Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
I PARTITI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
I PARTITI
INDICE PRIMA PARTE
SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Beppe Grillo: Il Dottor Elevato.
I Grillini e l’Islam.
I Ministri a 5 Stelle.
La disintegrazione stellare.
Gli ex M5S.
Casta a 5 Stelle.
Il Nepotismo – Favoritismo Stellare.
I Conflitti d’Interesse.
La candidatura a punti.
I Finanziamenti a 5 Stelle.
Il Grillismo.
Pensioni d’oro e vitalizi. Noi siamo Noi.
La coerenza dei Grillini.
L’Onestà dei Grillini.
La Rimborsopoli.
Cinquestellopoli.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Lega Razzista Antimeridionalista.
Il Bossismo.
Fu Lega Nord Padania.
Salvini è Fascista.
Salvini è Comunista.
I Salviniani.
I Comunisti contro il Comunista Salvini.
Processate Salvini!
Giù le mani dalla Polizia…
La Questione Morale.
L’Onestà dei leghisti: altro che Roma Ladrona.
Moscopoli.
I 49 milioni.
Dio, Patria, Famiglia Spa.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Antropologia Comunista.
I Comunisti e la Chiesa.
I Comunisti ed il Nazismo.
Comunismo: quando il falso diventa vero.
La caduta del Comunismo.
Socialismo e scissioni.
Vocazione: Scindersi…
Il Poverismo.
La bella vita dei comunisti.
La Lega Padana Comunista.
Il Pd giustizialista figlio della sua storia.
I Sinistri Fratturati.
La sinistra e gli ebrei.
La Sinistra e le Donne.
Ramelli, lo Squadrismo Rosso ed il negazionismo.
Rizzo. L’Ultimo Comunista.
Il Zingarettismo.
Il Renzismo Junior.
Il Renzismo Senior.
I Renziani.
I Comunisti contro il Comunista Renzi.
Il Calendismo.
Emanuele Macaluso.
Ritratto di Giorgio Gori.
La storia della morte di Che Guevara.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli amici Terroristi.
Il Delitto di Vittorio Bachelet.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il ’68 nasce nel 1960.
Il Fumetto sul ’68.
I PARTITI
PRIMA PARTE
SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Beppe Grillo: Il Dottor Elevato.
Giovanni Terzi per liberoquotidiano.it l'8 dicembre 2020. Una vita avventurosa, colma di eventi indimenticabili che spesso si sovrappongono alle pagine più importanti della storia del nostro paese. Lello Liguori è stato per quasi quarant' anni il gestore del Covo di Nord Est, di Santa Margherita nonché dello Studio 54 di Milano ed altre decine di locali sparsi in tutta la nostra penisola. Oggi ha ottantasei anni e, pur essendo sia fisicamente che intellettualmente lucidissimo, sta trascorrendo questo periodo in una RSA a Milano in attesa di essere operato agli occhi che non vedono più come una volta. Lello Liguori ebbe un ruolo anche nel cercare di risolvere il rapimento di Aldo Moro. Bettino Craxi, infatti, cercò, attraverso piste parallele, di ritrovare il politico italiano; una di queste venne affidata proprio a Lello Liguori che, nella deposizione avvenuta in commissione d'inchiesta 12 luglio 2017 presieduta dall'onorevole Fioroni, racconta due fatti inediti legate alle due "missioni" che gli erano state affidate. «In merito ai tentativi di liberare l'onorevole Moro, posso dire che anch' io vi presi parte» racconta Lello Liguori «il mio primo obiettivo era quello di cercare contatti presso il carcere di Cuneo con il bandito milanese Francis Turatello. Mi fu chiesto di recarmi presso il carcere di Cuneo e di prendere contatti con un maresciallo degli Agenti di custodia a nome Incandela. In questo modo avrei potuto parlare con Turatello per sollecitarlo a prendere tutte le iniziative possibili muovendo il suo ambiente, compreso quello della Magliana. Il mio contatto con Turatello poteva essere facilitato dal fatto che già lo avevo conosciuto nell'ambiente dei locali a Milano. Addirittura una notte avevo avuto una lite con lui fuori dal locale Ciao Ciao di via Merlo. Io non avevo avuto paura a scontrarmi fisicamente con lui e, benché avessi avuto la peggio, avevo mostrato di non avere paura e per questo Turatello mi aveva mostrato rispetto».
Ci fu poi una seconda missione?
«Dovevo incontrare Curcio e passare un po' per una persona di sinistra, anche perché mia figlia Monica frequentava il Leoncavallo».
Cosa successe?
«I contatti furono presi: Turatello lo rigirò alla banda della Magliana per avere notizie sul luogo di prigionia di Moro, mentre Curcio, fu molto più sulla difensiva e ricordo una frase sua un po' di scherno del tipo "tu vieni perché ti presenti come una persona di sinistra ma lo so che non sei dei nostri". Così finita questa missione riferii al mio amico Bettino Craxi».
Lello la sua vita è stata piena di amori e di incontri. Quante mogli ha avuto?
«Quattro mogli ed undici figli. Ho amato e sono stato molto amato».
Negli anni del Covo era insieme alla bellissima Giuni Marchesi...
«Giuni è stato un grande amore, da lei ho avuto Raffaella che adesso ha cinquant' anni e vive in una struttura in Svizzera perché è nata senza la capacità di muovere ne braccia ne gambe».
Cosa era successo?
«Eravamo con Giuni in un maneggio dove avevamo passato la giornata. All'imbrunire un cavallo scalciò verso la mia compagna e la bambina, ancora in grembo, si girò. Questo giramento provocò danni irrimediabili di tipo cerebrale a mia figlia. Quando nacque alla Mangiagalli a Milano aveva gli occhi chiusi. Per fortuna siamo riusciti a svegliarla ma nulla ci è stato permesso per evitare i danni permanenti».
Giuni è stata al suo fianco negli anni d'oro del Covo. Quali sono gli artisti che ricorda?
«Mina la ricordo perché non sapevamo più dove mettere le persone fu un successo incredibile».
Ma da lei venne anche Frank Sinatra, Iglesias finanche Beppe Grillo...
«Del comico genovese ora leader politico ricordo gli spettacoli in cui esigeva di essere pagato in nero».
Non fatturava?
«Grillo prendeva settanta milioni di lire, io ne versavo dieci al suo impresario con un assegno e altri sessanta a lui senza fattura. Sono in causa per quattro fatture emesse senza iva».
Come ha conosciuto Grillo?
«Aveva quattordici anni ed è sempre stato molto intraprendente. Voleva salire a tutti i costi sul palco del Covo è così fece più di venti spettacoli con me».
Ha ancora rapporti con lui?
«Non più. Chiusi ogni rapporto quando tanti anni fa si incontrò al Covo con Bettino Craxi. Fu così maleducato che il leader socialista se ne andò via. Poi mi ha sempre detto che mi avrebbe denunciato. So che c'è una denuncia e sono stato anche sentito dai Carabinieri in merito ai soldi in nero ma è la semplice e pura verità».
Perché è così arrabbiato con Grillo?
«Non mi piace la doppia morale. Adesso con il suo partito fa il moralista mentre prima si comportava in modo leggero come tanti altri».
Poi entrò in Rai...
«Lo portai io in una trasmissione insieme a Smaila e Iacchetti. Lui riuscì a farsi prendere...».
Altri artisti straordinari passarono dal Covo. Di Frank Sinatra cosa ricorda?
«Venne al Covo e fece costruire un gabbiotto in alto come camerino. Era in compagnia di Roger Moore e dormivano a Montecarlo. Fu una serata strepitosa vendetti i biglietti a cinquecento mila lire».
Quanta gente teneva il Covo?
«Intorno alle duemila persone ma devo ammettere che ci furono serate dove ne entravano quasi il doppio».
Un altro grande nome fu Julio Iglesias...
«Una persona meravigliosa. Il Covo era pieno di donne che lo adoravano. Mi chiese subito di vedere mia figlia Raffaella e si fece fotografare con lei».
C'è un ricordo triste?
«Il concerto di Whitney Huston. Una cantante meravigliosa ed una donna straordinariamente bella. L'andai a prendere a Reggio Emilia in albergo. La vidi in camera mentre si drogava davanti ai suoi manager. Così grande come artista ma così fragile come donna». Le parole di Lello Liguori raccontano una parte importante di quell'artista, Whitney Houston, che Oprah Winfrey aveva chiamato «The Voice». La stessa Huston in una intervista raccontò di se stessa «Nessuno mi fa fare qualcosa che non voglio fare. È una mia decisione. Quindi il mio più grande demone sono io. O sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico».
Lello invece un ricordo divertente?
«Chat Baker venne a suonare da noi e si invaghì della moglie di un fotografo amico. Voleva a tutti i costi portarsela a letto; così, sapendo dove alloggiava, entrammo in camera sua assieme al marito fotografo e lo immortalammo nudo... Diciamo che lasciò perdere la sua eventuale conquista... o almeno così credo».
Lei che progetti ha per il suo futuro?
«Tornare a casa dalla mia fidanzata».
Chi è la sua fidanzata?
«Una bellissima donna brasiliana di quarantadue anni. A parte gli occhi che hanno cataratta e glaucoma, per il resto io sono in grande forma e dimostro trent' anni di meno».
Beppe Grillo voleva dimenticare i politici. Ma l'incontro con Casaleggio ha cambiato tutto. «Non voglio più nominarli nei miei spettacoli», disse il comico ai suoi autori negli anni Novanta. Perché voleva parlare di "noi", non di "loro". Ma l'incontro con Gianroberto ha cambiato tutto. Ecco le origini del Movimento raccontate da chi ha vissuto da vicino questa metamorfosi. Michele Serra su L'Espresso il 13 ottobre 2020. La progressiva rottura tra i vertici dei 5 stelle e l’erede Casaleggio procura grande sollievo in una parte consistente dell’opinione pubblica. La ragione è che quella rottura attenua, e forse estingue, una diffusa fobia, che è quella per il “partito digitale”, luogo trans-politico che nell’illusione di azzerare le distanze tra il cittadino e le decisioni azzera tutte le intermediazioni, tutti gli ammortizzatori, soprattutto tutte le competenze. Come ogni fobia, anche quella per il partito digitale si alimenta - in parte - di fantasmi. Non credo che Casaleggio padre avesse in mente il controllo delle Galassie tramite algoritmo, e neanche che la piattaforma Rousseau sia un direttorio in grado di pilotare la politica italiana bypassando Parlamento, partiti, opinione pubblica come se fossero detriti del passato, alberi morti che basta uno scossone a sradicare. Però è vero che, dei tanti materiali di cui è composta l’avventura grillesca, quello della presunzione digitale è, fin dagli inizi, il più anomalo, il più sospetto e, per molti, il più allarmante. Tutto il resto può piacere o non piacere, ma appartiene alla consolidata esperienza individuale e sociale che la parola “politica” contiene. Tutto ma proprio tutto: il linguaggio violento e sprezzante degli inizi, il moralismo sospettoso e punitivo, il neo-qualunquismo (destra e sinistra non esistono più), il ricambio generazionale traumatico, il populismo becero dei “vaffa”, la creazione di un bacino di contenimento degli umori e delle istanze (alcune delle quali buone e giuste, per esempio quelle ambientaliste) che non riuscivano più a trovare casa nei partiti, in specie nei partiti della sinistra. È un urto che si poteva reggere, un urto sostenibile, perché urtati e urtanti abitavano nello stesso mondo.
Beppe Grillo "espulso" da eBay: aveva messo in vendita una pietra anti-stupidità a mille euro. Redazione su Il Riformista il 28 Settembre 2020. Solitamente è il Movimento 5 Stelle ad essere ‘noto ‘per l’espulsione dei dissidenti interni, ora la stessa sorte tocca al suo fondatore Beppe Grillo. Il comico genovese è stato infatti “censurato” da eBay, la nota piattaforma di shopping online, per un annuncio di vendita fasullo. Grillo, registratosi col nickname “elevatobeppegrillo”, aveva messo in vendita sul sito una “pietra pomice per smerigliare il cervello dalla stupidità umana” al costo di mille euro. Una provocazione, una delle tante nella carriera del comico genovese, che qualcuno ha però segnalato ad eBay che senza pensarci due volte ha cancellato l’account di Grillo. “Gentile elevatobeppegrillo, dopo aver esaminato le attività correlate al tuo account abbiamo deciso di sospenderlo in quanto riteniamo che tali attività costituiscono un rischio per la community di eBay”, è il messaggio inviato a Grillo, che lo ha pubblicato sul suo profilo Facebook. Le più disparate le reazioni al post di Grillo, tra chi si diverte per la situazione e chi invece ha criticato pesantemente la piattaforma di shopping online annunciando di non voler più comprare dal sito. Nella notte quindi Grillo è tornato all’attacco e sempre su Facebook ha pubblicato una foto di un "banchetto" improvvisato per la vendita della pietra pomice, definita ironicamente “introvabile su eBay”.
Il folle piano di Grillo: più tasse, meno Pil e reddito a chiunque. Il comico illustra ai senatori M5s la sua ricetta iperstatalista e assistenzialista. Pasquale Napolitano, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. Beppe Grillo prende a calci il Pd e rilancia il piano per la decrescita felice: reddito di cittadinanza per tutti, statalismo, Pil fermo e tasse per le imprese. In collegamento streaming con la sala Nassiriya di Palazzo Madama, dove sono riuniti, per un incontro sulle energie rinnovabili, i senatori grillini e il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, il garante dei Cinque stelle detta l'agenda al governo Conte. E prova a ricompattare il gruppo pentastellato, lacerato da guerre e veleni: «Voi siete i miei figli, vi amo da morire...». Grillo sogna una Repubblica fondata sull'assistenzialismo: «Lo Stato deve diventare una buona cosa non una cosa che prende per il c..o gli italiani come ha sempre fatto. E per fare questo non serve destra o sinistra ma ragionare su un reddito universale incondizionato che non sia un piatto di minestra, ti dò un reddito perché sei vivo, perché sei al mondo, è una grande battaglia. Istruzione e reddito possono portarci fuori dall'impasse di questi 30 anni». Il comico dà il benservito ai sindacati («i sindacati sono rimasti nel '900. Oggi avremmo bisogno di sindacati digitali che conservano e tutelano i dati degli italiani che vanno alle multinazionali americane, sono miliardi di euro») e liquida il Pd, «la sinistra ha poche idee, la destra non le ha, noi ne abbiamo qualcuna: mettiamo insieme le energie». È un vero e proprio manifesto politico che imbarazza gli alleati dem. Grillo illustra poi la sua ricetta per utilizzare i fondi in arrivo con il recovery fund: «Se con il Recovery fund la priorità è raddoppiare il Pil non abbiamo capito niente, io voglio uscire di casa e vedere più verde, non usare la macchina, sentire il rumore dell'acqua. In Paradiso non c'è niente, il Pil è zero, nell'Inferno il pil è a mille». Una minestra riscaldata. Parole dette e ridette. Il fondatore del Movimento cerca di riportare la sua creatura sulla strada originaria. Insiste sull'idea del ricorso alle energie rinnovabili: «L'energia da fossili deve costare molto, non poco, e tutte quelle tasse si possono redistribuire a sostegno delle rinnovabili». Ed evoca l'intervento dello Stato nelle aziende: «Se come Stato entro a finanziare l'attività di qualcuno ne deve conseguire che come Stato ti impongo di cambiare la tua visione, partendo dal piano industriale. Questo anche per le compagnie aeree ad esempio. Lo Stato deve entrare e dettare la linea guida». La sorpresa arriva con la benedizione del telelavoro: «Dovremo abituarci a una città con il Covid. Una città più flessibile, ma il Covid-19 ha dimostrato che il telelavoro funziona, è straordinario. Funziona e fa risparmiare energia, traffico». Grillo è pronto a sottoporre il piano per decrescita felice a Confindustria: «Bisogna parlare alla Confindustria e dire sediamoci a un tavolo, per spiegare che alcune cose rovinano l'ambiente». Poi annuncia una grande riforma: «Un grande cloud sui dati degli italiani e un server europeo. Siamo le più grandi intelligenze del mondo: questi succhiano i dati». Arrivando a ipotizzare l'inutilità delle democrazie: «È paradossale che funzionino più le dittature delle democrazie... Siamo bloccati su stronzate gigantesche» dice Grillo. Il comico si infila nello scontro interno al Movimento e prova a spezzare una lancia in favore di Davide Casaleggio, il cui ruolo viene messo in discussione dai parlamentari 5s: «Io sono fuori, forse stando dentro si perde un po' di libertà e si acquista in competenza, ma un punto di vista fuori ci vuole sempre. I cittadini devono poter andare avanti potendo dire la loro con dei sistemi tecnologici che noi per primi al mondo abbiamo fatto. E non è una difesa di Rousseau, è una difesa di una tecnologia che abbiamo fatto noi e dobbiamo ringraziare le persone che l'hanno fatta: Casaleggio padre e Casaleggio figlio». Grillo è tornato.
Da repubblica.it il 7 settembre 2020. "Stamani intorno alle 10 sulla spiaggia di Bibbona ho incontrato Beppe Grillo in uno stabilimento balneare. Ero nella zona per realizzare un servizio per Dritto e Rovescio trasmissione di Rete4 condotta da Paolo Del Debbio. Dopo essermi qualificato ho fatto alcune domande di politica al signor Grillo con il cellulare acceso. Grillo prima ha cercato di portarmi via il cellulare poi dopo avermi spruzzato addosso del liquido igienizzante mi ha spinto con forza facendomi cadere indietro da una scala che collega lo stabilimento alla spiaggia". Lo rende noto il giornalista televisivo Francesco Selvi, che poi si è fatto curare al pronto soccorso dell'ospedale e ha avuto "5 giorni di prognosi per un trauma distorsivo al ginocchio". Solidarietà nei fronti del giornalista è stata espressa dall'Associazione stampa toscana attraverso le parole di Sandro Bennucci: "Non è tollerabile che un personaggio impegnato in maniera diretta o indiretta in politica, quindi un uomo pubblico a tutti gli effetti, reagisca in maniera violenta davanti a un giornalista che sta solo esercitando la sua professione. Ast e Fnsi rivolgono anche un accorato appello alle istituzioni perché tutelino chi lavora nell'informazione, visto che sono costrette a registrare, per l'ennesima volta nel giro di pochi mesi, l'aggressione a un giornalista in Toscana".
Giornalista aggredito, ecco cosa ha scatenato la reazione di Grillo. Larno.ilgiornale.it l'8 settembre 2020. Ieri vi abbiamo parlato dell’aggressione che il giornalista Francesco Selvi, che collabora con il programma Mediaset “Dritto e Rovescio”, ha subito da Beppe Grillo. Il fondatore del Movimento 5 Stelle si trovava sulla spiaggia di Marina di Bibbona (Livorno), quando verso le dieci del mattino è stato avvicinato da Selvi, che voleva fargli alcune domande. Nient’altro che il suo lavoro. “Dopo essermi qualificato – racconta il giornalista – ho fatto alcune domande di politica al signor Grillo con il cellulare acceso. Grillo prima ha cercato di portarmi via il cellulare, poi dopo avermi spruzzato addosso del liquido igienizzante mi ha spinto con forza facendomi cadere indietro da una scala che collega lo stabilimento alla spiaggia”. Episodio grave, condannato pressoché da tutti, dal mondo politico a quello dell’informazione. Selvi è andato in ospedale, dove lo hanno fasciato (vedi foto) e dato uno prognosi di cinque giorni per un trauma distorsivo al ginocchio. Sicuramente poteva andargli peggio, ma non è questo ciò che conta. La cosa più grave, infatti, è che questa reazione violenta è scattata mentre il giornalista stava facendo il proprio lavoro, porgendo delle domande a un personaggio pubblico che, qualche anno fa, ha fondato un movimento politico che oggi governa il Paese. Viene da chiedersi cosa possa aver scatenato una simile violenza? Grillo forse era particolarmente nervoso? Può aiutarci conoscere cosa il giornalista abbia chiesto. Come racconta Selvi al Tirreno, gli stava facendo delle domande di politica. In particolare sulla tenuta del governo Conte dopo le elezioni e se Grillo abbia, o meno, l’intenzione di farsi il vaccino per il coronavirus (quando ci sarà). In più gli ha chiesto qualcosa sui “no mask“, le persone che, anche di recente, sono scese in piazza per contestare le limitazioni imposte dal governo per arginare il contagio da Covid-19. Forse è questa insistenza sul virus che ha scatenato la rabbia del comico genovese?
DAGONEWS il 16 agosto 2020. Marco Canestrari è stato per anni ''l'uomo che seguiva Beppe Grillo ovunque, dal colloquio con l’ambasciatore tedesco a quello con il presidente del Senato. Ho lavorato anni alla Casaleggio accanto a Gianroberto, ero il suo inviato agli incontri nazionali dei meet up, la cinghia di trasmissione tra loro, le cellule originarie del Movimento, e lui. Solo io e altre due persone sappiamo davvero cosa volessero Roberto e Beppe» (da un'intervista a ''la Stampa''). Lo chiamavano ''la mente grigia'' del Movimento, poi nel 2014 è stato malamente scaricato da Beppe Grillo e si è allontanato dai 5 Stelle, fino a scrivere due libri in cui racconta (insieme a Nicola Biondo) la grande truffa della creatura del comico e di Casaleggio. Oggi su Twitter ci va pesante, anzi pesantissimo, mettendo in mezzo temi che girano sottotraccia dall'estate scorsa, ovvero da quando Ciro Grillo, figlio di Beppe, è stato denunciato e indagato per violenza sessuale dopo una notte piena di alcol nella villa del comico a Cala di Volpe, in Sardegna. Pochi giorni dopo, Grillo deciderà di sostenere il governo Conte-bis, evitando di portare il paese a elezioni che sarebbero state probabilmente vinte dal centrodestra, e facendo entrare il Pd nell'esecutivo dalla porta dei giochi di palazzo. Da allora, il processo contro il figlio e gli amici langue nelle aule di tribunale, e il comico si è premurato di sostenere ogni passaggio dell'attuale coalizione, fino alla rinnegazione totale delle idee originali (no alleanze, limite di due mandati).
Ecco i tweet di Canestrari: ''Parliamoci chiaro: Beppe Grillo, con la vita già segnata per aver colposamente assassinato una famiglia di suoi amici, ha solo bisogno di protezione per il figlio accusato di stupro. Non dirà né farà mai più nulla che possa lontanamente infastidire qualcuno al potere. (Dev’essere molto bravo come papà, come usava dire lui di altri personaggi pubblici con problemi famigliari)''
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Il fatto avvenuto a Marina di Bibbona è grave e proietta un' altra ombra cupa sul Beppe Grillo di questa stagione, già assediato da tanti problemi di varia natura. Ieri mattina Francesco Selvi, inviato da Retequattro (la trasmissione di Paolo Del Debbio) a cercare di raccontare l' attuale fase politica del Movimento, ha raccontato di esser stato aggredito e spinto all' indietro dal cofondatore e leader del partito di maggioranza in parlamento, Beppe Grillo, grande sponsor del governo Conte tra M5S e Pd. Selvi è caduto sulle scale dello stabilimento che si trova accanto al "Delfino Blu", sulla spiaggia di Bibbona, e ha riportato una distorsione al ginocchio, come da referto medico. La dinamica della caduta avrebbe potuto avere conseguenze più gravi, visto che è stata all' indietro, di nuca e con il ginocchio girato. In parole povere: un giornalista che stava facendo il suo lavoro, delle semplici domande (che ci siamo fatti raccontare e adesso vi diremo, domande assolutamente legittime e persino tranquillissime, va detto), quando Grillo - oggi considerato ormai un padre nobile dai teorici Dem dell' alleanza M5S Pd - si è spazientito e ha reagito. Il comico-leader era da solo. Selvi anche, stava registrando con il suo telefono, prima che arrivassero i suoi colleghi della troupe, e ci sono due testimoni, dello stabilimento. «Era mattina, io ero a Marina di Bibbona per fare un' intervista a Grillo, stavo aspettando la troupe, l' ho visto al bar e mi sono avvicinato. Era da solo, l' ho visto uscire intorno alle 9,30 dal cancello di casa, l' ho raggiunto e mi sono presentato. Gli faccio una prima domanda sulla politica, lui prende il telefono e me lo butta via. Quindi si spenge la registrazione, io riparto, gli dico che non si può comportare così, riaccendo la registrazione, ma nel momento in cui riaccendo Grillo mi spruzza in faccia questo liquido per pulirsi le mani. E mi tira una spinta. Il problema è che questa spinta mi butta per degli scalini all' indietro, tre, quattro scalini. Per capirci, eravamo sopraelevati, su una specie di palafitta di legno, e il ginocchio a quel punto mi si gira. Potevo tirare una botta con la testa sul legno, per fortuna la testa cade sulla sabbia». Grillo non si è scusato, né preoccupato dell' accaduto: «Se ne' è andato, con il telefono in mano, chiamando qualcuno, forse della sicurezza della villa». Quali erano le domande che Selvi stava facendo? «Gli ho fatto una domanda su quanto possano influire i risultati delle regionali sul governo Conte. Poi chiedevo se Fratelli d' Italia può diventare un avversario dei 5 stelle, eventualmente superarli. Gli ho chiesto dei No mask, se avrebbe fatto il vaccino, visto il suo passato sui vaccini. Tutto qui». Non gli ha assolutamente chiesto della vicenda giudiziaria del figlio: «Volontariamente l' ho lasciata fuori, mi interessava solo la politica, non temi privati». Selvi non ha ancora deciso quale strada prenderà, se ci sarà una denuncia per lesioni: «Non so cosa farò adesso. Ora rimetto a posto il ginocchio. Ma è il gesto, che mi dispiace e fa riflettere. Oggi noi abbiamo un dovere professionale, e chi è dall' altra parte ha il dovere di non utilizzare atteggiamenti autoritari e violenti. Si può non rispondere, ma non scadere in atteggiamenti fisici». Ieri ci sono state le denunce dell' Ordine dei giornalisti e della Fnsi. La condanna indignata dell' episodio da parte della candidata leghista Ceccardi, e una nota del presidente della Toscana, il democratico Enrico Rossi. Silenzio imbarazzante del segretario del Pd.
Domenico Di Sanzo per ''Il Giornale'' il 9 settembre 2020. Grillo dovrebbe chiedere scusa. E questa volta glielo dice pure Gad Lerner, firma del giornale filo-grillino Il Fatto Quotidiano, ex colonna di Repubblica, per anni punto di riferimento giornalistico di quella sinistra che adesso è alleata con i Cinque Stelle, di certo non sospettabile di troppa simpatia per Rete 4 e Paolo Del Debbio, conduttore della trasmissione Dritto e Rovescio per cui lavora il malcapitato cronista mandato al pronto soccorso dall'Elevato. Gad twitta e centra il punto. «L'aggressione di Beppe Grillo al giornalista Francesco Selvi di Rete 4 conferma che dalla violenza verbale alla violenza fisica il passaggio è breve», scrive su Twitter il giornalista. Quindi smaschera l'ipocrisia del comico - politico, che quando la spara troppo grossa si rifugia sempre nella sua veste di saltimbanco. A metà tra il dileggio gratuito e lo sberleffo dell'attore da palcoscenico. Ma questa volta Grillo ha passato il segno. E Lerner gli ricorda che è il fondatore del partito attualmente più numeroso del Parlamento italiano: «Grillo è un uomo di potere. Se per una volta si mostrasse abbastanza umile da chiedere scusa senza fingere di fare lo spiritoso?», conclude il collaboratore del giornale di Marco Travaglio. Una pecora nera, Lerner, in un contesto in cui la maggior parte dei grandi quotidiani ha snobbato la notizia. Ma Gad ne sa qualcosa. Infatti anche lui, a giugno del 2014, è stato vittima della gogna dei grillini sul web. Con tanto di foto segnaletica con gli occhi sbarrati, era finito nella rubrica del Blog «il giornalista del giorno». Colpevole di aver scritto un articolo su Repubblica dove criticava la scelta del M5s di allearsi all'Europarlamento con gli euroscettici britannici guidati da Nigel Farage. Sommerso da insulti volgari e commenti antisemiti da parte dei fans del politico - comico. E però stavolta e diverso. Il giornalista televisivo Francesco Selvi è finito all'ospedale. Pubblica su Facebook la foto del ginocchio gonfio. E scrive: «Il mio mestiere è quello di fare domande. Sempre. E questo vale di più di un semplice ginocchio malandato». Eppure il dolore per la botta si fa sentire. Selvi non ha molta voglia di diventare «il giornalista del giorno», parafrasando la rubrica di Grillo, solo per essere stato spintonato dal fondatore del M5s. «Sono messo un po' male - dice al Giornale - grazie a voi per il titolo di oggi», continua riferendosi al risalto dato alla notizia dal nostro quotidiano. Ci tiene comunque a ringraziare per la solidarietà ricevuta da tanti amici e colleghi che l'hanno chiamato e gli hanno mandato messaggi. «Grazie di cuore», ripete. È la giornata del riposo dopo le ore al pronto soccorso. E anche Grillo preferisce rimanere in silenzio. L'ultimo segnale di vita del comico sui social è la condivisione di un articolo, pubblicato il giorno dell'aggressione sul suo Blog, dove si critica il ruolo dei giornalisti nel racconto della corsa al vaccino contro il Covid. L'autore del pezzo condiviso da Beppe, Andrea Zhok, parla di «deprimente livello propagandistico della quasi totalità dell'apparato mediatico» e di «un'informazione la cui tendenziosità si annusa a un miglio di distanza». Sui social, chi segue Grillo inevitabilmente commenta sullo spintone al giornalista collaboratore di Mediaset. C'è chi insulta, come da tradizione. Ma spunta qualcuno che prova ad accendere il cervello e sbeffeggia il comico. Come l'utente marco neri, che scrive: «Guarda che il M5s non è più quello di quando è nato, ora si è evoluto come dite voi, siete diventati come gli altri, e gli altri partiti non mi risulta picchino i giornalisti».
Alessandro Sallusti per ''il Giornale'' il 9 settembre 2020. L'altro giorno Beppe Grillo ha maltrattato, spintonato, minacciato e mandato al pronto soccorso un giornalista di Rete4 che, su suolo pubblico, aveva osato porgli alcune educate domande di attualità politica. Auguri al collega, vittima di un incidente sul lavoro evidentemente non riconosciuto dai protocolli degli addetti all' informazione e alla politica. La notizia, infatti, è stata riportata dai giornali con poche righe che mettevano addirittura in dubbio che il fatto fosse realmente successo. Questo accade per due motivi. Il primo: picchiare o insultare un giornalista che lavora non solo per Mediaset (presumendolo quindi non di sinistra, in base a uno schema peraltro errato nella sostanza e nei fatti) ma addirittura per Paolo Del Debbio non è reato. Il secondo è che picchiare o insultate un giornalista non è grave in assoluto e neppure in base alle parole usate o al referto medico, ma bensì all' identitá del picchiatore. Se l' insulto o lo spintone, faccio per dire, arrivasse da Trump o da Salvini ecco che scatta l' allarme democratico da titolone in prima pagina con commento sdegnato di Gad Lerner, Roberto Saviano, Marco Travaglio, monito del presidente della Repubblica e dibattiti in tv. Se il fetentone è invece il leader del partito che regge la maggioranza di sinistra, che regge un governo nato per impedire al centrodestra di vincere le elezioni, ecco che la cosa non ha alcun risalto, anzi deve essere rimossa il prima possibile per non disturbare il manovratore. Povera, e serva, la categoria dei giornalisti, e povero Grillo, un teppistello che una volta faceva ridere e oggi fa pena. La pena che si prova per gli ipocriti e gli arroganti. Per quanti giornalisti meni Grillo non è pericoloso, è solo un piccolo uomo che con la forza del ricatto gode di grandi protezioni. È possibile che a oltre un anno dai fatti, ancora la magistratura non abbia deciso se suo figlio ha violentato o no una giovane ragazza finita nel suo letto in una delle sue tante ville? Dove sono i giornalisti d' inchiesta, i commentatori giustizialisti e moralisti, i difensori dell' onore e della dignità delle donne? Per la presunta violenza del figlio di Grillo (mi auguro sia in grado di dimostrare la sua innocenza) non c' è fretta di giudizio, per la violenza di Grillo padre su un giornalista non c' è inchiesta giudiziaria (dove è l' obbligatorietà dell' azione penale per fatti noti?) né distanziamento politico. Dimenticavo: il ministro della giustizia si chiama Bonafede. Bona o Mala?
Luca Sablone per ilgiornale.it l'11 settembre 2020. Adesso spuntano le immagini che incastrano Beppe Grillo: nel corso della trasmissione Dritto e rovescio in onda su Rete 4, è stato trasmesso il video esclusivo relativo all'aggressione del fondatore del Movimento 5 Stelle ai danni di Francesco Selvi. Come si apprende dal filmato reso pubblico, il comico genovese non ha affatto gradito il tentativo di un'intervista: l'inviato si era tranquillamente avvicinato e presentato per chiedere un'opinione riguardo Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia. Una situazione apparentemente innocua agli occhi di tutti tranne che a quelli del garante del M5S il quale, probabilmente agitato e innervosito per il momentaccio dei grillini a livello nazionale e locale, ha tirato una "violenta spinta" facendo così cadere Selvi. La reazione di Paolo Del Debbio è stata furiosa: il conduttore ha definito Grillo un "poveraccio, ignorante, e corruttore di costumi", invitandolo a una sfida personale piuttosto che prendersela con il proprio inviato. Il giornalista, sottolineando che Jean-Jacques Rousseau elogiava il buon selvaggio, ha colto l'occasione per sferrare una serie di accuse pesantissime nei confronti di Grillo: "Sei stato un cattivo selvaggio. Sei un corruttore di costumi. Perché ce l'hai con i giornalisti? Fattela con me, a me non fai paura, sei un poveretto. È un problema di ignoranza tua. Poi so che sei particolarmente tirchio...". Pertanto ha esortato il comico a interrogarsi sulla gravità di quanto accaduto: "Mi fai un baffo, il problema è tutto tuo, della tua esistenza e della vita che fai. Quando vuoi attaccare qualcuno, se non c'hai sotto due cogli***, attacca quelli tipo me che sono più forti. Non mi fai nulla, sei veramente un poveraccio". Mediaset gli aveva imposto la regola del silenzio ed è per questo che Selvi si era limitato a postare una foto post pronto soccorso: "Tutto bene solo un ginocchio gonfio. Il mio mestiere è quello di fare domande. Sempre. E questo vale di più di un semplice ginocchio malandato. Grazie ai colleghi e agli amici, tanti e affettuosi". L'inviato ha successivamente aggiunto che il fondatore dei 5S gli ha spruzzato addosso del gel sanificante per poi tirargli una forte spinta: "Sono caduto sulla struttura alla base dei tre scalini di legno, proprio sopra la spiaggia". Le conseguenze sono state un trauma distorsivo al ginocchio e una prognosi di cinque giorni. Ma cosa ne penserà il Movimento 5 Stelle? Al momento dagli ambienti grillini filtra assoluto silenzio. Una situazione che fotografa perfettamente l'imbarazzo provato per l'episodio. Infatti, come riportato da Libero, un pentastellato in via privata si è lasciato andare a un amaro sfogo: "È una storia delicata questa. Un bel casino diciamo". Selvi, prima di approdare a Mediaset, è stato il responsabile della comunicazione del Ministero dello Sport, cioè il braccio destro del ministro renziano Luca Lotti nel governo Renzi. Infine Grillo, incalzato da un collega di Selvi, non ha voluto chiedere scusa.
"Grillo rimuova il rottame del suo Suv dalle montagne di Limone: è un pericolo". Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 da Carlotta Rocci su La Repubblica.it. Il sindaco della località turistica invita il comico ad accollarsi le spese 40 anni dopo l'incidente in cui si salvò lanciandosi fuori dalla Chevrolet. Sono quasi quarant'anni che quella vecchia Chevrolet è abbandonata tra le rocce a Limone Piemonte, al confine tra Italia e Francia. E' la macchina con cui Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, all'epoca comico di fama, ebbe un incidente nel quale morì una famiglia con un bambino di 9 anni. Grillo venne condannato dal tribuanle di Cuneo per omicidio plurimo colposo. Oggi quel relitto, ridotto a un cumulo di lamiere e ruggine, è diventato una meta turistica ma, secondo il sindaco di Limone Piemonte, Massimo Riberi, è troppo pericolosa. "Quello non è un trofeo, sono morte alcune persone - dice - eppure la gente si ferma e in quel punto della strada così stretto, c'è sempre il rischio che qualcuno possa farsi male". Quella macchina è infilata nelle montagne di Limone, dopo una scivolata di 150 metri, all'inizio della via del Sale, dal 7 dicembre 1981. Nell'incidente persero la vita Renzo Giberti, 45 anni, ex calciatore del Geoa, sua moglie Rossana Quartapelle, 33, e il figlio Francesco, di 9 anni. Erano in macchina con Grillo diretti a Baita 2000. La Chevrolet era scivolata sul ghiaccio. Grillo si era salvato lanciandosi fuori dall'abitacolo. Il comico venne assolto in primo grado dal tribunale di Cuneo e condannato in Appello nel 1985 a 14 mesi con la condizionale, condanna confermata in Cassazione tre anni dopo. "Voglio contattare Beppe Grillo per chiedergli di rimuovere quei rottami, credo che ormai sia anche suo interesse - prosegue il primo cittadino - Dopo quarant'anni non c'è ragione perché quell'auto resti lì, quindi cerchiamo di trovare una soluzione per rimuoverla". Il sindaco vuole che sia il comico genovese ad accollarsi i costi della rimozione, un'operazione per nulla semplice visto che le lamiere si sono incastrate nella roccia. "Andranno segate qui sul posto e poi trasportate sulla strada a pezzi - dice ancora Riberi - Ora devo capire come muovermi, contatterò la segreteria di Grillo".
Beppe Grillo e l'incidente mortale in fuoristrada del 1981, il sindaco di Limone Piemonte: "Deve rimuovere il rottame". Libero Quotidiano il 20 luglio 2020. Un pugno allo stomaco per Beppe Grillo. Il sindaco di Limone Piemonte, Massimo Riberi, chiede al fondatore del Movimento 5 Stelle di rimuovere il rottame del fuoristrada Chevolet che Grillo guidava il 7 dicembre 1981. L'allora comico perse il controllo del mezzo e provocò la morte dei 3 passeggeri che erano a bordo, Renzo Gilberti di 45 anni, la moglie Rossana Quartapelle di 33 e il figlio di 9 anni. Un dramma che ha segnato la vita privata del guru, condannato in Appello e Cassazione a 14 mesi con sospensione condizionale. Da quel giorno, quel che resta della macchina (depredata dagli sciacalli in tempo record) è rimasto nella scarpata ed è finito al centro di un pellegrinaggio macabro: "Non è un trofeo da mostrare ai turisti - incalza il sindaco della località alpina in provincia di Cuneo -. Tanti continuano a fermarsi, per scattare fotografie come fosse un'attrazione. Invece bisogna avere rispetto delle persone che sono decedute in quella tragedia. Proverò a contattare Beppe Grillo, per collaborare insieme, trovare una soluzione condivisa e rimuovere definitivamente i resti del veicolo". "Niente di personale con Beppe Grillo - chiarisce Riberi -, capisco che sia difficile per lui ricordare, ma ritengo che vadano rimossi per sempre, mettendo la parola fine a quella terribile vicenda".
"Rimuovo io gratis la carcassa del Suv di Grillo dalle montagne di Limone". Pubblicato martedì, 21 luglio 2020 da Carlotta Rocc su La Repubblica.it. "Rimuovo io gratis la carcassa del Suv di Grillo dalle montagne di Limone". Un demolitore d'auto di Sanremo chiama il sindaco della località turistica. Si fa vivo anche il comico: pronto a pagare. La Chevrolet dell'incidente per cui Beppe Grillo venne condannato per omicidio plurimo colposo sarà rimossa dal dirupo dove è finita quasi quarant'anni fa a Limone Piemonte. "Sarà rimossa la prossima settimana", spiega il sindaco di Limonte Massimo Riberi. Ci penserà un'autodemolitore di Sanremo che è disposto a fare il lavoro gratuitamente. Ieri il sindaco ha ricevuto un messaggio da Beppe Grillo in persona. Il comico ha detto di non avere nulla in contrario alla rimozione di quelle lamiere che lo hanno riportato a una pagina buia della sua storia quando, nell'incidente del 7 dicembre 1981, morirono il suo amico, ex calciatore del Genoa Renzo Giberti, 45 anni e la famiglia: la moglie Rossana Quartapelle, 33, e il figlio Francesco, di 9 anni. "Mi ha scritto un messaggio con il suo numero di telefono così l'ho richiamato. E' stato molto disponibile - spiega il sindaco - E anzi era dispiaciuto di dover tornar su questa triste vicenda" Il comico e fondatore del Movimento 5 Stelle si è detto disponibile ad accollarsi i costi dell'opera di rimozione. Ma subito dopo è arrivata la proposta dell'autodemolitore ligure. "Mi ha chiamato anche lui ieri dicendo di volerlo fare perché quella era stata una vicenda triste dove erano morte delle persone e ha detto di essere contento se poteva in qualche modo contribuire a scrivere la parola fine a quella tragedia". La richiesta del sindaco di Limone era arrivata in questi giorni per il timore che quei rottami rimasti a circa 100 metri dalla via del Sale e diventati una meta turistica per foto e selfie creassero un pericolo. "Nulla di persona con Grillo", aveva specificato subito Riberi che aveva cercato il comico tramite la sua segreteria. Il clamore della notizia sui giornali ha fatto più in fretta e Grillo si è fatto vivo.
MATTEO BORGETTO per la Stampa il 20 luglio 2020. «Fatelo pure togliere e se c'è da pagare qualcosa, nessun problema, ci penso io». La telefonata, il sindaco di Limone Massimo Riberi l'ha fatta ieri alle 18,30, dopo aver ricevuto un messaggio su Whatsapp: «Sono Beppe Grillo, questo è il mio numero». E ha subito contattato il comico, che cercava fin dal mattino, per spiegargli il caso sollevato ieri da La Stampa sulla necessità di rimuovere un vecchio telaio di ferro e ruggine abbandonato da quasi quarant' anni in una scarpata dell'Alta Via del Sale, sopra Limone. Quello che rimane della Chevrolet del famoso incidente avvenuto il 7 dicembre 1981, quando il futuro fondatore del Movimento 5 Stelle era conosciuto solo come comico e attore, e nel quale persero la vita tre persone. Il primo cittadino vuole cancellare quella triste pagina di storia e ha deciso di contattare Grillo. «Il rottame attira troppa gente in un punto dove è facile scivolare e farsi male - ha spiegato Riberi -, ma soprattutto, quello non è un trofeo da mostrare ai turisti. Bisogna avere rispetto per le povere persone coinvolte nella tragedia». Quel giorno Grillo era alla guida del suo nuovo fuoristrada, in compagnia di un gruppo di amici dei quali era ospite a Limone. Dopo pranzo, stavano facendo una gita verso "Baita 2000", lungo l'ex via militare in quota tra Italia e Francia, quando il Suv iniziò a scivolare all'indietro sulla sterrata ghiacciata, colpì la roccia Cabanaira sulla parte posteriore e precipitò in avanti. Grillo riuscì a salvarsi e uscire illeso, lanciandosi fuori un istante prima che la vettura finisse nel vuoto, ma a bordo rimasero intrappolati e morirono gli amici: l'ex calciatore del Genoa, Renzo Giberti, 45 anni, sua moglie Rossana Quartapelle, 33, e il figlio Francesco, un bambino di 9. Assistito dall'avvocato Gianni Vercellotti di Cuneo, Grillo fu assolto in primo grado, poi condannato per omicidio plurimo colposo, in Appello (1985) e Cassazione (1988), a 14 mesi con sospensione condizionale della pena. Quasi quattro decenni dopo, quella ferraglia era ancora lì, a ricordare l'accaduto. E non erano pochi i turisti, frequentatori dell'Alta Via del Sale, che si fermavano in quel punto per riprendere, con foto e video, il macabro reperto. Tutto sistemato ieri, con una telefonata. «Gli ho spiegato che voglio mettere per sempre la parola fine alla vicenda, riemersa in questi giorni - dice Riberi -. Lui è stato molto gentile, disponibile e comprensivo. Mi ha riferito che gli era dispiaciuto molto ricordare quel terribile episodio, avvenuto tanti anni fa, e mi ha subito invitato a procedere con la rimozione, garantendo che si accollerà le spese». Non sarà necessario. In mattinata, Riberi ha ricevuto un'altra telefonata, da parte di un autodemolitore di Sanremo, disposto a intervenire gratis per asportare le lamiere dal burrone e conferirle in discarica. «Lo faremo al più presto - conclude il sindaco -. Sono contento che Grillo abbia capito che non c'era nulla di personale. Spiace avergli riportato alla mente una tragedia che l'ha segnato profondamente. Tutto risolto per il meglio, e con buonsenso».
Matteo Borgetto per ''La Stampa'' il 7 agosto 2020. Non lo cita mai con nome e cognome. Per lei, Beppe Grillo è «l'uomo che guidava la macchina». Un fuoristrada Chevrolet precipitato nel primo tratto dell'Alta Via del Sale a Limone Piemonte, sulle Alpi Marittime del Cuneese, il 7 dicembre 1981, quando il futuro fondatore del Movimento 5 Stelle era conosciuto solo come comico e attore. Nell'incidente, Grillo riuscì a salvarsi lanciandosi nel vuoto, poco prima che l'auto si schiantasse tra le rocce. Morirono sul colpo tre suoi amici: l'ex calciatore del Genoa, Renzo Giberti, 45 anni, la moglie Rossana Quartapelle, 33, e il figlio Francesco, un bambino di nove. A distanza di 39 anni, ieri mattina, e per la prima volta, ha visitato il luogo della tragedia Cristina Giberti, figlia e sorella delle vittime. Ad accoglierla il sindaco, Massimo Riberi, che alcune settimane fa ha deciso di far rimuovere il relitto, sia per motivi di sicurezza (troppi frequentatori della strada si fermavano in quel punto pericoloso, per fotografie e video), ma soprattutto per una questione morale: «Quello non è un trofeo da mostrare ai turisti - così il primo cittadino - bisogna avere rispetto, e pena, per le persone coinvolte». Arrivata da Como con il marito, Cristina ha assistito, più volte in lacrime, alle operazioni di recupero e ha sistemato una targa accanto alla lapide che all'epoca, fu installata dai suoi familiari, sotto un grande sperone di roccia, vicino al burrone della caduta della Chevrolet. «Cari mamma, papà e Francesco - ha scritto -. Il destino vi ha portati via troppo presto. Qui, dove avete passato gli ultimi istanti della vostra vita, lascio un messaggio di amore eterno. Sarete sempre i miei angeli. Proteggeteci. Vi porterò sempre con me. La vostra Cristina». Quel giorno, quando aveva solo 7 anni, si fermò a casa di un'amichetta a Limone, mentre i genitori e il fratellino maggiore erano saliti a bordo della jeep di Grillo. «Il destino ha voluto così, altrimenti ora sarei laggiù con loro - ha detto la donna, accarezzando una parte della fiancata demolita -. Cerchi di creare uno scudo, dimenticare, non l'ho mai raccontato ai miei figli. Ma è una cosa che ti porti dentro il cuore tutta la vita». Vale anche per «l'uomo che guidava» e che «in tutti questi anni non si è mai fatto vivo. Non voglio dargli una colpa, anche se sicuramente avrà qualche colpa. Gli avrei solo parlato: è stato l'ultimo a vederli». Assolto in primo grado, Grillo fu poi condannato per omicidio plurimo colposo in Appello ('85) e Cassazione ('88), a 14 mesi con sospensione condizionale della pena. Quattro decenni dopo, quel cumulo di lamiere era ancora lì, a ricordare. Artigiani e carrozzieri di Robilante e Roccavione l'hanno recuperato in 5 ore con il verricello di un telescopio. Trasferito a valle, presto andrà in demolizione. Mille euro di spesa. Pagherà Beppe Grillo. «Lo ringrazio - ha concluso il sindaco Riberi -. Oggi abbiamo davvero messo la parola fine a una pagina drammatica della storia di Limone. E ci affidiamo al buon Dio per l'anima delle vittime».
Beppe Grillo, l'incidente in cui morirono tre persone: i segreti svelati di una tragedia. Filippo Facci su Libero Quotidiano ( e Dagospia) il 22 luglio 2020. Fa abbastanza schifo che nel luglio 2020 si debba tornare su questa vecchia storia, a ciclica dimostrazione che per i personaggi famosi un diritto all'oblio non esiste. «L'immagine spaventosa di quel che è accaduto a Limone Piemonte non mi abbandonerà mai», disse Beppe Grillo nel 1984. E non sapeva che si sarebbe buttato in politica, coi giornalisti pronti a perseguitarlo proprio per quell'immagine. Parentesi personale: la prima volta che ne accennai sul Giornale fu nel luglio 2007, quando il comico non aveva ancora fondato un movimento politico; poi ci tornai sopra in settembre, e, nei dettagli, nell'aprile 2008, anche perché Grillo proponeva di cacciare i parlamentari condannati e quindi non avrebbe potuto candidarsi lui medesimo, perché, appunto, aveva avuto un incidente alla guida della sua Chevrolet ed era stato condannato per omicidio colposo, un triste episodio che Grillo avrà senz' altro patito e che a nostro dire non dovrebbe precludere nessun diritto civile: ma l'intransigenza era tutta sua, perché nell'elenco del parlamentari da cacciare, nel 2008, c'era gente condannata per reati anche più modesti di un omicidio colposo: resistenza a pubblico ufficiale, abuso d'ufficio, abuso edilizio, persino diffamazione a mezzo stampa. Poi nel febbraio 2013 la storia tornò fuori (c'erano in ballo delle elezioni) perché 32 anni dopo il fatto, sulla rivista Vanity Fair comparve un'intervista alla bambina che ai tempi era rimasta orfana dei genitori morti nell'incidente; ora aveva 39 anni e sparlava di Grillo: da lasciare perplessi anche i più fieri oppositori dei Cinque Stelle. Lei, Cristina, l'orfana, disse alla rivista che «non cerco nulla, se non la verità»: anche se era stata sviscerata in tutti i modi. Disse «mi rifiuto di essere strumentalizzata dalla politica», ma sembrava lì apposta. Disse che voleva incontrare Grillo, anche a nome della sua famiglia morta. Disse «non amo parlare di me» e, mentre tornava sull'argomento, disse che non voleva tornare sull'argomento. Perché è così, la macchina non si ferma mai. Grillo è un personaggio pubblico e non ha diritto a «non restare indeterminatamente sposto ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione può arrecare». Dunque rieccoci, luglio 2020. L'altro giorno La Stampa ha raccontato che il sindaco di Limone Piemonte voleva contattare Grillo per via della necessità di rimuovere la carcassa della famosa Chevrolet Blazer abbandonata da quarant' anni nella scarpata dell'Alta Via del Sale. Un rottame che attira troppa gente in un punto pericoloso. Grillo ha già risposto, pare: «Fatelo pure togliere, e se c'è da pagare qualcosa, nessun problema, ci penso io». Il risultato è che Grillo ci pensa, e noi scriviamo: perché c'è lo spunto di cronaca, perché qualcuno magari non sa, non ricorda, è giovane, quindi dobbiamo compiere l'operazione un po' ipocrita di raccontare tutta la storia da capo, non omettendo dettagli di norma taciuti. Il 7 dicembre 1981 (e non 1980, come erroneamente scrisse il blog di Grillo) il comico allora 33enne era a Limone Piemonte ospite di amici, i Giberti. C'era il 45enne Renzo, vecchio sodale, ex calciatore del Genoa, sua moglie Rossana Guastapelle, 33enne, e i figli Francesco di 9 e Cristina di 7. Dopo pranzo decisero di andare a godersi qualche ora di sole a Col di Tenda, a quota duemila, dove c'era una baita (Baita 2000) raggiungibile da una strada stretta e non asfaltata. Col di Tenda era un'antica via romana, tra la Francia e la Costa ligure, che per secoli era stata attraversata da eserciti e mercanti: in pratica una sterrata militare che porta ad antiche fortificazioni belliche. L'idea fu di Grillo, e pazienza se la strada era rigorosamente chiusa al traffico perché pericolosa. La Range Rover di Giberti aveva problemi e non partiva. La Chevrolet di Grillo era nuova, ma quel viaggio fu comunque una follia: era una strada d'alta quota non asfaltata, e non per caso altri amici - e un'opportuna segnaletica - l'avevano vivamente sconsigliato. È tutto agli atti. Grillo pensava di potercela fare. A poche centinaia di metri dall'arrivo, il cane iniziò ad abbaiare, così Carlo e Monica scesero per fargli fare una passeggiata. Lo schianto è di poco dopo: la strada divenne un lastrone di ghiaccio e l'auto iniziò a scivolare all'indietro, urtò una grossa roccia, ruotò e precipitò nel burrone. Il comico si lanciò d'istinto fuori e si salvò. I Giberti e il figlio morirono. L'amico Mambretti si salverà dopo una lunga degenza. Sconvolto, Grillo si rifugiò nella casa di Savignone che divideva col fratello. Il processo di primo grado fu nel 1984. Emblematico l'interrogatorio in aula: «Quando si è accorto di essere finito su un lastrone di ghiaccio con la macchina?»; «Ho avuto la sensazione di esserci finito sopra prima ancora di vederlo»; «Allora non guardava la strada». Il 21 marzo, dopo una lunga camera di consiglio, Grillo venne assolto dal tribunale di Cuneo con formula dubitativa, la vecchia insufficienza di prove: questo dopo aver pagato 600 milioni alla piccola Cristina di 9 anni, unica superstite della famiglia Giberti. La metà dei soldi - una cifra enorme, per l'epoca - furono pagati dall'assicurazione: «La stampa locale, favorevolissima al comico, gestì con particolare attenzione la fase del risarcimento» ha raccontato un collega genovese. Il Secolo XIX, quotidiano locale, s' infiammo con un lungo editoriale a favore dei giudici e dell'avvocato difensore, ma l'entusiasmo fu di breve durata: l'accusa propose Appello e venne fuori la verità, ossia le prove: il pericolo era stato prospettato anche da una segnaletica che nessun giornalista frattanto era andato a verificare. La strada in effetti era chiusa al traffico. La Corte d'Appello di Torino, il 13 marzo 1985, lo condannò a un anno e quattro mesi col beneficio della condizionale, ma col ritiro della patente: «Si può dire dimostrato, al di là di ogni possibile dubbio, che l'imputato, risalendo la strada da valle, poteva percepire tempestivamente la presenza del manto di ghiaccio (...). L'esistenza del pericolo era evidente e percepibile da parecchi metri, almeno quattro o cinque, e così non è sostenibile che l'imputato non potesse evitare di finirci sopra», sicché l'imputato «disponeva di tutto lo spazio necessario per arrestarsi senza difficoltà», ma non lo fece, anzi, decise «consapevolmente di affrontare il pericolo e di compiere il tentativo di superare il manto ghiacciato. Farlo con quel veicolo costituisce una macroscopica imprudenza che non costituisce oggetto di discussione». Non andrà meglio in Cassazione, l'8 aprile 1988: pena confermata nonostante gli sforzi dell'avvocato Alfredo Biondi, poi inserito da Grillo nella lista dei parlamentari condannati e dunque da epurare; sua colpa, un reato fiscale depenalizzato e sostituito da un'ammenda. Ma per Alfredo Biondi, almeno, il diritto all'oblio esiste di sicuro: è morto 29 giorni fa.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 21 luglio 2020. Le migliori teste del ministero della Giustizia hanno accertato l'inefficacia dell'introduzione del reato di omicidio stradale. O meglio, è efficace perché i pirati stanno in galera di più, ma non lo è perché i casi di pirateria non calano. La riforma è del 2016, una di quelle marce trionfali dell'unanimità parlamentare (tranne sporadici dissensi) che trova una formidabile applicazione quando c'è da menare sui poveracci. Prima del 2016, a provocare morti al volante si rischiavano sino a dodici anni, poi diciotto. Ricordo i petti gonfi per la civiltà della norma (io vivrò in un altro mondo, ma continuo a non capire l'utilità del carcere agli automobilisti sconsiderati) e per le luminose prospettive della deterrenza, e sebbene esista una regola immutabile: aumentare le pene non ha mai diminuito i reati. E infatti in quattro anni non è cambiato nulla. Quindi? Facile. Sotto la cogitabonda direzione del ministro Bonafede, si è deciso che, se l'inasprimento delle pene non ha funzionato, bisognerà inasprirle un po' di più. Si arriverà a suggerire il taglio delle mani, ma intanto La Stampa ha pubblicato la notizia della carcassa dell'auto di Beppe Grillo abbandonata da quarant' anni in uno strapiombo, e nella quale morirono un amico dell'allora giovane comico con la moglie e il bimbo di nove anni. Grillo si era avventurato su un sentiero montano in cui c'era divieto di transito, e la grave imprudenza gli è costata un anno e quattro mesi, con la condizionale, secondo un codice non ancora barbarico. Mi dispiace quando per quella tragedia Grillo viene chiamato assassino, di certo piacerà a lui di non essere stato giudicato con la ferocia degli Onesti.
Anche Beppe Grillo soffre la crisi, alzato il "prezzo" delle interviste: si parte da 10mila euro. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Anche Beppe Grillo soffre la crisi. Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha infatti rialzato il prezziario delle su interviste: il comico genovese già da tempo infatti per ogni intervento su giornali, tv e radio chiede denaro, cifre ritoccate dopo l’emergenza Covid. Nell’annunciarlo sul proprio sito ufficiale Grillo ricorre all’ironia e spiega che non apprezza “strani appostamenti ed inseguimenti spiacevoli”, per questo mette nero su bianco i prezzi per interviste e foto per l’anno in corso e per il 2021. Si parte dalle interviste scritte con domande via mail: qui si passa da 1000 a 2000 euro a domanda, con un minimo di 5. Per le interviste a giornali e riviste il garante del Movimento 5 Stelle il costo schizza da 1000 a 5000 euro, questa volta a minuto, per un minimo di otto. Infine le interviste televisive, in radio o per le web tv-radio: qui il listino passa dai 2000 ai 1000 euro, sempre per un minimo di 8 minuti. Il tutto, spiega la brochure, iva esclusa. Capitolo a parte quello dedicato alle foto del fondatore dei pentastellati. Anche qui il listino è molto chiaro: 10mila euro per un profilo viso, 15mila euro per l’interno. La foto frontale di Beppe arriva a costare 20mila euro, mentre una con “espressione” ne vale 30mila. Visti i tempi c’è anche la variante con mascherina, alla quale si applica un “grillobonus del 10% di sconto”.
Grillo hai ragione, non vi meritiamo. Marcello Veneziani, La Verità 18 luglio 2020. Caro Grillo, hai ragione a dire alla tua sindaca, Morticia Raggi, che i romani non se la meritano. È troppo per loro. Romani carogne tornate nelle fogne, anziché costringere le fogne, come è accaduto con la Raggi, ad andare da loro, topi inclusi. Hai tanta ragione a dirlo che estenderei la tua saggia osservazione all’Italia intera e al Movimento intero: è vero, noi italiani non ci meritiamo i grillini al potere. Non ci meritiamo Conte e non ci meritiamo Casalino, non ci meritiamo Di Maio e non ci meritiamo Crimi, non ci meritiamo Bonafede e non ci meritiamo Toninelli e lo sciame grillino nelle istituzioni. Ma soprattutto non ci meritiamo te, Beppe Grillo. Sei troppo per noi. Siamo – è vero – un popolo istrione, gigione, con tendenza alla buffoneria, ma un Guitto di mestiere alla guida occulta della Repubblica, come presidente-ombra o regista del potere, non ce lo meritavamo. Troppa grazia. È curioso che tu, proprio tu che sei stato così generosamente beneficiato, adotti ora l’argomento tipico di chi detesta i responsi elettorali: se un sindaco o un governante non funziona per una città o per un popolo, allora bisogna cambiare i cittadini o i popoli, non certo il sindaco o chi governa. Lo diceva Bertolt Brecht, lo pensi pure tu. E quando i grillini si scopriranno quarto partito italiano si trincereranno in questa posizione aristocratica da marchese del grillo: gli italiani non ci meritano. Si che non vi meritiamo, che abbiamo fatto così di male per meritarvi? Non bastava già meritarsi quella sottospecie di sinistra, quella specie di destra, quella sottospecie di progressisti, quella specie di moderati, abbiamo compiuto crimini così gravi da meritarci addirittura pure voi, i grillini? Avevamo già il dramma di una classe dirigente che rispecchiava il popolo italiano con tutti i suoi vizi e i suoi limiti; ora siamo riusciti ad avere una classe dirigente perfino peggiore della plebe nazionale, della media italiana, anche nell’istruzione media. A volte, quando vi vedo insieme nelle ricostruzioni dei media, ho l’impressione che siete un po’ come il remake nostrano degli Addams. Oltre Morticia Raggi, c’è lui, Gomez Addams, col fazzoletto nel taschino e il ciuffo vanesio. Alle sue spalle c’è l’inquietante maggiordomo, Lurch Casalino. C’è il piccolo degli Addams, Di Maio, c’è Ofelia Bonafede e Mercoledì Azzolina. Tu sei lo zio Drago, meglio noto come Zio Festen. E Casaleggio è Mano, la mano inquietante a cui non corrisponde un volto che muove la piattaforma Addams. Avete portato sicuramente un’altra aria nelle istituzioni, nella politica, nello stile, eravamo abituati a pessimi standard ma siete riusciti a stracciarli tutti, a fare peggio di tutti i peggiori predecessori, con un danno di sostanza e d’immagine che non ha precedenti. Dopo di voi al governo ci possono andare solo i Pokemon, una volta usciti dalla logica anche qui infima degli umani. Per tentare un’analisi culturale, ma senza discostarsi dal genere grottesco, si potrebbe dire che la vostra ideologia, la vostra fenomenologia, anzi il vostro fenotipo, si riassume in una figura: il Superometto di massa. Vi spiego i precedenti per capirci. Il Superuomo, come non sapete, fu il sogno di Friedrich Nietzsche; l’uomo superiore avrebbe dato senso della terra, dopo la morte di Dio e si sarebbe contrapposto all’ultimo uomo. Qualcuno legge il Superuomo come l’Oltreuomo e non come Superman: cioè un essere che sa andare oltre l’umano senza per questo essere malato di titanismo e avere poteri speciali. Il vostro avvento al potere segna invece il trionfo di una nuova specie transumana, l’ultimo uomo con pretese da superuomo, l’uomo della strada e dell’autostrada, il leone da tastiera, l’Ignorante Universale, l’Incapace per definizione, inesperto di tutto, che andando al potere, viene preso dal delirio d’onnipotenza. Siamo gente comune, come voi, ma al potere diventiamo speciali. Il superometto abolisce la povertà, bonifica lo Stato, punisce il Drago cattivo Benetton, guida governi che ci invidiano, ci copiano e ci elogiano in tutto il mondo – come indossiamo noi la pandemia non l’indossa nessuno – siamo i migliori del pianeta, cinesi e americani fanno a botte per fidanzarsi con noi (ecco la vera causa del loro conflitto). Ci sono narratori cinque stelle – c’è un fregno buffo che si chiama Perilli se non sbaglio, tanto per citare un campioncino tra tanti – che raccontano agli italiani i miracoli e le meraviglie dei grillini. Avete visto come abbiamo liquidato Benetton? Ammazza, che liquidazione… Insomma rappresentavano i laqualunque, ora sono i fenomeni. Come chiamare questa trasmutazione se non l’avvento del superometto di massa? Al superuomo di massa si dedicò Umberto Eco e sarebbe stato divertente vederlo ora alle prese con un governo grillosinistro e vedere come lo avrebbe giustificato per salvarci dall’Ur-Fascismo. Siamo a una beffa della storia, al superometto di massa, la cui ideologia online è il superomettismo. Prendete Di Maio che sembra uno di quegli ominarelli piovuti dal cielo come nei quadri di Magritte, gli manca solo la bombetta: lui è la rappresentazione plastica del superometto di massa. Ma meglio di lui è l’avvocaticchio che fa lo statista, il superometto perfetto che sentendosi super chiede poteri speciali. E l’avvento del superomo al potere e in tv, ora che la legge dichiarerà reato nominare invano gay e trans, non è la trans-azione che unisce i quaquaracquà della sinistra e i superometti grillini? Noi umani e romani avevamo solo i Cesari, i Papi, i santi e gli artisti, non ci meritiamo i superometti grillini e le superdonnette coi Raggi laser per distruggere Roma. MV, La Verità 18 luglio 2020
Il mistero Beppe Grillo: il distruttore diventato stabilizzatore del sistema. Susanna Turco il 10 luglio 2020 su L'Espresso. Il simbolo dell'era del V-day oggi è l'elemento chiave per la tenuta di governo, maggioranza e 5 Stelle. Mentre va avanti nel silenzio la delicata indagine giudiziaria che riguarda suo figlio. Inchiesta sul leader da cui dipende la politica italiana. Le vite nuove cominciano un giorno preciso: quando meno te l’aspetti. Quella di Beppe Grillo è iniziata nei giorni in cui compiva 71 anni, 12 mesi fa, occasione per la quale Luigi Di Maio vergò su Facebook gli auguri: «Ci saranno alti e bassi, ma se stiamo uniti nessuno ci fermerà». Profezia ben oltre le intenzioni, come spesso accade. È fine luglio, fatidica estate del 2019. Quella di uno dei più rocamboleschi ribaltoni dell’Italia repubblicana: con Matteo Salvini mandato improvvisamente a casa, e con il sorgere del governo giallorosa, M5S e Pd, al posto del governo gialloverde, con la Lega. È anche il suo di ribaltone: quello di Beppe Grillo, non ancora perfezionato ma in quel momento a una svolta, non la più spensierata. Dopo una vita passata sui palchi, dopo un decennio di Vaffa, il co-fondatore, l’Elevato dell’M5S, si trasforma in quello che sin lì non era mai stato: un pacificatore. Un creatore di nuovi governi, addirittura uno stabilizzatore del sistema. E come mai? Potenzialmente, a volerla guardare avanti, c’è chi sostiene che il suo prossimo sogno sia battezzare un nuovo contenitore di centro sinistra, dove sciogliere in qualche modo Pd e Cinque stelle. Magari partendo da laboratori come quello di Milano, dove i grillini sono sempre stati deboli e il buon rapporto con il sindaco Beppe Sala non è un segreto da un pezzo; ma, insieme, tenendo fermo - immobile - il quadro nazionale. Una staticità mai vista nel comico genovese, ma ormai indubbia. Tutti i suoi ultimi interventi sono nel segno del sopire, troncare: rinviare l’elezione del nuovo capo dei Cinque stelle, gli Stati generali, smorzare le alzate di testa. La linea resta una, persino monotona: avanti con Conte e avanti con il Pd. Non più i vaffanculo, gli occhi strabuzzati, le grida sputazzanti, i pernacchi, le invettive, gli insulti, gli arroccamenti. Ma neanche quel progressivo distacco dell’uomo «stanchino», che fa il «passo di lato», celebrato fino a pochissimi giorni prima del maturare della svolta, nel luglio 2019. Svolta politica: perché ha visto l’alleanza con il partito democratico, quelli chiamati per anni «pdioti» o «partito dei morti». Svolta personale: perché di quel passaggio, di quell’alleanza che ha portato al Conte bis proprio Grillo è stato protagonista. Un passaggio impresso nelle menti di chi si occupa della materia: «L’ultima volta che, in estate, Beppe Grillo ha detto la sua, ha cambiato la storia politica dell’Italia. Ha fatto andare di traverso il mojito a Salvini e ha battezzato il governo M5S-Pd», sintetizzava la Stampa pochi giorni fa. Ecco la svolta. Per raccontare il Grillo di oggi, bisogna riavvolgere il nastro e tornare al Grillo di ieri, quello di un anno fa. In un momento preciso. Quando l’uomo che soltanto il 24 luglio del 2019 gridava che il Movimento l’aveva «tradito», per via del voto sulla Tav, diventa l’uomo che quindici giorni dopo, il 10 agosto, apre all’alleanza con il Pd, e appena dopo Ferragosto convince tutti i big del partito a chiudere l’alleanza coi «pidioti». Spiegando che siamo in un «momento magico, strano, tragico». Tragico fino a che punto? Riavvolgiamo il nastro.
Tempio Pausania è una cittadina sarda di 14 mila abitanti nel cuore della Gallura, sotto al monte Limbara, un posto che si raggiunge accumulando curve e dove d’inverno nevica, del tutto trascurato dalle cronache mondane che da decenni si occupano soltanto di quel che avviene giù, sulla Costa Smeralda. La terra dell’Aga Khan, dei miliardari, dei calciatori, dei russi, dei ricchi, degli ex presidenti del consiglio. Eppure, tutto quello che accade giù, ai piedi di Tempio Pausania, per un verso o per l’altro finisce per passare quassù. Anime e corpi. Già dall’Ottocento sede vescovile. E sede del Tribunale, un cubo grigio lucido di fronte a campi di calcetto. Qua, stretto tra il granito e le vecchie carceri rotonde, modello Ventotene, c’è la Procura dove da un anno giace un delicatissimo procedimento che riguarda una studentessa milanese di 19 anni e quattro ragazzi della Genova bene che lei ha denunciato per stupro. Uno dei quattro è Ciro, figlio diciannovenne di Grillo, gli altri tre sono suoi amici: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I quattro, secondo la denuncia, avrebbero violentato la ragazza, mentre per la difesa si è trattato di rapporti consensuali, alla fine di una serata al Billionaire, nella casa di Grillo al Pevero, proprio sopra al Golf Club, un residence lussuosissimo fatto di villette curate fino alla claustrofobia, tra le rocce in granito della baia accanto a Porto Cervo.
L’intera delicatissima faccenda, il cui solo accenno farebbe aleggiare su tutti il fantasma del caso Montesi - che scosse la politica italiana nel lontano 1953 -, rimane completamente taciuta per l’intera estate. Risale al 16 luglio, viene stampata su un giornale proprio nel giorno del giuramento del nuovo governo, la sera del 5 settembre.
Ma, poiché la vita cambia le carte in tavola senza preavviso e senza rispetto per i confini, accade tuttavia che intrecci cronologicamente l’intero periodo della crisi politica, senza mai comparire. I fatti risalgono al 16 luglio, si diceva, la denuncia al 26: viene presentata a Milano, ai carabinieri del centro, dopo che la ragazza ha raccontato tutto ai genitori, entrambi manager, e anche previo consiglio di amici. Già a fine luglio il fascicolo viene trasferito a Tempio Pausania, per competenza, dove lo stesso procuratore capo, Gregorio Capasso, interrompe le ferie per affiancare la pm titolare, Laura Bassani. Tutto viene svolto molto rapidamente. Già dall’inizio dell’anno in Procura, dove Capasso ha trasferito le prassi già messe in piedi quando era procuratore a Latina, si applicano i protocolli del codice rosso, provvedimento che invece, approvato a fine luglio, entrerà in vigore solo il 9 agosto. Ma che in qualche modo qui si applica già. È dalla fine di luglio, dunque, che i magistrati avviano gli atti dell’inchiesta, a partire dall’identificazione degli indagati.
In quei giorni di fine luglio, Grillo è lontanissimo dal Movimento. Arrabbiato, furioso. Il 23 è arrivato da Giuseppe Conte il via libera alla Tav, sconfessione di anni di lotte: «Sono molto scontento», scrive il comico. A scorarlo c’è poi l’astrusa invenzione, lanciata da Luigi Di Maio, del «mandato Zero», alla quale reagisce in modo a dir poco caustico: con un tweet di parafrasi alla canzone di Julio Iglesias “Se mi lasci non vale” nella quale accusa il capo politico del Movimento né più né meno che di poltronismo («il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio, di andarmene a casa non ho proprio il coraggio»). Il 29 luglio il Corriere della Sera, per dire dell’umore del comico, scrive che «per l’anno che verrà il fondatore del Movimento sta pensando a un ulteriore impegno, uno spettacolo da portare in scena nei prossimi mesi. Uno show pungente in cui prenderà di mira tutti, compresi i pentastellati». È il segno di un quasi strappo. Che poi però si ferma. Dieci giorni dopo, appena si apre la crisi di governo, Grillo torna sulla tolda di comando, come non ci era mai stato, negli ultimi tre anni almeno. E ci torna come un che non abbia mai pensato di andarsene - quando invece ci aveva pensato eccome. «Sopravviviamo», è la parola d’ordine del post del 10 agosto, con il quale dal suo blog Grillo anticipa la successiva mossa del cavallo, liberando i Cinque stelle dal dovere della coerenza di continuare a stare con Salvini. Tutto può cambiare, nella vita. «Il Movimento è biodegradabile, ma questo non significa che siamo dei kamikaze», «se dobbiamo fare dei cambiamenti facciamoli subito»: «Mi eleverò per salvare l’Italia dai barbari». I barbari sarebbero appunto il leader leghista, fino al giorno prima alleato di governo, adesso da buttare a mare. Per la sopravvivenza, appunto. Fare un governo, qualunque, «altro che elezioni». Il Secolo XIX lo celebra: «Solo Beppe Grillo poteva salvare il M5S da se stesso, da i suoi principi antichi o recentissimi, da una tattica fallimentare. Perché solo Grillo ha ancora il potere si plasmare la creatura cui ha dato vita». Già, la creatura. Le creature. Mentre sul piano privato la vita della sua famiglia è sconvolta dalla denuncia di Tempio Pausania, Grillo inaugura sul piano politico la strategia di accordo con il Pd. Sopravvivere. Restare. Anche a costo di allearsi con il «partito di Bibbiano». La linea di Grillo, condivisa da Davide Casaleggio, è faticosa da digerire per i big del Movimento. Certo non è entusiasta Alessandro Di Battista, che vorrebbe cercare altri interlocutori nella Lega, ma fatica anche Luigi Di Maio, dubbioso soprattutto rispetto a Renzi: «Beppe ma davvero vogliamo metterci nelle sue mani?», gli domanda più volte. Arriva persino la proposta, pericolosa, di Salvini: Palazzo Chigi a Di Maio, e scordiamoci il passato. A quel punto Grillo fa qualcosa che non faceva da tempo: un vertice nella sua villa Corallina, a Marina di Bibbona, tra la pineta e la spiaggia. Altro che preparare un nuovo spettacolo: imbullona un nuovo governo. Tutti attorno a un tavolo, soprattutto i più recalcitranti. «Qualsiasi cosa faremo, l’importante è restare uniti», torna a dire Di Maio alla fine di quell’incontro. È il 18 agosto, e quello è il segno della vittoria della linea di Grillo. L’uomo che due anni prima, nel settembre 2017 aveva detto: «Torno a fare il padre di famiglia e il pensionato». Padre sì, pensionato mai, ma adesso anche pacificatore: del «partito di Bibbona», come lo battezza Repubblica. Il 29 agosto 2019, dieci giorni dopo quel pranzo a base di pesce coi vertici dei cinque stelle in maglietta, a bussare alla stessa villa Corallina saranno le divise. I carabinieri: devono sequestrare il cellulare di Ciro Grillo - sul quale, come per quelli degli altri indagati, verrà disposta la perizia tecnica, alla ricerca di foto video e messaggi utili alle indagini. Il termine di deposito per quelle perizie, sempre a stare alla fredda cronologia, sarà poi prorogato fino al 27 gennaio, esattamente all’indomani del voto regionale in Calabria e in Emilia Romagna, quello che segna lo stop all’avanzata di Salvini.
A fine agosto 2019, invece, mentre i magistrati sequestrano e interrogano, Grillo è attivissimo nel puntellare i termini dell’accordo per il governo coi Cinque stelle. Mantiene contatti con Nicola Zingaretti e Dario Franceschini. Interviene ogni volta che si rischia uno strappo. Sorprendente, per l’apparente caos che l’ha sempre circondato. Il 23 agosto, giorno del primo faccia a faccia tra Di Maio e Zingaretti, interviene dal blog con un pesante endorsement: «Giuseppe Conte non si lancia in strambe affermazioni, mostra e dimostra un profondo senso di rispetto per le istituzioni, insieme ad una chiara pacatezza ricca di emozioni normali, senza disturbi della personalità», scrive. Parole che valgono più di una nomina: i dubbi, spazzati via. Tra il 26 e il 27 agosto, torna di nuovo a blindare l’accordo, mentre parte il toto-ministri. «Andate e sorridete» (col Pd e al Pd, sottointeso) intima, parlando in vivavoce attraverso il cellulare di Di Maio, nel corso di una riunione piena di dubbi nella sede romana della Casaleggio, di fronte a castel Sant’Angelo. L’ultimo decisivo stop alle ubbìe Di Maio, Grillo lo stabilizzatore lo dà a cavallo tra agosto e settembre, in un video dal titolo “Sono esausto” nel quale si rivolge direttamente alla base dei ragazzi del Pd, con un entusiasmo del tutto inedito: «È il vostro momento, abbiamo un’occasione unica», esclama. E se la prende con Di Maio («ci abbrutiamo, e le scalette, e il posto a chi lo do e i dieci punti e i venti punti, basta»!). Alla fine, in asse con Dario Franceschini, toglie di mezzo anche la questione dei vicepremier, in quei giorni annosissima: «Il ruolo politico lo svolgeranno i sottosegretari», decreta. A quel punto si arriva finalmente alla votazione sulla piattaforma Rousseau, per il sì all’allanza coi dem. Ormai è tutto compiuto. Il 5 settembre giura i governo Conte bis: cambia la maggioranza e cambiano tutti i ministri. A restare nello stesso ruolo sono soltanto il premier, puntellato a tutti i costi da Grillo, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il 6 settembre, in prima pagina su La Stampa, proprio a destra della foto del giuramento al Quirinale, compare per la prima volta lo scoop, la notizia che il figlio di Grillo è indagato. Nella settimana successiva, escono in successione le notizie del sequestro dei cellulari, del sopralluogo nella villa di Grillo, e dell’audizione della moglie, Parvin Tadjk, madre di Ciro, che in ogni caso viene sentita come persona informata sui fatti, avendo trascorso la notte in una delle stanze della villa. Sentiti anche la domestica e alcuni vicini di casa, anche chi dormiva al piano superiore quella notte. Ma dopo quell’exploit di notizie, mentre il governo si avvia e i Cinque stelle compiono dieci anni, l’inchiesta tornerà nel silenzio quasi totale. Un accenno a gennaio, scaduti i termini per il deposito delle perizie sui cellulari, appena il giorno dopo le Regionali, si direbbe con un grande senso di cautela istituzionale. E un altro accenno, stavolta da parte dell’Unione sarda, ad aprile: «L’accusa di violenza sessuale di gruppo è ancora in piedi», si dice. Di certo l’archiviazione non è arrivata. Sembra che qualche ritardo sia dovuto a un tentativo di accordo tra le parti, lasciato cadere dalla difesa. E adesso, dopo lo stop da Covid-19 che ha bloccato tutti i tribunali, a Tempio Pausania non sembra che il fascicolo sia lasciato in un armadio: si stanno finendo di acquisire gli elementi e, trascorso un anno, si cominceranno a trarre le conclusioni. Anche se - dicono da più parti - prima della fine di settembre appare difficile si possano avere novità.
Intanto Grillo, forse galvanizzato dalle elezioni regionali di fine settembre, non sembra aver riperso il gusto alla politica. Sancito con Luigi Di Maio il rinvio dell’elezione del capo politico, a metà giugno ha stoppato Di Battista che invocava un congresso, trattandolo come uno che vive «nel giorno della marmotta». Mentre la realtà, sadicamente, si è incaricata ancora una volta di tirar fuori aspetti che sono l’esatto contrario della sua immagine politica, scanzonata e pauperista. Il Grillo miliardario, quello degli yacht, dei golf club le serate in Liguria e in Sardegna: come ha ricordato, sgradevolmente, l’arresto (ai domiciliari) di uno dei suoi grandi amici, Massimo Burzi, 65 anni, consulente del porto Carlo Riva di Rapallo, finito nella relativa inchiesta, compagno di avventure e di goliardie. Grillo, intanto, è ormai alieno da qualsiasi scossone che possa destabilizzare l’attuale stato di cose. Una delle battute che fa più spesso, ultimamente, riguarda sé: «E se il capo politico tornassi a farlo io?», provoca. Ma più che il capo, ruolo svolto per un mese negli ultimi tre anni, sembra intenzionato a mettere in piedi un’ennesima creatura, obiettivo per il quale deve però ricalibrare i suoi rapporti con Davide Casaleggio. Ecco il sogno, o almeno l’idea spuntata per la prima volta alla fine dell’estate scorsa, da stendere come un ideale filo rosso per i prossimi due anni almeno: non quella di portare il Movimento nell’orbita del centrosinistra, ma mischiare entrambi, per fare un aggregato politico dove possano, più che federarsi, in qualche modo sciogliersi Pd e Cinque stelle. In un nuovo centrosinistra. Per questo Grillo, dopo esserlo stato nel 2019, appare centrale nell’asse politico anche per il 2021-2022. Ha contatti con molti, dentro e attorno al Pd. Dal governatore emiliano Stefano Bonaccini, all’ex premier Enrico Letta che in ultimo ha invitato in una intervista a «non trattare i Cinque stelle solo come una costola della sinistra». Contatti persino con Massimo D’Alema, dicono alcuni. Di certo, come si diceva, con il sindaco Sala, non a caso un non-iscritto al Pd, in vista delle amministrative a Milano, nel 2021 - una città che il comico genovese trova paradossalmente più interessante, come laboratorio, di quanto non lo siano le pur grilline Torino e Roma, di Appendino e Raggi. Partite locali e partite nazionali. Anche se ci si slancia verso il 2022, l’anno fatidico del Quirinale, si ritrova lui, Grillo. L’uomo chiave per la nascita del Conte bis e per la sua permanenza oggi al potere, da stabilizzatore, è anche l’unico che possa garantire che ci sia una maggioranza Pd-M5S per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Un padre nobile, un garante nei fatti, o all’apparenza. Cronaca permettendo.
Estratto dell’intervista di Andrea Scanzi per il “Fatto quotidiano” il 28 giugno 2020. […] Lei ha lavorato con il primo Beppe Grillo, lo ha fatto litigare coi socialdemocratici, forse le ha fatto credere di essere un messia con la sceneggiatura di Topo Galileo. Lo sente ancora? Ho visto poche persone cambiare come Beppe: era allegro, ottimista, credeva davvero di cambiare il Paese. Poi è stato tritato dalla macchina degli adulatori e da gente mediocre. Beppe pensava di essere meno intelligente di loro, invece era molto più saggio e disinteressato. Ora lo sento ancora, ma non parliamo di politica o ci sbraniamo. […]
DA CELENTANO A GRILLO, L'"IGNORANTISMO" È UNA FORMA DI CIVETTERIA. Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto Quotidiano” (17 giugno 2020) (…) Prima promette di risolvere i problemi del Paese, poi fa pasticci con la sua ghenga raccogliticcia, poi dice che si fa da parte e invece no, e alla fine ti prende pure per il culo. Stava scherzando, fessi voi che gli avete dato retta. In campagna elettorale, Grillo rintuzzava l' accusa che i grillini fossero un branco di incompetenti usando il mantra di Trump "abbiamo visto cosa hanno combinato gli esperti". E nessun giornalista replicò che, se gli esperti non erano ancora riusciti a risolvere certi problemi complessi, figuriamoci cosa avrebbero combinato gli inesperti. Se un chirurgo non ce la fa, ci si deve affidare a un passante solo se è un chirurgo più bravo''.
Daniele Luttazzi per “il Fatto Quotidiano” (18 giugno 2020) -Estratto (…) Non sei molto credibile quando parli di democrazia, se hai creato un movimento senza democrazia interna, senza congressi e libere elezioni della classe dirigente; un movimento dove si fanno votare gli iscritti soltanto sugli argomenti che fanno comodo e con una piattaforma digitale misteriosa, gestita dal vertice. Né sei credibile se parli di crisi economica e di decrescita felice dalle tue ville o a bordo di uno yacht. Un plurimilionario che fa l'indignato, si presenta come salvatore della patria e si atteggia a spiritosone: è la trama del nostro sciagurato Groundhog day. (…) Nel frattempo, Di Maio e Dibba si ignorano come due etero che a tredici anni hanno avuto un'esperienza gay al campeggio.
Tommaso Labate per “il Corriere della Sera” il 17 giugno 2020. «Ti sei sempre definito un grillino, giusto? Ecco, sappi che io sosterrò Giuseppe Conte qualsiasi cosa faccia. Dillo in giro. Se qualcuno si mette in testa di tornare alle urne, il Movimento scompare». Telefonate in fotocopia, di quelle che non ammettono repliche, come quando non c'era bisogno di formule come «capo politico», «padre nobile» o «garante» per imporre la propria volontà; tanto il nome, beppegrillo.it , stava addirittura nel simbolo e quindi non c'erano margini per intavolare discussioni contro la volontà del capo. Allo stesso modo, qualche settimana fa, Beppe Grillo è uscito dalla tana ed è tornato a fare sentire la propria voce. Dall'altro capo del telefono, e in alcuni casi gli interlocutori non lo sentivano da mesi se non da anni, una serie di deputati e senatori pentastellati di ogni ordine e grado, più o meno visibili, più o meno importanti, più o meno di peso. Per Grillo uno vale uno. E ogni voto in Parlamento deve essere ricondotto nel pallottoliere dell'«elevato» (il copyright è suo) presidente del Consiglio «qualsiasi cosa faccia». Dove il «qualsiasi», è la lettura che hanno dato in tanti, comprende anche l'eventuale ricorso al Mes, su cui il co-fondatore del Movimento Cinque Stelle aveva già iniziato a dare segnali di apertura il 24 aprile scorso. Era la sera in cui l'Eurogruppo aveva cominciato a imboccare la strada del Recovery fund e la voce del comico si era fatta sentire con un tweet decisamente eurofilo: «Forse l'Europa comincia a diventare una comunità. Giuseppi" sta aprendo la strada a qualcosa di nuovo. Continuiamo così!». Per riscrivere la geopolitica interna al M5S bisogna ripartire da quei giorni. In piena fase 1, due personaggi chiave che non si erano mai incrociati, Grillo e Conte, iniziano a tessere la loro trama. Il secondo sa che il Mes, come la Tav, è un moloch che soltanto il primo può sconsacrare; il primo, come aveva fatto per la Tav, si allinea alle indicazioni di Palazzo Chigi e inizia a scavare la trincea. Potrebbe non essere necessario ma, di fronte a un voto in Parlamento, meglio tenersi pronti. L'assicurazione sulla vita della legislatura la siglano in due. Conte, che dice in pubblico e in privato che non prenderà la tessera del Movimento; e Grillo, che considera il simbolo e il nome della sua creatura orpelli ormai desueti e tranquillamente rinunciabili. Come rinunciabile, ed è la chiave su cui tutti i parlamentari al secondo mandato si sono trovati d'accordo, è anche la regola del doppio mandato. Il tandem ultra-governista ha l'appoggio di tutta la delegazione ministeriale di prima fascia, da Patuanelli a Spadafora, da Fraccaro e Bonafede; oltre al disco verde della vecchia guardia delle pasionarie della prima ora, da Paola Taverna a Roberta Lombardi, pronte a rientrare in gioco nel caso in cui alcuni ministeri (tra cui l'Istruzione) dovessero necessitare di un rimpasto. Anche Di Maio sottoscrive il patto, pur mantenendosi in una posizione che gli consente ancora di mediare con il correntone guidato ispirato da Davide Casaleggio e guidato virtualmente da Alessandro Di Battista, che ha il sostegno di Barbara Lezzi e degli eurodeputati anti-Mes Ignazio Corrao, Piernicola Pedicini e Rosa D'Amato. Grillo-Conte sostenuti da Di Maio da un lato; Casaleggio (che ieri ha lanciato Level Up , una specie di Rousseau 2.0) e di Battista dall'altro. Aperti a «qualsiasi cosa» pur di tenere in piedi il governo e l'alleanza col Pd i primi; contrari al Mes e alla prospettiva di un nuovo centrosinistra col Pd i secondi. Di fronte a loro, né un congresso né gli stati generali. Ma una guerra fredda destinata a scaldarsi se e quando i 37 miliardi per la sanità del meccanismo salva-Stati andranno all'ordine del giorno del Parlamento. E a diventare «guerra nucleare», se l'autunno non presenterà tensioni sociali, alla fine dell'anno. Quando, come spiegano da dentro il governo, «Conte e Grillo battezzeranno il cantiere comune col Pd trovando un accordo sul nome con cui sfidare il centrodestra nella partita simbolicamente più importante dell'anno prossimo: quella per il Comune di Roma». L'avviso di sfratto a Virginia Raggi è già partito.
S. Can. per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. «Mettiamola così: io sono repubblicano e qui vedo molti che pensano solo a succedere al trono, quindi alla monarchia. Ecco perché mi tiro fuori». In un momento di pausa dai lavori della commissione Antimafia di cui è presidente, Nicola Morra, big del M5S, da sempre e per primo a favore di una gestione collegiale quando il regnante era Luigi Di Maio, alla sua maniera manda un messaggio chiaro alle ambizioni di Alessandro Di Battista. Di fatto, l'uscita dell'ex parlamentare, subito stoppato da Beppe Grillo con le maniere forti, ha ricompattato tutte le anime parlamentari e ministeriali. Nonostante le differenze evidenti. Ecco, allora, Emanuele Dessì, senatore romano molto legato a Paola Taverna: «Dibba? Vuole essere più grillino di Grillo. E come se uno del Pci si fosse sentito più comunista di Gramsci. Con la differenza che Beppe è vivo e lotta insieme a noi. Anzi, è tornato». In questa guerra di veti che tutto paralizza - a partire dal via libera alla ricandidatura di Virginia Raggi a Roma, passaggio da far votare su Rousseau - la vera sfida è sullo Statuto del Movimento. Tutti, eccetto Di Battista, sono per una gestione collegiale. Quindi - da Di Maio a Fico passando per Taverna e Patuanelli - è l'idea è quella di eliminare il ruolo del capo politico. Posizione che al momento è ricoperta da Vito Crimi, anch'egli favorevole alla svolta. Per arrivare a questo passaggio occorre lanciare su Rousseau il quesito e gli iscritti si dovrebbero esprimere a favore - o contro - la modifica statutaria. Taverna, in campo come dicono in molti per essere la portavoce di questo organismo collegiale, la vede così: «Il congresso? Parola che appartiene alla vecchia politica, chiamiamoli Stati Generali, ma prima vengono le idee e dopo le persone, bisogna interrogarsi sull'agenda politica, per i prossimi dieci anni, i nomi abbiamo tutti i tempi per farli». Anche qui c'è una stoccata a Di Battista. Anche se poi la vicepresidente del Senato gli tende la mano: «C'è bisogno di tutti, di Alessandro e di Grillo». L'idea di un direttorio, ultragovernativo, piace anche al ministro Vincenzo Spadafora: «Non credo che possa indebolire Palazzo Chigi». Il tema è la collocazione di Di Battista e della sua pattuglia di parlamentari, numeri non impressionanti al contrario però di una popolarità tra la base che anche gli avversari interni gli riconoscono. E qui prende piede l'ipotesi che per giocare d'anticipo l'ex parlamentare possa ricorrere alle regole dello Statuto. Ovvero: raccogliere le firme digitali del 10% degli iscritti a Rousseau (quindi circa 15mila persone) per pretendere che si arrivi subito all'elezione del nuovo capo politico, come è scritto nello Statuto. Per fare questa operazione servirebbe ovviamente il via libera di Davide Casaleggio, titolare della piattaforma e di sicuro in questa fase molto più in asse con Dibba che con il resto dei big pentastellati. «Davanti a una mossa del genere scateneremmo l'inferno», dice al Messaggero una fonte governativa del M5S. La carta degli iscritti è un consiglio (non richiesto) che arriva da Lorenzo Borrè, l'avvocato di tutti i grillini finiti in rotta di collisione con il Movimento. Contattato da questo giornale Borrè dice: «Parlo dal punto di vista accademico, diciamo. Figuriamoci se ho rapporti con Dibba». Gli «amici» dell'ex parlamentare insistono: «Vogliamo solo fare una battaglia trasparente e sui nostri valori, non ci interessano le poltrone». E' vero pure però che Dibba sarebbe tentato da un tour estivo - come quello che fece contro il referendum di Matteo Renzi nel 2016 - per tornare «tra la gente». Con la scusa ufficiale di parlare, questa volta di un altro referendum, quello previsto a settembre sul taglio dei parlamentari, storica battaglia grillina. Sullo sfondo, ma nemmeno troppo, c'è poi la posizione di Giuseppe Conte, costretto a surfare tra le acque agitate del Movimento. Il premier ha già detto di non essere interessato alla creazione di una lista né a scalare il Movimento. Uno scenario che Spadafora stronca con parole chiare: «Non vedo Conte come futuro leader e una sua lista sarebbe inopportuna». Sicché si ritorna così, come in un gioco dell'oca, alla casella iniziale. Ai sospetti e ai veleni del tutti contro tutti. In attesa che qualcuno faccia la prima mossa. O magari l'ultima. Anche se tutti vedono in Grillo l'unico faro per indicare la via a queste anime in guerra e soprattutto per mettere l'esecutivo al riparo da tensioni e possibili scissioni. Anche perché il senatore Gianluigi Paragone, espulso dal M5S ma molto amico di «Alessandro», ha già annunciato che vuole far nascere un nuovo partito: «Anti-europeo e anti- establishment».
DAGONEWS il 15 maggio 2020. A chi gli chiede del futuro del Movimento, e in particolare del suo futuro nel Movimento, Beppe Grillo invia una foto che lo ritrae mentre osserva i cantieri da perfetto ''umarell'' in pensione. L'immagine è stata pubblicata in formato francobollo in un trafiletto di ''Repubblica'', e a prima vista sembrerebbe che Grillo vada in giro (per Genova?) senza mascherina e senza rispettare le distanze dagli altri vecchietti come lui. Prima di gridare allo scandalo, basta ingrandire un po' e si scopre che la sagoma di Beppe è ''ritagliata'' e giustapposta su un altro scatto. Un fotomontaggio ironico che nasconde un messaggio triste, quella di un movimento senza padre, al massimo con un nonno che non sa come occupare il tempo ma sa che non intende occuparlo con la politica. Grillo in queste settimane è stato tentato di mollare tutto, di fare un gesto plateale di definitivo abbandono dei 5 Stelle, ormai in preda a governisti senza speranza, poltronari all'ultimo stadio, aggrappati alle cadreghe come certi balenotteri democristiani. La spartizione delle società controllate dal Tesoro, le guerre dentro la Rai, le nomine nelle task force, roba che il Grillo di un tempo avrebbe fulminato con quattro righe sul blog. Invece ha deciso di tacere, perché sa che un suo tardo vaffanculo avrebbe due esiti, entrambi negativi. Il primo: essere descritto come un milionario annoiato che dall'isolamento nelle sue ville si permette di mettere becco su una crisi piena di morti e crac economici. Il secondo: dare la stura ai ''Dibba boys'', quella frangia movimentista che non vede l'ora di scindere e prendersi il Movimento facendo leva sui princìpi traditi del grillismo. Così facendo franare il governo, costringendo Mattarella a indire elezioni, con una parte dei 5 Stelle guidata da Di Maio pronta a una nuova alleanza con Salvini. E il governo col Pd, fatto apposta per mandare a casa il Capitone, indovinate chi l'ha voluto? Esatto. Quindi l'Elevato si è cucito la boccuccia e si tiene sul gozzo la sua truppa di idealisti che in meno di una legislatura si sono trasformati in biechi poltronari.
Dal “Fatto quotidiano”l'11 febbraio 2020. Nel giorno in cui i Cinque Stelle si rivedono per fare il punto sulla Liguria, Beppe Grillo si lamenta della “democrazia in apnea” e invoca nuovi “strumenti per stare assieme”. È un post che trasuda stanchezza per la politica attuale, quello di Grillo sul proprio blog: “Quanto si può resistere in apnea? Esistono varie tecniche – scrive l’artista genovese – ma il risultato è sempre lo stesso: un normale organismo può rimanere senza ossigeno per non più di pochi minuti. Allora mi chiedo se la democrazia è in apnea, se siamo di fronte alla necessità di trovare nuovi strumenti, inventarci nuovi modi per capire come stare insieme”. È necessario, secondo Grillo, in una fase in cui “le democrazie rappresentative di tutto il mondo scricchiolano, sanno di antico”. E allora meglio tentare di cambiare, ricorrendo a metodi o esperimenti di democrazia diretta. E uno in particolare ha colpito il fondatore del Movimento: “C'è una iniziativa fantastica di cui vi voglio parlare, e si chiama G1000. Un gruppo di pensatori e di attori indipendenti ha chiamato all’adunata chiunque volesse partecipare a un reale tentativo di cambiamento del Belgio. Così a Bruxelles l’11 novembre 2011, mille cittadini scelti a caso hanno avuto l’opportunità di discutere, in tutta libertà, il futuro del Paese”.
Grillo, il re dei ratti e le nuove tecnologie. Ma la “democrazia casuale” non funziona. Pino Casamassima su Il Dubbio il 21 febbraio 2020. La rappresentanza parlamentare, con tutti I suoi difetti, è “la meno peggio delle possibili”, mentre l’idea della sovranità popolare è mitologia. Il re dei ratti. Così ha titolato Grillo nel suo Blog il suo ultimo intervento sulla democrazia e le sue forme rappresentative. «Il Re dei ratti – spiega – è un termine folkloristico per riferirsi a un insieme di roditori legati insieme dalla coda e ritrovati in questa posizione una volta deceduti o più raramente mentre ancora in vita. Questa è la politica oggi, questo è il risultato delle democrazie rappresentative». Si chiede quindi ( l’ex?) guru del M5S se non sia il caso di realizzare un esperimento per rinnovarla, questa democrazia. Nell’era digitale, con l’avvento potente e prepotente di tecnologie inedite, essa ha infatti bisogno di rigenerarsi coerentemente con società profondamente cambiate. «Le democrazie rappresentative di tutto il mondo – sostiene il comico genovese – scricchiolano, sanno di antico. Facendo un parallelismo con la tecnologia qualcosa non torna. Se guardiamo l’evoluzione delle tecnologie, vediamo qualcosa di diverso rispetto ai sistemi democratici. Dovunque c’è innovazione, ma non nelle democrazie». Riporta quindi un esperimento operato in Belgio col nome di G1000 l’ 11 novembre 2011, quando 1000 cittadini – selezionati a caso ma che rispecchiavano la composizione della società – s’erano riuniti per discutere del futuro del Paese sotto la guida di esperti nei vari settori, potendo esprimere in totale libertà il proprio pensiero, a prescindere dal livello d’istruzione e di competenza. Analizzate tutte le proposte messe sul tavolo, si era passati alle votazioni. Un esperimento che in realtà non genera nulla di mutuabile. E se a Grillo ha suggerito invece per il futuro l’estensione di quel modulo a livello elettorale, a me ha fatto venire in mente qualcosa del passato: esattamente, l’Eliea. ( Il più importante tribunale dell’antica Grecia). L’Eliea incarnava forse la più “democratica” delle “forme democratiche”: quella legata alla casualità. Ad essa – per sorteggio nel numero di 6000 ( che nel diritto pubblico ateniese rappresentava l’unanimità), vale a dire 600 per tribù con una retribuzione di 2 oboli al giorno – potevano accedere tutti i cittadini maschi superiori ai 30 anni e in possesso dei diritti civici: vale a dire, un corpo elettorale non superiore al 20%. Proporre – come fa Grillo – la “democrazia casuale” ha la sua innegabile fascinazione ( come dimostra l’entusiastica adesione di un quotidiano) pari però alla sua speculare impraticabilità. Le società attuali, caro Grillo, sono però organismi complessi, che nulla hanno a che fare con quella di Pericle, così come pretestuoso è stato il ricorso grillino alle sperimentazioni – spesso ardite per non dire altro – della Rivoluzione francese. A questo punto, è forse il caso di fermarsi con le famose bocce ferme, perché molto grande appare la confusione sotto il cielo della democrazia. In quella diretta ( di stampo ateniese), il ruolo del cittadino ( che poteva votare, sempre quel 20%) si riduceva a un semplice sì o no relativamente a proposte articolate presentate da gruppi politici ed economici. In quella rappresentativa ( di stampo occidentale), il rappresentante di un gruppo di cittadini esprime un parere coerente col gruppo che lo ha eletto. Possiamo immaginare come potrebbe mai esprimersi il corpo elettorale nel suo insieme se interpellato su temi quali bioetica, tassazione, scuola, giustizia, sanità, eccetera, che necessitano di una mediazione politica? Prendiamo la forma di democrazia diretta moderna più praticata: la referendaria. Essa è la più esposta sul piano dell’articolazione semplicistica col suo sì o no. In presenza di punti molto sensibili sotto il profilo emotivo ( ad esempio legati alla giustizia quale potrebbe essere la pena capitale) si rischierebbe una prevalenza del pathos sul logos perché condizionati dal livello alto o basso di omicidi in quel periodo. In finale di partita non resta che constatare che tertium non datur relativamente alla democrazia rappresentativa parlamentare: si può discutere sul numero dei parlamentari in coerenza col numero degli elettori, ma altre forme di democrazia nelle società 2.0 sono obiettivamente impraticabili. A fuorviare spesso il pensiero sulla declinazione della democrazia è la cosiddetta “sovranità popolare”. Che è un mito. La natura autentica dei sistemi democratici sta nel rapporto fra istituzioni e suffragio universale ( elezioni) coerentemente con una società in movimento. Quella della rappresentanza parlamentare è l’unica strada che ha finora garantito una democrazia larga: se non ha consentito – non poteva farlo né doveva farlo – il “potere al popolo”, ha permesso progressi ora dati per acquisiti, ma ottenuti proprio grazie a quella formula democratica. In buona sostanza, bisogna togliersi dalla testa la mitologica idea della sovranità popolare ( intesa come potere al popolo), e “rassegnarsi” alla constatazione che questa formula, quella della democrazia della rappresentanza parlamentare – con tutti i suoi difetti – è, per dirla con Churchill, la meno peggio delle possibili. Lasciando al suo tempo quella Greca spesso citata a sproposito, dalle grandi rivoluzioni d’Occidente quali l’inglese, la americana, la francese, il dibattito che ha spesso diviso i fronti pro e contro la democrazia rappresentativa non è mai scemato, percorrendo una strada sinusoidale che nel caso di Grillo& C. ha creduto di poter applicare la tecnica alla filosofia politica, con grande disappunto per la buonanima di Emanuele Severino, che fino all’ultimo istante della sua vita ha avvertito contro i pericoli della tecnica.
Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 3 marzo 2020. La prima volta che il nome “Gunter Pauli” si palesò dinanzi agli occhi del grande pubblico fu in un post scritto da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, postato sul blog di Grillo il 3 luglio 2005. Il titolo era emblematico delle idee di Pauli: “E merda fu…”. Il concetto di riciclaggio (la futura blue economy di Pauli) veniva spiegato così, con metafora alata, da Grillo: “Oggi l’impianto di riciclaggio è un orgoglio cittadino. L’escremento è un bottino. Siamo nella fase anale quando i bambini giocavano con la cacca traendone piacere”. Tutto ciò che è ripugnante, scriveva Grillo, diventa produttivo. Erano gli albori dell’esperimento dei 5 stelle, e Pauli veniva già evocato. Tra parentesi, Grillo teorizzava anche la produttività della disinformazione, senza che nessuno lì per lì ci facesse caso: “Oggi il riciclaggio si insinua in tutti gli ambiti della vita umana: nella conoscenza con la disinformazione, nella cultura con la nuova istruzione, nel corpo con la chirurgia estetica. Tutto ciò che è ripugnante si rende produttivo”. Un manifesto teorico che si concludeva con una citazione di Pauli: “L’imitazione della natura: lo scarto di una azienda è la materia prima di un’altra: consiglio il libro di Gunter Pauli”. Oggi che Gunter Pauli è diventato nientemeno che il primo “consigliere economico di Palazzo Chigi” del premier Giuseppe Conte, come recita pomposamente il suo titolo, conviene forse ricostruire chi è questo imprenditore belga che, nella foto qui in alto, vedete seduto a pranzo assieme a Grillo, al figlio di Casaleggio, Davide, a Luigi Di Maio e alla sua fidanzata. La foto è stata scattata in un sabato dello scorso ottobre, a Napoli, all’happening del M5S dove Pauli fu la guest star e l’ospite d’onore di Grillo e Casaleggio. Nessuno immaginava, allora, che potesse finire a palazzo Chigi. Ma in Italia tutto è possibile. Grillo, in un video travestito da Joker, disse: «Abbiamo mangiato a pranzo io, l’economista Gunter Pauli, Di Maio e Casaleggio. Ogni volta che parlava Gunter, traduceva in inglese Di Maio, allora può succedere qualsiasi cosa al mondo». Sembrava uno scherzo ma, se andrete in fondo a queste righe che seguono, capirete che è solo un’approssimazione per difetto di ciò che può accadere con questo trust di cervelli insediato nelle scelte economiche di palazzo Chigi. Grillo stava dicendo la verità.
Cina e teorie bizzarre. Pauli è davvero – Casaleggio e Grillo a parte – un personaggio incredibile. A Napoli, alla kermesse grillina, dopo aver spiegato varie sue teorie su navi alimentate con yo-yo, galline allevate con scarti di maiali, carta fatta con ceneri riciclate del marmo e microplastiche, spiegò, elogiando come modello il governo della Cina: “Io scrivo anche fiabe per bambini. In Cina, tutti i bambini cinesi leggono le mie fiabe grazie al governo. 735mila scuole. E la chiave è che è il governo a mettere tutti questi libri a disposizione dei bambini. I bambini non imparano come la mela cade dall’albero, ma come la mela è andata sull’albero. Contro la legge di gravità. Vorrei che l’Italia fosse il primo paese europeo a occuparsi così dell’educazione ambientale dei bambini”. E a parte il disagio di vedere additata a modello la Cina – amatissima da Grillo e Casaleggio ma non esattamente un modello di democrazia – Pauli si dimostrò allora capace di stupire con teorie le più sbalorditive possibili, di cui qui possiamo tentare solo un sommario elenco, per dare un’idea di chi è stato piazzato a fianco di Giuseppe Conte, e dargli idee sull’economia.
Dal caffè che coltiva i funghi ai condizionatori da abolire. Questo imprenditore il cui bel volto è una via di mezzo tra il mascellone Ridge Forrester di Beautiful e l’ex calciatore Aldo Serena, ne ha pensate così tante che farne un catalogo sarebbe arduo, e necessariamente incompleto. Sul caffè che concima i funghi: «Per esempio beviamo un caffè espresso, dopo si ha un residuo da utilizzare per la coltivazione dei funghi e il cui residuo è a sua volta un ottimo mangime per polli che deporranno le uova. Così anziché un solo flusso di cassa se ne hanno quattro. E così la realizzazione degli oggetti è meno costosa». Sull’idea che, visto che la carta costa troppo, si può produrre carta di pietra: “L’industria della carta ha annunciato di voler ridurre il proprio impatto ambientale. Recentemente, a tal proposito, abbiamo sostenuto l’opzione di produrre carta di pietra, che viene realizzata sfruttando i residui minerari e che non consuma acqua né cellulosa ed è riciclabile all’infinito, senza bisogno di procedimenti di rimozione dell’inchiostro”. Sulla Natura che va ricondotta al suo “percorso evolutivo”: “Noi non vogliamo fermarci alla riduzione degli sprechi o alla protezione delle specie a rischio. Abbiamo bisogno di eliminare del tutto il concetto di “rifiuto” e generare più di ciò che abbiamo in partenza. Dobbiamo riportare la Natura sul suo percorso evolutivo”. “Negli ecosistemi – ci illumina il nuovo consigliere economico di Conte - un albero non è solo un albero, ma è un sistema che fornisce servizi, ai funghi, ai batteri e ai lombrichi. Con un approccio eco sistemico si possano avere benefici multipli anche in economia”. Prendete i condizionatori (già famosi perché, secondo la grillina Lezzi, avevano fatto aumentare il Pil nei mesi del grande caldo). Secondo Pauli, potrebbero essere aboliti usando sistemi di raffreddamento naturali: “C’ è un’ampia storia di edifici naturalmente ventilati in tutto il mondo, come l’ospedale costruito a Las Gaviotas in Colombia o il magazzino Shosoin presso il Tempio Todaiji di Nara, Giappone, entrambi forniscono comfort in un clima molto caldo e umido. La natura ha architettato stratagemmi pazzeschi per fare quello che noi facciamo con grande dispendio di risorse. Basterebbe poco e tutto potrebbe cambiare”. Lo scienziato svedese Nyquist e il suo team “hanno aggiunto l’interazione tra bianco e nero al design esterno, imitando i cambiamenti di oscurità e luce del manto della zebra. Un’ altra semplice applicazione delle leggi della fisica, dove l’aria calda è più sottile e si alza, mentre l’aria fredda è più densa e si deposita sul fondo”. Come mai nessuno ci aveva ancora pensato?
Basta petrolchimico, riusiamo le erbacce. “In Italia - ci ha informato Pauli in questi anni, prima che ce lo trovassimo a Palazzo Chigi – già si registra la più grande e impressionante applicazione della blue economy. Su 188 progetti implementati in tutto il mondo, circa 20 sono in Europa, e la vera star è a Porto Torres! La squadra di Novamont sta mettendo a punto gli ultimi ritocchi per la conversione di un vecchio impianto petrolchimico di ENI non più operante in una bioraffineria che utilizza il cardo come materia prima. Immaginate: una bioraffineria competitiva che utilizza piante perenni considerate erbacce!”. O ancora. “Vecchi edifici e laboratori di Montedison nei laboratori di ricerca e piccole unità di produzione di bioplastiche. Una volta che questa struttura sarà aperta molti occhi si apriranno e ci si renderà conto che il futuro dell’Europa risiede nella re-industrializzazione dell’economia e nel collegamento della produttività della terra con i prodotti e i servizi di qualità. Abbiamo bisogno semplicemente di utilizzare quello che resta del flusso produttivo (le erbacce) e il capitale di investimento (come i vecchi impianti petrolchimici che non sono più competitivi e inquinano l’ambiente)”.
Anti globalizzazione. Pauli avrebbe fatto felici i no global, forse: “Per la transizione dal sistema economico attuale a quello futuro, che non sarà soggetto alla globalizzazione, al prezzo più basso e alla distruzione ambientale e sociale, noi dobbiamo immaginare un sistema alternativo. In periferia che è ai margini dobbiamo agire subito. Si tratta di zone dove sia l'economia, sia la politica tradizionali non hanno grandi interessi e dove possiamo occuparci della transizione, senza aspettare e senza chiedere permessi a nessuno». Ecco perché lui e Grillo suggeriscono ai giovani, sul blog di Grillo, di trasferirsi alle Canarie. Perché? “A El Hierro una delle isole Canarie grazie alla ridefinizione di una risorsa naturale come l'allevamento delle capre, effettuata con la riapertura del macello locale e la realizzazione di prodotti di maggiore valore, fatti anche con banane e ananas biologici prodotti e venduti in loco, gli allevatori fatturano 2.65 euro per litro, dieci volte il sussidio dell'Unione Europea. Il risultato è che molti giovani spagnoli si stanno trasferendo a El Hierro visto che bastano 50 capre che producono due litri di latte al giorno per fatturare 100mila euro l'anno. Il foraggio è gratuito, le capre limitano la diffusione degli infestanti e il costo della vita è più basso, ma non bisogna superare il numero dei 50 capi perché è se le capre in gregge sono troppe la produzione cala. Ciò dimostra che per generare più valore dobbiamo cambiare modello di business”.
Modello Benin. È di Pauli l’idea M5S di una ecotassa a partire dalle utilitarie a benzina, per raggiungere nel tempo emissioni di CO2 pari a zero. E’ di Pauli, non di Grillo, la teoria che idee decisive possano venire dal Benin, uno dei paesi più poveri al mondo, ma ricco di esperimenti, secondo questo simpatico belga: come quello di Padre Godfrey Nzamujo che fondò nel 1986 il Centro Songhia a Porto Novo, la capitale del Benin. “Padre Nzamujo – scriveva Pauli sul blog di Grillo - ha trasformato questa sfida [degli scarti e dei rifiuti] in un’ opportunità, creando un “fly hotel” dove tutte le frattaglie sono accuratamente distribuite su centinaia di piccoli contenitori quadrati aperti con reti che bloccano gli uccelli. Le mosche depongono uova e producono fino a una tonnellata di vermi ogni settimana. I vermi, ricchi di proteine, vengono raccolti e serviti come mangime per pesci e quaglie. Il processo genera proteine a basso costo e concentra tutte le mosche in un’ unica area, eliminando al tempo stesso un grosso fastidio per l’ azienda agricola”. Se funziona, si sarà detto, diventiamo tutti ricchi.
Ritratto di Beppe Grillo: comico che non c’è più, politico che non c’è mai stato. Paolo Guzzanti de Il Riformista 2 Febbraio 2020. In genere quando si fa il ritratto di un grande o anche di un ingombrante personaggio, si usa la ricetta agrodolce: ha fatto questo, questo e questo di bello. peccato che abbia avuto anche questo, questo e quest’altro difetto. Un’arguzia al cerchio e una alla botte. Così facendo si rischia il vizio ambientale dell’ipocrisia. Forse a Beppe Grillo stesso, parlandone da vivo, non piacerebbe. Perché, di certo, il comico è morto. Da molto. E il capo politico che era – un po’ Bertoldo e un po’ Fra’ Dolcino – è andato a fuoco lento insieme a tutta la biblioteca delle sue ardenti sciocchezze, alcune geniali, altre sciocche-sciocchezze, utili per la ribalta, pessime per questo inimitabile Paese che è il nostro. Ha preteso e recitato troppe parti in commedia: ha voluto essere la bocca della verità e un Lenin che non trova la porta del palazzo d’Inverno, il profetico rivelatore e l’organizzatore rivoluzionario saltando dal palcoscenico al carro del vincitore, senza neanche consultare su Google le condizioni del tempo storico. E adesso, con Luigi di Maio che lo batte in illusionismo con il numero della cravatta scomparsa, guardatelo: è finito fuori strada come finirono fuori strada per sua colpa coloro che morirono nell’incidente di cui porta la colpa penale che gli preclude i pubblici uffici e il diritto di rappresentanza. Il fatto che sia sparito può, potrebbe, essere un improvviso segnale di saggezza. O almeno, di prudenza. Persino, hai visto mai, di pudore. Ma non è una prova di coraggio. Grillo non ci mette mai la faccia, né il barbone o il naso da muppet. Ferocissimo con i perdenti, applica a se stesso la terapia dell’indulgenza. Una Spa di autoindulgenza. Dove prima ardeva il suo inferno dove lui se fosse stato foco e se fosse stato acqua, e persino morte… ma invece era Grillo Giuseppe e adesso tende a mimetizzarsi col paesaggio, che è sempre un a trovata ecosostenibile. Sarà nella casona al mare? Sarà col figlio che gli ha dato tante preoccupazioni? Risponderà al telefono criptato? Indovinala grillo. Per rispetto del lettore, devo confessare un pregiudizio che è un mio limite: da comico, non mi ha mai fatto veramente ridere. Da politico, ha fatto paura a molte persone sane di mente. La sua trovata-pretesa di aver arrestato appena in tempo una sanguinosa rivoluzione che avrebbe portato a un bagno di sangue ma che grazie al suo dirottamento si è trasformato in allegro hotel a cinque stelle movimento, è la dichiarazione di un codardo: in Italia non scoppia mai alcuna rivoluzione, mica siamo la Francia da Robespierre ai gilet jaunes. Al massimo, abbiamo avuto dei tristi brigatisti che sparavano alla nuca degli innocenti e poi chiedevano aiuto psicologico. Ma Grillo è stato amato dalle sue parti ed ha fatto ridere milioni di persone più intelligenti di me e dunque è colpa mia se non l’ho mai trovato irresistibile, azzardato, futurista, satanico, ma piuttosto un ragioniere diplomato che ha visto la vita da una bottega certamente pregiata, ma pur sempre bottega. La sua complicata macchina di scena è consistita in una costruzione alternata di banalità e verità curiose, poche genialità improvvise e poi tonnellate di plastica, una aritmetica planetaria da “Lo sapevate che?” alla capacità mimica di trasmettere stupore per la modernità che non capisce, ma che gli piacerebbe capire. Prova ansia e trasmette ansia, convinto di aver rivelato al mondo ciò che il mondo e l’umanità contengono. Così è nato il pollaio dei social, dei fan, dei like, della valutazione on line, dell’affratellamento con la piattaforma degli imprenditori che hanno costruito – loro sì – una start up che somiglia al Paese dei Balocchi in cui Pinocchio e Lucignolo vengono deportati dall’omino di burro per diventare somari e pelle per tamburo. Quando già aveva fatto il disastro e messo in ginocchio un Paese dalle caviglie di fango e la testa di legno, venne a Roma al Brancaccio per un ultimo spettacolone pieno di finta sincerità. Voleva incarnare il disarmato, il disincantato, il “davvero io ho fatto tutto questo e non me ne sono nemmeno accorto?”. I fedeli paganti battevano le manine, felici. Fece finta di prendere per il culo il pubblico chiedendo: ci avete preso sul serio? noi scherzavamo… Era una bugia di scena, naturalmente, ma conteneva una realistica confessione come capita a chi sviluppa un ego prostatico da Barone di Münchhausen e vuole spiegare l’ingombro che occupa. Ma dietro tutte le facezie abbiamo visto – intravisto – un uomo crudele, un individuo che adora insultare i cronisti, umiliare chi gli sta intorno, essere insomma veramente cattivo. È a nostro parere un tipo di cattiveria molto popolare in Italia perché ha radici cattoliche e comunarde: l’idea della “decrescita felice” non è soltanto una grandissima stronzata, ma un furto con scasso dell’altrui ingenuità. Ha cercato di incarnare il razionalizzatore che, seguendo un vago principio modernista, prometteva una posizione non ideologica, ma in realtà sempre ideologica ma anche auto-contraddittoria, con risultato differenza di potenziale zero, troppo fracasso per nulla. Ma si è preso, gli va riconosciuto, delle enormi soddisfazioni. Ha condotto una vita da predicatore e da dominatore e anche nel momento del tracollo ha sempre trovato una sala trucco dove andare a rifugiarsi. Sono finiti (chissà perché) i tempi in cui decine di sventurati giornalisti venivano comandati dalle loro testate di stazionare nel freddo e nel caldo e nella sabbia davanti alla sua casa per vederlo uscire e porgere implorando i microfoni e sentirsi trattati come pezzi di merda. Creò l’ideologia dell’antigiornalismo: non parlate ai giornalisti. Guai a chi va in televisione. Guai a chi parla, pensa, discute. Il movimento è come Scientology, ha le sue regole, sue di Grillo e di quelli della piattaforma in disparte. In suo nome è stato creato il terrorismo parlamentare: siete dei beneficati, non sarete mai più rieletti, dovete mollare quel che guadagnate. Ha cercato di sottoporre la natura umana a una prova da stress che si è conclusa in uno spettacolo ridicolo e, quello sì, risibile, se ci fosse da ridere. Certo, la legislatura va avanti e finché la barca va, la capra campa. Ma il comico non c’è più. E il politico non c’è mai stato. La sua visionarietà è scomparsa persino in teatro. Manca soltanto una mesta fanfara felliniana che giri intorno alla sua casa marina suonando le note più clownesche di Nino Rota, dei pagliacci che piangono e della donna cannone con le caviglie gonfie.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 febbraio 2020. A Genova da tempo girano fole sulle piscine della villa di Beppe Grillo. Il fondatore del Movimento 5 stelle per molti anni ne ha avuta una coperta in quella che era denunciata come area svago, con annessa palestra. L' ampio locale si trova sotto il prato del giardino, e a fianco della piscina esterna. Un tempo quei locali sono stati un rifugio bellico. Il vecchio proprietario aveva chiesto il condono nel 1986: era stato autorizzato il 7 luglio 1989, ovvero cinque mesi dopo la data d' acquisto della villa da parte della famiglia Grillo. Insomma, come nei film di James Bond, il garante dei 5 stelle aveva una piscina sotterranea dove un tempo c' era un bunker. In quell' area benessere, tappezzata esternamente di pannelli fotovoltaici, la moglie di Grillo, Parvin Tadjik, organizzava sedute di acquagym per le amiche. La piscina era di circa 40 metri quadrati (13 per 3), e intorno, racconta chi c' è stato, ci sarebbero state anche due saune. Ma poi i figli di Beppe sono cresciuti e hanno iniziato a cercare maggiore privacy. E così la piscina interna è stata coperta da un parquet e la zona è diventata il loft di Ciro Grillo, il piccolo della famiglia, attualmente accusato con tre amici dello stupro di una ragazza italo finlandese (l' inchiesta è in corso presso la Procura di Tempio Pausania, in Sardegna). Ma dentro alla villa si trovano altre due piscine: la prima è collegata all'ex area svago. Ufficialmente è una vasca idrica destinata all' approvvigionamento dell' acqua per i terreni. In realtà è stata trasformata in piscina, con tanto di tipico rivestimento azzurro, come è evidente sul profilo Facebook di Ciro Grillo e nelle foto satellitari rintracciabili su Internet. Nel parco di casa si trova un' ulteriore ampia vasca, di forma circolare e di dimensioni pressoché analoghe a quelle della piscina, per i pesci. La villa dei Grillo si trova sull' esclusiva collina di Sant' Ilario, la Beverly Hills dei genovesi. Una dimora sontuosa di 22,5 vani di proprietà della società semplice Bellavista (inattiva) di cui Grillo è socio con la consorte. Il comico nei documenti visionati dalla Verità si definisce proprietario o comproprietario dell' abitazione. Secondo la giornalista d' inchiesta e geometra Claudia Bortolotti, che si occupa di pratiche urbanistiche e catastali da un quarto di secolo, nel buen retiro qualcosa non quadra: «Sono venuta a conoscenza della situazione di quella dimora perché al quotidiano online Oggi notizie, che dirigo, sono arrivati documenti che comprovano l'effettiva irregolarità di opere urbanistiche, edilizie e catastali nella villa e nelle pertinenze ad essa collegate». Nei mesi scorsi la giornalista ha condiviso le carte con la redazione delle Iene, che da tempo hanno avviato un'approfondita inchiesta. A giudizio della Bortolotti le piscine di casa Grillo non sarebbero state correttamente denunciate all' Agenzia delle entrate ufficio territorio (l' ex catasto) e sarebbero state citate «come mera rappresentazione grafica e senza l' esatta destinazione d' uso a piscina» negli elaborati consegnati al catasto molti anni dopo la loro realizzazione. Non è finita: «Dalle carte pervenute in redazione rilevo che il parco è rimasto iscritto al catasto terreni nonostante sia una pertinenza a tutti gli effetti di altissimo pregio e in uso esclusivo, priva di eventuali servitù che potrebbero svilirne il valore economico. Grazie a ciò i proprietari potrebbero avere Tasi e Isi ridotte rispetto al reale valore dell' immobile e, in caso di vendita o donazione, l'imposta di registro applicabile sarebbe del 2 per cento, anziché del 9. In sostanza la dimora del fondatore dei 5 stelle avrebbe un' imposizione fiscale pari a quella della casa di un operaio». L' inesatta destinazione d' uso delle pertinenze pare aver comportato un' errata attribuzione di categoria catastale, tanto che la casa risulta essere un villino (categoria A7) e non una villa (categoria A8). Con le agevolazioni del caso. «Tale classificazione non corrisponde alle caratteristiche che l' immobile ha acquisito in forza delle molteplici ristrutturazioni che non solo lo hanno valorizzato, ma anche ampliato rispetto allo stato originale», insiste la Bortolotti. Un collega esperto di estimi catastali, Massimo D' Andrea, conferma: «Viste le caratteristiche dell' immobile e cioè la presenza di ascensore, piscina coperta e scoperta, parco, materiali di pregio, terrazzi più grandi di 65 metri quadri e una superficie utile complessiva superiore ai 160 metri, per effetto del decreto ministeriale 1.072 del 1969, quella casa andrebbe classificata come abitazione di lusso». Un' ultima curiosità. Uno dei progettisti coinvolti nelle numerose ristrutturazioni della villa è l' architetto torinese Alberto Sasso, ex candidato alla Camera con i 5 stelle e attuale presidente dell' ente Eur di Roma in quota Virginia Raggi. Sasso nel 2016 ha presentato una comunicazione inizio lavori al Comune di Genova per una manutenzione straordinaria del piano interrato, in cui non sarebbe stata dichiarata la destinazione d' uso a piscina, ma unicamente comunicata la copertura con un pavimento di tek. Nel 2019 Sasso è stato iscritto sul registro degli indagati con l' accusa di turbativa d' asta a causa di una consulenza da circa 50.000 euro ricevuta da alcuni comuni montani del Piemonte per preparare un dossier per la candidatura ai giochi invernali del 2026. «Se a occuparsene è Alberto possiamo stare tranquilli, perché se mai faremo un dossier sarà rispettoso dei nostri criteri», aveva detto Grillo, riferendosi al professionista.
Giacomo Amadori per “la Verità” il 24 gennaio 2020. A fine dicembre i giornali avevano raccontato che tra Beppe Grillo e Davide Casaleggio, il presidente dell' associazione Rousseau, i rapporti erano decisamente peggiorati. A far precipitare la situazione sarebbe stata la decisione presa dall' associazione di non coprire più i costi delle cause a carico di Grillo. Anche perché nel 2018 la voce «spese legali» pesava per 300.000 euro, il 16,6 per cento delle uscite, seconda solo al costo del personale (20,8 per cento). Nelle vacanze natalizie il comico genovese deve aver riflettuto molto su come evitare il crac finanziario, tanto che nei giorni scorsi avrebbe telefonato personalmente ai legali del Pd per provare a chiudere una controversia milionaria che coinvolge il suo vecchio blog e lo contrappone al partito guidato da Nicola Zingaretti. Il tempo stringe: la prossima udienza presso il tribunale civile di Roma è prevista per il 4 febbraio e il calendario prevede interrogatorio giurato dell'«elevato». Prima di tentare l' accordo in extremis con l' ex odiato nemico, oggi fedele alleato, Grillo ha accompagnato alla porta l' ex capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, notoriamente poco entusiasta per l' alleanza con il partito guidato da Nicola Zingaretti. È un caso? Chissà. Certamente il fondatore del Movimento a ottobre aveva dichiarato: «Con il Pd c' è sintonia perfetta». Probabilmente il suo pensiero era rivolto anche alle cause che pendevano sulla sua testa e all' udienza istruttoria del 4 febbraio, dove Grillo è chiamato a rispondere di un post pubblicato nel 2016 sul suo blog. Nell' atto di citazione i dem chiedevano al settantunenne guru pentastellato 1 milione di euro di risarcimento per diffamazione. Un vero colpo basso per chi, come il parsimonioso Grillo, è stato privato della copertura legale da parte del Movimento. Ma a quanto risulta alla Verità, la «sintonia perfetta» potrebbe portare a una soddisfacente transazione. Nelle scorse ore ci risulta che i difensori di Grillo abbiano contattato il senatore Luigi Zanda (che, da buon avvocato, segue passo passo la delicata causa) per trovare un accordo. Chi ha parlato con il tesoriere pd riferisce di trattative in via di definizione. Anche perché il post incriminato prendeva di mira, come vedremo, Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, oggi fuoriusciti dal Pd. Ma se l' intesa non verrà formalizzata entro il 4 febbraio, si renderà necessario un rinvio e le parti avrebbero individuato come prossima data d' udienza il 15 dicembre 2020. La lunga posticipazione sarebbe giustificata dal fatto che i legali starebbero lavorando, a quanto ci riferiscono fonti ben informate, a una composizione globale di tutte le controversie in corso tra i due schieramenti, una specie di condono tombale. Insomma non solo Grillo non dovrà aprire il portafogli, ma Pd e 5 stelle proveranno a chiudere tutte le cause avviate in questi anni, comprese quelle nate intorno al caso Bibbiano. Un mega accordo che includerà numerosi procedimenti e necessiterà di tempi lunghi per limare i dettagli. Una pax che consoliderebbe l' alleanza giallorossa, rendendo più profondo il solco con la linea che fu di Di Maio e di Casaleggio junior. L' avvocato Massimo Zaccheo, uno dei legali del Pd, non si sbilancia: «Mediazioni in corso? Le ignoro del tutto. Ho contezza di un' udienza fissata il 4 febbraio. Non posso escludere che ci siano rinvii, soprattutto se le notifiche a comparire non fossero state inviate nei termini». La lista dei testimoni che dovrebbero (o forse avrebbero dovuto) raccontare al giudice il funzionamento del blog e il ruolo di Grillo nella gestione dello stesso è lunga: gli avvocati del Pd erano pronti a convocare in tribunale, tra gli altri, Casaleggio junior, Di Maio e Alessandro Di Battista. Ma forse ora gli esami salteranno, così come l' interrogatorio del convenuto Grillo. Va ricordato che a casa del comico si vivono ore d' ansia anche per un altro procedimento, quello in cui è indagato Ciro Grillo, l' ultimogenito del garante dei 5 stelle e della seconda moglie, l' iraniana Parvin Tadjik. Il diciannovenne e tre suoi coetanei sono accusati di violenza di gruppo nei confronti di una studentessa italo-norvegese. Lo stupro si sarebbe consumato nell' appartamento dei Grillo in Costa Smeralda, nel luglio scorso. La notizia dell' inchiesta uscì sui giornali il giorno successivo alla formazione del nuovo governo 5 stelle-Pd e alla conferma al ministero della Giustizia di Alfonso Bonafede, esponente grillino. Il procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso fu attento a non influenzare l' agenda politica dando pubblicità alle attività d' indagine. Anche perché tra fine agosto e inizio settembre Grillo era molto attivo sui media nel sostenere la nascita del nuovo governo in tempi rapidi, proprio nelle ore in cui i carabinieri bussavano a casa sua per sequestrare al figlio il cellulare. Al momento il procedimento è in una fase di stallo, in attesa del deposito della consulenza tecnica sugli apparati elettronici degli indagati. Il procuratore ha concesso la seconda proroga, il cui termine ultimo e inderogabile è fissato per il prossimo 27 gennaio. Anche la scelta di questa data potrebbe essere stata dettata dalla già citata sensibilità istituzionale degli inquirenti: si discuterà dei contenuti dei telefonini, certamente poco commendevoli, dopo le decisive elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria. Ma torniamo alla causa civile. Lo scontro inizia nel marzo 2016, quando Matteo Renzi è premier e segretario del Pd. Il casus belli sono le dimissioni dell' allora ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi. Sul blog di Grillo compare un post intitolato «Matteo Renzi e Maria Elena Boschi a casa». L' attacco non è firmato, ma ha un contenuto abrasivo. Subito dopo la pubblicazione il Pd decide di presentare un atto di citazione per diffamazione nei confronti di Grillo, supposto dominus del sito e dei profili Twitter e Facebook collegati. Quasi contemporaneamente Davide Casaleggio annuncia che la comunicazione dei 5 stelle verrà veicolata non più dal blog Beppegrillo.it, ma dal Blog delle stelle. Un anno dopo, nella primavera del 2017, i legali del comico, nella loro memoria difensiva, sostengono che il loro cliente «non è responsabile, quindi non è autore, né gestore, né moderatore, né direttore né titolare del dominio, del blog, né degli account Twitter, né dei tweet e Facebook, non ha alcun potere di direzione e controllo sul blog, né sugli account Twitter e su ciò che viene postato». Adesso Grillo offre il calumet della pace ai suoi vecchi nemici del Pd. Agli altri, anche interni al Movimento, penserà dopo.
Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 28 Gennaio 2020. Ci vorrà ancora del tempo per chiarire se c' è stata o no violenza di gruppo nella «notte brava» (16 luglio scorso) in Costa Smeralda: il figlio di Beppe Grillo, Ciro, e tre amici, tutti fra i 19 e i 20 anni, di Genova sostengono che la studentessa/modella, loro coetanea, era consenziente. Lei, milanese di madre del Nord Europa, invece ha affermato: mi hanno fatto bere e hanno abusato a turno di me. La verità sta nei 7 smartphone dei giovani, vittima e presunti stupratori, sequestrati dopo che i carabinieri di Milano hanno raccolto la denuncia della studentessa. La Procura della Repubblica di Tempio a settembre aveva ordinato una perizia, ieri scadevano i termini, ma non si sa se il tecnico (fonico e informatico) abbia depositato, se si riservi di farlo fra qualche giorno o se abbia chiesto un'ulteriore proroga, motivata dall'abbondanza e dalla complessità del materiale repertato, di cui fanno parte anche un video «girato» da uno degli amici (Vittorio Lauria, Francesco Corsiglia e Edoardo Capitta) di Ciro Grillo e alcuni sms scambiati con la ragazza nei giorni successivi alla «notte brava». I quattro ragazzi avevano conosciuto la studentessa e una sua amica al Billionaire, poi a notte inoltrata si erano trasferiti a casa di Grillo al Piccolo Pevero, due appartamenti contigui; una delle ragazze, ubriaca, si era profondamente addormentata. L'altra, stordita dall' alcool, ha raccontato di essere stata violentata in una doccia, quindi scaraventata su un letto, infine il mattino successivo accompagnata a un taxi. Finita la vacanza e ritornata a Milano, 10 giorni dopo la violenza, ha raccontato tutto ai genitori ed è andata dai carabinieri. La Procura della Repubblica nei mesi scorsi ha sentito i vicini di casa e la moglie di Beppe Grillo, che stava nell' appartamento attiguo. Parvin Tadijk non avrebbe fornito elementi decisivi: «Dormivo e non ho sentito nulla».
