alla integrazione europea che non poteva non comprometterla. Volendo istituire un ideale tribunale della storia, alla barra secondo noi dovrebbero andare Beniamino Andreatta, Tommaso Padoa Schioppa e Carlo Azeglio Ciampi, in ordine di responsabilità. Ma al di là dei singoli casi, è una fetta sempre più ampia di classe politica e dirigente che, a partire dagli anni Settanta, comincia a non sentirsi più come nazionale e di fatto ad agire consapevolmente o inconsapevolmente a favore di altri paesi, soprattutto la Germania (a parte i comunisti che lavoravano per l’Urss). Il grimaldello ideologico con cui giustificare  la sottomissione del paese fu la metafora del “vincolo esterno”, teorizzata dal governatore della Banca d’Italia, Menichella ma poi diffusa da Guido Carli, un personaggio troppo spesso monumentalizzato ma  la cui attività andrebbe valutata assai criticamente. L’a-nazionalità, se non proprio l’anti italianità , di un pezzo di classe politica e dirigente è il tema affrontato dall’altro Giulio, Tremonti che scrive delle diverse chiamate del straniero in Italia, la più clamorosa quella del governo Monti grazie a un presidente (post?) comunista come Napolitano. Oggi solo uno sprovveduto potrebbe pensare che gli eredi di Berlinguer, mai sentitisi italiani, e quelli di Andreatta, possano essere interessati a tutelare l’interesse nazionale, al di là delle parole. Quanto ai grillini, meglio stendere un velo pietoso. Compito, quello della difesa della nazione, che spetta perciò di diritto alle forze sovraniste. Che siano in grado di farlo, è però questione tutta aperta e da costruire: ma anche la lettura di questo volume potrebbe contribuire in parte a riempirla. Marco Gervasoni, 29 luglio 2020

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ma quale latrina?

Dagospia il 14 febbraio 2020. Robot domestici che aiutano nelle faccende di casa; mani artificiali che sostituiscono e hanno le stesse funzionalità di quelle naturali; rover spaziali che sono in grado di muoversi su qualsiasi terreno, fino ad arrivate alle macchine con le sembianze dei polpi per la pulizia dei fondali marini. Sono le 100 storie italiane da sud a nord che parlano di tecnologie pronte a migliorare la vita delle persone: innovazioni applicate alle attività quotidiane, alla sanità, all’industria e alla ricerca. Un volto inedito del nostro Paese che viene raccontato da Enel e Fondazione Symbola nel quarto Rapporto sull’innovazione Made in Italy “100 Italian robotics and automation stories”. Robot e automi fanno parte della vita di tutti i giorni, dalle attività domestiche a quelle industriali, con numeri mondiali in forte crescita. Basti pensare che il mercato ha raggiunto il valore di 16,5 miliardi di dollari e solo nel 2018 sono state consegnate 422mila macchine, con un aumento del 6% rispetto all’anno precedente. L’Italia è nel G7 della robotica piazzandosi in sesta posizione per numero complessivo di robot industriali installati (69.142 unità nel 2018), preceduta da Cina, Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti e Germania. Una voce forte che il nostro Paese fa sentire anche per numero di pubblicazioni scientifiche: sono infatti oltre 10mila, che la rendono sesta al mondo nella ricerca di settore davanti a Francia, Canada, Corea del Sud e Spagna. Un primato spesso poco pubblicizzato che rappresenta un fiore all’occhiello italiano come dimostrano le 104mila imprese cresciute del 10% in cinque anni, con 429mila addetti, diffuse in tutto il territorio. Milano guida la classifica con circa 12mila aziende e 110mila addetti; seguono Roma con 11mila imprese e 63mila addetti, Napoli con 5mila imprese e 13mila addetti, Torino con 5mila imprese e 25mila addetti e, con circa 2mila imprese tra Brescia, Padova, Bari, Bologna, Firenze, Monza e Brianza, Bergamo e Salerno.

Vittorio Feltri sull'Italia: "Ma quale latrina? Non siamo inferiori rispetto a nessuno, o quasi". Libero Quotidiano il 26 Gennaio 2020. Percepire non significa conoscere. Ciononostante si blatera quasi esclusivamente di temperatura percepita, che non è misurata dal termometro, trattasi di sensazione. Lo stesso vale per la corruzione, anche questa percepita. Si dice che l' Italia è marcia, piena di individui che danno e ricevono mazzette, vivono di sotterfugi, non pagano le tasse e via sputtanando. Per non parlare della delinquenza, la quale viene dipinta come un cancro che divora il tessuto sociale. Tutte panzane che ci rovinano la reputazione gratuitamente. La nostra Nazione è talmente sana da essere quella europea che registra il minor numero, in rapporto alla popolazione, di reati. Nel 2019, dati alla mano, dalle nostre parti le azioni delittuose hanno raggiunto il minimo storico. La sicurezza non è mai totale in nessun luogo al mondo, però da noi essa non costituisce una emergenza. Sono in costante calo gli omicidi (benché le mafie non siano state sconfitte), le rapine e perfino i furti. Non sto descrivendo la situazione del paradiso terrestre, tuttavia faccio notare che non siamo all' ultimo posto nella classifica della civiltà, ma in vetta o quasi. Dobbiamo smetterla di piangerci addosso e di autodenigrarci. Invece di percepire ciò che non esiste dobbiamo esaminare le statistiche che, sui grandi numeri, non sbagliano mai. La corruzione consiste in gran parte nel tentativo da parte della gente non di strappare un favore, bensì il rispetto di un diritto. Se ho bisogno di una Tac all' ospedale, l' impiegato mi comunica di tornare fra sei mesi. Per accelerare le tempistiche, dunque, metto mano al portafogli e allungo al funzionario 100 euro. Cosicché d' incanto ottengo l' appuntamento col medico che mi riceverà la prossima settimana. Questo non è un episodio corruttivo, ma una semplificazione nel mare della burocrazia più spietata e soffocante del globo. I femminicidi sono sempre troppi, d' accordo, eppure inferiori alla media continentale. Aumentano invece gli scandali negli ospizi, vecchi brutalizzati e addirittura torturati, tuttavia nessuno se ne cura. Gli anziani possono essere presi a calci nel culo impunemente, così i bambini negli asili dove non sono ancora state installate le telecamere. Il nostro problema non è provocato dal comportamento dei cittadini, piuttosto dalla politica incapace di proteggere le persone oneste e di tutelarle con una legislazione idonea. Quanto alla microcriminalità che turba la popolazione, giova ricordare che essa non è combattuta efficacemente dalle forze dell' ordine perché queste ultime sono frenate da disposizioni che proteggono i malviventi e demonizzano agenti e militari allorché agiscono con vigore. In altri termini, c' è più comprensione per i malfattori che non per chi li contrasta. La nostra patria non sarà l' Eldorado però neppure la latrina che emerge dai racconti di una informazione che distorce la realtà. E noi non saremo i migliori, ma quasi. Consoliamoci invece di sentirci inferiori. Inferiori a chi? di Vittorio Feltri

·        L'Italia è federale per natura.

L'Italia è federale per natura. È l'ora di prenderne atto. L'unificazione forzata continua a fare danni. Carlo Lottieri, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. Ci fu un tempo - non lontanissimo - in cui una vera «questione Nord-Sud» ancora non esisteva. La storia musicale della prima metà del Settecento, ad esempio, fu caratterizzata dal trionfo di due scuole, quella veneziana e quella napoletana, che hanno dato un contributo cruciale. Ascoltare i concerti di Antonio Vivaldi o le sonate di Domenico Scarlatti significa entrare in una civiltà nella quale i molteplici colori dell'Italia potevano esprimersi appieno. Vi era una comune koinè (perché scambi e intrecci erano ricorrenti), ma al tempo stesso ognuno poteva essere se stesso. Quando l'Italia fu conquistata dai Savoia e unificata anche da plebisciti fasulli, oltre che da un processo di nazionalizzazione che culminerà nel fascismo, essa è stata snaturata. Si è pure adottato un modello del tutto astratto di «società decente», a cui ogni parte della penisola doveva uniformarsi: anche se questo poteva comportare il dissolvimento di tratti essenziali. All'indomani del 1861 il socialista Pierre-Joseph Proudhon rileverà come quell'uniformità calata dall'alto stesse negando la realtà: soffocando il diritto di ogni popolazione ad amministrarsi da sé. Aggiunse che l'Italia era per sua natura federalista, e quindi variegata e plurale. Ovunque l'ideologia nega le diversità: da noi è stato il misticismo statolatrico mazziniano di tanti risorgimentali a portarci dentro una convivenza forzata che ha moltiplicato le incomprensioni, le tensioni, le ingiustizie. Se è sempre una buona cosa che ogni comunità sia di piccole dimensioni e si governi da sé, costretta a confrontarsi con le altre e ad allearsi con quanti possono contribuire ad assicurare la difesa, questo è ancor più vero per un'Italia che è stata segnata da una lunghissima storia di autonomie. Molte delle popolazioni che hanno popolato la penisola (dai greci ai celti, agli etruschi, ma anche le stesse popolazioni germaniche) hanno sempre pensato la comunità entro una logica locale e, in seguito, cittadina. E infatti l'Italia medievale fu una costellazione di comuni con caratteristiche assai difformi. Se oggi torniamo a riflettere sul contrasto Nord-Sud dobbiamo capire che esso esiste perché siamo stati cacciati a forza dentro un'Italia malamente unificata, quasi una copia minore della Francia prefettizia. Ma ora l'irruzione del virus ha obbligato a fare i conti con il fatto che le epidemie colpiscono sempre in maniera assai diseguale le società, anche se il Palazzo ha cercato di adottare soluzioni uniformi per problemi diversi: come se Milano fosse nella medesima situazione dell'Umbria, come se la Lucania fosse stata colpita quanto la Bergamasca. Il Covid-19 ha dunque finito per ricordarci che esistono - ed è bene che sia così! - tante Italie disparate, che per questa ragione hanno bisogno di trovare un assetto istituzionale che conceda a ognuna di loro di dotarsi delle regole adeguate. L'attivismo dei presidenti regionali e dei sindaci ha provato a interpretare questa necessità di rispondere alle differenti domande di cura e intervento, tutela della salute e necessità di ripartire. Lo stesso schema oppositivo, che contrappone il Settentrione e il Mezzogiorno, lascia il tempo che trova. In effetti, esistono vari Nord: il Tirolo che fa storia a sé, il Veneto erede della Serenissima e di una tradizione politica più che millenaria, Trieste quale universo del tutto peculiare, e via dicendo. E al tempo stesso ci sono molti Sud diversissimi e talune realtà - certamente la Sardegna, probabilmente anche la Sicilia - che non sono nemmeno riconducibili a quella dimensione, dato che le isole hanno sempre specificità proprie. La volontà di edificare un'unica legislazione unitaria e un potere sovrano sempre più invadente, nonostante l'esistenza di comunità così dissimili e desiderose di essere libere, ha generato questa reciproca diffidenza e tale fatica nel confrontarsi. Per superare questa situazione c'è allora bisogno di ripensare tutto con coraggio. Vi è la necessità di un nuovo patto costituente che veda protagonisti i territori: che lasci alle spalle la carta attuale e ci restituisca un ordine istituzionale più plurale, differenziato, rispettoso di tutti. 

"È fallito il metodo ridistributivo. La strada giusta è nell'autonomia". L'economista e filosofo disegna lo scenario post-virus: "Rafforzare il tessuto produttivo". Luigi Mascheroni, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. Lorenzo Infantino. Calabrese, economista, filosofo, Lorenzo Infantino è professore di Filosofia delle Scienze sociali alla LUISS di Roma e noto a livello internazionale per i suoi studi di ispirazione liberale. Con lui abbiamo parlato della situazione che la pandemia ha determinato nel Paese.

Professore, l'emergenza Coronavirus sta allargando ulteriormente il fossato tra Nord e Sud? I primi giorni della quarantena da Milano a Palermo tutti cantavano dai balconi l'Inno d'Italia. Ora il Sud vuole bloccare gli arrivi dal Nord e il Nord dà al Sud del razzista...

«È noto che, perlomeno nella loro fase iniziale, fenomeni come carestie, epidemie, terremoti determinano un'unificazione del corpo sociale, poiché c'è in gioco la vita di ciascuno. È la stessa situazione creata dall'esistenza di un nemico esterno. Ma è una situazione che non dura a lungo. Nel momento in cui il pericolo allenta la sua minaccia, o in cui i vari gruppi credono di potersi mettere in salvo autonomamente, le vecchie divisioni si riaffermano. Anzi, vengono esasperate da quell'alterazione cognitiva che accompagna sempre fenomeni del genere e che fa riemergere il tribalismo che c'è in noi».

L'emergenza crea molti conflitti a livello politico e sociale. Nord contro Sud, Stato contro Regioni, Regioni contro Regioni, sindaci contro governatori... Siamo di nuovo al trionfo del «particulare»?

«Non porrei in tal modo la questione. Possiamo considerare la crescita della civiltà come una lunga lotta contro le pulsioni più pericolosamente avverse alla convivenza sociale. È una lotta che non consente pause o distrazioni, perché non c'è nulla di acquisito una volta per sempre. Condividiamo tutti la stessa condizione di fallibilità. E, per quanto grandi possano essere le acquisizioni della scienza, la nostra ignoranza rimane sempre infinita. Le vicende di questi giorni lo dimostrano ampiamente. Dobbiamo quindi essere molto attenti. Quella della contrapposizione fra Nord e Sud è una via che, una volta imboccata, può condurre solo a ulteriori divisioni e frantumazioni o, come lei dice, al trionfo del particulare. I grandi maestri delle scienze sociali ci hanno insegnato che gli uomini sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Ciò che li migliora o che rende più produttivo il loro lavoro è l'adozione di norme di comportamento che cambiano la gamma delle possibilità e delle impossibilità di ciascuno. Se il divario fra le varie aree del Paese non è stato colmato dopo tanti anni di interventismo, ciò è dovuto all'ostinazione con cui la classe politica e le sue clientele hanno perseverato nella loro attività parossisticamente redistributiva, che produce l'opposto di quel che promette».

Il virus, con le sue conseguenze sanitarie, economiche e sociali, aumenterà la distanza tra Nord e Sud? E come?

«Bisogna pensare in termini diversi dal passato. Le logiche redistributive non hanno fin qui consentito il recupero delle aree economicamente meno sviluppate; e non lo faranno in futuro. Diversamente da quel che viene talvolta rozzamente detto, non si tratta di un'incorreggibile e genetica incapacità delle popolazioni meridionali. Un discorso del genere non è accettabile da alcun punto di vista. Bisogna avere chiare le condizioni che rendono possibile lo sviluppo economico. Occorre comprendere cioè che, nella misura in cui le politiche redistributive impediscono la crescita dell'imprenditorialità e del tessuto autenticamente produttivo, il problema non potrà essere superato».

In tutto questo, mentre Nord-Sud e Stato-Regioni si fanno la guerra, quale è il ruolo dell'Europa? Esce rafforzata o indebolita dalla pandemia? C'è anche una guerra tra partigiani del Mes contro patrioti dell'Eurobond.

«Penso che la discussione che riguarda l'Unione Europea risenta del tribalismo che ha colpito il dibattito relativo alle questioni interne. Il confronto ha avuto momenti assai poco gradevoli. È stato dominato dal tatticismo, da assurde preclusioni (l'incomprensibile rifiuto del Mes) e da esorbitanti pretese (l'immediata emissione di eurobond da parte un'Unione che non ha potestà impositiva diretta). È mancato un rilevante coefficiente di onestà intellettuale e, senza di ciò, non ci può essere quella passione civile che dovrebbe prevalere in situazioni come quella di oggi. La burocrazia europea non può piacere ad alcuno, se non a se stessa. Ma l'Europa sarà come noi vorremo. Non dipende dagli altri; dipende esclusivamente da noi. Quella europea rimane una grande idea. Il prezzo del suo fallimento produrrebbe una situazione catastrofica, che trascinerebbe nella miseria più nera gli strati economicamente più deboli. E contro ciò varrebbero assai poco le declamazioni di una classe politica chiaramente inadeguata.

Commedia All'Italiana. Esistono ancora i Settentrionali? Roberto Marino il 31 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. I maligni dicono che questa rivalità sia iniziata quando Vittorio Emanuele II e Garibaldi non avevano neanche fatto in tempo a girare i cavalli dopo la storica stretta di mano a Teano. È lì che è nato tutto: nordisti e sudisti, muro contro muro, fino a finire a “polentoni” contro “terroni”. Per la verità sono stati loro a cominciare: mille camicie rosse mandate allo sbaraglio, nascondendo la mano e le ambizioni sabaude del grande Piemonte, non sono una cosa da niente. E gli italiani? Ferite e lacerazioni non si risolvono con meno di due secoli. Il servizio di leva, le fabbriche e la televisione ci hanno provato a creare un popolo che avesse qualcosa in più in comune che la spartizione di una fettuccia di terra a spigolo nel Mediterraneo. E se un minimo di condivisione della lingua lo si deve alla Rai, il resto è rimasto più o meno com’era, pregiudizi, discriminazioni e insulti compresi. Poi da 30 anni in qua, sono arrivati quelli del Carroccio a rimestare le differenze e a scavare crepe, gettando sulla Questione meridionale anche una patetica e inquietante ombra razzista. Ma è teatro, solo teatro. Perché poi la Storia si prende le rivincite e rimette sempre le cose a posto. «Si è sempre meridionali di qualcuno», dice il professor Bellavista chiuso a lume di candela in ascensore con sciur Cazzaniga. E così 180 anni di pregiudizi incartati con la peggiore retorica padana, finiscono per diventare anacronistici. A forza di prendersela con i terroni, l’identità nordica è andata a farsi benedire. A Milano il cognome più diffuso sull’elenco del telefono è Hua, non proprio meneghino; e nella francofona Valle d’Aosta prevalgono quelli calabresi. Il mondo cambia sotto i nostri occhi e non aspetta nessuno, neanche quelli dei prati di Pontida con le ampolle dell’acqua del Po. Tra minacce di secessione, esibizioni di superiorità, presunzioni e ricchezze cumulate nell’ingiustizia delle spartizioni dei bilanci statali, il Nord si è ritrovato dentro l’incubo incredibile del coronavirus. I numeri sono dalla parte loro, ma l’identità? Esistono ancora i settentrionali? Certo che ci sono, ma sono minoranza. Quanti sono i torinesi, i milanesi, i veneziani, i genovesi di sangue puro da generazioni e generazioni? Pochi, una comunità sopraffatta in casa, malgrado tutte le misure e gli esorcismi per tenere a distanza gli «africani dello Stivale». Il Nord ha vinto tutte le battaglie ma ha perso la guerra con «gli inferiori». Ne sono consapevoli soprattutto i passeggeri e i guidatori del Carroccio. Cinema, teatro, televisione, letteratura parlano più dei vinti che dei vincitori. E così il riccone di provincia veneto o lombardo deve sorbirsi gli effetti e i prodotti di una cultura bollata come minore, insignificante, impalpabile. Rosicano, e come se rosicano. Gli alfieri della Lega più volte hanno stuzzicato l’argomento: basta con il terrone Camilleri o De Giovanni o Saviano. «Basta con queste storie che parlano una lingua che si fa fatica a capire». Bisogna pure comprenderli, poverini. Ma è andata così. I vinti si sono riscattati con i vincitori. Gli hanno lasciato le cifre del conto in banca e delle carte di credito. I numeri delle statistiche economiche, il ruolo di locomotiva dello sviluppo, i servizi più efficienti. L’agiatezza non sempre produce idee culturali, soprattutto quando è finalizzata a un edonismo fine a se stesso, senza neanche la spinta a chiedersi come e perché. Essere primi e accomodati nel benessere non produce sempre voglia di capire, crescere, raccontare. Il Nord è quasi sparito dalle storie, pur avendo i cinema, le librerie, i teatri e gli indici di lettura migliori. Il vecchio Sud ha rimontato il distacco sull’analfabetismo, ha saputo stringere i denti e imparare da chi ha accolto i suoi figli con la valigia di cartone. Si sono integrati, hanno orecchiato le cadenze e gli accenti. Fino a diventare una comunità che guarda al resto del paese. qualche volta, dall’alto in basso. Negli stadi di Torino, Bergamo, Verona, Brescia i cori contro i tifosi meridionali arrivano anche da altri sudisti trapiantati al Nord. La voglia di identità fa questi scherzi. La rivincita dei padani. Creare dai terroni i nuovi polentoni. Due Italie in una e non più una in due. Quando scompariranno dialetti, tradizioni, differenze, avremo forse gli «italiani», un Paese più omogeneo, ma chi ha detto che sarà anche migliore?

L'Italia è finita di Pino Aprile. Dopo lo straordinario successo di Terroni, Pino Aprile firma un libro infuocato, che irrompe con forza nel dibattito politico. Autorevoli studi e indagini dicono che, tra una manciata di anni, l'Italia, e forse l'Europa, non esisteranno più. Almeno come le conosciamo ora. Si spezzeranno per il fallimento della loro economia e non reggeranno alla spinta disgregatrice dei mercati finanziari. D'altronde, già oggi l'Italia non è più la stessa: grandi aziende, grattacieli, squadre di calcio appartengono a capitali stranieri. E unita, in realtà, l'Italia non lo è mai stata. Piuttosto, è il risultato di un'operazione scellerata di saccheggio e conquista, che ha distrutto il Sud. È questa la crepa, mai sanata, che si allargherà fino a inghiottire tutto l'edificio dell'Italia unita? O forse nelle tensioni e nelle divisioni gli italiani danno il meglio e lo smembramento sarà la nostra salvezza?

“L’ITALIA E’ FINITA. E FORSE E’ MEGLIO COSI’”: NUOVE VERITA’ NEL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE. Gennaro De Crescenzo su neoborbonici.it. “L’ITALIA E’ FINITA. E FORSE E’ MEGLIO COSI’”: NUOVE IMPORTANTI VERITA’ NEL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE. Pino Aprile analizza (da giornalista vero e spesso da storico vero) i fatti del passato e del presente del Sud (e anche dell’Italia e del mondo) e propone una sua soluzione dei problemi. “Tutto qui”, potremmo dire ma altro che “tutto qui”, se pensiamo che quelle analisi e quelle soluzioni molto spesso nessuno le ha fatte o prospettate e che si tratta (pur partendo dal passato) di analisi e soluzioni nuove.  Dico da sempre che nel mondo del meridionalismo si dovrebbe parlare di epoca pre e post-terroni per quante persone, da quel lontano 2010, sono state sensibilizzate su temi spesso sconosciuti. Il successo di Pino Aprile è in gran parte legato allo schema utilizzato nel suo best-seller, negli altri libri sul tema (da “Giù al Sud” al recente e importante “Carnefici”) e nel nuovo libro pubblicato qualche settimana fa: “L’Italia è finita. E forse è meglio così”. Pino Aprile non ha “la” soluzione per risolvere i problemi del Sud (si chiama “questione meridionale” e intere generazioni di politici e/o meridionalisti non sono riusciti a risolverla). Pino cerca “una” soluzione e la cerca alla luce di studi continui e di esperienze “sul campo”, nel confronto quotidiano che ha con i suoi lettori sui social come con le centinaia di conferenze in giro per l’Italia e per il resto del mondo (conosco poche persone in grado di percorrere tanti chilometri all’anno come Pino). I "nemici" di Aprile, allora (pochi, pochissimi , se rapportati agli incredibili numeri degli "amici" raccolti in questi anni), o non leggono i libri di Aprile (un'occhiata al web e alle copertine, un pizzico di pregiudizi, una buona dose di invidia o un poco di antico antimeridionalismo e siamo pronti!) oppure sono distratti: fanno evidentemente finta di lamentarsi per l'assenza delle fonti (eppure è facile: le mette all'interno del testo e non nelle note!) solo per l'incapacità di contrastarne le tesi (frutto in gran parte di ricerche personali o di quelle fonti, accademici alternativi "in primis"). Fanno evidentemente finta di contestare la validità di tante tesi senza entrare mai nel merito (spesso si tratta di opinionisti più o meno famosi che non sanno neanche dove sia il Sud) e senza mai proporre tesi alternative o, anzi, riproponendo tesi che hanno ridotto il Sud come sappiamo in 150 anni di colonizzazione e di questioni meridionali mai risolte e sempre più gravi con colpe che di certo non possono essere di Pino Aprile (non ha mai curato neanche l’amministrazione del suo condominio e non ha mai neanche cercato -pur avendo avuto non poche offerte- di diventare il “leader” dell’ennesimo partito meridionalista o della corrente meridionalista di qualche partito nazionale).

“Da un secolo e mezzo, i meridionalisti muoiono senza veder la fine della questione meridionale, nata in Italia, con l'annessione violenza del Regno delle Due Sicilie al regno sabaudo. L'Italia unita mi piace, ma alla pari; e la questione meridionale mi dispiace più di quanto mi piaccia l'Italia unita. Non voglio morire senza averne vista la fine (ho 68 anni e siamo longevi in famiglia, fatevene una ragione). Per cui: o finisce la questione meridionale o finisce l'Italia unita. E io ci voglio essere”. Qualcuno potrebbe mai contestare questa affermazione a meno che non sia un ministro o il figlo di un ministro italiano in carica o in “ex carica” dal 1860 ad oggi? Qualcuno potrebbe mai dire che non è vero che dal Sud “prima dell’unità non emigrava nessuno e che il Sud aveva i due terzi dei soldi di tutta Italia” o che in Italia esiste “una parte che insulta e si ritiene superiore e una parte che viene insultata e non reagisce più, perché dai e dai, si è convinta di esser inferiore”? E’ una falsità scrivere che “in Italia esiste una parte in cui costruiscono sempre più ospedali in cui accogliere malati costretti a emigrare, per curarsi e una parte in cui chiudono sempre più ospedali, onde costringere i malati a emigrare per curarsi; una parte in cui si pagano meno tasse e si hanno più servizi e una parte in cui si pagano più tasse per avere meno servizi e scadenti”? A meno che non siate direttori di nomina politica di un giornale o opinionisti più o meno “ufficiali” (e loro “seguaci” ignavi, ignari o più o meno consapevoli) o politici con responsabilità dirette o indirette (pure la passività è una colpa), qualcuno in buona fede potrebbe mai definire falsa la tesi secondo la quale “chiamare questo ‘un Paese’ è una presa in giro, una truffa che può durare solo finché non lo si sa o si finge di non sapere”? Del resto gli studi (anche internazionali) e i segnali (anche elettorali) che dimostrano la tesi di Aprile (la fine dell’Italia) non sono affatto pochi e solo chi non vuole leggerli, per pigrizia o per complicità, può far finta di nulla. Del resto la domanda è facile e la risposta dovrebbe essere altrettanto facile (un sì o un no): “è vero o no che la politica ‘unitaria’ ha scavato un solco quasi incolmabile fra le due macro-regioni, per concentrare ricchezza e infrastrutture solo in una delle due”? E’ vero o no che “l'Italia è il Paese occidentale che ha le più grandi disuguaglianze”? Non perdete tempo a cercare e ad affibbiare a Pino Aprile le definizioni più negative e (secondo voi) offensive (“terronico, terronista, neoborbonico, nostalgico, secessionista” ecc. ecc.) e dimostrate, se potete, che non è vero che “l’Italia ha il divario più duraturo del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito, diritti, salute, vita media...)”. Non accontentavi dei titoloni dettati dai governi di turno (“disoccupazione in calo, crisi finita” ecc.). Non accontentavi neanche delle statistiche nazionali che fanno di tutto per “coprire” i dati regionali e rassegnatevi all’idea che il Sud Italia è la zona più povera d’Europa e, purtroppo, Pino Aprile ha ragione… E sono in tanti, sempre di più, a porsi una domanda drammatica: “perché devo stare con chi mi ha derubato, mi deruba, mi insulta e mi ricorda a ogni passo che non mi vuole, dopo avermi  costretto a unirmi a lui a mano armata?”.  E qui non si tratta di essere anti-italiani e di spingere verso eventuali secessioni: la secessione è in atto da 150 anni e, come diciamo spesso, è in quella percentuale drammatica che riguarda i nostri giovani meridionali (che hanno la metà dei diritti, del lavoro, dei servizi, delle infrastrutture, delle occasioni e delle speranze di quelli del resto dell’Italia e dell’Europa). Qui si tratta di rendersi semplicemente conto di come sono andate le cose e di come continuano ad andare con la consapevolezza che “gli italiani si sentivano ed erano tali più quando, nel solco di storia, cultura e religione comuni, si ammiravano ed emulavano, in concorrenza, a volte armata, per le loro ricche diversità”. Ancora più chiara un’altra sintesi: “Il Paese si rompe, perché non lo si volle unire, ma assimilare. L'operazione non è riuscita”. Ai limiti del mondo pirandelliano, poi, è chi contesta ad Aprile (e magari ai neoborbonici) un dato inconfutabile: “in tutti i Paesi ci sono zone più ricche e più povere e lo Stato spende in queste ultime, più di quanto riceva”. E se “l’Italia è finita” è colpa di Pino Aprile che ci ha scritto un libro oppure di una Lega (sempre e comunque) Nord che governa da decenni e che nel suo statuto ha tra gli obiettivi la creazione della Padania (ed è quasi riuscita a crearla con la complicità periodica degli altri partiti)? E’ colpa di un libro o della prossima e bene avviata “secessione” del Veneto (e poi di Lombardia ed Emilia Romagna) finalizzata a distruggere quel patto di solidarietà nazionale a puri scopi economico-fiscali? E’ anti-italiano Aprile o chi offende il Sud ogni giorno con i suoi giornali (“Ci tocca mantenere un meridionale”, titolava Libero poche ore fa) o chi finge di ignorare quello che le regioni del Nord stanno facendo (con successo e anche in queste ore)? “Qual è il nuovo disegno del mondo? Quale il nostro posto, quello dell'Italia?”. Quello che emerge da questo libro non è una certezza ma una domanda, legittima, sacrosanta e che dovrebbe aprire dibattiti veri e possibilmente democratici. E se la vita media al Sud è diminuita di 4 anni rispetto al Nord (e a Napoli di 8) è colpa di Pino Aprile, dei meridionali che decidono di morire prima o di chi ha governato questo Paese? “L'alternativa è costruire un Paese veramente uno, ma il Nord non vuole e il Sud non ha più tempo di aspettare. E non si capisce perché il derubato dovrebbe ancora fidarsi del ladro” (e la frase dovrebbe campeggiare su strade e piazze del meridione d’Italia). “L'ingegneria istituzionale non risolve da sola; è utile solo in presenza di consapevolezza e volontà diffuse e condivise” è la risposta di Aprile a chi invoca anche da queste parti macroregioni o altri assetti istituzionali ed è una risposta che non possiamo non condividere sottolineando anche un altro aspetto evidenziato nel libro: sotto la spinta “emotiva” delle bandiere venete o lombarde qualcuno potrebbe pensare di “accettare la sfida” e di chiedere la stessa “autonomia” ma potrebbe cadere nella ennesima trappola: questo sistema oggettivamente nord-centrico, per continuare a “utilizzare” il Sud, potrebbe concedergli “autonomia” ma mai una vera “indipendenza”... Del resto è difficile per chiunque contestare il confronto tra i dati veicolati dai soliti Giletti o Del Debbio o Feltri di turno e quelli reali (idem per le questioni storiche con il supporto, magari, dei nuovi studi di accademici onesti e coraggiosi come Daniele, Malanima, Fenoaltea o Tanzi). Del resto è difficile minimizzare l’importanza di movimenti come quello neoborbonico (raccontato con i recenti articoli di Limes) o dei tanti che si battono per la verità storica diventando (lo ammise lo stesso Galli della Loggia tempo fa) “maggioritari” e creando non poche inquietudini sui fronti accademico/ufficiali impegnati in strenui e stressanti tour con convegni (tra di loro) per spiegare a se stessi e ai loro poveri alunni chi è Pino Aprile o chi sono i neoborbonici (guardandosi bene, ovviamente, dall’invitare sia il primo che i secondi). Non era facile affrontare temi che Aprile aveva già affrontato arrivando con un messaggio forte e chiaro sia ai lettori (magari post-terronici) “che sanno” e anche a quelli che “non sanno” e Aprile lo ha fatto con grande abilità (il libro è articolato e massiccio ma si legge con velocità e con piacere) guardando le cose da una prospettiva diversa da quella utilizzata nei libri precedenti (anche solo un occhio allo stile e ai contenuti dei finali dei capitoli vi fa capire perché Pino Aprile ha il successo che in tanti non hanno). Questa volta, tra l’altro, il Sud (dall’unità alle sue conseguenze passando per la Cassa per il Mezzogiorno fino ai drammatici dati attuali ignorati dagli intellettuali ufficiali troppo impegnati magari a combattere i “giorni della memoria“) non è l’unico protagonista del libro insieme a tante analisi e a tante tesi sulla nuova Europa e il nuovo mondo che stiamo vivendo e che forse vivremo. “L'Italia che proprio non riesce a essere unita, parrebbe avere tutto da guadagnare, rompendosi. Meglio, peggio? E che ne so: è una possibilità, è l'adeguamento al futuro e potrebbe darci sorprese. Per il Sud, peggio dell'ultimo secolo e mezzo, e soprattutto dei primi due decenni e degli ultimi due è difficile”. Una tesi, una possibilità, una sfida, una scommessa… Chiamatela come volete ma se ancora amate il Sud e, in fondo, l’Italia, non potete fare finta di non aver letto queste parole e non potete non leggere questo libro. Gennaro De Crescenzo

·        Un paese di inventori.

Italia e innovazione, richieste di brevetti in crescita più della media Ue. I dati relativi al 2019. A livello globale, nessuno come Huawei. La Repubblica il 15 Marzo 2020. Prima del coronavirus, perché ormai è chiaro che bisogna dividere la nostra epoca tra una fase pre e post virus, l'Italia aveva registrato una brillante performance per quel che riguarda l'innovazione. L'anno scorso ha messo a segno il quinto anno consecutivo di crescita di richieste di brevetti, in particolare nel settore dei trasporti e delle macchine utensili. E' quanto rileva l'European patent Office secondo cui sono salite dell'1,2%, sopra la media Ue dello 0,9%. Le 4456 domande inoltrate da società e inventori italiani sono guidate da quelle della Lombardia che scala di una posizione (da 13esima a 12esima), la classifica delle regioni europee. Fra le società la bolognese G.D. (sigarette) si è rivelata quella più attiva nella domanda di brevetti presentati a Epo, seguita da Pirelli (46), Prysmian (46), Chiesi Farmaceutici (42), Saipem (37), Leonardo (30), Istituto Italiano di Tecnologia IIT (27), Ansaldo Energia (25), Brembo (20) e Telecom Italia (20). Fca, Cnh e Stm non appaiono nella classifica perché domiciliate nei Paesi Bassi. A livello globale, con 3524 domande, Huawei è stata in assoluto la società con il più alto numero di richieste presentate a EPO nel 2019. Samsung si è posizionata al secondo posto mentre LG è arrivata terza. Le due società coreane sono tallonate dall'americana United Technologies e da Siemens, che, arrivata prima lo scorso anno, nel 2019 si è posizionata al quinto posto. Nel complesso, European Patent Office ha ricevuto richieste (che rappresentano un nuovo record assoluto) per più di 181 000 brevetti nel 2019, con un aumento del 4% rispetto al 2018. Di queste, solo il 45% delle domande era di provenienza dei 38 Paesi aderenti all'EPO mentre il 55% arriva da altre aree. I primi 5 Paesi per numero di richieste sono gli Stati Uniti (25% del totale), la Germania (15%), il Giappone (12%), la Cina (7%) e la Francia (6%) (Fig.: L'aumento delle richieste lo scorso anno è stato sostenuto soprattutto dalla crescita robusta della Cina, degli Stati Uniti e della Corea del Sud. Altro trend inconfutabile sembra essere l'ascesa delle richieste di brevetto nei settori della Comunicazione digitale e del Computer Technology, che riflettono l'importanza in rapido aumento delle tecnologie correlate alla trasformazione digitale.

·        Il Rapporto Italia 2020 dell'Eurispes e dell’Istat.

Indagine Eurispes: il 15,6% crede che la Shoah non sia mai esistita, erano il 2,7% nel 2004. Presentato il 'Rapporto Italia' 2020: diminuiti del 10% gli italiani favorevoli allo Ius Soli e uno su due si sente sicuro nella propria città. Il presidente Gian Maria Fara: "Si allarga la frattura tra il Sistema e il Paese, la politica intervenga". La Repubblica il 30 gennaio 2020. Dal 2004 a oggi aumenta il numero di chi pensa che la Shoah non sia mai avvenuta: erano solo il 2,7% oggi sono il 15,6%. Lo sostiene il 'Rapporto Italia 2020' dell'Eurispes. Risultano in aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche coloro che ridimensionano la portata della Shoah dall'11,1% al 16,1%. Secondo la maggioranza degli italiani, recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati, che non sono indice di un reale problema di antisemitismo nel nostro Paese (61,7%). Al tempo stesso, il 60,6% ritiene che questi episodi siano la conseguenza di un diffuso linguaggio basato su odio e razzismo. Per meno della metà del campione (47,5%) gli atti di antisemitismo avvenuti anche in Italia sono il segnale di una pericolosa recrudescenza del fenomeno. Per il 37,2%, invece, sono bravate messe in atto per provocazione o per scherzo. Al campione dell'Eurispes è stato chiesto quali affermazioni esprimono al meglio l'anima politica della maggioranza degli italiani. Trova un "discreto consenso" l'affermazione secondo cui "molti pensano che Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio" (19,8%). Con percentuali di accordo vicine tra loro seguono "gli italiani non sono fascisti ma amano le personalità forti" (14,3%), "siamo un popolo prevalentemente di destra" (14,1%), "molti italiani sono fascisti" (12,8%) e, infine, "ordine e disciplina sono valori molto amati dagli italiani" (12,7%). Oltre un italiano su quattro (26,2%) non condivide nessuna delle opinioni proposte.

Cittadinanza e immigrazione. Rispetto al 2010, sono diminuiti di oltre dieci punti gli italiani favorevoli allo Ius soli (dal 60,3% al 50%) e sono aumentati notevolmente i sostenitori più rigidi dello Ius sanguinis (dal 10,7% al 33,5%, quasi 23 punti in più). In calo anche gli italiani che si augurano che venga concessa la cittadinanza per chi è nato in Italia, purché educato in scuole italiane (dal 21,3% al 16,5%). Emerge dallo studio che un quarto degli italiani ha un rapporto negativo con gli immigrati e da uno su tre, vengono visti come una minaccia all'identità nazionale. Cresce anche la convinzione che gli stranieri tolgano lavoro agli italiani e per contrastare l'immigrazione clandestina l'ipotesi prevalente è "aiutiamoli a casa loro". Quattro italiani su dieci (40,3%) definiscono il proprio rapporto con gli immigrati "normale", quasi uno su cinque (19,4%) parla di reciproca indifferenza, il 14,4% di reciproca disponibilità, mentre un decimo trova gli immigrati ostili (10,1%), l'8,1% li trova insopportabili, il 7,7% afferma di temerli. Secondo il 45,7% degli italiani un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli immigrati è "giustificabile, ma solo in alcuni casi". Per quasi un quarto (23,8%) guardare con diffidenza gli immigrati è "pericoloso", per il 17,1% (+6,7% rispetto al 2010) è "condivisibile", per il 13,4% è "riprovevole" (-4,3% rispetto al 2010).

Sicurezza. Il 53,2% degli italiani ritiene di vivere in una città abbastanza (44,1%) e molto (9,1%) sicura; sul versante opposto, il 30,4% giudica la propria città come poco (26,3%) e per niente sicura (4,1%). Il Rapporto Italia 2020 dell'Eurispes aggiunge che, anche se con un dato che si discosta solo in parte dalle altre fasce d'età, sono soprattutto i giovanissimi (dai 18 ai 24 anni) a segnalare un livello basso di sicurezza nella città in cui vivono (complessivamente poco o per niente sicura per il 33,3%). Le Regioni del Centro (34,6%) e del Sud Italia (35%) raccolgono il numero più elevato di cittadini che ritengono di vivere in città non sicure. Al campione è stato chiesto se e come sia cambiata negli ultimi due anni la paura di subire reati. Nella maggior parte dei casi essa è rimasta invariata (68,5%), e dal confronto con le risposte fornite alla stessa domanda nell'indagine del 2019, nel 2020 si evidenzia un calo di quanti hanno visto aumentare la propria paura (dal 30% al 24,5%), in favore di coloro i quali ritengono che sia rimasta invariata (+9,4% rispetto al 2019). Resta, comunque, considerevole la percentuale di italiani che mostrano la convinzione del rischio di subire reati, dato che solo il 7% afferma che la paura sia diminuita, in calo rispetto al 10,9% riscontrato nel 2019.

Le misure del governo. Tra le misure attuate o proposte dal Governo le più criticate sono il reddito di cittadinanza con il 67,1% delle indicazioni negative e la Sugar Tax (67,4%); anche la Flat Tax incontra la disapprovazione della maggioranza (62,6%). Quota 100 è apprezzata da sei cittadini su dieci (59,2%) e un numero simile si esprime positivamente sull'autonomia delle Regioni (57,6%); conquista, anche se non in maniera netta, la tassa sulla plastica (51%). Quanto alla condizione economiche delle famiglie sebbene ci siano "lievi" segnali di ripresa la metà dei cittadini continua a 'polverizzare' i risparmi. Secondo la maggioranza degli italiani la situazione negli ultimi 12 mesi è rimasta stabile (37,9%), il 37,5% ha riscontrato invece un peggioramento netto o parziale. Circa un cittadino su dieci (14,3%) nota un miglioramento. Nelle isole il disagio di un'economia negativa - sostiene l'Eurispes - arriva al 72%, con una distanza con le altre aree geografiche del Paese che arriva a segnare un divario tra i 30 e oltre i 40 punti percentuali. Quasi la metà delle famiglie (47,7%) è costretta ad utilizzare i risparmi per arrivare a fine mese (+2,6% rispetto al 2019); ma crescono seppur di poco quelle che riescono a risparmiare (23,7%; +1,7%). Saldare la rata del mutuo rappresenta un ostacolo per il 34,1% degli italiani (+1,4%). Far fronte alle spese mediche è un problema per il 22,3% degli italiani (+1,2%). Almeno un italiano su dieci (11,9%) è caduto nelle maglie dell'usura non potendo accedere al credito bancario:erano il 7,8% nel 2018 e il 10,1% nel 2019.

Le preoccupazioni degli italiani: disoccupazione, tasse e ambiente. Dopo la disoccupazione (56%) e l'esosità delle tasse (39%), la tutela dell'ambiente è la terza preoccupazione degli italiani (37%). Tuttavia, solo poco più della metà (53%) acquista prodotti realizzati con materiali riciclati e solo uno su cinque adotta abitualmente comportamenti sostenibili. E' il quadro che emerge dal 32esismo rapporto dell' Eurispes, in cui viene ricordato che l'Italia è il maggiore produttore al mondo di beni di consumo di plastica: ogni anno 2,1 milioni di tonnellate di plastica vengono usati per imballaggi e il 76% di questi per il settore food & beverage. Istat, tornano a calare gli occupati a dicembre. Maxi calo per i posti fissi, record di precari. Più di un terzo degli italiani (34,7%) è disposto a ridurre i consumi quotidiani per limitare il riscaldamento terrestre (nel 2018 erano il 23%,); un altro terzo (33,2%) crede possa servire se lo fanno in tanti tutti i giorni (41,1% nel 2018,); l'ultimo terzo (32,1%) si divide tra chi crede sia un problema troppo grande da risolvere attraverso i comportamenti dei singoli (17%; nel 2018 erano il 20,2%), chi è poco disposto a cambiare le proprie abitudini (9,7%; nel 2018 erano il 10,1%) e chi crede non serva a niente (5,4%; nel 2018 il 5,6%). Per ridurre i consumi molti sono disposti a utilizzare lampadine a basso consumo (79,4%), ad acquistare prodotti privi di imballaggio in plastica (74,4%), a ridurre l'uso dell'auto privata (72,2%), a usare meno i condizionatori d'aria d'estate (71%), e a consumare meno acqua quando ci si lava (70,1%). Meno apprezzata la possibilità di rinunciare il più possibile ai viaggi in aereo (59,7%), insieme all'acquisto di pannelli fotovoltaici per la propria casa (63,2%).

I mezzi di comunicazione, la tv resta la più credibile. La Tv, anche se in calo, rimane sempre il mezzo più credibile per gli italiani, mentre i social non vengono considerati affidabili. La televisione, come mezzo per formarsi una opinione di voto, perde dieci punti in 10 anni e che un quarto degli italiani non si affida ai mezzi di informazione. Quelli che considerano ancora la televisione il mezzo più attendibile sono il 64,6%; seguono giornali radio (59,8%), quotidiani (55,3%), quotidiani online (51,1%), talk televisivi (42,4%), forum o i blog (41,1%) e social network (35,4%). Quasi tre italiani su dieci (28,6%) formano la propria opinione di voto sulla base delle informazioni che apprendono in Tv (anche se nel 2008 il dato era al 38,3%); un quarto (24,6%) non si basa su alcun mezzo, in quanto ha idee proprie. Pochi si affidano a Social (12,2%), quotidiani (10,1%), quotidiani on line (8,5%), radio e comizi dei candidati (5,2%). Ad influenzare maggiormente le scelte di voto sono i valori e le opinioni personali (32,6%) seguono la propria situazione economica/lavorativa (16,8%), la propria visione del futuro (14,8%), la situazione familiare (10,5%), la tradizione familiare (9,6%) e l'opinione di parenti ed amici (8,8%). Si allarga sempre più "la frattura tra Sistema e Paese" che "produce numerosi danni anche sul piano economico e mette in discussione la stessa tenuta sociale". È l'immagine delineata dal 32esimo 'Rapporto Italia 2020' dell'Eurispes. Una possibile via d'uscita la traccia il presidente dell'istituto Gian Maria Fara: "È necessario che la politica possa contare su fondamenta rinnovate" e, quindi, su una sua 'nuova' Costituzione. "Ci si confronta ormai - sostiene - con la mancata crescita del Paese che è divenuta strutturale, con l'imbarbarimento del clima del pubblico dibattito, con la sterile litigiosità che si rispecchia in un sistema dei media il quale si nutre più di elementi distruttivi che costruttivi, con l'inefficienza della Pubblica amministrazione, con i fenomeni endemici della corruzione, con l'illegalità diffusa, con la sostanziale irresponsabilità della classe dirigente". "I dati del rapporto Eurispes sono allarmanti. Dal 2004 a oggi gli italiani che negano la Shoah sono cresciuti dal 2,7 al 15 per cento. Il negazionismo continua a infangare la memoria di questa tragedia", ha commentato  il vice ministro dell'Interno Matteo Mauri. "Dobbiamo fare di più affinché le teorie negazioniste non trovino nuovo consenso. E' responsabilità di tutti noi non sottovalutare questi dati".

Vecchio, ma soprattutto poco istruito. Il Paese fotografato dall’Istat. su Il Dubbio il 15 dicembre 2020. Il rapporto anziani-bambini è di cinque a uno. Il 50,1 della popolazione ha la licenzia media, solo il 13,9% ha conseguito una laurea. L’Italia è un Paese sempre più vecchio. La conferma arriva dai primi dati del censimento permanente della popolazione diffusi dall’Istat. Tutte le classi di età sotto i 44 anni vedono diminuire il proprio peso relativo rispetto al 2011 mentre aumentano molto le persone dai 45 anni in su che passano dal 48,2% del 2011 al 53,5% del 2019. L’età media si è innalzata di due anni rispetto al 2011, da 43 a 45 anni. La Campania, con 42 anni, è la regione con la popolazione più giovane, seguita da Trentino Alto Adige (43 anni), Sicilia e Calabria (entrambe con 44 anni). La Liguria si conferma la regione con l’età media più elevata (49 anni). Anche nel 1951 la Campania e la Liguria erano la regione più giovane e quella più vecchia ma, per entrambe, l’età media risultava più bassa di 13-14 anni rispetto a quella registrata nel 2019. Il progressivo invecchiamento della popolazione italiana appare «ancora più evidente nel confronto con i censimenti passati», sottolinea l’Istat, spiegando che «il numero di anziani per bambino passa da meno di uno nel 1951 a 5 nel 2019 (era 3,8 nel 2011)»: anche l’indice di vecchiaia (dato dal rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e quella con meno di 15 anni) «è notevolmente aumentato, dal 33,5% del 1951 a quasi il 180% del 2019 (148,7% nel 2001)». Il comune più giovane è Orta di Atella, in provincia di Caserta, con una età media di 35,3 anni; quello più vecchio è Fascia, in provincia di Genova, dove l’età media supera i 66 anni. «Ancora l’anno non è finito ma una previsione fa pensare che quest’anno supereremo il tetto dei 700.000 decessi complessivi, che è un valore preoccupante perché l’ultima volta che siamo andati oltre questo numero è stato nel 1944, durante la guerra», ha detto il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo nel corso di Agorà su Rai 3.

Popolazione in calo, aumentano gli stranieri. Al 31 dicembre 2019 la popolazione censita in Italia ammonta a 59.641.488 residenti – circa 175 mila persone in meno rispetto al 31 dicembre dell’anno precedente, pari a -0,3% – ma risulta sostanzialmente stabile nel confronto con il 2011, quando si contarono 59.433.744 residenti (+0,3%, per un totale di +207.744 individui). È quanto merge dai primi dati del Censimento permanente della popolazione e delle abitazioni diffuse dall’Istat. Rispetto al 2011, i residenti diminuiscono nell’Italia meridionale e nelle isole (-1,9% e -2,3%), e aumentano nell’Italia centrale (+2%) e in entrambe le ripartizioni del Nord (+1,6% nell’Italia Nord-orientale e +1,4% nell’Italia Nord-occidentale). Più del 50% dei residenti è concentrato in cinque regioni, una per ogni ripartizione geografica: Lombardia (16,8%), Veneto (8,2%), Lazio (9,7%), Campania (9,6%) e Sicilia (8,2%). Il lievissimo incremento di popolazione residente in Italia rispetto a dieci anni fa è da attribuire «esclusivamente alla componente straniera». Nel periodo 2011-2019 la popolazione di cittadinanza italiana è diminuita di circa 800 mila unità (-1,5%) mentre i cittadini stranieri sono aumentati di circa un milione (+25,1%), senza considerare che sono più di un milione le acquisizioni di cittadinanza nel periodo 2012-2019 e che già al censimento del 2011 i cittadini italiani per acquisizione erano quasi 700 mila. I cittadini stranieri risultano in crescita in tutte le regioni della penisola, a eccezione della Valle d’Aosta, mentre sono solo quattro le regioni in cui aumenta anche la popolazione italiana: Lombardia, Lazio, Trentino-Alto Adige ed Emilia-Romagna. La popolazione residente diminuisce nei comuni con meno di 5 mila abitanti (-520.843 individui rispetto al 2011) e aumenta in tutte le altre classi dimensionali, soprattutto nei comuni tra i 50 mila e i 100 mila abitanti (+3,6%) e in quelli con oltre 100 mila abitanti (+2,5%). Questa dinamica è dovuta principalmente ai cittadini stranieri, la cui presenza aumenta in tutte le classi di ampiezza demografica. Gli italiani invece diminuiscono in tutte le classi di comuni, a eccezione di quella tra 50 mila e 100 mila abitanti La struttura per genere della popolazione residente si caratterizza per una maggiore presenza di donne. Nel 2019 le donne sono 30.591.392 – il 51,3% del totale – e superano gli uomini di 1.541.296 unità. Il Comune italiano più grande è Roma con 2,8 milioni di abitanti, quello più piccolo Morterone, in provincia di Lecco, con 30 abitanti. È quanto emerge dai primi dati definitivi del censimento della popolazione italiana rilasciati dall’Istat.

Lavoro e occupazione. In Italia tra la popolazione residente di 15 anni e più, le forze di lavoro ammontano al 52,5%, dal 50,8% del censimento 2011, mentre calano gli inattivi (47,5% da 49,2%). Gli occupati salgono al 45,6% dal 45,0% del 2011 (23.662.471 da 23.017.840). La quota di disoccupati passa invece dal 5,8% al 6,9%. Quote di occupati sopra la media nazionale (45,6%) si rilevano nelle regioni del Nord e del Centro. Le percentuali più elevate sono quelle del Trentino – Alto Adige (55,6%) e di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, con valori compresi tra il 51,7% e il 51,0%. Livelli più bassi si registrano principalmente nel Mezzogiorno, soprattutto in Campania (37,3%), Calabria (36,5%) e Sicilia (34,9%). Anche se di poco, aumenta anche la quota di donne occupate. Se nel 2011 la componente femminile rappresentava il 41,8% degli occupati (9.621.295), nel 2019 sale al 42,4%. La maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro è confermata dalla variazione intercorsa tra il 2011 e il 2019 che è stata per gli uomini pari a +1,7% (+233.895 unità) e per le donne di +4,3% (+410.736). Permane però lo squilibrio di genere, confermato anche dai livelli dei tassi di occupazione (37,4% contro 54,4% per gli uomini), disoccupazione (15,1% contro 11,6%) e inattività (56,0% contro 38,5%).

Istruzione: 14 laureati ogni 100 persone. L’anno scorso sono aumentate in Italia le persone in possesso di titoli di studio più elevati rispetto a otto anni prima. In particolare, si contano quasi 36 diplomati (31 nel 2011) e 14 laureati (11 nel 2011) ogni 100 cento individui di 9 anni e più mentre i dottori di ricerca passano da 164.621 a 232.833, con un incremento pari a più del 40%.  In particolare, i laureati e le persone che hanno conseguito un diploma di alta formazione artistica musicale e coreutica di primo o secondo livello rappresentano il 13,9% della popolazione di 9 anni e più. Il 35,6% dei residenti ha un diploma di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale; il 29,5% la licenza di scuola media; il 16,0% quella di scuola elementare. La restante quota di popolazione si distribuisce tra analfabeti e alfabeti senza titolo di studio (4,6%) e dottori di ricerca, che possiedono il grado di istruzione più elevato riconosciuto a livello internazionale (pari allo 0,4% della popolazione di 9 anni e più). Rispetto al 2011, diminuiscono, sia in termini assoluti che percentuali, le persone che non hanno concluso con successo un corso di studi (dal 6% al 4,6%) e quelle con al massimo la licenza di scuola elementare (dal 20,7% al 16,0%) e di scuola media (dal 30,7% al 29,5%).

·        L'onore offeso di Nassirya.