Giacomo Amadori per “la Verità” il 27 giugno 2020. Il procedimento contro Ciro Grillo e tre suoi amici, accusati di violenza sessuale da una ragazza italonorvegese, procede a rilento, anche a causa del Covid-19. A fine agosto, mentre nasceva il nuovo governo, a Grillo junior e ai suoi compagni vennero sequestrati i cellulari. A gennaio il procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha ricevuto dal suo consulente la relazione sulle chat e i video contenuti nei telefonini dei ragazzi. Una perizia di cui non è trapelata nemmeno una parola. Ma se Capasso, esponente della corrente moderata di Magistratura indipendente, è stato straordinario nel blindare il procedimento e i contenuti degli smartphone, di cui dopo quasi un anno si sa poco o nulla, il procuratore sardo deve oggi fare i conti con il grande risalto mediatico che sta avendo un altro processo, quello di Luca Palamara, ex potentissimo consigliere del Csm. Infatti nelle carte del procedimento perugino spunta la chat che ha condiviso con Palamara. Il primo messaggio tra i due risale al 31 ottobre 2017, quando Capasso è pm a Latina e l' interlocutore è membro del parlamentino dei giudici. Il procuratore sardo, juventino sfegatato, dà inizio a un insistente «corteggiamento» per convincere il romanista Palamara ad andare a Torino con lui ad assistere alla sfida tra bianconeri e giallorossi del 23 dicembre 2017. Capasso la prima volta scrive dopo una vittoria della squadra capitolina contro il Chelsea: «Caro Luca, stasera, da buon italiano, ho fatto un gran tifo per una bellissima Roma. Chissà magari riuscirò a trascinarti nel mio stadio per vedere assieme "la partita"...». Palamara risponde: «Verrò sempre con grande piacere e ti aspetto presto». Inizia il pressing di Capasso: «Allora mi attivo... partita e cena al ristorante dello Stadium. Tribuna Cento dove saremo ospitati. E vinca il migliore, Var permettendo. Un saluto affettuoso». La Tribuna Cento è il top: ha i posti più centrali e vicini al campo e, come si legge sul sito della Juve, «oltre ad una posizione privilegiata su poltrone di altissimo comfort» mette «a disposizione servizi di catering di altissimo livello in un ristorante esclusivo». Questi posti valgono circa 350 euro l' uno e vengono acquistati dalle aziende che li mettono a disposizione di clienti e personalità. Il 5 novembre Capasso ricorda a Palamara la sua preziosa offerta: «Il 23 dicembre ho due inviti per una grande partita in primissima fila preceduta da un eccellente pranzo al ristorante dello Stadium. Poco prima di Natale [] Ps se vuoi, ma dubito, ho anche due inviti per la fila posizionata proprio dietro la panchina della squadra locale». Praticamente un bagarino. Il tutto in tripudio di emoticon. Palamara: «Grazie. Mi organizzo e ti faccio sapere». Il 6 dicembre il procuratore sardo ripropone la mercanzia: «Caro Luca se sei pronto il 23 ci attende una grande partita. E in una posizione adeguata. Previa cena al ristorante interno». Palamara cincischia: «Grazie Gregorio un abbraccio e ci sentiamo inizio prossima settimana». Arriva l' antivigilia di Natale e Capasso è un tifoso solo: «Caro Luca sto andando a Torino...Attendevo con piacere un tuo cenno, ma mi rendo conto che il 23 dicembre non è agevole spostarsi e soprattutto lasciare a casa moglie e magari figli. Speriamo di organizzarci per una prossima, importante occasione». Il 31 gennaio Palamara gli scrive: «Contento?». Capasso: «Certo che sì Luca. Grazie per il sostegno. Quando vuoi ci vediamo. Per qualunque cosa, partite comprese». Di che cosa parla Palamara? Quel giorno non ci sono state partite, ma il riferimento potrebbe essere alla notizia che compare pochi giorni dopo su un giornale locale: il Tar del Lazio ha annullato il provvedimento relativo alla nomina di procuratore aggiunto di Latina di Carlo Lasperanza, accogliendo il ricorso presentato proprio da Capasso, che aveva partecipato al concorso. Successivamente i due commentano le partite della Roma e la cavalcata Champions dei giallorossi. Il 24 aprile, invece, affrontano per la prima volta il tema delle nomine: «Se riusciamo giovedì plenum!!!» fa sapere Palamara, con riferimento all' incarico da procuratore a Tempio Pausania del collega. «Magari. Ma è stata finalmente approvata in commissione?», replica Capasso. Palamara: «Sì, caro. Proprio ora». Capasso: «Grazie Luca. Non dico altro». Palamara lo solletica: «Questa estate giro in barca». Capasso: «Ovvio. E calcetto...». Palamara il 9 maggio dà la conferma all' amico: «Plenum!!!». Capasso: «Grazie caro Luca ce l' abbiamo fatta. Io spero di festeggiare pure stasera (è prevista Juventus-Milan di Coppa Italia, ndr)». In estate i due si scambiano una serie di messaggi per organizzare una cena in Sardegna. Si ritrovano il 22 agosto e verso le 10 di sera. Palamara gira a Capasso il numero di cellulare del capo di gabinetto del ministro Alfonso Bonafede, Fulvio Baldi, di cui probabilmente hanno parlato tra una portata e l' altra. Il 23 Capasso commenta: «Bella serata caro Luca e piacere di essere stati assieme. Se vuoi andare al Lamante dell' Oasi di Sabaudia fammi sapere». Lamante è il beach club dell' elegante hotel Oasi di Kufra, in provincia di Latina, dove evidentemente Capasso ha i giusti agganci. Il 6 settembre il neoprocuratore si rifà vivo: «Avrei bisogno di una cortesia, se puoi. Domattina dovrei essere a Roma ed avrei urgente bisogno di parlare con la Fabbrini (Barbara, capo dipartimento dell' organizzazione giudiziaria al ministero della Giustizia, ndr) che non conosco personalmente. Se tu la conosci e puoi in qualche modo mettermi in contatto con lei ti sarei grato. [] Se ritieni che sia meglio potrei anche chiamare Baldi ma dovresti comunque anticiparglielo tu». Verso sera Palamara risponde: «Grande Gregorio ti aspetta domani alle 11.15». Capasso: «Grazie caro. Vado e poi ti chiamo per vederci [] riservatamente che se mi beccano». Il 13 settembre Capasso informa Palamara di essere rimasto con un solo sostituto procuratore in organico e di essersi rivolto alle commissioni del Csm competenti: «Vedi un attimo che si può fare» è il suo invito. A fine settembre Palamara sbarca in Sardegna. Il programma prevede giro alla Tavolara, arrampicata e cena con esponenti delle forze dell' ordine. Tra ottobre e novembre i due provano a organizzare un nuovo incontro conviviale sull' isola con Cosimo Ferri, parlamentare renziano ed ex capo della corrente di Mi. L' occasione per la «grande cena», in cui festeggiare l' ammissione di Capasso a un «corso riservato ai dirigenti degli uffici giudiziari» si presenta il 23 novembre. Da quel momento, a giudicare dalla chat, i rapporti si raffreddano e nel 2019 Capasso e Palamara si scambiano un solo messaggio, a tema calcistico.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 15 gennaio 2020. Alla fine, come nei processi per stupro degli anni '60, finirà che a doversi discolpare sarà la vittima. C' è una ragazza che dice di essere stata violentata: ma il rischio è che ora sia lei a dover spiegare perché ha accettato un invito, o perché non ha rifiutato un ultimo bicchiere. E persino perché, qualche giorno dopo i fatti, abbia postato su un social network una immagine in cui appare sorridente. Non è una indagine qualunque, quella dove la presunta vittima rischia di essere torchiata come una indagata. Perché tra i quattro maschi che il 26 luglio, in una caserma milanese dei carabinieri, la ragazza ha deciso di denunciare per violenza carnale c'è un figlio eccellente: Ciro Grillo, figlio di Beppe. E proprio nella villa in Costa Smeralda del fondatore del M5s era avvenuta, dieci giorni prima, la festa finita in sesso: sesso forzato, secondo la ragazza, con Grillo junior e i quattro amici che si danno il turno sopra di lei, rintronata dall'alcol e incapace di difendersi. Ma a quasi sei mesi dalla denuncia, la verità giudiziaria sembra ancora lontana. La Procura di Tempio Pausania, competente per territorio, ha prima promesso «indagini rapide», poi una ulteriore «accelerata». Eppure di una conclusione delle indagini non si parla nemmeno. Ultimo atto istruttorio di cui si sia avuta notizia, l'interrogatorio di Parvin Tadjk, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, che quella notte era in una dépendance della villa: il 22 ottobre, convocata dal procuratore Gregorio Capasso, la Tadjk pare abbia detto di non essersi accorta di nulla. Ma della lentezza delle indagini la Procura non ha molta colpa. Se tutto procede molto a rilento è perché sotto accusa non ci sono dei peruviani ubriachi ma quattro rampolli della Genova bene, in grado di esercitare pienamente i loro diritti alla difesa. Ciro Grillo e i suoi amici hanno ad assisterli uno staff agguerrito di legali. E hanno un loro supertecnico informatico, il genovese Mattia Epifani, pronto a scendere in campo in uno dei terreni che potrebbero risultare decisivi per l'inchiesta, ovvero l'analisi degli smartphone e dei profili social dei protagonisti. Non solo dei quattro indagati, ma anche della diciannovenne milanese che li ha denunciati. I ragazzi hanno consegnato spontaneamente telefoni e password, ma ora il problema è risalire ai contenuti cancellati. Per questo l' 11 settembre la Procura ha nominato un suo consulente, che ha aperto le memorie alla presenza del perito della difesa, che ha potuto estrarre copia ufficiale dei contenuti. La relazione del consulente dei pm ha impiegato parecchio più del previsto, e fino a ieri Natale non risultava ancora depositata. Ma l'ostacolo principale è quello che rischia di aprirsi subito dopo, quando i contenuti andranno analizzati uno per uno. Se questo dovesse avvenire alla presenza e in contraddittorio con il consulente della difesa l'analisi potrebbe impiegare mesi e mesi. In teoria, avendo a disposizione la copia del materiale, Epifani potrebbe lavorare autonomamente. Ma gli avvocati sembrano (legittimamente) intenzionati a chiedere la sua presenza. Rapporto consensuale o stupro, questo è il nodo da sciogliere. Gli inquirenti hanno già in mano un video girato durante la festa: evidentemente non risolutivo, tanto che vittima e accusati, attraverso i rispettivi legali, ne danno letture opposte. Così nei messaggi e nei post si cerca di ricostruire i rapporti tra i ragazzi genovesi e la milanese prima e soprattutto dopo la notte a villa Grillo. E le difese sarebbero orientate a rinfacciare un selfie in cui, qualche giorno dopo il 16 luglio, la ragazza appare sorridente in compagnia dei genitori. Basterà questo a provare che ha mentito?
Luca Fazzo per “il Giornale” il 21 novembre 2020. Doppio trattamento soft, paragonato agli altri casi di stupro: nessuna richiesta di arresti e indagine durata quasi un anno e mezzo. Ma, alla fine, per Ciro Grillo e i suoi compagni di baldorie in Costa Smeralda arriva la resa dei conti: la Procura di Tempio Pausania ha deciso di chiedere il rinvio a giudizio per violenza carnale di gruppo del figlio dell' ex comico, fondatore del Movimento 5 Stelle, e degli altri tre «bravi ragazzi» che, in una notte di metà luglio del 2019, fecero quel che volevano, a turno, uno dopo l' altro, con una ragazza capitata tra le loro grinfie. L' avviso di fine indagini è stato recapitato nei giorni scorsi, a breve arriverà la richiesta di rinvio a giudizio. Come nei cliché più consunti, i quattro giovani, spalleggiati dai loro avvocati, hanno cercato per tutti questi mesi di rimpallare la colpa sulla vittima, «era lei che ci stava». Consensuale, hanno detto, il primo rapporto con uno del quartetto; e consensuali anche quelli successivi, con il resto del gruppo. Per sostenere questa tesi hanno chiesto e ottenuto che la Procura sequestrasse e analizzasse non solo i loro smartphone ma anche quelli della ragazza, per dimostrare la sua disponibilità sia prima che dopo la notte trascorsa nella villa di Beppe Grillo, dove si sarebbe consumata la violenza di gruppo. Tentativo vano, alla fine. Gli inquirenti si sono convinti che la versione dei «rapporti consenzienti» su cui si erano arroccati gli indagati non trovi nessun appiglio nel materiale esaminato. Fu uno stupro, punto e basta. D' altronde sul profilo social di Ciro Grillo, prima che venisse oscurato, i cronisti del Messaggero scovarono messaggi eloquenti: «Ti stupro, bella bambina, attenta». Il 16 luglio l'aggancio avviene al Billionaire, il locale di Flavio Briatore a Porto Cervo, dove Grillo junior passa la serata con gli amici e dove incontra la ragazza, già conoscente di uno del gruppo. È lì con una amica ed entrambe accettano di proseguire la notte nella grande villa che l'ex comico possiede poco distante. Si beve, tanto. E nel racconto della ragazza quel che accade dopo non è molto dissimile dalle brutalità messe a verbale recentemente dalla vittima di un altro vip, l' imprenditore milanese Alberto Genovese. Rintronata dall' alcol, incapace di reagire, la ragazza viene passata da uno all' altro dei giovani, mentre qualcuno si occupa di filmare tutto con il telefonino. «Non ho sentito niente», dichiarò in ottobre Pavin Tadik, moglie di Grillo, anche lei presente il 16 luglio nella villa di famiglia. La ragazza tornò a Milano e, come spesso accade, impiegò alcuni giorni a trovare la forza di presentare denuncia alla stazione Duomo dei carabinieri. Dopo i primi accertamenti, il fascicolo venne trasmesso per competenza alla Procura di Tempio Pausania, che ora tira le fila decidendo di portare i quattro sul banco degli imputati. Resta il tema dei tempi lunghi dell' indagine, che già a gennaio aveva spinto il Giornale a denunciare «Quell' inchiesta lumaca sulle accuse di stupro al rampollo di Grillo». Non è chiarissimo come sia stato possibile che per interrogare l'unica possibile testimone, la moglie di Beppe Grillo, anche lei presente nella villa quella notte, siano passati quasi due mesi dopo la presentazione della denuncia; e non è chiaro neanche perché l' analisi dei tabulati e delle memorie dei telefoni abbia impiegato quasi un anno. Nel frattempo la ragazza, una studentessa milanese di origine svedese, ha scelto di essere difesa da Giulia Bongiorno, la senatrice leghista che della difesa delle vittime di stupro ha fatto una sua battaglia.
Giacomo Amadori Fabio Amendolara per “la Verità” il 22 novembre 2020. Con il deposito degli atti del processo di Tempio Pausania contro Ciro Grillo e tre suoi amici (Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria) il clima politico rischia di surriscaldarsi. Sino al nostro scoop di ieri nessuno (o quasi nessuno) in Parlamento sapeva che cosa contenesse davvero il fascicolo giudiziario per violenza sessuale di gruppo aggravata dall' uso di sostanze alcoliche, un processo che sembrava avanzare a tempo di lumaca verso un binario morto. Tanto che molti, nel governo giallorosso, stavano tirando un sospiro di sollievo. Ma adesso è arrivata la bomba. Nell' avviso di chiusura delle indagini viene ricostruita la terribile notte di S. J. e R. M., le due amiche finite nelle grinfie del branco dopo una serata ad alto tasso alcolico. Ma, anche se non si parla di video, si fa riferimento a una compromettentissima foto che ha come protagonista proprio Ciro: «In particolare Grillo, alla presenza di Capitta che scattava fotografie per immortalarlo e di Lauria, appoggiava i propri genitali sul capo di R. M., la quale, in stato di incoscienza perché addormentata, era costretta a subire tale atto sessuale» hanno scritto il procuratore Gregorio Capasso e la pm Laura Bassani. Uno scatto che è stato depositato e che è adesso nella disponibilità delle parti. Ma quell'immagine brutale del maschio dominante che estrae lo scettro della sua virilità e lo poggia come atto di sottomissione sulla testa di una giovane svenuta sarà difficile da far digerire a un elettorato fortemente legalitario. Ma soprattutto il padre di tanto virgulto come affronterà il procedimento giudiziario? Attaccherà i pm come un Renzi qualsiasi? Scaricherà il figlio? Lo difenderà a dispetto di tutto, anche di fronte a quella foto ipermaschilista di un giovanotto già capace di scrivere su Internet «ti stupro bella bambina»? Certo la vicenda nei prossimi mesi non potrà non influire sugli equilibri dei 5 stelle, già lacerati dai conflitti interni. Quel che è certo è che il processo sardo è una mina su cui stanno danzando in molti, a partire dai magistrati (basti ricordare che il Guardasigilli Alfonso Bonafede è un fedelissimo di Grillo) che in tutta questa storia stanno evitando ogni esposizione mediatica o diffusione di atti giudiziari, cosa rarissima in casi come questo. Nei mesi scorsi avevamo sottolineato la lentezza delle indagini e c'era chi parlava di archiviazione annunciata. Il tempo medio trascorso tra l'iscrizione nel registro delle notizie di reato e il rinvio a giudizio o l'archiviazione è stato stimato, dalla Direzione generale di statistica del ministero della Giustizia, in 216 giorni per il delitto di atti persecutori e in quasi 400 per quelli di violenza sessuale e maltrattamenti. In questo caso le indagini sono state chiuse 493 giorni dopo il fatto, ma per l'eventuale rinvio a giudizio si potrebbe arrivare ben oltre i 600, cioè un terzo in più della media. Qualcuno potrebbe obiettare che in mezzo c'è stato il lockdown. Tempi a parte, sarà difficile per gli indagati mettere tutto a tacere o comprare il silenzio delle famiglie delle vittime. Infatti i giovanotti avrebbero abusato di ragazze con alle spalle famiglie dai moltissimi mezzi. Il padre di S. J. gestisce un fondo, la madre è una manager, il babbo di R. M. è un importante banchiere che ha ricoperto incarichi apicali anche in istituti americani e svizzeri. I papà sono due finanzieri di livello internazionale (le figlie sono nate a Bruxelles e a Londra) e le loro ragazze si sono conosciute in uno dei più esclusivi licei di Milano. Entrambe le famiglie hanno scelto il massimo riserbo, che non va scambiato per arrendevolezza. Anzi. I genitori di S. J., quando hanno visto che il procedimento andava a rilento, hanno ingaggiato l'avvocato Giulia Bongiorno, uno dei legali più quotati d'Italia. Un messaggio chiaro ai magistrati, ma anche alla famiglia Grillo. A ingaggiare la Bongiorno è stato T. J., norvegese di origine e milanese di adozione. L'uomo, dai toni pacatissimi, è però molto deciso. «Tutte le altre istituzioni sono state più che veloci, più che competenti, più che lodevoli e dal nostro punto di vista i tempi si sono allungati nel processo, e si può dire che è sempre così in Italia e in alcuni altri Paesi. Uno può archiviare questa sensazione di lentezza nella scatola c e dire che il sistema è lento in ogni processo [] il sistema è quello che è, dobbiamo essere fiduciosi che produca quello che deve produrre e alla fine porti a una giustizia imparziale rispetto a tutto. La sola influenza che abbiamo noi è di scegliere una persona che può ben rappresentare nostra figlia []Noi ovviamente speriamo che nel nostro caso si vada a processo e che tutto proceda secondo giustizia». Gli abbiamo ricordato che in Italia c'è una legge, il cosiddetto codice rosso che dovrebbe accelerare, questo tipo di procedimenti: «Un anno fa, mi ricordo bene, la notizia aveva creato un po' di speranza per un processo veloce». Una scorciatoia che non sembra aver funzionato in questo caso. Quando qualche settimana fa avevamo chiesto a T. J. se non ci fossero prove evidenti di costrizioni nei confronti della sua ragazza aveva sorriso amaro: «Penso che non dovrei commentare il caso perché è il patto con il nostro avvocato. Ho parlato già troppo, vero?». Gli riferimmo che ci sembrava stano che un cittadino italiano medio, nei suoi panni, si sarebbe lamentato della giustizia italiana e del peso politico della controparte. Risposta: «Io sono sicuramente uguale, ma ho tanto rispetto di quelli che abbiamo incontrato e che hanno mostrato grande impegno, aiutandoci in ogni fase, dal pronto soccorso ai carabinieri». Si capisce che non si fida sino in fondo del nostro sistema giudiziario e ricorda che nella finanza non amano firmare contratti soggetti alla giurisdizione dei tribunali italiani. Ma alla fine il suo unico pensiero è per sua figlia: «Io sono il padre che deve stare vicino alla figlia e basta [] purtroppo una ferita fisica, un virus può passare, ma i danni che fanno le persone, questi trasgressori, non vanno via facilmente». Così T.J.. E l' altro papà, P.M., il banchiere? E ancora più defilato. A quanto ci risulta non avrebbe preso un avvocato, né al momento sarebbe intenzionato a costituirsi parte civile nonostante gli sia stato recapitato l'avviso di chiusura indagini in cui la figlia è stata considerata vittima di abusi. Grillo, che in questo periodo non si mostra molto in giro, non ha smesso di essere attivo sui social anche quando, forse, aveva già ricevuto l'avviso di chiusura delle indagini, firmato il 6 novembre dai pm. L'Elevato potrebbe aver ricevuto la notifica già quel giorno. Il 9 su Facebook ha pubblicato un post su come il codice postale plasmi profondamente il destino di chi vive nelle grandi città. E nei giorni a seguire ha parlato di digitale e di riserve indiane. Il 15 ha postato una frase di Italo Calvino: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall' alto, non avere macigni sul cuore». E passando per vari commenti ecologisti, è arrivato a ieri discettando di riconversione dei «sistemi produttivi nazionali verso la neutralità climatica». Come se nulla fosse accaduto.
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2020. La vendetta è un piatto che si consuma freddo. Basta avere pazienza e l' occasione si presenta quasi inevitabilmente, dietro uno dei tanti tornanti della vita. Da che Salvini ha piantato in asso M5S, non è passato giorno senza che i grillini attingessero al loro ricco serbatoio di contumelie e aggressività repressa per insultare la Lega, diventata - anzi, tornata a essere - nella narrazione dei cinquestelle, «neofascissta», «pericolosa», «inaffidabile», «antitaliana». La notizia è che a tappare la bocca a Beppe Grillo sarà con ogni probabilità Giulia Bongiorno, l' avvocato che Salvini ha candidato al Senato e che il leader leghista si è scelto per difenderlo dall' accusa di essere un sequestratore seriale nei processi che ha in giro per la Sicilia da che si è opposto da ministro agli sbarchi dei clandestini dalle navi delle organizzazioni umanitarie. La celebre penalista, paladina delle donne abusate, a sostegno delle quali nel 2007 ha creato con Michelle Hunziker la fondazione Doppia Difesa, ha infatti assunto la tutela di una delle due ragazze che, con le loro denunce, hanno portato alla sbarra Ciro Grillo, il figlio del comico intristito, accusato di stupro in complicità con tre suoi compagni di merende. La vicenda è nota. Quando svacanzava un paio d' estati fa nei possedimenti paterni in Costa Smeralda, il grillino di nome e di sangue ha agganciato due ragazze al Billionaire di Briatore e le ha portate in villa. Ne sarebbe seguita una notte di alcol e abusi, mentre nell' appartamento a fianco, mamma Parvin, moglie del fondatore di M5S, dormiva senza accorgersi di nulla. La denuncia giace in tribunale da un anno e mezzo. I maligni sostenevano che la lunghezza delle indagini non fosse dovuta ai tempi biblici della giustizia. Si insinuava che l' inchiesta staganasse dolosamente, una spada di Damocle in grado di condizionare il comico e indurlo a sostenere il rapporto incestuoso di governo tra M5S e Pd, che guarda caso data poco dopo il fattaccio denunciato, il quale coincide perfettamente con la svolta europeista di M5S, momento fondamentale della rottura del governo gialloverde. Fatto sta che la manfrina ha inquietato i genitori di una delle due ragazze, i quali hanno pensato di cambiare avvocato e far rappresentare la figlia dalla Bongiorno. Quando si dice «basta il nome», l' indagine ha avuto un' immediata accelerazione e sembrerebbe che il rinvio a giudizio di baby Grillo e amici sia imminente, con tanto di immagini tratte dai telefonini dei ragazzi che ne documenterebbero le gesta erotiche e poco cavalleresche. La dovuta premessa è che nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio e che ci auguriamo che Ciro figlio di papà sia vittima di una di quelle campagne di fango e screditamento personale di cui i cinquestelle sono maestri, benché ci sembri improbabile che l' avvocato Bongiorno si imbarchi in una causa temeraria, per di più gravata di inevitabili ricaschi e polemiche politiche. Detto questo, è evidente che l' apertura del processo rischia di segnare la fine della parabola del fondatore di M5S, e forse dello stesso Movimento. Con il padre condannato per triplice omicidio (colposo), tra cui quello di un bambino di nove anni, e il figlio alla sbarra con accuse non troppo diverse da quelle per le quali a Milano è in carcere il milionario fondatore di Facile.it, Alberto Genovese, la famiglia Grillo rischia di avere una fedina penale tra le meno edificanti del Paese. A quel punto stonerebbero non poco le battute e le intemerate del comico guru contro politici e cittadini o le accusa Forza Italia di essere «letame», a Salvini di essere «razzista, ladro e puzzone», a Renzi di essere «ebetino, ballista, schifoso e pauroso come una scrofa», ai dem di essere «morti che non hanno mai lavorato». Se le colpe dei figli non devono ricadere sui padri, non possono evitare però di danneggiarne l' immagine pubblica, specie se il genitore si atteggia a e moralizzatore. Non c' è da illudersi che la vicenda, qualunque piega giudiziaria dovesse prendere, abbia ripercussioni sul governo. Conte ed M5S sono impermeabili a tutto. Non si sono fatti scomporre dalla sottovalutazione della seconda ondata di Covid, dai posti mancanti in rianimazione, dai banchi a rotelle, dall'Europa che non ci dà i soldi che ci avevano promesso per mesi, dal fallimento dell' app Immuni, dagli immigrati che oggi muoiono in mare e ai tempi di Salvini no, dalla Cina che ci accusa di aver messo in giro noi il virus, dal processo al suocero di Conte per non aver pagato le tasse, dalla Libia che ci rapisce i pescatori in mare, dalla ludopatia del fidanzato del portavoce di Palazzo Chigi che si giocava il sussidio in borsa, dal reddito di cittadinanza a mafiosi e ricchi risparmiatori e da molto altro. Come si può pensare che un' eventuale accusa di stupro al figlio del fondatore di M5S imbarazzi il Guardasigilli Bonafede o sposti di un centimetro gli equilibri del potere? Servirebbero un po' di autocritica e dignità, merce rara al mercato della politica.
Estratto dell’articolo di Paolo G. Brera per “la Repubblica” il 24 novembre 2020. Sono pesanti come macigni le prove raccolte dal procuratore di Tempio Pausania e dalla sua pm contro Ciro Grillo e i suoi tre amici: la tesi difensiva continua al momento a essere il sesso consenziente, ma dalle memorie dei telefonini sequestrati ai quattro giovani e depositate agli atti dai magistrati emergono particolari agghiaccianti, e un quadro d'insieme sempre più rivoltante. Non ci sono solo le parole della ragazza italo-norvegese che ha detto e ribadito di essere stata violentata da tutti e quattro i giovani, ma anche un' immagine eloquente che ritrae proprio il padrone di casa, Ciro Grillo, mentre oltraggia la sua amica profondamente addormentata dopo essersi ubriacata. […] […] È evidente che la procura non condivide neanche una sillaba della tesi secondo cui la notte folle in Costa Smeralda sarebbe stata una notte di sesso volontario […] Secondo i magistrati inquirenti, il 17 luglio 2019 in uno dei villini affacciati su buca 9 del Pevero Golf, entrambi di proprietà del fondatore del M5S, «mediante violenza, costringevano e comunque inducevano la ragazza, abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica dovuta all' assunzione di alcol, a subire e compiere atti di natura sessuale». È un'aggravante, sul piano processuale. Tutto sarebbe cominciato con un tentativo da parte di Francesco Corsiglia di completare la serata […] con un assalto sessuale a una delle due ragazze, convinta a seguirlo in camera con la scusa di prendere le coperte. L'assalto fallisce, ma lui la bracca in un'altra stanza senza porte dove la violenta mentre gli amici «entravano e uscivano ridendo tra loro e ostruendole il passaggio quando, divincolatasi, la ragazza tentava di allontanarsi». Per lei, l'incubo non era affatto finito lì: a mattina fatta gli altri tre ragazzi «la forzavano a bere vodka, afferrandola per i capelli la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali con ciascuno di loro». E non contenti, non ancora soddisfatti, se la sono presa anche con l'amica, precipitata in un sonno conciliato dall' alcol […]
"FU VIOLENZA DI GRUPPO" IL FIGLIO DI BEPPE GRILLO VERSO IL RINVIO A GIUDIZIO. Estratto di Paolo G. Brera per “la Repubblica” il 20 novembre 2020. […] per la procura di Tempio Pausania non fu affatto «sesso consenziente », come sostengono da più di un anno il figlio di Beppe Grillo e i suoi tre amici. Per quella notte sciagurata in Costa Smeralda, tra vodka e glamour al Billionaire e il letto del suo villino al Pevero, il procuratore Gregorio Capasso ha chiuso le indagini e chiederà il rinvio a giudizio. Sedici mesi di indagini non gli hanno fatto cambiare idea: resta intatta l'accusa di «violenza sessuale di gruppo» per Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, i quattro rampolli in vacanza della Genova bene accusati di avere stuprato una studentessa 19enne dandosi il turno per tutta notte. […] Adesso il dado è tratto: dopo un'inchiesta lunghissima che aveva fatto arricciare il naso ai giornali vicini al centrodestra che presagivano l'insabbiamento e l'archiviazione ( "Quell'inchiesta lumaca sulle accuse di stupro al rampollo di Grillo", titolava il Giornale a gennaio), la procura ha inviato la notifica alle difese mettendo a disposizione il materiale agli atti. È il frutto di un complesso lavoro tecnologico sulle memorie dei telefonini di vittima e indagati - tra immagini e audio, messaggi e tabulati - ma anche su acquisizioni tradizionali con diverse testimonianze. […] Tra un paio di settimane spetterà al gup decidere se rinviare a giudizio, come vuole la procura, o archiviare come sperano le difese. […]
Alessandro Fulloni e Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 20 novembre 2020. La procura di Tempio Pausania ha chiuso le indagini sulla presunta violenza sessuale che lo scorso 16 luglio vide vittima una studentessa diciannovenne di Milano. Quattro gli accusati e per loro il reato contestato è la violenza sessuale in concorso. Si tratta di un gruppo di amici ventenni, tutti di Genova, tra cui Ciro Grillo, figlio di Beppe, il comico fondatore del Movimento 5 Stelle. Gli altri sono Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Il 16 luglio, dopo una serata al Billionaire di Porto Cervo, il quartetto di giovani invitò la studentessa e una sua amica in uno dei due appartamenti che la famiglia Grillo possiede al Piccolo Pevero. «Mi hanno fatto bere per abusare di me... Mi ha violentato uno, poi a turno gli altri tre» raccontò la ragazza ai genitori - assistititi poi dall'avvocato Giulia Bongiorno, ex ministra della Pa nel governo Conte I - dopo essere rientrata dalla vacanza. Dopo la denuncia ai carabinieri di Milano, il 26 luglio, l'indagine è scattata con il sequestro dei cellulari e l'esame delle chat e del video con cui uno dei giovani filmò ciò che accadde all'alba del 16 luglio. L'universitaria «era consenziente» è stata da subito la difesa di Grillo (assistito da Enrico Grillo, nipote di Beppe), Corsiglia (difeso da Romano Raimondo e Gennaro Velle), Lauria (Paolo Costa) e Capitta (Ernesto Monteverde). Dagli avvocati della difesa non filtra nulla, salvo la difficoltà, dovuta all'emergenza Covid, di raccogliere tutti gli atti istruttori. Perciò è stato chiesto un differimento del deposito fissato a 20 giorni. Terminato l'esame dei cellulari da parte dei periti - una per la Procura, uno per i difensori e uno per la parte lesa - il procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso è tornato a sentire l'universitaria che ha confermato il racconto già dato ai carabinieri: lei disse no alla richiesta di un rapporto da parte di un primo ragazzo e venne stuprata. Dopo, gli altri fecero lo stesso. A ottobre venne interrogata anche Parvin Tadjik, la moglie di Beppe Grillo, che la notte del 16 luglio dormiva nell'appartamento accanto a quello in cui si trovavano i quattro ragazzi con le due amiche. Ma la compagna del comico non avrebbe udito nulla.
Il figlio di Beppe Grillo verso il rinvio a giudizio per violenza di gruppo. La procura di Tempio Pausania ha chiuso le indagini. Si va verso il rinvio a giudizio per la vicenda che ha coinvolto, tra gli altri, il figlio di Beppe Grillo. Federico Giuliani Venerdì 20/11/2020 su Il Giornale. Spetterà al Gup, tra un paio di settimane, decidere se rinviare a giudizio Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo, ex comico e fondatore del Movimento 5 Stelle, e i suoi tre amici, tutti accusati di presunta violenza sessuale di gruppo nei confronti di una studentessa 19enne, come vuole la procura, oppure archiviare il caso, come sperano invece le difese dei ragazzi. Certo è che la procura di Tempio Pausania ha chiuso le indagini sulla vicenda risalente all'estate del 2019, una presunta violenza sessuale ai danni di una ragazza di Milano per la quale sono accusati quattro giovani con il reato contestato di violenza sessuale in concorso. Tra questi, spicca il nome del figlio di Grillo.
Verso il rinvio a giudizio. La 19enne sostiene di essere stata abusata e violentata, a turno, dai ragazzi. Che dal canto loro parlano di "sesso consenziente". Secondo quanto riportato da Repubblica, il procuratore Gregorio Capasso ha terminato le indagini e chiederà il rinvio a giudizio. L'analisi del caso è durata 16 mesi, i quali non sono bastati a togliere dal tavolo l'accusa di violenza sessuale di gruppo per Grillo e i suoi tre amici. Nelle ultime settimane, ha sottolineato ancora il quotidiano, la ragazza è stata nuovamente ascoltata dagli inquirenti. In quelle occasioni avrebbe fornito gli ultimi tasselli necessari a ricomporre un puzzle delicatissimo, sia per la natura del reato che per le possibili implicazioni politiche. La procura ha inviato la notifica alle difese e messo a disposizione il materiale agli atti. Materiale formato da trascrizioni, documenti e immagini, frutto di un complicato lavoro tecnologico sulle memorie dei telefoni di vittima e indagati, oltre a varie altre testimonianze. Una volta esaminati i cellulari, il procuratore Capasso ha nuovamente sentito l'universitaria, la quale ha confermato il racconto fornito ai carabinieri. Avrebbe rifiutato di avere un rapporto con un primo ragazzo e sarebbe stata stuprata; in seguito anche gli altri giovani avrebbero abusato di lei.
Un mosaico complesso. La vicenda, come detto, è tanto complessa quanto delicata. Nella notte del 16 luglio 2019 quattro giovani, tra cui Ciro Grillo, stavano passando una serata al Billionaire, in Sardegna. Sarebbero quindi usciti dal locale assieme a due studentesse che avevano accettato di terminare la serata nella villa di Grillo. Che cosa è successo a quel punto? Le versioni discordano. Una delle amiche si addormenta. La ragazza rimasta sveglia sostiene di essere stata costretta ad avere un rapporto con uno dei giovani – con il quale si era appartata - e di essere stata violentata, fino al mattino, dagli altri tre. Dal canto loro i ragazzi ammettono il sesso gruppo ma sostengono che la 19enne fosse consenziente e consapevole. Tanto è vero – aggiungono – che dopo il primo rapporto i due giovani sarebbero andati, insieme, ad acquistare le sigarette, e che al ritorno lei avrebbe avuto rapporti consenzienti con gli altri due. Spetterà alla giustizia fare chiarezza sull'intera vicenda.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” il 24 novembre 2020. (…) Ciro Grillo, il figlio ventenne del fondatore dei Movimento 5 stelle Beppe (…) rischia, insieme con tre suoi coetanei, un processo per violenza sessuale di gruppo e per questo aggravata. Sono infatti terminate le investigazioni del procuratore di Tempio Pausania Gregorio Capasso e della pm Laura Bassani per il presunto stupro e altri abusi perpetrati da Grillo junior, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria ai danni di due coetanee, S. J. e R. M.. L'avviso di chiusura delle indagini inviato lo scorso 6 novembre ai quattro e ai loro avvocati contiene una grande sorpresa. La vittima dei giovani non è stata considerata solo S. J., ventenne italo-norvegese, ma anche l' amica R. M.. L' inchiesta ha clamorosamente smentito la linea difensiva dei legali che vorrebbero far passare l' idea di due ragazze disponibili, alla fine di una serata di bisboccia, a concedersi una gang bang. Ma forse queste due giovani, studiose e cresciute in solidi contesti famigliari, non sono inquadrabili in facili stereotipi estivi. (…) Leggendo le due paginette con le contestazioni appare abbastanza evidente che gli inquirenti nei cellulari dei quattro ragazzi genovesi abbiano trovato le prove di una nottata di inaudita brutalità. Adesso uno dei quattro eredi del comico genovese e i suoi amici sono accusati di violenza sessuale aggravata dall' essere di gruppo. Nel primo capo d'imputazione sono tutti accusati perché in concorso tra loro, la notte del 17 luglio 2019, «riuniti presso l' abitazione a loro in uso, sita in Cala di Volpe di Arzachena, partecipavano ad atti di violenza sessuale in danno di S. J.». L' appartamento citato è di proprietà della famiglia Grillo e si trova in un esclusivo golf club. La notte dello stupro sotto quel tetto dormiva anche la mamma di Ciro, Parvin Tadjik. La quale non avrebbe sentito nulla. Ma continuiamo a leggere: «Mediante violenza, costringevano e comunque inducevano S. J., abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica dovuta all' assunzione di alcol, a subire e compiere atti di natura sessuale». A questo punto inizia la descrizione dettagliata dell' orrore. Corsiglia, dopo aver chiesto alla studentessa milanese di accompagnarlo in una stanza da letto per prendere delle coperte «la afferrava per le braccia, la scaraventava sul letto e la baciava in bocca». Era solo l' inizio: «Continuava poi la condotta violenta nel tentativo d avere un rapporto sessuale, mettendosi nuovamente sopra di lei e allargandole le gambe, ma S. J. riusciva a divincolarsi e a uscire dalla stanza». L'incubo, però, era destinato a continuare. «Corsiglia si infilava nel letto di un' altra stanza priva di porta, in cui la J. si era coricata, la afferrava per i capelli spingendola sotto la coperta e tirandola su di sé, la costringeva a subire un rapporto orale; poi la girava mettendola in posizione supina e sdraiata, e, dopo averle abbassato anche l' intimo, la costringeva a un rapporto vaginale». E nel frattempo, secondo gli inquirenti, che cosa stavano facendo gli altri indagati? «Entravano e uscivano dalla stanza ridendo tra loro e ostruendo il passaggio alla J., quando, divincolatasi, la ragazza tentava di allontanarsi, consentendo in tal modo a Corsiglia di raggiungerla nuovamente, di afferrarla e spingerla nel box doccia del bagno, dove la costringeva a subire un ulteriore rapporto vaginale» mentre i compagni di scorribanda, rimasti fuori, «commentavano tra loro». Successivamente, quando oramai si era fatto giorno ed erano circa le 9 del mattino, Grillo, Capitta e Lauria sarebbero andati a caccia della loro parte, probabilmente ispirati dai video dei siti pornografici della categoria «rough sex», il sesso violento. In questo caso per nulla consensuale: «La forzavano a bere della vodka, afferrandola per i capelli e tirandole indietro la testa» e «la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali e segnatamente la masturbazione dei propri organi digitali e ripetuti rapporti orali e vaginali, contestualmente e con ciascuno di loro». Anche in questo caso gli indagati avrebbero approfittato «delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della J., la quale era reduce da un' intera notte insonne trascorsa in discoteca, dalle violenze sopra descritte ed aveva comunque ingerito una consistente quantità di vodka». Per questo gli inquirenti contestano l' aggravante dell' utilizzo di sostanze alcoliche. Ma la notte brava di Grillo, Capitta e Lauria non è finita qui. Infatti i tre «partecipavano anche ad atti di violenza perpetrati in danno dell' amica di J., R. M.». E in questo frangente il figlio del comico genovese si sarebbe distinto: «In particolare Grillo, alla presenza di Capitta che scattava fotografie per immortalarlo e di Lauria, appoggiava i propri genitali sul capo di R. M., la quale, in stato di incoscienza perché addormentata, era costretta a subire tale atto sessuale». Per poter muovere questa accusa i magistrati avranno trovato sui cellulari l' immagine di Ciro che troneggia sulla preda umiliata, come il cacciatore che si fa immortalare con il piede sulla selvaggina priva di sensi. Adesso i difensori, tra cui Enrico Grillo, nipote di Beppe, avranno una ventina di giorni di tempo per depositare memorie e per far ascoltare i loro assistiti. Il passo successivo, salvo clamorosi colpi di scena, sarà la richiesta di rinvio a giudizio per i quattro indagati da parte della Procura.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 25 novembre 2020. Quella sciagurata notte, a Porto Cervo, fu senza freni. C' era chi beveva senza limite, chi abusava, chi fotografava gli abusi e chi li filmava, per poi scambiarsi i ruoli. E c' erano loro, le due ragazze, studentesse figlie dell' alta borghesia milanese, rimorchiate al Billionaire dai quattro amici e finite a casa di uno di loro, Ciro, il figlio ventenne di Beppe Grillo. Quattro ragazzi, molta vodka e un party da chiudere con un chiaro obiettivo: sesso. Nessuno nega che il finale sia stato quello ma il punto è un altro: le ragazze erano consenzienti, come sostengono i quattro amici, o c' è stata violenza, come ha denunciato una delle due? La Procura di Tempio Pausania, che ha chiuso le indagini su questa delicata vicenda che risale al 17 luglio dello scorso anno, giudica credibile la ragazza e dunque considera le studentesse vittime di violenza sessuale. E carica l'accusa con due aggravanti: quella di averla commessa con l'uso di «sostanze alcoliche» e in gruppo. Cioè, gli inquirenti ritengono che i ragazzi abbiano prima ubriacato le studentesse e poi approfittato dello stato di torpore e semincoscienza in cui erano piombate. I quattro «costringevano e comunque inducevano S., abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica dovuta all' alcol, a subire e compiere atti sessuali», scrive il pm Laura Bassani nel documento di chiusura delle indagini. Insomma, S. non era più in sé e loro l'avrebbero stuprata. Conclusione alla quale gli inquirenti sono giunti dopo aver analizzato i telefonini dei quattro giovani, tutti ventenni genovesi di buona famiglia, nei quali sono stati trovati video e foto che confermerebbero la versione data dalla ragazza: «Ero completamente ubriaca, hanno continuato a farmi bere anche dopo l' uscita dalla discoteca». Dopo aver esaminato le immagini i magistrati hanno così stabilito che Ciro e i suoi amici l' hanno obbligata «a bere della vodka tenendola per i capelli e costringendola ad avere rapporti sessuali». C'è un video di quella notte considerato più significativo degli altri perché riprenderebbe la violenza di gruppo. È stato girato dagli stessi ragazzi mentre si alternavano con S. Per la Procura è un forte indizio. Per la difesa, il contrario, si tratterebbe della dimostrazione che il quartetto non aveva nulla da nascondere, essendo la ragazza consenziente. La Procura ha ricostruito la sequenza dei fatti: uno degli amici di Grillo, Francesco Corsiglia, getta sul letto S., la bacia, cerca un rapporto, lei si libera ed esce dalla stanza. Il giovane la insegue, la blocca e la costringe a un primo rapporto. Mentre gli altri ridono, lui la insegue, la raggiunge e la spinge nel box doccia, «dove la costringe a un altro rapporto»". Dal documento dell' accusa emerge una notte da incubo. L'amica, dopo la sbornia, era invece caduta in un sonno profondo. E qui spunta Ciro che viene immortalato da uno scatto osceno con la ragazza. Gli inquirenti considerano la foto una prova importante dell' abuso e lo sarebbe più dei video perché l' immagine si presta a poche interpretazioni. Come si difendono i ragazzi? «Rapporti consenzienti», hanno ripetuto in questi mesi. «Nessun commento», è oggi il refrain dei loro legali. Temono la strumentalizzazione politica della vicenda, che potrebbe ripercuotersi su Beppe Grillo e sul Movimento Cinque Stelle. Defilata è rimasta anche l' avvocata della ragazza, Giulia Bongiorno: «Non parlo». È uno dei rari casi giudiziari italiani di silenzio assoluto delle parti in causa.
Niccolò Zancan per “la Stampa” il 25 novembre 2020. Il padre sta su balcone, all' ora del tramonto, a guardare il mare: «Non parlo, grazie, andate a fare domande a quello che abita qui a fianco». Il figlio va a correre ogni giorno lungo la strada panoramica, che da Sant' Ilario scende a Nervi. Ha compiuto vent' anni. Si è iscritto a Giurisprudenza, come il fratello maggiore. E tutti insieme adesso a casa Grillo, dietro questa cancellata con la targa in ottone con sopra scritto «Ambasciata italiana Liberland», aspettano in silenzio gli sviluppi di un' inchiesta che fa paura. La procura di Tempio Pausania ha chiuso le indagini per la presunta violenza sessuale avvenuta la notte del 17 luglio 2019 in un' altra casa del fondatore del Movimento 5 Stelle. È la proprietà composta da due appartamenti contigui - 80 metri quadrati l' uno - in un golf club di Cala di Volpe, in Costa Smeralda, Sardegna. Quella notte, in uno degli appartamenti c' erano quattro amici di Genova e due ragazze. C' erano Ciro Grillo, figlio minore di Beppe Grillo, con Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Durante una serata a base di vodka alla discoteca Billionaire, avevano conosciuto due ragazze di Milano e le avevano invitate per una spaghettata proprio a casa di Ciro Grillo. La ricostruzione di quella notte, fatta dall' accusa, adesso è agli atti. «I quattro costringevano e comunque inducevano X, abusando delle sue condizioni di inferiorità fisica e psichica dovuta all' alcol, a subire e compiere atti sessuali». «Entravano e uscivano dalla stanza ridendo tra loro e ostruendo il passaggio a Y, quando, divincolatasi, la ragazza tentava di allontanarsi, consentendo in tal modo a Corsiglia di raggiungerla nuovamente, di afferrarla e spingerla nel box doccia del bagno, dove la costringeva a subire un ulteriore rapporto». «La forzavano a bere della vodka, afferrandola per i capelli e tirandole indietro la testa e la costringevano e comunque la inducevano a compiere e subire ripetuti atti sessuali». La procura ha sequestrato alcuni video nei telefoni dei quattro amici. In uno di questi, Ciro Grillo compie un atto sessuale su una ragazza sfinita dall' alcol, inerte, addormentata. Non è stata una notte di sesso consenziente, come subito aveva cercato di sostenere la difesa, appena la notizia della denuncia era diventata pubblica. Le immagini sequestrate nei telefoni dei quattro amici, secondo la procura, dimostrerebbero il contrario: è stata una notte da incubo. La moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjk, madre di Ciro Grillo, era stata sentita come testimone. Perché la notte del 17 luglio 2019 dormiva nell' appartamento a fianco. Gli investigatori hanno fatto delle perizie acustiche per stabilire se fosse possibile sentire qualcosa di quanto stava accadendo. Ma l' ipotesi di reato adesso è violenza di gruppo aggravata dall' uso di sostanze alcoliche. L' alcol, cioè, sarebbe stato usato per stordire le vittime. L' avvocato incaricato della famiglia Grillo si chiama Enrico Grillo: è lo zio del ragazzo. Non risponde ai giornalisti e non ha mai rilasciato dichiarazioni su questo caso. Degli altri legali che seguono la difesa, accetta di scambiare qualche parola solo l' avvocato Gennaro Vella: «Non possiamo fare un processo di questo tipo sulla stampa. Non diciamo alcunché, se non che contestiamo ogni addebito. Ci difenderemo nelle sedi opportune». Anche l' avvocatessa Giulia Bongiorno, che assiste una delle due vittime, non rilascia dichiarazioni: «Mi hanno cercato in tanti. Anche direttori di giornali. Ma credo che questo sia un processo in una fase troppo precoce. Può darsi che verranno tempi diversi, ma per ora manteniamo un impegno di riservatezza». I quattro ragazzi accusati di stupro si sono cancellati da Instagram: non restano immagini di quell' estate in Sardegna. Ma alcune frasi pubblicate precedentemente sui social da Ciro Grillo circolano ancora nel web e sono, anch' esse, agli atti dell' inchiesta. «La tua bitch mi chiama». «Ti stupro bella bambina attenta». Qui sulla collina di San' Ilario lo vedono passare quasi ogni giorno. «Corre, fa esercizi, tiene molto alla forma fisica. È un ragazzo schivo, non si ferma a parlare». Poche inchieste giudiziarie sono state accompagnate da un silenzio così ostinato e condiviso dalle parti. Nulla a che vedere, per esempio, con il caso di stupro a «Terrazza Sentimento» nel centro di Milano. Chi conosce Beppe Grillo lo descrive molto provato e triste. La procura è convinta di poter dimostrare la violenza. La difesa ha ancora dieci giorni di tempo per produrre le sue contro deduzioni. Poi un giudice deciderà se archiviare il caso o rinviare a giudizio i quattro amici di Genova. «Non vi dovete stupire della riservatezza che circonda questa vicenda», dice ancora l' avvocatessa Giulia Bongiorno «Il mio primo obiettivo è tutelare la vittima. La vittima non va mai messa in un tritacarne mediatico. Deve poter denunciare sentendosi al sicuro, protetta, aspettando il corso della giustizia con fiducia. La maggior parte dei casi di violenza sessuale, per fortuna, vengono trattati lontano dai riflettori. Così dovrebbe essere sempre».
Carmelo Caruso per “il Giornale” l'8 gennaio 2020. Non bastava aver salutato Alessandro Di Battista all' aeroporto. Da ieri, vuole conversare solo con poeti e letterati, e dunque ci lascia anche Beppe Grillo, ultimo riferimento degli incompetenti, patrono degli squinternati, il solo capace di portare all' attenzione dei media il dramma dei terrapiattisti, quegli uomini e quelle donne che non credono nella sfericità della terra: «Cervelli che non scappano davanti a nulla, che non hanno pregiudizi perché nessuna legge della fisica è definitiva». Avevamo infatti segnalato che c' era qualcosa di profondo e nuovo nella commozione di Grillo («Con un velo di commozione ho ieri ricevuto»), da pochi giorni insignito dalla World Umanistic University di Quito (Ecuador) di una laurea in Antropologia, di un dottorato di ricerca in Scienze umane, titoli patacca che hanno fatto sorridere tutti, ma che sul serio hanno cambiato l' uomo che con il vaffa si è preso l' Italia. Non abbiamo potuto che sgranare gli occhi quando sul suo Blog, ormai diventato scientifico e rigoroso più della rivista Science, è apparso il post «L' analfabeta politico», la più formidabile abiura mai apparsa da Galileo in avanti, la più spietata invettiva mai rivolta al M5s. In un sonetto preso da Bertolt Brecht, Grillo si è dunque scagliato contro il peggiore degli individui che a suo parere è l' analfabeta politico che «non sente, non parla né s' interessa degli avvenimenti politici». Fin qui, anche gli specialisti della sua lingua immaginifica e sconclusionata, hanno subito pensato che si trattasse dell' ennesima presa in giro, uno sberleffo che demolisce l' analfabeta, ma in realtà per lodarlo. E invece, Grillo ha continuato nel suo sfogo (allora non era più uno scherzo) e ha in pratica smascherato e demolito il suo elettore, quello che in questi anni ha educato all' antipolitica, ma che, ieri, è stato denunciato al tribunale dei competenti (formato dagli elevati Giuseppe Conte e dal neoministro dell' Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi). Ed è incredibile leggere, sul suo blog, questi passaggi degni di Vilfredo Pareto o presi dall' opera di Max Weber, La Politica come professione: «L' analfabeta politico è così somaro/ che si vanta e si gonfia il petto/ dicendo che odia la politica/ Non sa l' imbecille che/ dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta/ il bambino abbandonato, l' assaltante/ e il peggiore di tutti i banditi». Ha trascritto proprio questo e anche se era impossibile vederlo era possibile tuttavia immaginarlo nella sua villa seduto a fissare la laurea sul muro, la lapide di quanto di eccezionale e catastrofico è riuscito a creare con quel movimento e che adesso ripudia, proprio come le teorie antivacciniste, la piattaforma Rousseau, tutte le diavolerie tecnologiche che oggi, come i vecchi.
Grillo riceve la laurea honoris causa e scherza: «Sono il Dottor Elevato». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 da Corriere.it. «Dottor Elevato», si definisce Beppe Grillo pubblicando su Facebook una sua foto con la corona d'alloro in testa e comunicando «con un velo di commozione» la notizia di aver ricevuto la laurea honoris causa in Antropologia. «La "World Humanistic University" con sede a Miami e a Quito in Ecuador — scrive il fondatore e garante del Movimento 5 Stelle — mi ha conferito la laurea e un dottorato di ricerca in "Human Sciences". Ringrazio il Rettore dell'Università, la Prof.ssa Carmina De La Torre e il Presidente dell'Università, il Prof. Henry Soria, nonché l'ex Console Generale dell'Ecuador in Italia, la Prof.ssa Narcisa Soria e il Prof. Stefano Rimoli, presenti alla cerimonia di consegna». Negli attestati postati da Grillo si legge che ha meritato i due titoli di studio per «il notevole servizio reso all'umanità incentrato sull'aiutare il prossimo con un grande senso di fratellanza, giustizia, equità e umanità» e «in virtù del suo impegno in sostegno dell'educazione e per la leadership esercitata nell'ambito dei servizi sociali e dello sviluppo sostenibile».
Da iltempo.it il 4 gennaio 2020. Udite udite: Beppe Grillo è diventato Dottore elevato. Già, perché il comico genovese e fondatore del Movimento 5 Stelle ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in Antropologia della "World Humanistic University" con sede a Miami e a Quito, capitale dell'Ecuador. Grillo ha annunciato il riconoscimento con un post su Facebook con il quale ha mostrato il meritato "pezzo di carta". "Con un velo di commozione ieri ho ricevuto la Laurea Honoris Causa in Antropologia. La ’World Humanistic University’ con sede a Miami e a Quito in Ecuador, mi ha conferito la laurea e un dottorato di ricerca in ’Human Sciences’. Ringrazio il Rettore dell’Università, la professoressa Carmina De La Torre e il Presidente dell’Università, il Professor Henry Soria, nonché l’ex console generale dell’Ecuador in Italia, la professoressa Narcisa Soria e il professor Stefano Rimoli, presenti alla cerimonia di consegna", ha scritto su Facebook il nostro. Divisi gli utenti dei social tra chi si congratula per il titolo e chi ci scherza su azzardando paragoni con la laurea albanese del Trota Renzo Bossi o giocando con il titolo stesso: "Dottore elevato? Adesso e...levati". Si tratta però di un riconoscimento internazionale ma dal prestigio abbastanza relativo. La "World Humanistic University" è un istituto che promuove "lo sviluppo umano nella sua integrità per incoraggiare la il rafforzamento della conoscenza come bagaglio tangibile e intangibile dell'umanità", si legge sul sito dell'istituto, redatto in inglese è pieno di strafalcioni. Per citarne un paio, nella Boar of gobernance (è scritta così, invece di board of governance) è sbagliato anche il nome del presidente, che qui compare come Henrry Soria. Una università di nicchia: su Facebook ha 391 mi piace.
Francesco Bonazzi per “la Verità” il 5 gennaio 2020. L' incontenibile attrazione dei grillini per l' aggiunta di un tocco trash in ogni curriculum ieri ha colpito ai massimi livelli. Beppe Grillo, l' Uno che vale più di uno, si è raccattato con gran gioia una laurea honoris causa in Antropologia e un dottorato di ricerca in Human sciences dalla World humanistic university, che vanta sedi a Miami e a Quito, in Ecuador, oltre a una pagina Facebook con ben 399 follower. E dopo questa trovata pubblicitaria, l' università registrata in Florida prevede di aprire i battenti entro il 2020 anche in Angola e a Milano. Perché davvero non dobbiamo farci mancare nulla in quest' Italia pentastellata, dove il geometra insegna all' architetto. E questa World humanistic university ha tutti i numeri per prendere il posto della Link University nel cuore del Movimento 5 stelle come fucina della loro prossima classe dirigente. Ieri Grillo si è definito «Dottor Elevato», mentre pubblicava la foto con la corona d' alloro e ammetteva «un velo di commozione». Il suo ascensore sociale, dunque, passa per questa immaginifica istituzione educativa, come ha raccontato egli stesso: «La World humanistic university con sede a Miami e a Quito mi ha conferito la laurea e il dottorato di ricerca in Human sciences». «Ringrazio il rettore dell' università», ha aggiunto il garante di M5s, «la professoressa Carmina De La Torre e il presidente dell' Università, il prof. Henry Soria, nonché l' ex console generale dell' Ecuador in Italia, la prof.ssa Narcisa Soria e il prof. Stefano Rimoli», presenti alla cerimonia di consegna». Il diluvio fantozziano di titoli lo abbiamo lasciato intatto perché chiaramente fa parte della cifra culturale del jet set accademico mondiale nel quale il comico genovese è entrato ieri. Dal regolamento dell' università, apprendiamo che è un' organizzazione senza scopo di lucro, «riconosciuta dallo Stato della Florida e dal dipartimento di Stato», guidata dalla «Society of humanistic sobraph», una società umanitaria di diritto brasiliano con sede operativa in Ecuador. L' oggetto sociale parla di «offerta di dottorati e corsi post-dottorato nell' area specifica delle discipline umanistiche» e di «corsi gratuiti». Quanto ai principi che ispirano la nuova università di Grillo, sono decisamente elevati: «la formazione umana, ancorata ai principi etici e umanitari, per aiutare la società a praticare la giustizia, la solidarietà, il progresso tecnologico e la ricerca [] e collaborando alla riduzione delle questioni sanitarie in tutto il mondo». Ok, dev' essere brava gente. La Milano con il cuore in mano aspetta anche loro. Ma è sui profili personali dei suoi membri, che la World Humanistic dà il meglio di sé, facendo sembrare quelli che insegnano alla Link University di Vincenzo Scotti la Normale di Pisa in trasferta a Roma Ovest. Il presidente, Henry Soria (sul sito «Henrry») vanta quattro lauree in pedagogia e medicine varie ed è consulente dei ministri dello Sport e della Giustizia dell' Ecuador. Il rettore si chiama Carmina De La Torre e nel board d' onore e tra i responsabili dei vari corsi dell' università svetta l' italiano Gianni Rolando, «Principe di San Bernardino, Duca di Piedimonte, Conte di Derthona, Sovrano Gran Maestro dell' Ordine dinastico di San Bernardino e di San Marziano, Magnifico Rettore dell' Accademia dei Nobili Sensi». Sostanzialmente, un ex pilota tortonese di motociclette che si è comprato un' isoletta nell' Oceano. E che nel cv pubblicato dal sito dell' Università vanta anche «una partecipazione al Cantagiro». Tra gli italiani compare anche Giuliano Camera, perito commerciale, dipendente della Regione Lazio, esperto di promozione sportiva e laureato honoris causa dalla stessa World humanistic, come molti altri docenti della stessa. Poi ecco un avvocato milanese, Giancarlo Cipolla, e un odontoiatra romano, Alessandro Mandraffino. Tra gli «eventi» organizzati nel 2019 spiccano il «primo congresso di medicina ancestrale e non convenzionale» e «il primo congresso di sicurezza cittadina e intelligenza emotiva». Sì, per Grillo era troppo perfino l' ex ministro Lorenzo Fioramonti, quello con cattedra a Pretoria.
Grillo e gli altri politici con lauree honoris causa. Il primato di Prodi. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. A ministri, leader di partito e di governo le università italiane e straniere consegnano riconoscimenti accademici. Ingegneria, Scienze politiche, Giurisprudenza, Relazioni internazionali.
Laurea in Antropologia a Beppe Grillo, conferita il 4 gennaio 2020 dalla World humanistic university con sedi a Miami negli Stati Uniti e a Quito in Ecuador. Si tratta di un istituto che promuove «lo sviluppo umano nella sua integrità per incoraggiare la il rafforzamento della conoscenza come bagaglio tangibile e intangibile dell’umanità».
Marco Minniti. Marco Minniti, Pd, ex ministro dell’Interno, ha ricevuto nel settembre 2017 una laurea honoris causa in Relazioni internazionali da parte dell’Università di Perugia.
Michele Emiliano. Il 2 maggio 2016 l’ateneo svizzero Lu. de S., con sedi a Lugano, Malta e Dubai, ha assegnato una laurea honoris causa a Michele Emiliano, Pd, presidente della Regione Puglia.
Marco Pannella. L’Università di Teramo nel febbraio 2015 conferisce una laurea honoris causa in Scienze della comunicazione a Marco Pannella (1930-2016), storico leader dei radicali.
Giorgio Napolitano. Dieci le lauree honoris causa consegnate a Giorgio Napolitano, ex presidente della Repubblica, tra cui quelle delle Università di Bari (2004) in Scienze politiche, di Napoli (2009) in Politiche e istituzioni in Europa, Bologna (2012) in Relazioni internazionali) e Pavia (2015) in Economia, politica e istituzioni internazionali.
Silvio Berlusconi. Silvio Berlusconi nel novembre 1991 ha ricevuto una laurea honoris causa in Ingegneria gestionale dall’Università della Calabria.
Francesco Cossiga. Francesco Cossiga (1928-2010), ex Dc, ex presidente della Repubblica, ha ricevuto quattro lauree honoris causa: nel 1988 dall’Università di Bologna in Giurisprudenza, nel 1994 dall’Università di Navarra (Pamplona) in Giurisprudenza, nel 2004 dall’Università di Sophia in Diritto internazionale e nel 2005 dall’Università di Sassari in Scienze della comunicazione.
Giulio Andreotti. Le università che hanno rilasciato lauree honoris causa a Giulio Andreotti (1919-2013), Dc, più volte ministro e presidente del Consiglio, sono: La Sorbona di Parigi, Loyola di Chicago, Notre Dame di South Bend (Indiana, Usa), Torun (Polonia), di La Plata, di Salamanca, St John di New York, del ministero degli Esteri della Russia, quella Lateranense.
Luigi Berlinguer. A Luigi Berlinguer, Pci e Ulivo, ex ministro dell’Istruzione e dell’università, sono state consegnate lauree honoris causa dalle università di Toronto, La Plaza, Paris V Descartes, di Buenos Aires e Università di Roma Tre. A queste si aggiungono il diploma (laurea) Maestro honoris causa conferito dall’Istituto superiore di studi musicali Gaetano Donizetti di Bergamo e laurea honoris causa conferita dal Conservatorio Santa Cecilia di Roma.
Romano Prodi. Addirittura 39 le lauree honoris causa ottenute da Romano Prodi, ex Dc e Pd, ex ministro, presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea. Tra quelle in università italiane: Modena e Reggio Emilia (2000), Pisa (2001), Pavia (2002), della Calabria (2003), Torino (2004), Cattolica di Milano (2007).
· I Grillini e l’Islam.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 4 gennaio 2020. Se c' è una cosa che unisce i grillini è l'Iran. Ieri, per dire, Di Battista ha subito definito il raid americano «vigliacco», «pericoloso» e «stupido». E non rinuncerà al suo annunciato soggiorno iraniano. Il fatto è che anche la Farnesina ha atteso le 13 per emettere una nota anodina, «nuovi focolai di tensione non sono nell' interesse di nessuno». A novembre, alla Camera, Di Maio spiegò la linea: «L' Italia vuole mantenere il dialogo con l' Iran». Al margine dei Med dialogues gli iraniani annunciavano felici che l' incontro tra Di Maio e il suo omologo iraniano Zarif era vicino, e con la Farnesina c' erano stati vari passi preparatori. La stampa iraniana aveva riportato con toni gongolanti la concordia tra il sottosegretario italiano agli esteri Manlio Di Stefano e l' ambasciatore iraniano a Roma, Hamid Bayat, dopo l' incontro a metà novembre. Ma un po' tutta la storia grillina è un lungo, irriflesso flirt geopolitico con Teheran, con sprezzo del pericolo, e del ridicolo. Vi sono stai episodi grotteschi. Per esempio quando il sottosegretario Angelo Tofalo finì ascoltato a Napoli, non indagato, in un' indagine contro una coppia accusata di traffico d' armi tra Iran e Libia, con cui era entrato in contatto. O quando i 5S Vito Petrocelli e Marta Grande organizzarono un evento alla Camera invitando due esperti iraniani di un think tank famigerato per aver organizzato conferenze nagazioniste dell'Olocausto a Teheran. Forse, qualche riga la merita anche Grillo. Mai tenero, diciamo così, su Israele. Empatico, invece, con l'Iran. Il comico è sposato con un' iraniana, Parvin Tadjik. «Un giorno - disse Grillo in un' infausta intervista al quotidiano israeliano Yedioth Ahronot - «ho visto impiccare una persona a Isfahan. Ero lì. Mi son chiesto: cos' è questa barbarie? Ma poi ho pensato agli Usa. Anche loro hanno la pena di morte: hanno messo uno a dieta, prima d' ucciderlo, perché la testa non si staccasse. E allora: cos' è più barbaro?». E i diritti delle donne? «Mia moglie è iraniana. Ho scoperto che la donna, in Iran, è al centro della famiglia. Le nostre paure nascono da cose che non conosciamo». Ma le violenze, il regime, il terrorismo? «Mio suocero iraniano m' ha spiegato che le traduzioni non erano esatte». Grillo lo rivelò come una delle sue eminenti fonti geopolitiche.
Carmelo Caruso per “il Giornale” il 4 gennaio 2020. È un regime per il resto del mondo, ma per il M5s è il migliore dei mondi possibili. Se le passate dichiarazioni sono ancora valide - e al momento lo sono ancora - rischiamo di finire alleati dell' Iran con Beppe Grillo al posto del maresciallo Badoglio. In Sudamerica hanno spedito una delegazione per celebrare Hugo Chávez, in Cina, Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, si sente più a casa di Pomigliano D' Arco, mentre a Teheran, a curare i rapporti diplomatici, è stato distaccato il suocero di Grillo, uno che già nel 2012 aveva impaurito il giornale israeliano Yediot Aharonot: «Se un giorno Grillo farà parte del governo, il suocero avrà un ruolo fondamentale nelle politiche estere». Grazie al corso intensivo del padre della moglie, Parvin Tadjk, il fondatore del M5s era giunto a conclusioni decisive destinate a rovesciare i lavori di giornalisti e storici: «Ho scoperto che la donna in Iran è al centro della famiglia, le nostre paure nascono da cose che non conosciamo». Infatti conosciamo il numero delle donne lapidate in Iran fino ad agosto di quest' anno: 94. Attenzione, non era quella di Grillo un' informazione parziale, ma un' adesione convinta. Nella stessa intervista Grillo commentava pure l' economia iraniana, a suo giudizio, un po' simile a quella dell' Italia meridionale. Siamo in area: il problema dell' Iran è che non possiede il reddito di cittadinanza. A sentire Grillo, «l' economia in Iran va bene. Quelli che scappano, sono oppositori. Chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all' estero. Lì le persone lavorano». Ma da quali fonti attingeva i suoi dati? «Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati». Spettatore lui medesimo di un' impiccagione in piazza, la liquidò così: «Mi son chiesto: cos' è questa barbarie? Ma poi ho pensato agli Usa. Anche loro hanno la pena di morte». A farlo parteggiare per l' Iran fu la sensibilità che i militari utilizzarono prima di tirare il cappio al condannato: «Prima di ucciderlo lo hanno messo a dieta perché la testa non si staccasse». E non erano altro che cattive traduzioni, a suo parere, le minacce pronunciate da Osama Bin Laden, terrorista senza dubbio più spietato di quel Qassem Soulimani ucciso ieri dagli Usa, perché «quando uscivano i discorsi di Bin Laden, mio suocero, iraniano, mi ha spiegato che le traduzioni non erano esatte». Se quelle di Grillo rimangono (pesantissime) opinioni, ben più discutibili, e oggetto di indagine da parte della Dda di Napoli, furono gli incontri fra Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, e una coppia di coniugi arrestata con l' accusa di aver trafficato armi con Libia e Iran. Nel 2017, il deputato del M5s preferì presentarsi in procura per provare a spiegare i sui rapporti. Perfino un moderato come il senatore del Pd, Nicola Latorre disse: «Le ammissioni di Tofalo sono gravi, si dimetta». Per difendersi, Tofalo querelò Matteo Renzi che in tv lo accusò platealmente: «L' esperto di sicurezza del M5s è andato in Libia a trattare dalla parte sbagliata». E impossibile sarebbe contare tutte le note di solidarietà rilasciate, in questi anni, a favore dell' Iran inserito in passato da George Bush nell' asse del Male, «clamoroso errore» per i 5s. E però, occorre riconoscere a Manlio Di Stefano il primato, la visione estera a cinque stelle e dunque anche gli abbagli presi. Come ha scritto pochi mesi fa il sito Formiche, nella veste di sottosegretario agli Esteri, Di Stefano ha manifestato apprezzamento verso l' Iran per la sua cooperazione con lo Yemen tralasciando la complicità, deplorata dall' Onu, con il gruppo Houthi, sciiti yemeniti accusati di crimini di guerra. Altri due protagonisti 5s, Marta Grande e Vito Petrocelli, hanno invece interloquito con un think thank iraniano che ancora oggi nega l' Olocausto. Di Alessandro Di Battista, in viaggio in Iran, è nota la volontà di «trattare con i terroristi». Ieri ha aggiunto che «quello in Iran è stato un raid vigliacco». Manca solo che proclamino l' Iran come loro governatorato...
· I Ministri a 5 Stelle.
IN CHE MANI SIAMO. Da liberoquotidiano.it il 4 agosto 2020. Una tremenda esplosione ha spazzato via la zona portuale di Beirut, capitale del Libano. Il bilancio provvisorio parla di almeno 78 morti e di oltre 4.000 feriti, ma questi numeri sono tristemente destinati ad aumentare nelle prossime ore: cumuli di macerie sono sparsi per centinaia di metri nella zona dell’esplosione, si teme la catastrofe. L’Italia ha subito mostrato solidarietà nei confronti di Beirut, anche se non è mancato un errore accidentale quanto piuttosto clamoroso: a commetterlo è stato il grillino Manlio Di Stefano, che ha mandato “con tutto il cuore” un abbraccio ai “nostri amici libici”. Il tweet è stato cancellato subito e sostituito con la versione corretta, ma la gaffe è comunque finita tra le grinfie dei social: “C’è poco da scherzare con queste cose, ho sbagliato a scrivere, i morti invece restano. Mi spiace davvero per quanto accaduto, che tragedia immane”. Certo è che un errore del genere non ce lo si aspetta da un sottosegretario agli Affari esteri, tra l’altro con la delega sull’Asia. “Lo abbiamo già detto e lo ripeto anche io - ha poi dichiarato il grillino, mettendo una pezza al suo scivolone - l’Italia c’è ed è pronta a dare tutto l’aiuto possibile. Coraggio”. Anche il premier Giuseppe Conte ha commentato le tragiche notizie che arrivano da Beirut: “Le terribili immagini che arrivano dal Libano descrivono solo in parte il dolore che sta vivendo il popolo libanese. L’Italia farà tutto quel che le è possibile per sostenerlo. Con la Farnesina e il ministero della Difesa stiamo monitorando la situazione dei nostri connazionali”.
Da iltempo.it il 5 agosto 2020. Errare è umano, perseverare è grillino. Anche la senatrice 5stelle Elisa Pirro scivola su Beirut e prende libanesi per libici. La senatrice piemontese, capogruppo in Commissione Igiene e sanità, ha fatto questa notte una gaffe "gemella" di quella di Manlio Di Stefano, sottosegretario grillino agli Esteri. Mancano quattro minuti a mezzanotte quando le Pirro twitta: "Le immagini dell’esplosione avvenuta a #Beirut sono sconvolgenti. Esprimo la mia vicinanza al popolo libico e cordoglio per le innumerevoli vittime". Come accaduto a Di Stefano, gli utenti la sbertucciano pesantemente e dopo due minuti la senatrice grillina cancella tutto e riposta la frase corretta. La figuraccia però sopravvive negli screenshot degli utenti più smagati che volevano fermare il momento. Non capita spesso, infatti, a due politici dello stesso schieramento di toppare così clamorosamente la medesima nozione di base. Su Twittter c'è chi scherza: "Forse avevano la stessa maestra...".
Da Pinochet in Venezuela agli “amici libici” di Beirut: tutte le gaffe dei 5 Stelle sulla politica estera. Roberta Caiano su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Tutto si può dire tranne che il Movimento 5 stelle sia immune alle gaffe, soprattutto in ambito geografico. L’ultima risale a ieri sera, quando due esplosioni violentissime nel porto di Beirut, capitale del Libano, hanno devastato la città. Morte e terrore hanno martoriato il Paese con un bilancio ancora provvisorio di almeno 100 vittime, centinaia di dispersi e oltre 4.000 feriti. Numeri impressionanti, tant’è che la politica italiana non ha mancato di far sentire la propria solidarietà al Libano e al suo popolo. Tra i commenti dei vari esponenti del Governo, accanto al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, è spiccato il tweet del sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano che sul suo account social ha scritto: “Con tutto il cuore mando un abbraccio ai nostri amici libici”. Peccato che il tragico evento sia accaduto in Libano e non in Libia. Di Stefano però non ha per niente gradito questo polverone e ha affidato a Facebook una lunga replica: “Wow, pare che oggi io sia popolare”, iniziando ad elencare i risultati del suo operato come sottosegretario agli Esteri. “Tutte queste attenzioni mi si rivolgono perché per stanchezza, e quindi distrazione, ho scritto ‘libici’ invece di ‘libanesi’ in un tweet di sostegno dopo l’esplosione di ieri, da me stesso cancellato pochi istanti dopo, corretto e ripubblicato. Credetemi, io sono felice che qualcuno goda a sentirsi migliore di me, se posso evitargli lo psicologo con così poco è un bene”. A fargli compagnia con un messaggio contenente lo stesso errore ci ha pensato la collega e senatrice grillina Elisa Pirro, la quale su Twitter ha scritto: “Le immagini dell’esplosione avvenuta a Beirut sono sconvolgenti. Esprimo la mia vicinanza al popolo libico e cordoglio per le vittime”. I social, però, non hanno la memoria corta. Oltre a scatenare una vagonata di ironia, gli utenti hanno ricordato le numerose gaffe commesse anche dai loro compagni di partito in questi anni di timone al governo. Tra questi troviamo in cima alla lista il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Luigi Di Maio, ex capo dei cinque stelle, che a quanto ad orientamento geografico è apparso un po’ confuso in varie occasioni. Basti ricordare la sua dichiarazione riguardo agli attacchi subiti sull’operato politico del partito, “ci criticano perché stiamo facendo bene, specialmente in Puglia, basti vedere la rinascita di Matera” o quando un anno fa ha scambiato il segretario di stato degli Stati Uniti Mike Pompeo con il ministro del commercio Wilbur Ross. Ma facciamo un passo indietro, quando non aveva ancora rivestito l’incarico di ministro degli Esteri. A novembre 2018 Di Maio si trovava in Cina, a Shanghai, in occasione dell’International Import Expo, in veste di ministro dello Sviluppo economico. Nel prendere la parola, ha commesso una gaffe non facilmente dimenticabile visto che riguardava il nome del presidente cinese, uno degli uomini più potenti del mondo: “Ho ascoltato con molta attenzione il discorso del presidente Ping”, storpiando in maniera evidente il nome di Xi Jinping. L’anno precedente, nel 2017, si è reso protagonista di una nuova gaffe in diretta televisiva. Fresco di visita istituzionale negli USA, Di Maio dichiarò che “noi non siamo una forza isolazionista. Siamo un Paese alleato degli Stati Uniti, ma interlocutore dell’Occidente con tanti Paesi del Mediterraneo come la Russia“, che ovviamente non ha sbocchi sul mar Mediterraneo. Andando ancora più a ritroso nel tempo, a settembre del 2016 quando Di Maio era vice presidente della Camera, commette un altro errore. In un post su Facebook attaccò il premier di allora, Matteo Renzi, paragonandolo ad Augusto Pinochet. Peccato che, nella prima versione del post, il ministro ha collocato il regime del generale in Venezuela anziché in Cile incoronandola come la regina delle gaffe. Un altro esponente del Movimento 5 stelle, l’ex ministro ministro delle infrastrutture e dei trasporti Danilo Toninelli, è entrato di fatto nella classifica dei politici grillini che ha commesso una clamorosa gaffe. Toninelli stava parlando con i giornalisti dopo aver incontrato a Genova Violeta Bulc, la commissaria europea per i Trasporti, e dichiarò che durante l’incontro aveva parlato anche del tunnel del Brennero: “Sapete quante delle merci italiane, quanti degli imprenditori italiani utilizzano con il trasporto principalmente ancora su gomma il tunnel del Brennero, e oggi dobbiamo purtroppo subire limitazioni settoriali da parte delle autorità del Tirolo che danneggiano fortemente l’economia italiana”. Nella spiegazione, però, Toninelli ha ignorato che il tunnel del Brennero, che collegherà l’Italia con l’Austria, non esiste ancora.
(LaPresse il 7 agosto 2020) - "La riconferma a presidente della Commissione per le Politiche dell'Ue alla Camera è per me un grande onore e vorrei ringraziare tutte le forze di maggioranza e opposizione per la fiducia e la stima riposta nei miei confronti. È grazie a loro se, in questi primi due anni, abbiamo compiuto un lavoro davvero straordinario culminato, peraltro, con un'attività conoscitiva senza precedenti che la nostra Commissione ha fortemente voluto intraprendere all'indomani della crisi generata dal Covid-19. Abbiamo così dato spazio e rilievo a esperti chiamati a dare risposta e valutazioni su tutti gli strumenti che il nostro Paese deve mettere in campo per superare questa difficile fase e affrontare le sfide del futuro in concomitanza con il più ampio piano europeo legato al Recovery Fund". Lo scrive, in una nota, il deputato M5S Sergio Battelli, riconfermato alla guida della XIV Commissione di Montecitorio. "Proseguiremo con forza, determinazione e rinnovato impegno il lavoro svolto fin qui. L'Europa e gli Stati membri hanno davanti a loro una sfida epocale: dalle decisioni prese nei prossimi giorni e mesi dipenderà il futuro delle generazioni a venire e dell'Unione stessa che dovrà ripensarsi completamente elaborando strategie di lungo periodo in grado di assicurare solidità, forza e competitività al progetto europeo nel segno di una rinnovata solidarietà e vera unione. Sono certo, allora che la nostra Commissione, sarà in grado di fornire il suo contributo prezioso supportando il Parlamento nella definizione delle priorità programmatiche dell'azione italiana a livello europeo" conclude Battelli.
Chi è il 5S con la terza media che "gestirà" il Recovery Fund. Sergio Battelli, deputato del Movimento cinque stelle, è stato riconfermato alla presidenza della Commissione per le Politiche dell'Ue: "Abbiamo svolto un lavoro straordinario". Roberto Vivaldelli, Sabato 08/08/2020 su Il Giornale. Livello d’istruzione? Terza media. Esperienze lavorative? Dieci anni da commesso in un negozio di animali. Dopotutto, uno vale uno, e chi se ne importa se c'è da gestire una partita delicatissima come quella del Recovery Fund. Come riportato da Dagospia, Sergio Battelli, deputato del Movimento cinque stelle, con buona pace della meritrocrazia, è stato riconfermato alla presidenza della Commissione per le Politiche dell'Ue: una carica importantissima in questa fase storica, nuovamente affidata all'esponente dei cinque stelle. "La riconferma a presidente della Commissione per le Politiche dell'Ue alla Camera è per me un grande onore e vorrei ringraziare tutte le forze di maggioranza e opposizione per la fiducia e la stima riposta nei miei confronti" spiega il deputato grillino. È grazie a loro se, prosegue Sergio Battelli, in questi primi due anni, "abbiamo compiuto un lavoro davvero straordinario culminato, peraltro, con un'attività conoscitiva senza precedenti che la nostra Commissione ha fortemente voluto intraprendere all'indomani della crisi generata dal Covid-19". Abbiamo così dato spazio e rilievo, sottolinea Battelli, "a esperti chiamati a dare risposta e valutazioni su tutti gli strumenti che il nostro Paese deve mettere in campo per superare questa difficile fase e affrontare le sfide del futuro in concomitanza con il più ampio piano europeo legato al Recovery Fund". Spulciando il suo curriculum, Dagospia ha ricordato che il deputato grillino "ha la terza media" e come esperienze professionali vanta "10 anni da commesso in un negozio di animali e chitarrista di una band rock ligure". Battelli, già tesoriere del Movimento cinque stelle e fedelissimo del Ministro degli esteri Luigi Di Maio, deve le sue candidature ai voti ottenuti nel corso delle primare oline del Movimento del 2013 (appena 90 voti) e del 2018 (363 voti). Nel marzo 2018, quando era emersa per la prima volta la notizia della sua esperienza scolastica, il deputato pentastellato si era giustificato spiegando che il suo era un caso di malasanità e che aveva iniziato a lavorare e suonare durante le superiori per problemi vari: "In terza superiore Itis mi ammalo, per un gravissimo caso di malasanità, rimango appeso nella mia malattia per un anno intero, solo dopo mille mila giri tra ospedali, cure e dottori finalmente un bravissimo pneumologo di Genova trova il mio problema. Quella mattina pioveva, ero con mia madre in un piccolo ambulatorio di Villa Scassi mentre mi dicevano, a neanche 17 anni, che avevo un tumore ai polmoni in una posizione "strana" da operare subito, non me lo dimenticherò mai. Passano ancora un paio di mesi e finalmente vengo operato a Padova, nel frattempo avevo perso quasi due anni della mia vita per risolvere il mio problema" aveva spiegato su Facebook. Nessuno mette in dubbio la sua storia, per carità: ma forse, per una carica così strategica e rilevante, soprattutto in questa fase, non era meglio pensare a qualcun altro?
Claudio Bozza per corriere.it il 30 marzo 2018. Livello d’istruzione? Terza media. Esperienze professionali? Dieci anni da commesso in un negozio di animali. Esperienze politiche? Deputato uscente e rieletto, dopo aver incassato rispettivamente 90 e 363 voti alle parlamentarie, le primarie online del M5s che hanno decretato i nomi dei candidati alle elezioni del 2013 e del 2018. È il curriculum vitae di Sergio Battelli, 36 anni, che da oggi gestirà oltre 13 milioni di euro di fondi pubblici a disposizione ogni anno del gruppo pentastellato alla Camera (il Pd nella scorsa legislatura poteva contare su oltre 14 milioni). Sono circa 60 mila euro l’anno per sostenere l’attività politica (convegni, consulenze e comunicazione) di ogni deputato, che moltiplicati per i 222 eletti a Montecitorio e moltiplicati per i 5 potenziali anni di legislatura fa arrivare il «tesoretto» a oltre 66 milioni. Una cifra monstre, che dovrà essere appunto gestita da Battelli, nominato tesoriere del gruppo M5S alla Camera dalla capogruppo Giulia Grillo, previa indicazione di Luigi Di Maio, di cui lo stesso Battelli è classificato come «fedelissimo». E con il capo politico del Movimento, Battelli ha in comune anche la parabola del nemo propheta in patria, visto che entrambi non furono eletti nei Consigli comunali dei rispettivi paesi di residenza: Pomigliano d’Arco e Varazze, salvo poi essere proiettati ai vertici della politica nazionale.
«Un gruppo di funzionari mi aiuterà». Nel cursus honorum del deputato-rocker ligure va poi aggiunto anche l’impegno come chitarrista dei Red Lips. È proprio grazie alla sua esperienza da musicista, che Battelli, anche a sostegno della battaglia lanciata dal rapper Fedez, ha presentato una proposta di legge contro «il monopolio della Siae» che «deve essere abolito». Onorevole, visto il suo curriculum si sente all’altezza di questo ruolo, specie dopo il «caso scontrini»? «Innanzitutto è doveroso precisare che la questione rimborsi è del tutto slegata dalle mie nuove responsabilità: sono due ambiti diversi e saranno sottoposti a controlli molto rigidi da due strutture diverse», risponde Battelli. E riguardo al curriculum (terza media), se si chiede al neo tesoriere M5S di Montecitorio se si senta all’altezza del compito, lui risponde così: «C’è un gruppo di funzionari che mi aiuterà a garantire la massima trasparenza e in più sto assumendo nello staff amministrativo una persona molto qualificata». Per il resto, dopo il trionfo alle urne, dal profilo sulla piattaforma Rousseau, Battelli suona la carica così: «Che piaccia o non piaccia abbiamo fatto la storia, tutti noi, anche tu che stai leggendo queste parole, dobbiamo esserne tutti fieri e orgogliosi, noi non ci spaventiamo, non c’è più nulla che ci può spaventare dopo essere stati 5 anni dentro quella vasca di squali».
Sergio Battelli su Facebook 31 marzo 2018. Vi voglio raccontare una breve storia. In terza superiore ITIS mi ammalo, per un gravissimo caso di malasanità, rimango appeso nella mia malattia per un anno intero, solo dopo mille mila giri tra ospedali, cure e dottori finalmente un bravissimo pneumologo di Genova trova il mio problema. Quella mattina pioveva, ero con mia madre in un piccolo ambulatorio di Villa Scassi mentre mi dicevano, a neanche 17 anni, che avevo un tumore ai polmoni in una posizione "strana" da operare subito, non me lo dimenticherò mai. Passano ancora un paio di mesi e finalmente vengo operato a Padova, nel frattempo avevo "perso" quasi due anni della mia vita per risolvere il mio problema. Ho iniziato a lavorare per altri problemi, ho iniziato a suonare, ho vissuto la vita e fin da prima che il Movimento nascesse eravamo già a parlare di acqua pubblica, trasporti, innovazione, web, futuro, anche grazie alla passione per la tecnologia che mi ha trasmesso mio padre. Il Movimento l'ho visto nascere grazie a moltissime persone che ci hanno aiutato, mi hanno aiutato e hanno aiutato i cittadini, persone che molte volte non sono mai passare agli onori della cronaca ma che negli anni hanno dato e speso tutto, penso ai miei amici del Gruppo di Varazze e Savona. Oggi le chiacchiere stanno a zero, io non mi fermo, guarderete i fatti, e vedrete come un gruppo di giovani "folli" sta cambiando e cambierà il paese finalmente nella direzione giusta. Stay foolish, stay hungry. Ai posteri l'ardua sentenza.
Dal profilo Instagram di Sergio Battelli il 30 gennaio 2019. Ed eccolo qui, dopo un paio d'anni di lavoro è un finalmente uscito FALL IN LOVE. Un disco senza troppe pretese, senza troppi filtri, senza troppa perfezione, con qualche stonatura di troppo, con qualche effetto a sbagliato. Non amo il disco tecnicamente perfetto amo il mix perfetto di emozioni e influenze musicali che invece ci sono, compresa una canzone per la mia #Genova. Non è un disco punk, non è un disco rock, non è un disco rap, non è un disco pop, è il semplicemente il mio disco, scritto registrato e suonato nelle notti insonni tra commissioni, aula e campagne elettorali. Mi fate sapere che ne pensate? Lo trovate su tutti gli store e tutte le piattaforme digitali del mondo!
Da genova24.it il 30 gennaio 2019. Dai banchi delle aule parlamentari e delle commissioni ai tasti e alle corde di una chitarra elettrica. E’ la “metamorfosi” di Sergio Battelli, parlamentare del MoVimento 5 Stelle che oggi ha annunciato pubblicamente l’uscita del suo disco, “Fall in Love”. Per realizzarlo, racconta, ci sono voluti due anni di lavoro: “Un disco senza troppe pretese, senza troppi filtri, senza troppa perfezione – lo descrive – con qualche stonatura di troppo, con qualche effetto sbagliato. Non amo il disco tecnicamente perfetto, amo il mix perfetto di emozioni e influenze musicali che invece ci sono, compresa una canzone per la mia Genova. Non è un disco punk, non è un disco rock, non è un disco rap, non è un disco pop, è il semplicemente il mio disco”. Dieci canzoni, nove in inglese e una sola in italiano, la numero 8 della playlist, dedicata appunto alla città di Genova. Un vero e proprio “canto d’amore” per la città in cui è nato: “Genova è in noi che stiamo qui – recita uno stralcio del testo – tu ci perdi nei tuoi vicoli / Genova tu sei la sola che sa rubarmi il cuore / Genova per noi che stiamo qui / nel silenzio dei tuoi vicoli / Genova tu sei la sola che mi riscalda il cuore“. Una passione, quella per la musica, che in realtà non rappresenta una novità per l’attuale Presidente della 14ª Commissione Affari Europei della Camera: già nel suo curriculum reso pubblico in campagna elettorale, infatti, campeggiava la sua militanza nella rock band Red Lips. Un riferimento che, insieme al suo curriculum scolastico (ha “solo” la terza media) e lavorativo (prima di andare in Parlamento era commesso in un negozio di animali), non aveva mancato di suscitare anche qualche ironia quando era stato nominato tesoriere del MoVimento: ad “irriderlo” erano stati alcuni giornali e personaggi noti, tra cui Vittorio Sgarbi. Ma le battaglie politiche e le frecciate, evidentemente, non hanno potuto nulla contro una passione più grande: “Ho scritto, registrato e suonato i brani a casa dopo le notti insonni tra Commissioni, Aula e campagne elettorali” spiega Battelli. Il suo album da oggi è disponibile su tutti gli store e le piattaforme digitali del mondo. I brani si possono ascoltare anche su Spotify cliccando qui.
Domenico Di Sanzo per "Il Giornale" il 10 agosto 2020. Subito dopo la sua riconferma a capo della commissione Politiche europee di Montecitorio si è riaccesa la polemica sul curriculum e il titolo di studio. Ma per il deputato grillino Sergio Battelli non è una novità. Infatti era stato già bersaglio di ironie l'anno scorso, alla prima elezione come presidente di commissione, a inizio legislatura con la nomina a tesoriere del gruppo del M5s alla Camera e nel 2013, appena approdato in Parlamento. La miccia sono i soldi del Recovery Fund, e il ruolo che dovrà avere la commissione parlamentare guidata da Battelli nella delicata partita dell'utilizzo dei fondi europei. Ed ecco che in rete il cv diventa subito virale. Perché il parlamentare ligure, originario di Varazze, non ha mai preso il diploma. La sua unica esperienza di lavoro è stata quella di commesso in un negozio di animali per dieci anni. Online fioccano gli articoli e i post sul «grillino con la terza media che gestirà i soldi del Recovery Fund». Si sprecano gli sfottò. Da «non sono molti quelli che possono dire di aver passato 10 anni a pulire gabbiette di criceti» a «non ho più parole, ma sospiri e un lacrima che scende all'inumazione della defunta Italia». C'è chi considera «un'oscenità che incarichi di enorme responsabilità siano nelle mani di semi analfabeti». E Battelli risponde, con un lungo post pubblicato sui suoi social network. Parla di «articolacci, post social e commenti pieni di insulti che stanno circolando in queste ore e che mi riguardano». Poi ridimensiona il suo ruolo nella gestione dei denari dell'Europa: «Dire che è tutto nelle mie mani mi lusinga ma è un'enorme fake news, non è ovviamente il presidente di una singola commissione parlamentare a occuparsi del Recovery Fund ma governo e Parlamento». Quindi ripercorre brevemente la sua storia: «Non ho mai nascosto di non aver terminato la scuola superiore (mi sono fermato al quarto anno) per un grave problema di salute». In passato era stato lo stesso Battelli a spiegare di aver perso quasi due anni a causa della sua malattia, un tumore ai polmoni diagnosticato e operato solo dopo «mille mila giri tra ospedali, cure e dottori». Per quanto riguarda l'abbandono della scuola dice: «Sicuramente è stato un errore, ma chi mi conosce bene sa che ho sempre continuato a studiare e a lavorare onestamente». Considerato da sempre vicino all'ex capo politico Luigi Di Maio, negli ultimi mesi si è avvicinato al premier Giuseppe Conte. È stato uno dei pochi parlamentari pentastellati ad aver espresso una posizione possibilista sull'utilizzo del Mes, facendo discutere i suoi colleghi all'interno del gruppo. È nota la sua passione per la musica. Ha suonato per anni nella rock band ligure Red Lips e l'anno scorso ha realizzato un disco, intitolato «Fall in Love». Otto canzoni in inglese e due in italiano, di cui una dedicata alla città di Genova, disponibili anche sulla piattaforma musicale Spotify. Alla Camera se lo ricordano ancora con la giacca nera slim fit e la t-shirt gialla fosforescente con tanto di smile con cui si era presentato all'elegante mensa di Montecitorio in un lunedì di giugno del 2019. «È giusto iniziare al meglio con uno smile», aveva scherzato Battelli in quell'occasione. E allora meglio riderci su.
Da liberoquotidiano.it il 27 maggio 2020. E chi l'avrebbe mai detto che Luigi Di Maio da piccolo sognava di fare altro. Il titolare della Farnesina, in vena di confessioni, ha raccontato a Maurizio Costanzo che il suo "idolo era Michael Schumacher. Ho sempre avuto una grande passione per i motori sono sempre stato appassionato di motorsport e non al calcio. Tifo Napoli, ma da piccolo invece che il calciatore volevo fare il pilota". Il ministro degli Esteri, durante L'intervista si è lasciato andare tornando al passato: "Non ho mai fumato uno spinello - assicura - e solo una volta in vita mia una sigaretta. Non sono mai stato affascinato dal fumo". Ma Di Maio viene ricordato per un altro mestiere: il bibitaro. Pura e semplice fake news l'ha definita il diretto interessato: "Non ho mai venduto le bibite al San Paolo. La foto che gira sul web è una fake news", sebbene lavorassi allo stadio ma "in giacca e cravatta" perché "accoglievo i vip in tribuna autorità". Sarà.
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 14 dicembre 2020. «Vicepremier. E questo cosa significa? Quando ti trovi qui, finalmente qui, sei solo all' inizio o sei già all' inizio di una fine?» La storia parte dal Salone delle Feste di Palazzo del Quirinale, il primo giugno del 2018. Il ragazzo di Pomigliano d' Arco diventa ministro. Lavoro, Sviluppo Economico e la vicepresidenza del Consiglio. Il premier è un oscuro giurista che lui stesso aveva scelto pochi mesi prima come titolare del dicastero della Pubblica Amministrazione nel dream team di un ipotetico monocolore grillino. Dall' altro lato c' è Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell' Interno del primo governo della Terza Repubblica. Chi l' avrebbe mai detto? Proprio lui, il leghista cresciuto a pane e politica, portabandiera della via italiana al sovranismo. «Leader per caso - i segreti, le donne, la vita smeralda le poltrone per gli amici: ritratto inedito di Luigi Di Maio», il libro in uscita oggi per l' editore Controcorrente (160 pp., 15 euro) firmato dal cronista del Giornale Pasquale Napolitano, comincia da quello che per chiunque sarebbe un punto di arrivo. Bis ministro e numero due dell' esecutivo. A 32 anni. Ah, e a 27 anni vicepresidente della Camera, il più giovane della storia della Repubblica Italiana. Un cursus honorum da record. Ma Di Maio non ha nessuna intenzione di fermarsi. E come dargli torto? Tanto che a luglio 2020, rivela Napolitano, ha avuto persino la tentazione di mettersi in proprio, costituendo un gruppo parlamentare «moderato». Stufo di un M5s schiacciato sulle posizioni del centrosinistra e della nuova centralità del suo padre politico Beppe Grillo, politicamente innamorato dell' anonimo avvocato di origini foggiane, quel Giuseppe Conte che poteva fare al massimo il ministro della Pa. E allora ecco gli incontri bilaterali con Mario Draghi e Gianni Letta. Anche qui, chi l' avrebbe mai detto? Due nomi che, al solo evocarli, il grillino delle origini sarebbe trasalito. Poi non se ne fa niente, eppure il ragazzo di Pomigliano si mette in testa di riprendersi il Movimento sotto le mentite spoglie di «un organo collegiale». E, a quanto pare, leggendo le cronache di queste settimane, Di Maio ci sta riuscendo. Nel libro, che è un ritratto scorretto, ma anche un «romanzo di formazione» fatto di circostanze reali, le vicende dell' ascesa politica si intrecciano con la realizzazione personale. Quell' ascensore sociale che è partito e non sembra volersi arrestare senza prima essere arrivato in cima al Palazzo. Quindi spuntano i paparazzi, le foto rubate e quelle patinate, le fidanzate. Dall' ex «coach tv» del gruppo parlamentare Silvia Virgulti a Giovanna Melodia, consigliera comunale grillina di Alcamo, provincia di Trapani, fino all' attuale compagna Virginia Saba, giornalista televisiva e collaboratrice parlamentare della deputata pentastellata Emanuela Corda. Poi l' appartamento con vista sul Colosseo, le nomine per gli amici di Pomigliano, le vacanze a Capri. Ad agosto 2018, racconta Napolitano, Di Maio arriva nell' isola a bordo dell' Aurelia, «un bel 15 metri a vela, cinque cabine, tre bagni» al costo di circa «seimila euro per il noleggio di una settimana, spese escluse». Un bel salto per i francescani pauperisti del Movimento. Nel soggiorno caprese Di Maio è accompagnato da alcuni amici parlamentari, tra cui il deputato Marco Rizzone. Che sale ai disonori delle cronache esattamente due anni dopo, ad agosto 2020. Rizzone infatti è tra i «furbetti» che hanno intascato il bonus di 600 euro previsto dal governo a sostegno dei lavoratori autonomi durante l' emergenza Coronavirus. Con lui il M5s non ha pietà, nonostante non ci fosse nulla di illegale nella richiesta. A settembre viene espulso dal Movimento senza troppi complimenti. La storia del «Leader per caso» di Pomigliano prosegue toccando vari temi: i rapporti con la Cina, le mascherine «pagate a peso d' oro» e le inchieste che travolgono la famiglia Di Maio nel 2018, tra problemi con il fisco e fabbricati abusivi. Ma l'ascesa del leader grillino è tutt'altro che finita.
Di Maio fa il "vanitoso". Si prende un fotografo a 35mila euro l'anno. Si chiama Roberto Dia il fotografo personale del ministro degli Esteri: il 34enne collabora da tempo con il Movimento Cinque Stelle ed insieme a lui anche il fratello Giuseppe, consulente di Casalino al costo di 40mila euro. Federico Garau, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale. È recentemente finito all'interno di un'autentica bufera l'ex capo grillino dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, massacrato sulla propria pagina social per aver postato un selfie che lo ritrae senza mascherina e senza alcun rispetto per il distanziamento insieme ad un gruppo di amici, fra cui Andrea Scanzi. Il popolo del web non ha affatto gradito questo mancato rispetto delle regole da parte del rappresentante di un governo sempre pronto a redarguire i cittadini che non si attengono alle norme anti-contagio.
Di Maio si scatta il selfie. Ma per lui finisce male. Restando sull'argomento foto, oggi si apprende che il ministro degli Esteri pare proprio tenere molto agli scatti. Di Maio ha infatti un fotografo ufficiale, fatto di per sé già curioso, dato che la Farnesina ha una partneship con l'agenzia Ansa, la quale mette occasionalmente a disposizione i suoi professionisti. Per il ministro grillino, tuttavia, si è reso necessario "assumere un fotografo professionale che desse disponibilità completa in occasione degli eventi istituzionali", spiega a "Panorama" lo staff di Di Maio. Da qui la collaborazione con Roberto Dia, ora fotografo ufficiale dell'ex capo politico del M5S. Originario di Alcamo (Trapani), Dia si ritiene un"wedding storytelling", come rifescire "La Verità". Molto attivo su Instagram, il fotografo si occupa prevalentemente di matrimoni. Dal 4 maggio, tuttavia, ha avviato una collaborazione part-time col ministero degli Esteri, diventando il "ritrattista" ufficiale di Di Maio. Il suo compenso si aggira intorno ai 35mila euro lordi l'anno. Stando a quanto riportato da "La Verità", Dia non è un volto del tutto nuovo nell'ambiente dei Cinque Stelle. Nel 2016, infatti, si occupò della campagna elettore di Domenico Surdi, eletto poi sindaco di Alcamo col M5S. In seguito, quando nacque il governo gialloverde, fu sempre Roberto Dia ad immortalare con alcuni scatti i neo-ministri grillini Toninelli, Bonisoli, Grillo, Fraccaro e Costa. Quindi, la collaborazione come fotografo ufficiale di Di Maio, per il quale si occupa di "elaborazione digitale delle immagini e web designing". Ma non è finita qui. A quanto pare, infatti, anche il fratello maggiore di Roberto, vale a dire Giuseppe Dia, ha contatti col mondo della politica. Quest'ultimo, infatti, ricopre il ruolo di consulente per l'ufficio stampa del premier e per Rocco Casalino, portavoce di Conte. Una collaborazione da 40mila euro. La "Dia Communication", presieduta da Giuseppe Dia, ha lavorato molto per il governo, come scoperto da "La Verità". L'azienda si è occupata della campagna di sensibilizzazione e prevenzione contro il Covid-19 e, se si torna indietro nel tempo, anche della realizzazione del logo "For Lybia to Lybia", in occasione dell'incontro (2018) del presidente Conte con Khalifa Haftar e Fayez al-Sarraj. La collaborazione fra i fratelli Dia ed il Movimento, dunque, va avanti da tempo, fra kermesse grilline ed eventi istituzionali.
Scorte ai politici, quando Di Battista le criticava perché “stanno sui coglioni agli italiani”. Redazione su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Come cambiano le cose in soli due anni. Era il luglio 2018 quando Alessandro Di Battista, l’ex deputato del Movimento 5 Stelle e attualmente leader del fronte più movimentista dei pentastellati, su Facebook lanciava le sue accuse contro le “scorte pazze”, una “vergogna tutta italiana” che l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini veniva invitato a risolvere. Parole che cozzano con quelle delle ultime 24 ore pronunciate da autorevoli esponenti del Movimento e dal capo politico reggente Vito Crimi, che si sono immolati in difesa dei pentastellati Pierpaolo Sileri e Lucia Azzolina, rispettivamente viceministro della Salute e ministro dell’Istruzione, entrambi finiti sotto scorta per minacce. La decisione delle Prefetture di sottoporre a sorveglianza i due politici del Movimento 5 Stelle, oltre al governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana, deriva ovviamente dalla necessità di tenere alta l’attenzione in un momento di grande tensione sociale, esattamente come accadeva due anni nei casi denunciati da "Dibba". Ma cosa diceva nel 2018 l’ex deputato grillino? Su Facebook Di Battista definiva le scorte “pazze una vergogna tutta italiana. Non si tratta solo di sprechi, si tratta di privilegi e di forze dell’ordine sottratte al loro compito: quello di difendere i cittadini, non i’“potenti’”. Di Battista poi se la prendeva con i giornalisti, o meglio con una parte della categoria: “Magistrati e giornalisti minacciati ne hanno tutto il diritto. Tra l’altro ci sono giornalisti di frontiera, sconosciuti, che rischiano la vita davvero. Ma vogliamo parlare dei direttori di La Repubblica, La Stampa, Libero o Il Giornale? E poi Bruno Vespa? Ma stiamo scherzando? Con quel che guadagnano se la pagassero da soli la scorta”. Quindi l’attacco ai politici sotto scorta: “La Boschi sotto scorta? Gasparri? Capisco che scrivere quelle scemenze su twitter l’abbia reso antipatico ma uno come lui merita al massimo un vaffanculo per strada, nulla di pericoloso insomma. E poi “ciaone” Carbone sotto scorta? Io mica lo sapevo. Fatemi capire vengono scortati perchè stanno sui coglioni agli italiani? E poi ad un magistrato come Ingroia viene tolta? Siamo seri, Ingroia può stare simpatico o meno (per me la sua entrata in politica è stato un grandissimo errore e lo sa bene anche lui) ma ha indagato, avendo ragione tra l’altro, sulla trattativa Stato-Mafia, trattativa reale, vera, accaduta. Avrò fatto centinaia di comizi facendo spesso una battuta sulla scorta della Boschi (“non serve a difendere lei dai cittadini ma noi da lei”) ma adesso basta. Gli oltre 2000 agenti impegnati in questa roba hanno il diritto di fare il loro lavoro. Non sono entrati in Polizia per scortare i responsabili del declino dell’Italia. Salvini ha il dovere di intervenire immediatamente”. La battaglia di Dibba era fortemente sostenuta anche dall’universo grillino, tra base e parlamentari. Gli stessi che ora, giustamente, sono insorti a difesa dei colleghi minacciati e per questo legittimamente sottoposti a protezione. Classe impiegatizia specie pubblica che è lo zoccolo duro della conservazione, ma deve capire che ora il gettito fiscale delle partite IVA si esaurisce e non ci sono più i soldi per pagare gli stipendi né le pensioni o la cassa integrazione. Classe impiegatizia che deve cessare di pensare di potersi salvare essa sola e di osteggiare il cambiamento, e deve invece subito iniziare anch’essa la lotta per l’abolizione del signoraggio, perché non c’è altro modo per ripartire". E sulle banche: "Le banche non faranno nessuno dei prestiti garantiti dal governo. Preferiscono ovviamente i prestiti ordinari con ordinarie garanzie e tassi fino al 14% a quelli a tassi calmierati e con la garanzia di un governo che non è in grado di garantire niente. Conte e Gualtieri stanno facendo di tutto per scaricare la crisi sui cittadini salvaguardando le banche."
Pierangelo Maurizio per “la Verità” il 22 ottobre 2020. «La ministra Azzolina si deve dimettere. Punto». Massimo Arcangeli, filologo e docente all' università di Cagliari, lo dice e lo ripete. È stato il presidente della sottocommissione 30ma-Sardegna per il concorso a dirigente scolastico. La quale ha promosso all' orale con una striminzita sufficienza (75/100, voto minimo 70) Lucia Azzolina, allora membro della commissione istruzione della Camera, diventata subito dopo sottosegretario e poi ministro da gennaio scorso. Ad aumentare polemiche e accuse è il fatto che il «suo» ministero, nonostante le sentenze del Tar che lo obbliga a depositare gli atti, non deposita prove, verbali di commissione e gli altri documenti. Proviamo a fare chiarezza.
Prof, cominciamo dall' inizio. È vero che in Sardegna la prova scritta fu spostata per maltempo dal 18 ottobre 2018, quando si è svolta sul resto del territorio nazionale, al 13 dicembre?
«Sì. Fu una decisione del Comune. Chi era stato assegnato alla commissione Sardegna ha avuto la possibilità di effettuare la prova posticipata».
Il 17 ottobre 2018, il giorno prima dello scritto, sul sito del ministero fu pubblicata la griglia dei criteri per le prove con allegati gli «incipit» da cui desumere gli argomenti dei cinque quesiti. È vero che la stessa griglia è stata mantenuta per la prova in Sardegna, quindi i candidati hanno avuto 57 giorni di vantaggio rispetto agli altri?
«Sì. È evidente che chi ha sostenuto la prova posticipata ha avuto qualche vantaggio».
Un sostanzioso vantaggio
«Ma certo, certo».
Secondo alcuni ricorsi la modifica dell'elenco degli ammessi all'orale, a prove già avviate, avrebbe cambiato l' assegnazione alle commissioni esaminatrici per molti candidati, tra cui la Azzolina che avrebbe dovuto essere giudicata in Veneto e non in Sardegna.
«Mmmh».
In particolare secondo il consulente di alcuni ricorrenti l' introduzione di cinque aspiranti presidi il 20 e 24 maggio 2019, dimenticati «per errore», mentre non avrebbe avuto impatto sui primi 780 nomi avrebbe mutato l' assegnazione alle commissioni per i candidati fino al numero 3.800.
«Questa storia dell' inserimento dei cinque nomi in effetti mi sembra strana, va verificata».
Come si legge da più parti, Lucia Azzolina ha sostenuto anche lo scritto (voto 80,5) oltre che l' orale a Cagliari?
«Io le posso dire che ha sostenuto l' orale a Cagliari. Gli scritti noi li abbiamo corretti sulla base di codici come tutte le commissioni. Abbiamo conosciuto i candidati solo all' orale quando a un codice è stato abbinato un volto. Io non so dirle se abbiamo corretto il suo scritto».
Se Lucia Azzolina e altri fossero stati giudicati per le due prove dalla stessa commissione sarebbe un' anomalia?
«Assolutamente no. Può essere un caso. Non trovo anomalo che una candidata esaminata per lo scritto sia poi esaminata anche per l' orale dalla stessa commissione. La questione è un' altra. La ministra si deve dimettere. Punto. Vede, fino a quando non vengono pubblicati tutti i compiti, non possiamo che ipotizzare».
In un ricorso si sostiene che la sua commissione sia stata la seconda con il più alto numero di promossi allo scritto, dopo il Molise: 60%.
«Non è vero. Sono numeri sballati. Siamo stati tra i più severi: 20,33% di promossi allo scritto e 63,92% all' orale».
Lei ha assistito all' orale della Azzolina e sulla base della sua performance si è convinto che non può fare il ministro dell' Istruzione.
«Ho voluto chiarire una cosa. Nella mia esperienza - ho presieduto e fatto parte di tante commissioni - forse non ho mai incontrato candidati tanto impreparati, ho registrato strafalcioni linguistici e lacune insostenibili per chi vuole fare il dirigente scolastico».
Esempio?
«Una candidata, non la Azzolina, non capiva che cosa le venisse chiesto. Alla fine ci siamo resi conto che non aveva la più pallida idea di cosa fosse una radice quadrata. Ha dichiarato di non aver mai visto quel simbolo».
Non male per un' aspirante preside. La Azzolina?
«Ha preso insufficiente in inglese, 5 (ndr, su 12) e zero in informatica».
L' inglese maccheronico non è indice di ministro incapace altrimenti...
«Ha preso zero in informatica. Al quesito composto da più domande non ha risposto male, non ha proprio risposto. Ma conosceva le norme e l' orale è andato, informatica e inglese avevano un peso relativo nel giudizio».
Devono essere rese pubbliche le prove del concorso a dirigente scolastico?
«Ma certo. Io sono solidale con i ricorrenti. Devono essere rese pubbliche tutte le prove, a maggior ragione quelle del ministro. Come ha fatto il ministero della Giustizia per il concorso a magistrato - anche quello sub judice - che ha ritenuto di ostendere le prove. L' ostinazione e l' arroganza del ministero e della ministra all' Istruzione, malgrado le sentenze del Tar, di non consentire ai candidati e a tutti di verificare gli esiti del concorso credo siano una cosa non da Terzo ma da Quinto mondo».
La ministra potrebbe dare l' esempio pubblicando le sue prove, mettendo a tacere accuse magari, in questo momento difficile, anche interessate.
«La ministra è la negazione dell' evidenza in ogni sua azione».
In che senso?
«Come sa ho denunciato il plagio, e sto approfondendo altri aspetti. Ho contato almeno 42 passi copiati nelle sue tesi di primo e secondo livello e di abilitazione all' insegnamento per il sostegno. Non ha mai risposto se non negando l' evidenza. Stiamo parlando di una costante azione di negazione dell' evidenza, di mancata trasparenza. Lo ripeto senza problemi».
Ha già detto che secondo lei deve dimettersi: non le chiedo perché.
«Deve dimettersi o almeno dare ora garanzia di quella trasparenza che non ha mai garantito da quando si è insediata».
Come per gli altri articoli sul concorso a dirigente scolastico, la replica alla ministra Lucia Azzolina.
Gustavo Bialetti per “la Verità” il 21 novembre 2020. Siccome viviamo da qualche tempo nella dittatura del politicamente corretto, e ogni parola va pesata e smussata, si deve essere profondamente grati a quelli che fanno tutto da soli. Ed è quello che ha combinato il ministro dell' Istruzione (a distanza) Lucia Azzolina, che parlando en amitié con Francesco Merlo sul Venerdì di Repubblica, forse in quanto entrambi siculi, ha raccontato la sua vita, ma anche che a scuola la chiamavano «Cazzolina» e che oggi si mette quei rossetti rosso fuoco perché «mi prendono in giro per le labbra». Ora, è davvero misterioso il motivo per il quale una donna che comunque ha preso due lauree, già oggetto di meme a valanga e di imitazioni di Maurizio Crozza, oltre che di accostamenti (esagerati) alla compianta Moana Pozzi, della quale sarebbe la versione bruna, debba raccontare che al liceo la chiamavano «Cazzolina» e che le sue labbra carnose attirano complimenti audaci. Probabilmente questo finto autobodyshaming fa parte di una nuova strategia acchiappavoti, per evitare di essere consegnata alla storia solo come il ministro dei banchi a rotelle. E comunque, nonostante faccia di tutto per passare per timida, sembra anche un po' civettuola. In ogni caso, va detto che nella lunga conversazione con il Merlo, la Cazzolina (adesso si può dire) racconta della sua infanzia «senza libri a casa» e dice una cosa da libro Cuore, che riportiamo con assoluto rispetto: «La scuola divenne il nascondiglio del mio disagio». Ok, ma oggi perché il nascondiglio del suo disagio è un ministero della Repubblica? E dobbiamo anche istituire la figura del «ministro di sostegno»?
Spunta pure un audio sul concorso di Azzolina "Segnali contro i ricorsi". In attesa della decisione del Consiglio di Stato diventa virale, tra i partecipanti al concorso, un audio che "tranquillizza" circa l'esito della sentenza. Emanuela Carucci, Sabato 24/10/2020 su Il Giornale. Ci sono ancora molte ombre sul concorso per dirigenti scolastici indetto il 23 novembre 2017 e su cui stanno indagando ben sei procure della Repubblica. Tra i concorrenti anche l'attuale ministro dell'Istruzione, Lucia Azzolina, risultata idonea quando era già deputata e membro della VII Commissione cultura, ricerca ed istruzione della Camera. Ma la notizia non è tanto questa, fin qui nulla di irregolare: l'allora deputato poteva partecipare al concorso come qualsiasi docente di ruolo. Ma sul concorso sono state riscontrate diverse irregolarità dopo i ricorsi di molti altri partecipanti risultati non idonei. Dopo alcune indagini e la richiesta di accesso agli atti, il Tar del Lazio, in una sentenza, ha annullato la prova scritta. La decisione dei giudici, però, è stata momentaneamente sospesa in quanto il Miur (il ministero dell'istruzione) si è appellato al Consiglio di Stato. Ora spetta a quest'organo l'ultima decisione. Si potrebbe confermare la sentenza del tribunale amministrativo della Regione Lazio (e quindi il concorso sarebbe da rifare) oppure il Consiglio di Stato potrebbe annullare la sentenza del Tar e, quindi, i vincitori del concorso vedrebbero il loro posto da dirigenti scolastici salvo. Proprio pochi giorni fa (il 15 ottobre scorso) si è tenuta l'udienza del Consiglio di Stato (era prevista per il 12 marzo scorso, poi rimandata a causa del Covid-19) e ora si è in attesa della sentenza del massimo organo giuridico. C'è, però, un audio, pubblicato sul gruppo pubblico di Telegram "dirigenti scuola - futuri DS" il 18 ottobre scorso, che farebbe intendere già l'orientamento dei giudici sulla sentenza del Tar e rassicura i vincitori del concorso: "potete star tranquilli". Il gruppo su Telegram è stato, probabilmente, creato per dare tutte le informazioni in merito agli esiti del concorso. Non si conosce l'identità del mittente dell'audio che, nel frattempo, è diventato virale. Come detto, la voce farebbe intendere che il concorso non verrà annullato. L'audio in questione è stato inviato in un gruppo pubblico e se da un lato ha "tranquillizzato" i vincitori del concorso, dall'altro ha deluso i candidati ricorrenti. La voce dell'audio parla di "sentori" che farebbero intendere la decisione del Consiglio di Stato probabilmente diversa dalla sentenza del Tar. Ascoltando l'uomo si intende che ha probabilmente parlato con il "capo dipartimento, (con) l'avvocato che segue il ricorso da parte dell'avvocatura" e non con "l'ultimo arrivato". Stando alle sue parole, questi avrebbe avuto "segnali di fumo" in merito alla decisione dei giudici. "Si è mosso l'ira di Dio perché ora un ulteriore concorso creerebbe ulteriori problemi" ha dichiarato l'uomo di cui non conosciamo l'identità. "I segnali sono 'positivi', ma teneteli per voi" continua l'uomo probabilmente ignaro del fatto che il gruppo sia pubblico e che chiunque può ascoltare la sua voce. Lo stesso, infine, tranquillizza i vincitori del concorso, attualmente dirigenti scolastici, perchè anche "al Ministero (dell'Istruzione, ndr) stanno tranquilli".
L'esposto. L'audio, come detto, è stato ascoltato anche da alcuni partecipanti al concorso che hanno fatto ricorso. Una di loro è Claudia (utilizziamo un nome di fantasia per tutelare la docente) che ha presentato un esposto alla procura di Bari. Nell'atto si legge che l'utente del gruppo che ha mandato l'audio si riferisce "in maniera evidente alla decisione del Consiglio di Stato attualmente in riserva". "Chi ha mandato l'audio fa intendere che si saprebbe già il risultato della sentenza" dice a ilGiornale.it Claudia. "Noi temiamo che queste voci siano fondate e ci siamo stancati di subire" ha concluso, amareggiata, la concorrente non vincitrice.
L'onorevole Rossano Sasso. A seguire la vicenda anche l'onorevole della Lega Rossano Sasso. "Spero che la magistratura chieda alla voce dell'audio chi è l'avvocato a cui fa riferimento o chi è il capo di dipartimento che gli ha mandato segnali di fumo e per quale motivo al ministero stanno tranquilli" dichiara al telefono a ilGiornale.it il parlamentare pugliese. " Queste dichiarazioni creano molte ombre su indebite pressioni di esterni. Io ho massima fiducia nella magistratura, ma spero venga fatta chiarezza su questo concorso e se il Consiglio di Stato dovesse confermare quanto deciso dal Tar il ministro Azzolina si troverà in una plateale situazione di conflitto di interessi e dovrà scegliere se fare il ministro o fare il dirigente scolastico".
Insulti sessisti e minacce per il concorso, sotto scorta anche il ministro Azzolina. Redazione su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Dopo il viceministro Sileri e il governatore della Lombardia Fontana, anche il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina finisce sotto scorta. La titolare del Miur, come riferito all’AdnKronos dalla senatrice del Movimento 5 Stelle Bianca Laura Granato, “oltre ad insulti sessisti ha subito delle minacce per il concorso. Da ieri è stata messa sotto scorta come il sottosegretario Sileri. Hanno tentato di hackerarle il profilo Facebook e il conto corrente”. La ministra è scortata da due uomini della Guardia di Finanza già da 3 giorni. Nei confronti della ministra è arrivata la solidarietà del capo politico del Movimento 5 Stelle Vito Crimi: “Sulla scuola si è venuto a creare un clima intollerabile, che poteva e doveva essere evitato. Al ministro Azzolina proprio in questi giorni è stato deciso di assegnare la scorta e a lei va tutta la solidarietà e vicinanza mia e del Movimento 5 Stelle”, scrive su Facebook il reggente pentastellato. “Agli attacchi e provocazioni strumentali nei suoi confronti, recentemente si sono aggiunti inaccettabili insulti sessisti e minacce, anche da parte di presunti insegnanti. Lucia Azzolina è un ministro competente e coraggioso, andiamo avanti insieme a testa alta nel percorso di cambiamento e di sostegno alla scuola italiana”, conclude Crimi. In una nota dei membri 5 Stelle in commissione Istruzione al Senato si denuncia il “clima intollerabile e davvero gravissimo. Dopo i ripetuti attacchi che certa politica ha in maniera pretestuosa riservato a Lucia Azzolina, alcuni facinorosi di sono spinti a insultare la ministra, con offese sessiste e messaggi di odio davvero sconcertanti. Ma come sempre odio chiama odio, e si è giunti addirittura alle vere e proprie minacce, tanto che è stato deciso di assegnarle la scorta. Tutto questo è inaccettabile. A Lucia Azzolina va la nostra piena e incondizionata solidarietà”.
Il viceministro Sileri sotto scorta, minacce sulla destinazione dei fondi per l’emergenza Covid. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Il viceministro della Saluta Pierpaolo Sileri è da alcuni giorni sotto scorta, accompagnato da un agente della pubblica sicurezza, a seguito di alcune minacce ricevute. A quanto si apprende infatti il viceministro grillino, professore associato presso Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e vice di Roberto Speranza, avrebbe subito pressioni per tentativi di corruzione e minacce in relazione alla sua attività politica e in particolare alla destinazione dei fondi pubblici per l’emergenza coronavirus. A Sileri è arrivata la solidarietà del ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Massima vicinanza al vice ministro Pierpaolo Sileri per le minacce ricevute. Pierpaolo oltre a essere un grande professionista è anche una persona corretta, genuina, con la schiena dritta. Avanti così, siamo tutti con te, hai il nostro sostegno. Non ci facciamo intimidire da nessuno”, ha scritto su Twitter l’ex capo politico dei 5 Stelle. Un messaggio dai toni simili è arrivato anche dal presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra: “Pierpaolo Sileri è stato oggetto di minacce per cui è da qualche giorno sotto tutela. Fare il proprio dovere spesso significa esporsi a rischi di ritorsione. Ma Sileri è uno che difficilmente si intimorisce”.
Cinque stelle in trincea. Luigi Di Maio, quattro mesi alla Farnesina di un ministro impensabile. Assenze, parmigiano, gaffes. Finora aveva lasciato comandare i tecnici, adesso gli tocca la rincorsa mediatico-diplomatica e il duello con Conte. Ecco il vestito nuovo di Giggino il mediatore. Susanna Turco il 15 gennaio 2020 su L'Espresso. Un tempo la Farnesina era una dimora per leader, fidati vice, personaggi chiave. Un luogo adatto a un Aldo Moro, a un Giulio Andreotti. È andata così, grosso modo, fino a Massimo D’Alema, che usò il prestigioso incarico per (continuare a) fare politica. Da lì, il crollo: salvo eccezioni, è diventata più spesso una poltrona per quelle che Giampaolo Pansa avrebbe definito «pompose nullità». Attendenti di campo, parvenue, genti sensibili ad argomenti tipo «giri il mondo», «conosci i Grandi della Terra». Insomma, ci eravamo allenati. Ma non è bastato. Nonostante il transitare di personaggi come Angelino Alfano (col suo ventoso inglese fatto di «uaind», come ebbe a dire durante un vertice europeo) o Franco Frattini (già maestro di sci alpino, ormai insegna alla Link University e si atteggia a consigliori), nulla ha potuto fermare il senso di vertigine, di nodo allo stomaco, di mandibola cascante, allorché nel precipitare degli scenari mondiali ci si è resi conto - come tanti piccoli Edipi e Giocaste, con il senso dell’irrimediabile da tragedia greca - che nella fretta del Conte bis, sotto l’urgenza del dopo di me il diluvio, nel tira e molla delle caselle di fine estate, amoreggiando con la «discontinuità» e con il trasformismo si era finito per generare - peraltro di risulta - un fin lì impensabile ministro degli Esteri. Luigi Di Maio. Il trentatreenne capo dei Cinque stelle, immortale autore di neologismi come «Mister Ping» (alias il presidente cinese Xi Jinping) e «Mister Ross» (alias il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, poi ci si chiede perché non telefoni), già responsabile di una posizione sul Venezuela di Maduro per lo meno ambigua e della più grave crisi diplomatica con la Francia dal secondo dopoguerra a oggi, proprio nelle stesse ore, si slanciava intanto alla rincorsa affannosa a tentare di colmare l’inconsistenza italiana, il senso di fallimento e la fosforescente marginalità sul fronte internazionale (un micidiale filotto dal Medio Oriente all’Africa del Nord: Iran, Iraq, Libia e ritorno), con post su Facebook alle due di notte, divisive prese di posizione tipo «l’Europa lavori in modo più coeso» o «serve subito un cessate il fuoco», e sguardi pensosi sulla contemporaneità come quello che abbracciando Libia e Iran diceva: «Il faro che ci guida è sempre solo un’unica, semplice verità: la guerra genera altra guerra, la violenza chiama altra violenza, la morte altra morte». Anche Di Maio, del resto, genera altro Di Maio. Cambia giusto il vestito. I risultati si vedono. Pur eccellendo come un camaleonte nella capacità di cambiare forma a seconda del ruolo su cui si posa, infatti, l’ex ministro del Lavoro e del Mise (non ha saputo chiudere un tavolo, per tacere dell’Ilva), pur provando in ogni modo a vestire i panni del ministro degli Esteri resta infatti il ragazzo che faceva lo steward allo Stadio San Paolo. Zero esperienza internazionale. Zero formazione accademica. Zero inglese - o comunque molto poco, nonostante le lezioni di Silvia Virgulti. E bisogna immaginarselo, quando ad esempio a novembre il giovane Di Maio ha incontrato il russo Sergej Lavrov, uno che fra le altre cose fa il ministro degli Esteri di Putin da oltre tre lustri. Come raccontano con un sibilo i corridoi della Farnesina, Di Maio, quel giorno, dopo essere stato (come al solito) pressoché silente per quasi tutto l’incontro, pescando mentalmente tra i foglietti preparati dai diplomatici decise di affrontare la questione dei dazi sul parmigiano reggiano: e chiedere al suo omologo di intervenire per togliere le sanzioni. L’ex viceministro di Eltsin, che verosimilmente più dei latticini aveva in mente l’Ucraina o la Libia , sibilò una cosa del tipo: di questo parli pure con il capo dipartimento dell’Agricoltura. La schicchera che avrebbe asfaltato un Moavero Milanesi o un Giulio Terzi di Sant’Agata ha finito, a sprezzo del ridicolo, per essere esibita da Di Maio alla stregua di un successo diplomatico, ha sottolineato la Stampa. E invece dice, da sola, tutta la capacità di gittata del ministro di Pomigliano d’Arco, e l’intera considerazione che è capace di conquistarsi. E del resto, per condurre i micidiali bilaterali, gli speed date della diplomazia, ci vuole finissima arte politica. Non post sul blog. Non dagli alla kasta. Non la piattaforma Rousseau. Tocca sbattere il naso contro la realtà: in quei posti dove la retorica finto-giovanilista di Giggino non l’applaude nessuno. E questo, in fondo, Di Maio lo sa. Tanto è vero che lui il ministro degli Esteri non voleva farlo (voleva essere premier, vicepremier, o magari ministro del Sud, ricordano le sciagurate cronache di quei giorni). Tanto è vero che la sua principale qualità - raccontano dalla Farnesina, quando sono in buona - sta appunto in questo: aver capito quali vasti territori non possa nemmeno lambire. E, di conseguenza, non azzardarcisi nemmeno: lasciar fare, piuttosto. Preferibilmente non esserci. Stare altrove. Fino al necessario presenzialismo di questi giorni, in effetti, il dato che saltava più all’occhio era l’assenza di Di Maio: dai vertici mondiali, all’inizio, dalla Farnesina anche dopo. «L’hanno scalzato», il lamento di chi ancora ci crede. «Non lo vediamo mai», invece, il sospiro dei diplomatici. Un po’ come, nel governo precedente, ha fatto Matteo Salvini, che al Viminale non ci stava mai. Con, però, una differenza fondamentale: mentre gli Affari interni nelle loro funzioni essenziali vanno avanti anche senza ministro, alla Farnesina la rete degli ambasciatori ha bisogno di una relazione continua con il ministro, che è chiamato a decidere, dare la linea politica, presidiare i dossier. Senza si finisce presto fuori dai giochi, e il vuoto diplomatico viene riempito da altri Paesi, come è accaduto per la Libia. Non che sia tutta colpa di Di Maio, perché alla fine la politica la fa il presidente del Consiglio: e il premier è rimasto lo stesso, dallo scorso governo. Dettaglio che bisogna ricordare, tutte le volte che si addossa a Salvini la colpa di qualcosa. È il leader leghista ad aver gestito il dossier libico? Chi glielo ha permesso? Del resto, anche Giuseppe Conte, bisogna comprenderlo: pur avendo un curriculum più adatto ad affrontare le sottigliezze della diplomazia, è partito anche lui da zero, a digiuno di politica. Da avvocato, il meglio che sa esprimere è la mediazione del galleggiamento: tra Pd e M5S, tra il prima e il poi, tra Haftar e Serraj - come ha provato a rifare l’altro giorno, a Roma. E, come Di Maio, annaspa anche lui in prese di posizioni talmente generiche da arrossire, potendo. Ma intanto chi amministra i dossier? La risposta è abbastanza paradossale, visto e considerato che i Cinque stelle volevano abbattere il sistema. Mentre Di Maio ha raddoppiato il suo staff comunicazione raggiungendo la quota monstre di 710 mila euro l’anno per gli stipendi , a governare sono infatti i tecnici, i burocrati, il sistema insomma. Alla Farnesina, è ascesa l’influenza di Elisabetta Belloni, segretaria generale dal 2016, già capa di gabinetto di Paolo Gentiloni alla Farnesina, e di fatto reggente già dai tempi del preparato ma invisibile Enzo Moavero Milanesi; l’altra guardia pretoriana di Di Maio è Ettore Sequi, nominato in settembre capo di gabinetto, su suggerimento pare proprio di Belloni, non appena gli era scaduto l’incarico di ambasciatore a Pechino, al quale l’aveva promosso sempre Gentiloni, e dal quale aveva guidato, nei due viaggi in Cina, l’allora vicepremier e titolare del Mise. A Palazzo Chigi, consigliere diplomatico di Conte è Pietro Benassi, che Gentiloni da ministro degli Esteri aveva fatto salire assegnandolo ad una delle cinque sedi più importanti, quella di Berlino, e che già dal 2018, epoca del governo gialloverde, aveva portato il neopremier ad accreditarsi per le ambasciate europee (tassello fondamentale per la credibilità sulla quale il ri-premier ha poi fatto leva); mentre l’altro del quale Conte si fida, a Palazzo Chigi, è l’ammiraglio Carlo Massagli, nominato consigliere militare per la prima volta durante l’ultimo governo a guida Pd. Perché è chiaro che, su questi dossier, persino un Rocco Casalino, o financo un Augusto Rubei, braccio destro di Di Maio, possono spingersi fino a un certo punto. La Farnesina, in particolare, è posto che fa da sé: un fedelissimo dimaiano come l’ex ambasciatore del Qatar Pasquale Salzano, nativo di Pomigliano d’Arco, è arrivato alla fine subito prima di Natale, via Cdp e presidenza di Simest, nel quadro dello svuotamento delle competenze del Mise. La gabbia diplomatica insomma è ben presidiata, e pare decisamente improbabile che, nonostante tutto, Di Maio si possa mettere a proclamare dal balcone la fine di qualsiasi ostilità bellica, come fece a suo tempo con la «povertà». Se non altro, perché qualche diplomatico gli farebbe lo sgambetto prima, impedendogli di affacciarsi. Ma che poi alla fine ne salti fuori qualcosa di sensato, neanche questo appare tanto possibile.
Alessandro Da Rold per laverita.info il 7 ottobre 2020. Il ministro per le politiche giovanili e lo sport ha un ruolo sempre più centrale nel governo di Giuseppe Conte. Anche grazie a un'occupazione del potere che ha portato avanti da vero democristiano negli ultimi mesi di governo. Ha ingrandito la struttura centrale e ha piazzato i suoi uomini in posizioni strategiche, senza contare le consulenze. Criticato dal mondo del calcio, spesso vacillante nel suo incarico di ministro per le politiche giovanili e lo Sport durante l'emergenza sanitaria, Vincenzo Spadafora resta uno dei politici più importanti nel governo di Giuseppe Conte. Prima e durante la ripresa del campionato di calcio in tanti avevano chiesto la sua testa, ma il presidente del Consiglio non lo ha mai messo in discussione. Tanto che il nome di Spadafora non è mai stato nemmeno considerato in un possibile rimpasto della maggioranza. E' inamovibile, apprezzato da Conte, dai 5 Stelle e dal Partito democratico. Del resto il politico campano di 46 anni è cresciuto alla scuola della democrazia cristiana, prima con Clemente Mastella e poi con Alfonso Pecoraro Scanio, conosce le istituzioni - grazie agli anni insieme all'ex numero uno dei lavori pubblici Angelo Balducci - e soprattutto come mantenere il potere. Basta guardare le riforme fatte nell'ultimo anno al dicastero di largo Chigi, in particolare quelle relative al dipartimento dello sport che in pochi mesi ha visto crescere il proprio personale da 15 unità a 71. Secondo le stime si tratta di una spesa pari 1 milione e mezzo di euro. Non solo. Pochi mesi fa, a giugno, sono stati selezionati 25 consulenti "esperti" del fondo Sport e Periferie che Spadafora ha assegnato a Studiare Sviluppo, la società del Mef che aveva già accompagnato il ministro nella sua avventura da sottosegretario: 25 profili con stipendi variabili tra 30, 50 e 70 mila euro, di cui curiosamente più del 10% per la comunicazione. Tutt'ora se si va sul sito del bando compare un'errata corrige (...). Il fondo periferie è cambiato in «fondo unico a sostegno del potenziamento del movimento sportivo italiano». Del resto esiste un'unità già operativa di questo tipo presso Sport e Salute e un accordo identico con Invitalia di Domenico Arcuri. In pratica in un anno Spadafora si è rinforzato con 96 persone, un record in tempi di emergenza sanitaria e economica. Il motivo, accentrare sempre di più sul ministero il proprio potere sullo sport italiano. Ma nessuno si lamenta, figuriamoci tra i grillini che hanno fatto per anni una battaglia contro i presunti poltronifici della Prima repubblica. Il ministro è grande amico di Luigi Di Maio e vanta ottimi rapporti anche con il dem Dario Franceschini. A questi incarichi vanno aggiunte altre consulenze, tra cui 35.000 euro a Andrea Fiorillo il 21 luglio, per assistenza nella gestione del management. Poi ce n'è un'altra per Ernesto Caggiano del 17 luglio, 10.000 euro per perfezionamento di aspetti giuridici. Quindi a Celestino Bottoni altri 15.000 per consulenza fiscale. A Anna Teressa Borrelli vengono dati 15.000 euro per una consulenza sulle politiche giovanili. A Valerio Toniolo, già presidente della fondazione Milano Cortina 2016 e commissario per i mondiali di sci 2021, vanno anche 35.000 euro per consulenze nella gestione di risorse artistiche e culturali. E poi ancora Claudio Rosi, Gianluca Del Giudice, Simone Agostini Santucci, Federico Maria De Luca e Manuela Svampa. Spadafora sa come far girare le poltrone. Non appena arrivato a Palazzo Chigi nel 2018, all'epoca solo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo sport, sollevò dall'incarico il Direttore dell'Agenzia Nazionale dei Giovani Giacomo D'Arrigo, sostituendolo con Domenico De Maio, avvocato di origine campane, che aveva prima lavorato con lui all'Unicef, coordinandone nel 2011 il movimento dei giovani volontari, e poi lavorato nel suo staff a Palazzo Chigi. Allo stesso modo, poco prima che cadesse il governo Conte I, Spadafora aveva sostituito Luigi Manconi all'Unar (l'Ufficio antidiscriminazioni), con Triantafillos Loukarelis, anche lui proveniente dal suo staff e con cui aveva lavorato assieme sia all'Unicef che all'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza. Quando cadde il primo governo Conte Spadafora riuscì grazie ai buoni uffici di Di Maio e alla sponda di Franceschini, a prendere l'ascensore sociale e diventare ministro. Tenne per sé la delega alle politiche giovanili, e il relativo portafoglio aggiunse quello dello Sport, ricevendo il testimone da Giancarlo Giorgetti, che aveva partorito una riforma attesa da anni. Dopo i primi passi all'insegna di un'apparente umiltà – le cronache narrano di un Ministro che ostentava in ogni occasione pubblica, come fosse un merito, di "non sapere di Sport" – Spadafora ritornò poi subito alla sue abitudini. Dopo pochi mesi dal suo insediamento ha costretto alle dimissioni Rocco Sabelli, il manager nominato da Giorgetti al vertice di Sport e Salute, la società cassaforte dello sport italiano. Le dimissioni di Sabelli arrivarono dopo il pressing a tutto campo che Spadafora attuò per condizionarne le scelte e sottrargli l'autonomia che lo stesso Sabelli aveva posto come conditio sine qua non per accettare l'incarico di amministratore delegato della Società. Le dimissioni non passano tuttavia inosservate, almeno negli ambienti economici e finanziari, perché il manager di Agnone noto per la sua durezza lascia agli atti, e alle agenzie, una dichiarazione al vetriolo facendo intendere che le dimissioni nascono da una sintonia con l'attuale ministro Spadafora «mai nata e, credo, difficilmente possibile in futuro per evidenti e sperimentate diversità di cultura, linguaggio e metodi», cui fa eco qualche giorno dopo il richiamo alla «politica pasticciona». Qualche mese dopo Sabelli viene sostituito da Vito Cozzoli, avvocato nonché ex capo di gabinetto di Di Maio. Nel frattempo, Spadafora ha messo nel mirino anche Andrea Abodi, Presidente dell'Istituto di Credito Sportivo che aveva assicurato la stabilità finanziaria e l'autonomia della banca, prorogando il mandato di 6 mesi del direttore generale, Paolo D'Alessio. Spadafora ha provato a defenestrare Abodi, che tuttavia al contrario di Sabelli lo ha respinto con perdite grazie all'aiuto del Pd di Luca Lotti, che lo aveva nominato, e dell'interesse del Ministero dell'Economia e delle Finanze, preoccupato per la tenuta della banca pubblica. Ma Spadafora non demorde e la partita è ancora aperta. Non finisce qui, perché Spadafora, come anticipato su Panorama.it del 14 agosto, ha poi varato una riforma in cui si moltiplicano i centri di poteri e si moltiplicano le nomine da fare: nuovi dirigenti al Coni (in sostituzione di quelli che rimarranno a Sport e Salute), nuovi dirigenti a Sport e Salute (per rimpiazzare quelli che sceglierà Malagò), nuovi dirigenti al dipartimento per lo Sport, dove non è ancora finito il tentativo di far diventare dirigente generale di primo livello lo stesso capo di gabinetto del Ministero, Giovanni Panebianco.
La ministra Azzolina querela Salvini: “Più volte ha fatto post sessisti”. Notizie.it l'11/10/2020. La ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina ha sporto querela contro il leader della Lega Matteo Salvini per aver pubblicato post sessisti su internet. Intervenendo durante la trasmissione radiofonica di Selvaggia Lucarelli “Le Mattine di Radio Capital”, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha annunciato di aver sporto querela nei confronti di Matteo Salvini a seguito dei numerosi post sessisti pubblicati dal leader della Lega sui suoi profili social. La ministra ha inoltre parlato dell’odio online emerso contro la sua persona da quando è diventata ministra e in particolare da quando quello della scuola è diventato uno dei principali temi dell’emergenza coronavirus. Nel corso della trasmissione, la ministra Azzolina ha dichiarato: “Ho sporto querela nei confronti di Matteo Salvini mesi fa, perché ha fatto più post sessisti e tante volte questi sono stati rilanciati dalle donne, mi ha fatto molto male. Gli esponenti politici sono quelli che devono dare l’esempio fuori. Io una volta da parlamentare difesi una collega di Forza Italia insultata sui social. Il colore politico non conta”. “Da quando sono diventata ministro l’odio social si è acuito molto. Un po’ tutti i giornali si sono divertiti in questi anni con me“, ha in seguito aggiunto la ministra dell’Istruzione, precisando come non essendo mai stata prima d’ora così esposta mediaticamente n un ruolo pubblico non si era mai resa conto della violenza dei commenti sul web: “Da persona che viene dalla scuola, non ero abituata a tutto ciò, a tutte queste volgarità, la prima volta mi è venuto da vomitare, poi ho interiorizzato e ora prova solo pena per queste persone”.