L'onore offeso di Nassirya. 4 Carabinieri superstiti alla strage denunciano come siano state concesse onorificenze a chi non ha avuto ruoli di rilievo e chi ha quesi perso la vita è stato considerato poco e male. Fausto Biloslavo il 17 gennaio 2020 su Panorama. Medaglie mai assegnate a chi le meritava, ma concesse ad altri soldati solo per aver fatto niente di più del proprio dovere. Benefici prima riconosciuti e poi tolti da un giorno all’altro. Promesse rimaste parole al vento. A 16 anni dalla strage di Nassiriya le ferite sono ancora aperte. Quattro carabinieri - che per sempre resteranno segnati dall’attacco kamikaze del 12 novembre 2003 - hanno inviato a Panorama una lettera aperta, un vero «J’accuse». Ricordiamo prima di tutto quell’evento tragico. La base Maestrale che ospita la sezione logistica della Multinational specialized unit (Msu) a Nassiriya, 360 chilometri a sud-est di Baghdad, viene colpita da un attacco terroristico. Un camion cisterna kamikaze con 300 chili di esplosivo scoppia davanti all’edificio base presidiato dai Carabinieri, forzando il cancello d’entrata e proseguendo la corsa sino alla palazzina di tre piani che ospitava il dipartimento logistico italiano. Prendono fuoco i mezzi militari parcheggiati nel cortile e anche il deposito munizioni: feriti e morti ovunque. Il bilancio delle vittime è di 28 morti, di cui 19 italiani e 9 iracheni, ai quali si aggiungono 58 feriti. Coloro che hanno scritto la lettera al nostro settimanale sottolineano che, subito dopo la strage, «tutti si sono affrettati, politici, importanti cariche dello Stato e generali, ad annunciare, (...), provvedimenti di promozione, medaglie e onorificenze per il “ruolo” svolto e come riconoscenza per le gravi ferite subite (…) Orbene, semplicemente nulla è accaduto!». L’appello è firmato da Vittorio De Rasis, Paolo Di Giovanni, Cosimo Visconti e Antonio Altavilla, quattro dei 19 feriti gravi dell’attacco. Per le vittime dell’attentato è stata realizzata la Croce d’onore attribuita ai caduti e a chi ha un’invalidità superiore all’80 per cento, come appunto tre dei quattro firmatari del «J’accuse» inviato a Panorama. «Nulla agli altri, ma nel corso degli anni senza destare attenzione sono state, invece, attribuite onorificenze e medaglie di alto valore a militari che hanno preso parte alla missione Antica Babilonia nelle varie fasi, ma anche ad alcuni presenti al momento dell’attentato del 12 novembre ancorché lievemente feriti o rimasti assolutamente indenni perché distanti al momento dell’esplosione» lamentano i carabinieri in congedo. Di Giovanni era nella palazzina al momento dell’esplosione, vicino al sottotenente Giovanni Cavallaro, che è deceduto. «Ho perso la funzionalità del braccio sinistro, una scheggia mi ha perforato il polmone e ho avuto un’emorragia interna. Non dimenticherò mai la distruzione e il terribile silenzio che ho trovato quando sono uscito dall’edificio» racconta a Panorama il brigadiere capo in congedo. Sul sito del Quirinale si può leggere l’elenco delle onorificenze concesse per la missione in Iraq. Ben 155 riguardano «An Nassiriya», ma quasi tutte sono elargite per fatti accaduti dopo la strage. «La lettura delle motivazioni è disarmante da parte di chi ha pagato con il sangue un contributo altissimo, talvolta ridicole e irricevibile risulta il tentativo di esaltare fatti o posizioni che chi ha operato sul territorio ben conosce e mai potrà credere a una scenata immensa» scrivono i carabinieri feriti nell’attentato. Così, medaglie al merito sono state concesse a chi portava «aiuti finalizzati alla ricostruzione della provincia di Dhi Qar e ad alleviare le sofferenze della popolazione locale» facendo semplicemente il proprio dovere «con generosa dinamicità», ma non certo sotto il fuoco. Un altro decorato ha ricevuto la medaglia al merito per la «grande capacità di coordinamento e controllo» dalla sala operativa - non in prima linea - durante uno scontro ingaggiato da un reparto della missione Antica Babilonia. I firmatari della protesta puntano il dito contro le onorificenze ad alti gradi che hanno «trasformato normale attività istituzionale in atto eroico». Al contrario, chi le ha concesse è rimasto «silente davanti a un solo e unico atto eroico appurato anche dal processo (per la strage di Nassiriya, ndr): quello del sacrificio del carabiniere Andrea Filippa che nonostante fosse certo della sua morte, a distanza di pochissimi metri dal camion (imbottito di esplosivo, ndr) in arrivo, ha aperto il fuoco ed evitato il totale crollo della palazzina e quindi la morte di tutti noi (…). Nessuno lo ha considerato per una medaglia al valor militare». Il luogotenente in congedo dell’Arma, Vittorio De Rasis, non si separa mai dalla foto che lo ritrae riverso sul cassone posteriore di un fuoristrada col volto insanguinato. Gli iracheni lo stanno portando di corsa all’ospedale in gravi condizioni. «Mi accade di rivivere l’incubo della strage almeno quattro, cinque volte al mese» dice. «Vedo i caduti come Filippo Merlino, che dopo l’esplosione mi si avvicina barcollando, ma non ce la farà. O l’amico Cosimo Visconti gravissimo, che è sopravissuto». E il militare ricorda molto bene i colpi sparati con l’arma in dotazione «da Andrea Filippa, che grazie alla sua reazione ha fatto esplodere prima il camion». A questo carabiniere hanno dato la Croce d’onore e la medaglia delle vittime del terrorismo, «che non sono paragonabili a quella al valor militare» lamenta De Rasis. I familiari dei caduti chiedono l’alta onorificenza per tutti. Nella lettera aperta a Panorama, i quattro soldati sollevano il velo sulle operazioni «combat» della missione di pace in Iraq, rimaste nascoste per motivi politici. «Situazioni di contrapposizione e guerriglia con elementi ostili, tutti documentabili (…) anche con foto e video che hanno lasciato morti e feriti a terra ma di cui non bisognava fare parola» si legge nel testo. De Rasis ricorda quando con la sua squadra è andato a liberare Enzo, un italiano legato ai servizi segreti che era stato arrestato dalla milizia del partito sciita Dawa al Islamya. La lettera aperta elenca ancora gli scontri maggiori, quasi tutti taciuti all’opinione pubblica. «Gli innumerevoli conflitti a fuoco avuti dalle squadre dell’Unità di manovra (acquartierata nella palazzina oggetto dell’attentato), l’attacco a diverse unità presso la sede del comando di polizia locale con l’incendio del mezzo dei carabinieri e del personale rumeno, la battaglia alla fabbrica del ghiaccio, la liberazione di ostaggi (…) fino allo scontro per il pagamento delle pensioni». E aggiunge un particolare scabroso sulla reazione degli iracheni: «Non possiamo dimenticare quanti il 12 novembre subito dopo l’esplosione, nonostante il persistere di un altissimo pericolo, si sono prodigati o solo hanno evitato di sparare sulla popolazione che si era riversata nella base non soltanto per aiutare ma anche per depredarla di tutto, comprese le armi dei colleghi ormai deceduti». I quattro carabinieri gravemente feriti si chiedono «perché tutto questo è stato cancellato? Perché solo alcuni sono stati insigniti dell’Ordine militare e delle medaglie (…) pur non avendo compiuto azioni di rilievo?». E dopo la memoria della strage, si riallacciano all’attualità: «Lo stesso meccanismo utilizzato nell’erogazione di encomi a pioggia solo per alcuni ruoli di “rilievo” è una prassi». Il riferimento è ai 130 encomi solenni, un record assoluto, concessi dal precedente ministro delle Difesa, Elisabetta Trenta. Roberta Pinotti, un’altra donna che ha guidato il dicastero, ne ha concessi solo una trentina in quasi cinque anni. Per Trenta non è mancato l’encomio «last minute» firmato il 5 settembre scorso, un attimo primo dell’arrivo del nuovo ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Destinatario è il colonello Francesco Greco, capo della Pubblica informazione e comunicazione, «per la preziosissima e leale collaborazione assicurata ai vertici del dicastero».

Greco viene citato dai feriti di Nassiriya nella seconda parte della loro lettera che parla dei benefici previdenziali prima concessi e poi cancellati. «A oggi è sceso un assordante silenzio, il colonnello Greco incaricato di seguire la cosa non risponde più al telefono e nuove richieste inviate al neo ministro della Difesa sono cadute nel vuoto» sottolineano i carabinieri. La beffa è chiara: «A un certo punto il ministero della Difesa decide (...) di non erogare più le pensioni privilegiate ai feriti, sostituendole con emolumenti privi di alcuni benefici che hanno costretto alcuni militari a dover restituire le somme percepite». Il governo Berlusconi le aveva concesse, ma poi nel 2010 le ha revocate per chi veniva gestito dalla Difesa, tagliando cifre che variano da 300 a 600 euro mensili a seconda del grado e dell’anzianità di servizio. A differenza dei feriti che sono di competenza dell’Inps. Nel 2018, «l’allora ministro della Difesa Elisabetta Trenta, sollecitata dalla presidenza della Repubblica, riceve alcuni militari a un tavolo tecnico per risolvere la questione» scrivono ancora i carabinieri. Uno dei partecipanti è Di Giovanni: «Dopo timide ammissioni di alcuni e risposte riluttanti di altri, si chiudono i lavori con la promessa di mettere fine all’evidente amputazione di benefici». Il tempo passa e il colonnello Greco viene indicato come referente, ma le promesse non hanno seguito. Di Giovanni commenta amaro: «Non ci si può permettere di prendere in giro chi ha pagato un prezzo sulla propria carne».

·        Toponomastica Partigiana.

"Senso unico" a sinistra. Le strane vie intitolate e poi quelle dimenticate. Omaggi a Iotti e Berlinguer, Togliatti e Marx. Niente per Bucalossi, Craxi, Miglio, Pannella. Alberto Giannoni, Mercoledì 26/08/2020 su Il Giornale. Perché Milano ricorda Ho Chi Minh e Marx e dimentica Pietro Bucalossi che è stato un grande sindaco? Perché non celebra anche il leader socialista Bettino Craxi, primo presidente del Consiglio milanese, oltre al segretario comunista Enrico Berlinguer, piuttosto estraneo alla città? E visto che a Palazzo Marino ambiscono alla parità di genere anche nella toponomastica, perché non danno corso all'idea di un parco-giochi o di una scuola col nome di Paola Bonzi, fondatrice del Centro per la vita della Mangiagalli, sicuramente più legata alla città di Nilde Iotti, che sarà omaggiata con un giardino al pari di Rosa Parks? Forse ci si è posti il problema di una «par condicio» di genere, e magari anche di un'equilibrata gratificazione delle tifoserie calcistiche cittadine, però la toponomastica politica resta sbilanciata verso sinistra. Una mozione per Bucalossi era stata proposta da Fabrizio De Pasquale (Fi) ma da allora è rimasta lettera morta. Così il primo cittadino che ottenne il pareggio di bilancio, l'oncologo, il deputato socialista-democratico aspetta invano, mentre altri personaggi riscuotono attenzione e celebrazioni. «È arrivato il momento di un po' di pluralismo - dice De Pasquale - le scelte di questa amministrazione sono a senso unico, pare che se non si è stati nel Pci non si possa ambire a niente. E invece è il momento di rendere omaggio alla grande tradizione repubblica e laica di Milano, e ci sono altre grandi figure che meritano, penso a Bernardo Caprotti, che è stato un grande imprenditore, ma penso che meritino un ricordo anche Cesare Romiti e Franco Zeffirelli, legato alla storia della Scala. E anche Marco Pannella è una figura importante, mentre per Craxi credo che purtroppo dovremo aspettare un sindaco più coraggioso e meno dipendente dagli starnuti di Beppe Grillo». Sui giardini Pannella - simbolicamente davanti a San Vittore - la giunta (compreso il radicale Lorenzo Lipparini) ha pasticciato non poco, inducendo i militanti dell'associazione Cazzavillan a procedere a una sorta di intitolazione fai-da-te. E qualcosa del genere accadrà il 3 ottobre anche in corso di Porta Ticinese, dove sorgeva la «Colonna infame». Parteciperà lo storico Gianluca Margheriti. L'antefatto è che diversi esponenti della politica e della cultura con una lettera al Comune (sottoscritta tra gli altri dall'ex sindaco Gabriele Albertini, dall'ex ministro Claudio Martelli e dall'ex deputato Lorenzo Strik Lievers) avevano chiesto due targhe: quella per Enzo Tortora sarà posta in via dei Piatti nel giorno del compleanno del giornalista-presentatore e deputato radicale (il 30 novembre), ma resta inascoltato l'appello per la targa dedicata alla «Colonna» resa celebre grazie all'opera di Alessandro Manzoni, quella che proprio Tortora volle accanto alle sue ceneri nell'edizione con prefazione di Leonardo Sciascia, grande scrittore «illuminista» e garantista. E a proposito, resta in sospeso anche l'omaggio a Sciascia, che pure l'assessore alla Cultura Filippo Del Corno aveva approvato. E un sì dell'assessore era arrivato (invano?) anche per la Brigata ebraica, che ebbe un ruolo cruciale nella Liberazione di Milano. Insieme alla tradizione laica e socialista, resta insoddisfatta l'aspirazione leghista per una via a Gianfranco Miglio, giurista, senatore, teorico di una feconda riscoperta del federalismo. All'idea di un ricordo di Miglio dette voce qualche anno fa Stefano Bruno Galli, oggi assessore regionale. In passato, d'altra parte, molto dovette battagliare la Gioventù liberale per ottenere una via dedicata a Giovanni Malagodi, prestigioso leader del Pli, presidente a più riprese dell'Internazionale liberale e ministro degli Esteri: alla fine ottenne solo un «passaggio», anche se centralissimo. Per passare dai liberali alla destra, nel 2016 l'iscrizione al Famedio - col via libera dell'allora presidente del Consiglio comunale, il «comunista Basilio Rizzo» - è stata concessa al deputato missino Franco Servello. A lungo è stato purtroppo volutamente «dimenticato» Sergio Ramelli, studente diciottenne che 45 anni fa fu ucciso barbaramente, solo per il suo orientamento politico, mentre tornava a casa col motorino. La attuale deputata Paola Frassinetti, allora assessore provinciale alla Scuola, ha fatto porre una targa. «Ma è nascosta - ha spiegato di recente - Io penso che Milano non possa non intitolare a Ramelli la sua scuola». Nel 2005 a questa giovane vittima innocente dell'odio politico furono intitolati dei giardini. E fu, quella di Albertini, una stagione in cui si ottenne un certo bilanciamento delle intitolazioni, basti pensare ai giardini per Montanelli, in corso Venezia, dove è stata collocata una statua del giornalista, che di recente è stata presa di mira da vandali politici e criticata anche da altri, a sinistra. No problem invece per la palazzina Liberty intitolata a Dario Fo. Ci sono Comuni d'altra parte Comuni con vie Togliatti, Lenin o Tito. Un gesto in grado di unire sarebbe riprendere in mano la proposta di un omaggio a Paola Bonzi, grande figura della Milano operosa e che aiuta. La aveva accolta con favore anche Pierfrancesco Majorino, eurodeputato del Pd («Sarebbe bello ricordarla dedicandole un luogo simbolico, capace di unire», aveva detto). Va anche dato atto al sindaco Beppe Sala, di aver mostrato grande attenzione per l'opera della fondatrice del Cav, che circa un anno fa è scomparsa ed è stata iscritta al Famedio. Forse l'idea di un parco o di una scuola merita di essere ripresa anche a Milano, come sta facendo Vanzaghello (un asilo nido) e come è stato proposto anche a Bareggio.

·        Paese di indigenti spendaccioni.

Economia. Crescita quasi zero, lavori malpagati, più debito: il 2020 sarà un altro "anno bellissimo". Tutte le previsioni delle istituzioni e dei centri di ricerca dipingono questo quadro per la nostra economia nel 2020. C'è solo una buona notizia: l'incubo spread sembra più lontano (almeno per ora). Vittorio Malagutti il 3 gennaio 2020 su L'Espresso. Lenta, lentissima, praticamente ferma. L’economia italiana gira con il motore al minimo e si prepara ad affrontare il secondo decennio degli anni Duemila senza una chiara prospettiva di sviluppo, stretta tra guai vecchi e nuove incognite. Insomma, si tira a campare. È questa, in estrema sintesi, la diagnosi sul futuro prossimo del nostro Paese che emerge dalla lettura delle previsioni sfornate nelle ultime settimane del 2019 dalle istituzioni internazionali e dai centri di ricerca. Nei prossimi dodici mesi la crescita del Pil si prospetta anemica come già nel 2019, l’anno che secondo un’infausta battuta del premier Giuseppe Conte, sarebbe dovuto essere «bellissimo». Gli analisti sono concordi nel sottolineare che la nostra economia continuerà a risentire della frenata del resto d’Europa, a cominciare dalla Germania, tradizionale mercato di sbocco di una fetta importante del nostro export. Il grafico della produzione industriale, in ribasso ormai da mesi, difficilmente invertirà la rotta, almeno nel breve termine. Intanto, non si vede la fine del tunnel neppure sul fronte dei conti pubblici: nella migliore delle ipotesi il debito subirà solo una minima limatura nel 2020, come pure nel 2021. La manovra di bilancio appena varata dal governo, infatti, incide solo marginalmente sullo stock accumulato negli anni, che ormai viaggia verso i 2.500 miliardi di euro. E i tagli sono comunque inferiori ai nuovi interessi da pagare. C’è una notizia buona, però, almeno una: l’allarme spread per il momento pare rientrato. È un passo avanti, certo, se non fosse che tra novembre e dicembre le zuffe continue dentro la maggioranza di governo hanno provocato nuovi ribassi delle quotazioni dei Btp. Siamo ancora distanti dai livelli della scorsa primavera, quando il differenziale di rendimento rispetto ai Bund tedeschi viaggiava verso i 300 punti. A metà dicembre però il tasso d’interesse offerto dai titoli di stato greci a dieci anni ha superato al ribasso quello sulle emissioni italiane di pari durata. Un fatto che conferma una volta di più la sfiducia dei grandi investitori internazionali verso Roma, che ormai fatica a reggere il confronto perfino con Atene, a lungo fanalino di coda della Ue. Rispetto al resto della zona euro, l’azienda Italia resta molto più esposta ai venti di tempesta causati da eventuali crisi sui mercati finanziari. E non potrebbe essere altrimenti vista la montagna di pagherò che sovrasta il Paese. Il rischio di uno shock globale appare tutt’altro che remoto. Negli ultimi anni, infatti, per effetto soprattutto delle politiche espansive delle banche centrali, Bce in testa, non ha mai smesso di crescere l’alta marea della liquidità, che ha tra l’altro alimentato una lunga fase di rialzi nella maggior parte delle Borse, a cominciare da Wall Street. Ecco perché sono sempre più numerosi gli economisti che mettono in guardia il mondo politico sulle possibili conseguenze dell’esplosione di questa bolla speculativa. Nella peggiore delle ipotesi finirebbe per andare in scena lo stesso copione del 2008, con crolli a catena sui listini azionari e obbligazionari. Lo sboom dei mercati potrebbe innescare una nuova pesante recessione dell’economia reale. E come è già successo un decennio fa, l’Italia si troverebbe in balìa delle onde. C’è un dato che ben illustra la debolezza del sistema Paese ed è quello relativo all’andamento del Pil, che tra il 2010 e il 2019 è aumentato solo dello 0,5 per cento. Come dire che nell’arco degli ultimi dieci anni la nostra economia è rimasta ferma, mente la Germania è cresciuta del 16 per cento circa, la Francia del 12 per cento e la Spagna del 10.

LA CRESCITA CHE NON C’È. Per avere i conti definitivi del 2019 bisognerà attendere ancora qualche settimana, ma le stime pubblicate di recente lasciano poco spazio all’ottimismo e confermano che l’economia nazionale ha continuato a viaggiare con il freno a mano tirato. Nei 12 mesi appena trascorsi il Pil è cresciuto a un ritmo ancora inferiore rispetto al già deludente 2018, che si era chiuso con una crescita dello 0,8 per cento per effetto soprattutto della frenata del terzo e del quarto trimestre, in calo rispettivamente dello 0,2 e dello 0,1 per cento. Le analisi dei principali centri di ricerca, dall’Istat a Bankitalia, sono pressoché unanimi nel fissare intorno allo 0,2 per cento l’incremento del Pil nel 2019. Ci sono però i pessimisti, come il Fondo monetario internazionale e il Centro studi della Confindustria, che hanno misurato una crescita zero. Fin qui, in attesa del dato definitivo, i numeri per l’anno scorso. Niente di esaltante, come abbiamo detto, ma se il peggio può dirsi passato e nel breve termine non c’è il rischio di una recessione, ancora non si vede nessuna reale inversione di tendenza. Nel 2020 il Pil aumenterà infatti di un misero 0,6 per cento, secondo l’ultimo aggiornamento delle previsioni del governo e quelle dell’Istat, ma la Commissione europea, per esempio, vede un incremento ancora inferiore, non più dello 0,4 per cento. Questo significa che l’Italia continuerà a perdere terreno rispetto al resto della zona Euro, che nonostante la recente revisione al ribasso delle stime formulate da Bruxelles, dovrebbe comunque far segnare una crescita dell’1,5 per cento. In base a queste previsioni, le maggiori economie del continente continueranno a viaggiare a velocità quasi doppia rispetto a quella di Roma: la Germania, reduce dalla brusca frenata del 2019 (più 0,4 per cento), arriverebbe all’1 per cento, alle spalle di Francia (1,3 per cento) e Spagna (1,5 per cento). Come si spiega la calma piatta dell’economia italiana? Sul futuro prossimo pesa soprattutto l’estrema incertezza del contesto internazionale a cui vanno sommati anche i dubbi sulla durata del governo Conte bis. In altre parole gli imprenditori navigano a vista e riducono gli investimenti perchè temono possibili sviluppi negativi nel breve termine. I dati più recenti confermano del resto che il rallentamento dell’economia globale si è già fatto sentire pesantemente sul sistema delle imprese tricolori. A ottobre, secondo quanto segnalato dall’Istat, la produzione industriale è diminuita per l’ottavo mese consecutivo. Nei primi dieci mesi del 2019 l’indice ha fatto segnare un calo dell’1,2 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E se si guarda indietro ai numeri antecedenti la crisi esplosa con il crack finanziario globale del 2008, si scopre che in poco più di un decennio è andato in fumo addirittura un quinto della produzione industriale: il calo dal 2007 è stato pari al 22 per cento. Al momento sembra quantomeno improbabile che l’azienda Italia riesca a ripartire di slancio. Il contesto internazionale descritto dagli analisti non è certo quello più adatto per trainare una eventuale ripresa. Dopo molti e bassi, le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina si sono ridotte nelle ultime settimane, ma restano per esempio le nubi nere sulla Germania, costretta ad affrontare le crescenti difficoltà del settore automobilistico, a cui sono legate a doppio filo decine di aziende dell’Italia del Nord. In ottobre, secondo le statistiche della Commissione di Bruxelles, la produzione tedesca era andata in rosso addirittura del 6,3 per cento su base annua. Con la locomotiva di Berlino in grave difficoltà aumentano i guai anche per le esportazioni nostrane. “L’export procede a strappi”, si legge nel rapporto pubblicato a dicembre dal Centro studi della Confindustria. E un’analisi di Banca Intesa segnala che nel complesso i distretti industriali italiani, nonostante la fase di difficoltà dell’economia globale, nel 2019 hanno visto nel complesso aumentare le loro vendite all’estero dell’1,9 per cento nei primi nove mesi del 2019, con risultati d’eccellenza come la crescita del 50,6 per cento nelle vendite oltrefrontiera di pelletteria e calzature prodotte nell’area di Firenze. In definitiva, però, il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil sarà quasi nullo nel 2020, non superiore a un misero 0,1 per cento. È questa la previsione del governo formulata nel Nadef, la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza pubblicato in ottobre. Va meglio per quanto riguarda la spesa delle famiglie, che secondo l’Istat dovrebbe crescere quest’anno dello 0,6 per cento. C’è poco da festeggiare, però, visto che nel 2019 l’incremento era stato dello 0,8 per cento. Rallentano, e di molto, anche gli investimenti che, secondo le previsioni di Banca d’Italia, nel 2020 aumenteranno nel complesso non oltre lo 0,4 per cento, a un ritmo quindi di molto inferiore a quello registrato nell’anno appena concluso, quando la stessa voce statistica aveva fatto registrare una crescita del 3,1 per cento.

PIÙ LAVORETTI PER TUTTI. Il 2018 si era chiuso con l’allora vicepremier Luigi Di Maio che garantiva «nessun esubero» in Alitalia e annunciava orgoglioso che il caso Ilva «aperto un decennio fa è stato chiuso in soli tre mesi e mezzo» grazie al governo Cinque stelle-Lega. A un anno di distanza da quelle incaute dichiarazioni, le due storie simbolo della crisi industriale italiana sembrano ben lontane dall’ultimo capitolo e il governo che prometteva «soluzioni di mercato» per entrambe ora è costretto ad ammettere che il doppio salvataggio sarà impossibile senza l’intervento diretto dello Stato nel capitale. Nel frattempo, al ministero del Lavoro si accumulano i dossier sulle aziende in grave difficoltà: sono 149, una dozzina in più rispetto a un anno fa, con oltre 200 mila dipendenti che rischiano il posto di lavoro. I numeri fin qui citati non autorizzano grande ottimismo, almeno nel breve termine, eppure gli analisti sono concordi nel prevedere un calo della disoccupazione nei prossimi due anni. Nulla di eclatante: secondo le stime della Banca d’Italia, la percentuale dei senza lavoro che a gennaio del 2019 fa viaggiava intorno al 10,5 per cento e già nel settembre scorso (ultimo dato disponibile) si era attestata intorno al 10 per cento, nel 2020 dovrebbe calare ancora fino al 9,7 per cento per arrivare al 9,4 per cento nel 2022. Anche la percentuale degli occupati, storicamente molto più bassa nel nostro paese rispetto alla media dell’Unione europea, continua ad aumentare, tanto che il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, in una recente intervista a “La Repubblica” ha dichiarato che il governo punta nel 2020 a raggiungere un tasso di occupazione del 60 per cento. Un traguardo che appare ormai a portata di mano: l’ultimo dato rilevato dall’Istat (settembre 2019) era pari al 59,4, in netta crescita rispetto al 58,6 per cento di un anno prima. Difficile non notare, a questo punto, che l’incremento nel numero dei posti di lavoro avviene in una fase di stagnazione del Pil. In sostanza, il Paese ha smesso di crescere ma aumentano le occasioni di impiego. In realtà, spiegano gli analisti, c’è stata una «diminuzione dell’intensità dell’occupazione». In parole povere significa che un gran numero di rapporti a tempo pieno è stato sostituito da impieghi part time. E questi ultimi, come spiegano Ivana Fellini e Roberto Reyneri in un articolo per “lavoce.info”, rappresentano una scelta di ripiego da parte di lavoratori che non sono riusciti a trovare un’occupazione a tempo pieno. «La forte diffusione del part time involontario – scrivono i due studiosi – è un ulteriore segnale della grave debolezza della domanda di lavoro». È vero quindi, come certificano le statistiche, che l’occupazione è aumentata ma buona parte di questa crescita si spiega con quelli che vengono di solito qualificati come “lavoretti”: contratti spesso malpagati da poche ore al giorno o della durata di qualche mese in corso d’anno. Nulla lascia pensare che questa tendenza, consolidata nel periodo della grande gelata dell’economia dopo il 2008, verrà in qualche modo corretta nel breve termine. In altre parole la “quota 60” annunciata dal ministro Gualtieri forse verrà raggiunta, ma il mercato del lavoro cresce soprattutto grazie agli impieghi part time.

ALLA ROULETTE DELLO SPREAD. Le buone intenzioni non bastano per tagliare il colossale debito pubblico che incombe sul sistema Italia. Il governo Conte bis nelle scorse settimane ha messo nero su bianco il suo piano: nel 2020 il rapporto tra debito e Pil dovrebbe calare di mezzo punto rispetto al 2019, da 135,7 al 135,2 per cento, per poi scendere ancora al 133,4 nel 2021. Dopo anni di promesse non mantenute è però comprensibile che i nuovi impegni di Roma vengano presi con le molle dai partner dell’Unione europea. E infatti è proprio Bruxelles a disegnare un quadro ben più pessimistico sul futuro dei nostri conti pubblici. Nel documento del novembre scorso dedicato alle prospettive economiche dell’Italia si legge che «il debito sembra destinato ad aumentare nei prossimi anni». Tradotto in numeri significa che secondo gli analisti della Commissione il rapporto con il Pil arriverà al 136,8 per cento nel 2020 e al 137,4 per cento nel 2021. In base a questi dati quindi, sembra destinata ad allargarsi la distanza che ci separa dalla media dei paesi della zona Euro che nel 2020, secondo le stime di Bruxelles, avranno un indebitamento pari all’85,1 del Pil, in diminuzione rispetto all’86,4 per cento del 2019. Nel gran mare delle incognite per i prossimi anni c’è però almeno una buona notizia. Per effetto del calo dei rendimenti dei titoli di stato, nel triennio fino al 2022 il governo può contare su risparmi per 15 miliardi rispetto a quanto previsto nella primavera del 2019. A patto, ovviamente, che ipotetici futuri scossoni sul fronte politico non inneschino rialzi dei tassi con relativa fiammata dello spread. La minore spesa alla voce interessi sui Btp può trasformarsi in un tesoretto che potrebbe essere utilizzato per finanziare misure destinate a rilanciare la crescita. È difficile però che il calo degli oneri sui titoli di stato sia sufficiente per dare un taglio al rapporto tra debito e Pil. Quest’ultimo infatti aumenta in misura di molto inferiore al tasso d’interesse, pari al 2,58 per cento nel 2019, pagato in media dalle casse pubbliche sui propri debiti. Gli addetti ai lavori parlano di effetto snow ball, palla di neve. E se l’Italia non riprendere a crescere a un ritmo ben più sostenuto di quel misero 0,5 previsto nel 2020, la palla di neve rischia di trasformarsi in una valanga.

Sandro Iacometti per “Libero Quotidiano”  il 5 gennaio 2020. I dati sul fisco e sulla povertà parlano chiaro: l'Italia è un Paese di indigenti. Le ultime rilevazioni dell' Istat e della Caritas individuano in 1,8 milioni le famiglie in condizioni di povertà, vale a dire 5 milioni di individui. I nuclei che sono a un passo dal baratro (la povertà relativa) salgono a 3 milioni, quasi 9 milioni di persone. Ancora peggio va sul fronte dei redditi. Su 60 milioni di italiani, circa 20 neanche presentano la dichiarazione al fisco, non avendo nulla da segnalare. Altri 10 milioni compilano il 730, ma guadagnano così poco che, tra detrazioni e deduzioni, scivolano inevitabilmente nella fascia degli incapienti, quelli che non devono versare neanche un euro di imposte. A parte i dati che non collimano (30 milioni senza reddito e solo 9 milioni di poveri), la vera sorpresa si presenta ogni qualvolta ci sia all' orizzonte un' occasione di svago, di acquisto o di festeggiamento comandato. E' qui che, misteriosamente, i portafogli si aprono e i quattrini fuoriescono a iosa, senza più tracce di miseria o di privazione. Certo, sappiamo bene dai tempi di Trilussa che se il mio vicino va in vacanza alle Maldive e io resto a casa, per gli statistici ce la siamo spassata entrambi. Ma l' affollamento dei negozi e i numeri snocciolati dalle associazioni di categoria sotto le feste indicano, con tutto il rispetto per chi la fame la soffre davvero, che i conti non tornano. Prendiamo le rilevazioni di Swg Confesercenti: per il black friday, evento legato al giorno del ringraziamento americano e caduto, quest' anno, il 27 novembre, gli italiani attirati dagli sconti hanno speso 107 euro a testa. Per doni e pacchi di Natale sono usciti dalle tasche altri 272 euro. Per i saldi che scattano già da oggi in alcune regioni la previsione è di 168 euro. In tutto fa 547 euro. Non una cifra da capogiro, intendiamoci, ma pur sempre una somma superiore ai 522 euro che in media percepiscono i destinatari del reddito di cittadinanza per far tirare avanti una famiglia per 30 giorni. E non è tutto, perché ai quei 547 euro di acquisti in regali e prodotti di consumo vanno aggiunti i soldi per pranzi e cene di Natale e Capodanno (140 euro per la prima ricorrenza 94 euro per la seconda, ci dice Coldiretti) e, soprattutto, quelli usati per i viaggi, le immancabili vacanze. Tra settimane bianche, soggiorni brevi e week end lunghi, gli italiani, che hanno prenotato, secondo Assoturismo, l' 83% dei posti disponibili, hanno speso, ha calcolato Federalberghi, la bellezza di 13 miliardi: 771 a testa per il Natale, 648 il Capodanno. Findomestic, infine, ci spiega che a gennaio è salita del 2,1% la propensione all' acquisto per tutti i comparti, dai viaggi, alle auto fino agli elettrodomestici. Da dove spunta il denaro? Dove sono finiti gli indigenti? Una consistente quota di chi spende e spande fa parte di quella che il sociologo Luca Ricolfi chiama la società signorile di massa, che fa carte false, s' indebita e compra a rate pur di partecipare ai riti collettivi delle festività. Un' altra buona fetta di italiani che sperpera attinge al proprio ingente patrimonio, che ammonta complessivamente, come sappiamo, a circa 10mila miliardi di euro, il più alto del Continente. Infine, in barba ai poveri veri, ci sono quelli che piangono miseria, truccano gli Isee e intascano i bonus, ma si tengono sotto il materasso (o in qualche banca svizzera) una parte di quei 109 miliardi di tasse non versate all' erario.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Tutti dentro…

Alessandra Severini per “Leggo” il 3 luglio 2020. Appalti bloccati, costi alle stelle e rischio corruzione sempre dietro l’angolo. La relazione annuale alla Camera dei Deputati sull’attività svolta dall’Anac nel 2019 offre un quadro allarmante e a tratti sconcertante. Da un lato la Banca dati nazionale dei contratti pubblici ha registrato più di 60mila procedure connesse all’emergenza sanitaria, per una spesa complessiva di oltre 3 miliardi. I soli dispositivi di protezione individuale (mascherine e guanti) hanno ricoperto la gran parte del budget e solo il 3% delle risorse è stato utilizzato per i tamponi. Tra le criticità evidenziate nella relazione, «l’abnorme lievitazione dei prezzi e la forte variabilità degli stessi sul territorio nazionale». Grave anche la situazione degli appalti, bloccati dall’arrivo del virus. Se nel 2019 il valore complessivo degli appalti pubblici si è attestato a 170 miliardi, in crescita del 23%, l’emergenza Covid ha cambiato completamento lo scenario. Nel primo quadrimestre 2020 gli appalti sono scesi del 24% per numero e del 33% in valore, pari a 18,6 miliardi in meno. Ma il Covid, come ogni situazione emergenziale, rischia di spalancare autostrade al fenomeno già molto diffuso della corruzione. E il quadro fatto dal presidente dell’Authority, Francesco Merloni è grave. Perché il vizietto italico che tanti danni produce all’economia e all’efficienza è polverizzato e multiforme e spesso si manifesta anche per pochi spiccioli. «Il valore della tangente è di frequente molto basso e sempre di più ha forme diverse dalla classica dazione di denaro, come l’assunzione di amici e parenti». Ci si vende per duemila o tremila euro, a volte anche solo per 50 o 100 euro. E alcuni casi sono addirittura grotteschi: in cambio del “favore” si ottiene una riparazione all’auto, un trasporto mobili. O addirittura, come ha ricordato Merloni, «in un caso segnalato quest’anno, in cambio di un’informazione riservata è stato persino offerto un abbacchio». Il presidente ha avvertito poi sul rischio di una deregulation che allenti i vincoli sull’assegnazione degli appalti e le norme anticorruzione al fine di far ripartire l’economia. «Non è togliendo le regole che il sistema funziona meglio».

Gianmarco Oberto per leggo.it il 3 luglio 2020. Mariolino Chiesa scoprì suo malgrado - con i finanzieri che bussavano alla porta - che i mazzi di banconote (sette milioni delle vecchie lire) non vanno giù per il water. Un’amara scoperta datata 1992 che ha dato il via a Mani Pulite, fatto venire giù la Prima Repubblica e costretto i mazzettari a cambiare strategia. Anche perché nelle procure ormai faceva scuola il metodo del giudice Falcone contro la mafia, «segui i soldi». Ma è più difficile per gli inquirenti tracciare l’aiutino, la spintarella, il favore, l’inveterata pratica italiana dello scambio, quello che già i latini chiamavano do ut des. I quattro capponi di Renzo per ingraziarsi l’avvocato nei Promessi Sposi oggi sono una ristrutturazione, un posto per il figlio, un incarico all’amante. Magari una vacanza. Maestro è stato Formigoni. «Sfido chiunque a provare che io abbia preso un solo euro» diceva quando è partita l’inchiesta Maugeri. Vero, i soldi non c’erano. Ma l’ex governatore, condannato in via definitiva per corruzione, ha ricevuto benefit di lusso per 6,5 milioni di euro fra yacht, vacanze e la comproprietà di una villona in Sardegna. Erano tempi di vacche grasse. Adesso - lo dice l’Anac - ti puoi mettere in tasca un funzionario pubblico con 50 o 100 euro. Perfino inviandogli un abbacchio. Fa scuola Checco Zalone, funzionario della Provincia nel film Quo vado: un timbro su una pratica in cambio di una quaglia. «Sarà mica corruzione?» chiede il cittadino. E lui ci spiega che no, non lo è. «Ma è frollata questa quaglia?». E tutti a ridere. Nel Paese c’è la percezione che il problema non sia poi così rilevante. E invece lo è. L’anno scorso l’Italia era 51ª nella classifica mondiale dei Paesi più corrotti, a pari (de)merito con il Rwanda.

A Palazzo Chigi rubano persino il disinfettante. Il Corriere del Giorno il 30 Giugno 2020. A pochi passi dal salone dove si tiene il Consiglio dei ministri, accanto a un flacone di disinfettante per le mani, è apparso un cartello imbarazzante : “È vietato riempire contenitori personali dal dispenser”. Non si può stare tranquilli neanche a Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dove rubano il disinfettante per le mani come racconta un articolo del quotidiano il Messaggero. A pochi passi dal salone dove si tiene il Consiglio dei Ministri all’interno di Palazzo Chigi, accanto a un flacone di disinfettante per le mani c’è un cartello su cui è scritto: ”è vietato riempire contenitori personali dal dispenser”. Nei palazzi ministeriali romani gli impiegati incredibilmente sono costretti a tenere nei cassetti i rotoli di carta igienica, in quanto quella fornita dalla pubblica amministrazione non resiste nei bagni per più di qualche ora: chi la porta via? Fa un certo effetto apprendere che nel cuore delle istituzioni qualcuno possa rubare gel igienizzante, che non rimane un caso isolato, considerato che le cronache parlamentari racconta che nella vicina Camera dei Deputati, già ai primi tempi dell’epidemia, era sparita l’Amuchina dalle toilette. 

Da “il Fatto Quotidiano” il 5 gennaio 2020. Il 2020 sarà un anno importante per le inchieste che hanno coinvolto o anche solo sfiorato la politica italiana. Si conoscerà l' esito di molti processi e pure di parecchie indagini. Da Matteo Salvini a Luca Lotti, tanti politici si ritrovano a dover affrontare qualche grana giudiziaria. In casa Lega ce ne se sono diverse da risolvere. Per il leader del Carroccio ed ex ministro, per esempio, si attende la decisione della Giunta per le autorizzazioni a procedere al Senato per il caso Gregoretti (la vicenda riguarda 131 migranti trattenuti per cinque giorni a bordo della nave della Guardia Costiera).

Non solo. Quest' anno si saprà anche l' esito di un' altra inchiesta in cui Salvini è indagato per abuso d' ufficio, quella che riguarda alcuni voli di Stato. Nel suo stesso partito si contano altri indagati, come l' ex sottosegretario Armando Siri accusato di corruzione.

Quello che verrà potrebbe non essere un anno spensierato anche per alcuni renziani. Luca Lotti (rimasto nel Pd dopo la scissione di Matteo Renzi, per fondare Italia Viva) deve affrontare un processo per favoreggiamento a Roma.

A Firenze c' è l' inchiesta sulla Fondazione Open. Qui la Procura ha indagato il suo ex presidente Alberto Bianchi per traffico di influenze e finanziamento illecito. Nei mesi scorsi sono stati anche perquisiti alcuni finanziatori della Open (non indagati). E poi ci sono diversi altri procedimenti in cui, seppure i politici non sono indagati, hanno svelato interessanti retroscena. Come l' inchiesta di Perugia sul Csm o quella sull' Air Force di Renzi.

Lo scandalo Consip. Dal 15 gennaio, Luca Lotti & C. a processo per favoreggiamento. Inizierà il prossimo 15 gennaio il processo a Luca Lotti, ex ministro dello Sport, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e fedelissimo di Matteo Renzi (anche se con la scissione è rimasto nel Pd). È imputato di favoreggiamento nell' ambito del filone dell' indagine "Consip" che riguarda chi spifferò all' ex amministratore delegato della Centrale acquisti, Luigi Marroni, l' esistenza di un' inchiesta napoletana sulla società che gestisce gran parte dei maggiori appalti pubblici. Con Lotti a processo ci sono finiti anche l' ex comandante generale dell' Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette (accusato di rivelazione di segreto) e l' ex comandante della Legione Toscana, Emanuele Saltalamacchia, imputato di favoreggiamento. A processo anche l' ex presidente della fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni, anche questi accusato di favoreggiamento. Tutti gli imputati hanno sempre respinto le accuse.

L' aereo di Stato e la fondazione. Le inchieste sull' Air Force Renzi e sui fondi & favori del caso Open. Proseguono da mesi gli accertamenti della Finanza sugli accordi sottoscritti per l' Airbus A340-500 , preso in leasing dalla compagnia Etihad ai tempi del governo di Matteo Renzi per effettuare voli di Stato al servizio di Palazzo Chigi. La Procura di Civitavecchia ha un fascicolo aperto sul crac di Alitalia ed è nell' ambito di questa inchiesta che sono stati delegati gli approfondimenti. L' ex premier Renzi non è stato sfiorato dalle indagini dei pm di Civitavecchia. Come pure non è sotto inchiesta a Firenze dove invece alcuni suoi fedelissimi sono finiti indagati nel fascicolo che riguarda la Open: l' ex presidente della Fondazione Alberto Bianchi è accusato di traffico di influenze e finanziamento illecito. Quest' ultimo reato è contestato anche a Marco Carrai, che nella Open è stato membro del Cda. Al centro dell' inchiesta c' è una consulenza affidata allo studio legale Bianchi nel 2016 dalla Toto Costruzioni. Per i pm nascondeva un finanziamento.

Finanziamento illecito ai partiti Bonifazi (Iv) e Centemero (Lega), i due tesorieri sotto accusa. Il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, rischia il processo. E come lui anche l' ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi (ora in Italia Viva). I pm di Roma nei mesi scorsi hanno chiuso l' indagine sui flussi di denaro partiti dall' imprenditore Luca Parnasi e indirizzati, secondo le accuse, alla politica. Finanziamento illecito è il reato contestato. Per quanto riguarda il leghista al centro dell' inchiesta, c' è un finanziamento da 250 mila euro erogato tra il 2015 e il 2016 dalla Immobiliare Pentapigna srl (in passato riconducibile a Parnasi) alla "Più voci", onlus di area leghista. La Procura è convinta che la "Più Voci" sia "riconducibile alla Lega Nord quale sua diretta emanazione e comunque costituente una sua articolazione". Per Bonifazi invece l' indagine riguarda 150 mila euro pagati dalla Immobiliare Pentapigna Srl a cavallo delle scorse elezioni politiche per uno studio di ricerca: per i pm la ricerca era un modo per camuffare il contributo economico.

Ipotesi di abuso e sequestro Salvini nei guai per i voli di Stato e i migranti sulla nave Gregoretti Matteo Salvini ha qualche grana giudiziaria da risolvere. La prima riguarda il "caso Gregoretti", la nave della Guardia costiera italiana sulla quale nel luglio scorso 131 migranti sono stati trattenuti per cinque giorni. L' allora ministro è finito indagato per sequestro aggravato di persona e il 20 dicembre 2019 il Tribunale dei ministri di Catania ha chiesto il processo e inviato gli atti alla Giunta per l' autorizzazione a procedere al Senato, che ancora non decide. C' è un fascicolo sull' ex vicepremier anche in un altro Tribunale dei ministri, quello di Roma. Qui Salvini è indagato per abuso d' ufficio nell' ambito di un' inchiesta su alcuni voli di Stato utilizzati quando era ministro. La Procura di Roma, dopo aver ricevuto il fascicolo dalla Corte dei conti, lo ha iscritto nel registro degli indagati come atto "dovuto" e ha trasmesso le carte al Tribunale dei ministri. La vicenda riguarda alcune trasferte su velivoli di Polizia e Vigili del fuoco. Alcuni voli sono avvenuti su un Piaggio P-180, noto come "la Ferrari dei cieli".

Il denaro del Carroccio Dalla caccia ai 49 milioni all' associazione Maroni. L'inchiesta sui 49 milioni della Lega che devono essere restituiti allo Stato pare vicina a una svolta. I pm genovesi Francesco Pinto e Paola Calleri, insieme con la Guardia di Finanza, a dicembre hanno sentito almeno due testimoni. Il nuovo filone riguarda i 450 mila euro (secondo l' accusa parte del denaro proveniente dalla truffa ai danni del Parlamento) che dalle casse della Lega sarebbero andati all' associazione Maroni Presidente e da qui a due tipografie lombarde cui sarebbe stato commissionato materiale elettorale che, a detta dei pm, non sarebbe stato realizzato. Alla fine, il denaro sarebbe tornato nelle casse del Carroccio. Movimenti effettuati in diverse tranche dal 2013 all' aprile 2018, quindi già durante la segreteria di Matteo Salvini. Finora sul fascicolo degli indagati, con l' ipotesi di riciclaggio, è iscritto solo Stefano Bruno Galli (in foto), già ai vertici dell' associazione Maroni Presidente e oggi assessore della giunta regionale lombarda di Attilio Fontana.

L' hotel Metropol. L' ex portavoce del leader della Lega e gli affari con i russi. Il cosiddetto "caso Moscopoli" è esploso nel giugno scorso. Corruzione internazionale è il reato per il quale indaga la Procura di Milano che ha aperto un fascicolo sulla base di alcuni articoli pubblicati su L' Espresso. Al centro c' è l' incontro nell' hotel Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018. Presente Gianluca Savoini, all' epoca portavoce di Salvini per le questioni russe. Al tavolo sei persone, tre italiani (oltre a Savoini, l' avvocato Gianluca Meranda e il manager Francesco Vannucci) e tre russi. Si discute di un carico di 1,5 miliardi di dollari dal quale fare uscire 65 milioni per la Lega e per finanziare le elezioni europee del maggio scorso. Il tutto registrato in un audio il cui autore ad oggi è ancora ignoto. Così a luglio scattano le perquisizioni e i sequestri a carico dei tre indagati (Savoini, Meranda, Vannucci). I pm cercano dunque la prova dell' accordo. Eni non è coinvolta.

I rapporti con Arata e San Marino. Siri, i 30 mila euro promessi e il mutuo senza garanzie. Tra i leghisti finiti sotto inchiesta c' è anche il senatore Armando Siri. L' ex sottosegretario è indagato a Roma per corruzione per aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire l' ex parlamentare forzista Paolo Arata in cambio di 30 mila euro, dati o promessi. A prova di ciò per i pm c' è un' intercettazione fra Arata e il figlio in cui si parla della "somma di denaro pattuita a favore di Siri per la sua attività di sollecitazione dell' approvazione di norme che l' avrebbero favorito". L' indagine romana è ancora in corso. Ma Siri è finito sotto inchiesta anche a Milano: in questo caso i pm contestano l' autoriciclaggio a causa di un prestito ottenuto - secondo i pm senza le dovute garanzie - da un istituto bancario di San Marino. Per quanto riguarda l' indagine milanese, la Giunta per le autorizzazioni del Senato ha dato il via libera ai magistrati per poter sequestrare due pc e sms, email e altri contenuti del cellulare di un collaboratore di Siri.

Csm: i giochi svelati dal trojan Le nomine dei procuratori capo suggerite da toghe e politici. Durante l' estate del 2019 Palazzo dei Marescialli si è trovato sull' orlo dello scioglimento: un' indagine della Procura di Perugia ha scatenato un terremoto nel Consiglio superiore della Magistratura (Csm). Tutto è nato da alcune accuse mosse contro Luca Palamara, l' ex presidente dell' Anm, ex Csm, pm di Roma sospeso, finito sotto inchiesta per corruzione per alcune utilità, come soggiorni all' estero, pagati da un imprenditore. In questo fascicolo nessun politico è indagato, ma il trojan installato sul cellulare di Palamara ha svelato lo scenario della politica al tavolo con le toghe per discutere delle nomine dei futuri capi delle Procure. Viene fuori così un incontro notturno tra 5 togati del Csm, poi dimissionari e due parlamentari: Cosimo Ferri, ora a Italia Viva, magistrato in aspettativa e Luca Lotti, deputato Pd: per la nomina a procuratore di Roma volevano puntare sul pg di Firenze Marcello Viola (a sua insaputa). Ferri e Lotti non sono indagati.

Torino in bilico Appendino, il debito da 5 milioni e la tragedia di piazza San Carlo. La sindaca di Torino Chiara Appendino si prepara ad affrontare due processi importanti col rito abbreviato. Il 6 febbraio i pm Enrica Gabetta e Marco Gianoglio terranno la requisitoria nel processo sul caso Ream, in merito all' iscrizione a bilancio di un vecchio debito da 5 milioni di euro. La sindaca è indagata per falso in atto pubblico e abuso d' ufficio in concorso con l' assessore al Bilancio Sergio Rolando, il direttore finanziario della città Paolo Lubbia e l' ex capo di gabinetto, Paolo Giordana. In caso di condanna per abuso, Appendino rischierebbe la sospensione in base alla legge Severino. Il 21 febbraio, poi, la sindaca e altri quattro imputati affronteranno il processo, sempre in abbreviato, per gli incidenti di piazza San Carlo del 3 giugno 2017: il pm Vincenzo Pacileo li accusa di disastro, lesioni e duplice omicidio colposo (per le morti di Erika Pioletti e Marisa Amato).

La passione dell' urbanistica De Luca in aula per gli illeciti di piazza della Libertà a Salerno. Per dirla con le parole dei Figli delle Chiancarelle, la pagina social che da quasi un decennio satireggia il deluchismo, il processo sui presunti illeciti nella realizzazione di piazza della Libertà a Salerno, l' ultima e residuale pendenza penale del governatore dem della Campania, Vincenzo De Luca, "va avanti alla velocità di un pachiderma zoppo". È iniziato il 9 marzo 2018, per reati risalenti al 2010-12, e colleziona ritardi e rinvii de plano. Gli imputati sono 26 tra amministratori comunali, funzionari pubblici e imprenditori accusati a vario titolo di falso, turbativa d' asta, peculato e false fatturazioni. De Luca è coinvolto da ex sindaco di Salerno che volle ridisegnare l' urbanistica della città, fino a stravolgere il lungomare con il Crescent - per il quale è stato assolto da un' accusa di abuso d' ufficio - e la sottostante piazza della Libertà. L' imputazione per falso di De Luca comunque non è a rischio legge Severino: resterebbe in carica anche in caso di condanna.

·        I Furbetti del Cartellino.

Accusato di assenteismo,  il giudice lo reintegra.  E avrà anche 34 mila euro. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 da Corriere.it. Era stato licenziato per assenteismo, ma è stato reintegrato su ordine del giudice del lavoro, che ha imposto al Comune di Trieste anche il pagamento di 34.500 euro di stipendi arretrati. La vicenda è riportata da «Il Piccolo» e riguarda un dipendente comunale del capoluogo giuliano. Nel 2018 il lavoratore viene sorpreso mentre si allontana dal posto di lavoro senza aver timbrato il cartellino. Comincia dunque una serie di controlli, al termine dei quali da parte del Comune gli vengono imputate oltre dieci ore di «assenza ingiustificata». Da qui il provvedimento. Diversa la decisione della magistratura che rileva l’assenza di recidive tali da giustificare il licenziamento. L’uomo è stato quindi reintegrato in servizio con una sanzione sospensiva. Ieri il Consiglio comunale di Trieste ha approvato l’esborso sotto forma di debito fuori bilancio.

Il vigile di Sanremo che timbrava in mutande assolto dal giudice. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it il Claudio Del Frate. Era divenuto il simbolo dei «furbetti del cartellino». Dopo il blitz del 2015 il comune ligure aveva licenziato 32 dipendenti. L’assoluzione motivata con il cosiddetto «tempo tuta». Era divenuto suo malgrado il simbolo dei «furbetti del cartellino», la sua immagine aveva fatto il giro del web e delle tv. Ma oggi il vigile di Sanremo sorpreso a timbrare il cartellino in mutande è stato assolto dal gup della cittadina ligure Paolo Luppi. «Il fatto non sussiste» ha decretato il magistrato per il «vigile in mutande» e altri nove imputati. nella medesima udienza 16 persone sono state rinviate a giudizio e altrettante sono uscite dal processo con un patteggiamento. Il blitz era scattato il 22 ottobre 2015 : vennero eseguite 43 misure cautelare e il comune di Sanremo licenziò in tronco 32 degli indagati. Alberto Muraglia, questo il nome del vigile, era il responsabile dei controlli al mercato ortofrutticolo ed era finito agli arresti domiciliari. Le immagini della Guardia di Finanza lo mostravano mentre strisciava il badge in «deshabillé» o faceva compiere l’operazione di timbratura alla figlia. «Ma il nostro appartamento è proprio dentro il mercato, abbiamo la spiegazione per tutti gli episodi contestati» aveva detto la moglie del vigile interpellata dai cronisti dopo che il caso era esploso. «Mi è capitato di smontare dal servizio, arrivare a casa e ricordarmi di non ave timbrato. Per evitare di rivestirmi sono andato a strisciare il badge in pigiama» aveva detto il vigile nel corso di un interrogatorio. A gennaio del 2016 Muraglia aveva poi ricevuto la lettera di licenziamento del municipio; attraverso il suo avvocato aveva presentato ricorso al giudice del lavoro e nel frattempo aveva aperto una bottega per la riparazione di elettrodomestici nel centro della città.