La replica di Salvini. Non si è fatta attendere la replica del segretario leghista, che su social ha scritto: “L’incapace Azzolina mi ha querelato? Mi viene da ridere! Assumi professori e bidelli, riporta a scuola i bimbi disabili con i loro insegnanti di sostegno, compra i banchi promessi (senza rotelle!) e sistema aule, mense e palestre, ti pagano per questo”.
Azzolina, chi è davvero il ministro che ha in mano la nostra scuola. L’illeggibilità della firma depone per la presenza di sensi d’inferiorità vissuti nel passato e non ancora del tutto risolti. Evi Crotti, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina sembra avere un asso nella manica, che peraltro usa con maestria: l’immagine di sé, alla quale tiene molto e che pertanto cura con particolare interesse. Persona loquace, fino a rischiare punte di logorrea, sembra avere “poche idee, ma confuse” che compensa con la convinzione di possedere una competenza adeguata, per cui finisce per sfoderare saccenti consigli (vedi lettere oscure e illeggibili, e triplice sprofondamento verso il basso delle lettere). Ciò sta a indicare un forte attaccamento al tangibile, per il quale investe molte delle proprie energie. L’illeggibilità della firma depone per la presenza di sensi d’inferiorità vissuti nel passato e non ancora del tutto risolti, per cui rischia di recuperare la propria autostima attraverso la ricerca di conferme da parte degli altri. Se però non dovesse riuscire a trovare appoggi e ad organizzare il proprio pensiero con consequenzialità, rischierebbe di perdere quella apparente sicurezza (leggi sicumera) costruita con tanta fatica, restando priva di credibilità. Infatti, se contrastata o toccata nell’orgoglio, potrebbe manifestare suscettibilità e reagire in modo del tutto imprevedibile, persino con scatti di nervosismo. Affettivamente parlando, sembra di poter cogliere una personalità che tende a sublimare le pulsioni affettive attraverso un costante e deciso impegno nel mondo del lavoro, in particolare in quello pedagogico infantile. Ciò la porta a sacrificare il mondo degli affetti e parte della femminilità in favore di una crescita sociale fatta di compensazioni e di ambizioni fino all’arrivismo. Il tutto però è caratterizzato da un’ansia di tipo anticipatorio (vedi lettere stiracchiate e oscure) che la porta a vivere tutto con tensione e senza una precisa consequenzialità tra pensiero e azione.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 7 ottobre 2020. A proposito, Lucia Azzolina non s' è ancora dimessa? Non ha ancora risposto del disastro, del cataclisma, della bancarotta? Ora, io non ho nemmeno troppo da lamentarmi: mio figlio alle medie è spossato poiché deve tenere la mascherina per l'intera durata delle lezioni, e mia figlia - quinto ginnasio - è distrutta poiché è ancora senza banco, e non sa dove appoggiarsi a riposare le stanche membra, ma mi sembrano disagi tollerabili. Non devo però farmi fuorviare da queste piccole, parziali informazioni. La politica italiana ha un'opinione più complessa del lavoro del ministero dell'Istruzione in vista del nuovo anno scolastico, appena cominciato, e le cui molteplici sfaccettature hanno impegnato un ricco vocabolario: Azzolina non sa gestire neppure un asilo, Azzolina è una sciagura, Azzolina è contro il diritto alla salute, Azzolina è incapace, Azzolina è un fantasma, con Azzolina c'è il caos, Azzolina è una persona con problemi, Azzolina è indegna, Azzolina manda i nostri figli allo zoo, Azzolina è tragica, Azzolina è il peggior ministro della storia, Azzolina piagnucola, Azzolina non capisce una mazza e questa è solo una frettolosa antologia. La mia critica preferita è Azzolina vale zero. La trovo la più attinente. Infatti sono usciti i dati sui contagi dopo due settimane di lezione. Studenti contagiati, quasi mille e cinquecento, cioè lo 0,02. Insegnanti contagiati, meno di trecentocinquanta, lo 0,04. Personale contagiato, poco più di cento, lo 0,05. Ecco, Azzolina non vale zero, vale zero virgola zero. Riconoscerle che ha fatto un buon lavoro sarebbe da gentiluomini, se ce ne fossero.
Maurizio Tortorella per “la Verità” il 7 ottobre 2020. In quale Paese al mondo può accadere che sia indetto un concorso di Stato per coprire alcune migliaia di posti da dirigente scolastico, ma che sullo svolgimento dei test vengano denunciate anomalie così gravi da spingere sei diverse Procure ad aprire un'inchiesta, e irregolarità tali da indurre i Tribunali amministrativi ad annullare la selezione? In quale Paese può accadere che, malgrado tutto questo, per oltre un anno non accada assolutamente nulla? In quale Paese può accadere poi che a quel concorso partecipi un deputato della Repubblica, e che sulla sua prova d'esame vengano lanciati gravi dubbi da uno dei commissari che l'hanno valutata? In quale Paese quel deputato-candidato preside, poi divenuto ministro dell'Istruzione, potrebbe opporsi in un'aula di giustizia alla legittima richiesta di pubblicazione di tutti gli atti d'esame, per di più schierando il ministero al suo fianco? Se la vostra risposta ai quattro quesiti è stata «l'Italia», complimenti: avete passato l'esame. Anche Lucia Azzolina ha sicuramente superato il suo, il 19 giugno 2019. Docente precaria in Liguria, entrata in ruolo a Biella, quel giorno Azzolina, che allo scritto dell'ottobre 2018 era passata per il rotto della cuffia (73 contro un punteggio minimo di 71,7), ha superato l'orale ed è divenuta preside: da oltre un anno era stata eletta deputato del Movimento 5 stelle ed era entrata in commissione Cultura, un'istituzione che di concorsi scolastici si occupa per statuto, per poi essere nominata sottosegretario all'Istruzione. Sulla bontà della sua prova, poi, era emerso uno scandaletto. Verso la fine dello scorso dicembre il critico e linguista Massimo Arcangeli, che era stato tra i suoi esaminatori, aveva rivelato che la performance della deputata grillina non era stata proprio eccelsa: «Mi chiedo» aveva raccontato Arcangeli, «come si possa pensare di affidare la guida della Pubblica istruzione a chi, in quell'orale, non ha risposto a nessuna delle domande d'informatica al punto da meritarsi uno zero». Anche la prova d'inglese non era andata bene, solo 5 su 12. Ma quelle legittime domande erano state presto silenziate, ed erano anche servite a poco: due settimane dopo, il 10 gennaio 2020, Azzolina era stata nominata al dicastero dell'Istruzione, come Arcangeli aveva previsto e temuto. Ed era stata confermata anche tra i 2.900 vincitori del concorso. Il problema è che nel frattempo molti aspiranti presidi «bocciati», riuniti in un comitato dal programmatico nome «Trasparenza è partecipazione», hanno deciso di dare battaglia legale. Poco prima che Azzolina s' insediasse al ministero, attorno al Natale 2019, il comitato è riuscito a ottenere dal suo predecessore Lorenzo Fioramonti 430 elaborati d'esame su circa 9.000: tutti anonimi, ovviamente, ma con la valutazione delle sotto-commissioni. «L'analisi di quei documenti è stata illuminante», dice Giancarlo Pellegrino, esponente del comitato. La lista delle anomalie è lunga ed è finita in un dossier creato dal comitato con l'aiuto di tecnici ed esperti. Secondo «Trasparenza è partecipazione», i rigidi criteri di valutazione delle prove, prestabiliti da una commissione plenaria, sarebbero stati disattesi da alcune delle 38 sotto-commissioni d'esame, che avrebbero dato punteggi irregolari, con frazioni di voto diverse da quelle indicate. «In certi casi le incongruenze sono ancora più gravi» aggiunge Pellegrino «perché vengono valutate positivamente risposte mai date, o incomplete. Una domanda del test scritto, per esempio, prevedeva 5 punti nel caso in cui il candidato avesse citato correttamente le norme di riferimento: in alcuni elaborati la risposta non c'è, ma quei punti vengono assegnati ugualmente». Almeno tre commissari d'esame avrebbero poi agito in palese conflitto d'interessi, violando il regolamento del concorso che il ministero nel 2017 aveva emanato per decreto: prima dell'esame, infatti, avevano svolto attività di formazione dei candidati, e c'era il rischio di favoritismi. Gravi falle, del resto, avrebbe mostrato anche il «codice sorgente» del sistema informatico, utilizzato per garantire l'anonimato della prova scritta. L'attivismo del comitato, tra denunce e ricorsi, ha avuto effetto. Una prima segnalazione alla Procura di Roma ha fatto aprire un'inchiesta nella Capitale e altri cinque procedimenti penali a Bologna, Napoli, Ravenna, Catania e Santa Maria Capua Vetere. I fascicoli all'inizio erano contro ignoti, ma a Panorama risulta che gli inquirenti abbiano da poco iscritto alcuni nomi nel registro degli indagati. È andato ancora più in là il Tribunale amministrativo del Lazio, che con tre sentenze pronunciate fra il luglio 2019 e il giugno 2020 ha confermato alcune delle lamentele del comitato e ha annullato il concorso. Il Tar ha ordinato anche la piena pubblicità degli elaborati e dei risultati dello scrutinio, e il libero accesso al «codice sorgente». A quel punto, però, tutto s' è arenato. A causa dell'opposizione del ministero dell'Istruzione, che chiedeva di non turbare l'attività didattica, nell'ottobre 2019 il Consiglio di Stato ha sospeso le decisioni del Tar del Lazio e rinviato a un'udienza che si terrà il prossimo 26 ottobre. Ma in vista di quell'appuntamento cruciale il ministero, attraverso l'Avvocatura dello Stato, ha nuovamente chiesto al massimo organo della giustizia amministrativa di negare ogni pubblicità agli atti. Il paradosso è doppio, perché a «firmare» il nuovo ricorso è la stessa Azzolina, che non solo è parte in causa, visto che ha vinto il contestatissimo concorso, ma in quanto rappresentante del Movimento 5 stelle dovrebbe essere il primo alfiere della trasparenza. La motivazione per il nuovo no all'accesso agli atti? Il grande carico di lavoro per il ministero, impegnato nel difficile avvio di un anno scolastico che peraltro ha già causato non poche grane e problemi d'immagine alla stessa numero uno dell'Istruzione. Oltre al fatto che il «codice sorgente», se pubblicato, non potrebbe più essere utilizzato. Si legge anche che i dirigenti scolastici vincitori rischierebbero «l'estromissione o la discriminazione (), o altri svantaggi personali e/o sociali»: potrebbero «essere esposti a minacce, intimidazioni, ritorsioni...». In attesa della decisione del Consiglio di Stato, il 25 settembre l'ex ministro Fioramonti si è dissociato con forza dal suo successore e compagno di Movimento: «Ho sempre creduto necessario rendere i concorsi il più possibile trasparenti» ha dichiarato «perché ne va della credibilità dello Stato. Trovo pertanto inaccettabile che dopo la mia uscita dal ministero la richiesta di accesso agli atti, che io avevo concesso, sia stata respinta ancora una volta».
La memoria corta di Azzolina: quando sabotava coi sindacati. Prima di fare politica era attivista dell'Anief e contestava il governo sui precari. Poi il voltafaccia. Massimo Arcangeli, Sabato 22/08/2020 su Il Giornale. Monta inarrestabile la protesta contro una ministra dell'Istruzione tanto arrogante quanto incompetente, indifendibile dall'inizio del mandato e rivelatasi inadeguata oltre ogni immaginazione. L'ultima è l'attacco scomposto e irresponsabile, che ha indignato perfino l'alleato democratico, portato ai sindacati, e ai presunti sabotatori al loro interno, nell'intervista di ieri a Repubblica: remerebbero, secondo la Azzolina, contro la riapertura settembrina delle scuole. A parlare è peraltro un'ex sindacalista, un tempo paladina dei precari. L'11 luglio 2018 Azzolina, in una riunione congiunta delle settime Commissioni di Camera e Senato, in risposta a un'audizione del ministro dell'Istruzione di allora (Marco Bussetti), dichiarava in aula: «Abbiamo tante di quelle emergenze: abbiamo docenti da stabilizzare, abbiamo vincitori, idonei di concorso, Gae storici, diplomati magistrali, docenti della scuola secondaria di primo e di secondo grado». Due mesi dopo, in un video postato su YouTube (20 settembre 2018), la scena si ripete: l'onorevole, partita lancia in resta contro la Buona Scuola, difende a spada tratta la stabilizzazione dei precari della scuola, per dare una «prospettiva ai lavoratori che per tre anni hanno profuso il loro impegno all'interno delle scuole italiane. Non accadrà più. D'ora in poi il nostro impegno andrà nella direzione di rendere il contratto a tempo indeterminato la regola, non l'eccezione». Ora, da quando è ministra, Azzolina quei precari li disprezza. Maestra nell'arte dello scaricabarile, la ministra è sbocciata sindacalmente nell'Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori (Anief), una onlus fondata nel 2003 a Palermo (per tutelare, in particolare, proprio i precari scolastici), e lì si è data parecchio da fare, militando prima in Piemonte e poi in Lombardia. Il 10 novembre 2009 Marcello Pacifico, il presidente nazionale dell'associazione (tuttora in carica), in un'intervista a un quotidiano on line (ilsussidiario.net) aveva annunciato trionfale l'esito positivo del ricorso fatto al Tar dal suo sindacato, contro il decreto Gelmini, in difesa di più di 8.000 precari (degli oltre 20.000 ricorrenti totali). Cinque anni dopo Lucia Azzolina compare come relatrice sulla locandina di un seminario di studi Anief (La legislazione scolastica, Chieri, I.C. Chieri I, 14 novembre 2014) organizzato all'interno di un corso diretto dallo stesso Pacifico (La buona scuola. Facciamo crescere il Paese). Il suo nome riaffiora poco più di un anno dopo, quando è relatrice di un altro seminario Anief in tema di riforma scolastica: La «Buona Scuola» e le nuove norme sulla mobilità tra organico dell'autonomia e ambiti territoriali (Milano, I.C. R. Pezzani, 16 febbraio 2016). Nel 2107 Azzolina torna a insegnare, lasciando il sindacato fondato da Pacifico. Avrebbe poi detto: «Per un po' ho lavorato all'Anief, esperienza che mi ha fatto capire, purtroppo, come funziona il sindacato»: tpi.it, 28 dicembre 2019). Dopo l'elezione a ministra l'Anief di Novara-Biella-Vercelli ha diramato un comunicato (31 dicembre 2019), firmato dal presidente locale, Giuseppe Faraci, di congratulazioni all'ex affiliata. Nel comunicato si diceva «oramai scaduto il tempo perché possano trovare soluzione definitiva le annose questioni legate al mondo del precariato come ad esempio la stabilizzazione dei precari . Non sono più tollerabili atteggiamenti discriminatori, docenti di ruolo e docenti a tempo determinato hanno stessi doveri e non possono non avere stessi diritti . Tutte queste ed anche altre rivendicazioni, negli anni scorsi, le abbiamo urlate insieme al neo ministro Azzolina e noi ne siamo fieri!» Dimettetela.
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2020. Sotto il rossetto, senza il quale nessuno l' ha mai vista, niente. Lucia Azzolina è la dimostrazione che la politica grillina dell' uno vale uno è una solenne cavolata che produce solo danni. Il mondo della scuola godeva già di pessima salute prima del suo arrivo al ministero dell' Istruzione. Uno studio Ocse del 2019 ha rilevato che i liceali di oggi hanno conoscenze matematiche e linguistiche inferiori a quelle dei loro fratelli maggiori e che, di fatto, un adolescente su quattro non è in grado di leggere e far di conto a livelli accettabili. In viale Trastevere avremmo avuto bisogno di Pico della Mirandola a gestire la baracca, invece è arrivata questa ministra della D-Istruzione che, avendo due lauree, nel gregge grillino viene trattata come se fosse la reincarnazione di Francesco De Sanctis o di Giovanni Gentile. Invece è la prova del degrado assoluto nel quale è precipitata la nostra università. Se essa funzionasse infatti, non avrebbe mai consentito alla signora di cingersi per due volta la testa con la corona d' alloro, in Filosofia e Giurisprudenza. Questa donna riesce nell' impresa di fare rimpiangere perfino Fioramonti, il rodomontesco ministro grillino che l' ha preceduta. Il quale era un improponibile, ma almeno aveva tre idee, per quanto sbagliate. Azzolina al contrario brilla nell' arte di non sapere che pesci pigliare. Però la sua insipienza, al posto di renderla umile, le porta spavalderia e aggressività. Ha due commissioni di esperti. Una è per la riapertura ma, visto la stadio dei lavori in corso ancora a zero, probabilmente è in sciopero. L' altra è per la chiusura e, stando ai risultati della didattica a distanza, sarebbe auspicabile che si mettesse in sciopero. Emula di Conte, unico in Italia a difenderla, ma per mere ragioni di bottega, la ministra si è votata alla religione degli esperti e dei virologi e segue come una talebana i loro consigli senza mediazioni con il mondo della scuola. Tant' è che è riuscita a scontentare i sindacati pur promettendo 25mila assunzioni entro l' inizio del prossimo anno scolastico. La signora infatti progetta un' infornata di precari alla faccia dei concorsi. Il fatto che Azzolina comandi la Pubblica Istruzione è uno spot straordinario per quella privata. Per tutta la durata del suo dicastero - che è breve, visto che dura da meno di quattro mesi, ma sembra già troppo lungo - nessuno ha sentito la signora parlare di didattica, programmi, organizzazione. È arrivata ai primi di gennaio, contestualmente al Covid-19, e si è subito dimostrata una disgrazia nella disgrazia. Per studenti e professori infatti, la sciagura peggiore non è stata l' epidemia, ma il fatto che essa abbia ampliato i poteri e il ruolo di Azzolina. Perché una cosa è chiara a tutti: finché c' è lei, la scuola italiana non ripartirà; e forse, proprio perché c' è lei, sarebbe anche il minore dei mali. Basta pensare alle sue stralunate idee su come finire l' anno sui banchi e iniziare il prossimo. A questo proposito però Donna Lucia ha dimostrato di avere una qualità. Quando apre bocca, mette d' accordo tutti. Le sue parole fanno cattiva scuola. Sindacati, studenti, professori, renziani e salviniani, non c' è chi non sogna di cacciarla. Mancano ancora quattro mesi all' inizio del prossimo anno scolastico, e già nel fine settimana Azzolina ha annunciato la resa: bisogna andare in classe un giorno sì e uno no, con la stessa frequenza con cui lei accende il cervello. Infatti dodici dopo, a neuroni attivi, la ministra si è rimangiata tutto, salvo ricascare nel grottesco annunciando lezioni nei parchi. Emula di Conte anche nel metodo: non sa che fare, spara la prima cosa che le suggeriscono i suoi esperti e vede l' effetto che fa. Se la maggioranza la manda al diavolo, torna indietro. Un po' come gli studenti quando non sanno la lezione e sparano a caso la prima risposta che gli pare non sbagliatissima. Il fatto che il Pd la tolleri ancora al suo posto è la prova di come il fu glorioso partito della sinistra italiana si sia ridotto a scendiletto di Conte. I dem si erano, e ci avevano, illusi che avrebbero governato i grillini un po' come fece Salvini nel precedente governo; invece ne sono gli utili idioti. Deceduti per Covid-19, gli zingarettiani pare che abbiano rifiutato le profferte di Renzi di ribaltare il premier per mettere uno di loro al suo posto. Poco male, Orlando e compagni al posto di Giuseppe non farebbero di meglio. Però potrebbero mettere dietro la lavagna Azzolina, o almeno costringerla a scrivere mille volte con il rossetto «io non farò fallire la scuola italiana».
Roberto Bordi per il Giornale il 29 dicembre 2019. Soluzione salomonica per il Ministero dell'Istruzione, rimasto senza guida dopo le dimissioni rassegnate il giorno di Natale dal grillino Lorenzo Fioramonti. Durante la conferenza stampa di fine anno a Palazzo Madama, il premier Giuseppe Conte ha spiegato: "Ho pensato di nominare la sottosegretaria Lucia Azzolina ministra della Scuola e Gaetano Manfredi, presidente della Crui, ministro dell'Università e della Ricerca. Affiancherò il neo ministro per una ricognizione di un mese in cui sentiremo tutti gli stakholders", aggiungendo che "nel 2020 introdurremo l'Agenzia nazionale della ricerca che possa fungere da coordinamento ai vari livelli". Si chiude così, con l'annuncio di una doppia nomina (e di un doppio stipendio), il dibattito sul successore di Fioramonti. Subito il favorito era il presidente della commissione bicamerale Antimafia, Nicola Morra, scavalcato in extremis da Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi. Nomi sgraditi a una parte della maggioranza. Compresi alcuni deputati del M5s che, ha scritto Il Messaggero, hanno criticato la scelta "politicamente inopportuna" di Azzolina "di partecipare, da deputato membro della commissione Istruzione, al concorso" da preside. Concorso in cui l'attuale sottosegretario è risultata idonea, malgrado l'esistenza di un palese conflitto d'interessi che ha spinto l'allora collega di Azzolina, Gelsomina Vono (ora passata a Italia Viva), a presentare un ricorso.
La scarsa preparazione di Azzolina. Nessun problema, invece, per Azzolina, che a chi le chiedeva conto della vicenda aveva detto di stare studiando per il concorso dal 2017. Niente di male, dunque. Almeno per lei, che risulta iscritta in graduatoria in attesa di reclutamento. Nel frattempo continua a lavorare al Miur. Finora con la carica di sottosegretario, a breve come ministro della Scuola. Chi lo ha fatto fino a Natale, Lorenzo Fioramonti, si è fatto conoscere per alcune proposte quantomeno discutibili come la sugar tax. Per non parlare dello scandalo degli insulti social ad alcuni esponenti del centrodestra, che gli erano quasi costati la poltrona. Ma Fioramonti, che secondo qualcuno potrebbe uscire dai 5s per formare un gruppo autonomo alla Camera, almeno era preparato. Eccome se lo era. Professore di economia politica all'Università di Pretoria, in Sudafrica, parla alla perfezione quattro lingue. Mentre Azzolina mastica a malapena l'inglese. Per non parlare della sua (im)preparazione informatica.
"Azzolina si è strameritata uno zero in informatica". A dirlo, in una lettera pubblicata sabato su Repubblica, è Massimo Arcangeli, presidente della Commissione per l’accesso al ruolo di dirigente scolastico che ha giudicato l’attuale sottosegretaria. "Non ci siamo prodotti né in genuflessioni né in accanimenti, e alla fine Lucia Azzolina, malgrado io stesso le abbia fatto una domanda sull’interculturalismo caduta nel vuoto, se l’è cavata: almeno la normativa – dirò del resto più avanti – la conosceva", ha spiegato Arcangeli, che ha voluto rispondere al dubbio (insinuato dalla possibile erede di Fioramonti) "che una combriccola di giudici prevenuti poteva avercela con lei". In effetti, nonostante l'idoneità ottenuta, la prova orale di Azzolina al concorso da preside non era andata poi così bene. Lo svela lo stesso Arcangeli. "Non ha risposto a nessuna delle domande d’informatica, al punto da strameritarsi uno zero (il massimo era 6). Ho un nitido ricordo di quella prova - racconta ancora Arcangeli - come pure di quella volta ad accertare la conoscenza della lingua inglese. Il voto ottenuto dalla candidata Azzolina fu allora il più basso fra quelli maturati dal quintetto della mattinata: 5 su 12".
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 3 febbraio 2020. «Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi una parola che, scusate se sono poche, ma settecentomila lire punto e virgola noi ci fanno specie che questanno c' è stato una grande moria delle vacche, come voi ben sapete! Punto! Due punti! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Siamo d' accordo, stiamo parlando di un modello inarrivabile, ossia la lettera scritta da Totò e Peppino. Ma c' è chi gli ci si avvicina molto, una signorina di nome Lucia Azzolina, membro dei 5 Stelle, che di mestiere fa il ministro dell' Istruzione. Sì, è la stessa che ha copiato ampi passaggi della sua tesi di abilitazione all' insegnamento, nonché alcuni brani delle sue due tesi di laurea. Tuttavia, leggendo come scrive quando non copia, non sai se sia peggio il plagio o lo scempio; cioè, se sia più riprovevole riprendere scritti altrui senza citarli o viceversa usare farina del proprio sacco, abbondando in orrori grammaticali, mostruosità sintattiche, apostrofi, accenti e virgole distribuiti ad capocchiam e parole fuori luogo o senza senso. Grazie al lavoro di ricerca del linguista Massimo Arcangeli, che aveva già scoperchiato l' affaire-copiatura del ministro, siamo entrati in possesso della documentazione con tutti gli strafalcioni presenti nelle due tesi della Azzolina, allora studentessa all' Università di Catania: quella per la laurea di primo livello in Filosofia dal titolo Rousseau politico: dai due Discorsi al Contratto sociale dell' anno 2003-04, e quella per la laurea magistrale in Storia della filosofia del 2007-08 intitolata Rousseau e Voltaire: il terremoto di Lisbona. C' è materiale a sufficienza per comporre un Ipse dixit con tutte le sue perle più preziose, che funga da manuale per gli studenti, fornendo loro un modello di come non scrivere in italiano.
«LA SVIRGOLATA». La prassi più ricorrente del ministro, allora studentessa, si potrebbe definire "la svirgolata", ossia l' utilizzo sballato delle virgole, messe in luoghi impropri, spesso sparse a pioggia, forse in nome del motto di Totò «fai vedere che abbondiamo».
Ecco alcuni esempi che testimoniano la sua abitudine di far seguire «che», «ma» ed espressioni come «se pertanto» direttamente da una virgola: «È importante ricordare che, gli uomini selvaggi di cui parla Rousseau, non sono quelli che gli europei trovarono in America», «Se pertanto, aveva queste garanzie non necessitava dell' aiuto di nessuno», «Ma, le speranze di Voltaire verranno decisamente smentite». Si badi bene, non si tratta di refusi perché sono errori sistematici che si ripresentano puntualmente. Un' altra pratica frequente nella scrittura di Azzolina è la mancata concordanza di persona tra sostantivo e verbo: se il primo è singolare, il secondo, chissà perché, diventa plurale. Date un' occhiata qui: «La violenza delle sue opinioni religiose e politiche preoccuparono sempre più i suoi protettori ed amici», «Lo scambio di opinioni tra Rousseau e Voltaire rappresentano l' esempio», «La saggezza delle leggi e dell' autrice della legge sono rilevabili dalla permanenza delle leggi». Regola imprescindibile suggerita dal Nuovo Dizionario Aggiornato Azzolina è anche lo scrivere il «sì» avverbio e il «dà» verbo senza accento. Vedere per credere: «Vivere in tal modo, cioè con continue paure, non da neanche la possibilità di sviluppare seriamente un lavoro», «Egli grida il nome di Dio per far si che la scossa sia più forte». Viceversa, espressioni come «qual è» e «qual era» vogliono tassativamente l' apostrofo: «Di conseguenza qual' è la motivazione per la quale gli uomini si associano?», si chiede l' allora laureanda. E ancora: «Da egocentrico qual'era, Rousseau pensava che». Azzolina, un apostrofo rosa tra le parole «qual'è». Sempre nella logica di abbondare, l' attuale ministro, da studentessa, metteva sempre un «ne» di troppo: «Il progetto roussoiano doveva essere quello di scrivere () un' opera, della quale il Manoscritto di Ginevra ne costituiva solo un capitolo»; o «Bisognava ricostruire la storia dell' uomo per capirne i suoi cambiamenti». La parte più divertente riguarda le parole inventate di sana pianta, neologismi azzoliniani quali «sottoforma» e «riassuntato», o espressioni dall' effetto comico come «Aveva perso gli amici, pensava che fra questi si ardisse una congiura contro di lui». Ma dove forse la Azzolina dà il meglio di sé è nell' uso dei modi verbali, in cui affiora la malattia comune a molti suoi colleghi di partito, la "congiuntivite". In alcuni casi il congiuntivo scompare a favore dell' indicativo: «Voltaire riteneva che Rousseau non seppe sfruttare il talento del suo intelletto» (con tanti saluti a «sapesse»); in altri, a vantaggio del condizionale: «Rousseau sostenne che certe morti premature potessero essere benefiche laddove avrebbero colpito senza che gli uomini se ne fossero accorti». Altrettanto agghiacciante è il ricorso a verbi intransitivi, quali «esulare», che nell' italiano creativo di Azzolina diventano miracolosamente transitivi: «L' uomo si arroga il diritto di conoscere una delle risposte che esulano di molto le sue limitate capacità». Due chicche ulteriori rendono bene l' idea della padronanza lessicale e sintattica della titolare dell' Istruzione. La prima fa riferimento «ad una sovrappopolazione che manca di risorse per nutrirsi»; la seconda è una summa dell' orrore: «Rousseau difende una morte naturale e repentina dovuta ad una natura buona che in questo modo preserva l' uomo da inopportune sofferenze e, accusa di mali più crudeli gli uomini che, nel momento in cui, si approfittano del più debole compiono orrori infinitamente peggiori rispetto a quelli di cui la natura verrebbe accusata da Voltaire». Viene voglia di gridare basta.
TESTI IMBARAZZANTI. Infatti la finiamo qui, non prima però di aver sentito il parere del prof. Arcangeli. «Sono testi imbarazzanti», ci dice. «Raramente mi capita di vedere fenomeni a questi livelli nelle tesi dei miei studenti. Quello che mi ha sconcertato di più è l' uso terrificante dei segni di interpunzione, privi di qualsiasi ratio alla base. Certo, in questo caso bisogna anche considerare le responsabilità dei prof che, almeno per la magistrale, avrebbero dovuto controllare i testi e invece, con leggerezza, hanno consentito ad Azzolina di laurearsi con lavori scritti in quel modo». Ma il discorso si potrebbe estendere anche ad altri ex ministri dell' Istruzione, si pensi solo agli svarioni di Valeria Fedeli. «Ricorrendo a una boutade», continua Arcangeli, «lancerei l' idea di sottoporre i candidati alla poltrona di quel ministero a un test preventivo di lingua italiana. Personalmente però trovo ancora più grave che la Azzolina abbia ripreso interi passaggi della sua tesi di abilitazione all' insegnamento da testi specialistici senza citarli in bibliografia. Mi chiedo: se dovesse parlare agli studenti di una scuola superiore, con che faccia potrebbe spiegare loro come attingere correttamente alle fonti?». Nondimeno l' altro giorno il ministro ha detto fieramente di sé: «Nella mia vita ho sempre studiato e ha funzionato bene». A leggere le sue tesi, non si direbbe. Che, ne pensasse, di questo, Lucia, Azzolina?
Chi è Lucia Azzolina. 37 anni, Lucia Azzolina è stata eletta per la prima volta in Parlamento nel 2018. Originaria di Florinda (Siracusa) ma trapiantata in Piemonte, si è laureata in filosofia all'Università di Catania (triennale e specialistica). Dopo avere frequentato la Scuola di specializzazione all'insegnamento secondario (SSIS), per l’abilitazione all'insegnamento della storia e della filosofia, ha iniziato a insegnare nei licei di La Spezia e Sarzana. Quindi si è iscritta alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Pavia, dove si è laureata nel 2013, continuando a insegnare nelle scuole superiori. Attiva per molti anni nel sindacato Anief, è tornata a insegnare nel 2017. Un anno dopo si è candidata alle Politiche nelle fila del Movimento 5 Stelle, risultando eletta nel listino proporzionale. Nel 2019 è stata nominata sottosegretario all'Istruzione del Conte II, fino alla promozione a ministro della Scuola appena annunciata da Conte.
Massimo Arcangeli, Linguista e critico letterario, per “la Repubblica” il 12 gennaio 2020. Se ci si collega a Internet, e si digitano su Google le opportune parole chiave, spuntano i titoli di tre tesi, fra lauree e specializzazioni, firmate da Lucia Azzolina. Uno dei tre documenti, intitolato Un caso di ritardo mentale lieve associato a disturbi depressivi , è la tesi conseguita dalla neoministra all' Università di Pisa nel 2009 (così sul frontespizio; nel 2010 secondo il curriculum ufficiale), presso la Scuola di specializzazione per l'insegnamento secondario della Toscana, e di complessive 41 pagine (relatore: Gianluca D' Arcangelo). Ora, confrontando diversi passi dell' estratto del lavoro disponibile online, corrispondente alle prime tre pagine, con i rispettivi originali, si scopre che più o meno la metà di quel che c'è scritto in quell' estratto è il risultato di un plagio. E la ministra dell' Istruzione non solo non virgoletta quel che non è farina del suo sacco, e già il fatto sarebbe di per sé molto grave, ma nei luoghi corrispondenti ai passi interessati, per giunta, non cita nessuna delle fonti cui ha attinto a man bassa. Direttamente o, forse, indirettamente (dal momento che nessuno dei testi menzionati qui di seguito compare nella bibliografia finale della tesi). Il primo brano, filtrato da qualche fonte intermedia facilmente reperibile in rete (come la risposta di uno psicoterapeuta a una lettrice del Messaggero Veneto del 4 aprile 2005), riprende praticamente alla lettera un passaggio della voce "ritardo mentale" contenuta nel Dizionario di psicologia di Umberto Galimberti, la cui prima edizione è del 1992 (Torino, Utet; nella seconda, uscita per Utet Libreria nel 2006, furono ampliate tre voci e ne furono aggiunte altrettante). Il secondo brano riproduce, con minime variazioni, un passaggio della voce "ritardo mentale" curata da Luigi Ravizza, Gabriele Masi, Mara Marcheschi e Pietro Pfanner per un monumentale Trattato italiano di psichiatria in tre volumi, un progetto editoriale coordinato da Paolo Pancheri e Giovanni B. Cassano (coadiuvati da altri sette psichiatri). Dell' opera, pubblicata nel 1992 (Milano, Masson) e realizzata con il contributo di ben 175 diversi studiosi, uscì nel 1999 una seconda edizione (Milano-Parigi-Barcellona, Masson) curata dallo stesso gruppo di psichiatri tranne uno (Antonio D' Errico, morto nel 1995). Il terzo brano, a parte un paio di virgole, ricalca esattamente un altro passaggio della voce "ritardo mentale" del Dizionario psicologico di Galimberti, mentre per il quarto c' è l' imbarazzo della scelta. Agli addetti ai lavori il passo è talmente familiare (è stato ripetutamente ripreso da libri e articoli successivi alla prima fonte di attestazione) che riesce difficile spiegarsi come non se ne sia accorto già allora il relatore della tesi discussa da Lucia Azzolina. Anche qui la fonte di riferimento, la traduzione italiana (Milano, Masson, 1983) di un noto manuale dell' American Psychiatric Association più volte ristampata o riedita (seconda e terza edizione, pubblicate entrambe ancora da Masson: 1988 e 1995), è saccheggiata senza essere nemmeno menzionata; si tratta del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali curato, per il versante italiano, da Vittorino Andreoli, Giovanni B. Cassano e Romolo Rossi. Anche del quinto brano, e mi pare ci si possa fermare qui, è ben riconoscibile la fonte omessa dall' onorevole Azzolina: un volume collettivo uscito nel 2008 (Clemente Lanzetti, Linda Lombi e Michele Marzulli, a cura di, Metodi qualitativi e quantitativi per la ricerca sociale in sanità , Milano, FrancoAngeli). Il plagio della ministra rischia ora di creare un serio imbarazzo ai Cinque Stelle. Quando, tre anni fa, emerse una vicenda simile che coinvolse l' allora ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia, le polemiche furono molto violente, soprattutto sul fronte grillino, e Danilo Toninelli arrivò a chiederne le dimissioni. Come reagiranno i responsabili di un partito che è stato per anni il portabandiera della trasparenza, del merito e della legalità? Avranno un guizzo, un sussulto, un soprassalto oppure preferiranno lasciar correre?
Le tesi copiate di Azzolina e Madia: plagi a confronto, ecco i veri numeri. Sono 1.542 le parole rubate dalla neoministra nell'elaborato finale per l'abilitazione professionale: il 17,8%, una percentuale superiore rispetto a quella delle parole saccheggiate dalla ex ministra della Pubblica amministrazione (14,2%). Massimo Arcangeli su La Repubblica il 18 gennaio 2020. Sarebbero circa 300, secondo i calcoli di chi si è servito di due software antiplagio, le parole che l’onorevole Lucia Azzolina avrebbe fatto illegittimamente sue nell’elaborato di 41 pagine (Un caso mentale lieve associato a disturbi depressivi) prodotto per la Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario della Toscana (SSIS), frequentata a Pisa fra il 2008 e il 2009. In realtà sono molte di più. Ben 1.542. Le parole saccheggiate da Marianna Madia quando fu contestato anche a lei il fatto che avesse più volte attinto alle sue fonti, nella tesi di dottorato discussa a Lucca nel 2008 (Essays on the E?ects of Flexibility on Labour Market Outcome), senza averle debitamente citate, restituirono nel marzo del 2017 un ammontare di circa 4.000 esemplari. Poiché il testo del lavoro della neoministra Azzolina si compone di 8.648 parole, che salgono a 28.083 in quello dell’allora ministra Madia (non si è tenuto conto, nel duplice conteggio, del titolo, dell’indice e, per la tesi della seconda, di ammennicoli vari), il confronto è presto fatto: Madia ha copiato indebitamente in una percentuale del 14,242%, Azzolina in una percentuale del 17,831%. La neoministra pentastellata avrebbe dunque copiato addirittura di più. Come farà l’onorevole Azzolina, se qualcuno un giorno dovesse chiederglielo, a spiegare dalla sua posizione, agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, che non si deve copiare, che la selezione delle fonti dev’essere rigorosa, che bisogna sempre virgolettare i brani altrui? A non tener conto del fatto che anche l’italiano, nel lavoro di cui parliamo, quando è farina del sacco dell’onorevole, è a tal punto sciatto da risultare imbarazzante: “Si è, iniziato a lavorare e si continua a lavorare per riportare l’alunna ad una condizione psicologica di partenza che renda nuovamente possibile la sua partecipazione" (p. 17); “Quando immagino M. come adulta, mi pongo delle domande, la prima fra tutte che tipo di lavoro potrebbe fare?” (p. 33); “So che questo cammino possa essere vissuto dalla ragazza come una corsa ad ostacoli, ma sono certa che M. ce la possa fare se correttamente stimolata” (p. 36); “Ho conosciuto situazioni che prima non avrei mai immaginato. Non tanto la situazione di M., che tra le disabilità, è forse una delle migliori che ci si possa augurare, ma ho visto altri ragazzi con disabilità più gravi che realmente mi hanno fatta sentire molto fortunata” (p. 37); "A volte i colleghi delle discipline curricolari non sanno neanche quale sia la funzione del collega di sostegno, non comprendono che il docente di sostegno è docente sulla classe, e non possono permettersi di 'cacciare' l’insegnante più l’alunno dalla classe, perché giudicati fastidiosi” (p. 38). La neoministra, d’altronde, prometteva bene già ai tempi dell’università. Ecco un paio di stralci ricavati dalla sua tesi di primo livello (Rousseau politico: dai due Discorsi al Contratto sociale, a. a. 2003-2004), consultabile per intero come la relazione finale SSIS, in entrambi i casi a pagamento, sul sito tesionline.it: “Dopo che lo stato di natura non esiste più o forse non è mai esistito, Rousseau non si perde in nostalgie nel tentativo di ricostruire un passato per proporlo come presente, anzi quel passato è utile solo per costruire un nuovo presente, una nuova società” (p. 147); “Questi sono i motivi, per i quali, l’uomo deve benedire l’attimo che lo ha trasformato da animale selvaggio qual’era nello stato di natura, in uomo intelligente” (p. 149). Infine la ciliegina sulla torta, un brano tratto dalla laurea specialistica (Rousseau e Voltaire: il terremoto di Lisbona, a. a. 2007-2008) di Azzolina, anch’essa leggibile a pagamento sul sito indicato: “Inoltre, non solo gli uomini sono sottoposti alle sofferenze, alle quali, la natura li espone, ma sono fonte per la maggior parte dei loro stessi mali. Sono loro che si fanno la guerra, non certo la natura li costringe a lottare e a morire nei campi di battaglia. Anche se la natura avesse avuto un ordinamento differente e non avrebbe arrecato alcun tipo di dispiacere o di difficoltà agli uomini, loro comunque non sarebbero stati capaci di essere felici proprio a causa del loro carattere infelice” (p. 227).
Massimo Arcangeli per “il Giornale” il 23 gennaio 2020. Un giorno, navigando in rete, sono incappato in tre elaborati di Lucia Azzolina pubblicati su tesionline.it, due tesi di laurea e una tesi prodotta per la Scuola di specializzazione per l' insegnamento secondario della Toscana (Ssis), frequentata dalla neoministra a Pisa fra il 2008 e il 2009. Mi sono subito reso conto, a una rapida lettura delle tre pagine introduttive del lavoro (disponibili gratuitamente), che qualcosa non quadrava. Un brano, ben noto agli addetti ai lavori, non era correttamente citato (niente virgolette, nessun rinvio in nota) e non era neanche elencato nella bibliografia finale. Ho così esaminato con cura quelle tre pagine, finendo per scoprire che la metà all' incirca di quel che vedevo scritto non era farina del sacco di Lucia Azzolina. Ne è scaturito il mio primo articolo per Repubblica, cui va tutto il merito di aver reso il caso di dominio pubblico e di averne accompagnato i successivi sviluppi (a quel primo pezzo ne sono seguiti infatti altri due, per il sito del giornale, nei quali ho potuto dar conto dei risultati dell' analisi condotta sull' intero testo).
Le parole rubate. Sono ben 1.542 le parole finora accertate che Lucia Azzolina ha fatto illegittimamente sue in quell' elaborato (Un caso mentale lieve associato a disturbi depressivi). Il lavoro, di 41 pagine, si compone di 8.648 parole (la neoministra ha dunque scopiazzato in una percentuale del 17,831%) e tutti i passi contenenti quelle «rubate» dall' onorevole non sono stati riportati fra virgolette e non sono accompagnati da note di rinvio alle fonti, del tutto assenti nella bibliografia finale (qualche sigla sparsa qua e là non fa testo). Stiamo parlando di 32 brani copiati di sana pianta da lavori altrui, ed è inutile provare a sostenere che si tratterebbe di definizioni circolanti nel settore, al punto da poter essere di uso comune.
Azzolina vs Madia. Il Decreto Ministeriale del 26 maggio 1998 («Criteri generali per la disciplina da parte delle università degli ordinamenti dei Corsi di laurea in scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all' insegnamento») recitava all' art. 2, comma 8: «L' esame per il conseguimento del diploma di laurea o di specializzazione comprende la discussione di una relazione scritta relativa ad attività svolte nel tirocinio e nel laboratorio. Della relativa commissione esaminatrice fanno parte sia docenti universitari sia insegnanti delle istituzioni scolastiche interessate che abbiano collaborato alle attività del corso di laurea o della scuola» (il decreto specificava anche che i regolamenti didattici dei singoli atenei potevano «disporre che la relazione di cui al comma 8» potesse essere «integrata da uno specifico lavoro di tesi»). Il lavoro che ha consentito alla neoministra Azzolina di abilitarsi è dunque un documento ufficiale, indispensabile per il conseguimento del titolo. Sul frontespizio c' è scritto «Tesi» ed è riportato anche il nome dello psichiatra (Gianluca D' Arcangelo) che ha seguito l' onorevole prima della discussione collegiale finale. Si tratta perciò di una tesi a tutti gli effetti. A confermarmelo è stato Stefano Malvagia, al tempo il funzionario coordinatore, con un contratto a tempo determinato (ora indeterminato), della segreteria della Ssis Toscana, fra le eccellenze del settore. La Ssis Toscana, con sede operativa a Pisa, agiva secondo quanto previsto dall' art. 2, comma 6.e del Decreto Ministeriale del 26 maggio 1998. «Si richiedeva la stesura di un lavoro che integrasse la sezione laboratoriale o di tirocinio», mi ha riferito telefonicamente il funzionario, «con un' introduzione teorica». Sull' argomento, definendolo una semplice relazione di tirocinio, Lucia Azzolina ha dunque mentito. Negli anni, ha anche aggiunto Stefano Malvagia, «quando ci è riuscito di farlo con gli strumenti di cui disponevamo, abbiamo respinto diversi studenti proprio per i plagi riscontrati, anche arrivando a negare l' abilitazione, e in qualche occasione abbiamo perfino registrato (per la sede di Firenze) casi di passaggi di intere tesi da abilitati nei cicli precedenti ad abilitandi nel ciclo in svolgimento».
Gli altri brani copiati. Devo a un post su Faceboook di Lorenzo Galliani se sono riuscito a scoprire, in aggiunta a quello da lui segnalato, altri luoghi significativi nei quali la neoministra ha riprodotto brani altrui senza indicare le fonti (dirette o indirette) dei suoi prelievi, anche in questo caso assenti nelle rispettive bibliografie. Galliani, nel suo post, ha riconosciuto in un intervento pubblicato sul blog di un professore di Gorizia, Antonio Vecchia (morto nel maggio del 2016), la fonte di un passo della tesi magistrale discussa dalla neoministra nell' anno 2007-2008 all' Università di Catania (il titolo: Rousseau e Voltaire: il terremoto di Lisbona). Gran parte del pezzo uscito su quel blog, aggiornato l' ultima volta il 12 ottobre 2003 era già presente in un articolo in rivista del 2006 (Walter Joffrain, Quando la terra trema, «KOS», giugno 2006). Al luogo scovato da Lorenzo ne ho aggiunti altri otto, cinque dei quali individuati nella laurea di primo livello dell' on. Azzolina, Rousseau politico: dai due Discorsi al Contratto sociale (anno accademico 2003-2004), discussa sempre all' Università di Catania. Ce ne sarebbe anche un decimo, segnalato da un articolo del Fatto Quotidiano del 21 gennaio scorso (questa la fonte, stavolta citata in bibliografia: Roberto Gatti, L' enigma del male. Un' interpretazione di Rousseau, Roma, Studium, 1996), ma non ho potuto controllare. Tutte le fonti, forse a eccezione di una (online e non datata, e per la quale ho chiesto agli interessati ma sono in attesa di una risposta), sono anteriori alle due tesi redatte dall' onorevole Azzolina. La relazione presentata per la Ssis e le due tesi catanesi si possono peraltro acquistare sul sito tesionline.it per 30,50 euro. L' autrice incassa per ogni copia venduta, a partire dalla seconda, 12,25 euro lordi. Sono consapevole delle conseguenze che questo mio ulteriore pezzo sulla vicenda che vede coinvolta la ministra Azzolina potrebbe avere per me, per la mia figura, per la mia vita privata e professionale. Mando però ogni giorno a memoria la parola coraggio, e se il coraggio non lo facciamo uscire quando conta, in un' ottica di servizio pubblico e di ricerca della verità, allora tutto diventa inutile. Diviene privo di senso battersi per un' idea o un ideale, quando davvero serve, se non ci si sacrifica, se non si pospongono le pur legittime esigenze, opportunità o aspirazioni personali ai superiori interessi collettivi.
Azzolini e la tesi copiata: la doppia morale di chi chiede dimissioni solo ai ministri «degli altri». Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Tommaso Labate. Immemori, Renzi e altri, della lezione di Pietro Nenni, che a fare a gara a fare i puri trovi sempre uno più puro di te che ti epura. «C’è una cosa che mi sembra molto ingiusta: la doppia morale», scrive nella sua newsletter Matteo Renzi prendendo di petto l’accusa, rivolta alla neo ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, di aver copiato da testi specialistici ampi stralci della sua tesina finale della Scuola di specializzazione, quella che consente l’insegnamento alle scuole secondarie. Il fendente è rivolto al M5S, reo di aver chiesto le dimissioni di Marianna Madia, quando l’allora ministra del Pd era stata accusata di un peccato analogo, ma silente oggi, quando a essere intaccata è la reputazione della ministra propria.
I Cinquestelle e l’attacco alla Madia. In fondo non sono passati neanche tre anni da quando, era il marzo del 2017, i Cinquestelle schierarono i loro massimi calibri nell’attacco alla Madia, messa sotto accusa per una tesina di dottorato sospettata di plagio ma assolta dalla commissione giudicante di chi quel dottorato gliel’aveva assegnato, e cioè l’Imt di Lucca. Danilo Toninelli, ignaro del fatto che un anno dopo sarebbe stato ministro di un governo non propriamente amico della Germania, s’era abbandonato a un tweet fortemente tedescofilo: «Dei tedeschi ammiro la serietà istituzionale. Un ministro si è dimesso per una tesi copiata. Se non chiarisce, Madia dovrebbe fare lo stesso».
Il virus della doppia morale infetta a tutte le latitudini. Effetti collaterali del virus della doppia morale, antico forse quanto il mondo, che spesso infetta la politica a tutte le latitudini. Renzi, in fondo, è lo stesso Renzi che — all’epoca in cui a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta — spingeva sull’acceleratore delle dimissioni di ministri altrui come un pilota alla guida di un bolide lanciato su un rettilineo senza fine. Josefa Idem accusata di non aver pagato l’Imu di una palestra camuffata per abitazione? Annamaria Cancellieri sospettata di aver favorito gli arresti domiciliari di Giulia Ligresti? E via con le richieste, più o meno esplicite, di dimissioni. Come capitò con Nunzia De Girolamo, coinvolta in una storia di corruzione all’Asl di Benevento, che tentava di resistere in sella al ministero dell’Agricoltura. «Almeno la Idem si è dimessa…», scandì Renzi. Fuori un’altra.
Indagato Pizzarotti? Cartellino rosso. La Raggi? Si cambia il regolamento. De Girolamo, qualche anno dopo, si sarebbe vendicata chiedendo a gran voce le dimissioni di Luca Lotti, indagato per la vicenda Consip, dal ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Renzi. Un Renzi, in quel caso, silente, ovviamente. Perché le regole della casa del grand hotel «Doppia morale» dicono essenzialmente l’esatto contrario dell’antico detto «fai del bene e scordatene». Lo sanno benissimo anche all’interno del Movimento Cinquestelle, che ha annacquato fino a farlo scomparire del tutto il loro vecchio primo comandamento, quello che impediva la prosecuzione della carriera politica a tutti coloro che si trovavano indagati a vario titolo. Indagato Pizzarotti? Cartellino rosso. Indagata la Raggi? Si cambia il regolamento. Un caso, due morali, insomma. Certo, poi i nodi vengono al pettine. Luigi Di Maio, nel febbraio del 2016, colse al balzo la palla di un’indagine per abuso d’ufficio a carico di Angelino Alfano. «Le nostre forze dell’ordine non possono avere il loro massimo vertice indagato. Si dimetta in cinque minuti». Tre anni dopo, con Matteo Salvini alle prese con lo spinoso caso della Diciotti, il M5S l’avrebbe salvato dal processo. Immemori, come Renzi e tanti altri, della vecchia lezione di Pietro Nenni, che a fare a gara a fare i puri trovi sempre uno più puro di te che ti epura. O di quanto detto, persino più autorevolmente del vecchio leader socialista, che mai fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te.
Renzi spara contro i grillini: "Doppiopesisti sulla Azzolina". Il leader Iv apre una nuova crepa nel governo sulla tesi copiata dal ministro: «Ora tacciono, ma con la Madia...». Pasquale Napolitano, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Chi di tesi (copiata) ferisce, di tesi (copiata) perisce. Matteo Renzi si vendica (degli attacchi grillini contro l'ex ministro del suo governo Marianna Madia per la tesi copiata) contro il M5S sul caso del ministro della Scuola Lucia Azzolina: la titolare della Pubblica istruzione è accusata di aver riportato senza citare le fonti alcuni virgolettati nella relazione finale della scuola di specializzazione.
L'ex premier affonda il colpo: «Solita doppia morale dei Cinque stelle». Ma Renzi dimentica un punto fondamentale: lui non è il leader di un partito che sta all'opposizione ma guida una forza politica (Italia Viva) che sostiene il governo di cui fa parte anche il ministro Azzolina. E dunque, l'attacco, durissimo, del senatore di Scandicci provoca l'ennesimo scossone nella maggioranza giallorossa. Scosse che ormai sono all'ordine del giorno per governo Conte bis. La sete di vendetta è più forte della tenuta dell'esecutivo. Il leader di Italia Viva non trattiene la voglia di colpire gli alleati grillini su un tema caro: l'onestà. E dalla consueta e-news di inizio settimana infila il coltello nella piaga: «Il ministro della scuola, Lucia Azzolina, è stato accusato di plagio per aver citato senza virgolette alcuni testi nel suo lavoro finale alle Scuole di Specializzazione. Non so se questa accusa sia vera o falsa. E aggiungo che mi interessa molto di più capire che idee abbia il Paese sul futuro della scuola, non sul passato del ministro. C'è una cosa però che mi sembra molto ingiusta: la doppia morale». Renzi si toglie il sassolino dalla scarpa anche contro il quotidiano diretto da Marco Travaglio, che cavalcò il caso Madia: «Molti deputati grillini e il quotidiano Il Fatto Quotidiano attaccarono pesantemente infatti Marianna Madia per una presunta accusa di plagio che una commissione ufficiale chiamata a verificare escluse ufficialmente. Per molto meno, insomma, alla Madia fu fatto un processo sui social, sui media, nei talk show. Oggi di Lucia Azzolina i grillini e il Fatto Quotidiano non parlano. Zitti, silenzio, imbarazzo. E nessuno che nei talk o nei commenti sottolinei come sia vergognoso questo atteggiamento». È uno sfogo liberatorio che arriva fino a tirare in ballo le vecchie ruggini su Banca Etruria: «Niente di sorprendente, sia chiaro: si chiama doppia morale. L'abbiamo già vista sulle banche, sui processi, sui finanziamenti al Blog di Beppe Grillo. Ipocrisia, allo stato puro: tutti lo sanno, nessuno ha il coraggio di ammetterlo. E il fatto di essere ormai abituato all'ipocrisia senza fine di questa doppia morale non mi impedisce di mandare un grande abbraccio a Marianna per ciò che ha dovuto sopportare. Siamo in partiti diversi, lo so, ma il rispetto della verità è più importante dell'appartenenza politica». I Cinque stelle incassano il colpo. La Lega cavalca la polemica e chiede al ministro di riferire in Aula. Mentre dal Pd arriva una timida difesa di Azzolina: «Il mio consiglio al ministro è di chiarire, di andare fino in fondo e dire come stanno le cose: è la cosa migliore da fare», dice l'ex ministro dell'Istruzione ed esponente Pd Valeria Fedeli, ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, e già finita a sua volta nel tritacarne politico-mediatico per i suoi titoli di studio. La Azzolina si dovrebbe dimettere? «Conterà, come sempre, il modo in cui lei farà il ministro» ribatte la Fedeli. Niente passo indietro. Ma l'affondo renziano fa salire la tensione nella maggioranza giallorossa.
Azzolina, il Ministro dell'Istruzione "copiona". L'accusa: metà della sua tesi per l'abilitazione all'insegnamento è frutto del lavoro di altri. Bell'esempio per gli studenti. Maurizio Belpietro il 13 gennaio 2020 su Panorama. Con un presidente del Consiglio che ammette di aver «infiocchettato» il curriculum pur di accreditare una solida esperienza nelle migliori università estere, c'è da stupirsi se il ministro dell'Istruzione ha copiato qualche brano della sua tesi? Forse no, ma certo genera un po' di sconcerto scoprire che Lucia Azzolina, neo responsabile della scuola al posto di Lorenzo Fioramonti, ha preso da alcuni manuali quasi la metà di ciò che ha presentato come farina del suo sacco, riproducendo alla lettera e senza citazione, testi di altri pur di ottenere l'abilitazione a insegnare alle scuole medie superiori. A scoprire il plagio è stato Massimo Arcangeli, linguista e critico letterario oltre che docente presso l'università di Cagliari, che su Repubblica ha segnalato i brani copiati dal neo ministro. Laureata in filosofia e giurisprudenza, la Azzolina ha frequentato la scuola di specializzazione all'insegnamento secondario ed è proprio in quei testi che Arcanceli è andato a pescare, scovando interi passaggi che non sono di pugno della professoressa scelta dal Movimento 5 stelle per guidare il ministero dell'Istruzione. Il primo brano, che è facilmente reperibile in Rete in quanto pubblicato da uno psicoterapeuta in risposta a una lettrice del Messaggero Veneto, pare riprendere pari pari un passaggio del Dizionario di psicologia di Umberto Galimberti, alla voce «ritardo mentale». Il volume è del 1992, pubblicato dalla Utet di Torino, ma è stato aggiornato nel 2006. Ma oltre alla scopiazzatura del libro di Galimberti ce ne sarebbe una seconda. Questa volta si tratterebbe di un brano, sempre sul ritardo mentale, preso dal Trattato italiano di psicologia, opera curata da Luigi Ragusa, Gabriele Masi, Mara Marcheschi, Pietro Pfanner con la collaborazione di Paolo Pancheri e Giovanni B. Cassano più altri psichiatri. Insomma, un libro monumentale, anch'esso edito quasi 30 anni fa. Nonostante il testo fosse a firma di illustri studiosi, la Azzolina si sarebbe guardata bene dal citarli, attingendo a piene mani al loro lavoro.
Azzolina e la tesi copiata Salvini attacca, la ministra replica: sciocchezze. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 da Corriere.it. «Non fatevi prendere in giro: non é né una tesi di laurea, né un plagio, né nulla. Ho sentito tantissime sciocchezze in queste ore». Così la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, parlando ai giornalisti a Cravocia. Riferendosi alle critiche dal Carroccio, Azzolina dice: «Non mi stupisce che Salvini non sappia distinguere una tesi di laurea da una relazione di fine tirocinio Ssis (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario ndr). Non ha mai studiato in vita sua, sarebbe strano se le distinguesse». «L’unica cosa che mi dispiace è dovere parlare qui da Auschwitz - ha aggiunto Azzolina, a margine della sua visita -. D’altra parte l’anno scorso il ministro Bussetti non si era presentato, e a maggior ragione era importante che fossi qui oggi». La ministra è stata accusata in un articolo della Repubblica di aver copiato parti della sua tesi per la laurea di specializzazione conseguita nel 2009 all’università di Pisa. Dalla Lega si è alzato un coro unanime per chiederne le dimissioni. La diretta interessata, ad Auschwitz per accompagnare gli studenti durante il Viaggio della Memoria, in un primo momento ha evitato di replicare, mentre Matteo Salvini l’ha accusata di non aver «diritto di dare (e fare) lezioni». «Fare peggio del ministro Fioramonti sembrava impossibile. E invece Azzolina ci stupisce: si vergogni e vada a casa», ha tuonato il leader del Carroccio. Tutto è nato dall’articolo in cui si sostiene che Azzolina abbia attinto informazioni per la sua tesi da numerosi manuali, senza citarli, neanche nella bibliografia. Nelle pagine del quotidiano si dà conto di almeno quattro estratti, paragonandoli con gli originali e sottolineandone la coincidenza. La tesi contestata, 41 pagine intitolate «Un caso di ritardo lieve associato a disturbi depressivi», è stata realizzata in conclusione degli studi presso la Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario della Toscana. L’alzata di scudi contro il neoministro parte dal senatore leghista, Alberto Bagnai. «Ora facciamo come la Germania, dove Guttenberg, nel 2011, si dimise - scrive su Twitter -. Avete vilipeso il vostro Paese dipingendolo come un focolaio di corruzione? Ora seguite i vostri modelli». A fargli eco è la deputata, sempre della Lega, Giorgia Latini, vicepresidente della Commissione Cultura alla Camera. «Chiederemo al ministro Azzolina di venire subito in Aula a riferire e di rassegnare immediate dimissioni, come già in passato hanno fatto i suoi omologhi in altri Paesi - evidenzia -, perché gli italiani e il mondo della scuola meritano rispetto e verità». Il caso Azzolina richiama alla mente quello di Marianna Madia. Nel 2017, quando era ministro per la Pubblica Amministrazione, fu accusata di aver copiato la tesi di dottorato. Per questo l’allora deputato M5s Danilo Toninelli ne chiese le dimissioni. Successivamente una commissione di saggi, incaricata dalla scuola IMT Alti Studi di Lucca, verificò e valido’ il grado di originalità della tesi chiudendo definitivamente il caso.
Tesi copiata, la ministra dell’Istruzione Azzolina: “Salvini non ha mai studiato”. Redazione de Il Riformista il 12 Gennaio 2020. Polemiche sulla neo ministra della Scuola Lucia Azzolina, nominata insieme a Gaetano Manfredi (ministro dell’Università e della Ricerca) per sostituire il dimissionario Lorenzo Fioramonti. Azzolina, secondo quanto riportato da Repubblica, avrebbe copiato buona parte della sua tesi al termine della Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario della Toscana, presentata all’università di Pisa dieci anni fa. Nelle 41 pagine dal titolo “Un caso di ritardo mentale lieve associato a disturbi depressivi”, la ministra del Movimento 5 Stelle avrebbe plagiato parte del testo, proveniente da altre fonti, senza aggiungere alcuna citazione nella bibliografia finale. Circostanza che spiazza ulteriormente i Cinque Stelle che in passato invocarono le dimissione dell’allora ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia per un episodio analogo. Ad incalzare il partito grillino sono gli ex alleati: “Fare peggio del ministro Fioramonti sembrava impossibile. E invece Azzolina ci stupisce: non solo si schiera contro i precari ma ora scopriamo che copia pure le tesi di laurea. Un ministro così non ha diritto di dare (e fare) lezioni. Roba da matti. Si vergogni e vada a casa” così il segretario della Lega Matteo Salvini.
LA REPLICA – “Non fatevi prendere in giro: non é né una tesi di laurea, né un plagio, né nulla. Ho sentito tantissime sciocchezze in queste ore”. Così la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, parlando ai giornalisti a Cravocia. Riferendosi alle critiche dal Carroccio, Azzolina dice: “Non mi stupisce che Salvini non sappia distinguere una tesi di laurea da una relazione di fine tirocinio Ssis (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario ndr). Non ha mai studiato in vita sua, sarebbe strano se le distinguesse”. “L’unica cosa che mi dispiace è dovere parlare qui da Auschwitz – ha aggiunto Azzolina, a margine della sua visita -. D’altra parte l’anno scorso il ministro Bussetti non si era presentato, e a maggior ragione era importante che fossi qui oggi”.
LEGHISTI SENZA FRENI – Incalza anche il senatore leghista Alberto Bagnai, professore associato di politica economica all’Università Gabriele d’Annunzio in Abruzzo: “Appena hanno capito che si chiamava Azzolina e non Azzolini è uscito fuori questo! Ora facciamo come la Germania, dove Guttenberg, nel 2011, si dimise. Avete vilipeso il vostro Paese dipingendolo come un focolaio di corruzione? Ora seguite i vostri modelli”. “In altri Paesi come Ungheria e Germania, gli omologhi di Lucia Azzolina, inciampati in identiche situazioni, non ci hanno pensato due volte e si sono dimessi. Ci aspettiamo lo stesso dalla Azzolina, per salvare almeno la faccia, se non il curriculum”. Lo afferma il deputato della Lega Rossano Sasso, componente della commissione Cultura della Camera. “Che la nomina del ministro Azzolina si sarebbe rivelata un disastro per la scuola italiana – prosegue – lo avevamo immaginato, ma il presunto plagio della tesi di specializzazione – dice sempre il parlamentare – aggiunge anche il dolo per aver mentito attribuendosi studi non propri. Un fatto gravissimo, che, se confermato, oltre a gettare lunghe ombre sulla competenza della ministra 5 Stelle, pesa sulla credibilità e l’affidabilità di un rappresentante di questo governo. Fatto ancora più disdicevole, se si pensa che la Azzolina con il decreto scuola ha tagliato fuori dal percorso abilitante decine di migliaia di precari di terza fascia, giustificandosi con fantomatici criteri di trasparenza e di merito, proprio lei che adesso su trasparenza e merito è chiamata a fare chiarezza”.
"Vergogna", "Non hai studiato". Ed è "rissa" Azzolina-Salvini. Il caso della tesi "copiata" dal ministro Azzolina scatena la bufera. La Lega: "Deve dimettersi". E la grillina adesso passa agli insulti. Angelo Scarano, Domenica 12/01/2020, su Il Giornale. Scontro acceso tra Matteo Salvini e il ministro della Scuola, Azzolina. La pentastellata infatti avrebbe "copiato", come riporta Repubblica, la sua tesi di laurea.
La Lega all'attacco: "Deve andare a casa". Una vera e propria grana per il neo-ministro che rischia di travolge l'intero Movimento Cinque Stelle alle prese con un periodo di scontri e di faide interne. Ma di fatto il caso-tesi è destinato a far discutere parecchio nei prossimi giorni. La Lega è andata immediatamente all'attacco del ministro Azzolina chidendone le dimissioni immediate. A rincarare la dose è stato proprio il leader del Carroccio, Matteo Salvini: "Fare peggio del ministro Fioramonti sembrava impossibile. E invece Azzolina ci stupisce: non solo si schiera contro i precari ma ora scopriamo che copia pure le tesi di laurea. Un ministro così non ha diritto di dare (e fare) lezioni. Roba da matti. Si vergogni e vada a casa". Parole molto dure che hanno aperto un vero e proprio braccio di ferro tra la stessa Azzolina e la Lega. Il ministro della Scuola ha cercato di difendersi negando di aver copiato la tesi di laurea: "Non fatevi prendere in giro: non è nè una tesi di laurea nè un plagio nè null’altro. Ho sentito tantissime sciocchezze in queste ore. D’altra parte non mi stupisce mica che Salvini non sappia distinguere tra una tesi di laurea e una tesi di fine relazione di tirocinio SSIS (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario, ndr)". Poi però i toni si sono alazati e la stessa Azzolina ha aggiustato la mira per "sparare" proprio su Salvini. Infatti la grillina ha replicato con parole dure davanti alla richiesta di dimissioni arrivata da via Bellerio. E così ha attaccato l'ex titolare del Viminale: "Non ha mai studiato in vita sua - ha aggiunto Azzolina - e sarebbe strano se le distinguesse. L’unica cosa che mi dispiace è doverne parlare qui", in occasione del Viaggio della Memoria a Cracovia e Auschwitz. "D’altra parte - ha concluso Azzolina - l’anno scorso il ministro leghista Bussetti non si è presentato e a maggior ragione era importante che io fossi qui oggi". Insomma tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega adesso è "guerra" aperta. Il tutto a pochi giorni dal voto per le Regionali in Emilia Romagna e Calabria che potrebbe rappresentare il capolinea dell'esperienza giallorossa al governo. Di certo la Azzolina dovrà chiarire meglio la sua posizione davanti alle accuse di plagio. Di certo il suo debutto da ministro della Scuola è già da dimenticare...
La coerenza del M5S sul ministro (Manfredi) indagato. Il neo titolare del dicastero dell'Università è indagato ma per i grillini nessun problema. Peccato che quando gli indagati erano della Lega chiedevano dimissioni immediate. Maurizio Belpietro il 30 dicembre 2019 su Panorama. Premessa: per noi chiunque è da considerare innocente fino a che non sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna. Ribadiamo: per noi. Ma per gran parte della classe politica una persona è da ritenere innocente fino a che non sia stata raggiunta da un avviso di garanzia, soprattutto se l'«avvisato» sta sulla sponda opposta, ossia non è del tuo partito, ma di quello avversario. Dunque, nel recente passato abbiamo assistito alle dimissioni «spintanee» di Amando Siri, sottosegretario leghista ai lavori pubblici messo sotto indagine dalla Procura di Roma per i contatti con un tizio a sua volta indagato per i rapporti con un altro signore accusato di rapporti con un boss mafioso. Non meglio è andata a Edoardo Rixi, viceministro nello stesso dicastero di Siri e come lui colpito dalla maledizione dell'indagato: il 30 maggio di quest'anno è stato costretto alle dimissioni a causa di una condanna in primo grado. Fosse stato per Matteo Salvini, probabilmente sia Siri che Rixi sarebbero rimasti al loro posto, in attesa di una sentenza definitiva, ma ai tempi del governo gialloblù valeva la morale a 5 stelle, che prevedeva appunto le dimissioni al primo tintinnio di manette. Essendo i due vice entrati nel mirino della magistratura, secondo i grillini era meglio che si facessero da parte. Si può discutere ovviamente su questo principio e ritenerlo una precauzione in quanto un politico deve essere al di sopra di ogni sospetto, oppure una resa di fronte alla magistratura inquirente, che non emette sentenze, ma fa indagini, e dunque nell'equilibrio dei processi è da considerarsi una parte e non la verità assoluta. Sta di fatto che il Movimento 5 stelle, per non sbagliare, ha sempre preteso che i suoi uomini fossero immacolati come gigli, in modo da potersi differenziare dagli altri. Posizione come dicevamo opinabile, tuttavia da rispettare. E poi però, mentre i duri e puri a 5 stelle si fanno vanto della coerenza sulla fedina penale pulita, ecco arrivare il Conte bis e soprattutto le dimissioni improvvise di Lorenzo Fioramonti. Il ministro sudafricano probabilmente ha preso cappello per i tagli dei fondi per l'istruzione, sta di fatto che dopo aver visto che cosa contiene la manovra si è dimesso, peraltro polemizzando con gli stessi vertici del Movimento. Fin qui si può dire che sono cose che capitano in qualsiasi maggioranza, perché ovunque c'è un ministro che si secca e toglie il disturbo per qualche motivo. Il problema però non è Lorenzo Fioramonti che se ne va, ma Gaetano Manfredi che arriva.
Chi è Gaetano Manfredi, ministro dell’Università e Ricerca del governo Conte bis. Lorenzo Sangermano il 28/12/2019 su Notizie.it. Nella conferenza stampa di fine anno, il 28 dicembre Conte ha annunciato la nomina di Gaetano Manfredi come nuovo ministro dell’Istruzione con delega a università e ricerca. Chi è Gaetano Manfredi?
A breve 56enne, Gaetano Manfredi è al secondo mandato come presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane. In gioventù frequentò il liceo classico, per poi iscriversi alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli Federico II. In seguito alla laurea conseguita con 110 e lode, ottenne il ruolo di dottore di ricerca in ingegneria delle strutture e una borsa di studio post-dottorato nel 1994. Dal 1995 al 1998 svolse l’attività di ricercatore in tecnica delle costruzioni, divenendo poi professore associato per i due anni successivi. Nel 2000 ottiene il riconoscimento di professore ordinario proprio all’Università di Napoli Federico II, del quale ora è rettore. Il suo mandato è in quasi al termine, scadendo il 31 ottobre 2020. Dopo la nomina, Gaetano Manfredi ha dichiarato: “Se mettiamo al centro la qualità delle persone non possiamo sbagliare. E’ la strada che intendo percorrere: su questo a volte mi si considera un po’ rigido, ma è un tema su cui non faccio negoziati”. Ritrovatosi in una situazione alquanto particolare ha confessato che “in condizioni sicuramente complicate cercherò di fare il massimo per il nostro sistema”. All’interno delle proposte pone al centro l’università come fattori di sviluppo e di ricerca. Inoltre in essi vede un forte valore unificante. Infatti la sua ambizione è che “i giovani abbiano le stesse opportunità in qualunque parte d’Italia”. Già finito sotto i riflettori della politica nel 2016 e fratello di un parlamentare Pd, al tempo negò una sua possibile carriera politica, dichiarando: “Io quando sono a Roma sono attento a non essere romano. Lì il rischio, il mio timore, è essere inglobato in una Roma politica e autoreferenziale. Noi abbiamo bisogno d’altro, di antidoti alla sete di potere“.
Gaetano Manfredi, il ministro imputato per materiali usati nel post-sisma in Abruzzo. È stato accusato di falso nelle vesti di collaudatore del progetto Case, ma Conte gli regala la poltrona del Ministero dell'Università. Luca Sablone, Domenica 29/12/2019, su Il Giornale. C'era una volta il Movimento 5 Stelle, una compagine politica fortemente contraria alla nomina di indagati e assolutamente favorevole alla meritrocrazia, tanto da proporne un Ministero che sarebbe stato guidato da Giuseppe Conte. Quello stesso Conte che ieri ha ufficialmente assegnato a Gaetano Manfredi la poltrona del Ministero dell'Università e della ricerca. Una scelta che ha scatenato diverse polemiche, sia per la moltiplicazione degli incarichi al posto di Lorenzo Fioramonti sia per la nomina di una persona imputata. Come riportato dalla testata online Il Capoluogo, il presidente del Crui è tra gli imputati - con l'accusa di falso - nella veste di collaudatore relativamente all'inchiesta della Procura de L'Aquila sul progetto Case e Map. I fatti risalgono al 2014 e fanno riferimento al crollo dei balconi di quella che doveva essere la nuova città post sisma. Il reato tuttavia sia avvia verso la prescrizione. Dopo l'ultimo rinvio, l'udienza preliminare è stata aggiornata al prossimo febbraio. Le persone coinvolte nel procedimento sono 29. Tra queste anche 6 funzionari comunali per omesso controllo nella manutenzione: si tratta di Mario Corridore, Mario Di Gregorio, Vittorio Fabrizi, Enrica De Paulis, Carlo Cafaggi, Marco Balassone. Francesco Tuccillo, Carlo Mastrolilli De Angelis, Davide Dragone, Wolk Chitis, Carmine Guarino (direttore cantieri) sono invece accusati di truffa. A Mauro Dolce, responsabile unico del procedimento, e Gian Michele Calvi, progettista e direttore dei lavori, sono invece contestati i reati di frode nelle pubbliche forniture (avrebbero realizzato i balconi con legno di scarsa qualità).
L'Università e il fratello. A occuparsi del rettore dell'università Federico II di Napoli era stato anche Panorama. E proprio su un'inchiesta antimafia della Procura partenopea sul prestigioso ateneo erano giunti dubbi sul notevole accumulo di incarichi dei docenti, ribattezzata la "cupola dei prof". Secondo l'accusa sarebbero state nomine ottenute anche con l'aiuto del clan dei Casalesi. E la risposta di Manfredi sulle responsabilità di vigilanza è stata: "Ogni anno alla Federico II effettuiamo controlli su un campione sorteggiato di docenti e verifichiamo la conformità alla legge delle attività esercitate". Aveva voluto però aggiungere che lui autorizzava "solo dal punto di vista amministrativo" e dunque non aveva alcun "potere discrezionale. Le procedure passano direttamente dagli uffici del personale".
È noto al mondo accademico anche perché è stato uno dei principali sostenitori dell'allargamento della Scuola Normale di Pisa al Sud, con l'ingresso per 3 anni nell'università Federico II di Napoli su alcune discipline. Come riporta l'edizione odierna de La Verità, il progetto prevedeva lezioni di astrochimica, blue economy e gestione dei beni culturali 2.0 a Napoli. L'amministrazione di centrodestra di Pisa, temendo una dispersione di risorse della prestigiosa scuola, lo bloccò. Ma fino a poche ore fa la sfera politica conosceva maggiormente Massimiliano Manfredi, suo fratello eletto nel 2013 alla Camera dei Deputati con il Partito democratico. Il Pd regionale per Gaetano aveva addirittura immaginato la carica di governatore della Campania, in ottica della successione a Vincenzo De Luca.
Ministro dell'Università e ricerca scientifica. Gaetano Manfredi è indagato, prima grana sul nuovo ministro. Franco Bechis su Il Tempo il 28 dicembre 2019. Sul neo ministro della Università Gaetano Manfredi pende una accusa di falso come collaudatore delle case che Silvio Berlusconi fece costruire a L'Aquila. Dopo il rovinoso crollo di un balcone la procura de L'Aquila guidata all'epoca da Fausto Cardella mise sotto inchiesta nel 2015 37 persone, fra cui proprio il futuro ministro che aveva fatto da ingegnere collaudatore la perizia sui materiali delle case scrivendo una relazione ritenuta falsa dagli inquirenti. Il processo però non è mai stato istruito per una serie incredibile di contrattempi: intervento della procura di Piacenza, rinvio in Cassazione, trasferimento definitivo a L'Aquila, giudice che si è a lungo ammalato, udienze continuamente saltate, errori di notifica, con il risultato che gli imputati sono rimasti in 29- Manfredi compreso- e l'udienza preliminare per stabilire l'eventuale rinvio a giudizio è stata fissata per il prossimo 5 febbraio 2020. E' praticamente scontato che con una udienza preliminare fissata a sei anni dall'inizio dell'inchiesta sui cosiddetti "balconi marci" del Progetto C.a.s.e. de L'Aquila sia destinato per tutti i reati- e certamente per quello di falso contestato al futuro ministro- al colpo di spugna della prescrizione. Anche la nuova legge di Alfonso Bonafede che entrerà in vigore dal primo gennaio cancellando la prescrizione, non potrà intervenire sui procedimenti già avviati per il principio del favor rei. Certo che proprio un ministro di Giuseppe Conte possa salvarsi con la prescrizione sarebbe grottesco, dopo avere varato quella legge. A meno che Manfredi stesso non faccia più o meno spontaneamente il gesto di rinunciarvi, tanto più che vecchi ritagli di stampa sono iniziati a circolare vorticosamente dal pomeriggio della nomina nelle chat dei militanti e dei portavoce del M5s, che pare gradiscano assai poco l'imbarazzante situazione...
Da liberoquotidiano.it il 29 dicembre 2019. Indagato e salvato dalla prescrizione. Ma per Gaetano Manfredi, neo-ministro dell'Istruzione accusato di falso nell'inchiesta dei balconi marci a L'Aquila (prima udienza preliminare fissata solo nel febbraio 2020, a 6 anni dall'inizio delle indagini) il problema politico e di opportunità resta, eccome. Paolo Becchi, che per primo su Twitter ha fatto notare il "dettaglio" nel silenzio sospetto dei parlamentari della maggioranza (cosa ne pensano, ad esempio, i manettari del M5s?) e dei maggiori organi di informazione, oggi ha due domandine da porre al Rettore della Federico II, nonché Presidente della CRUI. "È vero che prima della prescrizione il Rettore ha nominato come Revisore dei Conti il Procuratore della Corte dei Conti dell'Aquila?". E ancora: "È vero che il Rettore è stato denunciato da un collega della stessa Università per abuso di potere ed omissione di atti d'ufficio e che la magistratura ha archiviato la denuncia scrivendo che non sarebbe stato opportuno (!) sentire come testimoni professori citati come testi?".
Da liberoquotidiano.it il 29 dicembre 2019. Doppia poltrona, una fregatura per il Movimento 5 Stelle. I retroscena sulla nomina di Lucia Azzolina all'Istruzione e Gaetano Manfredi all'Università e Ricerca, infatti, svela il malumore dei grillini per la decisione del premier Giuseppe Conte. Sabato sera, a qualche ora dalla conferenza stampa d'annuncio a Palazzo Chigi, dal Movimento filtra un virgolettato: "Abbiamo perso la maggioranza in Consiglio dei ministri". La grillina Azzolina infatti sostituisce numericamente il collega (quasi ex) di partito Lorenzo Fioramonti, ma è il tecnico Manfredi (rettore dell'Università Federico II di Napoli e fratello di un ex deputato del Pd) a spostare gli equilibri: oggi, infatti, si contano 11 ministri per il centrosinistra (contando i dem e i renziani di Italia Viva) e solo 10 per il Movimento 5 Stelle, che pure è il primo partito in Parlamento ed è vitale, dunque, per la sopravvivenza della maggioranza giallorossa e di questo fragilissimo governo. Resta da capire se le conseguenze dello spacchettamento deciso dai Conte siano state sottovalutate (politicamente, fatto sconcertante) o se sia invece un disegno preciso del premier, un segnale mandato a Luigi Di Maio che nelle ultime settimane ha lanciato contro Palazzo Chigi messaggi sempre più ostili.
Da liberoquotidiano.it il 29 dicembre 2019. "Io indagato? Un atto formale". Gaetano Manfredi, neo-ministro dell'Università e Ricerca designato sabato mattina dal premier Giuseppe Conte, è subito un caso spinoso per il governo e per i manettari del M5s. Il rettore dell'Università Federico II di Napoli si difende con un'intervista al Corriere della Sera, ma Franco Bechis sul Tempo.it ricostruisce nel dettaglio il caso sollevato poche ore prima da Paolo Becchi su Twitter. Su Manfredi "pende una accusa di falso come collaudatore delle case che Silvio Berlusconi fece costruire a L'Aquila", inchiesta passata alla storia come quella sui "balconi marci" della ricostruzione post-terremoto. Il neo-ministro "aveva fatto da ingegnere collaudatore la perizia sui materiali delle case scrivendo una relazione ritenuta falsa dagli inquirenti". Tra contrattempi ed errori tecnici vari, però, il processo non è mai stato istruito e dunque per i 29 imputati rimasti (Manfredi compreso) alla luce della data prevista per la prima udienza preliminare (5 febbraio 2020) è praticamente certa la prescrizione. Altra beffa per gli intransigenti grillini che hanno dovuto ingoiare un ministro indagato e pure prescritto, alla faccia del "fine processo mai" sognato dal suo nuovo collega alla Giustizia Alfonso Bonafede.
Barbara Lezzi e M5s, la ricetta per salvare Taranto: dopo l'Ilva, cozze e alpinismo. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Morire per smettere di inquinare. In pratica, è questa la vera proposta per Taranto del M5S. Al Movimento ora toccherà iniziare a fare i conti con le conseguenze dalle scelte fatte sull' Ilva. Mittal ha ufficializzato l' addio e Giuseppe Conte non ha idea di come svegliarsi dall' incubo: più di 10.000 persone a casa in una città di 200.000 anime dove la disoccupazione è già ben oltre il 40%. Un terremoto, tanto che il premier si è messo a lanciare appelli ai suoi per dare suggerimenti (definiti "pensierini") che possano aiutarlo a superare la crisi. Purtroppo, però, i grillini in questi anni hanno già detto la loro su cosa fare dopo la morte dell' acciaieria. E si tratta di materiale preoccupante: una lunga serie di progetti deliranti, tra parchi a tema, centri di alpinismo, allevamenti di cozze, misteriosi eco-lavori e assunzioni di massa di operai da parte dello Stato.
TUTTI A CASA. Come noto, la grande protagonista della campagna anti-Ilva dei Cinquestelle è sempre stata Barbara Lezzi, capofila della squadretta di parlamentari che rifiuta di reintrodurre lo scudo penale necessario per poter gestire l' industria senza finire automaticamente in galera. In assenza di quelle tutele legali, è impossibile evitare la chiusura. Il problema, però, è che la politica pugliese vuole proprio questo: prima di diventare ministro per il Sud, aveva più volte sostenuto la necessità di eliminare quello che ha definito uno «stabilimento che dà solo morte» e una «fonte inquinante che deve essere fermata». Meglio mandare tutti a casa. E poi? Turismo e cozze. Allevamenti di mitili per reimpiegare gli operai. In un' intervista di giugno a RadioUno aveva ben illustrato il suo pensiero: «Stiamo facendo degli investimenti in una città che, con il siderurgico, era stata votata al sacrificio per il Pil nazionale. È giusto che Taranto vi contribuisca, ma può farlo anche con altri investimenti che guardino al futuro. È una bella città di mare di cui si parla solo per l' ex-Ilva, ma ha, per esempio, una lunga tradizione nell' attività di mitilicoltura, che non può essere dimenticata». Un' ideona successivamente rilanciata anche dal sottosegretario grillino. Mario Turco. Siamo alla frutta (di mare). Con la Lezzi si muoveva a braccetto anche Luigi Di Maio, che in un video di qualche annetto fa (2015) sosteneva che ci fosse un modo semplice per evitare il disastro, ovvero far assumere dallo Stato tutti i licenziati: «Prendiamo i lavoratori, facciamogli bonificare quell' area, formiamoli per eco-lavori» e successivamente puntiamo su «turismo e agroalimentare». Certo, chi non vorrebbe andare in vacanza sui terreni dell' ex acciaieria o comprare una bella burrata prodotta dove prima sorgeva un altoforno? Ci sarebbe poi un piccolo problema di costi. Dove prendere i soldi per questa titanica opera di bonifica e per l' assunzione di 10.000 persone? Mistero. Così come resta fantascientifica l' idea di risolvere tutto con degli "eco-lavori".
IL FONDATORE. Il Movimento, tuttavia, crede molto nel potere dei sogni, come insegna Beppe Grillo. Il comico l' anno scorso sosteneva che ci fossero 2,2 miliardi di euro di fondi Ue da investire. Il tutto per realizzare un «piano di riconversione che punta su ricerca, innovazione, energie rinnovabili, turismo sostenibile e archeologia industriale» (Ricetta descritta dai redattori del Blog delle Stelle, testo sacro dei Cinquestelle, già nel 2016). L'idea era quella di seguire l' esempio tedesco: «Potremmo fare come hanno fatto nel bacino della Ruhr» diceva Grillo «dove non hanno demolito, hanno bonificato, hanno messo delle luci, hanno fatto un parco archeologico di industria del paleolitico lasciando le torri per fare centri di alpinismo, i gasometri per centri sub più grossi d' Europa, sono state aperte un sacco di attività dentro e gli stessi minatori che lavoravano lì oggi sono guide turistiche, fanno un milione di visitatori l' anno e hanno dato posto a 10mila persone». Nella Ruhr ci sono voluti decenni per raggiungere quegli obiettivi, ovviamente con ben altri budget. E comunque lungo la strada molti posti di lavoro sono svaniti. Per non parlare del riferimento alle torri da alpinismo in Puglia. Peraltro, già all' epoca Grillo citava il reddito di cittadinanza come rimedio. Come dire: creeremo disoccupati, ma daremo loro qualcosa per non morire di fame. C' è poi un' ultima curiosa proposta che vale la pena di citare. Sempre il Blog delle Stelle riguardo a Taranto annunciava di voler «scommettere sull' economia circolare potenziando la filiera dei rifiuti». Un piano un po' vago. Chissà se oggi, dopo aver visto le prodezze della Raggi, i grillini avrebbero ancora il coraggio di parlare del pattume come risorsa semplice da utilizzare. Lorenzo Mottola
Il "teorema delle cozze" della senatrice grillina Barbara Lezzi. Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2019. Da vicepresidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama, la Lezzi ha pubblicato tempo fa un video su Facebook in cui spiegava che “il Pil nel secondo trimestre 2017 è aumentato perché ha fatto molto caldo ed in tanti sono corsi ad accendere i condizionatori”. Cosa aspettarsi da chi ha solo un diploma di perito industriale, e per vent’anni ha fatto l’ impiegata in un’azienda di forniture per orologi di Lecce? Nella sua carriera politica le sconfitte Lezzi le ha collezionate soprattutto nella sua terra natìa, la Puglia, dove alle ultime elezioni ha vinto nel suo collegio promettendo lo stop all’odiato gasdotto della Tap, strombazzato dai megafoni della campagna elettorale Movimento Cinque Stelle, che secondo Alessandro Di Battista poteva essere bloccato in 15 giorni, ed invece è in corso . La firma della Lezzi, con tanto di documento d’identità, risulta in un documento in cui si chiede la cancellazione del Trans Adriatic. Un impegno che aveva portato la candidata salentina ad accumulare nel suo collegio un bottino di 107mila preferenze alle ultime politiche del 2018. Proprio lo scorso luglio, nel corso delle sue ospitate tv, la ministra “trombata” da Di Maio, continuava a mostrarsi preoccupata per la posidonia presente nelle acque di approdo del gasdotto e si era spesa fino a dichiarare su La7: “Io adesso voglio sfidare chiunque a stendere un asciugamano sopra un gasdotto”. Imprecisioni a parte, tre mesi dopo la stessa Lezzi dichiarò: “Abbiamo le mani legate”. E a legarle le mani, si è giustificata subito la ministra, sarebbe stata la Lega, che invece voleva l’opera. Il gasdotto è andato avanti, contro il suo volere. Nel 2013 quando venne eletta per la prima volta al Senato, si mise in aspettativa e vola a Roma, finendo poco dopo sui giornali per aver assunto come assistente parlamentare la figlia del suo compagno. Nel 2016 diventa mamma del piccolo Cristiano Attila. E, da vicepresidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama, pubblica poi un video su Facebook in cui spiega che “il Pil nel secondo trimestre 2017 è aumentato perché ha fatto molto caldo ed in tanti sono corsi ad accendere i condizionatori“…. Non contenta, successivamente la Lezzi sostenne in tv che per ridurre il numero dei parlamentari non ci sarebbe stato bisogno di una riforma, ma bensì di un semplice decreto da preparare in un paio di settimane…. Classe 1972, di Lequile (Lecce), la Lezzi non è nuova alle gaffe televisive. Un diploma di perito industriale, impiegata per vent’anni in un’azienda di forniture per orologi di Lecce, nel suo curriculum denso di papere e imprecisioni ne ha accumulato più di una. Barbara Lezzi, oggi è il simbolo “grillino” della vicenda-Ilva (quale prima firmataria dell’emendamento al decreto imprese che il 22 ottobre scorso ha eliminato l’immunità per i gestori dell’acciaieria), e giorno dopo giorno, dichiarazione dopo dichiarazione, la chiusura dell’ILVA sembra essere la sua “partita della vita”. La senatrice Barbara Lezzi, già famosa per le sue fantasiose teorie macroeconomiche (sul Pil e condizionatori), a proposito dell’ ILVA, tempo fa disse: “Taranto è una città meravigliosa che non deve vivere necessariamente di siderurgia, può rilanciare la produzione di mitili”. Ma per sua sfortuna, sui social network qualcuno, dopo aver consultato i dati dell’ ISPRA e dell’ Europarlamento, le ha fatto le “pulci” e questo è il risultato:
L’ ILVA nel 2018 ha fatturato 2.2 miliardi di euro;
In Puglia si producono annualmente 10.137 tonnellate di cozze nere (più o meno il consumo personale… di Michele Emiliano durante un mandato !);
I molluschi nero-arancio hanno un prezzo medio alla produzione di 1,33 euro per kg e un prezzo medio di vendita di 3,19 eu/kg generando quindi un valore aggiunto, more or less, di 1,86 eu/kg.
Per compensare il mancato fatturato dell’ ILVA, la città di Taranto dovrebbe produrre 689.655,152 Tonnellate di cozze, cioè 11 volte la produzione totale italiana e circa 2 volte e mezza la produzione totale dei Paesi UE. In poche parole secondo i teoremi della perita aziendale leccese, incredibilmente arrivata a fare (per fortuna per poco tempo) la ministra della repubblica, bisognerebbe convertire a mitilicoltura l’intero mar Ionio, l’intero mar Adriatico ed una consistente porzione del canale di Sicilia. Chiaramente i pesci muti! “Ce ne rendiamo conto – ha scritto su Twitter l’editorialista di Libero, Paolo Becchi – che oltre 10.000 posti di lavoro andranno persi al Sud perché la senatrice Lezzi, per vendicarsi della sua esclusione dal Governo Conte 2, ha guidato la protesta dei senatori pentastellati contro lo scudo penale?“. Ed anche l’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda che seguì in prima persona il dossier della cessione di Ilva ad Arcelor Mittal rincara la dose: “La fabbrica più importante d’Europa – accusa l’ex Pd in studio a L’aria che tira su La7 – salta per le ambizioni politiche della Lezzi che vuole diventare governatrice della Puglia“. Noi ci chiediamo: si può mandare in Parlamento una persona del genere ? Si possono affidare all’incompetenza di questa perita, le sorti dell’intera produttività jonico-tarantina, e dell’ 1,4 del PIL italiano ?
Barbara Lezzi, Pietro Senaldi: la grillina che odia il Nord, come vuole fargliela pagare. Libero Quotidiano il 2 Dicembre 2019. Da ministra del «far nulla» a ex ministra «non ci sto», ecco la travolgente carriera della grillina Barbara Lezzi, specialista nel porre ostacoli. Pugliese, i cinquestelle, che nella Regione hanno preso nel 2018 una messe di voti, l' avevano piazzata al dicastero per il Sud, più che per le sue capacità, per premiarla del fatto di aver travolto D' Alema nel collegio di Nardò, a tutt' oggi unica impresa nel curriculum della signora. Barbara ha avuto un modo curioso di interpretare la sua missione. Il Mezzogiorno affonda nell' immobilismo ma, anziché darsi da fare per vivacizzarlo e attrarre investimenti, la grillina ha pensato che la salvezza del Sud passasse per la deindustrializzazione di quel poco che è rimasto e, soprattutto, per la demonizzazione del Nord. Così ha trascurato la sua terra dedicandosi alla guerra al Settentrione. Più che un guerriero meridionale, la Lezzi è un' erinni anti-nordista. Nel governo gialloverde è stata la nemica numero uno delle istanze autonomiste di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. La sua opera è stata così impalpabile, perdente e ricca di gaffe da risultare una specie di Toninelli in gonnella, con in peggio il fatto che se almeno il ministro delle Infrastrutture aveva un buon carattere, così che attaccarlo era un po' come sparare sulla Croce Rossa, la ex titolare del dicastero del Sud è invece di un' antipatia e di un' aggressività rare. La differenza si è vista quando, con il cambio di governo, Di Maio ha dovuto sacrificarli, con la Grillo e la Trenta, per manifesta incompetenza. Il Toninelli ha abbozzato e si è rifugiato in uno sdegnato silenzio. La Lezzi ha cominciato a rompere le scatole non solo ai leghisti ma anche ai grillini, rei di lesa maestà. Tanto da far saltare la mosca al naso perfino a Travaglio, il giornalista più pentastellato della Repubblica, il quale non ha esitato a definirla «ministra ottusangola».
OBIETTIVO SABOTAGGIO. Anche ieri la signora ha voluto rompere le uova nel paniere ai suoi colleghi e alleati. «Fermerò l' autonomia», ha minacciato dopo il primo via libera alla legge da parte del suo conterraneo, il ministro piddino Boccia, non certo un ultras delle Curve Nord. Intendiamoci, non che l' autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sia vicina e neppure che si sappia come sarà; semplicemente, il governo ha dato un primo via libera alla legge quadro per le Regioni, senza peraltro vincere le perplessità dei governatori Fontana e Zaia, che attendono di vedere quale sarà il contenuto reale della normativa. Questo però è bastato perché l' amazzone pugliese insorgesse dichiarando che «non c' è nessuna ragione per un' accelerazione» e giurando di «riuscire a fermare questo delirio». Visto gli esiti delle battaglie intraprese dalla ex ministra, per gli autonomisti potrebbe essere anche una buona notizia. La Lezzi era infatti in prima linea contro il Tap. Sosteneva che avrebbe danneggiato le spiagge perché sarebbe stato impossibile per i bagnanti «stendere i loro asciugamani sul gasdotto»; il che è sicuro, dato che esso passa a dieci metri di profondità sotto il mare. Altra memorabile lotta, purtroppo questa vicina al successo, è quella per la chiusura dell' Ilva. Malgrado poi lo abbia smentito, Barbarella ha dichiarato che avrebbe visto bene un allevamento di cozze tarantine al posto dell' acciaieria. Sul fronte ArcelorMittal, la grillina dà il meglio di sé. Ha avuto un ruolo di primissimo piano, tanto per intendersi, nel levare lo scudo penale alla multinazionale indiana, dandole la giustificazione per minacciare di alzare le tende e spuntare condizioni ottimali per restare. A scapito dei posti di lavoro degli operai tarantini e dell' aria che respirano le loro famiglie.
RE MIDA AL CONTRARIO. Insomma, la signora ha il tocco inverso rispetto a re Mida, è capace di trasformare l' oro in letame. Senza più poltrona ministeriale, ormai è una scheggia impazzita. Forte di una lunga esperienza nel rappresentare la parte più becera e demagogica dell' elettorato grillino, imperversa quotidianamente nelle cronache parlamentari con dichiarazioni mirate a mettere in difficoltà chi l' ha sostituita al governo e chi dal governo l' ha cacciata, in particolare il capo di M5S, Di Maio. In queste ore in cui l' esecutivo giallorosso traballa, Barbara è una delle poche a mettere d' accordo tutti: grillini e piddini, nordisti e sudisti, leghisti e sardine la giudicano indistintamente un cocktail mortale tra incompetenza e livore. Non si sa se parla più perché non capisce o perché rosica. La salvezza è che ormai conta perfino meno di quel che vale. Pietro Senaldi
Barbara Lezzi, il suo unico merito è aver umiliato Massimo D'Alema. Ma ha ucciso il Sud. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano l'11 Novembre 2019. Fra i malanni del Sud c' è l' assurdità tutta italiana di un ministero per il Sud. Basta guardare ai danni politici, materiali e biologici che negli anni si sono cumulati sul Mezzogiorno d' Italia, per capire che la scelta di un dicastero dedicato è una boiata pazzesca. Se non ci credete, figuratevi l' immagine di Barbara Lezzi: l'erinni salentina del governo gialloverde aveva battagliato per la chiusura dell' Ilva e mietuto voti nel suo collegio pugliese promettendo l' altolà al gasdotto transadriatico («Voglio sfidare chiunque a stendere un asciugamano sopra un gasdotto», aveva azzardato incurante del fatto che il gasdotto era progettato a 10 metri di profondità). Risultato: la Tap si farà ma l'Ilva rischia davvero di saltare in aria per via del noto emendamento della Lezzi con il quale il nuovo governo giallorosso ha tolto lo scudo penale per Arcelor-Mittal. Comunque vada a finire la vicenda, resterà a futura memoria il sentore della vendetta perseguita dalla Lezzi, sia pure sotto il legittimo ombrello emotivo della difesa dall'inquinamento ambientale, per la mancata riconferma nel suo ministero. Sarebbe interessante un parere di Beppe Grillo al riguardo, lui che della Lezzi è considerato quasi un padre e che dell' Ilva voleva fare un parco turistico, ma oggi è strenuamente impegnato nella difesa dell' innaturale connubio tra il Movimento Cinque stelle e l' ex nemico Pidiota E intanto Barbara avanza a testa alta in Senato, forte delle debolezze altrui, incapace di perdonare chi l'ha scaricata dopo aver condonato le incertezze che hanno punteggiato una carriera così fulminea nella sua biodegradabilità. La si ricorda con indulgenza quando vestì i panni improvvisati della sociologa (lei è perita aziendale) concentrata nel giustificare una lontana impennata del Pil (era il 2007) «perché ha fatto molto caldo e in tanti sono corsi ad accendere i condizionatori»; e la si perdonò nella sua qualità di costituzionalista, allorché si disse certa che per ridurre il numero dei parlamentari bastasse un decreto legge da approvare in quindici giorni, altro che riforma della Carta Resta il mistero su cosa abbia potuto fare per le istanze del Meridione l' agrodolce e spensierata ministra ottusangola (copyright feroce di Marco Travaglio) che voleva informare i cittadini «a 370 gradi» e che adesso, giunta al secondo mandato (in teoria l' ultimo, ma chissà), incrudelisce sugli ex sodali grillini e recrimina sul miraggio di un Parlamento da aprire «come una scatoletta di tonno»; un sogno remoto in omaggio al quale, nell' ormai lontano 2013, si era presentata in Senato munita appunto di apriscatole.
IL SUCCESSORE. Che dire, ora, del suo successore Giuseppe Provenzano da San Cataldo-Caltanissetta? Competente senza dubbio, in quanto vicedirettore dello Svimez e membro del Comitato di redazione della Rivista economica del Mezzogiorno, Provenzano non viene dal nulla e ha lavorato nella Giunta siciliana di Rosario Crocetta (assessorato all' Economia). Adesso si ritrova precipitato in tivù a difendere un bidone vuoto di senso ma ricco di pretese. Il ragazzo (è nato nel 1982) s' impegna e alterna sonore banalità propagandistiche - «Questo governo non è contro il Nord ma amico del Sud perché così è amico di tutta l' Italia» - a più realistiche ammissioni: «Non basta essere meridionali per essere anche meridionalisti, anzi la storia ci ricorda che spesso sono stati proprio i meridionali i principali nemici del Mezzogiorno». Perché il punto è esattamente questo: fatta eccezione per il predecessore della Lezzi, il professore di economia politica e maestro di buone relazioni Claudio De Vincenti, già titolare della Coesione territoriale e del Mezzogiorno in quota Partito democratico nel governo Gentiloni, chiunque abbia occupato il posto che fu della Lezzi ha issato l' ideale stendardo del Masaniello infelice o è svaporato nel dimenticatoio. Il Sud, come il Nord e come il Centro d' Italia, avrebbe bisogno di libertà e autodisciplina, di esami di maturità e calci nel sedere; invece aspetta quattrini e continua a rimanere vittima di un malinteso senso di solidarietà statalista che sconfina nella rivendicazione borbonica o nel piagnisteo furbetto. Una patologia che nasce, paradosso nel paradosso, con l' epica liberale berlusconiana, quando Gianfranco Miccichè associò le deleghe sudiste al suo ministero dello Sviluppo nel 2005, seguìto cinque anni dopo da Raffaele Fitto. Ma la Coesione territoriale ha offerto al cono di luce mediatico pure altri incomprensibili fenotipi che con l' unità o la disunità d' Italia sembravano non avere nulla a che vedere. Vedi l'indipendente torinese Fabrizio Barca, in realtà sinistrissimo uomo d' élite, ministro tecnico nel governo Monti di cui gli annali menzionano l' oscuro periodare con cespugliose citazioni brandite in modo più o meno disinvolto, tipo quella sul «catobleba» (un leggendario quadrupede esotico) attinta da Plinio il Vecchio e usata per simboleggiare il difficile rapporto tra cittadini e amministrazione pubblica. E a proposito di esseri leggendari, chi serba memoria di Carlo Trigilia da Siracusa? Risposta esatta: nessuno. Eppure egli risulta essere fra i massimi esperti viventi dei guai clientelari che affliggono il Mezzogiorno, una reincarnazione del Gramsci che si accigliava di fronte alle congenite insufficienze delle «pagliette meridionali» o del Vincenzo Cuoco che biasimava il fallimento dell' esportazione della democrazia a Napoli nel 1799. Ebbene, il buon Trigilia volava alto e anche lui ha vanamente posseduto le deleghe alla Coesione territoriale (governo Letta, 2013), ovvero il travestimento burocratico per occuparsi del Sud Italia senza portafoglio ma con l' obbligo morale di denunciarne l' eterno sottosviluppo.
MEDAGLIE AL DISVALORE. E qui ritorniamo a Barbara Lezzi, il cui merito principale consiste forse nell' aver umiliato Massimo D' Alema nel suo collegio di Nardò alle consultazioni nazionali del 2018 (107mila preferenze contro 500). Oggi, piantata a mezza via tra Caparezza e Alessandro Di Battista, la sua figura viene bersagliata da ogni lato con accuse pesantissime: Carlo Calenda dice che «l' investimento più rilevante degli ultimi 40 anni nel Mezzogiorno salta per le ambizioni politiche di Barbara Lezzi»; Luigi Di Maio confida di non riuscire più a controllarla dacchè lei ha deciso d' intestarsi la dissidenza disorganizzata all' interno del Movimento Cinque stelle. Ma sono soltanto le ultime medaglie al disvalore appuntate sul petto di un equivoco chiamato ministero per il Sud, impalpabile omaggio alla terra del rimorso prigioniera dei suoi perenni tumulti feudali. Alessandro Giuli
Luca Telese per “la Verità” il 12 novembre 2019.
Voterà lo scudo?
(Sospiro). «No, mai: non voterò nessuno scudo e le spiego perché». Barbara Lezzi, ex ministro del Sud. Firmataria dell' emendamento dello scandalo, inseguita da tutti, oggetto di mille strali. Parla poco, pochissimo. Ma stavolta non si sottrae a nessuna domanda. E spiega la sua verità.
Senatrice Lezzi, tutto il mondo la cerca, e lei dove è finita?
(Ride) «Sono qui, non mi sono mai mossa, mi trova in Parlamento dove lavoro tutti i giorni».
Lei è la firmataria dell' ormai celebre scudo di immunità penale su Ilva...
«Scriva che ne sono orgogliosa».
...che ha fatto scappare gli indiani.
«Eh no! Io non ho fatto scappare nessuno».
Sallusti dice che lei è una segretaria che fa danni.
«Ho lavorato 21 anni in azienda e ne sono anche orgogliosa. Comunque Mittal non se ne può andare».
Questo lo decide lei?
«Lo decide un giudice. Ma Mittal è tenuta a operare da un contratto stipulato con lo Stato italiano».
Vuole negare che quel contratto prevedesse lo scudo?
«Questa è la prima fake news. Il contratto non contiene nessuno scudo».
D'accordo, ma la garanzia è riconosciuta nel piano ambientale che è parte del contratto.
«Non accetti questa semplificazione».
Ma è una norma riconosciuta nell'articolo 27.5.
«Faccia molta attenzione alle parole: in questo equivoco è il cuore della controversia con Mittal».
La garanzia è prevista da quell'articolo, dunque il suo emendamento l'ha cancellata.
«No. Non c'è nessuna immunità riconosciuta: l' articolo 27.5 del contratto prevede il diritto di recesso di Mittal se una nuova norma "rendesse impossibile portare avanti il piano ambientale"».
E non è così?
«Assolutamente no! Non c'è nessuna norma che renda impossibile questo lavoro. Lo scudo lo avevano i commissari del governo: fu introdotto dal decreto Renzi del 2015.
Nell'aprile del 2019, quando questa norma è stata abrogata, nessuno l' ha più chiesta».
Perché i commissari sono tranquilli?
«Perché a loro non serve nessuna immunità speciale».
E perché?
«Perché esiste l'articolo 51 del codice di procedura penale, che tutela chiunque stia ottemperando a un obbligo che derivi da una autorità o da una norma giuridica».
E secondo lei è questa la fattispecie?
«Secondo la legge italiana! La stessa con cui lavorano tutti gli imprenditori italiani I manager di Mittal, come quelli di prima, sono già non punibili. Come gli attuali commissari, perché stanno ottemperando agli obblighi del decreto».
E tutti i dubbi?
«Propaganda e balle».
Ma allora perché Mittal se ne vuole andare?
«Io sospetto che, dal momento in cui non hanno rispettato il piano industriale e occupazionale, ogni pretesto fosse buono».
Ma lei non gliene ha regalato uno?
«Uno vale l' altro. Il vero tema è una perdita economica che impedisce a Mittal di portare avanti il piano ambientale».
Lei non pensa che vadano aiutati? Hanno pagato parte della copertura dei parchi.
«Pagano un affitto irrisorio per la quota di mercato di Ilva. Penso sia giusto che paghino poco, ma questo era previsto proprio perché sostenevano il piano».
Quindi lei riconosce le perdite di Ilva?
«Certo. Già 800 milioni: a fine anno sfioreranno il miliardo di perdite. Ma il tema è che il piano industriale non tiene».
È contenta di questo?
«Per nulla. Registro che lo avevano detto gli altri commissari di governo nel 2017».
E perché non teneva?
«Credo che Mittal si stata costretta ad aumentare la quota di produzione perché altrimenti non copriva i costi».
L' obiettivo occupazionale fissato da Di Maio era troppo alto?
«Non gli sembrava tale quando mostravano molto interesse alla quota di mercato ex Ilva...».
Le ho chiesto di Di Maio.
«E le rispondo: stanno disattendendo anche quello di Calenda!».
Perché?
«Purtroppo è il loro modus operandi».
Attenta alle querele.
«E perché? Hanno abbandonato altri Paesi europei, ad esempio il Belgio. E in Africa? Loro fanno così. È la loro policy».
Perché?
«Si sta ripetendo una storia: la questione della domanda e dell' offerta devono essere previsti nel flusso del mercato».
Nel piano?
«Certo. Se avessero voluto affrontare il problema bastava chiedere un incontro al governo».
E invece?
«Hanno presentato la richiesta di rescissione in tribunale. Vogliono andare via».
Argomentazione di Calenda: il piano salta perché Di Maio vuole 1.000 assunti in più.
«Ridicola. Hanno messo subito 1.300 e rotte persone in cassa integrazione un anno fa. Adesso ne chiedono 5000!».
Erano ricattati da Di Maio?
«Allora anche da Calenda: hanno accettato quella condizione e la stanno violando, suvvia!».
Cosa?
«Perché una multinazionale subirebbe una richiesta che considerava assurda? Avevano preso quell'impegno. Lo stanno violando. Ma volevano la fabbrica».
Mittal scrive che la magistratura minaccia l' altoforno.
«Eh no! Non sono chiacchiere campate per aria. È morto un operaio di 35 anni lasciando due bambini piccoli. È assurdo pretendere che la magistratura non metta bocca».
C'è una scadenza a dicembre?
«Il giudice riceverà il 13 novembre l'analisi di rischio. Se ci fossero delle prescrizioni, Ilva dovrà spiegare come ottemperarle entro il 13 dicembre».
In che tempi?
«Si stabiliranno con i tecnici le prescrizioni. Entro il 13 dicembre vanno decisi gli interventi, non devono essere realizzati. È una bella differenza».
Saranno richieste realizzabili?
«La domanda è: se dovesse accadere un altro incidente sul lavoro chi ne dovrebbe rispondere?».
Loro dicono: non possono rispondere per le mancanze del passato.
«Infatti si parla di futuro. Nessuno può essere punito per qualcosa che non ha fatto».
Però vanno sanati ritardi trentennali.
«Quando hanno preso in affitto gli stabilimenti, il ragazzo era già morto. Quindi loro sapevano che bisognava intervenire. Andassero a portare l'analisi di rischio e vedessero cosa dice la Procura».
I magistrati vogliono chiudere Ilva?
«No, no, no, no!».
Dicono che lei sia referente del partito dei magistrati. È vero questo?
«Sono matti. Per me i magistrati sono una categoria come l' altra. Non fanno altro che rispettare la legge e tutelare il diritto alla salute».
Nicola Porro ricorda che non c'è stata ancora una sentenza sui Riva.
«Ci sono stati 12 decreti salva-Ilva che lo hanno impedito!».
Il decreto Renzi diceva: la facoltà d'uso deve essere salvaguardata.
«Non è giusto».
Però si sarebbe fermato il forno.
«Chi vale di più: la produzione o la vita? Perché si chiede giustizia per tutti i colpevoli tranne che per quelli di Ilva?».
Perché si è trovato un compromesso difficile tra lavoro e salute.
«La Corte costituzionale bocciò quel decreto».
Lei vuole chiudere l' Ilva e fare una parco? Sia sincera.
«Il parco esiste in Germania, un esempio virtuoso. Ma non è una via percorribile per il Paese».
Lei è tra coloro che vuole coltivare a Taranto le cozze?
«Non al posto della fabbrica. Né io né il sottosegretario Mario Turco abbiamo mai parlato di miticultura».
Ha presentato quella mozione contro lo scudo per fare le scarpe a Conte?
«Macché. Io le ho viste le teste rasate dei bambini malati di chemio. Il bottone verde dello scudo non lo premerò mai».
Nemmeno se glielo chiede Conte?
«Mai. E fra l' altro non lo chiede. Né a me né agli altri».
Vuole candidarsi alla presidenza della Puglia?
«Io non mi devo candidare da nessuna parte. Chi dice questa cosa non ha argomenti».
Voleva che vincesse l'altra cordata?
«Io non avevo tanta fiducia in Mittal. Gli altri avevano una mission più chiara sulla decarbonizzazione».
La sua non sarà una vendetta per l'esclusione del governo?
«Ma basta. Lo ha votato tutto il gruppo parlamentare: siamo 106! Ma figurarsi! Che vendetta potrei covare? Ero ministro e mi sono messa contro il Consiglio dei ministri e ho rifiutato di votare la norma. Era come se mi fossi dimessa».
Sarà contenta se Ilva chiude.
«Sono contenta se parliamo dei diritti dei tarantini. Pensi a tutti quelli che dicono "Taranto fa Pil", ma non parlano mai dei suoi malati oncologici».
E non voterebbe lo scudo nemmeno se lo chiedesse Di Maio?
«Io non lo voto. Arcelor non ha bisogno dello scudo. Se ci vogliamo tenere Mittal dobbiamo guardare il suo piano industriale».
Tifa per la nazionalizzazione?
«No. Se si affida la salute di un intero territorio a un imprenditore privato dandogli l'immunità si muove un passo non da Paese civile. Voglio che lo Stato intervenga se non si garantiscono le tutele ambientali».
Se Mittal va via si ferma tutto.
«Assolutamente no. Subentra l'amministrazione straordinaria. I nostri commissari sono persone assolutamente competenti e in grado di proseguire l'attività. Fino a due anni fa era così».
Barbara Lezzi spernacchiata pure da Aldo Grasso: "Cozze amare. Sai cosa farai dopo la chiusura dell'Ilva?". Libero Quotidiano il 17 Novembre 2019. "Cozze amare". Barbara Lezzi finisce di nuovo nel mirino di Aldo Grasso, che nella sua rubrica domenicale Padiglione Italia sul Corriere della Sera non può fare a meno di sottolinearne le figure barbine. La sua frase sulla "coltivazione delle cozze" come exit strategy per superare la possibile chiusura dell'Ilva di Taranto, ma pure di Novi Ligure e Genova, ha fatto il giro del Paese facendo sghignazzare molti economisti. Allora Grasso si prende la briga di ricordarle un paio di dati: "Se ArcelorMittel chiude lo stabilimento, più di 10.000 persone resteranno a casa in una città di 200.000 anime dove la disoccupazione è già ben oltre il 40%". È triste dirlo, conclude Grasso, ma "il rischio è che ci saranno più disoccupati che cozze". E a quel punto la senatrice M5s, fiera paladina della decrescita felice, "sulle rovine dell'Ilva erigerà felice un monumento al mitile ignoto".
Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 17 novembre 2019. Cozze amare. Barbara Lezzi è cliente abituale di questa barberia. Ci siamo occupati di lei quando attribuì l'aumento del Pil al consumo energetico dei condizionatori in un'estate particolarmente calda. Poi, da chief economist del M5S, quando voleva rimettere in carreggiata la sua Puglia chiudendo centrali a carbone dell'Enel per affidarsi alle rinnovabili e altre amenità del genere. Adesso la senatrice grillina è intervenuta per sciogliere la spinosa questione dell' ex Ilva. «Per risolvere la situazione - ha spiegato la Lezzi in un video pubblicato dal canale YouTube del Movimento - ci sono tantissime strade da percorrere» per rimediare alla chiusura degli stabilimenti di Taranto, Novi Ligure e Genova. Una su tutte, la mitilicoltura. Vale a dire la coltivazione di cozze. Se ArcelorMittel chiude lo stabilimento, più di 10.000 persone resteranno a casa in una città di 200.000 anime dove la disoccupazione è già ben oltre il 40%. Nessuna paura. Già quest' estate, la Lezzi aveva spiegato che «Taranto è una bella città di mare di cui si parla solo per l' ex-Ilva, ma ha, per esempio, una lunga tradizione nell' attività di mitilicoltura, che non può essere dimenticata». È triste dirlo, ma il rischio è che ci saranno più disoccupati che cozze. A quel punto, la Lezzi, sulle rovine dell' Ilva erigerà felice un monumento al mitile ignoto.
Vittorio Feltri contro Barbara Lezzi: "Cozze al posto dell'acciaio? Ho dubbi sul suo equilibrio psichico". Libero Quotidiano il 18 Novembre 2019. Ieri Aldo Grasso sul Corriere della Sera, in prima pagina, ha preso per i fondelli Barbara Lezzi, del Movimento 5 Stelle, già ministro per il Sud distintosi per la propria nullità, perché in un momento di torpore mentale ha dichiarato che se per caso l'Ilva dovesse chiudere, poco male: Taranto avrebbe la possibilità di rifarsi promuovendo la coltura dei mitili, cioè dei molluschi. Una proposta del genere è talmente ridicola da suscitare stupore e anche indignazione. Sostituire la produzione dell' acciaio con quella delle cozze è una ipotesi così cretina che meriterebbe un pernacchio. Ma noi ce ne asteniamo poiché non siamo ostili pregiudizialmente ai politici e alle politiche del Meridione, quand'anche da certe bocche escano bischerate sesquipedali. Ci limitiamo pertanto a dire a madame Lezzi che le conviene stare zitta allo scopo di proteggere la propria dignità. La signora in un recente passato aveva affermato che il Pil delle terre sotto Roma sarebbe accresciuto durante l'estate grazie al maggiorato consumo di energia elettrica dovuto all'iper funzionamento dei condizionatori. Una boiata tale pronunciata da una ministra, per quanto grillina, meriterebbe la radiazione dalle istituzioni di chi ne è autore. Eppure siamo stati costretti a ingoiarla senza eccedere in insulti. Ma l'idea di rimpiazzare il ferro con le cozze è surreale e fa nascere un sospetto sull'equilibrio psichico di Barbara Lezzi, la quale non si è chiesta neppure con quanti molluschi sarebbe economicamente equiparabile il fatturato dell' acciaio. Benché sia opportuno ricordare che la impepata di cozze piaccia molto agli italiani, tant'è che sono riusciti a digerire per oltre un anno la responsabile del dicastero dedicato al Mezzogiorno, che con le cozze forse ha delle affinità. Vittorio Feltri
La Trenta non molla la casa dello scandalo e fa la vittima: "Ingiusta gogna mediatica". L'ex ministro sta ancora nell'appartamento dove abitava quando era al governo. Lodovica Bulian, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. «Ma è mai possibile che l'ex ministro Trenta, esponente grillina, stia ancora nella casa di proprietà dello Stato a cui non ha più diritto? Ho presentato tre interrogazioni su questa vicenda - tuona il senatore azzurro Maurizio Gasparri - Ho ottenuto una risposta su tre. Voglio andare fino in fondo sulle onorificenze elargite dalla Trenta, in taluni casi, a detta di molti, senza fondamento. Ma voglio capire, il ministro della Difesa e tutte le Forze Armate non riescono a mandare via questa abusiva da quella casa?». A un mese e mezzo dallo scandalo che ha travolto l'ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta per l'alloggio di servizio nel quartiere San Giovanni a Roma, in cui si era trasferita col marito dopo il giuramento, le polemiche continuano. La ministra infatti, secondo quanto riportato dalla Verità, continua ad alloggiare nella stessa abitazione nonostante abbia annunciato più volte di volerla lasciare. Dopo la fine del Conte I e l'addio della Trenta al ministero, l'alloggio era stato subito riassegnato a suo marito, che ne aveva fatto richiesta in quanto maggiore dell'Esercito. L'ex ministra ha anche un'altra casa a Roma, ma aveva spiegato di aver chiesto l'appartamento nel cuore della Capitale «perché più vicino alla sede lavorativa, nonché per opportune esigenze di sicurezza e riservatezza». Il canone mensile pagato per l'affitto dell'immobile è di 141,76 euro. In tutto 314,95 euro includendo anche la rata per l'uso dei mobili e dell'arredamento. Già prima di Natale, la ministra si era giustificata spiegando che era stata presentata «istanza formale di rinuncia. Mio marito, che è titolare dell'alloggio e che ne ha il diritto, fa un passo indietro per tutelare me e la mia serenità, perché sono stata oggetto di una ingiusta gogna mediatica. Sono state fatte tante, tante elucubrazioni, troppe, e quindi io risponderò con una conferenza stampa in cui chiamerò tutti, nel momento in cui anche la Difesa avrà espresso il suo parere, perché ci sono delle interrogazioni, c'è una risoluzione, se ne parlerà alla Camera dei Deputati, quindi credo che sia giusto fare così». Trenta anche alla Verità, che le ha chiesto conto della sua attuale presenza nell'alloggio, ha risposto rimandando allo stesso appuntamento mediatico: «Non rispondo ai giornalisti prima della conferenza stampa». Sulla vicenda la Procura militare di Roma ha aperto un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato, ma verifiche sono state estese su tutti i militari per accertare che nessuno rimanga negli appartamenti della Difesa senza avere i requisiti.
Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 5 gennaio 2020. Il cronista preme il campanello, convinto di non ottenere nessuna risposta, e, invece, dopo pochi secondi la porta si apre e compare quello che immaginiamo essere un fantasma: il maggiore Claudio Passarelli, noto alle cronache come il consorte dell' ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Alla vista di un viso sconosciuto l' ufficiale si inalbera: «Lei come è entrato? Questa è una caserma militare». Ecco a voi il cinepanettone delle feste: Natale (Capodanno e, pure, Epifania) a casa Trenta. Infatti, nonostante i ripetuti annunci, l' ex ministro non ha ancora lasciato lo spazioso appartamento di via Amba Aradam a Roma. A novembre il Corriere della Sera aveva scoperto che l' alloggio di servizio che aveva occupato da ministro era stato assegnato a suo marito militare, un piccolo escamotage per tenersi una bella casa (con un canone simbolico di 141 euro al mese) e non tornare nel modesto trilocale di via Montecuccoli, in cui la coppia risiedeva prima del salto di qualità. «Da ministro», spiegò la Trenta sui social, «ho chiesto l' alloggio di servizio perché più vicino alla sede lavorativa, nonché per opportune esigenze di sicurezza e riservatezza». Poi, con Il Messaggero, aggiunse: «Lì c' erano problemi di controllo e di sicurezza, in quella zona si spaccia droga e la strada non ha vie d' uscita». E al Corriere, invece, spiegò: «La casa grande mi serve, ho una vita di relazioni, non posso andarmene». Nonostante queste dichiarazioni, il 19 novembre, infine, la Trenta si arrese: «Mio marito, pur essendo tutto regolare e sentendosi in imbarazzo, per salvaguardare la famiglia, ha presentato istanza di rinuncia per l' alloggio». Quindi aggiunse: «Lasceremo l' appartamento nel tempo che ci sarà dato per fare un trasloco e mettere a posto la mia vita da un' altra parte». Un mese e mezzo dopo quel tempo non è ancora trascorso, anche se la signora aveva detto che il termine ultimo per la sua uscita scadeva esattamente un mese fa: «Quando ho lasciato l' incarico, avrei avuto, secondo regolamento, tre mesi di tempo per poter lasciare l' appartamento; termine ancora non scaduto (scadenza tre mesi dal giuramento del nuovo governo, vale a dire 5 dicembre 2019, ndr)». Parole sue, affidate alla pagina Facebook ufficiale. Il 5 gennaio alla vigilia della Befana, la nostra risiede ancora nei paraggi di piazza San Giovanni. La proroga è stata possibile grazie alla staffetta con il marito. Stando a quanto avrebbe ricostruito il ministero, il 5 settembre la Trenta decade. Lo stesso giorno, però, il marito assume l' incarico di aiutante di campo del segretario generale della Difesa. Sempre il 5 settembre, la Trenta riceve «apposito avviso di rilascio dell' appartamento»: termine ultimo inizio dicembre. Il 18 settembre Passarelli presenta la domanda per lo stesso alloggio in cui da qualche mese vive con la moglie, canone 141,76 euro oltre al prezzo per l' uso dei mobili (173,19 euro). Il 2 ottobre Passarelli ottiene l' appartamento. La normativa prevede che questi immobili «non possano essere concessi a personale che sia proprietario di un' abitazione idonea, disponibile e abitabile nella circoscrizione dove presta servizio, fatta eccezione per i titolari di incarichi compresi nella prima fascia». E l'aiutante di campo del segretario generale è in prima fascia, quindi non è un problema se, insieme con la moglie, possiede un trilocale al Pigneto. Il 23 ottobre l' atto di concessione dell'alloggio viene ultimato: anche se il maggiore dichiara di possedere la casa romana e un' altra a Campobasso, non ci sono motivi ostativi. Come, d' altra parte, sbandiera la Trenta ormai da un mese. Ieri abbiamo provato a insistere con la ex ministra per ottenere delle spiegazioni. E la professoressa si è limitata a scriverci: «Grazie del vostro interesse, ma non rispondo a giornalisti prima della conferenza stampa». Un appuntamento annunciato da circa un mese, ma ad oggi mai organizzato. «Non ho ancora fissato la data, aspettavo la fine delle festività». Quindi ci ha inviato «l' unico articolo, dopo tanto clamore basato sul nulla, che ha ripreso la risposta a un' interrogazione del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini». Una replica in cui il politico le conferma «stima e apprezzamento». Con noi l'ex ministro soggiunge: «Magari vi interessa sapere la verità» e accompagna la battuta con uno smiley e un augurio di buon anno nuovo. Quindi la Trenta non risponde più ad altre domande, lasciando suonare a vuoto il cellulare per il resto del pomeriggio. Una mossa per creare attesa su questa fantomatica conferenza stampa che, sembra, sarà incentrata sul suo siluramento a facilitatore del Movimento 5 stelle per l' area Sicurezza e difesa, una bocciatura che avrebbe appreso direttamente dal Blog delle Stelle. Sgarbo di cui si è subito lagnata: «Incredibilmente non è stata fornita alcuna spiegazione, e questo episodio conferma le perplessità su alcuni processi decisionali dei vertici del Movimento». Le ragioni sono rimaste ignote. E quello che la donna aveva ribattezzato come il Team del futuro è rimasto un progetto non realizzato, nonostante una presentazione in pompa magna nella Sala stampa della Camera dei deputati. E da allora la Trenta ripete «di essere vittima di una trama agita (sic, ndr) da alcuni poteri forti». Ma quali? Forse ce lo rivelerà nella conferenza stampa più attesa del 2020. Intanto i due coniugi continuano a vivere nell' appartamento che tanto clamore ha suscitato. E, visto che non ci sono stati sfratti, né, pare, violazione di leggi, potenzialmente potrebbero rimanervi ancora a lungo, nonostante l' annuncio della disdetta. Ma come si sa in politica c' è anche la questione dell' opportunità, uno dei cavalli di battaglia dei 5 stelle. Il motivo per cui forse la Trenta, tradendo un certo imbarazzo, preferisce non rispondere alle nostre domande.
Elisabetta Trenta trasloca: addio all'appartamento di Stato. L'ex ministro della Difesa ha lasciato l'alloggio al centro delle polemiche degli ultimi mesi. Lei e il marito tornano nella casa di proprietà al Pigneto. Francesca Bernasconi, Mercoledì 08/01/2020, su Il Giornale. Elisabetta Trenta sta traslocando. Dopo mesi di polemiche intorno all'alloggio assegnato al marito dell'ex ministro della Difesa, per la coppia è arrivato il momento di impacchettare tutto e lasciare l'appartamento in centro a Roma. Il caso era scoppiato lo scorso novembre, quando un'inchiesta del Corriere della Sera aveva svelato che la Trenta viveva ancora nello stesso appartamento, che le era stato assegnato in qualità di ministro. Il suo ruolo, però, era decaduto a settembre, con la fine dell'esecutivo Conte I. L'ex ministro aveva spiegato di continuare a vivere lì perchè la casa era stata riassegnata al marito, il maggiore dell'Esercito italiano Claudio Passarelli. Ma la difesa della Trenta, che dichiarava legittima la sua permanenza in quell'alloggio, non era servita a far calare le polemiche e così la coppia aveva annunciato la rinuncia alla casa in centro. Ma, nei giorni scorsi, la Verità aveva svelato che il maggiore e la moglie continuavano ad alloggiare nella casa assegnata loro dallo Stato e la notizia aveva sollevato diverse critiche. Lo stesso giorno, Elisabetta Trenta aveva annunciato sui social il trascolo imminente: "Vi scrivo per comunicare che il 9 Gennaio ci sarà il tanto discusso trasloco dal famoso 'Appartamento di Stato'", aveva scritto in un post su Facebook. Ma le operazioni, secondo quanto riporta la Verità, sarebbero avvenute già ieri mattina, intorno alle 10.00, quando un camion della ditta One e qualche operaio si sarebbero presentati fuori dall'alloggio della coppia. "Come avevo promesso il trasloco è già in corso...", specifica l'ex ministro della Difesa, precisando che "a Natale è festa per tutti, anche per i traslocatori". Il ritardo, quindi, sarebbe da attribuire alle feste natalizie, che hanno causato una proroga nel trasporto. E, secondo la Verità, dalla One fanno sapere: "Noi siamo arrivati lì oggi, perché ci è stato detto di arrivare lì oggi", cioè il 7 gennaio del 2020. La coppia ha lasciato l'alloggio in centro, per tornare nella casa che possiedono al Prenestino. Le operazioni sono stare abbastanza veloci, dato che nei giorni precedenti erano già stati portati via gli oggetti personali. Per il momento, la coppia tornerà nell'appartamento in via Montecuccoli, dove viveva prima che Elisabetta Trenta diventasse ministro e si spostasse a vivere nella casa finita al centro delle polemiche.
Val.Err. per “il Messaggero” l'11 gennaio 2020. Nessun reato militare nell'assegnazione della casa dell' ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Lo ha deciso, dopo gli accertamenti, il procuratore militare Antonio Sabino, che a novembre aveva aperto un fascicolo per verificare eventuali irregolarità. L' appartamento, a due passi dalla Basilica di San Giovanni, era stato assegnato alla Trenta durante il suo incarico ed era passato al marito, Claudio Passarelli, promosso maggiore dell' Esercito quando il primo governo Conte era caduto. La Trenta, dopo pesantissime polemiche, ha lasciato la casa lo scorso 9 gennaio. Lo stesso ministero aveva ricostruito i passaggi, formalmente corretti: il 5 settembre 2018, la Trenta decade e lo stesso giorno, il marito assume l' incarico di aiutante di campo del segretario generale della Difesa. Sempre il 5 settembre, l' ex ministra viene invitata a lasciare la casa entro il 3 dicembre. Il 18 settembre invece Passarelli presenta la domanda per l' alloggio, è residente nella casa precedentemente assegnata alla moglie: canone 141,76 euro oltre al prezzo per l' uso dei mobili (173,19 euro). E il 2 ottobre Passarelli lo ottiene. La normativa prevede che ai militari non possano essere concessi se siano proprietari di un alloggio nella circoscrizione in cui prestano servizio, «fatta eccezione per i titolari di incarichi compresi nella prima fascia». Come quello ricoperto da Passarelli dal 5 settembre.
Elisabetta Trenta, se questo è un Ministro. Oltre alla vicenda della casa la cosa peggiore del suo mandato è stata la gestione inadeguata e ideologica della Difesa. Fausto Biloslavo il 3 dicembre 2019 su Panorama. La casa con l’affitto irrisorio a Roma e il «dog sitting» con l’auto blu al suo cagnolino sono solo aspetti emblematici di chi parla bene e razzola male. Elisabetta Trenta, stella grillina in declino, i veri danni li ha compiuti alla guida della Difesa a Palazzo Baracchini, dal giugno 2018 a settembre di quest’anno. L’ex ministro voleva trasformare le Forze armate in una specie di Protezione civile rafforzata a tal punto che ha dato l’ordine ai caccia bombardieri - costo: 13 mila euro ogni ora di volo - di fotografare dal cielo le Terre dei fuochi. E non ha mandato avanti contratti cruciali di approvvigionamenti e mezzi fondamentali per la sicurezza dei nostri militari come i «blindo» Centauro 2 e il veicolo da trasporto truppe Freccia. Per non parlare della benedizione ai sindacati delle stellette, prima che la delicata materia fosse regolata dal Parlamento, della rivolta dei generali in congedo, che hanno disertato la parata del 2 giugno per protesta e della comunicazione della Difesa tornata all’età della pietra. Si preferiva accendere i riflettori su trenini e balletti del ministro a Lourdes, ma sulle missioni più ostiche all’estero è stata fatta calare una cappa di silenzio. Fino a metà novembre, Trenta utilizzava ancora la «macchina blu», un’Alfa 159. Un suo diritto per sei mesi come ex ministro, ma che cozza con la propaganda grillina contro i privilegi. L’errore iniziale dell’avventura governativa del capitano della riserva selezionata è stato circondarsi di collaboratori non all’altezza scelti per la supposta fedeltà al Movimento cinque stelle. Nell’ambiente della Difesa lo chiamavano «il cerchio magico». Un ufficiale di grado superiore spiega a Panorama «che erano tutti arrivati con chiamata diretta del ministro, ma invece che andare a pescare fra i primi della classe si è circondata di gente inadatta». Nel cerchio magico c’erano persone frustrate, che avevano pure il dente avvelenato con le gerarchie militari pensando di essere state ingiustamente danneggiate nella carriera. E volevano fare la rivoluzione. I fedelissimi che hanno fatto parte del gabinetto del ministro, oggi quasi tutti trasferiti, sono soprattutto il colonnello Antonello Arabia, capo della segreteria, il tenente colonnello Toni Caporella, consigliere, il colonnello Massimo Ciampi, trait d’union con i nascenti sindacati militari. E il colonnello Francesco Greco, responsabile dell’ufficio pubblica informazione ancora al suo posto. I fedelissimi dell’ex ministro abitano tutti nel cosiddetto «condominio Trenta», un comprensorio della Difesa in area Flaminia, una delle zone migliori di Roma. Tra le iniziative più criticate del ministro Trenta nell’ambiente militare è il pallino per il «duplice uso sistemico» delle Forze armate secondo un fantomatico progetto Ianus, che non si trova da nessuna parte nei dettagli. I militari sono sempre stati impiegati, fin dall’unità d’Italia, in modalità dual us per calamità naturali o compiti di vigilanza, come accade da anni con la missione Strade sicure, la più numerosa con oltre 7 mila uomini. L’obiettivo recondito della gestione grillina della Difesa, però, era trasformare le Forze armate in una specie di Protezione civile rafforzata con scarso impiego all’estero. «La boiata peggiore è stata l’esercitazione a Pratica di Mare sul duplice uso sistemico, costata non poco» sottolinea una fonte di Panorama nel mondo militare. Il 7 maggio la Difesa riunisce il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il ministro per i Beni e le attività culturali, Alberto Bonisoli, il capo del dipartimento della Protezione civile Angelo Borrelli e il capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli per un mega show all’aeroporto militare di Pratica di Mare vicino a Roma. La simulazione prevede uno tsunami che colpisce il litorale romano e provoca un terremoto. Un elicottero trasporta i vip sul comando in mare a bordo di nave Etna, che per muoversi costa 53 mila euro. Addirittura sfrecciano due caccia (almeno 20 mila euro per ora di volo in coppia), che certo non dovevano sganciare le bombe per fermare l’ondata. Conte è entusiasta e annuncia: «Questo evento dimostra le mirabili capacità organizzative e di coordinamento delle nostre Forze armate negli interventi a supporto delle attività della Protezione civile». L’operazione, mai scritta, di «disarmo prevede anche una smilitarizzazione semantica. I sistemi d’arma passano in secondo piano, la parola “combat” è un tabù e il soldato diventa più simile a un poliziotto in nome del politicamente corretto» osserva una fonte all’interno della Difesa. Manifesti e «simpatici video» sui social, avallati dal ministro anche per il 4 novembre, giorno delle Forze armate e della vittoria nella Prima guerra mondiale, rispecchiano la folle idea di soldati disarmati più simili a crocerossine che a militari addestrati a combattere. Il 23 giugno la Fao (l’organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) che ha il quartiere generale a Roma, aveva chiesto un intervento di «jammer», di disturbo delle frequenze dei telefonini, per mantenere la segretezza dell’elezione del nuovo segretario cinese. Il ministro della Difesa ha detto no per i timori della reazione delle forze di polizia, considerandola un’azione troppo aggressiva. Ma l’aspetto più estremo del «duplice uso sistemico» delle Forze armate è l’utilizzo di caccia bombardieri Amx, Tornado ed Eurofighter «per monitoraggio ambientale condotto grazie ai sensori» speciali dei velivoli «nell’ambito del piano di azione di contrasto dei roghi dei rifiuti nella Terra dei fuochi» si legge sul sito della Difesa. Un’ora di volo di un Eurofighter, costruito per sganciare bombe, costa 13 mila euro. Un lavoro di ricognizione simile veniva già fatto sul terreno dai soldati di Strade sicure, che usano il mini drone Raven, lanciato a mano, infinitamente più economico. «Trenta ha provocato gravi danni come cercare di ridurre le Forze armate a una specie di protezione civile rafforzata» conferma il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica. «Si può archiviare questa bizzarra concezione, ma i ritardi sui nuovi sistemi d’arma e approvvigionamenti sono un danno elevato. Nel caso degli F 35, per esempio, i tira e molla hanno minato la credibilità del Paese». Il leghista Roberto Paolo Ferrari, membro della Commissione Difesa alla Camera, accusa l’ex ministro Trenta «di avere tenuto bloccati per un anno e mezzo programmi che avevano già la copertura finanziaria come i blindo Centauro 2 e il Freccia». Nel primo caso, i vecchi esemplari non possono venire inviati all’estero a causa dello «scafo» non protetto dalle trappole esplosive. L’ingiustificato ritardo ha provocato crisi e cassa integrazione alla Iveco defence. In pratica, i nuovi sistemi d’arma sono rimasti bloccati al ministero dello Sviluppo economico, che era guidato dal leader grillino Luigi Di Maio. E Trenta non si è strappata i capelli per risolvere la situazione. Ferrari punta il dito anche sull’abortito drone ad alta quota e lungo raggio che doveva essere prodotto da Piaggio Aero. «Un investimento da 700 milioni già finanziato, ma bloccato dalla componente grillina» sostiene il parlamentare della Lega. E pure sull’approvvigionamento di munizioni si è registrato una contrazione. «Non solo sui grossi calibri, ma anche per le armi individuali con relativa riduzione delle capacità addestrative» denuncia ancora Ferrari. Michele Nones dell’Istituto affari internazionali evidenziava fin da aprile in un dettagliato studio che «la gestione governativa delle spese per la Difesa sembra essere ormai precipitata in uno stato confusionale». In zona Cesarini il ministro Trenta ha autorizzato l’adesione al programma Camm-Er di rinnovo del nostro sistema di difesa contraerea, che dal prossimo anno diventerà inutilizzabile. Però è stato stanziato appena un milione di euro, che non basterà neppure a sviluppare il progetto. L’aspetto più grave è il disinteresse per le nostre aziende. «Totale desolazione nel supporto all’industria italiana della Difesa» spiega a Panorama chi lavora nel settore. «Ogni volta che le era chiesto di appoggiare o intervenire a livello internazionale la signora non ha mai fatto nulla. Era assolutamente inadeguata al ruolo». Nella Repubblica ceca una nostra azienda stava facendo un’offerta importante. Il ministro della Difesa locale aveva invitato Trenta a Praga, ma lei non ha neppure risposto. Il generale Tricarico sottolinea che «fra i danni irreversibili, ha innescato e prodotto aspettative eccessive per i sindacati dei militari riconoscendoli prima di una legge del Parlamento». L’alto ufficiale in congedo fa parte di una schiera di generali che il 2 giugno si sono rifiutati, in segno di protesta, di presentarsi alla parata militare a Roma per la Festa della Repubblica. E tanti altri hanno preso carta e penna attaccando l’esponente grillina. Una «rivolta» dei generali mai vista prima e condita dai balletti a Lourdes del ministro, dal gesto simbolico Peace & love in Parlamento e dalle entusiastiche congratulazioni alla coppia gay della Marina. La disastrosa gestione della comunicazione della Difesa nel periodo Trenta ha registrato anche il curioso caso del portavoce Augusto Rubei, che aveva praticamente commissariato il ministro per conto dei grillini. Ex collaboratore di varie testate, da Repubblica a Lettera 43, da marzo si era dedicato alla campagna elettorale delle Europee. E il 23 luglio è passato ufficialmente nello staff Di Maio. Fino ad allora riceveva 90 mila euro dalla Difesa, ma voleva di più con un doppio incarico che la Corte dei conti ha stoppato con due pagine di «osservazioni dell’ufficio di controllo» in possesso di Panorama. Adesso che è consigliere del capo grillino alla Farnesina «per gli aspetti legati alla comunicazione» incassa 140 mila euro. Il direttore di Analisi Difesa, Gianandrea Gaiani, ha scritto in un editoriale l’epitaffio più chiaro sulla gestione Trenta durata 14 mesi: «Una visione assai limitata del comparto Difesa, pacifista da oratorio e Casa del popolo, ma oggi quanto meno inadeguata anche solo a comprendere le sfide attuali».