A.Pasq. per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2020. Quel giorno timbrò il cartellino in mutande. Fu immortalato da una telecamera del Comune e l' immagine diventò il simbolo di un certo mondo, pigro e lavativo, della pubblica amministrazione: i furbetti del cartellino. Era il 2015 e Alberto Muraglia, oggi cinquantottenne, faceva il vigile a Sanremo come responsabile dei controlli al mercato ortofrutticolo. Fu licenziato e con lui ne licenziarono altri 31, tutti dipendenti del Comune ligure, tutti indagati nell' ambito di un'inchiesta che il 22 ottobre 2015 portò a un blitz senza precedenti: 35 arresti, ai domiciliari, altri 8 dipendenti con l'obbligo di firma, accusati di falso ideologico e truffa ai danni dello Stato. Un terremoto giudiziario e amministrativo, del quale Muraglia diventò l' icona. Ieri, la sorpresa: il giudice per l' udienza preliminare di Imperia, Paolo Luppi, ha assolto tutti gli imputati, dieci, che avevano scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. Fra questi c'era Muraglia. Per il gup «il fatto non sussiste», cioè assoluzione piena. L' ex vigile si è commosso: «Sapevo di non aver fatto nulla di male ma sentirsi dire dal giudice che sei innocente è un' altra cosa. È la fine di un incubo, sono stati quattro anni di tortura mediatica...». Va detto che il giudice ha anche disposto 16 rinvii a giudizio e chiuso 16 patteggiamenti e che dunque l' indagine del pm Maria Paola Marrali e della Guardia di Finanza non era campata per aria. Fra chi ha patteggiato c' è l' ex messo notificatore del Comune, un' ex impiegata dell' ufficio anagrafe, un ex ausiliario del servizio notifiche, un ex istruttore amministrativo elettorale e l' ex perito agrario dei Lavori pubblici che, secondo la Finanza, timbrava, usciva e andava a vogare. Tutti, naturalmente, licenziati. Ma perché è stato assolto Muraglia, «beccato» in mutande a timbrare? In attesa delle motivazioni della sentenza (entro 90 giorni) è il suo avvocato, Alessandro Moroni, a dare una spiegazione: «Semplicemente per il fatto che lui abitava nello stabile del mercato dove c' era la timbratrice. Essere in abiti borghesi conta poco, perché la vestizione della divisa è considerata orario di lavoro e quindi successiva alla timbratura». Muraglia si svegliava alle 5.30 per aprire i cancelli del mercato e prendeva servizio alle 6 e, visto che abitava lì, talvolta passava alla macchinetta che marcava la presenza mentre si cambiava, dice. Gli veniva contestato pure di aver mandato anche la figlia a timbrare. «Perché talvolta dimenticava di strisciare il badge o si attardava a chiudere le pratiche e allora lo faceva lei». Comunque sia, assolto. Dopo essere stato licenziato e sfrattato, l' ex vigile ha deciso di cambiare lavoro. «Potevo sprofondare o rimboccarmi le maniche e ho scelto la seconda», dice ora. Si è messo a fare l'«aggiustatutto», aprendosi un negozietto che pare funzioni alla grande. Sistema frigoriferi, cucine, elettrodomestici in genere. E ora che farà? «Vorrei tornare alla mia vecchia occupazione», ha detto. C' è una causa in piedi davanti al giudice del lavoro, nella quale lui chiede il reintegro. L' assoluzione giocherà a suo favore. «Non c' è una trasposizione automatica del procedimento penale in quello civile ma è chiaro che si tratta di una gran bella notizia anche per questo fronte», ha spiegato l' avvocato Luigi Zoboli che lo assiste nel civile. E la Procura cosa dice? «Io dico che l' indagine della Guardia di Finanza e del pm Marrali è stata condotta con grande serietà. Hanno profuso un impegno investigativo davvero notevole. Vorrei comunque ricordare che ci sono anche 16 patteggiamenti e 16 rinvii a giudizio, cosa che depone per la consistenza dell' impianto accusatorio. Quanto agli abbreviati, aspettiamo di vedere le motivazioni e decideremo il da farsi, anche perché su queste posizioni vi erano prove che la Procura ha considerato importanti e di spessore». Sembra comunque scontata l' impugnazione. Dei dieci assolti, sette erano stati licenziati. Anche per loro, dunque, si potrebbero riaprire le porte del Comune di Sanremo.

Alberto Muraglia il furbetto del cartellino: un farabutto innocente, giornalisti e magistrati chiedano scusa. Piero Sansonetti il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. Sapete mica chi è Alberto Muraglia? È quel farabutto che fu fotografato in mutande mentre timbrava il cartellino, e la sua foto era stata distribuita a tutti i giornali e alle Tv, ed era stato indicato unanimemente al ludibrio pubblico come malfattore, profittatore, prosciugatore di risorse pubbliche che si cuccava il suo stipendio da più di mille euro gabbando i cittadini e fingendo di lavorare. Timbrava in mutande, capito? E poi tornava a casa a dormire, magari! Il furbetto del cartellino. L’hanno beccato, se Dio vuole. Inchiodato dalla Procura di Sanremo nel corso di un’operazione brillantissima che consistette in due atti: una retata all’alba con 43 arresti – tutti piccoli impiegati – e poi la distribuzione di foto e filmati di ogni genere alla stampa e alle Tv. L’immagine di quel mascalzone di Alberto Muraglia è stata portata persino sul palco del festival di Sanremo. È giusto così: i manigoldi vanno esposti alla gogna, così imparano! Beh, ieri la vicenda di Alberto Muraglia, professione vigile (all’epoca dei fatti, ora “piccololavorettista” per sbarcare il lunario) ha preso una strana piega. Si è arrivati al processo (ma che bisogno c’era di fare un processo quando la colpa era così evidentemente e la gogna così giustamente in azione?) e in processo l’avvocato di Muraglia ha potuto finalmente parlare e spiegare che Muraglia abitava nello stesso edificio che ospitava il mercato (il suo appartamento era dentro il mercato) che doveva sorvegliare (era quello il suo lavoro) e che, per contratto, il tempo per mettersi la tuta da lavoro faceva parte del suo orario di lavoro, e lui talvolta, di conseguenza, prendeva servizio appena uscito dal suo appartamento e prima ancora di mettere la tuta. Cioè, ha spiegato che non aveva commesso nessuna irregolarità, e che visto che le telecamere lo avevano controllato per un anno intero, a sua insaputa – e solo quattro volte, peraltro, lo avevano sorpreso vestito un po’ discinto, alle 5 di mattina – invece di arrestarlo magari bastava chiedergli spiegazioni. E, forse, sarebbe stato giusto anche chiedergli spiegazioni prima di licenziarlo in tronco dal Comune insieme a 31 suoi colleghi di lavoro. Il Giudice dell’udienza preliminare lo ha ascoltato, ha guardato le carte, i filmati, ha sentito i testimoni e poi ha pronunciato quella parolina che tanto fa inorridire giornalisti e Tv: as-sol-to. Capite? Il giudice ha detto che è innocente. Mammamia. E ora? Sono passati quasi cinque anni dalla retata e dallo scandalo. In quell’inverno del 2015 decine di trasmissioni televisive furono dedicate a Muraglia e ai suoi fratelli. La gogna ebbe grandi onori. Se andavi a una trasmissione Tv e provavi a mettere qualche dubbio, ti sommergevano di insulti, ti dicevano che eri peggio di loro. Chissà se i “gognisti” di allora adesso se lo ricordano. Sui giornali andò su tutte le prime pagine. Andrà in prima l’assoluzione? Mi sa di no. E non è neanche detto che il Muraglia sia riassunto. Lui per cinque anni è rimasto disoccupato, ha provato a cavarsela facendo lavoretti saltuari (un po’ elettricista, un po’ idraulico, un po’ riparatore generico) ma la gente lo guardava storto. Ha subito cinque anni di umiliazioni. Nessuno lo risarcirà. Speriamo almeno che lo riassumono, e gli diano gli arretrati. Che giornalisti e magistrati chiedano scusa e provino a riabilitarlo è molto improbabile. Giornalisti e magistrati, lo sapete quanto me, spesso sono canaglie.

Marco Menduni per “la Stampa” il 21 gennaio 2020. Dall'altra parte della strada gli amici lo applaudono e gridano: «Assolto, assolto!». Lui muove entrambe le mani con il palmo in basso, come dire: calma, devo prima capire se è davvero finita. Alberto Muraglia sta sull' uscio della bottega di aggiustatutto, il mestiere con cui si è reinventato la vita, piena di stufe, forni, televisori: «Ci so fare, sistemo ogni cosa, sono ripartito da qui». Non ci sarà ancora da alzare i calici, ma Muraglia ha il volto disteso. Il vigile in mutande, protagonista della clamorosa inchiesta sui furbetti del cartellino al Comune di Sanremo nel 2014, è stato assolto: «Perché il fatto non sussiste. E lo stesso anche per un' accusa di corruzione che era venuta fuori durante l' inchiesta». Difficile crederci, dopo che quell' immagine sbracata davanti alla macchina timbratrice era diventata l' emblema dell' Italia degli assenteisti, di chi ruba lo stipendio e mette nel sacco i lavoratori onesti. L' allora presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva esclamato: «Questa è gente da licenziare in 48 ore, è una questione di dignità».

Muraglia, che effetto le ha fatto impersona l' emblema dell' Italia che non va, che truffa e non lavora, con l' aggravante di una foto così poco dignitosa? «Sono stati quattro anni di tortura mediatica, di fronte alla quale si può reagire in due modi. Abbattendosi e sprofondando. Oppure reagire non dico con divertimento ma con serenità e ironia. Ho scelto la seconda, lo dovevo alla mia famiglia, ai miei figli. Non potevo farmi vedere distrutto».

Ha sostenuto dall' inizio dell' inchiesta di esser convinto dell' assoluzione.

«Io credo nella giustizia e ho sempre creduto di essere nel giusto e di non aver fatto nulla di male. La conferma ora è arrivata, anche se è stata dura. Una cosa mi ha disturbato su tutte, quasi nessuno ha mai avuto l' onestà mentale di far la domanda giusta: quelle timbrature erano fatte prima o dopo l' orario di servizio? Rispondo io: tutte prima, non ho mai rubato nulla».

Sì, ma le mutande, quelle maledette mutande riproposte mille e mille volte dai giornali e dalle tv, che senso avevano?

«Le cose vanno contestualizzate. Non ero un pazzo che andava a timbrare così nella sede del Comune, a Palazzo Bellevue. Io ero il custode del mercato. La macchinetta era in un corridoio davanti al mio appartamento, la usavo quando la struttura era ancora chiusa, ero io ad aprirla. Praticamente un contesto privato».

Però non era ancora pronto per lavorare...

«No: è stato dimostrato che indossare la divisa rientra nell' orario di lavoro. A volte mi sono dimenticato di timbrare quando già avevo iniziato a metterla, allora sono corso mezzo svestito a convalidare il badge. Il Comune ha guadagnato qualche secondo di lavoro, non l' ha perso e questo il giudice l' ha compreso. Al limite potrei aver fatto una mezza scorrettezza amministrativa, ma proprio al limite. Roba da un giorno di sospensione disciplinare».

Cosa è accaduto nella sua vita?

«Quello che succede quando uno viene licenziato, non ha più un lavoro e nemmeno l' alloggio di servizio. Però non sono crollato e mi sono rimboccato le maniche. Un parente mi ha offerto in comodato gratuito un appartamentino e questa bottega: mi ha salvato la vita. Oggi ho tantissimi clienti, lavoro per 200 condomini. Capisco l' impatto determinato dall' inchiesta e dalla foto: ma la gente di Sanremo mi conosceva, mi ha sempre stimato, mi è stata vicina. Sin dall' inizio sapeva qual era la verità».

In città è sempre andato a testa alta?

«Sempre. Vado persino al mercato, dove lavoravo, a far la spesa. Sono stato 18 anni lì, ho fatto anche parecchie multe agli operatori. Se avessi avuto la coscienza sporca non mi sarei fatto più vedere. Mi avrebbero detto: mi ha multato e poi lo str... eri tu? Invece no: mi hanno espresso tutti la loro solidarietà».

Adesso rivuole il suo posto di lavoro?

«Il ricorso l' ho già fatto. Ho portato 40 testimoni, ne hanno già ascoltati 22 e la prossima udienza sarà ad aprile. Io sono stato messo alla porta sulla scorta delle sole accuse.

Ora che c' è una sentenza di assoluzione, credo valga qualcosa».

Sua moglie Adriana?

«Mia moglie è sempre accanto a me. Non ha mai avuto il minimo dubbio, visto che vivevamo anche insieme e sa tutto quel che è accaduto. Finire il lavoro, tornare a casa e trovarla è la vera gioia, il tesoro della mia vita».

E con lei si riparte...

«Dopo la sentenza, il mio cellulare sarà squillato 100 volte. Mi vogliono ospite in tutte le trasmissioni tv. Non ci penso nemmeno. Vorrei che dopo tanto tempo sulla mia vita calasse il silenzio, che tornasse la normalità. Intanto stasera vado a cena con Adriana». 

Per Gramellini contano più le immagini delle sentenze. Angela Azzaro il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Massimo Gramellini per contestare l’assoluzione del vigile accusato di essere un furbetto del cartellino, nella sua rubrica fissa sulla prima pagina del Corriere della sera, invoca il potere delle immagini. Poiché c’è un video che immortala il signore in mutande mentre timbra – è il suo ragionamento – chi se ne frega delle prove, delle carte processuali, della difesa e della decisione del giudice. Il video è lì a dimostrare i fatti. Il giornalista, che pure la televisione non solo la guarda ma la fa, dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che le immagini non hanno mai e poi mai uno statuto di verità. Ci credono solo i più sprovveduti, i creduloni, quelli che basta vedere una cosa in tv per ritenere che sia oggettiva, reale, inconfutabile. Ma così non è. Basterebbe chiedere al critico televisivo del Corriere della sera, Aldo Grasso, per capire come stanno le cose. Le immagini da sole non bastano. Va ricostruito il contesto, il prima e il dopo di ciò che viene inquadrato, va compreso quale sia il punto di vista con cui si osserva quella realtà e nel caso che quelle immagini vengano montate sapere chi l’ha fatto e perché. Le immagini non sono mai neutre, oggettive, ma sono sempre l’affermazione di una soggettività: nel caso specifico quelle delle forze dell’ordine che non solo le hanno filmate ma le hanno anche diffuse. Così come una intercettazione non dovrebbe bastare per mandare una persona in galera, ma spesso purtroppo basta e avanza, così una immagine da sola è spesso solo un indizio, a volte non costituisce neanche una prova. Le telecamere hanno però un altro potere di cui questa volta si è abbondantemente abusato: sono un veicolo incredibile per incitare le persone al linciaggio, per mettere le persone alla gogna. E così è stato fatto con il vigile poi assolto. La scena con lui che timbra in mutande è diventata l’emblema delle persone che fregano lo Stato, dei corrotti, furbetti, ladri, insomma la peggiore specie che possa vivere sulla terra. Il signor Alberto Muraglia dal 2015 ha vissuto anni terribili: lui e la sua famiglia additati, presi in giro, insultati, senza nessuna pietà. Gramellini invece di rivendicare quelle immagini, avrebbe dovuto chiedere scusa. Avrebbe dovuto dire: caro signor Muraglia, ci siamo sbagliati. Non solo perché lei è innocente, ma perché nessuno merita di essere trattato in quel modo. Essere sbattuti così su tutte le tv e i giornali d’Italia non è informazione, non è giustizia. È la legge del taglione, è la vendetta eseguita attraverso i nuovi mezzi di informazione. Ci scusi caro signor Muraglia, abbiamo sbagliato, le abbiamo rovinato la vita e d’ora in poi saremo molto più attenti per evitare queste forme di linciaggio. Invece no, Gramellini, ha protestato come un credulone qualsiasi, come un Savonarola qualsiasi.

Furbetti del cartellino a Sanremo, assolti il vigile che timbrava in mutande e altri nove: "Torturato mediaticamente". Clamorosa decisione del giudice per le udienze preliminari. Alberto Muraglia: "Ho dovuto cambiare vita, questi anni nessuno me li restituirà mai". Marco Lignana, Matteo Macor e Marco Preve il 20 gennaio 2020 su La Repubblica. L'allora premier Matteo Renzi di fronte alla foto del vigile in mutande accusato di assenteismo disse: "Questa è gente da licenziare in 48 ore. E' una questione di dignità". Ma quattro anni dopo quello stesso vigile, simbolo di mala amministrazione è stato assolto. Infatti, dieci imputati fra i 42 coinvolti nell'indagine sui "furbetti del cartellino" di Sanremo sono stati assolti oggi dal giudice per le udienze preliminari Paolo Luppi perché "il fatto non sussiste". La clamorosa decisione riguarda anche Alberto Muraglia, ex vigile del mercato annonario, ripreso dalle telecamere mentre timbrava il cartellino in slip. Quell'immagine era divenuta il simbolo di tutta l'inchiesta, che il 22 ottobre 2015 aveva portato ad arresti e altre misure per oltre 50 persone. Muraglia e gli altri nove assolti hanno scelto il rito abbreviato. Ecco le prime parole di Alberto Muraglia dopo l'assoluzione: «È un sollievo ma non una sorpresa: ne vengo da quattro anni e mezzo di tortura mediatica per colpe che non ho mai avuto, e l'ho sempre sostenuto. Sono stato costretto a cambiare vita, reinventarmi un lavoro, sopportare e far sopportare ingiustamente alla mia famiglia il peso di derisioni, mancanze di rispetto, difficoltà. Questi anni nessuno me li restituirà mai, ma ora voglio solo voltare pagina. Timbrare in mutande mi ha trasformato mio malgrado in un simbolo, ho peccato di malcostume, forse di scorrettezza amministrativa, ma non di certo di truffa allo Stato. E finalmente è stata riconosciuta la verità». Nei mesi scorsi altri 16 imputati avevano deciso di patteggiare pene comprese fra 8 mesi e 1 anno e 7 mesi. Mentre altri 16, proprio oggi, sono stati rinviati a giudizio. L'inchiesta sui furbetti di Sanremo era stato uno dei casi di cronaca che all'epoca aveva fatto discutere per mesi. Sia per le modalità del blitz di finanza e procura, con il Comune di fatto occupato e bloccato per i sequestri di documentazione. Poi per il numero di dipendenti coinvolti e l'apparente diffusione di abitudini fra il personale senza che vi fosse un controllo gerarchico effettivo. Nelle settimane successive su indicazione del sindaco Biancheri il segretario generale aveva avviato procedimenti disciplinari interni che si erano conclusi con numerose sanzioni e alcuni licenziamenti. La vicenda dei furbetti del cartellino aveva suscitato anche un forte dibattito politico. L'allora premier Renzi era stato molto chiaro:" Norme più semplici e soprattutto più efficaci per punire chi timbra e abbandona il posto di lavoro: "Se io ti becco a timbrare il cartellino e te ne vai, entro 48 te ne vai a casa, sospendendoti, e poi 30 giorni per chiudere il procedimento. Ci sono tutte le procedure e le garanzie, ma quando a Sanremo vedi quello che timbra in mutande non è un optional il licenziamento. Questa è gente da licenziare entro 48 ore. È una foto terribile, è una questione di dignità e rispetto verso chi si alza la mattina e mette la sveglia presto per andare a lavorare". Ora con l'assoluzione - ma la procura presenterà sicuramente ricorso - per Muraglia ed altri potrebbero aprirsi le strade per una richiesta di reintegro. Molto dipenderà dalle motivazioni.

Sanremo, il vigile in mutande dopo l'assoluzione: “Rivoglio il mio lavoro”. Le Iene News il 20 gennaio 2020. L’ex vigile diventato virale per aver beggiato in mutande rivuole il suo posto in Comune, dopo esser stato assolto. Con Filippo Roma vi abbiamo parlato della clamorosa inchiesta sui "furbetti dei cartellini" che beggiavano irregolarmente. “Dopo aver vissuto questa tortura, rivoglio il mio posto in Comune”. È questa l’appello che l’ex vigile di Sanremo ha lanciato dal quotidiano La Stampa, dopo essere stato assolto nel procedimento contro i presunti “furbetti del cartellino”. L’uomo era stato pizzicato a beggiare in mutande e le sue immagini avevano fatto il giro del Paese come simbolo dell’assenteismo e del poco rispetto verso la pubblica amministrazione: il tribunale però gli ha dato ragione. La motivazione è che il vigile si era dimenticato di vestire la divisa prima di beggiare ed era uscito appunto in mutande per andare alla timbratrice situata vicino al suo alloggio. Ora che è stato assolto, l’uomo si spiega: “Al limite potrei avere fatto un mezza scorrettezza amministrativa, roba da un giorno di sospensione disciplinare”. E adesso chiede rispetto: “Sono stati quattro anni di tortura mediatica. Ho scelto di reagire con ironia, lo dovevo alla mia famiglia. Non potevo farmi vedere distrutto”, ha detto l’ex vigile, che si rifiuta di parlare anche in televisione. “Non ci penso nemmeno, voglio che torni la normalità. Intanto stasera vado a cena con Adriana, mia moglie”. Adesso che le acque si sono calmate, vuole tornare al lavoro perché sicuro di non aver fatto nulla di male: “Il ricorso per riottenere il mio posto l’ho già fatto. Ho portato 40 testimoni, 22 sono stati assolti”. La prossima udienza sarà ad aprile 2020. L’inchiesta sui presunti furbetti del cartellino aveva scatenato molte polemiche. “Questa è gente da licenziare entro 48 ore” aveva detto Matteo Renzi, ai tempi presidente del Consiglio. “È una foto terribile, è una questione di dignità e rispetto verso chi si alza la mattina e mette la sveglia presto per andare a lavorare". Nonostante questo sospiro di sollievo, l’ex dipendente non sembra ancora essere sereno: “Vorrei che sulla mia vita calasse il silenzio”.

Sanremo, assolto il vigile che timbrava il cartellino in mutande. Le Iene News il 20 gennaio 2020. L’impiegato comunale di Sanremo era diventato famoso perché beccato dalla Finanza a timbrare in mutande. Con Filippo Roma vi abbiamo mostrato come molti altri “furbetti del cartellino” se la spassavano senza beggiare regolarmente. Il vigile urbano di Sanremo diventato famoso per le immagini della Guardia di Finanza del 2015 che lo riprendevano mentre timbrava in mutande è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. “Mi è capitato di smontare dal servizio, arrivare a casa e ricordarmi di non avere timbrato. Per evitare di rivestirmi sono andato a strisciare il badge in pigiama” aveva detto il vigile, che nel gennaio del 2016 ha ricevuto la lettera di licenziamento. L’inchiesta aveva scatenato molte polemiche. “Questa è gente da licenziare entro 48 ore” aveva detto Matteo Renzi, ai tempi presidente del Consiglio. “È una foto terribile, è una questione di dignità e rispetto verso chi si alza la mattina e mette la sveglia presto per andare a lavorare". La motivazione dell’assoluzione da parte dal gup di Sanremo Paolo Luppi è che il vigile si era dimenticato di vestire la divisa prima di beggiare ed era uscito appunto in mutande per andare alla timbratrice situata vicino al suo alloggio. Nella stessa udienza 16 persone sono state rinviate a giudizio e altrettante sono uscite dal processo con un patteggiamento. Il blitz della Guardia di finanza contro l’assenteismo era partito nel 2015 e, dopo l’inchiesta, il comune di Sanremo aveva licenziato 32 dipendenti. Nonostante tre anni fa sia stato approvato il decreto anti-fannulloni, molti furbetti del cartellino continuano purtroppo a “beggiare” irregolarmente. Noi ce ne siamo occupati con Filippo Roma nel servizio che vedete qui sopra. Abbiamo beccato durante l’orario di lavoro, al Policlinico Umberto I di Roma, chi andava a fare shopping, chi andava dal parrucchiere o semplicemente passava il tempo con i colleghi al bar. Sempre senza timbrare l’uscita. C’era poi chi beggiava, anche per un suo collega, ma poi spariva da lavoro.

Assenteismo pubblico: a Taranto si condanna, in Liguria si proscioglie...Il Corriere del Giorno. Il vigile urbano Alberto Muraglia lavorava per il Comune di Sanremo. Per il sostituto procuratore Grazia Pradella “L’impianto accusatorio vede una sostanziale conferma in sedici patteggiamenti e altrettanti rinvii a giudizio. Ricordate il “‘vigile in mutande” che  all’interno del Comune di Sanremo timbrava il cartellino e se ne tornava a casa ? Si chiama Alberto Muraglia e durante l’udienza preliminare è stato assolto con rito abbreviato. Era finito sotto processo a seguito inchiesta nell’indagine della Guardia di Finanza sui “furbetti” del cartellino. Matteo Renzi all’epoca dei fatti era Presidente del Consiglio, guardando la foto del vigile in mutande accusato di assenteismo disse: “Questa è gente da licenziare in 48 ore. E’ una questione di dignità“. Invece quattro anni dopo quello stesso vigile, simbolo di mala amministrazione per tutti, non lo è stato per il giudice per le udienze preliminari Paolo Luppi  che ha assolto 10 imputati dei 42 coinvolti nell’indagine sui “furbetti del cartellino” di Sanremo perché “il fatto non sussiste“. L’inchiesta della Guardia di Finanza sui furbetti di Sanremo era diventato uno dei casi di cronaca che all’epoca aveva fatto discutere per mesi, proprio a partire dal vigile che timbrava il cartellino in mutande ma anche per l’imponenza del blitz delle Fiamme Gialle del 22 ottobre 2015 disposto dalla Procura con cui vennero eseguite 43 misure cautelare e il Comune di Sanremo licenziò in tronco 32 degli indagati. Nelle settimane successive su indicazione del sindaco Biancheri il segretario generale aveva avviato procedimenti disciplinari interni che si erano conclusi con numerose sanzioni e alcuni licenziamenti. Adesso con l’assoluzione – a fronte della quale la Procura presenterà ricorso – per Muraglia ed altri furbetti del cartellino potrebbero aprirsi le strade per una richiesta di reintegro. Ma molto dipenderà dalle motivazioni.

Lo stesso procedimento si è chiuso con 10 assoluzioni, 16 rinvii a giudizio e altrettanti patteggiamenti. Tra le accuse quella di truffa ai danni dello Stato. Per il sostituto procuratore Grazia Pradella “L’impianto accusatorio vede una sostanziale conferma in sedici patteggiamenti e altrettanti rinvii a giudizio. Per quanto riguarda gli abbreviati leggeremo con attenzione le motivazioni e decideremo il da farsi anche perché su queste posizioni vi erano prove che la Procura ha considerato importanti e di spessore. Valuteremo con estrema serietà, così come con estrema serietà sono state considerate le prove fotografiche e documentali”. La data di inizio del processo, per chi ha invece scelto il rito ordinario, è stata fissata al prossimo 8 giugno. “Una decisione assolutamente corretta e in linea con le risultanze del procedimento, per cui non mi stupisce affatto”, ha dichiarato Alessandro Mager, uno degli avvocati del collegio difensivo. Per l’avvocato Alessandro Moroni invece ”è il momento di spegnere i riflettori e lasciare che questa vicenda torni a essere come tutti gli altri processi. Il vaglio di questi filmati ha detto che erano innocenti”.

·        Gli italiani onesti. Quelli che chiamano ladri gli altri.

Dagospia il 17 settembre 2020. CHE IMBARAZZO PER LA PIÙ ALTA ISTITUZIONE GIUDIZIARIA - LA CORTE COSTITUZIONALE ELEGGE MARIO MORELLI PRESIDENTE. VOLETE RIDERE? SARÀ IN CARICA SOLO 3 MESI. GIÀ, PERCHÉ IN QUELLA BOLLA FEUDALE CHE E' LA CONSULTA VIGE LA TRADIZIONE CHE UN GIRO SULLO SCRANNO PIÙ ALTO (COI RELATIVI BENEFIT ECONOMICI E TITOLI) NON SI NEGA A NESSUNO PRIMA DELLA FINE DEL MANDATO. E COSÌ SI LAVORA A SINGHIOZZO TRA UN PRESIDENTE E L'ALTRO, SENZA UN MINIMO DI VISIONE A LUNGO TERMINE. UNA VERA SCHIFEZZA SPACCIATA PER ''SERENITA' E INDIPENDENZA''.

(ANSA il 17 settembre 2020) - Nessuno strappo alla tradizione. Chiamati a eleggere il loro presidente i giudici costituzionali hanno scelto il collega che da più tempo siede alla Consulta, seguendo ancora una volta il criterio dell'anzianità: si tratta di Mario Morelli, il giudice che in Cassazione aveva firmato la sentenza sul caso di Eluana Englaro, dal 2018 vice presidente della Corte Costituzionale. Il successore di Marta Cartabia però potrà resterà in carica solo tre mesi. Il 12 dicembre prossimo scadrà infatti il suo mandato di 9 anni di giudice costituzionale, dove è giunto nel 2011 eletto dai magistrati della Cassazione. E proprio sul nodo della presidenza breve la Corte si è divisa. L'elezione è passata a maggioranza e solo alla seconda votazione (alla prima non si è raggiunto il quorum richiesto), con 9 voti a favore. Cinque sono andati invece a Giancarlo Coraggio e uno a Giuliano Amato, che avrebbero potuto assicurare una guida certamente più lunga alla Consulta. Tutti e due sono stati nominati vicepresidenti da Morelli, che intende accentuare la "collegialità" della Corte come antidoto alle "criticità" della presidenza breve, come ha spiegato il neo presidente nella tradizionale conferenza stampa. "In 3 mesi non si può fare quanto in 3 anni" , ma il principio dell'anzianità , che è stato sempre seguito dalla Corte costituzionale nella scelta del presidente (e da cui si è deviato solo in 4 casi ) "assicura serenità e indipendenza", ha detto Morelli, affrontando esplicitamente il tema e spiegando che da tempo alla Consulta convive un'altra "linea di pensiero" che vede nella presidenza breve problemi per la funzionalità della Corte. La partita vera sulla presidenza si è giocata tra lui e Coraggio, che "al 99,9% sarà il prossimo presidente" : "abbiamo rappresentato le due opzioni di fondo, ma rimanendo amici come prima. Siamo completamente d'accordo, lavoreremo insieme", ha assicurato Morelli. La storia della Consulta ha comunque visto già diverse presidenze brevi: anche Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, Giuseppe Tesauro, Giovanni Maria Flick sono stati al vertice della Corte costituzionale per poco più di tre mesi. E ancora meno tempo (1 mese e 14 giorni) Vincenzo Caianiello. Il neo-presidente non si è sottratto a nessuna domanda dei giornalisti. Il taglio degli eletti? "è una riforma che incide sulla Costituzione in maniera relativa e va completata con provvedimenti che con sequenza diacronica devono seguire" . Non ha detto se voterà si o no al referendum ma ha ammesso che "c'è un mezzo pieno e un mezzo vuoto" in ognuna delle due posizioni. Quanto ai principi a cui deve ispirarsi la nuova legge elettorale "sono quelli già fissati dalla Costituzione, che hanno orientato le decisioni della Corte". Romano, 79 anni anni, sposato, con due figlie, Morelli ha diviso la sua carriera di giudice tra la Cassazione e la Consulta, dove prima di essere eletto giudice è stato per 30 anni assistente di studio, partecipando all'istruttoria del processo Lockheed. Alcune sue teorie hanno fatto breccia nella giurisprudenza costituzionale: come la possibilità di estendere la garanzia di inviolabilità ai nuovi diritti. "C'è una classe di diritti che dobbiamo far rispettare che non nascono dall'alto ma sono richiesti dalla coscienza sociale", ha ribadito in conferenza stampa, confermando che su questo tema le porte della Corte sono aperte.

Edmondo Rho per espresso.repubblica.it il 3 settembre 2020. A Ferragosto ha fatto molto scandalo il bonus Covid per le partite Iva riscosso da 3 parlamentari (due leghisti e un pentastellato) su 945 eletti: certo, scandaloso, ma in questo caso la percentuale di “furbetti” è davvero bassa. Strano invece sia spesso ignorata la cosiddetta “doppia pensione” cui hanno diritto parlamentari e consiglieri regionali che, essendo lavoratori dipendenti, dopo l’elezione si mettono in aspettativa dal loro impiego: un tema che, evidentemente, riguarda molte più persone. Sia chiaro: la “doppia pensione” dei parlamentari, esiste da mezzo secolo, ovvero dall’approvazione della legge n. 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. Il cui articolo 31 (mai abrogato) prevede la tutela previdenziale dei lavoratori dipendenti in aspettativa per alcuni incarichi politici, con la conservazione del posto di lavoro e il versamento dei contributi figurativi per avere poi la pensione. A partire dal 2000 c’è stata una variante: i parlamentari e i consiglieri regionali devono pagare la loro quota di contributi (il 9,19 per cento a carico dei lavoratori) per avere diritto a quelli figurativi (che sono pari al doppio) a carico dell’ente previdenziale, cioè a spese della collettività. La norma voleva tutelare, giustamente, chi lascia il proprio lavoro per entrare in un’assemblea politica elettiva. Ma l’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori si aggiunge al vitalizio, istituito fin dal 1956 per deputati e senatori, che non è, giuridicamente, una pensione. E nulla è cambiato dal 2012, quando per i vitalizi dei nuovi eletti alla Camera e al Senato si è modificato il sistema di calcolo, passando dal metodo retributivo a quello contributivo. «Quella che oggi si chiama pensione contributiva dei parlamentari ha una funzione di garanzia del ruolo particolare che ricopre chi è eletto in Parlamento, come previsto dalla Costituzione», dice Antonello Falomi, presidente dell’Associazione ex parlamentari. Quindi la pensione da eletto si assomma a quella da lavoratore dipendente? «Sì, ed è una giusta incentivazione dello Stato a svolgere un’attività pubblica», sostiene Falomi. Ma questa norma può essere rivista? «Secondo me i parlamentari durante il loro mandato dovrebbero versare i contributi all’Inps o alla cassa professionale cui sono iscritti, e avere le stesse regole e gli stessi trattamenti di tutti gli altri lavoratori», dice Roberto Ghiselli, segretario confederale Cgil. Anche l’esperto previdenziale Giuliano Cazzola (ex parlamentare e, prima ancora, per quasi trent’anni dirigente della Cgil, fino al 1993) sostiene che «avere una doppia pensione non è illegittimo, I contributi figurativi a carico della collettività sono una valutazione della legge del 1970 che a suo tempo riconosceva una funzione sociale, e oggi può essere rivista». Però va anche detto che Cazzola già nel 2010, quand’era deputato, aveva proposto che i parlamentari venissero iscritti alla gestione separata dell’Inps: un’idea caduta nel vuoto. Secondo Cazzola, «oggi i veri privilegiati, più che i parlamentari, sono i sindacalisti, gli unici che hanno mantenuto inalterate le regole dello Statuto dei lavoratori di 50 anni fa: per il dipendente in aspettativa, il sindacato non versa l’intera contribuzione sociale, che è considerata figurativa e quindi a carico di noi tutti». Mentre, come detto, parlamentari e consiglieri regionali devono pagare la quota di contributi a carico dei lavoratori. Inoltre, l’ex parlamentare ed ex sindacalista Cgil aggiunge un particolare importante: questa regola più favorevole vale per tutti i «sindacati considerati rappresentativi, perché firmatari dei contratti collettivi applicati in azienda. Si spiega così il proliferare di sigle sindacali nei settori del pubblico impiego e dei servizi: conquistare un “posto a tavola” (dove si stipulano i contratti) significa poi aver accesso al “tesoretto” del distacco o dell’aspettativa a favore dei loro attivisti».

Pietro Senaldi e la scuola: "Professori con i certificati per non andare al lavoro? Sospendeteli tutti". Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Mancano pochi giorni al 14 settembre e la riapertura delle scuole è ancora un caos. "C'è la triste notizia - spiega Pietro Senaldi - che circa 200mila professori hanno prodotto certificati medici che consentono loro di non presentarsi a scuola". Il motivo? "Condizioni precarie di salute - prosegue il direttore di Libero -, insomma, stanno a casa per non prendere il coronavirus". Per Senaldi la paura è legittima, però "i professori dovrebbero pensare anche ai loro studenti e al compito che hanno". In sostanza, "se gli infermieri si comportassero come loro, noi saremmo a terra e non saremmo ancora usciti dall'emergenza". E così sarebbe il caso per il direttore che questi professori vengano sospesi dal pagamento, "tanto non sarebbe una sciagura per la scuola, visto che questi professori hanno ben poco da insegnare agli studenti". 

L'alibi perfetto per chi predica una finta etica. Nell’Italia dei furbi la mafia serve a far sentire migliori: basta non essere mafiosi, l’onestà non importa. Gioacchino Criaco  su Il Riformista il 16 Agosto 2020. E sia chiaro, la mafia fa schifo, è una montagna di merda. E, senza utilizzare ma o però, alla fine c’è una generale tendenza alla assoluzione o autoassoluzione, come a dire che, tranne i mafiosi, si è tutti sullo stesso piano, poiché in settant’anni la Repubblica più che un popolo, una coesione di cittadini, ha creato una società unità dalla complicità. Decenni di cattivi insegnamenti in cui le vie traverse sono diventate le strade giuste per raggiungere una sistemazione, e i trucchi e le furberie gli elementi essenziali al vivere bene o sopravvivere: una società che parte dalla raccomandazione per raggiungere la corruzione. Ed è chiaro che se si porta in piazza l’etica o la morale, il refrain della stragrande maggioranza onesta, diventa un’enorme balla. E sia chiaro, la mafia fa schifo, è una montagna di merda, senza ma o però. La mafia c’è, pian piano diventa l’ultima frontiera, il confine fra il bene e il male che consente al resto di rimanere in piedi. Non è bella gente quella che si becca il bonus dei 600 euro, ma pian piano si vedrà che oltre ai politici se lo sono beccati migliaia di professionisti agiati, di norma abbienti che non sono alla fame. La società italiana è ormai adagiata sulla forzatura delle regole, regole che di norma sono forgiate per incoraggiare il superamento della vergogna, quasi fosse una prospettiva sociale. Tutti quelli che hanno gridato all’onestà nel passato, poi si sono contati fra i disonesti, e tutti quelli che hanno linciato, lanciato monetine, poi, strette nel pugno, avevano monete che non gli appartenevano. E la mafia è un orrido a cui non si devono accostare alibi, esiste per dimostrare fino a dove la cattiva coscienza, o l’incoscienza, possa portare il cuore umano, esiste per stabilire il confine fra l’assoluzione, l’autoassoluzione, e la condanna eterna. In Italia finché la mafia avrà vita, tanti potranno continuare a sentirsi migliori, perfino buoni, per il solo fatto di non essere mafiosi, lasciando perdere il discorso dell’onestà.

Coinvolti Lega, 5 Stelle e Italia Viva. Chi sono i deputati che hanno chiesto il bonus da 600 euro. “Coinvolti oltre 2mila politici minori”. Redazione su Il Riformista il 9 Agosto 2020. Non sono ancora noti i nomi ma sarebbero tre deputati della Lega, uno del Movimento 5 Stelle e uno di Italia Viva i parlamentari che hanno chiesto all’Inps il bonus da 600 euro mensili poi elevato a 1000 previsto dai decreti Cura Italia e Rilancio per sostenere il reddito di autonomi e partite Iva in difficoltà durante la crisi del coronavirus. A denunciare l’accaduto, così come riporta Repubblica, la direzione centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell’Inps, organo creato da Pasquale Tridico per individuare le truffe. In realtà, non c’è nulla di illegale nel comportamento dei cinque deputati e del conduttore televisivo. Solo una questione di opportunità in un momento così delicato per il Paese. Uno schiaffo alla miseria di chi durante l’emergenza coronavirus ha avuto serie difficoltà ad arrivare a fine mese. Loro invece potevano contare su stipendi di migliaia di euro (per la precisione 12.439) oltre ai rimborsi per il soggiorno a Roma per la loro attività politica.

OLTRE 2MILA POLITICI COINVOLTI – Ma non è tutto. Nella vicenda – così come rivela sempre Repubblica -sarebbero coinvolti addirittura duemila persone tra assessori regionali, consiglieri regionali e comunali, governatori e sindaci. Numerose le condanne da tutti gli schieramenti politici. Anche il presidente della Camera Roberto Fico condanna senza mezzi termini il comportamento dei cinque deputati: “E’ una vergogna che cinque parlamentari abbiano usufruito del bonus per le partite iva. Questi deputati chiedano scusa e restituiscano quanto percepito. E’ una questione di dignità e di opportunità. Perché, in quanto rappresentanti del popolo, abbiamo degli obblighi morali, al di là di quelli giuridici. E’ necessario ricordarlo sempre”.

DI MAIO: “ESCANO ALLO SCOPERTO, SI DIMETTANO” – Il primo a intervenire sulla vicenda, via Facebook, è stato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio scrive: “Oggi La Repubblica parla di 5 parlamentari, di 5 poveri furbetti che durante la pandemia hanno avuto il coraggio di avanzare richiesta allo Stato per avere il bonus di 600 euro riservato ai lavoratori autonomi e alle partite Iva in difficoltà. Evidentemente non gli bastavano i quasi 13mila euro netti di stipendio al mese, non gli bastavano tutti i benefit e privilegi di cui già godono. È vergognoso. È davvero indecente. Questa pandemia ha fatto danni economici senza precedenti. Ci sono state persone che hanno perso il lavoro, aziende che hanno visto il proprio fatturato scendere in maniera drastica, attività che hanno chiuso senza più riaprire. E questi 5 personaggi invece di rispondere al popolo che li ha eletti hanno ben pensato di approfittarne. I nomi di queste 5 persone sono coperti dalla legge sulla privacy. Bene, siano loro allora ad avere il coraggio di uscire allo scoperto. Chiedano scusa agli italiani, restituiscano i soldi e si dimettano, se in corpo gli è rimasto ancora un briciolo di pudore. Non importa di quale forza politica siano espressione. Mi auguro che anche le altre forze politiche la vedano come noi”.

BELLANOVA: NON HANNO SERVITO I CITTADINI – “Leggo che cinque parlamentari della Repubblica avrebbero percepito i 600 euro di bonus partita Iva Chiunque siano, a qualunque partito e schieramento appartengono, se hanno un minimo di dignità possono fare solo una cosa per sanare questa brutta vicenda: dimettersi. Devono farlo perché evidentemente non sono stati in grado di servire i cittadini che rappresentano e il Paese con onore e lealtà, tanto più in un momento come questo”. Lo scrive su Facebook il ministro per le Politiche agricole Teresa Bellanova, di Italia viva.

SALVINI – “Chiunque siano, immediata sospensione”. Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini a proposito dei parlamentari che avrebbero incassato il bonus Inps.

Annalisa Cuzzocrea e Giovanna Vitale per Repubblica.it il 10 agosto 2020. I nomi ancora non si conoscono, ma appartengono a tre diversi partiti i "furbetti" del bonus Covid. Come svelato da Repubblica, cinque deputati hanno chiesto all'Inps il bonus da 600 euro mensili poi elevato a 1000 previsto dai decreti Cura Italia e Rilancio per sostenere il reddito di autonomi e partite Iva in difficoltà durante la crisi del coronavirus. Segnalazione che è arrivata direttamente dalla direzione centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell'Inps, una struttura creata ad hoc dal presidente Pasquale Tridico con l'obiettivo di individuare i truffatori. Dalle prime indagini sarebbe emerso che i cinque di Montecitorio sarebbero tre deputati della Lega, uno del Movimento 5 Stelle e uno di Italia Viva. Inoltre, nella vicenda sarebbero coinvolti addirittura duemila persone tra assessori regionali, consiglieri regionali e comunali, governatori e sindaci. A intervenire sul caso con durezza è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che scrive su Facebook: "Oggi la Repubblica parla di 5 Parlamentari, di 5 poveri furbetti che durante la pandemia hanno avuto il coraggio di avanzare richiesta allo Stato per avere il bonus di 600 euro riservato ai lavoratori autonomi e alle partite iva in difficoltà. Evidentemente non gli bastavano i quasi 13mila euro netti di stipendio al mese, non gli bastavano tutti i benefit e privilegi di cui già godono. È vergognoso. È davvero indecente". Poi aggiunge: "Questa pandemia ha fatto danni economici senza precedenti. Ci sono state persone che hanno perso il lavoro, aziende che hanno visto il proprio fatturato scendere in maniera drastica, attività che hanno chiuso senza più riaprire. E questi 5 personaggi invece di rispondere al popolo che li ha eletti hanno ben pensato di approfittarne - prosegue Di Maio - i nomi di queste 5 persone sono coperti dalla legge sulla privacy. Bene, siano loro ad avere il coraggio di uscire allo scoperto. Chiedano scusa agli italiani, restituiscano i soldi e si dimettano, se in corpo gli è rimasto ancora un briciolo di pudore. Non importa di quale forza politica siano espressione. Mi auguro che anche le altre forze politiche la vedano come noi". Anche il presidente della Camera Roberto Fico condanna senza mezzi termini il comportamento dei cinque furbetti: "E' una vergogna che cinque parlamentari abbiano usufruito del bonus per le partite iva. Questi deputati chiedano scusa e restituiscano quanto percepito. E' una questione di dignità e di opportunità. Perché, in quanto rappresentanti del popolo, abbiamo degli obblighi morali, al di là di quelli giuridici. E' necessario ricordarlo sempre". Di identico parere è anche la viceministra cinquestelle dell'Economia Laura Castelli: "Se questa notizia fosse confermata, sarebbe molto grave - afferma su Facebook - Vorrebbe dire che a Montecitorio non c'è il senso della misura. Quando abbiamo pensato a questi provvedimenti, li abbiamo scritti per aiutare chi davvero stava soffrendo, chi si era ritrovato di colpa in difficoltà, chi ne aveva bisogno davvero. Col Movimento 5 Stelle abbiamo sempre combattuto gli sprechi e non credo appartenga ai principi 'onorevolì quello di richiedere il bonus partita Iva per chi di sicuro non fa fatica ad arrivare a fine mese ma ha avuto la fortuna di ricevere il proprio stipendio regolarmente anche durante la pandemia. Un gesto davvero inopportuno". E si augura che "si intervenga presto per capire chi ne ha fatto richiesta". Sulla stessa linea anche Licia Ronzulli, vicepresidente di Forza Italia al Senato, che afferma: "Se confermato, questo sarebbe semplicemente uno scandalo. E' inaccettabile che mentre le famiglie non sapevano come fare la spesa e molte attività chiudevano, qualcuno, con lo stipendio garantito, senza avere accusato perdite, abbia pensato di approfittarsi dell'emergenza Covid togliendo soldi a chi ne aveva realmente diritto e, soprattutto, bisogno. Ci aspettiamo un sussulto di dignità: i deputati di cui parla l'Inps chiedano scusa e, se li hanno presi, restituiscano immediatamente i soldi. Diversamente non si lamentino se i cittadini hanno sempre meno fiducia nella politica e si ingrossano le file dell'astensione e dei voti di protesta". Più diretto il leader della Lega, Matteo Salvini, che oltre a condannare il comportamento dei deputati, accusa l'Inps. "Che un parlamentare chieda i 600 euro destinati alle partite Iva in difficoltà è una vergogna. Che un decreto del governo lo permetta è una vergogna - attacca Salvini - ma che l'Inps abbia dato quei soldi è una vergogna". E aggiunge: "Chiunque siano i deputati, procedere con l'immediata sospensione". A chiedere dimissioni immediate, a prescindere dal partito a cui appartengono, a la ministra dell'Agricoltura e esponente di Italia Viva (partito a cui apparterebbe uno dei "furbetti"), Teresa Bellanova. "Chiunque siano, a qualunque partito e schieramento appartengono- sostiene su Facebook - se hanno un minimo di dignità possono fare solo una cosa per sanare questa brutta vicenda: dimettersi. Devono farlo perche' evidentemente non sono stati in grado di servire i cittadini che rappresentano ed il Paese con onore e lealta', tanto piu' in un momento come questo". Definisce la vicenda "uno squallore" la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. "Una brutta storia di deputati avidi e governo incompetente - afferma - sulla quale pretendiamo massima chiarezza. Intanto, visto che l'Inps non fa i nomi per questione di privacy, invito ogni parlamentare a dichiarare '#Bonus Inps io no!'. In modo che i nomi emergano lo stesso, per esclusione". Anche il vicepresidente del Pd alla Camera Michele Bordo condanna il comportamento dei 5 deputati, definendolo "inqualificabile". E aggiunge: "Spero che restituiscano subito i soldi o che il presidente Roberto Fico trovi immediatamente la maniera per porre rimedio a questa ingiustizia, che è uno schiaffo enorme nei confronti di chi ha realmente bisogno, specie dopo l'emergenza sanitaria. Questa vicenda dimostra che ha ragione il Pd quando afferma che sono sbagliati i contributi a pioggia senza nessun meccanismo di selezione". "Posso dire che è una vera vergogna?" scrive su Facebook il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Mentre il capogruppo dem alla Camera Graziano Delrio aggiunge: "Non possono essere ammessi comportamenti simili da parte di eletti in Parlamento, soprattutto dinanzi alle difficoltà e alle sofferenze vissute da così tanti italiani in questi mesi. Restituiscano subito gli importi e chiedano scusa al Paese". Il portavoce di Leu, Federico Fornero, chiede chiarezza sulla vicenda. "È giusto - dice - che gli italiani conoscano i l nomi dei cinque parlamentari e chi si è comportato in questo modo deve assumersi le proprie responsabilità, incominciando con il restituire subito i soldi. Si faccia dunque chiarezza sulla vicenda e la si faccia subito".

Gian Antonio Stella per “il Corriere della Sera” il 10 agosto 2020. Neanche l'immenso onorevole diccì Giovanni Alterio, che un giorno si mangiò alla buvette 24 panini e 5 crocchette di riso innaffiati da bottiglie d'acqua e limonata, era mai stato così ingordo. Come hanno osato cinque parlamentari, nei giorni più difficili della pandemia, chiedere (loro!) il bonus di 600 euro? Una schifezza. Da trattare col sarcastico dono che il verde Stefano Apuzzo riservò allora a quel deputato insaziabile: «Un sacchetto di ghiande per placare il vorace appetito». Ma c'è di più: a fare la domanda sarebbero stati anche circa duemila politici locali. Va da sé: è scoppiato un putiferio. E parallelamente un coro di censure. Da Nicola Zingaretti («Posso dire solo che è una vergogna?») a Giorgia Meloni («Una brutta storia di deputati avidi e governo incompetente sulla quale pretendiamo massima chiarezza»), da Roberto Fico («Questi deputati chiedano scusa e restituiscano quanto percepito. È una questione di dignità e di opportunità. Perché, in quanto rappresentanti del popolo, abbiamo degli obblighi morali, al di là di quelli giuridici») a Teresa Bellanova («Chiunque siano, a qualunque partito e schieramento appartengono, se hanno un minimo di dignità possono fare solo una cosa per sanare questa brutta vicenda: dimettersi»), da Mariastella Gelmini («Quei fondi erano per persone in grave difficoltà, chi ne ha approfittato dovrebbe immediatamente autodenunciarsi e restituire subito i soldi») a Luigi Di Maio («È davvero indecente. I nomi sono coperti dalla legge sulla privacy. Bene, siano loro allora ad avere il coraggio di uscire allo scoperto») a tanti e tanti altri.

Tutti scandalizzati. Per non dire di Matteo Salvini: «Che un parlamentare chieda i 600 euro destinati alle partite Iva in difficoltà è una vergogna. Che un decreto del governo lo permetta è una vergogna. Che l'Inps (che non ha ancora pagato la cassa integrazione a migliaia di lavoratori) abbia dato quei soldi è una vergogna. In qualunque Paese al mondo, tutti costoro si dimetterebbero».

Cesello finale: «Chiunque siano, immediata sospensione». Dove il «chiunque siano» dice tutto: tre parlamentari su cinque (gli altri due coperti da un'idea insensata della privacy pare appartengano al Movimento 5 Stelle e ad Italia viva) sarebbero infatti della Lega. Una legnata in più, in caso di conferma, a poco più di un mese dalle elezioni regionali, sulla groppa di un partito già inguaiato per il riaccendersi delle polemiche interne sui 49 milioni di euro da risarcire e lo scandalo sulle forniture alla regione Lombardia da parte dell'impresa proprietà della moglie e del cognato del governatore Attilio Fontana.

Sia chiaro: non è la prima volta, e probabilmente non sarà l'ultima, che la politica sia accusata di insaziabilità. Basti ricordare il caso di Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita del quale Filippo Ceccarelli nel libro Invano racconta che, «posseduto da un demone ingordo e spendaccione» per un totale di tredici milioni, non resisteva agli «spaghetti con il caviale presso uno dei migliori ristoranti della città politica, Carmelo alla Rosetta: raccontavano i camerieri che al momento di scolare e condire la pasta, Lusi si recava in cucina e qui, come in un rito solenne, con una bilancina misurava la quantità di caviale. Comunque erano 180 euro a piatto». Per non dire di tante inchieste sui rimborsi elettorali nei quali ci fu chi infilò di tutto: dalla bottiglia di vino da 112 euro al materasso ad acqua, dalla parrucchiera ai sensori elettronici per l'auto della moglie o del cugino. Quello che più offende, questa volta, e solleva una nuova ondata di indignazione, è la piccineria taccagna e miserabile di chi si è precipitato a raschiare quei 600 euro, di fatto sottratti a chi ne aveva più bisogno, in un momento tragico per il Paese. Quello della spaventosa conta quotidiana di morti, degli appelli a tutto il mondo per trovare respiratori per quanti si spegnevano affamati d'ossigeno, delle sale di rianimazione stracolme, dei medici che se ne andavano a due, tre, quattro al giorno, dei camion militari che partivano appena faceva buio per portare centinaia di bare verso cimiteri lontani per la cremazione... Nulla può giustificare l'avidità di chi in momenti come quelli ha fatto il furbo. Tanto più che, stando alle rivelazioni che sgocciolano tra l'imbarazzo e la collera dai vertici e dagli ispettori dell'Inps, dicevamo, sarebbero in totale un paio di migliaia i politici nazionali, regionali, comunali, ad aver cercato di avere una fetta di quella torta. Su tutti, imperdonabili, quei cinque anonimi segnalati dalla struttura di Pasquale Tridico, il presidente dell'istituto di previdenza che il 20 aprile aveva parlato di «4,4 milioni di domande per il bonus da 600 euro» dei quali «pagati 3,5 milioni». A maggior ragione perché l'accusa ai cinque parlamentari è stata giustamente accompagnata dal confronto con i redditi mediamente percepiti da deputati e senatori: «uno stipendio netto da 12.439 euro». Numeri ricavati dai siti ufficiali di Montecitorio e Palazzo Madama. Che, come ha ricordato recentemente truenumbers.it , certificano come un parlamentare «può arrivare a guadagnare oltre 17.625 euro lordi al mese se è senatore e o 18.735 euro lordi se è deputato». Il tutto a dispetto della stizzita comunicazione ufficiale con cui l'ufficio stampa del Parlamento il 3 gennaio 2012, otto anni fa, rispondeva non ai «soliti giornalisti criticoni» ma al rapporto della Commissione che, guidata da Enrico Giovannini, aveva comparato stipendi, diarie e indennità dei parlamentari europei con quelli di deputati e senatori nostrani: le indennità «sono pari mediamente a 5.000 euro. La cifra di 11.283,28 euro mensili è riferita infatti al lordo. Il netto risulta inferiore rispetto a quello percepito dai componenti di altri Parlamenti presi a riferimento». Certo, cinquemila senza tutte le altre voci. Chiarì tutto, nel giugno di due anni dopo, una comparsata al programma «L'aria che tira» di Giancarlo Galan, deciso a dimostrare, a dispetto delle polemiche e delle tesi dei magistrati che l'avevano incastrato per il Mose, di esser in grado benissimo di pagare il mutuo stratosferico della villa in cui viveva. Mostrò a Myrta Merlino la sua busta paga: «Tanto a questo punto è meglio essere considerato "casta" che non ladro». Fatti i conti, con la «diaria parte variabile, diaria parte fissa, rimborso forfettario, rimborso spese accessorie, rimborso semestrale, spese telefoniche, rimborso spese esercizio mandato» si arrivava «a 18 mila euro». Prova provata che i famosi tagli radicali sono nel tempo evaporati...