Volo di Stato da 10mila euro, per portare Bonafede a Roma. Lo scorso 27 febbraio il ministro della Giustizia è volato a Roma per la conversione in legge del dl intercettazioni. Per percorrere 200 chilometri ha usato l'aereo di Stato. Francesca Bernasconi, Lunedì 25/05/2020 su Il Giornale. Migliaia di euro per percorrere 200 chilometri. A bordo dell'aereo di Stato, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è volato da Napoli a Roma, lo scorso 27 febbraio. Il ministro avrebbe potuto percorrere in un paio d'ore di macchina la distanza tra le due città, ma avrebbe preferito l'aereo. "È stato necessario ricorrerci perché era in corso alla Camera la votazione finale della conversione in legge del decreto sulle intercettazioni promosso proprio dal ministro", ha spiegato l'ufficio stampa del ministro al Tempo, che ha dato la notizia. Quel giorno, Bonafede stava partecipando al vertice Italia-Francia a Napoli. Ma, prima dello scambio dei documenti per l'illustrazione dell'intesa (poi spiegata in una conferenza stampa congiunta da Conte e Macron), il ministro della Giustizia italiano era volato a Roma, lasciando il vertice in anticipo, alle 18.30 così da poter "essere presente in aula prima del definitivo voto finale sul suo provvedimento previsto da programma dei lavori parlamentari per le 20". Nonostante il tentativo di partecipare ai due incontri, però, Bonafede era riuscito a fallire in entrambi i casi. Infatti, oltre a non portare a termine il vertice italo-francese, era arrivato troppo tardi all Camera, quando erano già state effettuate tutte le votazioni e il giudizio del governo: al ministro non era stata data la parola sul dl intercettazioni. Così, in due mesi, gli italiani avrebbero pagato 10mila euro, per un nulla di fatto. Nessun commento da parte dei grillini, che in passato si erano scagliati duramente contro i leader accusati di aver usato voli di Stato costosi per gli spostamenti. Nel maggio dello scorso anno, l'allora vicepremier Luigi Di Maio aveva criticato la vicenda scoppiata sui presunti voli usati da Matteo Salvini per iniziative elettorali: "Io non ne ho mai preso nessuno- aveva commentato il capo dei 5 Stelle- una volta ho preso un aereo della protezione civile per andare su un luogo colpito dal terremoto, per tutto il resto mi muovo sempre con voli di linea e con Alitalia". Al tempo, lo stesso Bonafede aveva parlato di "stile del Movimento 5 Stelle", facendo intendere il suo distacco dal leader leghista. Ancora prima, i pentastellati avevano puntato il dito contro gli sprechi dell'Air Force Renzi, l'aereo dell'ex presidente del Consiglio, accusandolo anche di aver usato l'aereo di Stato per raggiungere Courmayeur per le vacanze di Natale. Ma ora, secondo quanto riporta il Tempo, sarebbe stato proprio il grillino Bonafede ad aver preferito l'aereo di Stato all'automobile, facendo spendere 10mila euro agli italiani.
Bonafede, l'ex deejay che ha mandato in tilt la Giustizia. Tutte le tappe della carriera politica di Alfonso Bonafede. Gaffes ed errori di un ministro dall'animo giustizialista, inviso ai renziani, e che, ora, rischia di perdere la poltrona. Francesco Curridori, Mercoledì 20/05/2020 su Il Giornale. “Mister Wolf” rischia di perdere la poltrona. Il voto di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, potrebbe mettere in crisi la maggioranza.
Chi è il ministro Alfonso Bonafede. L’avvocato civilista, originario di Mazara del Vallo, che a 19 anni interrompe la carriera da vocalist nelle discoteche siciliane per andare a studiare Giurisprudenza a Firenze, è l’anello di congiunzione che tiene saldo il Conte-bis. È capodelegazione del M5S nel governo da quando, nel gennaio 2020, Luigi Di Maio ha lasciato la guida del Movimento, ma è soprattutto l’uomo che ha portato Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. "L’avvocato del popolo", infatti, è l’ex docente di diritto privato di Bonafede all’Università di Firenze. Ed è proprio nel capoluogo toscano che il giovane avvocato civilista, sposato sin dall’inizio degli anni 2000 con una dei soci del suo studio, Valeria Pegazzano Ferrando, muove i suoi primi passi in politica come militante dei meet-up fiorentini. Nel 2009, l’anno della vittoria di Matteo Renzi, anche il 36enne Bonafede corre per la carica di primo cittadino di Firenze, ottenendo appena l’1,8% dei voti. Un bottino assai misero per l’ex "Deejay Foffo" che non si perde d’animo e, in vista delle Politiche 2013, partecipa alle "parlamentarie" grilline risultando, con 227 voti su 1.300, il più votato della Toscana. Una volta eletto alla Camera, diventa vicepresidente della commissione Giustizia ed è promotore di una legge sulla class action nonché primo firmatario di una proposta di legge sul "divorzio breve" che confluirà nella norma approvata nel 2015. In poco tempo scala le vette del M5S entrando dapprima a far parte del gruppo di coordinamento dei comuni amministrati dai pentastellati e, poi, formando insieme a Riccardo Fraccaro il duo che avrebbe dovuto supportare il sindaco di Roma, Virginia Raggi, dopo la fallimentare esperienza del "mini-direttorio".
Le gaffes di Bonafede. Alle politiche del 2018 viene candidato alla Camera nel collegio uninominale Toscana 01 dove, con il 19% si posiziona terzo, ma viene "ripescato" nel collegio plurinominale Toscana 03. Lega ed M5S, dopo mesi di trattative, raggiungono un accordo sul nome di Conte il quale ricambia Bonafede nominandolo Guardasigilli. Da quel momento in poi ha inizio una serie interminabile di gaffes. Nel gennaio 2019 Bonafede gira e diffonde sui social un video sull’arresto di Cesare Battisti e viene subissato da critiche in quanto, con tale iniziative il ministro contravverrebbe all’articolo 114 del codice di procedura che vieta la "pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica". Bonafede, insieme all’allora Ministro dell'Interno Matteo Salvini, viene indagato per abuso d'ufficio, ma poi la procura di Roma archivia il caso. Sempre nello stesso mese, parlando dall’Aula di Montecitorio nel corso della presentazione della relazione annuale al parlamento sull'amministrazione della giustizia, Bonafede con piglio deciso dichiara:“Non c’è bisogno di raccontare la corruzione; la corruzione si vede a occhio nudo, si respira nell’aria; quando cade un ponte, una casa, c’è sempre dietro una storia di mazzette e di risparmio sui materiali’’. E ancora: “Ogni volta che un giovane è costretto a scappare dal nostro Paese è perché lo considera un Paese corrotto’’. D’altronde cosa ci poteva aspettare dall’autore della legge Spazzacorrotti? Una norma, che come disse Raffaele Cantone, è “scritta così male che rischia di alimentare la corruzione” tanto che la Consulta l’ha dichiarata parzialmente incostituzionale. Nel dicembre 2019 prima, ospite della trasmissione Porta a Porta, Bonafede dichiara candidamente: “I reati dolosi non sempre sono facilmente dimostrabili e quindi diventano colposi, con una conseguente riduzione dei tempi della prescrizione”. Un errore imperdonabile per un ministro della Giustizia che, accortosi dell’errore, si precipita a pubblicare un chiarimento su Facebook: “Sebbene i temi della giustizia siano tantissimi e tutti concentrati in queste settimane – scrive in un post -, alcuni addetti ai lavori preferiscono dedicarsi al taglio di 10 secondi di un'intervista serratissima durata 1 ora e 10 minuti per sottolineare l'oggettiva scorrettezza giuridica di una mia frase”. E ancora: “L'obiettivo era evidentemente quello di spiegare in maniera semplice ai cittadini le conseguenze (sulla prescrizione) della configurazione di una condotta in termini colposi o dolosi. D'altronde – prosegue il ministro -, ci sono da sempre interi processi che viaggiano sul confine tra dolo eventuale e colpa cosciente”. Ed è proprio la prescrizione il tema di scontro che, prima dell’emergenza coronavirus, infiammava la maggioranza con i renziani che erano pronti a far cadere il governo su questo tema. Una riforma che, come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio, è stata definita “mostruosa” da Carlo Nordio, “uno strabismo legislativo” da Gherardo Colombo e che è stata tacciata di “populismo penale” dal presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. La riforma, così com’è stata concepita da Bonafede, impone il blocco della prescrizione in caso di condanna in primo grado, ma il ministro trascura il fatto che, come ha evidenziato il forzista Enrico Costa, molti processi vanno in prescrizione già nella fase delle indagini preliminari. È il gennaio 2020 quando il ministro Bonafede ad Otto e mezzo afferma che “gli innocenti non finiscono in carcere", generando l’immediata smentita degli altri ospiti che gli ricordano che dal 1992 al 2018 27 mila detenuti sono stati risarciti per essere stati ingiustamente carcerati. Davanti alle critiche pervenute anche dalla giornalista de La7 Gaia Tortora, figlia del conduttore Enzo che venne incarcerato per un errore giudiziario, Bonafede si è difeso: “Ho specificato che gli ‘innocenti non vanno in carcere’ riferendomi evidentemente e ovviamente, in quel contesto, a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’appunto, ‘confermata’ dallo Stato)”.
Gli errori del ministro Bonafede. Ma il ministro negli ultimi tempi è finito nell’occhio del ciclone per aver commesso una serie imperdonabile di errori. Il primo è quello di aver sconfessato se stesso, inserendo nel decreto “Cura Italia” una sorta di 'svuotacarceri' in quanto ha dato la possibilità ai detenuti che avessero ancora 18 mesi di carcere di scontare la propria pena con i domiciliari. Uno ‘svuotacarceri’ che, come ha confermato il ministro, ha riguardato circa 6mila persone eppure, fino a quel momento, si era sempre detto contrario a questa “comoda scorciatoia”. Decisamente poca cosa rispetto a quanto rivelato dal pm Nino Di Matteo nel corso di una puntata di Non è l’arena in cui si parlava delle dimissioni di Francesco Basentini, il capo del Dap ritenuto responsabile di non aver impedito che venissero concessi i domiciliari ad alcuni boss come Franco Bonura e Pasquale Zagaria. Di Matteo sostiene che Bonafede, nel 2018, dopo avergli promesso la direzione del Dap, aveva improvvisamente cambiato idea, probabilmente per paura della reazione di alcuni boss mafiosi che si trovavano in carcere. Bonafede nega questa versione dei fatti, ma non si spiega perché, dopo le dimissioni di Basentini (inserito dopo pochi giorni come esperto in una delle task force del governo) non abbia chiamato proprio Di Matteo a svolgere questo delicato ruolo. Il ministro ha soltanto preparato un decreto che obbliga i magistrati di sorveglianza di rivalutare periodicamente la situazione degli scarcerati. “Nessuno può pensare di approfittare dell'emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus per uscire dal carcere”, dichiara Bonafede che avrebbe forse potuto uscire da una situazione così delicata nominando finalmente Di Matteo a capo del Dap. Come successore di Basentini, invece, il Guardiasigilli nomina Bernardo Petralia che, ora, rischia di dover lasciare il suo incarico a causa di alcune conversazioni compromettenti avute con il magistrato Riccardo Palamara. Ma quelle di Basentini non sono le uniche dimissioni illustri. Pochi giorni fa, anche il capo di Gabinetto del ministero della Giustizia Fulvio Baldi ha lasciato il suo incarico, ufficialmente per motivi personali, ma, in realtà, anche in questo caso hanno pesato alcune conversazioni con Palamara intercettate dalla Guardia di Finanza e pubblicate dal Fatto quotidiano. A dicembre, infine, si era dimesso il capo degli ispettori del ministero, Andrea Nocera, finito sotto indagine per corruzione.
Dall'anticasta alla "casta" sfrenata: l'evoluzione del ministro Bonafede. Giuseppe De Lorenzo il 7 Febbraio 2020 su Il Giornale. Non tutti i ministri della Giustizia hanno goduto di questo privilegio (Orlando, per dire, è rimasto nella dimora privata) e Mastella rinunciò pure al costoso progetto per la tutela personale. E poi, non doveva essere la gente la scorta dei pentastellati? Palazzina di S. Paolo alla Regola, a due passi dal Ministero di Giustizia. Si trova qui “l’ alloggio riservato” ad Alfonso Bonafede, Guardasigilli e capo delegazione di quel Movimento che aveva fatto della lotta alla casta il proprio grido di battaglia. Un locale in pieno centro a Roma, in una bella struttura storica e arredato appositamente per il ministro grillino. La sistemazione emerge da sei atti firmati dal capo di Gabinetto Fulvio Baldi. A giugno 2018, il capo della Segreteria di Bonafede invia una richiesta per “l’ allestimento dell’ alloggio riservato al ministro con arredi idonei a consentire il pernottamento e l’ utilizzo nell’ arco completo della giornata”. L’ importo per il solo mobilio è di 4.390,40 euro più iva per un letto matrimoniale, un comò, un paio di comodini, due lampade, un divano e un tavolo con quattro sedie. Poco tempo dopo la “cameretta” ministeriale viene completata con l’ aggiunta di piccoli elettrodomestici: un fornello a induzione (85 euro), un forno a microonde (120 euro) e un bollitore (78,50 euro). Diverso, invece, il discorso per 4 televisori: il costo complessivo a bilancio risulta di 2.315 euro oltre iva, ma comprende anche due apparecchi per le segreterie dei sottosegretari. Storia simile per due frigobar da ufficio, pagati 923,29 euro ed assegnati uno al capo dell’ Ufficio legislativo e l’ altro all’ alloggio del ministro. A completare l’ arredamento, infine, le tende oscuranti da 2.370 euro e la biancheria da bagno, da letto e da tavola per 811,40 euro. Totale degli acquisti: 11.093,59 euro. Più iva. Dopo il “caso Trenta” e le ristrutturazioni di Conte a Palazzo Chigi, un nuovo appartamento rischia così di creare imbarazzo al M5S proprio nel bel mezzo dello scontro sulla prescrizione. Se l’ abitazione di servizio non è di per sé uno scandalo, resta da capire se sia in linea con l’ ideale pauperista del Movimento. Lo staff di Bonafede fa sapere che il locale di circa 40 mq era stato ristrutturato in passato e già “destinato a uso foresteria esclusivo del ministro“. Lui ha solo aggiunto alcuni arredi per utilizzarlo come “punto di appoggio” a Roma, visto che normalmente fa il pendolare da Firenze. Una decisione che sarebbe dettata da motivi di “maggior sicurezza” ma anche di “economicità” perché il soggiorno in albergo, causa l’ impiego di 15 agenti, comportava “grandi spese per la garanzia della sicurezza”. Bene. Eppure va detto che non tutti i ministri della Giustizia hanno goduto di questo privilegio (Orlando, per dire, è rimasto nella dimora privata) e Mastella rinunciò pure al costoso progetto per la tutela personale. E poi, non doveva essere la gente la scorta dei pentastellati ? Ma non è solo questo il punto. Ogni mese, infatti, dei rimborsi che gli spettano da parlamentare, Bonafede trattiene 3mila euro forfettari che, regolamento M5S alla mano, servono per “le spese generali e di diaria“ incluse quelle di soggiorno, vitto, trasporti e telefoniche. Chi abita a Roma e provincia, però, dovrebbe conservarne solo 2mila. Fa così, per esempio, Paola Taverna che abita nella Capitale. La domanda è: una volta ottenuto l’ alloggio di servizio, il Guardasigilli non avrebbe forse dovuto rinunciare ad altri mille euro al mese? “Lui risiede a Firenze e ha restituito 309.591,62 euro“, taglia corto lo staff. Bonafede, a quanto pare, è convinto di poter dormire sonni tranquilli. Magari tra i due comodi guanciali dell’ alloggio riservato. (Ha collaborato Elena Barlozzari)
Vincenzo Esposito per il “Corriere del Mezzogiorno - Corriere della Sera” il 16 dicembre 2019. Il Consiglio dell' Ordine degli avvocati di Napoli chiede la presentazione di una mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, da parte dei togati parlamentari e, ovviamente le dimissioni immediate del guardasigilli. La presa di posizione arriva dopo le dichiarazioni rese da Bonafede durante la trasmissione Porta a Porta . Il ministro aveva sottolineato che «quando del reato non si riesce a dimostrare il dolo e quindi diventa un reato colposo, i termini di prescrizione sono molto più bassi». Per gli avvocati una «bestemmia» giuridica, un' affermazione fuori luogo che «denota la scarsa preparazione del ministro». Il Consiglio forense di Napoli è il secondo in Italia a chiedere le dimissioni di Bonafede, giovedì la stessa richiesta era arrivata dai togati di Palermo. Secondo gli avvocati le affermazioni fatte dal guardasigilli «sono del tutto errate dal punto di vista giuridico, e sono state poste a sostegno dell' opportunità della sciagurata riforma della prescrizione, considerato che ingenerano pericolosa confusione nell' opinione pubblica e che l' avvocatura nutre il fondato timore che le riforme delle regole processuali e sostanziali in discussione siano basate sulla errata percezione e conoscenza degli istituti giuridici». Il presidente dell' Ordine di Napoli, Antonio Tafuri non va per il sottile: «La delicatezza del tema - insiste - richiede alta competenza e sensibilità giuridica e non il ricorso ad argomentazioni metagiuridiche». Per questa ragione si chiede «la proposizione di mozione di sfiducia nei confronti del ministro della giustizia Alfonso Bonafede». A dare man forte ai togati l' Organismo congressuale forense che ha scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «Quella del ministro è stata una frase incredibile - spiega Giovanni Malinconico, coordinatore dell' Ocf - che suscita moltissime perplessità e sulla quale si potrebbe soprassedere, se in gioco non ci fossero i diritti fondamentali dei cittadini e secoli di civiltà giuridica». Il primo a rispondere alla «mozione» degli avvocati napoletani è stato Edmondo Cirielli, parlamentare campano, avvocato e questore della Camera. «Bonafede si dimetta- ha detto - non è adeguato a fare il ministro. Per il parlamentare di FdI quelle del ministro sono «parole sconcertanti e frasi sconclusionate che dimostrano la sua totale ignoranza giuridica e inadeguatezza nel delicatissimo ruolo ministeriale». Poi ha concluso: «Appoggio pienamente la posizione assunta dall' Organismo Congressuale Forense, che ha chiesto un intervento ad horas del premier Conte, e sostengo convintamente le richieste di dimissioni giunte dai Consigli degli Ordini degli avvocati di Napoli e Palermo». La difesa del ministro è arrivata attraverso il suo profilo Facebook. «Sebbene i temi della giustizia siano tantissimi e tutti concentrati in queste settimane, alcuni addetti ai lavori preferiscono dedicarsi al taglio di 10 secondi di un' intervista serratissima durata 1 ora e 10 minuti per sottolineare l' oggettiva scorrettezza giuridica di una mia frase. L' obiettivo era evidentemente quello di spiegare in maniera semplice ai cittadini le conseguenze (sulla prescrizione) della configurazione di una condotta in termini colposi o dolosi. D' altronde, ci sono da sempre interi processi che viaggiano sul confine tra dolo eventuale e colpa cosciente». Ma per il presidente Tafuri la giustificazione è peggiore del danno fatto perché «reitera argomentazioni infondate e giuridicamente scorrette».
L' Ordine degli avvocati di Palermo chiede dimissioni del ministro Bonafede. Il Corriere del Giorno il 13 Dicembre 2019. Il ministro della giustizia ieri sera a “Prima Porta” è incappato in una grave gaffe sulla differenza tra reato doloso e colposo: oggi il consiglio dell’ordine degli avvocati di Palermo, uno dei più numerosi in termini di iscritti ed importanti a livello nazionale, ha chiesto ufficialmente le sue dimissioni. Non si placano le polemiche sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo la gaffe di ieri durante la puntata di “Porta a Porta” condotta da Bruno Vespa: a chiederle nelle ultime ore non sono stati soltanto gli avversari politici del guardasigilli. La richiesta in tal senso è stata avanzata dall’ Ordine degli Avvocati di Palermo, uno dei più numerosi in termini di iscritti ed importanti a livello nazionale. Come riporta Adnkronos, in una nota, gli avvocati del capoluogo siciliano hanno chiesto un passo indietro “immediato” da parte di Alfonso Bonafede dopo le sue dichiarazioni di ieri sera nella popolare trasmissione . Il riferimento, in particolare, è alla frase rilasciata dal ministro secondo cui “quando il reato non si riesce a dimostrare il dolo e quindi diventa un reato colposo ha termini di prescrizione molto più bassi”. Una affermazione “del tutto errata dal punto di vista tecnico-giuridico” che ha fatto letteralmente infuriare gli avvocati italiani. Secondo l’Ordine degli Avvocati di Palermo la “gaffe” del Ministro è molto grave in quanto le dichiarazioni rilasciate dal ministro “sono del tutto errate dal punto di vista tecnico-giuridico”. Ma gli avvocati palermitani, nel chiedere le dimissioni di Bonafede, non hanno messo in risalto soltanto il problema relativo all’opportunità di un guardasigilli capace di scivolare in elementi basilari della conoscenza del diritto. L’Ordine degli Avvocati di Palermo piuttosto ha puntato il dito sul fatto che la frase incriminata è stata pronunciata nel tentativo, da parte del guardasigilli, di spiegare il senso politico e tecnico dell’annunciata riforma sulla prescrizione: “Dichiarazioni del genere – si legge nella nota – ingenerano pericolosa confusione nell’opinione pubblica e l’avvocatura nutre il fondato timore che le riforme delle regole processuali e sostanziali, in ambito civile e penale, attualmente in discussione, siano basate sulla errata percezione e conoscenza degli istituti giuridici”. La richiesta di dimissioni è stata inviata anche al Consiglio Nazionale Forense, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, spiegando le ragioni sopra espresse. Nella giornata odierna, la gaffe di Bonafede ha avuto risvolti politici non indifferenti, con buona parte delle opposizioni che hanno puntato il dito sullo “scivolone” tecnico del ministro: “Un pessimo esempio per tanti giovani studenti che proprio oggi stanno sostenendo la terza prova dell’esame di avvocato – ha chiosato il senatore Alessandro Gallone di Forza Italia – Se qualcuno di questi ragazzi scrivesse una simile stupidaggine verrebbe giustamente bocciato. Mentre Bonafede è addirittura ministro, rappresentante di una realtà triste, inefficace, dannosa che noi auspichiamo termini quanto prima”. Sul caso è stato registrato anche l’intervento ironico di Vittorio Sgarbi, deputato e critico d’arte: “Il ministro della Giustizia “Malafede” ci ricorda ogni volta che parla – ha scritto Sgarbi – il suo passato nelle balere di Mazara del Vallo con il nome d’arte di “Alfonsino Dj”.
Riforma giustizia, la beata ignoranza di Bonafede che la vuole demolire. Iuri Maria Prado il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. È quel che si dice un salto di qualità. Perché il ministro Bonafede (ministro, santo cielo…) si era bensì esibito in prove plurime di sconsolante inadeguatezza, per esempio sciogliendo le briglie al suo italiano accidentato e mandandolo a far danno su qualsiasi argomento, in coppia sfondona con l’altra vergogna nazionale, l’avvocato del popolo che non c’è verso di tirargli fuori una frase libera da qualche insulto alla decenza grammaticale; o quando si metteva a far gara di travestimento con il ministro dei pieni poteri contro le zingaracce, e vestito da secondino filmava e metteva in musica l’arrivo del condannato da far marcire in galera. Ma questa volta è peggio. Disinibito non più solo nel quotidiano esercizio di esemplare macellazione della nostra lingua, o nel mettersi le penne oscene di quello che fa la ruota davanti alla turba forcaiola e compiaciuto si offre di appagarne la pretesa di sangue, questa volta il signor ministro della Giustizia si è lasciato andare a considerazioni – per dirla con l’Ordine degli avvocati di Palermo, che giustamente gli ha fatto le pulci – «del tutto errate dal punto di vista tecnico-giuridico». È una definizione soffice, e comprensibilmente protocollare, per quanto anteposta a una inflessibile richiesta di dimissioni: perché il ministro Bonafede, che sta apparecchiando una riforma gravemente rivolta a frantumare il poco residuo di civiltà giuridica di questo paese, ha dato prova in questa occasione (l’altra sera, da Bruno Vespa) di non conoscere nemmeno la differenza tra dolo e colpa. Un’ignoranza inescusabile già se a dimostrarla è una matricola un po’ zuccona, ma che rappresenta un’onta insopportabile per l’avvocatura, per la Nazione, per le istituzioni della Repubblica se si celebra nelle dichiarazioni di un parlamentare col potere di governo in materia di giustizia. Non si dice che un ministro debba per forza essere persona di illustre dottrina, ma qui si discute della riprova ennesima di una inettitudine sfrenata, e che pretende di mettere sigilli su cosine da nulla come i diritti delle persone, la libertà degli individui. Roba che dovrebbe aver speranza di non essere amministrata da chi, letteralmente, non sa nemmeno di che cosa parla. Né si può dire che la beata ignoranza di cui fa mostra il ministro Bonafede determini qualche sua incapacità, che cioè quel suo non saper nulla neppure dei principi elementari delle cose sottoposte al suo governo si ponga a ritenzione della sua disinvoltura riformatrice: anzi, quell’assenza di cognizione gli spiana davanti un deserto su cui posare i binari di una giustizia ferrata, coi procuratori della Repubblica officiati a capitreno. E non si sa se tutto questo faccia con dolo o con colpa: ma lo fa, e tanto basta ad alimentare un diritto di denuncia che vorremmo – questo sì – senza prescrizione.
M5s, l'ex ministro Fioramonti lascia il Movimento: "Troppi attacchi dai Cinque stelle, delusione è un sentimento diffuso". La decisione di approdare al gruppo misto dopo le dimissioni. Annalisa Cuzzocrea il 30 dicembre 2019 su La Repubblica. Lorenzo Fioramonti lascia il Movimento. L'ex ministro dell’Istruzione, che alla vigilia di Natale ha abbandonato il suo incarico per non aver ottenuto i 3 miliardi di investimenti richiesti su scuola e università, ha deciso di abbandonare il percorso intrapreso con i 5 stelle. Su Facebook ha pubblicato le sue motivazioni: sopra a tutte, la delusione provata davanti al trattamento ricevuto dai suoi stessi colleghi per aver mantenuto la promesso che aveva fatto - in un'intervista a Repubblica - proprio nel suo primo giorno da ministro: investimenti sul futuro, sui giovani, sulla formazione, sulla sicurezza, o lascio. Quei soldi in manovra non sono arrivati, Fioramonti si è dimesso, e la reazione del Movimento 5 stelle è stata una serie di accuse, a partire da quella di non aver restituito la parte dello stipendio che i parlamentari M5S si sono impegnati a versare in un fondo da indirizzare volta per volta a vari scopi. "Il trattamento peggiore - dice il deputato - l'ho ricevuto dal Movimento 5 stelle, che non ha solo criticato le mie scelte, ha colpito la mia persona". Dice di aver incontrato molte persone con cui intende portare avanti battaglie cruciali, come quelle sull'ambiente, ma non conferma l'idea di un nuovo gruppo in Parlamento: "Parole al vento per riempire i giornali". Approda al misto, "a titolo puramente individuale". "Il Movimento 5 stelle - spiega ancora Fioramonti - mi ha deluso molto. E' come se quei valori di trasparenza, democrazia interna e vocazione ambientalista che ne hanno animato la nascita si fossero persi nella pura amministrazione, sempre più verticistica, dello status quo".
(LaPresse il 27 dicembre 2019.) - "Non possono mancare le solite polemiche sui rimborsi. In tanti, nel Movimento, abbiamo contestato un sistema farraginoso e poco trasparente di rendicontazione". Così Lorenzo Fioramonti, ministro dimissionario dell'Istruzione. "Dopo aver restituito puntualmente per un anno, come altri colleghi, ho continuato a versare nel conto del Bilancio dello Stato e le mie ultime restituzioni saranno donate sul conto del Tecnopolo Mediterraneo per lo Sviluppo Sostenibile, un centro di ricerca pubblico che - da Viceministro prima e da Ministro poi - ho promosso a Taranto, una città deturpata da un modello di sviluppo sbagliato. Ed invito anche altri parlamentari 5 Stelle a fare lo stesso, non appena il conto sarà attivo", spiega Fioramonti. "Credo che sia la prima volta nella storia del nostro Paese che un Ministro della Repubblica venga criticato perché ha fatto ciò che aveva annunciato". Così Lorenzo Fioramonti, ministro dimissionario dell'Istruzione. "Io sono così: se una cosa la dico, poi la faccio. Per questo ho lottato senza sosta, anche da Ministro, per porre la questione nel Governo anche con riferimento alla scuola - spiega Fioramonti - Forse non dovrebbe neanche stupire che mi giungano critiche da partiti i cui leader avevano promesso di abbandonare la politica in caso di sconfitta elettorale, ma sono ancora saldamente al loro posto". "Quello che mi stupisce, però, è che tante voci della leadership del M5S mi stiano attaccando in questo momento. E per che cosa? Per aver fatto solo ciò che ho sempre detto. Mi sarei in realtà aspettato il contrario: sarebbero dovuti essere loro a chiedermi di onorare la parola data favorendo le dimissioni, invece di chiedermi di fare quello che i politici italiani hanno sempre fatto: finta di niente", aggiunge Fioramonti.
Governo, il ministro Fioramonti si dimette con una lettera al premer: pochi fondi per l'istruzione. Il Corriere del Giorno il 26 Dicembre 2019. Le dimissioni sono state confermate in tarda serata da Palazzo Chigi. L’esponente del Movimento5Stelle, secondo alcune indiscrezioni, vorrebbe costituire un gruppo autonomo alla Camera a sostegno del premier Conte. Al suo posto si parla del “grillino” Nicola Morra. ROMA – Le fibrillazioni nel governo non si placano neanche nel giorno di Natale . Sono arrivate come anticipate le dimissioni irrevocabili del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, vociferate per tutta la sera del 25 e confermate da Palazzo Chigi poco dopo le 23. Fioramonti ha consegnato la sua lettera di dimissioni al premier Conte. Una decisione quella presa del responsabile dell’Istruzione che circolava da giorni ed era legata all’approvazione della manovra, a seguito del mancato stanziamento dei fondi attesi per l’Istruzione. Secondo le indiscrezioni nella sua lettera Fioramonti avrebbe spiegato che secondo lui bisognava rivedere l’IVA, anche lasciando l’aumento, per incassare i 2-3 miliardi che chiedeva per il suo ministero e che di fronte al blocco dell’aumento ha capito che non c’era volontà di fare maggiore gettito e dunque non ci sono più le condizioni per andare avanti. Lo stesso Fioramonti era stato esplicito sulla propria volontà di un passo indietro in caso di fondi insufficienti per scuola, università e ricerca. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, intervistato dal quotidiano La Repubblica, aveva ammesso: “Abbiamo inserito circa due miliardi aggiuntivi per scuola, università e ricerca. Avrei voluto destinare ancora più risorse a questi settori fondamentali. L’impegno è per la prossima manovra“. Fioramonti andrebbe a costituire un gruppo alla Camera a sostegno del premier come embrione di un nuovo soggetto politico. Nei giorni scorsi sono circolati i nomi di altri deputati che potrebbero seguirlo, tra cui Nunzio Angiola e Gianluca Rospi, ma anche l’ex M5s Andrea Cecconi. In poche parole, di fatto, si moltiplicano le voci su possibili gruppi “contiani” nei due rami del Parlamento. Per la successione al ministero dell’Istruzione il nome in pole position è quello di Nicola Morra, attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia.
Luca Telese per “la Verità” il 27 dicembre 2019. La lettera di addio, per via di un accordo con il premier, doveva rimanere riservata fino a dopo le feste. E così, nello staff del ministro si sono convinti che la fuga di notizie sia stata alimentata da fonti del M5s per bruciare i ponti dietro le spalle. Ma perché Lorenzo Fioramonti se n' è andato? La scena era così chiara che adesso, intorno alle dimissioni del ministro, hanno preso ad impazzare i retroscena più ardui. Tutti si chiedono quale sia il vero motivo del grande rifiuto, se Fioramonti stia seguendo un piano, e se sì, quale. Nel M5s molti dopo le dimissioni lo vedono come un potenziale anti Di Maio, il Corriere della Sera lo immagina già come «capogruppo di una pattuglia di fuoriusciti che fondano un nuovo partito», nel governo c' è chi crede che l' addio sia solo un modo per rilanciare la propria carriera fuori dalla politica. Secondo Dagospia, il professore di economia è l' apripista di un nuovo partito legato a Giuseppe Conte (che avrebbe come regista Goffredo Bettini). Voci lo proiettano come leader di un partito ambientalista. La verità è che nessuno sa ancora nulla e che l' ex ministro in questi giorni si è ritirato in campagna con la famiglia annunciando che non farà interviste (cosa che invece di diminuire i sospetti lì alimenta: cosa nasconde questo silenzio?). L' unica cosa indubitabile è che Fioramonti fino ad ora ha fatto esattamente quello che fino a ieri aveva detto e che, sempre fino a ieri, aveva creduto indispensabile. Solo il successo raccolto sui social dopo le dimissioni ha alimentato i retroscenismi più esasperati. Questo non significa che in ognuna delle ipotesi che abbiamo ricordato non ci siano - come vedremo - degli elementi di verosimiglianza. E che allora, anche per poter capire gli scenari che si possono aprire, occorre ricostruire gli elementi certi. Poco più di un anno fa in una intervista alla Verità, e a chi scrive (lui era ancora viceministro alla Pubblica istruzione) Fioramonti illustrò per la prima volta il suo piano: «Lei sta parlando con un viceministro condizionato»: aveva esordito così quando ci avevo parlato la prima volta, nella sua stanza del ministero a viale Trastevere. Il futuro ministro, era già esasperato per i mancati finanziamenti sulla materia di sua competenza (l' Università) e aveva posto questo aut aut: «Ho preso una decisione: resterò al governo solo se nella prossima manovra ci sarà 1 miliardo in più per l' università e la ricerca». Diventato ministro, invece di recedere, alzò ulteriormente l' asticella: «Ne servono altri 2 per la scuola». Durante una seconda intervista gli avevo chiesto se fosse serio. E lui mi aveva risposto: «Più che serio. Sono fermamente determinato. Vedrà». Fioramonti - off the record - spiegava questo proposito con la propria storia professionale: un concorso negato in Italia («Con il suo curriculum se si presentasse metterebbe in difficoltà chi aspira a quel posto», gli aveva detto il suo professore), e poi una fortuna accademica guadagnata in giro per il mondo dopo aver lavorato e insegnato economia in Germania, in Venezuela, in Inghilterra in Francia e - soprattutto - in Sudafrica. Era stata proprio l' università di Pretoria la sua fortuna, il luogo dove a soli 35 anni gli erano stati affidati 50 milioni di dollari per realizzare un nuovo campus da zero (e ci rideva su: «Io, ex dottorando precario in Italia, ho selezionato e assunto 37 persone in un paese straniero»). Padre medico di Pronto soccorso, madre insegnante, nato e cresciuto nel quartiere ultraperiferico di Tor Bella Monaca («Ogni giorno andando a scuola attraversavo prato di siringhe lasciati dai tossici») il futuro ministro era diventato un caso dopo aver pubblicato Gross domestic problem, un libro di successo sui malfunzionamenti del Pil (testo in lingua originale inglese). Precettato da Di Maio dopo una presentazione del libro, trasformato nel dominus del governo ombra (ha reclutato lui Pasquale Tridico, oggi all' Inps), Fioramonti non ha mai nascosto la sua indipendenza, diventando il primo dirigente di primo piano a toccare il tema tabù della Casaleggio e associati. Lo aveva fatto in una clamorosa intervista a Sette che ha segnato la sua successiva rottura (non resa pubblica) con Luigi Di Maio: «Mi chiedo: che relazione c' è tra noi e un' azienda privata che non si capisce a quale titolo gestisce parte delle nostre risorse e che si inserisce nell' agenda politica?». Chiedeva l' intervistatore, Vittorio Zincone: «Si riferisce alla Casaleggio associati?». E lui: «Va benissimo un server provider che ci fa il sito web, ma questa situazione dimostra che il problema più che la leadership, è l' organizzazione del Movimento». Nel M5s era come bestemmiare in chiesa. In parallelo, però, il ministro continuava la sua battaglia sui fondi per l' istruzione: «I soldi stanziati nelle ultime due manovre non bastano. Negli ultimi vent' anni, chi ci ha preceduto ha tagliato in ogni forma e ogni modo. Solo la Grecia ha fatto peggio. C'è bisogno di un intervento choc per recuperare il terreno perso». Ed ecco perché alcuni retroscena di queste ore sembrano privi di fondamento: 1) Fioramonti non conosce Bettini (presunto stratega del suo nuovo partito); 2) non vorrebbe uscire dal M5s (ma si è messo contro la Casaleggio); 3) non ha strutture sui territori per un nuovo partito. Se venisse cacciato, tuttavia, non abbandonerebbe la politica. Anche per questo, fino a ieri, il suo dissenso veniva ridotto ad una alzata di spalle: la logica di autoconservazione della politica portava al mantenimento del laticlavio ministeriale. Ma ha un carattere duro, una formazione anglosassone, nessuna inclinazione alla trattativa politica. I suoi detrattori dicono che non è andato mai a battere cassa al Mef, facendo zero lavoro di corridoio e molte offensive mediatiche. Tuttavia - con uno sforzo creativo - Fioramonti avrebbe potuto far valere 1,5 miliardi del nuovo contratto (già deciso con il precedente governo) sommarli ai 100 milioni per il sostegno e i soldi per l' Agenzia spaziale e farli valere come un raggiungimento del suo obiettivo. Non ha voluto farlo, e ieri è stato sommerso da una enorme ondata di simpatia social. Un ritorno insperato per la sua mossa del cavallo. Ma, soprattutto, un segnale di allarme per la popolarità del governo.
Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano il 27 dicembre 2019. Immagino che Lorenzo Fioramonti si sentirà molto fico, dopo aver rassegnato le dimissioni da ministro minacciate prim' ancora di giurare da ministro. Vuoi mettere un politico italiano che dice "me ne vado" e poi se ne va per davvero: roba mai vista, da Guinness dei primati. Che fegato, che attributi, che coerenza. Chapeau, applausi, standing ovation. Se poi uscirà pure dai 5Stelle per fare un suo partitino, o un suo gruppettino, e dare un tetto e un pasto caldo agli ultimi Solgenitsin pentastellati, gli faranno la ola in tutte le vie e le piazze d' Italia. Lui sì che voleva salvare la scuola, l'università e la ricerca: infatti chiedeva 3 miliardi subito, prendere o lasciare, e quei bifolchi di Conte e degli altri ministri, in tre mesi, ne hanno trovati solo 2 (più i fondi del decreto Scuola per 50 mila nuovi assunti e altri stanziamenti), promettendo il resto e forse anche di più nel 2020, quando i risparmi da spread e gli extragettiti fiscali da manette agli evasori consentiranno una legge di Bilancio meno tirata di questa. Ma lui niente, non s' è fatto incantare, eh no. Riconosce che "possiamo essere fieri di aver raggiunto risultati importanti: stop ai tagli, rivalutazione degli stipendi degli insegnanti (insufficiente ma importante), copertura delle borse di studio per tutti gli idonei, approccio efficiente e partecipato per l' edilizia scolastica, sostegno ad alcuni enti di ricerca che rischiavano di chiudere e, infine, introduzione dell' educazione allo sviluppo sostenibile in tutte le scuole (la prima nazione al mondo a farlo)", ergo "il governo può fare ancora molto e bene per il Paese se riuscirà a trovare il coraggio di cui abbiamo bisogno". Ma, anziché coltivare le sue buone ragioni e mettere la sua competenza e il suo curriculum (che sono ottimi) al servizio del governo, lavorare in squadra per trovare nuove risorse, fidarsi del premier che gliele ha promesse, insomma fare politica per il bene della cultura e non della sua immagine, scende qui. Aveva detto 3 miliardi non trattabili e subito, ergo prende cappello e se ne va. Che pezzo d' uomo. Ora promette che "il mio impegno per la scuola e per le giovani generazioni non si ferma qui, ma continuerà - ancora più forte - come parlamentare": sarà difficile, visto il suo tasso di assenteismo da record mondiale (presente all' 1,37 delle votazioni, assente o in missione nel 98,63). Medita un gruppo parlamentare di "contiani" all' insaputa di Conte e dopo aver mollato il governo Conte. Critica giustamente il ruolo della Casaleggio Associati e della piattaforma Rousseau, ma non spiega perché li scopra solo ora, e non quando fu candidato nel 2018 col seggio assicurato. Diamo una notizia a Lorenzo nel paese delle meraviglie: la Casaleggio e Rousseau c' erano e contavano anche prima che arrivasse lui. E gliene diamo pure un' altra: anche lui, due anni fa, firmò l' impegno a devolvere parte dello stipendio a Rousseau e, in caso di uscita dal M5S , a dimettersi da parlamentare e a pagare una multa di 100 mila euro. Invece risulta avere 70 mila euro di versamenti arretrati e non pare affatto intenzionato a lasciare il seggio e a pagare la multa. Il che indebolisce un tantino la sua sbandierata coerenza. E pure le sue meritorie critiche alla linea Di Maio e all' alleanza con Salvini che ha "snaturato" il M5S . Anche perché - terza notizia - nel governo M5S-Lega il viceministro dell' Istruzione, Università e Ricerca era un certo Lorenzo Fioramonti. Che si guardò bene dal dimettersi, anche se l'anno scorso per il suo settore i 3 miliardi non c' erano, e neppure i 2 di quest' anno. Già: l' acerrimo nemico del governo gialloverde s'è dimesso dal governo giallorosa. Forse non ha capito la differenza fra coerenza e ottusità. Un ministro coerente non è quello che lancia ultimatum agli altri fra un viaggio aereo e l' altro, poi atterra a Roma, va al ministero e sbatte la porta: è quello che indica i propri obiettivi e poi fa gioco di squadra per ottenerli, con la necessaria gradualità e gli inevitabili compromessi. A chiedere 3 miliardi sull' unghia per far bella figura son buoni tutti: poi però bisogna spiegare come reperirli e costruire su quel metodo il consenso nella maggioranza. Non potendo stampare moneta nottetempo, come La banda degli onesti di Totò e Peppino, le risorse si trovano tagliando le spese inutili o aumentando le imposte. La spending review era impossibile, per un governo nato a settembre che doveva presentare il bilancio a novembre, salvo ricorrere ai tagli lineari in ogni ministero, che di solito segano le spese utili (per incidere sugli sprechi occorrono anni). Infatti Fioramonti chiedeva le giuste tasse di scopo, Sugar Tax e Plastic Tax, che ha contribuito a sputtanare con le gaffe sulle merendine: purtroppo non c' erano i voti per approvarle tutte e subito, anche per via delle proteste dei produttori emiliano-romagnoli, che non si è voluto regalare a Salvini alla vigilia delle Regionali. Un ministro serio e responsabile oltreché competente (e Fioramonti purtroppo s' è rivelato solo la terza cosa, non la prima e la seconda) avrebbe atteso qualche altro mese, per mettere alla prova Conte che non fa che elogiare, dandogli il tempo di mantenere (o tradire) le promesse sui nuovi fondi. E solo dopo avrebbe deciso se restare o no. Quattro mesi sono pochi per giudicare un governo: quattro mesi comunque tutt' altro che sprecati, vista la legge di Bilancio che non accresce le imposte, anzi scongiura l' aumento Iva, taglia le tasse ai lavoratori, avvia la lotta all' evasione, trova le prime risorse importanti per la scuola e inizia a prosciugare lo stagno della propaganda salvinista. Purtroppo Lorenzo il Munifico ha confuso il coraggio con la vanità. E ha preferito passare dalla ragione al torto per tutelare se stesso. Ma era lì per salvare l' istruzione, non la faccia.
Fioramonti lascia il Ministero ma raddoppia. Il titolare del dicastero dell'Istruzione, noto per le sue gaffes, si dimette ma è pronto a fondare il gruppo dei "Contiani" in Parlamento. Panorama il 26 dicembre 2019. Dopo averle minacciate più volte, la prima addirittura senza aver nemmeno giurato davanti al Presidente della Repubblica, Mattarella, alla fine le dimissioni del Ministro dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti, sono arrivate mentre eravamo alle prese con il pranzo di Natale. Dimissioni in protesta verso il Governo colpevole di non aver destinato i 3 miliardi richiesti per scuola ed università. Guai però a pensare che con questo gesto Fioramonti voglia lasciare la politica o addirittura fare opposizione all'esecutivo di cui faceva parte e che sta perdendo acqua da tutte le parti. Sarà infatti l'esatto contrario. L'ex assistente parlamentare del partito di Di Pietro e nuovo principe della gaffes del Governo Conte bis è pronto a formare un nuovo gruppo parlamentare (ne sentivamo la mancanza) dei nuovi "pretoriani" di Giuseppi, l'avanguardia del partito del Professore di Diritto, oggi Presidente del Consiglio. E anche di questo ne sentivamo la mancanza...La maggioranza quindi si fraziona ancora di più e diventa così sempre più debole. Certo è che se Fioramonti rappresenta l'uomo forte del nuovo partito del premier c'è da stare sereni, di sicuro da ridere. Le gaffes e le uscite imbarazzanti infatti sono state quasi all'ordine del giorno. Eccone alcune:
- Il Pil per Fioramonti è «una lavatrice statistica»dietro il quale ci sono i poteri forti. Al suo posto propone il più rassicurante «indice del benessere».
- «Il boicottaggio a Israele? È l’unica chiave per aiutare la causa di una pace equa e sostenibile in Medio Oriente».
- «Daniela Santanché, straripa di chirurgia plastica ed è un personaggio disgustoso e raccapricciante».
- «Una bella Italia sarebbe un Brunetta preso a manganellate dai carabinieri».
Ma non solo. Perchè Fioramonti è colui che ha lanciato l'idea della tassa sulle merendine per finanziare la scuola pubblica ed anche il Ministro dell'Istruzione che ha inventato la "giustificazione ministeriale" per tutti gli studenti che avrebbero saltato le lezioni per partecipare alle manifestazioni in favore dell'ambiente, il "Fridays for Future" di Greta Thumberg. Ecco. Questo sarebbe l'uomo forte del nuovo partito di Giuseppe Conte, il primo Presidente del Consiglio della storia capace di governare con quelli della destra e poi con quelli della sinistra. L'importante è governare...
Lorenzo Fioramonti, il Natale e tre mesi vissuti iperattivamente. Tasse sulle merendine, no al crocifisso, sì al mappamondo e a Vandana Shiva. Tutti gli exploit del ministro dell'Istruzione che ha annunciato il 25 dicembre le dimissioni che non si poteva più rimangiare. Susanna Turco il 26 dicembre 2019 su L'Espresso. A diventare il nuovo Toninelli non ci è (ancora) riuscito, ma la probabilità che Lorenzo Fioramonti sia comunque l'unico ministro del grigio Conte 2 a lasciare una qualche traccia di sé nel povero firmamento della cronaca politica ha avuto, nelle ultime ore, una impennata pari solo alla curva glicemica di tutti noi. Nella notte di Natale, infatti, il ministro dell'Istruzione – unico nella storia d'Italia – ha provato a risvegliare il Paese dal semicoma zuccherino facendo filtrare, e poi confermando, la notizia di aver presentato già da un paio di giorni al premier Conte la lettera in cui lasciava la guida del dicastero. Le dimissioni più annunciate di sempre: Fioramonti le aveva giurate già prima di giurare nelle mani del presidente della Repubblica. «Ci vogliono investimenti subito: 2 miliardi per la scuola e uno almeno per l'università. Lo dico da ora: se non ci saranno mi dimetto», aveva detto al Corriere della Sera, il 5 settembre. E a Repubblica: «Se entro Natale non c'è un miliardo per l'università sono pronto a dimettermi». Detto, fatto: i soldi nella legge di bilancio sono pochi, appena due miliardi, scatta la lettera a Conte. Con il mondo della scuola che, dagli studenti ai presidi, si mette giustamente in scia per dire come «le dimissioni siano la dimostrazione della gravità della situazione». Con le opposizioni che, cogliendo al balzo la palla, si affrettano a sottolineare come il gesto sia la dimostrazione che «il governo è nel caos». Con i maligni che subito sostengono come Fioramonti si stia in realtà muovendo in previsione della nascita del gruppo dei “Contiani” in Parlamento: nulla di nobile sarebbe nel suo gesto, solo un classico riposizionamento per il futuro. Se fosse vero, egli si ritroverebbe in effetti da ex ministro a sostenere, con un gruppo autonomo di ex grillini responsabili, il governo dal quale si è dimesso; un arzigogolo tutto sommato coerente, visto che sempre Fioramonti, nelle vesti di ministro, si è già trovato a criticare gli atti «del governo precedente» e quindi il se stesso di prima, essendo stato viceministro nel Conte1. Estrema freddezza nei suoi confronti arriva non a caso dai Cinque stelle che subito hanno invitato il premier a «guardare avanti, per individuare un nuovo ministro: la scuola non può aspettare». Eppure erano stati proprio loro, il partito di Di Maio, a tirare in politica quello che, prima del colpo di cabaret, era un professore di Economia politica nell'università di Pretoria (Sudafrica) e che dopo, soprattutto da ministro, è diventato una cornucopia di colori. «La sparata fluisce in lui come un dono», ha osservato il Foglio. Ottima sintesi, per rendere il senso di quattro mesi da ministro vissuti iperattivamente, e che hanno in qualche modo provato a bilanciare la generalizzata piattezza mediatica del Conte 2. All'inizio, per dire, furono le popolari proposte di tassare merendine e bibite gassate, poi la precisazione che il ministro auspicava fossero «assenti giustificati» gli studenti che scioperavano per il clima, poi l'idea di una «ora di ecologia obbligatoria», il no al crocifisso e il sì al mappamondo, l'apertura allo ius culturae (per la gioia di Di Maio), il singolare auspicio che l'Eni abbandonasse il petrolio e diventasse green (omaggio alle «nuove frontiere verso la decarbonizzazione»), l'annuncio di voler arruolare la guru indiana Vandana Shiva nel Consiglio scientifico per lo sviluppo sostenibile creato al ministero (il mondo scientifico in orrificato furore), la fanfara social per il Mini miur (asilo nido del ministero), le targhe dorate a ricordare personaggi illustri del passato, il taglio dei nastri, la definizione della polizia com «corpo di guardia del potere» e, infine, le assenze, come quella agli auguri di fine anno al Quirinale. Pare infatti che da ultimo, senza riuscirci, un cogitabondo Fioramonti abbia tentato la settimana scorsa di promuovere presso i grillini una specie di ola di solidarietà e invito a ritirare le dimissioni. Vero o no, la ola comunque non c'è stata. Del resto, da deputato, il ministro dimissionario non ha restituito nemmeno un euro e, all'incirca, deve alla Rousseau di Casaleggio 24 mila euro. Motivo in più, a questo punto.
Le dimissioni di Fioramonti tra disamoramento e veleni. Giuseppe Alberto Falci su huffingtonpost.it il 26/12/2019. La dissonanza col Movimento parte da lontano. Il sospetto sui rendiconti non versati. Prossimo passo è un gruppo pro-Conte alla Camera. Il disamoramento di Lorenzo Fioramonti parte da lontano. Forse prima ancora della sua nomina a ministro dell’Istruzione. E culmina oggi con una lettera ai suoi fan su facebook nella quale assicura che continuerà a battagliare sulle tematiche delle scuola anche da deputato semplice della Repubblica. In sostanza, anche senza la casacca del Movimento che gli ha consentito di farsi eleggere e di varcare l’ingresso di Montecitorio. A tutti infatti era apparso quanto meno fuori luogo comunicare prima ancora di giurare da titolare del dicastero di viale Trastevere, con una serie di interviste ai principali quotidiani, che si sarebbe dimesso nel caso non avesse ottenuto tre miliardi di fondi per la scuola. “Ma come ha potuto fare, in quel contesto, con un governo appena nato?”, si domandano oggi con insistenza i suoi detrattori dentro a un gruppo parlamentare, quello dei cinquestelle, le cui chat ribollono. Ecco, Fioramonti, romano, classe ’77, una laurea in filosofia con tanto di dottorato, una cattedra in economia politica all’Università di Pretoria in Sud Africa, ha sempre tenuto un atteggiamento all’interno del Movimento da battitore libero, con posizioni dissonanti dal mainstream di Di Maio e company, al punto che qualcuno lo aveva ipotizzato leader alternativo al capopolitico dei cinquestelle. Già, i cinquestelle. Nella war room dei grillini se l’aspettavano che sarebbe finita così. “Era un’operazione studiata a tavolino, mirata a crearsi un personaggio”, è l’accusa che gli rivolgono gli ex compagni nel giorno di Santa Stefano. Pian piano, dichiarazione dopo dichiarazione, Fioramonti si è sempre più allontanato dalle istanze pentastellate. Con alcune uscite che hanno fatto traballare l’esecutivo, leggi alla voce sugar tax. Oppure sottolineando con forza gli errori sul caso Diciotti, sulla legittima difesa, sui famosi decreti sicurezza Salvini. Soltanto venti giorni fa, nel bel mezzo della bufera sulla manovra di bilancio, in un’intervista a Vittorio Zincone sul settimanale “Sette” del Corriere della Sera, Fioramonti aveva attaccato nientepopodimeno che Casaleggio e la società: “Mi chiedo – dice - che relazione c’è tra noi e un’azienda privata che non si capisce a quale titolo gestisce parte delle nostre risorse e che si inserisce nell’agenda politica?”. E ancora: “Va benissimo un server provider che ci fa il sito web, ma questa situazione dimostra che il problema più che la leadership, è l’organizzazione del Movimento”. Tutti erano rimasti basiti, ma tutti non avevano proferito verbo. Perché l’esecutivo stava attraversando una fase non facile ed era preferibile non alimentare polemiche. Ora, dopo aver fatto il viceministro dell’esecutivo gialloverde e il ministro del governo giallorosso, Fioramonti si prepara ad uscire dal Movimento. D’altro canto, basta leggere il suo post su Facebook e accorgersi che il percorso politico dell’ex ministro dell’Istruzione non si fermerà oggi. Lui infatti la mette così: “Il mio impegno per la scuola e per le giovani generazioni non si ferma qui, ma continuerà - ancora più forte - come parlamentare della Repubblica Italiana”. Fonti qualificate raccontano che starebbe lavorando a un partito ecologista italiano. Sul modello dei verdi di Germania che veleggiano in doppia cifra. Non a caso prima di strappare ripeteva ad amici e fedelissimi: “Fino all’ultimo cercherò di portare avanti i contenuti del Movimento, che nacque progressista e ambientalista”. Il primo passo sarà quasi certamente un gruppo parlamentare a Montecitorio, che voterà a favore del governo, e che vedrà al suo interno altri cinquestelle. Fra gli altri, dieci in totale, Rachele Silvestri, Andrea Vallascas, Massimiliano De Toma. Quest’ultimo viene considerato l’amico di Fioramonti. “Quando Lorenzo si presenta a Montecitorio parla solo con De Toma”, confessa un deputato. E poi ancora potrebbero cedere alle sirene di Fioramonti Mara Lapia, Paolo Giuliodori, Felice Mariani, Roberto Rossini, Paolo Lattanzio, Nadia Aprile e Roberto Cataldi. Tutti indiziati speciali anche se ancora non si ha la certezza. E se su queste potenziali uscite la cabina di regia di Di Maio e company minimizza, “non ci sono prime linee”, allo stesso tempo c’è chi prova a gettare veleno. Il sospetto è che dietro a questa fuga in avanti di questo professore che si vanta di possedere una casa tutta ecosostenibile si nasconda la questione rendicontazione. L’accusa suona più o meno così: “Fioramonti lascia il ministero e il gruppo perché i suoi rimborsi sono fermi al 2018, Restituisca prima i 70 mila euro e ne parliamo”. In effetti, spulciando nel sito tirendiconto.it, ci si accorge che Fioramonti non versa i rimborsi dal dicembre dello scorso anno. Assieme a lui anche diversi fra gli indiziati del nuovo gruppo ecologista non avrebbero versato le quote dovute nel 2019. Non è dato sapere se sarà un caso. Certo è che si tratta di un’altra scossa che investe il M5S.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 9 gennaio 2020. Un «autocrate». Che da direttore del GovInn - il centro di ricerca in scienze politiche dell' Università di Pretoria in partnership con l' istituto francese di agronomia Cirad - ha fatto terra bruciata con i direttori degli altri dipartimenti, creato un clima teso con gli altri ricercatori, lasciando in sostanza «un disastro» da ricostruire. Un professore criticato per le manovre «opportunistiche di partito». E tra i suoi ex (e futuri?) colleghi c' è anche chi solleva «accuse molto gravi contro l' ex direttore»: «improprietà nella gestione dei fondi» e «allocazione errata di fondi (per uso personale)». Le dure critiche contro il professor Lorenzo Fioramonti, ex ministro del governo Conte2, sono contenuta in un audit terzo fatto realizzare da Cirad su come è stato gestito GovInn in questi anni. L' audit è arrivato a diverse persone, al management dell' Università sudafricana e di Cirad. La Stampa ne è venuta in possesso. Si tratta di un documento di notevole interesse pubblico, frutto di un' inchiesta interna con interviste a tutto il personale di GovInn. Le conclusioni sono tremende, anche per le aspirazioni di Fioramonti come futuro leader di un partito filo-Conte. «Sebbene sia considerato un "leader visionario" - il report parte dandogli questo riconoscimento - con reti profonde con finanziatori europei, in particolare con la Commissione europea, le impressioni su di lui che abbiamo ottenuto da diversi ex e attuali membri del personale GovInn sono quelle di un "autocrate ispirato". L' attuale leadership di GovInn ci ha riferito di aver dovuto ricostruire le relazioni in tutta l' Università, in particolare con i capi di dipartimento e altri dirigenti di alto livello. Il "leader visionario" ha difetti, che hanno avuto conseguenze negative per la reputazione del Centro GovInn all' interno dell' Università di Pretoria». Un capitolo spinosissimo è il suo possible ritorno: la leadership dell' Università «sembra vacillare sul fatto che il prof Fioramonti ritorni o meno alla sua posizione - poiché non si è dimesso formalmente». Fioramonti ha comunicato di lasciare il governo il 26 dicembre perché nella legge finanziaria non erano stati inseriti almeno due miliardi per scuola e università. La Stampa è però in possesso di una mail del 2 ottobre in cui Maxi Schoeman, rappresentante del Decano dell' Università, annuncia a tredici colleghi docenti e ricercatori che Fioramonti tornerà entro il 1 maggio 2020, e il professor Duncan stava negoziando con lui già da ottobre: tre mesi prima delle dimissioni di Fioramonti dall' esecutivo Conte. Intanto larga parte dello staff del suo centro avvisa: se torna lui ce ne andiamo noi: «Almeno quattro membri dello staff intervistati hanno indicato che se dovesse tornare Fioramonti, lascerebbero GovInn». L' ex ministro viene dipinto in maniera un po' diversa dagli articoli agiografici, non proprio con i tratti del leader inclusivo e di sinistra. Per i francesi di Cirad sembra assai difficile continuare una partnership con un istituto diretto da un uomo che ha mescolato accademia e carriera politica: «Il gruppo di esperti è rimasto sbalordito dal fatto che l' Università di Pretoria non si sia inequivocabilmente dissociata dal prof Fioramonti come membro del precedente governo italiano che ha commesso apertamente violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Recentemente, nel giugno 2019, l' UNHCR ha lanciato un appello speciale al governo italiano ricordando che "il salvataggio in mare è un imperativo umanitario di vecchia data e un obbligo ai sensi del diritto internazionale" () Il decreto in questione è stato approvato con il sostegno del M5S, di cui Fioramonti è membro (si è appena dimesso, ndr.). Cirad chiede dunque all' Università «di prendere una posizione chiara riguardo a tali manovre politiche opportunistiche di partito che equivalgono a sacrificare la vita umana sull' altare della convenienza». L' ultimo passaggio, che potrebbe preludere ad altri sviluppi, è sull' uso dei fondi. Scrive il report: tra gli intervistati c' è chi «ha sollevato accuse molto gravi contro l' ex direttore, prof Fioramonti: improprietà nella gestione dei fondi di GovInn. E allocazione errata di fondi (per uso personale)». Fioramonti ha usato rimborsi universitari o fondi del Centro in eventi o viaggi esteri collegati alla sua attività politica e non accademica? Abbiamo chiesto a Fioramonti, attraverso la sua segretaria e il suo portavoce, di rispondere e commentare. Non abbiamo ricevuto risposta.
Da Israele alle merendine, 4 mesi da ministro di Fioramonti tra gaffe e scelte discusse. Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Non un gaffeur involontario, anche se molti lo hanno paragonato a Danilo Toninelli, ma sicuramente un ministro scomodo, sempre meno amato da Luigi Di Maio e sempre pronto a rilanciare idee e proposte poco ortodosse e poco concordate. Del resto, appena arrivato in Parlamento, Lorenzo Fioramonti sbuffava: «Qui non si fa nulla, mi annoio». Facile per un iperattivo cresciuto a Tor Bella Monaca, con laurea a Tor Vergata, passione giovanile per Di Pietro, master a Siena, dottorato a Fiesole, servizio civile in Belgio, moglie tedesca e cattedra universitaria in Sudafrica. L’ex professore di Economia politica di Pretoria è fatto così, non è uomo dalle idee moderate e accomodanti. Quando, il primo marzo del 2018, Fioramonti viene presentato all’Eur da Luigi Di Maio come potenziale «ministro dello Sviluppo economico», molti si stupiscono per la scelta di un cervello in fuga dalle idee decisamente a sinistra. A notarlo era stato Giorgio Sorial, ex deputato M5S, che apprezza il suo libro «Presi per il Pil» e lo presenta a corte. Il Pil per Fioramonti è «una lavatrice statistica» dietro il quale ci sono i poteri forti. Al suo posto propone il più rassicurante «indice del benessere», in linea con il flirt per la «decrescita felice». Apprezzano molto il greco Gianis Varoufakis e Vandana Shiva, la contestata ambientalista indiana diventata poi consulente al Miur, nella disapprovazione della comunità scientifica. Lo stesso giorno del lancio all’Eur, Fioramonti viene accusato di aver sostenuto nel 2016, da docente all’Università di Pretoria, il boicottaggio di Israele, disertando un summit sull’acqua. Lui smentisce, ma sull’implacabile web rispunta un’intervista a The Daily Vox, nella quale definisce il boicottaggio «la chiave per una pace equa e sostenibile in Medio Oriente». Il percorso di Fioramonti viene puntellato di polemiche di ogni tipo. All’inizio dell’avventura nel governo recluta l’ex Iena Dino Giarrusso come cacciatore di «concorsi truccati». Seguono polemiche e ravvedimento, non proprio operoso: Giarrusso cerca gloria altrove e Fioramonti abbozza. Qualcuno riesuma antichi post del 2009 e del 2013, nei quali il docente, poco professorale, se la prende con Berlusconi, definito «imperatore della sfiga»; con Daniela Santanché, «che straripa di chirurgia plastica» ed è «un personaggio disgustoso e raccapricciante». E con Renato Brunetta: «Una bella Italia sarebbe un Brunetta preso a manganellate dai carabinieri». Seguono mezze scuse a posteriori («sono cose scritte anni fa privatamente, di cui non vado fiero»). I «Fridays for Future» lo vedono protagonista. Autorizza i ragazzi a disertare la scuola con la giustificazione di «sciopero per il clima». Il suo entusiasmo filo ambientalista ottiene un tweet di plauso da Greta Thunberg, di cui va fiero. Del resto a Pretoria il ministro aveva una casa nella quale riciclava l’acqua piovana, usandola per irrigare l’orto. E la moglie Janine è un’attivista plastic free e vegana. A un certo punto, inciampa nell’accusa (piuttosto pretestuosa) di antinazionalismo per avere scelto per il figlio la scuola inglese. Ma eccoci al peana per lo Ius Culturae e all’anatema per il crocefisso, che Fioramonti vorrebbe staccare dalle aule: «Vorrei una scuola laica. Meglio una bella cartina del mondo». Parole che gelano Di Maio. Che dalle temperature polari del fastidio passa a quelle infuocate della rabbia quando legge dell’idea di Fioramonti di tassare le merendine. «Ma come, sto comunicando che abbassiamo le tasse e lui annuncia che le alziamo?». La recente intervista a 7è un preannuncio dell’addio. Non tanto al ministero, quanto al Movimento, che si è «snaturato». E giù randellate (a posteriori) su vitalizi, taglio dei parlamentari, alleanza con la Lega, decreti sicurezza, legittima difesa. E su Casaleggio: «Non si capisce a che titolo si inserisce nell’agenda politica del Movimento». Scissione? «Provo a far ragionare il Movimento». Tentativo fallito, a quanto pare.
L'ira del M5s su Fioramonti: "Ci restituisca i 70mila che ci deve". Dura reazione dei 5 Stelle nei confronti del ministro dimissionario Lorenzo Fioramonti. Lui accusa il governo di avere ignorato le sue richieste per la scuola, mentre i grillini gli chiedono di "restituire i 70mila euro" di mancati rimborsi. Gianni Carotenuto, Giovedì 26/12/2019, su Il Giornale. Per Lorenzo Fioramonti, le sue dimissioni da ministro dell'Istruzione sono soltanto una questione di coerenza. Dietro, però, c'è dell'altro. Lo dimostra la durissima reazione del Movimento 5 Stelle, che non ha apprezzato - eufemismo - il post pubblicato su Facebook da Fioramonti per spiegare il suo passo indietro. Come scrive il Corriere della Sera, il M5s avrebbe chiesto all'ex professore di economia politica all'Università di Pretoria di "restituire i 70mila euro che ci deve", somma che corrisponde ai mancati rimborsi di Fioramonti al partito e all'associazione Rousseau. Versamenti a cui sono vincolati tutti i parlamentari grillini. Di sicuro è una questione di soldi. Da mesi Fioramonti minacciava la sua uscita dal governo se la manovra non avesse stanziato almeno 3 miliardi di euro per la scuola e l'Università. La prima volta era successo il 5 settembre, giorno dell'insediamento del nuovo governo. "Non c'è tempo da perdere: per cambiare servono fondi. Siamo uno dei Paesi europei che spende di meno per la scuola. Non possiamo continuare ad avere ricercatori precari di 45 anni, o professori non di ruolo che cambiano ogni due mesi. Ci vuole prospettiva e continuità", aveva dichiarato l'ormai ex ministro del Miur in un'intervista al Corriere, chiedendo 3 miliardi per la scuola. Denaro che il governo, con la "manovra delle tasse" approvata prima di Natale, non ha voluto o non è riuscito a trovare. "Sarebbe servito più coraggio da parte del Governo", ha scritto sui social Fioramonti, rivendicando il suo "impegno per rimettere l’istruzione - fondamentale per la sopravvivenza e per il futuro di ogni società - al centro del dibattito pubblico", per poi assicurare il "mio impegno per la scuola e per le giovani generazioni non si ferma qui, ma continuerà - ancora più forte - come parlamentare della Repubblica Italiana". Nessuna critica rivolta al Movimento 5 Stelle, con cui Fioramonti è stato eletto in Parlamento, ma la semplice constatazione della mancanza, da parte dell'esecutivo, del "coraggio" che sarebbe servito. Tuttavia, i pentastellati hanno inteso le parole di Fioramonti come un attacco personale. Al punto da rinfacciare all'ex ministro di non avere ancora onorato i propri debiti con il Movimento e l'Associazione Rousseau. "Tre miliardi? Cominciasse lui a restituire i 70mila euro che ci deve", la frase che filtra dai vertici del Movimento, protagonisti in queste settimane di una lotta senza quartiere contro quei parlamentari indietro con i versamenti. Fioramonti è tra i pochi a non avere ancora versato un euro di quanto dovuto. Facendo insospettire i grillini che dietro alla sua mossa non ci siano tanto ragioni di coerenza, quanto l'intenzione di lasciare il Movimento per formare un gruppo autonomo alla Camera, a cui potrebbero aderire i deputati Angiola, Aprile, Cataldi, Toma, Rossini e Rachele Silvestri. E, pare, un nuovo partito. Fedele al premier Conte, ma alternativo ai 5 Stelle. Abbandonandoli al loro destino, Fioramonti non solo potrebbe far valere il suo peso nei processi decisionali. Ma non dovrebbe più versare i 70mila euro. Gli stessi che il Movimento gli chiede di pagare entro il 31 dicembre. In caso contrario, la palla passerebbe ai probiviri. Che dovrebbero decidere se e come sanzionare l'ex ministro. A cui però conviene subito andarsene. E non solo per motivi politici.
Fioramonti, la Meloni attacca: «Pochi soldi alla scuola, ma ha regalato un milione all’ideologia gender». Ezio Miles, giovedì 26 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Pochi soldi per scuola e università, ma prima di annunciare le dimissioni, il ministro Fioramonti stanzia un milione per promuovere l’ideologia gender. Il grillismo è una miscela di ipocrisia e incompetenza, speriamo il 2020 porti agli italiani un governo degno di rappresentarli!”. Lo scrive su Twitter Giorgia Meloni in un duro commento alle dimissioni del ministro dell’istruzione. “Non sentiremo la mancanza del ministro Fioramonti”, dice ancora Meloni. “Avrebbe dovuto rassegnare le sue dimissioni già da tempo per i suoi post ignobili e deliranti contro le Forze dell’Ordine e le donne. Lo ha fatto solo dopo l’approvazione della manovra. Ammettendo il fallimento . La sua eredità è un pessimo decreto scuola. E la sciagurata invenzione di sugar e plastic tax, due folli tasse che mettono a rischio migliaia di posti di lavoro in Italia. Senza contare la sua proposta di aumentare l’Iva, come ci riportano alcune indiscrezioni di stampa di queste ore. Se ne va uno dei peggiori ministri che l’Italia repubblicana abbia avuto. E ora questo Governo faccia un altro bel regalo agli italiani: vada a casa”. La trovata di Fioramonti sul gender è stata denunciata da Libero. «Nel maxiemendamento alla manovra presentato dal governo è previsto al comma 385 che il “fondo per il finanziamento ordinario delle università” venga “incrementato di 1 milione di euro annui a decorrere dall’ anno 2020”. E ciò per “promuovere l’ educazione alle differenze di genere quale metodo privilegiato per la realizzazione dei principi di uguaglianza”. E per “inserire nella propria offerta formativa corsi di studi di genere o potenziare i corsi di studi di genere già esistenti”. Ecco il colpo di coda del dimissionario (forse) Fioramonti: non essendo riuscito a tassare le merendine, a togliere crocifissi, a rendere permanenti gli scioperi gretini, si accontenta di appuntarsi la coccarda arcobaleno. Non avendo lasciato tracce nell’ Università, prova a essere ricordato come il paladino della Diversità». Il caso Fioram0nti continua a tiene banco stamane nei commenti politici. ”Le dimissioni del ministro dell’Istruzione Fioramonti dimostrano come il governo sia nel caos più assoluto. Quello che più ci preoccupa però è che il nostro sistema educativo resta ora completamente senza una guida e senza direttive”. Lo affermano Paola Frassinetti e Ella Bucalo, di FdI. “Alla preoccupante carenza di risorse si aggiungerà la mancanza di qualsiasi progetto per il futuro. Che sarebbe stato necessario per impedire la continua fuga dei nostri studenti migliori all’estero oltre al recupero della carenza di preparazione dei nostri studenti come dimostrato dalle recenti indagini Ocse Pisa”. FI chiede invece a Conte di riferire sulla scuola.
Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 7 gennaio 2020. Intervista all' ex ministro che ha lasciato il governo e il Movimento di Concita De Gregorio Lorenzo Fioramonti - 42 anni, laureato in filosofia, storico dell' economia, teorico dell' economia del benessere (wellbeing economy), ex ministro dell' Istruzione per il Movimento Cinque Stelle, che ha da pochi giorni abbandonato - risponde al telefono dalla Germania, il paese di sua moglie, dove ha trascorso le vacanze dai suoceri.
«Sono entrambi ammalati di Alzheimer. Quando suono il piano li sento che si chiedono a vicenda: chi è l' uomo che sta suonando? È un grandissimo tema, questo della qualità della vita nell' età ultima. Meriterebbe una riflessione collettiva, politica. Sono stati - questi, per noi - giorni belli e difficili».
Professor Fioramonti, lei è stato al governo fino a pochi giorni fa. La stupisce che l' Italia fosse all' oscuro dell' attacco in cui è stato ucciso il generale Suleimani?
«Di Trump non mi stupisce nulla. Mi stupisce la subalternità dei nostri governi alle sue politiche».
Che conseguenze teme?
«Scatenare un conflitto in una parte del mondo così delicata, che ha così tanto sofferto, è irresponsabile. Conosco bene l' Iran. Ho lavorato a lungo a un progetto di ricerca con l' università di Teheran. È un Paese colto, sofisticato, con livelli di istruzione fra i più alti del mondo e grandi possibilità di emancipazione. Le forze progressiste e quelle conservatrici si fronteggiano. I miei colleghi, lì, lamentano la miopia dell' Occidente: gli attacchi rafforzano il conservatorismo e l' estremismo».
Crede che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, abbia la capacità di gestire una crisi così complessa?
«Bisogna dargli tempo. Servono controllo e coraggio. La politica estera non è una dependance dell' economia. A volte i neofiti non hanno coraggio per paura di ciò che non conoscono. Non mi riferisco solo al problema linguistico. Di Maio ha intuito. Speriamo».
Da quanto non vi sentite?
«Da qualche settimana. Avremmo dovuto vederci domani ma non accadrà: sono uscito dal Movimento».
Con amarezza?
«Diciamo che il mio gruppo mi ha attaccato come se fossi un nemico».
Ha sentito Grillo?
«No».
Casaleggio?
«Assolutamente no. L'ho incontrato fugacemente un paio di volte in vita mia. Del resto credo che sappia cosa penso della piattaforma Rousseau: inadeguata, inutilmente costosa (un milione e mezzo l' anno, a prezzi di mercato ne costerebbe 30 mila), farraginosa. È sbagliato persino il modo in cui vengono poste le domande, declinate in modo da assecondare e incoraggiare risposte prevedibili».
Cosa rimprovera al Movimento?
«L' impossibilità di un confronto critico. Non è ammesso il dissenso, non c' è ascolto. I panni sporchi in famiglia. Per il resto: si tace o si esce».
Se ne è reso conto nelle ultime settimane? Mai negli anni da sottosegretario e da ministro?
«Sono sempre stato critico in modo esplicito. A volte ci si dimentica cosa sono le cinque stelle. Acqua pubblica, mobilità sostenibile, ambiente. L' economia del benessere è ciò a cui ho dedicato tutta la mia vita di studi. Serve un' alleanza di governi che puntino al benessere sociale e ambientale, non alla crescita del Pil. Ci sono quattro governi che hanno preso a modello i miei lavori accademici, le mie proposte: Scozia, Finlandia, Nuova Zelanda, Islanda. Quattro giovani donne coraggiose. Volevo provare a farlo anche in Italia».
Voleva o vuole?
«Voglio. Ma non potevo più fare la figurina da esibire».
In che senso figurina?
«Se mi chiami per le mie competenze non puoi non tenerle in nessun conto. Sa quante volte mi sono trovato in imbarazzo?»
Cominci dalla prima.
«È successo dopo pochi mesi. Avevo conosciuto di Maio alla presentazione di un mio libro, "Presi per il Pil". Mi avevano invitato per mail, non avevo nessuna relazione personale. Qualche tempo dopo Di Maio mi chiese se volevo aiutarlo a individuare una possibile squadra di governo. Era Natale del 2017. Gli presentai Pasquale Tridico, l' attuale presidente Inps, Andrea Roventini del Sant' Anna di Pisa, altri. Lo accompagnai in un paio di missioni estere ad accreditarsi con banchieri, investitori stranieri. Alla Borsa di Londra. Ci sentivamo quasi quotidianamente. Fino a maggio 2018. Il 9 mi trovavo a Firenze per la Festa dell' Unione europea con Tridico, Roventini e economisti di tutta Europa. Apprendemmo che si era redatto un contratto di governo con la Lega. Nessuno di noi ne sapeva niente. I colleghi stranieri ci chiedevano: perché siete qui e non a quel tavolo? Poi uscì quella foto, del contratto: c' erano un giornalista, un esperto di comunicazione».
Lei era contrario all' alleanza con la Lega. Come mai è entrato in quel governo da sottosegretario?
«Mi proposero di fare il ministro delle Infrastrutture e risposi di no. Poi tornarono alla carica, avevano bisogno di una persona competente all' Istruzione. Me lo chiesero come un favore, si era a poche ore dalla presentazione della squadra».
Glielo chiese Conte?
«No, la segreteria di Di Maio».
La segreteria?
«Sì, lo staff. Chiamò Alessio Festa. Disse che li avrei messi in grande difficoltà rifiutando. Chiesi la massima autonomia e me la garantirono».
Sempre Festa, gliela garantì?
«In quell' occasione parlai con lui».
Anche per l' incarico da ministro l' ha chiamata lo staff?
«No, in questo caso Di Maio. Avevamo avuto molte polemiche, anche aspre. Non me l' aspettavo affatto. Ero in Germania, Di Maio mi chiamò a poche ore dal giuramento. Sorpreso, ne discussi in famiglia. Mia moglie, che è economista, sostiene che bisogna sempre fare politica coraggiosamente quando ne sia data possibilità. Parlammo fino a tardi, presi l' ultimo volo Easy Jet. A Conte dissi subito che se per la scuola non avessi avuto almeno un miliardo in più mi sarei dimesso.
Nel primo colloquio. Uno e sei erano già impegnati per il rinnovo del contratto dei docenti. Ne servivano almeno altrettanti: fui chiarissimo».
E invece niente soldi, molte polemiche. Prima sul crocifisso in classe.
«Ho detto che nella mia scuola ideale non dovrebbero esserci simboli religiosi. L' ho detto da persona che pratica da anni il dialogo interreligioso, che ha incontrato papa Francesco, che è stato in Israele più volte, che studia ebraico antico e che è un patito di don Milani. Non dovrebbero esserci».
Poi sulle sue proposte di microtasse per finanziare la scuola. Le merendine, le bibite gassate, i viaggi aerei.
«All' inizio avevo proposto di rimodellare l' Iva, aumentarla sui consumi dannosi. Avremmo avuto 5 miliardi da reinvestire».
Le hanno risposto che tassare le bibite gassate e le merendine è cosa da Stato etico. Il primo a criticarla fu Di Maio.
«Indice di un' ignoranza profonda. Il sistema fiscale è sempre un sistema di indirizzo, se no tutto sarebbe tassato allo stesso modo. Il fisco tiene in considerazione i bisogni, le priorità. La salute, naturalmente. In Austria un governo di centrodestra ha aumentato le imposte sui voli aerei. Da noi è arrivato il no dal ministero: avremmo danneggiato Alitalia, hanno detto. D' altra parte la politica in questo governo non si fa in consiglio dei ministri ma nelle riunioni di maggioranza. Non sai mai chi decide. Io mi sono trovato a leggere sui giornali che l' Agenzia nazionale della Ricerca era in programma per il 2020».
Non sapeva chi avesse deciso?
«Credo che facesse piacere a Conte, ma non so».
Rocco Casalino, il portavoce, non la avvisava?
«Quello della comunicazione è un gruppo chiuso. Decidono chi deve parlare, quando, di che cosa. Hanno un filtro di "controllo qualità" che agli esordi del Movimento, viste le inesperienze, poteva avere un senso ma oggi è soffocante. Una camicia di forza».
È vero che sta preparando il partito di Conte?
«Sarei in contatto con Conte, in questo caso».
Invece?
«Ci ho parlato per avvisarlo delle mie dimissioni, prima di Natale. Ho chiamato il presidente Mattarella e lui. Siamo rimasti che ci saremmo aggiornati, non l' ho più sentito. Gli ho mandato un whatsapp e non ha risposto».
E Mattarella? L' ha sentito di nuovo?
«No. Ho molto rispetto, direi deferenza. Aspetto l' occasione per dirgli quanto abbia apprezzato il suo discorso di fine anno, specie la parte sui giovani. È emozionante che i ragazzi manifestino con chiarezza le loro idee. Anche i miei figli lo fanno».
Quanti anni hanno i suoi figli?
«Nove e cinque».
Manifestano?
«Sì, sono andati con la mamma in piazza, coi loro cartelli sul clima. La scuola in Germania fa un' educazione capillare allo sviluppo sostenibile. E adesso, ne sono orgoglioso, anche noi. La crisi climatica è materia obbligatoria: siamo i primi al mondo».
Che cosa sarà Eco, la forza che sta preparando: un gruppo parlamentare?
«In principio doveva essere un' associazione culturale per promuovere l' ecologia dell' economia. L' ecologia, che significa studio della casa, è alla radice dell' economia, le regole della casa. Non c' è una forza dentro il Parlamento che rappresenti i valori ambientali ecologisti moderni. Avevamo pensato a un intergruppo, ma non potevo farlo da ministro. Ora arrivano moltissime sollecitazioni da parlamentari del Pd, di Leu, del misto e del Movimento. Vedremo. La formazione di un gruppo parlamentare dipenderà da quanti saremo, alla fine».
Il debutto sarà a fine gennaio?
«Forse primi di febbraio. A Roma, in Parlamento. Un incontro pubblico con amministratori, presidenti di Regione, parlamentari».
Ci sarà anche il sindaco di Parma, Pizzarotti?
«Credo che ci siano contatti, sì».
Conta di restare in politica a fine legislatura?
«Qualche giorno fa le avrei detto: torno a insegnare. Ma se attorno a Eco si creeranno le condizioni per tirare fuori l' Italia dalle sabbie mobili della politica credo che sia un dovere restare».
Anche se si creerà una lista: altrimenti dove si candida?
«Non ci ho mai pensato».
Sua moglie insiste nell' incoraggiarla?
«Con un po' più di prudenza. Il livello di violenza verbale della politica lascia sgomenti. Ma queste sono le battaglie che abbiamo fatto insieme da quando ci conosciamo. Parliamo spesso delle donne che stanno cambiando il mondo, alla guida dei governi di cui le dicevo. Sono loro i veri leader. Non certo Trump o Putin. In Italia, ci diciamo spesso, mancano donne alla guida dei processi politici».
Anche nel caso di Eco. O ci saranno donne alla guida?
«Ci saranno. Speriamo anche alla guida del Paese. Creare le condizioni perché le donne governino è ecologia dell' economia».
Alessandro Trocino per "corriere.it" il 4 luglio 2020. Le prime avvisaglie ci sono state diversi anni fa, quando la senatrice Paola Taverna andò a Tor Sapienza e per difendersi dalle accuse disse: «Aò, io non so’ politica». Il «popolo» replicò: «Ah no? E il movimento 5 Stelle che è, la Caritas?». Ora tocca a Danilo Toninelli, protagonista di un furioso alterco al bar con un pezzo di popolo che gli chiedeva conto dell’alleanza con il Pd. Il senatore, per nulla disponibile a farsi mettere sotto dalle accuse, replica a male parole e si allontana, protetto dalla Digos. Non prima di sentirsi rinfacciare, più o meno letteralmente, quella frase scagliata per mesi contro gli allora «pidioti»: «E allora Bibbiano?».
La seconda vita dell’ex ministro. La seconda vita di Toninelli, dopo un periodo di gaffe e di oblio, lo ha visto di recente riemergere con posizioni vicine a quelle di Di Battista: «Non vedo l’ora che Ale torni». Il Mes? «Una porcheria». Il vecchio sodale Salvini, suo collega a Palazzo Chigi, ora è diventato «il bomber delle fake news». Toninelli partecipa in questi giorni a «Riparte l’Italia». Ma è un tour virtuale, in streaming. Il rapporto con il territorio, non solo a causa del Covid, non è più quello di una volta. E l’episodio che lo vede protagonista e vittima è la nemesi del populismo da bar, di anni e anni di retorica antipolitica e di accuse indiscriminate. I «portavoce» del Movimento hanno provato a mimetizzarsi, a fondersi spiritualmente in quel magma indistinto, incandescente e sfuggente che è il popolo, ma il risultato è che ora quell’entità gli si rivolta contro. Inutile fingersi morti, bere un Campari, replicare a muso duro. Il popolo si indigna. Ha creduto alla demonizzazione della Casta e ora non vuole smettere. Un po’ come è successo al Guardasigilli Alfonso Bonafede, colpito dal boomerang del giustizialismo.
L’episodio. Martedì una decina di giovani, animosi e alla fine aggressivi, incrociano Toninelli al bar e gli chiedono conto dell’alleanza con il Pd. Un ragazzo attacca:«Ricordo Di Battista con un cartonato del Pd piovra. Dicevate che sono il nuovo oscurantismo». Toninelli replica: «Io ti dico: guarda ai fatti e non guardare alle alleanze». Il giovane potrebbe replicare rievocando il polveroso slogan: «Non facciamo alleanze con nessuno». Ma l’ex ministro prosegue, per nulla conciliante: «Prima facevano un sacco di porcate, oggi non fanno un c. di porcata. Perché ci siamo noi». Si accavallano le voci. Ed eccoci a Bibbiano. Il pensiero va al famoso video di Luigi Di Maio del 18 luglio del 2019: «Noi con il partito di Bibbiano non vogliamo avere nulla a che fare». L’inchiesta ha sfiorato un sindaco del Pd, che però non pare avere nulla a che fare. Ma tanto è bastato alla Lega per far partire una campagna durissima della Lega, alla quale si accodò il M5S.
«Da 7 anni mi dimezzo lo stipendio». A distanza di tempo, a governo in corso con il Pd, la replica di Toninelli è: «Ma non c’entriamo un c. con Bibbiano». Dunque, il Pd c’entra? Nessuna marcia indietro? Uno potrebbe chiedersi legittimamente che ci fanno Toninelli e Di Maio a cena con presunti «sottrattori» di bambini, visto che non si è cambiata opinione. La piccola folla semplifica così: «State insieme a degli assassini». Toninelli va fuori tema: «Se uno pensa che siamo come gli altri avete sbagliato tutto». L’ex ministro si agita: «Pensatela come c. volete voi». Poi aggiunge: «Siete qui per aggredirmi in dieci. Io sono sette anni che mi dimezzo lo stipendio. Sto difendendo i vostri interessi e non mi vieni a rompere i c.». Il finale è convulso. Toninelli si alza. La piccola folla si fa aggressiva: «Oh bello, noi veniamo dalle borgate». Toninelli: «Anche io». Finisce a insulti.
La solidarietà della Taverna. La «non politica» Paola Taverna è solidale. Mauro Coltorti parla di «accerchiamento squadrista». Il popolo - che si invoca per avere i voti e di cui si chiedono le dimissioni quando delude (vedi Brecht) - è diventato squadrista. Talvolta lo è davvero, basti ricordare gli sputi in faccia a Marco Pannella. Toninelli si difende e sparge qualche lacrima di coccodrillo in un video di commento, nel quale spiega: «Mi hanno accerchiato». E si dispiace: «Così ingeneriamo odio. E’ un effetto drammatico sulla democrazia».
Quanto ci manca Danilo Toninelli. L'ex ministro dei trasporti è insostituibile. E rappresentava un'epoca. Trovare il suo successore è impossibile. Altro che Fioramonti. Ogni settimana sull'Espresso un termine commentato da una grande firma. E per una volta la parola è un cognome. Susanna Turco il 10 ottobre 2019 su L'Espresso. È facile essere Toninelli: difficile è rimpiazzarlo. Si grida al miracolo per il cinquestelle Lorenzo Fioramonti. Promosso dopo 14 mesi da vice di Bussetti, il ministro dell’Istruzione si è in effetti imposto all’attenzione: già al giuramento prometteva di tassare le merendine e dimettersi entro Natale; poi ha dichiarato giustificata l’assenza degli studenti in corteo per i Fridays for future; si è preso come collaboratrice Vandana Shiva, (da viceministro aveva come assistente Dino Giarrusso); quindi ha allegramente invitato a sostituire i crocifissi nelle classi con cartine e mappamondi, così festeggiando il traguardo del primo mese alla guida del ministero. Eppure a questo ritmo volenteroso non corrisponde quella pasta, quel livello, quell’impermeabilità al ridicolo. Insomma, tra lui e un nuovo Toninelli c’è un abisso – lo ha notato pure un maestro del genere come Paolo Mieli. Risalta, piuttosto, nella forsennata ricerca del successore, un languore, un rimpianto, un horror vacui che è negli occhi di chi guarda, più di quanto non sia nella realtà. Come faremo senza Toninelli?, si è domandata mezza Italia (e l’intero sistema mediatico) alla caduta del governo giallo-verde. Ecco: una risposta ancora non c’è. Perché Toninelli era ormai da un pezzo trasfigurato: non persona, ma Spirito del tempo. Uno attraverso il quale parlava, a vanvera, lo Zeitgeist. Attraverso l’inesistente «tunnel del Brennero», i porti asseritamente aperti, le declamate «valutazioni costi-benefici», gli auto-inciampi nelle proprie tesi fino al lamento supremo di aver subito pressioni addirittura antecedenti alla propria nomina. Che capolavori, che nostalgia per quella cipria che permetteva di distinguere - in maniera certa ed esilarante - il noi dal loro, il di qua dal di là, l’adesso dal prima e dal poi. Con Fioramonti si resta invece a terra, nell’immanenza, nella polemica del giorno: merendine, sterilizzazioni, cunei, briciole. L’ex ministro dei Trasporti viene evocato da tutti (Salvini, Di Battista, gente comune), ma invano: manca lo Spirito del tempo e chi lo incarni. Un nuovo essere mitologico - mezzo uomo e mezzo Toninelli - non è ancora emerso. E chissà che l’errore non stia nel cercarlo di nuovo tra i Cinque stelle. Anche a sinistra c’è materiale, a occhio.
Danilo Toninelli, un ministro contro tutti (e soprattutto contro se stesso). Annunci, retromarce, gaffe, vice dimessi per guai giudiziari e infrastrutture ko. Da quando è nel governo, il "ministro dell'entusiasmo" non ne ha azzeccata una. E per questo quando si parla di rimpasti, il su nome è sempre il primo della lista. Gianfrancesco Turano l'11 giugno 2019 su L'Espresso. Il telavevodettismo è una patologia del narcisismo giornalistico. Ma quando ci vuole, ci vuole. Il governo giallo-verde era ancora in gestazione che l’Espresso aveva individuato nelle infrastrutture il punto di rottura delle relazioni fra grillini “no tutto” e leghisti “sì alla qualsiasi”. Quello che nemmeno l’Espresso poteva prevedere era Danilo Toninelli. Entrato in extremis nella lista dei ministri al posto del geologo Mauro Coltorti, l’ex ufficiale dei carabinieri di leva ed ex perito assicurativo non si era mai occupato di infrastrutture prima e forse vorrebbe non essersene mai occupato. Un anno dopo l’insediamento nella fossa dei serpenti di Porta Pia, il “ministro dell’entusiasmo” nella satira di Maurizio Crozza ha perso per strada un viceministro, il leghista genovese Edoardo Rixi condannato in primo grado a tre anni e cinque mesi, un sottosegretario, l’altro leghista genovese Armando Siri, indagato per corruzione e con un precedente per bancarotta fraudolenta. Restando a Genova, il 14 agosto 2018 è crollato il ponte Morandi (43 morti) e anche l’estate del 2019 non si annuncia sotto buoni auspici, con la collisione nel canale della Giudecca a Venezia fra un battello e una grande nave da crociera, il giorno della festa della Repubblica. Fra una disgrazia e l’altra c’è stato tempo per una serie di trovate che vanno dal filmato del Tg2 a favore dell’energia pulita girato sul Suv diesel alla novità dei seggiolini per neonati con il sensore anti-abbandono degna della rubrica di Cuore “Mai più senza”. La sfiga ci vede benissimo, disse Roberto “Freak” Antoni degli Skiantos, ma il filo nero di Danilo è andato oltre gli incidenti e le gaffe che, per definizione, possono capitare. Il problema di Toninelli è stato fare il ministro contro se stesso, contro le sue convinzioni e contro qualunque cosa desiderasse fare. Si è opposto al Tav Torino-Lione e il premier Giuseppe Conte ha detto che «la strada è segnata». Era contro le grandi navi a spasso in laguna di fronte al campanile di San Marco e, dopo il botto del 2 giugno, ha dichiarato che «dopo anni di stasi siamo prossimi a una soluzione capace di tenere assieme tutti gli interessi in campo». È sempre stato contro le pedemontane in Lombardia e Veneto e i governatori leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia gli hanno riso in faccia senza aspettare che lo facesse il vicepremier verde Matteo Salvini. Più di tutto era contro la fusione Anas-Fs firmata dal predecessore Graziano Delrio. Aveva promesso di revocarla e invece ha soltanto cacciato il presidente Gianni Armani e provocato l’esodo dei suoi manager: 6 milioni di euro in buonuscite nei primi cinque mesi del 2019 elargiti ai dirigenti della vecchia gestione e processo della Corte dei conti in arrivo. Ancora: aveva promesso tremenda vendetta contro Autostrade per il ponte Morandi e ha solo bloccato gli investimenti della società dei Benetton (uscite) senza potere ridurre i pedaggi (entrate). Un altro concessionario autostradale, Carlo Toto, ha minacciato di chiudere il tunnel dell’Autostrada dei parchi che passa sotto il Gran Sasso perché non intende partecipare alla messa in sicurezza del sistema idrico. L’emendamento dello Sblocca cantieri che facilita la revoca delle concessioni, fortemente voluto dal ministro, si scontra con la necessità di trovare un socio privato che partecipi all’ennesimo salvataggio dell’Alitalia. Si tratta dello stesso Toto, ex proprietario di AirOne, accollata alla compagnia di bandiera in articulo mortis undici anni fa, degli stessi Benetton colpiti dalla fatwa del 14 agosto 2018 e di quella stessa Anas-Fs che bisognava a tutti i costi smontare come esempio perverso della politica economica renzista perché le strade sono un mestiere, le ferrovie un altro, come ragionava con buon senso Toninelli. Oggi il governo si trova a pochi passi dal decretare la nascita di un mostro senza precedenti nel mondo conosciuto: la megaconglomerata strade-ferrovie-aerei. Mancano bici e monopattini e il comparto è al completo. Un altro fiore all’occhiello del Mit gestito dai grillini è o, per meglio dire, era la commissione di esperti coordinata da Marco Ponti e incaricata di valutare il rapporto costi-benefici delle grandi opere. L’ultima volta se ne è parlato a febbraio, quando la Torino-Lione è stata bocciata perché le spese superano i vantaggi per 7-8 miliardi di euro. Da lì in avanti si segnala soltanto la polemica pubblica di Ponti che ha sfidato il Mit a pubblicare l’analisi sull’alta velocità Brescia-Padova e sul Terzo valico Milano-Genova. Questo accadeva a pochi giorni dalle Europee, quando l’invito di Ponti non poteva essere accolto per ragioni di opportunità elettorale. Toninelli era impegnato a diffondere gli ottimi risultati del ministero in varie sedi. Per esempio, il 6 maggio è andato al convegno dell’Ance, l’associazione dei piccoli costruttori, a magnificare 2 miliardi di euro di investimenti su «un patrimonio di pregio assoluto della nostra bella Penisola, un patrimonio fortemente legato ai nostri territori, che li difende e li valorizza, contribuendo a creare ecosistemi di pregio». Parlava delle dighe. E mentre il suo vice Rixi, non ancora condannato per le spese pazze della Regione Liguria, gestiva la partita strategica della Via della Seta e dei porti con gli emissari del governo cinese, Toninelli visitava il suo collegio elettorale nella Bassa Padana tra Cremona e Parma per annunciare la riapertura del ponte sul Po tra Casalmaggiore e Colorno, chiuso da due anni e finanziato con 5 milioni di euro dal Mit. È lo stesso ponte che durante la campagna elettorale del 4 marzo 2018 Toninelli, allora parlamentare dell’opposizione, visitava in barchetta al grido di «Delrio, dove cazzo è?». Hanno detto che lo avrebbero cacciato da quando è arrivato a Porta Pia. Toninelli ha fatto come quegli allenatori abituati alla panchina traballante, che resistono perché è dura trovare un sostituto. E se Luigi Di Maio, dopo il disastro delle Europee, si è lamentato di essere l’unico del Movimento che sta lì a prendere gli schiaffi, per il Mit ci vuole uno con i calli sulla faccia. Sarà difficile trovarne meglio di Danilo, che si è allenato per un anno.
· La disintegrazione stellare.
Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 16 dicembre 2020. Davide Casaleggio convoca il contro evento degli Stati generali del M5s. È scontro a tutto a campo tra il figlio del fondatore del Movimento e i nuovi vertici grillini. Ormai convivono due partiti: da un lato l' associazione Rousseau, guidata da Casaleggio jr, Alessandro Di Battista e la fronda di dissidenti, dall' altro il M5s «istituzionale», controllato da Vito Crimi, Luigi di Maio e Paola Taverna. Camminano di pari passo e molte volte si incrociano (scontrano). Come nel prossimo fine settimana. Casaleggio e la sua squadra di fedelissimi, da Enrica Sabatini a Max Bugani, organizzano a Roma «gli Stati generali ombra». Il titolo dell' iniziativa sarà «La base incontra Rousseau». Uno slogan che vuole rimarcare il ritorno alle origini (la distanza dall' attuale linea del Movimento), alla base, al ruolo della militanza. È una dichiarazione di guerra, stavolta anche pubblica, contro il gruppo dei governisti guidato dalla coppia Taverna-Di Maio. Tra i promotori dell' evento di Rousseau spicca il nome di Francesca De Vito, consigliere regionale del M5s nel Lazio con una parentela pesante: il fratello, Marcello De Vito, ex presidente del Consiglio comunale di Roma, fu arrestato nell' ambito dell' inchiesta sulla costruzione del nuovo stadio di Roma. Ma alla contro-manifestazione parteciperanno anche Davide Casaleggio ed Enrica Sabatini. Non ci sarà il Dibba. Mentre è atteso un intervento di Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia. Completa l' elenco degli ospiti Luca Di Giuseppe, facilitatore alle relazioni esterne della Campania. Sarà una due giorni di incontri e dibattiti. Per progettare il Movimento del futuro. È la prima tappa di un tour che si svolgerà in tutte le regioni italiane. Nello stesso week-end si riunisce il Movimento ufficiale, convocato da quel pezzo di Cinquestelle che occupa le poltrone nei ministeri. Un tempo, come un anno fa all' evento Italia 5stelle che si tenne a Napoli, Di Maio e Casaleggio infiammavano gli attivisti dallo stesso palco. Oggi sono distinti e lontani. Anche se Casaleggio jr fa sapere di essere pronto a parlare agli Stati generali del Movimento. Sabato 19 e domenica 20 dicembre saranno due giornate interamente dedicate all' agenda politica. «Abbiamo davanti un' opportunità grandiosa - spiega il reggente Vito Crimi -: costruire il futuro dell' Italia e vincere la sfida più importante, quella della sostenibilità. Oggi dobbiamo adottare un nuovo modello di sviluppo, improntato al risparmio e all' efficienza energetica, alla salvaguardia dell' ambiente, ad una società inclusiva che non lasci nessuno indietro. E in questa sfida vogliamo contribuire con tutto lo spirito propositivo, le idee e la passione civile che da sempre animano il Movimento 5 stelle». Ormai i grillini sono a un bivio: Casaleggio punta alla scissione o alla nascita di una corrente interna al Movimento. Il contro-evento del prossimo fine settimana è un' ulteriore conferma. È il passo avanti. Una sfida da combattere al fianco dell' ex deputato Di Battista che sta organizzando la squadra: in Puglia c' è Antonella Laricchia. E la fronda è in pressing su due esponenti dell' esecutivo: Alessio Villarosa, sottosegretario all' Economia, e Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa. Entrambi hanno un rapporto consolidato con Dibba e Casaleggio. E alla fine potrebbero mollare il gruppo storico e passare con i dissidenti. Soprattutto all' indomani della scelta dei componenti dell' organo collegiale che sostituirà al vertice del Movimento la figura del capo politico. La resa dei conti è vicina.
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 16 dicembre 2020. Continua la burla. E succede che il finto attivista si becca più del doppio delle preferenze del capo politico. Paradossi di Rousseau, potere dei parlamentari del M5s stufi di Davide Casaleggio. Stavolta la trovata dei grillini ansiosi di liberarsi del guru è originale, tocca ammetterlo. Prende le mosse dallo scherzo messo in piedi dal programma televisivo di La7 Propaganda Live, che dalle europarlamentarie dell' anno scorso ha «infiltrato» un suo collaboratore nella piattaforma della democrazia diretta. L' intruso è Riccardo Palone, 29enne che, attraverso la trasmissione condotta da Diego Bianchi, sta promuovendo la sua personale campagna goliardica per ottenere tanti più «mi fido» possibili da parte degli iscritti al M5s. Una lotteria inventata da Casaleggio, dove ogni attivista può assegnare il suo attestato di fiducia a qualsiasi altro utente di Rousseau. Meccanismo già definito da molti parlamentari alla stregua di un «Grande fratello». Ed ecco la vendetta per ridicolizzare il giochino: votare e far votare per il carneade Palone. «Io sono andato subito a dargli il mio mi fido, è un modo per smascherare il metodo di Casaleggio», dice un deputato che sta partecipando al curioso sabotaggio. Stando ai numeri di Rousseau, la ripicca parlamentare sta dando i suoi frutti. Queste le cifre dei «mi fido» che Il Giornale ha potuto apprendere lunedì pomeriggio. Alessandro Di Battista nettamente in testa con 821 like, l' ex capo politico Luigi Di Maio a 434, superato dal senatore Nicola Morra con 486. Dibba sembra inarrivabile, dunque. Ma la sorpresa è Palone. Con 302 «mi fido» è a un' incollatura dal gestore della piattaforma Casaleggio (310) e doppia ampiamente il capo politico reggente Vito Crimi, che risultava fermo a 143. Un piccolo ma significativo smacco provocatorio, proprio nei giorni in cui infuria di nuovo la polemica di gran parte di deputati e senatori contro il figlio del cofondatore del M5s. Il casus belli è l' evento virtuale organizzato dal guru, dal titolo «La Base incontra Rousseau». Un dibattito finalizzato a «progettare insieme agli attivisti le sedi digitali tematiche territoriali», ma soprattutto previsto nelle giornate del 19 e 20 dicembre, in concomitanza con gli Stati generali tematici del Movimento. La sovrapposizione di date che ha fatto parlare i governisti di «partito nel partito» e di vero e proprio «incontro di corrente». Il boicottaggio di Rousseau con il voto all' attivista finto, ma regolarmente iscritto alla piattaforma, è solo l' ultima puntata di una interminabile altalena fatta di dispetti, polemiche e battibecchi tra Casaleggio e la maggioranza del gruppo parlamentare. Tra i grillini che hanno assegnato il «mi fido» al collaboratore di Zoro ci sono tanti eletti in Parlamento. E alcuni nomi noti: il viceministro Giancarlo Cancelleri e la sorella deputata Azzurra, l' ex capogruppo alla Camera Francesco D' Uva, il presidente della commissione Politiche Ue a Montecitorio Sergio Battelli.
Da repubblica.it il 6 novembre 2020. Cambia il regolamento dei deputati grillini. E spariscono pezzi importanti del passato 5S, come i Blog delle Stelle e la piattaforma Rousseau. Il gruppo del Movimento alla Camera ha approvato oggi con maggioranza qualificata il nuovo statuto. Le norme (divise in 23 articoli) che regoleranno l'attività futura dei deputati pentastellati a Montecitorio sono state varete con 154 voti favorevoli, 16 contrari, 4 schede bianche e due nulle. Tra le principali novità che i parlamentari hanno voluto introdurre c'è la possibilità di individuare con maggiore 'liberta'' i canali di comunicazione del Movimento su cui veicolare le informazione. In sostanza, si conclude la diatriba con Davide Casaleggio, da cui i pentastellati sembrano essere sempre più intenzionati a staccarsi. Se infatti prima il sito dell'associazione e il Blog delle Stelle fossero gli unici ed esclusivi canali di comunicazione dei 5S, ora gli strumenti ufficiali dei grillini potranno essere anche "i canali del Movimento 5 Stelle e altri che riterrà di adottare" a maggioranza assoluta. Nonostante abbia suscitato molte polemiche e mal di pancia all'interno del gruppo dei 5S alla Camera, il nuovo statuto è stato approvato anche con la norma che prevede che le indicazioni degli iscritti ora non saranno più vincolanti per l'attività dei deputati pentastellati. Piuttosto, ora si stabilisce che degli orientamenti e espresse dagli iscritti il deputato "tiene conto". Infine, le assemblee del Movimento d'ora in poi dovranno essere convocate almeno due giorni di preavviso, ma si possono tenere anche "con modalità esclusivamente telematiche". E se prima si stabiliva che le votazioni avvenissero sempre a scrutinio palese, salvo che il presidente dell'assemblea disponesse diversamente, ora la decisione dei deputati grillini è che il voto segreto avvenga sempre quanto ci si deve esprimere "una valutazione sulla persona o su fatti personali". Il vento di cambiamento e trasformazione non risparmia altri ambiti all'interno del Movimento. Il Comitato iniziative 5 Stelle è stato liquidato. Creato a a Napoli per l'organizzazione, la promozione, il coordinamento e la gestione di Italia 5 Stelle del 2019,aveva chiuso con un avanzo di gestione di circa 130.000 euro, e ora avrà un nuovo compito. Il comitato dovrà infatti occuparsi delle successive edizioni di Italia 5 Stelle e più in generale dei vari eventi del Movimento 5 Stelle e del nascente Team del Futuro. Una riconversione che sa di svolta, anche perchè era formato da esponenti grillini molti vicini a Casaleggio: Pietro Dettori (presidente), Stefano Torre (tesoriere) e Enrica Sabatini (consigliere). Il comitato viene liquidato con patrimonio residuo di circa 190mila. Di questi, 140mila saranno usati per gli stati generali del Movimento, mentre gli altri verranno destinati ad altre attività e iniziative dei 5S.
Lombardi: "Per gli stati generali spese rendicontate". La cifra trasferita dal Comitato Iniziative 5 Stelle per l'organizzazione degli stati generali dei pentastellati "servirù a coprire le spese che stiamo sostenendo. Il rendiconto dell'iniziativa, come sempre, sarà pubblicato in piena trasparenza", spiega Roberta Lombardi, incaricata dal capo politico reggente Vito Crimi di organizzare la manifestazione. "Le eccedenze - prosegue - saranno destinate a comitati o associazioni aventi lo scopo di promuovere sul territorio l'attività del Movimento". In relazione a quanto pubblicato sui media italiani in data odierna, Raffaele Mincione sottolinea che il Gestore del Fondo Athena ha sempre, in assoluta trasparenza e buona fede, reso noto di aver corrisposto una commissione di presentazione (“introducer fee”) ad una società che aveva messo in contatto il Gestore stesso e il Credit Suisse in relazione alla operazione avente ad oggetto l’acquisto di 60 Sloane Avenue. La medesima notizia è riportata infatti, con ulteriori dettagli, sull’articolo a firma di Emiliano Fittipaldi pubblicato su L’Espresso in data 17.10.2019 e ripresa da altri media dell’epoca.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 5 novembre 2020. Non vanno molto bene le cose fra i cinque stelle europei. Dei quattordici parlamentari eletti a Bruxelles, quattro non sono affatto contenti della politica agricola del Movimento. Ignoravo che il Movimento avesse una politica agricola, ma è un problema mio. Comunque, per essere schematici, c' è una politica agricola ufficiale e una politica agricola di minoranza. I quattro sostenitori della politica agricola di minoranza non capiscono perché gli otto assunti per tenere la comunicazione comunichino soltanto la politica agricola ufficiale e non comunichino mai l' altra politica agricola, quella di minoranza (sono cose che succedono quando si confonde la linea con la Verità, per cui diventa complicato comunicare due Verità divergenti). Così i quattro di minoranza, seppure senza comunicazione, sono riusciti a comunicare che non pagheranno più lo stipendio agli otto della comunicazione. E gli altri dieci europarlamentari? Bè, non hanno abbastanza denaro per stipendiare una comunicazione di otto dipendenti. Dunque ne licenziano due? Tre? Macché! Uno vale uno! Li licenziano tutti e otto. Ieri hanno ricevuto il preavviso: fra due mesi resteranno senza lavoro e senza pagnotta. Più avanti, si vedrà. Se non fosse che i cinque stelle in Italia si battono come leoni per il blocco dei licenziamenti (altrui), per la tutela dei più sfortunati col reddito di cittadinanza e in definitiva per la sconfitta della povertà, peraltro già annunciata, ecco, non fosse per questo, che quattordici parlamentari litighino, e dunque caccino otto dipendenti, lo si direbbe il più raffinato dei menefreghismi di casta.
Ripartiamo da loro. L’antipolitica perde colpi, uno su tre ha detto "Vaffa" a quelli del "Vaffa". Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. I giorni passano, il virus fa il suo losco mestiere e il governo assume stancamente poteri più illiberali, decidendo anche quali notizie possono o non possono essere date alla stampa. Così, l’amarezza irata in cui ci troviamo offusca la memoria e non pensiamo più al fatto che è nato dal referendum un partito che alla sua prima uscita prende il 30 per cento. Il trenta per cento di coloro che sono andati appositamente a votare per dire No, un no che non ha rappresentanza nel Parlamento che è pari a un terzo degli elettori. Il trenta per cento. Un botto. E quali conseguenze? Il guaglione prodigio Luigi Di Maio è salito in feluca sulle terrazze della Farnesina gridando che lui aveva vinto col settanta per cento. Certo, che ha vinto: sono trent’anni che annunciano di voler trattare il Parlamento come il Reichstag bruciato dai nazisti, ma con un sapore di tonno. Il loro programma è amputare una Camera, liquidare i rappresentanti, umiliare le pensioni dei vecchi che hanno servito la democrazia e che stanno morendo in miseria. Abbiamo perso la memoria perché è stato un lungo cancro che ha devastato la nostra già fragile democrazia. Ma sono decenni che questa gente circonda il Parlamento con i girotondi, minaccia l’assedio dei forconi in competizione con Mussolini che voleva fare dell’aula sorda e grigia il bivacco per i suoi manipoli. E adesso il fatto nuovo: il trenta per cento degli italiani decide di uscire di casa per andare a votare no al partito del vaffanculismo e a tutti gli opportunisti legati ai loro strapuntini. Peccato che Berlusconi non abbia colto il momento di capeggiare quel no, in quanto leader liberale, preferendo non dispiacere a Salvini e Meloni. Forza Italia si sta riducendo a un partitino privo di copyright, il punto è che il trenta per cento degli elettori dice No a tutti i partiti rappresentati in Parlamento e li manda a quel paese. Peccato, perché Berlusconi e Renzi, rendendosi conto di quel che accadeva, hanno concesso la libertà di coscienza, facendo capire che si doveva votare no, ma facendo finta di non esserne certi. Che peccato, perché quel trenta per cento certifica l’esistenza in vita di un’Italia che non si lascia intortare dai telegiornali in cui Giuseppe Conte appare sempre e comunque anche durante le previsioni del tempo per non dire assolutamente nulla, ma un nulla talmente assoluto da non meritare neppure una parodia televisiva. Però la permanenza sullo schermo ha un effetto elettrodomestico sull’elettroencefalogramma piatto di un popolo spaventato e assuefatto alla infima qualità della politica espressa dal governo e dai suoi componenti. Circolano sui social delle antologie di quello che hanno detto Zingaretti e Di Maio, due a caso, l’uno dell’altro nei mesi scorsi. E ridendo e scherzando pochi ricordano che la democrazia dovrebbe, per quanto creativa e originale, rispondere ad alcuni criteri fondamentali. Primo: il governo dovrebbe somigliare al voto espresso dagli elettori. Questo principio elementare è stato archiviato e sostituito da un altro che si enuncia così: scopo della democrazia è non far vincere l’avversario. Infatti, è stato mentalmente archiviato il fatto che questo Parlamento, senza fare una piega e neanche un plissé, ha sfornato due opposte maggioranze e altrettanti opposti governi, il primo di destra e il secondo di sinistra, sotto la guida dello stesso sconosciuto che un giorno l’amico di un altro amico ha portato al Quirinale e lo ha presentato a Mattarella che aveva – lo ricordiamo bene – gli occhi fuori dalle orbite. Avete notizia di un evento sia pur vagamente simile nella storia di tutte le democrazie del mondo? Quello che è accaduto – e ancora sta accadendo con il processo a Salvini che si sta celebrando a Catania l’abbiamo appena visto. Questo giornale è un diario aggiornato e storico dell’uso politico del processo per fare politica sottraendola al Parlamento, operazione che purtroppo è quasi perfettamente riuscita. Quasi, perché il giorno del referendum, il trenta per cento di coloro che sono andati a votare, hanno scritto No sulla scheda. Ci sono andati malgrado il Covid e malgrado la pioggia o quel che era. È stata una delle più straordinarie imprese democratiche del vero popolo, dai tempi del voto sulla Scala mobile ai tempi di Craxi quando gli elettori dissero di no alla demagogia, peraltro costosissima dei sindacati. È cresciuta una generazione da quando tutto è cominciato, con l’operazione Clean Hands, in italiano “Mani pulite” (di cui io stesso sono stato un cronista entusiasta) che non provò nulla e che si concluse con la messa a morte della prima Repubblica che doveva essere sostituita con un colpo di mano da una nuova classe dirigente già pronta in panchina. Gli italiani – noi italiani – si sono bevuti tutto: le monetine a Craxi, la trattativa Stato mafia, le persecuzioni individuali, il sadismo e la retorica del buonismo al livello più infimo. Nella mia lunga vita di cronista mi è capitato anche di inventare alcune espressioni diventate di uso corrente fra cui il “benaltrismo”. Benaltrismo vuol dire che quando metti il dito nell’occhio del problema, i responsabili saltano su gridando che “ben altri” sono i problemi di cui dovremmo occuparci. Tutta la politica degli ultimi anni è stato un benaltrismo continuo che ha portato alla morte della dignità del Parlamento: in inglese si dice “Charachter assassination”, l’uccisione della personalità. La politica politicante, quella che Nenni tornato dalla Francia chiamava “la politique d’abord” è stata sputtanata, il principio primo e sacro del primato e della sacralità dell’individuo singolo, è stata uccisa dai cingoli dei loro carri armati e – come ha già notato Sansonetti su questo giornale – è rimasta attiva nel Paese una corrente stalinista. In queste settimane sto ricostruendo con ordine ed evidenza il grande porcaio che fu consumato nel biennio in cui Hitler e Stalin iniziarono la Seconda guerra mondiale insieme e dalla stessa parte, fino al momento in cui il primo pugnalò alla schiena il secondo che rimase paralizzato dallo stupore. Quel che successe in quei due anni – e che è pubblico e pubblicato, basta cercarlo – è stato graziosamente velato: mentre i nazisti marciavano sotto l’arco di Trionfo a Parigi fra due ali di folla piangente, i comunisti francesi, seguendo le direttive ed essendo per questo stati messi al bando dalla loro patria, scrivevano sui muri: «Benvenuti, camerati tedeschi che siete venuti a spazzare via insieme al proletariato di tutto il mondo le forze imperialiste e borghesi..». Ovviamente molti staranno già dicendo: e adesso tutto questo che c’entra? C’entra, perché da allora è stato necessario scavare montagne di vergogna e di bugie per fabbricare delle false versioni della storia, dei delitti, delle vicende della mafia e della politica, del terrorismo interno ed esterno. I segnali autonomi e veramente democratici che vengono dai cittadini che non si sono lasciati accecare sono rari e importanti ed è questo il motivo per cui mi sono deciso a scrivere queste righe assolutamente banali, soltanto per ricordarci di ricordare. Abbiamo vinto, questo deve essere ricordato con chiarezza. È stata soltanto la prima vittoria, ma gigantesca perché quei voti sono reali, di vere persone, donne e uomini e quei voti sono noi, e da lì si ricomincia.
Dopo il referendum. Grillo rivela il suo sogno: abolire il Parlamento e far usare a tutti Rousseau. Redazione su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Beppe Grillo ne ha combinata un’altra. 24 ore dopo la conclusione del referendum vinto dai 5 Stelle (che ha sancito il taglio del numero dei parlamentari) ha candidamente dichiarato che la tesi sostenuta da tutti i sostenitori del No era giusta, e che la campagna dei 5 Stelle e di Travaglio era ipocrita. E cioè che è vero che il taglio dei parlamentari è solo il primo passo per abolire il Parlamento. Grillo sostiene che la piattaforma Rousseau del suo amico Davide Casaleggio funziona molto meglio delle antiche assemblee di Montecitorio e palazzo Madama (e di tutti i decrepiti Parlamenti dei paesi democratici dell’Occidente), e che può diventare lo strumento principe della democrazia diretta. Queste dichiarazioni, il capo dei 5 Stelle le ha rilasciate durante un dibattito solennissimo, organizzato dal Presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Grillo dice che invece di affidarsi alla democrazia rappresentativa – alla quale lui non crede – è molto meglio svolgere un referendum alla settimana sulla piattaforma Rousseau, che ha dimostrato di funzionare benissimo durante le varie votazioni che si sono svolte nel Movimento 5 Stelle. Alle quali hanno partecipato, spesso, oltre 40mila persone e cioè appena un po’ meno dello 0,1 per cento degli elettori italiani.
Simone Canettieri per “il Foglio” il 3 ottobre 2020. Adesso il Pd è la "morte nera" perché ormai questa alleanza di governo con i dem "fa male" al M5s. Alessandro Di Battista ormai ha preso questa china e picchia come un fabbro, si sa. Ma c'è stato un momento preciso, un anno e un mese fa, in cui brigò, e non poco, per entrare nel nuovo governo, proprio con Nicola Zingaretti e Matteo Renzi. I primi segnali li diede pubblicamente il 15 agosto quando, vista rottura della Lega, dichiarò che il M5s avrebbe dovuto cercare "altri interlocutori più seri e preparati del ministro del Tradimento". C'è poi un particolare che torna in mente a tanti big grillini in queste ore. Primo settembre 2019, riunione segreta a casa di Pietro Dettori con pizza, sushi e vista su Castel Sant' Angelo. Tutti i capi a conclave per decidere la squadra di governo. E Dibba, appunto, che si mette "a disposizione" per ricoprire il ministero degli Affari europei ("sono la mia specialità), ma anche dello Sport ("è la mia passione"). Una mossa ben vista da tutta la compagnia pentastellata, Luigi Di Maio compreso. Ma che poi si arenò contro i veti di Renzi: allora entra anche la Boschi. Alla fine saltò tutto. Niente ministero, nemmeno senza portafoglio, per Dibba. Che poi ripartirà per un altro viaggio, salvo tornare con il dente avvelenato al grido "basta con il Pd".
Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 4 ottobre 2020. - ESTRATTO. Giuro che mi sto leggendo, per dovere professionale, tutte le cronache, le interviste, i retroscena, i sussurri e le grida che precedono i fatidici stati generali 5Stelle (e me la pagheranno). Ma confesso di continuare a non capire perché mai dovrebbero scindersi. Nella gara a chi spara l' immagine più autoflagellatoria - siamo come l' Udc; anzi, come l' Udeur; mannò, come la Costa Concordia; altro che scatoletta, noi siamo il tonno - manca qualcuno che trovi quello giusto: una via di mezzo tra Fantozzi e Tafazzi. Mi spiego: i 5Stelle, stando alle cronache, erano morti ancor prima di nascere.……………..Di Battista dice che se passa l' alleanza organica col Pd, lui prende e se ne va (dove?). Ma il Pd non è più quello che prendeva ordini da Re Giorgio o dal Giglio Magico, governava con Monti, B., Alfano e Verdini, copiava le ricette di Confindustria e delle banche d' affari, tentava di scassare un terzo della Costituzione e affogava negli scandali. Che vuol fare Di Battista: continuare a fare il Tafazzi, segnalando giustamente gli errori ma tacendo i successi del M5S e contribuendo alla narrazione autoflagellatoria che piace tanto ai giornaloni per non contaminare le sue idee? O vuole riprendersi il posto che gli compete nel nuovo vertice collegiale per far contare le sue idee?
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2020. L'unico che non sorrideva era Beppe Grillo. Ma solo perché la foto lo riprendeva di spalle mentre abbracciava un Luigi Di Maio in estasi. Accanto a loro, a osservare la scena, entrambi a braccia conserte e con espressioni compiaciute, c' erano Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio. Lo scatto era stato fatto nell' ingresso della casa del futuro ministro del Lavoro e poi degli Esteri, come aveva comunicato ai media Rocco Casalino, non ancora convertito sulla via di Volturara Appula. Era la mattina del 5 marzo 2018, su Roma cadeva acqua a catinelle. Il Movimento 5 Stelle aveva appena preso il 33 per cento alle elezioni politiche. Quando finisce un'epoca, la ricerca delle immagini che più l'hanno rappresentata diventa quasi un riflesso condizionato. In questo caso ne segna anche l' inizio della fine. Perché proprio nel giorno dell' apoteosi per un risultato che oggi appare sempre più incredibile, l' asse sul quale si era retto M5S dopo la scomparsa di Gianroberto Casaleggio cominciò a mostrare una crepa. Durante quell' incontro, Davide gelò ogni entusiasmo chiedendo che M5S restasse all' opposizione. Non siamo pronti per andare al governo, era e rimane la sua intima convinzione. Raccontano che Beppe Grillo replicò d' istinto con un «Eh ma belìn, come facciamo?», che a pensarci bene delineava già la linea di una frattura insanabile. Adesso siamo alle rese dei conti annunciate e telegrafate urbi et orbi. Questa era la settimana che Casaleggio figlio-Di Battista aprivano le ostilità, lo sapevano tutti. Non era neppure possibile tergiversare oltre. Il figlio del cofondatore non è mai stato così ai margini della galassia creata da suo padre. È anche un fatto di indole, non si governa solo con l' imposizione di una eredità o di un lascito morale, che in politica sono sempre beni con data di scadenza, come gli yogurt. Davide non ha mai sviluppato un pensiero politico, e dice male le cose che pensa, perché parlare non è mai stato il suo forte, e qui buon sangue non mente. Quando Gianroberto, già provato dalla malattia, lo portava per presentarlo nei salotti della finanza milanese, Casaleggio junior sedeva sempre nel posto più lontano dagli interlocutori. Nonostante gli inviti paterni, si esprimeva a monosillabi, prigioniero di una timidezza che lo rende simpatico e di una diffidenza verso il prossimo che invece avrebbe dovuto rivelare molto del futuro prossimo. Ma a rendere il nome Casaleggio una zavorra è stato proprio lo sgretolamento dell' asse con Di Maio. Non si governa Roma stando a Milano, con il telefono che ormai tace da mesi. L' asse Luigi-Davide nacque nell' autunno del 2014, quando Grillo litigò per l' ultima volta con Gianroberto. E da subito apparve fondato su una reciproca incomprensione di fondo. Per il figlio era l' unico modo per portare avanti l' idea del padre. Per il delfino e futuro segretario politico di M5S era il modo più veloce per scalare M5S. C' era anche il beneplacito di Grillo, che non vedeva l' ora di sfilarsi di dosso oneri di beghe interne, tensioni, e cause legali. Da quel momento, Di Maio cominciò a frequentare quasi ogni settimana Milano, chiedendo massimo riserbo agli interlocutori che incontrava in via Morrone, sede della Casaleggio&Associati. Quelle visite venivano fatte di nascosto dal resto del Direttorio, organo fasullo di governo plurale al quale sembra M5S possa ritornare, cambiandone solo il nome. Non c' è mai stata chiarezza, in questa alleanza. E non c' è mai stato chiarimento in corso d' opera, solo reciproca sopportazione. Ognuno con le proprie idee, opposte le une alle altre. E così lo scontro finale non può che essere cruento. L' attacco ormai costante alla piattaforma Rousseau e all'obolo che i parlamentari devono versarvi non sancisce solo l' abbandono del sogno paterno di una nuova politica dettata dall'intelligenza collettiva, e per una volta lasciamo perdere ormai scontate valutazioni sulla manovrabilità di quest' ultima, ma certifica anche la debolezza del giovane Casaleggio, che era ormai obbligato ad agire, pressato com' è anche da problemi ben più terreni. Senza quel denaro proveniente da Roma come entrata principale se non unica, l' azienda del padre, che spende un milione di euro all' anno per il personale e ha decine di cause legali in corso, rischia infatti di chiudere. E qui si entra in zona Sansone con i filistei. Davide manda avanti Di Battista e intanto aspetta. Perché sa bene che la prova di forza definitiva non saranno le scadenze elettorali con relative sconfitte da gestire, ormai ce n' è una collezione, ma la questione del terzo mandato. Se dovesse prevalere l'asse Casaleggio-Di Battista, che di mandati ne ha fatto uno solo, al contrario di tutti i suoi ormai ex amici, sarebbe la fine dell' attuale ceto dirigente di M5S. «Voi avete avuto la vostra chance, ora dovete lasciare la torcia ad altri». Non è un caso che in questi giorni Di Maio predichi di scelte delle candidature e delle gerarchie interne fatte da per ora fantomatiche segreterie regionali di M5S, attribuendo al movimento una fisicità e un valore al legame con il territorio tali che sembra di sentir parlare un funzionario del vecchio Pci emiliano. In questo bel clima da Game of thrones senza draghi che da anni si respira all' interno M5S, i ricatti sono sempre incrociati. Su Davide pende la spada di Damocle della chiusura del rubinetto romano, ma Di Maio è alle prese con una contabilità che gli toglie il sonno e può fargli perdere del tutto la faccia agli occhi dei militanti pentastellati. Se da Milano dovessero premere il pulsante della guerra atomica, e fintanto che esiste Rousseau la valigetta rossa ce l' hanno ancora, bastano 15-20 senatori che si sfilano. Il governo sarà per forza obbligato a cercare i presunti fuoriusciti berlusconiani. Quelli che Di Maio ha sempre schifato in ossequio alla pancia del movimento, al punto da sottrarsi a suo tempo all' incontro con Silvio Berlusconi che poteva farlo assurgere alla presidenza del Consiglio. Questione di vita o di morte, per tutti e due. La posta in gioco è così alta che potrebbero anche continuare a odiarsi raccontando in primo luogo a sé stessi che siamo una grande famiglia, siamo diversi dagli altri, facciamo un' altra bella foto e va tutto bene, almeno finché va.
I grillini tradiscono Casaleggio: il documento finale degli Stati generali lo prepara un'altra società. Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 25 ottobre 2020. Si chiama Avventura Urbana e dovrà seguire e sintetizzare i lavori in corso in un testo da cui il Movimento vuole ripartire. La società, venticinque anni di esperienza con grandi società, dovrà fare i conti con la litigiosità dei Movimento e le stravaganti proposte che vengono avanzate. Viene meno l'esclusiva della Casaleggio Associati sul Movimento 5 Stelle. Cade perché i pentastellati, che prima bisticciano e poi si affrettano ogni giorno a dire che "non ci sarà scissione", per uscire indenni dagli Stati generali hanno deciso di affidarsi a una società con un expertise in risoluzione dei conflitti pubblici. La scelta è caduta su Avventura Urbana, azienda torinese a cui i grillini hanno affidato la missione di seguire i lavori degli eletti e degli attivisti per poi sintetizzare ore e ore di videoconferenza in un documento conclusivo. L'atto da cui dovrebbe ripartire il M5S. Un compito improbo. Perché il tasso di litigiosità tra i grillini, in particolar modo tra quelli che taglierebbero volentieri ogni rapporto con Davide Casaleggio, è ormai altissimo. Perché bisogna seguire le idee - spesso confliggenti, tante volte bizzarre - che spunteranno nel corso delle riunioni online fissate da qui all'appuntamento finale dell'adunata, che cadrà metà novembre. Perché vanno messe d'accordo 8.000 teste, incluse le due dell'ex capo politico, Luigi Di Maio, e di Alessandro Di Battista: uno vuole parlare con il Pd per arrivare alle Comunali del 2021 con quanti più candidati condivisi, l'altro è allergico a qualsiasi tipo di alleanza. A tentare l'impresa saranno Iolanda Romana e il suo staff. Professionisti esterni che, come dicono i 5S, "non sono state scelte di certo secondo criteri d'appartenenza". Il curriculum della fondatrice pare confermare il giudizio dei pentastellati. A nominarla commissaria della Tav Terzo Valico, la tratta ad alta velocità tra Genova e Novi Ligure, era stato l'ex ministro piddino dei Trasporti, Graziano Delrio. Poi è arrivata l'avventura con Airbnb, a caccia di esperti in grado di gestire le controversie con lo Stato del colosso degli affitti brevi. Infine i 5S con un accordo di cui ora la presidente di Avventura Urbana, contattata al telefono, ora "preferisce non parlare". Nessun dettaglio. Se se ne chiede qualcuno in più agli organizzatori degli Stati generali del Movimento, la risposta è da trincea: "Ci stiamo allontanando dalla Casaleggio Associati? Non è vero, nessuna fuga. Avventura Urbana ci aiuterà a tirare fuori il documento finale. Stavolta facciamo sul serio". Proprio come gli attivisti, che sabato mattina, nella prima giornata di meeting 2.0, hanno tirato fuori uno straordinario mix di proposte. Un miscuglio di riforme che investono tanto la gestione del debito pubblico che la necessità di tassare i tamponi femminili, troppo inquinanti. Che accostano la riforma della pubblica istruzione al bisogno di sterilizzare i cinghiali urbani per evitare nuovi abbattimenti. Insomma, la sintesi non si preannuncia facile. La società post-Casaleggio dovrà mettere a frutto tutti i 25 anni di esperienza che sponsorizza sul web. Un quarto di secolo passato a collaborare con la Città Metropolitana di Torino (prima dell'avvento dei 5S) e Lavazza, con Anas e Fiera di Milano, con Invitalia e Costa Crociere. Ora sotto con i mal di pancia a 5 Stelle.
"Vi spiego come ha incartato il partito". “Casaleggio ritiene i 5 Stelle sua proprietà, così ricatta Grillo”, il retroscena di Marco Canestrari. Angela Nocioni Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Hanno poco da minacciare la scissione i parlamentari Cinque stelle assurti, senza gloria, al ruolo di ribelli. Che gli calza larghissimo. Non ci si scinde da una società privata della quale si è impiegati precari. Al limite ci si licenzia. «Davide Casaleggio è un noleggiatore di seggi, un broker di posti in Parlamento. I deputati e senatori M5S fanno finta di non saperlo». Così Marco Canestrari, ex braccio destro di Gianroberto Casaleggio e conoscitore del reale funzionamento della piattaforma Rousseau attraverso la quale Casaleggio tiene appesi per le orecchie i grillini, liquida la questione della fattibilità di una scissione del partito, che è proprietà assoluta della società privata ricevuta in dono da Davide, erede unico, alla morte del padre. Talmente padrone del partito è Davide e talmente temporanei dipendenti suoi sono tutti i senatori e deputati M5S, che i parlamentari grillini nemmeno sembrano aver letto lo statuto con cui l’erede della Casaleggio associati li ha incartati. O, se l’hanno letto, non hanno capito cosa c’è scritto. Ricorda Canestrari: «Casaleggio e i suoi pochi collaboratori stretti sono gli unici a poter gestire gli iscritti, le campagne elettorali e persino gli atti burocratici necessari alla presentazione delle liste. Lo statuto del Movimento Cinque stelle assegna in maniera esclusiva e incontestabile alla piattaforma Rousseau il compito di gestire amministrativamente e finanziariamente il partito. Tanto che il bilancio del partito non esiste. Tutti i soldi, ma proprio tutti tutti, li gestisce Rousseau, cioè Casaleggio». Uno statuto si può cambiare, certo, non sono le Tavole della Legge. Ma Davide Casaleggio si premurò, quando lo fece firmare a Di Maio nel 2017, di prevedere una procedura farraginosa e assai complessa per eventuali future modifiche. Anche se i ribelli ci si mettessero a lavorare di fino e riuscissero a ottenere l’ok per cambiare mezza parola, alla fine qualsiasi modifica dovrebbe essere passata al vaglio del voto degli iscritti. Come? Sulla piattaforma Rousseau. «Qualsiasi modifica deve passare da uno strumento proprietà di Casaleggio e solo da lui controllabile», ricorda Canestrari. Quindi cosa vuoi scindere? La stessa cosa vale per il Blog delle Stelle. Casaleggio ha pubblicato giorni fa uno schiaffo ai vertici del partito sul blog, canale ufficiale del sedicente movimento. Il povero Vito Crimi, in teoria il capo politico, ha dovuto utilizzare Facebook per provare a puntualizzare che Casaleggio l’ha fatto attraverso un post «il quale rappresenta una sua iniziativa, personale e arbitraria» e per tentar di dire «il fatto che il blog sia gestito dall’associazione Rousseau non autorizza il suo presidente a utilizzarla per veicolare messaggi personali». Perché il blog non è roba sua. Smentendosi così da solo. Il blog di cui Crimi rivendica l’uso ufficiale al partito non è del partito, ma dell’associazione Rousseau di cui Davide è presidente irremovibile per statuto. Solo lui per diritto ereditario può aver diritto al controllo dei dati. «L’unica cosa che non è per proprietà privata in mano a Casaleggio è il marchio – ricorda Canestrari – che è di Grillo, il quale lo concesse in uso all’associazione il cui statuto però mette Rousseau a gestire tutto». «Ma Casaleggio si compra Grillo – dice Canestrari («lui è sempre in vendita. Lo scriva proprio così testuale: è sempre in vendita») perché è Rousseau che gli dà copertura legale, cioè gli paga le cause. Si tratta di tanti soldi che Grillo non ha alcuna intenzione di mettere di tasca sua». Eppure se i Cinque stelle non possono nemmeno respirare senza chiedere il permesso a Casaleggio che infatti può brandire la minaccia di trascinarli in tribunale, anche lui dipende da loro. Come starebbe in piedi la sua società se non arrivassero i 300 euro al mese che ciascun parlamentare è tenuto a versare e che molti hanno smesso di dargli da tempo perché, dicono loro, considerano quell’obolo una tassa illegittima pretesa da un caporale? «Non è proprio così», dice Canestrari. «È vero che dagli iscritti al partito avrà preso in tutto mezzo milione di euro e che i parlamentari gli garantiscono invece un milione di entrate annue. Ma è vero anche che a Casaleggio basta reggere due anni. Con i soldi che gli passano i parlamentari silenti, che sono tanti, regge tranquillamente. La struttura della sua società è leggera. Ce la fa a pagare tutti. Finita la legislatura i parlamentari ribelli se ne devono andare a casa perché se c’è una cosa alla quale Casaleggio non derogherà mai è il limite dei due mandati. A quel punto sarà il momento della lunga fila di iscritti che non vedono l’ora arrivi il loro turno per candidarsi. Tra parlamentari e consiglieri regionali delle nuove infornate, anche se saranno numericamente di meno, sai quanti soldi incasserà Casaleggio… Può pensare serenamente a fare con Di Battista un M5S di opposizione, se vuole. La differenza fondamentale – per Casaleggio è la vera carta vincente – è che i suoi nemici devono per forza pensare ai prossimi due anni. Poi scadono. Lui ai prossimi dieci».