IL BONUS DEL DISONORE.  Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 10 agosto 2020. Un parlamentare che non si accontenta dei 13 mila euro che incassa ogni mese ma scrocca allo Stato i 600 euro destinati a salvare dalla miseria le partite Iva messe in ginocchio dal coronavirus non commette un illecito ma perde quell'onore che una volta giustificava il titolo di "onorevole". E dunque, ancor prima che si conoscessero i nomi dei cinque deputati o senatori che sono stati scoperti dalla centrale antifrode dell'Inps - tre leghisti, un grillino e un renziano - si è abbattuta su di loro l'onda di un'indignazione trasversale che in un altro Paese europeo li spingerebbe all'unica via d'uscita possibile: la restituzione, le scuse e le dimissioni immediate. Ma poiché in Italia la democrazia troppo spesso diventa commedia, siamo rassegnati a un finale all'italiana, perché in fondo aveva ragione Longanesi quando diceva che sulla nostra bandiera nazionale dovrebbe esserci una grande scritta: «Tengo famiglia». E infatti pare che non siano stati solo quei cinque parlamentari a fare i furbetti, ma più di 2000 politici locali, tra assessori e consiglieri regionali e comunali, sindaci e persino presidenti di Regione, una fetta non piccola di quella classe politica che anche durante la pandemia ha regolarmente ricevuto uno stipendio che nelle Regioni supera i 6000 euro. E allora capiamo che c'è una questione ancora più imbarazzante, ancora più allarmante, di quella degli onorevoli scrocconi, ed è la norma che ha permesso tutto questo, ovvero l'articolo 27 del decreto legge "Cura Italia". Che prevedeva un unico requisito, per l'erogazione dell'indennità di 600 euro a tutti i titolari di partita Iva e ai lavoratori Co.co.co: che non fossero pensionati. Limiti di reddito, zero. Chi l'ha scritta questa norma, i cui abusi oggi indignano così violentemente i Di Maio e tutti i pentastellati? L'hanno scritta loro, perché sono grillini il ministro dello Sviluppo economico Patuanelli, il ministro del Lavoro Catalfo, il viceministro dell'Economia Castelli e il presidente del Consiglio Conte. E l'hanno scritta con lo stesso inchiostro con cui fu stilata la legge sul reddito di cittadinanza, quando l'Inps ebbe solo cinque giorni di tempo per vagliare un milione di domande, e così in mezzo a quelle di tanti italiani realmente bisognosi si infilarono camorristi, spacciatori ed evasori fiscali. L'hanno scritta con la stessa fretta con cui sono stati erogati bonus a pioggia, a cominciare da quello per bici e monopattini, senza distinguere tra disoccupati e milionari. Lo scandaloso caso dei parlamentari che chiedono la mancia non è dunque solo un nuovo episodio dell'ingordigia della casta, ma è innanzitutto l'indizio della totale inadeguatezza di una classe politica populista che continua ad alimentare nel suo elettorato l'illusione che lo Stato possa distribuire redditi e bonus senza creare sviluppo e lavoro. Eppure sappiamo già che il principale effetto di questa immorale vicenda sarà quello di rafforzare il già solido sentimento anti-casta. E chi ci ha costruito sopra la sua fortuna politica - il Movimento 5 Stelle - certo la userà spudoratamente per la campagna per il taglio dei parlamentari. Cercando di farci dimenticare che oggi in Italia il vero problema non è il numero dei politici, ma la loro capacità di governare questo Paese.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 10 agosto 2020. Quattordicimila euro al mese, più varie prebende, senza lavorare in generale e certamente durante il periodo di lockdown non bastavano a cinque deputati che, si scopre, hanno fatto domanda di accedere ai sussidi - poche centinaia di euro al mese - previsti dai decreti emergenza Covid per chi era rimasto senza lavoro e stipendio. Lo rivela l'Inps, che getta il sasso ma ritira la mano. I furbetti del Covid sono infatti per ora senza nome, anche se non credo che rimarranno anonimi a lungo. Probabilmente i cinque non hanno commesso alcun reato - magari nella vita privata sono professionisti che in quei mesi non hanno fatturato - e questo già la dice lunga su come siano pensate e scritte le leggi di questi incapaci, perché permettere che agli aiuti possa accedere gente che comunque guadagna dieci volte lo stipendio medio di un italiano è scandaloso oltre che immorale. Accattoni è la giusta definizione di questi signori o signore che siano. Tra i tanti modi di fare soldi attraverso la politica, questo mi sembra il più meschino. Per prendere una tangente ci vuole coraggio e talento, un talento criminale ma pur sempre talento. Sottrarre risorse ai bisognosi quando si è con il sedere ben al caldo è semplicemente stupido e vigliacco. Sarà a norma di legge, ma mi ricorda tanto quell'infermiere di un reparto di rianimazione Covid che sottrasse il bancomat a un ricoverato e prelevò tremila euro. Attenzione, l'Inps non è uno spettatore neutro della partita politica. È un attore al servizio del governo, che per di più nel film Covid ha recitato una pessima parte, dando prova di non essere all'altezza del ruolo, per esempio nell'erogazione della cassa integrazione. Possibile quindi che la decisione di rendere noto il misfatto faccia parte di un regolamento di conti che poco ha a che fare con la morale, e il fatto che Di Maio sia stato il più lesto a saltare sullo scandalo è un indizio in tal senso. Ciò nulla toglie alla gravità di ciò che è successo. Consiglio agli interessati di uscire allo scoperto, non sperino di cavarsela con semplici e patetiche scuse o arzigogolate spiegazioni. Gente così, chiunque sia, non può stare in Parlamento un giorno in più.

Le confessioni dei politici "Bonus preso, processateci..." Alcuni consiglieri rivendicano la richiesta dell'assegno per le partite Iva. E spiegano così i motivi della loro scelta. Federico Garau, Lunedì 10/08/2020 su Il Giornale. Non si placa la bufera sul bonus di 600 euro messo a punto dal governo per auitare i titolari di partita Iva in difficoltà e percepito anche da alcuni membri del parlamento e rappresentanti locali della politica. Mentre prosegue la "caccia" ai nomi dei 5 deputati che avrebbero usufruito dell'ammortizzatore sociale, un altro consigliere comunale ha deciso di seguire l'esempio di Anita Pirovano, consigliera del comune di Milano, e di autodenunciarsi.

Rispondendo al post pubblicato su Facebok della rappresentante di "Milano progressista", Jacopo Zannini, consigliere per il comune di Trento appartente al gruppo "L'Altra Trento a Sinistra" ha dichiarato: "Grazie Anita Pirovano. Sono in Consiglio comunale a Trento e anche io non vivo di sola politica, pago l'affitto ogni mese e per marzo e aprile sono rimasto senza lavoro e ho chiesto come te i 600 euro visto che con i gettoni di presenza non sarei arrivato a fine mese... ed è giusto rivendicarlo". Un intervento, quello di Zannini, che ha ricevuto la comprensione di un utente, che ha commentato: "Jacopo è diversa la tua situazione da quanto credo di aver capito". "Certo molto diversa ma lo dico per evitare di fare demagogia", è stata la replica del consigliere di Trento.

Intervistata da "Radio Capital", la stessa Anita Pirovano ha ancora una volta ribadito quanto affermato nel suo post lasciato sui social. "Io faccio il consigliere comunale, non il parlamentare né il consigliere regionale o l'assessore regionale. Quello che viene percepito in termini di riconoscimento economico è sostanzialmente diverso. A differenza dei parlamentari e dei consiglieri regionali noi non prendiamo un'indennità, ma dei gettoni di presenza. Guadagno ben sotto i trentamila euro lordi, visto che devolvo una parte dei gettoni da consigliere. Se avessero messo un tetto Isee per accedere a questo ammortizzatore, come avrebbero dovuto, avrei potuto beneficiarne. Ho esplicitato la mia situazione non per giustificare i cinque parlamentari, ma per rendere ancora più esplicito che hanno fatto una cosa assurda, sbagliata", ha spiegato, come riportato da "LaPresse". La sua condizione, così come quella dei colleghi, non è dunque equiparabile a quella dei parlamentari. "Bisogna spiegare ai cittadini che non tutta la politica è lo stesso, che fare il parlamentare è diversissimo dal fare il consigliere comunale. Io ho rivendicato quello che ho fatto, non ho problemi etici a dimostrare le mie ragioni. Spero che anche loro, che avranno più difficoltà a trovare giustificazioni etiche, escano allo scoperto e chiedano scusa agli italiano. Dovrebbero dimettersi perché hanno sbagliato lavoro", ha aggiunto la Pirovano. Alla domanda se anche lei sarebbe ora disposta a dimettersi, la consigliera ha poi replicato: "In generale non prendo ordini, ma ci rifletterei. Magari più se me lo chiedessero i miei elettori. Al momento le reazioni al mio post su facebook sono di ringraziamento, c'è chi mi dice grazie per aver fatto vedere che la politica è soprattutto servizio e non guadagno". Pirovano si dice pronta al confronto anche se le venisse richiesto di restituire il bonus, ed è certa di non aver commesso alcun errore:"Non ho sbagliato, lavoro da psicologa ed è la mia attività principale, e avendo avuto come tutti una situazione di difficoltà in questi mesi ho chiesto di accedere a una misura che esisteva. Se fossi stata ricca non lo avrei chiesto", ha concluso.

Ad unirsi al coro anche un consigliere comunale di Ancona, Francesco Rubini, che risponde duramente alle critiche: "Ho 29 anni, sono un giovane avvocato precario con una partita Iva aperta nel 2019 e faccio il consigliere comunale nel comune di Ancona dove percepisco gettoni di presenza (niente stipendio, indennità, rimborsi, benefit etc, etc) per una media di 600/700 euro al mese. Ho chiesto e ottenuto il bonus di 600 euro per i liberi professionisti perché, malgrado una laurea magistrale, un titolo da avvocato, una nobile professione e un ruolo istituzionale in un capoluogo, sono ancora costretto a barcamenarmi per avere un reddito mensile decente", ha dichiarato, come riportato da "LaPresse". Poi, la provocazione: "Adesso, cari populisti da strapazzo, odiatori di professione, leoni da tastiera e buffoni vari, venite a prendermi per processarmi in pubblica piazza nella vostra ridicola guerra contro 'i politici ladri'. Vi aspetto a braccia aperte".

Ad aggiungersi alla lista anche il consigliere regionale di Forza Italia Franco Mattiussi, che ha rivelato di aver richiesto il medesimo bonus. "Ho utilizzato quei soldi anche per far quadrare conti che comunque dovevano essere saldati. Perché nonostante tutto fosse fermo, bollette continuavano ad arrivare. Quindi, calma. Sangue freddo e razionalità. Che puntare il dito è fin troppo facile. Vedere la luna un'altra cosa", ha detto il noto albergatore sulla sua pagina Facebook. "Capisco la semplicità dell'antipolitica. Capisco il caldo e, forse, una certa rabbia sociale, che taluni aiutano a montare. Magari non troppo giustificata da foto balneari", ha proseguito Mattiussi. "Capisco il richiamo alla morale. Ma fatico a vederne una definizione compiuta in questo tempo. I parlamentari così come Sindaci e consiglieri regionali vari ed eventuali che hanno richiesto il bonus Inps non hanno rubato nulla, ma hanno esercitato un loro diritto. Hanno, in un certo senso, profittato di una norma che lo consentiva. L'avere partita iva presuppone l'esistenza di un lavoro autonomo parallelo alla figura politica ricoperta". Mattiussi, che gestisce varie strutture (tra cui, come ricordato dal Corriere Veneto, l'hotel ristorante Patriarchi di Aquileia, la trattoria albergo Ai Cjastinars a Villa Vicentina, l'albergo Aquila Nera ed il bar Cjapitul entrambi ancora ad Aquileia), avrebbe utilizzato il bonus "immettendolo nella casse aziendali". Il profilo di Mattiussi è stato tempestato di messaggi di utenti indignati: "Vergognati", "Gente senza vergogna in questa come probabilmente in altre occasioni", "Non ti voterò più", "Provo nausea nei tuoi confronti" "6300 euro lordi mesi, 2400 netti esentasse, 17400 lordi e le servivano 600 euro?". Una reazione che ha spinto l'albergatore a replicare. "Sto leggendo commenti alcuni civili ed alcuni meno relativi alla mia ammissione. Ho scelto, come sempre, la trasparenza. Ma qui sta nascendo un paradosso: se la mia azienda causa lockdown ha una perdita d'incassi prossima ai 300000 euro e lo Stato - cui regolarmente pago le tasse- mi riconosce 600euro in due mensilità non c'è nulla da giustificare. Anzi", ha spiegato il consigliere di Forza Italia certo del fatto suo.

Le prime confessioni hanno fatto uscire allo scoperto altri politici. "In quei mesi di lockdown il mutuo per la casa, il fitto per lo studio legale, la rata per l'auto, le bollette per i consumi non hanno avuto alcuna sospensione... E allora voglio essere trasparente fino all'inverosimile: ho chiesto e ottenuto, così come 142.000 avvocati in Italia, il bonus professionisti legato al Covid-19 semplicemente perché ne avevo diritto e ne avevo bisogno", ha spiegato su Facebook il consigliere comunale di Lamezia Terme Rosario Piccioni, che era stato in corsa anche per la poltrona di sindaco. "600 euro per il mese di marzo e 600 euro per il mese di aprile. E non me ne vergogno: perché di professione faccio l'avvocato e non il politico". Una motivazione che oramai ha contagiato quanti hanno richiesto il bonus. "E lo sanno tutti che anche la giustizia, così come tanti settori, nei mesi di marzo e aprile è stata completamente paralizzata e noi avvocati non abbiamo lavorato: non abbiamo svolto cause e non abbiamo potuto ricevere clienti", ha concluso.

"Apprendo da internet che sindaci e consiglieri comunali che hanno richiesto i 600 euro all'INPS debbano essere considerati dei 'furbetti'", esordisce invece il sindaco di Solbiate con Cagno (Como). "Bene, per grande trasparenza non aspetto che qualcuno trafughi notizie, nè che l'INPS renda noti i nomi, ma preferisco dire subito che, pur essendo sindaco di un piccolo comune, ho chiesto il bonus da 600 euro come libero professionista. E non l'ho fatto per rubare qualcosa, ma per un semplice e chiaro motivo: dopo l'ultima fattura del 26 febbraio, a marzo, aprile e maggio ho fatturato ZERO con la mia partita iva", ha spiegato il primo cittadino. "Chi vuole vedere la mia situazione finanziaria, ha la mia massima disponibilità. Ho ben poco da nascondere. Chiudo molto rapidamente: se qualcuno mi dimostrerà che ho realmente sbagliato (come molti, a quanto pare), ben disponibile a restituire, ma fino a quel ma fino a quel momento evitiamo di fare come sempre di tutta un'erba un fascio", ha aggiunto Federico Broggi.

I “furbetti” del bonus sono solo cinque su mille parlamentari, ma il populismo vince. Il Dubbio il 10 agosto 2020. La furia propagandista cavalca il referendum di settembre sul taglio dei deputati. Ma i cinque non hanno trasgredito alcuna legge: si sono avvalsi di una norma che li favoriva. In Parlamento e aree limitrofe è caccia grossa. Fuori i nomi dei cinque “furbetti”, come sono stati ribattezzati senza spreco di fantasia i 5 onorevoli, tre della Lega, uno del M5S e uno di Iv che hanno chiesto il bonus autonomi di 600 euro nonostante godano di uno stipendio che non si può definire da fame. Il più imbarazzato è Salvini: con tre dei suoi nella listaccia la croce dal dorso non gliela toglie nessuno. Di Maio invece si frega le mani. Quell’unico reprobo pentastellato non offusca l’occasione propagandistica d’oro e diamanti in vista del referendum sul taglio dei parlamentari. Quei cinque insaziabili sono la prova provata della nefandezza parlamentare. Il loro affronto alla miseria grida vendetta e quale occasione migliore per coglierla di un referendum il cui senso compiutamente antiparlamentare non sfugge a nessuno proprio dietro l’angolo. Le dimissioni, se mai i partiti di appartenenza riusciranno a strapparle ed è ben poco probabile, non laveranno l’onta, le bordate propagandistiche resteranno ad alzo zero. Non che siano davvero giustificate però. I cinque non hanno trasgredito alcuna legge: si sono avvalsi di una norma che li favoriva. Può non essere corretto e certamente non lo è ma nulla di più. Al contrario, la percentuale dovrebbe suonare quasi rassicurante. Cinque parlamentari su circa mille, ciascuno dei quali avrebbe avuto tutto il diritto di avanzare la sua brava richiesta di bonus, sono lo 0,5%. Tenendo conto del vertiginoso abbassamento del livello medio dei parlamentari nell’ultimo quindicennio, dovuto proprio alla perdita di ruolo del Parlamento stesso, non è neppure una percentuale da strapparsi i capelli. Il problema serio dovrebbe riguardare una tendenza che il caso Montecitorio indica e che al di fuori del Parlamento ha dimensioni ben più massicce. Se quei parlamentari, e sembrerebbe un paio di migliaia di consiglieri comunali e regionali, hanno potuto chiedere il bonus è perché il governo aveva deciso di lasciare le maglie molto larghe, senza condizioni controlli o filtri di alcun genere. Disfunzioni a parte, il bonus doveva essere erogato a tutti. Su una altra voce “di ristoro” però la scelta è stata opposta: il reddito di emergenza, destinato ai più poveri e ai più penalizzati dalla crisi, è stato ridotto all’osso, 400 euro una tantum raddoppiati per le famiglie molto numerose, e soprattutto le condizioni per accedervi sono state fissate con tanta rigorosità da tagliare fuori buona parte della platea. Alla fine il rde è arrivato solo a un terzo della platea inizialmente prevista. In questo caso non si tratta della furbizia di un numero insignificante di deputati e neppure di una distrazione: al contrario una parte della maggioranza aveva segnalato e protestato per i criteri opposti con i quali il governo guardava agli autonomi da un lato e ai precari dall’altro. Del resto, proprio mentre tagliava (di oltre due terzi) il fondo previsto per il reddito d’emergenza il governo allargava gli sgravi fiscali a tutte le aziende, incluse quelle che nella crisi non hanno perso o hanno guadagnato. Non è infine un mistero che molte aziende si siano avvalse della cassa integrazione continuando a far lavorare da casa i dipendenti e limitandosi a risparmiare sugli stipendi. Lo scandaletto di Montecitorio è solo la schiuma sulla cresta di un’onda gigantesca. Al di là della palese ingiustizia, la decisione del governo di muoversi in questa direzione è allarmante, in vista delle scelte da compiersi con il Recovery Fund europeo, perché conferma due tendenze esiziali. La prima, non certo limitata all’Italia, è il miraggio di raggiungere un’impossibile quadratura del cerchio: la speranza di mantenere basso il costo del lavoro, altissime le diseguaglianze sociali e tuttavia rilanciare la domanda interna. La logica della iniqua ripartizione delle risorse nel dl emergenziali del governo Conte è evidente. Inutile dare soldi a chi ne ha pochissimi, perché comunque non spenderebbe e l’investimento sarebbe a fondo perduto in termini di aumento della domanda interna. Molto meglio sostenere il ceto medio e quello medio alto auspicando che consumino, spendano e riportino in alto la domanda interna. Non ha mai funzionato e non funzionerà neppure stavolta: senza quell’intervento drastico sulle diseguaglianze sociali che peraltro la Commissione europea stessa invoca a gran voce non ci sarà vera ripresa della domanda interna e dunque del Pil. La seconda tendenza è invece essenzialmente italiana. Consiste in una politica industriale ridotta a sovvenzionare le aziende, senza alcuna visione strategica e senza alcun ruolo oltre l’assecondare l’eterna tendenza del capitalismo italiano a farsi assistere.

Società civile assolta e politici alla gogna: il populismo all’italiana. Paolo Delgado su Il Dubbio il 13 agosto 2020. La Lega ha sospeso i deputati Murelli e Dara perchè sono tra quelli che hanno incassato i bonus. Ma nessuno si scandalizza delle centinaia di notai che hanno preso i 600 euro nonostante gli incassi da favola. Alla fine l’Inps comunicherà a una folla assetata di severa punizione i nomi dei tre reprobi che, pur godendo dello stipendio di parlamentari, hanno chiesto e ottenuto a differenza di altri due colleghi a cui è stato negato, il bonus di 600 euro mensili, passati poi a mille tondi.  Intanto la Lega ha sospeso i deputati Murelli e Dara perchè sono tra quelli che hanno incassato i bonus. Pur se del tutto legittima la richiesta non è stata precisamente un bel gesto e un certo grado di indignazione è in questo caso giustificato. Negli ultimi tre giorni, però, si è prodotto nel Paese un clima che è andato ben oltre i confini della comprensibile e legittima indignazione. Una sorta di caccia alle streghe che dallo sparuto drappello di parlamentari si è allargato ai consiglieri comunali, senza tener conto della spesso enorme differenza di stipendi. Il particolare è considerato secondario dal momento che sempre di politici si tratta e che si portino a casa un gettone da mille euro o una busta paga da 12mila che spesso lievita poi intorno ai 18mila, cosa cambia? Ci sono state autodenunce, impegni a espiare evitando la ricandidatura, messe all’indice, cancellazioni preventive dalle future liste. Come se nulla fosse è stato chiesto a voce stridula di ignorare la Costituzione costringendo i 3 deputati a restituire il maltolto ( che in realtà non è tale, almeno a termini di legge) con norma retroattiva. Si è invocata una impossibile costrizione alle dimissioni. Complice la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, i 5S non hanno esitato a sbandierare l’efferato delitto come prova della turpitudine del Parlamento, svelando così il carattere compiutamente antiparlamentare sia della riforma che del correlato referendum. E’ indicativo che a questa furia, non solo popolare ma altrettanto diffusa tra i politici e i giornalisti, nei confronti dei deputati e consiglieri comunali o regionali non si sia accompagnato nessuna reazione scandalizzata a proposito delle altre categorie. Le notizie fatte filtrare in maniera opaca e poco accettabile dall’Inps parlavano di 5 deputati e di un noto conduttore televisivo. Nessuno ne ha reclamato il nome. Nessuno se l’è presa, pur sapendo che in linea di massima gli emolumenti dei “noti conduttori” vanno ben oltre quelli dei parlamentari, per non parlare dei consiglieri comunali. E’ noto da mesi, pur se mai ufficialmente quantificato, che nelle categorie professionali la percentuale di quanti che hanno battuto cassa invocando un bonus del quale non avevano bisogno va ben oltre quella, in realtà molto esigua riscontrata fra i parlamentari. In fondo a chiedere quei 600 euro sono stati in 5 su mille, pari appunto allo 0,5%, percentuale che scende, considerando quelli che il bonus lo hanno effettivamente incassato, allo 0,3%. Corre voce che tra i notai ad avanzare la quella richiesta siano stati in centinaia. Tenendo conto del fatto che i notai sono una professione a numero chiuso, sono in tutto 5.115, e che di conseguenza si tratta anche di quella più lucrosa, il dato dovrebbe suscitare quantomeno un qualche disappunto. E’ poi il segreto di Pulcinella che molte aziende abbiano usufruito della cassa integrazione, ma senza ritenersi di conseguenza obbligate a non far lavorare i dipendenti cassintegrati. Un bel risparmio, lo si riconosca. La stessa giustificazione accampata dalla viceministra Castelli per spiegare la totale assenza di condizioni nella distribuzione del bonus, “Dovevamo fare presto”, non è stata confutata quasi da nessuno ricordando alla viceministra che nel caso del reddito di emergenza non è stata avvertita alcuna esigenza di fare presto e le condizioni sono state pensate freddamente per impedire a molti degli aventi diritto di incassare quei 400 euro una tantum. Nessuno o quasi se l’è presa a male di fronte a quest’onda gigantesca sulla cresta della quale figurano come trascurabile schiuma quei cinque deputati. Nessuno ha reclamato chiarimenti, invocato punizioni esemplari, puntato l’indice. E’ il frutto di un decennio e oltre nel quale i politici sono stati descritti come una combriccola di inutili mangiapane a tradimento, ceto parassitario nella migliore delle ipotesi, corrotto e venefico nella peggiore. Se un notaio chiede e ottiene il bonus, la cosa appare certamente disdicevole ma si ferma lì. Se a fare la stessa cosa è un politico la colpa si somma a quella di essere, appunto, un politico. Diventa la goccia che fa traboccare il vaso, il particolare lercio che getta una luce acquitrinosa su tutto il resto, l’occasione per cogliere una a lungo attesa vendetta. Difficile immaginare una temperie politica più infida e pericolosa.

Clima da monetine. Bonus ai deputati, tutti si inchinano al moralismo di Travaglio e dei suoi ragazzi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Sta tornando il clima del 1993. L’anno delle monetine a Craxi, assediato dai militanti del Pds e del Msi; l’anno del popolo dei fax che faceva e disfaceva le leggi, e dei neofascisti che circondavano il parlamento gridando “arrendetevi”, e dei leghisti che in aula a Montecitorio facevano dondolare un cappio, ridenti, contenti, furenti. Sta tornando quel clima lì. La parola d’ordine è: “Prendete il Palazzo”. C’è anche il referendum alle porte. Diventerà un plebiscito. Cosa vogliono quelli del sì al referendum? Vogliono ridimensionare il parlamento e indicare il parlamentarismo come il male oscuro della nazione. Da battere, spazzare via. C’è qualcosa di meglio, per sostenere questa campagna, della scoperta che tre deputati e un po’ di consiglieri regionali hanno chiesto e ottenuto i seicento euro di sostegno previsti per i lavoratori poveri a partita Iva? A lanciare la campagna è stata l’Inps. Guidata da questo Pasquale Tridico, credo che sia un uomo legato ai 5 stelle e che ai 5 stelle, probabilmente, ha voluto fare un piacere. Loro lo hanno accolto con entusiasmo il regalo. Anche se tra i felloni c’è uno di loro. Che problema è? Lo espellono e via. Voi conoscete la linea politica dei 5 Stelle? La linea è l’antipolitica, cioè la guerra alla democrazia parlamentare. Il loro capo, che poi è ancora Grillo, questo ha in testa e non molto di più. Su questo punta tutto. Ed ecco l’Inps che viola la riservatezza e il suo ruolo istituzionale e si getta in politica a menar cazzotti e raduna subito un bel gruppetto di picchiatori: da Di Maio a Travaglio, che promuove una raccolta di firme sul Fatto: “Fuori i nomi”. 20 mila firme in dieci minuti. Sembrano quei film americani quando la gente del linciaggio circonda la casetta dello sceriffo e vuole che gli consegni i negri per scannarli. Viene la pelle d’oca a vedere queste scene, siamo nell’Italia di Manzoni, di Gramsci e De Gasperi, di Moro e Craxi, di Sciascia e di Calvino e di Enzo Tortora, e siamo nel 2020. Ma vincono loro, i ragazzi di Travaglio. Tutti si inchinano al loro moralismo e alla nuova inquisizione. Pure i leghisti, che ci stanno dentro fino al collo. Ma non reagiscono, hanno paura. Tutti hanno paura, da Zaia a Zingaretti. I leader dei partiti tacciono o vanno appresso a Di Maio e Travaglio. È peggio del ’93.

P.S. Ho visto che molti dei politici che hanno preso il bonus hanno dichiarato di aver dato tutto ai poveri. Probabilmente ai migranti. Vedrai, vedrai che anche stavolta è colpa loro…

Scalpita il Tribunale etico supremo. Bonusopoli, l’ennesima legge fatta male da chi ora chiede punizioni impossibili. Alberto Cisterna su Il Riformista l'11 Agosto 2020. l bonus Iva percepito da parlamentari, amministratori e quant’altro a pelle è una schifezza. Non si tratta di essere populisti, né demagoghi. Con migliaia e migliaia di partite Iva nei guai per colpa della pandemia, che il denaro pubblico finisca nelle tasche di chi non ne ha alcuna necessità fa risuonare ancora una volta i rintocchi delle campane a morto per la casta. Una casta che, in questi mesi, aveva tentato invero di rialzare il capo accreditando l’idea di saper governare in qualche modo il Paese, sia pure con miliardi e miliardi di elargizioni a pioggia distribuiti a destra e a manca.  Con un’operazione, del tutto consapevole a prima vista, che puntava a sostituire la demagogia dell’antipolitica con un populismo economico di stampo peronista e vocazionalmente bancarottiere. Ci sono settori ormai ampi dell’establishment che non vedono di buon occhio questo tentativo corposo di riconquistare una centralità della politica. Tacciata un giorno sì e l’altro pure di incompetenza e incapacità, la “razza padrona” della classe dirigente italiana ha visto, dopo anni di stenti e austerità finanziarie, dispiegarsi innanzi ai propri occhi un’occasione straordinaria e irripetibile, quella di dispensare denari a pioggia a chiunque e in qualunque direzione senza dover tener conto di vincoli e reprimende eurocomunitarie. L’epidemia sanitaria ha inoculato nel corpo malaticcio e malfermo della politica italiana l’illusione di poter riconquistare consenso e prestigio mettendo a libro paga un’intera nazione in tutte le sue più minute articolazioni. Ciò posto non è un caso che, in queste ore, a lanciare fuoco e fiamme contro i furbetti del bonus siano proprio coloro i quali questa perfida e pericolosa onda dell’attacco al palazzo d’inverno del potere politico in Italia l’hanno inventata anni or sono, traendone benefici enormi, e non solo in termini di mera notorietà. C’è chi proprio non tollera che la politica abbia un consenso. La precarietà del governare è divenuta il modo d’essere del potere politico nazionale e da questa condizione di subalternità c’è chi trae vantaggi enormi a spese della collettività. Comprendere lo scenario complessivo entro cui anche questa polemica agostana si dipana e arroventa non impedisce che possa causare fastidio il fatto che – da ogni parte – anziché fare ammenda per l’ennesima legge mal scritta e mal gestita, si voglia supplire alla piena legittimità delle elargizioni del bonus a qualche “immeritevole” con reprimende morali, stucchevoli quanto insopportabili. È il destino triste e oscuro cui il Paese si è consegnato da un paio di decenni: non conta che le norme siano rispettate e che le regole non siano state infrante. Perché esiste una superiore legge morale, amministrata da solerti Savonarola, in base alla quale si stabilisce, di volta in volta ossia per capita, che ciò che pur è del tutto legale deve essere o può essere giudicato come immorale se scrutato sotto i riflettori di una più alta etica pubblica. Spiace citare per l’ennesima volta il compianto professor Sgubbi (Diritto penale totale Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019), ma anche questa volta la sua analisi coglie nel segno: punire senza legge, ecco la spaventosa involuzione del principio di legalità e di libertà che il nostro Paese conosce da troppo tempo e cui tributa un prezzo enorme. È un’involuzione tragica che, ad esempio, dissuade chiunque dall’investire in Italia, che rende le indagini penali un torneo dall’esito imprevedibile, che attanaglia le libertà fondamentali, quelle economiche in primo luogo. Se il principio cardine delle democrazie liberali è quello per cui tutto ciò che non è vietato deve intendersi come consentito, il Tribunale supremo etico – che ha afferrato per la gola un popolo e che vorrebbe soggiogarlo – si pone sopra e oltre la legge e la Costituzione e si arroga il diritto di poter affermare, a propria discrezione, che ciò che è legale può essere immorale. Poco importa che un legislatore distratto e inetto, o anche solo liberale, abbia concesso varchi e aperto così la via anche a qualche mascalzone, tanto “superior stabat lupus” e, squadernando i codicilli di questa morale immanente e mai codificata, i sacerdoti dell’etica pubblica troveranno quale peccato sia stato commesso e quale infrazione debba essere portata al pubblico ludibrio. In queste ore è un coro unanime: fuori i nomi dei profittatori. Certo, perché senza i nomi la gogna morale non è perfetta, senza i nomi tutto si ridurrebbe a dover ammettere che la legge è stata scritta in modo imperfetto e che tutto, alla fine, è legittimo, ossia ciò che davvero dovrebbe contare in una democrazia delle regole. In questi decenni il Tribunale supremo etico e le sue inflessibili vestali hanno sedato ogni horror vacui e colmato ogni interstizio a danno delle libertà individuali, minacciandole costantemente con reprimende morali distruttive e irreversibili. Un Paese così viene preso in ostaggio e tanto più il denaro pubblico scorre a fiumi verso i sudditi bisognosi, tanto più si accresce la possibilità di stigmatizzare questo o quel percettore, ieri per il reddito di cittadinanza, oggi per il bonus Iva, domani casomai per l’ecoincentivo di migliaia di euro che spetta anche per acquistare auto da nababbi. Si confeziona la regola giuridica e, poi, si copre ogni fuga e ogni crepa con la malta cementizia della morale, casomai la legge non fosse precisa, il Tribunale supremo è lì pronto a intervenire. «Punire senza legge» è la più temibile deviazione che Filippo Sgubbi addebitava alla giustizia penale italiana dell’ultimo decennio, perché la vedeva protesa in modo preoccupante a elaborare giudizi morali e, poi, a cercare nelle pieghe del sistema il precetto da applicare. Ma quel sistema penale, così facendo, non si è ridotto ad altro che a funzionare come il braccio operativo – aggressivo e temuto – di una più grave e radicale deviazione dai valori liberali che tengono insieme una democrazia matura. L’assalto al principio di legalità e di libertà è la più pericolosa eversione democratica che sia in atto da tempo nel Paese e troppo pochi sono coloro i quali tentano di costruire argini e approntare aree con cui contenere e dare sfogo alla piena moralista.

Bonusopoli, assist dell’Inps a Di Maio: politici alla gogna per 20 euro a seduta. Giulio Seminara su Il Riformista l'11 Agosto 2020. La caccia ai “furbetti del bonus”, le accuse indiscriminate dell’Inps, Luigi Di Maio contro il diritto alla privacy, la folla inferocita e l’ennesimo enorme e confuso processo sommario alla “casta politica”: alla vigilia del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari ecco il nostro incubo populista di una notte di mezza estate. Andata in ferie la politica, puntualissimo il giallo da sdraio. Ancora ignari di come verranno spesi i 209 miliardi del Recovery Fund, ci siamo lanciati alla ricerca dei cinque -nel frattempo diventati tre- parlamentari italiani che durante il lockdown hanno richiesto e poi ottenuto i bonus di 600 euro mensili garantiti dal decreto Cura Italia ai lavoratori autonomi e alle partite Iva colpite dalla crisi sanitaria. Non ci sarebbe molto da aggiungere: se alcuni rappresentanti delle istituzioni, pagati circa 12000 euro al mese, sfruttano un bonus del governo pensato per i disgraziati che hanno perso clienti, botteghe e stipendio a causa del Coronavirus, non commettono necessariamente un illecito ma una sgradevole furbata e un atto politicamente balordo. Se confermata la liceità della sgradevole iniziativa, questi parlamentari sarebbero semplicemente da non ricandidare, certamente non da rinchiudere in carcere. Ma lo scandalo, lanciato da Repubblica e basato sull’inchiesta della direzione centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell’Inps, l’organo anti-truffe creato da Pasquale Tridico, sta provocando un autentico tsunami di populismo e antipolitica. Anche perché l’Inps, con il suo documento-inchiesta ha creato un immenso e caotico calderone di “furbetti del bonus”, avendo inserito non solo i cinque -diventati tre- parlamentari fantasma ma circa 2000 politici nostrani, tutti “colpevoli” di aver richiesto il bonus di 600 euro garantito dal decreto Cura Italia. Ci sono, non citati, governatori di regione, sindaci, assessori locali, consiglieri regionali e comunali. Così in un Paese che non è diventato migliore a causa del Covid, semmai più povero e frustrato, è sorta subito “Bonusopoli”, una specie di Tangentopoli senza neanche magistrati e l’ombra di un reato, ma con simili furie e giustizialismi anti-casta. Sui social mancano solo i forconi, e se la frustrazione contro la furbizia di un deputato, rappresentante del popolo ben pagato, è almeno comprensibile, la crociata contro i consiglieri e assessori comunali appare quantomeno fuori fuoco. Come si fa a stigmatizzare la richiesta del bonus da parte di amministratori locali, possibilmente di piccoli comuni, che a seduta prendono 20 euro lordi di diaria? E siamo certi che i consiglieri delle grandi città siano davvero resi ricchi dalla politica o comunque siano avulsi da bisogni o problemi economici? Intanto è partita la caccia ai politici. Logorata da questa strana inquisizione estiva, la consigliera comunale di Milano Anita Pirovano è uscita allo scoperto, facendo coming out: «Sarei coinvolta nello scandalo dei furbetti del bonus e mi autodenuncio. Non vivo di politica perché non voglio e non potrei». La donna, laureata in Psicologia, svolge “lavori e consulenze per scuole e università”. Su Facebook ha spiegato di avere “un reddito annuo dignitoso e nulla di più” e un “mutuo”. La consigliera ha chiarito che “l’impegno a Palazzo Marino” non le garantisce né “un’indennità né i contributi Inps”. È probabilmente la verità ma i commenti in rete sono stati spietati, nell’apoteosi di un populismo feroce che non guarda in faccia nessuno e non sa distinguere tra parlamentari e consiglieri locali, persone benestanti e persone normali, se non addirittura economicamente precarie. Un altro aspetto controverso è stato l’equivoco tra i dati dell’Inps, spiattellati dai giornali, e le informazioni in possesso tra i partiti. Così Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Italia Viva, è stato costretto a chiamare il direttore dell’Inps Pasquale Tridico per farsi “rassicurare” sul fatto che tra i parlamentari furbetti non ci sono esponenti renziani, dopo un giorno e mezzo di tam-tam e condanne a mezzo social sul “parlamentare renziano ladro e infame”. D’altronde l’ “Indovina chi” sui “furbetti del bonus” ha sì eccitato il dibattito pubblico e scosso i partiti, ma è avvinto da un alone di mistero alla Agatha Christie. E l’Inps, vincolata al rispetto della privacy ma donatrice di scoop ai giornali e di processi alla piazza, avrebbe svolto un “servizio pubblico barbaro”, secondo lo stesso Rosato. Intanto prosegue la sarabanda dell’indignazione dei leader, con Nicola Zingaretti che urla “vergogna”, Giorgia Meloni che invita i parlamentari a definirsi estranei allo scandalo su twitter (come se poi i colpevoli non potessero twittare falsità) e Luigi Di Maio che invoca “dimissioni immediate” e “iniziative parlamentari” per scoprire l’identità dei parlamentari furbetti, contestando di fatto il diritto alla privacy. L’ex capo politico del Movimento 5 stelle non ha rinunciato a fare da gran cassa alla rabbia d’agosto, attaccando su Facebook i “2000 politici che hanno richiesto il bonus”. Per lui sono già tutti colpevoli. Anche se il reato non esiste e tra loro ci saranno sicuramente molti amministratori locali che fanno politica per passione, rimettendoci solo tempo e soldi. Per Di Maio i loro nomi devono essere “resi pubblici”. Una specie di messa alla gogna. Secondo i rumors, i tre ignoti “parlamentari furbetti del bonus” sarebbero due leghisti e un pentastellato. Nella Lega serpeggia l’imbarazzo per questi due esponenti ancora misteriosi ma già incandescenti. Pare che qualcuno avrebbe parlato di “disguido con il commercialista”, intanto Salvini tuona “sospensione immediata”. Ma in realtà con “Bonusopoli” sotto accusa è tutta la classe politica, dal parlamentare al consigliere comunale. Un pessimo momento prima del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari di settembre. Ormai una triste formalità.

Bonus a deputati e politici, nessun reato ma solo una legge scritta con i piedi. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Agosto 2020. S’è aperta la caccia. E s’è aperta la gara a chi riesce a pronunciare la frase più indignata. Partecipano più o meno tutti. Sia i partiti accusati di essere coinvolti sia quelli che pare siano fuori. Lo scandalo sono quei 600 euro di bonus per le partite Iva in difficoltà che secondo l‘Inps sarebbero stati percepiti da cinque parlamentari e da un conduttore televisivo. Impossibile conoscere i nomi, però si conoscono i partiti di appartenenza. Nessun reo confesso, per ora, anche perché il clima è quello del linciaggio. Meloni, Salvini e Di Maio più di tutti, ma gli altri a ruota. Nessun leader di partito ha invitato alla calma e ad aspettare almeno di sapere meglio cosa sia successo. Le indiscrezioni dicono che i cinque deputati sarebbero tre della Lega, un 5 Stelle e un renziano. Però ieri sera si è sparsa la voce che i 5 reprobi in realtà siano 3 e che non ci sia nessun renziano. Dopodiché siccome l’Inps ha spiegato che ci sono poi altri 2000 politici tra governatori, assessori e consiglieri comunali, l’orgia dei moralisti si è allargata ancor di più. Tra urla di dolore e richieste di fucilazione. Nessuno ha fatto notare che c’è una bella differenza tra un deputato, che ha uno stipendio di 12/13 mila euro al mese, e un consigliere comunale di un piccolo paese, che probabilmente alla fine del mese porta a casa un centinaio di euro e magari del sussidio ha bisogno davvero, molto più di un professionista romano o milanese. Il clima però è quello: addosso, addosso. E se qualcuno fa notare che non c’è nessun reato, e che la norma era fatta così (coi piedi, probabilmente) peggio ancora. Ti spiegano che non è il reato che conta ma la moralità. E invocano il tribunale dell’etica, dei giusti, dei savonarola, di Dio. Qualcuno ha il coraggio di opporsi e di chiedere un po’ di ragionevolezza? Improbabile. Anche perché si è aperta la campagna elettorale per il referendum contro il Parlamento.

Perché i politici del bonus di 600 euro devono indignare di più degli altri che non ne avevano bisogno. Notizie.it il 10/08/2020. I deputati che hanno ricevuto il bonus durante il lockdown indignano di più rispetto agli altri perché a un politico è giusto chiedere qualcosa in più. Passata la buriana dell’indignazione popolare, quella che per una domenica intera ci ha tenuto appesi allo scandalo dei cinque deputati col bonus da 600 euro, devono essersi detti, i professionisti del “ma anche”, che occorreva intervenire per riportare al centro una bilancia sbilanciata solo sul piatto della politica. E dunque la nuova mise en place del lunedì, dopo la domenica delle vesti stracciate, ha una nuova narrazione: accanirsi contro i cinque deputati non va del tutto bene.

L’indignazione contro i deputati del bonus. Intendiamoci: un po’ sì. Ma con juicio, come diceva quello, ché alla fine così fan tutti. Pretenderne i nomi pare che sia diventato ormai un oltraggio giacobino a un certo liberalismo che usa la privacy alla bisogna, solo quando, in genere, è pro domo sua. C’è perfino chi tira in ballo la quisquilia della cifra, 600 euro appunto, che certo devono apparire come poca cosa a un Paese che manda giù sprechi e incompiute da Guinness World Record. E così il piatto sbilanciato sulla responsabilità della politica – forse sarebbe meglio dire dei politici – riportato al centro da questa sofisticata operazione di rilettura, viene quasi a un tratto a tornare a inclinarsi e questa volta verso quegli (im)prenditori – e perfino un conduttore televisivo pare – che hanno osato anche loro l’oltraggio del bonus garantito per legge. Si dice: e allora di questi cosa dovremmo fare, visto che sono – pare – migliaia, dunque ben più dei cinque ascari dell’emiciclo? Fuori i nomi anche di questi affamatori del popolo, dato che sempre di denari pubblici si tratta. Qui dunque la condanna, che per i cinque deputati era degrado giacobino, diventa in un batter di ciglia consentita per tutti i furboni che alla tetta dell’Inps hanno succhiato, sebbene in modo del tutto legittimo. Loro sì che fanno schifo, sarebbe l’assunto. E allora la domanda è: i soldi pubblici per l’emergenza Covid sono per tutti uguali? E ancora: il sussidio pubblico può valere, in un momento come questo, allo stesso modo per chi la cosa pubblica l’amministra in nome del popolo – da cui peraltro riceve il consenso e, in senso più lato, anche una più che dignitosa remunerazione – rispetto a chi ne ha fatto legittima richiesta, ma non ha su di sé la responsabilità dell’investitura popolare?

Ai politici è giusto chiedere qualcosa in più. Io credo che al dibattito impazzito di questi giorni sia mancato un distinguo necessario. ‪Spostando il baricentro dalla politica alla “società civile”, che ha ugualmente approfittato di una legge dalle maglie troppo larghe, si perde di vista un punto cruciale. Ovvero che gli eletti hanno un dovere morale in più rispetto agli altri. La politica, ovvero la forma più alta di “carità”, per citare Paolo VI, non deve forse più di altri porsi il problema della giustizia, intesa in senso largo? Non tutto ciò che è legale è giusto. Si tratta di soldi pubblici sia per gli imprenditori che hanno beneficiato del bonus, sia per i politici. E questo è vero. Aggiungo anche che del denaro pubblico occorre avere rispetto sempre, a prescindere dalle cariche e dai ruoli. Tuttavia a un politico è giusto chiedere qualcosa in più, non fosse altro che per quella forma altissima che è l’esercizio della rappresentanza delegata. Se ti delego a scegliere per mio conto tu – a tua volta – non puoi non avvertirne la responsabilità. Ecco perché i cinque deputati del bonus indignano di più rispetto a chi, non eletto e dunque sgravato dal dovere della rappresentanza, abbia ottenuto ugualmente i 600 euro, che pure paghiamo tutti noi. Il principio di responsabilità individuale è ancora un esercizio ostile, pare, in questo Paese. Dell’etica poi non dico neanche.

Bonus Iva, l’Inps grillina al servizio degli anticasta: ma in 229 votarono per quella legge. Deborah Bergamini su Il Riformista il 12 Agosto 2020. E così anche l’Inps è diventata populista. Inesorabile, il destino che accomuna tutta l’Italia verso una strada lastricata di stupidità, conduce gli enti statali verso ciò che è già toccato alla politica, e che l’ha distrutta. Oggi l’Inps, domani, chessò, l’Agenzia delle Entrate o la Consob un’Autority saranno autorizzate ad abbandonare la terzietà cui sono tenuti e diventare strumento di chi governa, in questo caso del partito anti-casta, il 5 Stelle, che sul tam-tam dell’odio sociale ha costruito la propria fortuna senza fare altrettanto per l’Italia. Non si potrà mai dire abbastanza quanto i deputati che hanno chiesto i 600 euro post-CoVid siano stati indecenti (sono tre, forse cinque, non trenta, non trecento, lo 0,4 per cento del contingente parlamentare), ma va anche ricordato che lo hanno fatto sulla base di una legge votata dai 229 deputati che nei giorni del lockdown rappresentavano la maggioranza parlamentare a trazione 5 Stelle e Pd, e che forse non si sono resi conto di cosa stavano votando. Anche per loro allora dovrebbe valere il principio della sospensione o delle dimissioni. E certamente non è stato detto abbastanza quanto sia stato grave il comportamento dell’Inps e del suo presidente Tridico, non nuovo a campagne populiste e di sicuro non ostile a Di Maio. Quel lancio il sasso e ritiro la mano, quelle informazioni disponibili da maggio e vincolate da privacy ma tirate fuori a un mese dal compimento del referendum che deve decidere se si devono tagliare i parlamentari o no, ci dicono molto della fine che sta facendo la macchina dello Stato. Ricapitoliamo rapidamente: Conte in fase Covid il 17 marzo vara un decreto che prevede il famoso bonus da 600 euro per le partite Iva. Per fretta, non si fanno differenziazioni fra i beneficiari. Ne avranno diritto tutti, anche i redditi alti. È un errore, ma tant’è. Con il Parlamento dimezzato, in quel periodo, e con i tempi strettissimi, sul decreto viene posta la fiducia. Decreto approvato, presenti al voto alla Camera 354 (su 630), favorevoli 229, contrari 123. E così chiunque può fare richiesta per quei soldi, anche i parlamentari, che non hanno quindi compiuto alcun reato, dato che la scarsità di intelligenza non è ancora perseguibile. Ma chi salta col sangue agli occhi sulla ennesima vergogna della casta? Il capo del partito di maggioranza al governo, cioè quello che ha fatto la legge (così come ha fatto il reddito di cittadinanza finito a mafiosi e criminali vari), Luigi Di Maio. E sulla base di cosa? Di informazioni coperte da privacy che gli vengono fornite dal capo dell’ente previdenziale di Stato, nominato col benestare dei 5 Stelle. Il quale di fatto a questo punto ha in mano, conoscendone l’identità, i destini dei tre o cinque eletti dal popolo percettori di bonus, i quali, non dichiarandosi (e ne hanno il diritto) consentono che il discredito colpisca indiscriminatamente tutta la “categoria”. Ma è una cosa normale? Ed è normale che dobbiamo credere che solo Tridico conosca questi nomi? E se qualcuno un giorno, con la scusa della privacy, dicesse che tra i percettori di questo bonus ci sono anche una decina di grillini? Suggerimento per Conte: meglio concludere al più presto questa pantomima e convocare un Consiglio dei ministri per modificare con decreto la legge incriminata. Basta un attimo e i nomi escono legalmente: i titolari di cariche elettive per questioni attinenti a retribuzioni, emolumenti, corrispettivi pubblici di ogni ordine e grado non possono beneficiare della legge sulla privacy. Una riga e tutto si sistema. Conte ne fa tanti di dpcm e di Consigli dei ministri, può farne uno sulla trasparenza cui lui e i 5 Stelle che lo hanno espresso tanto inneggiano. Oppure può farsi dare i nomi dall’Inps tramite il Ministero del Lavoro (vigilante e controllante) e diffonderli assumendosene la responsabilità. Non può consentire, invece, che si continui a giocare sul filo del non detto lasciando sulla graticola il Parlamento a un mese da un referendum fondamentale per il futuro della democrazia. Altrimenti questo sarà solo il primo episodio di una lunga serie in cui l’organo rappresentativo del popolo italiano si ritroverà in mano a enti dello Stato che potranno disporne secondo necessità del momento o interessi di chi in quel momento governa. E cioè da controllore di chi governa si troverà invece controllato da chi governa.

Bonus Covid, la Lega chiede a tutti i parlamentari di non parlare con i giornalisti. Il Corriere del Giorno l'11 Agosto 2020. I deputati sono delle figure pubbliche e quelli in questione hanno chiesto di beneficiare di un contributo pubblico. La richiesta del bonus Covid, da parte di un parlamentare, non svela alcun dato sensibile. Quindi la loro condotta non è protetta dalle norme sulla privacy I due leghisti fortemente sospettati sono Dara e Murelli alla Camera per la prima volta nel 2018. «Se hanno preso soldi vanno sospesi». Ed ancora una volta Zaia è lontano da Salvini… Tramontate le speranze di «confessione spontanea», cioè di autodenuncia da parte degli interessati, nella Lega si mastica amaro: due dei tre parlamentari che hanno chiesto e ottenuto il bonus Covid sono leghisti Andrea Dara ed Elena Murello , il terzo è un deputato del M5S . Il contributo è stato richiesto anche un altro leghista e un renziano, ma non l’hanno ottenuto. L’on. Andrea Dara, 45 anni, mantovano, è un imprenditore che produce calze a Castiglione delle Stiviere, mentre l’ On. Elena Murello, 45 anni, di Piacenza è una consulente in finanziamenti europei per la ricerca e l’innovazione. “Lasciate che chiamino… non rispondete al telefono”. è l’invito rivolto a tutti i parlamentari leghisti, cioè di abbassare le saracinesche e non parlare con i giornalisti. Riccardo Molinari, il capogruppo alla Camera, ribadisce che “se qualcuno ha preso un bonus verrà sospeso, anche se quei soldi sono stati dati in beneficenza“. Il riferimento e molto chiaro alla posizione personale di Ubaldo Bocci, consigliere comunale leghista di Firenze che ha appunto dichiarato di aver ricevuto il bonus Covid , ma di aver devoluto la somma in opere buone. Il caso dei consiglieri comunali è assolutamente diverso e molto lontano da quello dei parlamentari anche per la differenza sostanziale tra le retribuzioni. Ma è sempre Molinari il capogruppo leghista alla Camera a non darsi pace per quel sospetto emerso non appena il caso era deflagrato. Infatti nella Lega i nomi dei percettori di bonus con stipendio da oltre 12 mila euro al mese, circolano eccome. Esiste il forte sospetto che la vicenda dei 600 euro per i parlamentari che ogni mese ne guadagnano 20 volte tanto in realtà altro non sia una strategia di distrazione di massa: “non vorrei che fosse un modo per insabbiare e far dimenticare le responsabilità di Conte per la mancata chiusura di Nembro e Alzano lombardo nonostante il parere del Comitato tecnico scientifico“. I parlamentari della Lega, nel frattempo, si preparano a una serrata campagna per dimostrare che il presidente del Consiglio, “abbia mentito” sulla gestione governativa dell’emergenza Covid.

Il Governatore uscente del Veneto Luca Zaia, con molto rigore chiede invece ai candidati al consiglio regionale di firmare, prima che le liste siano depositate la settimana prossima, una dichiarazione sul “non aver ricevuto contributi pubblici”. Anche perché realmente non esiste una questione di privacy. I deputati che hanno chiesto il bonus Covid non possono farsi scudo delle norme a protezione della riservatezza. In altre parole, non possono invocare la privacy per chiedere che il loro nome resti segreto.