Emilio Pucci per “il Messaggero” il 9 ottobre 2020. «Siamo stanchi di essere dei bancomat umani, degli schiavi. Neanche Gomorra gestisce così i nostri fondi. Vogliamo sapere dove vanno a finire i soldi». Il nodo Casaleggio è stato congelato dai vertici fino agli Stati generali ma i parlamentari non ci stanno. Chiedono chiarezza. E non accettano neanche eventuali minacce di scissioni da parte del figlio di Gianroberto, in realtà smentite dall'associazione Rousseau. Ma ora spunta un documento che circola nelle chat di deputati e senatori e che riaccende la miccia. Si tratta di un verbale di assemblea del Comitato Italia a 5 stelle 2019. Più precisamente di una modifica dello statuto finora non era nota - effettuata il 21 gennaio a Roma, negli uffici del Vicario alle ore 13, alla presenza del notaio Amato. I componenti del Comitato nato l'anno scorso per gestire la festa M5s sono i vertici dell'associazione Rousseau (non c'è Davide però), con lo scopo si legge nel primo atto costitutivo - di curare attivamente l'organizzazione, la promozione, il coordinamento, la gestione delle manifestazioni Italia a 5 stelle, nonché ogni altra attività di utilità sociale anche a sostegno di eventi terzi, ponendo in essere ogni possibile iniziativa utilizzando i fondi all'uopo raccolti. Solo che nessuno all'interno del Movimento sapeva che quel comitato si è trasformato in Comitato iniziative 5 stelle e che si è allungato la vita sino al 31 dicembre 2022 mentre avrebbe dovuto chiudere - da statuto iniziale il 31 dicembre del 2020. Fu chiuso, invece, il Comitato sulle Europee con i fondi che sono serviti a finanziare le Regionali. «E' la prova sottolinea un deputato che non c'è alcuna trasparenza». La spiegazione che viene fornita è che la decisione è stata motivata per assemblare ogni manifestazione, per supportare i facilitatori del futuro che il giorno dopo la riunione dal notaio, il 22 gennaio, vennero presentati alla stampa da Di Maio in un evento durante il quale l'attuale ministro degli Esteri fece un passo indietro da capo politico. Crimi questa la tesi era a conoscenza delle modifiche dello statuto. E la protesta tra i parlamentari monta. I pentastellati versano per le iniziative sui territori 1000 euro al mese e all'anno ne devono dare altri 3000 per Italia 5 stelle. La festa M5s quest' anno non si è tenuta e non si terrà neanche il prossimo anno. Tra le lamentele di big e peones il fatto che in questo comitato che gestisce le risorse non ci sia alcun esponente politico. E sotto traccia si ricorda il trasferimento del fondo cassa (circa 120mila euro) dal Comitato eventi nazionali, che organizzò la festa di Italia 5 Stelle a Rimini nel 2017, all'Associazione Rousseau, con tanto di causa portata avanti da Lorenzo Borrè, avvocato degli espulsi grillini. Solo che questa volta a minacciare di andare alle carte bollate sono proprio quelli del Movimento. «E' un episodio vergognoso. Chi ha autorizzato e con quale lettera scritta a costituire e a lasciare in vita questa struttura? E con quali fini? Perché agiscono a nome dei Cinque stelle?», si chiede un deputato. «E' un abuso, in quei giorni non c'era neanche un capo politico. E' un illecito, uno scandalo. Devono tirare fuori un documento scritto e firmato», si sfoga un senatore. Ecco, in questo clima si cerca di costruire il percorso degli Stati generali del 7 e 8 novembre. Saranno trecento i delegati che arriveranno a Roma, in rappresentanza dei territori. Verranno fuori tre documenti tematici: uno sui valori, un altro sul programma e l'ultimo sulla organizzazione. Varrà il voto finale degli iscritti. La direzione resta quella dell'organismo collegiale guidato da un primus inter pares ma non si esclude che il portavoce del direttorio possa essere un outsider. Sullo sfondo resta l'incognita Di Battista che ha fatto sapere di non voler accettare di far parte del nuovo board ma di non volere neanche la scissione.
Casaleggio: «Se M5S diventa partito non darò più il mio supporto». Cesare Zapperi per corriere.it il 4 ottobre 2020. «Se il M5S diventata un partito non garantiamo il supporto di Rousseau». Davide Casaleggio sul Blog delle Stelle rompe il silenzio, in mezzo a tante polemiche e proprio nel giorno dell’undicesimo compleanno, con un post titolato «Noi siamo Movimento. «Ora è arrivato il momento di prendere posizione». Segue una sorta di altolà al termine di una lunga ricostruzione di cosa è stato il M5S, partendo dal ricordo del padre Gianroberto. «Il MoVimento 5 stelle è nato proprio con alcune promesse agli iscritti e agli elettori che io non ho dimenticato e non posso sconfessare. La prima di queste è che non saremmo mai diventati partito, non solo come struttura, ma soprattutto come mentalità. Molti confondono la parola partito con una struttura organizzativa, ma in realtá è un’impostazione di potere».
«Un modello alternativo». «"portavoce sono i dipendenti dei cittadini" ripeteva e riteneva che l’antidoto alla debolezza umana di fronte al fascino del potere, dei soldi e della visibilità sarebbe stato quello di mantenere ben saldi i pilastri decisionali in un metodo di partecipazione orizzontale, digitale, distribuito e soprattutto libero da condizionamenti esterni», scrive Casaleggio. «Un modello alternativo e innovativo rispetto a quello novecentesco delle gerarchie di partito. Questa era la sua missione. Questa era ed è la nostra missione. Con questo modello negli anni abbiamo dimostrato di poter fare quello che nessuno riteneva possibile: un movimento di persone libere, capaci di portare le proprie battaglie al Governo e realizzarle con metodi unici e diversi da tutti. Come abbiamo fatto per alcune battaglie importanti nate da una marcia ad Assisi o da una protesta in piazza con il V-day sfociate poi in disegni di legge come il reddito di cittadinanza o lo spazzacorrotti scritti dai nostri portavoce e attuati dai nostri ministri», prosegue il post.
«Noi siamo Movimento». Casaleggio ricorda la differenza tra le caratteristiche del Movimento e i partiti tradizionali. Il nostro modello è evoluto e sicuramente deve evolvere ancora. Bisogna guardare avanti e non indietro. Non guardare indietro significa non avere nostalgia di come eravamo nel 2009, ma neanche guardare al 1950. II partitismo è il rifugio di chi ha paura di perdere i privilegi che ha accumulato, ma solo chi è disposto a perdere tutto quello che ha, può ottenere tutto quello che vuole. Il partitismo è qualcosa che entra piano piano e poi rimane indelebile nel ricordo di ciò che non ha funzionato. Ma il partitismo è soprattutto incompatibile con l’idea di movimento, di unicità e di partecipazione che è racchiuso in quel simbolo disegnato sulla scrivania di mio padre. Un simbolo basato su valori, idee e battaglie ben precisi, su principi chiari di partecipazione e soprattutto legato a un’esperienza bellissima di 11 anni di un movimento che ha cambiato la storia dell’Italia combattendo proprio contro l’idea di partito, di casta e di accentramento delle decisioni nelle mani di pochi privilegiati chiusi in qualche stanza».
«Se M5S diventa partito non garantiamo supporto». Quindi, l’annuncio sul futuro. «Garantiremo le attività che verranno richieste dal Capo Politico del MoVimento 5 Stelle, così come abbiamo sempre fatto con serietà e lealtà, per la realizzazione del percorso che il MoVimento riterrà di voler fare, ma qualora, per qualche motivo, si avviasse la trasformazione in un partito, il nostro supporto non potrà più essere garantito, dal momento che non sarebbe più necessario poiché verrebbero meno tutti i principi, i valori e i pilastri sui quali si basa l’identità di un MoVimento di cittadini liberi e il suo cuore pulsante di partecipazione che noi dobbiamo proteggere. Per 15 anni ho prestato la mia attivitá gratuitamente per un’idea di partecipazione collettiva da parte dei cittadini alla vita del proprio Paese. Lo hanno fatto anche migliaia di attivisti che continuano a regalare il loro tempo alla comunità. Quando mi è stata offerta la guida di un ministero, ho rifiutato pensando che il ruolo di supporto del movimento fosse piú importante. Ho sempre rispettato i ruoli anche quando non ero d’accordo con le scelte prese. Ho dovuto sopportare insinuazioni, attacchi e calunnie nei miei confronti e nei confronti di mio padre anche da persone che grazie al nostro lavoro ricoprono oggi posizioni importanti. Il mio silenzio negli anni è stato un atto di profondo rispetto nei confronti di chi ha creduto nel nostro sogno, così come oggi ritengo sia doveroso parlare per onestà intellettuale».
Il futuro del M5S. La conclusione lascia aperta una piccola porta per il futuro. «Qualunque cosa ci riserverà il futuro, questa idea di movimento proseguirà e si espanderà in ogni caso nei mille rivoli della comunità e Rousseau continuerà ad essere accanto a questa idea. In questi giorni difficili abbiamo ricevuto migliaia di email e messaggi dalle tantissime persone che vogliono aiutare il MoVimento e Rousseau. Per questo abbiamo deciso di coinvolgere tutti i cittadini che vogliono aiutarci a mantenere in vita questo progetto, a migliorarlo sempre e che abbiano idee su come creare quegli spazi di confronto che oggi mancano. Saranno gli “ambasciatori della partecipazione” diffusi in tutta Italia. Nei prossimi giorni daremo i dettagli. La nostra identità, il metodo unico e gli strumenti che abbiamo costruito sono la ricchezza più grande che possediamo e dobbiamo condividere la nostra esperienza per far germogliare l’idea della partecipazione civica attiva e digitale in tutto il mondo».
Dagospia il 4 ottobre 2020. Dalla pagina Facebook del Movimento 5 Stelle. Il Blog delle Stelle è il canale ufficiale del Movimento 5 stelle e Davide Casaleggio non ricopre alcuna carica nel Movimento 5 Stelle. Il post pubblicato in data odierna sul Blog delle Stelle a firma Davide Casaleggio rappresenta una sua iniziativa, personale e arbitraria, diffusa attraverso uno strumento di comunicazione ufficiale del Movimento 5 Stelle. Il fatto che il Blog delle Stelle sia gestito dall'associazione Rousseau non autorizza il suo presidente a utilizzarla per veicolare suoi messaggi personali non condivisi con gli organi del Movimento 5 Stelle. Il Movimento 5 Stelle siamo noi, tutti, non è appannaggio di qualcuno in particolare.
Ilario Lombardo per “la Stampa” il 6 ottobre 2020. «Li porto tutti in tribunale». Davide Casaleggio ha pronunciato più volte nelle ultime settimane queste parole. E non lo ha fatto solo lui. Anche Enrica Sabatini, suo braccio destro e numero due dell' Associazione Rousseau, l' ha comunicato a uno dei pochi parlamentari che mantengono un contatto diretto con il figlio del fondatore, ormai in guerra aperta con gli eletti del M5S. Casaleggio jr sarebbe intenzionato ad arrivare fino in tribunale se la lite con deputati e senatori non dovesse risolversi con un compromesso. In ballo ci sono i finanziamenti - a partire dai 300 euro che i parlamentari sono tenuti a versare a Rousseau, l' associazione che gestisce la piattaforma - ma c' è soprattutto l' uso del simbolo, del Blog delle Stelle, e più profondamente il senso ultimo del Movimento. L'ultimo scontro è sul Blog delle Stelle: di chi è, cosa rappresenta, chi può scriverci sopra. Più volte i parlamentari hanno accusato Casaleggio di farne un uso privato. Come, a loro avviso, ha fatto domenica, lanciando il suo j'accuse contro la voglia di diventare partito dei grillini. All'imprenditore ha risposto il comitato di garanzia, dove siede il reggente Vito Crimi, con un comunicato in cui di fatto si dava a Casaleggio dell'abusivo, per la strumentalizzazione arbitraria del sito vetrina del M5S. Il comunicato è stato pubblicato sulla pagina Facebook del M5S, non sul blog, dove l' indomani - ieri - il presidente di Rousseau è tornato a farsi sentire: «Si precisa che il Blog delle Stelle (come riporta anche la privacy policy del Blog) è il blog ufficiale sia del M5S che dell' Associazione Rousseau. Davide Casaleggio, in quanto presidente dell'Associazione Rousseau, è pienamente titolato a pubblicare i suoi articoli sul Blog». Siamo a un passo dalle comunicazioni tra avvocati. E Casaleggio è pronto ad arrivare davanti a un giudice per far rispettare questa clausola come anche il contratto che impone agli eletti 300 euro di contributo. È un divorzio che logora ogni residua speranza di risollevare un Movimento a pezzi. Persino Nicola Morra, seppur critico con la gestione privatistica di Rousseau, è arrivato a sostenere la tesi di Casaleggio, dichiarando di essere pronto ad andarsene se il M5S dovesse trasformarsi in un partito tradizionale. Ieri ci ha provato Luigi Di Maio a sollevare gli umori festeggiando le vittorie in un pugno di comuni, tra i quali la sua Pomigliano, dove è in corso di sperimentazione l'alleanza con il Pd. Per il ministro, fino a metà agosto contrario alle intese con i dem, è la prova che è la strada da seguire. Ma soprattutto è un (piccolo) successo che può sventolare contro Alessandro Di Battista e Casaleggio jr. Sul presidente di Rousseau Di Maio è prudente, è il primo a temere le cause, perché conosce il complicato marchingegno alla base dello statuto fondativo dell' Associazione M5S, dove lui e Davide risultano soci fondatori. Uno statuto che consegna nelle mani di Casaleggio un potere enorme. È il motivo per cui i deputati stanno studiando un modo per riscriverlo. Alcuni di loro sono tornati a farsi sentire con Grillo. Gli hanno chiesto di riappropriarsi del simbolo che il comico ha lasciato in comodato d' uso a Casaleggio Jr. Così, sostengono, si potrebbe ripartire daccapo, con nuove regole e una piattaforma open source studiata da hacker ed esperti informatici, che verrebbe gestita dagli organi interni al M5S. Resta però un punto interrogativo: cosa farà Grillo.
Estratto dell’articolo di Simone Canettieri e Luciano Capone per “il Foglio” il 6 ottobre 2020. (…) Questa rivendicazione i vertici del M5s l’hanno scritta solo su Facebook, cosa che dimostra ipso facto chi abbia il controllo del sito. La verità è che il blog è di Casaleggio: l’Associazione Rousseau – di cui Davide è capo assoluto e perpetuo per diritto ereditario – è proprietaria del dominio ilblogdellestelle.it e titolare del trattamento dei dati. Ma oltre alla comunicazione sull’ house organ, anche l’agibilità politica è completamente compromessa senza Casaleggio. (…) (…) Il M5s non è autonomo neppure dal punto di vista finanziario: il suo bilancio non esiste, è una lunga colonna di zeri. La cassa è in mano a Casaleggio che, sempre attraverso l’Associazione Rousseau, gestisce 1,4 milioni di euro di donazioni e contributi, tra cui i famosi 300 euro che gli eletti sono obbligati a versare da regolamento (art. 6). Il partito non ha neppure il controllo del simbolo. Il logo è infatti di proprietà dell’Associazione M5s di Genova (cioè quella di Beppe Grillo, fondata nel 2012) che lo ha concesso in uso all’Associazione M5s del 2017 (quella ora guidata provvisoriamente da Crimi). (...)
Francesco Malfetano e Emilio Pucci per “Il Messaggero” il 6 ottobre 2020. Dati, elenchi, iscritti, donazioni e attività. In un solo concetto: big data. È questo il vero tesoro digitale dell' Associazione Rousseau di Davide Casaleggio che ora il Movimento 5 Stelle rischia di perdere. Anni di informazioni sulla democrazia diretta che, con un' esclusione dell' erede di Gianroberto, di colpo non sarebbero più a disposizione dei pentastellati. Che fine faranno i nomi degli iscritti? Chi potrà accedere ai loro indirizzi e ai documenti di riconoscimento? E quelli degli eletti? Quale entità sarà in grado di determinarne le possibilità di spesa attraverso le donazioni effettuate fino ad oggi? Chi sarà in grado di conoscere le preferenze di voto espresse negli scorsi anni? Non è dato saperlo. Così come non è dato sapere quanto questi siano davvero importanti per mandare avanti il Movimento. Oggi quindi il rischio è che Casaleggio jr, come se si trattasse di una partita di calcio improvvisata per strada, prenda il pallone e se ne torni a casa. Un rientro mesto però perché lo costringerebbe a rinunciare non solo agli 1.4 milioni di euro di donazioni alla piattaforma quanto all' influenza di cui gode come eminenza grigia del partito. Motivazioni tutt' altro che banali che, secondo alcuni dei deputati cinquestelle, finiranno con il portare ad un' intesa utile a tutti, anche se solo transitoria. All' interno dello statuto di costituzione del M5s (quello del 2017 che vede Luigi Di Maio e proprio Casaleggio come co-fondatori), Rousseau viene indicato come un servizio permanente, senza scadenze. Riuscire ad imporre una data di riferimento, assumendo l' Associazione con un contratto a tempo determinato, potrebbe far andare il gruppo agli Stati Generali con uno spirito diverso. Intanto ieri a rialzare almeno in parte i toni ci ha pensato Beppe Grillo. Mentre l' ala governista festeggia per il modello Pomigliano', con la vittoria di 5 comuni su 6 dove M5s è andato al ballottaggio, l' ex comico ai fedelissimi fa trapelare la sua rabbia: «Liti da asilo infantile» tuona. E la furia che colpisce un po' tutti, anche chi, come il capo politico Vito Crimi, domenica ha sbarrato la strada a Casaleggio, contestandone la possibilità di poter scrivere sul Blog delle stelle. «Dovrebbe esserci riconoscenza nella vita», la sua idea che rimanda all' opera meritoria di Gianroberto.Ma le sue riflessioni, recapitate ai senatori e ai deputati che lo hanno chiamato, coinvolgono anche il presidente dell' associazione Rousseau e gli attacchi di Di Battista sul M5s paragonato all' Udeur. «Picconare dall'esterno come un Salvini qualsiasi è puro autolesionismo», lo sfogo. La convinzione è che «indietro non si torna» e che quell' affondo sulla necessità che il Movimento torni alle origini «non ha senso», perché la strada è già tracciata. E - questo il parere di Beppe - deve avere come unica direttrice la stabilità del governo e le esigenze dei cittadini. Proprio per questo Grillo non chiude la porta alla possibilità del terzo mandato «se - ha spiegato nei giorni scorsi ai suoi interlocutori - servirà a garantire il percorso intrapreso». Ma l' ipotesi di lasciare alla prossima segreteria (collegiale) l' eventualità di deroghe è tutta da tradurre in realtà. In ogni caso fonti informate spiegano che il fondatore M5s sta ragionando con Casaleggio su una soluzione. L' exit strategy ancora non c' è ma il nuovo direttorio - questa la spinta dell' ala governista - dovrebbe avere accesso ai database degli iscritti, alle chiavi della piattaforma per ricondurla di fatto dentro il Movimento. «Siamo ad un punto di non ritorno», spiega un big M5s, «o si risolve o si va a carte bollate, una separazione consensuale non è possibile». La spinta dei parlamentari però va in un' altra direzione: «Basta, interrompiamo i rapporti con Davide», il refrain nelle chat.
Dagospia Da affaritaliani.it il 6 ottobre 2020. Ormai è guerra aperta. Il M5s non ne fa più segreto, è spaccato in diverse fazioni e nessuno decide su cosa sia giusto fare, quali mosse adottare, in un vero e proprio vuoto di potere. Con il reggente Vito Crimi, ormai di fatto sfiduciato. Il nemico numero uno, però, è Davide Casaleggio, il patron della piattaforma Rousseau. "Li porto tutti in tribunale", è la frase che il figlio del fondatore del Movimento Gianroberto continua a ripetere ai suoi più stretti collaboratori. Casaleggio jr - si legge sulla Stampa - sarebbe intenzionato ad arrivare fino in tribunale se la lite con deputati e senatori non dovesse risolversi con un compromesso. In ballo ci sono i finanziamenti - a partire dai 300 euro che i parlamentari sono tenuti a versare a Rousseau, l’associazione che gestisce la piattaforma - ma c’è soprattutto l’uso del simbolo, del Blog delle Stelle, e più profondamente il senso ultimo del Movimento. L’ultimo scontro è sul Blog delle Stelle: di chi è, cosa rappresenta, chi può scriverci sopra. Più volte i parlamentari hanno accusato Casaleggio di farne un uso privato. Come, a loro avviso, ha fatto domenica, lanciando il suo j’accuse contro la voglia di diventare partito dei grillini. Siamo a un passo dalle comunicazioni tra avvocati. E Casaleggio è pronto ad arrivare davanti a un giudice per far rispettare questa clausola come anche il contratto che impone agli eletti 300 euro di contributo. È un divorzio che logora ogni residua speranza di risollevare un Movimento a pezzi. Deputati e senatori ribattono: "Vogliamo i nomi dei 170 mila iscritti alla piattaforma Rousseau".
Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” il 6 ottobre 2020. La prossima mossa sarà una lettera con cui i garanti del Movimento chiederanno a Davide Casaleggio di consegnare loro la lista degli iscritti. Se non vorrà farlo, cercheranno di imporglielo per via giudiziaria. Perché quei 170mila nomi, quegli username e quelle password che hanno il diritto di scegliere quale strada devono prendere i 5 stelle, come hanno fatto - solo l'ultima volta - nel voto di Ferragosto che ha sdoganato le alleanze sul territorio, non possono essere esclusivo appannaggio di colui che ormai i dirigenti grillini considerano un mero "fornitore di servizi". Così, la guerra civile che infuria non sembra destinata a placarsi in alcun modo. C'è solo una persona che potrebbe intervenire con qualche speranza di essere ascoltata. O che almeno potrebbe provarci. Ma Beppe Grillo, il garante, colui che per statuto ha l'ultima parola su tutto, rimane silente. In attesa che quel che deve avvenga come per inerzia: che sia un accordo o una scissione, ipotesi che - visti gli ultimi colpi delle fazioni in lotta - sembra ormai la più probabile. «Ho questa bellissima qualità, di non dover dire sempre per forza la mia», scrive il fondatore del Movimento a Repubblica. È quel che ha ripetuto a tutti coloro che lo hanno cercato: «Tenetemi fuori». Ma non è, a detta di molti parlamentari, quello di cui il M5S ha bisogno in questo momento. In cui la fragile guida di Vito Crimi si ritrova schiacciata tra le fazioni in lotta. Senza che ormai nessuno tenti neanche più di nascondere le sue intenzioni. Davide Casaleggio ieri ha ricordato, con una nota, che il blog delle Stelle «è il blog ufficiale sia del Movimento 5 stelle che dell'Associazione Rousseau». È scritto nella privacy policy del sito, una clausola che nessuno - tra i dirigenti del Movimento - era mai andato a guardare. E che smentisce così il durissimo comunicato del comitato di garanzia del giorno prima, quello in cui si intimava al figlio del cofondatore di non usare per i suoi scopi l'organo ufficiale dei 5 stelle (il manager aveva appena pubblicato un post in cui, di fatto, accusava i leader grillini di carrierismo e minacciava di tagliare ogni tipo di servizio informatico nel caso l'avvento di una struttura trasformi il M5S in un partito). È uno scontro che fino a pochi mesi fa nessuno, neanche ai vertici, avrebbe mai immaginato. Ma è la conseguenza diretta di un'architettura costruita in modo contorto proprio perché l'intenzione di Casaleggio junior è sempre stata quella di tenere avvinta a sé la creatura nata dalla mente di suo padre. Così, pare quasi che il manager chieda a Di Maio «Che fai, mi cacci?», come un novello Gianfranco Fini. E invece di cedere, rilancia, dicendo attraverso i suoi alleati (Di Battista, Bugani, Corrao) che se scissione sarà, gli scissionisti saranno i parlamentari e i ministri M5S, rei di aver scoperto la politica e tradito i principi originari una volta arrivati al governo. Ma i tempi sono cambiati e il dramma, invece di consumarsi in diretta tv, va in scena sul sito che le due fazioni si contendono. Quel blog delle Stelle il cui nome è nel simbolo che lo stesso Casaleggio - insieme a Di Maio - ha depositato per permettere ai 5 stelle di correre alle ultime politiche. Così, la diatriba legale - se si finirà in tribunale - potrebbe riguardare anche il simbolo. E potrebbe non avere esiti così scontati. Dopo l'ultima lite, scoppiata proprio sul voto d'agosto sulle alleanze, che Casaleggio non voleva e di cui avrebbe cambiato il quesito per tentare di condizionarne l'esito, il manager è arrivato a Roma - ai primi di settembre - con la proposta di un contratto da fornitore esterno. Solo che in quel contratto scriveva che l'ultima parola sui contenuti dei quesiti, sui post, perfino sui loro autori, doveva averla lui. E in più chiedeva come pagamento 1 milione e 200 mila euro all'anno. Fissi, anche se dopo le fuoriuscite gli eletti del Movimento sono diminuiti. Crimi non ha firmato. «È irricevibile», ha detto il reggente. Da allora, la lite non si è più fermata. Tanto da far dire a tutte le prime linee grilline, praticamente senza esclusioni: «Se ne andasse, si portasse via il blog, che lo seguano Di Battista e compagnia, staremo meglio senza». Sono convinti che i parlamentari, anche quelli al primo giro che non hanno nessuna voglia di vedere i leader attuali blindati dalla possibilità di un terzo mandato, alla fine resteranno. Magari per evitare che il governo cada. E che tutto finisca prima del previsto, anche per loro.
Estratto dell’articolo di Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 5 ottobre 2020. Il divorzio che appare ormai inevitabile obbligherà tutti a rivelare chi è padrone di cosa. Di chi è il Blog delle Stelle? Chi è il vero padrone del simbolo? E soprattutto: a chi appartengono, legalmente, le chiavi dei dati raccolti in questi undici anni, compresi i nomi, i telefoni, gli indirizzi email, i curriculum pubblici e i dossier riservati degli iscritti? Non sarà un bello spettacolo, per un movimento nato nel nome della trasparenza ma passato dallo streaming alle riunioni blindate. Eppure, prima o poi doveva succedere. E oggi, come ha scritto Casaleggio jr, «il momento è arrivato».
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 5 ottobre 2020. L' epilogo. Lo scontro che va in scena in queste ore ai vertici del Movimento ha radici lontane: risale alla batosta delle Europee, quando Davide Casaleggio chiede a Luigi Di Maio un passo indietro. E la miccia si è accesa questa estate, quando Di Maio tenta un blitz sul terzo mandato per gli eletti e Casaleggio replica con la votazione di ferragosto, che nei fatti ritarda il terzo mandato ma crea allo stesso tempo una deroga per i sindaci. Nodi, cavilli, equilibri incerti su cui un M5S in crisi non riesce più a reggersi. E il confronto ora è esploso. Negli stessi minuti in cui il comitato di garanzia - vicino all' ex capo politico - attacca Casaleggio, Di Maio scrive sui social: «Rimaniamo uniti e guardiamo avanti». Prima ancora Roberto Fico commenta: «Il Movimento non potrà essere più quello delle origini, ma da quelle radici deve comunque trovare nutrimento». Parole che mirano più che al compromesso con il presidente di Rousseau al perseguimento di una linea. Ma ormai la frattura sembra difficile da comporre. C' è chi spera ancora in una mediazione come Nicola Morra («Confrontiamoci») o Stefano Buffagni («Serve unità, serve lavare i panni sporchi in casa»). C' è chi come l' ex ideologo Paolo Becchi auspica un rinnovamento come ha fatto la Lega. Ma immaginare il futuro del M5S ora è arduo. Le truppe ormai si stanno schierando. I governisti accusano: «Con questo post Casaleggio ha mostrato che lui si considera il padrone del Movimento». Alessandro Di Battista invece lo appoggia: «Sottoscrivo ogni sua parola - dice al Corriere -. Sono legatissimo a Davide proprio perché Davide custodisce il progetto di Gianroberto». Il nodo ora è capire la strategia dello scontro e il peso delle truppe. Già, perché basterebbe l' uscita dal gruppo parlamentare di 15-20 senatori per far vacillare pesantemente l' esecutivo al Senato e rendere molto più debole la posizione dei governisti pentastellati. Ma non c' è solo il livello parlamentare ad animare il duello. Ci si attende una guerra totale, uno scontro senza esclusione di colpi. O forse, per paradosso, a colpi di regole. I rischi che si arrivi in tribunale per i due simboli che fanno capo al Movimento sono reali, così come sono ingarbugliati i diritti che possono vantare entrambe le parti. Ma prima delle cause c' è il rischio di un terremoto tra i vertici, quegli stessi vertici che hanno attaccato Casaleggio. Lo scontro è ormai «istituzionale». Ecco allora che non è escluso che si prendano di mira le personalità che rivestono un doppio incarico nel M5S (uno dei nodi politici contro cui il Movimento ha lottato), sollevando dubbi sulla imparzialità delle loro scelte. Un colpo al cuore che metterebbe a rischio anche il ruolo di reggente di Vito Crimi e di fatto potrebbe aprire scenari inimmaginabili, con una leadership vacante. Già, perché due membri (uno è appunto Crimi, l' altro è Giancarlo Cancelleri) su tre del comitato di garanzia che ha attaccato Casaleggio sono anche esponenti di governo, così come la probivira Fabiana Dadone è ministra. Esiste un precedente a cui appellarsi: le dimissioni di Riccardo Fraccaro nel 2019 dal collegio dei probiviri. Con lui lasciò anche Nunzia Catalfo e Di Maio commentò: «Erano entrambi impegnati uno con il ruolo di ministro e l' altra con quello di presidente della Commissione Lavoro». Parole che ora potrebbero essere un boomerang per i governisti.
Vito Crimi, il "gerarca minore" ridotto a vigile urbano. In questa involuzione c'è forse la vera fine del Movimento. Tra l’assemblea che delibera ma non decide, il «comitato-ponte», il «gruppo di supporto», i «facilitatori». E una generale tendenza Udeur che a parole si vorrebbe tenere lontana. Susanna Tamaro su L'Espresso il 13 ottobre 2020. Quando alla fine arriva, la noia è qualcosa che spunta anzitutto nei dettagli, e poi tracima coprendo tutto il resto di grigio. Grigio Viminale: quello che vela lo sguardo di Vito Crimi. Perché se uno studia da gerarca minore e si ritrova a fare il vigile urbano del Movimento Cinque stelle, allora qualcosa davvero è andato storto, forse per sempre. Così quando l’altro giorno parlando degli appena fissati Stati generali di novembre, Crimi ha sospirato a proposito dello streaming che sì, «bisognerà riscoprire anche questo strumento», tutto all’improvviso è stato chiaro, conchiuso in quel soffio, in quello sbuffo d’aria, in quella specie di fumetto che gli si è aperto davanti agli occhi. La noia. I diciassette anni dal primo meet up di Brescia, di cui fu fondatore; gli undici anni del Movimento Cinque stelle, battezzati il 4 ottobre 2009 da Grillo e Casaleggio padre, devastati il 4 ottobre 2020 dal post di Casaleggio figlio e relativa replica dei Garanti, di cui fa parte; le vittorie prima, le sconfitte poi, le ormai tante poltrone occupate, lontanissimi i 381 voti ottenuti nelle parlamentarie; ma soprattutto nel loro insieme i sette anni e mezzo nei quali, a partire dal marzo 2013, Vito Crimi si è trovato a gestire, invariabilmente, tutte le cose meno scintillanti del Movimento.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 5 ottobre 2020. «Se ne va ma dove se ne va? Ah, ah ah....». I 5 stelle fanno i gradassi di fronte alla minaccia di scissione di Casaleggio junior: «Se vuole, se ne vada». E lui, Davide, nella data esatta in cui 11 anni fa M5S nacque, il giorno di San Francesco, bolla tutti come traditori della memoria di Gianroberto che tanto però non c' è più. E allora vada pure Davide, fin dall' inizio più sopportato che amato dai grillini, è la reazione di questi ultimi ormai non più movimentisti ma partitisti tendenza vetero. Tanto, come dice Roberto Fico, «il movimento non potrà più essere quello delle origini». Ma può somigliare all' Udeur - in questo il Dibba ha ragione - ovvero governo, poltrone, patto di sangue pur di restare in sella con il Pd e con Conte con cui si possono garantire stabilità e stipendi da onorevoli. Ma se Casaleggio junior va via davvero? Forse è anche meglio per gli stellati, perché di fatto Davide è già fuori e ognuno risparmia 300 euro al mese per far funzionare, si fa per dire, quella specie di rottame di Rousseau. Ma Davide - con la sponda del Dibba che ha rilanciato il suo post e che cerca di aizzare i 220 parlamentari su 310 al primo mandato contro i Di Maio, i Fico e via dicendo che ne hanno già collezionati due e a regole vigenti non potrebbero ricandidarsi - è perentorio: «Se ci si trasforma in un partito, il nostro supporto non potrà più essere garantito, dal momento che non sarebbe più necessario poiché verrebbero meno tutti i principi, i valori e i pilastri sui quali si basa l' identità di un MoVimento di cittadini liberi e il suo cuore pulsante di partecipazione che noi dobbiamo proteggere». Che sberla. «Ma ci fa il solletico», assicurano dalle parti di Di Maio. Casaleggio sul blog delle Stelle - «Ma quello strumento è nostro e non suo, se n' è appropriato arbitrariamente», dice il comitato di garanzia M5S composto dalla Lombardi, da Crimi e da Giancarlo Cancelleri alter ego di Di Maio - ricorda di aver svolto gratuitamente il suo incarico a sostegno del Movimento, e «ho anche rifiutato un ministero», e «ho sempre rispettato i ruoli e le decisioni pure quando non ero d' accordo», e «ho sopportato insinuazioni, attacchi e calunnie nei miei confronti e nei confronti di mio padre», e adesso però «è il momento di prendere posizione» nella battaglia interna al Movimento 5 stelle, che vede tra i bersagli anche la piattaforma Rousseau. Voi volete fare l' Udeur e io non ci sto: è il grido di Davide. Nella speranza, vaga, che il Dibba abbia ancora un seguito nel movimento. L' arma che ha nelle mani Casaleggio, che sente tradita la memoria combat del padre, è quella di proporre su Rousseau che si voti per il capo politico M5S: e se il popolo stellato (ma esiste ancora?) dovesse scegliere Dibba qualche problema per Di Maio e compagnia ci sarebbe. Ma difficilmente questo potrà accadere perché il Subcomandante Ale ormai lo hanno sgamato tutti all' interno dei 5 stelle: più che un potenziale leader è un influencer che non saprà mai dare battaglia. Il problema è questo: a chi andrà il simbolo M5S se Casaleggio fa la scissione? Dalle parti di Di Maio fanno spallucce: e chi se ne importa, il simbolo lo cambiamo! Anche perché non è più un logo vincente, anzi. E comunque il proprietario del simbolo è Grillo che lo ha dato in gestione a Casaleggio e a Di Maio. Si finirà in tribunale e Beppe sarà dalla parte di Di Maio, cioè del neo-partitismo della realpolitik un po' interessata a mantenere in Parlamento e nell' emolumento un esercito di sbandati e un po' interessata a garantire che il governo Conte duri, insieme all' alleanza con i dem con cui restare a galla spartendosi il potere. Casaleggio dice appunto che i 5 stelle sono in pratica dei poltronisti. Lo fa citando il genitore. «Gianroberto conosceva profondamente l' animo umano e non gli sfuggiva la possibilità che qualcuno, una volta eletto nelle istituzioni, avrebbe potuto provare, perseguendo il proprio interesse carrieristico, ad annullare il ruolo degli iscritti e il concetto stesso di portavoce». Ecco, lui vorrebbe il Dibba come portavoce nuovo e gli altri non ci pensano proprio: si farà un direttorio - ma gli Stati Generali sempre evocati non si sa quando si faranno - dove comanderà un' altra volta Di Maio con Grillo benedicente. L' anti-politica che insomma si fa vetero politica e verrebbe da dire: evviva! Uno come Giorgio Trizzino, mattarellista, dimaiano, filo-Pd, s' incarica di stroncare Casaleggio junior: «Davide ignora le nuove sfide e le diverse responsabilità che ormai incombono sul Movimento». Si chiude il sipario su Casaleggio, sia figlio sia padre. Sperando che il proporzionale dia almeno il 10 per cento a un movimento che aveva oltre il 30 e si tiri a campare.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 3 ottobre 2020. Come sarebbe andata a finire, avrei dovuto capirlo molti anni fa, quando Beppe Grillo non aveva ancora fondato il Movimento ma già progettava di salvare il mondo, e gli telefonai per un'intervista in cui mi spiegasse come l'avrebbe salvato; e lui, che svernava a Malindi, sobbalzò al pensiero della bolletta: «Belìn, quanto mi fai spendere?». Poi decise di salvarlo con la piattaforma Rousseau (mi piacerebbe da pazzi vedere il filosofo che prova a farsi pagare i diritti), cioè il sito dove si sarebbe compiuta la rivoluzione della democrazia diretta: una testa, un click, un voto. Ve lo ricordate il sollucchero di Grillo e grillini? La meraviglia! Lo strumento straordinario! Il viaggio nel futuro! La sovranità popolare! Siete vecchi, siete morti! Ma, soprattutto, era gratis. O giù di lì. Nel nostro caso, trecento euro al mese a parlamentare, una mancetta visti i gloriosi stipendi di onorevoli e senatori. Ma d'un tratto si scopre che la democrazia costa, pure se è diretta, e persino più di una telefonata Roma-Malindi. E da entusiasti pionieri del nuovo ordine, sprezzanti dei pirateschi meccanismi dell'Ancien Régime, i nostri si sono trasformati in una fucina di dubbi: non si capisce bene, un po' opaco, ma chi ci guadagna, e insomma hanno smesso di pagare. Così ieri Davide Casaleggio, padrone e gestore di Rousseau, ha sospeso buona parte dei servizi: addio orizzonti di liberazione mondiale e algoritmica. Come sarebbe andata a finire, avrei dovuto capirlo prima ancora, quando Beppe Grillo faceva solo il comico e la disse impeccabile: «Nessun artista dovrebbe prostituirsi, se non per denaro».
(ANSA il 2 ottobre 2020) - "Con enorme dispiacere siamo costretti a comunicare che, alla luce dell'attuale situazione economico-finanziaria aggiornata a seguito dell'ultima tranche di versamenti in scadenza nella giornata del 30 settembre, siamo costretti a procedere alla sospensione di alcuni servizi e all'annullamento di attività e/o iniziative programmate per il trimestre ottobre - dicembre 2020." Lo comunica l'Associazione Rousseau sul blog delle Stelle. "In assenza delle entrate previste non risultano ovviamente più sostenibili le spese necessarie per supportare specifici servizi che devono essere quindi ridotti, sospesi o slittati nel tempo", spiega Rousseau.
Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 2 ottobre 2020. «Gentili deputati e senatori del Movimento cinque stelle, vi scriviamo per sottoporvi il lancio del progetto OpenRousseau.org. Si tratta della realizzazione di Rousseau basata su software libero e open source per la piena sovranità digitale dei suoi partecipanti. Come ben sapete, la piattaforma Rousseu è un’applicazione proprietaria che gira sui server dell’Associazione Rousseau: il codice sorgente non si può leggere, i sistemi che conservano tutti i dati non garantiscono l’integrità e la trasparenza delle operazioni. OpenRousseau nasce per ribaltare tutto questo». (...) «Siamo un gruppo di hackers, avvocati e attivisti con ampia esperienza nella partecipazione politica, prima con liquid feedback usata dal partito pirata, poi con DECIDIM e ora con Open Rousseau». La mail, arrivata ieri sera nelle caselle di posta dei parlamentari del Movimento cinque stelle, è spiazzante e sorprendente, e La Stampa è in grado di riprodurla. E’ firmata da un collettivo di hacker e esperti di diritti umani e cybersecurity, hacker molto conosciuti in Italia e nella comunità informatica, guidati da Denis Roio (aka Jaromil), che per l’occasione dopo vent’anni rientra in Italia. Si tratta di un gruppo di persone (la comunità è su decidiamo.it) sganciate dalla politica e dalle imprese, che offrono gratuitamente quella che chiamano «una evoluzione di Rousseau» a tutti i parlamentari M5S. In sostanza, sostengono di avere già in mano lo strumento che consentirebbe di sostituire la piattaforma di Davide Casaleggio ma – a differenza di quello – uno strumento open source, non proprietario, aperto ai contributo dal basso di tutti. La cosa è assai interessante sia dal punto di vista tecnologico, sia da quello politico, perché si innesta nelle tensioni di una parte del gruppo parlamentare, guidata dai cosiddetti “contiani”, che vorrebbe sganciare Casaleggio dal Movimento. Per quanto riguarda la tecnologia, Fabio Pietrosanti spiega così le specifiche tecniche di OpenRousseau: «Esiste una piattaforma, DECIDIM, che è stata già usata a Barcellona e altri paesi europei. Il Comune di Milano la sperimenterà l’anno prossimo. E’ una equivalenza funzionale dell’applicativo di Rousseau. Rousseau ha ora iniziato a sviluppare “mobile Rousseau”, in modo open source. Lo fa con Emanuele Mazzilli, il loro cto che è a San Francisco (nda: Mazzilli è transitato direttamente da Facebook a lavorare per l’Associazione di Casaleggio. La cosa sollevò un caso perché secondo i critici sottolineava le reti relazionali che hanno aiutato i 5S anche nella gestione del framework di Facebook). La nostra idea è assemblare i due pezzi, il pezzo libero che Rousseau sta sviluppando per la propria applicazione mobile open source, utilizzando il backend, cioè la componente software libera DECIDIM. Mettendo insieme queste due cose, abbiamo creato un’alternativa funzionale alla piattaforma Rousseau di Casaleggio». A quel punto l’Associazione M5S potrebbe prendere l’esperienza Rousseau, ma averla come software libero e trasparente, su propri server, garantendo la sovranità digitale dei dati, che è ciò con cui Casaleggio esercita il suo potere sull’Associazione M5S. La cosa, ovviamente, sta già facendo sobbalzare il mondo grillino. Perché alcuni ne sono entusiasti, e stanno già contattando gli autori della proposta. Altri (l’Associazione Rousseau di Casaleggio) sono furiosi. Giorgio Trizzino, medico siciliano e deputato M5S, che Il Foglio definì «il grillino più vicino a Mattarellla», ha immediatamente commentato: «E’ la dimostrazione di quanto già sapevamo e cioè che la piattaforma Rousseau è una tecnologia riproducibile, migliorabile ma soprattutto che può essere utilizzata gratuitamente. L'intuizione che ebbe Casaleggio – sostiene Trizzino – di mettere al servizio dei cittadini un meccanismo tecnologico che li potesse collegare direttamente al cuore delle istituzioni ha funzionato fino a quando non si è trasformato esso stesso in strumento di coercizione, controllo e ricatto». Parole pesanti, che il deputato motiva così: «Ripeto ancora che se Casaleggio vuole davvero continuare l'opera meritoria di suo padre, faccia in modo di aiutare il Movimento a liberarsi da un vincolo così gravoso favorendo la transizione verso una forma un po' meno liquida ma di sicuro più democratica». Tuttavia pare chiaro fin dalle prime battute di questa vicenda che non è questa l’intenzione di Davide. Il quale ha affidato la risposta a una nota molto piccata dell’Associazione Rousseau, che lui presiede: «Un non meglio definito gruppo di esperti informatici è intenzionato a rilasciare in data 2 Ottobre un software open source denominato "Open Rousseau" che punterebbe a sostituire l'attuale piattaforma Rousseau». L’Associazione Rousseau sostiene che «Decidim non può sostituire Rousseau. La piattaforma Rousseau è stata sviluppata tenendo in considerazione le specifiche esigenze del M5S, arrivando a contare ben 22 funzionalità e servizi costruiti sulla base delle caratteristiche del M5S e necessari al mantenimento e allo sviluppo dell'infrastruttura tecnologica e sociale del Movimento 5 Stelle che conta oltre 170 mila iscritti e migliaia di eletti a diversi livelli istituzionali». E attacca, in maniera particolarmente sgradevole, Jaromil, accusandolo di essersi iscritto al gruppo "Rousseau Open Engineering", che sta sviluppando la app mobile di Rousseau: ma è proprio quello che una call libera e open source dovrebbe fare. Invece, per Casaleggio e la sua associazione, la pratica sembrerebbe andar bene solo se gli sviluppatori sono persone amiche. Come che sia, l’iniziativa andrà avanti. Nelle chat M5S qualcuno sta già affacciando il tema. Chi vuole svincolarsi da Casaleggio, su soldi e potere, nella battaglia politica grillina, ha un argomento assai pratico in più.
«Io, grillino ribelle dico: a furia di zittire il dissenso si rischia di sparire». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 25 Settembre 2020. Andrea Colletti è uno degli otto parlamentari pentastellati finiti nel mirino dei probiviri del partito per “eresia”. La loro colpa? Aver votato No al referendum e averlo pure dichiarato pubblicamente. «I gruppi e le associazioni col tempo maturano, spero che accada anche al mio partito». Andrea Colletti è uno degli otto parlamentari pentastellati finiti nel mirino dei probiviri del partito per “eresia”. La loro colpa? Aver votato No al referendum e averlo pure dichiarato pubblicamente. «Ma non voglio parlare del mio caso», specifica subito al telefono Colletti, mentre cerca un posto in autobus, «il nostro regolamento me lo impedisce».
Parliamo in astratto allora. Sarebbe normale espellere chie esprime posizioni non allineate?
«Se dovessero prendere provvedimenti contro ogni persona che la pensa in maniera diversa rimarrebbero in due o tre a decidere e un gruppo di pecore a seguire. Il M5S si ridurrebbe a un numero di persone sempre più piccolo, destinato a diventare sempre più piccolo anche nella società».
Eppure il M5S ha sempre agito così…
«Capisco l’istinto di silenziare chi la pensa diversamente da te, è una reazione umana, ma i gruppi e le associazioni evolvono e maturano col tempo. Vediamo cosa succederà».
Lei parla di reazione umana, ma non funziona così in tutti i partiti. Cosa dovrebbe fare Zingaretti, espellere Orfini e Cuperlo per aver sposato la causa del No?
«Capisco il paragone, ma io non mi riferivo ai partiti, mi riferivo a un istinto umano e sociale».
In caso di espulsione farà ricorso?
«Non penso che si arrivi a questo. In ogni caso, da avvocato, utilizzerei tutte le procedure di garanzia qualora ritenessi ingiusto un provvedimento».
Si sente deluso?
«Da moltissimo tempo, non da ora, almeno da quando è iniziata questa legislatura, perché non riusciamo più a portare avanti i nostri tempi ed è difficile operare in Parlamento».
Cosa significherebbe per lei essere mandato via dal Movimento?
«Io ci sono dentro da prima che si chiamasse Movimento 5 Stelle, il problema non è mio. So di essere dalla parte del giusto e difendo le mie battaglie».
Cosa ne pensa dell’affermazione del Sì?
«Me l’aspettavo. Anzi, credevo che ci sarebbe stata un’affermazione ancora più ampia perché la domanda rivolta ai cittadini era molto semplice e semplicistica. Avevamo contro tutti i partiti».
Una volta ottenuto il taglio dei parlamentari è come se il Movimento faticasse a trovare obiettivi da perseguire per il futuro. È così?
«Mi sembra assurdo pensare che col taglio dei parlamentari il Movimento abbia raggiunto tutti i suoi obiettivi. Dobbiamo ottenere ancora molte cose che abbiamo promesso e non abbiamo fatto e altre che non abbiamo promesso ma servono. Bisogna avere un’idea di società, però, per proiettarsi nel futuro. E in giro ne vedo poche di idee, anche negli altri partiti».
E nel futuro il Movimento deve posizionarsi stabilmente nel campo progressista?
«Non siamo mai stati un gruppo reazionario, quindi direi che potrebbe essere la strada giusta, a patto che non vengano meno le dovute differenze rispetto ai partiti tradizionali. La maggior parte delle nostre idee potrebbero obiettivamente far parte di quel campo, bisogna capire se anche il Pd, che attualmente occupa quello spazio, sarà in grado di dimostrarsi progressista.
A cosa porterà lo scontro Di Maio- Di Battista?
«Lo scontro tra persone o tra correnti non mi ha mai appassionato, preferisco parlare di idee e di ideali».
Quindi non la preoccupa un’eventuale scissione?
«In un partito in regressione numerica si rischia di scindere l’atomo più che altro».
Paolo Mieli benedice l’asse Pd-M5S, da Berlinguer a Crimi il passo è breve…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 25 Agosto 2020. Se il primo quotidiano d’Italia, a firma di uno dei più influenti commentatori di questi decenni, cita con serietà la “piattaforma Rousseau” e “l’alleanza strutturale tra Pd e M5s” che essa ha “ratificato”, significa che a risentire del degrado in atto non è solo la decenza istituzionale e repubblicana, ma lo stesso tenore civile e democratico del Paese. Va da sé che l’editoriale di Paolo Mieli, pubblicato sul Corriere della Sera di ieri, e da cui è tratto quel serio riferimento all’aggeggio truffaldino gestito dagli schedatori della Casaleggio & Associati, sarà da oggi e nei prossimi giorni la gemma prominente sul fusto ormai provetto del dibattitone in argomento di nuovo compromesso storico. Il fatto che non ci siano Moro e Zaccagnini da una parte, ma Giggino e Vito Crimi, né Berlinguer e Chiaromonte dall’altra, ma – con tutto il rispetto – Nicola Zingaretti e compagnia, rappresenta un dettaglio che non impensierisce lo storico commentatore ed ex direttore del Corriere. E si potrà dire che uno mette in pentola quel che trova in dispensa, e se c’è poca roba, e neanche ottima, ci si accontenta. Ma è proprio così? A noi, che siamo dei poveretti senza dottrina, pare che non sia così. Perché c’è un altro punto di vista che, per quanto bifolco, mira a qualche questioncella non proprio trascurabile nello scenario in cui dovrebbe compiersi “l’alleanza strutturale” di cui serissimamente si discute presso i circoli dell’informazione che conta. E si tratta di questo: che il Movimento 5 Stelle non rappresenta un vago complesso populista da istruire nel canone democratico, ma una originaria e ben formulata cultura di stampo neofascista, con non irrilevanti fregi di tipo neonazista che non dovrebbero essere giudicati con noncuranza giusto perché agghindano solo sporadicamente la prosa di quei pericolosi analfabeti. Non ostanti i leggiadri svolazzi di Giuliano Ferrara, che si diverte a spiegare agli imbecilli (tutti tranne lui e i suoi boys), che i 5 Stelle sono cambiati, è piuttosto vero che sono loro ad aver cambiato il Paese, o almeno ad averne contaminato il residuo decoro nel trionfo di una pratica illiberale che ha seminato violenza antidemocratica e arretratezza in ogni campo: in quello dell’economia governata dalla nazionalizzazione, dal sussidio e dal calmiere; in quello della giustizia uniformata alla direttiva della reazione giudiziaria; in quello dell’azione istituzionale ispirata alla derelizione del potere rappresentativo, con l’avvocato del popolo officiato a concedersi in visita a capriccio; infine, nel campo dei rapporti tra Stato e cittadino, minuzie piccoloborghesi perché se tre mesi di coprifuoco sospendono le libertà costituzionali tu vedi di infilarti mascherina e guanti “e non rompere i coglioni” (sempre Il Foglio). Che questo andazzo fosse e continui a essere inevitabile è proprio tutto da dimostrare. Perché qui – e torniamo al Corriere, che ammaestra il Pd alle regole del buon compromesso con gli statisti di Beppe Grillo – qui non siamo nemmeno al realismo che suggerisce di tener buona quella banda di scappati di casa preparando le condizioni della loro emarginazione: qui siamo a un’evoluzione diabolica di quel realismo, che non soprassiede a un disastro momentaneo ma ne architetta uno durevole e ne consacra la dignità. Auguroni.
Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 26 luglio 2020. Più che Olimpiadi, Giochi senza frontiere. È vero che era un sabato di fine luglio e che in campo non c'erano i campioni - Di Maio e Di Battista interverranno oggi - ma il pubblico della prima giornata è stato davvero scarso. Poco più di 2mila persone collegate tra la mattina e il pomeriggio, per seguire i dibattiti programmati nel Villaggio virtuale di Rousseau. Una media di 30-40 spettatori per le diverse dirette su YouTube, ma alcuni "spazi" hanno faticato a superare i 20 contatti. Anche dove c'erano nomi di peso, come le ministre Azzolina e Catalfo o il capo politico Crimi, non è andata molto meglio. Tanto da dover aspettare imbarazzati domande che non arrivavano. E dire che le "Olimpiadi delle idee" dovevano servire a ricucire i rapporti sfilacciati con la base del Movimento. Molti attivisti, a quanto pare, hanno preferito fare altro. C'era una volta la democrazia diretta. -
Giulio Gambino per tpi.it il 27 luglio 2020. Come anche Davide Casaleggio, intervistato da noi di TPI la scorsa settimana e le cui parole hanno fatto discutere aprendo un dibattito sui diversi fronti che dividono i 5s, anche l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti è preoccupato. Perché? “Sono un progressista ed ecologista convinto, e questa maggioranza è la migliore possibile visti i numeri parlamentari, ma sono deluso dal governo. Difficile essere coerenti con se stessi e al contempo essere soddisfatti di questa maggioranza”, ci spiega. Fioramonti, professore e oggi deputato, si dimise da ministro a dicembre 2019 in protesta con il governo che non gli diede ascolto quando lui chiedeva quei famosi 3 miliardi di euro per la scuola. Ha le idee molto chiare sul dibattito che si è creato intorno alla ministra che ha preso il suo posto, Lucia Azzolina. Picchia duro sul modo di comunicare di questo governo e spiega la sua idea per un movimento ecologista e progressista le cui fondamenta sono già state gettate e intorno al quale si muovono diversi deputati e senatori. Ha appena scritto un libro: “Un’economia per stare bene – Dalla pandemia del coronavirus alla salute delle persone e dell’ambiente” (Chiarelettere). “Oggi sono un deputato, appartengo al gruppo misto, ma tanti partiti mi hanno chiesto di entrare a far parte dei loro schieramenti politici”.
Chi?
“Dagli ex Dc, alla sinistra ed alcuni esponenti di centrodestra, passando anche per alcuni pezzi del Pd”.
E alla fine?
“Non m’interessa. Sono interessato a vedere se si può creare un sinergia che porti a un movimento progressista ed ecologista, ma non sono Calenda o Renzi, non credo in chi fa un movimento da solo”.
Mi faccia capire meglio.
“Sto dialogando con pezzi di società per punti molto concreti: il mondo così va alla deriva, il genere umano rischia di estinguersi ed il Paese di collassare sotto disastri ecologici e sociali. E noi siamo lì a fare i distinguo, quando invece dovremmo fare gioco di squadra tra persone che la pensano al 99% allo stesso modo. Mi interessa il progetto, la condivisione di un percorso, non la rielezione. Non ho alcun problema a tornarmene al mio lavoro, in Germania, dalla mia famiglia”.
Quanto guadagnava prima?
“Prima di diventare deputato guadagnavo, spannometricamente, 2 milioni di rand in Sudafrica, pari a circa 130mila euro, ma lì la vita costa un quarto di quello che costa in Italia, quindi come se ne guadagnassi 400mila”.
E oggi?
“Quello che guadagna qualsiasi deputato. Complessivamente 12mila euro al mese, poi toglici 3mila per collaboratori e le spese di gestione dell’ufficio, quindi siamo sugli 8-9mila euro al mese netti. Un lauto compenso, ovviamente, ma non difforme da quanto guadagnavo prima”.
Torniamo al suo movimento, chi ci starebbe in questo suo gruppo?
“Noi abbiamo iniziato…”.
Aspetti, noi chi?
“Ho lanciato una rete, nemmeno un movimento si può chiamare, ma appunto solo una rete: un dialogo che coinvolge tanti parlamentari ed esponenti della società. La settimana scorsa abbiamo fatto un dibattito online con tante persone, da parlamentari di LEU come De Petris, Fratoianni, Palazzotto, Laforgia fino ad ex M5s come Fattori, Nugnes e Pizzarotti), fino ad esponenti PD come Smeriglio e Majorino. Molte persone”.
Nemmeno uno dell’opposizione?
“No, no. Il nostro è un fronte progressista. Alcuni leghisti mi vogliono bene, ma non sono politicamente affine a quel mondo lì. E non voglio neanche. Guardo a un ambito che va dal centro moderato fino alla sinistra radicale”.
Poi?
“Ho ottimi rapporti con amministratori come Elly Schlein, De Magistris, Sala, Emiliano”.
Qual è il nome del movimento?
“Non è un movimento ma una rete di persone, il nome dell’evento, che si è svolto venerdì e che è stato trasmesso in streaming su Radio Radicale, il Manifesto e sulla Rivista Left, è "Insieme per il futuro". A settembre faremo un’altra conferenza simile in cui lanceremo 10 proposte su come gestire il Recovery Plan”.
Per fare la conta dei voti in Parlamento?
“Bè, chi parteciperà alla nostra conferenza sul Recovery spero si impegni a fare il cane da guardia in Parlamento per far sì che le proposte vengano prese sul serio dal Governo”.
Di quanti parlamentari parliamo?
“Almeno una ventina hanno partecipato ai lavori della rete. Tra questi ci sono otto senatori, numeri decisivi”.
Senta, ma questo governo dura?
“Penso di sì, ma se dura potrebbe non essere per merito suo”.
Oggi serve un rimpasto?
“Sì. Un nuovo approccio”.
Chi va cambiato?
“Non lo so, non mi faccia fare i soliti nomi, penso che serva un segnale di inversione”.
Oggi serve un Conte 3, quindi, mi faccia capire?
“Sì, ma non con un nuovo Conte”.
Serve un nuovo premier, cioè?
“Serve un governo con un respiro nuovo, va bene anche lo stesso Conte come premier, ma che cambi passo. Deve dare una visione. Deve essere un programmatore, non solo un annunciatore. Oppure, l’alternativa è un governo diverso con nuovo premier, ma la vedo dura”.
Cioè cosa deve fare Conte per cambiar passo?
“Ponga condizioni: se non si va avanti così dica "Io me ne torno a casa e ve la vedete da soli"…”.
Cioè come fece lei, Fioramonti …
“Sì, magari a lui gli va bene…”.
Perché?
“Perché nel mio caso fu proprio lui a non prendere una decisione. Non fu in grado di gestire quel percorso. Il premier è scappato senza confronto o altro, per mesi”.
Ma alla fine a questo governo finora che voto dà?
“L’emergenza è stata gestita bene tutto sommato, con alcuni errori come l’incoerenza sulle mascherine o le mancate zone rosse…”.
Alt, ovvero? Andavano fatte secondo lei?
“Per me la salute delle persone e dell’ambiente vengono sempre prima. Le zone rosse vanno fatte se ci dicono che vanno fatte. Punto”.
Dicevamo, sul giudizio del governo…
“Sì, questo governo – per stile – va molto a tentoni, una gestione politica un po’ improvvisata. Fa gli stati generali ma è una passerella, non tira fuori uno straccio di programma. C’è la task force di Colao e poi non ne esce nulla. A me spaventa un governo che con 209 miliardi di euro a disposizione non sa che fare. Pensa più alla forma che alla sostanza, troppo peso alla comunicazione. Serve invece una visione e tanta capacità di programmazione. Non solo a 3 mesi, ma a 30 anni”.
Come mai è così severo?
“Sono stato due anni al governo e c’è stata sempre molta improvvisazione. Poca strutturazione. Non c’è una visione complessiva”.
A proposito, ma Casalino come lo giudica?
“È il grande ideatore di questo sistema. Ha sempre detto: non conta quello che fai, conta quello che dici. Mi diceva: ‘Lorenzo, i giornalisti hanno 48 ore di memoria, dopodiché gli devi dare altro da dire’. È per questo che si fanno gli stati generali e poi task force come quella che ha prodotto il piano Colao… Casalino ha capito bene come funziona in Italia. Il giornalismo investigativo è molto limitato, spesso è online, e i giornali devono fare anche gossip politico, dove lui sguazza. Lui è bravissimo su questo. Ma l’Italia non la migliori così”.
Nel parlare così, in modo diretto e dirompente, fuori dal coro, outcast puro, mi ricorda Calenda. Lei si sente un po’ un Calenda grillino?
“Con Calenda c’è un buon rapporto, ci sentiamo al telefono, siamo cani sciolti entrambi, abbiamo idee molto diverse, come ad esempio su Ilva, e su altre cose ancora come Eni, contro cui io mi scontrai, ma sicuramente nello stile potremmo avere qualcosa in comune”.
Dieci anni dopo, dei 5s cosa rimane?
“Io ci ho creduto, ma devono ritrovare una bussola. Dovevano essere una cintura di trasmissione tra cittadinanza e politica, ma si sono piegati alle poltrone, più ossessionati dalle nomine nei CdA che dalla trasformazione del Paese. I 5s oggi si stanno comportando molto più come politici di lungo corso anziché come voce di cittadinanza”.
Qualche nome di ministro da cambiare me lo deve fare però…
“Mmm …meglio di no, veramente le dico, altrimenti esce fuori il titolo che Fioramonti attacca il ministro X, e si perde tutto il resto del mio discorso“.
Andiamo avanti: Governissimo sì o no?
“Bah, le ripeto: non sono contrario a un governo di più ampio respiro”.
Definisca “di più ampio respiro”.
“Se un Conte 3 con guida diversa ha bisogno anche di voti moderati, mica dico di no”.
Sì ma Berlusconi?
“Eviterei anche per una questione di carattere simbolico-narrativa. È il simbolo di un Italia alla deriva culturale e sociale”.
Mes sì o no?
“I soldi vanno presi, ma attenzione: se non lo facciamo insieme ad altri Paesi europei, come Spagna, Portogallo e magari Francia, rischiamo l’effetto stigma. Sembrerebbe cioè un segno di debolezza per l’Italia se va da sola, farebbe alzare i tassi d’interesse sui mercati”.
Lo stato emergenza va prorogato sì o no?
“No. Perché rischiamo di fare più il male che il bene dell’Italia. Rischia di soffocarci. Se si vuole, tanto, decreti e leggi si fanno in 3 giorni, non servono DPCM”.
Azzolina: qual è il suo giudizio del nostro ministro dell’Istruzione?
“Lucia Azzolina ha sbagliato l’impostazione perché è arrivata al ministero pensando di sapere tutto. Da sottosegretaria all’Istruzione, quando io ero ministro, già si era messa di traverso su molte cose, creando gravi problemi con i sindacati, generando tensioni nella scuola. Un’arroganza che l’ha portata a intraprendere scelte non condivise. Dice di aver trovato tutti questi soldi ma non è così, sono sempre stati lì”.
In che senso, scusi? Non è vero che ha messo 6 miliardi sulla scuola?
“Assolutamente no. Voi giornalisti non lo sapete, ma nel mondo della scuola tutti lo sanno: non sono mai mancati i finanziamenti in conto capitale (finanziamenti europei, prestiti europei, finanziamenti strutturali), ciò che manca da sempre è la spesa corrente. C’è una enorme differenza. La ministra lo sa ma fa una comunicazione tendenziosa, rivendendosi fondi in conto capitale già presenti come se fossero risorse fresche in spesa corrente. Allo stato attuale questo governo ha messo 1,4 miliardi sulla scuola in spesa corrente tramite il Decreto Rilancio. Punto. Questi sono soldi veri. Nient’altro”.
Quindi, quando dice che ha messo 6 miliardi, come fa a dirlo?
“Fa un misto fritto: 1,4 miliardi in spesa corrente e poi il resto lo attinge da fondi europei – che già c’erano – e che dice che spenderà. Prende soldi che già c’erano. Fa finta che li ha trovati lei”.
Quanti ne sarebbero serviti in spesa corrente invece?
“Almeno 3 miliardi”.
Cioè gli stessi che chiedeva lei quando si dimise…
“Quando chiedevo 3 miliardi, non chiedevo quei soldi in conto capitale ma in spesa corrente. Se io avessi fatto quello oggi sta dicendo la Azzolina sarei stato preso in giro. Ma tutti lo sanno nel mondo della scuola e della amministrazione, e anche lei non sta facendo una bella figura, a settembre la verità verrà fuori. Azzolina conosce molto bene la scuola. Avrebbe potuto coinvolgere la comunità scolastica nelle sue decisioni e la pandemia le avrebbe dato l’autorità morale per essere amata da tutti”.
Si è pentito di essersi dimesso?
“Mah guardi, no, non mi sono pentito… Se non mi fossi dimesso sarei stato connivente, ho seguito una linea di coerenza. E sarei rimasto nella memoria degli studenti come un altro politicante chiacchierone. Invece ancora oggi molti riconoscono la coerenza e la serietà del mio gesto, ma certo mi rimpiangono a viale Trastevere”.
E sui banchi?
“Sono un effetto di quello che le ho detto: la ministra deve far vedere che ha speso i soldi. E siccome non ha risorse sufficienti in spesa corrente per gli organici, si riduce a comprare banchi e tablet”.
Ma arriveranno per tempo questi banchi sì o no?
“Non faccio il falegname di lavoro ma penso sia impossibile. Nemmeno a livello europeo. Forse in Cina potrebbero produrne così tanti e così velocemente, ma dubito avranno capacità di farlo, e non so se valga la pena darli ai cinesi quei soldi”.
Cosa ne pensa di questa idea delle 10 milioni di mascherine al giorno per alunni e prof? Alla fine dell’anno produrremo 2 miliardi di mascherine. E come le smaltiamo?
“Una follia. Classi più piccole e distanziamento. Questo serve. Che per inciso ci aiuta a costruire una scuola migliore, a prescindere dal Covid. Pensare di tenere i bambini con le mascherine è folle. Dobbiamo cogliere questa opportunità per ritrovarci una scuola migliore in futuro. Ed è fondamentale investire su studenti e insegnanti. Sulle persone che fanno la scuola”.
Insegnanti, ne sono stati chiesti 80mila…
“Tutti gli anni intorno a luglio il ministro dell’Istruzione chiede al MEF circa 50mila cattedre, a prescindere dalla pandemia. La Azzolina ne ha chiesti 30mila in più. Ancora pochi a fronte dei pensionamenti e delle esigenze della pandemia. Vedremo se glieli daranno”.
Azzolina è stata troppo dura con i sindacati?
“Non sono amante del mondo dei sindacati a prescindere, ma sono indispensabili. Da ministro ti siedi e ci parli”.
Se il grillismo finisce a congresso. Carlo Fusi Il Dubbio il 15 giugno 2020. Fummo facili profeti, alcuni mesi fa, a dire che si era aperto al centro dello scenario politico una voragine: la crisi dei Cinquestelle, terremotando qualsiasi equilibrio possibile. Lo scontro tra Beppe Grillo e Alessandro Di Battista non è che il portato di quella crisi. Ci sono due considerazioni possibili. La prima concerne l’M5S. Il richiamo di Di Battista ad un congresso suonerebbe giustificato ma diventa paradossale per un MoVimento che ha fondato la sua identità sul rifiuto della forma partito che, al contrario, la celebrazione di un congresso sancirebbe. E poi: chi sceglierebbe i delegati? Con quale criterio? Con quali poteri? Altro che ritorno alle origini. In qualunque forma si dovesse svolgere, quel congresso sancirebbe la definitiva trasformazione dei Cinquestelle in quello che mai avrebbero voluto essere. Meno paradossale ma più contundente risulta la risposta di Grillo. Che squaderna una concezione pseudo- proprietaria del MoVimento. Le marmotte sono roditori. Vanno in letargo ma quando si svegliano fermarle è complicato. C’è chi si è spinto a parlare di scissione: forse esagera. Però il fatto che finalmente i Cinquestelle discutano chi sono e chi devono essere, con quali alleati e con quali prospettive, è un bene. La seconda considerazione concerne il presidente del Consiglio. Ci sono evoluzioni che anche il più abile degli equilibristi non può permettersi. Giuseppe Conte doveva essere “l’esecutore” dell’accordo di governo gialloverde, indossando ( e vantandosene) una robusta casacca populista. Poi è diventato il primus inter pares di quell’esecutivo con due vice politicamente più pesanti di lui. Poi l’uomo dell’anatema contro Salvini. Poi il tecnico che salda il passaggio dal gialloverde al giallorosso. Poi «un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste», Zingaretti dixit. Poi il capo di un partito personale ( mai fondato e smentito) capace di sfondare il muro del 15 per cento. Per ultimo (?) il nuovo leader dei Pentastellati che con lui rinverdirebbero i fasti del 2018: a patto, ricorda Di Battista, che almeno si iscriva al partito- non partito. Ce n’è da far girare la testa al più acrobatico dei funamboli. Vero è che parecchie di quelle etichette Conte non le ha scelte: gli vengono appiccicate addosso. Tuttavia il punto politico non muta. Poiché l’inquilino di palazzo Chigi è considerato nella fase attuale l’unico interprete possibile dell’equilibrio di governo, ricade sulle sue spalle l’onere di sedare i sommovimenti che minacciano di sfarinare la maggioranza.
Federico Ferraù per ilsussidiario.net il 17 giugno 2020. Grillo pensava di rimettere le cose a posto, ma si è sbagliato. In più la svolta filo-Conte potrebbe avere conseguenze indesiderate per l’Elevato. “L’effetto paradossale è stato quello di riallineare tutti quelli che non vogliono morire contiani, a cominciare da Casaleggio, Di Maio e Di Battista”, dice Jacopo Iacoboni, giornalista politico de La Stampa, gli ultimi due libri-inchieste dedicati a M5s. Se i tre trovano un’intesa, possono infischiarsene di Grillo. Ma non ci sono solo le divisioni interne. Che ci sia stato o no il finanziamento del Venezuela, Iacoboni fa notare che “tutti i peggiori regimi sono stati loro amici”. E poi il nodo del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), sul quale oggi la Bonino (+Europa) presenterà un testo che impegna il governo ad attivarlo subito. I grillini sul Mes sono spaccati e la maggioranza potrebbe dividersi.
Il giallo sui soldi venezuelani lo consideri archiviato?
«Archiviato no. Diciamo che non lo considero dimostrato: sarà molto difficile, se ci sono, trovare quei soldi. Intanto dobbiamo registrare le smentite, dal regime di Maduro a Casaleggio e ai 5 Stelle».
Non è tutto, immagino.
«No. La storia è controversa, ma non ho neanche apprezzato quelli che in Italia si sono affrettati a dare per buone le veline del regime di Maduro, o a screditare Abc. La prima cosa che ho fatto io è stata chiedere, a colleghi spagnoli di cui mi fido, peraltro colleghi liberal, non conservatori, che tipo di giornale fosse Abc».
E cosa ti hanno detto?
«La risposta è stata questa: Abc è il più antico giornale di Spagna. È un giornale di destra, molto anti-Maduro ma non certo un sito cospirazionista. Appartiene al novero delle fonti tradizionali spagnole. Marcos Garcia Rey, l’autore dell’inchiesta, ha lavorato con consorzi investigativi riconosciuti a livello internazionale. Dobbiamo occuparcene».
Insomma meglio essere prudenti e aspettare.
«Direi di sì. C’è chi insiste nel negare l’autenticità del documento che attesterebbe il passaggio di denaro, mentre Abc dice che è autentico. Dunque per ora ciò che scrive dobbiamo prenderlo sul serio. Anche se restando neutrali».
C’è poi la questione delle simpatie esplicite di M5s per il chavismo.
«I legami geopolitici tra M5s e il Venezuela sono evidenti da tempo. Il governo Conte1 è stato l’unico in Europa ad avere assunto una posizione pro Maduro nel gennaio 2019, all’epoca della rivolta di Guaidó, posizione poi lievemente corretta in una specie di neutralismo».
Nel 2018 Manlio Di Stefano ha presentato una risoluzione M5s alla Camera di condanna delle ingerenze estere in Venezuela. I parlamentari M5s sono stati spesso ricevuti in pompa magna a Caracas.
«Nel 2015 hanno organizzato un convegno alla Camera, intitolato “L’alba di una nuova Europa” – “Alba” sta per “Alleanza bolivariana per le Americhe”, l’organizzazione fondata nel 2004 da Hugo Chávez e Fidel Castro – con presente tutta l’enclave chavista e filorussa grillina, e molto del chavismo internazionale».
Quali considerazioni ti suggerisce tutto questo?
«Direi che la realtà di questa storia, a prescindere dalla questione eventuale finanziamento sì–finanziamento no, sta nel fatto che M5s, storicamente, si è sempre avvicinato a tutti i regimi autoritari. Li ha annusati tutti, ci ha flirtato, da Putin alla Cina passando per il Venezuela e l’Iran. Tutti i peggiori regimi sono stati loro amici, politicamente».
Oggi quando si dice Putin si pensa alla Lega.
«Ma figurarsi, anche il M5s ha guardato a Putin. Ha trattato con il suo emissario in Europa, Sergej Zeleznyak, lo stesso che incontrava Salvini. Giuseppe Conte, premier espresso dai 5 Stelle, vanta un rapporto personale con il presidente russo e lo ha difeso durante la vicenda degli aiuti russi in Italia».
Conte è l’unico premier del G7 che disse sì alla proposta di Trump di far rientrare Putin nel G7. Direi proprio che la questione interessante è il flirt con i regimi autoritari. E non riguarda affatto solo Di Maio con la Cina, o Di Battista: riguarda Grillo, riguarda Conte.
«Escluderesti mani estere in questa storia, un intervento per indebolire un governo troppo sbilanciato verso Pechino?
Mah, non credo ai complottismi. Mi pare che, al massimo, ci sia una guerra tra Maduro e la sua opposizione interna, che ha mille motivi per opporsi a un regime corrotto e oppressivo».
Di certo sono autoritari anche i modi di Grillo.
«Con quel tweet contro Di Battista ha fatto un intervento ingeneroso e cattivo, da padre-padrone che divora i suoi figli, li considera roba sua, da poterne disporre a piacimento. Possiamo dire tante cose su Di Battista o Di Maio, io sinceramente ho scritto critiche severe, e articoli che non gli devono essere piaciuti…»
Però?
«Però in questo frangente stanno più o meno continuando a fare alcune delle battaglie del M5s, la critica all’Europa, per esempio, o l’idea dell’Italia nazionalista. È assai più imbarazzante, eticamente, la svolta filo-Conte e filo-Pd di Grillo, diventato una sorta di bodyguard del contismo e dello status quo».
Come la spieghi?
«È molto meglio stare protetti all’ombra del governo che con le spalle scoperte all’opposizione. Sappiamo che ha travagliate vicende familiari».
Perché si è mosso proprio adesso? Ha visto il M5s indebolirsi troppo?
«Grillo viene continuamente sollecitato, spesso chiamato per telefono, da quella parte di pretoriani filo-Pd, come Taverna e Fico, che pensano di dirimere le questioni interne con la sua autorità. Ora terrei d’occhio i possibili effetti del suo intervento».
Che cosa intendi?
«Di fronte a questo asse letteralmente incredibile tra Grillo e Conte, l’effetto paradossale è stato quello di riallineare tutti quelli che non vogliono morire contiani. A cominciare da Casaleggio, Di Maio e Di Battista, che erano tre entità abbastanza separate, o comunque disallineate. Ma probabilmente tutti e tre stanno pensando: perché dobbiamo regalare il nostro Movimento a Conte e a Grillo che lo mette al servizio del Pd?»
Oggi, a Palazzo Madama, +Europa potrebbe presentare una mozione per accedere subito al Mes. M5s si spaccherà?
«Non escludo niente. Io continuo a pensare che Conte la faccia troppo facile pensando che arriverà il sì al Mes di M5s. Non faccio previsioni, che non mi piacciono, ma non la vedo facile. All’interno dei 5 Stelle la situazione è agitata».
Di Battista può riuscire a fa cambiare direzione ai 5 Stelle o a prendersi una parte di Movimento?
«Non credo da solo. Di Battista e Di Maio possono cambiare la situazione soltanto se sono uniti e se trovano un’intesa con Davide Casaleggio. Se si allineano queste tre figure, Grillo con i suoi comportamenti da padre padrone può avere la peggio, perché la sua presa sul Movimento è ormai nulla, al di là di queste uscite periodiche. Invece Casaleggio, Di Maio e Di Battista in un modo o nell’altro sono lì che faticano quotidianamente sul Movimento. Bene o male che sia».
Il dossier Venezuela e le divisioni interne possono indebolire ulteriormente il governo in questa fase?
«Il governo è già debolissimo e inconcludente, e tirerà i mesi estivi sperando nella distrazione degli italiani in attesa di settembre. Non vedo un buon autunno, per la crisi economica che arriverà e la dubbia capacità di Conte di gestirla».
L’arma di Conte?
«Conte ha dalla sua la volontà di quieta non muovere del Colle. Ma credo che non sia una protezione a vita».
La crisi si aggraverà, e Conte, pare, punta al Quirinale. Non farebbe comodo a Mattarella dare il governo a un piddino come Franceschini?
«Non voglio fare speculazioni. Il Pd ha tanti nomi, da Sassoli a Guerini e Franceschini, che, comunque la si pensi, hanno esperienza politica e capacità, e sarebbero certamente una garanzia migliore rispetto a un poco noto avvocato con doti politiche trasversali».
Terremoto nel Movimento 5 Stelle: dopo lo scontro Dibba-Grillo e i soldi in nero, scissione all’orizzonte. Claudia Fusani su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Se fosse una serie tv, saremmo alla spettacolare contromossa orchestrata da barbe finte per contenere e respingere il competitor interno in lotta per la leadership del movimento. Poiché siamo nella realtà della politica italiana, possiamo dire che “il caso”, con un tempismo straordinario, rimette le cose a posto. Nel senso che strozza in culla il tentativo di un quasi putsch interno in casa 5 Stelle. Rinvia una scissione che resta però nei fatti. Toglie il megafono alla chiamata alle armi di Alessandro Di Battista per «un movimento che torni alle sue origini e al rispetto delle regole» a cominciare dalla nomina di un nuovo capo politico in grado di ridare anima e sostanza alle stelle del Movimento. Infine, rimette al centro della partita, con palla al piede, Giuseppe Conte, Beppe Grillo e l’ala governista del Movimento. Succede tutto in 24 ore. Che conviene provare a raccontare dalla fine. Ieri mattina il quotidiano spagnolo ABC pubblica in prima pagina con tanto di prova fotografica una notizia che è una vera bomba: nel 2010 il regime venezuelano di Ugo Chavez avrebbe finanziato il Movimento 5 Stelle con la bellezza di 3 milioni e mezzo di euro. Seguono dettagli della “notizia”. L’attuale presidente del Venezuela e all’epoca ministro degli Esteri Maduro avrebbe spedito una valigetta al consolato venezuelano a Milano dove poi sarebbe stata consegnata a Gianroberto Casaleggio promotore, secondo l’informativa, «di un movimento rivoluzionario e anticapitalista di sinistra nella Repubblica italiana». ABC cita documenti classificati top secret dall’intelligence militare venezuelana. In quelle carte si spiega che il console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino sarebbe stato l’intermediario della valigetta consegnata a Casaleggio. I soldi sono stati inviati «in modo sicuro attraverso un bagaglio diplomatico» e provenivano dai fondi riservati amministrati dall’allora ministro dell’Interno Tareck el Aissami, un fedelissimo di Muduro. Il dossier dell’intelligence porta la firma di Hugo Carvajal, generale latitante dal 2019, ricercato dagli Usa che Maduro ha espulso e proclamato traditore per il suo sostegno a Juan Guaido. Nel 2010, la valigetta creò anche un problema interno alla diplomazia venezuelana perché era stata trovata dall’addetto militare che ne aveva informato Carvajal. Questi lo avrebbe tranquillizzato con un dispaccio in cui affermava: «Sono state impartite istruzioni verbali al nostro funzionario in Italia per non continuare a riferire sulla questione, che potrebbe diventare un problema diplomatico» tra Italia e Venezuela. Questi i punti essenziali della ricostruzione del giornale spagnolo sparata ieri mattina per colazione nell’edizione on line. Al netto delle querele per diffamazione che sono state promesse dai vertici del Movimento e dal console venezuelano a Milano, anche il più inesperto di spy story capisce che in un mondo di ombre e sospetti e scarsa democrazia quale è il Venezuela, si tratta di una notizia “perfetta”: non è verificabile alla fonte, cioè con l’intelligence; i contanti non lasciano traccia; sono morti il datore e il destinatario dei soldi, Chavez e Gianroberto Casaleggio. L’unica cosa vera, sono le simpatie rivendicate spesso dai vertici del Movimento, a cominciare da Di Battista per finire con l’attuale sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, nei confronti di Chavez prima e Maduro poi. Indimenticabili alcuni passaggi della storia recente, dal convegno organizzato alla Camera nel 2015 in cui un relatore plaudì “al governo Maduro” alla delegazione M5s che nel 2017 volò a Caracas per commemorare Chavez. Il contesto, nel cucinare falsi dossier, sappiamo essere prezioso come l’aria. Se qualcosa è possibile, in un attimo diventa probabile. Comunque, tra secche smentite del console del Venezuela, di Casaleggio jr, di Crimi, Bonafede e di tutto il vertice pentastellato e altrettanto secche conferme della direzione del giornale spagnolo, il risultato è che l’ultimatum consegnato domenica da Di Battista a Conte si è dissolto ieri in giornata come neve al sole. Ed ecco che il tempismo nella propalazione del dossier venezuelano diventa quasi la vera notizia. Da giorni Di Battista e Casaleggio jr mandano segnali all’ala governativa del Movimento. E a Giuseppe Conte. «Se vuole essere leader del Movimento e come tale governare da premier deve iscriversi al Movimento, sottoporsi al consenso tramite la votazione sulla piattaforma Rousseau e poi partecipare ai nostri Stati generali che devono essere convocati il prima possibile» è la sintesi del ragionamento di Di Battista. Il quale si è a sua volta candidato alla guida del Movimento «troppo ingessato e freddo rispetto alle battaglie fondative che nel 2018 lo hanno fatto votare dal 33 per cento degli italiani». Casaleggio jr, custode delle regole del Movimento e della piattaforma Rousseau, in questa fase, appoggia Di Battista quando ripete, lo fa da giorni, che non si può derogare alla regola del “secondo mandato”, il che metterebbe fuori gioco alle prossime elezioni tutto lo stato maggiore del Movimento in Parlamento dal 2013. Non a caso le truppe parlamentari sopportano sempre meno la presenza della Casaleggio e associati e soprattutto l’obbligo di dover versare ogni mese 300 euro. Prima ancora dell’inchiesta di Abc, lo stop a Dibba era arrivato da Beppe Grillo, il garante del Movimento, che già domenica, poche ore dopo la sua intervista lo aveva paragonato ai “terrapiattisti” e ai “gilet arancioni di Pappalardo” e a “chi vive nel passato come nel film Il giorno della marmotta”. L’inchiesta di ieri mattina ha fatto il resto. Troppo presto per dire se alla fine di queste 24 ore Giuseppe Conte e il progetto politico di cui è il referente, senza la legittimazione di Rousseau né degli Stati generali, escono più o meno saldi. I sondaggi che danno il partito di Giuseppi e il Movimento volare intorno al 30%, lo ringalluzziscono e non poco. Il ventilatore messo in azione ha però colpito il Movimento che resta a rischio scissione. Il Pd osserva preoccupato e nervoso, da azionista di maggioranza rischia di trovarsi a fare da spalla. Le opposizioni chiedono commissioni d’inchiesta e informative in Parlamento. Precarietà e incertezza destinate a pesare sulla legislatura.
Da repubblica.it il 21 giugno 2020. Dopo le polemiche degli esponenti grillini e la denuncia alla procura di Milano del fondatore di Rosseau, Davide Casaleggio, sul presunto scandalo dei fondi venezuelani ai 5Stelle interviene il garante del Movimento, Beppe Grillo. "Lo scoop del quotidiano spangolo? Ci vedo l'ombra del grande fratello sullo scoop spagnolo. Quale è lo scopo di far uscire una notizia falsa, appositamente costruita, mentre il governo italiano è impegnato in una difficile fase di uscita da una crisi spaventosa?", domanda sul suo blog Grillo. Il commento, anzi, l'accusa, si riferisce a quanto riportato nei giorni scorsi dal giornale Abc, che ha pubblicato un documento (falso secondo i grillini) con cui i servizi segreti di Caracas hanno dato informazione di un presunto stanziamento di 3,5 milioni di euro al Movimento, fatto che risalirebbe al 2010. Dopo giorni di polemiche, ora Grillo punta il dito contro l'intelligence e lo fa tramite le parole dell'ambasciatore Torquato Cardilli, che in un articolo pubblicato sul blog del fondatore 5Stelle scrive: La storia ci ha insegnato che spesso i servizi segreti hanno fabbricato documenti e prove false per ingannare amici e nemici, facendoli apparire come veri. Allora - prosegue l'articolo di Cardilli - bisogna cercare di capire quale sia stato lo scopo di far uscire questa notizia falsa, appositamente costruita, mentre il Governo italiano è impegnato in una difficile fase di uscita da una crisi spaventosa, sul piano economico e sociale, causata dal coronavirus".
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 16 giugno 2020.
Barbara Lezzi, esiste la possibilità di una scissione del M5S?
«La scissione non è stata mai oggetto di discussione né per me né per colleghi e attivisti con cui mi confronto».
Sì aspettava le parole di Grillo su Di Battista?
«No. Spero non sia mal consigliato. Posso solo dire che, per me, insieme a lui che è il garante, il M5S è fatto di tutti coloro che hanno dato e continuano a dare tanto a questo progetto».
C'è chi teme per la tenuta del governo...
«Da parte dei 5 Stelle non c'è questa intenzione».
Grillo ha parlato di acqua, Di Battista di ambiente: è un ritorno alle origini?
«Siamo sempre convinti che il referendum sull'acqua debba essere rispettato e che l'ambiente sia elemento essenziale di benessere. Entrambi prevedono investimenti pubblici, quindi lavoro per le imprese».
Di Battista ha proposto il servizio ambientale.
«Si tratta di una buona idea per dare lavoro ai giovani e avere cura del territorio in cambio. Io invece vorrei puntare sul conflitto di interessi e ho intenzione di presentare un disegno di legge che ponga un tetto di due mandati a per i dirigenti di aziende partecipate».
Ma il tema chiave dei prossimi mesi rischia di essere l'economia.
«Deve essere l'economia il tema chiave. Servono ammortizzatori sociali più robusti per gli autonomi anzitutto. E poi, come dicevo, puntare sugli investimenti pubblici che stimolano i privati e creano lavoro. Se si interverrà sulle manutenzioni ordinarie delle infrastrutture e realizzazione di quelle carenti in una cospicua parte del territorio, sulla scuola, la ricerca, la cura del territorio, saranno soldi pubblici spesi per il bene di tutti».
Ha difeso Casaleggio sul caso Venezuela.
«Senza alcuna esitazione e lo farò ogni volta che ce ne sarà bisogno. Gianroberto avrà per sempre tutta la mia riconoscenza e il mio rispetto».
Da liberoquotidiano.it il 16 giugno 2020. Qui crolla il M5s. Non solo la bomba del caso-Venezuela, in attesa che si faccia chiarezza. Come è noto ci si è messo anche Alessandro Di Battista, il grillino urlatore che di fatto tenta la spallata a Giuseppe Conte e la scalata al partito. E così, nel momento del caos, ecco che scende in campo Marco Travaglio, il direttore grillino, colui che detta la linea al partito con le Stellette. Nel suo fondo sul Fatto Quotidiano di oggi, martedì 16 giugno, premette: "Capire che succede e succederà nei 5Stelle è più difficile che capire cosa vuole il Pd e a cosa serve Salvini. Perché il M5s non è più un movimento e non è ancora un partito", ripete il solito ritornello. Dunque, il direttore, assolve - e te pareva - Di Battista, spiegando che non si sta muovendo per le poltrone, ma per le sue idee e per la sua idea di M5s. Ma non è questo il punto. Il punto è che Travaglio, come detto, detta la linea. Spiega che a far infuriare Beppe Grillo è stata la frase "si vota e vediamo chi vince" pronunciata da Dibba in relazione a Giuseppe Conte, invitato a iscriversi per poi, eventualmente, scalare il M5s. Travaglio spiega che secondo Grillo "la fase del capo politico con pieni poteri è superata, dunque niente conta all'O.k. Corral che destabilizzerebbe il governo e dilanierebbe i 5Stelle; molto meglio una segreteria allargata a tutte le anime, come il direttorio che l'estate scorsa decise con lui la svolta giallorossa". Dunque, Travaglio aggiunge che "Grillo ha ragione da vendere col sostegno a Conte e l'allergia al capo politico unico". E tanto basta: scommettiamo che, dopo queste parole di Travaglio, nel M5s andrà esattamente così?
Ilario Lombardo per “la Stampa” il 16 giugno 2020. Non c’è solo Alessandro Di Battista nell’orizzonte delle ostilità di Beppe Grillo. Da settimane, nel retrobottega del Movimento, si sta consumando un duello tra il comico genovese e Davide Casaleggio. Uno scontro dal quale dipende anche il destino di Giuseppe Conte. Nelle puntate precedenti dell’epopea grillina è stato raccontato su questo giornale quanto ormai sia diffusa l’animosità nei confronti del figlio di Gianroberto, sempre più detestato dai parlamentari, isolato da chi lo incensava, ai margini delle decisioni del governo. Deputati e senatori, sotto la regia dei ministri 5 Stelle, vogliono strappargli dalle mani il controllo della piattaforma Rousseau e Giuseppe Conte ha chiesto esplicitamente di tenerlo lontano dalle nomine delle partecipate che ci state nei mesi scorsi. Il premier non si fida, considera incestuoso il rapporto con la Casaleggio Associati che fa affari privati, intessendo rapporti con le aziende. Il pressing, andato a vuoto, di Davide su alcune autority e alcuni Cda, è stato il momento che ha segnato la frattura con il governo. Il coronavirus ha fatto il resto: ha depotenziato e spento Rousseau, e rinviato a data da destinarsi il congresso che avrebbe dovuto nominare il futuro capo politico del M5S. Indebolito su tutti i fronti, Casaleggio jr ha pensato di sfruttare il ritorno in scena di Di Battista. L’asse con lui è stata la classica convergenza di interessi e di delusioni. Entrambi, per motivi differenti, chiedevano un voto immediato sul capo politico. Ed è stato Grillo a fermarli quando ha deciso, forte del ruolo di garante del M5S, di allungare il mandato pro-tempore di Vito Crimi. Prima di farlo si è confrontato e scontrato con Casaleggio minacciando addirittura di tornare a guidare di persona il Movimento. Ancora: Casaleggio voleva votare in piena emergenza sanitaria, e voleva mettere in votazione persino le nomine. Anche qui: Grillo, spronato da Conte e da Crimi, ha bloccato tutto. In un certo senso, il comico vuole conservare lo status quo e mantenere intatto il ruolo del premier. E per questo è andato su tutte le furie quando Di Battista ha detto in tv che se Conte ambisce alla guida del M5S dovrà candidarsi come tutti. In un progetto alternativo al populismo di destra, dove il M5S è solidamente parte organica del centrosinistra, Conte, agli occhi del fondatore, ne è la guida naturale. Il premier, da parte sua, dice che una volta finita l’esperienza a Palazzo Chigi tornerà «a fare l’avvocato». Deve dirlo anche per raffreddare il clamore del dibattito nato attorno al suo futuro. Nei suoi piani, al momento, non c’è alcun partito. Vogliono ritagliargli un ruolo nel M5S, «un po’ alla Prodi un po’ alla Berlusconi» dicono. Da federatore, con un occhio sempre anche al Quirinale. Sente che il Pd ne teme l’ascesa, se questo vorrà dire pescare nell’elettorato dem. Detto questo, comunque al premier non ha fatto piacere sentirsi dire da Di Battista e da Di Maio che deve iscriversi al più presto nel M5S. «È tutto troppo prematuro – confessa in queste ore ai collaboratori - Se sarà, sarà nel 2022». Prima delle prossime elezioni. Ecco perché anche Grillo, incenerendo Di Battista, ha parlato di tempismo sbagliato. E pensare che esattamente un anno fa, il comico genovese arrivò a proporre a Casaleggio di mettersi alla testa dei grillini. La figuraccia europea e la snervante competizione quotidiana con Matteo Salvini aveva ridotto ai minimi la fiducia in Di Maio. I rapporti del comico con Conte si sono intensificati dopo che ad agosto, in piena crisi politica, piombò con un comunicato per silenziare Di Maio e per spingere il M5S all’alleanza con il Pd. Da allora la tesi di Grillo si è rinforzata ogni giorno di più e nei momenti più difficili, ogni volta che le insidie partivano dall’interno del Movimento, il garante si è trasformato nel bodyguard del premier. In questi ultimi due mesi ha passato molto tempo al telefono. Ha sentito varie volte Roberto Fico e Crimi. Si è fatto raccontare cosa stava succedendo anche da altri esponenti di primo piano. E si è convinto che le mosse di Di Battista fossero finalizzate alla destabilizzazione del governo con la complicità di Casaleggio. Davide vuole subito un capo politico, Grillo ha fatto sapere di essere contrario e di preferire un organo collegiale (da chiamare direttorio, segreteria, ufficio politico, politburo, si vedrà). Davide non vuole derogare alla regola che vieta il terzo mandato, Grillo invece non è così sfavorevole all’ipotesi di superarla. Anche di Di Maio il comico si fida poco. Crede che pure il ministro degli Esteri stia in qualche modo insidiando Conte. E attende le sue mosse. Ieri, nel pieno della bufera, l’ex capo politico ha trovato riparo negli equilibrismi de mediatore. Ha fatto appello all’unità ma ha già detto ad alcuni dei suoi fedelissimi di tenersi pronti.
"Vive nel giorno della marmotta": Grillo affossa Di Battista. Nel corso di "Mezz'ora in più" su Rai Tre Di Battista ha chiesto di convocare un'assemblea del M5s "per costruire un'agenda politica". Dura replica di Grillo. Gabriele Laganà, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Tempi difficili in casa 5s. Come se non bastassero le tensioni interne per la linea politica da seguire, oggi il Movimento è scosso da uno scontro verbale tra Alessandro Di Battista e Beppe Grillo. A dare fuoco alle polveri è stata la richiesta di un indire una assemblea da parte dell’ex deputato. "Se il Presidente del Consiglio Conte volesse diventare capo politico del M5S dovrebbe iscriversi. Chiedo un'assemblea in cui tutti le persone del M5S, da iscritti ad attivisti, dicano la loro per costruire un'agenda politica”, ha dichiarato Di Battista nel corso del programma "Mezz'ora in più" in onda su Rai Tre. L’ex parlamentare ha spiegato che la sua visione "è quella legata al rafforzamento dello stato e alla lotta alle politiche globaliste. Vedremo chi vincerà". Queste parole, però, non sono piaciute a Beppe Grillo. Il padre nobile del M5s su Twitter ha pesantemente criticato la proposta di Di Battista: "Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo, pensavo di aver visto tutto... ma ecco l'assemblea costituente delle anime del Movimento. Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film 'Il giorno della marmotta'". La dura replica del comico genovese in merito all'assemblea costituente delle anime del Movimento pare non sia stata gradita dall’ex deputato. Quest’ultimo, infatti, a LaPresse si lascia andare ad un commento piuttosto freddo: "Il tweet di Beppe Grillo? Letto. Evidentemente siamo in dissenso". Poco dopo, però, Di Battista è ritornato sulla polemica e con un post su Instagram ha attaccato, pur non citandolo, Grillo: "Oggi pomeriggio sono tornato in Tv. Ho fatto proposte e preso posizioni chiare. Si può legittimamente non essere d'accordo. Lo si dica chiaramente spiegando il perché". Sulla richiesta di Di Battista di convocare il congresso M5s è intervenuta anche la senatrice pentastellata Barbara Lezzi che su Facebook ha sottolineato che "ci sono molte decisioni da assumere nei prossimi mesi. Ci saranno molti soldi da spendere e ci sarà anche la possibilità di dare una nuova direzione al nostro Paese". "Sono queste- ha aggiunto- le ragioni che devono motivare il M5S a diventare più forte, più determinato. Assemblea costituente, Congresso, Stati Generali come si vuole chiamare non ha importanza per me, quello che conta è che ci sia uno spazio in cui gli iscritti al M5S (eletti e non) diano una guida autorevole e condivisa. Esistiamo da dieci anni, abbiamo fatto due governi con forze opposte e non ci siamo ancora data questa coraggiosa occasione di confronto ormai inevitabile".
Dagospia il 16 giugno 2020. "Ho detto che serve uno spazio di confronto, chiamatelo come volete. Beppe mi ha mandato a quel paese su questa idea. Non so perché ha risposto così. È una proposta in cui credo, e dato che sono una persona riconoscente, anche se manda a quel paese una mia proposta se ho avuto l'opportunità di farla è merito suo e di Gianroberto Casaleggio". Alessandro Di Battista, intervistato a Quarta Repubblica, interviene sulle parole di Beppe Grillo alla sua richiesta di un congresso del Movimento 5 Stelle. "È solo la proposta di uno spazio politico che chiedono tutti gli iscritti in cui costruire il Movimento 5 Stelle dei prossimi dieci anni", ripete l'ex deputato 5 stelle.
Tgcom24.mediaset.it il 16 giugno 2020. "Ho parlato di congresso e delle mie idee, e Beppe Grillo mi ha mandato a quel paese. Se non siamo d'accordo, francamente, amen!". Lo ha detto Alessandro Di Battista in un'intervista a "Quarta Repubblica", riferendosi al no del fondatore del Movimento 5 stelle a un'assemblea costituente, proposta dall'ex parlamentare grillino. Riguardo a una ipotetica candidatura a capo politico, Di Battista ha precisato: “Prima vengono congresso, Stati Generali e assemblea. C’è un momento in cui tutte le anime del movimento fanno delle proposte perché c’è da contrastare il marciume come abbiamo fatto bene in questi anni, con dei normalissimi limiti. Io quindi quello che farò, quando ci sarà questo spazio, è presentare una proposta politica. A seconda di come andranno questi Stati Generali - questo congresso - farò la mia valutazione, perché per me prima viene il cosa e poi il chi”. E su Conte, che potrebbe essere il futuro capo politico del Movimento, ha anche specificato: “Qualora volesse fare il capo, si dovrebbe iscrivere al M5S”. Così, alla provocazione incalzante, "sembra che Lei stia dicendo a Conte di stare sereno", Di Battista ha risposto: “Mi date troppa importanza. Le imprese stanno male, l’ambiente è un dramma, io non parlo più di questa roba qui. Ho detto e ribadisco ciò che penso: sono le mie idee e adesso mi dedico ad altro. Sto facendo proposte per contrastare la disoccupazione, per contrastare il dissesto idrogeologico, l’acqua pubblica e per creare delle imprese con programmi di Stato a sostegno dei giovani disoccupati. Io mi sto dedicando a presentare delle proposte al M5s e al Paese. Questo è quanto”. Infine, in merito alla questione del vincolo del doppio mandato, Di Battista ha spiegato: “Credo in quella regola e se qualcuno vuole modificarla può proporlo in questo spazio politico (al congresso, ndr). Io però non penso che la politica sia una professione. Non campo di politica. La politica la adoro ma si può fare anche senza stare nei palazzi”. Su Facebook, poi, Di Battista aveva ribadito: "Dalla Annunziata sono riuscito a toccare molti punti e a prendere diverse posizioni (chiaramente cose che ribadisco, ribadirò e per le quali lotterò). Non sono riuscito invece a toccare la questione 'acqua pubblica'. Beppe ha pubblicato questo intervento sul tema. Lo condivido in pieno. La ripubblicizzazione dell'acqua (far tornare pubblica la gestione dell'acqua e della rete idrica) è una di quelle azioni 'anti-liberiste' necessarie per proteggere i cittadini".
Alessandro Di Battista, Sartre e l’ideologia del fascismo. Alberto Veronesi, Direttore d'orchestra, su Il Riformista il 21 Giugno 2020. Mi è capitato di vedere il rappresentante del Movimento Cinque stelle Alessandro Di Battista parlare in televisione intervistato da Scanzi. Stupiscono in questo politico le certezze apodittiche in suo possesso. Nella modernità, inaugurata nel ‘700 da David Hume, per il quale nulla è certo nel mondo, nemmeno la stessa esistenza dell’Io, se c’è un dato acquisito, è la considerazione che la conoscenza non è mai infallibile ma solo, nella ipotesi migliore, probabile. L’America, del concetto di impossibilità di pervenire a una verità incontrovertibile, ne ha fatto uno strumento di conquista del sapere: Charles Sanders Peirce, il fondatore del Pragmatismo, affermava che la conoscenza non è che uno strumento d’azione sulla realtà e la verità di una teoria coincide semplicemente con il suo successo pratico. Ma appena l’ipotesi di lavoro si dimostra senza successo è necessario cambiare immediatamente ipotesi. Karl Popper affermava che, poiché la scientificità di una teoria è basata sulla sua falsificabilità, lo scienziato, dovrebbe cimentarsi con forza nel cercare di provare non la veridicità di una teoria, ma la sua non veridicità, la sua falsità. Cioè lo scienziato dovrebbe essere il più grande critico di se stesso, e, in questa prospettiva, suggeriva cautela ai politici, di andare avanti per piccoli passi, per piccole misure che potessero essere corrette, e non per massimi sistemi. Fa piacere invece incontrare un pensatore quale Alessandro Di Battista in possesso di certezze assolute e incontrovertibili, ignaro di quanto andava dicendo nel dopoguerra la grande filosofa ebrea Hanna Arendt nel bellissimo “le origini del totalitarismo”(1951): che la dignità umana dopo il terrore dei campi di sterminio, dopo Auschwitz, “ha bisogno di una nuova garanzia, un nuovo principio politico” e che questo principio consiste nello “scardinamento” dell’ideologia, perché l’ideologia è un “potenziale costante pericolo”. Affermare ideologie incontrovertibili, equivale, per Hanna Arendt, a seguire il modello di Hitler e Stalin, che hanno passato la vita a “eliminare la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano” e a trasformare l’uomo in un oggetto, in altre parole a “rendere superflui gli uomini”. Le caratteristiche dei regimi totalitari sono per la Arendt: “la punizione senza reato”, “lo sfruttamento senza profitto”, “il lavoro senza prodotto”. Di Battista afferma: “vanno vietate per legge le consulenze e le conferenze dei politici, in particolare di chi è stato ex Presidente del Consiglio e svolge ancora attività politica”. Mi viene in mente, oltre alla “punizione senza reato” della Arendt, Michel Onfray e la sua “teoria della Dittatura”, secondo la quale la prima misura per un aspirante dittatore è distruggere la lingua, e quindi la basilare libertà di opinione e di parola, che si svolge attraverso pubbliche conferenze e dibattiti. Continua Di Battista “Il più grande risultato dei cinque stelle è il Reddito di Cittadinanza perché è una conquista sociale e io sono per il rafforzamento dello Stato”, qui oltre a riaffermare l’idea del “lavoro senza prodotto” della Arendt di cui abbiamo già detto, si fa riferimento anche all’idea dello Stato centralizzato e burocratico gia criticato da Max Horkheimer e da Theodor W. Adorno, l’uomo, per il grande capitalismo dello Stato, burocratico, viene ridotto solo ad “oggetto amministrato”. Altra cosa è affermare che una misura è temporanea e serve al riequilibrio e all’ eguaglianza in un’ottica di acquisizione di una prospettiva lavorativa, ma qui si parla di Reddito di Cittadinanza come definitiva conquista sociale, che è cosa diversa. Sullo “io sono per il rafforzamento dello Stato”: oggi, dopo la tragedia del Covid e la conseguente crisi, per forza di cose lo Stato sarà più determinante, ma una cosa è dire che lo Stato deve intervenire, a malincuore, indebitandosi, altra cosa è teorizzare il primato dello Stato e il suo intervento. Qui torniamo all’idealismo di Fichte e di Hegel, allo Stato come soggettività universale che incarna l’identità di un popolo. Qui torniamo a Giovanni Gentile, il teorico del fascismo. Torniamo allo Stato Etico, allo Stato quale incarnazione della realizzazione dei fini dello Spirito nella dialettica della storia. “Non crederò nell’Europa se non quando metterà definitivamente nel dimenticatoio il Patto di Stabilità”, in altre parole, gli Stati nazionali europei debbono poter fare leva su un indebitamento teoricamente tendente all’infinito. Il problema è qui della sostenibilità; come dice il grande teorico della sostenibilità Krishna Rao “è insostenibile un sistema che possegga caratteristiche che non possono essere mantenute in vita per sempre”, aggiungiamo noi che non è nemmeno auspicabile che si possa spendere all’infinito soldi dei nostri figli attraverso l’indebitamento perpetuo. E stupisce poi che un politico che parla di suo figlio ogni tre minuti, non pensi anche al benessere delle generazioni future. “La famiglia Elkann non dovrebbe possedere così tanti mezzi di informazione”: anche qui l’idea del controllo dell’informazione, che non si capisce entro che limiti andrebbe attuato, riporta ai principi della democrazia di Larry Diamond, il grande sociologo americano, che, nel suo “the spirit of democracy”, pone al primo posto per una democrazia “the substantial individual freedom of belief, opinion, discussion, speech, publication, broadcast, assembly, demonstration, petition and internet”. “L’obbiettivo dei Movimento era far fuori la casta, e ci siamo riusciti”, benissimo, “il cittadino, con il Movimento, si è fatto istituzione”. Bene. Non può sfuggire che in questa affermazione serpeggi l’idea di impersonare lo Spirito della Storia attraverso la negazione tipica del Materialismo Dialettico. Io rappresento una classe sociale che si impossessa dello Stato attraverso una rivoluzione, che è il motore della Storia, questo è il Materialismo Dialettico di Marx. Già per Jean Paul Sartre, il grande filosofo francese, il materialismo dialettico, cioè la applicazione della dialettica hegeliana al materialismo storico, era il principio che preludeva al totalitarismo staliniano. Se io pongo nella attuazione del processo storico una sorta di provvidenza laica dello Spirito, e mi sento, attraverso questa Provvidenza, un apostolo detentore della verità dello stesso Spirito, è inevitabile che quando vado al potere crei i Gulag, i Lager, i campi di rieducazione. David Hume diceva che, nel naufragio delle certezze, la vita etica, e quindi politica, dovesse essere improntata al principio della Simpatia, cioè la naturale empatia e solidarietà tra uomini. Molti dei rappresentanti dei Cinque Stelle sono sicuramente “simpatici”, a partire da Grillo. Raccomando a Di Battista di studiare un po’ meno Gentile e un po’ più Hume. Proprio con Sartre voglio concludere questo intervento: “Tutte le attività umane sono equivalenti. È la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli. Se una di queste attività è superiore all’altra, non è a causa del suo scopo reale, ma a causa della coscienza che possiede del suo scopo ideale; e in questo caso il quietismo dell’ubriaco solitario è superiore alla vana agitazione del conduttore di popoli”. Come dice Sartre, meglio ubriacarsi in solitudine.
DAGONEWSil 17 giugno 2020. Da dove nasce l'insofferenza di Alessandro Di Battista? Per quanto Beppe Grillo possa ''massacrarlo dall'interno'' (parole del suo adorato Max Bugani, mica nostre), il povero Dibba ha tutte le ragioni per scalpitare. Dovete sapere che alla vigilia del voto politico, nel 2018, il ''Che Guevara di Roma Nord'' e Luigi Di Maio strinsero un patto di ferro. Giggino disse: inutile avere due galli nel pollaio, in questa tornata sarò io il capo e il volto del Movimento. Tu stai fermo un giro, e alla prossima legislatura, in virtù del vincolo dei due mandati, l'attuale classe dirigente dovrà tornare a casa, e avrai campo libero per prendere il controllo e fare le liste come pare a te. Dibba era reduce da tour in scooter dalle Alpi alla Sicilia, campagne incessanti, decine di apparizioni tv. La sua popolarità tra gli elettori grillini era alle stelle, ma sapeva che una diarchia (per di più con le ingombranti presenze di Grillo e Casaleggio jr) non avrebbe funzionato. Aveva da poco avuto il suo primo figlio, non senza turbolenze sentimentali con la fidanzata, e la prospettiva di altri ''Grand Tour'' sponsorizzati dal ''Fatto Quotidiano'' lo convinse a passare la mano. Passano due anni, il Guatemala e l'Iran, il libro di memorie e l'occasionale apparizione tv per ricordare che lui c'è ancora. Arriva la pandemia, gli Stati Generali del Movimento (quelli che dovevano decidere il nuovo leader) vengono rinviati, e si inizia a parlare di ''deroga'' alla sacra regola dei due mandati. Prima per la Raggi, per l'Appendino, poi dai sindaci si passa ai parlamentari, c'è chi propone la figura del ''consulente politico'' per salvare la cadrega ai big del partito. Alcuni dei parlamentari più vicini a Dibba, come Paragone in Senato e Corrao a Strasburgo, vengono espulsi o sospesi. Il pasionario di Vigna Clara capisce che gli stanno scippando quello che gli spetta, ed ecco che con Casaleggio jr, che in teoria rappresenta l'eredità morale del Movimento delle origini, inizia a dare interviste, fare post, criticare apertamente le scelte dei suoi ex compagni. Ovviamente a Casaleggio jr. non gliene frega niente dei sogni distopici del padre, lui deve tenere in piedi la srl e le sue consulenze, odiatissime dai 5 Stelle. E a Dibba serve quello che lui custodisce, l'infausto Rousseau, che tra le sue regole permette, raccogliendo almeno il 10% degli iscritti, di mettere a votazione una risoluzione che vincoli il movimento. Vi ricordate? Quella simpatica favola della democrazia diretta. Ne rimane qualche vestigia nello statuto dell'Associazione, che ormai serve solo a ciucciare 300 euro al mese da ognuno dei 300 parlamentari a 5 Stelle. Dunque dopo il voto sul Mes in Parlamento, che dovrà passare per forza, pena la sopravvivenza del governo (c'è il soccorso di Forza Italia pronto a prendere il posto dei grillini riottoso), Dibba richiamerà in servizio la dimenticata ''base''. E Grillo è già pronto a spegnere l'ennesimo incendio, dicendo chiaramente agli attivisti che il Paese è in emergenza e non si può permettere di far saltare le trattative europee. A quel punto ci sarà la scissione oppure no? Tutto dipende proprio dall'impegno del Fondatore. Grillo è tentato dal tornare in campo, diciamo al 70%. Ma ha un 30% di resistenza, legata anche alla sua voglia (zero) di sbattersi di nuovo in giro per il paese, di dover rispondere ogni giorno a una nuova polemica politica, di mettere pace nelle baruffe dei suoi ''portavoce''. Al momento preferisce fare una telefonata di qua e una di là per tenere unito il Movimento e cercare una maggioranza che metta insieme le fazioni di Fico e Di Maio, in chiave di ''resistenza'' alle cannonate di Di Battista. A proposito di telefonate: Beppe non ha affatto gradito l'ultima mossa di Conte, cioè il rinvio a settembre del piano che dovrebbe ''salvare'' l'Italia dal baratro. Ma con il premier i contatti ultimamente si sono diradati. Una chiamata di cortesia ogni tanto, poca strategia (Casalino non vuole farsi dettare la linea, solo lui può). Il Fondatore non ha una grande opinione del premier, ed è sempre più deluso dal suo continuo rimandare. Ma pure lui si rende conto che un'alternativa non c'è, e che se vuole tenere in piedi il movimento da lui creato, non può che sostenerlo. Fino alla nascita del governo giallo-verde, sperava di aver in tasca una piccola rosa di potenziali leader, tra cui il suo affezionato Fico, ma anche Patuanelli, e ovviamente Di Battista. Invece uno a uno si sono dimostrati non in grado di gestire allo stesso tempo il loro ruolo (istituzionale e non) e quello di capo-partito. E così resta solo il giovane vecchio Di Maio, ormai rassegnato e allineato al messaggio di Beppone: aggrappiamoci a Conte e che Dio ce la mandi buona. Tanto che Giggino, così avverso agli Stati Generali da essersi fatto il proprio summit alla Farnesina, ormai grida ''Viva gli Stati Generali''. E la poltrona regge un altro po'…
Simone Canettieri per “il Messaggero” il 15 giugno 2020. A chi domenica, dopo il tweet che ha incenerito Alessandro Di Battista, gli ha mandato messaggi ed emoticon con mille cuoricini Beppe Grillo ha risposto così: «Presto starò a Roma, voglio starvi vicino». E se nel 2017, con l'elezione a capo politico di Luigi Di Maio il fondatore annunciò un «passo di lato», adesso è pronto a farne un altro, ma «in avanti». Di fatto, registra chi parla spesso con lui in queste ore convulse, «Beppe è tornato». La linea del Garante, confessata agli amici con una battuta delle sue, è questa: «Sono pronto a ritornare e a indicare la via!». Ergo: un accordo organico nell'alveo del centrosinistra con la destra sovranista. Grillo, a 71 anni, sa che non potrà essere presente su tutti i temi come prima. Ma allo stesso tempo è consapevole che «se non scende adesso in campo, il governo potrebbe cadere nel caos, in una fase storica in cui gli italiani chiedono altro». Ecco perché la prima preoccupazione dell'«Elevato», intenzionato a calarsi per un po' tra i comuni mortali, è la tenuta dell'esecutivo Conte. E la consapevolezza che altrimenti il caos sarebbe più di uno scenario giornalistica. Dalla scissione parlamentare di chi sostiene Di Battista su una linea identitaria, ai giochi di Palazzo di qualche enfant prodige. E proprio Luigi Di Maio, abile a fiutare l'aria che tira, a cercare in queste ore una posizione mediana che tenga dentro tutti: da Dibba a Beppe. «Io ci sarò», dice infatti il ministro degli Esteri. Pronto subito ad allinearsi con il Garante e contro Dibba sul congresso del Movimento: «Non è una priorità per l'Italia». Intanto nelle segrete stanze del Movimento, tra gli uffici notarili di Milano e Roma, il grosso dei ragionamenti gira sullo Statuto. Che al momento prevede un capo politico (Vito Crimi), ma che in futuro dovrebbe essere cambiato - previa voto sulla rete, cioè su Rousseau - per arrivare alla famosa «gestione collegiale». «Un direttorio 2.0», lo chiama Roberta Lombardi, volto storico dei pentastellati e membro del comitato di garanzia. In questo scenario Grillo potrebbe fare due cose: candidarsi pro-tempore «ma per plebiscito sapendo che nessuno lo sfiderebbe», raccontano i suoi amici; oppure accompagnare, ma questa volta in prima fila, tutte le anime tumultuose che, in maniera diversa, si riconoscono in questo esecutivo. Da Di Maio a Fico, passando appunto per Paola Taverna e Stefano Patuanelli. Il problema in questa fase rimane proprio Di Battista, una mina vagante. Che sembra comunque intenzionato ad andare avanti, a cercare la guida del Movimento soprattutto in ottica futura. Quando cioè ci saranno le elezioni e solo lui, tra i big, potrà correre senza andare in deroga alla regola del secondo mandato. Un pallino in questo momento di Davide Casaleggio, «sempre di più sotto attacco». Tanto che quando ieri mattina alle 7, prima che la notizia arrivasse sui rulli delle agenzie di stampa italiane, è stato avvisato dello scoop del quotidano Abc, ha messo in fila gli ultimi fatti: le inchieste tv su Rousseau, la rivolta dei parlamentari, spalleggiati dai big, contro l'obolo mensile di 300 euro da donare alla piattaforma, la tentazione di estrometterlo dalla gestione del Movimento relegandolo a puro «service esterno». Una serie di fatti in vorticosa sequenza - per ultima, appunto, c'è la vicenda dei presunti fondi dati dal regime venezuelano al padre Gianroberto nel 2010 - che fa pensare ai suoi collaboratori a «un dossieraggio interno». «Anche perché si tratta di una vicenda già uscita», ammettono fonti governative del Movimento ostili a Davide, ma comunque oggettive. In questa fase l'attuale capo politico Vito Crimi è comunque in stand by. Non prende decisioni sugli Stati Generali (se ne riparla in autunno) né sui dossier più caldi. A partire dalle ricandidature di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino. La sindaca della Capitale, volto forte e popolare del Movimento ma fuori dai giochi di potere, aspetta che la sua situazione si sblocchi (Appendino non sembra intenzionata a ripresentarsi). Ma che sa che in questa situazione tutto diventa complicato perché è in corso una guerra di veti. L'ennesimo capitolo del Todo Modo grillino, per gli amanti del genere. E chi potrebbe sbloccare l'impasse se non Grillo? D'altronde è tornato, anche se chissà per quanto.
Da corriere.it il 15 giugno 2020. «Ieri ho parlato di congresso e delle mie idee e Beppe (Grillo ndr) mi ha mandato a quel paese. Io ho delle idee e, se non siamo d’accordo, francamente, amen!». Lo ha affermato Alessandro di Di Battista in un passaggio dell’intervista rilasciata a «Quarta Repubblica» in onda integralmente questa sera. Ieri, alla sua prima uscita pubblica dopo un lungo silenzio, aveva dichiarato: «Chiedo il prima possibile un congresso. Usiamo anche questa vecchia parola, o assemblea costituente o Stati generali del Movimento 5 Stelle per costruire un’agenda politica e vedremo chi vincerà...». Grillo aveva risposto: «Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo, pensavo di aver visto tutto... ma ecco l’assemblea costituente delle anime del Movimento. Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta». La necessità di una nuova leadership del M5S si intreccia con il ruolo del premier, anche perché secondo un sondaggio del Corriere Conte porterebbe i 5 Stelle al 30%. Di Battista non ha chiuso la porta ma ha indicato una condizione: se il premier vuole fare il leader del M5S «si deve iscrivere e candidarsi al congresso». E aggiunge, velenoso: «Dicono che con lui arriveremo al 30%? Vorrei ricordare i sondaggi che facevano su Monti. Siamo diventando una sondaggiocrazia».
Marco Antonellis per affariitaliani.it il 15 giugno 2020. Il fattore "C" salverà Guseppe Conte? Tra i vertici pentastellati, ancora scossi dall'improvviso scatenarsi della guerra tra Alessandro Di Battista e Beppe Grillo ("Beppe ormai parla solo con Di Maio e Fico, Dibba deve farsene una ragione") e dai soliti sondaggi domenicali (non manca chi reputa esagerati i risultati usciti negli ultimi giorni, giudicati fin troppo teneri con "Giuseppi" e "strumentalizzati per tirare la volata a uno che nel paese reale otterrebbe al massimo il 2%") è giunta notizia di come Palazzo Chigi vorrebbe salvare "capra e cavoli" e quindi, il governo ora che si sta arrivando al "redde rationem" con l'Europa e c'è la necessità di far digerire il "Mes" ai grillini. L'ipotesi che sta prendo piede in queste ore approfittando della vicinanza temporale dei due dossier è quella di uno "scambio" con la questione legata alla concessione Autostrade: dare spazio ai duri e puri su Aspi in cambio della luce verde sul Mes. Restano comunque molte incognite sul "si" dell'Italia al Meccanismo di stabilità: "Se lo facessimo solo noi insieme a Spagna e Portogallo avremmo certificato il fallimento di tutta la nostra azione di governo" spiegano fonti diplomatiche. Insomma, sarebbe la certificazione che l'Italia in Europa vuole giocare in serie B e si rischierebbero anche pesanti conseguenze sui conti pubblici come l'aumento della spesa per gli interessi. Di giorni per decidere ne restano pochi: ci sarà un prossimo Consiglio europeo il 19 giugno mentre quello decisivo dovrebbe essere il 9 luglio. In quel caso l'Italia spera di poter vedere almeno una bozza ufficiosa sui numeri del Recovery Fund. Perchè subito dopo andrà presa una decisione definitiva sul Mes. E il fattore "C" (lo scambio con il dossier Autostrade) potrebbe non bastare più.
PS, non dite a Dibba che nei giorni scorsi Grillo era stato quasi sul punto di scrivere un post per caldeggiare l'alleanza con il Pd in Liguria....
Federico Capurso per ''la Stampa'' il 15 giugno 2020. Il mondo grillino assiste sgomento allo scontro feroce che esplode tra Alessandro Di Battista e Beppe Grillo. Pomo della discordia è Giuseppe Conte e con lui, il suo futuro politico, dentro o fuori il Movimento. In altre parole, sull' identità futura che il partito pentastellato si vorrà dare, se verso l' Europa e il centrosinistra con Conte, o lontano dal campo progressista, pronto a bussare di nuovo alla porta della Lega con Di Battista e Luigi Di Maio. «Tutto questo accelera per forza di cose l' organizzazione degli stati generali», spiegano dai vertici M5S. E l' obiettivo è uno solo, ormai: «Evitare, con un miracolo, la scissione». Si pensa di allestire l' appuntamento già a settembre, se l' andamento dell' epidemia lo consentirà. Di certo, però, non se lo immaginava così, Di Battista, il suo ritorno in televisione dopo mesi passati all' ombra del Movimento, tra reportage, cene con gli attivisti e punzecchiature al governo via social. Voleva tornare al centro, per dire a Conte che gli è «leale», ma ancor di più per metterlo in guardia: «Se il premier vuole diventare il capo politico M5S, si deve iscrivere e presentarsi al prossimo congresso». Insomma, se vuole la leadership, deve batterlo. Perché quel posto lo vuole lui, come confermano con una certa insofferenza nel partito. Ma Beppe Grillo, che da mesi cerca di preparare il terreno al premier e a un' alleanza strutturale con il centrosinistra, trasecola. Era atteso a Roma questa settimana, e a questo punto forse rimanderà, ma comunque non può aspettare oltre per intervenire. Mentre Di Battista è ancora in tv, lo tartassano di telefonate e messaggi: «Beppe, devi dire qualcosa. Arginalo, o il governo rischia di non reggere». Il tweet che arriva da Genova, dopo pochi minuti, è un colpo frastornante, come mai Grillo ne aveva inferti a un big del suo partito. Sono sufficienti i paragoni iniziali: «Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo». A loro, segue Di Battista. L' ex deputato romano è frastornato: «Non capisco cosa ho detto di sbagliato», riferisce nelle prime telefonate con chi lo ha sentito. Chiede spiegazioni sui social, ma il dubbio atroce - al di là dell' atteggiamento naiv - è che la sua corsa alla leadership possa essere ostacolata dal padre fondatore e che la sua presenza sia ormai indigesta a tutti, fuorché a una esigua truppa, tra i quali le ex ministre Barbara Lezzi e Giulia Grillo, e l' europarlamentare Ignazio Corrao. Proprio Lezzi, infatti, parlando con La Stampa critica il fondatore: «Mi sembra incomprensibile la posizione di Grillo. Non avrebbe dovuto attaccare chi ha fatto tanto per portare il Movimento al governo e adesso fa solo delle proposte per farci pesare di più». Una scissione, a questo punto, è più vicina. Da una parte i "puristi", nostalgici del Movimento di un tempo, barricadero e con il Pd sempre nel mirino; dall' altra i "contiani", che invece spingono per avvicinarsi al Pd e all' Europa. D' altronde, Conte è sempre stata l'opzione più ovvia per ricoprire il ruolo di futuro capo politico del Movimento. Allo stesso tempo, la più complicata. Capace di rubare consensi ai grillini fino a ridurli a percentuali di poco superiori alla doppia cifra, se si presentasse con un suo partito alle prossime elezioni, ma anche di farli balzare al 30 per cento, se invece si mettesse alla loro guida. Qualunque strada il premier decidesse di imboccare, però, assicura un ministro di peso del Movimento, «ci spaccherebbe in due». Conte potrebbe fare affidamento su un nutrito gruppo di ministri - Riccardo Fraccaro, Stefano Patuanelli, Federico D' Incà, Lucia Azzolina, Vincenzo Spadafora - oltre a Grillo, al presidente della Camera, Roberto Fico, e a Paola Taverna, che però vorrebbe anche lei la leadership. La maggioranza dei parlamentari, poi, è con lui, seppur nelle ultime settimane i rapporti si siano raffreddati. «Conte deve dare una mano al Movimento. Deve starci più affianco», sostiene infatti un membro del governo, che rilancia l' idea di un politburo che affianchi il capo politico e ne indirizzi le decisioni. Un modo come un altro per gettare acqua sul fuoco. Dall' altra parte, invece, si schiererebbero Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, sempre meno affiatati, ma con l' obiettivo comune di non far brillare ancora a lungo la stella di Conte. Ma il dubbio vero, semmai, è se Conte abbia davvero intenzione di prendere in mano un partito che assomiglia sempre più ad una bomba a orologeria.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 15 giugno 2020. E' cominciata nei 5 stelle, prima ancora della scissione, prevista per luglio, la gara a chi scarica prima Giuseppe Conte. Lo farà più velocemente Di Maio in tandem con Franceschini o il Dibba riapparso più guerrigliero che mai e che vede il premier traditore in piena sbornia monarchica e sudditanza al Pd e vuole farlo fuori il più presto possibile agli Stati Generali? E' questione di tempo, appunto. E la sortita del Dibba in tivvù versione Conte (quello di Dumas) di Montecristo che torna spietatamente per fare vendetta anti-Giuseppi riapre i giochi e prepara la grande mattanza dentro il movimento e tra il movimento e il capo del governo che piaceva tanto (ma mai troppo) e ora non piace più. Perché a Di Maio come a Dibba, divisi in tutto ma non su questo, gli Stati Generali sono apparsi la sua estrema prova di forza che non può permettersi. Lo spargimento di sangue avrà la prima tappa nel voto in Parlamento sul Mes il mese prossimo e la seconda in ottobre agli Stati Generali (o congresso o assemblea costituente) del movimento. Sempre rinviati con ogni scusa per non arrivare impreparati alla resa dei conti ma adesso diventati l'arma di battaglia da usare subito da parte dell'ala Dibba, il quale insieme a Casaleggio userà quell'appuntamento «urgente» per togliere di mezzo Di Maio e tutto il gruppo dirigente alal Crimi e compagnia, al grido: nessuna revoca del divieto al secondo mandato parlamentare. Che loro vorrebbero far saltare per tenersi il proprio ruolo e il proprio comando. Non è ancora deciso se a sfidare Dibba sarà proprio Di Maio (probabilmente no, ma resta lui il padrone del movimento) ma quel che è certo è che Ale e Casaleggio vogliono fare terra pulita e sostituirsi ai manovratori. Un intreccio di guerre insomma. Un tutti contro tutti. Con Conte stritolato tra il Dibba alla riscossa e gli attuali vertici del movimento che non ne possono più di lui, temono la nascita del suo partito (addirittura quotato al 15 per cento in certe stime) ma soprattutto non sopportano la manovra in corso targata Grillo-Pd: farne il capo di M5S ed eternare così lo schema rossogiallo. «Fa ridere ma fa anche rabbia - dicono ai piani alti M5S - leggere sui giornali il sondaggio che dice che Conte alla guida del movimento ci riporterebbe al 30 per cento. Sono dati pilotati». E il pilota, assicurano i pentastellati, sarebbe lo stesso premier ormai diventato ai loro occhi un furbastro che vuole prendersi tutto il piatto. Gli Stati Generali voluti da Conte per l'apoteosi di Conte hanno così rimesso in moto la guerra interna. Se però torna in campo Beppe Grillo, non solo via tweet ma riprendendosi materialmente il movimento e l'opzione è assolutamente possibile, non ce ne sarà per nessuno. E Conte risulterà blindato, anche da chi pur osteggiando il Dibba osteggia pure il premier. Che guazzabuglio! Il voto in Parlamento sul Mes, a cui Dibba dice no e che Conte e Di Maio hanno di fatto sbloccato con un sì anche se il premier non lo dice, potrà diventare il detonatore della scissione dei descamiciados del subcomandante Ale. Che può contare su svariate truppe fuori dalle Camere, in tutto quel modo social, internettista, un po' terrapiattista e un po' terzomondista, ribellista, identitario, tutto acqua pubblica (e infatti per contrastare l'esercito dibattistiano Grillo ha rilanciato sui questo tema, cercando di toglierlo agli avversari) e fedeltà alle origini del movimento racchiuse in quei meet up ormai in sonno o disgregati che si vorrebbe resuscitare contro il quartier generale dei Di Maio, dei Crimi e dell'ala ministeriale. Quando si voterà per il Mes, potrebbe staccarsi quella parte combat e ancora anti-europeista che in Parlamento, mentre Ale sta fuori e dirige, si riconosce nelle due ex ministre pasdaran, la Grillo e la Lezzi, la deputata Dalila Nesci che guida la corrente Parole Guerriere e via così. Pochi, e timorosi che la caduta eventuale del governo li rimandi a casa (lo stesso Dibba giura di non voler far dimissionare l'ex avvocato del popolo), eppur ci sono i potenziali scissionisti. A quel punto, se lo strappo ci sarà, un nuovo gruppo parlamentare si formerà a cui si aggiungeranno alcuni ex M5S ora parcheggiati al Gruppo Misto e la navigazione di Conte - ora ti do la fiducia, ora invece no, e se la vuoi vieni a trattare con noi - si farà ancora più complicata e acrobatica di quanto non lo sia adesso. Intanto le chat del movimento pullulano di messaggi contro Dibba e l'intervento di Grillo incassa l'apprezzamento pubblico di deputati come Maria Pallini, Niccolò Invidia, Guia Termini (tace Fico ma è il più filo-Pd di tutti), mentre Sergio Battelli, presidente della Commissione Politiche Ue della Camera, twitta soddisfatto: «Beppe is back». Con il subcomandante Ale però c'è Casaleggio, irritatissimo per la rivolta di quasi tutti i parlamentari che non vogliono più pagare l'obolo alla Casaleggio Associati per Rousseau. Chi vincerà questa guerra? Di sicuro chi ha più da perdere è Conte. Nonostante il sostegno di Grillo. Perché se deve guardarsi dai descamiciados deve anche guardarsi da tutti quelli che non gli vogliono far mettere piede al comando di M5S. E sono quelli che tra i due avvocati - l'altro è Dario Franceschini - potrebbero optare per quest'ultimo. Continuando a sorridere e ad abbracciarsi con Grillo, ma facendo di fatto un altro gioco rispetto all'Elevato.
Carlo Bertini per “la Stampa” il 15 giugno 2020. «Alessandro è l'anima buona di un Movimento malato di poltronismo, diventato una sorta di fake news». E se Gianluigi Paragone, ex centravanti di punta dei Cinque stelle uscito in polemica dal Movimento, esordisce così, si capisce con chi stia nella guerra tra bande deflagrata ieri. Una guerra che «Di Battista certo potrebbe vincere se al congresso si votasse sulla piattaforma Rousseau, altrimenti, se la gestione finisse in mano ai gruppi parlamentari, sarebbe molto difficile per lui farcela».
Certo, stanno venendo al pettine i nodi dei cinque stelle. Perché a Grillo non sta bene un congresso?
«Perché ormai ha già apparecchiato il percorso del Movimento in un'orbita di centrosinistra. E vede in Conte l'uomo che può condurre in porto questa metamorfosi finale, senza che nessuno gli dica che prima il movimento predicava altro».
Insomma nessuno può recriminargli qualcosa sul passato, giusto?
«Beh, se fai consumare al Movimento l'ultimo strappo definitivo e lo metti nel cielo riformista, hai bisogno di qualcuno che non sia bersaglio della grammatica precedente. Chi ha predicato una politica anti-sistema può essere bersagliato: se Di Maio parla di Europa, gli puoi tirare fuori un suo video anti Ue. Lui, come la Taverna ed altri, hanno un passato ingombrante. Conte no, perché non c'era prima e quindi può condurre il Movimento nella galassia riformista senza che nessuno possa recriminargli nulla».
Non è che Grillo ha paura che vinca il congresso Di Battista?
«Grillo lo ha stoppato con un atteggiamento padronale. Siccome il percorso lo ha già in testa lui, si deve fare come dice lui».
Di Battista ha promesso a Conte di non ordire trappole, poi però ha suonato la campana a morte al suo governo lodando quanto fatto con il governo precedente. Una minaccia, non crede?
«No, Alessandro credo che abbia una sola parola e se lo dice sa di dire una cosa politicamente impegnativa per lui. Un modo per dimostrare maturità politica. Comunque ha ragione, perché quel governo aveva ancora la punteggiatura del Movimento: non appiattito sull'Europa. E poi ha fatto i decreti sicurezza, reddito di cittadinanza e decreto dignità, ha impostato il lavoro di Bonafede con la legge spazzacorrotti. Nella tabella di marcia di quel governo, i Cinque stelle furono caratterizzanti. Oggi è difficile trovare loro tracce nell'azione di questo esecutivo».
E quindi sono irrecuperabili?
«Beh oggi M5S è una fake politica. Basta prendere il programma elettorale con cui vinsero».
A proposito, che faranno a luglio sul Mes? Come ne usciranno?
«Alla fine un gruppo residuale vicino a Di Battista magari non voterà il Mes, qualcuno si rimangerà l'impegno: ma Conte sa che è in stato avanzato il colloquio con Forza Italia e i centristi. Siamo nella logica del pallottoliere di Palazzo».
Lei non crede che con Conte leader, i Cinque stelle si riprenderebbero?
«Sono sondaggi che valgono per oggi, a settembre saranno diversi. Abbiamo un problema pratico. Al di là dei decreti annunciati, il loro atterraggio è troppo lungo. I soldi li devi dare ora e oggi non ci sono. Questo è un paese ferito che tentava di sollevarsi da una crisi precedente, se la ferita la tieni aperta hai un grosso problema».
Ma la spinta iniziale del Movimento si è incagliata sulla sfida del governo?
«Le sfide si possono anche giocare, qui il M5S si è incagliato sul poltronismo. Su Europa, Benetton, e nomine varie come la conferma di De Scalzi all'Eni, il Movimento è irriconoscibile. E il Mes sarà l'ultimo capitolo delle turbolenze interne».
Lannutti e i 5S, gente che non ha molta familiarità con la democrazia e lo Stato di diritto. Redazione su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Chissà, magari il senatore cinquestellato Lannutti all’improvviso è diventato garantista. E si è convinto che la magistratura la deve smettere di volere sottomettere la politica. Oppure, più semplicemente, il senatore a cinque stelle Lannutti, pensa che la magistratura debba eseguire gli ordini dei 5 Stelle, e dunque perseguire i nemici dei 5 Stelle e non gli amici. E così ha dichiarato che in un paese normale la Pm che ieri ha interrogato Conte sarebbe già sotto indagine. Non si sa se Lannutti vorrebbe anche l’arresto della magistrata. Voi dite: vabbé, ma quello è Lannutti. Non crediamo sia la risposta giusta. Probabilmente i 5 Stelle la pensano come lui. Non è gente molto familiare con la democrazia e lo Stato di diritto.