L’ Autorità Garante della Privacy i cui nuovi componenti si sono insediati il 28 luglio 2020 – a soli tre giorni di distanza dalla diffusione della notizia dei parlamentari “furbetti” ha finalmente adottato una posizione ufficiale sulla questione. “La privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati relativi ai beneficiari del contributo laddove, come in questo caso, da ciò non possa evincersi, in particolare, una condizione di disagio economico-sociale dell’interessato”, dice il Garante della privacy. “Ciò vale, a maggior ragione rispetto a coloro per i quali, a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono, anche per effetto dei più incisivi obblighi di pubblicità della condizione patrimoniale cui sono soggetti” prosegue il Garante in una nota. Il Garante contestualmente ha reso noto che “sarà aperta una istruttoria in ordine alla metodologia seguita dall’Inps rispetto al trattamento dei dati dei beneficiari e alle notizie al riguardo diffuse”. I deputati sono delle figure pubbliche e quelli in questione hanno chiesto di beneficiare di un contributo pubblico. La richiesta del bonus Covid, da parte di un parlamentare, non svela alcun dato sensibile. Quindi la loro condotta non è protetta dalle norme sulla privacy. Prevale, in questo caso, il diritto dell’opinione pubblica e dei giornali a conoscere che cosa è successo. Prevale la trasparenza sulla riservatezza. La stessa valutazione può essere applicata anche per gli amministratori locali, che pure sono figure pubbliche. Solo che ci si potrebbe trovare dinnanzi ad una sostanziale differenza. Un amministratore locale non riceve il robusto stipendio dei deputati, e quindi potrebbe versare in condizioni di difficoltà economica. Chiedere il bonus Covid, il tal caso caso, può essere non solo comprensibile, ma persino giustificato. Sarebbe improprio pubblicare il nome di un consigliere comunale equiparando la sua posizione a quella del parlamentare. Ma il silenzio dell’Inps, in questa situazione non è solo equivoco…ma persino imbarazzante, L’Istituto per la previdenza non ha il diritto di negare i nomi dei deputati beneficiari del bonus . Il Codice della Trasparenza – cioè la legge 33 del 2013 – indica e stabilisce all’articolo 26 che “le pubbliche amministrazioni pubblicano gli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati”.

Quindi prevale su tutto l’obbligo di trasparenza sui vantaggi che personalità pubbliche come sono appunti i deputati ricevono dalla Pubblica Amministrazione (cioè l’Inps) . C’è anche un consigliere regionale piemontese,  Diego Sarno, esponente del Partito Democratico nello scandalo del contributo da 600 euro ai politici. Ex assessore di Nichelino, è alla sua prima consigliatura a Palazzo Lascaris, ed è social media manager della propria agenzia di comunicazione. Anche nel suo caso guarda caso….a suo dire si sarebbe trattato di un errore di superficialità: «Li ho dati tutti in beneficenza Covid appena me ne sono accorto» ma non fornisce alcuna prova di quello che dice. Ed aggiunge: «Sapendo adesso che posso restituirli all’Inps, farò anche lì il bonifico di 1200 euro». Ma non li aveva dati in beneficenza? Sarno quando capisce che sta rischiando grosso, e confessa: «Ciao a tutti sono qui per raccontarvi della questione 600 euro Inps e di come sono andati i fatti per quanto mi riguarda. Ho deciso di scrivere perché come sanno le persone che mi conoscono, quando sbaglio sono il primo ad ammetterlo, come anche in questo caso. Un errore però di sottovalutazione e non una volontà da “furbetto” a cui ho cercato di rimediare subito, più avanti capirete il perché». scrive in un lungo post su Facebook.

Poi, arriva la sua spiegazione poco credibile: “La mia compagna fa questo di lavoro e da sempre gestisce la contabilità riguardante la mia attività professionale. Durante il lockdown, per provare diverse procedure ha usato la sua partita Iva e anche la mia (avendone due tipologie diverse) così da essere pronta per assolvere senza errori e con una maggiore velocità le molte procedure gestite per i clienti dello studio nel quale lavora. Quando è uscito il bonus per gli autonomi, come sempre, ha usato la mia partita iva per provare la procedura e nella contemporaneità di altre dei clienti ha concluso anche la mia per errore“.

Bonus 600 euro, l'Inps non risponde. A quattro mesi dall'avvio delle domande sono migliaia i cittadini senza liquidazione che cercano di avere chiarimenti. Ma l'istituto tace e invita ad avere pazienza. Ecco le loro storie. Sara Dellabella il 12 agosto 2020 su L'Espresso. C'è chi ha avuto il bonus, chi lo ha ottenuto indebitamente e molti che attendono ancora che l'Inps batta un colpo. Anche chi scrive in verità. Lo scorso 22 luglio, abbiamo chiesto all'Ufficio presieduto da Pasquale Tridico quante fossero le domande per il bonus da 600 euro, accolte, ma ancora non liquidate. La risposta non è mai arrivata e ci è stato detto di inviare i codici fiscali dei richiedenti (qualora ne avessimo) affinché l'istituto potesse effettuare una verifica. Ovviamente non è il nostro mestiere questo, ma abbiamo inviato una segnalazione specifica alla quale non è seguita alcuna risposta. Così eccoci qui, nella stessa situazione che migliaia di cittadini denunciano da mesi oramai:  Inps non risponde e cerca di prendere tempo. Marta ha 33 anni ed è un agente immobiliare. Il 2 aprile ha presentato l'istanza per il bonus partita Iva da 600 euro e nonostante la sua domanda risulti accolta, e abbia ricevuto una risposta scritta da “Inps risponde” che assicurava “alla prima elaborazione centralizzata dei pagamenti sarà effettuato” ancora non ha visto un euro sul conto. A rinfrancare un po' la situazione è arrivato il bonus dei mille, ma dei 600 euro di marzo e aprile ancora nessuna traccia. «Ho chiamato decine di volte il call center, alcune volte mi hanno risposto di avere pazienza, altre di cambiare la modalità di pagamento, insomma una perdita di tempo e uno stress perché quei soldi per me giovane partita Iva servivano sul serio. Senza contare che a un certo punto mi hanno detto che avevo l'indirizzo di residenza sbagliato, peccato che nel frattempo proprio lì mi siano arrivate tasse e pin dispositivo. Insomma quando l'Inps mi ha voluto trovare, c'è riuscito benissimo». Come lei, tanti, strozzati dalla crisi, dal Covid e da una pubblica amministrazione che al di là dei proclami si mostra reticente. Molti, senza una risposta certa dall'Inps, hanno deciso di confrontarsi in un gruppo Facebook dal titolo “ Inps Bonus in attesa di esito ” per scambiarsi suggerimenti. Lucio da Padova racconta in un post del 30 luglio “L'11 giugno ho presentato la domanda bonus 600 categoria intermittenti , ancora oggi in attesa di esito. Sono stato anche all'Inps di persona circa due settimane orsono e mi avevano detto che nel giro di una settimana sarebbe stata accolta e poi pagata in altri 9-10 giorni (probabilmente è la risposta standard che danno per farti stare calmo). Ad oggi però ripeto tutto fermo. Qualcuno sa niente su date o cosa hanno intenzione di fare? Ah e aggiungo che io non ho visto un euro di niente, né di cassa integrazione né di bonus né di nulla mentre è stato pagato il bonus a persone che girano in BMW”. Come a voler confermare quello che è trapelato qualche giorno fa dall'Ufficio stampa dell'Inps, che il bonus oltre che a 3 parlamentari è andato anche a quelle categorie che probabilmente per soglie di reddito non ne avrebbero avuto bisogno. Ma accanto alle storie degli abusi, ci sono quelle di chi pur di sopravvivere in questi mesi ha chiesto aiuto ad amici e parenti, ritrovandosi indebitati. Sono tutte storie legate da un comune denominatore: l'impossibilità di avere una risposta certa dall'Inps. Chi ha la domanda accolta, non fa che aprire forsennatamente l'app della banca, sperando di trovare l'agognato accredito, chi non smette di chiamare il call center dove però le risposte sono evasive e allora qualcuno segnala nei post gli indirizzi mail dei funzionari Inps, invitando a rivolgersi direttamente a loro. A tutti viene chiesto di avere pazienza, ma la pazienza ad un certo punto finisce. Mirko è un lavoratore dello spettacolo. Ha 44 anni, vive a Reggio Emilia, di professione dj. Lui ha ottenuto il bonus di marzo, ma poi basta. Ha atteso perché la normativa e la tv ha detto che chi aveva già ricevuto il bonus avrebbe avuto l'accredito automatico. "Ho aspettato, certo che quei 1200 euro sarebbero arrivati, così non mi sono fatto problemi a chiedere dei piccoli prestiti. Ma i giorni passavano e niente. Alla fine mi hanno detto che non avevo diritto neppure a quello di marzo, ma ho dovuto lottare per avere una risposta. Solo che io ho bisogno di quei soldi e nessuno si è degnato di avvertire". In questo caso una dirigente dell'Inps territoriale mi ha consigliato di interrompere in maniera retroattiva il contratto, cosa che per legge non si può fare. C'è dell'omertà da parte degli uffici, non sai neppure a chi scrivere". Insomma, dietro ai numeri del successo del bonus si nascondono tante storie di inefficienza della pubblica amministrazione, soprattutto per quei cittadini che avendo la domanda accolta non hanno ancora ricevuto l'accredito. Dopo la figuraccia del sito Inps che il primo aprile è andato in tilt mostrando i dati sensibili di decine di utenti, secondo il Presidente Tridico, ascoltato lo scorso 20 aprile in commissione Lavoro alla Camera, l'operazione bonus è stato un successo. «Sono state presentate 4,4 milioni di domande, di cui 3,5 milioni andate in pagamento. - ha spiegato -  Altre 900mila, al momento, sarebbero in istruttoria, mentre quelle rifiutate sono 400mila: in quest'ultimo caso mancavano i requisiti necessari». Peccato che a quattro mesi dall'avvio delle domande ci sia chi ancora è in attesa della liquidazione di una domanda accolta, chi in istruttoria e chi semplicemente di una risposta chiara da parte di Inps. Intanto i debiti crescono e anche le difficoltà di chi non ha ancora ripreso a lavorare.

Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2020. «Che cosa? Un caso montato di proposito, un modo per lanciare il referendum sul taglio dei parlamentari? Non solo non è vero. Ma chi lo dice, chi lo scrive, ne dovrà rispondere in tribunale. Ne va della mia dignità». Chi in queste ore è riuscito a parlare con il presidente dell'Inps Pasquale Tridico si è trovato davanti una persona a dir poco furiosa. Arrivati al terzo giorno un po' di polvere si è posata, e nel caso dei deputati col bonus prende sempre più quota la seconda domanda. Non solo perché quei tre deputati, nel pieno rispetto della legge, abbiano chiesto un bonus pensato per chi era in difficoltà. Ma anche perché il caso sia esploso solo adesso, quando manca meno di un mese al referendum sul taglio del numero dei parlamentari, che per di più farà da traino al voto in sette Regioni. Tridico nega che si tratti di un'operazione politica. «Chi dice queste cose dovrebbe anche dimostrarlo, invece di sparare accuse nel vuoto». Nega, soprattutto, che dietro ci sia la sua mano, e minaccia querele. Assicura che se il Parlamento lo chiamerà a riferire, cosa più che probabile, «darò lì tutte le spiegazioni». Eppure nel palazzo, a destra come a sinistra, sono in tanti a chiedere le sue dimissioni. Che il presidente dell'Inps sia organico al Movimento 5 Stelle nessuno lo può negare. Calabrese, 45 anni tra un mese, professore di Politica economica all'università di Roma Tre, Tridico era stato indicato come ministro del Lavoro nella squadra di governo che Luigi Di Maio aveva presentato prima delle elezioni di due anni fa. La stessa in cui Giuseppe Conte doveva essere solo ministro della Pubblica amministrazione, per capirsi. Poi le cose sono andate come sono andate. E lui è stato in qualche modo «risarcito» con la presidenza dell'Inps, forse la macchina più potente di tutta la pubblica amministrazione italiana. «Ma un conto è la politica, un conto sono le istituzioni», dice lui a chi ci ha parlato. Le zone d'ombra, tuttavia, restano. L'inchiesta interna per capire come il caso sia uscito, pur in assenza di irregolarità, va avanti. La freddezza con il direttore generale Gabriella Di Michele cresce. Tutti vogliono capire come mai il responsabile dell'unità antifrode dell'Inps, Antonello Crudo, lo abbia informato a maggio dei duemila politici che avevano chiesto il bonus, in base a una serie di controlli mirati vista la loro diversa posizione previdenziale. Ma, anche se la conclusione dell'Antifrode era che la frode non ci fosse, quell'elenco è rimasto in qualche cassetto e poco più di due mesi dopo ha fatto esplodere il caso. Tridico continua a negare, a minacciare querele. Resta il fatto che negli ultimi mesi i rapporti fra lui e il Movimento 5 Stelle si erano raffreddati. Parecchio. La gestione delle pratiche della cassa integrazione aveva fatto perdere la pazienza al premier Giuseppe Conte e all'ex capo politico del Movimento Luigi Di Maio. I numeri erano oggettivamente insostenibili per una macchina tarata per il tempo di pace, non per l'economia di guerra dell'era Covid. Ma quando il governo ha cominciato a studiare la riforma degli ammortizzatori sociali, una delle ipotesi sul tavolo è stata quella di creare una nuova agenzia per la cassa integrazione. Togliendo a Tridico, in prospettiva, una brutta gatta da pelare, ma anche una bella fetta di potere. C'era un rapporto politico da recuperare? Lui continua a negare. E ricorda che il suo motto è «forte con i forti, generoso con i deboli». Ma forse un pezzo della spiegazione di come sono andate le cose potrebbe essere proprio qui.

L’assalto al parlamento è guidato dall’Inps: i politici non hanno diritto all’anonimato fiscale, nemmeno quelli che guadagnano poco. Giulio Seminara su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. A quattro giorni dall’esplosione di “Bonusopoli” e di caccia feroce agli “onorevoli furbetti”, il Garante per la Privacy è sceso in campo, fornendo un assist alla furia populista del M5s e un altro a Matteo Renzi, critico sui metodi tenuti dall’Inps diretta da Pasquale Tridico. Ieri l’Autorità, la cui governance è stata rinnovata lo scorso 28 luglio, ha fatto cadere l’alibi della privacy: i parlamentari che hanno usufruito del bonus di minimo 600 euro garantito dal decreto Cura Italia negli scorsi mesi non hanno diritto all’anonimato. Il Garante ha dichiarato che «la privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati relativi ai beneficiari del contributo laddove, come in questo caso, da ciò non possa evincersi, in particolare, una condizione di disagio economico-sociale dell’interessato». Tradotto: gli onorevoli, poiché non poveri, non hanno diritto all’anonimato in materia fiscale. Viene meno uno scudo per i cinque parlamentari che nei mesi del lockdown hanno richiesto il bonus teoricamente destinato ai lavoratori autonomi e alle partite Iva logorate dall’emergenza sanitaria. Il Garante squarcia con nettezza il velo intorno ai deputati, per i quali «a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono, anche per effetto dei più incisivi obblighi di pubblicità della condizione patrimoniale cui sono soggetti». Come questa direttiva, già suggerita dall’Anac, possa conciliarsi con la Costituzione, sarà tema del cenone di Ferragosto. Insieme ai dubbi sul fatto che il mancato diritto alla privacy potrebbe valere anche per i consiglieri regionali e tutti gli amministratori locali. Ma come si possono equiparare le condizioni economiche di un parlamentare, mediamente pagato 12.000 euro al mese, a quelle di un consigliere comunale o un assessore di una piccola città, pagato 20 euro lordi di diaria? Inoltre non si capisce perché chiedere conto della richiesta di accesso al bonus da parte dei numerosi cittadini impegnati nelle istituzioni locali e contemporaneamente lavoratori e titolari d’azienda. In questi giorni stiamo registrando l’enfasi giustizialista con la quale si pretendono i nomi degli amministratori locali, spesso in debito con la politica attiva, “colpevoli” di aver usufruito di un aiuto statale, come tutti gli altri cittadini. Con lo spettro della pubblica gogna sullo sfondo. Ipotizziamo il caso di un consigliere comunale di un piccolo comune, stipendiato duecento-trecento euro al mese per la sua attività istituzionale e lavoratore autonomo. Lui ha richiesto e ottenuto il bonus dei 600 euro per arginare la sopraggiunta difficoltà economica provocata dall’emergenza Coronavirus. Cosa gli succederebbe se il suo nome venisse improvvisamente diffuso nei bar del paese e sui social, possibilmente dai suoi avversari politici, come fruitore del bonus? Probabilmente passerebbe come autore di un’infamia e politico corrotto, quando in realtà ha semplicemente sfruttato un aiuto statale in un momento di crisi. Il Garante dovrebbe pensare anche alla loro di privacy. Certamente non ci pensa Luigi Di Maio, che ieri ha accolto l’intervento dell’Autorità con entusiasmo: «Adesso non ci sono più scuse. Anche il garante della privacy ha detto che non ci sono ostacoli alla diffusione dei nomi dei deputati che hanno richiesto il bonus di 600 euro malgrado i loro stipendi da 13mila euro netti al mese. È giusto che gli italiani sappiano chi sono, che ne conoscano i volti, i nomi e i cognomi». L’ex capo politico del Movimento 5 stelle dice, con un certo ironico coraggio, che non si tratta di “gogna mediatica” o di “propaganda”, ma solo di “giustizia” e “trasparenza”. Ma il Garante ha dichiarato anche altro, annunciando una istruttoria in ordine alla metodologia seguita dall’Inps rispetto al trattamento dei dati dei beneficiari e alle notizie al riguardo diffuse». Sotto “indagine” quindi il dico-non dico dell’Ente previdenziale italiano, fino a ieri vincolato alla privacy ma dalla quale è partita, sotto forma di scoop giornalistico, “Bonusopoli”, con annessa caccia all’uomo e ondata di anti-politica. Sarà contento Matteo Renzi che ha chiesto le dimissioni del direttore dell’Inps Pasquale Tridico, per «il clima populista di caccia alle streghe che l’Inps ha instaurato, basato anche sulle notizie false, come quelle su Italia Viva che quei soldi non li ha mai presi». L’ex premier ha accusato Tridico anche di aver dimostrato “incompetenza” su “cassa integrazione e partite Iva”. Intanto prosegue la caccia ai tre parlamentari che il bonus l’avrebbero intascato. Stando ai rumors, si tratterebbe di due leghisti e un pentastellato. I sospettati in casa Lega sarebbero Andrea Dara ed Elena Murelli, da giorni irreperibili. D’altronde l’ordine di scuderia in via Bellerio pare essere “non rispondete al telefono, nascondetevi”. Parole meno solenni delle “sospensioni immediate” promesse da Matteo Salvini appena l’altro ieri. Intanto Luca Zaia, governatore uscente del Veneto, ricandidato stra-favorito alle regionali di settembre e soprattutto rivale interno di Salvini, ha decretato la messa al bando dalle liste dei tre consiglieri regionali leghisti coinvolti in “Bonusopoli”. Si tratterebbe di Gianluca Forcolin, vicepresidente della regione, Riccardo Barbisan e Alessandro Montagnoli. Non sono tre pesci piccoli nella lega veneta e non hanno commesso alcun reato. Ma l’ambizioso Zaia ha deciso di strizzare l’occhio al clima giustizialista. E così “Bonusopoli” diventa anche uno strumento di campagna elettorale. In attesa del referendum di settembre sul taglio del parlamentari.

Bonus ai deputati, boomerang su Tridico: era vietato, perché l’Inps non ha vigilato? Giuliano Cazzola su Il Riformista il 13 Agosto 2020. Sullo scandalo tartufesco del bonus per le partite Iva è in corso una vera e propria caccia alla volpe. Mute di giornalisti – quelli che si sono “fatti un nome” con la denuncia delle malefatte della Casta, accumulando diritti d’autore grazie a saggi contro le “sanguisughe”, i “vampiri”, saltabeccando da “affittopoli”, ai “vitalizi” e alle “pensioni d’oro” ed erigendosi a fondatori di un’etica che prescinde da ogni principio dello stato di diritto – seguono da giorni ininterrottamente le tracce dei parlamentari, prima, dei membri delle assemblee elettive periferiche, poi, che hanno presentato la domanda per ottenere (con esito positivo) il bonus una tantum da 600 euro riservato, a marzo, alle partite Iva (i “nuovi dannati della terra” secondo la mistica sindacale sul c.d. precariato). Contro i “soliti sospetti”, i partiti annunciano sanzioni, pretendono autocertificazioni, minacciano l’esclusione dalle liste elettorali. E soprattutto è già predisposta una gogna mediatica al pari di quella attivata in altre circostanze. Certo, non si può sostenere che i nuovi “furbetti” abbiano fatto una figura da encomio. Almeno i “vecchi marpioni” intrallazzavano per avere una casa in affitto a equo canone dagli enti previdenziali o chiedevano di fare, dopo un’onorata carriera nella burocrazia dei partiti, un “giro” in Parlamento per assicurarsi, col vitalizio, una vecchiaia tranquilla. Quelli di oggi, più che appartenere a una Casta, sembrano essere degli assistiti dalla Caritas. Ma “dove sta il beef”, chiedeva un candidato alla presidenza degli Usa? In uno stato di diritto può esistere un divario tra etica e legalità? Certo, il concetto di legalità non ha un valore assoluto: anche una feroce dittatura – come quelle che i popoli hanno subito, nel “secolo breve”– adotta delle norme vincolanti che i cittadini sono tenuti a seguire e i giudici ad applicare. È una problematica, questa, che viene in evidenza nel film Vincitori e vinti di Stanley Kramer dedicato a una sessione “minore” del Processo di Norimberga. Un insigne magistrato tedesco (interpretato da Burt Lancaster) viene sottoposto a procedimento dal tribunale internazionale e condannato per aver applicato le leggi sul razzismo. Rivolgendosi al presidente americano (Spencer Tracy) gli chiede quando a suo parere un giudice può rifiutarsi di applicare il diritto positivo; la risposta che riceve è la seguente: «Quando si accorge di condannare un innocente». Ma in un regime democratico e in uno stato di diritto esiste un tribunale anche per le leggi. E se un provvedimento legislativo è formulato male non è certo per responsabilità di chi se ne avvale. Per ottenere l’una tantum di 600 euro non erano previste prove di mezzi. I soli limiti preclusivi fissati riguardavano la percezione di trattamenti pensionistici o il possesso di altre posizioni previdenziali, ad eccezione dell’iscrizione alla Gestione separata (Inps). E tali limiti dovevano essere noti ai parlamentari e agli amministratori locali, per i quali è certamente più impegnativo il principio del “ignorantia legis non excusat”. Infatti, l’articolo 28 (Indennità lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni speciali dell’Ago) del decreto cura Italia stabilisce al comma 1 che: «Ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell’Ago, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, ad esclusione della Gestione separata… è riconosciuta un’indennità per il mese di marzo pari a 600 euro». Come è trapelato sui media, alcune indagini svolte dalla Direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza dell’Inps – organo creato dal direttore Pasquale Tridico per individuare e scoraggiare eventuali truffe ai danni dell’ente di previdenza sociale – nel prendere in esame le domande di bonus pervenute, hanno evidenziato che, a richiedere bonus per autonomi e partite Iva, sono stati anche alcuni parlamentari e circa 2mila amministratori locali come presidenti di regione, consiglieri regionali e comunali e qualche sindaco. “Dalli ai magna/magna”, sono insorte le vestali dell’opinione pubblica! Però – ahimè – il problema esiste: non è di carattere etico ma giuridico; come si conviene in uno stato di diritto. La Circolare Inps n. 49 del 30 marzo u.s. ha chiarito che le indennità in esame sono altresì incompatibili con le pensioni dirette a carico, anche pro quota, dell’Assicurazione generale obbligatoria (AGO) e delle forme esclusive, sostitutive ed esonerative della stessa, degli enti di previdenza c.d. privatizzati dei liberi professionisti, nonché con la c.d. Ape sociale e con l’assegno ordinario di invalidità. Al dunque, oltre a percepire già un trattamento previdenziale/assistenziale il criterio discriminante stabilisce che i beneficiari “non siano iscritti, al momento della presentazione della domanda, ad altre forme previdenziali obbligatorie, a esclusione della Gestione separata”. E i parlamentari sono iscritti a un regime che è divenuto forzatamente pensionistico, per essere come tutti i cittadini. Verrebbe da chiedersi se in proposito non esista una “culpa in vigilando” da parte dell’Inps. La questione più seria, tuttavia, non riguarda l’ammontare del reddito dei richiedenti. Il dibattito si è già infilato su questo binario morto. Brutti e cattivi, secondo la gazzetta della gogna, sarebbero solo i parlamentari e i consiglieri regionali a causa delle robuste indennità percepite; mentre i consiglieri comunali si devono accontentare di striminziti gettoni di presenza. Proprio come si intitolava una commedia di Dario Fo: Settimo: ruba un po’ meno. Ma perché impelagarsi in questioni giuridiche (sussisteva o meno il diritto?) quando è molto più conveniente presentare all’opinione pubblica l’evergreen di un biasimo morale?

La difesa in commissione Lavoro della Camera, Bonusopoli, Audizione di Tridico: “Non sono stato io a dare i nomi. L’Inps ha seguito la legge”. Redazione su Il Riformista il 14 Agosto 2020. “Non sono stato io a dare la notizia dei furbetti”. Così Pasquale Tridico, Presidente dell’Inps, in videoconferenza, in audizione davanti alla commissione Lavoro della Camera chiarisce tutti i nodi oscuri della vicenda che ha indignato l’Italia. “I nomi dei politici che hanno preso il bonus non li abbiamo dati – continua – Sono usciti perché si sono autodenunciati”. Tridico è stato chiamato a chiarire tutti i punti oscuri sulla vicenda dei bonus da 600 euro erogati ai politici. In particolare chiarisce i delicati punti in merito alla  modalità di richiesta e liquidazione del bonus in favore dei lavoratori autonomi, sulle categorie di destinatari di tale bonus nonché sulle relative attività di monitoraggio, vigilanza e controllo da parte dell’Istituto. E ricostruisce la vicenda: “Il direttore di Repubblica Maurizio Molinari il 7 agosto mi ha informato del fatto che il suo giornale aveva la notizia che 5 deputati avevano chiesto il bonus 600 euro. Mi ha chiesto i nomi, ma i nomi non li sa nessuno. Non sono stato io a far trapelare la notizia ed è in corso un’indagine interna sul caso. Questa notizia non è uscita in modo più assoluto dal sottoscritto”. “Quando abbiamo appreso della notizia”, relativa ai bonus, “a fine maggio, il sottoscritto ne ha parlato al Cda dell’istituto”, continua. “Rimando al mittente ogni accusa verso di me e verso i miei dirigenti e funzionari, di un’azione manipolata, architettata da me e dalle strutture, che sono autonome e il cui lavoro è stato esemplare”, e aggiunge che i dirigenti e i funzionari “hanno dato lacrime e sangue per far fronte alle esigenze, abbiamo anche dormito nelle sedi per dare risposte”. Risponde alle accuse: “La procedura costruita dall’amministrazione si basa sulla legge, basandosi sui nostri archivi, si attinge alla presenza o meno di altri fondi previdenziali obbligatori”. Ricapitola quelle delicate ore in cui scoppiò l’emergenza e fu disposto il bonus con il decreto Cura Italia con cui il governo ha messo a disposizione 10 miliardi per dare un risposta veloce a chi ne aveva bisogno. “Erano momenti convulsi – dice –  l’Istituto ha risposto in maniera efficace, in 15 giorni, predisponendo una misura che non esisteva e lo ha elargito, come da impegno chiesto dal governo e dal presidente del Consiglio” in tempi rapidi, “così al 15 aprile sono stati elargiti 2,7 milioni di bonus e poi nei giorni successivi, fino a 4 milioni”. E spiega il perchè a mesi di distanza sono stati fatti i controlli che hanno portato alla scoperta dei bonus ai parlamentari. “L’estrema semplificazione dei requisiti di accesso alla misura” del bonus per gli autonomi previsto dal Cura Italia “rischiava di essere appetibile a chi fa delle frodi la sua missione. La direzione centrale Antifrode ha attivato così un controllo parallelo, diverso a seconda della prestazione ma uguale come output. L’attività ha consentito di individuare oltre 3mila matricole aziendali evitando elargizioni non dovute”. Si tratta di controlli postumi che sono ancora in corso “e prima di pensare ad eventuali addebiti ci dobbiamo pensare ancora”, dice il presidente dell’Inps, che si giustifica dicendo: “In epoca di Covid l’esigenza era pagare, non controllare”. “Sono stati attinti dagli open data del ministero dell’Interno i dati degli amministratori locali e dei parlamentari (che hanno forme di previdenza differenti) e sono stati incrociati con quelli di chi ha chiesto i bonus”. “Gli ammortizzatori sociali non avevano le informazioni di primo livello sui politici nazionali e locali, si è dovuto andare per forza a un controllo di secondo livello”, aggiunge. “Nei giorni scorsi ho ordinato un audit interno per capire se le notizie sono state trafugate dall’interno dell’Istituto verso Repubblica. L’Istituto non ha dato i nomi, l’Inps garantisce la privacy”.

Schedature di massa. Se Tridico si mette a fare Borrelli: perchè ha reso noto fatti coperti da privacy? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Se il Parlamento avesse residenza a Milano, dove c’è la Procura della repubblica più occhiuta e vorace d’Italia, il fascicolo sui bonus da seicento euro percepiti da qualche deputato o senatore sarebbe già aperto sulla scrivania di un coraggioso sostituto. E non è escluso che il fattaccio stia per accadere, visto che sarebbero 2000 complessivamente gli esponenti politici ad aver fruito dell’aiuto di Stato, sparsi un po’ in tutta Italia, tra consigli comunali e regionali. E se ancora non è intervenuta la magistratura, qualcosa di molto simile è accaduto all’interno dell’Inps. Tanto che stiamo assistendo alla più colossale schedatura di massa della politica ad opera di un organismo burocratico e lottizzato, dall’era democristiana fino a quella grillina. Per ricordare qualche cosa di simile, occorre riandare con la memoria ai fatti di Tangentopoli. Tridico come Borrelli? Non si capisce proprio a quale titolo la “Direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza” dell’Inps, un organismo voluto e istituito dal presidente Pasquale Tridico, abbia eseguito una ricerca sui pubblici amministratori, incrociando dati sensibili e verificando quanti di loro avessero fatto richiesta per ottenere il bonus. E infine, fatto ancora pià grave, una volta appurato che nessuno di loro aveva commesso un reato o attuato una frode, non abbia archiviato la pratica, ma abbia reso pubblica una (finta) notizia coperta da rigoroso diritto alla privacy. Tra l’altro, non prevedendo il provvedimento del governo sul bonus alcun limite di reddito per aver diritto a riscuotere i seicento euro, qual è il motivo di questo polverone, se non lo sputtanamento del Parlamento e dell’intera classe politica?  Il presidente grillino Tridico dovrà ben dare una spiegazione, soprattutto perché, secondo quanto scritto dal Corriere della sera, la notizia risale a metà maggio, quando la direttrice della Direzione antifrode dell’Inps avrebbe avvertito il presidente dell’esistenza delle domande dei politici. Tre mesi dopo viene fatta scoppiare la bomba, scatenando sanguinosi processi di piazza, con sentenze già scritte, all’interno degli stessi partiti, con una caccia alle streghe da far impallidire quelle del Seicento. Purtroppo quel che sta succedendo in questi giorni dà la misura della pochezza di gran parte della classe politica che i partiti hanno portato in questo Parlamento, e anche nelle amministrazioni locali. Nessuno che rivendichi la nobiltà della politica o l’orgoglio di stare nelle istituzioni a rappresentare il popolo italiano. Tutti lì a farsi fare l’esame del sangue da quattro burocrati di partito miracolati da pochi clic sulla piattaforma Rousseau. Consiglieri comunali costretti all’autodafè e a spifferare pateticamente i propri redditi annui. E anche le voci più critiche su questa colossale gogna si sentono in dovere di premettere che comunque è una vergogna e che vogliamo sapere i nomi dei reprobi. Ma a che cosa serve sapere i nomi, dal momento che nelle pratiche Inps non c’era nulla di irregolare? A farci sentire più virtuosi perché noi non l’avremmo mai fatto? A dire che è immorale essere avidi e volere tutto fino all’ultima briciola, soprattutto quando si ha, come i parlamentari, già una buona entrata? E quando avremo impiccato al palo più alto due o tre poveretti di cui nessuno vuol sentire le ragioni, perché quando si alzano le forche le sentenze di morte sono già scritte, non avremo comunque scritto una bella pagina di storia repubblicana. Per almeno due motivi. Il primo, perché avremo semplicemente scoperto (o confermato) il fatto che abbiamo mandato in Parlamento rappresentanti selezionati con il criterio di uno-vale-uno, cioè persone prive di competenze e anche di rigorosi principi. E poi che, quando si svalutano gli organi rappresentativi fino al punto di attribuire agli enti burocratici come l’Inps il controllo della moralità dei politici, vuol dire che siamo molto vicini alla volontà di distruggerlo, il Parlamento, non solo di ridurre il numero dei suoi componenti. E tra poco saremo chiamati a un referendum molto delicato il cui risultato non avrà solo a che fare con un problema di sforbiciate. Ricordiamocelo.

Tridico non si dimette, smitraglia cifre inutili e si difende: “Non sono stato io”, ma l’Unità Antifrode l’ha creata lui. Angela Nocioni su Il Riformista il 15 Agosto 2020. Ad infilzare Pasquale Tridico, nervoso e sudaticcio mentre fa su e giù scomodissimo sulla sua sedia come fosse un cavallino a dondolo, basterebbe l’aria di sorridente pietà con cui Renata Polverini, in collegamento da remoto coi capelli svolazzanti, butta là: «Nooo nooooo, ma io gli credo quando dice che non è stato lui». L’audizione del presidente dell’Inps alla Commissione lavoro della Camera, un’accidentata perfomance via streaming alla vigilia di Ferragosto, non è stata alla fine il fuoco di fila di domande incalzanti che le opposizioni avevano promesso. Forza Italia e Fratelli d’Italia le sue dimissioni comunque l’hanno chieste. Hanno tentato, invano, di fargli spiegare il come e il perché della fuga di notizie su dati sensibili. Tridico alza le mani: non sono stato io. Giura che i nomi dei tre parlamentari che hanno chiesto e ottenuto il bonus Iva da 600 euro – notizia nota all’Inps da più di due mesi e uscita adesso, a ridosso del referendum sul taglio dei parlamentari voluto dai Cinque stelle grazie ai quali lui ha avuto la nomina – non sono venuti fuori dall’Inps. E da chi, allora, visto che le liste dei richiedenti sospetti sono state stilate dall’Unità antifrode dell’Inps, misteriosa creatura creata su sua richiesta? «Le notizie sui bonus non sono state certo diffuse dall’Istituto. Respingo tutte le accuse di manipolazione, accuse fantasiose mosse per motivi che mi sfuggono. I controlli sono stati fatti per verificare l’effettivo diritto a ottenere il bonus» dice lui agitando le braccia come uno che affoga. Per Tridico l’audizione inizia male. È talmente sottosopra che non riesce a usare la webcam. Per lunghissimi minuti l’inquadratura fissa un innocente Sergio Mattarella incorniciato alla parete accanto al tricolore, mentre in un angolino sinistro sul fondo dello schermo si vede la fronte accaldata del presidente dell’Inps, capelli color mogano appiccicati in testa, che con voce affannata smitraglia una serie di numeri letti di corsa: «Abbiamo pagato 2,7 milioni di bonus entro il 15 aprile, abbiamo dormito letteralmente nelle stanze dell’Istituto». «Partite Ive (sic)» di qua, «vi spiego un attimo» di là. Confonde il ministero del Lavoro con quello degli Esteri, sembra non potercela proprio fare il professore. Alla fine una ne imbrocca. «Per avere diritto al bonus — dice Tridico — il richiedente non deve essere iscritto ad altre forme previdenziali obbligatorie. Sulla base di questa norma l’Unità antifrode ha mandato una prima tranche di circa 40 mila soggetti che alla data risultavano iscritti a un’altra forma di previdenza». Gli viene in soccorso Guglielmo Epifani (Leu), l’unico che sembra averci capito qualcosa. Gli chiede perché non s’è occupato subito della questione dei differenti sistemi di previdenza, che riguardano necessariamente anche i parlamentari. Cita Cazzola. Caritatevole, gli spiega anche che tutto mondo è paese, che in Germania a un certo punto si sono accorti che per chiedere un rimborso da 1000 euro poteva bastare possedere un cavallo. Tridico, finalmente sollevato: «Il cavallo – esulta – il cavallo!». Rincuorato, s’allarga. Chiede di «guardare la luna e non il dito», di non inchiodarlo a questa storia della manina rea d’aver fatto uscire la notizia sui duemila politici con bonus – senza distinzione tra deputati, consiglieri regionali e consiglieri comunali da pochi euro a seduta – proprio adesso che serve a Di Maio. Sulla schedatura di persone che non hanno compiuto né reati né frodi (comunque sputtanate) si difende così: «Nel periodo del Covid l’esigenza era pagare subito e controllare dopo». I seicento euro erano appetibili per chi froda» e per questo le «verifiche sono ancora in corso». Più che il processo implacabile annunciato alla vigilia, l’audizione via web di Tridico ieri è stata una carrellata di un campionario di varia umanità in piena estate. L’apparizione fugace di un nerd tra gli alberi con lanternine appese ai rami. La deputata Tiziana Ciprini, Cinque stelle eletta in Umbria, che si presenta con bretelline, rossettone e occhi bistrati, genere Moira Orfei a fine serata. La piddina Deborah Serracchiani, in grave difficoltà col computer, che ricorda a Tridico come da presidente di Commissione le corra purtroppo l’obbligo di pretendere da lui i nomi di quei due parlamentari sfuggiti per ora alla gogna perché hanno chiesto il bonus, sì, ma senza ottenerlo.  Cos’è che vuole la Serracchiani? Il nome del renziano? Non lo dice, ma non molla.  Tridico prende tempo. Fa il vago anche sul se davvero un vicepresidente della Camera (Rosato di Italia viva?) gli ha chiesto riservatamente se nel suo gruppo c’è qualcuno con una richiesta bonus non dichiarata. «Questo riguarda la sfera personale e non interessa». Si nasconde dietro l’attesa d’autorizzazione a parlare da parte del garante per la privacy. Spiega d’aver ricevuto il 7 agosto la telefonata del direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, che gli diceva di avere un’informazione e gli chiedeva i nomi dei parlamentari. Giura di non averli dati, sottolinea che il titolone sul quotidiano è uscito solo il 9. Da Repubblica gli arriva un salvagente mentre l’audizione è ancora in corso. Dicono che la notizia l’hanno avuta d’altra fonte, che ovviamente tengono riservata. Lui smitraglia un’altra serie di cifre abbastanza inutili e alla fine tira un sospirone di sollievo. Si butta all’indietro sullo schienale e riavvia il ciuffo, esausto. «Fiuuuuuu», si sente proprio. Il microfono non perdona.

Maurizio Belpietro per ''la Verità'' il 15 agosto 2020. Non rivela i parlamentari che hanno chiesto (senza averlo) il bonus Iva. Non dice il motivo di ricerche ad hoc sugli onorevoli. E glissa sulla chiamata con il renziano Rosato: l'operazione distrazione di massa è realizzata. Che la vicenda del bonus ai parlamentari potesse essere usata come un' arma di distrazione di massa lo abbiamo sospettato subito. Gli onorevoli approfittatori certo non hanno scusanti. Ma in un Paese dove c' è chi ruba a mani basse, i cialtroni che arraffano 600 euro non sono certo una notizia da tenere alta sulle prime pagine per giorni e giorni. A meno che non ci sia chi ha interesse a gonfiare il fatto, magari per far dimenticare altro e, soprattutto, per distogliere l' attenzione da faccende più imbarazzanti. Dicevamo che il sospetto di un caso gonfiato ad arte ci era venuto fin dall' inizio, ma ieri l' audizione del presidente dell' Inps, il professor Pasquale Tridico, un uomo fortemente voluto ai vertici dell' ente previdenziale dai grillini, ci ha tolto ogni dubbio. Il numero uno dell' istituto, tra balbettii e difficoltà di collegamento, ha risposto alla commissione parlamentare presieduta da Debora Serracchiani chiarendo alcune cose. La prima è una conferma di ciò che avevamo riferito, ovvero che l' Inps sapeva degli onorevoli con il bonus da quasi tre mesi. Il servizio antifrode dell' ente aveva infatti segnalato la cosa addirittura dalla fine di maggio. Tuttavia, Tridico ha negato di essere stato lui a spifferare il caso a Repubblica, il primo quotidiano che ha rivelato la notizia. Il professore giura di non averne parlato con anima viva, ma soprattutto con i giornalisti. Però ammette di aver riferito la cosa al consiglio di amministrazione dell' istituto. Perché una vicenda che non ha a che fare con le frodi (in base alla legge anche gli onorevoli hanno diritto al bonus) sia stata messa all' ordine del giorno del consiglio di amministrazione di un colosso previdenziale qual è l' Inps è però un mistero. Se l' erogazione del sussidio rispondeva ai criteri di legge, anche se inopportuna, perché Tridico ha sentito il bisogno di raccontare tutto ai consiglieri? Anche i bambini sanno che parlare in un cda è come parlare con l' Ansa, cioè come fare un dispaccio d' agenzia: per quanto sia richiesta la riservatezza su ciò che si discute in consiglio, era facile prevedere che la notizia sarebbe rimasta segreta qualche settimana, non molto di più. Possibile che il presidente dell' Inps sia così ingenuo da non sapere che per mantenere riservato un fatto è meglio evitare di parlarne? Se riferisci una notizia a due dozzine di persone, il minimo che ti possa capitare è che dopo un mese lo sappiano tutti. C' è poi un altro fatto che emerge dopo l' audizione di Tridico, e cioè che l' indagine interna dell' Inps non aveva nessun reale motivo per essere fatta. Il presidente non è infatti riuscito a spiegare come mai il suo staff sia andato a caccia di parlamentari, spulciando i nomi dei beneficiari alla ricerca di qualche onorevole. Non essendo illegale ma solo moralmente censurabile, perché l' ente ha voluto verificare la richiesta di deputati e senatori? Tridico respinge l' idea di un dossieraggio, minacciando querele e nega che ci sia qualche collegamento con il referendum caro ai grillini sulla legge per ridurre il numero di eletti in Parlamento. Tuttavia la coincidenza è assai curiosa. Soprattutto è sorprendente che siano usciti i nomi di due leghisti e di un grillino, ma siano stati coperti quelli di un onorevole del Pd e di un altro di Italia viva. La scusa è che i primi tre hanno effettivamente incassato i 600 euro, mentre gli altri due si sarebbero visti respingere la domanda. Una giustificazione fragile, perché se di furbi si tratta, che siano riusciti a riscuotere o meno fa poca differenza. Tridico dice che non può fare i nomi di chi non ha percepito per ragioni di privacy, ma la privacy evidentemente funziona a giorni alterni. Se telefona Ettore Rosato, di Italia viva e vicepresidente della Camera, il leader dell' Inps non si nasconde dietro la legge della riservatezza, se invece a bussare alla sua porta sono altri, giornalisti compresi, il riserbo è assoluto. Alla fine delle deboli spiegazioni, una cosa ci pare chiara. Grazie al caso dei tre parlamentari con il sussidio di povertà, dei ritardi e degli errori dell' istituto previdenziale non si parla più. Non fanno quasi notizia nemmeno gli avvisi di garanzia a mezzo governo per la gestione dell' emergenza. Le chiusure in ritardo, il lockdown esteso a tutta Italia, le mascherine che non si trovano, i banchi della Azzolina, i soldi che non arrivano: tutto è stato improvvisamente accantonato per dare visibilità ai maramaldi del bonus. L' operazione di distrazione di massa, grazie alla complicità degli organi di informazione, ha funzionato.

Mario Giordano per “la Verità” il 19 agosto 2020. Ma perché quei nomi non interessano più nessuno? Siamo andati avanti per giorni e giorni, un coro d'indignazione infinita, sembrava non esistesse null'altro al mondo: tutti volevano conoscere l'identità dei disonorevoli furboni, i mentecatti del coronavirus, quelli che in piena emergenza si preoccupavano di mettere in tasca il bonus da 600 euro. E, a dire il vero, a noi la curiosità non è passata. Infatti siamo ancora qui, sempre risoluti, non ci muoviamo di un millimetro e chiediamo al presidente dell'Inps, Pasquale Tridico(lo), di comunicare ufficialmente la lista degli zozzoni. Ci teniamo da matti. Lo vogliamo proprio sapere. Come dieci giorni fa. Anzi un po' di più. Però, ecco, il fatto è che siamo rimasti soli. O quasi. A tutti gli altri sembra non importare più nulla. Furboni dell'Inps? Parlamentari? 600 euro? Non pervenuti. Sfogli le pagine dei giornali, al massimo c'è una breve. Titoloni in prima? Spariti. Le trasmissioni tv? Tacciono. La politica? Latita. Ma come? Da quei nomi non dipendeva la dignità della nostra democrazia? Non era fondamentale conoscerli per poter difendere la nostra Repubblica? Noi, scusate, continuiamo a pensarla così. E ci insospettisce non poco che gli altri abbiano cambiato idea. Eppure quei nomi l'Inps non li ha mai resi noti. Formalmente Tridico(lo) si trincera dietro il rimpallo all'italiana: prima manca la richiesta in carta bollata, poi manca il parere del Garante, poi arriva il parere del Garante ma non è ancora sufficiente, ci vuole un approfondimento, ma anche l'approfondimento non è abbastanza approfondito. Risultato: la melina. È vero che tre nomi sono saltati fuori (quello di Elena Murelli e Andrea Dara della Lega e di Marco Rizzone dei 5 stelle) ma perché li hanno fatti i rispettivi partiti. Dall'istituto nessuna comunicazione ufficiale. Tutto resta segreto. Così come restano segreti i nomi dei 2.000 amministratori locali che hanno fatto la medesima furbata. E così come restano segreti, ed è ancor più grave, i nomi degli altri due parlamentari (uno del Pd e uno di Italia viva, a quanto pare) che a prendere il bonus ci hanno provato. Senza riuscirci, il che è quasi un'aggravante. Ecco: noi, di tutto ciò, non ci diamo pace. Continuiamo a chiederci: perché all'improvviso a nessuno interessa più conoscere quella lista nera? Hanno forse smesso di colpo di essere mentecatti, accattoni, meschini, parassiti e tutto il resto? Non meritano più di ricevere l'appropriata dose di insulti? E perché di due di quei cinque parlamentari non si è mai fatto il nome, neppure per sbaglio? Il fatto che non abbiano incassato la somma, chiaramente, è irrilevante. Lo scandalo di tutta la vicenda, infatti, non è il danno erariale, ma l'atteggiamento di chi, eletto per difendere gli italiani, difende invece soltanto i suoi interessi. È l'arroganza di non si preoccupa di chiedere i 600 euro per gli italiani che ne hanno bisogno, ma di chiederli per sé (insieme ai 12.000 euro di stipendio assicurati). Il fatto che i quattrini arrivino realmente o no cambia poco: è l'atto di chiederli che squalifica il parlamentare. E che dunque deve essere censurato. Ma per essere censurato deve essere conosciuto. Ora, lo ripetiamo, noi non abbiamo cambiato idea: continuiamo fermamente a ripetere #fuoriinomi, anche se l'hashtag non è più in tendenza. Continuiamo a volere sapere chi sono quei due che hanno chiesto il bonus e la cui identità non è mai stata rivelata. Continuiamo a volere avere la conferma ufficiale dall'Inps dei tre nomi usciti dalle segreterie dei partiti, e vorremmo pure sapere se per caso ce ne sono degli altri. E, già che ci siamo, ci piacerebbe fosse chiarito anche qualche altro mistero di corollario. Per esempio: come mai Tridico(lo) parlò al telefono con il vicepresidente della Camera Ettore Rosato per escludere la presenza di parlamentari di Italia viva tra coloro che avevano ricevuto il bonus? «Questione personale», ha detto il presidente dell'Inps. Ma è una spiegazione che non sta in piedi: il presidente dell'Inps parla con il vicepresidente della Camera di contributi pubblici ricevuti da parlamentari, ed è una «questione personale» come la briscola al bar di due pensionati? Ma vi pare?Ora il problema è: perché su tutti questi dubbi è calato improvvisamente il silenzio? Non riusciamo a farcene una ragione. Fino a qualche giorno fa era un garrire di editoriali, un fiorir di elzeviri, il trionfo dell'indignazione. Ora, nulla, silenzio. I giornaloni, tutti presi a bastonare il nuovo nemico - cioè il giovane che va in discoteca - si sono distratti. La commissione Lavoro della Camera, tutta presa a far dimenticare la figuraccia tecnologica della presidente Debora Serracchiani nell'ultima riunione balneare, marca visita. E poi si sa, i parlamentari sono in vacanza: in questo momento più che degli scrocconi sono preoccupati dagli ombrelloni. Le uniche informazioni che vogliono con urgenza sono quelle sul bonus pedalò. E così ci sembra di essere rimasti un po' soli: di tanti che strepitavano non è rimasto molto.Per carità, non ci permettiamo di sindacare le scelte altrui. Ognuno si indigna per quel che vuole. Può essere anche che un giorno uno è assatanato per sapere i nomi dei furbetti del bonus e il giorno dopo, anche se quei nomi non sono stati fatti, se ne dimentica. Succede. Solo che, così, ci torna in mente un dubbio che abbiamo sollevato fin dall'inizio. E cioè che questo polverone sui parlamentari mentecatti sia stato sollevato ad arte, un giorno non a caso di agosto, per sviare l'attenzione dai guai di Conte, del governo e dell'Inps. Ricordate? Quando è scoppiato lo scandalo tutti parlavano delle bugie del premier sulla zona rossa. Argomento uscito di scena. Così come sono passati in secondo piano la vicenda Autostrade (irrisolta), i pasticci con gli immigrati, i ritardi nel pagamento alle imprese. Puff: tutto svanito. In un attimo. La cortina fumogena si è alzata, ed è rimasta lì, giusto il tempo necessario a scatenare il nuovo allarmismo contro il pericolo mortale della discoteca, che ha assorbito l'attenzione generale. Serviva dare un'altra bottarella alla Lega? Fatto. Serviva scavallare il Ferragosto senza troppi danni? Fatto. A chi importa tutto il resto? A nessuno. Peraltro uno dei due parlamentari sospetti potrebbe pure essere del Pd. Svelare il nome? E perché mai? Nicola Zingaretti che tuonava vergogna ora tace. E nessuno gliene chiede conto. Maurizio Belpietro, giovedì 13 agosto, scriveva: «Usano i ladri di polli per distrarci dalle loro bugie». E mai una volta che la realtà ci dia la soddisfazione di smentire i nostri sospetti.

(ANSA il 20 agosto 2020) - "Dopo aver ascoltato e verificato la posizione, come per i precedenti casi, è stato preso il provvedimento della sospensione per la senatrice Marzia Casolati". Lo rende noto il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo. La senatrice ha percepito il contributo di 1500 euro dalla Regione Piemonte come previsto per le attività imprenditoriale costrette alla chiusura per il lockdown. "Anche se non è stato commesso alcun illecito - precisa Romeo - e il contributo è stato già da tempo completamente restituito, non è opportuno che parlamentari accedano a questo tipo di sussidio. Il provvedimento è stato già accettato e condiviso dalla diretta interessata".

Inps, Lega: Sospesi Murelli e Dara, inopportuno aver preso bonus. (LaPresse il 12 agosto 2020) - "Dopo aver ascoltato e verificato le rispettive posizioni, si conferma il provvedimento della sospensione per i deputati Elena Murelli e Andrea Dara". Lo rende noto il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. Entrambi i deputati hanno percepito il bonus Inps di 600 euro previsto per i titolari di partita Iva. “Pur non avendo violato alcuna legge - dice Molinari - è inopportuno che parlamentari abbiano aderito a tale misura e per questa ragione abbiamo deciso e condiviso con i diretti interessati il provvedimento della sospensione. E’ comunque incredibile che i vertici dell’Inps non abbiamo versato ai lavoratori che aspettano da marzo quanto dovuto e che abbiano invece versato a chi non era in difficoltà. In qualsiasi altro paese i parlamentari sarebbero stati sospesi ma il presidente dell’INPS sarebbe stato licenziato”.

Lega sospende due deputati: "Murelli e Dara con i 600 euro". I parlamentari sospesi sono Elena Murelli e Andrea Dara. Il 14 agosto in commissione Lavoro della Camera avverrà l'audizione del presidente dell'Inps, Pasquale Tridico. Gabriele Laganà, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale. Le voci circolate nelle scorse ore sono state confermate. Sono due i deputati della Lega che hanno incassato il bonus da 600 euro messo a disposizione per i titolari di partite Iva nell’ambito delle misure per contrastare la crisi economica provocata dal coronavirus. Si tratta di Elena Murelli e Andrea Dara. La Lega, una volta resa pubblica la notizia, ha deciso di sospendere i parlamentari. "Dopo aver ascoltato e verificato le rispettive posizioni, si conferma il provvedimento della sospensione per i deputati Elena Murelli e Andrea Dara". Lo rende noto il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. "Pur non avendo violato alcuna legge – ha affermato ancora Molinari - è inopportuno che parlamentari abbiano aderito a tale misura e per questa ragione abbiamo deciso e condiviso con i diretti interessati il provvedimento della sospensione". Il capogruppo leghista alla Camera allo steso tempo ha lanciato un affondo contro l’istituto previdenziale: "È comunque incredibile che i vertici dell'Inps non abbiamo versato ai lavoratori che aspettano da marzo quanto dovuto e che abbiano invece versato a chi non era in difficoltà. In qualsiasi altro Paese i parlamentari sarebbero stati sospesi ma il presidente dell'Inps sarebbe stato licenziato". Nel frattempo continua il dibattito parlamentare: la sede in cui verrà affrontato il caso del bonus richiesto dai deputati sarà il Parlamento quando il prossimo 14 agosto, in commissione Lavoro della Camera, avverrà l'audizione in videoconferenza del presidente dell'Inps, Pasquale Tridico. In quella sede i deputati potranno interpellare Tridico ponendogli domande sull'erogazione dei bonus. A meno di clamorose novità, potrebbe essere possibile conoscere anche i nomi degli altri parlamentari beneficiari dei 600 euro. A confermarlo è il presidente della Camera, Roberto Fico, che ha spiegato che i deputati potranno porre "tutte le domande necessarie per fare definitivamente chiarezza su quanto accaduto". "L'ho ripetuto in questi giorni: i parlamentari che avrebbero chiesto e ottenuto il contributo destinato a professionisti e lavoratori in difficoltà – ha ribadito Fico- dovrebbero scusarsi e restituire quanto percepito. È una questione di opportunità, dignità e rispetto, nonché di consapevolezza del ruolo che si ricopre". Mentre la Lega ha subito agito per "punire" i deputati che hanno richiesto il bonus, come ha appreso l'Adnkronos da fonti parlamentari sarebbero una quarantina gli esponenti del M5s che non hanno ancora firmato l'autorizzazione per consentire l'accesso ai dati Inps, una operazione di trasparenza proposta proprio dai vertici pentastellati.

Da “Avvenire” il 13 agosto 2020. Un piccolo imprenditore del tessile e una consulente di finanziamenti europei, entrambi con un reddito dichiarato oltre i 100mila euro. Ecco chi sono i due deputati leghisti col bonus: Andrea Dara, 41 anni di Mantova, ed Elena Murelli, 45 anni di Piacenza. Il loro nome circolava da giorni, senza che dagli interessati giungessero smentite o ammissioni. È una nota del capogruppo della Lega Riccardo Molinari, che ne comunica la sospensione, a dare la conferma: sì, sono Dara e Murelli due dei tre parlamentari (il terzo sarebbe un 5 stelle) che hanno chiesto e ottenuto il bonus da 600 euro riconosciuto dal governo alle partite Iva per far fronte all'emergenza Coronavirus. Andrea Dara, nato a Castel Goffredo in provincia di Mantova il 7 gennaio 1979, è un piccolo imprenditore nel settore tessile e abbigliamento. Eletto nella circoscrizione Lombardia 4 nelle file della Lega, nel 2019 ha dichiarato - come si legge nella dichiarazione consegnata alla Camera - redditi per 109.324 euro. È stato consigliere comunale a Castiglione delle Stiviere (dove possiede anche otto immobili, sempre secondo la sua dichiarazione dei redditi) dal 2007 al 2011, poi vicesindaco nel 2016 fino alla sua elezione alla Camera. Elena Murelli ha compiuto da poco 45 anni (è nata il 29 luglio 1975). Con una laurea in Economia e commercio e un master in gestione dell'economia di rete, alterna l'attività di consulente in finanziamenti europei a quella di docente a contratto all'Università Cattolica della sua città, Piacenza. Nella Lega dal 2001, politicamente si divide tra il Consiglio comunale di Podenzano, nella pianura piacentina, e lo scranno alla Camera (dal 2018). Lo scorso anno ha dichiarato un reddito totale di 106.309 euro, nel 2018 di circa 62mila. Tra i provvedimenti che ha proposto da prima firmataria spicca uno sulle modifiche alla struttura organizzativa di Inps e Inail e un altro per modificare il decreto del 2019 sull'esclusione dei condannati per gravi delitti dal beneficio del reddito di cittadinanza.

Estratto dall'articolo di Marco Cremonesi per il "Corriere della Sera" il 13 agosto 2020. Dara avrebbe spiegato al partito che la richiesta di bonus sarebbe stata fatta dalla madre, che con lui gestisce l’azienda di cui è titolare al 60%: “Comprendo la scelta del partito, mi assumo la responsabilità di quanto accaduto, anche se non sono stato direttamente io”. Insomma: “Non cerco giustificazioni”. Secondo quanto si racconta, la madre del deputato sarebbe distrutta dalla propria leggerezza: la richiesta di bonus, Dara l’avrebbe scoperta quando il partito, per invogliare i deputati all’autodenuncia, aveva consigliato di controllare semmai che la richiesta fosse stata presentata dai commercialisti.

Bonusopoli, a chiederlo molti leghisti: Dara si scusa “L’ha chiesto mamma”, sospeso con Murelli. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2020. Il clima continua a essere teso sulla vicenda dei bonus da 600 euro chiesti dai politici. Il Garante della privacy ha aperto un’Istruttoria sull’Inps e domani Tridico sarà alla Camera per rivelare i nomi di chi ha chiesto e ottenuto il bonus. In realtà dei tre deputati incriminati manca solo un nome, quello del del grillino. Gli altri due sono i deputati leghisti  Elena Murelli e Andrea Dara che, come promesso da Salvini, sono stati sospesi dal partito.

ANDREA DORA – Andrea Dara ha provato a difendersi attribuendo la colpa alla mamma. Sarebbe stata lei a fare materialmente la richiesta di bonus a sua insaputa. Con lui infatti gestisce l’azienda di cui è titolare al 60%: “Comprendo la scelta del partito, mi assumo la responsabilità di quanto accaduto, anche se non sono stato direttamente io”. Insomma: “Non cerco giustificazioni”, ha detto al Corriere della Sera. Dara avrebbe scoperto di aver ottenuto il bonus solo quando il partito, per invogliare i deputati all’autodenuncia, aveva consigliato di controllare semmai che la richiesta fosse stata presentata dai commercialisti.

ELENA MURELLI – Anche Elena Murelli si è scusata con il partito. Ma la piazza non l’ha affatto perdonata: sui social gira un video di un suo intervento alla camera proprio sui bonus. “Abbiamo accettato l’elemosina dei 600 euro”, aveva detto in aula alla Camera lo scorso 23 luglio, in occasione della votazione sull’istituzione della giornata della memoria delle vittime del Covid. “Siccome stiamo uscendo da questa situazione di emergenza allora importate il Covid”, aveva anche detto nel corso del suo intervento in aula riferendosi all’arrivo di migranti sulle coste italiane.

I CONSIGLIERI – Poi ci sono i 2mila consiglieri che hanno chiesto il bonus e che uno alla volta si stanno dichiarando e annunciando la penitenza. Tra loro una vastissima parte è composta da persone che fanno politica quasi per volontariato, ricevendo poco più che un rimborso. Ma ci sono anche ad esempio i consiglieri regionali che possono arrivare anche a 12mila euro al mese di stipendio. Tra questi ci sarebbe una prevalenza di leghisti, come dichiarato da Repubblica. Dei nove finora individuati, infatti, sette sono della Lega distribuiti in quattro Regioni. Uno è del Pd e uno di Forza Italia. Matteo Salvini è stato chiaro: “Chiunque ha preso il bonus sia sospeso e in caso di elezioni imminenti non ricandidato”.

I LEGHISTI – I leghisti sono così ripartiti: tre in Veneto, due in Piemonte, uno in Emilia Romagna e uno in Liguria. Resta in dubbio il consigliere regionale lombardo della Val Brembana Alex Galizzi, che al Corriere di Bergamo dice di non ricordarsi né di aver chiesto il bonus né di averlo preso (mentre gli altri colleghi lombardi del Carroccio negano). In Veneto ad aver preso il bonus sono Riccardo Barbisan, Alessandro Montagnoli e il vicepresidente della Regione Gianluca Forcolin. Tutti e tre fedelissimi del governatore Luca Zaia, in corsa per le regionali di settembre e lanciatissimo nei sondaggi. Lorenzo Fontana, commissario della Lega in Veneto, ha confermato l’orientamento del partito, cioè di non mettere in lista chi ha chiesto il bonus. Forcolin, intervistato oggi da Repubblica, si difende: “Io cacciato dalle liste e Fontana ancora al posto suo in Lombardia?”.

Da corriere.it il 13 agosto 2020. Elena Murelli è una dei tre deputati ad aver richiesto e ottenuto proprio il bonus da 600 euro per le partite Iva e autonomi. Eletta alla Camera alle politiche del 2018, Elena Murelli, una dei due deputati (l’altro è Andrea Dara), della Lega sospesa dal partito per aver percepito il bonus Inps di 600 euro previsto per i titolari di partita Iva. Emiliana di Piacenza, 45 anni, aderisce al partito nel 2001. Sette anni più tardi viene eletta al consiglio comunale di Podenzano. Poco più di due anni fa l’ingresso a Montecitorio. Laureata in Economia e commercio, consegue un Master of management in the Network Economy, ed è - si legge sul suo profilo sul sito della Camera - consulente in finanziamenti Europei per la ricerca e l’innovazione. È componente della commissione Lavoro, che venerdì prossimo, a mezzogiorno, svolgerà l’audizione del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, proprio sulle modalità di richiesta e liquidazione del bonus in favore dei lavoratori autonomi, sulle categorie di destinatari di tale bonus nonché sulle relative attività di monitoraggio, vigilanza e controllo.

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2020. Nella Lega c'è chi la chiama la «strada di mezzo»: i parlamentari che hanno preso il bonus Covid sono stati sospesi, i consiglieri regionali non saranno ricandidati. Matteo Salvini, ieri mattina, lo aveva anticipato ad Agorà Estate e in serata è arrivato l'annuncio del capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari: i deputati Elena Murelli e Andrea Dara sono sospesi dal partito. Luca Zaia si era riservato di ascoltare i suoi tre consiglieri regionali che hanno chiesto il bonus. In serata, il messaggio è trapelato nitido dallo staff del governatore: Montagnoli e Barbisan sono fuori. Un solo, lieve dubbio riguarda il vice di Zaia, Gianluca Forcolin, che pare abbia cercato di fermare l'iter della domanda. Ma è molto dura anche per lui. Difficile escludere che nella decisione della Lega non abbia pesato la notizia che il presidente dell'Inps Pasquale Tridico, domani a mezzogiorno, sarà ascoltato dalla commissione Lavoro (giusto quella di cui Elena Murelli è capogruppo per la Lega): se i nomi fossero usciti in quella sede sarebbe stato, come minimo, poco simpatico. Andrea Dara, anche il suo nome circolava da giorni, per il partito è stata una sorpresa. Nessuno che non lo descriva come «bravissima persona», nessuno che non se ne sia uscito con un «ma dai...» quando i nomi hanno cominciato a circolare. 41 anni, imprenditore tessile di Castel Goffredo nel mantovano, ha una fabbrica che produce calze a Castiglione delle Stiviere, la Manifattura Mara, e un percorso tipico nella Lega: consigliere comunale a Castiglione, provinciale a Mantova, poi vicesindaco. Fino all'elezione alla Camera nel 2018. L'anno scorso ha denunciato redditi per 109.324 euro. Al partito, avrebbe spiegato che la richiesta di bonus sarebbe stata fatta dalla madre, che con lui gestisce l'azienda di cui è titolare al 60%: «Comprendo la scelta del partito, mi assumo la responsabilità di quanto accaduto, anche se non sono stato direttamente io». Insomma: «Non cerco giustificazioni». Secondo quanto si racconta, la madre del deputato sarebbe distrutta dalla propria leggerezza: la richiesta di bonus, Dara l'avrebbe scoperta quando il partito, per invogliare i deputati all'autodenuncia, aveva consigliato di controllare semmai che la richiesta fosse stata presentata dai commercialisti. Mentre la 45enne Elena Murelli da Podenzano, nel piacentino, è stata docente a contratto all'università Cattolica ed è leghista dal 2001. Nel 2009 esordisce nel consiglio comunale del suo paese, di cui è tuttora consigliera, prima di approdare a Montecitorio nel 2018. Sul sito della Camera si definisce «consulente in finanziamenti europei per la ricerca e l'innovazione». Reddito dichiarato: 106.309 euro. Era assurta alle cronache per un intervento in Aula «non sereno» (definizione sua): «Siccome stiamo uscendo dalla situazione di emergenza e non sapete come mantenere la poltrona, allora importate il Covid» con l'immigrazione. Anche Murelli si sarebbe scusata per il danno arrecato al partito. È la strada di mezzo: di espulsi non ce ne sono stati. Però, in Veneto si mastica amaro: «I deputati se la sono cavata con un buffetto. La sospensione, cosa è? Nemmeno esiste... Ai consiglieri regionali, invece, è stata stroncata la carriera politica». Certo che la campagna elettorale dei tre consiglieri sarebbe stata impervia.

Inps: Zaia, Forcolin mi ha annunciato le dimissioni. (ANSA il 13 agosto 2020) "Il vicepresidente della giunta regionale del Veneto Gianluca Forcolin mi ha annunciato le sue dimissioni e non si ricandiderà nella Lega". Lo annuncia il governatore del Veneto Luca Zaia in relazione ai tre casi veneti di richiesta del bonus autonomi. (ANSA).

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per “la Repubblica” il 13 agosto 2020. «Mettiamo in chiaro una cosa, io non sono furbetto. E poi, scusate: il governatore della Lombardia è ancora al suo posto e io vengo cacciato dalle liste per una pratica inevasa?». Gianluca Forcolin, 51 anni, di San Donà di Piave (Venezia), diploma di Ragioneria, 27 anni nella Lega Nord, è assessore al Bilancio e vicepresidente della Regione Veneto. (…)

Questa domanda per il bonus l' ha fatta o no?

«I soci dello studio in cui lavoro fecero la domanda ma non avevamo i requisiti, quindi la pratica è rimasta inevasa. Io non sono neanche presente negli elenchi dell' Inps». (…)

E qual è il punto allora?

«Tutti i politici che hanno comprato il monopattino con gli incentivi, o che richiedono il bonus auto, o il bonus facciata, tutti questi si devono dimettere. Se me ne vado io se ne devono andare anche tutti loro». (…)

Luca Zaia l' ha sentito?

«Certo, ci siamo sentiti e ho spiegato tutto. Vediamo come evolve la situazione. Certo, essere buttato via in questo modo per una simile banalità mi sembra davvero assurdo». (…)

Alberto Mattioli per “la Stampa” il 13 agosto 2020. E il furbetto dove lo metto? Almeno in Veneto, la Lega non sembra proprio monolitica nei confronti dei tre consiglieri regionali rei confessi del bonus da 600 euro. La loro sorte sembrava segnata: sospensione in attesa di peggio e, soprattutto, niente ricandidatura alle regionali prossime venture. Ma Luca Zaia ha spiazzato tutti. Massimo rigore, certo, «siamo stati chiari, sono stato l'unico a livello nazionale a fare una verifica fra i miei consiglieri». Anzi, Zaia era stato il primo, in casa Lega, precedendo anche Salvini, a lanciare un "#metoo al contrario" contro i furbetti. Però ieri a Conegliano, colpo di scena, Zaia ha spiegato che invece la decisione non è scontata, almeno per uno dei tre: «Mi riservo di incontrarli personalmente, poi deciderò.  E voglio anche ricordare che le situazioni sono diverse: da un lato abbiamo il caso di due consiglieri che hanno fatto richiesta del bonus e poi lo hanno elargito in beneficenza, dall'altro il caso del terzo consigliere che dice che la domanda è stata fatta direttamente dallo studio professionale di cui è socio di minoranza, ma quando l'Inps ha chiesto ulteriore documentazione nessuno l'ha mai presentata. Quindi la domanda non esiste. Bisogna ricordare che non stiamo parlando di qualcosa di illegale, bensì di una questione di opportunità». Insomma, per Riccardo Barbisan e Alessandro Montagnoli, quelli del primo caso, non ci sarà clemenza («quei due non hanno speranza, carriera finita», chiosa un leghista veneto); per Gianluca Forcolin, assessore al Bilancio e vicepresidente della Regione, il verdetto è ancora sospeso. Zaia, dicono, vorrebbe salvarlo: è stato il suo braccio destro per cinque anni (mentre Salvini, raccontano, non l'avrebbe molto in simpatia) e a pochi giorni dalla presentazione delle liste e dell'inizio della campagna elettorale bisogna essere cauti. Ma dall'altra parte c'è una pubblica opinione scatenata, i social ribollono di invettive, e lo stesso governatore deve mostrarsi coerente con le sue prese di posizione. «Alla fine lo sacrificherà», prevede un leghista di lungo corso e ben informato, ma dopo aver fatto il bel gesto di ascoltarne l'autodifesa. Dal canto suo, Forcolin ci spera e spiega la sua posizione: «Non ho mai incassato il bonus e anzi ho bloccato la richiesta prima che partisse», e poi fa autocritica alla veneta: «Che mona che sono stato». Però questa incertezza non è in sintonia con la posizione ufficiale del partito. Il segretario del Veneto e vice di Salvini, Lorenzo Fontana, resta fedele alla linea: «La posizione della Lega è che non verranno messi in lista», quindi nessuna apertura. E infatti proprio ieri sono stati sospesi i due deputati furbetti e anche un consigliere in Trentino. Di certo, una decisione va presa e anche in fretta, perché le liste per le regionali devono essere presentate entro il 21. Ma anche nella Lega, e non solo in quella veneta, la ricandidatura di un furbetto, anche se il meno colpevole, non sarebbe presa molto bene. Il partito si sente sotto assedio anche più di quanto non sia ed è un fatto che quest' ultimo scandalo lo stia colpendo più di altri. Proprio sulle liste è in corso un'altra discussione tutta interna al partito. Il problema è che nella scontatissima riconferma di Zaia, che i sondaggi danno al 70%, la lista del governatore prenderà molti più voti di quella della Lega. Successe già cinque anni fa, con la lista Zaia al 23 e quella della Lega al 17, ma il 20 settembre prossimo il risultato potrebbe essere ancora più pesante. Per questo Salvini ha imposto che chi ha fatto l'assessore o il capogruppo debba ricandidarsi nella lista leghista e non in quella del governatore (che del resto è fatta tutta di leghisti, per qualche esponente della società civile c'è posto in una terza lista, detta "degli amministratori"). Paradossalmente, Zaia è d'accordo. Il popolarissimo governatore non ha il problema di vincere, ma di non stravincere, almeno questo derby interno: rinfocolerebbe un dualismo con Salvini che esiste nei fatti, ma che Zaia non ha alcuna voglia di cavalcare. Per la stessa ragione, raccontano dalle segrete stanze della Lega veneta, tutta la campagna elettorale del presidente verrà fatta sotto il simbolo della Lega. E anzi Zaia starebbe dicendo a tutti i suoi fedelissimi di votare e far votare il Carroccio.

Da iltempo.it il 13 agosto 2020. Sarebbe il deputato Marco Rizzone il parlamentare del Movimento 5 stelle "colpevole" di aver incassato il bonus di 600 euro destinato dal governo alle partite Iva in difficoltà per la crisi da Coronavirus. Lo si apprende da una nota del capo reggente del M5s Vito Crimi, che scrive:  «In Relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite Iva, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei Probiviri chiedendone la sospensione immediata e massima severità nella sanzione». Domani, intanto, in parlamento andrà in scena l'audizione sul caso del presidente dell'Inps Pasquale Tridico, che sarà trasmessa in diretta sulla web tv della Camera.

Marco Rizzone: chi è il 5 Stelle che ha intascato il bonus da 600 euro. Nato nel 1983, è laureato in economia e commercio ed è un imprenditore del settore turistico. Crimi: "Deferito al Collegio dei probiviri". Angelo Scarano, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. E alla fine arrivò anche il nome del grillino. Dopo la sospensione dei due deputati leghisti, Murelli e Dara, arriva anche il terzo nome dei furbetti che hanno preso il bonus Partite Iva. È il pentatstellato Marco Rizzone. Ad annunciare il nome del pentastaellato che ha incassato l'assegno da 600 euro è stato il capo politico del Movimento, Vito Crimi: "In relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite Iva, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei probiviri chiedendone la sospensione immediata e massima severità nella sanzione". L'annuncio di fatto arriva a poche ore dall'audizione del presidente dell'Inps, Pasquale Tridico in Commissione Lavoro. Proprio domani il numero uno dell'Istituto di Previdenza Sociale dirà i nomi dei 5 furbetti che hanno incassato il bonus. Ricordiamo che 3 lo hanno ricevuto mentre altri due hanno fatto richiesta. Insomma anche i grillini si scoprono casta. Sono finiti i tempi del moralismo politico e gli attacchi al Palazzo. Anche tra i pentastellati c'è chi ha cercato di riempirsi le tasche nonostante lo stipendio da parlamentare. Marco Rizzone è stato eletto nel collegio uninominale di Genova San Fruttuoso. Nato nel 1983 , è laureato in economia e commercio ed è un imprenditore del settore turistico. A Montecitorio fa parte della commissione attività produttive. Amico di Luigi Di Maio, su facebook in questi mesi ha raccontato la sua attività politica in questi mesi di emergenza Covid. Un post appare curioso alla luce dei fatti di oggi e risale a qualche mese fa quando è stato varato il reddito di emergenza: "I beneficiari di questa misura, fortemente voluta dal MoVimento 5 Stelle, sono i nuclei familiari (composti anche da una sola persona) con #ISEE inferiore a 15 mila euro, che potranno ricevere per un bimestre un importo compreso tra 400 e 800 euro mensili". Sul bonus Partite Iva non ha scritto nulla perché probabilmente aveva già studiato bene le regole...Adesso dovrà fare i conti con il suo Movimento che sempre più sta perdendo la matrice anti-Casta. I Cinque Stelle infatti proprio in questi giorni stanno cambiando pelle diventando partito. Il voto su Rousseau molto probabilmente metterà la parola fine al divieto del doppio mandato e soprattutto spianerà la strada ad alleanze anche su base locale. Il gesto di Rizzone (non l'unico ad aver incassato nel mondo politico il bonus partite Iva) è il segno di come il Palazzo abbia radicalmente cambiato i penstastellati. Adesso vogliono mettere le mani sui bonus pur avendo il portafoglio pieno da parlamentari. Crollano dunque gli ultimi baluardi del finto moralismo grillino. E probabilmente il tramonto dei Cinque Stelle e la trasformazione in Casta è solo all'inizio...

Inps, Rizzone (M5S): Ci metto la faccia e prendo mie responsabilità. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Eccomi qua, sono pronto a metterci la faccia e ad assumermi le mie responsabilità, ma anche a mettervi in guardia da chi vi sta gettando fumo negli occhi". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su Facebook. "Voglio fare una premessa: pur non avendo materialmente richiesto io quanto previsto dalla legge per la mia categoria di partita iva, non incolperò (come hanno fatto altri) il mio commercialista dicendo che in automatico, sulla scia di altri assistiti, ha inoltrato la richiesta anche per me. Ne riconosco l’inopportunità e, consapevole che in ogni caso la responsabilità ultima è solo mia, sono pronto ad assumermela tutta e fino in fondo, come ho sempre fatto", aggiunge. "Però ora vi assicuro che pretenderò che si vada fino in fondo su una serie di altre “questioni morali” anche più serie di questa “leggerezza” e che forse sarebbe il caso di affrontare nel rispetto di chi ci ha eletti (e chi mi conosce sa che non demordo)", dice ancora.

Inps, Rizzone (M5S): Non sono disonesto, tiro al piccione mi disgusta. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Di essere dipinto come un disonesto, un infame o un ladro però non lo accetto, tantomeno da chi con la sua noncuranza ha consentito a migliaia di partite iva ben più facoltose di me di richiedere legittimamente il medesimo bonus". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su facebook. "A me questo tiro al piccione - ve lo devo dire - disgusta parecchio. E sapete perché? Perché significa non farsi il minimo scrupolo nel mettere alla gogna una persona pur di gettar fumo negli occhi di voi cittadini, illudervi che la colpa sia di chi in base a una legge dello Stato ottiene un contributo previsto per la sua categoria e non di chi quella legge è incapace di scriverla in modo che non vi siano eventuali distorsioni", aggiunge.

Inps, Rizzone (M5S): Comodo cavalcare rabbia in vista referendum. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "È comodo puntare il dito contro qualcuno per nascondere le proprie mancanze. Ma è ancor più comodo (nonché molto triste) cavalcare la rabbia delle persone per provare a riprendersi un po’ di consenso in vista del referendum sul taglio dei parlamentari o delle elezioni regionali...". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su facebook.

Inps, Rizzone: Fatto nulla di illecito, decreto è scritto male. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Qui on è stato fatto nulla di illecito, nulla di illegittimo. Tutto a norma di legge: un decreto scritto palesemente male (vuoi per la fretta - giustificabile -, vuoi per l’incapacità di alcuni soggetti - non giustificabile), un decreto su cui in Parlamento nessuno dei colleghi “moralizzatori” è intervenuto per apportare modifiche che evitassero che l’indennizzo fosse dato “a pioggia” a prescindere dal reddito (perché tanto ormai basta fare propaganda più che buone leggi)...". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su facebook.

Inps, Rizzone (M5S): Ci metto la faccia e prendo mie responsabilità. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Concludo rivolgendomi a tutti quegli italiani che si sono sentiti in qualche modo delusi da me: non sono come mi hanno dipinto e lo dimostrerò battendomi perché la grande farsa portata avanti da tempo da alcuni soggetti politici finisca presto, nel vostro interesse e nell’interesse del Paese tutto, perché chi pensa di ingannare il popolo con la caccia alle streghe e il populismo facile non ha capito che i cittadini sono più svegli di quanto si pensi. Goccia dopo goccia il vaso trabocca...e se è un vaso di Pandora - prima o poi - qualcuno lo dovrà aprire".

Bonus Inps, Rizzone (M5S): «Non sono né ladro né infame. Da deputato ho restituito 40mila euro». Silvia Morosi il 15/8/2020 su Il Corriere della Sera. Il deputato grillino sulla vicenda dei 600 euro: «Fumo negli occhi, io ci metto la faccia». E lancia la sfida: «Perché non pubblichiamo, come già fanno in 17 stati europei, i nomi di chi ha veramente rubato risorse allo Stato evadendo le tasse?». «Sono pronto a metterci la faccia e ad assumermi le mie responsabilità, ma devo anche mettervi in guardia da chi vi sta gettando fumo negli occhi». Il deputato M5s Marco Rizzone rompe il silenzio e interviene sulla vicenda del bonus da 600 euro richiesto all’Inps che lo vede tra i protagonisti. «Se avessi voluto intascarmi dei soldi non mi sarei tagliato più di 40mila euro del mio stipendio da parlamentare», precisa in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook. «È comodo — aggiunge il deputato genovese — puntare il dito contro qualcuno per nascondere le proprie mancanze. Ma è ancor più comodo, ma molto triste, cavalcare la rabbia delle persone per provare a riprendersi un po’ di consenso, magari in vista del referendum sul taglio dei parlamentari o delle elezioni regionali».

«Un decreto scritto palesemente male». «Questo tiro al piccione a me disgusta perché significa non farsi il minimo scrupolo nel mettere alla gogna una persona pur di gettare fumo negli occhi dei cittadini», ha aggiunto. Per il parlamentare deferito ai probiviri del Movimento è tutta colpa «di un decreto scritto palesemente male». «Di essere dipinto come un disonesto, un infame o un ladro non lo accetto. Qui non è stato fatto nulla di illecito, nulla di illegittimo», conclude, lanciando una sfida ai colleghi parlamentari e allo stesso Garante della Privacy «che sull’onda del populismo più becero hanno chiesto di fare i nomi dei parlamentari che hanno ottenuto (ripeto lecitamente) il bonus. Perché non pubblichiamo, come già fanno in 17 Stati europei, i nomi di chi ha veramente rubato risorse allo Stato evadendo le tasse?».

Giuseppe Alberto Falci per corriere.it il 14 agosto 2020. Da qualche giorno Marco Rizzone si era inabissato. Pochi lo avevano sentito e quei pochi avevano notato qualcosa di strano. «Non era più lo stesso», conferma un grillino. Come se volesse nascondere qualcosa. E allora non è un caso se il suo profilo facebook, solitamente aggiornato più di una volta al dì, sia fermo a sei giorni fa. Ma la prova che fosse lui il grillino che aveva richiesto e ottenuto il bonus destinato a partita Iva e lavoratori autonomi, i vertici l’hanno avuta quando si sono accorti che solo due parlamentari non avevano sottoscritto la liberatoria sulla privacy. E uno di loro era proprio “Marco”, classe ‘83, genovese come Beppe Grillo, non un’attivista della prima ora, ma uno di quelli che ha dovuto gareggiare nel collegio uninominale “Liguria-04” con un leghista come Edoardo Rixi. La sera del 4 marzo del 2018 Rizzone vince per un soffio. Un risultato, forse, inaspettato. «È uno di quei ragazzi si è ritrovato per caso parlamentare», racconta un viceministro 5 Stelle. Alle 21 una nota del capo politico Vito Crimi dà la notizia: «In relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite Iva, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei probiviri chiedendo la sospensione immediata e massima severità nella sanzione». Un minuto dopo nelle chat dei parlamentari si susseguono messaggi di stupore. «Sono sconvolto. Ditemi che non è vero», si lascia andare un deputato che ha conosciuto in questi due anni Rizzone, giorno dopo giorno. D’altro canto, quando varca l’ingresso di Montecitorio si fa notare per il suo carattere, ma anche per le sue intemerate «mai tenere, ma comunque costruttive». «Polemizzava sulle rendicontazioni. Poneva questioni del tipo: “Dove vanno i soldi? Da chi vengono gestite?”», raccontano. Nel frattempo questo 37 enne di Genova, laureato in economia, con un dottorato alla prestigiosa Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, amministratore unico di una start up “Zonzo Fox” che si occupa di tecnologia e dunque titolare di partita Iva, non versava più nulla al Movimento. Le sue rendicontazioni sono ferme al novembre del 2019. Non si può definire né vicino a Di Maio, né vicino a Crimi, né a Fico. Fatto sta che il terzo parlamentare che avrebbe ricevuto il bonus, assieme ai due leghisti Elena Murello e Andrea Dara, lo scorso 1 aprile scriveva su Faceboook : «Bastano cinque minuti per richiedere i 600 euro di bonus Covid per partite Iva e lavoratori autonomi». E poi spiegava per filo e per segno la procedura: «È velocissimo. In pochi semplici passaggi ti verrà chiesto di inserire numero di telefono, email e Iban del conto su cui accreditare la somma». Esattamente la procedura seguita da lui, il promotore dell’alleanza giallorossa in Liguria, il tessitore del laboratorio della sua Regione. Perché Rizzone si è messo in testa di unire Pd e Cinquestelle con a capo della coalizione Ferruccio Sansa. «È stato lui a trattare con Andrea Orlando», spiegano. Adesso, però, se la dovrà vedere con i probiviri. Ma prima, sottolinea un collega, «dovrà spiegare la ragione di questa furbata».

"Chiesta sospensione". Bonus ai deputati, è Marco Rizzone (M5S) l’ultimo parlamentare ad averlo intascato. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2020. “In relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite IVA, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei Probiviri chiedendone la sospensione immediata e massima severità nella sanzione”. Lo dichiara in una nota il capo politico del Movimento 5 Stelle Vito Crimi. Rizzone si aggiunge ai due deputati della Lega, Elena Murelli e Andrea Dara, sospesi ieri così come annunciato dal capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. “Pur non avendo violato alcuna legge – dice Molinari – è inopportuno che parlamentari abbiano aderito a tale misura e per questa ragione abbiamo deciso e condiviso con i diretti interessati il provvedimento della sospensione. E’ comunque incredibile che i vertici dell’Inps non abbiamo versato ai lavoratori che aspettano da marzo quanto dovuto e che abbiano invece versato a chi non era in difficoltà. In qualsiasi altro paese i parlamentari sarebbero stati sospesi ma il presidente dell’Inps sarebbe stato licenziato”.

Da iltempo.it il 13 agosto 2020. Sergio Pirozzi è infuriato perché è venuta allo scoperto la storia dei 600 euro che lo vedono coinvolto. E a Il Tempo come aveva detto al Fatto quotidiano ha dichiarato che “il terremoto ha distrutto ha distrutto il negozio, ci siamo rialzati, poi è arrivato il Covid. Mia moglie rischiava di chiudere e ha chiesto il bonus”. Va aggiunto che il negozio è proprietà di una S.a.s. intestata a moglie e marito. Nei giorni scorsi l’ex sindaco di Amatrice aveva così commentato su Facebook la vicenda riguardante i parlamentari che hanno chiesto il bonus all’Inps: Una brutta storia, che fotografa bene la distanza che c’è oggi tra una certa politica e le persone comuni. Io spero che questi 5 vigliacchi, di qualunque partito siano, si dimettano e chiedano scusa agli Italiani e ai loro sacrifici. Sarebbe doveroso. Al centro ci sono sempre le persone: se uno è una brava persona lo è da cittadino e da uomo o donna delle Istituzioni. È questo che fa la differenza. Sempre”.

Monica Rubino per repubblica.it il 13 agosto 2020. Oltre ai tre deputati che hanno incassato il bonus Inps destinato alle partite Iva durante l'emergenza coronavirus - i due leghisti Dara e Murelli e un grillino il cui nome verrà rivelato domani - e gli altri due onorevoli di Iv e Lega a cui è stata rifiutata la domanda, ci sono anche circa 2mila amministratori locali che hanno chiesto e ottenuto il sussidio. La stragrande maggioranza sono sindaci e consiglieri comunali di piccoli comuni, sui quali non si può gettare addosso la croce perché la loro attività politica è quasi volontariato. Meno giustificabili, invece, sono i consiglieri regionali con le loro indennità mediamente sugli 8mila euro al mese, ma che possono superare anche i 12mila. Tra questi ultimi si nota una prevalenza della Lega e il leader Matteo Salvini conferma che non saranno ricandidati nelle regioni prossime alle elezioni. Dei dieci finora individuati, infatti, otto sono del Carroccio distribuiti in cinque Regioni. Uno è del Pd, l'altro di Forza Italia. I leghisti sono così ripartiti: tre in Veneto, due in Piemonte, uno in Emilia Romagna, uno in Liguria e uno in Lombardia. Quest'ultimo è Alex Galizzi, che ha ammesso di aver intascato l'aiuto anche se si è giustificato dicendo: "Non lo ricordavo". Il consigliere dem è piemontese, mentre quello forzista è friulano.

Gli otto della Lega. In Veneto ad aver preso il bonus sono Riccardo Barbisan, Alessandro Montagnoli e il vicepresidente della Regione Gianluca Forcolin. Tutti e tre fedelissimi del governatore Luca Zaia, in corsa per le regionali di settembre e lanciatissimo nei sondaggi. Salvini oggi ribadisce da Forte dei Marmi: "Abbiamo già deciso, Zaia l'ho sentito, non saranno ricandidati". E torna ad attaccare il presidente Inps Pasquale Tridico: "Non ha pagato Cig, cosa aspetta a dimettersi?". Ma il vice di Zaia Forcolin, intervistato oggi da Repubblica, si è difeso: "Io cacciato dalle liste e Fontana ancora al posto suo in Lombardia?". Tuttavia, dopo un colloquio con Zaia, tutti e tre alla fine hanno rinunciato alla candidatura, evitando la pubblica "decapitazione". In Piemonte i due consiglieri del Carroccio percettori del bonus sono Matteo Gagliasso, 27 anni compiuti da poche settimane, di Alba, e Claudio Leone 53 anni, di Rivarolo Canavese. Tutti e due sono stati eletti per la prima volta in Consiglio regionale un anno fa in coincidenza con la vittoria del centrodestra che ha portato al governo della Regione Alberto Cirio. Sia Leone sia Gagliasso sono entrambi detentori di partita Iva. Hanno già restituito gli importi all'Inps, ma la restituzione non li ha salvati dalla sospensione dal partito, decisa oggi. In Emilia Romagna il leghista sotto accusa è Stefano Bargi, 31enne di Sassuolo. Assieme ad altri due soci è proprietario di un locale a Maranello, il Beer Stop, ed è iscritto a un'associazione di categoria che ad aprile ha fatto la richiesta di bonus per tutti e tre. Il bonus gli è arrivato ad aprile e a maggio e ha investito quei soldi per riavviare il locale colpito dallo stop dovuto al lockdown. In mattinata Matteo Rancan, capogruppo leghista in Regione ha annunciato la sua "sospensione dal partito". In Liguria il consigliere regionale uscente Alessandro Puggioni, 51 anni di Rapallo, si è autodenunciato e ha deciso di autosospendersi dalla Lega, partito in cui milita dal 1995. Puggioni si  è "auto-sospeso" e ha annunciato di volere rinunciare alla candidatura alle regionali di settembre. In Lombardia, come accennato, Alex Galizzi, consigliere regionale della Val Brembana e titolare della Brembo informatica, ha ricevuto il bonus assieme a un socio. Ma nel difendersi critica la legge: "Me ne ero dimenticato. Bastava mettere un limite sul reddito dell'anno precedente e non ci sarebbero stati problemi".

Il consigliere piemontese del Pd. In Piemonte il consigliere dem Diego Sarno dà la colpa alla compagna e parla di "un errore di sottovalutazione". In un post su Facebook scrive: "La mia compagna fa questo di lavoro da sempre gestisce la contabilità riguardante la mia attività professionale. Durante il lockdown, per provare diverse procedure ha usato la sua partita Iva e anche la mia (avendone due tipologie diverse) così da essere pronta per assolvere senza errori e con una maggiore velocità le molte procedure gestite per i clienti dello studio nel quale lavora". Una semplice "prova" per testare il funzionamento del sistema e il procedimento. Prova, però, finita male. Per "espiare" la sua colpa, Sarno annuncia che devolverà sei mesi di stipendio ai lavoratori danneggiati dal coronavirus.

Il consigliere-albergatore di Forza Italia. In Friuli Venezia Giulia Franco Mattiussi, 62 anni, albergatore e consigliere regionale di Forza Italia (è vicecapogruppo azzurro), ha confermato in un lungo post su Fb di aver incassato il bonus per due volte, utilizzando i soldi "per pagare le bollette" nei suoi due alberghi-ristoranti che per il lockdown "hanno accumulato perdite pari a 300mila euro. Anche lui affida la sua difesa a Facebook: "I parlamentari così come Sindaci e consiglieri regionali vari ed eventuali - che hanno richiesto il bonus Inps non hanno rubato nulla" ma soltanto "hanno esercitato un loro diritto. Hanno, in un certo senso, profittato di una norma che lo consentiva. L'avere partita Iva presuppone l'esistenza di un lavoro autonomo parallelo alla figura politica ricoperta".

Il caso di Sergio Pirozzi (Fdi) nel Lazio. Nel Lazio spunta il nome del consigliere regionale di Fratelli d'Italia Sergio Pirozzi, ex sindaco di Amatrice ai tempi del terremoto, eletto nel consiglio del Lazio come indipendente di centrodestra e passato a gennaio 2020 con Fdi. Il suo ufficio stampa smentisce e spiega che il sussidio è stato chiesto dalla moglie commerciante di Pirozzi, la quale è titolare di un'edicola ad Amatrice. Poi è lo stesso Pirozzi che si difende in prima persona: "Non ho beneficiato del bonus richiesto da mia moglie Teresa autonomamente per mandare avanti la piccola edicola che gestisce ad Amatrice. Né avrei potuto impedire che effettuasse una legittima richiesta per far sopravvivere la sua attività". E annuncia querele contro chiunque tenti di mettere la posizione di sua moglie "sullo stesso piano di quella dei politici eletti che, in via diretta hanno approfittato delle gravi lacune che di questa legge, fatto che ho apertamente e pubblicamente condannato fin dal primo momento in cui è emersa la vicenda". Su Facebook, infatti, Pirozzi tre giorni fa aveva scritto: "Una brutta storia, che fotografa bene la distanza che c'è oggi tra una certa politica e le persone comuni. io spero che questi 5 vigliacchi, di qualunque partito siano, si dimettano e chiedano scusa agli italiani e ai loro sacrifici. Sarebbe doveroso. Al centro ci sono sempre le persone: se uno è una brava persona lo è da cittadino e da uomo o donna delle Istituzioni. + questo che fa la differenza. Sempre".

 Da stylo24.it il 13 agosto 2020. Il suo nome è comparso nelle ultime righe di un articolo del Corriere della sera. Ingiustamente sospettata di aver incassato i 600 euro del bonus Covid e per questo additata all'opinione pubblica nazionale. Michela Rostan, parlamentare di Italia viva – partito a sua volta indicato nella prima fase come coinvolto nello scandalo sul sussidio e poi scagionato del tutto – in questa intervista a Stylo24 annuncia la possibilità di portare l'Istituto nazionale di previdenza, presieduto da Pasquale Tridico, in tribunale per la fuga di notizie (false) che hanno rischiato di disintegrarne la reputazione.

Onorevole Michela Rostan, si è letto il suo nome sul Corriere della sera rispetto alla vicenda del Bonus Covid ai parlamentari, lei ha subito smentito con fermezza.

«Come ho detto al giornalista e come ho ribadito alle agenzie non ho mai chiesto il Bonus Covid per i lavoratori autonomi e considero una indecenza il fatto che chi non avesse bisogno ne abbia fatto richiesta e lo abbia ottenuto. Ho messo a disposizione tutti i miei dati personali, chi vuole può controllare. Chiedo però anche all’Inps di fare chiarezza. Considero una barbarie questa caccia alle streghe, alimentata evidentemente da qualcuno. Istituzioni e mass media dovrebbero avere un sussulto di dignità e comportarsi in maniera più responsabile. Potrebbero anche arrivare, a questo punto, all’indirizzo dell’Inps e di alcuni giornali delle richieste di risarcimento dei danni, visto che è stata lesa l’onorabilità di chi, come me, è stato tirato in causa senza alcun motivo. Nel mio caso, devolverei tutto proprio ai lavoratori autonomi e alle giovani Partite Iva in difficoltà».

Qualcuno ha legato questa fuga di notizie a una manovra, a cui non sarebbe estraneo il vertice dell'Inps, per fomentare una nuova ondata di populismo anti-casta in vista del referendum sul taglio dei parlamentari. È d'accordo? Qual è la sua posizione sul referendum?

«Non so cosa ci sia dietro questa vicenda. Certamente è grave che un parlamentare chieda un sussidio nato come sostegno al reddito per chi era in difficoltà durante la pandemia. Com’è grave che lo abbiano chiesto, e ottenuto, anche altre categorie professionali che non avevano questa necessità. Fermo restando la necessità di rispondere dei propri comportamenti, forse anche il meccanismo stesso di quel bonus era sbagliato, non avendo previsto neppure un’autocertificazione sul reddito. Di sicuro questa polemica ridà fiato al populismo contro le istituzioni e questo potrebbe aiutare il fronte del Sì nel referendum di settembre, che appare oggettivamente in ombra anche perché il tema non è così cruciale per le sorti del Paese. Io penso che il taglio dei parlamentari non debba essere un tabù, si può lavorare anche con meno rappresentanti dei cittadini. Ma quel taglio andava inserito in un progetto complessivo di riforma delle istituzioni, tipo il bicameralismo perfetto, e della legge elettorale. Tutto questo non è stato fatto».

Fino a che punto si può fare politica con l'antipolitica?

«C’è un brutto clima, sicuramente. Si discute sempre meno dei temi, delle soluzioni, delle questioni aperte nel Paese, mentre si rincorrono slogan, questioni secondarie, propagande di odio e di qualunquismo che rischia di erodere il tessuto democratico. Il rischio è per tutti».

Italia viva e il suo leader, Matteo Renzi, hanno un dna politico fatto di garantismo: quanto è difficile essere garantisti in un mondo politico in cui il sospetto diventa l'anticamera della verità?

«Giustizialismo è la somma della cattiva giustizia con il cattivo giornalismo. Vengono distrutte le reputazioni delle persone, a volte, senza che ci sia non dico una condanna di primo grado ma neppure un rinvio a giudizio. Le carte dell'accusa sono le sole che interessano ai giornali, i quali rinunciano a qualunque approfondimento critico sul lavoro degli inquirenti, non seguono i procedimenti, non danno voce alla difesa, si dimenticano di udienze e processi e siglano sentenze a mezzo stampa senza neppure sentire il dovere di ascoltare la voce dell'accusato. In questo tritacarne ci può finire chiunque. È un dramma democratico, che chiama in causa molti attori. Dovremmo, come ho già detto, avere un sussulto di dignità e responsabilità, ciascuno per la propria funzione. A rischiare è la democrazia nel suo insieme. Giustizialismo è la somma della cattiva giustizia con il cattivo giornalismo. Vengono distrutte le reputazioni delle persone, a volte, senza che ci sia non dico una condanna di primo grado ma neppure un rinvio a giudizio. Le carte dell’accusa sono le sole che interessano ai giornali, i quali rinunciano a qualunque approfondimento critico sul lavoro degli inquirenti, non seguono i procedimenti, non danno voce alla difesa, si dimenticano di udienze e processi e siglano sentenze a mezzo stampa senza neppure sentire il dovere di ascoltare la voce dell’accusato. In questo tritacarne ci può finire chiunque. È un dramma democratico, che chiama in causa molti attori. Dovremmo, come ho già detto, avere un sussulto di dignità e responsabilità, ciascuno per la propria funzione. A rischiare è la democrazia nel suo insieme».

Bonus in beneficenza, la generosità non si dimostra con i soldi degli altri. Notizie.it il 12/08/2020. Chi sostiene di aver preso i 600 euro di bonus per darli in beneficenza si è arrogato il diritto, che dovrebbe essere unicamente dello Stato, di stabilire la priorità delle persone da aiutare. Dopo lo scandalo dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali che hanno richiesto il bonus pur non avendone evidentemente bisogno, anche se diritto, molti di loro si stanno giustificando sostenendo di averli presi per poi darli in beneficenza. In realtà già durante il lockdown e immediatamente dopo avevo sentito molti fra amici e conoscenti che, avendone anche loro diritto benché non bisogno, avevano detto di voler richiedere (non so se poi lo abbiano fatto) il bonus per darlo in beneficenza. Sentendosi come dei novelli Robin Hood, hanno pensato di “togliere” (purtroppo non si può dire “rubare”, perché appunto ne avevano diritto) allo Stato per dare ai poveri. Senza, però, rendersi conto che così facendo stavano comunque sottraendo risorse a chi ne aveva bisogno: se costoro non avessero chiesto il sussidio, lo Stato avrebbe avuto ad esempio maggiori fondi a disposizione per poter riconoscere una cifra più alta quale sussidio. E proprio sull’iniquità della cifra stabilita dal Governo hanno tuonato a gran voce i partiti da cui provengono alcuni dei politici che hanno richiesto e ottenuto il bonus. Ma soprattutto i politici arraffoni non si sono resi conto che, così facendo, sì stavano arrogando il diritto, che invece dovrebbe essere unicamente dello Stato, di stabilire la priorità delle persone da aiutare. Se necessitassero di maggiore sostegno i liberi professionisti o i dipendenti, i disoccupati o gli occupati sarebbe dovuta essere, infatti, una scelta effettuata in base a un’analisi di priorità e non del sentimento personale dei singoli individui, che possono sentirsi, per diverse ragioni, più vicini a una categoria piuttosto che a un’altra. Vicinanza che, peraltro, potrebbe poi tramutarsi in bacino di voti, visto che ciascun politico attinge il proprio consenso elettorale soprattutto dagli ambienti, professionali e sociali, che gli sono più vicini e di cui promette di farsi portavoce. E allora, più che beneficenza, sarebbe propaganda. Ma la beneficenza, così come la propaganda, si fa con i soldi propri, non certo quelli degli altri, a maggior ragione se gli altri sono i cittadini che bisognerebbe rappresentare. Ovviamente costoro dovranno ora dimostrare di aver effettivamente effettuato i bonifici e di averlo fatto ben prima del sorgere dello scandalo, altrimenti sarà facile pensare che si tratti soltanto di un escamotage per uscire dall’imbarazzo di essere stati sgamati con la mano nella marmellata. Mentre lo Stato dovrà mostrarsi capace di stabilire meglio in che modo distribuire i soldi ai propri cittadini, altrimenti finirà per legittimare chi si sente impropriamente in diritto di stabilire una propria, personalissima, classifica dei bisognosi. Perché, se c’è qualcosa che questo scandalo ha dimostrato, è indubbiamente quanto i soldi siano stati distribuiti male, con l’obiettivo di non scontentare nessuno, ma scontentando tutti.

Cumula pensione d’oro e stipendio statale: storia di un consigliere grillino del Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Agosto 2020. I grillini e Marco Travaglio sono furiosi nei confronti dei politici che hanno ricevuto, dopo averne fatto domanda, il bonus da 600 euro. Degli “accattoni” che hanno “arraffato” con la scusa del Covid-19 la somma destinata a chi era in difficoltà, ha dichiarato ieri nel suo editoriale il direttore del Fatto. Pur non avendo violato nessuna norma se non quella “dell’etica e della decenza”, ha aggiunto Travaglio, questi personaggi devono comunque essere “cacciati” dal Parlamento in quanto persone “senza cuore, buon senso e buon gusto”. Nessuno da quelle parti, tutto preso dalla rinnovata foga anticasta, ricorda cosa accadde nella scorsa consiliatura del Csm allorquando un laico grillino, utilizzando le leggi previste, pressoché raddoppiò dall’oggi al domani il proprio emolumento mensile. Questa la storia. Il consigliere in questione era un docente universitario di ruolo. I grillini, a cui spettava di indicare al Parlamento un nome per il Csm, lo avevano scelto per quell’incarico con il sistema del voto online. Appena varcata la soglia di Palazzo dei Marescialli, il neo consigliere venne collocato dal suo ateneo in posizione di “fuori ruolo”, percependo lo stipendio da docente a cui sommava le indennità per i componenti dell’Organo di autogoverno della magistratura. La legge sul funzionamento del Csm prevede, infatti, per membri eletti dal Parlamento che siano dipendenti della Pubblica amministrazione, un doppio binario: rimane “a carico dell’Amministrazione di appartenenza l’onere inerente il trattamento di cui risultino già provvisti” e “a carico dell’Amministrazione della giustizia l’eccedenza spettante in quanto consiglieri del Csm”. Durante la consiliatura, il professore grillino decise di andare in pensione, con ben sette anni di anticipo rispetto all’età prevista per i docenti universitari fissata a 70anni, in quanto aveva maturato l’anzianità contributiva necessaria. Il Csm, allora, iniziò a versargli per intero l’assegno spettante per i consiglieri, pari a quello di un parlamentare. Assegno a cui l’ex professore “sommava”, quindi, la pensione dell’università. Al Csm pare non valere la norma secondo cui chi è titolare di una pensione, se vuole svolgere incarichi per la pubblica amministrazione, deve farlo gratuitamente. Il caso sollevò, all’epoca, accese discussioni al Csm. In una seduta di Plenum il laico Antonio Leone, già vice presidente della Camera, chiese se questo “cumulo”, per di più da parte di chi era stato eletto da un movimento che lottava contro i “privilegi”, fosse ammesso. Erano anni quelli in cui i grillini, con il loro capo politico Luigi Di Maio, stavano combattendo la battaglia della vita contro le “pensioni d’oro” e le “maxi retribuzioni”. Gli allora vertici di piazza Indipendenza risposero che era stato formulato un quesito all’Inps e che era tutto perfettamente “regolare”. Nessuna violazione. Il caso, evidentemente, sarà sfuggito a Travaglio e ai grillini oggi tanto indignati.