Giorgia Baroncini per "ilgiornale.it" il 23 giugno 2020. Il Movimento 5 Stelle (M5S) continua a perdere pezzi. Dopo i numerosi addii degli ultimi mesi, altre due parlamentari hanno deciso di abbandonare il gruppo. A lasciare i pentastellati, come riporta l'Adnkronos, sono la deputata pugliese Alessandra Ermellino, componente della Commissione Difesa di Montecitorio, e la senatrice Alessandra Riccardi. Il Movimento continua così ad assottigliarsi, creando sempre più problemi sia alla maggioranza che alla tenuta dei grillini stessi. Negli ultimi mesi i malumori tra i pentastellati sono infatti cresciuti. "Non vado via dal M5S ma dalle persone che si sono impossessate di un progetto tradendo le speranze di 11 milioni di cittadini", ha dichiarato Alessandra Ermellino comunicando il suo allontanamento dal gruppo. "Ho consegnato la lettera di dimissioni dal M5S senza lasciarmi alle spalle alcun rimpianto, ormai da tempo la mia voglia di lavorare e rispondere alle sollecitazioni provenienti dal territorio - con l'unico scopo di tutelare il bene pubblico - confliggevano con il percorso e le scelte fatte dal MoVimento. A partire dal gruppo della commissione Difesa che, nel corso di questi 26 mesi, ha osteggiato il mio lavoro", ha spiegato la deputata. Ad aprile, in piena emergenza coronavirus, era scoppiata una bufera nel Movimento per un'interrogazione parlamentare dalla deputata pugliese. La pentastellata aveva chiesto informazioni sui ritardi dei servizi segreti nel comunicare l'arrivo del coronavirus in Italia. E così erano nate le proteste da parte dei colleghi. Il capogruppo M5S in commissione Difesa, Giovanni Russo, e tutti i deputati pentastellati avevano preso le distanze "in maniera decisa dall'interrogazione depositata alla Camera dalla deputata Alessandra Ermellino che ha sollevato dubbi assolutamente illegittimi sull'operato del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza in relazione all'emergenza coronavirus". Pochi giorni fa, Alessandra Ermellino aveva "espresso voto contrario al parere dato in commissione Difesa sulle parti di nostra competenza contenute nel dl Rilancio". "L'articolo 211 potrebbe comportare a mio avviso alcune ricadute discutibili in termini di sicurezza nazionale", ha affermato spiegando di aver "chiesto nelle passate settimane cosa i miei colleghi 5 Stelle pensassero nel merito degli articoli in cui leggevo quantomeno delle problematicità. La risposta è stata vaga". E ora Ermellino lascia il Movimento per passare al gruppo Misto. "Il M5S è diventato uno spazio privo di confronto e competenza, dove il rispetto delle regole e dei valori, che ci avevano illusi che un cambiamento fosse finalmente possibile, sono stati calpestati dalle aspirazioni personali - ha spiegato -. Viviamo tuttora in un sistema politico marcio che necessita di grande coraggio e capacità per essere risanato, tuttavia ho la netta sensazione che il M5S non abbia la forza o la volontà di perseguire realmente questo cambiamento. Dal gruppo Misto continuerò con caparbietà a tenere fede agli impegni presi con i cittadini". Per quanto riguarda invece la senatrice Alessandra Riccardi, già da tempo si rincorrevano le indiscrezioni su un possibile passaggio alla Lega. Le voci si erano rafforzate soprattutto dopo il suo voto in dissenso dal M5S sul caso Salvini-Open Arms nella Giunta per le immunità di Palazzo Madama. "Il mio disagio in particolare è cresciuto negli ultimi mesi ed è legato al fatto che non si sia realizzato, neppure in minima parte, quel confronto parlamentare anche con l'opposizione per riforme importanti e ancora più necessarie in un periodo difficile come questo", ha spiegato la senatrice che siederà tra i banchi della Lega. Prima di lei, hanno lasciato i 5S per Salvini i senatori Stefano Lucidi, Ugo Grassi e Francesco Urraro. Nelle prossime ore, alla Lega arriveranno anche diversi amministratori locali nel Centrosud. "Porte aperte a donne e uomini perbene e capaci. Sono felice e orgoglioso che bussino alla Lega da tutti gli schieramenti politici, da Nord a Sud, confermando la nostra crescita: siamo seri, credibili e pronti per vincere le prossime elezioni. A livello locale e nazionale", ha commentato Matteo Salvini. Ora, l'addio della senatrice Riccardi fa tremare il governo: la maggioranza in Senato, che conta su pochi voti di vantaggio sulle opposizioni, è sempre più instabile.
La senatrice Riccardi, da candidata sindaca M5S alla Lega. La senatrice Alessandra Riccardi, eletta nel 2018 col M5S, è passata ufficialmente con la Lega. Aveva iniziato la carriera politica come candidata sindaco dei grillini al comune di Cinisello Balsamo. Francesco Curridori, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. “Sono arrivata a questa scelta dopo averci riflettuto a lungo, non è stato semplice ma era diventato impossibile portare avanti idee e progetti per i quali avevo deciso di far parte del Movimento 5 Stelle”. Così la senatrice Alessandra Riccardi ha motivato la sua adesione al gruppo della Lega. Riccardi, avvocato milanese, classe 1974, raggiunge nel Carroccio gli ex pentastellati Stefano Lucidi, Ugo Grassi e Francesco Urraro che avevano già fatto la sua stessa scelta negli scorsi mesi. Come ha ricordato lei stessa nel post in cui ha annunciato il suo passaggio alla Lega, era entrata in contrasto col M5S in occasione del voto sull'autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso Open Arms lo scorso 26 maggio. “Anche qui a mio avviso sussisteva, come nel caso della Diciotti, l'azione di governo nel perseguimento della politica dei flussi migratori. E anche sul caso Gregoretti ero uscita dall'aula, non condividendo la posizione del mio gruppo a favore del processo”, ha ricordato l’ormai la senatrice che vanta una lunga militanza dentro il M5S. Nel 2013 Riccardi si candida a sindaco di Cinisello Balsamo, all’epoca ancora una delle poche roccaforti della sinistra lombarda, ottenendo il 13,5% dei consensi. Nel 2018, invece, viene eletta in Senato nella circoscrizione Lombardia 05 con il listino proporzionale del M5S ed entra a far parte non solo della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, ma anche della Commissione parlamentare di inchiesta sui fatti accaduti presso la comunità "Il Forteto". Solo pochi giorni fa aveva espresso la sua soddisfazione per l’arresto per corruzione dell’ex sindaca Pd Siria Trezzi, ora delegata alla mobilità in Città Metropolitana. “Durante il mandato da consigliera comunale a Cinisello Balsamo, avevo già, insieme al gruppo consiliare del Movimento 5 stelle Cinisello Balsamo, espresso forte preoccupazione rispetto ad alcune parti del Piano di governo del #territorio”, aveva ricordato la senatrice che concludeva così il suo post: “Attenderemo che la magistratura termini il suo lavoro, consapevoli comunque della forte attenzione che la #politica deve prestare nella definizione del Pgt”. Agli inizi del mese di maggio, invece, aveva espresso sui social la sua vicinanza all’attuale sindaco di Cinisello Balsamo, il leghista Giacomo Ghilardi, per essere stata “vittima di insulti e #minacce sui social a seguito dell’ultima operazione di lotta allo spaccio in città”. Oggi Matteo Salvini e Massimiliano Romeo, capogruppo del Carroccio a Palazzo Madama, si sono detti “molto contenti di accoglierla a casa nostra”. “Siamo certi che faremo un percorso insieme per dare soluzioni e risposte agli italiani in questo momento particolarmente faticoso", hanno concluso Salvini e Romeo.
Chi è Alessandra Ermellino, la grillina passata al Misto. "Non vado via dal M5s ma dalle persone che si sono impossessate di un progetto tradendo le speranze di 11 milioni di cittadini", ha spiegato la deputata Alessandra Ermellino che oggi ha lasciato il Movimento dopo anni di militanza. Francesco Curridori, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. "Non vado via dal M5s ma dalle persone che si sono impossessate di un progetto tradendo le speranze di 11 milioni di cittadini". Così la deputata Alessandra Ermellino ha spiegato il suo passaggio al gruppo misto. "Ho consegnato la lettera di dimissioni dal M5S senza lasciarmi alle spalle alcun rimpianto, ormai da tempo la mia voglia di lavorare e rispondere alle sollecitazioni provenienti dal territorio - con l’unico scopo di tutelare il bene pubblico - confliggevano con il percorso e le scelte fatte dal MoVimento", ha detto la deputata tarantina eletta in Parlamento per la prima volta nel maggio 2018 e membro della commissione Difesa della Camera. "Sono alla mia prima esperienza istituzionale di tipo politico, ma alle spalle ho tanti di anni di attivismo prima nel meetup Crispiano 5 Stelle e poi in Amici di Beppe Grillo Taranto", scrive nel suo sito ufficiale la Ermellino che, prima di vincere le 'Parlamentarie' e candidarsi alle Politiche, nel 2013 si è presentata come aspirante consigliera comunale a Crispiano, suo paese natale, tra le fila della lista che sosteneva l'allora candidato Sindaco, Umberto Marchetti. Nel 2017 si candida a Taranto nella lista pentastellata guidata da Francesco Nevoli, poi eletto consigliere comunale nel capoluogo pugliese. Nata nel 1978, diventa una grafica pubblicitaria ed editoriale, specializzata nel settore del racing dopo aver conseguito una laurea triennale in Lettere e Culture del Territorio e, in seguito, la magistrale in Filologia Moderna. "Per me è importante specificare il mestiere che ho praticato a tempo pieno fino a poco tempo fa, perché proprio grazie a questa professione ho imparato a lavorare in team, quindi a confrontarmi e a collaborare con i colleghi per raggiungere tutti gli obiettivi prefissati", scrive nel suo sito. "Gli anni dell’adolescenza sono stati decisivi per comprendere quale formazione politica avrei avuto: appartengo infatti alla generazione che ha vissuto la fine della Prima Repubblica con il travolgimento dell’inchiesta Mani Pulite, l’ascesa di Silvio Berlusconi e quindi l’allontanamento progressivo dei cittadini da una politica sempre più distante dai bisogni degli italiani", osserva la Ermellino che racconta l'ingresso nel M5S "come svegliarsi da un lungo sonno e accorgersi che qualcuno parlava la mia stessa lingua". E ancora: "Subito ho pensato: forse un cambiamento è davvero possibile!". Parole ben diverse da quelle usate oggi.
M5s sospende gli europarlamentari Corrao, D’Amato e Pedicini. Il Corriere del Giorno il 5 Giugno 2020. Fonti del Movimento dicono che i vertici spingevano per l’espulsione. La D’ Amato continua a pubblicare come portavoce M5S come se nulla fosse, nel tentativo di non fare propagare la notizia della sua sospensione. Gli europarlamentari Ignazio Corrao, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini, sono stati sospesi dal Movimento 5 Stelle per un mese. La decisione dei probiviri, resa nota dallo stesso Pedicini su Facebook, è conseguente al voto contrario espresso dai tre esponenti pentastellati a Strasburgo sul pacchetto di aiuti Ue nell’emergenza coronavirus. Corrao e la D’Amato sono stati sospesi anche dal ruolo di “facilitatori”. Fonti del Movimento dicono che i vertici spingevano per l’espulsione. E proprio ieri sera è filtrata la notizia che Corrao, vicino ad Alessandro Di Battista, sarebbe stato anche rimosso dalla carica di facilitatore degli enti locali come conseguenza del provvedimento. Con grandi polemiche sulle chat interne. Corrao è da 19 ore in silenzio su Facebook , mentre Rosa D’Amato, passata agli onori…della cronaca per le sue battaglie sulla xylella condotte inventando di sana pianta delle dichiarazioni di professori, invece continua a pubblicare come portavoce M5S come se nulla fosse, nel tentativo di non fare propagare la notizia della sua sospensione. “La mia, la nostra, contrarietà non era ad un pacchetto per la ripresa economica in Unione Europea, era una contrarietà ad una risoluzione politica che all’interno conteneva la polpetta avvelenata del MES” commenta Pedicini “La nostra posizione riguardava una battaglia per noi identitaria e nella quale abbiamo creduto fin dall’inizio, battaglia per la quale oggi più che mai bisognava tenere la schiena dritta! In tutto questo c’era la consapevolezza che così facendo avremmo trasgredito una regola accettata all’atto della candidatura, quella di adeguarsi alla decisione di maggioranza espressa in delegazione. Tuttavia c’era anche la certezza che facendo diversamente avremmo trasgredito una regola molto più importante, perché traduzione di un patto siglato con i cittadini, quella della fedeltà al programma elettorale. E i nostri programmi elettorali hanno sempre previsto la contrarietà al MES”. “Naturalmente rispetterò il verdetto dei probiviri che ringrazio per aver tenuto conto del contenuto riportato nella memoria difensiva e non farò nessun reclamo” conclude Pedicini.
Vergogna grillina, transfughi formano gruppo del partito di Angelino Alfano (senza eletti) e accedono a finanziamenti e contributi: Fico tace. Salvatore Curreri su Il Riformista il 6 Giugno 2020. E due! Dopo la dannunziana Sogno Italia – 10 Volte meglio!, nel gruppo misto della Camera dei deputati si è costituita un’altra componente politica formata anche in questo caso da tre deputati eletti per il M5s: Popolo Protagonista – Alternativa Popolare. L’ennesimo segnale dello smottamento del gruppo pentastellato alla Camera (da inizio legislatura 19 deputati in meno; 24 includendo i 5 eletti che non vi si sono iscritti)? Certo. Espressione della libertà di mandato del parlamentare che non è obbligato a far parte del gruppo parlamentare del partito per cui è stato eletto? Anche. Ma stavolta forse c’è qualcosa in più. Innanzitutto, è bene precisare che solo il presidente della Camera può autorizzare la costituzione di una componente politica nel gruppo misto formata da meno di dieci deputati, purché in almeno tre «rappresentino un partito o movimento politico, la cui esistenza, alla data di svolgimento delle elezioni per la Camera dei deputati, risulti in forza di elementi certi e inequivoci, e che abbia presentato, anche congiuntamente con altri, liste di candidati ovvero candidature nei collegi uninominali» (art. 14.5 reg. Camera). La disposizione, dunque, sembrerebbe chiara: i deputati che non hanno i numeri per formare un gruppo parlamentare (20) o una componente politica del misto (10) possono comunque costituirne una se, in almeno tre, rappresentano una forza politica presentatasi alle ultime elezioni politiche. Com’è possibile allora che deputati eletti nel M5s possano costituire una componente politica che porta la denominazione di un altro partito? È possibile perché i deputati transfughi “sfruttano” la denominazione di un partito presentatosi alle elezioni (previo consenso del suo titolare), come per l’appunto accaduto nel caso di 10 Volte Meglio o Alternativa popolare; queste, a loro volta, pur non avendo ottenuto eletti, in tal modo riescono ad avere rappresentanza parlamentare. Così una disposizione nata per dare espressione parlamentare a forze politiche che comunque avevano ottenuto eletti viene utilizzata da chi non ne ha ottenuti per essere presente alla Camera. È uno stratagemma win-win perché, grazie a tali club parlamentari, privi di consacrazione politico-elettorale, i deputati, anziché isolati nel gruppo misto, riescono ad acquisire visibilità politica e rilievo parlamentare (grazie ai tempi di discussione loro riservati). Lo stesso si può dire per la forza politica rimasta fuori dalla Camera, però con un’aggiunta, di natura finanziaria. Ciascuna componente, infatti, è destinataria pro quota delle dotazioni e dei contributi assegnati ogni anno dalla Camera al gruppo misto (art. 15.3 R.C.). Inoltre le forze politiche che fanno riferimento a una componente politica possono subito accedere al finanziamento privato fiscalmente agevolato e alla ripartizione annuale delle risorse derivanti dalla destinazione volontaria del 2 per mille dell’Irpef. Non pare casuale, in tal senso, che la componente politica Dieci Volte Meglio si è costituita il 18 aprile 2019 ed è stata dichiarata cessata il 18 dicembre 2019, cioè esattamente 20 giorni dopo aver ottenuto (il 27 novembre) quell’iscrizione nel Registro dei partiti politici che gli consente di accedere di per sé, e quindi anche se non costituita in componente politica, al suddetto finanziamento indiretto. Insomma: la costituzione di una componente politica permette subito di accedere a tale finanziamento nelle more della registrazione del partito. Peraltro, il caso di 10 Volte Meglio assume profili inquietanti perché il suo Presidente e legale rappresentante che ha revocato il consenso a essere rappresentato dalla corrispondente componente politica sembra (aspettiamo da 4 mesi conferma dalla Presidenza della Camera) non essere uno dei tre deputati ex grillini (Benedetti, Caiata e Vitiello) che ne facevano parte. Se così fosse, saremmo di fronte al primo caso in cui un organo parlamentare nasce e muore per decisione di un soggetto non parlamentare. Per evitare una volta e per tutte simili sotterfugi, ai più ignoti ma che, francamente, non sembra facciano onore alla Camera dei deputati, basterebbe interpretare il citato art. 14.5 R.C. nel suo senso originario e pregnante, di modo che, per costituire una componente politica in seno al gruppo misto della Camera, gli almeno tre deputati richiesti debbano essere stati eletti nelle liste o nei collegi uninominali di un partito o movimento politico presentatosi alle elezioni politiche per la Camera. Perché in democrazia – e come dal 2017 sancito nel regolamento del Senato – i gruppi politici parlamentari devono corrispondere ai partiti che hanno ottenuto seggi e non a partiti (personali) nati per iniziativa di deputati, che non si sono mai presentati dinanzi agli elettori o che, quando l’hanno fatto, non hanno ottenuto nemmeno un eletto. Presidente Fico, a lei decidere.
Ilario Lombardo per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Luigi Di Maio sa che per riprendersi il M5S deve riconquistare la fiducia dei gruppi parlamentari. E per riconquistare la fiducia dei gruppi deve tagliare fuori Davide Casaleggio. Innanzitutto, dallo statuto fondativo dell'associazione che due anni fa aveva preso il posto della vecchia creatura di Beppe Grillo sommersa di cause giudiziarie. Non è semplice ma Di Maio è consapevole che non ci sarebbe migliore momento di questo per resettare il Movimento, liberandolo dalla sudditanza tecnologica e statutaria dell' Associazione Rousseau presieduta da Casaleggio: dire che il figlio del fondatore sia poco amato sarebbe ammorbidire il reale stato delle cose. Deputati e senatori sono inferociti e persino l' intervista di Davide all' economista James Galbraith pubblicata dieci giorni fa sul Blog delle Stelle ha scatenato la furia nelle chat, per l' uso considerato «padronale» di una piattaforma che è finanziata con parte dello stipendio dei parlamentari. In realtà il malessere che cova nel M5S nei confronti di Casaleggio ha dietro qualcosa di più che l' ormai nota questione dei contributi. Il premier Giuseppe Conte ha chiesto ai 5 Stelle di «tenerlo lontano dal governo», soprattutto «sulle nomine», in particolare quelle più recenti, nelle grandi società controllate. C' è un forte imbarazzo per l' attivismo dell' imprenditore, soprattutto mentre si parla di app, tracciamento digitale, smart working, al punto che i ministri grillini dopo il consiglio di Conte hanno effettivamente marcato una maggiore distanza. Il motivo di tanta preoccupazione del premier è da ricercarsi in due notizie raccontate alla Stampa. La prima riguarda appunto le nomine e proverebbe come l' interlocuzione avvenuta con Claudio Descalzi per la riconferma all' Eni, non sia l' unica mossa fatta da Casaleggio in quella partita, e tenendo all' oscuro i grillini, costretti ora a «vigilare» che non arrivino finanziamenti dal colosso energetico. Racconta un fonte di governo come Davide, durante il primo round sulle Agenzie Fiscali, abbia spinto per Domenico Giani al Demanio. Giani è l' ex capo della gendarmeria vaticana, uomo che ha vissuto per anni dentro i segreti d' Oltretevere, improvvisamente licenziato da papa Francesco a metà ottobre. È Conte, attentissimo alle relazioni con il Vaticano, a incenerire la proposta e a ribadire ai 5 Stelle un concetto che ci è stato sintetizzato così: «Che facciamo, ci mettiamo pure contro il Papa promuovendo l' uomo che ha cacciato?» A gennaio, quando si discute di queste nomine, sono giorni decisivi per il M5S. Di Maio lascerà la leadership, dopo aver fatto trapelare la frustrazione di essere ingabbiato nelle procedure di Rousseau. Poche settimane prima, a fine dicembre, i 5 Stelle vengono investiti da un' altra rivelazione che li imbarazza. L' Uif, l' Ufficio antiriciclaggio di Bankitalia, segnala come «operazioni sospette» due versamenti di denaro arrivati al blog di Beppe Grillo (120 mila euro di pubblicità) e alla Casaleggio Associati (600 mila euro) da parte di Vincenzo Onorato, presidente della Moby. Gli uffici dell' armatore erano già stati perquisiti in merito all' inchiesta sui contributi alla fondazione Open di Matteo Renzi. La semplice associazione a questa indagine terrorizza i ministri 5 Stelle e Conte. E non basta che la famiglia Onorato dica di apprezzare il lavoro di Casaleggio sul web da tempo. Gli interessi in ballo nel governo esistono, come dimostra il caso di Tirrenia, stessa società del gruppo, in amministrazione controllata e al centro di accesi confronti proprio tra M5S e proprietà. Per capire quanto Casaleggio sia caduto in disgrazia bisogna tornare a Di Maio. Per essere uno che ha negato persino la notizia che dava per certo il suo addio da capo politico, è sembrato strano a tanti che non smentisse le indiscrezioni virgolettate contro Casaleggio e contro l'utilità di Rousseau. Dieci giorni fa c' è stata una lite tra Davide e lo Stato maggiore del M5S, compreso il capo politico reggente Vito Crimi. L' imprenditore aveva chiesto di rivitalizzare la piattaforma, e così il proprio ruolo, facendo votare il nuovo leader in piena crisi Covid. «Una follia» a detta dei presenti che avrebbe tra l' altro avvantaggiato Alessandro Di Battista, unico candidato naturale e unica alternativa a se stesso che Di Maio considera vincente. Un particolare conforta l' ex leader e lo ha confessato a tanti suoi fidati: «Dibba» non solo terremoterebbe il governo ma è anche detestato dai gruppi parlamentari. Proprio come Casaleggio.
Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 7 maggio 2020. Il primo amore non si scorda mai. E lui, Vito Crimi, il reggente per caso del Movimento Cinquestelle, non riesce proprio a smettere di ricordarlo: alla truppa che ormai procede in ordine sparso, ma soprattutto agli alleati perduti. Quei leghisti con cui mai avrebbe rotto, fosse stato per lui e per Luigi Di Maio, l' ex capo politico di cui fa le veci, conservandone parole d' ordine e tendenza a destra. Sempre ribadite, come un riflesso condizionato, specie sui temi più identitari e controversi: Europa e diritti. In nome della continuità con il governo precedente, che non si può certo dimenticare né rinnegare. E pazienza se dicendo no a tutto - dal Mes alla regolarizzazione dei migranti - il rapporto col Pd rischia la crisi: per l' ala dei "pragmatici" quelle d' agosto furono nozze obbligate, non li avesse costretti Grillo sarebbero tornati con Salvini, che dopo la sbornia del Papeete s' era pure pentito. Perciò, la linea non cambia. Lo conferma pure la Rete, che Crimi ha preso a compulsare ossessivamente quasi più di Di Maio. E la Rete spinge la barra a destra. Senza esitazioni. Dunque «continueremo a fare tutto quello che serve per far emergere il lavoro nero, che siano italiani o stranieri. Ma se c' è una sanatoria modello Maroni, Bossi, Fini e altri, noi non ci stiamo », scolpisce il reggente al mattino, aprendo una frattura nel governo sulla proposta della ministra Bellanova. E poco importa se nei 5S non tutti sono d' accordo: la strada è tracciata. Ha deciso Crimi. O meglio, "il ventriloquo": l' ultimo nomignolo affibbiatogli dai colleghi per via di quella certa propensione non esprimere pensieri propri, prendendo in prestito quelli del suo dante causa e predecessore alla guida de Movimento. Senza consultare il quale, si narra, non muove foglia. Si parli di migranti. Oppure di Mes. Che «non è senza condizioni, non è lo strumento adatto», ha ripetuto ieri, mandando a memoria la lezioncina che il ministro degli Esteri impartisce da giorni. Idem sulla collocazione internazionale dell' Italia: «Noi stiamo nella Nato e non ci sono dubbi, ma dobbiamo riconoscere il ruolo fondamentale della Cina nell' economia mondiale». Copia conforme all' originale. Come il cardinal Viglietti di Paolo Sorrentino, il goffo eletto Papa proprio perché inadatto, Crimi doveva durare per mezz' ora. Giusto il tempo di traghettare il Movimento in mani sicure dopo le traumatiche dimissioni di Di Maio: piazzato a gennaio sulla tolda di comando in quanto componente anziano del collegio di garanzia, non certo per le sue spiccate qualità di leadership. Sempre premiato per la fedeltà alla causa. E pure dotato di una buona dose di fortuna. La sesta stella che lo assiste fin dagli albori. Dacché, nel 2013, entrò per la prima volta in Senato grazie a 381 preferenze prese alle parlamentarie, dopo il flop clamoroso di tre anni prima: candidato governatore in Lombardia non riuscì a superare il 3 per cento dei voti. Ma Crimi non si è mai perso d' animo. Faccia di bronzo e aria svagata, l' uomo qualunque di successo incarna alla perfezione "l' uno vale uno" del Movimento: se ce l' ha fatta questo ex cancelliere siciliano - genitori impiegati alla Upim, cresciuto nei boy scout, una laurea mancata in matematica - ce la possono fare tutti. Persino diventare sottosegretario all' Editoria. Ruolo che Crimi ha sfruttato per condurre una violentissima campagna contro Radio Radicale, Invicandone la chiusura. «Gerarca minore» lo appellò per questi Massimo Bordin. Lui sapeva di cosa parlava.
M5s, nuovo addio alla Camera: Rosalba De Giorgi lascia i grillini e passa al Misto. Libero Quotidiano il Altro addio alla Camera per il Movimento 5 Stelle. A passare al gruppo Misto - secondo quanto riportato dall'Adnkronos - è Rosalba De Giorgi. La parlamentare pugliese, giornalista, era stata eletta nel collegio uninominale di Taranto. Una dura batosta per i grillini in Puglia che avevano visto l'addio dal Movimento anch del candidato sindaco al Comune di Taranto, Francesco Nevoli. La deputata grillina era finita nel mirino della polemica poco tempo fa quando pubblicò il videoappello “Restiamo a casa” dall’abitacolo della sua auto. Un dettaglio che non era passato inosservato ai cittadini. "Se avessi saputo di essere fraintesa, sarei stata più attenta - aveva detto -. In ogni caso non capisco tutta questa attenzione: vorrei essere giudicata per il mio lavoro in Parlamento, non per queste sciocchezze".
M5S. Continua l’epurazione a Taranto: lascia Rosalba De Giorgi. L’europarlamentare Rosa D’ Amato invece a rischio espulsione!. Il Corriere del Giorno il 6 Maggio 2020. La parlamentare pugliese, giornalista, era stata eletta nel collegio uninominale di Taranto. L’eurodeputata del M5S Rosa D’Amato nel frattempo è finita sotto la lente dell’organo disciplinare e rischia l’espulsione. La deputata M5S Rosalba De Giorgi lascia il gruppo M5S e passa al Gruppo Misto. La parlamentare pugliese, giornalista, era stata eletta nel collegio uninominale di Taranto. L’eurodeputata del M5S Rosa D’Amato nel frattempo è finita sotto la lente dell’organo disciplinare del Movimento 5 Stelle. Il motivo della lettera ricevuta è il voto contrario sulla risoluzione riguardante i provvedimenti da intraprendere a livello europeo per il contrasto alle conseguenze economiche del coronavirus. La parlamentare al suo mandato europeo a Bruxelles avrebbe già inviato le sue controdeduzioni, per spiegare i motivi che l’ha spinta a votare per due separati dal gruppo pentastellato. La D’Amato aveva preso le distanze dalla posizione del gruppo M5S, astenendosi e quindi facendo mancare il voto all’elezione di Ursula von der Leyen,. Fonti interne al M5S bend informate, non escludono la più dura delle sanzioni: l’espulsione dal M5S. Il cartellino rosso per gli europarlamentari, in realtà, fino ad ora veniva pressoché escluso. Era considerato molto più probabile un richiamo formale o al massimo la sospensione. Ma i tempi sono cambiati. Una vera e propria rivoluzione, dopo la precedente uscita dal M5S anche del candidato sindaco al Comune di Taranto, avv. Francesco Nevoli, eletto in consiglio comunale insieme al consigliere comunale Massimo Battista, operaio IVA in cassa integrazione, il quale ha abbandonato anch’egli la “truppa” grillina tarantina
Enrico Tata per fanpage.it il 22 aprile 2020. Il consigliere regionale del Lazio Davide Barillari è stato espulso dal Movimento 5 Stelle. Contrario a ogni dialogo con il Partito democratico, si era opposto da mesi alle aperture della capogruppo Roberta Lombardi, ma è stata l'ultima provocazione a sancire l'espulsione immediata da parte del collegio dei probi viri. In piena emergenza coronavirus Barillari ha pubblicato un sito di informazione sanitaria con un indirizzo molto simile a quello ufficiale della sanità laziale. Una mossa che non è piaciuta né al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, né ai suoi colleghi del movimento.
Barillari: "Io colpevole di non essermi venduto al Partito democratico". "Sono stato cacciato dopo 10 anni di vero attivismo dal basso, colpevole di essere rimasto coerente, di non essermi mai venduto al Pd come hanno fatto tanti altri", si è sfogato il diretto interessato sui social. E ancora: "Sono stato cacciato dal M5S dopo 10 anni di vero attivismo dal basso, oggi sono dichiarato "colpevole" di essere rimasto coerente ai valori e alle promesse fatte ai cittadini, "colpevole" di non essermi mai venduto al Partito Democratico come hanno fatto tanti altri. Ora, dai banchi del gruppo misto, continuerò con ancora più forza a combattere a fianco dei cittadini, nelle battaglie che i miei colleghi non hanno più il coraggio di fare". Su Facebook ha pubblicato un lungo documento che definisce non "una memoria difensiva", ma "un pubblico atto di accusa contro il tradimento dei valori fondativi del MoVimento 5 Stelle da parte dei suoi stessi vertici".
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 21 febbraio 2020. Hanno perso anche la voglia di tentare la fortuna. Di cercare di afferrare per i capelli l' occasione della vita prendendo il biglietto della lotteria di Rousseau. La prima spia della perdita di appeal del M5s sono le pochissime candidature arrivate per le prossime regionali in Campania, Liguria, Toscana, Veneto, Marche e Puglia. Gli attivisti hanno scelto ieri i componenti delle liste per le sei regioni al voto il 31 maggio. Ma la paura dei vertici è che siano finiti i tempi della ressa virtuale per accaparrarsi un posto nelle liste pentastellate. Schema che potrebbe ripetersi presto a livello nazionale. Attualmente i numeri sarebbero radicalmente diversi rispetto ai 10mila candidati alle parlamentarie dell' anno scorso. Con un Movimento che adesso è molto lontano dall' exploit delle politiche del 2018 (32%) e secondo gli ultimi sondaggi arranca tra il 13 e il 15%. A pesare sulla desertificazione della piattaforma in vista delle regionali ci sono gli ultimi risultati del 26 gennaio scorso. In Emilia Romagna la lista dei Cinque Stelle ha conquistato il 4,7% dei voti, eleggendo due consiglieri. In Calabria la percentuale è stata del 6,3 e non è arrivato in consiglio regionale nemmeno un candidato. Se i consensi sono questi, non conviene neppure provarci. E ieri è partita dalla Campania una grave denuncia sulla piattaforma Rousseau. Un attivista campano ha riferito all' Adnkronos: «Il M5s mi ha chiesto di inviare un documento a scelta tra bollette, tasse pagate e assicurazione sulla vita per verificare l' autenticità del mio profilo su Rousseau». Il militante Vincenzo Sglavo ha aggiunto: «Tutto questo è assurdo». Nella mail postata sui social da Sglavo lo Staff del M5s gli chiede di inviare un documento a scelta tra una bolletta con l' indirizzo visibile, una ricevuta delle tasse comunali pagate o un documento su un' eventuale assicurazione sulla vita. Al rifiuto di presentare le carte, il M5s ha vietato all' attivista la partecipazione al voto di ieri. La deputata campana Marianna Iorio ha ammesso che l' indirizzo email è «effettivamente collegato al M5s». Mentre l' Associazione Rousseau si è giustificata: «Può sembrare una procedura invasiva ma in realtà è importante per tutelare sia l' iscritto che tutta la comunità». Stranezze di Rousseau a parte, nelle sei regioni in questione i candidati sono pochissimi. Partecipazione all' osso in Liguria, dove imperversano ancora le liti per la collocazione del M5s. In Campania sono in corso le trattative per far convergere il Pd sul nome del ministro dell' Ambiente Sergio Costa. Ma anche qui i numeri sono impietosi. Solo 58 pretendenti in provincia di Napoli, e colpiscono i 7 partecipanti a Benevento. Tra le prossime che voteranno, il Veneto è forse la regione dove il M5s è più in difficoltà. Solo 54 candidati totali e la non ricandidatura dell' attuale capogruppo in consiglio Jacopo Berti. Berti, entrato nel collegio dei probiviri, potrebbe volare presto a Roma per un incarico nazionale. E infuriano le polemiche di alcuni esclusi eccellenti. Tra questi in Puglia c' è il consigliere regionale uscente Mario Conca, difeso su Facebook dall' eurodeputato Piernicola Pedicini e in Campania il consigliere comunale di Giugliano, provincia di Napoli, Nicola Palma. I parlamentari già declinano a livello nazionale il calo delle candidature. Un eletto vicino a Fico dice: «La ragione dei pochi candidati è da ricercare nella nostra mancanza di chiarezza sulle alleanze». Un deputato campano taglia corto: «Forse molti hanno imparato a misurarsi la palla!»
Francesco Bonazzi per “la Verità” il 29 gennaio 2020. Una che guarda a sinistra, una che guarda a destra, e in mezzo un grande centro a vocazione maggioritaria. Le tre correnti del M5s sembrano la Dc, senza tangenti e senza le simpatie di Cosa nostra, ma anche senza statisti e programmi ambiziosi. Dopo l' ennesima scoppola alle regionali, il Movimento capace di prendere il 32% alle ultime politiche sta implodendo e chissà se arriverà almeno in doppia cifra alle prossime elezioni. Le correnti interne a lungo negate e quasi criminalizzate, ieri sono state ammesse da Max Bugani, capo dello staff di Virginia Raggi, ex socio della piattaforma Rousseau ed ex uomo forte di M5s in Emilia Romagna. Per Bugani, i colleghi sono sempre più divisi tra autonomisti duri e puri, orfani dell' accordo con Matteo Salvini e deputati speranzosi di unirsi sempre più strettamente con il Pd e con Leu. Per capire la portata di una simile ammissione (che ci fossero le correnti si era capito al momento della formazione del Conte bis) basta riportare le secche parole di un post comparso sulla pagina Facebook del Movimento il 30 giugno 2019, quando l' ala sinistra dei Roberto Fico e degli Alessandro Di Battista era già insofferente per il patto con la Lega, accusata di «spolpare» l' alleato, anche per l' evidente divario di carisma e di ritmo tra Salvini e Di Maio, entrambi vicepremier. «Nel Movimento c' è una sola corrente: quella dei cittadini!», esordiva il proclama social, «Correnti interne o spartizioni di poltrone nel Movimento? No grazie, non siamo il Pd. Continuiamo a leggere di fantasiose ricostruzioni sul fatto che qualcuno stia proponendo posti per cercare una pace interna: è pura mitologia. Se qualcuno non fa altro che chiedere poltrone viene allontanato». Bugani, che finora ha dimostrato che le poltrone le lascia, non le colleziona, ieri ha dunque fatto giustizia della propaganda di questo recente passato. Intervistato da un giornale «cugino» come il Fatto Quotidiano, ha spiegato con estrema naturalezza che il Movimento è spaccato in tre correnti: «C' e chi soffre la distanza da Salvini, chi vorrebbe fare un terzo polo autonomo e chi vuole andare a sinistra». E per spiegare in modo plastico quanta confusione regni sotto quel che resta del cielo grillino, il braccio destro del sindaco di Roma ha anche ammesso che una strada precisa ancora non c' è: «Nell' ultimo anno e mezzo non si e voluta guardare in faccia la realtà. Ognuno voleva un M5s fatto a sua immagine e somiglianza. Oggi il M5s non sa più dove andare». E Bugani ha anche ammesso che tutte e tre le strade sono legittime, perché «nessuno ha mai chiesto agli attivisti dei 5 stelle quale dovesse essere la rotta». L' occasione giusta dovrebbero essere gli stati generali del 13-15 marzo, una specie di congresso pentastellato, ma il problema è in che atmosfera e in che stato d' animo ci si arriverà. Luigi Di Maio, al di là della piccola astuzia di abbandonare il ruolo di capo politico di M5s prima del tracollo di domenica (ma va detto che era contrario a correre tanto in Calabria quanto in Emilia Romagna), ha lasciato momentaneamente il campo perché stremato fisicamente. Ma non è escluso che si ripresenti, da solo o con Stefano Patuanelli, come leader ancora una volta del corpaccione indipendentista del Movimento, e a patto di ottenere un piccolo passo indietro della Casaleggio&Associati dalla gestione delle cose anche più minute del Movimento, come le candidature e la rendicontazione finanziaria dei deputati. Ma alla fine è anche possibile che sia il solo Patuanelli a raccogliere la croce da «Giggino 'a marachella», come lo chiamano gli amici campani. Carlo Sibilia, voce sempre critica, invece chiede che ci sia un comitato di reggenti, perché la situazione è troppo delicata e un leader solo rischierebbe di perdersi per strada due correnti su tre. Limare le unghie a Davide Casaleggio è nei fatti anche il progetto della sinistra interna, rappresentata da Fico, presidente della Camera, dal «solito» Di Battista, da Nicola Morra, presidente dell' Antimafia, dal ministro Federico D' Incà e molti altri a Montecitorio. Formalmente, e per evitare strappi e accuse di mancanza di gratitudine, si tratta di mettere mano alla statuto del Movimento riportando dentro il partito alcune funzioni. Poi, certo, c' è anche il contenuto politico: ai grillini di sinistra proprio non vanno giù la politica dell' immigrazione della Lega, qualche strizzata d' occhio a Casa Pound e dintorni e le uscite anti euro. Sul fronte destro del partito, invece, bastano due temi a scaldare gli animi contro l' abbraccio mortale del Pd: i rapporti troppo stretti con le banche e la timidezza nei confronti della famiglia Benetton e delle concessioni autostradali che l' ex ministro Danilo Toninelli e Di Maio stesso volevano spezzare con una revoca totale. Gianluigi Paragone ha annunciato che non farà causa contro l' espulsione perché il partito ha già deciso di andare «di là» e ha aggiunto: «Siccome quella causa rischio di vincerla, cosa faccio? Rientro in una casa che è senza identità?». Certo, aiuterebbe il confronto se almeno si conoscessero le regole che governeranno gli stati generali, come osservano sotto garanzia di anonimato un paio di senatori vicinissimi a Beppe Grillo. E intanto, il comico genovese è costretto ad annullare le prossime due date (Palermo 28 febbraio e Catania il giorno dopo) del suo tour Terrapiattista. Lo ha annunciato via Facebook, spiegando che non riesce «a lavorare e riposare correttamente per colpa di apnee notturne». Lui almeno ce le ha solo di notte.
Caos nei 5 Stelle, segnalato ai probiviri il presidente della Commissione antimafia: “Morra deve essere cacciato”. Redazione de Il Riformista il 29 Gennaio 2020. Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia e senatore del Movimento 5 Stelle, è stato segnalato dagli attivisti dei Meet-Up calabresi del Movimento su Rousseau e al Collegio dei Probiviri. Il motivo? Morra, eletto in Calabria e residente a Cosenza, aveva rivelato in una intervista al Corriere della Sera di non aver votato per il candidato grillino Francesco Aiello. Nei giorni precedenti al voto Morra si era espresso chiaramente contro la candidatura di Aiello per la parentela del professore di Economia all’Università della Calabria con il boss della ‘ndrangheta Luigi Aiello, ucciso in provincia di Catanzaro il 21 dicembre 2014 nell’ambito di una faida tra due cosche mafiose. “Gli avversari esterni ti rafforzano, quelli interni ti distruggono – scrivono in una nota gli attivisti dei 5 Stelle – Dai primi ti puoi difendere, dagli altri no. In un articolo di oggi il senatore Nicola Morra, eletto con i voti del Movimento 5 Stelle, ha reso noto di non aver votato il M5S alle elezioni regionali calabresi, rendendo chiaro come il deludente risultato sia stato a tutti gli effetti ostacolato più da detrattori interni che esterni al movimento. D’altronde Morra aveva già violato i primi 5 punti del comma d) dell’articolo 3 dello statuto dell’associazione Movimento 5 Stelle pregiudicando la campagna elettorale, alla quale non ha partecipato. Morra, con le sue dichiarazioni che hanno trovato ampio risalto sulla stampa in ordine alla lista del M5S in Calabria, ha violato i seguenti punti: attenersi alle disposizioni dello Statuto; rispettare le decisioni assunte dagli organi del MoVimento 5 Stelle; astenersi da comportamenti che possano pregiudicare l’immagine o l’azione politica del MoVimento 5 Stelle; attenersi a criteri di lealtà e correttezza nei confronti degli altri iscritti; concorrere attivamente all’azione politica del MoVimento 5 Stelle, avuto riguardo alla propria situazione personale ed alle proprie capacità. Il senatore Morra non è stato corretto nei confronti degli altri iscritti, in particolar modo verso quelli che hanno espresso la loro candidatura e verso tutti gli attivisti che, senza riserve mentali, si sono spesi in ogni modo per una reale prospettiva di cambiamento rifugiando dall’autoreferenzialità. Le dichiarazioni di Morra sono sembrate andare verso un vero e proprio boicottaggio e il forte sospetto è che abbia tenuto questa condotta per mera politica interna a discapito dell’interesse dei cittadini calabresi. Non ha, inoltre, minimamente rispettato il volere degli iscritti che, con il 70,6% dei voti sulla piattaforma Rousseau nella votazione del 21 novembre 2019, hanno scelto di presentare le liste in Calabria e che in una successiva votazione dell’11 dicembre 2019 hanno votato per confermare Francesco Aiello come candidato presidente di regione per il M5S”. Dagli attivisti nella nota arriva una presa di posizione durissima: “Per noi tutto ciò è inaccettabile. Chi è contro il movimento, chi in queste elezioni è stato un avversario politico, vada fuori dal Movimento. Chi ha passato le proprie giornate a denigrare la lista del M5S e a screditare in chat e su Facebook l’operato delle centinaia di attivisti che hanno messo impegno e passione per la campagna elettorale deve abbandonare il movimento o essere allontanato dallo stesso. All’interno del movimento nazionale o regionale non può trovare spazio chi non vuole che il movimento occupi quegli spazi lasciati liberi dalle operazioni antimafia e dai dinosauri della politica locale. Il MoVimento 5 Stelle è una comunità di cittadini che si sono dati delle regole che rispettano e che fanno rispettare. Da iscritti, quindi, segnaleremo il senatore Morra su Rousseau, al Collegio dei Probiviri per le opportune verifiche sulla sua condotta così nociva per il MoVimento 5 Stelle”.
Elezioni regionali, tracollo Cinque stelle: dalla culla alla tomba. In Emilia Romagna il Movimento va peggio persino di dieci anni fa: 5 per cento secondo le proiezioni, alle origini nel 2010 conquistò il 7 per cento. A lumicino pure in Calabria. I 309 parlamentari M5S, da ora, sono tecnicamente dei morti viventi. Da domani tutto balla. Anche le caselle del governo? Susanna Turco il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Il tracollo è verticale, spaventoso. Si può dirlo anche senza attendere il commento di Vito Crimi, da tre giorni reggente in luogo del dimissionario Luigi Di Maio e della sua cravatta. I numeri allontanano ancora la fotografia del voto delle politiche 2018, che immortalava una situazione completamente diversa da quella di oggi. A nulla può valere che l'ulteriore calo fosse prevedibile e ampiamente previsto. In Emilia Romagna, secondo le proiezioni, i Cinque stelle conquistano il 5 per cento: il candidato governatore Simone Benini agguanta a mala pena il 4 per cento, ed ha il coraggio di dirsi soddisfatto («volevamo esserci e ci siamo», proclama). In realtà sono percentuali mai viste dal M5S in Regione, «culla e tomba» dei Cinque stelle. Record negativi che non furono toccati nemmeno nel movimento delle origini: dieci anni fa, 2010, sempre alle regionali il Movimento guidato da Beppe Grillo prese il 7 per cento – come ricorda l'oggi ex Giovanni Favia, che condusse l'impresa. Per non parlare dell'ultimo biennio: il 27,5 per cento il 4 marzo 2018, già sceso al 12 per cento alle europee del 2019. «I numeri sono impietosi, li condannano all'irrilevanza», commenta Silvio Berlusconi, peraltro dall'alto del 2,5 per cento raccolto nella regione più rossa d'Italia. In effetti, nella corsa a perdifiato verso il nulla, il partito del dimissionario Luigi di Maio va più forte persino del partito azzurro del Cavaliere - che pure è in disfacimento da tempo (si salva solo in Calabria, grazie alla candidata unitaria del centrodestra Jole Santelli). Ancora più drammatico il crollo in Calabria: il 6,3 per cento ottenuto dai Cinque stelle secondo le prime proiezioni è sorprendente, a paragone del 26,7 per cento conquistato soltanto un anno fa. Per non parlare del fantasmagorico 43,4 per cento delle politiche 2018. È rimasto un voto su otto, di quelli di allora. E meno male che il reddito di cittadinanza doveva essere la chiave di volta per conservare i consensi raccolti al Sud. Da domani, è il minimo, si moltiplicheranno i mal di pancia degli ondivaghi trecento parlamentari dei Cinque stelle (210 deputati e e 99 senatori). Eletti che non hanno allo stato praticamente alcuna probabilità di tornare in Aula, tecnicamente dei morti viventi nel Palazzo, forse pronti a tutto pur di sopravvivere. Da domani – se non il governo stesso, così tanto cambiato nei pesi interni in soli quattro mesi – sono destinati ad essere presi d'assalto i punti più molli della maggioranza giallo-rossa. A partire dalla legge elettorale proporzionale e dalla mediazione sulla nuova prescrizione. Un riequilibrio pro-Pd sarebbe da immaginarsi, anche dal punto di vista della composizione dell'esecutivo: il guardasigilli Bonafede, l'unico che (insieme con Conte) ricopre il medesimo incarico che aveva nel precedente governo, riuscirà ad esempio a restare al suo posto? E il premier stesso, non ha nulla da temere? A rigor di logica, visto il crollo di quello che era il primo partito della maggioranza, un terremoto dovrebbe essere alle porte. Eppure non sono pochi quelli che invitano a non sottovalutare la scarsità di mezzi, e ampiezza di manovra, di questo consesso umano. Insomma, in questo caos, anche trovare qualcuno in grado di mettere in piedi una strategia non sarà facile.
Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” il 27 gennaio 2020. «Il Movimento è nato in Emilia-Romagna nel 2007 e qui riceve oggi un colpo mortale». Federico Pizzarotti c' era: al primo V-Day a Bologna nel 2007, nelle piazze per le regionali del 2010, fino alla sua vittoria del 2012 a Parma, primo sindaco M5S in un comune medio-grande.
Un suo storico oppositore come Max Bugani, da poco uscito in polemica dall' associazione Rousseau, aveva previsto una disfatta. Per la prima volta d' accordo?
«Chi vive qui questa cosa la sentiva. Il Movimento ha fatto fatica a trovare i candidati, ha fatto una campagna elettorale inesistente, soprattutto non aveva più niente da dire. Nessun tema da portare avanti, nessuno slogan da proporre».
Perché secondo lei?
«Come facevano? Sono stati al governo con tutto e il contrario di tutto. Senza combinare niente».
Qualcosa l' hanno fatta. Il reddito di cittadinanza, ad esempio, e nonostante questo i voti non fanno che diminuire.
«Ah ma certo, di cose discutibili ne hanno fatte. Il reddito di cittadinanza non è servito a far aumentare i posti di lavoro, come avevano promesso. Vede, aver annunciato di aver abolito la povertà dimostra come non abbiano il senso della misura e il senso delle istituzioni».
Questo risultato è quindi lo specchio di una crisi nazionale?
«I parlamentari non hanno nessuna intenzione di andare a casa. Cercheranno in ogni modo di restare attaccati a questo governo e intanto elaborare una strategia di sopravvivenza, Perché se andassero al voto politico adesso, scomparirebbero».
Eppure si sono appena dati quella struttura che lei invocava prima di essere allontanato.
«Dicevo cose realistiche e venivo trattato come un ribelle. Hanno fatto tutto fuori tempo massimo e nel modo più sbagliato. Con "facilitatori" calati dall' alto, senza alcun riconoscimento sul territorio. Si può dire che in pochissimo tempo il Movimento ha fatto tutti gli errori che hanno fatto i partiti in 40 anni».
Non è troppo severo?
«Nominano gli amici, ripescano quelli che non sono stati eletti, candidano fidanzate. Se sei quello che ha sempre detto "non lo farò mai", non puoi permettertelo».
Non pensa che gli Stati generali di marzo, di fatto il primo congresso, possano segnare una ripartenza?
«Dovrebbero essere capaci di mettere in piedi processi democratici, ma non lo sono. In più, i militanti che erano in buona fede sono già andati via. Sono rimasti solo i fan dei fan».
Ha nostalgia di com' era il M5S del 2010?
«C'erano una carica e un entusiasmo magnifici, ma non è che non ci fossero già le beghe. Volevamo votare il candidato per le nostre prime regionali, era tutto pronto ed era chiaro che sarebbe stato Giovanni Favia, ma il giorno prima arrivò un post del blog che lo impose dall' alto. Le brutte abitudine ci sono sempre state».
Alessandro Trocino per il Corriere della Sera il 26 gennaio 2020. L'anno era cominciato con un urlo liberatorio, ambiguo come si conviene a ogni comico (molto meno a un politico): «Basta avere paura, sarà un anno meraviglioso!». Ottimismo paradossale sparato mentre, badile alla mano, Beppe Grillo ricordava i cambiamenti climatici e (si) scavava una fossa sulla spiaggia o, interpretazione alternativa, allestiva una trincea. L' anno poi è cominciato non benissimo, con i 5 Stelle in difficoltà e Luigi Di Maio dimissionario. E rischia di continuare ancora peggio: oggi si vedrà il livello del fossato raggiunto dai 5 Stelle in Emilia-Romagna e in Calabria, mentre Grillo annuncia la cancellazione del suo show Terrapiattista. La motivazione addotta, in un post su Facebook, è medica: «Devo purtroppo comunicarvi che sono costretto ad annullare le date del mio prossimo tour Terrapiattista , in partenza a febbraio, per un problema di apnee notturne che negli ultimi tempi non mi sta permettendo di riposare e lavorare correttamente. A breve mi dovrà sottoporre a un intervento chirurgico e, tra degenza e convalescenza, non sarò in condizione di portare il mio spettacolo in giro per l' Italia. Avremo modo di recuperare il tour in futuro». Neanche una battuta, un doppio senso, un calembour. Solo un mesto, «L'elevato», a firmare il tutto. Dentro il Movimento più di uno sospetta che la ritirata sia strategica. Il tour doveva partire il 13 febbraio a Forlì e finire il 15 maggio a Chiasso. «Un piccolo intervento fa saltare quattro mesi di tour? Non è che non vuole metterci la faccia?». In effetti, problemi di salute a parte, le presenze pubbliche di Grillo sono sempre più centellinate. Ha aspettato due giorni per commentare l' addio di Di Maio. Lo ha fatto con un messaggio nel quale non sprizzava empatia e affetto. È noto come sia scontento della guida impressa dal leader politico, ma che sappia anche che di alternative valide ce ne siano ben poche. È come se Grillo si sia lasciato trascinare nel vortice del dubbio, proprio quello che invitava a coltivare nel claim del nuovo spettacolo annullato. Spiegava: «La cultura, l' informazione, la scienza ci hanno tradito, come la politica. Tutto è scontato, prevedibile, e allo stesso tempo incerto. Solo attraverso il dubbio possiamo davvero essere liberi». Pratica sana e utile, coltivare il dubbio, ma poco adatta a chi ha il compito di governare l' Italia o, come nel suo caso, tira i fili della sua creatura, contribuendo alla creazione di una classe dirigente autonoma. Dal «vaffa» al dubbio la strada è lunga e così forse Grillo ha pensato di coltivarlo privatamente per un po'. Lasciando magari strada ad Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone che, come ha rivelato quest' ultimo, stanno studiando uno show a due.
Chris Bonface per Libero Quotidiano il 26 gennaio 2020. Ormai è diventata una moda gettare la spugna dalle parti del Movimento 5 stelle. Dopo le dimissioni clamorose da capo politico del movimento di Luigi di Maio a una manciata di giorni dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, a ritirarsi questa volta è addirittura Beppe Grillo, il fondatore del movimento. Non dalla guida dei grillini: quello l' ha già fatto da tempo, ritagliandosi il ruolo un po' etereo de "L' Elevato". Grillo si ritira sia pure momentaneamente anche dal mestiere che gli era restato: il comico. Ieri sulla sua pagina Facebook ha infatti annunciato l' annullamento delle prossime date del tour del suo spettacolo, "Terrapiattista". «Devo purtroppo comunicarvi», ha scritto ai fan, «che sono costretto ad annullare le date del mio prossimo tour "Terrapiattista", in partenza a febbraio, per un problema di apnee notturne che negli ultimi tempi non mi sta permettendo di riposare e lavorare correttamente. A breve mi dovrò sottoporre ad un intervento chirurgico e, fra degenza e convalescenza, non sarò in condizione di portare il mio spettacolo in giro per l' Italia. Avremo sicuramente modo di recuperare il tour in futuro». Certo i problemi di salute non si discutono (anche se le apnee notturne sono piuttosto diffuse), ma qualche sospetto sulla tempistica della decisione circola fra i più maliziosi. Anche perché il tour era stato annunciato non una vita fa, ma l' 8 di gennaio e come prima data prevista aveva l'appuntamento del 13 di febbraio al teatro Diego Fabbri di Forlì, proprio nel cuore di quell' Emilia-Romagna dove si voterà domani. Per questo la tempistica dell'uscita di scena è sembrata molto legata al terremoto che sta coinvolgendo in questi giorni il Movimento 5 stelle. Alla vigilia della apertura delle urne infatti la sola certezza che c' è senza bisogno di conoscere i sondaggi segreti, è quella del tracollo elettorale grillino. Non una novità, intendiamoci: in Emilia-Romagna il movimento era già precipitato dal 27,54% delle politiche del 4 marzo 2018 al 12,89% (meno della metà) raccolto alle europee del 26 maggio dello scorso anno. Il rischio che è ben presente nelle fila del movimento è quello di una ulteriore robusta discesa nei consensi, con lo spettro di dimezzare il risultato ottenuto alle regionali del 2014 (13,3%) che fu l' anno nero elettoralmente parlando della storia grillina. All' epoca Grillo si riempì di Maalox, oggi scompare dal pubblico scegliendo una operazione e una degenza che cascano proprio a fagiolo. Non a caso l' idea che accarezzata da Di Maio era stata quella di non presentare proprio il simbolo alle elezioni, cercando di evitare una sicura figuraccia in un momento particolarmente confuso di militanti e simpatizzanti. Ma quella ipotesi è stata messa in minoranza e stufo di mettere la faccia sui tonfi elettorali (uno dopo l' altro una volta andati al governo), Di Maio la faccia l' ha tirata via di scena in extremis. Certo sarà difficile ora buttare la responsabilità dell' eventuale insuccesso sulle spalle di Vito Crimi, reggente da pochi giorni. Ma il punchball a cui si era abituati all' interno del Movimento non c' è più e non c' è nemmeno lo spirito di Grillo messo a letto per l' occasione: è assai probabile che da lunedì in poi voleranno cazzotti un po' alla rinfusa nel movimento. L'Emilia-Romagna d'altra parte è stata un po' la prima vetrina di tutto ciò che erano nel bene e nel male i grillini. Lì (e in Piemonte) nel 2010 furono eletti i primi consiglieri regionali, lì sono nate le prime guerre intestine con botte da orbi ed espulsioni da partito comunista sovietico. Esemplare la rapidissima parabola negativa di Giovanni Favia, il cocco di Grillo precipitato nella polvere dopo pochi anni ed espulso dal movimento. Così come accaduto poco dopo a Federico Pizzarotti, primo sindaco grillino di rilievo nel 2012 a Parma e poi espulso con ignominia al primo avviso di garanzia. Quella terra è stata un po' il motore della crescita grillina di questi anni, e ora rischia di essere il simbolo di una decrescita per loro assai poco felice. Regionali a parte, resta il tema politico di un partito di maggioranza relativa in parlamento che ormai nel paese è una evidente minoranza, dietro di sicuro a Pd e Lega, ma con il rischio di essere sorpassato anche da Giorgia Meloni. I suoi leader non si capacitano delle ragioni di questa improvvisa crisi. Come raccontano al Tesoro in una riunione con i colleghi la M5S Laura Castelli ha allargato le braccia sospirando: «Se tu risolvi un loro problema gli italiani non ti sono affatto riconoscenti, perché pensano che tu hai fatto solo il tuo dovere minimo. Molto più redditizio elettoralmente soffiare sul fuoco dei problemi e lasciarli irrisolti». Certo l'esperienza di governo ha prosciugato lentamente il consenso elettorale grillino, poi bisogna capire se gli italiani hanno davvero avuto questa percezione di problemi risolti o se la loro opinione non sia quella diametralmente opposta. Con questa confusione in testa e senza una vera testa (nel senso di guida politica), il M5S è il vero rischio di tenuta del governo di Giuseppe Conte. Perché la divisione in capetti e i litigi fra fazioni possono fare saltare in aria tutto anche contro la convenienza dei singoli che sanno già come sia impossibile ai più sperare di tornare dopo nuove elezioni in Parlamento. Anche l' attuale assetto provvisorio -di un reggente nazionale come Vito Crimi e un capo delegazione al governo come probabilmente Stefano Patuanelli- rischia di accendere micce invece di spegnerne. Perché di fronte a non improbabili contrasti di maggioranza nessuno dei due sarebbe in grado di impegnare il resto del M5S su un possibile compromesso. Ad ogni sì che dicessero scoprirebbero che una buona parte delle truppe non verrebbe dietro. Potrebbero essere proprio loro la causa della caduta dell' esecutivo.
Di Maio, la strategia del passo indietro. Non farà più il tesoriere dei 5 Stelle. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Emanuele Buzzi. Il leader: «Il capo politico da solo non ce la fa». In Veneto e Liguria tensioni sull’alleanza con i dem. Il premier Conte non sarà agli Stati generali dei 5Stelle a marzo. Un «no» secco, perentorio, che indirettamente spalanca le porte a nuovi scenari. Luigi Di Maio impegnato nel suo ruolo da ministro degli Esteri, intento a ridisegnare il Movimento 5 Stelle in vista degli Stati generali (con voci sempre insistenti su un suo possibile «strategico» passo indietro in vista di una nuova «gestione collegiale») chiude la porta a uno dei ruoli chiave che finora ha occupato. Il leader dei Cinque Stelle non sarà più tesoriere del Movimento. Secondo l’articolo 12 dello statuto dell’associazione che regola la vita pentastellata «il tesoriere è il rappresentante legale del Movimento 5 Stelle in tutte le attività economico-finanziarie, ha la responsabilità della gestione amministrativa e della politica finanziaria del Movimento 5 Stelle e ne apre e gestisce i conti correnti bancari e postali». E soprattutto «è rieleggibile per non più di due mandati consecutivi». In teoria, quindi, Di Maio potrebbe mantenere la carica che ricopre dal 2017 e che scade a settembre di quest’anno. Ma non lo farà. «No», ribadisce chiaro a chi gli chiede se abbia intenzione di mantenere il ruolo, a dimostrazione che il leader sta studiando cambiamenti. Non a caso ieri in campagna elettorale in Calabria, Di Maio ha rilanciato gli Stati generali M5S di marzo e ha sottolineato che «il solo capo politico non ce la può fare» a guidare il Movimento e che la kermesse sarà il luogo «per mettere finalmente in piedi una nuova Carta dei valori e un’organizzazione più efficace». All’attesa manifestazione pentastellata non sarà presente il premier Giuseppe Conte, che negli ultimi mesi ha riscosso diversi apprezzamenti tra le fila dei Cinque Stelle. Una distanza che in ambienti governativi leggono come implicita. «Gli Stati generali non sono una festa come Italia 5 Stelle, ma un momento di riflessione interna a un partito», commentano fonti di Palazzo Chigi. Intanto si registra un incontro giovedì scorso — non confermato dall’entourage del presidente della Camera — tra Roberto Fico e lo stesso Di Maio. In attesa che si organizzino gli Stati generali il Movimento continua a vivere di fibrillazioni. Tra lunedì e martedì potrebbero arrivare le espulsioni. «Una decina», sostiene il capo politico. Ma, secondo fonti parlamentari, diversi deputati e senatori sui 35 raggiunti dalle lettere dei probiviri sarebbero corsi ai ripari nelle ultime ore cercando soluzioni «di clemenza». E il numero di «cacciati» potrebbe dunque calare. Domani su Rousseau si voteranno i facilitatori regionali, si sceglieranno i progetti a cui destinare i fondi delle restituzioni e, soprattutto, si decideranno i candidati governatori per le Regionali in Toscana, Puglia e Liguria. Proprio in Liguria ieri c’è stata un’assemblea molto combattuta. Come nelle Marche (dove Di Maio e Danilo Toninelli hanno imposto la corsa in solitaria), si discute della possibilità di allearsi con i dem e le civiche. Una situazione che rischia di diventare paradossale una volta scelto il nome del governatore. In Veneto, invece, il ministro Federico D’Incà ha lanciato la sua proposta all’assemblea: votare su Rousseau — dopo l’esito delle Regionali in Emilia-Romagna — se dar vita a un asse con Pd e liste civiche. I più sono orientati alla corsa in solitaria, ma il sasso gettato dal ministro ha scosso e diviso la platea. Tensioni oramai non più carsiche e che il Movimento, per continuare a esistere, dovrà affrontare.
Il passo indietro di Di Maio: «non più leader solo, un comitato alla guida del M5s». Ma il suo staff smentisce. Il Dubbio il 19 gennaio 2020. Il capo politico dei grillini starebbe lavorando alla nascita di un organo collegiale per suddividere le responsabilità e superare l’attuale crisi dei consensi. Luigi Di Maio non sarà più il leader solo del M5S: alla guida del partito ci sarà un “comitato”. A svelarlo è Repubblica, secondo cui il capo politico dei grillini starebbe lavorando alla nascita di un organo collegiale per suddividere le responsabilità e superare l’attuale crisi dei consensi, per un cambiamento che sia anche ritorno alle origini. Tra i cambiamenti, come riportato dal Corriere, potrebbe esserci quello di dismettere le vesti da tesoriere del Movimento, una carica che aveva assunto nel 2017 e in scadenza a settembre 2020. «Il tesoriere – si legge nello Statuto – è il rappresentante legale del Movimento 5 Stelle in tutte le attività economico-finanziarie, ha la responsabilità della gestione amministrativa e della politica finanziaria del Movimento 5 Stelle e ne apre e gestisce i conti correnti bancari e postali». Un ruolo che si può ricoprire per non più di due mandati consecutivi. Di Maio potrebbe, dunque, anche mantenere la carica, ma secondo il Corriere ha già deciso di non farlo. Dalla Calabria il capo politico grillino ha annunciato la necessità di cambiare volto al Movimento. L’occasione sarà fornita dai cosiddetti Stati generali, occasione per mettere in piedi una nuova carta dei valori e un’organizzazione più efficace. «Il solo capo politico non ce la può fare – ha sottolineato -. Ma ricordiamoci che il movimento è utile se aiuta quelli che stanno fuori non quelli che stanno dentro. A noi interessa far star bene il cittadini». Ma lo staff del ministro degli Esteri, in mattinata, smentisce: «smentiamo le varie ricostruzioni giornalistiche secondo cui il capo politico M5S Luigi Di Maio avrebbe intenzione di lasciare la carica di tesoriere – notizia del tutto illogica – o avviare nuove cose organizzative. Il capo politico ha sempre parlato di maggiore collegialità e, a tal proposito, il riferimento è alla nuova riorganizzazione già avviata con i nuovi facilitatori che servirà a dare nuova forma e forza al Movimento 5 Stelle, in vista degli Stati Generali di marzo. Troviamo altrettanto grave che in una giornata così delicata e complessa per l’Italia e per l’Ue, impegnate sul dossier libico in occasione della Conferenza di Berlino, i giornali colgano occasione per parlare del M5S riportando notizie infondate».
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2020. Oggi è il giorno in cui si apriranno ufficialmente le danze per i nuovi equilibri nel Movimento. La scelta dei facilitatori regionali e dei candidati governatori per Liguria, Toscana e Puglia apre di fatto la stagione degli scontri in seno al Movimento tra l' ala di chi vorrebbe un disegno in seno all' area riformista e chi preferisce - come Luigi Di Maio - puntare sulla «terza via», ossia essere un soggetto alternativo a destra e sinistra, un ago della bilancia da cui gli altri partiti non potranno prescindere. Ma il Movimento che sarà è tutto in via di definizione. E non solo per i ruoli o la struttura. Con il capo politico pronto a fare un passo indietro da tesoriere e a lanciare una gestione collegiale. C'è chi tra i big vede negli Stati generali la possibilità di discutere di tutto, perfino di un totem come Beppe Grillo: «Dovremmo parlare della linea, del capo politico e del garante». Altre proposte stanno per essere messe in campo. Alessandro Di Battista - rispondendo ai commenti su Instagram a una foto che lo ritrae sulla metropolitana di Teheran - assicura: «Torno presto. Giuro». E aumentano le voci sul fatto che presenterà anche lui una proposta politica in vista della manifestazione di marzo. L'ex deputato nei giorni scorsi era intervenuto nel dibattito ricordando come lui abbia sempre mantenuto una sua indipendenza di pensiero criticando - a seconda delle motivazioni e del momento - gli alleati di governo: prima la Lega, poi il Pd. La strada, però, in vista degli Stati generali è ancora lunga. Specie a livello parlamentare. Tra martedì e mercoledì si dovrebbe abbattere la scure dei probiviri sui morosi della restituzione. Alla fine, sembra che nel Movimento abbia prevalso una linea simile a quella che venne adottata per l' ex capogruppo Riccardo Nuti. Le espulsioni dirette dovrebbero essere pochissime, ma una quindicina di parlamentari riceveranno invece una maxi-sospensione dal Movimento, misura che in passato è stata il viatico per il passaggio al gruppo misto. E i numeri al Senato per la maggioranza potrebbero diventare ancora più ballerini. Contestualmente i Cinque Stelle stanno studiando se far partire le cause per richiedere ai fuoriusciti la penale da centomila euro «prevista» per i cambi di casacca. Una mossa che potrebbe frenare - almeno al momento - altri addii. Nel Movimento, intanto, comincia a far discutere anche il nuovo criterio (opzionale) individuato dal comitato di garanzia per le restituzioni dei parlamentari. Gli eletti del Movimento potranno «donare» mensilmente una cifra forfettaria di tremila euro. Le indiscrezioni, però, hanno già creato un dibattito tra deputati e senatori, con i primi che evidenziano come gli inquilini di Palazzo Madama guadagnino più di loro e come quindi, in proporzione, non ci sia equità. Un dibattito tutto interno che rischia però di compromettere ulteriormente i già labili equilibri. «Ogni giorno ci troviamo davanti a una questione diversa: ormai volano gli stracci anche per cose irrisorie: come possiamo pensare di proseguire in questo modo per tre anni? », si domanda un pentastellato.
Ilario Lombardo per “la Stampa” il 22 gennaio 2020. E così dopo una settimana di surreali smentite di cui ancora non si è capito il senso, oggi Luigi Di Maio farà il suo clamoroso passo indietro da capo politico del M5S. Sempre che sarà tale fino in fondo. A soli cinque giorni dal voto che dall'Emilia Romagna potrebbe terremotare il governo e l'alleanza con il Pd. Ma è arduo comprenderlo perché la sua strategia in queste ore è sfumata, ingolfata di mezze verità, notizie veicolate per depistare e spostare l' attenzione. Unica informazione certificata dal suo staff è: «Domani (oggi, ndr) il ministro Di Maio farà un annuncio importante». E quale potrebbe essere se non questo, di cui si parla da oltre una settimana? Ma la domanda resta la stessa del primo giorno in cui si è cominciato a parlare del suo addio: cosa ha in mente Di Maio? Domanda che resta la più interessante perché lo interroga in quello che nell' intimo di un politico è il motore fondamentale: il potere, e l' ambizione di tenerselo stretto. E infatti nessuno tra i suoi fedelissimi osa smentire l' ipotesi che in realtà si tratta di un arrivederci e non di un addio. Un passo di lato controllato - a soli cinque giorni dal voto che dall' Emilia Romagna potrebbe scuotere il governo e l'alleanza con il Pd - per ritornare alla testa dei grillini dopo averli osservati massacrarsi senza più lui a fare da capro espiatorio. «Vediamo cosa saranno in grado di fare senza di me», è lo sfogo che gli hanno attribuito più volte i collaboratori. Di Maio tornerebbe a proporsi con una sua squadra, una segreteria chiamata in altro modo, e dentro la quale vuole in tutti i modi la presenza della sindaca di Torino Chiara Appendino. Un progetto complicato, perché la politica sa essere spietata con chi rinuncia allo scettro, anche se per poco. Questa nuova sfida però non si terrebbe agli Stati Generali di marzo che proprio Torino dovrebbe ospitare. Ma successivamente, quando matureranno meglio i tempi. Due mesi sono troppo pochi e suonerebbero come una farsa se si ricandidasse a capo politico dopo così poche settimane. Nel frattempo, come verrà annunciato oggi, la reggenza passerà a Vito Crimi, membro anziano del comitato di garanzia. Di Maio vorrebbe restare capo-delegazione, seguendo la formula del Pd che ha permesso al ministro Dario Franceschini senza cariche nel partito, di rappresentarlo al governo. Ma su questo, fanno sapere dall'area più filo-dem del M5S ci sarà battaglia, perché non è scontato che glielo lascino fare (ai gruppi parlamentari piace Stefano Patuanelli e in subordine Alfonso Bonafede). Crimi è stato allertato nella giornata di ieri mentre diversi membri M5S del governo, a partire da Stefano Buffagni, annullavano le loro ospitate televisive. Il viceministro all'Interno, uomo di fiducia di Davide Casaleggio, traghetterà i 5 Stelle fino al summit di marzo, poi si vedrà. Perché in quell'occasione si discuterà del destino del M5S in due aspetti: se finirà nell' area dei progressisti contro i sovranisti e se sarà plasmato attorno a una leadership più collegiale. Se così fosse lo spazio per Di Maio e la sua componente rischierebbe di ridursi. Ma ormai è fatta. Sentiva di non avere più alternative, il giovane leader di Pomigliano che sta accompagnando questo tramonto del M5S. Il partito che perde pezzi, in uno stillicidio di uscite che danno forma alla scissione che per mesi si ostinava a negare. Gli ultimi due ieri: i deputati Michele Nitti e Nadia Aprile, che fanno salire a 14 gli ex 5 Stelle andati via o espulsi alla Camera, dove prende sempre più forma la suggestione di un gruppo dell'ex ministro Lorenzo Fioramonti. Ma a pesare su Di Maio è stato soprattutto lo sconforto di sapere che avrebbe dovuto lui, ancora una volta, giustificare, subire la batosta che il M5S si appresta a incassare domenica in Emilia Romagna e in Calabria. Sfilarsi dal processo pubblico, dunque, pur sapendo che non basta lasciare cinque giorni prima per evitare di essere additato comunque come il responsabile della sconfitta. Perché Di Maio continua a rappresentare l'ala di chi rifiuta l' alleanza con il Pd e sarebbe al leader che darebbero la colpa, ancor più nel caso in cui si realizzasse il disastroso scenario di una vittoria della Lega su Stefano Bonaccini. Ventisette mesi è durato il regno di Di Maio alla guida del M5S. Mesi in cui c'è stato un grande successo, alle elezioni nazionali del marzo 2018, e poi solo sconfitte. E ancora: i gruppi che lo contestano, i ministri che chiedono l'adesione all' area riformista, Beppe Grillo, con il quale la comunicazione si sarebbe interrotta, che ormai parla con il sindaco Beppe Sala e sogna un nuova casa a sinistra, Giuseppe Conte che vuole guidarla. Come poteva continuare così, Di Maio?
Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 22 gennaio 2020. Se non puoi deporre un leader, puoi proporne un affiancamento, nella forma di cordone sanitario. È quello che hanno fatto finora gli avversari di Luigi Di Maio. Immaginando che fosse inamovibile, hanno rilanciato formule ambigue e commissariali, come le ipotesi «direttorio», «leadership condivisa» e «guida collettiva». Le famose «coltellate», di cui ha parlato Di Maio, da parte degli «avvoltoi», come li ha definiti Stefano Buffagni. La mossa del capo politico, sempre che avvenga nelle prossime ore, potrebbe rimettere in gioco tutto. E interroga amici (pochi) e nemici (tanti), pronti a lanciarsi nella corsa per la nuova leadership. Gli Stati generali si dovrebbero tenere dal 13 al 15 marzo, ma più di qualcuno mette in dubbio che sarà proprio quella la sede dove si sceglierà il nuovo capo politico del Movimento. A interrogarsi sulle mosse del ministro degli Esteri sono in molti. C' è chi non crede che voglia davvero cedere il potere. E chi sospetta che stia cercando di organizzare una controffensiva, un ritorno in campo quando sarà passata la bufera: «È un giochetto, vuole tornare più avanti come salvatore della patria». C' è chi teme uno scarto più grave: che stia cioè creando le condizioni per accelerare una scissione, che comporterebbe la caduta del governo. Fantascienza, per ora, ma le manovre sono partite da tempo. Alessandro Di Battista è il suo fratello coltello. A giorni alterni i due si giurano amore eterno, per poi lanciarsi frecciate e accuse. L' ex deputato in queste settimane è teoricamente alleato di Di Maio, ma al momento opportuno potrebbe sganciarsi e procedere in autonomia, magari affiancandosi a Gianluigi Paragone, espulso di recente ma lesto nel rivendicare l' amicizia «con Ale» e progetti in comune. Il fronte più variegato, con i possibili leader alternativi, è quello a sinistra, che si è rafforzato grazie al governo «giallorosso». Naturalmente c' è Giuseppe Conte, premier che ha saputo acquistare autorevolezza e credibilità, pur non essendo organico del Movimento. Ma proprio questa sua posizione da esterno, oltre che il ruolo a Palazzo Chigi, rendono difficile una successione in questa direzione. Tra chi si è molto dato da fare in questi giorni c' è Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico, che è considerato uomo ponderato, serio e vicino al Pd. Difficile, però, che possa conciliare il Mise con il ruolo di capo politico. Nell' ombra ci sono due personaggi che hanno un grande peso nella storia del Movimento. Roberta Lombardi, movimentista della prima ora, che è stimata e ha concorso alla linea favorevole per la nascita del governo. E Max Bugani, che ha sbattuto la porta della segreteria di Di Maio e ora anche quella di Rousseau. L' attuale capo staff della sindaca Virginia Raggi si contrappone a Di Maio ed è stato uno dei più strenui difensori della linea di non presentarsi in Emilia-Romagna. Tra i più autorevoli senatori c' è Nicola Morra, che nelle scorse settimane si è dato molto da fare per ridiscutere dell' identità del Movimento, lanciando incontri periodici con i parlamentari. Del resto Morra, presidente dell' Antimafia, è stato forse il primo a parlare di «leadership collettiva», non per attaccare Di Maio ma per aiutare il Movimento. Sulla Calabria è stato durissimo contro il candidato ufficiale M5S. Difficile che scenda in campo il presidente della Camera Roberto Fico, frontman dei «progressisti». E anche Paola Taverna e la sindaca di Torino Chiara Appendino sono nomi poco spendibili per una leadership. Qualcuno scommette proprio su Vito Crimi. Da membro anziano, diventerebbe reggente. Ma una volta in sella, dicono, potrebbe aver voglia di rimanerci.
Federico Capurso e Ilario Lombardo per “la Stampa” il 23 gennaio 2020. Il regolamento prevede che il reggente avvii la scelta del successore entro trenta giorni dalle dimissioni del capo politico. Dunque, entro fine febbraio. È evidente, però, che si troverà il modo di fissare la data dell' elezione dopo gli Stati Generali, lasciando Vito Crimi al suo posto con una "deroga" da far approvare all' assemblea dei parlamentari nelle prossime settimane. Così ha deciso Luigi Di Maio, come svela lui stesso dicendo che nel grande summit che ci sarà a metà marzo si parlerà del «cosa», della nuova Carta dei valori del Movimento, di «progetti e temi». Subito dopo, aggiunge, «come già d'accordo con Vito, passeremo al chi». Uno sdoppiamento in due fasi che non avrebbe senso, se non per la chiara strategia di evitare di trasformare gli Stati Generali in un vero e proprio congresso, fatto di mozioni e volti sui quali far votare gli iscritti. Di Battista tace, distante. Ma quando al Tempio di Adriano si riaccendono le luci che illuminano gli occhi pieni di commozione, sono tanti, tutti forse, a pensare la stessa cosa: non è stato un discorso di addio, ma di arrivederci. «Non ci penso per nulla a mollare! Si chiude soltanto una fase e ci vediamo agli Stati generali, dove porterò delle idee. Ci sarò sui territori, ci sarò al lavoro per l' Italia, ci sarò per tutti coloro che avranno bisogno di sostegno. Ci sarò e non mollerò mai». Il discorso rivendica un passato, ma costruisce soprattutto una mappa per il futuro, con un programma, una linea politica più moderata, sulla quale edificare un ritorno. Lo sanno i semplici parlamentari, anche chi lo ha osteggiato, e lo sanno i ministri che lo hanno criticato quando si è fatto trascinare dalle sue passioni sovraniste. Ma lo sanno soprattutto i suoi collaboratori che hanno ben chiaro il suo disegno e non lo nascondono.
«Ora vediamo cosa sono in grado di fare senza di me». È la scommessa dei pop corn: aspettare, far emergere le lacerazioni del Movimento e la sua ingovernabilità, dimostrare che un' alternativa non c' è e, a quel punto, forse già dopo le Regionali di maggio, tornare. Come, però? Nessuno nel partito, dai vertici fino all' ultimo dei peones, vuole un nuovo capo politico. Da quello che filtra, il progetto condiviso da più parti sarebbe quello di estendere a un organo collegiale la leadership del M5S. Di Maio vorrebbe farlo coinvolgendo prima di tutto Chiara Appendino, la prima cittadina di Torino. C' è stato un passaggio, nel discorso, indicativo delle sue intenzioni. Quando ha parlato dei sindaci del M5S sul fronte quotidiano dell'amministrazione. È a lei che pensava, a lei si è sempre sentito affine per i modi, il pragmatismo, quella moderazione istituzionale dalla quale lui, però, qualche volta ha sbandato. Eppure, quella che si apre di fronte a Di Maio è una terra inesplorata. Il Movimento 5 stelle è sempre stato una monarchia, dove le decisioni venivano prese da Gianroberto Casaleggio prima, Beppe Grillo poi, fino alla sua elezione a capo politico senza sfidanti, due anni e quattro mesi fa. Oggi, per la prima volta, il partito può essere scalato. E questo Di Maio lo sa. Un assaggio di quel che potrebbero essere gli Stati generali lo ha già avuto nelle ultime settimane. Le truppe parlamentari che vogliono ribaltare gli organigrammi del potere sono uscite allo scoperto, pronte a contarsi e ad ostacolare il tentativo di un suo ritorno. Insomma, stanno nascendo le correnti, come in ogni buon partito. C' è chi lo dice chiaramente, come il deputato Giorgio Trizzino («le correnti non sono un veleno. Possono essere una risorsa») e chi, come i dissidenti del Senato capeggiati da Emanuele Dessì, lo dice tra le righe: «Non vogliamo creare una corrente per avere potere». Potere forse no, ma raccogliere firme, pesare, rivoluzionare il partito, quello sì. I malpancisti di Camera e Senato non preoccupano però Di Maio. Chi mette davvero in pericolo la realizzazione del suo progetto sono i big che remano in una direzione opposta alla sua. Come i "governisti" capeggiati dal ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli, sempre più idolo dei parlamentari, che spinge per entrare stabilmente nel campo del centrosinistra. Sulla stessa linea ci sono anche le truppe di Roberta Lombardi, quelle di Paola Taverna e degli ortodossi di Roberto Fico. Tutti con sfumature diverse, però, e che pesano, perché su quelle si alimenterà la corsa alle poltrone in palio nel futuro organo collegiale.
Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 23 gennaio 2020. Alla fine prova a smorzare i toni: «Ho riportato i risultati». Come se quell'elenco di consiglieri pubblicato sul proprio profilo Fb a poche ore dal voto di martedì in aula Giulio Cesare, sulle due mozioni di Fratelli d'Italia e Pd che si sono portate dietro il placet di diversi consiglieri grillini contro la discarica di Monte Carnevale, fosse un modo per cristallizzare la situazione. È invece la bomba è esplosa. Il post del marito della sindaca Raggi, Andrea Severini, ha fatto rigurgitare via social tutti i dissapori interni alla maggioranza cinquestelle in Campidoglio (e non solo). Consiglieri comunali, municipali e regionali se ne sono dette di tutti i colori. Il presidente della Commissione Bilancio, Marco Terranova, che ribadiva come «Non si vota contro una decisione presa dalla Sindaca» è pronto a chiedere «le dimissioni» dei componenti della commissione Ambiente (presidente e vice compresi) che in questi mesi di discussione «non hanno partecipato agli incontri». Ma la numero due di quella commissione, Simona Ficcardi, non ci sta: «Questo commento è proprio scorretto. Sei testimone di tutte le mie richieste di condivisione delle scelte sulla gestione dei rifiuti». Sarebbe potuta finire qui ma il marito della Raggi scrive rivolgendosi alla Ficcardi: «Dovresti non commentare anche tu, fidati». Finita? Macché. «Io sono sempre stata coerente tuona ancora la Ficcardi tu non conosci i trattamenti che ci vengono riservati dietro le quinte, sei troppo di parte». E tra le critiche che piovono da attivisti e non, lo scontro si fa ancora più acceso quando a salire sul ring sono Severini in persona e Marco Cacciatore, consigliere M5S e presidente della commissione Rifiuti alla Pisana che tira giù i suoi di nomi: «Violazione del programma che parlava di tutela di Malagrotta; violazione dei principi democratici del M5S.
Ecco i nomi: Virginia Raggi, Giuliano Pacetti, Pietro Calabrese, Roberto Di Palma. Qui come in alcuni casi del nazionale si è rovinato il MoVimento. Vergogna!». Severini tace? No. «Ma che problema hai? Io no ti ho mai nominato. Manco ti conosco». L'unico che prova a gettare acqua sul fuoco senza entrare nello scontro social è il capogruppo M5S in Comune Giuliano Pacetti che si tiene alla larga da Facebook ma spiega: «Il tema dei rifiuti è sensibile, il gruppo ha accumulato stress, ma già oggi (ieri ndr) noto che i toni si sono abbassati». Reggerà?
Dal “Corriere della Sera” il 23 gennaio 2020. Di Maio ha concluso il suo discorso togliendosi la cravatta. «Gianroberto Casaleggio - ha spiegato - in tutti gli anni in cui l'ho conosciuto mi ha fatto un solo regalo: un libro che si intitolava L'elogio della cravatta di Mariarosa Schiaffino. Era stato colpito dal fatto che la indossassi sempre, ogni volta che andavo da lui. E mi propose di approfondire il significato del tipo di nodo, perché anche il nodo per lui e per quel libro era comunicazione. Tutto per Gianroberto poteva essere un modo per arrivare alla gente. La cravatta per me ha sempre rappresentato un modo per onorare la serietà delle istituzioni e il contegno che deve avere un uomo dello Stato. Oggi simbolicamente la tolgo qui davanti a tutti voi».
Luigi Di Maio, dimissioni e sfogo coi fedelissimi: "Non ne potevo più", l'imbarazzo con Vladimir Putin. Libero Quotidiano il 24 Gennaio 2020. Luigi Di Maio si è sfogato con i suoi fedelissimi subito dopo aver dato le dimissioni da capo politico del Movimento 5 stelle: "Non ne potevo più", racconta secondo quanto riporta Augusto Minzolini nel suo retroscena su Il Giornale, "l'altro giorno mentre ero con Vladimir Putin avevo il telefonino che continuava a suonare perché il senatore Emanuele Dessì, il dissidente ma non troppo, voleva leggermi il suo comunicato, critico ma non troppo". Ma ora che ha dato l'addio pensa al suo futuro, in primis a rimanere al governo: "Io resto a fare il ministro degli Esteri. A 34 anni posso farmi delle relazioni a livello internazionale che potrebbero tornare utili a me e al movimento". Per Gigino, sottolinea Minzolini, la legislatura vale più di tutto, più della leadership, insomma, vale "la poltrona". Infine, lo sfogo di Di Maio riguarda Alessandro Di Battista: "Se io fossi stato al sui posto e lui avesse ricoperto il mio ruolo, non avrei fatto quello che lui ha fatto a me. Io ho deciso questo passo prima di Natale...". A non andare giù a Di Maio è stato il rifiuto di Dibba di diventare ministro dell'Istruzione dopo che Lorenzo Fioramonti aveva mollato.
Pasquale Napolitano per il Giornale il 24 gennaio 2020. La testa di Luigi Di Maio è il prezzo pagato per chiudere la guerra dei gruppi parlamentari contro Davide Casaleggio. Uno scambio tra le due anime del Movimento per siglare la tregua: Di Maio molla la guida del Movimento, Casaleggio jr blinda l'associazione Rousseau, il vero cuore del potere economico e politico grillino. È lo scenario in cui sarebbe maturato il passo indietro dell'ex capo politico dei Cinque stelle. C'è una data da segnare in rosso: il 9 gennaio 2020. Per la prima volta, un gruppo di senatori (Primo Di Nicola, Emanuele Dessì, Mattia Crucioli) mette nero su bianco il malcontento nei confronti dell'associazione Rousseau. È la miccia che fa esplodere la bomba. Si moltiplicano interviste e dichiarazioni contro Casaleggio jr. Il documento dei senatori contesta non solo la guida politica del Movimento ma la gestione (secondo i senatori poco trasparente) di fondi (300 euro versati all'associazione), restituzione degli stipendi, candidature e linea politica. In quel momento sarebbe partita la trattativa. Di Maio o Casaleggio? Uno dei due deve passare la mano. Molla il ministro degli Esteri. Casaleggio è salvo. E con lui tesoretto e struttura di comando. C'è da scommettere che ora in avanti, il sistema Rousseau non sarà più sotto il fuoco dei dissidenti. Cosa chiedono gli anti-Casaleggio?
Il primo capo d'accusa è l'obbligo per i parlamentari di versare un contributo mensile di 300 euro nelle casse dell'associazione presieduta dal figlio del fondatore del Movimento. Facendo un veloce calcolo: ogni mese entrano 67.800 euro. Che equivalgono a 813.600 euro l'anno e, nel caso in cui la legislatura duri cinque anni, a poco più di quattro milioni di euro. Obbligo assunto nel momento dell'accettazione della candidatura da parte dei futuri onorevoli. Soldi che servono per finanziare le piattaforme tecnologiche (controllate da Casaleggio) che supportano l'attività dei gruppi e dei singoli parlamentari. Ma nessuno ha il potere di verificare come vengano spesi i soldi. E dunque, nelle settimane scorse è stata avanzata la richiesta di sospendere il versamento dei 300 euro. Un colpo durissimo per le casse dell'associazione Rousseau.
Secondo capo d'accusa: le eccedenze delle restituzioni. I soldi (un minino di 2mila euro), che mensilmente i parlamentari grillini versano sul conto privato intestato a Di Maio, Patuanelli e D'Uva, finiscono, se non spesi, sui conti di Rousseau. Su questo passaggio c'è un'apertura da parte dei vertici grillini: la proposta è di bloccare il versamento delle eccedenze a Casaleggio.
Terzo capo d'accusa: il potere politico di Casaleggio. Candidature, alleanze, organizzazione (e finanziamento) degli eventi, costruzione dei quesiti e scelta del capo: tutte le decisioni vengono filtrate dalla piattaforma gestita da Rousseau. Il vero punto oscuro: nessuno sa chi siano realmente gli attivisti che votano. E dunque nasce un sospetto: Casaleggio è in grado di condizionare le consultazioni?
Insomma, quando la guerra interna al Movimento ha investito il sistema Casaleggio, la poltrona di Di Maio ha iniziato a ballare davvero. Dopo tentennamenti, veleni e schizzi di fango, il ministro degli Esteri è uscito di scena. La cravatta dell'ex leader è finita nella teca dei ricordi del M5s, negli uffici di Montecitorio. Casaleggio ha tirato un sospiro di sollievo. E c'è stato chi fino alla fine ha tentato di convincere Di Maio a non mollare: i fedelissimi (Fraccaro, Castelli, Di Stefano) la notte prima delle dimissioni spingono per un'altra soluzione: «Lascia la Farnesina ma resta capo politico». Ma sarebbe stato troppo pericoloso per Casaleggio. Intanto ieri è ufficialmente iniziata l'era Crimi: il reggente ha incontrato i capigruppo di Camera e Senato. Nelle prossime ore sarà annunciato il nuovo capo delegazione dei Cinque stelle nel governo. Mentre martedì è fissata la prima riunione congiunta dei gruppi parlamentari.
Di Maio lascia, Travaglio nuovo capo politico del M5S. Piero Sansonetti il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Chi è ora il capo del Movimento 5 Stelle, dopo l’addio- spontaneo o forzato – di Di Maio? La risposta è semplice: Marco Travaglio. Forse non è una novità assoluta: Travaglio da tempo tiene strette le redini del Movimento. Da quando Beppe Grillo ha mollato, al vertice della piramide c’è lui. Nessuno dei dirigenti che ricoprono i vari incarichi nel partito o nel governo ha il carisma, né l’esperienza, né le capacità politiche per guidare un partito. Non le ha neanche Alessandro Di Battista, che forse è il meno fragile e il più intelligente dei leaderini Cinque stelle, ma è ancora in formazione. Travaglio è maturo, è autorevole, è preparato, e soprattutto ha in mente un’idea molto precisa di cosa debba essere questo movimento e di come debba agire. Travaglio concepisce la lotta politica come una battaglia mortale tra liberali e “eticisti”. E lui, che pure si presenta ogni tanto come erede di Indro Montanelli, liberale, sicuramente, non è. Ha in mente un progetto “eticista”, che non coincide neppure con l’idea originaria di Beppe Grillo. Era un po’ anarchico Grillo – e ancora lo è – e aveva immaginato che il suo movimento servisse a scassare le strutture del potere. Grillo sicuramente è un giustizialista, ma il giustizialismo non è il nocciolo duro del suo pensiero e del suo progetto: è uno strumento per radere al suolo il vecchio potere e il vecchio establishment. È un passaggio necessario nella lotta alle élite e quindi nella costruzione di una nuova elite. A Travaglio tutto ciò interessa pochissimo. È molto probabile che in un Paese che finisse nelle mani di Travaglio Beppe Grillo, insieme a molto di noi, sarebbe collocato in prigione. Per Travaglio – al contrario esatto di Grillo – il potere è fondamentale ma è uno strumento per affermare il giustizialismo. È il giustizialismo, lo Stato Etico, il comando autoritario sui comportamenti, i costumi, i riti della società, è questo il paradiso al quale aspira Travaglio. Una società controllata perfettamente dallo Stato, guidata da idee reazionarie e da strutture sociali autoritarie e totalizzanti. Negli ultimi mesi Travaglio ha assunto un ruolo sempre più importante nella guida del Movimento. Tanto che, alla fine, è stato proprio lui a dare il benservito a Di Maio (lo ha fatto un paio di settimane fa con un titolo perentorio del Fatto Quotidiano). Tuttavia fin qui non è riuscito ad assumere il controllo politico dei 5 Stelle. Ora, probabilmente, tolto di mezzo il giovane Di Maio, può finalmente mettere mano al suo progetto. A questo punto cosa sarà dei 5 Stelle? E cosa sarà del governo? E quale sarà la futura collocazione del Movimento, e la sua consistenza? Il punto essenziale è il Pd. Travaglio punta a fagocitarlo, a trasformarlo in un partito satellite dei 5 Stelle. In parte fin qui gli è riuscito. Il Pd ha ceduto ai 5 Stelle quasi su tutto. Lo ha fatto, per ora, in nome della governabilità. Può spingersi oltre e accettare il diktat di Travaglio? Forse no. P.S. Ieri Travaglio, nell’editoriale pubblicato sul Fatto, è tornato a polemizzare con noi del Riformista. Ha messo in campo tutte le sue battute geniali e spiritosissime: invece di Riformista lui scrive Riformatorio, quando cita l’editore del nostro giornale lo chiama l’Imputato Romeo (proprio lui che è un aspirante prescritto deluso…) e altre trovate, come vedete bene, sofisticatissime. Ricorda un po’ Buster Keaton. Ragione della polemica? Difendere il suo vignettista Natangelo che aveva pubblicato sulla home page del Fatto una vignetta nella quale raffigurava Craxi costretto a stare per l’eternità con la faccia nella merda e una carota nel sedere. E che poi aveva risposto a un nostro corsivo con un’altra vignetta nella quale raffigurava anche me con la faccia nella merda e una carota nel sedere. A Travaglio queste vignette sono piaciute, lui dice che sono un modo libero e colto per esprimere una critica al craxismo e al garantismo del nostro giornale. E se il Pd cederà, Travaglio prenderà in mano l’Italia insieme al Pd? Sì, è possibile. Valutate voi a che punto siamo della notte.
Di Maio dimesso, Vito Crimi è il nuovo reggente del Movimento 5 Stelle. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. È uno degli esponenti più longevi del Movimento, passato dal meet up Beppe Grillo di Brescia nel 2007 al ruolo di senatore, sottosegretario nel Conte II e ora possibile reggente del Movimento 5 Stelle. Mentre Luigi Di Maio si accinge a formalizzare le sue dimissioni , molti gli pronosticano un avvenire da capo vero. Quel che è certo è che Vito Crimi ha fatto molto discutere in questi anni, con scelte discutibili, come l’accanimento contro i finanziamenti a Radio Radicale, ma anche con una tenacia che ne hanno fatto uno degli uomini meno mediatici ma più attivi del Movimento. Bresciano ma cresciuto in parrocchia al Brancaccio di Palermo, boy scout con una passione per Ken Follett, laurea mancata in matematica e lavoro come impiegato, assistente giudiziario alla Corte di Appello di Brescia. Queste le sue credenziali quando nel 2013 diventa senatore. E proprio il 27 marzo del 2013 diventa protagonista, insieme a Roberta Lombardi, di uno degli episodi più clamorosi del recente passato: le trattative in diretta streaming che umiliarono i tentativi di dialogo della delegazione del Pd guidata da Pier Luigi Bersani. Crimi lascia la moglie per fidanzarsi con la deputata M5S Paola Carinelli. Per lei dimagrisce, si fa crescere la barba, mette le lenti. A un Giorno da Pecora, pericoloso ed esilarante confessionale radiofonico nei quale i politici dicono quello che non dovrebbero, Crimi confessa di aver votato nel tempo Rifondazione, Alleanza Nazionale, Verdi e Ulivo (ma mai Pd). Come a dire che sull’identità politica ha sempre avuto le idee un po’ confuse, oppure aveva già interiorizzato il futuro dinamismo dei 5 Stelle, pronti a passare da Matteo Salvini a Nicola Zingaretti. Nello stesso programma, la Lombardi lo chiama ripetutamente, in segno d’affetto, “Vito orsacchiotto Crimi”. La delega all’Editoria gli porta qualche guaio, soprattutto sulla questione di Radio Radicale, contro la quale si accanisce, non seguito fino in fondo dal resto dei 5 Stelle. La battaglia gli vale un memorabile epiteto del compianto Massimo Bordin: “Gerarca minore”. Ora si appresta a diventare un capo vero, sia pure pro tempore. Del resto è stato uno scout e, come si sa, scout si rimane per sempre. Non è un caso che tra le sue frasi preferite ci sia il motto di Lord Baden Powell “estote parati”. E lui, a questo punto, pare decisamente pronto.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 23 gennaio 2020. Sarebbe sbagliatissimo - benché la tentazione sia forte - farsi ingannare dalla faccia da pacioccone e raccontare Vito Crimi, nuovo reggente grillino, solo attraverso alcune ridicole prodezze, tipo quando si fece beccare a ronfare sui banchi del Senato o sul Frecciarossa, o quando postò su Facebook una foto di un bambino coi piedini sporchi di polvere nel bresciano, il figlio di un suo amico, ipotizzando un misterioso deterioramento della qualità dell' aria bresciana: passò alla storia come il complotto dei piedini. Tuttavia Crimi non è Toninelli. E bisogna semmai capire come mai, in molti momenti importanti della storia grillina, ce lo troviamo sempre davanti, ufficiale in qualunque stagione, paffuto ma a volte feroce, forse sovranista nel sovranismo, forse filopiddino nell'epoca del Conte2. «Gerarca minore», lo definì Massimo Bordin. Non fu mai chiaro se metteva l'accento sull' aggettivo comico o l'inquietante sostantivo. Crimi guidava l'attacco a Radio radicale, Bordin è morto, e non si può più andare alla fonte. Impiegato del tribunale di Brescia - nel curriculum ci informa che si occupò anche di «organizzazione delle operazioni di trasloco degli uffici giudiziari» - Crimi godeva fondamentalmente della fiducia di Gianroberto Casaleggio, sebbene in posizione totalmente remota e subordinata rispetto a quell' autorità. Gianrobertò gli fece fare il primo capogruppo parlamentare del M5S nel 2013. I maligni dicono perché non aveva altri. Ma Crimi è uomo di straordinaria mimesi. Come sapete, toccò a lui andare a maltrattare in streaming il povero Bersani, «veramente non ce la sentiamo di poterci fidare di voi del Pd, siamo in una fase in cui vogliamo le prove». Lo fece con meno livore di Roberta Lombardi, il che bastò ai media a far di lui "il moderato". Totale cliché e abbaglio, come si capirà anni dopo, quando Crimi fu il più crudele combattente nella battaglia grillina contro Radio radicale, e in generale contro i fondi all' editoria. Del resto aveva già detto: «I giornalisti e le tv li rifiuto perché mi stanno veramente sul cazzo». Ecco. Oggi Crimi, che diceva a Bersani non mi fido del Pd, traghetta la fase in cui si tenta di fare del M5S una costola del Pd (o viceversa). Ma il punto non è la contraddizione, fosse solo quello: è che a Crimi, chissà come, vengono affidate da sempre cose delicate, nel M5S. Perché? È lui, quando si deve eleggere il presidente della repubblica, nell' aprile 2013, che - nel giorno in cui Prodi viene proposto dal Pd a Grillo (e Grillo lo stoppa brutalmente, prima di un comizio in Friuli) - va a casa di Stefano Rodotà a dirgli «resti in campo, professore». Risultato: non si elesse né Rodotà né Prodi. La sera della rielezione di Napolitano, quando Grillo annunciò (e stava per metterla in pratica) la «marcia su Roma», Crimi era nella stanza in cui Nicola Biondo telefonò a Grillo convincendolo a non venire, cosa che avrebbe configurato uno sconsiderato assedio della folla al Palazzo. «Se le cose vanno male, qui ci arrestano a tutti», disse Crimi a Biondo, poco dopo aver smesso di imprecare in siciliano. E fu sempre Crimi nel 2014, quando si fecero le prima trattative M5S-Pd per l' elezione del membro laico del Csm, a entrare in campo. Tutto il M5S (e Casaleggio) avevano già un nome, Nicola Colaianni. Crimi mediò politicamente, in mezzo a Pd e togati, e spuntò il nome di Alessio Zaccaria (peraltro di lì a poco "ripudiato" dal M5S). È come se, tra Pd e una parte della magistratura, in qualche modo si fossero sempre fidati dell' ex impiegato di tribunale. Pacioccone mica tanto, insomma. Che sa dire cose di imbarazzante virulenza verbale. Di Berlusconi, scrisse: «Vista l'età, il progressivo prolasso delle pareti intestinali, e l' ormai molto probabile ipertrofia prostatica, il cartello di cui sopra con "Non mollare" non è che intende "Non rilasciare peti e controlla l'incontinenza"?». Di Napolitano, che solo Grillo era stato «capace di tenerlo sveglio». Dell'osceno video sessista sulla Boldrini («cosa fareste con lei in auto?»), apparso sul blog di Grillo quando il comico non era ancora assurto a padre nobile del nuovo centrosinistra Pd-M5S di Conte e Zingaretti, Crimi scrisse: «Video ironico, satirico, senza alcuna volgarità ma simpatico anche». Ecco, è quello il genere di simpatia del Crimi addormentato.
Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 23 gennaio 2020. Da ieri è il nuovo capo politico del Movimento, ufficialmente «reggente», ma in realtà con un potere decisivo nel traghettare la nuova struttura verso gli Stati generali del 13 maggio. Vito Crimi è uno degli esponenti più longevi del Movimento, passato dal meet-up Beppe Grillo di Brescia nel 2007 al ruolo di senatore, sottosegretario nel Conte 2. Molti da lungo tempo gli pronosticano un avvenire da capo vero. Quel che è certo è che Vito Crimi ha fatto molto parlare di sé in questi anni, con scelte discutibili, come l' accanimento contro i finanziamenti a Radio Radicale, ma anche con una tenacia che ne hanno fatto uno degli uomini meno mediatici ma più attivi del Movimento. Bresciano ma cresciuto in parrocchia al Brancaccio di Palermo, boy scout con una passione per Ken Follett e per i fumetti, laurea mancata in matematica e lavoro come assistente giudiziario alla Corte di Appello di Brescia. Queste le sue credenziali quando nel 2013 diventa senatore. E proprio il 27 marzo del 2013 diventa protagonista, insieme a Roberta Lombardi, di uno degli episodi più clamorosi del recente passato: le trattative in diretta streaming che umiliarono i tentativi di dialogo della delegazione dem guidata da Pier Luigi Bersani. Crimi lascia la moglie per fidanzarsi con la deputata M5S Paola Carinelli. Per lei dimagrisce, si fa crescere la barba, mette le lenti. A Un giorno da pecora , pericoloso ed esilarante confessionale radiofonico nei quale i politici dicono quello che non dovrebbero, Crimi confessa di aver votato nel tempo Rifondazione, Alleanza Nazionale, Verdi e Ulivo (ma mai Partito democratico). Una certa fluidità nell' identità politica o forse semplicemente i prodromi di quello che sarebbe stato il futuro dinamismo dei 5 Stelle, pronti a passare dalla Lega di Matteo Salvini al Pd di Nicola Zingaretti. Nello stesso programma, Roberta Lombardi lo chiama ripetutamente, in segno d' affetto, «Vito orsacchiotto Crimi». La delega all'Editoria gli porta qualche guaio, soprattutto sulla questione di Radio Radicale, contro la quale si accanisce, non seguito fino in fondo dal resto dei 5 Stelle. La battaglia gli vale un memorabile epiteto del compianto Massimo Bordin: «Gerarca minore». Ora si appresta a diventare un capo vero, sia pure pro tempore. Del resto è stato uno scout e, come si sa, scout si rimane per sempre. Non è un caso che tra le sue frasi preferite di sempre ci sia il motto di Lord Baden Powell «estote parati». E lui pare decisamente pronto. C' è chi dice che stia studiando da capo politico da tempo, tanto da mettersi nella sua segreteria due ex parlamentari, come Bruno Marton ed Enrico Cappelletti. È la sua grande occasione e Crimi è pronto a coglierla. Perché, come dice lui stesso, «fuori è il nulla».
Simone Canettieri per “il Messaggero” il 24 gennaio 2020. Certe responsabilità pesano, dunque si tiene leggero. Solo un secondo al ristorante del Senato, fresco di restyling, ma praticamente deserto. Un peccato visto il bendidio (si va dal misto spigola-salmone agli hamburger, poi c'è sempre la griglia per un filetto espresso). Pranzo veloce: 18 minuti. Cronometrati. Una telefonata ricevuta, sotto lo sguardo dello staff (affamato). I pochissimi presenti lo salutano con curiosa riverenza. D'altronde il viceministro dell'Interno - e senatore - Vito Crimi è il nuovo reggente del M5S. Ha uno sguardo sornione. Sembra pacioso, ma sono apparenze. Bisogna parlarci una decina di minuti - prima fuori dal ristorante, poi in ascensore fino al Salone Garibaldi, fissando il panorama fuori da una finestra, premurandoci infine di accompagnarlo in ufficio - per capire un po' il tipo. E che aria tira. E tirerà tra i grillini. Piccolo aneddoto: il suo appartamento dietro la Camera durante la crisi estiva diventò - insieme alla casa di Pietro Dettori - il quartier generale del Movimento. Appena finiva un bilaterale con il Pd, gli allora capigruppo Stefano Patuanelli e Ciccio D'Uva andavano a casa sua per fare il punto. E subito si aggiungevano tutti gli altri big.
Crimi, allora complimenti!
«Più che altro mi servirà un in bocca al lupo bello grande».
Beh, in effetti nessuno vorrebbe stare al suo posto: dopo l'addio di Di Maio, con le regionali alle porte, le tensioni nel governo, i dossier delicati. Lo ammetta: le tremano i polsi?
«Ma noooo. Allora se devo dirla tutta sono sereno: sa in questi anni quante ne ho viste?».
E superate?
«Sì. Insomma, porterò avanti il mio ruolo con giudizio. E so reggere lo stress».
Oggi (ieri-ndr) riunirà i ministri del M5S per poggiare la spada sulle spalle del nuovo capodelegazione a Palazzo Chigi?
«Non ho riunioni in programma con i ministri, con alcuni di loro ci siamo sentiti. Ma tra poco, dopo pranzo, vedrò i facilitatori, il team del futuro».
Ma non è che farà il passacarte del Movimento in attesa di questi famosi stati generali? Insomma, sarà un burocrate?
«Nessun passacarte, ora il capo (del M5S-ndr) sono io».
Ma i problemi non mancano. Grillo continua a stare zitto, un po' spiazzato dal tempismo della mossa di Di Maio.
«Grillo è sereno, l'ho sentito anche oggi. E con Beppe parlo io: è tranquillissimo, fidatevi».
Ma queste sono frasi di circostanza: non si capisce il Movimento che fine farà e chi lo guiderà in futuro. E poi mai con il Pd o sempre ormai con il Pd?
«Calmi, andremo avanti. Certo ci sarà una fase nuova che sarà discussa da tutti nelle sedi opportune».
Ma lei perché appare così antipatico? In fin dei conti non lo è. C'è di peggio.
«Ma siete voi giornalisti che mi prendete sempre di mira da anni. Soprattutto all'inizio. Una pressione incredibile».
Non per difendere la categoria, ma è lei che ha detto che i giornalisti «le stanno sulle scatole» (l'espressione fu molto più colorita). È ancora così? Da reggente o capo del Movimento ora dovrà comunicare.
«Vuole sapere come andò quella storia?».
Certo.
«Allora era notte, ero stanco morto, appena uscito da una lunga riunione, snervante. Passeggiavo per il centro storico di Roma».
Continui continui.
«Niente, incontrai due ragazzi universitari che iniziarono a farmi delle domande sui giornalisti. Non mi accorsi che mi stessero registrando. E così mi sfogai. Poi mi sono scusato. Però lo ripeto: ero stanco. E sotto pressione».
Ma lei è stato anche sottosegretario all'Editoria nel Conte 1 con posizioni molto dure (il compianto direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, lo soprannominò «gerarca minore» ndr).
«Ma io i giornalisti non li odio. Sono stato preso di mira, da sempre».
Mitica la foto del suo pisolino sugli scranni del Senato.
«Ricordo, ci fu quella foto, certo. Ma non solo quella. Il Movimento, soprattutto all'inizio, fu preso molto di mira».
Oggi come si è svegliato?
«Con altri attacchi. Ma come si fa a scrivere che io ho lasciato mia moglie per mettermi con una deputata che nel frattempo mi sono fatto crescere la barba e che sono dimagrito. Ma come si fanno a scrivere queste cose?».
Che poi forse non è così tanto dimagrito.
Ride: «Appunto».
Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2020.
Vito Crimi, la carezza di Di Maio è un passaggio di consegne da capo politico a reggente, o da leader a leader con pieni poteri?
«La carezza di Luigi è innanzitutto il gesto autentico di un amico e compagno di tante battaglie. Quanto alla leadership non ci poniamo il problema dei tempi o dei poteri, ma di guidare il M5S nella riorganizzazione. In ogni caso, da capo politico ho tutti i poteri previsti dallo statuto».
Stato d' animo?
«È una sfida, sento una grossa responsabilità. Ho avuto tantissimi attestati di stima, attivisti e colleghi si sentono rassicurati. Mi dicono che sono la persona giusta per condurre il Movimento in questo momento di crescita, alla luce della mia lunga esperienza. Ma non farò nessuno strappo, lavorerò in continuità con il percorso che Luigi ha avviato e che io devo portare avanti alla luce delle criticità rilevate».
Eravate al 32%, ora i consensi sono dimezzati.
«È più importante il consenso a tutti i costi o far bene per il Paese? Noi non abbiamo aiutato i potenti, ma i poveri. Una categoria che non influenza le masse».
Non teme l' estinzione del Movimento? E la scissione?
«La che?».
Il «suo» M5S sarà di piazza o di governo? Con la Ue o no? Porti aperti o chiusi?
«Mai stati contro l' Europa, ma va rifondata. Con il nuovo governo stiamo contribuendo a migliorarla, tanto che la redistribuzione dei migranti è passata da 11 persone al mese a 98. Questi sono i risultati di una gestione integrata del fenomeno, le chiacchiere le lasciamo ad altri. Non è sui porti che bisogna ragionare, ma sulle partenze».
Con lei alla guida, il rapporto con il premier Conte sarà meno conflittuale? E sarà lei il capo delegazione?
«Mai stato conflittuale, ma sempre di leale confronto e collaborazione. E così continuerà ad essere. L' elenco dei risultati che abbiamo portato a casa e che Luigi ha ricordato è sbalorditivo. Altro che conflittualità, è produttività. Io sul governo non ho il minimo dubbio e lavorerò in continuità, a partire da Autostrade».
Se Salvini vince le Regionali il governo va a casa?
«Il governo ha un cronoprogramma da definire e attuare, al di là delle tornate elettorali. Dobbiamo abbassare le tasse, come già abbiamo iniziato a fare per 16 milioni di italiani con il taglio del cuneo fiscale, obiettivo che dobbiamo perseguire grazie alla riforma dell' Irpef. Abbiamo obiettivi molto ambiziosi, su quelli vogliamo essere giudicati al termine del mandato».
Di Maio può tornare capo politico, magari in tandem con Appendino o affiancato da un direttorio?
«Abbiamo avviato un percorso ambizioso, iniziato con il coinvolgimento di centinaia di facilitatori. Ogni scelta sarà condivisa e partecipata da tutti gli iscritti. Il Movimento è collegiale per definizione. Farò il massimo affinché questi valori possano esprimersi sempre di più, è solo uniti che riusciremo a realizzare il nostro programma».
Chi vedrebbe come capo politico dopo gli Stati generali? Fico, Patuanelli, Di Battista, Taverna, o Crimi?
«Avrà più chance questo Paese quando smetteremo di parlare di nomi per concentrarci sui contenuti. Proprio quello che intendo fare».
Si sente più vicino a Grillo o a Casaleggio?
«Sono due figure essenziali, senza le quali oggi non saremmo dove siamo. Sono vicino al progetto che hanno creato, a cui ho dato tutto me stesso fin dalle sue origini».
Teme pugnalate e fuoco amico ? E chi sono i traditori, Paragone e Fioramonti?
«Sono fiero di essere a capo di un Movimento che rispetta le sue regole senza guardare in faccia nessuno. Chi non rispetta i patti non mi fa paura, mi fa pena».
Di Battista è inseguito dai sospetti. Sarà leale con lei?
«Alessandro è come un fratello. Non mi pongo alcun dubbio sulla sua lealtà, prima che a me al Movimento».
Ci saranno novità sulle restituzioni per fermare la fuga di parlamentari?
«Ai parlamentari offrirò coinvolgimento e partecipazione, ma chiederò rispetto reciproco e unità. Il taglio degli stipendi e la loro restituzione, per una politica più sobria e vicina ai cittadini, è da sempre una nostra battaglia. Modificheremo le procedure, ma il principio non cambia».
Lei umiliò Bersani in streaming. Ci si vede in quella «alleanza politica strutturale» con il centrosinistra a cui lavora Conte?
«All' epoca di Bersani facemmo l' unica cosa possibile in quel contesto. Non vorrei sentir parlare di alleanze strutturali, ma di progetti e idee per il bene dei cittadini».
Tornerebbe al governo con Salvini?
«No, per carità. Ha dimostrato di essere inaffidabile e codardo».
Farà pace con la stampa dopo la durezza su Radio Radicale e fondi all' editoria?
«Su Radio Radicale rifarei tutto, per rispetto delle regole. Non devo fare pace, perché non ho dichiarato guerra a nessuno. C' era solo la volontà di portare equità in un settore strategico».
Roberta Lombardi la definì «orsacchiotto» e Massimo Bordin «gerarca minore». Chi è Vito Crimi?
«Vito Crimi è quell' attivista che dal 2005 si è battuto per il taglio dei privilegi, l' acqua pubblica e per mille altre battaglie. Un cittadino che combatte per un Paese più trasparente e senza disuguaglianze. E che da viceministro dell' Interno ha dimostrato di lavorare con serietà».
Vito Crimi, una carriera nel M5s basata sulla fedeltà: conta zero, finge di fare il capo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Quando Mussolini nominò capo del Partito fascista Achille Starace, i camerati di lungo corso espressero le loro riserve: «O Duce, ma perché hai nominato Starace? È un cretino». «Sì, è un cretino ma è fedele», rispose lui. Ora, Grillo non è il Duce. E Vito Crimi, appena nominato Capo politico dei 5 Stelle dopo la dipartita di Di Maio e già invocante dalle colonne del Corriere della sera i "pieni poteri" con scatto impensabile per un "orsacchiottone" -copyright Roberta Lombardi- della sua mole, be' magari non sarà un cretino. Ma come mediocre è invincibile. E proprio sulla mediocrità, come sull' arte dell' abbozzare e sulla propensione ad adattarsi silente, dalle retrovie, al Palazzo fino a far parte delle mura stesse, Crimi ha pazientemente costruito la propria carriera. Una carriera non malaccio, bisogna riconoscerlo. Specie per un 47enne palermitano del Brancaccio con due mogli (la prima mollata per una compagna di partito) e due figli; e la pelata lucida e lo sguardo triste d' aspirante testa d' uovo inchiodato ad un lavoro modesto di cancelliere alla Corte d' Appello di Brescia e col rimpianto di non aver mai raggiunto la laurea in matematica. Però, come in un romanzo di Victor Hugo, ecco arrivare il lampo della Divina Provvidenza: nel 2013 Vito passa per caso -come tutti i candidati- dalla parte del Movimento 5 Stelle e viene risucchiato dal tornado, finendo in Parlamento. Due volte.
CONTRO I GIORNALISTI. La prima volta ve lo ricordate perché, nella mitica scena dello streaming in cui ci si divertiva a prendere a sberle Bersani, Crimi era quello cicciotto dal lessico incerto, seduto alla sinistra di Roberta Lombardi. La seconda volta che si sentì parlare di Vito fu quando, già sottosegretario a Palazzo Chigi con delega all' editoria, venne intercettato al telefono sulla considerazione che aveva dei giornalisti: «Sono un branco di deficienti e puttane che non vogliono lavorare, io li odio». E infatti Crimi fece il diavolo a quattro per tagliare i fondi alle testate, specie a quella Radio Radicale (il cui direttore, il compianto Massimo Bordin, lo riteneva «un gerarca minore») che si salvò in extremis dalla furia del novello Robespierre. Poi lo si ricorda per gesti atletici minori: un sonnellino tra gli scranni del Senato; l' aggressione verbale nel mezzo delle elezioni del 2014 («Ladroni leghisti!») ad un passante che aveva la sfiga d'indossare una camicia verde; l' affermazione «il M5S non è mai stato contro l' Europa» quando fu proprio lui, nel 2015, a consegnare al Senato 200mila firme per organizzare un referendum per l' uscita dall' euro. Cose così. Che l' hanno reso, per il periodo breve ma intenso di capogruppo al Senato, oggetto della satira tv del Glob di Enrico Bertolino in Rai: lì Crimi era una specie di Pulcinella dalle mani sudate che veniva preso a scudisciate dalla Lombardi versione fetish. Di sé, in curriculum, Crimi scrive: «Nessuna pendenza giudiziaria, nessuna condanna, nessun procedimento né penale né civile mai avviato nei miei confronti. Nessuna esperienza politica né alcuna carica pubblica. Nel 2010 candidato alla Presidenza della Regione Lombardia per il MoVimento 5 Stelle». La qual cosa potrebbe apparire di rara ingenuità, ma è la modalità di Crimi per confermare l' ottimo rapporto che da anni coltiva con la magistratura.
ALL'OMBRA. Poi basta. Pochissime apparizioni pubbliche, nessuna polemica interna o esterna, nonostante non ami né Conte né Zingaretti, abbastanza ricambiato. Bisogna riconoscere che, conscio dei propri limiti da mediocre di talento, Crimi non ha mai cercato i riflettori ed è tornato sempre a fortificarsi all' ombra del Capo. Chiunque fosse il capo. Più che il Kissinger di Di Maio, Crimi è lo Sbardella di Grillo: personalità rarefatta, fedeltà cieca, pronta e assoluta, efficienza indiscutibile. Per dire: dei dieci fondatori del Movimento in Lombardia Vito è l' unico rimasto in sella, gli altri sono scappati o espulsi. Ed è per tutto questo che l' ex assistente di tribunale a 1500 euro al mese oggi si ritrova a fare il Capo. Anzi, il "Reggente", che è diverso. Ad esser pignoli, oggi, il viceministro dell' Interno a cui la ministra Lamorgese non s' è mai sognata d' assegnare nemmeno la delega per fare il caffè (e ci sarà un motivo) confonde il ruolo di "reggente" -cioè di membro anziano del comitato di garanzia che dovrebbe entro 30 giorni indire nuove votazioni sulla piattaforma Rousseau- con quello di piccolo monarca. Che, in effetti, si attagliava perfettamente a Di Maio. Ma questi sono dettagli. Il quadro d' insieme è che Crimi, in queste ore, è entrato subito nella parte. Ha messo il faccione ferocemente pacioso nel comizio di chiusura dei Cinque Stelle a Cesena, insieme al candidato più sfortunato della storia pentastellata, Simone Benini. Ha pompato la faccenda del cuneo fiscale. E ha minimizzato sul M5S frammentato dalla diaspora e dai casini interni sostenendo, a fiero petto, che «il Movimento sta crescendo, sta riorganizzando se stesso, questo conta, non importa chi ci sarà dopo». Naturalmente "dopo" conta di esserci ancora lui; è una vita che ci lavora. Un particolare che dovrebbe far riflettere è che Crimi -come Renzi- è uno scout; e, fedele al motto scoutistico dell' estote parati, è sempre pronto. A cosa di preciso ancora non si capisce bene. Ma non sia mai, un' altra botta di culo...Francesco Specchia
Vito Crimi, Alessandro Giuli: rappresenta l'elettore medio del M5s e seppellirà il Movimento. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 24 Gennaio 2020. Vito Crimi è un gregario naturale nato per fare di conto e poco più. E di questi tempi il Movimento Cinque stelle ha un disperato bisogno di uno come lui, che sia per una reggenza da capoclasse o per traghettare a miglior vita - modello Caronte - quel che rimane della banda grillina dopo l' addio di Luigi Di Maio alla leadership politica per via delle batoste elettorali passate e presenti e future. Perché in Crimi il grigiore da matematico mancato si combina perfettamente con la divisa moralista dell' avanzo di sagrestia che ha fatto il capo scout. Tutto in lui evoca il tipo umano che a scuola faceva la spia alla maestra, divideva a metà la lavagna facendo l' inventario dei buoni e dei cattivi, comminava pene da inginocchiatoio fra i corridoi dell' oratorio e via così. Lo guardi in faccia, serioso barbuto e stempiato com' è, e te lo immagini subito con i pantaloncini corti e le scarpe correttive anche quando indossa la grisaglia da parlamentare (è entrato in Senato nel 2013 dopo un vano tentativo di scalare la regione Lombardia, tre anni prima, con 144.585 voti). Ciò detto, con quel poco di ragionevolezza pentastellata già impegnata sui fronti caldi governativi nelle persone di Vincenzo Spadafora, Stefano Buffagni e Stefano Patuanelli, il meglio in circolazione nelle stanze sbertucciate del grillismo al tramonto è proprio lui: Crimi Vito da Palermo, già assistente giudiziario alla Corte d' Appello di Brescia, il quale peraltro da settembre scorso fa il viceministro dell' Interno anche se nessuno se n' è ancora accorto.
IMPERMEABILE. In realtà lui s' era fatto notare nel precedente governo nazionalpopulista di Giuseppe Conte, quando insieme con la Lega voleva salvare la Patria dallo strapotere delle burocrazie europee e dai loro terminali italiani annidati nel Pd, ovvero il «partito di Bibbiano». Ligio al mandato ricevuto da Beppe Grillo e Davide Casaleggio, allora Crimi faceva il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con deleghe alle aree sismiche italiane e all' editoria (e qui spesso le due cose coincidono). Da quest' ultima prestigiosa postazione ingaggiò un furibondo scontro per limitare l' appannaggio pubblico di Radio radicale. Ne nacque una tempesta mediatica e il compianto Massimo Bordin ritagliò intorno a Crimi la tranciante definizione di «gerarca minore». Ma lui, impermeabile a ogni bastonatura circense e alla maldicenza dei salotti perbene o di quelli in odore di clandestinità, andò avanti finché possibile (poco) salvo poi scomparire dai radar dell' editoria dopo il ribaltone estivo di Palazzo. Insomma, sotto la crosta inespressiva della sua finta bonomia (la rocciosa sua collega Roberta Lombardi lo chiama «Vito orsacchiotto Crimi»), non gli fa certo difetto il realismo. Per altri, meno generosi di noi, si tratta invece di un cronico stato confusionale che nel tempo l' ha portato a votare, per sua stessa ammissione, da Rifondazione Comunista ad Alleanza Nazionale passando per Italia dei Valori, Verdi e Ulivo: «Ho votato molto per le persone, votavo per le persone che ritenevo valide e che mi convincevano. Prima si poteva fare questo esercizio delle preferenze». E che cos' è, questa, se non la traiettoria standard dell' uomo comune o dell' elettore medio pentastellato?
CARONTE. Ecco dunque una buona ragione per la quale il profilo di Crimi corrisponde all' identikit ideale del fedele Caronte che intruppa gli effettivi di un Movimento oltretombale e fa lo spartitraffico tra il Tartaro e i Campi Elisi. L' obolo lo paga Di Maio, che ha perso il controllo dei gruppi parlamentari e la benevolenza di Grillo ma non è comunque disposto a farsi da parte come un principino senza corona con la sindrome del Conte di Montecristo da Pomigliano. Perfino per Crimi le insidie non mancheranno: con Alessandro Di Battista destinato a rientrare dal viaggio in Iran carico a pallettoni; con i ministeriali sopra citati in crescita ponderale; con la necessità di mettere su entro marzo un progetto di Stati generali grillini che non appaia come un lascito testamentario. Ma attenzione: in quest' ottica Crimi potrebbe rivelarsi la persona giusta al posto giusto. La sua aura di quietismo timido e puritano lo tiene distante dai proclami ingenui ai quali è stata impiccata la leadership dimaiana, del genere abolizione della povertà e altre roboanti amenità, per capirci. In un mare politico solcato da uragani, affidarsi al contabile Crimi significa irrobustire le retrovie, salvare e consolidare il salvabile, dare un segnale di lasca discontinuità senza dotarsi d' una tattica precisa e perciò senza ipotecare la prossima strategia.Dopodiché, fatte le debite proporzioni, il caso di Nicola Zingaretti nel Pd dovrebbe fungere da lezione: era l' usato sicuro al quale consegnare un partito allo sfascio, si è rivelato un tenace tessitore di potere perfino suo malgrado e adesso assicura che non mollerà la poltrona di segretario nemmeno se la destra gli sfilerà l' Emilia-Romagna (presto verificheremo). In mancanza di meglio, il meno peggio ha sempre un futuro davanti. Alessandro Giuli
M5s, Di Maio si è dimesso da capo politico: «Ecco perché lascio». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it Alessando Sala. «Oggi si chiude un’era. Sono cambiati i punti cardinali della politica, ma noi non vogliamo essere il nuovo nord o il nuovo est. Noi vogliamo essere la bussola». Lo ha detto Luigi Di Maio, parlando a margine della presentazione del «Team del futuro», la nuova organizzazione basata sui facilitatori regionali che il M5S si è data per affrontare la nuova fase di vita del Movimento. Di Maio ha ricordato i primi dieci anni di vita di quella che definisce una «forza visionaria unica al mondo». Ha enfatizzato i risultati ottenuti, le «leggi che hanno cambiato in meglio la vita degli italiani». E ha promesso: «Anche se il Paese è cambiato, ed è cambiato anche grazie a noi, continueremo ad essere l’incubo di analisti finanziari e politici. E lo saremo ancora, non è finita qui». «Sappiamo bene che il Movimento è nato per scardinare il potere costituito — ha detto ricordando le battaglie appoggiate, come No Tav, no Tap, vitalizi e le concessioni autostradali —. Stando al governo abbiamo scoperto quanto sia difficile. Abbiamo resistito, con fatica, per essere dalla parte degli italiani e non dei privilegi». Ha poi riconosciuto che alcuni obiettivi non sono stati raggiunti, per mancanza di condizioni o di vincoli creati da altri in passato. «Tutto si può fare se programmato con realismo, ma non certo in pochi mesi. Ecco perché il Movimento 5 Stelle non può essere giudicato per 20 mesi al governo. Dobbiamo pretendere di essere giudicati almeno alla fine dei 5 anni della legislatura, perché serve tempo per rimettere in ordine i disordini creati da chi c’era prima. Ecco perché il governo deve andare avanti». «Preferisco passare per ingenuo piuttosto che da imbroglione —ha poi sottolineato ricordando il «tradimento» dell’alleato leghista, pur senza citarlo —. Ho sempre agito nell'interesse degli italiani. Noi ci siamo fidati sempre del popolo. Se il Movimento non credesse più nel prossimo non avrebbe più ragione di esistere. Io mi fido di te dovremmo dircelo più spesso, dovrebbe essere scritto ovunque». «Abbiamo approvato 40 leggi in 20 mesi realizzando parte del programma — ha ricordato elencando i provvedimenti simbolo approvati con due diversi governi —. Ci eravamo illusi che questo portasse più voti . Credo che l’insieme di queste leggi e di quelle da approvare creeranno una nuova comunità». «Farci apparire divisi, pasticcioni e autoreferenziali — ha aggiunto — è stato il miglior modo per attaccarci anche perché diversamente da altri non avrebbero mai potuto farci apparire mafiosi, disonesti e ladri». E dopo avere ricordato tra gli altri il provvedimento sul reddito e sulle pensioni di cittadinanza e sul decreto Diginità, ha messo l’accento sulla legge per l'abolizione della prescrizione, oggetto di acceso dibattito nella maggioranza: «Dalle leggi che abbiamo approvato non si può tornare indietro. Se proveranno a cancellare la legge anticorruzione, prescrizione o reddito di cittadinanza ci saranno migliaia di persone in piazza per impedirlo. E io sarò con loro». Ma, ha riconosciuto, anche nel M5S c’è stato chi ha lavorato a questo per ottenere visibilità personale e che anche nei territori «molti nostri sindaci sono stati buttai giù dal fuoco amico dei nostri stessi consiglieri. I nostri nemici sanno come attaccarci e se non siamo uniti permetteremo loro di farlo». Nemici anche interni: «Qualcuno è salito sul nostro carro solo per convenienza, qualcuno ha tradito la fiducia per interessi personali. Ci sono quelli che hanno messo se stessi prima el Movimento: l’unica soluzione è stata allontanarli».
Il grande bluff delle dimissioni di Luigi Di Maio. L’Inkiesta 23 gennaio 2020. L’addio del capo politico dal M5s è una mossa tattica per prendere le distanze dai nodi più ingarbugliati e poi ritornare più forte che mai. Perché non esiste una leadership alternativa alla sua. E soprattutto perché, finché c’è Casaleggio, non succederà proprio niente. Questa volta non è uno scherzo, Luigi Di Maio una strategia ce l'ha. E nelle stesse ore in cui lascia la carica di capo politico ha messo sulla scacchiera le sue pedine dando il via a una nuova partita, la sua. Qui possiamo dargli un titolo: lascia e raddoppia. Troppo incancrenita la situazione per restare, troppi nodi ingarbugliati, troppi colpi da parare. Dopo l'elezione del 2017, plebiscitaria e senza nessun vero competitor, il ministro degli Esteri ha capito di aver bisogno di una nuova legittimazione. Ed ecco allora il colpo di teatro, «sono io a dimettermi, e vediamo chi tira fuori la testa e cosa vuole fare del Movimento». Una sfida dunque. Pensata a lungo. Così a lungo che nel suo stesso staff non tutti erano d'accordo. Altro che addio, è un arrivederci a una data precisa, in un luogo preciso: marzo, agli Stati generali di quello che ancora chiamiamo Movimento e invece è un partito: PDC, il partito DiMaio-Casaleggio. Lo dice chiaramente nella conferenza stampa: «Io ci sarò». Luigi Di Maio non è l’ex-capo politico: rimane il co-fondatore del brand made in Casaleggio. Ed è con Davide che ha compiuto la scalata, passo dopo passo, fino a dividersi casella dopo casella tutti i posti disponibili nella nomenklatura a Cinque stelle. Si è disfatto, alcuni dicono «con gioia», delle eterne diatribe assembleari per ritornare dopo che il campo sarà "pacificato". E intanto vedere l’effetto che fanno le sue mosse. Ha giocato a specchio nelle ultime settimane di stillicidio a mezzo stampa - si dimette? non si dimette! - ha osservato il campo. I parlamentari criticano Rousseau? E io tolgo i fondi alla creatura di Casaleggio. Un pannicello caldo, ovvio: il ruolo di Casaleggio rimane al momento inamovibile. Segnare i confini. Di Maio ha fatto sapere di aver proposto a Chiara Appendino un ticket insieme. Bella mossa. La borghese Appendino in caduta libera a Torino ma sempre nel cuore dei fan e sopratutto dell'altro co-fondatore. Questi due mesi che ci dividono dal primo vero, fisico, congresso a Cinque stelle saranno per lui un allenamento. Ci saranno sfidanti? E su quali basi? La risposta che arriva dal corpaccione del gruppo parlamentare e pressoché univoca. «È pura tecnica e tattica, Luigi sa che non c'è una leadership alternativa. Entrerà agli stati generali al pari di tutti, riposato e con la struttura nelle sue mani per poi essere confermato». Cambiano le parole, di parlamentare in parlamentare, ma il senso è questo. E c'è chi aggiunge: «Il Movimento è di quei due, non ci sono dubbi». Ecco, se ci fosse davvero un’opposizione interna, radicale, l’obiettivo, il bersaglio “grosso” sarebbe proprio Casaleggio, il Dominus che si definiva «un tecnico che dà una mano». Non ci crede più nessuno. Ma chi potrebbe riuscire a staccarsi dalla Casa Madre, da Rousseau? Chi riuscirebbe a conquistare le centinaia di firme per innescare uno scisma contro il Papa milanese? Chi potrebbe avere i numeri per imporre a Casaleggio sui suoi server il distacco? È più facile immaginare che il Dominus decida di cambiare il suo frontman, il suo amministratore delegato. Perché tecnicamente è impossibile separare Rousseau dal Movimento. Mentre i fari stanno puntati a Roma, come sempre le cose del Movimento succedono a Milano. Ed è lì che bisogna guardare. Di Maio ha tanti vantaggi, oltre ad essere il co-fondatore. Non solo ha la struttura dalla sua parte, non solo conosce il “suo” partito come nessuno, non solo ha Casaleggio dalla sua parte. Ma il vantaggio più grande è la legge elettorale prossima ventura per la quale ha stretto un accordo di ferro con Nicola Zingaretti. Il sistema proporzionale fortifica il suo progetto: nessuna alleanza strategica con il Pd, nessuna scelta di campo come vorrebbero in tanti, fare del Movimento l’ago della bilancia. È questa la linea. Di Maio non ha mollato, si è preso due mesi di tempo per strutturare il Movimento e farlo diventare sempre più suo. Certo, il sistema mediatico è in grande spolvero. Prima inventa Conte come statista, poi le Sardine come soggetto politico. Il terzo capolavoro sarà far diventare il Movimento una costola del Pd. O il Pd una costola del Movimento. Di Maio avrà buon gioco con queste carte nell’assise di marzo. La stella di Giuseppe Conte presto o tardi calerà. Rimane a Palazzo Chigi per una serie irripetibile di emergenze e coincidenze. Ma davvero alzi la mano chi immagina che Di Maio possa abbandonare la politica alla scadenza del suo secondo mandato, ben prima di aver compiuto 40 anni.
Sprechi, danni e mancette: ora ci deve ridare 12 miliardi. Tra assistenzialismo, crisi aziendali e staff gonfiati, ecco la pesante eredità di Di Maio, leader e ministro. Giuseppe Marino, Giovedì 23/01/2020 su Il Giornale. Ventiquattro anni. Tanto ci volle a Bettino Craxi per arrivare dalla prima tessera del Psi a segretario del partito, come nota Fabio Martini nel suo Controvento. Luigi Di Maio ne ha impiegati dieci esatti dalla fondazione del meetup di Pomigliano all'elezione a capo politico del M5s nel 2017. Ma, al di là delle cattiverie snobistiche sul salto dallo stadio San Carlo a Palazzo Chigi, colpisce che Craxi restò segretario del partito per diciassette anni. La stella di Di Maio potrebbe essere sorta e tramontata in tre anni. L'uomo di Pomigliano resta pur sempre ministro degli Esteri, ma certo il futuro non pare roseo. E nonostante la rapidità del suo passaggio nel firmamento della politica, gli effetti deleteri sembrano tutt'altro che passeggeri o imponderabili. Se si dovesse presentare a Di Maio il conto dei provvedimenti che si è intestato, verrebbe fuori una fattura decisamente salata. A partire dai sette miliardi del reddito di cittadinanza. Della distanza siderale tra le intenzioni dichiarate sul balcone di Palazzo Chigi («abolire la povertà») e gli effetti reali (un pasticcio che al momento crea zero lavoro e alimenta il parassitismo, raramente risolvendo davvero i problemi di chi ha bisogno) si è già scritto tutto. Restano da valutare le ripercussioni future, a partire dalla diffidenza che il crollo inevitabile del reddito di cittadinanza creerà verso questo tipo di sistemi di welfare. Ed è proprio sul versante del lavoro che «l'effetto Di Maio» ha un bilancio più in rosso. Quanto dovrebbe sborsare l'ex capo politico se dovesse riparare alla gestione disastrosa del ministero del Lavoro e di quello dello Sviluppo, che guidava in epoca gialloverde. Come indicatore si può prendere la cassa integrazione: al suo insediamento a giugno 2018 erano state autorizzate 19,3 milioni di ore di Cigs. Un anno dopo, a giugno 2019, due mesi prima del crollo del governo M5s-Lega, la Cigs era salita del 42 per cento a 27,6 milioni di ore. Stesso andamento per le crisi aziendali, la cui gestione è in capo al Mise. I tavoli con le aziende in difficoltà erano 144 a giugno 2018. Un anno dopo, a giugno 2019, erano aumentati a 158. I casi più lampanti, Alitalia e Ilva, sono diventati simboli di una incapacità di prendere decisioni e di essere efficaci. Fu proprio Di Maio a chiudere l'accordo con ArcelorMittal gloriandosi di aver «risolto in tre mesi» la crisi dell'Ilva che si trascinava da anni sotto il centrosinistra. La storia poi è andata come sappiamo: si è sfiorata la chiusura della principale acciaieria italiana. E che dire di Alitalia e della meravigliosa idea di affidarla a un partner pubblico? Il dossier ancora aperto costa due milioni di euro al mese. Nel solo periodo in cui Di Maio è stato ministro del Lavoro e dello Sviluppo, Alitalia ha perso circa 900 milioni, coperti dai cosiddetti prestiti ponte. Ma il vero paradosso di questa parabola politica è che il leader del movimento anticasta si è fatto notare anche per le ingenti spese di gestione. Al Mise e al Lavoro ha piazzato un lungo elenco di amici del liceo, vicini di casa, ex grillini trombati alle elezioni. Uno staff gigante il cui costo è stato stimato in circa un milione di euro l'anno. Passato agli Esteri, ha messo su uno staff grande il doppio di quello di Alfano: costo 711mila euro l'anno. In totale il «costo Di Maio» ammonta dunque a oltre 8 miliardi. Aggiungendo i 3,5 potenziali quantificati dal tribunale come costo se chiudesse Ilva, si può arrotondare a 12 miliardi totali. Di Maio, come la mettiamo? Rimborsa a rate?
Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 22 gennaio 2020. Corre veloce il Movimento 5 Stelle. Ma quando si va veloci si rischia seriamente di sbattere. E i segni sono più che evidenti, a partire dall' inarrestabile flessione elettorale. Esattamente come ha corso velocissima la carriera di Luigi Di Maio, da quando faceva lo steward allo stadio San Paolo a leader del M5S, vicepresidente del Consiglio del governo Conte 1 e titolare della Farnesina nel Conte 2. Adesso, una notevole accelerazione arriva a smuovere anche quello che era stato finora il granitico immobilismo del suo potere dentro il partito-movimento, obbligandolo a smettere di essere «uno e trino» (capo politico, tesoriere e ministro). Stando alle voci che si rincorrono da ieri, Di Maio, starebbe così meditando una sorta di dantesco «gran rifiuto». Pochi giorni fa c'era stato l'annuncio della dismissione della carica di tesoriere, ora gira addirittura l'ipotesi delle dimissioni da capo politico, con la consegna della guida pro tempore del M5S a un'altra figura di traghettatore che lo dovrebbe accompagnare agli Stati generali di marzo. Formalmente per gli impegni come ministro degli Esteri, ma come consapevolezza della loro delicatezza e gravità appare, in effetti, un po' troppo a scoppio ritardato. E, dunque, si tratta piuttosto di una mossa per prevenire (e alleggerire) il dissenso che, presumibilmente, diventerà esplosivo dopo i verdetti delle regionali di domenica prossima in Emilia-Romagna e Calabria. E appare come una specie di chiamata alla corresponsabilità e alla correità - che è ciò a cui pensava davvero nelle rare occasioni in cui ha parlato di «gestione collegiale» - degli altri esponenti del mai formalizzato vertice grillino, che stanno affilando le lame per l'ennesima notte dei lunghi coltelli del 26 gennaio. Perché Di Maio, l'accumulatore seriale di cariche, è il naturale capro espiatorio della potenziale ennesima Caporetto a 5 Stelle, e punta in tutta evidenza alla salvezza personale all' interno di quel Palazzo d'inverno pentastellato che da monolite si è praticamente convertito in un fluido gassoso. O in un nebuloso Palazzo nell'accezione pasoliniana, dove le idee sul che fare divergono e i conflitti tra i primattori divampano. Spannometricamente, la contesa è fra tre percorsi. La discontinuità: il disegno «visionario» e movimentista di Beppe Grillo - l'unico, giustappunto, con una vision in qualche modo di prospettiva - di un'alleanza stabile con il Pd in vista di una fusione-ibridazione, e della nascita di una «Cosa giallorossoverde» (una semaforica sinistra postmoderna). La tradizione: il modello dell' azienda-partito digitale di Davide Casaleggio, imperniato su una perdurante centralità della piattaforma Rousseau, che si rivela però sempre più in difficoltà (anche per l' insofferenza dilagante nei gruppi parlamentari rispetto all'«obolo» da versare). La continuità a geometrie variabili: l'opzione del «governismo ontologico» con partner differenti, quella strategia di sopravvivenza in cui si compendia il dimaismo. Che, sebbene di preferenze sovraniste, è, innanzitutto, Realpolitik e gestione del potere a prescindere, e punta a rimandare la resa dei conti all' appuntamento degli Stati generali, dove negli auspici si dovrebbe compiere in quattro e quattr' otto (la velocità, ancora) la metamorfosi del M5S da «non-partito» populista anticasta a cartel party (ovvero partito che ricorre al controllo delle risorse pubbliche e alla posizione di governo per mantenere il proprio ruolo nel sistema politico). Sperando di poter contare, di nuovo, sull' assenza di alternative (nella fattispecie di formule organizzative) e sulla debolezza dei competitor diretti. Ma, come evidente, si tratta di tre progetti poco (o per niente) conciliabili, per l' appunto. Al pari di vari altri esponenti della generazione dei trenta-quarantenni che calcano in questi anni la scena pubblica, Di Maio si è formato sul modello politico-comunicativo della triade «T-r-t», che significa «televisione-rete-territorio» (nel suo caso, quello dei meet-up grillini delle origini e della fase pionieristica). Aveva esordito, infatti, dalla sua Pomigliano d'Arco fondando nel 2007 un meetup grillino e, bruciando una tappa dietro l'altra, si era ritrovato vicepresidente della Camera dei deputati appena sei anni dopo. Beneficiando di un occhio molto di riguardo da parte dei padri fondatori, nel 2017 era stato intronizzato come capo politico, e da leader esclusivo e accentratore ha alimentato una crescente fronda di scontenti, alcuni dei quali, negli ultimi mesi, hanno fragorosamente sbattuto la porta e lasciato il M5S. Facendo nel frattempo la sua stella polare di un' altra «t», poiché «T-r-t» vuol dire anche «televisione-rete-tatticismo». La possibile «strategia del passo indietro» del finora instancabile collezionista di incarichi coincide, difatti, con la mossa tattica del temporeggiare per poi rilanciarsi e riafferrare le redini di una formazione ormai perennemente sull' orlo della crisi di nervi. Un segnale della sua adattabilità e flessibilità (un autentico «doroteismo 2.0», anzi «4.0») per cercare di restare in sella. E, al medesimo tempo, un manifesto della parabola piena di paradossi e contraddizioni di un' organizzazione nata antipolitica e quale «partito anti-partito» che si dirige alla velocità della luce in tutt' altra (e comunque confusa) direzione. «Dimma» si fa "piè veloce" e prova a portare un po' di guerra di movimento nella palude di un Movimento balcanizzato da una sorta di hobbesiana guerra di tutti contro tutti, dove il malcontento è cresciuto in maniera esponenziale insieme alle ambizioni personali di tanti ex pasdaran del mantra dell'«uno vale uno». E che si è molto scottato al cospetto di tutta una serie di questioni che dimostrano come destra e sinistra non siano esattamente categorie interscambiabili neppure nel bel mezzo dell' età postmoderna, e che i problemi devono essere affrontati - e, sperabilmente, risolti - mediante politiche di orientamento conservatore oppure progressista. Vale a dire: «aut-aut» e non «et-et», come vorrebbe una certa narrativa furbesca del postideologismo e dell' essere oltre la dicotomia che ha fondato la politica nella modernità. E, più in generale, il Movimento si è ustionato di fronte a quella prova di responsabilità (e a quel bagno di realtà) che impone l' esercizio del governare, pratica alquanto differente dal mero desiderio del comando. Ultimissimo esempio: Virginia Raggi che prospetta una nuova discarica a Monte Carnevale, e viene sconfessata da un' ampia frazione del suo gruppo consiliare. Penultimi esempi: il Di Maio che non riuscì a chiudere nessun tavolo di crisi significativo da ministro dello Sviluppo economico del governo gialloverde, e il Di Maio travolto dalla crisi libica dell' esecutivo giallorosso. E, arrivati sin qui, non è affatto detto che basti una mossa del cavallo.
Da vincente a zavorra. E la Casaleggio lo cestina. Un caso di "obsolescenza programmata": ha svolto (male) i suoi compiti, ora lo disinstallano. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Alla fine tutto è andato come era ampiamente previsto. Dopo averlo programmato, gli stregoni della Casaleggio Associati, hanno deciso di disinstallarlo, così come si fa con una qualunque app. Era tutto nei piani. In tecnologia si chiama obsolescenza programmata. Ecco, ora questo concetto, rientra anche nel campo della politica. Tra poche ore Luigi Di Maio annuncerà, come sostengono più fonti, le sue dimissioni da leader dei 5 Stelle. Con un Movimento in perdita costante di consensi e sempre più parlamentari allo sbando, serve un capro espiatorio. Di Maio è perfetto. Prima era il volano del partito, ora è la zavorra. Nel 2007 apre il primo meet up dei Cinque stelle a Pomigliano d'Arco, nel frattempo vende bibite allo stadio San Paolo. Si presenta alle parlamentarie per le elezioni politiche del 2013 e vince con 189 preferenze racimolate online. È l'inizio di una carriera fulminante, da vero e proprio enfant prodige. Viene eletto deputato e il 21 marzo del 2013 diviene vicepresidente della Camera deputati, è il più giovane nella storia della Repubblica a ricoprire questo ruolo. Per Casaleggio è l'uomo perfetto: volto pulito e implume, capelli corti, ha la faccia da bravo ragazzo e sul viso gli si allarga sempre un candido sorriso. Sempre, Anche nei momenti più drammatici. Qualcuno avanza il dubbio che non si accorga di quello che gli succede intorno, ma il personaggio funziona e piace. Non urla quasi mai, non dice parolacce. Se Grillo è uno sbraitato «vaffanculo», Di Maio è un sommesso «per favore». Ma per entrare nei palazzi e nella pancia del Paese è la persona giusta. Non ha alcuna capacità politica ma questo ai suoi burattinai poco importa: è la maschera presentabile di un partito impresentabile. La corsa è inarrestabile: nel 2017 è capo politico e candidato premier del Movimento. Alle elezioni del 2018 il Movimento è il primo partito e lui una star contesa da talk show e giornali. Il resto è storia nota: nel primo governo Conte è vicepresidente del Consiglio, ministro del lavoro e dello sviluppo economico. Ha trentadue anni. Ma è proprio qui che inizia il suo declino. L'abbraccio con l'altro vicepremier, Matteo Salvini, è mortale. Non regge il confronto. Di Maio sbiadisce, evapora lentamente come una bottiglia di acqua frizzante lasciata senza tappo. Luigino e i Cinque stelle perdono la strada maestra, non riescono più a recuperare la loro identità e vanno a traino dell'alleato leghista. Gli elettori se ne accorgono e fuggono, nel giro di pochi mesi, il Movimento perde la metà dei propri consensi. Ed è una emorragia senza sosta. Ha dilapidato tutto. Nonostante sia riuscito a portare a casa il punto cardine del suo programma: il reddito di cittadinanza. Una misura scellerata ma che fa berciare a Giggino, con sprezzo del ridicolo, «abbiamo sconfitto al povertà». È la famosa scena del balcone e da lì inizia la caduta. Nel frattempo Di Maio dispensa gioie a cronisti e imitatori, è un gaffeur perfetto. Sbaglia congiuntivi in continuazione, chiama Ping il presidente cinese Xi Jinping e sposta Pinochet dal Cile al Venezuela. In un Paese normale uno così non supera un esame di storia e geografia, in Italia no: infatti nel secondo governo Conte, per evidenti meriti sul campo e manifesta conoscenza della materia, diventa ministro degli Esteri. Ma Di Maio non ci lascia solo le sue gaffe, ci lascia anni di governo disastroso: un reddito di cittadinanza da 7 miliardi all'anno e non ha prodotto un posto di lavoro, una disoccupazione alle stelle e una totale mancanza di politica industriale prima (ha lasciato più di 150 tavoli di crisi aperti) ed estera poi, come dimostra la questione libica. Ora, a trentatre anni, finisce la sua brillante ascesa politica. Ma sarebbe sbagliato attribuire a Di Maio tutte le colpe del grillismo: la delegittimazione della politica, l'amore per lo statalismo e le tasse, l'esaltazione dell'incompetenza, il disprezzo per gli imprenditori e il capitale e le ossessioni ecologiste e passatiste. Di Maio è un hardware nel quale Grillo e Casaleggio hanno innestato il loro software, il loro delirante programma politico. Ed è quello ad avere un virus. Un virus che da Di Maio passerà al suo successore, perché il problema non era Di Maio, ma il grillismo stesso. Ora al povero Gigino daranno le colpe di tutto lo sfacelo degli ultimi anni, verrà resettato senza nemmeno fare un backup, per dissolverne velocemente la memoria. E lo cestineranno, come un robot qualsiasi. Via, nella spazzatura, ma facendo scrupolosamente la differenziata.
DAGONEWS il 22 gennaio 2020. L'addio al ruolo di capo politico – che su questo sito abbiamo anticipato mesi fa – è l'ennesima crepa nel già fratturato rapporto tra Di Maio e Grillo. L'Elevato gli aveva fatto capire dopo poche settimane di evidenti difficoltà, che non poteva continuare a mantenere i piedini in due scarponi, quello di guida del M5S e di Ministro degli Esteri. Chiedergli di ''accogliere'' qualcuno che potesse affiancarlo nella gestione quotidiana era come chiedergli di fare il famigerato passo indietro. Solo che nell'ultima conversazione gli aveva chiesto di aspettare quanto meno le elezioni in Emilia-Romagna, e possibilmente gli Stati Generali del Movimento che si terranno il 13 marzo, l'occasione giusta per nominare il nuovo gruppo dirigente. Luigino invece ha capito che era una mossa per incastrarlo, per costringerlo a ciucciarsi la sicura sconfitta alle regionali e presentarsi al congresso da capo politico dimissionario che nel discorso di apertura è costretto a fare l'analisi della sconfitta, una roba da vetero-sinistra che l'ex bibitaro non voleva certo emulare. Dimettendosi ora, non sarà lui il traghettatore degli Stati Generali, ma sarà il reggente (Vito Crimi) a dover mettere la faccia sul tracollo dei consensi per i 5 Stelle. Di Maio potrà così presentarsi come il leader di una corrente interna, anche se tutta da ricompattare. Ma non sarà difficile radunare gli scettici dell'accordo con il Pd, che Luigino non ha mai voluto, e dell'irresistibile ascesa di Conte come leader in pectore del Movimento. Ma quand'è che si apre la prima grande frattura tra Di Maio e Grillo? In quei caldi giorni d'agosto in cui Salvini aveva fatto cadere il governo e, con una certa disperazione, aveva offerto a Luigino il ruolo di Presidente del Consiglio. L'alternativa era l'accordo offerto da Renzi sulle pagine del ''Corriere'' e Di Maio temeva, giustamente, che il Pd avrebbe finito per assorbire i 5 Stelle usando Conte come grimaldello. E poi, ovviamente, c'era l'ambizione sfrenata di potere che lo avrebbe portato a Palazzo Chigi a 32 anni. In quel momento anche i suoi compagni di partito più fidati, ovvero Bonafede e Spadafora, lo mettevano in guardia dal consegnare il M5S nelle mani di Salvini in cambio della poltrona più ambita. Beppone, al pari di Travaglio, voleva a tutti i costi l'accordo coi dem per liberarsi dell'odiato Salvini, e quando ha visto il discepolo accecato dall'ambizione, ha cambiato radicalmente approccio con lui. Lo accusa di non avere visione politica, di pensare unicamente ai suoi interessi e non a a quelli del Movimento. Di Maio si è quindi trovato sempre più isolato, e nel neonato governo è andata come temeva: Zingaretti ha stretto un accordo solidissimo con Giuseppi, Grillo ha smesso di proteggerlo come un tempo, e il suo doppio ruolo è stato quotidianamente delegittimato da fronde e frondine. Dalla sua parte resta Casaleggio, un altro che sguazzava nell'alleanza coi leghisti e aveva promesso al padre ''Mai col Pd''. L'Erede della Srl è però indebolito dalla guerra scatenata dai suoi stessi parlamentari contro Rousseau e i rimborsi (oggi se ne sono andati altri due parlamentari morosi), e pure da quella scatenata da tutti gli altri per i suoi evidenti conflitti d'interessi (Onorato, Huawei, Facebook…). L'abbandono della leadership da parte di Luigino è dunque un altro colpo che non ci voleva, mitigato dall'arrivo del reggente Crimi, da sempre un suo fedelissimo. Ma riuscirà il sottosegretario a essere confermato capo politico durante gli Stati Generali? In ogni caso, la decisione di lasciare il posto Di Maio l'aveva presa da un po', insieme ai due fedelissimi Carmine America e Augustarello Rubei, e avrebbe voluto annunciarla tre giorni fa, ma il vertice sulla Libia a Berlino ha ritardato i piani. Ovviamente, paga anche l'opposizione del ''Fatto Quotidiano'', che insieme a Grillo ha spinto fortissimo per stringere l'accordo con il Pd e liberarsi del Capitone. È stato il giornale a sparare in apertura la notizia delle sue dimissioni, pochi giorni fa. Dimissioni che erano nell'aria, ma quel titolo era una lettera di licenziamento da parte del giornale più vicino al premier e all'Elevato. E allora Di Maio ha pensato: se loro non rispettano il protocollo, non lo farò neanche io. Anticipando tutto a quattro giorni dal voto regionale. Tiè!
Da ilfattoquotidiano.it il 31 gennaio 2020. Passate le elezioni Regionali, il capo politico reggente del M5s Vito Crimi ha riaperto il dossier sanzioni per le mancate restituzioni dello stipendio da parte degli eletti del Movimento. Oggi è stata comunicata l’espulsione della deputata Flora Frate, parlamentare al primo mandato eletta in Campania, che a inizio gennaio aveva giustificato il suo ritardo nei rimborsi dicendo di volere “trasparenza” sulla destinazione e sulla gestione della piattaforma Rousseau. Secondo il sito tirendiconto.it, nel 2019 Frate non si è mai tagliata l’indennità percepita mensilmente. “Mi è stata comunicata l’espulsione dal Movimento 5 stelle.”, ha scritto in queste ore sul suo profilo Facebook. “Ne prendo atto e mi spiace. Per loro, si intende. Devo al M5s un atto di fiducia nei miei confronti, che io ho provato a ricambiare portando nel Movimento proposte, contributi, argomenti, sensibilità. Ma questo, mi pare palese, non è servito ad essere considerata una risorsa; si preferisce, credo, un esercito di silenti esecutori“. Frate ha anche risposto a chi ne criticava le “assenze”: “Trovo disgustoso che, tra le motivazioni a sostegno del provvedimento di espulsione, si annoverino mie presunte assenze”, si legge ancora nel post. “E non solo per una specifica condizione di diritto che mi consente di fruirne, ma, ancor di più, per la totale mancanza di rispetto del nostro lavoro. Un parlamentare non è un dipendente del partito, ma rappresenta la Nazione intera. Il nostro dovere è quello di non perdere il contatto coi territori, non abbandonare la gente, irrobustire il confronto e sperimentare ostinatamente la ricerca della sintesi. Qualcuno, invece, ritiene che si debba starsene rintanati negli uffici romani. E gli effetti si vedono”. Secondo Frate, il problema del M5s è quello di aver abbandonato i territori: “Da circa due anni il M5s perde sistematicamente voti, in modo irreparabile. Forse non bastano quei tanto sbandierati 40 provvedimenti se poi, come sulla #scuola, si lancia una crociata ideologica contro i precari, additando i sindacati di colpe e responsabilità inesistenti. Avessimo ascoltato di più i cittadini, rinunciando a tanta spocchia salottiera, proponendoci di risolverli i problemi piuttosto che imporre la nostra visione, si sarebbe potuta arrestare questa inesorabile china”. Frate ha quindi concluso dicendo di essere stata attaccata dai suoi colleghi: “C’ho provato a fare la differenza, ce l’ho messa davvero tutta, anche sopportando pesanti aggressioni verbali. Solo pochi giorni fa ho espresso le mie idee in vista degli Stati Generali, auspicando un confronto autentico ed inclusivo. Mi sono sbagliata. Evidentemente, alcune decisioni sono già prese e non si vuole ascoltare chi ha una posizione alternativa”. E ha chiuso: “Da oggi potrò sostenere le mie tesi con ancora più forza e convinzione. A cominciare dalla scuola e dalla #lotta dei #precari. Provo rammarico per alcuni compagni di viaggio coi quali ho lavorato bene e che forse, chissà, incontrerò in percorsi nuovi e più stimolanti”. Dopo l’esame del dossier “rendicontazioni” da parte del collegio dei probiviri sarebbe passato all’attenzione del nuovo capo politico a cui spetta il compito di controfirmare i provvedimenti. L’intento di Crimi sarebbe quello di cercare di ricomporre la spaccatura che si è creata nel M5s con chi si è detto restio a “rendicontare” per ragioni di principio. In molti tra quelli finiti nel mirino hanno iniziato a saldare il loro debito, ma sono ancora una manciata i parlamentari M5s che non hanno versato nulla per tutto il 2019, oltre quelli che sono già passati al gruppo Misto. Per loro sarebbe in arrivo l’espulsione mentre dovrebbero essere solo un paio quelli che sono ancora nei gruppi M5s e a cui dovrebbe arrivare la sanzione massima. Per gli altri l’ipotesi è di far ricorso a misure alternative, come la sospensione o il richiamo. Tra chi non ha versato nulla figurano ancora i deputati Nicola Acunzo, Paolo Niccolò Romano, Andrea Vallascas e al Senato Alfonso Ciampolillo e Mario Michele Giarrusso.
M5S, espulso Rizzone: coinvolto tra i “furbetti del bonus”. Notizie.it il 18/09/2020. Marco Rizzone è stato espulso dal Movimento 5 Stelle. L'ufficialità in una nota dei grillini. Il deputato: "Andrò fino in fondo". Il deputato Marco Rizzone è stato espulso dal Movimento 5 Stelle. Rizzone era coinvolto nel caso dei “furbetti del bonus”, ovvero coloro che avevano fatto richiesta dei 600 euro al governo per l’emergenza. Il deputato Marco Rizzone è stato espulso dal Movimento 5 stelle. La notizia è arrivata attraverso una nota annessa ad un post concernente il referendum costituzionale. In quest’ultima è spiegato che il deputato è stato espulso il 14 settembre. Rizzone aveva richiesto il bonus da 600 euro a sostegno dei lavoratori autonomi durante la crisi per l’emergenza coronavirus. Per aver richiesto il bonus, Rizzone era stato deferito dai vertici del suo partito al Collegio dei probiviri del M5S, i quali avevano deciso per la sua sospensione.
Chi è Marco Rizzone. Marco Rizzone è originario di Genova. Classe 1983, si è laureato in Economia e commercio all’Università di Pisa. Nell’attuale legislatura è il suo primo mandato da parlamentare. Rizzone è stato eletto nel collegio 4 della Liguria. È stato considerato uno dei promotori dell’alleanza tra Movimento 5 Stelle ed il Partito Democratico per le elezioni in Liguria 2020 che ha portato all’elezione comunale di Ferruccio Sansa. In merito all’accaduto, il parlamentare si era giustificato dicendo: “Pur non avendo materialmente richiesto io quanto previsto dalla legge per la mia categoria di partita Iva non incolperò (come hanno fatto altri) il mio commercialista dicendo che in automatico, sulla scia di altri assistiti, ha inoltrato la richiesta anche per me”. Quest’ultimo ne aveva riconosciuta “l’inopportunità e, consapevole che in ogni caso la responsabilità ultima è solo mia, sono pronto ad assumermela tutta e fino in fondo, come ho sempre fatto. Però ora vi assicuro che pretenderò che si vada fino in fondo su una serie di altre ‘questioni morali’ anche più serie di questa ‘leggerezza’ e che forse sarebbe il caso di affrontare nel rispetto di chi ci ha eletti (e chi mi conosce sa che non demordo)”.
M5S: espulsi in 6, ma in 4 già avevano detto addio al Movimento. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. I probiviri del Movimento 5Stelle hanno espulso altri sei parlamentari per le mancate restituzioni. Dei sei eletti, in realtà, solo due facevano ancora parte del gruppo pentastellato — il senatore Alfonso Ciampolillo e la deputata Flora Frate — perché gli altri quattro — i deputati Nadia Aprile, Michele Nitti, Santi Cappellani e Massimiliano De Toma — avevano già detto addio al Movimento prima che la «sentenza» fosse emessa. A livello numerico, per gli equilibri di maggioranza, le 6 espulsioni hanno effetti sopportabili. Alla Camera l’unica espulsa, oggi, è Flora Frate. Mentre al Senato, dove i numeri della maggioranza sono risicati, l’unico espulso è Ciampolillo, la cui espulsione era già nell’aria. Lui nei giorni scorsi aveva attaccato il programma di governo sulla Puglia (la sua Regione) motivando con questa ragione le mancate restituzioni. La decisione dei probiviri è stata pubblicata sul Blog delle Stelle, con un post che spiega: «Il percorso iniziato ad inizio novembre per la regolarizzazione di rendicontazioni e restituzioni degli eletti in Parlamento, ha portato alla regolarizzazione della maggioranza delle posizioni pendenti. Questo è motivo di orgoglio e un chiaro segnale di rispetto degli impegni presi verso i cittadini. Sul totale di 30 casi aperti , alcuni portavoce hanno controdedotto in merito ai rilievi posti loro dal Collegio dei Probiviri, il quale, riscontrata la buonafede e la volontà di adempimento, ha intrapreso un dialogo per risolvere positivamente i casi. Ma la civile convivenza è basata sulle regole, e chi non le rispetta va allontanato».
Nuove espulsioni da M5S. Fuori anche la Frate: "Mi dispiace...per loro". Il Movimento 5 Stelle perde sempre più deputati. L'ex grillina: "Le motivazioni della mia espulsione sono disgustose". Francesca Bernasconi, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Il Movimento 5 Stelle si sgretola ancora. E dopo le espulsioni di ieri, salta un altra testa. La deputata Flora Frate è diventata un'ex grillina: "Da poco- scrive lei stessa- mi è stata comunicata l'espulsione dal Movimento 5 Stelle". Solo ieri era stato comunicato l'allontanamento del senatore Lello Ciampolillo e di un suo collega, per la mancata restituzione di una parte dell'indennità percepita. E oggi, un altro membro dei 5 Stelle è pronto a dover lasciare il partito fondato da Beppe Grillo. "Ne prendo atto e mi spiace. Per loro, si intende", ha commentato la deputata Frate in un lungo post pubblicato su Facebook, con cui ha dato notizia dell'espulsione. Poi spiega: "Dall'uno vale uno a due pesi e due misure, il passo è davvero breve. Non ho mai nascosto le mie perplessità, perchè è così che si fa nei partiti realmente democratici. Si discute, ci si confronta, si fa anche conflitto dialettico con l'ambizione di costruire rapporti di forza". È questa, secondo l'ex grillina, la politica, che è fatta di "libertà, un valore non sacrificale sull'altare di un algoritmo". E attacca: "Trovo disgustoso che, tra le motivazioni a sostegno del provvedimento di espulsione, si annoverino mie presunte assenze. E non solo per una specifica condizione di diritto che mi consente di fruirne, ma, ancor di più, per la totale mancanza di rispetto del nostro lavoro. Un parlamentare non è un dipendente del partito, ma rappresenta la Nazione intera". Infine, la deputata fa un quadro della situazione del Movimento 5 Stelle che, negli ultimi anni "perde sistematicamente voti, in modo irreparabile". Il motivo? Secondo l'ormai ex grillina il partito avrebbe dovuto ascoltare di più i cittadini, "rinunciando a tanta spocchia salottiera, proponendoci di risolverli i problemi piuttosto che imporre la nostra visione, si sarebbe potuta arrestare questa inesorabile china". E infine assicura: "C'ho provato a fare la differenza, ce l'ho messa davvero tutta, anche sopportando pesanti aggressioni verbali".
Ancora espulsioni nel Movimento 5 Stelle, fuori sei parlamentari per i ritardi nei rimborsi. Redazione de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. I probiviri del Movimento 5Stelle ha espulso sei parlamentari, a causa delle mancate restituzioni. Si tratta di Alfonso Ciampolillo (senatore), Nadia Aprile (deputata), Flora Frate (deputato), Michele Nitti (deputato), Santi Cappellani (deputato) e Massimiliano De Toma (deputato). “Sul totale di 30 casi aperti, alcuni portavoce hanno controdedotto in merito ai rilievi posti loro dal Collegio dei Probiviri, il quale, riscontrata la buonafede e la volontà di adempimento, ha intrapreso un dialogo per risolvere positivamente i casi – si legge sul Blog delle Stelle – Ma la civile convivenza è basata sulle regole, e chi non le rispetta va allontanato”. In realtà quattro dei sei espulsi avevano già annunciato da alcuni giorni di aver lasciato il M5s per protesta, ovvero Nadia Aprile, Michele Nitti, Massimiliano De Toma e Santi Cappellani. In tutto i parlamentati al centro delle indagini dei “probiviri” erano 30. Tra le reazioni più dure alle sei espulsioni c’è quella della deputata napoletana Flora Frate. La 36enne in un lungo post su Facebook ha spiegato di trovare “disgustoso che, tra le motivazioni a sostegno del provvedimento di espulsione, si annoverino mie presunte assenze. E non solo per una specifica condizione di diritto che mi consente di fruirne, ma, ancor di più, per la totale mancanza di rispetto del nostro lavoro”, ha scritto la deputata.
Flora Frate espulsa dal M5s: “È un esercito di silenti esecutori”. Beatrice Carvisiglia il 31/01/2020 su Notizie.it. Il M5s ha ufficializzato l'espulsione di Flora Frate. L'ex deputata si difende dalle accuse e punta il dito contro il partito. Flora Frate è stata espulsa dal M5s. La notizia è arrivata nella giornata del 31 gennaio e subito è stata commentata dalla diretta interessata. La deputata ha infatti comunicato la decisione del suo partito su tutti i suoi canali social. In particolar modo, la Frate ha scritto su Facebook: “Da poco mi è stata comunicata l’espulsione dal Movimento 5 Stelle. Proprio oggi. Ne prendo atto e mi spiace. Per loro, si intende. Devo al M5S un atto di fiducia nei miei confronti, che io ho provato a ricambiare portando nel Movimento proposte, contributi, argomenti, sensibilità. Ma questo, mi pare palese, non è servito ad essere considerata una risorsa; si preferisce, credo, un esercito di silenti esecutori”.
Flora Frate espulsa dal M5s. Parole molto amareggiate da parte di Frate, che vuole scrollarsi di dosso l’accusa di assenteismo. Proprio per questo l’ex deputata ha rincarato la dose: “Il nostro dovere è quello di non perdere il contatto coi territori, non abbandonare la gente, irrobustire il confronto e sperimentare ostinatamente la ricerca della sintesi. Qualcuno, invece, ritiene che si debba starsene rintanati negli uffici romani. E gli effetti si vedono”.
Le motivazioni del Movimento. Flora Frate è arrivata alla Camera dei Deputati nel luglio 2018, diventando componente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione. A prendere la decisione finale sulla sua espulsione sarebbero stati i provibiri. Tale comitato disciplinare, interno al Movimento, è stato più volte oggetto di critiche. In precedenza infatti, altre espulsioni avevano destato forti proteste all’interno del partito. Tra le più contestate, quella di Gianluca Paragone, ormai lontanissimo dalle posizioni di M5S. Per quanto riguarda Frate, il Movimento ha puntato il dito contro il ritardo nella restituzione delle indennità e sul presunto assenteismo della deputata. L’ex grillina però non ci sta e contrattacca, accusando il Movimento di essere ormai lontano dal Paese reale: “Da circa due anni il M5S perde sistematicamente voti, in modo irreparabile. Forse non bastano quei tanto sbandierati 40 provvedimenti se poi, come sulla scuola, si lancia una crociata ideologica contro i precari, additando i sindacati di colpe e responsabilità inesistenti. Avessimo ascoltato di più i cittadini, rinunciando a tanta spocchia salottiera, proponendoci di risolverli i problemi piuttosto che imporre la nostra visione, si sarebbe potuta arrestare questa inesorabile china“.
M5s: i deputati Michele Nitti e Nadia Aprile lasciano il Movimento. Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2020. Per il momento i due deputati ormai ex-grillini, hanno fatto richiesta di passare al gruppo Misto della Camera dei Deputati. Continua il fuggi-fuggi dal Movimento 5 Stelle. Altri due deputati, Nadia Aprile e Michele Nitti e hanno lasciato il Movimento e formalmente fatto richiesta di aderire al Gruppo Misto. “Non posso nascondere che i fatti che mi hanno visto protagonista nell’ultimo periodo mi hanno seriamente scossa – ha dichiarato in una nota Nadia Aprile, Parlamentare uscente del Gruppo M5S alla Camera -. La situazione in cui mi sono trovata è dipesa esclusivamente da un’inesorabile deriva autoritativa del MoVimento e dalla mancata considerazione in cui sono stata tenuta come Parlamentare e come persona“. “Dopo aver riflettuto a fondo” e ritenendo “illegittimo ed infondato il procedimento a mio carico ho deciso di non continuare più a militare nel MoVimento”, continua la nota. Fonti del M5S hanno così commentato sull’addio dei deputati Nitti e Aprile al Movimento .“Basta andare sul sito tirendiconto.it per vedere che la deputata Nadia Aprile ha effettuato la sua ultima restituzione a dicembre 2018, mentre per Michele Nitti le restituzioni sono ferme ad Aprile 2019. Per tale motivo i due, che oggi hanno annunciato di lasciare il gruppo M5S alla Camera, andavano incontro ad un provvedimento disciplinare“. "La maggioranza alla Camera è solida, non abbiamo nessun timore”. ha dichiarato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, interpellato dai cronisti fuori da Palazzo Chigi “La nostra stretta sul termine delle rendicontazioni ha prodotto qualche movimento di persone verso il Misto. La maggioranza è solida sia alla Camera che al Senato, non vedo preoccupazioni”.
Movimento 5 Stelle: i parlamentari che hanno lasciato o espulsi dal partito. Dall'inizio della Legislatura sono quasi 30 i parlamentari grillini che hanno lasciato il Movimento o sono stati espulsi: i nomi e le motivazioni. Andrea Soglio il 9 gennaio 2020 su Panorama. Il Movimento 5 Stelle si sta gretolando sotto il peso delle polemiche interne, delle divisioni, delle inchieste sui mancati rimborsi, del mancato rispetto delle regole del partito. Una disgregazione più che mai evidente visto il numero di parlamentari che hanno cambiato partito o sono stati espulsi. Ad oggi siamo a 27, tra senatori ed onorevoli. Ma la lista andrà di sicuro aggiornata già nei prossimi giorni.
Senatori
Gianluigi Paragone - polemiche con la direzione e le scelte del partito
Paola Nugnes - polemica con Di Maio, il "capo politico"
Gelsomina Vono - lascia per passare a Italia Viva di Renzi
Maurizio Buccarella - espulso per mancati rimborsi
Saverio De Bonis - voto contrario Decreto Sicurezza
Gregorio De Falco - voto contrario Decreto Sicurezza
Elena Fattori - polemica con Di Maio
Ugo Grassi - polemica mancati fondi Università finanziaria 2020
Stefano Lucidi - polemiche partito
Carlo Martelli - espulso per mancati rimborsi
Camera
Lorenzo Fioramonti - ex Ministro Istruzione Università - polemiche mancati fondi Università nella finanziaria 2020
Nunzio Angiola - polemiche con Di Maio ed i vertici del partito
Silvia Benedetti - espulso per mancati rimborsi
Salvatore Caiata - indagato per riciclaggio
Andrea Cecconi - espulso per mancati rimborsi
Sara Cunial - espulsa per posizioni "no vax"
Matteo Dall'Osso - polemiche mancati fondi disabili
Davide Galantino - polemiche sulla legge del taglio dei parlamentari
Veronica Giannone - ripetute violazioni del codice etico del partito
Andrea Mura - espulsa per troppe assenze, 95%
Gianluca Rospi - polemiche gestione Movimento con Di Maio
Antonio Tasso - espulso per problemi giudiziari
Catello Vitiello - mancata iscrizione al Gruppo parlamentare MO5S
Gloria Vizzini - mancato rispetto codice etico Movimento
Francesco Urraro - polemiche con il Movimento e sulla nuova legge elettorale
Massimo de Toma - lascia in polemica con il Movimento
Rachele Silvestri - lascia in polemica con il Movimento
DAGONEWS il 7 gennaio 2020. Come mai Beppe Grillo nel 2020 non ci ha rifilato il suo contro-discorso di Capodanno? L'Elevato è piuttosto rintanato: sta cercando di capire come rimuovere Di Maio dal ruolo di capo politico del Movimento senza far franare la fragile collinetta a 5Stelle. Le strade sono due. Lo offusca, tornando in campo e riprendendosi la scena e le redini del Movimento, ma è uno scenario che a Beppone non piace, perché vorrebbe dire accollarsi anche tutte le grane e le future batoste elettorali a livello locale. Pensa: se finisco io a fare il punching-ball, logorando quel che resta della mia aura di leader, chi ci sarà un domani a rilanciare il Movimento? In fondo oggi tutte le grane finiscono a Di Maio. La seconda strada vede una nuova struttura organizzativa del Movimento che consenta alle varie anime di convivere e di esprimere la propria visione sul futuro dei 5 Stelle (anche solo in modo formale…). Uno sfogatoio per le fronde con Patuanelli nuovo capo politico al posto di Luigino. Anche perché i suoi fedelissimi (Bonafede, Spadafora, Fraccaro) hanno preso le distanze da lui e si ritrova piuttosto isolato. E il rapporto con Casaleggio? In virtù del legame col padre, vero fondatore del M5S, Grillo vorrebbe sempre mantenere una relazione amichevole. Ma si è anche un po' stufato dei pasticci di Rousseau, che vorrebbe slegare dalle sorti del Movimento per ridare un po' di parvenza di trasparenza e fiducia agli occhi dei militanti. Beppe non ha molto gradito che Casaleggio junior abbia forzato la sua mano con i cinesi: è stato il giovane Davide, molto legato alla potente Huawei, a chiedere al comico di incontrare l'ambasciatore cinese. I funzionari del partito comunista di Pechino, che ancora sanno cosa vuol dire la gerarchia politica, preferiscono incontrare i capi veri, e così hanno chiesto di vedere Beppone. In ogni caso, Grillo ha il cruccio di sbagliare di nuovo, e pure lui adotta la strategia della melina: aspettiamo le elezioni di fine mese prima di cambiare il vertice politico del Movimento. Sempre che Di Maio non faccia un colpo di scena mollando prima lui il ruolo, per risparmiarsi l'umiliazione di essere esautorato. Conte e Mattarella stanno a guardare, non senza preoccupazione: il futuro del governo si regge sui nervi dei 5 Stelle…
“In ogni caso, Grillo ha il cruccio di sbagliare di nuovo, e pure lui adotta la strategia della melina: aspettiamo le elezioni di fine mese prima di cambiare il vertice politico del Movimento. Sempre che Di Maio non faccia un colpo di scena mollando prima lui il ruolo, per risparmiarsi l'umiliazione di essere esautorato”.
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” l'11 gennaio 2020. «Ora basta, se vanno avanti così mi dimetto: vediamo cosa sanno fare, che provino loro a tenere la guida del Movimento»: uno sfogo contro i suoi oppositori che continuano a pungolarlo, uno sfogo con i collaboratori e i suoi fedelissimi che doveva rimanere privato. Parole, più che un progetto reale, che passano di bocca in bocca fino a diventare un' idea. Così Luigi Di Maio finisce sulla graticola e il suo passo indietro (evocato dai malpancisti pentastellati) diventa una suggestione. Anche se per poche ore. Già giovedì sera i parlamentari che hanno preso parte alla congiunta, uscendo dalla riunione, si lamentavano: «Qui non cambia nulla. Più che un gruppo siamo un gregge. Non è stato possibile nemmeno leggere il documento contro i vertici scritto dai senatori». Un tassello che dovrebbe far intendere quanto Di Maio voglia gestire questa fase di transizione. Già, perché il leader sta disegnando il progetto del Movimento che è e che sarà. I tempi? Probabilmente l' architrave dei pentastellati sarà definita o illustrata prima degli Stati generali, che si dovrebbero tenere ad Assisi (in seconda battuta ci sono Torino e Roma) tra il 13 e il 15 marzo. Secondo le indiscrezioni, Di Maio ha intenzione di lanciare una nuova struttura, una «gestione più collegiale». L' idea è di un doppio Movimento, a due livelli: uno governativo e l' altro, di fatto, che gestisca il «brand» Cinque Stelle. E non solo. Saranno lanciate anche altre novità. La più rilevante riguarda Rousseau: la piattaforma smetterà di essere un corpo autonomo (per venire incontro anche alle lamentele dei parlamentari sospettosi e stanchi dei versamenti verso un ente «terzo»).
Rousseau - con i suoi costi e la sua struttura - e verrà «inglobato» nel Movimento. Davide Casaleggio diventerà responsabile del sistema operativo. Il mantra sarà «non solo web» e il Movimento diventerà sempre più partito: saranno destinati fondi ai territori per le iniziative e si darà vita a un nuovo progetto civico parallelo che tenda ad integrare tutte le realtà civiche del Paese. Ma la kermesse di marzo sarà anche il momento dello scontro, il momento in cui il Movimento dovrà scegliere che strada imboccare. E che forse sfronderà ancora di più i Cinque Stelle. Agli Stati generali i vertici si confronteranno se scegliere di essere la terza via (tra centrosinistra e centrodestra) della politica, «l' ago della bilancia» come ha più volte detto Di Maio che caldeggia questa soluzione, o cercare un' alleanza stabile con i dem, linea su cui sono orientati Beppe Grillo e l' asse ortodosso. Una resa dei conti, in cui i vertici immaginano una partecipazione «corale» dei gruppi, per vidimare o smentire definitivamente la storia del posizionamento nel «campo progressista» dei Cinque Stelle. Che quello sia il ring designato è chiaro anche dal messaggio che alcuni governisti lanciano ai senatori ribelli: «Se vogliono discutere della forma del Movimento possono farlo agli Stati generali. Ma non ci tedino ogni giorno sullo stesso argomento». Solo dopo gli Stati generali, eventualmente, ci saranno le modifiche allo Statuto. Con le Regionali alle porte e un Movimento più definito.
(ANSA il 10 gennaio 2020. ) - Smentiamo quanto riportato quest'oggi da Il Fatto Quotidiano in merito alle dimissioni da capo politico del MoVimento 5 Stelle di Luigi Di Maio. Una narrazione, con tanto di fantomatica data delle dimissioni, che appare decisamente surreale. Un retroscena che riporterebbe il pensiero di svariate 'fonti' interpellate che sembrano però fare il tifo per una certa narrazione, quando nel pezzo alle fonti dirette viene riservato mezza riga di smentita. Appare anche singolare la scelta di aprire il giornale con questo falso retroscena quando lo stesso Di Maio in queste ore è impegnato in importanti dossier di politica estera, come la Libia, di forte interessa nazionale e che interessano la sicurezza del nostro Paese. È un fatto gravissimo, che ci sorprende. E' quanto precisa lo staff di Luigi Di Maio in una nota.
Da affaritaliani.it il 10 gennaio 2020. Sorpresa nell'entourage di Di Maio stamattina davanti all'apertura del Fatto Quotidiano, che parla di un imminente addio del ministro al suo ruolo di capo del Movimento Cinque Stelle. Come Affaritaliani.it ha potuto accertare la notizia è del tutto priva di fondamento e viene considerata una fake news. Nel Movimento Cinque Stelle si sta cercando di capire se sia una manovra interna o se provenga dall'esterno: di certo si tratta di un tentativo di destabilizzazione che nell'entourgae del ministro si ritiene provenire "come sempre dall'interno". I collaboratori che di buon mattino hanno chiesto che cosa ci fosse di vero nella notizia e come andasse gestita si sono sentiti rispondere battute paradossali su che cosa i giornalisti che hanno dato questa esclusiva si possano essere fumati. Una risposta ironica, ma anche definitiva, che tronca sul nascere ogni possibile credibilità della notizia.
Caos M5s, Di Maio smentisce l’addio al M5s: “Gravi falsità”. Antonella Ferrari il 10/01/2020 su Notizie.it. Prosegue la situazione di caos interno creatasi nel M5s e a peggiorare la situazione ci pensano le indiscrezioni sul possibile addio alla leadership di Luigi Di Maio. Il capo politico potrebbe infatti annunciare un passo indietro tra il 20 e il 21 gennaio, prima delle elezioni regionali in Emilia Romagna, che secondo i sondaggi potrebbero concludersi con un flop per i grillini.
La smentita di Di Maio. La smentita non si è fatta attendere ed è arrivata proprio dallo staff del leader pentastellato. Nelle prime ore della mattinata di venerdì 10 gennaio, i portavoce di Luigi Di Maio hanno definito “gravissime falsità” e “narrazione surreale” le indiscrezioni circa la sua possibile rinuncia alla guida del Movimento.
Caos M5s: le ultime notizie. Il Movimento 5 Stelle è in piena crisi. Nella serata di giovedì 9 gennaio altri due deputati, Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri, hanno annunciato il loro addio al partito e la situazione continua a peggiorare. A dare il decisivo colpo di grazie a Di Maio, però, sarebbe stato il documento con il quale un gruppo di parlamentari del Movimento 5 Stelle chiedeva l’abolizione del ruolo di capo politico e la fine della gestione Rousseau targata Casaleggio. Le voci sul possibile addio si fanno quindi sempre più insistente e racconterebbero un Di Maio stufo delle continue pressioni quotidiane. Voci vicine al lui, però, continuano a smentire.
Chi potrebbe sostituirlo? Da statuto, qualora Di Maio lasciasse il leadership, dovrebbe essere sostituito dal membro più anziano del Comitato di Garanzia, quindi Vito Crimi, attuale ministro dell’Interno. Tuttavia, un ruolo importante lo giocherà Beppe Grillo, che potrebbe anche decidere di togliere il ruolo di capo politico. Qualora così non fosse, però, al momento non si vedono i nomi di possibili sostituti e la situazione continua a peggiorare per un Movimento 5 Stelle che sembra non vedere la luce in fondo al tunnel.
Da lasicilia.it il 10 gennaio 2020. Travaglio scarica Di Maio. Lo staff di Di Maio reagisce nervosamente. Dagospia interpreta: "lo sanno tutti che Di Maio si dimetterà, ma voleva gestire lui la questione". Intanto, dopo le numerose fuoriuscite, si fa sempre più insistente la voce di un rimpastino, dove i Dimaiani seguiranno le sorti del loro capo leader indiscusso agli ordini slap. Tra i quali Cancelleri, la cui azione politica traballa. Tante esternazioni sulle autostrade dell'isola, ma al momento nulla di fatto (pare si dice sembrerebbe forse ma potrei sbagliarmi, che l'asse Cancelleri - Musumeci - Anas abbia destato l'attenzione dell'Autorità Nazionale Anticorruzione, Anac). Ma ci sono anche buone notizie per Cancelleri, la sua azione politica ha lasciato il segno, quantomeno su una ex attivista, in questi giorni iperattiva sui social, che lo accusa di tradimento, carte alla mano, ma non allo Statuto e al Programma del Movimento. Dice che ha le carte in mano: una sentenza del tribunale. Ah queste ex!
Di Maio, lettera con strafalcione: «Le milioni di persone scese in piazza». Gli errori dei politici. Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 da Corriere.it. Non è solo l’inglese a dare dei grattacapi al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Pure l’italiano. Ma questa volta non è colpa del congiuntivo. All’indomani dell’incontro del premier Conte con il generale libico Haftar, non solo il capo della diplomazia italiana appare all’oscuro di quanto accaduto nelle stesse ore in cui scriveva («Sono continui i contatti del nostro governo e dell’Ue anche con il generale Haftar che contiamo di incontrare»), ma inciampa in un macroscopico strafalcione grammaticale nella lettera pubblicata su Repubblica. Scrive Di Maio: «Le milioni di persone che hanno riempito le piazze iraniane per celebrare la scomparsa del generale iraniano Soleimani». Ma in italiano si dice «i milioni di persone» e non «le milioni di persone», perché l’articolo va concordato col soggetto e non con il complemento di quantità. Non solo: i milioni di iraniani scesi in piazza celebravano sì «il martire» Soleimani ma non certo la sua scomparsa. Dire che ne celebravano la scomparsa equivale a dire che stavano festeggiando la sua eliminazione per mano del «grande satana» americano. Per dire quello che voleva dire, come direbbe Totò, bastava dire che ne piangevano la scomparsa.
Luca De Carolis per il “Fatto quotidiano” il 10 gennaio 2020. Il capo a cui pesa maledettamente esserlo stavolta è davvero vicino all' addio. Presto, forse prima del voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Cioè prima della possibile, ennesima frana elettorale. Luigi Di Maio potrebbe lasciare la carica di capo politico dei Cinque Stelle attorno al 20-21 di questo mese, appena eletti i nuovi facilitatori regionali del Movimento. Innanzitutto, perché non vuole subire il milionesimo processo politico per il probabile, pessimo risultato del M5S in Emilia-Romagna, dove i 5Stelle sono spettatori della sfida all' ultimo voto tra Pd e Lega. Un 4-5 per cento nelle urne per il Movimento sarebbe disfatta e per lui l' abituale ritorno nel ruolo di unico imputato, della sconfitta. Soprattutto, Di Maio è stanco degli infiniti problemi e delle mille battaglie interne. La solitudine del capo e le pressioni Il capo è molto solo, con i gruppi parlamentari che continuano a perdere pezzi (ieri sono usciti altri due deputati, Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri) e che non gli rispondono più, divisi in gruppetti, agitati da rancori vecchi e nuovi. E gli pesa moltissimo il confronto con due interlocutori obbligati. Quello con il garante e fondatore Beppe Grillo, che ha un' altra visione da lui su quasi tutto, tanto da avergli imposto il governo con il Pd. E soprattutto il rapporto con Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio che gli deve sembrare un Moloch, e che di certo per lui è una pietra di paragone pesante come una montagna. Ma c' è anche altro, ci sono le fortissime pressioni dei maggiorenti, molti anche di governo, che vogliono le sue dimissioni. Un pressing che nelle ultime ore si è fatto bombardamento. "Lo vogliono spingere verso la porta" conferma un dimaiamo. E il capo è davvero vicinissimo a quel passo di lato di cui aveva parlato per la prima volta pochi giorni fa il Foglio, datandolo per la fine di febbraio. Il suo staff aveva smentito tutto poche ore dopo. E ieri sera ambienti vicini al ministro, sentiti dal Fatto, hanno nuovamente negato ("falso"). Ma la strada del 33enne di Pomigliano d' Arco dovrebbe essere davvero quella, confermano al Fatto più fonti qualificate. E porta all' addio al ruolo di capo politico che si era dato con Statuto nel dicembre 2017, con la benedizione di Davide Casaleggio e il sì pragmatico di Grillo (e la ratifica degli iscritti sul web). Una carica della durata di cinque anni, rinnovabile per un altro mandato. La struttura prima del passo di lato Di certo prima dell' addio Di Maio vuole lasciare al M5S una nuova, definitiva organizzazione, con la scelta dei facilitatori regionali. Nei suoi piani, gli iscritti dovrebbero votare un elenco da cui poi sarà lui, ancora capo, a scegliere i nomi finali. Ma molti big contestano questa soluzione, come il vicepresidente del Parlamento europeo, Fabio Massimo Castaldo ("Così l' elezione è un processo calato dall' alto"). Un altro segno del malessere che si dilata. Trasferito nero su bianco ieri dai senatori che a Palazzo Madama hanno presentato un documento in cui chiedono "la non sovrapposizione tra incarichi di governo e organizzativi", cioè tra la figura del capo politico e ruoli di governo. A Di Maio lo hanno detto anche ieri sera, nell' assemblea congiunta. E lui ha tenuto il punto, la posizione. Ma è pronto a scegliere la Farnesina. Forse solo quella, perché le indiscrezioni raccontano che lascerebbe anche il ruolo di capo delegazione dei 5Stelle nell' esecutivo Conte. Facendo posto al ministro dello Sviluppo economico, l' ex capogruppo in Senato, Stefano Patuanelli: stimato dai parlamentari e da Conte, in ottimi rapporti sia con Grillo che con Casaleggio. Ma il vero nodo sarà l' avvenire del M5S . Il dopo, tra Statuto e organo collegiale E il primo passo dopo le dimissioni, da Statuto, sarebbe l' arrivo di un reggente, ossia del membro più anziano del Comitato di garanzia (l' organo di appello del Movimento). Ossia il viceministro all' Interno Vito Crimi, storicamente vicino ai Casaleggio. Ma dopo di lui? "Adesso serve finalmente un organo collegiale", insiste una fonte. Una segreteria politica, quella che Di Maio ha sempre respinto come un calice troppo amaro. Anche se c' è un problema: Grillo, che ha sempre definito fallimentare l' esperienza del Direttorio, l' organo a cinque creato quando Gianroberto Casaleggio era ancora in vita. "Ma non c' è altra strada", ripetono dal M5S . Però come e con chi comporlo? Proprio Grillo, il Garante, avrà un ruolo fondamentale. Perché per abolire la figura del capo politico è necessario cambiare lo Statuto. E non sarà indolore. Poi, ovviamente, bisognerà decidere chi inserire: ammesso che Grillo e Casaleggio non cerchino un altro capo. Ma al momento nessuno lo vede. Alessandro Di Battista, di nuovo in rapporti gelidi con Di Maio dopo l' espulsione di quel Gianluigi Paragone a lui vicino, è in Iran. Roberto Fico è il presidente della Camera. E altre opzioni hanno carenza di carisma o di consenso interno (se non entrambe). Però è un nodo che va sciolto in fretta. Il ruolo del Garante e del premier Anche se tutte le parti in causa negheranno un suo coinvolgimento diretto, Giuseppe Conte avrà un grande peso. È lui, assieme a Grillo con cui si sente ormai di continuo, il traghettatore del M5S nel centrosinistra. L' habitat naturale dei 5Stelle secondo i "contiani" del Senato che ieri nel documento hanno invocato la collocazione "stabile" del M5S proprio lì, "nell' ambito delle forze progressiste". Chiedendo inoltre "un organismo collegiale democraticamente eletto", e mordendo al cuore Casaleggio, sulla piattaforma Rousseau: "La piattaforma viene percepita come una realtà esterna, un corpo estraneo al Movimento. La gestione dei dati sensibili e dei quesiti e tanti altri aspetti vanno posti sotto il controllo del M5S ed effettuati con metodo democratico". Perché c' è una diffusa insofferenza verso l' erede di Gianroberto, che con Di Maio aveva costruito un asse forzato quanto evidente. Un altro pilastro che balla, nel Movimento che si appresta a cambiare capo. E a entrare in una nuova fase, con gli Stati generali già fissati per marzo, che si terranno a Torino. Un congresso che potrebbe essere lo snodo per i 5Stelle senza pace.
Il Movimento 5 Stelle sta esplodendo. La crisi del partito di maggioranza relativa è ormai conclamata ed inarrestabile. E coinvolge anche il Governo che sostiene. Maurizio Belpietro il 10 gennaio 2020 su Panorama. Il Movimento 5 Stelle è nei guai, grossi. Si sta sgretolando ogni giorno che passa, anzi, sta esplodendo, come capita prima o poi a tutte le stelle. Non vanno d’accordo al loro interno (è di oggi la notizia che sarebbero vicine le dimissioni di Di Maio dal suo ruolo di “Capo Politico”), non hanno più una linea guida, una linea in continuità con il loro breve passato. Prendiamo ad esempio il caso del Mese, il Fondo Salva Stati: nel programma del Movimento 5 Stelle c’è scritto che non va approvato, che è da abolire. Eppure cosa fanno i grillini? Mandano Giuseppe Conte, il Presidente del Consiglio da loro scoperto ed indicato e che sostengono come forza di maggioranza in Parlamento, a discutere del Mese al Parlamento Europeo. Insomma hanno scritto una cosa e fatto l’esatto contrario. questo perché i grillini invece che ribaltare il mondo della politica, “aprirlo dall’interno come una scatoletta di tonno” (avevano promesso anche questo) si sono adeguati alla regola europea. Hanno fatto lo stesso sulle banche, salvandole con soldi pubblici quando avevano per anni gridato allo scandalo davanti ad operazioni analoghe fatte da altri. Quindi, davanti a certe marce indietro, è normale che ci sia del dissenso, che ci sia gente che se ne vada dal partito (ad oggi siamo a 27 abbandoni tra i parlamentari. Ecco qui la lista completa, tra abbandoni ed espulsioni). Diciamo le verità: come ha detto Morra uscendo dall’assemblea di ieri sera dei parlamentari penta stellati, c’è metà degli eletti che non sopporta più Di Maio; non si sa quindi chi sia il capo, chi comandi il partito. Se Grillo o Casaleggio, se Di Maio o Di Battista. Prendiamola nascita del Governo Conte Bs, nascita voluta e decisa da Beppe Grillo, dalla sua casa al mare, mentre Di Maio ed almeno una metà dei parlamentari 5 Stelle era contraria dato che fino al giorno prima dicevano che il Pd era il Diavolo ed ora ci vanno a braccetto. E perché hanno accettato tutto questo? per un semplice motivo, come ammesso dallo stesso Grillo. Se si fosse andati al voto, ma anche se si votasse oggi, il risultato delle elezioni sarebbe la fine del Movimento 5 Stelle. Questa la situazione: il partito di maggioranza relativa in Parlamento ed al Governo sta esplodendo, un botto che non potrà che investire il Governo e, purtroppo, anche il paese.
Federico Capurso per “la Stampa” il 10 gennaio 2020. È iniziata la resa dei conti nel Movimento 5 stelle. Un documento durissimo, condiviso da un nutrito gruppo di senatori e presentato durante una loro riunione interna, dà corpo al malessere che da tempo stritola il corpaccione parlamentare grillino. Cinque punti, sbattuti in faccia a Luigi Di Maio, mettono in stato d' accusa il capo politico e il figlio del fondatore, Davide Casaleggio, chiedendo a entrambi di farsi da parte. Ma ai senatori la decapitazione dei vertici non basta. Chiedono anche che si intraprenda un confronto con tutte le forze progressiste, mentre Di Maio da sempre frena ogni possibile avvicinamento al Pd. Poi, sul tema restituzioni, che sta dilaniando il gruppo da settimane, si pretendono regole nuove, metodi più trasparenti. E ancora, si esige dal governo uno stop ai decreti legge, che soffocano il lavoro parlamentare e sui quali «non potranno più pretendersi voti al buio». Ma il primo colpo nello stomaco è per Di Maio: «Serve una netta separazione tra le cariche interne al Movimento e quelle di governo - si legge nel documento-. La loro sovrapposizione sta determinando concentrazione di potere e criticità ormai incomprensibili sia per la nostra base che per i cittadini». Al leader M5S si chiede dunque di scegliere tra la guida del partito e il ministero degli Esteri. Con la speranza, da parte degli estensori del documento, che Di Maio preferisca rifugiarsi alla Farnesina. L' uomo solo al comando - scrivono - verrebbe sostituito da un «organo collegiale ampio», una sorta di Direttorio allargato che rappresenti le tante anime del Movimento, «anche a livello territoriale». Tutto questo, scrivono i senatori, «sarebbe possibile solo fissando regole interne diverse», che rendano elettive tutte le cariche. In altre parole, si dovrebbe passare da una modifica dello Statuto. Se però tra i parlamentari M5S c' è qualcuno meno sopportato di Di Maio, in questo momento, quello è Davide Casaleggio, visto come un' entità grigia che, lontano da Roma, esercita un potere enorme ottenuto per via ereditaria. Per questo i senatori chiedono che la proprietà di Rousseau - il sito web pensato come il cuore pulsante del partito, dove si mettono ai voti le scelte cruciali per la vita dei Cinque stelle - venga sottratto dalle mani di Casaleggio e «passi sotto il controllo del Movimento». Perché la piattaforma digitale «che tutti contribuiamo a mantenere - sottolineano i senatori, facendo riferimento ai 300 euro che ogni mese gli eletti M5S devono versare a Rousseau - viene percepita come un corpo estraneo al Movimento stesso». Intorno a Di Maio - ma non a Casaleggio - si tenta una difesa: «Il documento è stato firmato da solo tre senatori», fanno sapere dalla cerchia vicina al leader. Ma i 5 punti lanciati contro i vertici M5S non nascono dal livore di una piccola frangia di dissidenti. Sono condivisi da molti deputati e senatori e rappresentano il tentativo di invertire la rotta, anche per fermare la diaspora che in queste settimane sta sfibrando il partito. Altri due deputati, Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri, hanno infatti dato l' addio ieri per seguire Lorenzo Fioramonti nel suo nuovo progetto politico "Eco". Un terzo, Roberto Rossini, già con un piede fuori dalla porta, è stato convinto in extremis a restare. Non è un caso che sia il capogruppo in Senato, Gianluca Perilli, a spiegare nel pomeriggio il contenuto del documento ai cronisti, al fianco di Emanuele Dessì, uno dei promotori insieme a Di Nicola e Crucioli. «Non sono state raccolte delle firme - sottolinea Dessì - perché il documento deve rimanere "aperto" fino a marzo, quando verrà messo ai voti in occasione degli Stati Generali del Movimento». In quel momento, dunque, arriverà il primo concreto tentativo di mettere alla porta Casaleggio e di spingere Di Maio a lasciare la guida del partito. Proprio durante quegli Stati Generali pensati dal capo politico come un' occasione per rilanciare il Movimento sotto la sua leadership.
Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 10 gennaio 2020. […]Il M5S è una polveriera. […] Il ministro degli Esteri era ancora in aereo quando i senatori grillini si riuniscono per ascoltare dal "ribelle" Emanuele Dessì i contenuti del documento in cinque punti che contesta il ruolo del capo politico, l' ancoraggio a Rousseau (definito «un corpo estraneo»), le restituzioni. […] È Di Maio il bersaglio: vissuto come il granello che ha inceppato la macchina grillina. E dunque «un primo passo deve essere la netta separazione tra le cariche del M5S e quelle di governo. La loro sovrapposizione sta determinando concentrazione di potere e criticità ormai incomprensibili sia per la nostra base che per i cittadini», rimarcano i senatori. «Per questo dobbiamo subito pensare ad un organo dirigente » collegiale, individuato «attraverso democratiche elezioni». Ancora più duro l' affondo su Rousseau: «La piattaforma digitale che tutti contribuiamo a mantenere viene percepita come un corpo estraneo al Movimento, sia all' interno della nostra forza politica che all' esterno», prosegue il testo. Quindi «la gestione dei dati sensibili, l' indicazione dei quesiti, il modo in cui si pongono e gli aspetti connessi alla selezione degli organi rappresentativi devono essere posti sotto il controllo del M5S ed effettuati con metodo democratico». Chiaro il messaggio: Casaleggio, che in assemblea evita di farsi vedere, va commissariato. E pure il meccanismo delle restituzioni va modificato: «Il nostro punto di forza si sta trasformando in un problema e in una fonte di debolezza». Occorre perciò istituire «un comitato di garanti per individuare tutti i correttivi necessari». Una miscela esplosiva che Di Maio non intende lasciar deflagrare sotto la sua poltrona. A sera apre la congiunta con un discorso tutto incentrato sulla Libia e il nuovo cronoprogramma del governo. Va lungo, tanti abbandonano la riunione. In pochi fiatano. Dessì si alza per illustrare il documento. L' ortodosso Luigi Gallo chiede che venga «superato il modello del capo politico». Voci nel deserto. Ancora una volta: la rivoluzione può attendere.
I senatori M5S: Di Maio non sei superman, alt alla Casaleggio su Rousseau. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni. Il «golpe» dei senatori era nell’aria, ma non per questo la botta è meno forte. Nel documento che da Palazzo Madama è approdato ieri sera all’assemblea congiunta con i deputati, presente Luigi Di Maio, è inciso nero su bianco lo stop alla carica di capo politico e alla figura del garante. Nelle intenzioni dei senatori ribelli, Di Maio dovrebbe scegliere se stare al governo o guidare il Movimento e Beppe Grillo accontentarsi della presidenza onoraria. Adesso che gli arrabbiati sono venuti allo scoperto, il dilemma per il ministro degli Esteri è capire quanto sia ampia la fronda. «Solo in tre hanno firmato», prova a ridimensionare Di Maio, che ha sentito rimbalzare almeno sette nomi. Ma i numeri della protesta sono ben altri. Alla riunione di Palazzo Madama nel pomeriggio c’erano una cinquantina di senatori e nessuno avrebbe contestato il documento. Dopo qualche limatura è stato consegnato ai colleghi della Camera, preceduto da telefonate del senatore Mattia Crucioli. L’avvocato genovese ha sfidato l’inquilino della Farnesina: «Il capo politico non può fare anche il ministro. Non basterebbe Superman». Tra i tre firmatari, con Crucioli e Primo di Nicola, c’è Emanuele Dessì: «Luigi è persona capace e intelligente, ma quando le sfide sono così alte bisogna giocare in squadra». Dubbi, sospetti e mugugni vengono a galla e si riversano sulla leadership, già provata dalle fuoriuscite di deputati e senatori. Proprio ieri Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri sono passati al Misto della Camera, destinazione Eco dell’ex ministro Fioramonti. Roberto Rossini sarebbe stato fermato con la valigia in mano e Roberto Cataldi sta riflettendo. I parlamentari, consapevoli di avere il potere di vita e di morte sul governo, vogliono che linea politica e candidature siano decise da un «organismo collegiale». Insomma, sono stufi di veder calare le decisioni dall’alto. Quanto alle restituzioni, che hanno scatenato il caos delle espulsioni, il suggerimento non richiesto è che d’ora in avanti vengano gestite «con trasparenza», affidando a un comitato di garanti (e non più alla Casaleggio) la guida di Rousseau: «La piattaforma digitale che tutti contribuiamo a mantenere viene percepita come un corpo estraneo al Movimento». Per Mario Giarrusso la questione fondamentale è la tutela legale: «Se il M5S non ci paga le spese del giudizio, come possiamo affrontare i poteri forti?».
M5S, documento dei senatori: via Casaleggio da Rousseau e abolire il capo politico. I deputati De Toma e Silvestri al gruppo misto. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. A Palazzo Madama un gruppo di senatori chiede di abolire la figura del capo politico (anche se non è Luigi Di Maio a essere messo in discussione), di sottrarre la piattaforma Rousseau a Casaleggio e di lasciare a Beppe Grillo l’incarico di presidente e non più di garante del Movimento. Nelle stesse ore, i deputati Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri hanno lasciato il M5S. I due parlamentari hanno comunicato alla presidenza della Camera il passaggio al Gruppo Misto. Il numero dei deputati, dopo queste ultime due defezioni, scende dunque da 213 a 211. Silvestri, 33 anni, è membro dal 2018, della X Commissione attività produttive, commercio e turismo. Anche De Toma, 54 anni, è membro dal 2018 della X Commissione attività produttive, commercio e turismo. Stop alla figura del capo politico, gestione collegiale ed assembleare sulla linea politica, riforma del sistema delle rendicontazioni, stop anche al ruolo del garante del Movimento. Nel documento preparato da un gruppo di senatori del M5S per l’assemblea congiunta dei Cinque Stelle si porta all’attenzione del Parlamento la proposta di una serie di modifiche statutarie. La premessa è che il perimetro del M5S resti nell’ambito della maggioranza e che non c’è alcuna intenzione di strappi nei confronti del governo. Nel mirino ci sarebbe in sostanza non solo Di Maio ma in qualche modo anche Grillo, visto che per il comico sarebbe previsto non più il ruolo di garante ma di presidente. Per quanto riguarda il tema delle restituzioni si suggerisce di versare su un conto corrente gestito da un organismo trasparenza, con l’obiettivo di lasciare ogni risorsa all’interno del Movimento. Nel documento si chiede di sottrarre la piattaforma Rousseau a Casaleggio e destinarla ad un gruppo di garanti. Questa sera verrà fatto il punto sulla situazione dei morosi e non si esclude un via libera all’espulsione degli inadempienti di lungo corso. Nel frattempo, è arrivato un chiarimento da parte dell’ufficio stampa del M5S: «Si precisa che il documento illustrato da alcuni senatori del Movimento 5 Stelle durante l’odierna assemblea non prevede alcuno “stop al ruolo del garante del Movimento” né alla figura del capo politico. In tale documento è stata avanzata la proposta di dar vita a “un organismo collegiale democraticamente eletto”». Svolta anche sul tema delle restituzioni. Durante la riunione dei deputati grillini, sarebbero stati annunciati dei cambiamenti per quanto riguarda il regime delle rendicontazioni. I capigruppo Gianluca Perilli e Davide Crippa subentreranno nel Comitato rendicontazioni al posto degli ex presidenti Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva. Sarà inoltre soppresso il comma dello statuto in base al quale, in caso di scioglimento del Comitato, le giacenze vengono destinate all’Associazione Rousseau: queste risorse, viene spiegato, andranno al fondo per il microcredito. A Palazzo Madama, Vito Crimi, esponente del comitato di garanzia, ha inoltre annunciato che sarà possibile utilizzare il sistema forfettario. Molti gli interventi sul sistema per i rimborsi che sarà al centro dell’assemblea congiunta. La senatrice Taverna, per esempio, avrebbe proposto che i versamenti vengano destinati ad un fondo per la ricerca o in ambito universitario.
Anche Cappellani lascia il M5S: «Se sento “pugno di ferro” rabbrividisco». Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. Altro addio dal M5S. Ad aver lasciato i Cinque Stelle è il deputato Santi Cappellani, di Catania, 29 anni, studente di psicologia e manager nell’azienda di famiglia, indicato tra coloro che oggi il Movimento avrebbe dovuto espellere per i mancati rimborsi. Al Corriere della Sera, a inizio gennaio, Cappellani aveva raccontato di non aver potuto pagare perché aveva dimenticato la password del sistema. Ieri, inviando una mail, lo strappo dal Movimento giustificato da ragioni più politiche. Il giovane deputato accusa il M5S di essersi «imborghesito, finito in una spirale di autoreferenzialità». Per Cappellani, che contesta «una serie di azioni d’imperio» del M5S, esisterebbe un’anarchia in Sicilia dove «gli amministratori locali sono abbandonati a se stessi». «Non avrebbe senso rimanere in una squadra in cui non ci si riconosce più», ha spiegato, «quando sento la frase “pugno di ferro” rabbrividisco». Cappellani, che per l’intero 2019 non ha versato le restituzioni delle indennità parlamentari previste dalle regole dei Cinque Stelle, ha detto di avvertire «da tempo la profonda frustrazione» di «non poter rappresentare i temi di cui ci fregiamo» e «non poter rispondere ai territori per non minare gli equilibri di questo o quel governo». Secondo Cappellani, nel M5S c’è «più ascolto a comunicazione e sondaggi» che «al sentire comune e della base».
Movimento 5 Stelle, continua la diaspora. Lascia il deputato Cappellani: “Imborghesiti e in preda all’anarchia”. Redazione de Il Riformista il 7 Gennaio 2020. Un nuovo addio scuote il Movimento 5 Stelle. Santi Cappellani, deputato catanese al primo mandato tra i grillini, ha inviato una lettera di dimissioni dal gruppo parlamentare pentastellato al leader politico Luigi Di Maio e al capogruppo Davide Crippa. A rivelarne il contenuto è il quotidiano "La Sicilia".
LA LETTERA DI CAPPELLANI – All’interno della missiva il deputato lancia un duro atto di accusa alla gestione del MoVimento, spiegando che “non avrebbe senso rimanere in una squadra in cui non ci si riconosce più” e che da tempo avvertiva “una profonda frustrazione” per “non potere rappresentare il termine di cui ci fregiamo (portavoce, ndr)”. Cappellani rincara quindi la dose parlando di un movimento “imborghesito”, finito “in una spirale di autoreferenzialità”. Criticando poi la gestione in del Movimento in Sicilia, il deputato ha scritto nella lettera che “è in preda all’anarchia, non vi è una linea comune, molto spesso, e senza confronto, vengono prese posizioni contro i nostri stessi alleati di governo e contro le azioni dei nostri stessi ministri. Gli amministratori locali sono abbandonati a sé stessi. E mi fermo qui”.
I DEPUTATI NEL MIRINO – Cappellani fa parte di una decina di deputati 5 stelle in ritardo con la restituzione delle indennità, in particolare il parlamentare non verserebbe nessun rimborso da circa un anno. Nei giorni scorsi si era giustificato spiegando di aver dimenticato la password per accedere al sito dove effettuare i rimborsi. “Mi era già capitato lo scorso anno – aveva detto – e ora non riesco ad accedere alle pagine che servono per caricare i bonifici”.
GLI ALTRI CASI ECCELLENTI – Nelle ultime settimane si è aperta una ‘diaspora’ all’interno dei gruppi parlamentari 5 stelle. È di pochi giorni fa la fuoriuscita dei deputati Nunzio Angiola e Gianluca Rospi, mentre il caso più eclatante è sicuramente quello dell’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. Il senatore Gianluigi Paragone è stato invece espulso dal Movimento su decisione dei probiviri.
LE ACCUSE A CAPPELLANI – Contro la decisione di Cappellani si è schierato Francesco Cappello, deputato del Movimento cinque stelle all’Assemblea regionale siciliana, anche lui di origini catanesi. “Ogni volta che un portavoce nazionale del movimento lascia il movimento – scrive su Facebook – come quello di Catania passato al gruppo misto, non sono mai dispiaciuto per chi se ne è andato (anzi) ma per colui che poteva essere eletto al suo posto. Peccato, un’altra occasione persa”.
La crisi del Movimento 5 Stelle. L'espulsione di Paragone è solo l'ultimo atto della disgregazione di un partito che ha perso o tradito i propri principi. Andrea Soglio il 2 gennaio 2020 su Panorama. Piaccia o non piaccia il Movimento 5 Stelle ha ancora la maggioranza relativa in Parlamento, ha scelto il Presidente del Consiglio, ha il controllo di diversi ministeri di non scarsa importanza. Verrebbe da pensare che il partito stia quindi vivendo uno dei suoi momenti di maggior splendore. Invece no. Per capire come stia il Movimento di Casaleggio e oggi di Grillo basta guardare alla cronaca degli ultimi giorni. Si comincia con le dimissioni del Ministro dell'Istruzione, Fioramonti, che poi annuncia il passaggio al Gruppo Misto in polemica contro la manovra economica in cui mancano i miliardi di stanziamenti per l'Università ed è pronto a farsi un gruppo suo (legato al premier e dovrebbe chiamarsi "Eco"). A seguire scoppiano le polemiche sui mancati rimborsi di un folto numero di parlamentari. Il più arrabbiato è Giarrusso che spiega di non aver pagato "per sostenere le spese legali legate alla sua attività politica" e ha contrattaccato puntando verso il Capo politico, Luigi Di Maio, invitando lui a dimettersi. E si finisce la tre giorni con l'espulsione di Gianluigi Paragone, colpevole di aver votato contro la Manovra Economica. A questo va aggiunto che diversi esponenti grillini hanno di recente cambiato bandiera, che i sondaggi danno il partito al 16% (dal 37% delle ultime politihe), che nemmeno le visite di Grillo a Roma riescono a riportare tranquillità, che Giuseppe Conte dal M5S posizionato a Palazzo Chigi ha già salutato i suoi scopritori strizzando l'occhio al Pd o almeno alla sinistra, che il Reddito di Cittadinanza si sta dimostrando un fallimento per il paese ed una manna per migliaia di furbetti (molti dei quali nel napoletano avrebbero acquistato con la tessera il Dom Perignon con cui brindare a Capodanno), che molti parlamentari sono contro Di Maio, che si preparano diversi rospi da ingoiare su prescrizione, Ilva, Alitalia, Autostrade, banche da salvare...Ad essere generosi si può parlare di "crisi", per i più cattivi invece il M5S è sull'orlo della fine. Poco cambia. Il problema è, come si diceva in principio, che questo partito gestisce di fatto il paese e con tutti i guai interni di cui sopra la gestione non può che essere dannosa. Il perché di questa auto-distruzione? La crisi del M5s ha un'origine quasi "semplice", soprattutto facilmente prevedibile: il movimento nacque come partito antisistema e oggi è stampella (di maggioranza) del partito più di sistema che c'è, cioè il Pd. Di Maio 20 mesi fa chiedeva l'impeachment di Mattarella e oggi lo loda, Grillo sempre sul Presidente della Repubblica disse le peggio cose e adesso evita persino di fare il contromessaggio di capodanno per rispetto verso il Quirinale. Due esempi per dire che il M5S non c'è più, soprattutto com'era all'inizio. Ed è destinato alla fine
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 5 gennaio 2020. Vivo, morto o x? Il Movimento e Luigi Di Maio attraversano una delle fasi più complesse della breve storia pentastellata: scissioni evocate, espulsioni calendarizzate, equilibri sottili che vacillano. E la galassia Cinque Stelle assume altri contorni. Le lamentele nei confronti del leader sono uno dei pochi punti di contatto che ha catalizzato i delusi del Movimento di ogni grado e latitudine (politica). Al punto che Di Maio è quasi accerchiato dalle accuse. Il capo politico, però, ha trovato la sponda di Beppe Grillo (che lo ha più volte «confermato» pubblicamente) e di Davide Casaleggio, finito anche lui a sua volta al centro dei mugugni dei parlamentari per il contributo mensile di 300 euro a Rousseau. Ed è attorno al nucleo dei vertici che qualcosa nell' ultimo mese sta cambiando. Il gruppo di sfilaccia? E i vertici premono sull' acceleratore imponendo nuove espulsioni. Di Maio vuole recuperare compattezza e coerenza. Un richiamo a una «nuova identità», perché il Movimento - come ha ribadito più volte Grillo - «è cambiato». Un progetto di trasformazione che dovrebbe assumere contorni più nitidi a marzo, quando si terranno gli Stati generali M5S. Il gruppo di ministri lealisti - da Vincenzo Spadafora ad Alfonso Bonafede - si è riavvicinato. Ma molti chiedono un cambio di passo. Anche all' interno del gruppo dei governisti ci sono diversi mal di pancia. La scelta dei facilitatori ha creato ulteriori malumori. In una chiave duplice. Da un lato, una buona fetta - si parla di qualche decina di eletti (soprattutto nei collegi uninominali) - ha criticato la mancanza di meritocrazia. E larvatamente minaccia uno strappo. L' ala nordista - a cui si rifanno Stefano Buffagni, Luca Carabetta, Alvise Maniero - invece accusa il leader di aver trascurato il settentrione in nome di un meridionalismo spinto. La situazione è nebulosa. Gli ortodossi - guidati da Roberto Fico e che hanno elementi di spicco come il ministro Federico d' Incà - al momento tengono un profilo istituzionale e vivono una fase attendista, aspettando l' evolvere degli eventi. Nei territori gli esponenti regionali scalpitano. E prima di Natale c' è stato anche un diverbio tra Roberta Lombardi e il leader. C' è chi crede che entro fine mese - in caso di una pesante sconfitta in Emilia-Romagna e Calabria - «arriverà la fine del Movimento». E anche la scelta di delegare a Rousseau la decisione sulle alleanze o sulla desistenza è stata vista come «un segno di debolezza» del leader. A complicare il quadro c' è la cacciata di Gianluigi Paragone, che minaccia di fare fuoco e fiamme contro il Movimento e il sostegno di Alessandro Di Battista, due outsider che hanno sempre spinto per un ritorno alle urne (e per la conseguente fine della stagione dimaiana). Ma proprio l' espulsione del senatore e la partenza dell' ex deputato per l' Iran sembrano sopire sul nascere l' idea di un asse contro il leader (sembra più plausibile la strada di un progetto editoriale più che politico), che ora ha il tempo e i margini per definire la trasformazione del M5S. Anche perché - come sottolinea un dimaiano - «nonostante le critiche nessuno ha portato avanti un progetto alternativo». Lo farà Lorenzo Fioramonti con qualche ex: ma il nuovo soggetto non modificherà gli equilibri di governo.
Federico Capurso per “la Stampa” il 5 gennaio 2020. Il 7 gennaio i probiviri del Movimento 5 stelle avvieranno le procedure di espulsione per quei parlamentari che non si sono messi in regola con le restituzioni. La messa al bando sarà quasi automatica per chi non è in regola da più di un anno. Ma anche per chi, pur avendo meno arretrati da saldare, si mostra deciso a non versare quanto dovuto, perché in polemica con i vertici. Questa seconda categoria di «scioperanti» si sta ingrossando e inizia ad alzare la voce contro Luigi Di Maio e Davide Casaleggio. Il figlio del fondatore, che si vede destinare 300 euro al mese da ogni eletto, è un po' preoccupato. Di Maio, invece, sembra non veda l' ora di disfarsi di una frangia dei suoi oppositori. L' idea è di dare una svolta «dura» alla sua leadership. Vuole un gruppo compatto, libero dai veleni, anche a costo di lasciare qualcuno per strada. Per ora, però, la strategia del capo politico sta funzionando a metà. Perché se da una parte la stragrande maggioranza dei parlamentari ha deciso (sotto minaccia) di onorare i propri debiti, dall' altra il clima nel partito è peggiorato ancora. Tanto che i borbottii e le lamentele iniziano a provenire anche da chi, finora, si era sempre allineato alle decisioni dei vertici. Intanto circa dieci, tra deputati e senatori, si rifiutano di versare l' obolo. «La mia - dice il deputato Andrea Vallascas - è una personale forma di "sciopero bianco"». Nessuna intenzione di tenersi i soldi e transitare altrove, assicura. Piuttosto, «cerco di mettere in evidenza delle perplessità che già altri colleghi hanno segnalato». E la minaccia di espulsione non fa paura a nessuno. «Mi caccino pure», li sfida il deputato Andrea Colletti. «Non darò nulla fino a quando non cambierà la regola che prevede che i soldi in eccedenza, a fine legislatura, finiscano nelle tasche di Rousseau. Al momento - sottolinea - sono più di 2,5 milioni di euro». In trincea c' è anche Flora Frate che se espulsa - al di là delle smentite di rito - potrebbe raggiungere Lorenzo Fioramonti nel suo nuovo progetto politico "Eco", proprio come il senatore Luigi Di Marzio, anche lui indietro con le restituzioni da più di un anno. Frate farà la sua parte, dice, quando potrà «scegliere a chi destinare le proprie risorse, se a un territorio o a un ente di ricerca, a una scuola o a un ospedale. La donazione obbligatoria è un ossimoro che porta all' implosione». E non piace nemmeno che sia un «comitato privato» formato da Di Maio e dai due capigruppo a gestire, senza alcuna trasparenza, i movimenti bancari. È questo il motivo, spiega la deputata Nadia Aprile, per il quale «ho sospeso a partire da marzo i bonifici di restituzione». Ma lo sciopero dei morosi è solo la punta dell' iceberg. Il malessere, per come è stata affrontata la vicenda, è molto più diffuso. Ai grillini della vecchia guardia, giunti alla seconda legislatura, quello di Di Maio sembra uno sgradito ritorno al 2013, l' epoca del Terrore, quando era sufficiente sollevare un dubbio per essere espulsi. «Ci manca solo che tornino i P.S.», si legge in una chat di parlamentari del Sud, facendo riferimento ai post scriptum che un tempo apparivano sul blog di Grillo, con cui venivano notificate, a sorpresa, le cacciate dal partito. Risponde una senatrice: «Se pensa di ottenere rispetto mostrandoci il bastone» - «Finirà preso a bastonate», conclude la frase un collega. Di Maio è avvertito.
Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 4 gennaio 2020. È uno stillicidio, e i due deputati del M5S che lasciano il gruppo - Nunzio Angiola e Gianluca Rospi, passati al misto - non saranno neanche gli ultimi. Per sapere chi sono gli indiziati basta andare a vedersi le mancate restituzioni (la quota di indennità che i parlamentari del Movimento versano in un fondo per il microcredito e altre iniziative sui territori) sul sito che monitora le situazioni individuali in questo che è un po' il tratto distintivo dell' essere 5 Stelle. Le restituzioni, appunto, che ai bei tempi culmina(va)no sempre con le photo opportunity fuori dai palazzi del potere con il mega assegno in mano. Ecco, su tirendiconto. it e secondo le norme interne in 12 nel 2019 non hanno neanche un mese in regola; una ne ha solo uno; in sette sono a posto per due mesi; in sei per tre. Almeno ventisei eletti a rischio espulsione quindi. O sono portavoce da tempo con la testa e il cuore altrove, quindi perché decurtarsi lo stipendio? Negli ultimi giorni, dopo la denuncia via social del senatore Gianluigi Paragone (espulso giusto tre giorni fa) che faceva nomi e cognomi di peso che risultavano inadempienti, si sono messi in regola o comunque hanno portato avanti le rendicontazioni le ministre Fabiana Dadone e Nunzia Catalfo; ma anche figure di peso come Carla Ruocco, Marta Grande e Simone Valente. Rimane il fatto che i 5 Stelle fanno acqua da tutte le parti, tra la somma preoccupazione non solo di Luigi Di Maio ma anche delle altre forze di una maggioranza nata precaria. «Mi auguro che questo dibattito interno non metta in discussione il governo » dice Nicola Zingaretti, leader del Pd, che tende una mano ai 5Stelle anche sulla revoca della concessione Autostrade: «Va fatta se ci sono dei motivi». Ma lo scontro intanto divampa. «I vertici del Movimento hanno preferito trincerarsi in una chiusura pregiudiziale nelle proprie granitiche convinzioni», si è spiegato Angiola. Secondo Rospi, invece, «non è più tollerabile una gestione verticistica e oligarchica». La senatrice Laura Bottici non si commuove: «C' è bisogno di gente che lavora sodo e non di chi rema contro. Ad ognuno le sue scelte, senza vittimismi o scenate da urlatori. Per questo dico "ciao ciao" a chi se ne va, e forse, chissà, non è mai stato davvero con noi». Ragiona invece Michele Gubitosa: «Tagliarsi lo stipendio, rinunciare a doppi e tripli incarichi, rinunciare a nuove candidature, rispettare regole e codici etici, non è una cosa comune in politica. Se qualcuno non se la sente più, è legittimo che possa uscire. Però per rispetto degli elettori dovrebbe dimettersi e farsi rieleggere ». Il capo politico infatti ha dettato la linea dura: o si sta alle regole oppure si è fuori. Il tema rendicontazioni è comunque all' ordine del giorno dell'assemblea congiunta dei gruppi parlamentari e che si terrà l' 8 gennaio, preceduta da due riunioni separate di Camera e Senato. Detto questo, le insoddisfazioni e i dissensi sono di natura politica ma anche personale, tra chi non si è mai sentito valorizzato e chi invece è stato escluso dalla squadra di governo. Dopodiché c' è chi rimpiange l' impostazione sovranista e moderatamente antisistema della campagna elettorale del 2018 e la successiva collaborazione con Matteo Salvini, ed è il caso dei tre senatori passati armi e bagagli dai 5S alla Lega il mese scorso. Mentre Paragone giura che né lui né Di Battista (che lo ha difeso) pensano ad organizzare scissioni. Poi c'è Lorenzo Fioramonti, che dopo aver dato le dimissioni da ministro dell' Istruzione nei giorni scorsi, si è messo a lavorare attorno alla costruzione di un nuovo gruppo parlamentare di sostegno alla maggioranza di governo, "Eco", ed è una sorta di scissione da sinistra, ambientalista. Alla Camera si parla di nove o dieci eletti dei 5 Stelle pronti a seguirlo - diversi parlamentari si aspettano un annuncio attorno al 15 gennaio - compresi Angiola e Rospi. Infine ci sono gli attendisti, cioè chi per adesso rimane dentro il M5S ma ritiene la leadership di Di Maio ormai esaurita. Se non fosse che un' alternativa al momento non c' è. Ammesso che il Movimento, per com' è stato strutturato, sia democraticamente contendibile.
Hanno piantato la bandiera loro sul Palazzo e ora non servono più. Il Movimento 5 stelle è morto, il grillismo ha vinto. Piero Sansonetti il 3 Gennaio 2020 su Il Riformista. «The King is dead, long live the King!», dicono così gli inglesi, da tanti anni. E prima lo dicevano i francesi, i portoghesi, gli spagnoli: è un caposaldo della politica: il re è morto, lunga vita al re. Non è un paradosso, è la celebrazione della morte come continuità e successo. È quello che sta accadendo ora qui da noi: il partito dei Cinquestelle è praticamente liquefatto, è riuscito nel miracolo di disperdere in poco più di un anno un consenso di dimensioni mostruose, costruito sul nulla, semplicemente sul carisma di un attore con eccezionali capacità di cavalcare l’onda plebea. Non popolare: plebea. Dal 33 per cento a meno della metà. E ora il Movimento è in agonia, diviso in tanti tronconi, coi dissidenti che fuggono, e altri che fondano nuovi partitini o aderiscono ai vecchi, e i due suoi esponenti più prestigiosi, i giovani Di Maio e Di Battista, l’un contro l’altro armati, sembrerebbe, non divisi – come si potrebbe immaginare – tra riformismo e rivoluzione ma – più rasoterra – tra paragoniani e antiparagoniani. Nessuno mai, fino a un anno fa, avrebbe potuto immaginare che si sarebbe creata la categoria del paragonismo, che oggi vale più, al mercato della politica, del socialismo, del liberalismo, del cristianesimo democratico… Un vero disastro, no? Eppure. Eppure, mentre si scioglie e tramonta il movimento dei Cinque Stelle, tutti sappiamo benissimo che il grillismo dilaga. Ha vinto. È così, c’è poco da fare: il grillismo ha vinto. Ha conquistato il governo, i vertici della magistratura, gran parte dei partiti moderati ed estremisti (tranne, forse, Forza Italia) comanda in Rai, è il faro nei giornali, nelle Tv, è il motore che trascina intellettuali, case editrici, maître à penser, associazioni, gruppi antimafia…Non è così? Lo abbiamo visto in questi mesi e poi in questi giorni. Fermata la timidissima riforma carceraria, varato un decreto anticorruzione che si fa beffe della carta costituzionale, pronto un decreto intercettazioni che sembra scritto da un burocrate della Germania di Ulbricht, cancellata la prescrizione, lanciate offensive giudiziarie a campo libero un po’ contro tutte le forze sospettate di lievi simpatie garantiste (da Italia Viva, a una corrente liberal del Pd calabrese a vari pezzi del vecchio berlusconismo) o comunque non considerate amiche, anche se abbastanza forcaiole, come i salviniani, e in particolare Salvini in persona. E poi taglio delle pensioni ai parlamentari, riduzione del numero, proposte di introduzione del vincolo di mandato, e, ancora, silenzio assoluto sui soprusi della magistratura che distribuisce segreti ai giornali allo scopo di sputtanare persone o gruppi, e silenzio assoluto anche sugli scandali che comunque esplodono, come il caso Palamara, o anche, più semplicemente, il caso Casaleggio-Moby, anche se Casaleggio non è direttamente un esponente della magistratura ma solo un membro onorario, e silenzio anche sul processo siciliano che sta dimostrando che un pezzo molto grande della magistratura palermitana ha fatto carne di porco dell’eredità di Falcone e ha favorito il depistaggio delle inchieste sull’uccisione di Borsellino. Tutto questo con l’appoggio compatto – granitico- di Tv, giornali e intellettualità. E con la fine della vecchia categoria della critica, intendo dire della critica politica. La quale è stata ridimensionata, ridotta a polemichetta o gossip, e viene usata non per creare idee e discussione, ma per linciare, un po’ alla buona, qualche avversario politico: mai per mettere in discussione il senso comune, o addirittura i poteri. E mai e poi mai, comunque – per abitudine, per giuramento e forse anche per legge – per porre in discussione il potere assoluto della magistratura. Come si chiama tutto questo che ho provato a descrivere a larghi tratti, ma in modo assolutamente incompleto? Regime. Si chiama così. Il regime è la situazione politica nella quale il potere si assesta, e stabilisce l’etica pubblica, e la impone, in assenza di opposizione o comunque in assenza di legittimità dell’opposizione. Qui siamo noi, oggi. Per questo io non capisco bene le tante analisi sui motivi della caduta dei grillini. La mancanza di esperienza, o di tattiche, o di idee, o di progetti, o di capacità di governo, o di strategia delle alleanze. Tutto vero, certo, ma anche molto marginale. La caduta dei grillini è dovuta alla loro vittoria. Hanno piantato la bandiera loro sul Palazzo e sulla piazza e ora non servono più. Tutto qui. Scompaiono per eccesso di vittoria. Cercate il grillismo? Ne potete trovare quanto ne volete nel Pd, nella Lega, nei Fratelli d’Italia, in Leu, e ne potete trovare persino nell’Italia Viva di Renzi. E poi nelle università, a Saxa Rubra, a via Solferino, da Cairo o a Mediaset, dovunque si decide e si creano o si controllano le opinioni. È possibile una reazione? Sì, ma bisogna convincersi che non si combatte il grillismo con le aspirine. Occorre una rivolta morale. Occorre l’intellighenzia, la politica, l’informazione. C’è qualcuno disposto – come dicevamo da bambini – a mettere il dito qui sotto? Conto: uno, due, dieci, quindici…Ok: qualcun altro?
Paragone espulso dal Movimento 5 Stelle: "Ha anche votato contro la legge di bilancio". Lui: "Sono stato espulso dal nulla". Il senatore: "Sono uno dei tanti elettori cacciati dal Movimento di Palazzo". Il mese scorso tre senatori Ugo Grassi, Francesco Urraro e Stefano Lucidi sono passati alla Lega. La Repubblica l'1 gennaio 2020. Il Collegio dei Probiviri, composto da Raffaella Andreola, Jacopo Berti e Fabiana Dadone, a quanto si apprende, ha disposto l'espulsione dal MoVimento 5 Stelle di Gianluigi Paragone. "Sono stato espulso dal nulla - ha commentato Paragone - quando perdi 2 elettori su 3 ti espelle il nulla. Sono uno dei tanti elettori espulsi dal Movimento di Palazzo". L'espulsione è già stata comunicata all'interessato e, tra le altre cose, viene motivata anche con il voto espresso in difformità dal gruppo parlamentare sulla legge di bilancio. Paragone ha votato contro la legge di Bilancio e si era astenuto nel voto di fiducia al Governo Conte II. Da tempo non risparmiava critiche ai vertici del Movimento 5 Stelle. Con questa espulsione si assottigliano dunque i numeri del Movimento 5 Stelle al Senato. Solo il mese scorso tre senatori Ugo Grassi, Francesco Urraro e Stefano Lucidi sono passati alla Lega. E esattamente un anno fa venivano espulsi i senatori Gregorio De Falco e Saverio De Bonis per "reiterate violazioni dello statuto" mentre a giugno era stata espulsa la senatrice Paola Nugnes. A settembre la senatrice del M5s Gelsomina Vono aveva aderito al gruppo Italia Viva mentre a novembre del 2019 la senatrice Elena Fattori era passato al gruppo Misto. La situazione a Palazzo Madama è quindi sempre più precaria e nelle prossime settimane non si escludono altri addii nelle file pentastellate.
Paragone, il M5s è morto, perse le radici anti-sistema. Il senatore Paragone in una intervista al Quotidiano nazionale del 28 dicembre aveva promesso battaglia. Era convinto che sarebbe stato espulso. "Ci proveranno, certo - aveva detto - forse ce la faranno pure, ma poi metterò in evidenza che il collegio dei probiviri è composto da persone che sono incompatibili, come la ministra Dadone che non può essere ministro e probiviro insieme". "Poi - aveva aggiunto - mi appellerò all' espulsione e a quel punto se la prenderanno comoda e io dovrò andare dal ministro della Giustizia Bonafede a dirgli che lui non è in grado di garantire tempi certi di giustizia neanche all'interno del Movimento. E se tutto questo poi non dovesse bastare - aveva spiegato -, allora resterà sempre la giustizia ordinaria. Perché se tutti quelli che non hanno pagato, come, invece, ho fatto io, hanno disatteso la regola della rendicontazione non verranno espulsi, allora vorrà dire che tutto questo è solo una truffa". Il Movimento, aveva analizzato, "in questo momento si è accucciato, nella sua parte di governo, all' area progressista di questo Paese, mentre un' altra parte non sa di preciso dove andare e c' è ancora una terza parte che, come me, è rimasta alle radici di nucleo politico antisistema che a mio giudizio stava meglio con la Lega perché insieme rappresentavano meglio le forze antisistema". "Il Miur - aveva commentato - è stato spacchettato per una questione di poltrone".
Paragone: "Ecco chi non ha restituito, Di Maio sapeva". "Visto che ai probiviri piace il rispetto delle regole - aveva detto in un video postato su Facebook - è giusto che anche io chieda il loro intervento: tra quelli che non sono in regola con i pagamenti ci sono ministri, presidenti di commissione....Mi sono rotto le scatole della gente che predica bene e razzola male!". "Tutti lo sapevano. C'è gente che dall'inizio dell'anno non ha rendicontato nulla: Acunzo, Aprile, Cappellani, Del Grosso, Dieni, Fioramonti, che lo hanno anche fatto ministro, e poi Frate, Galizia, Grande, Lapia, Romano, Vacca, Vallascas, Giarrusso: lo sapevano tutti perché su Rendiconto c'è tutto e loro non hanno rendicontato nulla e allora il capo politico dov'è? Ha fatto finta di non sapere...". Poi, continuava il senatore, "tra chi ha pagato poco ho il piacere di segnalare la Nesci, che si voleva candidare in Calabria e soprattutto Carla Ruocco, presidente della Commissione Finanze e che vuole andare a fare la presidente della Commissione di inchiesta sulle banche: è ferma solo a tre mensilità. Poi c'è il ministro del lavoro Nunzia Catalfo, che è ferma a due mesi; è importante che proprio loro si mettano in regola". Paragone citava poi anche quelli che hanno rendicontato "proprio tutto" e, tra i vari, cita anche Lucia Azzolina e Francesco D'Uva.. E conclude: "sarà mia premura segnalare ai probiviri tutti quelli che sono sotto i sei mesi".
Gianluigi Paragone espulso dal Movimento 5 Stelle: “C’era il 33%…”. Redazione de Il Riformista l'1 Gennaio 2020. Il Collegio dei probiviri ha disposto l’espulsione dal Movimento 5 Stelle di Gianluigi Paragone. Il voto contrario alla legge di Bilancio è tra le motivazioni per cui il collegio dei probiviri del Movimento, composto da Raffaella Andreola, Jacopo Berti e Fabiana Dadone, ha cacciato il senatore Gianluigi Paragone. Secondo quanto apprende l’AGI, inoltre, a Paragone è stato contestato di essersi astenuto nel voto sulle dichiarazioni del premier Giuseppe Conte. “Sono stato espulso dal nulla… C’era una volta il 33%. Ora…”. Questo il messaggio, scritto a mano su un foglio marchiato con il logo del Senato, che Paragone ha pubblicato su Facebook. Nei giorni scorsi lo stesso Paragone ha chiamato in causa l’intervento dei probiviri del Movimento 5 Stelle per i parlamentari che non hanno rendicontato. Il senatore con un video pubblicato su Facebook ha lanciato accuse durissime e senza particolari giri di parole: “Se invochi il rispetto del programma devi andare a processo. Perché sei un rompicoglioni e i rompicoglioni non piacciono più al M5S. E allora visto che ai probiviri piace il rispetto delle regole sarà bene che anch’io chieda il rispetto delle regole verso che coloro che non hanno pagato nulla. E tutti sapevano di questa situazione”. Paragone prese di mira anche la ministra Fabiana Dadone “che è un probiviro che dovrà giudicare me un po’ in conflitto di interessi – sottolinea – perché è ministro e secondo me è anche un po’ incompatibile perché non puoi far parte del collegio dei probiviri ed essere anche ministro, ma vabbe’, quisquilie…è ferma a 5 mensilità. Te ne mancano un bel po’. Dovrai giudicare anche su sé stessa se non ti metti in regola”. E poi Ruocco, la ministra Catalfo. “Chi è sotto i sei mesi riceverà il mio esposto”, conclude il senatore. In una recente intervista al Riformista, Paragone così aveva commentato le voci di un suo passaggio alla Lega. “Non è vero un tubo che sto lavorando a una scissione. Quello che ha scritto qualcuno (Repubblica, ndr) non ha alcun senso”, ha spiegato l’ex conduttore televisivo, da molti indicato come il Caronte traghettatore di anime da Di Maio a Salvini. “Io ho votato la fiducia al governo Conte e dovrei fare la scissione per un gruppo che vota contro il governo Conte? È privo di logica politica. La mia uscita dai Cinque Stelle è una cazzata colossale”.
M5S, Di Battista: «Paragone è più grillino di tanti. Io sempre d’accordo con lui». Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. Alessandro Di Battista, tra i leader del M5S rimasto fuori da cariche elettive ma considerato il rappresentate della componente più movimentista dei Cinque Stelle, è sceso in campo a sostegno di Gianluigi Paragone, espulso ieri dai probiviri del M5S. «Gianluigi è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali.», scrive in un post su Facebook Di Battista, anche se non dal suo profilo personale ma rispondendo a una attivista, «non c’è mai stata una volta che non fossi d’accordo con lui. Vi esorto a leggere quel che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell’ultima campagna elettorale che ho fatto. Quella da non candidato, quella del 33%». L’allontanamento del senatore da parte dei probiviri dei Cinque stelle è stato motivato per il fatto di non aver votato da parte del parlamentare la legge di Bilancio, di essersi astenuto in occasione del voto sulle dichiarazioni del premier Giuseppe Conte e di aver violato in generale gli accordi presi al momento della sua candidatura al Senato nelle liste M5S. La scelta di campo di Di Battista apre un nuovo capitolo nelle tensioni all’interno del Movimento. Nel frattempo, altri nel M5S si scagliano contro Paragone. Il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, in un post pubblicato sulla pagina Facebook, scrive per esempio: «Chi ha votato contro la manovra 2020 ha votato contro il Reddito di Cittadinanza, quota 100, lo stop all’aumento dell’Iva e i fondi ai Vigili del fuoco. Paragone è stato espulso dal M5S per aver votato contro queste misure, allo stesso modo dei tre senatori che sono passati dal M5S alla Lega. Un conto sono le critiche costruttive, altra cosa è il sabotaggio. Senza tralasciare il caso recente di un ormai ex ministro che non restituiva lo stipendio ed è poi passato al Gruppo Misto. Insomma, mica ha mollato la poltrona da parlamentare. È ora di porre fine a questo spettacolo patetico ai danni dei cittadini italiani e sono sorpreso che ci sia anche qualcuno che difende questi personaggi». «A cosa serve tutto ciò? A fare un favore alla Lega? A Berlusconi? Alla Meloni? Per coltivare un proprio elettorato in occasione di una nuova tornata elettorale?». Anche Nicola Morra, senatore M5S e presidente della commissione Antimafia, rivolgendosi via Facebook a Paragone, scrive: «Gianluigi, certamente stiamo operando scelte non sempre lucide, non sempre felici. Certamente non siamo quelli del 4 marzo 2018, esattamente come non siamo più quelli del 4 ottobre 2009 o del 25 febbraio 2013. Ma se ci definisci il “nulla”, come si legge, perché rimanevi nel “nulla” prima di essere espulso? Abbiamo tanti, tanti problemi, e sapessi quanta xxxxx abbiamo dovuto ingoiare, ho dovuto ingoiare, in questi anni. Se però vuoi essere parte di un gruppo, devi anche accettare le decisioni che ti vedono contrario, operando al fine di convincere gli altri degli errori che si vanno facendo». «Certo, fin quando la tua soggettività, la tua coscienza, te lo consentono. Ma allora te ne vai da te, reputando che si sia conclusa un’esperienza di condivisione, di fratellanza. Se ti fai espellere e definisci i tuoi vecchi amici e compagni il “nulla”, non fai onore anche al tuo recente passato, alla tua intelligenza, a milioni di persone che quanto te, e forse ben più di te, c’hanno creduto e ci credono ancora. Ti rispetto, ma le parole hanno un senso».
Paragone spacca i 5 Stelle: "È più grillino di molti altri". Anche Barbara Lezzi sta con il senatore espulso: "Non è una buona idea espellere gli anticorpi, caro Movimento 5 Stelle". Luca Sablone, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Il "caso Paragone" spacca il Movimento. Il senatore è stato espulso per non aver votato la legge di bilancio, ma a difenderlo arriva persino Alessandro Di Battista, un esponente di spicco e spesso considerato la "nemesi" di Luigi Di Maio. "Gianluigi è infinitamente più grillino di molti che si professano tale", ha scritto Dibba su Facebook usando non la sua pagina, ma il suo account personale, con poco più di 4mila amici e circa 180mila followers. "Non c'è mai stata una volta che non fossi d'accordo con lui. Vi esorto a leggere ciò che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell'ultima campagna elettorale che ho fatto", prosegue. E poi ha lanciato una sorta di frecciatina, come a voler ricordare i vecchi tempi, ormai dimenticati e calpestati dal mutamento del Movimento 5 Stelle: "Quella da non candidato, quella del 33%. Buon anno a tutti amici miei...". Immediata la risposta da parte del giornalista, che ha risposto all'attivista pentastellato ringraziandolo "per le belle parole che usato". A suo giudizio Di Battista rappresenta "quell’idea di azione e di intransigenza che mi hanno portato a conoscere il Movimento". E ha ripercorso tutte le battaglie che negli anni il M5S aveva portato avanti: "Stop allo strapotere finanziario, stop con l’Europa di Bruxelles, stop con il sistema delle porte girevoli, lotta a difesa dei veri deboli, stop alle liberalizzazioni che accomunano Lega e Pd". Infine ha difeso quello storico programma: "Con quello sono stato eletto. Ale lo sa". Anche Barbara Lezzi ha esplicitato il proprio sostegno a Paragone: "Fino a quando, e sono certa che continuerà così, lavorerà senza sosta per i deboli, per assicurare un salario minimo decente, per fare in modo che le multinazionali osservino le leggi del nostro Paese resterà un mio collega". L'ex ministro per il Sud ha poi concluso: "Non è una buona idea espellere gli anticorpi, caro Movimento 5 Stelle".
"Basta con questo spettacolo". Assolutamente di altra opinione Carlo Sibilia: "Chi ha votato contro la manovra 2020 ha votato contro il reddito di cittadinanza, quota 100, lo stop all’aumento dell’Iva e i fondi ai vigili del fuoco. Paragone è stato espulso dal Movimento 5 Stelle proprio per aver votato contro queste misure. Cioè allo stesso modo dei tre senatori che sono passati dal M5S alla Lega". Il sottosegretario al Ministero dell'Interno non ha risparmiato critiche neanche nei confronti di Lorenzo Fioramonti: "A questo aggiungiamo il caso di quello che faceva il Ministro, non restituiva ed è passato al misto (mica ha mollato la poltrona)". Il grillino su Twitter ha poi tuonato ancora: "Votare contro reddito di cittadinanza, quota 100 e vigili del fuoco non è da M5S. Paragone, meno chiacchiere, portare a casa i risultati, rispettando le regole e gli impegni presi. A partire dalla restituzione dei soldi dei nostri stipendi: chi non rispetta le regole deve andare fuori".
E Nicola Morra, pur ammettendo che "certamente non siamo quelli del 4 marzo 2018, esattamente come non siamo più quelli del 4 ottobre 2009 o del 25 febbraio 2013", ha aggiunto: "Se ci definisci il 'nulla', come si legge, perché rimanevi nel 'nulla' prima di essere espulso?". Il presidente della commissione Antimafia ha poi continuato: "Abbiamo tanti, tanti problemi, e sapessi quanta xxxxx abbiamo dovuto ingoiare, ho dovuto ingoiare, in questi anni. Se però vuoi essere parte di un gruppo, devi anche accettare le decisioni che ti vedono contrario, operando al fine di convincere gli altri degli errori che si vanno facendo".
Paragone smaschera Di Maio: "È un accumulatore di poltrone". Il senatore adesso avverte: "Farò ricorso. Racconterò alcuni retroscena di questa espulsione. Ormai il Movimento 5 Stelle si è accomodato nel palazzo". Luca Sablone, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Una decisione che era nell'aria, che però ha scatenato l'ira da parte della base pentastellata. L'espulsione di Gianluigi Paragone dal Movimento 5 Stelle non ha risparmiato critiche verso i vertici, accusati dagli elettori di essere stati eccessivamente intransigenti nei confronti di un senatore che da sempre si è battutto "contro l'élite e l'Europa dei forti". La sua "colpa" è stata quella di aver votato contro la legge di Bilancio e di essersi astenuto nel voto sulle dichiarazioni del premier Giuseppe Conte. Il giornalista ha presentato al collegio dei probiviri una memoria difensiva, giudicata però insufficiente per evitare l'espulsione in quanto non idonea a superare le contestazioni rivoltegli. Ma ha annunciato chiaramente che farà ricorso: "Cari falsi probiviri, cari uomini del nulla, voi avete paura di me perché io ho quel coraggio che voi non avete più. Contro la meschinità del vostro arbitrio mi appellerò". L'ormai ex grillino, contattato da Tgcom24, ha duramente attaccato Luigi Di Maio: "È l'uomo che ha accumulato più poltrone di qualsiasi altro". E si è sfogato contro la decisione: "Quando perdi due elettori su tre, capisci che ti espelle il nulla. Ormai il M5S si è accomodato nel palazzo, è un Movimento che si è messo le pantofole". Ha confessato che ha ricevuto diversi messaggi di sostegno: "C'è una grande rabbia di quegli attivisti che pensavano che il Movimento fosse antisistema". Infine ha avvertito: "Racconterò alcuni retroscena di questa espulsione, perché ci sono particolari succosi".
"Da oggi ci divertiamo". Intervistato dal Corriere della Sera, Paragone si è così difeso: "Io sono uno dei tanti elettori espulsi dalla incoerenza dei vertici. Se mi sono sentito con Di Maio? Ma no... Di tutte queste cose parlerò nelle prossime ore. Da domani ci divertiamo". Recentemente aveva avvertito che, in caso di espulsione, avrebbe messo in evidenza "che il collegio dei probiviri è composto da persone che sono incompatibili". Tra questi infatti vi è anche Fabiana Dadone, il ministro della Pubblica amministrazione che tra l'altro sarebbe una grillina morosa: "Non può essere ministro e probiviro insieme". Non è escluso che si appellerà: "Se la prenderanno comoda". E potrebbe essere chiamato in causa anche Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia: "Gli dirò che non è in grado di garantire tempi certi di giustizia neanche all'interno del Movimento". Nel frattempo resta ancora aperta la questione dei rimborsi: il senatore aveva elencato tutti i pentastellati che "non hanno restituito i soldi". Tra questi anche Carla Ruocco, presidente della commissione Finanze, e Nunzia Catalfo, ministro del Lavoro.
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2020. «Il Movimento? Deve tornare a fare il Movimento. Dobbiamo ritrovare lo spirito di Gianroberto Casaleggio»: tra i vertici M5S la linea maestra per il 2020 è chiara. Ritornare ad avere una identità ben definita. Una linea da seguire «a qualsiasi costo». Anche con l' intransigenza, se è il caso. Gli addii? «Pianificati», dicono i Cinque Stelle. E lo stesso Luigi Di Maio sottolinea ai suoi che «il Movimento è pluralità ma non anarchia, finito con Paragone ora nei prossimi giorni toccherà a chi non restituisce. Via le zavorre, potremo tornare a volare». C'è anche chi scherza, ricordando come l' espulsione dell' ultimo dell' anno sia «una tradizione» dei pentastellati. L'idea, però, battute a parte, è quella di tirare dritto: i vertici sono sicuri che il governo non cadrà e che il Movimento, seppure più snello, recupererà incisività. Nel gruppo parlamentare, invece, c' è incertezza. La leadership, complice anche la stoccata di Alessandro Di Battista in difesa dell' espulso Gianluigi Paragone, viene di nuovo messa in discussione. E anche la tenuta dei Cinque Stelle. E nel Movimento ci si divide tra chi vede all' orizzonte una implosione e chi una scissione. «Stiamo chiudendo bottega». Le parole dell' ex deputato «hanno dato il via alla guerra tra bande». Di Battista, intanto, si prepara a partire tra pochi giorni per l'Iran e lì resterà per un paio di mesi. Ma la strategia dei vertici è decisa. E il capo politico si sente forte di un dettaglio non trascurabile: il piano è stato studiato da Luigi Di Maio insieme a Davide Casaleggio e Beppe Grillo. Non a caso, anche ieri, dopo l'annuncio della «cacciata» di Paragone i tre si sono sentiti per commentare le reazioni e per fare il punto su quello che è considerato il «punto di svolta» del Movimento: gli Stati generali di marzo. La kermesse coinvolgerà direttamente le varie anime, a partire dal garante. La linea dura andrà avanti per quasi tutto gennaio, di sicuro fino al 20 (data della nomina dei facilitatori regionali): fino ad allora - e forse già nei prossimi giorni - le espulsioni saranno un tema ricorrente. Il confronto con il gruppo parlamentare arriverà presto: l'assemblea congiunta di deputati e senatori è prevista per l' 8 gennaio, ma alla riunione il tema degli strappi non sarà toccato. Pubblicamente il tema degli addii passa sottotraccia, nonostante le bordate sparate da Paragone: Di Maio opta per il silenzio. E allarga al gruppo e ai suoi la sua scelta. Il leader chiede di non farsi coinvolgere nella polemica e suggerisce a chi - anche tra i colleghi di governo - lo chiama per annunciare un affondo contro il senatore «cacciato»: «Non lo fate». Bocce ferme, anche per il commento di Di Battista: «Alessandro? Un po' me lo aspettavo - ironizza -, ma Alessandro è libero di esprimersi. Non voglio attacchi, non facciamo l'errore di fare come i partiti. Non stiamo al governo per parlare di noi, né per fare gli idealisti, ma per risolvere i problemi degli italiani. O capiamo la responsabilità che abbiamo sulle spalle, oppure possiamo andare a casa». Ma lo strappo con Paragone comunque è lo spunto per una riflessione che Di Maio affida al suo inner circle: «Al M5S servono persone che lavorano per ottenere risultati, non visibilità. Servono persone che ci mettano la faccia sempre e non a giorni alterni o secondo le proprie convenienze». Spiega che «non possiamo pensare che ognuno qui faccia quello che vuole» - dice appunto - «il Movimento è pluralità ma non anarchia». E anche nel governo Di Maio è pronto a rivendicare i temi identitari e le battaglie del Movimento. La trincea (ironica) del video di auguri di Beppe Grillo sta prendendo pian piano forma. Sulla tenuta della maggioranza e del governo il capo politico non ha dubbi: «Siamo solidi, il governo è forte e c' è voglia di fare. Nei prossimi giorni ci riuniremo per buttare giù il cronoprogramma e prepareremo l' agenda 2020». Tuttavia gli scogli sono dietro l' angolo: «Quel che è certo è che non accetteremo passi indietro su autostrade - aggiunge il ministero degli Esteri -. La concessione va revocata e bisogna rivedere tutto il sistema di affidamenti per abbassare i pedaggi autostradali. A questo è legato anche il futuro del governo». Per il momento «non c' è preoccupazione» a Palazzo Chigi per le espulsioni e i probabili addii nel Movimento, la situazione viene derubricata a questione interna. Ma a Palazzo Madama nuovi strappi potrebbero portare ad equilibri ancora più instabili.
Rottura tra Di Maio e Di Battista: “Non servono persone opportuniste”. Laura Pellegrini il 03/01/2020 su Notizie.it. È caos all’interno del Movimento 5 Stelle: si rompe il ritrovato asse (rinato nei giorni della battaglia sul Mes) tra Luigi Di Maio e Alessandro di Battista dopo il sostegno di quest’ultimo a Paragone. Dopo il voto contrario del senatore alla manovra e l’astensione durante la votazione sulle dichiarazioni del premier Conte, il Collegio dei probiviri ha decretato la sua espulsione dal partito. Di Battista ha però fatto sentire la sua vicinanza a Gianluigi, definendo Paragone fosse “più grillino di altri”. Il capo politico di M5s, di fronte a tutto ciò, ha preso le distanze.
Rottura Di Maio-Di Battista. Il caso dell’espulsione di Paragone da M5s ha scatenato il caos all’interno del Movimento. Dopo il commento di Di Battista su Paragone, il capo politico pentastellato ha voluto sottolineare che “pluralismo non significa anarchia. Il Movimento è fatto di tante voci, mi auguro che tutte siano presenti agli Stati generali di marzo, ma non è possibile accettare che ognuno faccia quel che vuole contro la comunità di cui fa parte”. Non sono mancate alcune frecciatine all’ex ministro Fioramonti e a Paragone stesso: “Al Movimento servono persone che lavorino per ottenere risultati, non visibilità. Servono persone che ci mettano la faccia sempre – ha detto ancora Di Maio – e non a giorni alterni, secondo le proprie convenienze”. Diversa la posizione di Alessandro Di Battista, più vicino all’intransigenza di Paragone. L’ex deputato del M5s, infatti, aveva sottolineato già in un incontro passato con il ministro degli Esteri che “con Gianluigi continuerò a lavorare. Abbiamo la stessa visione del Movimento, dice quel che ho sempre detto io”. Infatti, l’ex parlamentare ha ribadito la medesima opinione anche tramite social: “Non c’è mai stata una volta che non fossi d’accordo con lui. Vi esorto a leggere ciò che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell’ultima campagna elettorale che ho fatto”.
Paragone espulso, Sgarbi: “Quando c’è qualcuno che pensa, lo cacciano”. Laura Pellegrini il 02/01/2020 su Notizie.it. Vittorio Sgarbi ha commentato duramente l’espulsione di Gianluigi Paragone dal M5s: l’ex grillino aveva votato contro la legge di bilancio, una scelta che non è passata inosservata tra i vertici del Movimento. Inoltre, più volte il senatore aveva criticato il Movimento e il capo politico Luigi Di Maio. Nella serata di mercoledì 1 gennaio, quindi, il Collegio dei probiviri ne ha decretato l’espulsione. A quanto pare, però, non sarebbe l’unico big a lasciare il Movimento. Sgarbi, all’indomani della decisione del Collegio, ha lanciato un duro attacco a M5s su Twitter.
Paragone espulso, commento Sgarbi. Non è passata inosservata la votazione di Paragone alla Manovra e nemmeno la sua espulsione da M5s: Vittorio Sgarbi lancia un attacco su Twitter. Il critico d’arte si rivolge a M5s: “Quando si accorgono che tra di loro c’è, incredibilmente, qualcuno che pensa – in questo caso il riferimento è proprio a Paragone -, lo cacciano”. Infatti, il grillino si era espresso più volte contro i colleghi del Movimento e aveva criticato anche Luigi Di Maio. Perciò il Collegio dei probiviri ne ha decretato l’espulsione. “Sono stato espulso dal nulla. Quando perdi due elettori su tre, ti espelle il nulla – ha detto Paragone -. Sono uno dei tanti elettori espulsi dal Movimento di Palazzo”.
Gianluigi Paragone e l’sms a Mentana: “Perchè non entro nella Lega”. Debora Faravelli il 2/01/2020 su Notizie.it. Enrico Mentana ha chiesto via Whatsapp a Gianluigi Paragone, espulso dai probiviri dal Movimento Cinque Stelle, cosa risponde a chi lo accusa di essere pronto ad entrare nella Lega di Matteo Salvini. La risposta dell’ex grillino è stata chiara e non lascia adito a dubbi.
Gianluigi Paragone nella Lega? Dopo la sua uscita forzata dal M5S dovuta alla mancanza del suo voto in favore della legge di bilancio, in tanti avevano vociferato su un suo possibile ingresso nel Carroccio. A farlo erano stati soprattutto alcuni suoi ex colleghi di partito, secondo cui Paragone fosse in passato una quinta colonna leghista. Accusa da cui l’aveva difeso Alessandro Di Battista definendolo più grillino di tanti altri. Il diretto interessato ha però spiegato di voler rimanere nel Movimento opponendosi alla decisione presa “dai signori del nulla“, chiudendo di fatto la possibilità di entrare in altri partiti o nel gruppo misto. La smentita è arrivata esplicitamente anche in un messaggio inviato a Mentana che ne ha riportato il testo sui suoi canali social. Paragone ha scritto al giornalista di non poter andare con chi sarebbe disposto a candidare Draghi come Presidente della Repubblica. E con chi non ha il coraggio di dire che bisogna nazionalizzare autostrade e telecomunicazioni. I riferimenti sono in primis allo “Why not?” pronunciato da Salvini in risposta a chi gli chiedeva della possibilità di vedere in futuro l’ex titolare della BCE al Quirinale. E poi alla differente posizione assunta da Lega e M5S in relazione alla nazionalizzazione delle autostrade, su cui la prima ha spesso mostrato reticenza.
Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2020. Costringere Luigi Di Maio a riaccoglierlo a braccia aperte, con tanto di scuse e «bentornato a casa». Ecco la mission che Gianluigi Paragone si è dato, da quando il collegio dei giudici del Movimento ha formalizzato la cacciata del «rompicoglioni», come il senatore ribelle si definisce. «Io da qui non mi muovo, resto incollato al mio scranno di Palazzo Madama, dovranno buttarmi fuori con la forza», è il ritornello con cui l' ex direttore della Padania ed ex conduttore televisivo respinge il benservito e prepara le carte bollate. Al mattino registra un video in cui gesticola, batte i pugni nell' aria e rimarca come una furia le parole: «Cari falsi probiviri, cari uomini del nulla, voi avete paura di me perché io ho quel coraggio che voi non avete più. Contro la meschinità del vostro arbitrio mi appellerò». Farà ricorso e poi, se gli gira, si rivolgerà alla giustizia ordinaria: «Avete paura? Allora andatevene fuori voi, perché io vi verrò a cercare nelle aule di giustizia...Sarete condannati a dirmi "scusa, rientra"». Si racconta come un rivoluzionario, come colui che si batte per aprire gli occhi ai compagni di un tempo, i «cosiddetti capetti, burocrati, uomini grigi» che avrebbero tradito i valori delle origini e il programma del 2018. «Io non sono il distruttore del Movimento - risponde al Corriere - Anzi, vorrei fosse ancora l' ariete contro il sistema. Contesto solo l' eccessiva timidezza». Senatore, il suo rapporto con i 5 Stelle è finito? «Non è finito, no - si arrocca Paragone - Il Nulla non è il Movimento, sono i probiviri e chi li sta telecomandando». Di Maio è il Nulla, con la maiuscola? «Ma certo. Vi sembra normale che io non sia mai stato sentito? La mia memoria difensiva è stata liquidata in due frasi. Ma io farò appello. Non posso essere giudicato da Fabiana Dadone, perché essendo ministro è incompatibile e in conflitto di interessi». Se in Parlamento lo danno in avvicinamento a Salvini, lui giura che il trasloco nella Lega «è una cretinata» e insiste: «Rivendico orgogliosamente i miei no, alla Tav, ai Benetton, a Bruxelles e all' Euro. Salvini invece candida Mario Draghi a presidente della Repubblica e dice che l' euro è irreversibile». Sulla sua pagina Facebook, che vanta 400 mila seguaci, piovono «grazie per la coerenza» e sul web rimbalzano le parole di sostegno di Alessandro Di Battista, che lo ha riempito d' orgoglio: «Io e Ale siamo amici, lui rappresenta quelle idee di azione e intransigenza che mi hanno portato a conoscere il Movimento». E adesso, cosa farà? Andrà nel gruppo Misto? «Io chiedo solo di poter essere coerente con la campagna elettorale che ho fatto».
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 gennaio 2020. Gianluigi Paragone è stato espulso dal M5S causa indisciplina, quasi fosse un alunno della scuola secondaria. Ma la cosa non mi stupisce come non dovrebbe stupire il senatore cacciato. Costui quando si inserì nel bordello cinquestelle non credo si aspettasse di entrare nel Rotary. Immagino sapesse che il capo politico era Gigino Di Maio, cioè un ex bibitaro catapultato al vertice di un movimento fondato sul vaffanculo coniato quale slogan raffinato da Beppe Grillo, un simpaticone che sta alla politica come io sto alla musica da camera. Paragone, secondo me, si rassegnò ad essere cooptato dalle truppe pentastellate perché non aveva niente di meglio da fare, essendo uscito dal giornalismo dopo numerose traversie. Deve aver pensato: meglio parlamentare che disoccupato. Come dargli torto? All'inizio dell'avventura egli si divertì molto. Visse probabilmente il cambiamento professionale quale eccitante opportunità. D'altra parte il Palazzo attira non tutti ma quasi. L'Aula affascina sia le persone semplici quanto quelle complicate. Cosicché Gianluigi si accomodò in poltrona e si persuase di essere presto promosso alla presidenza della commissione "scandali bancari". Era pronto e felice di essere chiamato a ricoprire un incarico assai importante, foriero di pubblicità, cioè di visibilità. Poi il clima intorno a lui mutò. Da ballerino di prima fila retrocesse nella zona oscura del palcoscenico. Il suo umore fatalmente smise di essere scintillante, si oscurò lentamente fino a diventare nero. Cominciò a bisticciare con i colleghi, si accorse che Di Maio è bravo soltanto quando recita nel ruolo di fanfarone e rapidamente si stufò di averci a che fare. A forza di tirare la corda, questa si è spezzata ed è arrivato per il povero Paragone il cartellino rosso. Fuori dalle palle. E di palle i grillini se ne intendono, visto che ne inventano una al dì. Basta. Il mio ex collega per non aver approvato la legge di bilancio è stato scaricato, considerato un Giuda. Egli ora è inviperito e non si esclude che ricorra, con l' aiuto di Di Battista (che conosco solo di cattiva fama), perfino alla giustizia ordinaria onde impugnare il provvedimento a suo carico. Vedremo in qual maniera finirà. Ma non è questo il punto. L' errore di Gianluigi è stato quello di aver ceduto all' incanto stellato, scambiandolo come un firmamento salvifico, non accorgendosi che si trattava di una cloaca piena di escrementi. Egli è stato per anni un giornalista esperto. Fu direttore della Padania, quotidiano leghista quanto lui. Il suo lavoro al timone del foglio e le sue comparsate televisive erano convincenti, cosicché mi venne l' idea di assumerlo a Libero in veste di vicedirettore. Lavorammo insieme per un lungo periodo. Ciononostante al ragazzo evidentemente non bastava di stare accanto a me, brigò con l' aiuto della Lega per avere un posto in Rai, e lo ottenne. Contento lui...Qualche tempo dopo, insoddisfatto del trono offertogli dall' ex monopolio televisivo, si trasferì alla "7" di Urbano Cairo, che gli affidò programmi di relativo ma non straripante successo. E l' editore, forse precipitosamente, lo invitò a guadagnare l' uscita. Gianluigi si trovò a piedi in mezzo alla strada, posizione antipatica, e si cercò qualcosa di meglio. Collaborò con Libero ricevendo un compenso insufficiente per sopravvivere, finché colse al volo la possibilità di scendere dal Carroccio e di inserirsi nel bordello promettente, in apparenza, di Di Maio, con il quale per mesi ebbe un rapporto quasi fraterno. In effetti i due andavano d' accordo. Eppure l' idillio - lo dimostrano gli ultimi fatti - durò lo spazio di alcuni mesi. Ora siamo alla rottura. Totale. Girano i coltelli che ammazzano anche i fratelli, figuriamoci i compagni di partito. Paragone a essere sinceri ha molte ragioni, però anche un torto marcio: quello di essersi fidato di un magliaro. Faceva bene a restare nella Lega, la quale abbonda di persone serie e perbene.
Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 3 gennaio 2020. Quando sul finire del 2017 vidi l'amico e collega Gianluigi Paragone presentare la manifestazione che incoronava Luigi Di Maio candidato premier dei Cinque Stelle, tra me e me dissi: ecco, ci risiamo, altro giro altro regalo. E il regalo arrivò puntuale poche settimane dopo con la candidatura a senatore in un collegio blindato. Perché Gianluigi è fatto così: adesca, incanta, incassa e poi si mette a fare casino se non gli danno tutto quello che chiede. In questo è un numero uno e con questa tecnica ha girato tutto l'arco costituzionale mediatico e politico, salvo la sinistra che non escludo sia già nel suo mirino come prossima tappa. Se Di Maio mi avesse telefonato all' epoca per un consiglio gliel' avrei detto: mettiti in casa Paragone solo se puoi farlo subito ministro di qualcosa, è l' unico modo perché non ti faccia la guerra, almeno non da subito. In questo la storia insegna. Da giovane Paragone si fece leghista ed ebbe in cambio la direzione della Padania, poi passò berlusconiano e arrivò la vicedirezione di Libero. Non avendo ottenuto la direzione (quando Feltri e io lasciammo la guida di quel giornale gli fu preferito Belpietro) ottenne dal Pdl come consolazione una vicedirezione Rai in quota centrodestra ma subito entrò in conflitto con il suo capo e con i suoi padrini politici che non lo difendevano a sufficienza. Bossi lo scomunicò ufficialmente, in Rai perse la battaglia e si consolò con un buon contratto a La7 dove iniziò a corteggiare i nascenti grillini. Scaricato pure da quella tv trovò seggio e stipendio grazie a un riconoscente Di Maio. Ma a lui ciò non basta, a Paragone nulla basta mai ed ecco quindi l' ennesimo divorzio con attribuzione di colpa al capo di turno. Lo confesso, questa volta, vedi i casi della vita, mi ritrovo a tifare l'infedele Paragone: forza Gianluigi, vai fino in fondo e sfascia quel che resta dei grillini, è l'occasione per riscattare una vita ondivaga e sei a un passo dal realizzare il tuo sogno di sempre: entrare se non proprio nella storia almeno nella cronaca. Dài senatore, tu le cose sai come sono andate e come stanno dentro quella gabbia di matti: parla, fai qualcosa, pensa al titolone di prima pagina sul Corriere: «Paragone fa cadere il governo»; su Repubblica: «Conte si arrende a Paragone»; sul Giornale: «Grazie Gianluigi». E poi, pensa che tristezza se passata la sbornia di Capodanno nessuno, come probabile, si ricorderà né parlerà più di te.
Da liberoquotidiano.it il 3 gennaio 2020. Il Movimento 5 Stelle sta cadendo a pezzi. L'espulsione di Gianluigi Paragone ha fornito la scusa perfetta ai dissidenti grillini per prendere ulteriormente le distanze dai vertici del partito. Sono già diverse le uscite ufficiali dal Movimento, chissà che presto non possa aggiungersi anche quella di Mario Giarrusso, che si sta esprimendo in maniera molto critica: "Undici milioni di italiani hanno votato il M5s per vedere questo schifo?". Il senatore si riferisce all'alleanza con il Pd, che è stato il vero inizio della fine: "I dem non faranno mai cadere il governo. Avevano perso le elezioni ed erano in caduta libera, sono riusciti nell'impresa di tornare al governo e addirittura di mettere in minoranza in Consiglio dei ministri il gruppo principale in Parlamento. Il Pd non staccherà mai la spina perché un terno al Lotto così quando gli ricapita? È come se avessero vinto al Superenalotto". Giarrusso ha ben chiaro in mente chi siano i responsabili del processo di autodistruzione del Movimento: "Lo dico in maniera molto ironica, buona parte è merito della grande capacità imprenditoriale di Davide Casaleggio. Purtroppo si ereditano le imprese ma non le doti personali. Sicuramente Luigi Di Maio ci ha messo del suo, ma il casino lo ha creato Casaleggio". Al premier Giuseppe Conte il senatore a 5 Stelle riconosce invece di non essere "uno sprovveduto. Ha chiaramente una sua agenda politica che però non l'ha comunicata né a noi né ai cittadini e francamente non riesco a decifrarlo".
Luca Telese per “la Verità” il 3 gennaio 2020.
Gianluigi, che cosa hai fatto?
(Sorriso amaro) «Io? Nulla. Hanno fatto tutto loro».
Sei ricorso ai libri Michael Ende per insultare chi ti ha espulso: «Sono stati gli uomini in grigio».
«Sì, ma era una citazione troppo raffinata, non è arrivata».
E quindi?
«Da quando dico che "sono stato espulso dal nulla" mi capiscono tutti».
Tu dici «il nulla» e intendi Luigi Di Maio. Perché non lo nomini direttamente?
«Non ho nessun problema a farlo: il nulla sono lui e tutti quegli yesman che ha intorno. I miracolati della Lotteria Pomigliano».
Intendi dire il M5s?
«Non mi permetterei mai. Parlo di Di Maio, di quelli che lo consigliano e di quelli che lui ha piazzato nei ministeri».
Perché non fai dei nomi?
«Sono tutti quelli che continuano a dirgli di sì e basta».
Chi?
«Chiunque non contesti questa linea governista e suicida. Mi dicono...».
Cosa ti dicono?
«Che tra i facilitatori si sia piazzato persino un cugino di Di Maio».
E chi è, come si chiama?
«Non sono uno studioso del Pomiglianese, non dispongo dell' albero genealogico di famiglia».
Ti fidi di una diceria?
«Non è rilevante. Non importa se sia cugino primo o secondo, o famiglio. È un ambiente, un clima, la fedeltà al capo che si respirano».
Tu però dopo le europee dicevi che Di Maio non era il problema.
«Sono stato il primo a porre il tema del suo doppio incarico, proprio parlando con te su questo giornale, dicendo che ne doveva lasciare uno».
Dicevi che non poteva fare due cose insieme, non che portava il M5s al suicidio.
«Non era ancora successo tutto il disastro a cui stiamo assistendo».
Passi alla Lega?
«Io trasecolo. È una evidente falsità che circola da giorni».
Trasecola pure, ma rispondi alla domanda: passerai a un altro partito?
«Ovviamente no. Io non mi muovo dal Movimento!».
Ma ti hanno espulso!
«E allora? Ho detto che sono stato espulso dal nulla: faccio ricorso, arrivo fino alla magistratura se serve».
Ma come puoi far ricorso?
«Tra i probiviri c'è Fabiana Dadone, che è ministro. È in evidente conflitto di interessi: mi espelle perché ho votato contro il suo governo».
Non passi alla Lega in nessun caso?
«Ripeto: alcuni nostri colleghi, non i più brillanti, diciamo, hanno deciso che io andrò alla Lega e continuano persino a scriverlo. È una balla. Mi espellono perché gli rompo le palle. E io quindi resto».
In tutti i partiti al governo chi non vota la fiducia al governo viene espulso.
«Io ho votato contro la manovra, ma in difesa del programma che ho sostenuto in campagna elettorale. Sono coerente».
È la stessa cosa che ha detto Alessandro Di Battista.
«Sono contentissimo che lo abbia fatto, lo ringrazio pubblicamente».
D'accordo, non vai alla Lega, dove vai?
«Da domani inizio a girare l' Italia, per parlare con gli attivisti del Movimento, meet up per meet up, città per città. Sono gli attivisti che mi invitano. Io vado».
Non pensi che ti impediranno di entrare?
«E chi?».
Quelli che sono fedeli al capo politico.
«Sono il nulla e non contano nulla. Per fermarmi non basterebbe il filo spinato davanti alle porte. Dove mi chiamano andrò. Non hanno più nessun potere».
Lo inseguo in una giornata in cui il suo telefono non smette di squillare mai. Gianluigi Paragone, senatore ribelle, sembra del tutto indifferente ai provvedimenti che i probiviri hanno preso contro di lui, e spiega il suo piano.
Scusami, perché ti invitano?
«Credo che abbiamo capito che sono coerente su temi fondamentali e identitari del Movimento».
E poi?
«Sanno che la mia non è una mossa a tavolino, è passione politica».
Ti stupisce che anche Barbara Lezzi dica che ti trova coerente?
«Mi fa molto piacere. Il fatto è che tutti avevamo fatto la campagna elettorale sui temi che io oggi pongo. Io farò qualsiasi cosa per rimanere».
Rigetti le regole che garanti ti ricordano?
«È più semplice: sono proprio i garanti a tradire ogni regola del Movimento».
Perché espellono te?
«Certo. Guardate tutti i casi in cui è prevista l' espulsione. Ci sono decine di inadempienti ma colpiscono solo me».
Magari altri seguiranno.
«Guarda la velocità con cui hanno partorito la decisione. Le regole sono una favola. Volevano imbavagliarmi».
Perché?
«Io ho votato contro la manovra che tradisce gli ideali del Movimento. Sono uno che rompe le porte a spallate».
Ma in che gruppo andrai?
«Nel misto, se dentro il gruppo del Movimento non mi vorranno proprio».
Il Movimento di cui parli esiste ancora? Ha spazio politico?