Il populismo è diventato l’ideologia unica. Scandalo bonus, l’Inps usata a fini politici è la vera corruzione. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Agosto 2020. Ma ora dovete beccare quelli dei monopattini. Sennò è sleale. Mi spiego meglio. Siamo tutti d’accordo, mi pare, su una cosa: che quei deputati e quei consiglieri regionali che hanno preso il bonus previsto per i lavoratori a partita Iva sono dei veri felloni. Fa bene il Fatto Quotidiano, unico giornale che ha davvero la spina dorsale (da quando non si stampa più il Popolo d’Italia) a raccogliere le firme per chiedere che il governo tiri fuori i nomi e li esponga in piazza. Giusto? Però… Però non ha torto neppure Forcolin. Chi è Forcolin? Fino a ieri era il vicepresidente del Veneto, ma ora si è dimesso perché è finito nel pantano di questo scandalo. Zaia, il Presidente, leghista come lui, gli ha detto che non lo ricandiderà alle prossime elezioni e ora Forcolin, che è ancora giovane, rischia di vedere distrutta una carriera politica che poteva diventare radiosa: distrutta per 600 euro che ha dovuto oltretutto dividere con altri cinque o sei soci della sua piccola azienda. A lui saranno andati si è no 100 euro una tantum, e Forcolin è uno che guadagna circa 8000 euro al mese per l’incarico in regione più i profitti della sua azienda ora sussidiata col bonus. Può un cristiano, perlopiù di successo, andare in rovina per cento miserrimi euro? Beh, Forcolin comunque ha ragione a rilanciare. Dice: scusate, ma perché ve la prendete tutti con noi che abbiamo preso questo bonus Iva e non ve la prendete coi deputati e i senatori (pare soprattutto 5 Stelle) che hanno preso il bonus monopattino, e il bonus bicicletta, e il bonus automobile e soprattutto (lì si tratta di decine e decine di migliaia di euro) il bonus ristrutturazione? Secondo voi un deputato che guadagna 12 o 13 mila euro al mese ha bisogno dell’aiuto dello Stato per comprarsi un monopattino? O per ristrutturare casa? È vero anche che la legge lo consente, e quindi perché mai se un deputato volesse comprarsi un monopattino non dovrebbe prendere il bonus? La risposta è unanime: per ragioni morali. O il moralismo si ferma a Forcolin o alla Elena Murelli, deputata della Lega che oltretutto in un recente intervento alla Camera definì “mancia” quei poveri 600 euro? A me hanno spiegato che la legge permetteva ai deputati di prendere il bonus ma siccome i deputati hanno un buono stipendio e non hanno bisogno di aiuti, la legge morale (credo quella di Kant, che è dentro di noi) impone di non prenderli. E perciò vanno messi alla gogna i deputati e i consiglieri regionali che lo hanno preso o anche solo chiesto. Benissimo. Ma forse i deputati hanno bisogno del bonus per comprare un monopattino? O per comprarsi una bici, o per ristrutturare casa e mettere i pannelli solari sotto il cielo stellato (che è sopra di noi…)? Dunque, se le cose stanno così, ci aspettiamo che Il Fatto riprenda la raccolta delle firme e chieda che sia fatta una indagine per accertare chi sono e quanti sono i deputati che hanno approfittato dei vari bonus. E poi i governatori, e poi i consiglieri regionali e via via… Fino ad ottenere una catena di dimissioni dal Parlamento e dalle regioni. Centinaia, centinaia, centinaia. Usciamo dallo scherzo. Ma poi non è uno scherzo perché gli argomenti di Forcolin sono ragionevolissimi. Oggi il presidente dell’Inps Tridico risponderà alla Camera dei deputati che gli chiederanno, immagino, non solo i nomi ma perché è stata violata la privacy visto che non c’era stata nessuna frode e nessun tentativo di frode. L’Inps forse è diventato un ente morale che detta le norme di comportamento coerenti con l’Etica di Stato e poi provvede ad applicarle e a indicare al ludibrio pubblico i trasgressori? Oppure l’Inps, essendo caduto in mano ai 5 Stelle, segue disciplinatamente la politica dei 5 Stelle e dunque piega la sua vocazione di previdenza e di assistenza in missione giustizialista? Non è mica un problema formale. Noi stiamo assistendo in questi anni a un uso di pezzi di Stato – in primo luogo, ovviamente, la magistratura – a fini politici di parte come non si era mai visto in passato, se non forse ai tempi del fascismo. Il grado della vera corruzione pubblica è salito enormemente da quando il populismo è diventato l’ideologia unica. La corruzione non è tanto prendere una tangente: lì non fai un gran danno. Quella è piccola corruzione, non si mina con una tangente l’autorevolezza dello Stato né tantomeno si mina lo Stato di diritto. La corruzione vera è quando usi lo Stato per combattere i nemici. Con le inchieste della magistratura, con le interdittive, con i sequestri dei beni (leggetevi la storia di quella azienda siciliana della quale parliamo oggi in prima pagina e a pagina 7) e ora anche con l’Inps, oltre che con l’uso disinvolto dei giornali e delle Tv. Lo Stato che promuove il giustizialismo trasformandosi in struttura non più di diritto ma di propaganda. Cosa fanno quei magistrati che aprono inchieste a raffica, senza reato, senza indizi, solo per cercare notorietà? Propaganda. E cosa faceva il ministro dell’Interno quando usava il dramma dell’immigrazione e la struttura del ministero dell’Interno, per guadagnare voti? E cosa sta facendo l’Inps? E cosa fa il tribunale dei ministri che vuole trasformare in reati le scelte (a mio giudizio sciagurate) di Salvini sul blocco dei porti? Questa è la corruzione. Per l’Italia sta diventando un problema gravissimo, e i danni di quel che sta succedendo possono diventare irreversibili. Il passaggio dal Diritto alla Propaganda. Che è l’anticamera del passaggio dallo Stato di Diritto allo Stato Etico. Sono solo i 5 Stelle e la Lega a guidare questa rincorsa reazionaria? No, altrimenti non riuscirebbero a vincere. Invece stanno vincendo perché il Pd li insegue, FdI li scavalca e gli altri partiti restano imbambolati, impauriti. P.S. Ho fatto un calcolo sulle origini geografiche dei deputati e dei consiglieri regionali fin qui coinvolti: 3 sono del Veneto, 3 del Piemonte, 2 sono emiliani, uno ligure, uno della Lombardia e un friulano. Oddio. Mi sono immaginato cosa si sarebbe detto se fossero stati 5 siciliani, tre calabresi, due di Napoli e uno di Brindisi. Vi immaginate Salvini? Vi immaginate i giornali del Nord? Beh, un pochino pochino a me viene da ridere…

Società civile assolta e politici alla gogna: il populismo all’italiana. Paolo Delgado su Il Dubbio il 13 agosto 2020. La Lega ha sospeso i deputati Murelli e Dara perchè sono tra quelli che hanno incassato i bonus. Ma nessuno si scandalizza delle centinaia di notai che hanno preso i 600 euro nonostante gli incassi da favola. Alla fine l’Inps comunicherà a una folla assetata di severa punizione i nomi dei tre reprobi che, pur godendo dello stipendio di parlamentari, hanno chiesto e ottenuto a differenza di altri due colleghi a cui è stato negato, il bonus di 600 euro mensili, passati poi a mille tondi.  Intanto la Lega ha sospeso i deputati Murelli e Dara perchè sono tra quelli che hanno incassato i bonus. Pur se del tutto legittima la richiesta non è stata precisamente un bel gesto e un certo grado di indignazione è in questo caso giustificato. Negli ultimi tre giorni, però, si è prodotto nel Paese un clima che è andato ben oltre i confini della comprensibile e legittima indignazione. Una sorta di caccia alle streghe che dallo sparuto drappello di parlamentari si è allargato ai consiglieri comunali, senza tener conto della spesso enorme differenza di stipendi. Il particolare è considerato secondario dal momento che sempre di politici si tratta e che si portino a casa un gettone da mille euro o una busta paga da 12mila che spesso lievita poi intorno ai 18mila, cosa cambia? Ci sono state autodenunce, impegni a espiare evitando la ricandidatura, messe all’indice, cancellazioni preventive dalle future liste. Come se nulla fosse è stato chiesto a voce stridula di ignorare la Costituzione costringendo i 3 deputati a restituire il maltolto ( che in realtà non è tale, almeno a termini di legge) con norma retroattiva. Si è invocata una impossibile costrizione alle dimissioni. Complice la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, i 5S non hanno esitato a sbandierare l’efferato delitto come prova della turpitudine del Parlamento, svelando così il carattere compiutamente antiparlamentare sia della riforma che del correlato referendum. E’ indicativo che a questa furia, non solo popolare ma altrettanto diffusa tra i politici e i giornalisti, nei confronti dei deputati e consiglieri comunali o regionali non si sia accompagnato nessuna reazione scandalizzata a proposito delle altre categorie. Le notizie fatte filtrare in maniera opaca e poco accettabile dall’Inps parlavano di 5 deputati e di un noto conduttore televisivo. Nessuno ne ha reclamato il nome. Nessuno se l’è presa, pur sapendo che in linea di massima gli emolumenti dei “noti conduttori” vanno ben oltre quelli dei parlamentari, per non parlare dei consiglieri comunali. E’ noto da mesi, pur se mai ufficialmente quantificato, che nelle categorie professionali la percentuale di quanti che hanno battuto cassa invocando un bonus del quale non avevano bisogno va ben oltre quella, in realtà molto esigua riscontrata fra i parlamentari. In fondo a chiedere quei 600 euro sono stati in 5 su mille, pari appunto allo 0,5%, percentuale che scende, considerando quelli che il bonus lo hanno effettivamente incassato, allo 0,3%. Corre voce che tra i notai ad avanzare la quella richiesta siano stati in centinaia. Tenendo conto del fatto che i notai sono una professione a numero chiuso, sono in tutto 5.115, e che di conseguenza si tratta anche di quella più lucrosa, il dato dovrebbe suscitare quantomeno un qualche disappunto. E’ poi il segreto di Pulcinella che molte aziende abbiano usufruito della cassa integrazione, ma senza ritenersi di conseguenza obbligate a non far lavorare i dipendenti cassintegrati. Un bel risparmio, lo si riconosca. La stessa giustificazione accampata dalla viceministra Castelli per spiegare la totale assenza di condizioni nella distribuzione del bonus, “Dovevamo fare presto”, non è stata confutata quasi da nessuno ricordando alla viceministra che nel caso del reddito di emergenza non è stata avvertita alcuna esigenza di fare presto e le condizioni sono state pensate freddamente per impedire a molti degli aventi diritto di incassare quei 400 euro una tantum. Nessuno o quasi se l’è presa a male di fronte a quest’onda gigantesca sulla cresta della quale figurano come trascurabile schiuma quei cinque deputati. Nessuno ha reclamato chiarimenti, invocato punizioni esemplari, puntato l’indice. E’ il frutto di un decennio e oltre nel quale i politici sono stati descritti come una combriccola di inutili mangiapane a tradimento, ceto parassitario nella migliore delle ipotesi, corrotto e venefico nella peggiore. Se un notaio chiede e ottiene il bonus, la cosa appare certamente disdicevole ma si ferma lì. Se a fare la stessa cosa è un politico la colpa si somma a quella di essere, appunto, un politico. Diventa la goccia che fa traboccare il vaso, il particolare lercio che getta una luce acquitrinosa su tutto il resto, l’occasione per cogliere una a lungo attesa vendetta. Difficile immaginare una temperie politica più infida e pericolosa.

Stasera Italia, ira per le parole di Federico Rampini: "Gli statali fannulloni, con lo smart working non hanno fatto nulla". Libero Quotidiano il 06 agosto 2020. Rabbia per la puntata di mercoledì 5 agosto di Stasera Italia. Il dirigente pubblico Alfredo Ferrante se la prende con Veronica Gentili e Carlo Cottarelli. Il motivo? Aver riso alle parole di Federico Rampini. Il giornalista, in collegamento con Rete Quattro, ha sparato a zero sui dipendenti pubblici: "Bisogna fare pulizia dei sabotatori della rinascita italiana - ha esordito -. Andiamo a guardare cos'è  stato il crollo della produttività dei lavoratori pubblici che si sono fatti a casa il lockdown con il cosiddetto smart working". E ancora senza pietà: "Il significato di 'smart working' è 'lavoro intelligente', questi già non facevano un lavoro intelligente prima, figuriamoci ora". Per Rampini molti di loro si sono fatti "le vacanze a casa, il lockdown è diventato un alibi per i lazzaroni". Il giornalista smaschera la vergogna dello Stato, visto che gli statali hanno lo stipendio assicurato senza fare nulla, mentre i lavoratori normali no. Le reazioni non si sono fatte attendere. Ferrante ha rilanciato l'intervento commentando: "Le parole vergognose di Federico Rampini sui lavoratori in smartworking sono indegne: populismo a un tanto al chilo. Questo sarebbe giornalismo? Il tutto mentre la conduttrice Veronica Gentili e l'immarcescibile Carlo Cottarelli se la ridono allegri. Trasecolo".

My dear Mr. Rampini. Alfredo Ferrante per linkiesta.it il 6 agosto 2020. Caro Rampini, non è la prima volta che mi capita di scrivere qualche riga indirizzata a illustri opinionisti della carta stampata per ribattere a esternazioni in materia di lavoro pubblico e PA: l’Italia, d’altronde, è il Paese dei 60 milioni di CT della Nazionale e di luminari del funzionamento delle amministrazioni pubbliche. In ogni caso, come sibilava Humphrey Bogart ne “L’ultima minaccia” (1952), è la stampa, bellezza: libero diritto di critica, conseguente ampio diritto di replica. It’s a free country, come usano dire dalle Sue parti. Spero vorrà allora seguirmi mentre dedico qualche minuto delle mie ferie a fare le pulci ad alcune delle dichiarazioni da Lei rese nel corso della trasmissione “Stasera Italia News”, in onda su Rete 4 lo scorso 3 agosto, che meritano, per diversi motivi, una qualche attenzione. Veda, caro Rampini, poiché Lei ha parlato di “sabotatori della rinascita Italiana” (modello collaboratori dei nazifascisti, ad occhio e croce) e del “crollo della produttività, già bassissima, di tanti statali, di tanti pubblici dipendenti, che si sono fatti il lockdown a casa col cosiddetto smart working”, vorrei chiederLe conto dei dati e delle evidenze sui quali basa tali affermazioni. Immagino che, prima di sparare ad alzo zero sull’operato di così tante persone, si sarà attentamente documentato prima della trasmissione, consultando con pignoleria le analisi e le percentuali più aggiornate messe a disposizione da università e centri di ricerca pubblici e privati. La mia domanda, dunque, è: quali fonti ha consultato, esattamente? È in grado, egregio dottor Rampini, di citare un qualche studio che possa suffragare tali affermazioni così tranchant? Glisserei, per carità di Patria, sulla lamentata pretesa di spendere i mesi di confinamento a casa da parte dei dipendenti pubblici: probabilmente nelle lontane terre americane in cui Lei spende buona parte del suo tempo non è pervenuta la sconcertante notizia che un atto con forza di legge ha stabilito che, nei mesi di emergenza sanitaria, il lavoro agile fosse la modalità ordinaria di lavoro nella pubblica amministrazione. Non un ghiribizzo di qualche sfaccendato travet, dunque, ma una disposizione del Governo per arginare il diffondersi del contagio. Stranezze tutte italiane, forse. Ma andiamo oltre. Ho molto poco burocraticamente inarcato un sopracciglio, scuotendomi dal mio usuale stato atarassico, nell’udire il prosieguo del Suo ragionamento, quando, a proposito di smart working (o lavoro intelligente, come da Lei prontamente tradotto), ha sostenuto che “questi (sic!) già non facevano un lavoro intelligente prima, hanno lavorato ancora meno, ancor peggio”, con “tanti di loro che hanno fatto delle vere e proprie ferie a casa”. Al netto del rischio di dover riconoscere delle corpose royalty a Pietro Ichino, che ha avuto modo di precederLa nella propalazione di una simile argomentazione, mi sono chiesto – con una buona dose di impudenza, lo ammetto – come facesse ad essere così dettagliatamente informato circa le modalità con cui centinaia di migliaia di lavoratori pubblici (e privati!) hanno impiegato le ore di lavoro a casa nei mesi del confinamento. La mia personale esperienza è stata oltremodo positiva, e di questo ringrazio chi lavora con me, ma forzatamente circoscritta alla mia cerchia esperienziale. Comprenderà, dunque, il mio sordo stupore nell’apprendere che, pur non vivendo in Italia, Lei ha, tuttavia, “raccolto le lamentele, i pianti, le urla di decine di amici” che sta incontrando nel Bel Paese “per il livello vergognoso cui è precipitata l’improduttività della pubblica amministrazione”. Provo, con una certa audacia, a tradurre: i Suoi venti o trenta (quaranta e lascio?) amici, povere anime ululanti al pari dei protagonisti di una tragedia shakespeariana, rappresentano, a Suo dire, un campione statistico a tutti gli effetti. All right, man. Imbarazzo a parte, arriviamo, tuttavia, al climax del Suo intervento. Mentre il dottor Carlo Cottarelli e la padrona di casa, Veronica Gentili, beatamente se la ridacchiavano, ecco l’affondo: “Il lockdown è diventato un alibi per un esercito di lazzaroni, a loro lo stipendio non glielo nega mai nessuno, mentre ci sono milioni di Italiani che in questo momento vivono in un’incertezza tragica. Quelli lì –“quelli lì”? – quando stanno a casa e non fanno un beato niente, lo stipendio lo incassano, quindi va bene cacciare il Presidente dell’INPS, ma poi occorre cacciare a fare pulizia di tutti i dirigenti e quadri che non sono capaci di far lavorare i loro collaboratori”. Caro Rampini, Lei può naturalmente sostenere tutto ed il contrario di tutto, quando e dove vuole. Tuttavia, quel che trovo stupefacente è l’aperto, gratuito disprezzo mostrato verso quelle lavoratrici e quei lavoratori del settore pubblico che, in condizioni difficili e molto spesso con mezzi propri, hanno assicurato la continuità amministrativa pur non potendo recarsi in ufficio. Un furore ideologico testimoniato da un linguaggio sprezzante e, cosa assai più grave, da casistiche da Bar dello Sport. Da inveterato burocrate, ho il brutto vizio di leggere le carte e formulare ipotesi attendibili prima di pronunciarmi: da un giornalista professionista mi aspetterei, parimenti, ragionamenti basati su dati e circostanze documentati, su cui costruire tesi, analizzare i problemi, offrire, se del caso, soluzioni. Urticanti magari, ma solide. La PA Italiana è un paradiso? Ma niente affatto! I problemi sono molti e radicati, in larga parte derivanti dall’utilizzo spregiudicato che della macchina pubblica ha fatto nel tempo tanta parte della politica, ed è incombenza di tutti, in primis di chi ha responsabilità pubbliche e amministrative, rimboccarsi le maniche e fare di tutto perché, in ultima analisi, cittadini e imprese abbiano i servizi cui hanno diritto. Lei sostiene, peraltro, con fare sbrigativo, che si deve cacciare e fare pulizia dei dirigenti che non sono capaci di far lavorare gli altri: parole rozze, principio sacrosanto. Ma vorrà perdonarmi se nutro più di qualche dubbio sul fatto che tali decisioni vengano prese sulla base dei suoi personalissimi cahiers de doléances. In fondo, caro Rampini, fin qui nulla di nuovo. Molti dipendenti pubblici si saranno offesi o arrabbiati, ma Lei è solo buon ultimo in una lunga schiera di illustri professionisti nel nobile sport dell’insulto contro i lavoratori del settore pubblico. Alimentare odio sociale fa cassa, analizzare problemi complessi e imbastire soluzioni assai meno. Quel che è assai singolare – imperdonabile, aggiungo – è che Lei, da osservatore internazionale di tante realtà avanzate, abbia clamorosamente mancato di cogliere, anche solo in parte, le potenzialità che questo imprevisto smart working d’emergenza ha esplicitato, permettendo finalmente di immaginare, al pari delle tante e consolidate realtà del settore privato in Italia e nel mondo, una diversa organizzazione del lavoro pubblico. Lei parla di “lazzaroni” (ce ne han dette di peggio, Le assicuro) chiudendo ostinatamente gli occhi di fronte al fatto che in tanti hanno apprezzato modalità nuove di lavoro che, se opportunamente sfruttate, possono rappresentare una delle leve per riorientare in profondità un bene comune indispensabile per il Paese come la nostra amministrazione pubblica. Inutile ripetere cose già dette: ognuno, Lei incluso, potrà documentarsi in merito. Sappia, tuttavia, my dear Mr. Rampini, che le chiacchiere hanno fatto il loro tempo: in molti, ed io per primo, hanno fiducia che si possa e si debba entrare in una agorà nuova per il settore pubblico, che dovrà scuotere alle radici prassi e schemi ormai desueti. Si aggiorni, se può. And so long!

Federico Rampini, Renato Farina lo difende: "I compagni lo linciano? Per forza: è l'unico giornalista intelligente della sinistra". Renato Farina Libero Quotidiano l'8 agosto 2020. Il fenomeno si ripete da circa un anno a questa parte. Quando, collegato per video con qualsivoglia talk-show da San Francisco, Singapore, Bruxelles o - ad ogni morte di Papa - da Roma, Federico Rampini esprime un suo giudizio argomentato, peraltro sempre con gli accenti circonflessi al posto giusto, si trova contro i compagni che ogni volta non riescono a crederci. Com' è possibile che da quella bocca un tempo adorata partano fulmini e saette - ovviamente flautate -contro le verità di ferro della sinistra italiana ed europea? Non ha rinnegato niente, Rampini. Semplicemente si è spostato dall'ideologia alla realtà. Ha deciso di privilegiare l'evidenza delle cose alle fumisterie della dialettica. In Italia è rimasto intatto, nonostante gli scossoni della storia, il vecchio juke-box progressista a doppia selezione: una tastiera con le canzonette pop, l'altra con i cantautori profondi. Lui era il campione della lista numero due, il super-figo che detta il Verbo dalle cime dei grattacieli e dagli sprofondi della Silicon Valley, ma comunque in linea con i sacri dogmi. Rampini ha finito i gettoni. Scusate l'immagine anni 60, ma la storia è questa qua. La cosa peggiore è che Federico non rinnega niente, non si sogna di proclamare nessun me-ne-frego. E questo è pure peggio. Non possono trattarlo da fedifrago. Togliatti reincarnato lo strapperebbe con le sue dita da latinista, dandogli del pidocchio, «dalla criniera del cavallo da corsa» naturalmente rosso. Altro che purosangue: Pd o Cgil o Leu sono ronzini buoni per lo scortichino, secondo Rampini la scuderia progressista può tornare a galoppare se dismette i destrieri dopati dai luoghi comuni, se getta dalla finestra i miti dello statalismo, dei lavoratori sempre e comunque bravi, mai da licenziare. Se ascoltasse Federico magari non ci troveremmo in pista Varenne, ma almeno qualcuno contro cui correre senza disperare se si perde.

FERIE RUBATE. Ieri abbiamo assistito e oggi continueremo a osservare il fenomeno del linciaggio di Rampini. Ha detto con semplicità e periodare ben tornito che i compagni lavoratori statali sono dei "lazzaroni" che con un falso smart-working, che dovrebbe voler dire lavoro intelligente, invece furbescamente si sono goduti ferie rubate ai cittadini che gli pagano lo stipendio. Oddio. Si è levato un coro universale su internet, ciò che se non altro smentisce quel che a me - scusate il caso personale - è stato comunicato dagli uffici di un Tribunale vicino casa. Spiego in due parole, pronto a fornire ogni documentazione del caso. Inviata per posta elettronica certificata tramite legale una circostanziata richiesta, la busta elettronica non è stata aperta per mesi. Perché? Causa lockdown. Ma come? Non accettavano il deposito a mano perché c'era il lockdown, e ora dicono che siccome stavano a casa non hanno aperto la posta elettronica dell'ufficio? E si sa il digitale funziona e non funziona. Diremmo soprattutto la seconda che ho detto. È stata una valanga social, è persino possibile che qualcuno tra i lavoratori statali domestici sia disposto persino a prendere il tram per rincorrerlo. Anzi no, perché adesso ci sono le ferie ufficiali. Il caso della Sicilia è noto. Il presidente della Regione (di destra) Nello Musumeci ha spiegato che l'80 per cento dei suoi 13mila dipendenti non fa nulla e da casa anche meno di nulla. Un assessore ha invocato che per una volta rinunciassero alle ferie, dato che ci sono pratiche inevase per spendere mezzo miliardo di fondi europei altrimenti perduto. Forse un riposino se l'erano fatto, lungo quattro mesi. I sindacati della pubblica amministrazione hanno risposto duramente che le ferie sono un diritto costituzionale irrinunciabile. Eh sì, minchia. Chi ha dato il diritto a Rampini di considerare come ferie truffaldine il doloroso sacrificio dei tre milioni circa di dipendenti statali? Costoro in questi mesi, senza lamentarsi, senza assembrarsi nei bar per il tradizionale cappuccino, hanno dovuto pendolare con grande senso del dovere, qualche volta in mutande per la disperazione, dal divano alla sedia di casa, con quel computer che non funziona, internet che traballa, senza postura ergonomica con conseguente strazio dei glutei. Talvolta pure senza buono pasto. Vicino a lui, il professor Carlo Cottarelli, che queste cose non le dice perché spera sempre di tornare con il suo trolley a Palazzo Chigi, non riusciva a trattenere le ganasce dall'erompere di un riso liberatorio. Pietro Ichino, giuslavorista minacciato anni fa dalle Brigate rosse, aveva espresso i medesimi concetti di Rampini, e oggi si ritrova nel mirino delle Brigate lazzarone, che per fortuna sono troppo stanche per nuocergli. A costoro i difensori degli statali strepitano: dove sono le prove? Forniteci le statistiche! È un negazionismo di sinistra rispetto al quale quello sull'inesistenza del Covid appare essere persino più serio.

PANE E COMUNISMO. Questo è solo l'ultima disfida che Rampini si è trovato a combattere tra i suoi di sinistra. Uno della sua pasta fluorescente è il professor Luca Ricolfi, ma qui parliamo di giornalisti e non di sociologi progressisti. E tra i gazzettieri nati e restati tra i compagni, l'editorialista e inviato di Repubblica è certamente il migliore (splendida la sua news letter settimanale dagli Usa). Non intendiamo trascinarlo sull'altro lato del campo. Infatti, bretelle a parte, che sono di destra, Federico Rampini è senza alcun dubbio di sinistra. È cresciuto a pane, comunismo su cui crescendo ha spalmato il caviale. C'è lo ricordiamo bene, fino a tre o quattro anni fa. Cinque o sei lingue, tutte ricamate con la evve color pastello alla Agnelli; un amore viscerale per il popolo e un'allergia da choc anafilattico per la popolazione; il fatto di essere diventato ancora giovane (oggi ha 64 anni) il giornalista prediletto da Carlo De Benedetti: tutto questo gli ha garantito un sana antipatia tra le plebi di destra, che si sentivano guardate da questo signore di eleganza casual come se fossero porcellini d'India però un po' obesi. Ma non erano tanto gli occhi a fargli voler male dai non-progressisti, ma la molletta sul bel naso per non rovinarsi l'odorato. Per altro, l'uomo suscitava già dai tempi della sua ortodossia molte invidie tra i colleghi di sinistra che lo sapevano perennemente in viaggio in business class lungo gli itinerari del potere globale. San Francisco, Pechino, New Delhi, Bruxelles, ovviamente Davos. Per cui volentieri lo vedono attaccato dai piranha dacché prima ha negato che in Italia ci sia un qualsivoglia pericolo fascista, e poi ha rovinato la retorica degli "ultimi", spiegando che i dimenticati dalla sinistra (e dalla Chiesa) non sono gli stranieri, ma i "penultimi". Chi sono? Quelli per cui non corre lo stipendio sicuro, e cui tocca vivere in periferie pestilenziali. I penultimi sono esattamente i non-statali. Logico che costoro azzannino Rampini: uno di sinistra che ha il torto di evitare le bugie. Finché dura (la sinistra).

Rampini contro la P.a.: "Sabotatori, nel lockdown hanno fatto ferie". Le parole del giornalista naturalizzato statunitense continuano a far discutere: "La traduzione letterale di "smart working" sarebbe lavoro intelligente, questi già non facevano un lavoro intelligente. Hanno lavorato ancora meno, ancora peggio". Federico Garau, Giovedì 06/08/2020 su Il Giornale. Stanno creando un vespaio di polemiche le pesanti parole pronunciate dal giornalista Federico Rampini durante la trasmissione "Stasera Italia", andata in onda su Retequattro durante la serata dello scorso lunedì 3 agosto, nei confronti dei dipendenti pubblici e dello scarso impegno che a detta sua avrebbero dimostrato durante il periodo del lockdown, specie lavorando da casa. Anche le risate che hanno accompagnato le esternazioni di Rampini, sia da parte della conduttrice Veronica Gentili che dell'economista Carlo Cottarelli, non sono passate inosservate a quanti nelle ultime ore hanno voluto replicare all'attacco portato dal giornalista naturalizzato statunitense. "Purtroppo questa è la vergogna italiana in assoluto. Guardate, aveva piena ragione Cottarelli a dire che il presidente dell'Inps se ne dovrebbe andare. Però non basta, non se ne deve andare solo lui. Bisogna cominciare a fare pulizia in un mondo che è un mondo di sabotatori della rinascita italiana", ha esordito Rampini prima di affondare il colpo. "Andiamo a guardare che cosa è stato il crollo della produttività già bassissima di tanti statali, di tanti pubblici dipendenti che si sono fatti il lockdown a casa col cosiddetto “smart working”. La traduzione letterale di 'smart working' sarebbe lavoro intelligente, questi già non facevano un lavoro intelligente. Hanno lavorato ancora meno, ancora peggio. Tanti di loro si sono fatti delle vere e proprie ferie a casa", ha accusato Rampini, che le problematiche italiane le vive solo indirettamente, risiedendo negli Stati Uniti. Cosa che non gli impedisce comunque di valutare sulla base dei racconti di alcuni conoscenti. "Guardate, io non vivo in Italia, però ho raccolto le lamentele, i pianti, le urla di decine di amici che sto incontrando in Italia per il livello vergognoso a cui è precipitata l'improduttività della pubblica amministrazione. Compresa ovviamente l'Inps, ma anche l'Agenzia delle entrate. Cioè il lockdown è diventato un alibi per un esercito di lazzaroni. A loro lo stipendio non glielo nega mai nessuno. Mentre ci sono milioni di italiani che in questo momento vivono in un'incertezza tragica sul loro futuro e sul loro tenore di vita, quelli lì quando se ne stanno a casa e non fanno un beato niente lo stipendio lo incassano. Quindi", conclude il giornalista, "giusto quello che dice Cottarelli, ovvero cacciare il presidente dell'Inps che non mantiene le promesse, ma poi bisogna fare pulizia di tutti i dirigenti e quadri che non sono capaci di far lavorare i loro collaboratori, è una vergogna italiana". Tra le varie reazioni all'attacco andato in onda su Retequattro anche quello della Cgil. "Sono inaccettabili ed assolutamente pretestuosi gli attacchi che lunedì sera nel corso della trasmissione “Stasera Italia “sono stati rivolti da Carlo Cottarelli e dal giornalista Federico Rampini nei confronti dei lavoratori pubblici in smart working durante la pandemia", ha dichiarato il segretario generale Annamaria Furlan su Facebook. "La stragrande maggioranza dei lavoratori pubblici ha svolto il proprio lavoro durante i mesi più duri e drammatici della pandemia in maniera seria e responsabile. E non ci riferiamo solo al comportamento prezioso ed eroico di tutti i lavoratori della sanità pubblica , ma anche a quelli degli enti come l’Inps, dei ministeri, della scuola, delle regioni, degli enti locali, dei vigili del fuoco e di tutti i corpi dello stato che spesso utilizzando propri mezzi telematici, hanno assicurato servizi indispensabili ai cittadini. Non fa onore a Cottarelli ed a un giornalista come Rampini", ha chiuso la Furlan, "fare ricorso alla demagogia ed a vecchi luoghi comuni , come quello dei fannulloni , per attaccare milioni di dipendenti pubblici".

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2020. Essere in ferie significa non avere niente da fare e avere tutto il giorno per farlo. Alla Regione Siciliana «almeno l' 80% dei lavoratori si gratta la pancia». Così pare, stando alle lamentele del presidente Nello Musumeci, irritato con buona parte dei suoi 13 mila dipendenti, «assolutamente improduttivi». Ma Felice Cavallaro ha raccolto per il Corriere uno sfogo ancora più grave: «Il servizio che io dirigo - ha confessato il dirigente dell' assessorato all' Energia, l' ingegnere Salvatore D' Urso - ha fondi comunitari da distribuire per 560 milioni. Che facciamo? Restiamo immobili su una montagna di denaro disponibile?». E così ha provato a richiamare in servizio i dipendenti in ferie. L' immobilità deriverebbe dal fatto che dopo i «faticosi» mesi dello smart working molti impiegati hanno pensato bene di andare in ferie, a riposarsi. In ufficio non c' è nessuno (o quasi), impossibile sbrigare le pratiche, anche se di mezzo ci sono parecchi milioni che potrebbero far ripartire l' economia della regione, a «statuto speciale». A D' Urso si sono subito opposte le sigle sindacali dei dipendenti, che invocano il diritto costituzionale alle ferie «anche per ragioni psicologiche». In Sicilia abbiamo tutto, ci manca il resto, diceva con ironia Pino Caruso. Il resto è mancia: 560 milioni. Forse qualcosa di più.

Arrestata in flagranza nota chef stellata di Palermo: rubava la corrente elettrica per il suo ristorante. Gli uomini dell'Arma hanno arrestato una nota chef stellata di Palermo colta in flagranza di reato: grazie a un magnete "rubava" la corrente elettrica. Francesca Galici, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Arrestata e condannata a un anno per "furto di luce". È la parabola della chef stellata Patrizia Di Benedetto, molto nota a Palermo perché titolare di uno dei ristoranti più noti del litorale di Mondello. A raccontare la vicenda è stato il Giornale di Sicilia, che ha ricostruito i fatti fino al fermo della donna, colta in flagranza di reato dai Carabinieri della stazione di Partanna e di San Lorenzo. L'escamotage utilizzato dall'imprenditrice è uno dei più noti alle forze dell'ordine nell'ambito dei reati di furto di energia elettrica. La donna pare abbia posizionato una calamita sul contatore dell'Enel. Il semplice dispositivo funge da freno magnetico e così impedisce al sistema di girare a pieno regime, permettendo una riduzione del conteggio fino al 50%, con conseguente risparmio sulle bollette della luce. L'accertamento è avvenuto nella serata di venerdì, quando il locale di Patrizia Di Benedetto era in piena attività con i suoi clienti. Proprio la presenza di numerose persone all'interno del noto ristorante della località balneare ha spinto gli uomini dell'Arma ad agire con la massima discrezione e così, dopo aver verirficato la flagranza di reato e aver notificato il fermo alla donna, hanno atteso la fine della serata per completare le operazioni d'arresto e accompagnare l'imprenditrice in caserma. Espletate le formalità del caso, che hanno obbligato la donna a un soggiorno forzato nella camera di sicurezza della stazione, per lei sono stati disposti gli arresti domiciliari. Patrizia Di Benedetto ha scelto di procedere con il patteggiamento e davanti agli inquirenti si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Un suo diritto, che però esprime finora la volontà non collaborativa della donna. Al momento la sua condanna è a un anno, con pena sospesa, ma gli inquirenti stanno ora procedendo nelle indagini per valutare l'effettiva entità del furto di corrente elettrica. Il ristorante di sua proprietà non è stato chiuso e continua a svolgere regolarmente l'attività anche senza il servizio d'eccellenza del suo chef stellato. Quella del furto di corrente elettrica è una pratica molto diffusa. Si tratta di un reato perseguibile penalmente in base all'articolo 624 del codice penale o 625, nel caso in cui ci siano aggravanti. La reclusione può andare da 6 mesi a 3 anni per il furto semplice o da 1 a 6 anni per il furto aggravato, con multe che possono arrivare fino a 1.032euro. Proprio perché si tratta di uno dei reati più frequenti in materia di furto, le compagnie di erogazione dell'energia elettrica negli anni hanno previsto diverse soluzioni per limitare questa pratica.

Il pedone investito 6 volte in un minuto. Ecco perché paghiamo le polizze Rc auto più alte d’Europa. Pubblicato domenica, 01 marzo 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Fabio Savelli. Di vincitori in questa storia se ne trovano pochi, ma ci sono, come dimostra il maxi-fascicolo sul clan Contini a Napoli. Un sistema predatorio e subdolo, nutrito da una schiera di professionisti a libro paga delle organizzazioni mafiose, che hanno costruito un indotto sofisticatissimo a basso rischio giudiziario e ad alto rendimento vista la dimensione dei risarcimenti. Medici che fabbricano referti falsi. Periti che certificano incidenti mai avvenuti. Finti testimoni che giurano di aver visto una macchina accartocciarsi o un pedone investito sulle strisce, dopo essere stati remunerati con apposito prezzario stabilito dai capizona della Camorra. Giudici di pace che lavorano per le compagnie assicurative come consulenti e al tempo stesso stabiliscono l’entità dei danni. Avvocati che scrivono pareri per maxi-ristori su sinistri inesistenti, incassando commissioni a mò di parcella. La ricaduta di tutto questo è che a Napoli il cittadino onesto paga la polizza più alta d’Italia. Esempio: un’Audi Q3 se intestata ad un automobilista residente a Bologna costa 500 euro di Rc auto, che diventano 1.040 a Napoli. E così succede che a Trento (dove le polizze sono meno care) una finta società si è intestata 340 contratti di clienti residenti a Napoli.La casistica delle truffe tocca «vette di eccellenza». A Palermo si sono fatti martellare un ginocchio per ottenere un risarcimento a quattro zeri. Ad Avellino un pedone è stato schiacciato da sei automobili diverse nel giro di un minuto; ha chiesto sei risarcimenti diversi ed è stato pure liquidato da alcune compagnie. A Foggia proprietario e affittuario dello stesso terreno chiedono (e ottengono) due risarcimenti per la grandine che ha distrutto lo stesso raccolto. Un po’ ovunque in Italia si prende a calci la scatola nera per smontare il Gps simulando un frontale mai avvenuto. Vediamo cosa dice l’articolo 642 del codice penale: «Chiunque, al fine di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto è punito con la reclusione da uno a cinque anni». Su questa ipotesi di reato le compagnie assicurative sporgono querela, e i tribunali di mezza Italia si ingolfano, perché l’azione penale è obbligatoria. Eppure le Assicurazioni hanno i loro uffici antifrode, ma per vedere il grado di fraudolenza di quel sinistro occorre accedere all’archivio integrato (Aia) che mette insieme le banche dati di tutti gli incidenti sospetti, testimoni ricorrenti e la filiera della criminalità. Se ne parla da dieci anni, e forse entro il 2020 sarà operativo. Intanto nell’ultimo rapporto Ivass (2018) i sinistri non liquidati, perché potenzialmente fraudolenti, sono aumentati dell’11% rispetto al 2017. Sempre nel 2018 si sono verificati oltre 2,8 milioni di sinistri. Si stima che circa il 22% siano a rischio frode, al Sud addirittura il 37%. Secondo l’Ania, l’associazione di rappresentanza delle compagnie assicurative, i tempi di prescrizione del diritto al risarcimento del danno (2 anni, 5 in caso di lesioni personali), «permettono al frodatore di eliminare gran parte degli indizi che potrebbero consentire all’impresa di scoprire l’attività fraudolenta». Le truffe però non sono soltanto a danno delle compagnie (che si rifanno alzando il prezzo delle polizze), nella rete del web ci sono cascati in migliaia: hanno pagato, ma le polizze ricevute sono false e i relativi veicoli non sono assicurati. Oltre 300 i siti-truffa denunciati dall’Ivass negli ultimi tre anni: 224 quelli finiti sotto inchiesta della Procura di Milano, e sui quali lavora anche il Nucleo frodi tecnologiche della Guardia di Finanza. Solo i siti web ubicati in Italia e finora identificati, hanno totalizzato raggiri per circa 4 milioni. Considerando 400 euro il premio per una polizza media, significa 10 mila mezzi che circolano (o hanno circolato) fuorilegge inconsapevolmente. Ed è solo una piccola porzione del «mercato». Molti di questi siti utilizzano grafica o denominazione simile a quella delle compagnie più conosciute. Possibile che il sito-truffa della Goldassicura.com, denunciato dall’Ivass il 22 gennaio, si apra tuttora con la foto di una sede UnipolSai? Ma il problema è che per un sito-truffa individuato un altro nasce. E per rendersi più credibile riporta anche i numeri di iscrizione all’Ivass, numeri rubati ad un ignaro intermediario vero. Ma chi accede al sito non lo sa. Di questi siti web ne nascono uno al giorno con nomi tipo: genertelassicura.com (provider in Arizona), misterpolizza.com (Lituania), directassicurazione.com (Canada), polizzadiretta.net. La truffa si consuma quasi sempre intascando il premio attraverso la ricarica di una carta prepagata, che viene immediatamente svuotata ai bancomat, in cambio di un contrassegno falso spedito per mail o whatsapp. Ma intanto sono stati acquisiti anche i dati personali del truffato e del mezzo assicurato: dati che vengono riutilizzati per creare identità false, intestare veicoli, carte prepagate, nuovi siti web. Il truffato viaggia senza copertura e se viene fermato si becca la multa, il sequestro del veicolo e decurtazione di punti sulla patente.

I trucchi dei casellanti per intascare i pedaggi: truffa da 200mila euro. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Riccardo Bruno. La truffa del casellante era semplice e molto redditizia. Teneva da parte un biglietto con un basso importo, poi quando arrivava un automobilista con un lungo chilometraggio invece di registrare il suo biglietto recuperava quello conservato, intascando la differenza. Un operatore dell’uscita Milano Ovest dell’Autostrada A7 , secondo l’accusa, avrebbe utilizzato il trucco del «doppio biglietto» ben 1.917 volte. È uno dei sette indagati dalla procura di Milano per truffa aggravata che andrà a processo il prossimo 11 giugno come dà notizia La Provincia Pavese nell’edizione di lunedì. L’inchiesta è nata nel 2018 quando la Milano Serravalle Spa, che gestisce l’autostrada Milano-Genova, notò che mancava una parte degli incassi. Venne così incaricata una società di investigazione privata che con «auto civetta» scoprì quello che poi i magistrati hanno ritenuto un comportamento scorretto di alcuni dipendenti. Le indagini hanno svelato tre «sistemi» per lucrare illecitamente sui pedaggi. Oltre a quello del «doppio biglietto», i casellanti avrebbero anche agito sul display nel quale appare il pedaggio, anche in questo caso per poter registrare una cifra inferiore rispetto a quella effettivamente sborsata dal cliente. Il terzo trucco escogitato era invece il più ingegnoso. Veniva oscurata la telecamera ai caselli, così che il sistema non riusciva più a sbloccarsi automaticamente al termine del transito di un veicolo, non riconoscendo poi il passaggio delle auto successive. I cui pedaggi venivano gestiti manualmente e non tutti registrati. Secondo l’accusa nel periodo considerato (2018) sarebbero stati sottratti almeno 200 mila euro. Ai sette indagati è stata riconosciuta l’aggravante sia per la presenza del danno a un ente pubblico (la Serravalle è partecipata dalla Regione Lombardia), sia per aver commesso il fatto con abuso di relazione d’ufficio.

(ANSA il 21 febbraio 2020) - Sono 141 - tra medici e paramedici - i dipendenti dell'ospedale G.B. Grassi di Lido di Ostia denunciati all'autorità giudiziaria dai Finanzieri del Comando Provinciale di Roma per aver permesso ad amici e parenti di eseguire accertamenti diagnostici completamente gratuiti senza seguire le ordinarie liste di attesa. L'indagine, delle Fiamme Gialle del 6/o Nucleo operativo metropolitano di Roma, diretta e coordinata dalla Procura capitolina, ha preso le mosse nel novembre 2017 da una denuncia presentata nei confronti di un'infermiera. I militari informano di aver proceduto "ad un meticoloso esame dei tabulati relativi alle prestazioni erogate e all'assunzione di testimonianze, individuando artefici e beneficiari della truffa che, oltre a danneggiare il Servizio Sanitario Nazionale, ha leso i diritti degli altri utenti i quali, prenotandosi regolarmente al Cup, dovevano attendere il proprio turno prima di sottoporsi a un esame diagnostico". La frode era piuttosto semplice quanto diffusa: la persona bisognosa di una prestazione si rivolgeva a uno dei sanitari compiacenti che, grazie alla password personale per l'accesso al sistema informativo dell'ospedale, avanzava richiesta all'articolazione competente. Eseguito l'esame diagnostico o l'analisi chimico-clinica, gli stessi sanitari venivano in possesso del referto, che provvedevano a consegnare al beneficiario, evitando così il pagamento del ticket alla Regione Lazio. A usufruire della "corsia preferenziale" 523 tra parenti e amici dei medici ed infermieri, questi ultimi a loro volta beneficiari dell'illecito sistema. Oltre a dover rispondere all'Autorità Giudiziaria ordinaria del reato di truffa aggravata ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, gli indagati dovranno vedersela con la Corte dei Conti per il danno all'Erario.

I segreti della tv clandestina: "La pay tv? Tutto a 10 euro..." L'indagine della Guardia di Finanza sulle pay-tv pirata ha portato identificare e denunciare 223 persone. Ma online il traffico non si placa. I reseller: "Beccano solo i polli…" Marco Vassallo, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. L’indagine delle Fiamme Gialle ha permesso di identificare e denunciare 223 persone ritenuti responsabili dell’acquisto di abbonamenti pirata per le principali piattaforme televisive a pagamento. Un evento che prima di ieri (martedì 18 febbraio) non si era mai verificato in Italia. Una vittoria, sulla carta. Online, però, la vendita di questo tipo di prodotto non cessa e i reseller non hanno paura di essere identificati.

Novantamila canali a una manciata di euro. Intanto facciamo chiarezza. Il caso riguarda l’Internet protocol television, anche meglio conosciuta come Iptv. Si tratta del metodo di distribuzione e fruizione illecita molto comune. Il funzionamento è complesso, ma cercheremo di semplificarlo. I cosiddetti “pirati” acquisiscono tutti i contenuti da piattaforme a pagamento come Sky, Dazn, Netflix e moltissime altre, modificano il codice e poi le trasmettono sulla app che fanno scaricare ai clienti dagli store digitali Android. Non serve essere degli hacker per abbonarsi: basta una televisione smart, ovvero con la possibilità di essere connessa a internet, e il gioco è fatto. I prezzi variano in base al rivenditore, ma sono sempre molto accessibili e danno la possibilità di visionare circa 90mila canali. Un business che non si ferma mai. A poche ore dalla conclusione dell’indagine della Finanza, i “reseller” della Iptv sono già a lavoro. Basta aprire Telegram e fare una rapidissima ricerca per trovare diversi gruppi che smerciano le piattaforme a pagamento per pochissimi euro. Ne contattiamo un paio, giusto per capire se qualcosa è cambiato. Per capire come lavorano e se veramente non sono intimoriti dalle mosse delle forze dell’ordine. Il primo gruppo a cui ci iscriviamo vanta 3616 iscritti e offre un catalogo vastissimo, con tanto di locandina personalizzata e filmati promozionali: “Tutti i pacchetti Sky, Tutto Mediaset Premium, Dazn, Lega Pro, Seria A, Serie B, Champions League, Europa League, Formula Uno, Moto Go, documentari, musica, regionali…”. Una lista infinita che include addirittura “canali hot”. Tutto a soli 10 euro. E come si paga? Scorrendo la chat, scrivono: “Ricordo a tutti che accettiamo una delle modalità di pagamento più sicure ed anonime che ci sono.Vi basterà andare in un tabacchi e richiedere una ricarica Paysafe dell’importo che desiderate e vi rilasceranno un foglio con un codice che poi fornirete a me”. E così "non dovrete lasciare nessun nominativo e il pagamento avverrà in forma anonima”. Un dettaglio mica da poco. Contattiamo l’amministratore per capire come iscriversi e godersi un infinito mondo di televisione clandestina.

“Ho un migliaio di clienti”. Ci risponde in pochi minuti: “Ciao, il servizio funziona tramite un app che scarichi sul telefono o sul tv box o Firestick o sulla Smart tv se ne hai una. Compreso nel pacchetto hai tutto Sky compresi i Primafila, Dazn, Premium,film On demand, serie tv”. Poi precisa: “I costi sono 1 mese 10 euro, 3 mesi 30, 6 mesi 50, 12 mesi 90”. E infine aggiunge: “Modalità pagamento Paypal, Paysafe o Postepay”. Nulla di nuovo. Chiediamo se non rischiamo denunce (domanda più che lecita di questi tempi). Lui digita e preme invio: “No, no. Il nostro servizio è top per quanto riguarda la sicurezza: criptato coperto da vpn sever estero”. Prima di fingere di recarci al tabaccaio per pagare, chiediamo come mai sono stati pizzicati in 200. Ancora una volta, il “pirata” si collega e scrive: “Sono quei deficienti che prendono liste online non sicure. II nostri server sono sicuri: attivi da 9 anni”. Un vero professionista. Ma che giro d’affari gestisce? Ci rivela che non fa tanti soldi ma “arrotondiamo”, precisando che “siamo più soci” e ognuno guadagna circa “1500 al mese”. Un stipendio pulito pulito. Purtroppo per lui la trattativa si stoppa sul pagamento: non siamo poi così interessanti. Preferiamo sondare il mercato.

"Beccano solo i polli". E infatti contattiamo un secondo gruppo di pay-tv hackerate. Qui gli iscritti sono poco meno di un migliaio ma i server a disposizione per fruire di tutte le piattaforme a pagamento sono ben 3. Anche qui non manca nulla: si va dalla partite dalle Seria A fino alla Champions League, passando per le serie tv e i film. Per richieste e domande si viene indirizzati a un bot, ma le risposte sono gestite da una persona. Lo notiamo da un dettaglio: dietro alla tastiera non hanno voglia di perdere tempo con domande ritenute sciocche e tagliano corto: “Hai internet? Hai un dispositivo con Playstore per scaricare un app player? Se hai questi facciamo tutto”. Replichiamo di sì e domandiamo se non c’è il rischio essere beccati dalla polizia. L’”operatore” all’altro capo dello schermo è stizzito e ci da una spiegazione lampo: “È illegale. È pirateria. Se non vuoi o hai paura consiglio Sky”. E prosegue: “Solo i polli beccano… i nostri clienti sono in anonimato.. non sono mai stati beccati”. Vuole chiudere in fretta la trattativa e infatti ci gira il listino prezzi: “Per quanti mesi? 1 mese 10€, 3 mesi 25€, 6 mesi 50€,12 mesi 90€”. E ci inoltra l’indirizzo sul quale inviare il denaro tramite Paypal. Noi titubiamo. Facciamo domande. Forse troppe. Anzi sicuramente troppe: veniamo bannati. Poco male. La multa per chi acquista il servizio pirata di pay-tv è di 25mila euro, con il rischio finire in carcere per 8 anni. Siamo conigli e teniamo alla fedina penale e al portafoglio.

Ecco l'esercito dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Posteggiatori abusivi, ballerine, pusher, camerieri, commessi, muratori. C'è un esercito di beneficiari del reddito di cittadinanza che nel frattempo lavora in nero. Roberto Chifari, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Partiamo da un doveroso presupposto: il reddito di cittadinanza è un sussidio che aiuta tantissime persone sotto la soglia di povertà, ma per onestà intellettuale non possiamo non raccontare l'altro lato della medaglia. Ci sono le storie di chi in barba a qualunque regola riesce ad eludere i controlli, accede al beneficio e intasca il sussidio fino a quando...non intervengono le forze dell'ordine. Grazie al lavoro incessante di carabinieri, polizia e guardia di finanza sono stati scoperti centinaia di furbetti che percepivano indebitamente il reddito mentre lavoravano in nero. I giornali sono pieni di decine di episodi, Cerchiamo di raccogliere solo quelli dell'ultima settimana per scattare una fotografia di un fenomeno che va attentamente studiato. A Palermo la polizia municipale, nell'ambito delle attività di controllo del territorio volte al contrasto al fenomeno dei posteggiatori abusivi, ne ha individuato 7, due dei quali fruitori del reddito di cittadinanza. In particolare, sabato sera, gli agenti del nucleo vigilanza trasporto pubblico hanno sanzionato tre posteggiatori, rispettivamente due a piazza Marina, F.D.C di 24 anni che percepisce il reddito di cittadinanza e E.H. di 19 anni. L’altro è stato sanzionato a piazza Sant’Oliva. In altre zone della città, sono stati quattro i posteggiatori abusivi individuati. L.V. di 25 anni è stato fermato a piazza Giovanni Paolo II, A.M. di 20 anni in viale Diana; gli altri due posteggiatori, F.M. di 44 anni e S.C. di 24 anni "esercitavano" in viale del Fante. Il primo di questi, denunciato all’autorità giudiziaria perché recidivo, percepisce il reddito di cittadinanza. Ai posteggiatori è stata comminata una sanzione di 771 euro ciascuno. A Rimini una donna percepiva il reddito di cittadinanza ma allo stesso tempo lavorava in nero in un night-club come ballerina di lap-dance. Lo ha scoperto la Guardia di Finanza di Rimini durante un controllo in un locale notturno della riviera romagnola dove, assieme a lei, sono state individuate altre quattro lavoratrici sconosciute al fisco. La ragazza, 20enne originaria di Modena, faceva parte di un nucleo familiare che godeva del beneficio statale e aveva omesso di comunicare l'avvio dell'attività lavorativa. Per il datore di lavoro è scattata la sospensione dell'attività imprenditoriale, subito revocata a seguito del pagamento di una maxi-sanzione da 20mila euro e dell'assunzione delle ragazze. Sempre a Rimini nell'ambito di altri controlli è stata individuata anche una donna ucraina che, seppur assunta regolarmente come cameriera in un hotel, percepiva il reddito di cittadinanza non avendo comunicato l'avvio dell'impiego e il reddito del coniuge. A Roma arriva un'altra storia interessante: ufficialmente era disoccupato, ma in realtà era uno spacciatore di cocaina e percepiva il reddito di cittadinanza. A scoprirlo la guardia di finanza di Roma, che lo ha trovato in possesso di 62 dosi e 5700 euro in contanti durante una perquisizione eseguita nel suo appartamento nella zona di Mezzocammino. Il Tribunale di Roma, oltre a convalidare l'arresto e a disporre la misura cautelare per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti, ha disposto la sospensione del beneficio, in attesa del giudizio. A Fiumicino c'erano otto lavoratori "in nero" - uno dei quali percepiva il reddito di cittadinanza - sono stati individuati sul litorale di Fiumicino dai finanzieri del Comando provinciale di Roma durante controlli finalizzati al contrasto del "lavoro sommerso". Le fiamme gialle, coordinate dal Gruppo di Civitavecchia, li hanno scoperti mentre erano al lavoro in un rinomato ristorante, contestando al datore di lavoro la mancata effettuazione delle prescritte comunicazioni telematiche al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Da approfondimenti svolti è risultato che uno dei lavoratori, di origine egiziana, percepiva dal luglio dello scorso anno circa 500 euro al mese a titolo di "reddito di cittadinanza". L'uomo, nel frattempo assunto a tempo indeterminato dal ristoratore, è stato denunciato per non aver comunicato la variazione della sua posizione lavorativa ed è stato segnalato all'ufficio dell'Inps per la decadenza del beneficio. Due lavoratori non regolari sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza, nel corso di una serie di controlli, in un cantiere edile di Mendicino (Cosenza). Uno dei due era anche percettore di reddito di cittadinanza. I finanzieri hanno sanzionato il datore di lavoro e inviato all'Inps la proposta di revoca del sussidio economico statale per l'operaio abusivo percettore del reddito di cittadinanza. A Matino, in provincia di Lecce, in un controllo svolto presso una ditta di abbigliamento dai carabinieri sono state denunciate due persone per violazioni in materia di lavoro e sicurezza. Durante il servizio, su 28 lavoratori, sono stati scoperti dieci irregolari, vale a dire sei in nero, due beneficiari del reddito di cittadinanza e altri due beneficiari di indennità di disoccupazione.

Lavinia Greci per ilgiornale.it il 9 febbraio 2020. Da una parte percepiva il reddito di cittadinanza, la misura voluta dal Movimento 5 Stelle e varata l'anno scorso dal governo giallo-verde. E dall'altra percepiva uno stipendio in nero, lavorando come ballerina di lap dance all'interno di un night club di Rimini. Al centro della vicenda, una ragazza di 20 anni di Modena, che sarebbe stata scoperta dalla guardia di Finanza della città romagnola durante un controllo in un locale notturno della riviera.

La scoperta delle fiamme gialle. Secondo quanto riportato da Il resto del Carlino, la giovane ballerina faceva parte di un nucleo familiare che poteva godere del sussidio statale. Ma, al tempo stesso, avrebbe omesso di comunicare l'avvio della sua attività lavorativa e di pagarne regolarmente le tasse. In base a quanto ricostruito dal quotidiano, insieme a lei, sarebbero state individuate altre quattro lavoratrici rimaste ignote al fisco.

La multa per l'imprenditore. Per il datore di lavoro delle dipendenti in nero è stata disposta la sospensione dell'attività imprenditoriale, subito revocata però a seguito del pagamento di una maxi-sanzione da 20mila euro e dall'assunzione delle giovani. Nell'ambito di altri controlli, sempre disposti dalle fiamme gialle, sarebbe stata individuata una donna ucraina che, nonostante l'assunzione con regolare contratto da cameriera in un hotel, percepiva comunque il reddito di cittadinanza, non avendo comunicato l'avvio dell'impiego e il reddito del coniuge.

Gli ultimi casi. Ma il caso della ballerina modenese è soltanto l'ultimo. A Roma, proprio in queste ore, sarebbero stati scoperti due uomini che, pur risultando nullatenenti ai fini dell'ottenimento della misura, in realtà, avevano avviato il primo una rivendita di auto su inernet, conseguendo quindi profitti in nero, e il secondo un giro di sostanze illecite. A scoprire il giro dei due, che erano riusciti a chiedere e a percepire il reddito di cittadinanza, sono stati i finanzieri del comando provinciale della capitale che, una volta scoperto e accertato la sussitenza dei reati, ha denunciato i due uomini all'autorità giudiziaria e ha interessato gli uffici provinciali dell'Inps per la sospensione del sussidio e per il recupero delle somme ricevute indebitamente.

Reddito di cittadinanza "indebito". Soltanto negli ultimi giorni, i carabinieri hanno accertato altri episodi simili, in particolare tra chi si sostenta spacciando droga. Pochi giorni fa, durante un controllo all'interno di un ristorante a Fiumicino, le fiamme gialle avevano scoperto sette dipendenti abusivi, mentre l'unico lavoratore assunto con regolare contratto non aveva comunicato il nuovo impiego ai fini dell'annullamento del reddito di cittadinanza. Anche in quella circostanza, l'uomo è stato denunciato all'autorità giudiziaria per non aver comunicato la variazione della sua posizione lavorativa ed è stato segnalato.

Da leggo.it il 3 febbraio 2020. Mesi a lavorare senza un contratto di lavoro e con una paga «da fame», come la definisce lei stessa. È la storia vissuta da Elisa (nome di fantasia), che dopo averci pensato su per giorni ha voluto replicare alle esternazioni di Maura Cavallaro, titolare de “Il Locale” di via Miani, che dalle colonne de Il Gazzettino si lamentava di non riuscire a trovare personale da impiegare nel suo bar. «Penso di sapere il perché...», sbotta Elisa. Lei, come tante ragazze e ragazzi, da giovane ha mosso i primi passi nel mondo del lavoro facendo la barista. Così, terminati da poco gli studi, decide di rispondere all’annuncio di lavoro della signora Cavallaro, quando all’epoca gestiva un altro locale nel cuore del centro storico rodigino. «Ho conosciuto la signora Maura più di dieci anni fa, quando verso fine estate ha accettato di farmi un colloquio di lavoro come barista - racconta - Le spiegai che non avevo alcuna esperienza in quel campo, ma mi disse che l’avrei fatta con lei. Dopo avere fatto il tradizionale giorno di prova decise di assumermi senza un contratto, chiarendomi sin da subito, però, che non voleva che io lasciassi il lavoro prima della fine della stagione invernale. Pensai che, giustamente, non volesse rimanere senza personale durante il periodo natalizio, in cui la clientela aumenta molto. Inizialmente andò tutto bene: un po’ alla volta mi aveva insegnato alcune cose basilari, come fare il caffè e servire ai tavoli. Come detto, però, non avevo un contratto, solo un foglio in cui c’era scritto che quello era il mio giorno di prova, anche se in realtà erano già passati alcuni mesi dalla mia “assunzione”».

E per i pagamenti?

«Io mi scrivevo le presenze, ho provato a tenere il conto di quanto avrebbe dovuto pagarmi, ma quel poco che ho percepito me lo dava quando voleva lei - risponde Elisa - Mi pagava in contanti, non mi mostrava i conti che lei si era fatta. Inizialmente erano otto euro all’ora, ma in realtà erano molti meno. Quando poi ero io a chiederle lo stipendio, mi rispondeva che aveva problemi familiari e me li avrebbe dati più avanti. In circa sei mesi che sono stata lì, lavorando nei weekend, mi avrà dato si e no due o trecento euro».

Con il protrarsi di una situazione del genere cosa hai deciso di fare?

«La vicenda non si è mai risolta: mi diceva sempre che aveva dei problemi familiari, così le ho mandato una lettera in cui le chiedevo di rispettare almeno gli accordi che avevamo preso. Per tutta risposta lei mi ha scritto a sua volta una lettera che tengo ancora dall’epoca, nella quale mi rinfacciava di non esserle stata riconoscente per avermi insegnato un mestiere, che quando ho deciso di lavorare lì non avevo un fucile puntato alla testa e che avrei dovuto essere più sensibile verso i suoi problemi personali. Morale della favola: non ho visto un euro, nonostante concludesse la sua lettera dicendomi che avrebbe saldato il suo debito dopo avere parlato con il commercialista».

Sai di altre persone che hanno avuto gli stessi problemi?

«So di non essere stata l’unica. Anche una mia amica e altre persone che conosco hanno avuto la mia stessa esperienza: alla fine se ne sono sempre andati via perché non venivano pagati».

Nei giorni scorsi Maura Cavallaro diceva che i giovani non hanno voglia di lavorare…

«Mi sono sentita offesa per quelle parole. Non è assolutamente vero che i giovani non hanno voglia di fare: non c’ è fiducia, non ci viene data la possibilità di metterci in gioco. Io credo, e questo discorso vale per tutti, non solo per i giovani, che se una persona venisse pagata per la sua effettiva prestazione lavorativa, quella signora non si troverebbe senza personale. Quando vieni pagato per quello che fai provi soddisfazione e lavori anche meglio».

Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti. Fabrizio Patti il 22 Giugno 2009. Tempo fa la Repubblica degli Stagisti aveva acceso un faro sul pianeta praticanti, denunciando come - in modo analogo a quanto avviene per gli stagisti - sia una prassi comunemente accettata quella di lavorare senza una retribuzione o per cifre irrisorie. Oggi comincia un viaggio nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono.

Prima fermata: i praticanti avvocati. Quanti sono. Moltissimi. Secondo il Consiglio nazionale forense nel 2008 si sono presentati all’esame di  Stato 33.028 praticanti. Altri 6mila hanno fatto domanda ma non si sono presentati all’esame. Secondo la Cassa nazionale forense, il 52% dei praticanti iscritti alla Cassa è costituito da donne. Dai dati Almalaurea risulta che il 93% di chi ha una laurea a ciclo unico, e l’82% di chi ha conseguito la specialistica in Giurisprudenza, a un anno dalla laurea svolge il praticantato. Quanti diventano avvocati. L’esame di Stato viene passato, in media, da un terzo di chi si presenta. Nel 2006, a fronte di 41.400 presenti agli scritti, gli idonei sono stati 16.358. Nel 2007 la percentuale è scesa: su 40.000 presenti, gli idonei sono stati 9.905, circa uno su quattro. Non sono ancora noti i dati complessivi sul 2008. La severità crescente deriva dalla volontà degli organi dell’avvocatura di limitare gli accessi. I 200mila avvocati iscritti all’albo in Italia, infatti, sono una fetta consistente dei circa 850mila avvocati presenti in tutta Europa (dato Ccbe del 2005). In Francia il numero totale degli avvocati è di 50mila.

Quanto costa sostenere l’esame. Per i giovani aspiranti avvocati i costi da affrontare in vista dell’esame sono di circa 50 euro (in pratica i bolli da accompagnare alla domanda stessa). Se si supera l’esame, ad altri tre bolli da 14,62 euro (per l’istanza e i certificati di compiuta pratica e superati esami) si aggiungono 168 euro per concessioni governative, 103 euro per tassa di iscrizione e 207 euro come contributo annuo all’Ordine (nell’esempio si tratta di quello di Milano). Quanto guadagnano i praticanti. Non esiste una rilevazione ufficiale. In genere si tratta di un rimborso spese che cresce nel tempo. Nel Mezzogiorno una prassi diffusa consiste semplicemente nel non pagare i praticanti avvocati. In realtà come Milano, invece, un praticante guadagna all’inizio più o meno 500 euro al mese in uno studio tradizionale. Negli studi d’affari internazionali la retribuzione può salire fino a 1.500-2.000 euro al mese, a fronte di un impegno in termini di ore di lavoro molto elevato. La Cassa nazionale forense dà delle indicazioni interessanti sul reddito professionale ad inizio carriera, una volta che l’esame è stato superato: circa 10mila euro all’anno - meno di un quinto dei 51.313 euro del reddito professionale medio degli avvocati.

Retribuzione minima? In Italia attualmente non esiste una retribuzione minima per i praticanti avvocati. Per quanto nel Codice deontologico forense sia previsto l'obbligo di corrispondere, «dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto», l’indicazione non è vincolante. Una proposta di riforma dell’avvocatura approvata da tutte le organizzazioni della professione (e in particolare dal Cnf) e attualmente allo studio della commissione Giustizia del Senato prevede, tra l’altro, l’obbligo di retribuire i praticanti. Non si fissa, tuttavia, una soglia minima per il salario, perché, spiegano dal Cnf, «sono troppe le variabili da considerare, dal tipo di impegno al tipo di lavoro alla zona geografica dello studio».  Forme di salario minimo per i praticanti sono previste in Germania (circa 700 euro) e nel Regno Unito (almeno l’equivalente di 1.000 euro per i pupils aspiranti “barristers”). Cosa fanno. Ci sono alcune attività tipiche. Come emergeva in un precedente post, il praticante in studio svolge delle ricerche propedeutiche al lavoro di altri avvocati e redige atti, memorie, comparse, citazioni. In tribunale, oltre ad assistere alle udienze, deposita atti presso la cancelleria, oppure  va all’ufficio notifiche per rilasciare atti da notificare. La procedura. La pratica dura almeno 24 mesi. All’inizio il praticante riceve un libretto, che ogni sei mesi dev'essere controllato da un “tutore” dell’Ordine e firmato dal “dominus”, cioè dall’avvocato presso cui si svolge la pratica. Sul libretto si devono segnare le udienze seguite (almeno 20 a semestre),  gli atti processuali e le attività stragiudiziali a cui il praticante partecipa; infine si devono trattare almeno dieci questioni giuridiche studiate durante il semestre. Alla fine di ogni anno si devono poi scrivere dieci relazioni sulle cause seguite e sulle questioni giuridiche osservate. Dopo il primo anno è possibile fare la domanda per ottenere l’abilitazione al patrocinio, che permette di seguire in proprio alcune cause minori, come quelle di competenza del giudice di pace. Per l'intera procedura si veda, per esempio, il vademecum dell'Ordine di Firenze.

La scuola di specializzazione. Secondo l’attuale disciplina, dei due anni di pratica uno può essere sostituito dal conseguimento del diploma delle Scuole di specializzazione per le professioni legali. La riforma della professione allo studio al Senato prevede, oltre alla pratica negli studi, anche la “frequenza obbligatoria e con profitto”, per almeno 24 mesi, di corsi di formazione tenuti esclusivamente da Ordini e associazioni forensi. I corsi, particolare non  trascurabile, possono essere a pagamento. Fabrizio Patti

Pianeta praticanti, videointervista a Duchesne: il libro «Studio illegale» vola sulle ali del blog, e presto diventerà un film. Fabrizio Patti il 26 Giugno 2009 su La Repubblica. Federico Baccomo, alias Duchesne, con il suo «Studio illegale» è diventato una punto di riferimento per i praticanti e i giovani avvocati in Italia. Prima un blog commentato ogni giorno da centinaia di persone, poi un libro (Studio illegale, pubblicato dalla casa editrice Marsilio) che ha già raggiunto le 15mila copie vendute e da cui presto potrebbe essere tratto un film. Intanto il trentenne Baccomo lavora alla sua opera seconda, che uscirà - ma il quando è ancora un segreto - sempre per Marsilio.

La Repubblica degli Stagisti gli ha fatto una videointervista sulla condizione dei praticanti nelle law firm internazionali, sulla riforma dell’avvocatura e sugli stage negli studi legali. Rispetto a uno dei temi che stanno più a cuore ai praticanti, e cioè il rimborso spese, Duchesne ricorda che «l'obbligo di retribuzione esisteva già nel Codice deontologico», e ritiene che la nuova proposta di legge non sia poi così incisiva: «Non dice quasi nulla, anzi peggiora la situazione». E affonda: «Io questa cosa non la capisco: è vero che un praticante comincia da zero e non sa niente, che all'inizio bisogna insegnargli il lavoro, ma poi ci sarà un motivo se l'avvocato si tiene un praticante, e non credo che sia bontà o solidarietà! E credo che questo motivo vada retribuito». E gli stagisti negli studi legali? «Non fanno niente: pinzano fogli uno con l'altro, e spesso neanche benissimo» scherza l'avvocato-blogger-scrittore, aggiungendo però che lo stage è utile ai ragazzi per capire se vogliono passare la loro futura vita lavorativa tra le quattro mura di uno studio legale o no: «Lo stagista vede un ambiente, e riesce a farsi un'idea in tre mesi di che tipo di lavoro è». Ebbene sì, anche gratis: «Spesso non sono pagati: ma trattandosi di un periodo universitario, ci sta anche che possa essere soltanto un vantaggio in termini di conoscenza professionale».

Rubavano fiori al cimitero, poi li vendevano nel loro negozio abusivo. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvo Toscano. Rubavano i fiori dei morti al cimitero. Anche sotto il naso dei parenti in lacrime. Con questa accusa sono state denunciate due persone a Catania. E una denuncia è arrivata anche per le loro mogli che, avendo presentato la documentazione che attestava l'assenza di reddito familiare, percepivano il reddito di cittadinanza. Il commissariato di Librino ha indagato sugli episodi di illegalità nel cimitero, dove erano stati segnalati numerosi furti di fiori e addobbi. Il primo caso è stato scovato dagli agenti all’obitorio, dove un pregiudicato, approfittando del momento di distrazione dei familiari dei defunti, si è impossessato di una quantità fiori che ha portato nella sua auto per poi allontanarsi e nasconderli all’interno di un vicoletto cimiteriale, nei pressi di altre tombe. L’uomo ha poi riferito di esercitare in nero l’attività di fioraio davanti al cimitero e di percepire sussidi statali, in quanto ufficialmente disoccupato. I poliziotti hanno poi notato un altro pluripregiudicato, sottoposto all’obbligo di soggiorno nel Comune di Catania, che rubava in obitorio corone e addobbi floreali, e li portava nella sua auto (guidava senza patente e senza assicurazione, si è poi accertato) in un negozio di fiori di via della Concordia gestito da lui stesso e dal fratello, pregiudicato anche lui. Il negozio sarebbe per giunta del tutto abusivo, con dipendenti in nero e precarie condizioni di sicurezza. Storie di illegalità legate ai cimiteri, come quella incredibile emersa la settimana scorsa a Palermo, dove un uomo, che lavora in un'agenzia di pompe funebri, è finito ai domiciliari (e altre tre persone risultano indagate) perché accusato di aver «rubato» la salma di una donna dalla camera mortuaria dell'ospedale Cervello, per accaparrarsi il servizio funebre. E tre mesi dopo la stessa persona si sarebbe disfatta della bara con il corpo di un'altra donna svizzera che abitava a Mondello (di cui l'agenzia avrebbe dovuto curare la tumulazione), abbandonandolo per i viali del cimitero dei Rotoli.

Reddito di cittadinanza: 237 “furbetti” con Ferrari, ville o in galera per mafia. Le Iene News il 23 gennaio 2020. La Guardia di Finanza di Locri ha scoperto 237 persone che, secondo le indagini, percepirebbero il reddito di cittadinanza irregolarmente. Alcuni hanno delle Ferrari, altri delle ville oppure sarebbero addirittura in galera per attività mafiose. Noi de Le Iene con Ismaele La Vardera vi abbiamo parlato in onda di due casi di presunti “furbetti”. La Guardia di Finanza di Locri indaga su 237 presunti furbetti che percepirebbero da tempo il reddito di cittadinanza in maniera irregolare, per un totale di 870mila euro. Tra loro ci sarebbero, secondo le indagini, proprietari di bolidi come Ferrari, ville lussuose e addirittura mafiosi in galera. L’inchiesta è partita dopo che la Guardia di Finanza di Locri ha indagato su alcuni casi di falsi braccianti agricoli e falsi rimborsi fiscali segnalati dalla procura. Alcuni degli indagati per presunto reddito di cittadinanza irregolare dicono di “essersi dimenticati di fare la dichiarazione di redditi” oppure risulterebbero in galera per atti mafiosi. Noi de Le Iene abbiamo scoperto con Ismaele La Vardera i primi presunti “furbetti” del reddito di cittadinanza a Palermo nel servizio che potete vedere qui sopra. Un intervistato ha strappato il microfono dalle mani di Ismaele e ha iniziato a picchiare in testa l’operatore.  L’accusa: Giuseppe e Fabio, questi i loro nomi, percepivano rispettivamente 500 e 638 euro, ma lavoravano entrambi in due negozi che affittavano biciclette per turisti in visita nel centro cittadino. Di presunti furbetti del reddito di cittadinanza vi abbiamo parlato anche per i casi di un uomo che avrebbe percepito la misura di sostegno mentre in realtà faceva lo spacciatore di droga con tanto di Porsche personale, di una donna che è stata pizzicata a lavorare in nero in un centro estetico, nonostante percepisse l’assegno, e dei quattro accusati di Civitavecchia che avrebbero avviato alla prostituzione una ragazza mentre uno di loro, 64enne, avrebbe percepito il reddito di cittadinanza.

Locri, reddito di cittadinanza con ville e Ferrari: 237 denunciati. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. Tra di loro anche mafiosi in galera. La Finanza è partita da una precedente inchiesta sui falsi braccianti agricoli. C’era chi aveva la villa e chi la Ferrari, chi era titolare di un’impresa ma si era «dimenticato» di fare la dichiarazione dei redditi e chi, invece, era direttamente in galera perché mafioso: sono i 237 furbetti che tra aprire e dicembre del 2019 hanno chiesto il Reddito di cittadinanza e che sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza di Locri nell’ambito di un’indagine, coordinata dalla Procura, nata da una precedente inchiesta sui falsi braccianti agricoli e sui falsi rimborsi fiscali. L’attività è scaturita dall’analisi della numerosa platea di persone già denunciate per i fenomeni dei «falsi braccianti agricoli» nonché dei «falsi rimborsi fiscali»: tra di essi infatti ne sono stati individuati molteplici che avevano richiesto ed ottenuto anche la misura del reddito di cittadinanza. Le attività d’indagine, condotte secondo le modalità tipiche della polizia economico-finanziaria e dei successivi rilevamenti anagrafici presso i comuni di residenza dei soggetti richiedenti, sono state rivolte ad appurare la presenza di eventuali anomalie nelle Dichiarazioni Sostitutive Uniche (DSU) poste a fondamento della richiesta del beneficio. Tali attività hanno permesso di riscontrare irregolarità su 237 istanze. Nel corso delle azioni ispettive è stata accertata l’omessa indicazione nelle DSU di componenti del nucleo familiare anagrafico, del coniuge non separato, nonché del possesso di redditi, di beni mobili (veicoli e moto) ed immobili (terreni e fabbricati). Tra i soggetti analizzati, i casi più eclatanti riguardano: due persone che risultano detenute per il reato di associazione di stampo mafioso a seguito di ordinanza di custodia cautelare in carcere eseguita la scorsa estate nell’ambito di un’importante operazione di polizia giudiziaria denominata “Canada Connection”; un intero nucleo familiare riconducibile ad una nota famiglia di ‘ndrangheta, colpita nella maggior parte dei suoi componenti da una condanna penale definitiva con la conseguente interdizione dai pubblici uffici. Uno di essi è peraltro in stato di arresto dall’aprile del 2018; diversi soggetti titolari di redditi, alcuni anche per oltre 55.000 euro, che non sono stati indicati nel nucleo familiare; alcuni intestatari di ville ed autovetture di lusso (tra cui uno è stato intestatario di una Ferrari oltre ad essere stato anche destinatario di ordinanza di custodia cautelare domiciliare nell’ambito dell’operazione «Le Mille e una Notte»); titolari di attività imprenditoriale con partita Iva attiva che, pur avendone l’obbligo, non avevano presentato alcuna dichiarazione dei redditi. I 237 indebiti percettori sono stati inoltre segnalati all’Inps per l’avvio del procedimento di revoca dei benefici ottenuti, con il conseguente recupero delle somme già elargite che ammontano a circa 870mila euro (importo consistente se posto in relazione ai soli 9 mesi di erogazione del beneficio); nel contempo, sarà conseguentemente interrotta l’erogazione del sussidio che avrebbe altrimenti comportato, fino al termine del periodo di erogazione della misura, un’ulteriore perdita di risorse pubbliche di oltre 1milione di euro. Il risultato conseguito testimonia l’approccio multidisciplinare e trasversale dell’azione sviluppata nelle attività di servizio dalla Guardia di Finanza, che vigila allo scopo di assicurare che le misure di sussidio siano effettivamente destinate alle fasce più deboli e bisognose della popolazione e non siano invece preda di individui disonesti ed irrispettosi delle leggi.

Iptv e pezzotto, chiusi 15 siti pirata: trasmettevano la Serie A in streaming. Le Iene News il 17 gennaio 2020. Giro di vite al fenomeno del pezzotto e delle Iptv pirata. La Guardia di Finanza ha oscurato 15 siti che trasmettevano partite di Serie A in streaming. L’indagine ora punta a individuare i reseller e i clienti di questo traffico. Alessandro Di Sarno ha incontra un venditore all’ingrosso, anello di congiunzione tra chi sta ai vertici e gli installatori. Quindici siti oscurati che consentivano illegalmente la visione di partite di Serie A a pagamento. L’operazione della Guardia di Finanza punta a dare un giro di vite alla vendita illegale del pezzotto, il dispositivo che permette di vedere in maniera illegale canali tv che richiederebbero un abbonamento. Nel servizio che vi riproponiamo qui sopra, Alessandro Di Sarno ci ha mostrato che cosa si nasconde dietro questo fenomeno (a volte addirittura la camorra). Il tribunale di Roma ha oscurato ora 15 siti web con un sequestro preventivo. La nuova indagine è partita da una denuncia presentata dalla Lega di Serie A, contitolare, assieme alle singole squadre organizzatrici delle partite di calcio, dei diritti audiovisivi del campionato di Serie A Tim, Coppa Italia, Supercoppa e competizioni Primavera. Gli inquirenti hanno smascherato il traffico di pirateria che nasce dalla distribuzione illecita dei segnali delle Iptv. Le indagini in corso hanno come obiettivo principale l'individuazione dell'organizzazione composta da decine di “reseller” che vendono per poche decine di euro abbonamenti illegali a migliaia di clienti che ora rischiano una denuncia. Con Alessandro Di Sarno abbiamo cercato di capire come funziona e si organizza questo business illegale. Il nostro viaggio è iniziato circa un anno fa a Napoli, dove abbiamo incontrato la base di questa piramide illegale: gli installatori. E, se alla base ci sono loro, ai vertici troviamo gli amministratori, cioè le persone che gestiscono la distribuzione e la vendita di tutti gli abbonamenti. Qualche settimana fa ne abbiamo intervistato uno che era stato arrestato e che rischia la condanna per associazione a delinquere. Queste sono le persone che guadagnano di più all’interno della piramide. “Al mese guadagnavo sui miei 40mila user almeno un euro a user. Entravano circa 40mila euro al mese”. Tra gli installatori e gli admin ci sono i reseller, venditori all’ingrosso di pezzotti che superano mediamente i 1.000 utenti. Ci siamo infiltrati in uno dei gruppi di venditori all’ingrosso più grandi d’Italia e siamo riusciti a ottenere un appuntamento con un reseller.  “Nel mio gruppo siamo in 109”, ci spiega. “Ogni gruppo ha 1.000 utenti”. Si tratterebbe quindi di un giro d’affari da oltre un milione di euro al mese. Ci fingiamo convinti a comprare da lui gli abbonamenti e gli diamo appuntamento nel parcheggio per dargli i soldi in cambio dei codici degli abbonamenti. Invece dei soldi ad aspettarlo c’è il nostro Alessandro di Sarno. La reazione del reseller ci lascia senza parola. “Io non vendo niente”, ci dice. “Io ho due figli per favore!”, e scoppia in un pianto disperato: “Non arrivo a fine mese”. La Iena gli chiede per chi lavora. “È un gruppo troppo gigantesco non so neanche io chi sono i capi. Sono flussi che arrivano tutti dall’Europa e anche fuori. Io guadagno 10 euro a abbonamento”. E ci parla di “un boss troppo grande, uno che è nel giro da tanti anni, è il proprietario dei flussi”.

Michela Allegri per ilmessaggero.it il 29 dicembre 2019. Notizie riservate spifferate sottobanco, una contabilità parallela e un vero e proprio «sistema Rai», escogitato da decine di dipendenti per gonfiare le spese di trasferta. Agli atti dell’inchiesta sul maxi raggiro costato all’azienda di Stato circa 120mila euro di rimborsi non dovuti elargiti a tecnici del suono e delle luci, registi, autori, direttori della fotografia e scenografi incaricati di seguire il Festival di Sanremo, c’è un’informativa della Guardia di finanza di Imperia che tratteggia i contorni dell’imbroglio. La procura di Roma - il pm è Alberto Pioletti - ha chiuso le indagini per 52 persone, tutte accusate di truffa: 51 dipendenti Rai e Matteo Paracchini, cognato del sindaco di Sanremo e titolare dell’hotel Belsoggiorno, che dal 2013 al 2015 avrebbe emesso fatture false permettendo ai clienti di presentare all’azienda scontrini taroccati. È stato proprio lui il primo a parlare del «sistema Rai» e a lasciare intendere di essere stato avvisato dell’indagine a suo carico. Quando nel 2016 i finanzieri hanno bussato alla porta del Belsoggiorno per un controllo fiscale, Paracchini si aspettava la visita: nell’informativa si legge che prima dell’arrivo del suo avvocato, ha detto che «nell’aprile 2016, quando è stato avviato il controllo fiscale, ha ricevuto una telefonata nel corso della quale una persona, di cui non ha voluto indicare le generalità, gli comunicava di essere venuto a conoscenza del controllo». La talpa gli avrebbe anche rivelato che l’indagine riguardava «la questione Rai», avvertendolo «di stare attento». Poi ha aggiunto che «il sistema Rai gli era stato imposto». Paracchini sosteneva di essere «costretto» ad accettare quelle condizioni «per garantirsi la presenza dei dipendenti Rai». Aderendo al sistema, infatti, «sarebbe stata garantita la sistematica occupazione delle camere per l’intero periodo delle manifestazioni da parte di quel personale che avrebbe soggiornato per il periodo più lungo. In caso contrario, presso la struttura sarebbero state alloggiate persone che, ricoprendo mansioni marginali, avrebbero soggiornato per un periodo più breve». Erano i dipendenti della tv pubblica, infatti, a scegliere tra gli alberghi convenzionati quelli dove alloggiare. E avrebbero optato per il Belsoggiorno proprio perché l’accordo con la proprietà avrebbe permesso loro di “taroccare” gli scontrini. «Nel novembre dell’anno precedente il Festival qualche dipendente chiamava per assicurarsi che l’accordo fosse sempre valido e, ottenuta la conferma, passava la voce ai colleghi», ha raccontato un addetto alla reception. L’albergatore avrebbe aggiunto di avere seguito le regole dopo il controllo del 2016, constatando un calo di presenze. Poi, però, in presenza del suo avvocato, ha ridimensionato i fatti, parlando di un tentativo di evasione fiscale. In realtà, dalle indagini è emersa l’esistenza di una «contabilità parallela a quella ufficiale», chiosa la Finanza. Le false fatture sarebbero state emesse anche in altre occasioni: la Milano-Sanremo, la festa dei Carri fioriti, Sanremo giovani. A raccontarlo, sono stati i dipendenti dell’albergo, che hanno spiegato come funzionava il «sistema Rai». Un testimone ha dichiarato che «l’albergo, ospitando i dipendenti della tv di Stato, provvedeva a emettere fatture fiscali per pasti che non venivano consumati, erano gratuiti, venivano consumati con un esborso di denaro inferiore». Gli stessi documenti venivano poi «usati dai dipendenti Rai per ottenere il rimborso di spese mai sostenute». Il testimone ha aggiunto che «Paracchini era costretto comportarsi così in quanto, in caso contrario, i dipendenti Rai avrebbero chiesto l’alloggiamento altrove». Un ex addetto alla reception ha poi spiegato gli escamotage per evitare che le fatture ritoccate venissero contabilizzate: veniva fatta una fotocopia a colori di un documento fiscale originale in bianco, e veniva poi usata per emettere la fattura senza inserire nulla nella contabilità ufficiale. Oppure, veniva usato un file excel, appositamente predisposto, con i caratteri uguali a quelli del programma contabile dell’albergo. Un altro receptionist ha detto che, nonostante la convenzione prevedesse l’alloggio in una camera singola, spesso i dipendenti Rai decidevano di stare in coppia, mentre la camera, già pagata dall’azienda di Stato e lasciata libera, veniva rivenduta ad altri clienti. «Paracchini corrispondeva ai due “conviventi” 20 euro a testa al giorno per il tempo di soggiorno». L’accordo sui pasti funzionava così: «Il primo pasto consumato era gratuito, mentre il secondo era pagato al 50%, cioè circa 20 euro». Mentre il rimborso chiesto alla Rai era relativo a due pasti, per un totale di 60 euro. 

Alessio Ribaudo per corriere.it il 30 dicembre 2019. Tra qualche giorno, come tutti beneficiari del Reddito di cittadinanza, avrebbero ricevuto l’attesa «ricarica». Invece, non solo la loro carta resterà a secco per sempre ma dovranno pure pagarsi gli avvocati perché sono stati denunciati per truffa ai danni dello Stato. Sono i «furbetti» del reddito di cittadinanza che, pur di incassare soldi che non gli spettavano, hanno dichiarato dati non veritieri e hanno «beffato» persino le «forche Caudine» dei primi controlli da parte Inps. Secondo il suo presidente, Carlo Tridico, l’ente ha respinto il 26 per cento delle domande ricevute. In particolare, in Campania è stata bocciata una richiesta su cinque mentre in Lombardia circa un terzo. Nella prima fase di verifica, finita a giugno, l’Ispettorato generale del lavoro, ne ha «beccati» 185 che non ne avevano diritto. Scorrendo, i comunicati delle forze dell’ordine e le notizie sparse, i casi sono saliti di molto. Un vero e proprio spaccato di malcostume italiano. Per esempio, un «furbetto» è stato trovato, con 600 euro in tasca, mentre guidava una Porsche Macan (costa a partire da 60 mila euro) con 120 grammi di cocaina, nascosta a casa in doppi fondi ricavati nelle lattine di bevande e di un piccolo estintore. La mappa dei «pizzicati» è, un vero e proprio, Giro d’Italia: dalla Lombardia alla Sicilia passando per la Liguria, l’Emilia Romagna, la Campania, la Puglia e la Calabria.

IL «CAMPIONARIO». Il «campionario» dei «furbetti», denunciati dagli inquirenti, è sconfinato e comprende imprenditori, negozianti, soci di Onlus, cassieri, baristi, camerieri, lavoratori in «nero» ma anche fotografi, cantanti neomelodici, venditori ambulanti. Non mancano delinquenti, spacciatori, mafiosi e... defunti!. A Rimini, per esempio, un settantenne ha pensato bene di dichiarare di ricevere «solo» una pensione sociale. Le fiamme gialle hanno scoperto che aveva semplicemente «dimenticato» di dichiarare le sue proprietà immobiliari oltre a essere proprietario di un albergo (attualmente non attivo) del valore commerciale stimato pari a oltre 800 mila euro. Andando più a fondo hanno accertato che l’anziano usufruiva dal 2017, indebitamente, già di altre prestazioni sociali, erogate sempre dall’Inps. Un po’ più a Nord, a Milano, a dicembre ne sono stati scovati 22: in 16 sono facevano i venditori ambulanti di gadget in occasione di manifestazioni organizzate presso il Forum di Assago. Una donna invece è stata sorpresa mentre lavorava «in nero» nell’officina del padre. A mezz’ora di strada, a Bergamo, la Gdf ne ha denunciati 12. Si va da lavoratori in «nero» a due donne che riscuotevano il beneficio malgrado, nel frattempo, fossero state assunte oppure una donna, di origine libanese, che, simulando una separazione dal coniuge, non aveva indicato nella domanda il reddito del marito: oltre 120mila euro. Non sempre le operazioni sono mirate alla scoperta del reddito di cittadinanza ottenuto in modo truffaldino. A Torino una badante di origine rumena aveva ottenuto il sussidio ma non aveva dichiarato il reddito incassato nei quattro anni precedenti: 140mila euro. A Genova, invece, nell’ambito di un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia su un traffico internazionale di cocaina dal Sudamerica, uno degli arrestati — condannato in primo grado dal Tribunale di Locri per falsa testimonianza per l’omicidio dell’allora vice-presidente del Consiglio Regionale della Calabria — percepiva, da giugno, il beneficio. L’indagato, proprietario di una villetta appena ristrutturata nel comune di Gioiosa Jonica, è stato denunciato anche per questo motivo e l’Inps gli ha sospeso l’erogazione di 500 euro al mese.

LA MAPPA. La mappa delle indagini riguarda davvero tutto lo Stivale. Nel Frusinate ne sono stati scoperti 37. Un imprenditore, per esempio, aveva omesso di dichiarare intere quote di una società dove, tra l’altro, il figlio, facente parte del nucleo familiare, lavorava in «nero», producendo un reddito non inserito nella dichiarazione. Ventisei persone, un tempo nomadi, invece sono stati denunciati perché avevano ottenuto fraudolentemente il reddito di cittadinanza: per un ammontare complessivo di 110.000 euro. Non avevano dichiarato possidenze mobiliari e immobiliari o una composizione del nucleo familiare diversa da quella reale. Nel Casertano ne sono stati smascherati ottanta. La lista dei «furbetti» comprende baristi, pizzaioli, operai, cassieri, addetti ad autolavaggi, magazzinieri, muratori, contrabbandieri di sigarette e il «mago» della pirateria informatica. «Pizzicato» pure l’ex titolare di un caseificio che, dopo aver ceduto le quote dell’impresa ai familiari, manteneva un tenore alto di vita ed era stato più volte fermato su auto lussuose. Peccato che percepiva il reddito di cittadinanza. Per la Gdf, nella domanda non aveva inserito sua moglie nel nucleo familiare. Scoperti pure due coniugi che, tra l’altro, avevano un negozio di abbigliamento ma la loro partita Iva era chiusa. Così non dichiaravano nulla e avevano il sussidio. Nel Cosentino, sono scattate 41 denunce e una ha riguardato un fotografo professionista che pubblicizzava i propri servizi sui social network. Oltre a lavoratori in «nero» c’era anche la gestrice di un B&B che anche lei pubblicizzava l’attività sui social e su vari motori di ricerca. In molti pensavano che trasferendo, in modo fittizio, la loro residenza per far figurare un nucleo familiare ristretto la potessero fare franca. A Sora, nel Frusinate, è stata scoperto che in una attività di vendita di bibite e alimenti, a lavorare costantemente era il padre del titolare che percepiva, da giugno, il reddito di cittadinanza. Per ottenerlo aveva presentato all’Inps false dichiarazioni sulla propria posizione lavorativa. A Trapani, è stato «beccato» un pasticcere che aveva affittato un appartamento e lo aveva trasformato in laboratorio dove era aiutato dalla moglie. Da giugno, lui incassava però 700 euro al mese come beneficio da reddito di cittadinanza. La strategia per dichiarare guerra ai «furbetti» è stata messa a punto dal comando generale della Guardia di finanza attraverso una circolare operativa che punta a individuare chi ha provato ad approfittare. «È bene ricordare che il reddito di cittadinanza è un beneficio riconosciuto ai nuclei familiari in possesso di particolari requisiti (cittadinanza, residenza, soggiorno, reddituali e patrimoniali) — spiegano dalla guardia di finanza — che si ottiene presentando all’Inps, telematicamente o presso i centri autorizzati (Caf e uffici Postali), un’apposita domanda. Presuppone una dichiarazione sostitutiva unica (DSU) da parte di chi propone l’istanza sulla posizione patrimoniale e reddituale dell’intero nucleo familiare. È proprio sulla veridicità dei dati auto-dichiarati dai richiedenti che sono concentrati i controlli. Sono informazioni che non emergono dalle verifiche automatiche del sistema ma che possono essere scoperte solo attraverso l’azione di servizio sul territorio e grazie all’incrocio delle notizie contenute nelle diverse banche dati in uso al Corpo». Non sempre i «furbetti» vengono scoperti con azioni mirate ma attraverso indagini successive. Per esempio, a Modena, una 39enne è stata «beccata» dalla polizia locale, durante il Gay Pride, mentre vendeva abusivamente alcolici ai manifestanti e le era stata elevata una multa salata: 5.164 euro. Le indagini successive hanno accertato che percepiva il reddito di cittadinanza da aprile e poi aveva aperto anche una partita Iva, continuando a ricevere il beneficio economico, incompatibile per legge. A Partinico, nel Palermitano, in un panificio sono stati trovati quattro lavoratori erano tutti occupati in «nero». Uno di loro percepiva anche il reddito di cittadinanza. Per il proprietario del panificio è stata invece accertata, non solo una violazione delle norme sul lavoro, ma anche una consistente evasione fiscale: 15mila euro di Iva non pagata e imposte evase su un reddito non dichiarato di 275mila euro. Per altri 11 soci di una Onlus, percettori di reddito di cittadinanza, sono in corso approfondimenti per capire se va tolto del tutto o rimodulato. Durante una verifica fiscale, le fiamme gialle hanno trovato centinaia di autocertificazioni sottoscritte dai volontari, attraverso le quali richiedevano il rimborso delle spese sostenute nel corso del servizio, senza l’indicazione però delle spesa effettuate e del giorno in cui le stesse sarebbero state sostenute. Da un raffronto è stato constatato che alcuni di questi percepivano la massima somma spettante nel mese pur avendo prestato la propria opera volontaria per meno di dieci giorni. In alcuni casi sono stati addirittura rilevati rimborsi spese nei confronti di “volontari” senza che risultasse traccia della loro presenza. Per questo, dal punto di vista prettamente fiscale, i finanzieri hanno riqualificato i rimborsi spese forfettari percepiti dai soci come veri e propri compensi. A carico della Onlus, è stato constatato l’omesso versamento di ritenute Irpef non operate per oltre 75mila euro. Invece, lo scorso ottobre, la questura di Catania ha denunciato tre manager e dieci cantanti neomelodici per reati connessi, direttamente e indirettamente, durante un concerto, conclusosi con fuochi d’artificio, che si sarebbe svolto illegalmente, chiudendo al traffico una strada. Secondo gli agenti, la «star» della serata era una cantante neomelodica Agata Arena, denunciata per affissione abusiva di manifesti pubblicitari e per truffa aggravata allo Stato per l’indebita percezione del reddito di cittadinanza. Reato che, secondo l’accusa, avrebbe reiterato presentando una nuova domanda. Oltre alla Arena, per gli inquirenti, due dei promoter e altre due persone estranee all’organizzazione del concerto sono stati denunciati per truffa perché anche loro avrebbero percepito illegalmente il reddito di cittadinanza. Nel Siracusano, in un supermercato sono stati trovati nove dipendenti in divisa che erano pagate in nero: in due percepivano il reddito di cittadinanza. Eppure, le pene sono severe: la legge prevede anche la reclusione da due a sei anni per chiunque presenti dichiarazioni false oppure ometta informazioni dovute. È prevista, invece, la reclusione da uno a tre anni nei casi in cui si ometta la comunicazione all’Inps delle variazioni di reddito, del patrimonio o del nucleo familiare, nonché informazioni dovute e rilevanti ai fini della riduzione o revoca del beneficio. «La decadenza ricorre allorquando uno dei componenti del nucleo familiare viene trovato — precisano dalla guardia di finanza — a svolgere: “in nero” un’attività di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa senza la preventiva comunicazione obbligatoria on line ai servizi per l’impiego un’attività di impresa o di lavoro autonomo, senza la comunicazione di inizio di attività all’Inps, da effettuare entro trenta giorni dall’inizio della stessa». La revoca, invece, ricorre «con efficacia retroattiva, qualora al termine del processo penale, sia stata accertata la responsabilità della persona, oltre alla condanna definitiva ne sussiste una accessoria che comporta la restituzione di quanto indebitamente percepito l’Inps abbia accertato la non veridicità della documentazione e delle informazioni prodotte a corredo dell’istanza o l’omessa comunicazione successiva delle variazioni patrimoniali o riferite ai componenti del nucleo familiare». Lo scopo dei controlli per la guardia di finanza è chiaro: «bisogna tutelare la fiducia che i cittadini onesti devono poter nutrire nella corretta destinazione delle ingenti risorse che il Paese, non senza sacrifici, destina agli aiuti economici e ai servizi sociali riservati a chi si trovi in una reale condizione economica e sociale di svantaggio». Secondo i calcoli dell’Inps, il reddito avrà un costo per le casse statali nel 2019 di 5,2 miliardi. La distribuzione territoriale vede in testa il Sud continentale (39%), seguita dal Nord (24%), dalle isole (22%) e, quindi, dal Centro (15%) ed alle isole il 22%. La media mensile percepita dai cittadini è di 549,71 euro. Le verifiche sui percettori sono appena iniziate e tanto è ancora da fare ma se si considera che a intascare il reddito — secondo Tridico, presidente dell’Inps — sono 2,4 milioni di persone (oltre 982 mila i nuclei familiari), significa che la percentuale dei truffatori è bassissima. I problemi sul campo per le casse dello Stato sono tanti. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2017, l’economia sommersa ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro (12,1% del Pil) e le attività illegali a circa 19 miliardi. I lavoratori irregolari sono 3,7 milioni, in crescita di 25 mila unità rispetto al 2016. Un dato, purtroppo, spaventoso.

Cantanti con Porsche e hotel. Tutti i furbi del reddito M5S. Nelle varie indagini di verifica sull'effettiva presenza dei requisiti per l'accesso al reddito di cittadinanza spunta di tutto. Stefano Damiano, Domenica 29/12/2019, su Il Giornale. Da lavoratori in nero agli imprenditori, passando per persone con precedenti penali e artisti. La lista dei "furbetti"del RdC (reddito di cittadinanza) è estremamente variegata, non solo a livello geografico ma anche nella tipologia di persone che hanno cercato di accedere alla misura di sostegno fortemente voluta dal M5S pur non avendo i requisiti richiesti. La compagine governativa, con il cambio della componente leghista con quella democratica, aveva preannunciato controlli a tappeto per la verifica del possesso dei criteri per ricevere il sostegno economico e, nei fatti, i controlli sono iniziati e ciò che emerge, purtroppo, non è per nulla incoraggiante e costringe ad una riflessione sulla modalità di assegnazione del RdC. Difatti, pur di incassare la cifra che poteva arrivare a 780 euro, in tanti hanno fatto di tutto, compreso quello di uscire dalla legalità. Così dalle indagini portate avanti dalla Guardia di Finanza nelle varie città italiane, a partire da Milano e Siracusa, passando per Torino, Roma, Napoli e Cosenza, quello che emerge è poco edificante. È vero che l'Inps una prima scrematura dei richiedenti l'aveva fatto, come evidenzia il Corriere della Sera in un'inchiesta, rifiutando una richiesta su 5 in alcune regioni, come in Campania, mentre in Lombardia ne aveva rifiutato circa un terzo. Troppo poco, evidentemente, se si analizzano i dati successi derivati dalle azioni di controllo. L'ispettorato generale del lavoro, ad esempio, nella prima fase di verifica avvenuta a giugno, aveva immediatamente trovato 185 persone che ricevevano il RdC senza averne diritto. Tra questi controlli un furbetto era stato trovato a bordo di una Porche Macan (oltre 60mila euro di automobile) e con 600 euro in contati nel portafogli. Difficile credere che i suoi beni siano stati frutto dei risparmi del reddito di cittadinanza. Tra i furbi ci sono anche cantanti neomelodici, fotografi, imprenditori, venditori ambulanti, negozianti, pasticceri, pregiudicati e lavoratori in "nero". Tra i profili controllati c'è anche il 70enne che, a Rimini, aveva deciso di dichiarare solo la pensione sociale dimenticandosi di dichiarare le proprietà immobiliari oltre ad un albergo (attualmente non attivo) del valore commerciale stimato superiore agli 800 mila euro. Poi c'è una donna, di origine libanese, che aveva simulato una separazione dal coniuge per non indicarne il reddito da oltre 120mila euro. A Torino, invece, una badante di origine rumena aveva ottenuto il reddito di cittadinanza ma perché non aveva dichiarato il reddito dei precedenti quattro anni di lavoro: 140mila euro. Nel quartiere Ponticelli, a Napoli, invece, è stato registrato un anomalo record di acquisti di bottiglie di Dom Perignon da 150 euro. Strano, se si considera che dall'ultima indagine della Guardia di Finanza in quell'area la GdF ha scovato numerosi furbetti del sussidio di Stato. La legge prevede pene fino alla reclusione, da 2 a 6 anni, per chi presenti dichiarazioni mendaci o con omissione di informazioni. Prevista anche la reclusione da 1 a 3 anni per l'omessa comunicazione all’Inps delle variazioni di reddito, del patrimonio o del nucleo familiare, oltre a quelle informazioni dovute e rilevanti ai fini della riduzione o della revoca del sussidio al beneficiario.

La "guerra" delle Fiamme Gialle ai furbetti del reddito di cittadinanza. Il Corriere del Giorno il 30 Dicembre 2019. Sinora sono stati denunciati imprenditori, pregiudicati e lavoratori in “nero”, negozianti, pasticceri, fotografi, cantanti neomelodici, venditori ambulanti. Le indagini della Guardia di Finanza partite da Milano passando per Torino, Genova, Roma, Napoli, Frosinone, Cosenza arrivando sino a Siracusa, verranno estese a tutt’ Italia. Le pene sono severe in quanto la legge prevede anche la reclusione da due a sei anni per chiunque presenti dichiarazioni false oppure ometta informazioni dovute. I “furbetti-predoni” del reddito di cittadinanza, ottenuto senza averne i requisiti, circostanza che la dice tutta sull’inconsistenza delle verifiche dell’ INPS in sede di erogazione del contributo pubblico, sono stati scoperti e denunciati dagli investigatori delle Fiamme Gialle, con una operazione di controllo estesa a tutte le categorie professionali e commerciali, e che comprende imprenditori, commercianti, soci di Onlus, baristi, camerieri, cassieri, una marea di lavoratori in “nero”. Fra i quali anche cantanti neomelodici, fotografi, persino venditori ambulanti. Molti “furbetti” credevano che la potessero fare franca trasferendo la loro residenza , in modo fittizio, per far risultare un nucleo familiare più ristretto rispetto al reale. La strategia con cui lo Stato ha dichiarare guerra ai soliti “furbetti” è stata messa pianificata dai vertici del Comando Generale della Guardia di Finanza che ha emanato una circolare operativa alle proprie legioni regionali e comandi provinciali con il chiaro intento di scovare ed identificare chi ha provato ad approfittare del reddito di cittadinanza. Dalla Guardia di Finanza spiegano che “è  bene ricordare che il reddito di cittadinanza è un beneficio riconosciuto ai nuclei familiari in possesso di particolari requisiti (cittadinanza, residenza, soggiorno, reddituali e patrimoniali) che si ottiene presentando all’INPS, telematicamente o presso i centri autorizzati (Caf e uffici Postali), un’apposita domanda. Presuppone una dichiarazione sostitutiva unica (DSU) da parte di chi propone l’istanza sulla posizione patrimoniale e reddituale dell’intero nucleo familiare. È proprio sulla veridicità dei dati auto-dichiarati dai richiedenti che sono concentrati i controlli. Sono informazioni che non emergono dalle verifiche automatiche del sistema ma che possono essere scoperte solo attraverso l’azione di servizio sul territorio e grazie all’incrocio delle notizie contenute nelle diverse banche dati in uso al Corpo“. E potevano mancare pregiudicati, spacciatori, mafiosi e… persino i defunti ? Certo che no ! . Per esempio un settantenne a Rimini, ha dichiarato di incassare “solo” una pensione sociale. La Guardia di Finanza ha scoperto che il pensionato romagnolo aveva semplicemente “dimenticato”…. di dichiarare le sue proprietà immobiliari. Infatti oltre a essere proprietario di un albergo (anche se al momento non attivo) del valore commerciale stimato pari a oltre 800 mila euro è stato accertato,   approfondendo la situazione , che l’anziano pensionato dal 2017, usufruiva indebitamente anche di altre prestazioni sociali erogate sempre dall’INPS. Una circostanza che prova la leggerezza e l’inconsistenza , ancora una volta, e sopratutto la “latitanza” dei controlli interni effettuati dall’ Istituto pubblico erogante. A Milano, a dicembre sono stati scovati 22 “furbetti”:  16 di loro facevano i venditori ambulanti in occasione di manifestazioni organizzate presso il Forum di Assago. Una donna invece è stata sorpresa mentre lavorava “in nero” all’interno dell’officina del padre. A Bergamo, le Fiamme Gialle ne ha denunciati 12. Si va da lavoratori in “nero” a due donne che nonostante fossero state assunte, riscuotevano il contributo pubblico,  così come una donna di origine libanese ha simulato una separazione dal coniuge, per non indicare nella domanda il reddito del marito che superava i 120mila euro. Gli accertamenti della Guardia di Finanza non sono sempre indirizzati all’accertamento di aver usufruito del reddito di cittadinanza in modo truffaldino. Una badante di origine rumena aveva ottenuto a Torino il sussidio ma non aveva dichiarato il reddito di 140mila euro percepito nei precedenti quattro anni, a Genova nell’ambito di un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia su un traffico internazionale di cocaina dal Sudamerica, uno degli arrestati, già condannato in primo grado dal Tribunale di Locri per “falsa testimonianza” e per l’omicidio dell’ex vice-presidente del Consiglio Regionale della Calabria , incassava dallo scorso mese di giugno del reddito di cittadinanza. L’indagato a seguito degli accertamenti effettuati dalle Fiamme Gialle è risultato essere proprietario di una villetta appena ristrutturata nel comune di Gioiosa Jonica, e pertanto è stato denunciato anche per questo e l’INPS gli ha sospeso l’erogazione di 500 euro al mese che gli aveva erogato. Ma la mappa delle indagini delle Fiamme Gialle riguarda davvero tutto il Paese. Ventisei persone, un tempo nomadi, invece sono stati denunciati perché avevano ottenuto fraudolentemente il reddito di cittadinanza: per un ammontare complessivo di 110.000 euro. Non avevano dichiarato proprietà immobiliari e mobiliari o in alcuni casi la composizione del nucleo familiare differente da quella reale. Ottanta sono stati smascherati nel Casertano. Nella provincia di Frosinone nel Lazio  ne sono stati scoperti 37. Per esempio, un imprenditore (in questo caso trasformatosi in “prenditore” di denaro pubblico !) ,  aveva omesso di dichiarare intere quote di una società all’interno della quale peraltro lavorava in “nero”suo figlio, facente parte del nucleo familiare, producendo quindi un reddito non inserito nella dichiarazione.  A Sora è stata scoperto che in una attività di vendita di bibite e alimenti, a lavorare costantemente era il padre del titolare che percepiva, da giugno, il reddito di cittadinanza. Per ottenerlo aveva presentato all’INPS delle false dichiarazioni sulla propria posizione lavorativa. La lista dei “furbetti” scovati dalle indagini delle Fiamme Gialle vede presenti contrabbandieri di sigarette ed un “mago” della pirateria informatica, pizzaioli, baristi,  cassieri, operai. Fra i tanti è stato scovato persino l’ex titolare di un caseificio il quale, dopo aver ceduto le quote dell’impresa ai familiari, manteneva un tenore alto di vita ed era stato più volte fermato per controlli di routine alla guida di auto lussuose. Incredibilmente percepiva il reddito di cittadinanza. Secondo gli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza, il “furbetto” non aveva inserito nella domanda la presenza di sua moglie nel nucleo familiare. Sono stati “pizzicati” anche due coniugi che, tra l’altro, gestivano un negozio al dettaglio nonostante la loro partita Iva risultasse chiusa, cioè cessata, non dichiarando alcun reddito e percependo il sussidio. In Calabria nel Cosentino, sono scattate 41 denunce ed una di esse ha interessato un fotografo professionista che pubblicizzava i propri servizi fotografici da realizzare, persino sui social network, così come anche la gestrice di un B&B la quale pubblicizzava anche lei la sua attività commerciale sui social e su vari motori di ricerca. Onnipresenti i lavoratori in “nero”. In Sicilia a Trapani, è stato “scoperto” un pasticcere che dal giugno 2019, incassava 700 euro al mese quale beneficio proveniente dal reddito di cittadinanza, soldi con i quali aveva affittato un appartamento e lo aveva trasformato in laboratorio dove lavorava in nero affiancato dalla moglie, anch’essa rigorosamente in “nero” !  Nel Palermitano a Partinico,  sono stati trovati in un panificio  quattro lavoratori tutti occupati in “nero”, uno dei quali percepiva anche il reddito di cittadinanza. A carico dell proprietario del panificio è stata invece accertata, non solo la violazione delle norme sul lavoro, ma anche una consistente evasione fiscale: 15mila euro di Iva non pagata e imposte evase su un reddito non dichiarato di 275mila euro. La Questura di Catania ha denunciato lo scorso ottobre, tre manager e dieci cantanti neomelodici per reati connessi, direttamente e indirettamente, durante un concerto, conclusosi con fuochi d’artificio, che si sarebbe svolto illegalmente, chiudendo al traffico una strada. Secondo gli agenti della Polizia di Stato, la “star” della serata sarebbe stata Agata Arena, che è stata denunciata per affissione abusiva di manifesti pubblicitari e per “truffa aggravata allo Stato” per l’indebita percezione del reddito di cittadinanza. Reato che avrebbe reiterato , secondo l’accusa,  presentando una nuova domanda. Oltre alla Arena, per gli inquirenti, due dei “promoter” e altre due persone estranee all’organizzazione del concerto sono stati denunciati per truffa perché anche loro avrebbero percepito illegalmente il reddito di cittadinanza. Nel Siracusano, in un supermercato sono stati trovati ben 9 dipendenti in divisa le quali venivano pagate in nero. 2 di loro percepivano anche  il reddito di cittadinanza.  I “furbetti” del reddito di cittadinanza sono stati scoperti non sempre con delle azioni mirate ma anche attraverso successive indagini. In Emilia-Romagna a  Modena , una 39enne è stata “beccata” dalla Polizia Locale mentre vendeva abusivamente alcolici ai manifestanti , durante il Gay Pride, e le era stata elevata una multa salata: 5.164 euro. Le successive indagini della Guardia di Finanza hanno accertato che la modenese da aprile  percepiva il reddito di cittadinanza e successivamente  aveva aperto anche una partita Iva, continuando a ricevere il beneficio economico, che è incompatibile per legge. Per altri 11 percettori di reddito di cittadinanza, risultanti essere soci di una Onlus,  sono in corso accertamenti per verificare se il reddito di cittadinanza va annullato del tutto o rimodulato. Durante una verifica fiscale, le Fiamme Gialle hanno trovato centinaia di autocertificazioni sottoscritte dai volontari, attraverso le quali richiedevano il rimborso delle spese sostenute nel corso del servizio, senza  però l’indicazione delle spesa effettuate e del giorno in cui le stesse sarebbero state sostenute. Da un raffronto è stato constatato che alcuni di questi percepivano la massima somma spettante nel mese pur avendo prestato la propria opera volontaria per meno di dieci giorni. In alcuni casi sono stati addirittura rilevati rimborsi spese nei confronti di “volontari” senza che risultasse alcuna traccia della loro presenza. I finanzieri  pertanto dal punto di vista esclusivamente fiscale, hanno riqualificato i rimborsi spese forfettari percepiti dai soci come veri e propri compensi. A carico della Onlus è stato constatato e contestato  l’omesso versamento per oltre 75mila euro di ritenute Irpef non operate. Le pene sono severe in quanto la legge prevede anche la reclusione da due a sei anni per chiunque presenti dichiarazioni false oppure ometta informazioni dovute. Invece è prevista  la reclusione da 1 a 3 anni nei casi in cui si ometta la comunicazione all’ INPS delle variazioni di reddito, del patrimonio o del nucleo familiare, nonché informazioni dovute e rilevanti ai fini della riduzione o revoca del beneficio. «La decadenza ricorre allorquando uno dei componenti del nucleo familiare viene trovato a svolgere un’attività di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa “in nero”  cioè senza la preventiva comunicazione obbligatoria online ai servizi per l’impiego un’attività di impresa o di lavoro autonomo, senza la comunicazione di inizio di attività all’INPS, da effettuare entro trenta giorni dall’inizio della stessa” precisano dal Comando Generale della Guardia di finanza . Invece la revoca del reddito di cittadinanza, ricorre “con efficacia retroattiva, qualora al termine del processo penale, sia stata accertata la responsabilità della persona, oltre alla condanna definitiva ne sussiste una accessoria che comporta la restituzione di quanto indebitamente percepito l’INPS abbia accertato la non veridicità della documentazione e delle informazioni prodotte a corredo dell’istanza o l’omessa comunicazione successiva delle variazioni patrimoniali o riferite ai componenti del nucleo familiare”.