«Io sono molto convinto della battaglia antisistema».
Quel M5s non è finito quando è nato il governo gialloblù?
«Balle anche queste. I temi di cui parlo sono tutti sul tappeto».
Ad esempio?
«Nazionalizzare l' Ilva. Revocare le concessioni ad Autostrade».
Di Maio ne ha chiesto anche ieri la revoca!
«Lo dice, e va benissimo, ma non ha senso chiedere la revoca delle concessioni autostradali e poi invitare Atlantia a entrare in Alitalia».
Di Maio non è antisistema?
«Ma figurati. Il male del M5s è proprio che chi lo governa diventato sistema».
Facciamo degli esempi.
«Non sei antisistema se non rimetti l' articolo 18. Non lo sei se non detassi il lavoro umano e non tassi i robot».
Poi?
«Non sei antisistema se non sostituisci completamente i vertici di Bankitalia. Non si possono concedere le sliding doors a quei dirigenti».
Sei contro Giuseppe Conte?
«Io non sono contro qualcuno: difendo i nostri temi! Sulla Tav noi tutti avevamo messo in palese fuorigioco Conte».
La Lega cosa ha che non va?
«Ancora con questa Lega? Draghi non può essere candidato. Sarebbe la coltellata definitiva contro gli italiani».
C'è chi dice che l' espulsione per te sia un regalo.
«Ma figurati. Mi cacciano da casa mia».
Perché ti regalano questa visibilità?
«Dà fastidio il predicatore del giusto».
Ce l'hai con Di Maio?
«Di Maio è il nulla: il nulla. Come il collegio dei probiviri e chi lo teleguida».
Chi voteresti in Emilia?
«Tra Stefano Bonaccini e Lucia Borgonzoni penso che almeno Bonaccini abbia dimostrato di sapere governare».
Quindi lo preferisci?
«È un uomo di potere. Io voglio un movimento antisistema, non posso votarlo».
Vuoi scalare il Movimento?
«Io non mi sono mai esercitato a scalare qualcosa. Io sono preparato a dare un contributo culturale».
Voterai sempre contro il governo?
«Dipende su cosa. Il mio non è capriccio. Non sono contro l'alleanza con il Pd per principio. Ma se mi chiedi di salvarla su una manovra scritta da Bruxelles voto no».
Se fosse una mozione per revocare la concessione ad Autostrade?
«Voterei sì».
E se si vota domani con chi ti candidi?
«Se mi chiedesse di correre Di Battista, allora lo farei».
Quanti nel gruppo condividono la vostra linea?
«Non vado in giro con il pallottoliere. Ma il clima è esasperato. Molti parlamentari sono tagliati fuori dai signorotti del nulla. Di Maio sta facendo danni gravi».
Ha portato il M5s al 32%.
«In quel dato c' è il lavoro di tanti. C' è anche la campagna di Dibba. C'è persino un mio pezzettino di lavoro sulle banche, in Veneto».
E nella sconfitta?
«La sconfitta è tutta sua e dei suoi amici».
Lo dipingi come un matto.
«Forse non è consapevole dei danni che fa. L'ultima perla? I facilitatori del comparto industria non hanno mai lavorato in vita loro: non li prende sul serio nessuno».
Avrai un obiettivo.
«Te l'ho già detto. C' è un mondo del M5s che vuole sentirmi. La mia pagina su Facebook nel mese di dicembre è quella che è cresciuta di più in Italia. Andrò ovunque. La domanda di democrazia parte del basso e ha una forza tale che non la fermi».
Che truppe hai?
«Nessuna. Ho una sola forza, quella del racconto. Spiegare che la rivoluzione green non puoi farla senza soldi. Che i vincoli di Bruxelles ci uccidono. Che tra due anni le clausole di salvaguardia si riproporranno».
Il peggio non è passato?
«No. Ci saranno nuove tensioni sociali».
Che dicono i tuoi figli e tua moglie di questi tuoi piani?
(Pausa) «Sono preoccupati».
Perché?
«Temono che non mi vedranno più a casa...».
Casaleggio e Grillo, aria di divorzio. Aldo Torchiaro il 24 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il Consiglio dei Ministri è stato indetto, annullato e poi rimesso in agenda tre volte. Alla fine si è tenuto ieri sera ed è stato, al di là dell’annunciata decretazione sull’autonomia siciliana, una verifica di maggioranza tanto importante quanto atipica. Anche perché ha visto l’assenza del capodelegazione del M5S, Luigi Di Maio, impegnato a portare un saluto natalizio ai militari italiani in Libano. Il vertice era nato con incerte premesse ma ha comunque portato alla rapida approvazione del decreto legislativo per il rientro del disavanzo della Regione Sicilia. «Intesa ci può essere se accanto alla loro richiesta dei dieci anni c’è anche un piano serio di riforme strutturali», hanno dichiarato fonti di Italia viva, a proposito del decreto per il risanamento del bilancio della Regione Sicilia. Le fonti di Iv commentano l’annuncio del sottosegretario M5s Alessio Villarosa secondo il quale è stato trovato un accordo «per ripianare il disavanzo di amministrazione, e le quote di disavanzo non recuperate, in un periodo di 10 anni». Ettore Rosato, presidente di Iv, parla della convergenza sulla necessità di «dare una mano alla Sicilia, chiedendo in cambio una mano nel controllo della spesa pubblica regionale». La giornata era stata nel segno della tensione: la missiva di Aspi al governo non era esattamente una letterina per Babbo Natale. Come dà conto sul Riformista Davide Faraone, siamo allo scontro totale tra governo e Autostrade (Aspi) sulla revoca della concessione. La società gestita da Atlantia (la famiglia Benetton) va al contrattacco e con una lettera formale spedita a Palazzo Chigi, al ministero dei Trasporti e al ministero dell’Economia dice: allora la risoluzione del contratto la facciamo noi. Con tutte le conseguenze del caso: risarcimento del 100% del valore della concessione (23 miliardi di euro) in ragione dei «molteplici diritti e principi sanciti dalla Costituzione e dal diritto comunitario, incluso il rispetto del principio di affidamento e a tutela del patrimonio della Società e di tutti gli stakeholders», si legge nel testo spedito al governo. Mentre Di Maio era in Libano a ringraziare i militari italiani impegnati nella missione di pace, i tamburi di guerra riecheggiavano tra Casaleggio e Beppe Grillo. Il Corriere della Sera ieri aveva pubblicato una argomentata ricostruzione sulla tensione tra il figlio del fondatore e il comico genovese. Non è mai stato un idillio, ma negli ultimi mesi la situazione sembra davvero compromessa. Tanto che Casaleggio avrebbe chiuso i rubinetti per le spese legali di Grillo. «Se dovesse continuare a farsi querelare per diffamazione o altro, che paghi di tasca sua. Perché noi non possiamo né vogliamo più continuare a pagare per lui», avrebbe detto Casaleggio. L’Associazione Rousseau si è sempre fatta carico delle spese per gli avvocati del comico genovese. Ma, anche a causa «dei parlamentari che non pagano più la quota mensile a Rousseau», il bilancio dell’associazione non è così roseo. «Questa storia va avanti ormai da mesi. Sono più i parlamentari che non pagano che quelli che pagano», si è lamentato Casaleggio. Che ieri ha smentito la ricostruzione nove ore dopo l’uscita in edicola, come gesto riparatorio verso Grillo stesso, ancorché tardivo. Tommaso Labate, finito nel tritacarne a Cinque Stelle, riconferma al Riformista parola per parola. «Ho sentito fonti di provatissima fede e certifico quanto ho scritto: Casaleggio taglia a Grillo i fondi per l’assistenza legale». Non sono due soldi. Nel bilancio del 2018 dell’Associazione Rousseau, circa 300mila euro cadono sotto la voce di «spese legali». Il 16,6% delle uscite dell’associazione, spesa seconda soltanto a quella del personale. Per gli avvocati Casaleggio spende il triplo dei soldi rispetto alla voce «struttura tecnologica» o alla «sicurezza» della piattaforma. Non che alla C&A il piatto pianga, intendiamoci. Lo dice chiaramente Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva: «Nel 2018, primo anno del Movimento 5 stelle al governo, la Casaleggio Associati ha raddoppiato il fatturato, passato da 1 a 2 milioni di euro, e ha moltiplicato per 9 l’utile, secondo quanto scrive Repubblica. L’ex senatrice M5S Fattori dice a Linkiesta che Pietro Dettori, ex dipendente di Casaleggio e di Rousseau catapultato prima a Palazzo Chigi e ora alla Farnesina, sponsorizzava ai parlamentari M5S, che versano a Casaleggio 300 euro al mese, incontri con aziende clienti della Casaleggio Associati. Il premier Conte e il ministro Di Maio quando daranno spiegazioni su questo?»
Grillismo: terremoto alla nascita, terremoto ora che muore. Piero Sansonetti il 23 Novembre 2019 su Il Riformista. L’irrompere del movimento grillino sulla scena politica, una decina di anni fa, diede una scossa imprevista e formidabile alla politica italiana. C’è chi dice che fu una scossa positiva, perché costrinse i partiti a rinnovarsi, a cambiare il proprio messaggio, a staccarsi un po’ dal Palazzo. C’è chi – come me – pensa invece che fu una scossa negativa, che diede carburante a tutte le spinte populiste e reazionarie, che mise fuori gioco l’intellettualità più pensante, che trasformò la politica in una gara fangosa alla demagogia inconcludente e spesso molto volgare. Del resto il movimento grillino non fece irruzione sulla scena politica gridando libertà o uguaglianza, o fraternità: fece irruzione gridando vaffanculo, cioè rivendicando la propria volgarità, la rozzezza del proprio linguaggio e il rifiuto di ogni sofisticazione nel pensiero. Pretese di affermarsi con due sole idee chiare: la richiesta di spazzare via la classe politica e l’anelito di onestà. Dove per onestà si intendeva essenzialmente una cosa: impedire alla politica di essere finanziata. Le due idee, in gran parte, coincidevano: in definitiva tutte e due tendevano alla abolizione della politica organizzata e dunque della base storica della democrazia. Il paradosso oggi è che gli annunci di crollo del Movimento Cinque Stelle rischiano di essere una nuova scossa alla politica italiana, identica a quella che ne accompagnò la nascita. Il risultato della votazione on line che l’altra sera ha sconfessato Di Maio e costretto lo stato maggiore grillino a presentare liste autonome in Emilia e in Calabria, rovesciando la propria strategia a 60 giorni dal voto, è sorprendente per almeno tre motivi. Il primo motivo è che una decisione così importante viene affidata, più o meno, al caso. Alla consultazione sulla piattaforma Rousseau hanno partecipato meno di 30mila persone, cioè neanche lo 0,5 per cento degli elettori grillini. Un campione così ristretto e casuale di partecipanti rende una consultazione elettorale qualcosa di molto simile a un sorteggio. Parlare di maggioranze o minoranze è del tutto infondato, e fa un po’ sorridere. Il secondo motivo è che non si capisce perché un gruppo dirigente di un partito, che da un anno e mezzo si è assunto l’incarico di governare il Paese, rinunci alle proprie competenze e responsabilità e rinvii a un minisondaggio online la decisione sulle liste elettorali. Il terzo motivo della sorpresa riguarda l’argomento della consultazione: può il primo partito politico italiano (così risulta dalle ultime elezioni politiche) porsi la domanda se partecipare o no alle elezioni? Sembra quasi uno scherzo. Del resto è tutta la discussione che si svolge attorno al Movimento ad assumere toni più da favola umoristica che da cronaca politica. L’articolo pubblicato ieri da quello che forse è l’unico vero capo politico del Movimento, dopo la morte di Casaleggio – e cioè Marco Travaglio – è quasi farsesco. Travaglio, con toni agitatissimi, scrive un editoriale sul Fatto non per svolgere un’analisi politica ma per compilare un manuale di istruzioni per i dirigenti pro-tempore dei Cinque Stelle. E spiega per filo e per segno come uscire dagli impicci, proponendo iniziative politiche dettagliatissime, che giungono fino all’indicazione di quali assessorati chiedere e su quali punti pretendere modifiche dei programmi al Pd. La strategia di Travaglio – unità col Pd – che pure è l’unica sul campo, è ragionevolmente destinata a sciogliersi come neve. E non è probabile nemmeno un intervento di Grillo, in extremis. Beppe Grillo sembra ormai scoraggiato e deciso a tornare al suo vecchio mestiere. È riuscito miracolosamente, pur essendo privo di mezzi politici, a dettare legge alla politica italiana, e gli basta. Ora può ritirarsi. Lui in fondo è sempre stato quello: un burlone. E mai lo ha negato. Il problema è che la scomparsa dei grillini, che ormai sembra vicina, comporta gli stessi contraccolpi che comportò la loro comparsa. Essenzialmente un contraccolpo: la paralisi del governo. Cioè esattamente quello che già successe con l’esplosione del loro successo, in particolare alle elezioni del 2013. È da allora che in Italia ogni governo vive appeso a un filo (se si esclude, forse, la parentesi renziana, che però fu breve). Senza maggioranza e senza un programma politico. In questo clima di vuoto e di rissa senza obiettivi si sono squagliate la destra e la sinistra tradizionali. La destra si è piegata alla strategia autoritaria e radicalmente reazionaria di Salvini. La sinistra brancola nel buio e cerca, annaspando, la salvezza fuori da se stessa: ora nel renzismo, ora nel grillismo, ora nella fortuna, ora nella magistratura, infine, forse, nelle sardine. Come si spiega questo guazzabuglio? Credo che si spieghi in modo molto semplice. I Cinque Stelle sono stati un grandioso movimento di massa pieno di passione e del tutto privo di idee. Il cui collante e il cui segreto (segreto del successo) è stato solo la ricerca del potere. Il potere come salvezza, come lavacro, come contrappasso, come punizione dei reprobi. Il potere come dovere, come sacrificio. Da conquistare e da difendere coi denti. Ora esaltando la propria purezza ora il compromesso. In politica un movimento votato solo al potere – se vige un regime democratico – non può resistere al tempo e può produrre danni incalcolabili al campo di battaglia. Questo è avvenuto. I Cinque Stelle hanno scassato tutto: idee, valori, strategie e tattiche dell’intero schieramento politico. E ora scompaiono lasciando il deserto. Nel quale, forse, riesce a sopravvivere solo la creatura a loro più simile: Matteo Salvini.
· Gli ex M5S.
Gli ex M5S alla Leopolda dei complottisti, tra vibrazioni positive e pianeti al rallenty. Viaggio nella due giorni che ha tenuto a battesimo R2020, il movimento di ex grillini guidato dalla deputata Sara Cunial. Tra le invettive al regime del Covid-19 e un abbraccio a Trump. Ma senza Forza Nuova di Castellino. Qualcosa che potrebbe servire, in un nuovo M5S a trazione Di Battista. Massimiliano Coccia e Susanna Turco il 3 luglio 2020 su L'Espresso. Diceva Federico Fellini che a Roma, d'estate, «si trovano solamente i cinematografari e i matti». E invece no: a Roma, d'estate, si trovano anche i complottisti. Gli orfani del Movimento Cinque stelle, quelli che si sentono traditi dal governismo di Di Maio&C. Li ha riuniti la deputata no vax Sara Cunial in una due giorni (30 giugno-1 luglio, come avevamo anticipato), all'ex Mattatoio di Roma , luogo che vide una memorabile conferenza di Alessandro Di Battista sul Franco FCA qualche tempo fa. Una incredibile Leopolda dei Complottisti che - previa l'insolita richiesta di esibire un documento all'ingresso, per partecipare - si è snodata come una specie di spin off della Leopolda originaria. Quella renziana era nell'ex stazione ferroviaria omonima, con arrembanti politici e professionisti vari, camicie bianche e tacchi. Questa nell'ex macello romano, alla Città dell'altra economia, 34 gradi all'ombra, sterminata piazza di terriccio e polvere, gazebi, tappetini da yoga, birkenstock, piedi nudi, mandala, orti sinergici condivisi, baratto multilaterale, progetti di azioni legali contro l'Aifa (per i vaccini) e il ministero dell'istruzione (per le mascherine a scuola), vaschette in plastica riciclabile con l'insalata di riso portata da casa, distribuzione di adesivi con «vibrazione positive». E con quasi seicento persone che incredibilmente, per due lunghi giorni in mezzo alla settimana, hanno tenuto a battesimo l'ultima tra le creature saltate fuori da quel magma che il Vaffa grillino addensò per la prima volta e che da allora prende forme sempre più oscure e settarie, pronte a qualsiasi evenienza. Questa si chiama dunque R2020, sbandiera un «metodo comunitario» in contrapposizione esplicita a quello «per delega» del M5S, fa leva sulle componenti più originali e inquiete della casa madre. L'ennesima minuscola scissione – se ne contano a decine, nella politica italiana - che mette alla prova le regole della fisica e della logica. Ma del resto la base del Movimento era un territorio di vastissima flora e fauna: dall’ex elettore comunista fino agli estremisti di destra passando per i complottisti, i fricchettoni e i no-vax, tutte categorie escluse dalla politica del palazzo che ritrovarono nella visione di Grillo e Casaleggio una casa per le loro inquietudini. Ma governare è altra cosa, e chi crede ai microchip sottocutanei, alla teoria del respiro contro le negatività e alla correlazione tra Covid e 5G non appare molto interessato a recepire i moniti del Quirinale o le raccomandazioni dell’Unione Europea, e dunque ecco qui Sara Cunial con le braccia abbronzate e le ballerine blu sorridere tutta la mattina e al pomeriggio fare il giro dei tavoli tematici, come ai matrimoni. Accanto a lei spesso si staglia alta anche la figura del consigliere regionale espulso dal Movimento, Davide Barillari, condottiero no-vax, e l’ex deputato Ivan Catalano che, passato da Grillo al Pli, alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna si è candidato con il Movimento 3V (Vaccini Vogliamo Verità). Fino alla vigilia, R2020 si doveva avvalere della partecipazione di pezzi di Forza Nuova capitanati da Giuliano Castellino e de “I ragazzi d’Italia” che hanno poi abbandonato la deputata, definita più volte da Castellino «la leonessa che si batte contro il pensiero unico», rea alla fine di essersi venduta al medesimo pensiero unico che quegli altri - armati di mazze e schiaffi in faccia - avevano provato a battere all’inizio di giugno a Circo Massimo. Cunial infatti nel brandizzare il suo evento ha iscritto il suo movimento nella galassia dell’antifascismo, consapevole tardivamente che fare una santa alleanza con la peggior destra italiana non avrebbe giovato ai chakra del neonato movimento politico. Il quale intanto, perduto Castellino, sbandiera niente meno che Aldo Moro, portato in alto a estremo simbolo di libertà, prima dell'avvento del «regime». Così quando nel caldo bianco e asfissiante che avvolge l'ex Mattatoio di Testaccio sale sul palco Maria Fida Moro, figlia del presidente della Dc ucciso dalla Br nel 1978, e - occhiali a specchio, maglietta verde fosforescente – spiega che la «democrazia non c'è più» da un pezzo ma che del Covid non bisogna aver paura perché «la vita è pericolosa e può succedere sempre qualcosa», sorge il dubbio di avere una allucinazione. E invece no, è tutto vero: semmai è il virus che non esiste, chiaro. Mascherine e distanze sono infatti abolite, in questa Leopolda alternativa. I complotti invece naturalmente impazzano, dal 5G in avanti, in questa specie di Italia parallela che si raccontano gli uni con gli altri. Adesso infatti il compito principale è uno: bisogna «mettere insieme a macchina per fermare quello che ci vogliono imporre», come spiega l'ex grillino Catalano dal palco. Operazione complicata, perché «ci propinano di tutto» c'è una «manipolazione mostruosa». Sulla quale tutti concordano. Anzi «se noi siamo confusi non è per nostra stupidità, ma per la loro terribile violenza», spiega applauditissimo Maurizio Scardovelli, fondatore a Camogli di una “Libera università popolare per attuare la Costituzione” (unialeph) e qui conosciuto da tutti. Dal palco e nei tavoli più ristretti le preoccupazioni si moltiplicano. Maurizio Martucci di Stop al 5 G dice che gli Italiani sono «sotto attacco» e articola con una precisione invidiabile che «in un anno nella zona di Roma sono state montate 700 antenne, di cui 316 5 G» (faranno un sit in il 14 luglio, al Campidoglio). Giuliana Conforto, autrice fra l'altro di "Il risveglio e il gioco cosmico dell'uomo", sottolinea i rischi relativi al moto di rotazione terrestre: «Non so se lo sapete, ma il moto sta rallentando, e se cambiano i ritmi del tempo, questo mondo basato sul debito, crolla». Aiuto. Nel frattempo, «il sistema economico finanziario ha ingoiato il sistema giuridico, che ha ingoiato il sistema delle libertà culturali. La situazione è grave», proclama tra gli applausi Sabino Pavone, del comitato direttivo delle scuole Steiner-Valdorf. Steiner va fortissimo: Ambra Fedrigo, regista friulana, lo consiglia caldamente. Il polacco Piotr Javornik, vicepresidente di Stop Nop Polonia, se la prende con Bill Gates e urla: «Giù le mani dai bambini». Adele La Monica, counselor, specialista in ipnosi regressiva, scomoda l'anima: «Vogliono mettere le mani sulla nostra coscienza, sui nostri bambini, sulla nostra anima». Domenico Mastrangelo, uno di molti medici, domanda: «Abbiamo paura dei germi? Abbiamo paura di Sars-Cov2?» Domande retoriche: certo che no. Bisogna concentrarsi sui sistemi di manipolazione. Di quelli sì, avere paura. Sovranità dunque. Alimentare, «perché il biologico è poco, bisogna abolire la filiera, cancellare il concetto di prezzo», come dice qualcuno. Ma anche militare: c'è guerra dietro l'angolo. «La guerra può essere sempre più vicina e noi dobbiamo essere pronti», chiarisce la vicedirettrice di Pandora tv, Margherita Furlan, rimpiangendo Giulietto Chiesa – cui è dedicata la sala in cui si proiettano i documentari sulla Pfas, l'affare biomassa e il legno vivo della Xylella. Mondi precisi, come quello di Enrica Perucchietti che spiega come la battaglia alle fake news nasconda l'opposto di quel che sembra: è infatti, in realtà, «una caccia alle streghe per censurare il dissenso», dice. Ma niente paura. Alicia Erazo, che si presenta come alto commissario per i diritti umani, perché fa parte di una organizzazione sociale dell'Ecuador chiamata Conmissionado International Derechos Humanos (nulla a che vedere con l'Onu), assicura: «Un abbraccio grandissimo da Trump, un abbraccio grande per lui che non vi ha dimenticato, lo sa cosa è successo in Italia, lui è con voi, non con il potere». Difficile credere che Donald Trump abbracci fortissimo l’assemblea indetta da Cunial, ma sicuramente Alessandro Di Battista gli strizza l’occhio. È impossibile immaginare che questo piccolo esercito di complottisti e negazionisti possa trovare delle percentuali significative dentro le urne, ma può invece essere un peso numerico importante in un nuovo Movimento Cinque Stelle che, magari una volta archiviata l'esperienza di governo e digerito un addio del premier Giuseppe Conte, potrebbe tornare a cavalcare i temi delle origini. Col prode Di Battista pronto a guidare e a dar fiato ad una coalizione che rimetta al centro il richiamo antico delle scie chimiche e dei metalli pesanti dei vaccini. Si vedrà. Per adesso, anche fuori dall'ex Mattatoio, i partecipanti di ritorno a casa si dilettano ad arringare i propri seguaci su Facebook con le dirette, gesticolando ai telefonini. Un ignaro tassista li apostrofa: «Se vede che è arrivata l’estate, er sole fa male alla capoccia».
· Casta a 5 Stelle.
Luca Bottura per “la Repubblica” il 27 settembre 2020. E quindi quelli della scatoletta di tonno alla fine si sarebbero unti le mani. Nessuno più "restituisce" alcunché al fondo per piccole medie imprese (che nell'immaginario collettivo era finanziato solo dai grillini, invece esiste da tempo e funziona da solo), molti vedono in Casaleggio il male assoluto solo perché pretende la quota parte mensile (siete assunti in una Srl, volete almeno pagare i contributi?), Di Maio ha preso più voli di Stato che Bokassa ai bei tempi (per dove, spesso, non sa). Sono ufficialmente Casta. All'inizio, per dire, Crimi sembrava un concorrente del Grande Fratello 1: cicciotto, malvestito, trasandato. Tipo me, insomma. Oggi sembra un concorrente del Grande Fratello 1, ma adesso: cioè Rocco Casalino senza le extension. E poi c'è Pasquale Tridico, il presidente Inps, che si sarebbe raddoppiato lo stipendio da 62 mila a 150 mila euro con esito retroattivo. E qui l'indignazione deve farsi definitiva, monumentale, stentorea: ma che davvero il presidente dell'Inps prende meno di un commesso della Camera? Davvero affidiamo un carrozzone così importante a uno cui pagavamo lo stipendio di un quadro azienda appena assunto? Davvero deleghiamo ruoli cardine per un tozzo (ben farcito) di pane? È una vergogna. Che non sia successo prima, dico.
Così il M5s si è fatto casta: chi si è arricchito grazie alla politica. Prima non lavoravano, poi sono diventati parlamentari e ministri. E Luigi Di Maio non è l’unico esponente del M5s che ha fatto fortuna in politica. Alberto Giorgi, Lunedì 28/09/2020 su Il Giornale. La strana parabola del M5s, tra casta e anti-casta. Entrati in parlamento per la prima volta nel “lontano” 2013, il appena sette anni i pentastellati si sono istituzionalizzati, rendendosi campioni di trasformismo: prima il governo gialloverde con la Lega di Matteo Salvini, poi il governo giallorosso con il Pd di Nicola Zingaretti, Italia Viva di Matteo Renzi e Leu. Ma c’è dell’altro. Prima non lavoravano (o lavoravano poco), poi sono diventati deputati, senatori o addirittura ministri: Luigi Di Maio (ex ministro del Lavoro e attuale ministro degli Esteri) non è l’unico esponente del Movimento 5 Stelle che ha fatto fortuna in politica. Insomma, miracolati e arricchiti grazie all’attivismo nel partito e l’attività di parlamentare, che consente loro di portare a casa circa 100mila euro lordi all’anno. Oltre al titolare della Farnesina – che in giacca e cravatta faceva accoglienza per i vip in tribuna autorità allo Stadio San Paolo di Napoli – anche l’attuale presidente della Camera dei deputati Roberto Fico. I due sono accomunati da una "stranezza": come riporta Libero, infatti, Di Maio e Fico entrarono in parlamento (nel 2013, appunto) come "incapienti" (ovvero contribuenti con un reddito così basso, o addirittura assente, da non dover presentare denuncia dei redditi). E non erano neanche i soli: in quella sedicesima legislatura erano addirittura cinquantuno i pentastellati eletti con reddito di lavoro nullo. Oggi per Di Maio e Fico la musica è ben diversa: da zero a centomila euro o quasi, visto che i due esponenti di spicco del M5s ogni anno guadagnano un totale di 98.471 euro (potrebbero essere anche di più, ma entrambi hanno rinunciato alle indennità di carica). Il ministro degli esteri e il presidente dell’aula di Montecitorio sono i casi più eclatanti, ma anche l’attuale reggente grillino Vito Crimi ha fatto fortuna in politica. Il quotidiano diretto da Pietro Senaldi e Vittorio Feltri, infatti, riporta la dichiarazione dei redditi percepiti nel 2012, quando Crimi era cancelliere alla Corte d’Appello di Bresci: 23.416. Ecco, nel 2018 (in qualità di senatore della Repubblica) gli è andata decisamente meglio con 97.329 euro. Dopo tre uomini ecco il caso di tre donne del M5s. La vicepresidente di Palazzo Madama, Paola Taverna, nel 2013 dichiarò redditi per 12.867 euro (più tremila e cinquecento da rendite catastali), diventati 105.120 nel 2018. Exploit anche per la deputata e viceministro dell’Economia Laura Castelli, passata dai 23.076 del 2012 ai 98.471 euro del 2018. Infine il caso del ministro del Lavoro Nunzia Catalfo: nel 2019 la titolare del Lavoro ha dichiarato redditi per 120.365 euro, mentre nel 2013 si fermava sotto i trentamila (28.417 euro per l’esattezza).
Mattia Feltri per "La Stampa" il 19 settembre 2020. Ho fatto una cosa di cui mi vergogno molto: sono andato sul sito della Presidenza del consiglio, alla voce voli di Stato. Volevo controllare. Ero come un grillino, forse avevo anche gli occhi iniettati di sangue. E compulsavo tutti questi voli di Stato di Luigi Di Maio («dopo trent' anni vedremo cancellati i voli di Stato, anche così si è rivoluzionari», egli medesimo, 19 maggio 2018), a Bruxelles, a Istanbul, al Cairo, a Tunisi, a Berlino, a Belgrado, a Riad, a Sofia, a Parigi eccetera, e pensavo a quanto caspita ci costa questo benemerito alfiere della casta. Poi sono andato su Google, ho scritto Di Maio e auto blu («le auto blu sono il male assoluto, se mi vedete in auto blu linciatemi», egli medesimo, 21 marzo 2013), e c'era il blu dipinto di blu, Di Maio vestito di blu nell'auto blu, e dentro di me tambureggiava un urlo: onestà onestà. E la sapete una bella? Di Maio ha uno staff personale, al ministero degli Esteri, da 710 mila euro l'anno (fra i suoi predecessori, Moavero 200 mila, Gentiloni 468 mila, Bonino 320 mila). Ero in preda all'istinto di aprire Di Maio come scatoletta di tonno, ma poi, santo cielo, sono rinsavito. Mi sono detto: e come diavolo deve andare un povero ministro degli Esteri a Riad e Parigi? Coi low cost? Deve essere veloce, sicuro, agile negli spostamenti. E mi sono detto: e come diavolo si muove, se non con l'auto blu? Lo lasciamo alle grinfie del primo matto che passa? Quanto allo staff, che diamine, la politica costa! Così si fa, come ai bei tempi del pentapartito! A proposito: com' è quella che ripete ogni giorno, ministro? Chi vota No sceglie la vecchia politica? Coraggio, ancora un ultimo sforzo.
M5S, da San Francesco alle auto blu: la metamorfosi grillina. Beppe Grillo si è sempre vantato di aver fondato il M5S nel giorno di San Francesco in segno di parsimonia, ma ora i ministri pentastellati girano in auto blu. Ecco l'ennesima giravolta. Francesco Curridori, Martedì 29/09/2020 su Il Giornale. "Noi abbiamo scelto appositamente la data di San Francesco per la creazione del MoVimento. Politica senza soldi. Rispetto degli animali e dell’ambiente. Siamo i pazzi della democrazia, forse molti non ci capiscono proprio per questo e continuano a chiedersi chi c’è dietro". Così Beppe Grillo, nel 2013, commentava l'elezione di Papa Bergoglio e si complimentava con lui per la scelta del nome del santo d'Assisi, a cui ha sempre detto di volersi ispirare per il M5S. Un'affermazione che, riletta oggi, stride davanti all'immagine dei ministri pentastellati che ieri si sono presentati in auto blu al summit indetto dal capo politico Vito Crimi per definire il percorso che porterà agli Stati Generali, il primo congresso dei grillini. Un'altra grande anomalia per un movimento che si fa partito proprio nello stesso momento in cui il suo fondatore rilancia la democrazia diretta in funzione anti-parlamentare nel corso della tavola rotonda 'Ideas for a new world' organizzata dal presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. "Il M5S lo possiamo definire un partito intermittente e fondato sul paradosso", dice a tal proposito a ilGiornale.it il sociologo Massimiliano Panarari. "Vedremo se la trasformazione in partito con correnti darà una filiera di comando per cui vi sarà un segretario accreditato a parlare per tutti oppure se continuerà il balletto delle voci in cui ogni elettore ritrova quel che si vuol sentir dire", aggiunge l'esperto di comunicazione politica che descrive il M5S come "un autentico camaleonte che cambia a seconda del contesto". I grillini, mentre si trovavano all'opposizione seguivano una linea "anticasta, pauperista e decrescista", mentre ora che si trovano nella 'stanza dei bottoni' adottano "comportamenti tipici della casta che aveva criticato e il M5S si fa partito dell’establishment", spiega ancora Panarari, sempre più convinto che gli Stati Generali lasceranno irrisolto "il nodo dell’istituzionalizzazione vera e propria".
Così il M5s si è fatto casta: chi si è arricchito grazie alla politica. L'uso dell'auto blu potrebbe restare come un 'peccato' nell'immaginario collettivo grillino. "Quello delle auto blu è roba da poco, ma dà il segno di una trasformazione di un movimento che a parole diminuisce il numero dei parlamentari, però, poi, permette che ogni parlamentare goda dei privilegi incredibili come quello di avere tantissimi collaboratori. È la fine del movimento delle origini fondato da Grillo e Gianroberto Casaleggio di cui, oramai, resta solo il nome", ci spiega Paolo Becchi, ex ideologo del M5S a cui oggi non risparmia critiche. "Il M5S è diventato casta. I grillini volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e, invece, sono loro diventati i tonni che nuotano benissimo all’interno della scatoletta", attacca ancora il filosofo genovese. Il Movimento, a detta dei due esperti, è un partito come un altro, ha perso la sua forza propulsiva e si avvia verso una crisi irreversibile. "Può vantarsi del sì al referendum però è un fuoco di paglia. La verità è che sta lentamente svanendo e avrà un ruolo marginale anche perché il Pd si sta riprendendo i voti in uscita", sentenzia Becchi.
L'opinione dei fuoriusciti. Secondo l'ex pentastellata Paola Nugnes, oggi iscritta al gruppo di Liberi e Uguali, il problema non sono le auto blu ma il fatto il M5S abbia cambiato pelle e si sia inserito "in un’area neoliberista che già era occupata da altri e, quindi, non è più un movimento rivoluzionario come credeva di essere". "Non demonizzo le auto blu o il fatto che sia diventato un partito, ma c’è stata una truffa dal punto di vista semantico tra quello che voleva realizzare e quello che si è realizzato", aggiunge la Nugnes. Che la fascinazione del potere abbia completamente cambiato il Movimento è un aspetto che mette bene in luce anche il senatore Michele Giarrusso, passato al gruppo misto alcuni mesi fa. "Questo non ha nulla a che vedere con il M5S e il suo programma. Di Maio lo ha trasformato nei “Pomigliano boys”. e Crimi è un ‘pupo’ che non conta", dice l'ex grillino che ha perso fiducia nel Movimento "quando al Dap invece di Di Matteo è arrivata la nomina di Basentini e la scarcerazione dei mafiosi". Giarrusso punta il dito contro il Guardasigilli Bonafede, scelto come capodelegazione del governo al posto del reggente Crimi in quanto ministro che siede e partecipa alle riunioni del Cdm. "In realtà, chi tratta col Pd è sempre Di Maio", ribadisce. Secondo Walter Rizzetto, deputato di Fratelli d'Italia che è entrato in Parlamento per la prima volta nella scorsa legislatura con il M5S (salvo, poi, lasciarlo poco dopo), quello offerto ieri è stato uno spettacolo "a dire poco imbarazzante". "Ormai per poter confondere le acque potrebbero riverniciare da soli le auto di servizio di un colore diverso dal blu per poi dire che tecnicamente non sono auto blu", aggiunge Rizzetto che conclude: "L’unica cosa che mi conforta è che ormai sono ai titoli di coda. "
L’ideologia pauperista grillina è tossica e disfunzionale. Andrea Bernardi, Docente universitario, su Il Riformista il 28 Settembre 2020. Il Movimento 5 Stelle sta spendendo allegramente i soldi dei contribuenti. Non mi riferisco al presidente dell’INPS Pasquale Tridico. Se appartenessi alla setta Cinque Stelle chiederei una verifica su Rousseau in merito ai compensi della segreteria personale dei ministri nonché della comunicazione di Palazzo Chigi. Lasciamo stare i tanti voli di stato un tempo disprezzati. Tralasciamo anche il curriculum dei ministri e dei parlamentari, dopo tutto, loro sono stati eletti e ciascuno è libero di mandare in parlamento chi crede, semi-analfabeti e nullafacenti e inclusi. Pasquale Tridico frequenta il Movimento 5 Stelle da circa dieci anni: prima collaboratore del gruppo parlamentare, poi ministro in pectore, poi consulente del ministro Di Maio. Ha fornito un contributo intellettuale al Movimento senza avere mai aderito formalmente, e avendo rifiutato più volte una candidatura nonché una posizione ministeriale in opposizione all’alleanza con la Lega. Nel circo a Cinque Stelle spicca in quanto a qualità umane e curriculum: Professore ordinario di economia, segretario generale di una importante associazione di economisti europei, Fulbright scholar, Jean Monnet chair, dottore di ricerca, prolifico autore di libri e articoli scientifici. Tridico è sotto attacco. Il quotidiano La Repubblica per 24 ore lo ha accusato di aver chiesto un aumento di stipendio e di averlo ottenuto in maniera retroattiva. L’INPS ha chiarito che non c’è retroattività, i documenti hanno stabilito che la decisione non è stata presa dal CdA ma risale al 2019, quando Lega e Cinque Stelle erano impegnati a dividersi le nomine: ISTAT a me, INPS a te, e così via. Mi amareggia vedere il leader della Lega stupito e scandalizzato da una decisione nota a lui e suoi, in particolare all’ex sottosegretario al Lavoro e alle Politiche Sociali. Mi rattrista vedere i vertici del Movimento 5 Stelle che fingono di non sapere e promettono verifiche e accertamenti. C’è una norma del 2019 che ha stabilito il compenso del presidente dell’INAIL e dell’INPS a seguito della riforma della governance. Eppure, nessuno si è scandalizzato per lo stipendio del presidente dell’INAIL. Al contrario l’aumento di stipendio di Pasquale Tridico è stato oggetto di acceso dibattito che ha coinvolto tutti, da Giuseppe Conte in giù. Ebbene sì, guadagnerà 150.000 euro, meno del portavoce del presidente del Consiglio, molto meno dei suoi dirigenti di prima fascia. Nei primi anni di presidenza invece ha guadagnato 65.000 euro, meno del suo stipendio da ordinario, molto meno della segretaria personale dell’allora ministro del Lavoro e delle Attività Produttive. Non possiamo assecondare questa caccia alle streghe alimentata sia dal populismo pauperista grillino che dal populismo leghista fatto di pensioni facili e nemici pubblici da lanciare in pasto alla rete. Tridico oggi è una figura controversa per due motivi. Per l’ideazione del cosiddetto reddito di cittadinanza (che molti giudicano a dir poco perfettibile, me incluso) e per la sua vicinanza al Movimento 5 Stelle (che molti ritengono un soggetto politico illiberale, me incluso). Da mesi è al centro di attacchi personali, giornalistici e politici molto duri. Da un lato c’è l’establishment che non tollera che un outsider ricopra una posizione molto importante e abbia influenzato con decisione l’agenda del legislatore in materia di politiche economiche e sociali. Agli insider è concesso tutto, anche il milione di euro di Mastropasqua e ovviamente i 145.000 euro di Boeri. C’è poi chi (me incluso) ritiene che l’ideologia pauperista grillina, la retorica della casta e dell' "uno vale uno", siano dannose al funzionamento delle istituzioni e alla lunga producano una selezione avversa della classe politica. I primi effetti già si vedono. Abbiamo riempito il parlamento di miracolati sedicenti onesti, di scarsa cultura o esperienza professionale, che talvolta fingevano di restituire parte dello stipendio. La setta del pauperismo giunta al potere ha utilizzato ogni piega dei bilanci e dei regolamenti per assegnare compensi ad amici, parenti, compagni di scuola, compaesani dal curriculum a volte leggero, a volte pittoresco, a volte grottesco. Vedi quel presidente di Commissione parlamentare, il quale, dopo la terza media, ha perfezionato gli studi per dieci anni in un negozio di animali. Questa critica all’ideologia grillina è legittima ma non va rivolta al bersaglio sbagliato. Pasquale Tridico è l’eccezione alla regola del pressappochismo e della cialtroneria grillina. Non è compaesano, parente, compagno di classe del leader. Non ha un curriculum inventato, la sua carriera e i suoi meriti professionali precedono la notorietà e l’incontro con i Cinque Stelle. Per questo trovo insopportabile che dal Movimento 5 Stelle ci sia stata qualche esitazione nel difenderlo. Il referendum sul "taglio delle poltrone" in parlamento si è svolto da poco e già qualcuno tra i Cinque Stelle annuncia la prossima "grande riforma": la riduzione dello stipendio dei parlamentari. D’altronde Grillo insiste con la sua visione: parlamentari sorteggiati o addirittura aboliti del tutto. L’ideologia della casta e dell' "uno vale uno" si è dimostrata fallimentare come criterio di governance del Movimento 5 Stelle ma rischia di sopravvivergli. Occorreranno anni per depurarci dal populismo grillino che da un decennio sta contribuendo alla denigrazione delle istituzioni liberali e del merito.
Dov’è lo scandalo Tridico? Solo nel puritanesimo a dondolo dei grillini…Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Settembre 2020. È abusata quella bella frase di Pietro Nenni sull’epurazione. Però fa sempre effetto: «Non fate i puri perché prima o poi arriverà uno più puro di voi e vi epurerà». In questa storia di Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, di puri, per la verità, ce ne sono pochi. Però ci sono moltissimi epuratori, o ex epuratori, che oggi fanno una figura bruttina. I 5 Stelle, Travaglio, un bel mazzetto di giornalisti frustatori impietosi di costumi (altrui). La vicenda la conoscete. I giornali, sempre alla ricerca dell’occasione per scavalcare Travaglio, hanno scoperto che il Presidente cinquestelle (più o meno) dell’Inps si era quatto quatto raddoppiato lo stipendio. Scandalo, urla, indignazione. Interrogazioni in Parlamento, articoli di fondo, richiesta di dimissioni. Conte e Di Maio (detti i capitani coraggiosi) subito si sono liberati di ogni responsabilità sostenendo che loro non ne sapevano niente e si sono uniti alle grida allo scandalo, allo scandalo, allo scandalo. Del resto, può un 5 Stelle non gridare allo scandalo se qualcuno si aumenta lo stipendio? Ma se loro non sapevano niente chi ha deliberato l’aumento dello stipendio? Partendo da questa domanda si è ricostruita abbastanza precisamente la realtà dei fatti. La decisione l’hanno presa proprio Conte e Di Maio, ma non quelli di oggi quelli del primo governo Conte Di Maio, quello con la Lega, per capirci. E l’aumento, per la verità, era del tutto ragionevole. Siamo venuti a sapere che il Presidente dell’Inps, cioè di un colosso che amministra più o meno – credo – un quarto del nostro Pil, ha uno stipendio di 65 mila euro lordi all’anno, e cioè, alla fine del mese, mette insieme qualcosa meno di tremila euro (dipende dallo scaglione fiscale, cioè da eventuali altri redditi: se ci sono altri redditi, lo stipendio scende a 2000). E abbiamo anche saputo che in seguito al colpo di mano, d’ora in poi riceverà uno stipendio di 5/6000 euro al mese, appena un po’ inferiore a quello di un caporedattore di un grande giornale, e forse più o meno la metà di quello di un grande inviato (per capirci, di uno di quelli che si scaglia contro il suo stipendio). Lo scandalo, ovviamente, non c’è. Lo scandalo sta solo nella rapidissima inversione delle parti tra fucilatori e fucilati. Epuratori ed epurati. Puri ed impuri. Il fucilatore, epuratore e puro sopra ogni dubbio ragionevole, e cioè Marco Travaglio, si è gettato a corpo morto a difesa di Tridico, in quanto nominato dai Cinque stelle. E ha iniziato a pubblicare stipendi di manager pubblici di ogni genere, tutti superiori a quelli di Tridico. Si è dimenticato – ma capita a tutti un momento di distrazione – di pubblicare anche la sua dichiarazione dei redditi, per dimostrare che lo stipendio di Tridico è bassino bassino. Qual è l’idea di Travaglio e degli altri difensori di Tridico? Un’idea semplice e non contestabile: che il lavoro e la qualità del lavoro e anche il peso delle responsabilità vanno pagati. È assurdo pensare che il Presidente dell’Inps debba guadagnare meno di 150 mila euro. Giusto? Giustissimo. E un deputato? E un sindaco? E un consigliere regionale? Beh, non toccate questo tasto con Travaglio che gli viene l’infantioli: deputati sanguisughe, via lo stipendio, via la pensione, sono degli orridi privilegiati mangiapane a tradimento! Che fai, ti indigni di fronte a questo puritanesimo a dondolo. Ma no, dai: ti viene più che altro un po’ da ridere.
Luca Monticelli per “la Stampa” il 27 settembre 2020. «Infangano me per colpire il governo». Pasquale Tridico, è «sconvolto», ma non ha alcuna intenzione di dimettersi. Il presidente dell'Inps respinge gli «attacchi personali» e le accuse di essersi alzato lo stipendio con effetto retroattivo. Dopo le polemiche sui ritardi della cassa integrazione, sul caos partite Iva, sul bonus da 600 euro ai politici e sul reddito di cittadinanza incassato dagli evasori, l'economista vicino ai 5 stelle è alla sbarra per la sua busta paga. Il 7 agosto scorso il ministero del Lavoro, di concerto con il Mef, ha emanato un decreto che ha cambiato i compensi annuali lordi dei componenti del cda dell'Istituto di previdenza: 150 mila euro al presidente (il 50% in più rispetto a quanto prendeva Tito Boeri), 40 mila al vice, elevabili a 60 mila in caso di deleghe, e 23 mila ai consiglieri. Tridico, approdato all'Inps il 19 maggio 2019 con l'esecutivo gialloverde, percepiva 60 mila euro perché affiancato da Adriano Morrone fino al 15 aprile 2020, quando poi si è insediato il nuovo cda. Il centrodestra compatto ne chiede le dimissioni e lo incolpa di aver preteso quasi un anno di arretrati. Per Matteo Salvini deve «pagare la cassa integrazione, chiedere scusa e andarsene». Fratelli d'Italia chiama in causa tutto il governo e Giorgia Meloni usa l'ironia definendolo «"Triplico" perché gli è stato quasi triplicato lo stipendio. Cosa intende fare Conte?», domanda la leader Fdi. Forza Italia annuncia un'interrogazione e chiede al professore di Roma Tre di «restituire i soldi». Anche nella maggioranza i toni sono accesi. Debora Serracchiani del Pd parla di «vicenda sconcertante» mentre per Italia viva, in prima linea da mesi contro Tridico, è Luigi Marattin a contestare l'ipocrisia dei populisti sulla casta: «Ci prendono per il c...». Perfino Luigi Di Maio, che di Tridico è il principale sponsor, si aspetta chiarimenti. A mettere un punto è la Direzione risorse umane dell'Inps con una nota dove spiega che gli uffici non hanno previsto di erogare gli arretrati al presidente a partire da maggio dell'anno scorso, ma solo dal 15 aprile 2020, data di insediamento del Consiglio di amministrazione, come prevede la normativa. Il ministero del Lavoro conferma la ricostruzione e sostiene che sia stato il precedente governo ad avviare una riforma degli emolumenti. Il professore però resta in mezzo alla bufera e il fuoco di fila dell'opposizione prosegue: «Solo la vigilanza degli organi interni ha impedito che la differenza venisse pagata da prima di aprile, l'aumento va annullato», denuncia il senatore azzurro, Maurizio Gasparri. Pasquale Tridico assicura di non aver preso un euro di arretrato e si sfoga: «Sono sconvolto, mi stanno infangando. Finora mi hanno colpito per la mia attività professionale, adesso invece mi attaccano anche sul piano personale e questo mi ferisce e mi addolora». Perché lo fanno? «L'Inps è sempre stato un Istituto molto politicizzato e vedo che si tende a sovrapporre la sua attività a quella dell'esecutivo», sottolinea l'economista. Perciò «attaccano me per attaccare il governo, è esattamente quello che penso. Nello Stato i dirigenti di seconda fascia prendono 150 mila euro, quelli di prima fascia 200 mila. Il presidente dell'Inps, fino adesso, 60 mila euro, ma di che cosa stiamo parlando?». Quindi una stoccata a un suo collega di area leghista, Gian Carlo Blangiardo: «Perché se il presidente dell'Istat prende 240 mila euro non si scandalizza nessuno?». Tridico dice di non voler lanciare accuse ma di limitarsi a elencare dei fatti: «Quando ti dicono che prendi i soldi e non è vero che cosa dovresti fare? L'unica cosa sarebbe querelare, però non è il mio stile, non sono abituato a lavorare così». A chi lo invita a dimettersi risponde: «Non ci penso proprio, essendo false tutte le accuse perché dovrei?». Al ministro degli Esteri che sollecita chiarimenti, ieri pomeriggio il numero uno della previdenza italiana replicava: «Non ho parlato con nessuno né ho ricevuto chiamate». In serata anche il premier Giuseppe Conte interviene sul caso dello stipendio, in collegamento con il festival dell'economia di Trento: «Non ero informato di questa vicenda, ovviamente ho chiesto accertamenti perché vorrei approfondire la questione. Permettetemi di comprenderla bene, poi formulerò una valutazione più compiuta. Sono abituato a parlare seriamente: fatemi fare una verifica».
Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 28 settembre 2020. Può il presidente dell'Istituto nazionale di previdenza guadagnare 62 mila euro lordi all'anno? È, o meglio era, uno stipendio congruo per chi ha la responsabilità di garantire l' erogazione di prestazioni per oltre 200 miliardi ogni anno, cifra che sarà anche più alta in questo 2020 segnato dall' emergenza Covid? Chi polemizza per la busta paga più che raddoppiata di Pasquale Tridico, ora a 150 mila euro annui, evidenzia innanzitutto la differenza con il suo predecessore, Tito Boeri, che guadagnava meno, 103 mila euro. Dimenticando, però, che fino al 2014, il presidente Antonio Mastrapasqua percepiva dieci volte tanto: 1 milione e 200 mila euro all' anno. Ma forse il divario più stridente è tra lo stipendio del presidente e quello dei dirigenti generali dell' Inps. Su 40 ce ne sono 32 che guadagnano 240 mila euro all' anno (ultimo dato disponibile riferito al 2018), tetto massimo ora previsto dalla legge per i funzionari pubblici, praticamente quanto prende il presidente della Repubblica. Se poi si spulcia l'elenco, anche tra i dirigenti di seconda fascia ce ne sono centinaia che si mettono in tasca più dei 150 mila euro annui ora concessi a Tridico. Probabilmente, tra buchi informatici, cassa integrazione in ritardo e bonus Covid ai parlamentari, non era il momento più opportuno per ufficializzare l'aumento di stipendio del presidente e del consiglio di amministrazione. Ma la cifra riconosciuta a Tridico non è per nulla spropositata rispetto alle indennità previste per altri importanti manager pubblici. È identica, ad esempio, a quella corrisposta al presidente dell' Inail, Franco Bettoni, che ha beneficiato dello stesso decreto interministeriale. E che, tra l' altro, si è insediato quattro mesi prima e quindi può beneficiare di una retroattività più lunga. Guadagna senza dubbio di più Giancarlo Blangiardo, presidente dell' Istat, scelto da Salvini quando governava la Lega. Il professore di demografia è attestato sul tetto massimo consentito, 240 mila euro lordi all' anno, per gestire l' Istituto di statistica. I suoi dirigenti di prima fascia prendono circa 150 mila euro, quanto il presidente dell' Inps. Stipendio top anche per l' ex ministro Paolo Savona, in qualità di presidente della Consob, la commissione che controlla la Borsa, dove non è l' unico a prendere 240 mila euro all' anno: stessa cifra, infatti, anche per 4 commissari e 4 funzionari. Di poco inferiore il compenso annuo del direttore generale dell' Agenzia nazionale del farmaco, Nicola Magrini: 222 mila euro. Busta paga più leggera, invece, per uno dei protagonisti dei mesi della pandemia, il presidente dell' Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, che nel 2020, nonostante gli straordinari dovuti al Covid, guadagnerà "solo" 130 mila euro.
Enrico Marro per il “Corriere della Sera” il 27 settembre 2020. Chi ci ha parlato lo descrive «avvilito». Pasquale Tridico, 45 anni, giovane economista che Luigi Di Maio piazzò più di un anno fa al vertice dell'Inps, non è la prima bufera che deve affrontare. Anzi. Ma questa potrebbe costargli la poltrona. Perché stavolta il caso lo tocca in prima persona e in ciò che sta più a cuore ai 5 stelle: la trasparenza e gli stipendi della casta. Ecco perché, chiuso nel fortino, è avvilito. «Sta imparando a sue spese quale è il prezzo della retorica anticasta. Speriamo che i grillini riflettano. E imparino», dice una persona che lo ha sentito ma non vuole apparire perché la questione è delicata e si presta a «facili fraintendimenti». Nunzia Catalfo, la ministra grillina del Lavoro che con il collega del Tesoro, il dem Roberto Gualtieri, ha firmato il decreto che concede l'aumento di stipendio al presidente Inps (da 62 mila a 150 mila euro lordi l'anno) ha sentito più volte Tridico e continua a difenderlo. Ma certo il caso è scoppiato nel momento peggiore per il Movimento 5 Stelle, dopo il disastroso risultato elettorale delle regionali. Non solo. I pentastellati rischiano di restare isolati nel sostegno al presidente dell'Inps, dopo che il premier, Giuseppe Conte, che già in passato aveva convocato Tridico a Palazzo Chigi sui ritardi con cui l'istituto ha gestito gli ammortizzatori sociali per il Covid, ieri ha spiegato di aver chiesto «un approfondimento» e una «verifica» sulla base della quale prendere le sue decisioni. Quindi, una situazione dove, suo malgrado, Tridico rischia di diventare una pedina dell'aspro confronto già in corso tra Pd e 5 Stelle. La testa del presidente dell'Inps potrebbe insomma finire nella complessa partita che oppone i due più grandi partiti della coalizione su diversi temi, dal Mes ai decreti sicurezza. Inoltre, le opposizioni non faranno sconti. Chiameranno il governo a riferire in Parlamento, insisteranno sulle dimissioni del presidente, cavalcheranno il maxiaumento di stipendio varato alla chetichella il 7 agosto e cercheranno di demolire quel che resta dell'identità anticasta del Movimento. Ora la casta sono loro, incalzano Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia. Lo hanno già dimostrato cambiando lo statuto per restare in sella anche dopo il secondo mandato e ora, mentre esultavano per il taglio dei parlamentari approvato dal referendum, aumentavano, senza che nessuno ne sapesse nulla, lo stipendio di Tridico da 62 mila a 150 mila euro e pure con effetto retroattivo, il che avrebbe regalato un bonus di circa 100 mila euro al presidente, per compensare la retribuzione dal 22 maggio 2019, quando fu nominato, al 15 aprile 2020, giorno di insediamento del consiglio di amministrazione, presieduto dallo stesso Tridico, i cui emolumenti sono oggetto del decreto Catalfo-Gualtieri del 7 agosto. E già, perché il pasticcio più grande - messi da parte eccessi di demagogia che per un'inesorabile legge del contrappasso si scaricano sui 5 Stelle - sta proprio in questo rischio di retroattività. Che non a caso ieri la ministra del Lavoro si è affrettata a disinnescare. Il decreto farebbe infatti scattare i nuovi emolumenti «dalla data di nomina». Una disposizione in contrasto con quanto previsto dalle leggi che, ha osservato il collegio dei sindaci dello stesso istituto, dispone che decorrano dal giorno di insediamento. Certo che è così, hanno detto ieri sia l'Inps sia Catalfo. Ma resta il dubbio che senza i rilievi del collegio, guidato da un dirigente della Ragioneria dello Stato, sarebbe potuta andare diversamente. Al Tesoro, non senza malizia, osservano che questa è la prova che «il sistema funziona». All'Inps spiegano inoltre che i 150 mila euro per Tridico erano un aumento dovuto, perché un presidente non può interloquire sempre con chi prende molto più di lui: 240 mila euro l'anno i dirigenti di prima fascia, compresi i direttori regionali, 160 mila per quelli di seconda fascia, compresi i vice regionali. Ma ormai sono considerazioni travolte dalla bufera politica.
Il testimonial dei grillini. Andrea Franzoso, l’eroe dello sparacazzate Toninelli che spiega la spartizione delle poltrone dei grillini. Angela Nocioni su Il Riformista il 18 Settembre 2020. L’aria fritta a cui pensano di ricorrere i grillini in caduta libera è una convocazione pomposa per Stati generali anticorruzione. Roba forte. Di questo confabulano i deputati terrorizzati dai sondaggi. Nel frattempo, però, si son persi per strada la bandierina dell’anticorruzione sventolata negli ultimi due anni come simbolo del loro immacolato candore: quell’Andrea Franzoso portato in processione in tutte le trasmissioni tv per mesi come «il whistleblower più famoso d’Italia». Così gli piaceva presentarlo. Prima che li mollasse. La bandierina non ne poteva più e s’è ammainata da sola, sputtandandoli. Mette subito le mani avanti: «Non sono dei Cinque stelle e non li ho votati». Poi: «Si spartiscono i posti. Come combattono la corruzione? Con la spazzacorrotti, con quel brutto nome per giunta, che è il loro spaventapasseri». «Fanno altro? Non mi pare. In materia di anticorruzione, un loro grande slogan, hanno un impegno altalenante». La storia di Franzoso è nota, pompatissima per mesi ovunque, incensata in un libro titolato Il disobbediente (Addirittura? Si dà del disobbediente da solo? «Il titolo l’ha scelto la Gabanelli») edito da Paper first (Fatto quotidiano). Nel 2015 Franzoso (che di recente ha lavorato anche per Loft, piattaforma tv sempre del Fatto), ex ufficiale dei carabinieri (e ti pareva), ex novizio gesuita, laureato in giurisprudenza, era un funzionario alle Ferrovie del nord. Denunciò con un esposto non anonimo le spese personali (locali notturni, vacanze per i figli) che il presidente della società addebitava all’azienda con l’avallo di molti sottoposti. Denuncia pagata con mobbing pesante. Finché il presidente non è stato condannato a due anni e otto mesi per peculato e truffa e lui è finito prima incastonato tra i santini cinquestellini e poi nel cda di Trenord, società ferroviaria lombarda partecipata al 50% da Ferrovie Nord Milano, controllata dalla Regione lombardia e al 50% da Trenitalia. Fu definito “la zeppa” dell’allora ministro dei trasporti Toninelli, (quello dei pic nic sul ponte Morandi, solo per citarne una) lo sparacazzate dallo sguardo spiritato catapultato da Grillo al governo del Paese. In questo modo Toninelli si intestò l’onore d’aver nominato “l’eroe di Ferrovie” nel cda di Trenord: «Questa grande novità dà il senso della rivoluzione che stiamo portando avanti. Per noi un uomo così coraggioso, onesto, con spiccata moralità, senso civico e, perché no, la schiena dritta, deve essere premiato». Il problema adesso è che l’eroe ha disertato. L’ha mollati e in malo modo. Già ha promosso un documento, con Zagrebelsky e compagnia, in cui critica pesantemente le nomine dei nuovi vertici dell’Anac, l’authority anti corruzione fino all’anno scorso guidata dal magistrato Raffaele Cantone. Ora ci ha preso gusto. Va facendo le pulci ai singoli commissari e accusa il governo di avere «un impegno ambiguo sull’anticorruzione». Specifica: «Esponenti di primo piano dei Cinque stelle mi hanno confermato che si spartiscono i posti, che per mettere la loro candidata all ‘Anac, Laura Valli, che è pure brava, hanno dovuto accettare senza batter ciglio le nomine degli altri, a cominciare dal presidente Giuseppe Brusia che è notoriamente lì solo perché è un amico di Conte che Conte non è riuscito a piazzare come sottosegretario altrove e quindi è stato rifilato all’Anac». «Me l’hanno proprio detto: per mettere la Valli abbiamo dovuto accettare gli altri, funziona così». «Ma come: funziona così? Cosa vuol dire? Vi occupate essenzialmente di nomine? Bene, vediamo chi avete nominato. Del Balzo, avvocata romana, candidata Fratelli d’Italia in Sicilia. D’accordo. Qual è la sua comprovata esperienza nella lotta alla corruzione che richiederebbe la legge per l’Anac? Perché lei è da considerare un’esperta? Boh, vorrei capirlo perché io ho trovato solo 7 articoli suoi per la Voce del patriota e una pagina facebook in cui spunta Giorgia Meloni dappertutto e ci sono slogan del sovranismo in abbondanza. Per essere parte di una Authority indipendente, mi pare lo preveda anche l’articolo 5 dello statuto non si non dovrebbe essere così connotati politicamente. eppure eccoli lì. Un altro: Giacomazzo chi è? Un amico di Ghedini dicono? Ok. Cos’ha fatto per essere considerato un esperto? Stessa cosa per Forteleoni che sarebbe renziano». «In Agcom hanno fatto la stesso. Hanno nominato gente per vicinanza personale o per appartenenza politica, senza occuparsi minimamamente delle competenze». Perché se la prende così a cuore se poi ribadisce che lei non milita, che con i Cinque stelle nulla c’entra e che non è vero che grazie a loro ha comunque trovato un lavoro? «Nel cda di Trenord, dove mi ha proposto Buffagni che mi ha offerto anche una candidatura che ho rifiutato, non ho uno stipendio, ma un gettone di presenza. Duemila euro l’anno grosso modo» ci tiene molto a spiegare Franzoso. «Me la prendo perché hanno chiesto voti promettendo una politica anticorruzione, ma si limitano ad inasprire le pene senza occuparsi né di rendere più difficile corrompere, né di nominare vigilanti competenti. Alzano lo spauracchio permanente della spazzacorrotti e io, che non voglio spazzare nessuno e detesto l’esaltazione della legalità in sé e per sé come valore perché in uno stato fascista praticherei l’illegalità quindi già in quello non sono d’accordo, mi vedo approvare un decreto semplificazione molto discutibile, affidamenti diretti fino a 150mila euro, la modifica dell’abuso d’ufficio, la modifica della responsabilità per danno erariale e le gare fino a 5 milioni decise con trattative private tra 5 soggetti e ho delle critiche di merito. Agiti le manette e poi non ti occupi rendere più complicato corrompere, solo di promettere che dopo la punirai aspramente. Qualche dubbio mi viene».
Paolo Bracalini per ''il Giornale'' il 30 giugno 2020. Volevano aprire il Parlamento come una scatola di tonno, poi si sono accorti che il tonno era ottimo e se lo sono pappato alla grande. Da contestatori antiprivilegi a privilegiati con scorta e stipendione, abbarbicati alla poltrona, innamorati del potere che per puro caso si sono ritrovati in mano, i grillini sono diventati casta al quadrato, anche perché senza la manna politica li attenderebbe una vita da disoccupati senza reddito o la fatica di trovarsi un vero lavoro. E quindi eccoli trafficare beati nei meandri più reconditi della politica che volevano abbattere. Potevano mancare i Cinque stelle nelle trame telefoniche di Luca Palamara, il pm tessitore di carriere e favori? Macché, e infatti nell'inchiesta sull'ex consigliere del Csm, indagato per corruzione, emergono i suoi rapporti cordiali con il mondo M5s romano, impersonato da Roberta Lombardi, dal presidente dell'assemblea capitolina Marcello De Vito, grillino già arrestato per corruzione e poi tornato al proprio posto in Comune, e anche dalla deputata Giulia Sarti, già protagonista della Rimborsopoli pentastellata (faceva finta di restituire i soldi della Camera ma poi se li teneva). È De Vito che fa da intermediario tra le due parlamentari e Palamara. «Ho appena sentito Roberta Lombardi che mi ha detto avrebbe piacere di conoscerti», scrive a Palamara il 6 dicembre 2017. Qualche mese dopo invece si occupa di organizzargli un incontro con la Sarti: «Ciao Luca, ieri ho visto la Sarti. Sarebbe ben contenta di incontrarti. Mi sono permesso di lasciarle il tuo numero». Il magistrato risponde: «Bene! Se non dovessi rispondere perché al mare può mandarmi sms e la richiamo». Per la Lombardi, interpellata da Repubblica, è tutto normale: «Parlammo 30 minuti. Ricordo solo di essere uscita perplessa dalla chiacchierata». Quel che un tempo avrebbe indignato, ora al massimo suscita perplessità. E che dire dei mitici privilegi dei parlamentari, tipo il barbiere a prezzi stracciati e soprattutto il ristorante con il controfiletto a 3 euro? I grillini sono diventati i loro migliori clienti, Di Maio e Bonafede si fanno sistemare il taglio nella barberia di Montecitorio che una volta volevano abolire, mentre dei manicaretti del ristorante non se ne può fare più a meno, scherziamo. In commissione Bilancio, il 26 giugno scorso, non casualmente attorno all'ora di pranzo, prende la parola la grillina Marialuisa Faro, la quale - racconta il verbale della seduta - «segnala che nella giornata odierna non è stato garantito il servizio di ristorazione ai deputati. Chiede, pertanto, alla presidenza della commissione di rappresentare al presidente della Camera e al Collegio dei deputati questori la necessità che tale servizio sia assicurato nelle prossime giornate festive nelle quali saranno previsti i lavori della commissione». Al che il collega grillino Giuseppe Buompane, in quel momento nelle veci di presidente della commissione, invece di segnalarla ai probiviri del M5s, promette che sarà sua «cura rappresentare tale esigenza al Collegio dei deputati questori». Questa Faro, catanese, direttrice di un'agenzia viaggi, si era già fatta notare con una mirabile pronuncia in un intervento alla Camera: «Bunchbank» al posto di «Bundesbank». Forse dovuto ad un calo di zuccheri per una temporanea chiusura della buvette. I privilegi un tempo insopportabili sono diventati diritti irrinunciabili per i miracolati M5s. Come l'autobus esibito come mezzo di trasporto dal presidente della Camera Roberto Fico, ma subito sostituito con la più comoda auto blu con autista. Solo «per motivi di sicurezza», ovviamente.
Contatti con Palamara e appelli per le cucine. C'erano una volta i 5s. Le telefonate col pm indagato e la richiesta alla Camera: «Va riaperto il ristorante». Paolo Bracalini, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. Volevano aprire il Parlamento come una scatola di tonno, poi si sono accorti che il tonno era ottimo e se lo sono pappato alla grande. Da contestatori antiprivilegi a privilegiati con scorta e stipendione, abbarbicati alla poltrona, innamorati del potere che per puro caso si sono ritrovati in mano, i grillini sono diventati casta al quadrato, anche perché senza la manna politica li attenderebbe una vita da disoccupati senza reddito o la fatica di trovarsi un vero lavoro. E quindi eccoli trafficare beati nei meandri più reconditi della politica che volevano abbattere. Potevano mancare i Cinque stelle nelle trame telefoniche di Luca Palamara, il pm tessitore di carriere e favori? Macché, e infatti nell'inchiesta sull'ex consigliere del Csm, indagato per corruzione, emergono i suoi rapporti cordiali con il mondo M5s romano, impersonato da Roberta Lombardi, dal presidente dell'assemblea capitolina Marcello De Vito, grillino già arrestato per corruzione e poi tornato al proprio posto in Comune, e anche dalla deputata Giulia Sarti, già protagonista della Rimborsopoli pentastellata (faceva finta di restituire i soldi della Camera ma poi se li teneva). È De Vito che fa da intermediario tra le due parlamentari e Palamara. «Ho appena sentito Roberta Lombardi che mi ha detto avrebbe piacere di conoscerti», scrive a Palamara il 6 dicembre 2017. Qualche mese dopo invece si occupa di organizzargli un incontro con la Sarti: «Ciao Luca, ieri ho visto la Sarti. Sarebbe ben contenta di incontrarti. Mi sono permesso di lasciarle il tuo numero». Il magistrato risponde: «Bene! Se non dovessi rispondere perché al mare può mandarmi sms e la richiamo». Per la Lombardi, interpellata da Repubblica, è tutto normale: «Parlammo 30 minuti. Ricordo solo di essere uscita perplessa dalla chiacchierata». Quel che un tempo avrebbe indignato, ora al massimo suscita perplessità. E che dire dei mitici privilegi dei parlamentari, tipo il barbiere a prezzi stracciati e soprattutto il ristorante con il controfiletto a 3 euro? I grillini sono diventati i loro migliori clienti, Di Maio e Bonafede si fanno sistemare il taglio nella barberia di Montecitorio che una volta volevano abolire, mentre dei manicaretti del ristorante non se ne può fare più a meno, scherziamo. In commissione Bilancio, il 26 giugno scorso, non casualmente attorno all'ora di pranzo, prende la parola la grillina Marialuisa Faro, la quale - racconta il verbale della seduta - «segnala che nella giornata odierna non è stato garantito il servizio di ristorazione ai deputati. Chiede, pertanto, alla presidenza della commissione di rappresentare al presidente della Camera e al Collegio dei deputati questori la necessità che tale servizio sia assicurato nelle prossime giornate festive nelle quali saranno previsti i lavori della commissione». Al che il collega grillino Giuseppe Buompane, in quel momento nelle veci di presidente della commissione, invece di segnalarla ai probiviri del M5s, promette che sarà sua «cura rappresentare tale esigenza al Collegio dei deputati questori». Questa Faro, catanese, direttrice di un'agenzia viaggi, si era già fatta notare con una mirabile pronuncia in un intervento alla Camera: «Bunchbank» al posto di «Bundesbank». Forse dovuto ad un calo di zuccheri per una temporanea chiusura della buvette. I privilegi un tempo insopportabili sono diventati diritti irrinunciabili per i miracolati M5s. Come l'autobus esibito come mezzo di trasporto dal presidente della Camera Roberto Fico, ma subito sostituito con la più comoda auto blu con autista. Solo «per motivi di sicurezza», ovviamente.
La rivoluzione del M5s ? Un pasto sicuro…Il Corriere del Giorno il 29 Giugno 2020. La deputata del M5S mentre nel nostro Paese si muore di fame, come lamentano i”grillini” spinti da irrefrenabile indignazione , ha alzato la mano in Commissione Bilancio alla Camera dei Deputati e chiesto di intervenire sull’ordine dei lavori avanzando una vibrante protesta (che ai cittadini veri poco importa !) lasciando tutti i deputati presenti a dir poco interdetti.: “il ristorante di Montecitorio è chiuso chi ci nutrirà nei giorni festivi ?” Mentre venerdì scorso alla Commissione Bilancio della Camera si discuteva di urgentissime risoluzioni in “materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”. Ma mentre nel nostro Paese si muore di fame, come lamentano i”grillini” spinti da irrefrenabile indignazione, si è aperto un “buco” nello stomaco del deputato pentastellato Marialuisa Faro. La “portavoce cittadina” onorevole Marialuisa Faro, 36 anni da Catania, ha un trascorso imbarazzante nel Movimento Cinque stelle col 3.59% di preferenza raccolto nel 2013, da candidato sindaco al Comune di Sannicandro Garganico, in provincia di Foggia. “Miracolata” con l’elezioni alla Camera nel 2018, la deputata del Movimento 5 Stelle (M5S) Marialuisa Faro ha alzato la mano e chiesto di intervenire sull’ordine dei lavori avanzando una vibrante protesta (che ai cittadini veri poco importa !) lasciando tutti i deputati presenti a dir poco interdetti.: “il ristorante di Montecitorio è chiuso chi ci nutrirà nei giorni festivi ?” Secondo la “grillina” è importante allertare il collegio dei Questori della Camera ed addirittura il suo collega di partito Roberto Fico che siede alla Presidenza di Montecitorio. Ma lo squallore grillino non è finito qui. “Domenica (ieri, ndr) siamo convocati qui alle 15.30. Chiedo a Buompane di allertare la presidenza della Camera affinché domenica il ristorante di Montecitorio sia aperto per permetterci di pranzare qui”. Per la cronaca dei fatti, dai resoconti stenografici dei lavori della Commissione Bilancio nessun deputato del M5S è intervenuto sul decreto Rilancio, e il Movimento si è fatto sentire solo attraverso la richiesta del ristorante aperto della deputata Faro! Proprio Roberto Fico due anni fa alla sua prima uscita pubblica da terza carica dello Stato, aveva proposto le linee guida improntate a giustizia ed eguaglianza sostenendo che alla Camera si spendono migliaia di euro per il ristorante, mentre fuori la gente non ha di che mettere in tavola. E non era ancora arrivato il Covid 19. Sette anni fa, i ragazzi ex-disoccupati dei cinque stelle proiettati alle aule dei palazzi del potere romano, erano i più assidui a frequentare la più dozzinale mensa, compiendo secondo loro un atto simbolico ma sopratutto e rivoluzionario, poiché il ristorante di Montecitorio e di palazzo Madama rappresentavano secondo loro il simbolo dei simboli della Casta ! Sino a quando un bel giorno Luigi Di Maio pose un problema a suo dire “drammatico”: “il ristorante è sempre vuoto, mica vogliamo avere sulla coscienza i conseguenti licenziamenti del personale in esubero? Seguì un’ accesa discussione interna al M5S che portò alla decisione “strategica”…. di andare al ristorante, ma soltanto se diventa un “self service”. Dimenticando che in tal caso il problema dei camerieri a rischio esubero, sarebbe rimasta immutata, e quindi non si parlò mai più della prima “battaglia” grillina: quella sul self service. I grillini più “duri” decisero di andare a mangiare nelle trattorie adiacenti sostenendo di spendere di meno! Alle fine 2013 il comico rivoluzionario (a parole) Beppe Grillo, aveva riunito un folto gruppetto dei suoi adepti ,sostenendo che la rivoluzione,, può anche essere un “pranzo di gala”. E fu allora che Giggino Di Maio si adeguò, proprio lui che qualche settimana prima aveva dichiarato che non sarebbe andato “mai e poi mai al ristorante della Camera”. Sempre in quell’occasione dichiarò anche “se mi vedete con un’auto blu linciatemi, perché le auto blu sono il male assoluto“, ma la settimana scorsa in Svizzera ne aveva una decina di auto blu al seguito ! Benedetta coerenza…Girò anche la foto di qualche deputato a cinque stelle cui il cameriere del ristorante della Camera versava un bicchiere di buon vino rosso, apparecchiato e con colleghi di altri partiti. Tutti i grillini “duri” gridarono allo scandalo ! Intervenne addirittura il “Dibba” cioè Alessandro Di Battista scese in campo per difesa d’ufficio dicendo: “lì dentro non mi vedrete mai” . In compenso era spesso attovagliato in un lussuoso ristorante. di piazza Capranica, prezzi all’altezza dei piatti). Dibba aggiunse ” non siate troppo severi, non è poi tutto ’sto privilegio; in ogni caso è molto bello il controllo dei cittadini, ci aiuta a migliorare”. Sono passati 7 anni ma strada facendo i grillini hanno dimenticato nella loro arrampicata sociale-economica-politica i loro principi. Dove sono finiti i grillini che volevano il vassoio da self service, che ora invece amano farsi servire da rispettosi camerieri al tavolo dei ristoranti più lussuosi della Capitale, tanto il conto alla fine lo paghiamo noi. E se il ristorante interno della Camera dei Deputati è chiuso, ecco che qualche parlamentare “grillino” si lamenta in aula, ed il presidente di turno Buompane il quale, “grillino” anche lui, data l’importanza del problema coinvolge nella questione il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico. “So ragazzi” direbbero a Roma, ma qualcuno aggiungerebbe anche “hanno la faccia come il c….o !”. Come non dargli ragione?
DAGONEWS il 29 giugno 2020. Lorenzo d'Albergo su ''la Repubblica'' racconta gli agganci di Palamara con i grillini romani. un po' per annusare l'aria che tira tra i pentastellati. Su tutti, gli scambi WhatsApp con Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale. De Vito fa da intermediario per due colleghe grilline. «Ho appena sentito Roberta (Lombardi, ndr) che mi ha detto avrebbe piacere di conoscerti», scrive al pm il 6 dicembre 2017. Il 2 agosto 2018 è il turno della deputata 5S Giulia Sarti: «Ciao Luca, ieri ho visto la Sarti. Sarebbe ben contenta di incontrarti. Mi sono permesso di lasciarle il tuo numero». La breve chat tra il pm e Roberta Lombardi (salvata come "Robi Lombardi Five Star" nella rubrica di Palamara) in cui i due organizzano un appuntamento all'hotel Adriano «per stare più tranquilli». Contatta da Repubblica, l'ex onorevole M5S spiega così quegli scambi: «Ero candidata alla presidenza della Regione Lazio. Spinsi io per incontrare il magistrato? No, fu De Vito a presentarmi sia il costruttore Parnasi (poi arrestato nell'inchiesta dello stadio di Tor di Valle, ndr), che non fidandomi incontrai alla Camera, e Palamara. Mi sembrarono appuntamenti strani''.
Palamara, la chat con De Vito e l'incontro con Lombardi. Pubblicato lunedì, 29 giugno 2020 da La Repubblica.it. Un aggancio — anche più di uno — nel Campidoglio grillino. Un po’ per provare ad aiutare la società di calcio del figlio, un po’ per annusare l’aria che tira tra i pentastellati. Nelle chat agli atti dell’inchiesta su Luca Palamara, ex consigliere del Csm indagato per corruzione, spuntano gli scambi WhatsApp con alcuni tra i 5S più in vista di Roma. Su tutti c’è Marcello De Vito. Continui e ripetuti sono i botta e risposta con il presidente del Consiglio comunale, arrestato a sua volta per corruzione per poi tornare al proprio posto in Comune dopo 107 giorni di carcere. Siamo nel novembre 2017 e Palamara e De Vito cominciano a chattare. I due si danno più volte appuntamento per un caffè al Futbolclub del Villaggio Olimpico. È il centro sportivo di Guido Tommasi, figlio del giornalista sportivo Rino, in cui gioca la Futbol 22, società fondata dal presidente del Coni, Giovanni Malagò, con altri 21 soci e rilevata nel 2017 dal patron della Sampdoria, “Er Viperetta” Ferrero. Tra una tazzina e l’altra, De Vito fa da intermediario per due colleghe grilline. "Ho appena sentito Roberta (Lombardi, ndr) che mi ha detto avrebbe piacere di conoscerti», scrive al pm il 6 dicembre 2017. Il 2 agosto 2018 è il turno della deputata 5S Giulia Sarti: "Ciao Luca, ieri ho visto la Sarti. Sarebbe ben contenta di incontrarti. Mi sono permesso di lasciarle il tuo numero". Il magistrato risponde così: "Bene! Se non dovessi rispondere perché al mare può mandarmi sms e la richiamo". Per il resto, caffè su caffè. I due si lasciano andare in chat solo il 27 giugno 2018 per commentare il discorso al Csm dell’allora neoministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il Guardasigilli grillino annuncia una legge per evitare che i giudici scesi in politica possano di nuovo indossare la toga e De Vito linka la notizia a Palamara. Il pm risponde dopo 5 minuti: "Direi che è andata bene». Il pentastellato è curioso: "Come è stato preso il suo intervento?". "Ha lasciato una buona impressione", replica il magistrato. Che poi aggiunge: "Seguiamo questo percorso". Il rapporto si fa sempre più solido e Palamara si spende per la squadra di calcio in cui gioca il figlio, il Savio. La concessione del campo, del Comune, è scaduta. Serve una mano. Alla fine non se ne farà nulla. Restano le intercessioni di De Vito per le amiche grilline. E la breve chat tra il pm e Roberta Lombardi (salvata come “Robi Lombardi Five Star” nella rubrica di Palamara) in cui i due organizzano un appuntamento all’hotel Adriano "per stare più tranquilli". Contatta da Repubblica, l’ex onorevole M5S spiega così quegli scambi:"Ero candidata alla presidenza della Regione Lazio. Spinsi io per incontrare il magistrato? No, fu De Vito a presentarmi sia il costruttore Parnasi (poi arrestato nell’inchiesta dello stadio di Tor di Valle, ndr), che non fidandomi incontrai alla Camera, e Palamara. Mi sembrarono appuntamenti strani. Nel caso del pm mi sfuggiva completamente il nesso. Parlammo 30 minuti. Ricordo solo di essere uscita perplessa dalla chiacchierata. Sapeva che non mi sarei mai occupata di giustizia. Di certo non immaginavo che sarebbe finito sotto inchiesta".
(ANSA il 25 luglio 2020) - "La Lega presenterà un'interrogazione sulla vicenda che vede coinvolto il compagno di Rocco Casalino, segnalato all'antiriciclaggio e lo stesso portavoce di Conte coinvolto nella vicenda. Secondo le notizie apparse oggi su alcuni organi di informazione ci sarebbe infatti un movimento di denaro sospetto attraverso il conto corrente di Casalino. Il tutto per ottenere ingenti plusvalenze. Chiediamo che si faccia subito chiarezza poiché, se la notizia fosse confermata, ci troveremmo di fronte a un'ipotesi di reato davvero grave rientrante nel novero degli abusi di mercato". Così, in una nota, i parlamentari della Lega Giulio Centemero e Enrico Montani fanno riferimento a un articolo pubblicato in apertura di prima pagina da "La Verità".
Giacomo Amadori Giuseppe China per “la Verità” il 25 luglio 2020. Per giornalisti e fotografi di tutto il mondo è l'ombra del premier Giuseppe Conte, il suo inseparabile consigliere-portavoce. Affianca il capo del governo in ogni vertice europeo che conti, facilitato dalle sue doti di poliglotta (dice di parlare cinque lingue). Il quarantottenne Rocco Casalino da Frankenthal (è figlio di pugliesi immigrati in Germania) è un tipo eclettico e ambizioso: dopo il diploma a pieni voti e la laurea in ingegneria, ha prima assaporato il mondo dello spettacolo e successivamente ha intrapreso la carriera di uomo comunicazione. Grazie all'attuale incarico a Palazzo Chigi porta a casa un stipendio di tutto rispetto: 170.000 euro l'anno, salario comprensivo di emolumenti accessori e indennità varie. Ma in pochi sanno che, in caso di uscita dal mondo della politica, ha pronto un piano B: fare l'imprenditore nel settore della ristorazione. La notizia l'abbiamo appresa da una segnalazione inviata all'Ufficio antiriciclaggio della Banca d'Italia dai risk manager di un noto gruppo bancario con filiale in Largo di Torre Argentina a Roma, agenzia in cui ha il conto il compagno di Casalino, il trentenne cubano José Carlos Alvarez Aguila. Ma che cosa c'entra l'Antiriciclaggio con il ristorante?
Partiamo dalla segnalazione, che in qualche modo sfiora anche il ruolo istituzionale ricoperto da Casalino. Al centro dell'alert del giugno scorso c'è la carta prepagata del compagno caraibico del portavoce di Palazzo Chigi. Alvarez Aguila ha movimentato sul proprio conto circa 150.000 euro e il rapporto è stato «alimentato» da un'indennità Naspi di disoccupazione, da «modesti bonifici senza causale provenienti dal compagno» e «da un bonifico proveniente da un conto tedesco della Plus500, società finanziaria internazionale che fornisce servizi di trading online». Cioè una società che consente la compravendita di valuta e di azioni sulle varie Borse internazionali. Quel che pare di capire è che il trentenne cubano giochi sui mercati finanziari, con ottimi risultati, attraverso una piattaforma di origine israeliana, la Plus500, con filiali in giro per il mondo. Ma scommette anche con la greca Fortissio.com, specializzata in «trading protetto». Infatti in un altro passaggio della segnalazione si legge che la carta prepagata viene utilizzata per «pagamenti verso siti di trading online come Plus500 e Fortissio.com ed appaiono operazioni rilevanti rispetto al bilancio economico del cliente (ad esempio pari a oltre 2.000 euro nella stessa giornata)».
Ricapitoliamo: il fidanzato di Casalino, di professione cameriere o giù di lì, attraverso una ricaricabile, investirebbe anche 2.000 euro in un giorno per acquistare titoli su siti di settore, incamerando cospicue plusvalenze che vanno ad alimentare il suo conto. Ma è normale che il compagno di un uomo che conosce in anteprima le decisioni del governo scommetta online su dei titoli che gli permettono di incassare lauti guadagni? Non c'è il rischio di un clamoroso conflitto d'interessi? Gli stessi dubbi deve averli avuti chi ha inviato la segnalazione all'Antiriciclaggio. Alvarez Aguila ha spiegato alla sua banca che la carta di credito è posseduta dalla madre che vive a Cuba, la quale «effettua prelievi di contanti seppur di poco conto presso banche locali». Ma dalla banca obiettano che «l'utilizzo fisico della carta non esclude la possibilità di compiere operazioni online da parte del segnalato». Per arrivare a questa conclusione: «Alla luce di tale utilizzo improprio della carta e della movimentazione compiuta si ritiene opportuno l'inoltro della presente». Infatti vengono ritenuti sospetti «scambi di bonifici tra rapporti collegati con causali generiche, unitamente a operazioni di trading probabilmente eseguite da soggetto terzo». Non è difficile immaginare chi sia il «soggetto terzo» sospettato di puntare su questo o quel titolo con la carta intestata ad Alvarez Aguila. Chiunque sia, Casalino o meno, chi investe sui due siti di trading online lo fa utilizzando informazioni privilegiate? È probabile che questo tema sia in fase di approfondimento. José Carlos e Casalino vivono in un bell'attico con vista Tevere, la dimora romana dell'ex concorrente del Grande fratello. Sulla riva opposta del fiume si trova la Suprema Corte di Cassazione. Quando suoniamo al citofono, dall'appartamento al quinto piano ci risponde proprio il giovanotto, che parla italiano. Sappiamo che la sua banca ha fatto una segnalazione all'anti riciclaggio. «Uhm uhm». Chi è che usa quel conto e quella carta? «Il conto è a mio nomeno?» ci risponde. Quindi è lei che gioca in borsa? «Sì». Ma che cosa fa oggi Alvarez Aguila? Almeno sino a maggio ha lavorato come dipendente a tempo pieno all'Antico forno Argentina, enoteca nel cuore di Roma. Un addetto ci spiega che il locale ha riaperto da poco e che José Carlos non fa più parte della nuova squadra. Il cittadino cubano, che durante il lockdown ha percepito l'assegno del Fondo di integrazione salariale, nega che il rapporto si sia interrotto: «Sono ancora sotto contratto e lavoro in sala». In ogni caso lo stipendio da cameriere poco si concilia con le sue cospicue puntate sui siti di trading online. Da quando è sbarcato nel nostro Paese José Carlos ha lavorato per diverse società, quasi tutte nel settore della ristorazione. Negli ultimi tre anni è stato dipendente anche della Temakinho Italia, che gestisce l'omonima catena di ristoranti nippo-brasiliani.
Dopo questa esperienza, come si legge nella segnalazione, ha percepito per oltre un anno, tra il 2018 e il 2019, l'indennità di disoccupazione Naspi. Poi, dopo un breve part-time allo Sheket, un risto-club a due passi dal Ghetto ebraico di Roma, è arrivata l'assunzione all'Antico forno. Ammortizzatori e stipendi che non hanno mai superato i 2.000 euro lordi al mese. Sarà per questo che la banca ha trovato sospette quelle puntate da 2.000 euro netti in un sol giorno sui siti di trading online. Nella segnalazione all'Antiriclaggio c'è anche un'altra notizia. Quella del piano B di Rocco e del suo compagno. Infatti la coppia, il 13 novembre scorso, davanti al notaio romano Gianluca Abbate, ha fondato la Riomaki, società a responsabilità limitata semplificata. Le quote societarie sono equamente divise tra i due uomini e hanno un valore nominale di 5.000 euro. Per questo hanno «versato all'organo amministrativo» 2.500 euro a testa «in contanti». Un'operazione che con la regola introdotta dal secondo governo Conte (il tetto di 2.000 euro per i pagamenti cash) non sarebbe stata possibile. Dall'atto costitutivo apprendiamo che Casalino è ancora residente a Ceglie Messapica (Brindisi) e che il suo compagno, nato all'Havana l'11 ottobre 1989, è, invece, residente all'indirizzo dell'appartamento romano in cui convivono. Inoltre José Carlos nel novembre scorso risultava «munito di regolare permesso di soggiorno rilasciato dalla Questura di Roma in data 12 marzo 2019 con scadenza il 20 marzo 2020». Permessi che vengono via via rinnovati. L'oggetto sociale della Riomaki, che alla Camera di commercio risulta ancora inattiva e ha come amministratore unico Alvarez Aguila, è l'attività di ristorazione, «con particolare riferimento alla preparazione di piatti e di specialità a base di pesce crudo (sushi, sashimi, carpacci e simili) e in generale di cibi orientali e sudamericani nonché con particolare riferimento a piatti e specialità a base di carne (bisteccheria, braceria, steak house)». Insomma, sembra di capire che l'idea sia quella di una cucina fusion, dove Giappone e America Latina si fondono, in perfetto stile Nobu. Ma per non farsi mancare nulla Rocco e José Carlos non escludono di lanciarsi nella gestione di pizzerie, trattorie, osterie, tavole calde, self service, pub, paninoteche, bar, pasticcerie, gelaterie, mense, banqueting nonché nella fornitura di pasti preparati. Non è finita. La Riomaki è pronta a gestire discoteche e locali notturni, ma anche a produrre e commercializzare bevande alcoliche e prodotti alimentari. Infine, tra i possibili business, c'è la direzione di alberghi, villaggi turistici e residence, oltre all'organizzazione di eventi. Insomma Rocco e José Carlos vedono il loro futuro a contatto con il pubblico. Ed è già una notizia, vista la riservatezza che avvolge la vita della coppia. Raramente i due finiscono sui giornali di gossip. Su Internet si trovano le foto di Chi, quando i paparazzi del settimanale mondadoriano immortalarono l'ex concorrente della prima edizione del Grande fratello e il «fidanzato cubano Marco» (così veniva identificato all'epoca) durante un «week end romantico» sull'isola di Ponza. Era il luglio del 2018. José Carlos, barba appena accennata e cranio rasato, indossava occhiali scuri e uno striminzito slippino rosso da cui debordavano muscoli ben torniti. Il Corriere della Sera aggiunse che il giovanotto era in Italia dal 2014 e che Rocco lo aveva presentato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella il giorno del giuramento del primo governo Conte. Ora sappiamo anche che Alvarez Aguila è appassionato di trading online e vorrebbe aprire un ristorante di sushi insieme con il suo Rocco. Sempre che la segnalazione all'Antiriciclaggio non complichi i loro piani.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 26 luglio 2020. Lo scoop della Verità sulla segnalazione all'Antiriciclaggio dei movimenti finanziari del fidanzato cubano di Rocco Casalino, José Carlos Alvarez Aguila, ieri ha mandato in fibrillazione il mondo della politica, facendo saltare anche la partenza per le ferie del protavoce di Palazzo Chigi. Ieri abbiamo raccontato come il giovane centroamericano abbia cominciato a speculare sui più importanti siti di trading online, movimentando sul suo conto corrente qualcosa come 150.000 euro. Oltre a un'indennità Naspi di disoccupazione, da «modesti bonifici senza causale provenienti dal compagno», infatti, sul suo conto sono entrati «un bonifico proveniente da un conto tedesco della Plus500, società finanziaria israeliana che fornisce servizi di trading online» e sono usciti anche più di 2.000 euro in un giorno da giocare su piattaforme di trading online come Plus500 e Fortissio.com. «Operazioni rilevanti rispetto al bilancio economico del cliente», le hanno considerate i risk manager della banca in cui Alvarez ha acceso il suo conto corrente. E, così, hanno segnalato il cliente, come svelato ieri in esclusiva dalla Verità, all'ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. Il compagno, però, sottoposto a Pep (il sistema di controllo per le persone politicamente esposte), conosce in anteprima le decisioni del governo.Ieri Casalino ha spedito nella chat in cui invia le veline di Palazzo Chigi ai giornalisti un lungo messaggio in cui ha spiegato che il compagno «è vittima del trading online». Il dramma della ludopatia sarebbe cominciato «durante il periodo del lockdown». Alvarez, secondo Casalino, «è stato attirato da un sito di trading on line. Il call center di una società ricollegabile al sito lo chiamava più volte al giorno fornendogli suggerimenti su dove e come investire, con la prospettiva di un guadagno facile e sicuro». La situazione sarebbe degenerata «fino a sconfinare», ha spiegato Casalino, «in un meccanismo simile a quello del gioco d'azzardo e della ludopatia, condizione che spiega il continuo passaggio in modo compulsivo di soldi dal suo conto alla carta prepagata con cui faceva transazioni sul sito». In realtà Alvarez vinceva anche, come dimostra il bonifico della Plus500. Ma per Casalino «è arrivato a perdere in solo due mesi 18.000 euro dei suoi risparmi». E sostiene: «All'inizio ti fanno guadagnare qualcosina, 500 o 1.000 euro. E poi perdi tutto. Secondo me è un meccanismo studiato». Ma sul conto di Alvarez sono stati movimentati 150.000 euro. Lui replica: «150.000 euro sono una follia. È una cifra assurda. Non li ha tutti quei soldi. Si è bruciato 18.000 euro. Che per lui è già tantissimo. Lui aveva 28.000 sul conto e un debito di 25.000. Ora ha un debito da pagare con rate mensili di 500 euro (per i 25.000) e ha solo 8.000 euro sul conto. È un uomo distrutto». E probabilmente Casalino non è a conoscenza di tutta la questione. Sulla movimentazione così alta ha una sua teoria: «L'unica spiegazione è che se lui trasferiva per esempio mille euro dal conto alla prepagata e poi li riprendeva e poi li rimetteva e poi li riprendeva, probabilmente per Unicredit erano 4.000 euro di movimentazione. Ma si trattava sempre degli stessi 1.000». Quindi precisa «che Alvarez non ha mai acquistato titoli italiani o collegati all'attività di governo. Non ero al corrente di quanto stesse accadendo né ho mai condiviso con lui informazioni riservate». E ancora: «Alvarez disponeva di 25.000 euro sul conto, chiesti alla banca come prestito per poter aprire un suo piccolo sushi bar». Del quale è socio anche Casalino (investimento che sarebbe saltato per il lockdown e per la ludopatia del compagno). E i trasferimenti di denaro dal conto del consulente di Palazzo Chigi? «Non hanno nulla a che vedere con il trading», sostiene il portavoce, «si tratta di piccole somme: parliamo di cifre pari a 20, 30, 40 euro, e rappresentavano il normale e quotidiano contributo alle spese di gestione della casa; contribuivo per aiutare la sua mamma con massimo 100 euro diverse volte in un mese, che lui girava tramite l'altra prepagata alla madre che vive a Cuba con soli 20 dollari mensili dati dal governo». In coda al messaggio il portavoce di Giuseppe Conte posta notizie su tragedie da ludopatia. E chiude il discorso così: «Anche alla luce della difficile fase della mia relazione con Alvarez, chiedo che venga rispettata la mia privacy». Ieri sera Casalino ha accettato di darci qualche ulteriore delucidazione: «Nel lockdown ha aperto questi maledetti siti su internet che promettono di diventare ricchi con il trading online e lui c'è cascato. Lo chiamavano più volte al giorno e io sinceramente pensavo che stesse imparando a fare trading, una specie di corso. Lo vedevo appassionato». Poi, grazie allo scoop della Verità, l'amara scoperta. «Con una piattaforma, Fortissio.com, ha chiuso i rapporti, ma con la Plus500 continua a lavorare. È convinto di poter diventare un trader». Casalino ci spiega come funzionava il giochino: «All'inizio ti dicono "puoi fare del trading con noi, ti insegniamo noi, non perdi nulla perché un tot di movimenti sono gratis". Non si investe su un titolo specifico, ma sulle curve. Per questo non può esserci un'operazione sospetta, non ci può essere insider trading». Casalino sostiene di non aver suggerito al compagno su cosa puntare, utilizzando informazioni privilegiate. All'Unicredit hanno registrato anche dei guadagni: «Siamo sempre nell'ordine di 1.000-2.000 euro. Lui ha iniziato investendo mille e guadagnando mille. Poi quando sono finiti i bonus ha iniziato a perdere». Così si sono volatilizzati i soldi che sarebbero serviti ad aprire un sushi-bar con la neonata società Riomaki, fondata da Alvarez Aguila e da Casalino a novembre: «Noi dalla Riomaki, abbiamo tolto il capitale sociale da tempo e abbiamo intenzione di chiuderla. Ci siamo ripresi i 5.000 euro depositati. Io i miei 2.500 euro e lui i suoi. Io non voglio più rischiare di finire sui giornali così per niente, per storie totalmente assurde». E adesso i due fidanzati rischiano di fare vacanze separate: «Stavo andando in ferie senza di lui, perché diceva di non avere il denaro per pagarsele. Io ho obiettato: "Ma come, se hai 30.000 euro sul conto?". Risposta: "Mi servono". E invece, come ho scoperto oggi, non voleva ammettere che aveva perso tutti i suoi soldi. Ma io le ferie non gliele pago, non è giusto».
Da “la Verità” il 27 luglio 2020. Strano no? Il portavoce del presidente del Consiglio fa un comunicato. E stavolta però la Rai non corre a rilanciarlo. A quanto ci risulta, infatti, l' unico tg della Rai che l' ha ripreso è stato il Tg2. E il Tg1? Voci di corridoio raccontano che se n' è parlato in riunione, decidendo di mettere la notizia in scaletta. Poi, però, è sparita. Dicono dopo una telefonata del direttore. Le solite malelingue.
Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 27 luglio 2020. Nonostante il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, si sia affrettato a difendere il fidanzato cubano José Carlos Alvarez Aguila, a dire dell' uomo ombra di Giuseppe Conte, scommettitore incallito, più di qualcosa nella sua ricostruzione non torna. A partire dall' estratto conto che ha esibito. Senza voci dettagliate di entrate e uscite. Il documento esibito da Casalino riporta solo il riepilogo generale. A marzo sul conto c' erano 26.367 euro e a fine giugno 8.747. Con uscite per 22.955 ed entrate per 5.336. Manca quello che in slang bancario viene definito il «riassunto scalare», ovvero il riepilogo dei saldi in ordine di valuta. Ma si parla di movimentazioni bancarie «per 150.000 euro» che gli sono costate, come svelato in esclusiva dalla Verità, una segnalazione all' Ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. Casalino sostiene che durante il lockdown Alvarez sarebbe stato risucchiato dalle scommesse online su due siti Web per investitori: Plus500, societa finanziaria israeliana che fornisce servizi di trading online, e Fortissio.com, società greca specializzata in «trading protetto». Contattato telefonicamente dai broker, Alvarez si sarebbe iscritto a una di queste società e sarebbe stato stritolato da un meccanismo compulsivo da investimento, diventando ludopatico. Casalino, però, nella sua versione è prodigo di informazioni sulle uscite del conto, meno sulle entrate. Per esempio resta vago a proposito del bonifico segnalato dai risk manager di Unicredit e proveniente da un conto tedesco della Plus500. Su quel pagamento, pur avendo l' estratto conto in mano, sembra sapere poco o niente. Non dimentica di farci sapere che i trasferimenti di denaro dal suo conto a quello del quasi ex compagno sarebbero di piccolo taglio: «Parliamo di cifre pari a 20, 30, 40 euro, e rappresentavano il normale contributo alle spese di gestione della casa; o contribuivo per aiutare la sua mamma con massimo 100 euro diverse volte in un mese, che lui girava tramite l' altra prepagata alla madre che vive a Cuba con soli 20 dollari mensili dati dal governo». Sulla seconda prepagata, però, c' è un piccolo mistero. È vero che in banca Alvarez ha detto che la carta di credito è posseduta dalla madre che vive a Cuba. Ma dall' istituto hanno obiettato che «l' utilizzo fisico della carta non esclude la possibilità di compiere operazioni online da parte del segnalato». Ma allora c' è o non c' è la seconda prepagata? E chi la gestisce? Noi sappiamo solo ciò che ha scritto Unicredit, «alla luce di tale utilizzo improprio della carta e della movimentazione compiuta», in particolare a causa di «scambi di bonifici tra rapporti collegati con causali generiche, unitamente a operazioni di trading probabilmente eseguite da soggetto terzo». E siccome Casalino è sottoposto a Pep (il sistema di controllo per le persone politicamente esposte), la segnalazione, partita il 12 giugno 2020, proprio sotto il protocollo, porta il suo nome. Comunque, stando alla versione di Casalino, sarebbe tutta colpa delle società di trading. «Questi chiamano tre volte al giorno. Chiamano con un call center: è un ragazzo tra l' altro». Plus500, contattata dalla Verità, ha spiegato: «Non offriamo alcuna assistenza telefonica ma solo via chat o email. Inoltre non contattiamo i nostri clienti. I conti Plus500 sono privati e personali e dunque non possiamo fornire informazioni a terze parti». Casalino, insomma, dimostra di non conoscere ancora fino in fondo questa storia. È precisissimo sulle perdite, ma non sulle entrate. E sembra non conoscere bene anche i titoli sui quali investiva il compagno. «A un certo punto», racconta, «gli fanno comprare il petrolio, perché dicevano che il petrolio sarebbe risalito, aveva raggiunto il minimo. Loro dicono, la regola è che devi comprare una cosa quando è al minimo storico. Siccome il petrolio è andato al minimo storico gli hanno fatto comprare titoli di petrolio. Ma il petrolio è andato ancora più giù e quindi lui ha perso tutto». Con Plus500, per esempio, è possibile investire, oltre che sulle materie prime come il petrolio, anche sugli indici delle borse, sulle valute, sulle azioni societarie e perfino su bitcoin e criptovalute. Quando ha saputo della segnalazione dei risk manager, Casalino ha provato a chiamare in banca: «Io l' ho chiesta (la segnalazione, ndr), loro mi dicono che non ne sapevano niente. Infatti sono anche sorpreso da questa cosa. La segnalazione l' ha fatta Unicredit a Banca d' Italia? Come te la spieghi che la filiale fa una cosa... sono un cliente lì da anni». Ovviamente gli hanno risposto picche. Anche perché il conto è intestato ad Alvarez e Casalino non ha alcun titolo per potersi informare. A prendere le parti di Casalino ci ha pensato il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci. Accecato da chissà cosa, vede omofobia ovunque: «Oggi il portavoce di Conte è sottoposto a una accusa mediatica inconsistente, presentata come plausibile per l' omosessualità di Casalino. Ributtante. Io sono un garantista». Se avesse letto i quotidiani, Marcucci avrebbe appreso che è stato proprio Casalino a definire Alvarez «compagno» e a mostrare al cronista del Corriere la mano senza fede. Ieri Casalino ha pensato bene di inviare via chat ai giornalisti la difesa d' ufficio fattagli da Antonino Monteleone, un inviato del programma Le Iene. Il giovanotto, abituato a inseguire ansimante le persone con il microfono sguainato, ha anche tampinato Conte e Casalino per una vecchia storia di fatture che riguardava la vita precedente del premier, quando era avvocato. Evidentemente, nell' occasione, Casalino e Monteleone devono aver fatto amicizia. E adesso Monteleone dà lezione di giornalismo a noi della Verità: «Non mi sembra secondario come sia stato possibile che informazioni così delicate [] siano finite sui giornali», ha scritto. Poi ha aggiunto: «Mi inquieta quel tipo di "spiffero" su una situazione oggettivamente trascurabile». E ci assicura che Casalino e il suo compagno «non hanno speculato sfruttando informazioni privilegiate» e che «non sono coinvolti in nessuna attività di riciclaggio». Evidentemente il giudice Monteleone ha avuto accesso a informazioni ancora più riservate, ovvero le conclusioni dell' Unità di informazione finanziaria della Banca d' Italia e forse anche della Procura di Roma. Resta una domanda: ma perché Casalino si sta agitando tanto? E perché il portavoce del premier ha scelto di inviare il decreto di archiviazione firmato dal gip Monteleone, anziché l' estratto conto completo del suo compagno con le uscite, ma anche con le entrate? Prima o poi Casalino risponderà pure a queste domande. Ironia della sorte, Casalino, che nel 2010 conduceva una trasmissione su Betting channel, si occupava di ippica, lotto, giochi da banco, poker, slot machine e scommesse sportive. Il trading online proprio gli mancava.
Il fidanzato di Casalino è nei guai ma non molla: "Compro un corso". Il portavoce del premier Conte chiarisce: "Sapevo solo che stava facendo un corso per trading". Ma il ragazzo non si arrende: "Voglio continuare a imparare". Luca Sablone, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Guai per il fidanzato di Rocco Casalino, che sarebbe stato segnalato all'antiriciclaggio per un'operazione sospetta: sotto la lente di ingrandimento è finito un bonifico di 50mila euro arrivato sul proprio conto corrente. Stando all'indiscrezione fornita da La Verità, tutto sarebbe partito da un esame della carta prepagata: José Carlos Alvarez Aguila avrebbe spostato circa 150mila euro, provenienti da una indennità di disoccupazione NASpI, da alcuni "bonifici senza causale" e da "un bonifico proveniente da un conto tedesco della Plus500, società finanziaria internazionale che fornisce servizi di trading online". Oltre alla piattaforma in questione, il 30enne avrebbe giocato in Borsa anche tramite la società greca Fortissio.
Segnalato all'antiriciclaggio: guai per il fidanzato di Casalino. I versamenti sarebbero stati effettuati verso i siti di trading online tramite la carta prepagata in esame. Come se non bastasse, ci sarebbe anche l'ombra di un possibile conflitto di interessi visto che a scommettere pare sia stato il fidanzato di un uomo vicinissimo al presidente del Consiglio e quindi a conoscenza delle decisioni del governo ben prima che queste vengano comunicate ai cittadini. "Sapevo solo che stava facendo un corso per trading, non che avesse investito e perso soldi. Non mi ha mai detto nulla e non ha puntato su titoli italiani o che abbiano a che fare con il mio lavoro", ha spiegato il portavoce del premier Giuseppe Conte.
"Vittima di ludopatia". Dopo una serie di avventure tentate nel mondo della ristorazione, il suo fidanzato si sarebbe messo a smanettare su Internet entrando nel giro dei trader online. È lo stesso Alvarez, intervistato dal Corriere della Sera, a raccontare come sono andate le cose. Viene attirato da un broker, la greca Fortissio, e poi da Plus500. Gli viene offerto un credito gratis: "Posso investire un paio di volte, senza perdere nulla". Lui ci crede, mette 1500 euro e ne vince subito altri 1500. "C’è un tizio del sito che mi dice dove investire. Titoli americani, molti del petrolio. Nasdaq e S&P500", ha aggiunto. Usa una ricaricabile, ma improvvisamente finisce il credito gratis e inizia a perdere: "Minaccio di mollare tutto ma, stranamente, ricomincio a vincere". Casalino vuole continuare a stare al fianco del ragazzo, difendendolo dalle accuse e precisando quella che - a suo giudizio - è la realtà dei fatti: "Josè è stato adescato, è vittima di ludopatia. Basta vedere i versamenti compulsivi che ha fatto. Si è giocato 18mila euro in due mesi. Questi siti online sono pericolosi, molti ci cascano. Non è giusto". Il capo dell'ufficio stampa di Conte non sospettava nulla: pensava che i 25mila euro sul conto di Josè fossero ancora lì, tanto che gli aveva detto di usarli per le vacanze. Dopo la rivelazione de La Verità è arrivato il momento della confessione: "Ho perso 18mila euro. Tutta colpa del petrolio, che è andato sotto zero. Mi avevano detto che potevo guadagnare 20mila euro, e invece ho perso tutto. Ero disperato, ho pensato al peggio". Ora però Alvarez ha comprato un corso da 500 euro e vuole continuare a imparare: "Rocco non c’entra niente, vogliono infangarlo usando me".
Estratto dell’articolo di Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 26 luglio 2020. Nessuno è accusato di nulla, […] eppure mai un comunicato di Palazzo Chigi era stato più imbarazzato e imbarazzante di quello diffuso a metà pomeriggio dal portavoce del presidente del Consiglio, Rocco Casalino. Trenta righe […] su José Carlos Alvarez, di professione cameriere, […] Il quale […] ha precisato […] che il suo compagno «è vittima del trading online », che soffre di una sindrome simile alla ludopatia […] Dall'incipit pareva una denuncia. In realtà era una excusatio non petita. Casalino voleva allontanare da sé il fumo del sospetto […] il suo compagno è stato segnalato all'Ufficio antiriciclaggio della Banca d'Italia per l'anomala attività sul suo conto bancario, un giro di 150 mila euro in pochi mesi, un po' troppi per un cameriere. […] leggendo queste notizie era impossibile non porsi due domande. La prima, la più semplice: dove li prendeva quei soldi uno che vive con lo stipendio di cameriere? La seconda, […]: quell'uomo […] giocava di testa propria o sfruttava le riservatissime informazioni in possesso del suo compagno? […] […]Casalino non gli girava nessun segreto. […] Alvarez giocava in Borsa a sua insaputa. I soldi non erano i suoi. E dunque l'unica notizia […] è che il suo compagno ci ha rimesso 18 mila euro perché soffre di una feroce dipendenza dal trading online […] Ma resta un problema […] la prossima volta che Angela Merkel ed Emmanuel Macron se lo ritroveranno seduto a capotavola, vedranno l'inseparabile ghostwriter di Conte o il compagno di un tizio che fa il trading online?
Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2020. «Ho scoperto tutto oggi». Dietro Rocco Casalino e l'amico cubano José Carlos Alvarez Aguila un grande scaffale vuoto, con un paio di statuette e una Instant Pot in scatola. Uno scoop della Verità ha raccontato del trading online di Alvarez, di una segnalazione dell'Antiriciclaggio della Banca d'Italia e dei sospetti di «conflitto di interessi» che ricadono sul portavoce del premier. Rocco e José discutono da ore, nella loro casa romana, in pieno centro. «Ecco la mia reggia», scherza Casalino. Non lo è, ma neanche una stamberga. Ci sono un ampio soggiorno e una bella terrazza. L'arredamento è ultra minimalista: un'enorme tv modernissima, uno specchio da terra basculante, un tavolo, il tapiro di Striscia La Notizia, casse di Coca Cola e, oltre le finestre con profilati d'alluminio, un divanetto in rattan. Tutto bianco, bianchissimo. In mezzo al soggiorno, la cuccia del cagnolino, Lucky. Alle pareti due quadri, niente male, dipinti dallo stesso Casalino. Ma non è la casa il punto. Sono i soldi persi da Alvarez. Sono i sospetti su Casalino. Che si difende: «Sapevo solo che stava facendo un corso per trading, non che avesse investito e perso soldi. Non mi ha mai detto nulla e non ha puntato su titoli italiani o che abbiano a che fare con il mio lavoro». C'è tensione in casa. I due, che si erano conosciuti sei anni fa all'Avana, vivono ancora insieme ma sono in crisi da molti mesi. Casalino mostra la mano, senza fede. La storia è questa. Alvarez nel 2017 lavora nella sede romana di Borgo di Temakinho, catena di locali nippo brasiliani, e ne diventa vicedirettore. Va in banca a chiedere un prestito, perché vuole comprare una casa alla madre all'Avana. «Lì costano 20-30 mila euro». Ottiene due finanziamenti, da 15 mila e da 9 mila euro. Poi le cose al locale precipitano: rapporti conflittuali con la direzione e fine del lavoro. Alvarez pensa di lanciarsi nella ristorazione, aprendo un suo sushi. Rocco ci sta e vuole investirci 30-40 mila. I due mettono in piedi una srl, la Riomaki, con capitale sociale da 5 mila euro. Ma le ricerche non procedono. Troppa burocrazia, mille ostacoli. Roma. Poi arriva il lockdown. Il giovane Alvarez si annoia e smanetta su Internet. Entra nel giro dei trader online, si appassiona. Viene attirato da un broker, la greca Fortissio, e poi da Plus500. «Mi offrono un credito gratis - racconta Alvarez - Posso investire un paio di volte, senza perdere nulla. Ci credo. Metto 1.500 euro: ne vinco subito altri 1.500». Mentre Casalino è Palazzo Chigi, Alvarez investe: «C'è un tizio del sito che mi dice dove investire. Titoli americani, molti del petrolio. Nasdaq e S&P500». Alvarez usa una ricaricabile. «A un certo punto, finisce il credito gratis. Comincio a perdere. Minaccio di mollare tutto ma, stranamente, ricomincio a vincere». José mentre parla si infervora. Dice qualche parola di troppo e Casalino lo placa: «Amò, non ti fare querelare». Poi aggiunge: «José è stato adescato, è vittima di ludopatia. Basta vedere i versamenti compulsivi che ha fatto. Si è giocato 18 mila euro in due mesi. Questi siti online sono pericolosi, molti ci cascano. Non è giusto». Casalino non sospettava nulla. «Pensavo che i 25 mila euro sul conto di José fossero ancora lì. Tanto che gli avevo detto di usarli per le vacanze». Lui contribuisce con qualche centinaio di euro alle finanze di Alvarez. Che fa lavori in casa, fa la spesa e poi gli invia gli scontrini via whatsapp. Eccoli sul cellulare: crocchette per il cane, 22,08 euro. Subito dopo, il bonifico. Casalino versa 100 euro alla settimana per aiutare Alvarez, che spedisce 300-400 euro al mese alla madre, a Cuba. Ma è il trading il problema. I continui versamenti sollevano i dubbi dell'Antiriciclaggio. ll conto corrente intestato al fidanzato del portavoce del premier, scrive il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, ha registrato movimenti per circa 150 mila euro, nonostante fosse «alimentato» solo dal sussidio di disoccupazione e da «modesti bonifici senza causale provenienti dal compagno». Casalino smentisce: «Non capisco cosa siano questi 150 mila euro. I conti sono qui, li potete verificare. Probabilmente il fatto che facesse avanti e indietro con la stessa mille euro crea quella movimentazione. Perché quando guadagnava mille la riportava sul conto, quando le perdeva le rimetteva. Ma era sempre la stessa mille euro che faceva avanti e indietro». Alvarez, dopo l'articolo della Verità , confessa a Casalino: «Ho perso 18 mila euro. Tutta colpa del petrolio, che è andato sotto zero. Mi avevano detto che potevo guadagnare 20 mila euro, e invece ho perso tutto. Ero disperato, ho pensato al peggio». Ora però Alvarez vuole continuare: «Ho comprato un corso da 500 euro, voglio imparare. Rocco non c'entra niente, vogliono infangarlo usando me».
Dagospia il 25 luglio 2020. Il compagno di Rocco Casalino vittima del trading online. In riferimento alla notizia pubblicata oggi sul quotidiano La Verità, Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio, precisa: Jose Carlos Alvarez è vittima del trading online. Durante il periodo del lockdown, Alvarez è stato attirato da un sito di trading on line. Il call center di una società ricollegabile al sito lo chiamava più volte al giorno fornendogli suggerimenti su dove e come investire, con la prospettiva di un guadagno facile e sicuro. La situazione è degenerata fino a sconfinare in un meccanismo simile a quello del gioco d’azzardo e della ludopatia, condizione che spiega il continuo passaggio in modo compulsivo di soldi dal suo conto alla carta prepagata con cui faceva transazioni sul sito (da qui, presumibilmente, la segnalazione alla Banca d’Italia). Alvarez è arrivato a perdere in solo 2 mesi 18mila euro dei suoi risparmi. Preciso che Alvarez non ha mai acquistato titoli italiani o collegati all’attività di governo. In alcun modo la mia persona è ricollegabile a questa sua attività. Infatti, non ero al corrente di quanto stesse accadendo né ho mai condiviso con lui informazioni riservate. L’unica informazione che avevo era che stesse seguendo un corso di trading online, che era diventata una sua passione, non che stesse consumando i suoi risparmi. Alvarez disponeva di 25 mila euro sul conto, chiesti alla banca come prestito per poter aprire un suo piccolo sushi bar. A questo progetto del sushi bar ero intenzionato a partecipare io stesso con un piccolo investimento. Opportunità, questa, accantonata a causa del lockdown e ora del tutto sfumata con le perdite avute con il trading on line. I trasferimenti di denaro dal mio conto al suo non hanno nulla a che vedere con il trading. Si tratta di piccole somme: parliamo di cifre pari a 20-30-40 euro, e rappresentavano il normale e quotidiano contributo alle spese di gestione della casa (spese alimentari, per la casa o per la cura del cane); o contribuivo per aiutare sua mamma con massimo 100 euro diverse volte in un mese che lui girava tramite l’altra prepagata alla madre che vive a Cuba con soli 20 dollari mensili dati dal governo. Sono in possesso inoltre di tutta la documentazione che attesta quanto sopra. Anche alla luce della difficile fase della mia relazione con Alvarez, chiedo che venga rispettata la mia privacy.
DAGONOTA il 25 luglio 2020. Della versione di Ta-Rocco Casalino non quadrano 5 fatti.
1. Innanzitutto prova a buttarla sul personale e sembra un po’ quando la Boschi per difendersi dalle accuse su Banca Etruria parlò di sessismo contro di lei. Quando è così, di solito, gatta ci cova.
2. Poi non si capisce perché il portavoce del presidente del Consiglio, abituato a pagare una spesa di 30-40 euro con carta di credito, si ritrovi a versare 2.500 euro in contanti per aprire una società con il compagno. Dove ha preso quei 2.500 euro cash? Se li ha prelevati dalla sua banca di fiducia, può dimostrarlo?
3. Nella precisazione di Casalino si legge che non sono mai stati acquistati titoli italiani o collegati all’attività di governo. Che significa? E titoli di partecipate o di aziende private che fanno affari con lo Stato?
4. Se il compagno è una vittima, perché non ha denunciato?
5. Di tutto questo, Casalino aveva informato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte?
Da liberoquotidiano.it il 26 luglio 2020. Altra fucilata firmata Maria Elena Boschi. Dopo l'attacco sul Mes, ecco che la deputata bacchetta il Movimento 5 Stelle. La questione ormai è nota a tutti: si tratta dell'ex compagno di Rocco Casalino segnalato dall'autorità anti-riciclaggio: "Per anni i 5Stelle ci hanno attaccati per ciò che hanno fatto (o NON hanno fatto) i nostri affetti più cari. Oggi che Rocco Casalino è nella stessa situazione per i suoi affetti, noi siamo diversi. Molto diversi da loro. Noi siamo garantisti, noi siamo seri, noi siamo Italia Viva". ha tuonato su Facebook la capogruppo di Italia Viva alla Camera. L'ex compagno cubano del portavoce di Giuseppe Conte, Jose Carlos Alvarez, è stato infatti segnalato all'antiriciclaggio per alcuni movimenti di denaro sospetti attraverso il conto corrente di Casalino stesso. Motivo questo per cui il capo ufficio stampa di Palazzo Chigi è inevitabilmente finito in mezzo, nonostante si dichiari innocente.
Da liberoquotidiano.it il 26 luglio 2020. A commentare il caso dell'ex compagno cubano di Rocco Casalino, Jose Carlos Alvarez, anche Vittorio Sgarbi. Il critico d'arte in merito alla questione non nutre dolci pensieri: "Casalino, l'uomo delle "tempeste di merda", le campagne di diffamazione contro gli avversari politici quando si occupava della comunicazione del M5S, che adesso, da Portavoce del Governo, invoca "rispetto della privacy", fa davvero ridere!". L'ex fidanzato del capo ufficio stampa di Palazzo Chigi è stato infatti segnalato dall'antiriciclaggio per alcuni movimenti di denaro sospetti attraverso il conto corrente di Casalino. Il portavoce di Antonio Conte, ha però messo le mani avanti dicendo che l'ex è una vittima del "trading online", che ha provocato un "continuo passaggio in modo compulsivo di soldi dal suo conto alla carta prepagata con cui faceva transazioni sul sito (da qui, presumibilmente, la segnalazione alla Banca d'Italia). Alvarez è arrivato a perdere in solo due mesi 18mila euro dei suoi risparmi".
Guia Soncini per linkiesta.it il 27 luglio 2020. «È Shakespeare? È Pirandello? È un Sordi a cui manca solo un “Li mortacci!”, un “Pussa via!”, e una “s” di più, “Chi ssei tu?”». (Tatti Sanguineti sul processo Fenaroli, in Il cervello di Alberto Sordi – Rodolfo Sonego e il suo cinema). L’inizio tradisce ogni direttiva di Mike Nichols, ogni regola sulla prima scena che deve dirti quale sia la chiave del racconto. L’inizio è una prima pagina di tabloid. La verità (che ineleganza, tocca citare La verità) titola: «L’Antiriciclaggio indaga sulle puntate on line del fidanzato di Rocco Casalino». È sabato, e l’articolo è in antilingua calviniana (sì, insomma: sembra un verbale dei carabinieri). I due dettagli più interessanti che contiene sono: José Carlos Alvarez Aguila (il quale nel titolo non aveva dignità di nome ma, non essendo una donna, ciò non ha suscitato alcuna indignazione sui social) pagava le speculazioni con una carta prepagata (come le mogli d’una volta cui i mariti accorti limitavano il fondo spese); Rocco Casalino è residente a Ceglie Messapica. Il nome era così da film di Monicelli che ho controllato se esistesse davvero: comune in provincia di Brindisi con meno di ventimila abitanti, ha una commissaria prefettizia al posto del sindaco (ma quindi si può, ma quindi perché a Roma no), è noto alle cronache perché un paio di settimane fa Fabio Volo ha fatto la spesa in un supermercato locale e perché lo scorso ottobre è stato proprio lì che si è tenuta la pubblica intervista d’un direttore di giornale a Giuseppe Conte (la scelta del luogo è stata certamente meritocratica). La notizia era interessante, il fidanzato di Casalino (che Casalino ha presentato a Mattarella all’epoca del giuramento del primo governo Conte, ci ricorda La verità, ed è lì che s’inizia a intravedere un prologo, un flashback, un qualcosa che trasformi la notizia in un soggetto cinematografico) scommette in Borsa non si capisce con quali soldi. Ma è uno spunto flebile. La parte migliore – i soldi che José avrebbe chiesto in prestito per aprire un sushi bar – non si può usare, stava già nel film scritto da Zalone e Virzì, la vita imita l’arte e al secondo giro diventa riciclaggio. Poi ieri, domenica, di botto arriva l’intero soggetto, chiaramente scritto da Sonego. Arriva la commedia all’italiana d’una volta; di quelle che, quando nelle cene tra sceneggiatori si fantastica di scriverne una, c’è sempre qualcuno che chiede eh ma poi a chi la fai fare, ce l’abbiamo un Sordi, De Luigi è troppo belloccio, ci serve una maschera, ma quel dettaglio lì non sarà esagerato, ma nel terzo atto serve la redenzione, e finisce che qualcuno ha portato una bottiglia di limoncello, lo si finisce e il film non si farà mai. «In confidenza ti dico che un soggetto simile così è sprecato» (lettera a Sonego della fidanzata, 1949). Interno giorno. Una casa romana normale, un cronista (del Corriere) determinato a descriverla come straordinaria. «Un’enorme tv modernissima» (accipicchia, invece che l’abituale Brionvega a tubo catodico nelle case degli italiani); «casse di Coca Cola» (sarà product placement? A settembre sono vent’anni dal primo Grande Fratello, quello che portò Rocco da Ceglie a Roma: qualche multinazionale sarà stata abbastanza furba da contattare gli ex concorrenti); «in mezzo al soggiorno, la cuccia del cagnolino, Lucky» (abbiamo anche il ricatto morale massimo: se ce l’avete coi Casalino, non siete amici degli animali); «due quadri, niente male, dipinti dallo stesso Casalino» (il Leonardo Da Vinci che ci meritiamo: non c’è proprio nulla che non sappia fare, ’sto ragazzo). Il Corriere è abbastanza indeciso circa lo stato della coppia. Nel titolo José è «ex», nell’incipit è «amico», cinque righe sotto quella è «la loro casa», venti righe dopo «vivono ancora insieme ma sono in crisi da molti mesi. Casalino mostra la mano, senza fede». (Forse la prima scena è questa. Il segno bianco della fede tolta sulla mano abbronzata. Rodolfo, tu che dici?). Nella mia testa sta già diventando un film sulle coppie devastate dalla quarantena, sono in crisi ma non possono lasciarsi, e poi lo dice anche il Corriere che le speculazioni in Borsa dipendono da quello, «Arriva il lockdown. Il giovane Alvarez si annoia e smanetta su Internet» (il giovane ha 31 anni, nota a margine). È chiaramente un film matrimoniale con moglie annoiata a casa e marito in carriera, e Casalino non so proprio chi possa farlo se non Sordi: «Mentre Casalino è a palazzo Chigi, Alvarez investe» (una volta noi massaie annoiate commerciavamo in belletti). Bisognerà trovare, in questa pellicola, un ruolo da guest star per Maria Elena Boschi, che ieri twittava che lei è garantista, mica come loro che sputtanano i parenti altrui indagati (lo twitta ogni volta che qualcuno di qualche altro partito ha un qualsivoglia parente indagato, è la sua cifra stilistica, è la scena sulla spiaggia di In nome del popolo italiano ma in 280 caratteri). «José mentre parla s’infervora. Dice qualche parola di troppo e Casalino lo placa: “Amo’, non ti fare querelare”». «Amo’, non ti fare querelare» potrebbe essere il «mammetta» prestato da Sordi alla Valeri, sento che il film sta prendendo forma. (Sempre ieri, domenica, Libero – che ineleganza, tocca citare Libero – riferisce che Mondadori darebbe centomila euro d’anticipo a Casalino per le sue memorie, ma vai a sapere se ci sia da fidarsi: nel trafiletto, chiamano il presidente del consiglio «Antonio Conte»). Ci sono però delle contraddizioni, d’altra parte è un soggetto nella fase di prima stesura, va limato. Il marito attento che alla moglie spendacciona lasciava solo la prepagata è improvvisamente uno disinteressato ai bilanci famigliari: «Pensavo che i 25mila euro sul conto di José fossero ancora lì, tanto che gli avevo detto di usarli per le vacanze». Invece non c’erano, perché José traffica abbastanza da insospettire l’antiriciclaggio, movimenti di centocinquantamila euro; che però, ed è qui che si vede la mano di Sonego e l’età dell’oro del cinema italiano, Casalino spiega così: «Probabilmente il fatto che facesse avanti e indietro con la stessa mille euro crea quella movimentazione. Perché quando guadagnava mille la riportava sul conto, quando le perdeva le rimetteva. Ma era sempre la stessa mille euro che faceva avanti e indietro». Non distraetevi chiedendovi se l’intervistatore abbia obiettato a questa lunare ricostruzione (certo che no, avete mai visto un intervistatore italiano obiettare? Non s’interrompe un’emozione). Ammirate piuttosto il dettaglio di genio. Chiunque abbia avuto un’infanzia meridionale ha avuto la mille lire per il mottarello. La mille euro. È da questi particolari che si giudica un grande dialoghista. (Un grande dialoghista rende verosimile anche la fantascienza, roba tipo: cubano che sta col portavoce del presidente del consiglio percepisce indennità di disoccupazione italiana e se la gioca in Borsa). Nel terzo atto, invece di redimersi, José, che ha perso diciottomila euro scommettendo sul petrolio durante la più gran crisi degli ultimi non so quanti decenni, decide che il trading è il suo mestiere: «Ho comprato un corso da 500 euro, voglio imparare». È a quel punto che Sonego metterebbe un flashback finale. Quello dello scontrino delle crocchette. «[Alvarez] fa lavori in casa, fa la spesa e poi gli invia gli scontrini via Whatsapp. Eccoli sul cellulare: crocchette per il cane, 22,08 euro. Subito dopo, il bonifico». Nel flashback si vede Alvarez sottrarre scontrini alle massaie che fanno la spesa. Cresta sulla spesa dopo cresta sulla spesa, la dieci euro dopo la dieci euro, ecco che si arriva alla centocinquantamila euro. Magari lo vendiamo anche all’estero, La stangata alla vaccinara. «In realtà quasi quarant’anni dopo si scoprirà che dietro questa euforia del boom si celava l’antichissimo verminaio italico. Però intanto Sonego ci sguazza dentro». (Tatti Sanguineti, Il cervello di Alberto Sordi, Adelphi).
Alessandro Trocino per il ''Corriere della Sera'' il 27 luglio 2020. «Ho scoperto tutto oggi». Dietro Rocco Casalino e l’amico cubano Josè Carlos Alvarez Aguila un grande scaffale vuoto, con un paio di statuette e una Instant Pot in scatola. Uno scoop della Verità ha raccontato del trading online di Alvarez, di una segnalazione dell’Antiriciclaggio della Banca d’Italia e dei sospetti di «conflitto di interessi» che ricadono sul portavoce del premier. Rocco e Josè discutono da ore, nella loro casa romana, in pieno centro. «Ecco la mia reggia», scherza Casalino. Non lo è, ma neanche una stamberga. Ci sono un ampio soggiorno e una bella terrazza. L’arredamento è ultra minimalista: un’enorme tv modernissima, uno specchio da terra basculante, un tavolo, il tapiro di Striscia la Notizia, casse di Coca Cola e, oltre le finestre con profilati d’alluminio, un divanetto in rattan. Tutto bianco, bianchissimo. In mezzo al soggiorno, la cuccia del cagnolino, Lucky. Alle pareti due quadri, niente male, dipinti dallo stesso Casalino. Ma non è la casa il punto. Sono i soldi persi da Alvarez. Sono i sospetti su Casalino. Che si difende: «Sapevo solo che stava facendo un corso per trading, non che avesse investito e perso soldi. Non mi ha mai detto nulla e non ha puntato su titoli italiani o che abbiano a che fare con il mio lavoro». C’è tensione in casa. I due, che si erano conosciuti sei anni fa all’Avana, vivono ancora insieme ma sono in crisi da molti mesi. Casalino mostra la mano, senza fede.
Il sushi e la Riomaki Srl. La storia è questa. Alvarez nel 2017 lavora nella sede romana di Borgo di Temakinho, catena di locali nippo brasiliani, e ne diventa vicedirettore. Va in banca a chiedere un prestito, perché vuole comprare una casa alla madre all’Avana. «Lì costano 20-30 mila euro». Ottiene due finanziamenti, da 15mila e da 9mila euro. Poi le cose al locale precipitano: rapporti conflittuali con la direzione e fine del lavoro. Alvarez pensa di lanciarsi nella ristorazione, aprendo un suo sushi. Rocco ci sta e vuole investirci 30-40 mila. I due mettono in piedi una srl, la Riomaki, con capitale sociale da 5000 euro. Ma le ricerche non procedono. Troppa burocrazia, mille ostacoli. Roma.
Il lockdown e il petrolio sotto zero. Poi arriva il lockdown. Il giovane Alvarez si annoia e smanetta su Internet. Entra nel giro dei trader online, si appassiona. Viene attirato da un broker, la greca Fortissio, e poi da Plus500. «Mi offrono un credito gratis – racconta Alvarez –. Posso investire un paio di volte, senza perdere nulla. Ci credo. Metto 1500 euro: ne vinco subito altri 1500». Mentre Casalino è Palazzo Chigi, Alvarez investe: «C’è un tizio del sito che mi dice dove investire. Titoli americani, molti del petrolio. Nasdaq e S&P500». Alvarez usa una ricaricabile. «A un certo punto, finisce il credito gratis. Comincio a perdere. Minaccio di mollare tutto ma, stranamente, ricomincio a vincere». Josè mentre parla si infervora. Dice qualche parola di troppo e Casalino lo placa: «Amò, non ti fare querelare». Poi aggiunge: «Josè è stato adescato, è vittima di ludopatia. Basta vedere i versamenti compulsivi che ha fatto. Si è giocato 18 mila euro in due mesi. Questi siti online sono pericolosi, molti ci cascano. Non è giusto». Casalino non sospettava nulla. «Pensavo che i 25 mila euro sul conto di Josè fossero ancora lì. Tanto che gli avevo detto di usarli per le vacanze». Lui contribuisce con qualche centinaio di euro alle finanze di Alvarez. Che fa lavori in casa, fa la spesa e poi gli invia gli scontrini via whatsapp. Eccoli sul cellulare: crocchette per il cane, 22,08 euro. Subito dopo, il bonifico. Casalino versa 100 euro alla settimana per aiutare Alvarez, che spedisce 300-400 euro al mese alla madre, a Cuba.
I dubbi e la disperazione. Ma è il trading il problema. I continui versamenti sollevano i dubbi dell’Antiriciclaggio. Il conto corrente intestato al fidanzato del portavoce del premier, scrive il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, ha registrato movimenti per circa 150mila euro, nonostante fosse «alimentato» solo dal sussidio di disoccupazione e da «modesti bonifici senza causale provenienti dal compagno». Casalino smentisce: «Non capisco cosa siano questi 150 mila euro. I conti sono qui, li potete verificare. Probabilmente il fatto che facesse avanti e indietro con la stessa mille euro crea quella movimentazione. Perché quando guadagnava mille la riportava sul conto, quando le perdeva le rimetteva. Ma era sempre la stessa mille euro che faceva avanti e indietro». Alvarez, dopo l’articolo della Verità, confessa a Casalino: «Ho perso 18 mila euro. Tutta colpa del petrolio, che è andato sotto zero. Mi avevano detto che potevo guadagnare 20 mila euro, e invece ho perso tutto. Ero disperato, ho pensato al peggio». Ora però Alvarez vuole continuare: «Ho comprato un corso da 500 euro, voglio imparare. Rocco non c’entra niente, vogliono infangarlo usando me».
Rocco Casalino, parla Josè Carlos Alvarez: "Sono rovinato, ho pensato a suicidio. Gli ho detto: amore, se vogliono indagare..." Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. Il fidanzato, anzi ex fidanzato, di Rocco Casalino si confida con Repubblica. Josè Carlos Alvarez, l'uomo al centro dello scandaluccio del trading online, spiega in premessa come la storia col portavoce di Giuseppe Conte sia finita: "Avevamo già problemi, ma questo è stato il colpo di grazia. Ormai è finita al 100%. Questa bomba mediatica ha scatenato tra noi litigi su litigi. Io me ne andrò, non ho mai pensato che l'Italia fosse il paese dove rimanere tutta la vita, mentre Rocco resta qui, a pagarne le conseguenze". Dunque, aggiunge di non essere "un ludopatico, sono solo una vittima". Quindi, agita la bandierina del complotto: "Le notizie che sono trapelate hanno il solo scopo di screditare Rocco. L'obiettivo di tutto questo è costringerlo a farsi da parte". E ancora, aggiunge: "Con Rocco sono stato chiaro: se vogliono indagare, amore, che indaghino pure". In sintesi, si ricorda che il cubano è nel mirino per alcuni movimento sospetti sulla sua carta prepagata: si parla di 150mila euro. Cifra che il diretto interessato smentisce: "Da quando ho aperto il mio conto, sei anni fa, non ho mai avuto più di 30mila euro. Abbiamo contato i movimenti e non superano, per tutto l'arco di tempo, i 90mila euro". Si tratta solo di denaro suo? "Sono i miei risparmi, a cui si aggiungono circa 20mila euro di un prestito che ho chiesto prima del lockdown perché volevo aprire un ristorante. Ho sempre lavorato bene: il mio ultimo contratto, in un locale a piazza Argentina, mi garantiva 1.800 euro. Stavo bene. Ogni mese mandavo 3 o 400 euro a mia madre, a Cuba, con un'altra parte mi pagavo le cene e a me rimanevano quasi mille al mese da mettere da parte. Ma dal lockdown sono in cassa integrazione e prendo molto meno". Molto interessante la risposta di Alvarez quando gli chiedono se Casalino lo abbia mai aiutato economicamente in tutti questi anni: "In questo periodo è stato lui a mandarmi il denaro da inviare alla mamma. E in passato se ero in difficoltà non si è mai tirato indietro. Gli chiedevo soldi a periodi, magari quando mi facevano le multe con il motorino. Lui mi ha sempre detto: Poche centinaia di euro non mi cambiano la vita". Quindi José racconta come è finito nel tunnel del trading online, sarebbe stato di fatto truffato da un broker che lo ha convinto ad investire sul petrolio. "Poi il crack. Il petrolio è sceso sotto i 10 dollari. Ho telefonato al broker, chiedendogli di chiudere il mio conto sul sito di trading. Lui mi ha incalzato: Se investi altri 2000 euro sposto la tua posizione sulle proiezioni del prossimo mese, il mercato è tornato a crescere. Io, sicuro, me ne sono andato in palestra, ma poche ore dopo, quando sono tornato, ho scoperto che il petrolio aveva toccato lo zero. E io ero rovinato". "Mi vergognavo", aggiunge. Temeva di dirlo a Casalino. E così "sono caduto in una profonda depressione, ho anche pensato di suicidarmi. Ed è da quel momento che è iniziato il nostro distacco. Lui mi vedeva negativo ma non capiva perché. E poi Rocco è sempre al lavoro, sempre in viaggio con il Premier, come potevo dirgli una cosa del genere?". Quando gli chiedono se non temeva che ciò che stava facendo avrebbe potuto danneggiare Casalino, la risposta è surreale: "Io non credevo fosse un problema per il suo lavoro. Noi siamo gay, non siamo sposati, siamo solo fidanzati. Non credevo che dal mio nome arrivassero a lui". Per inciso, i due ancora condividono la casa. "Sono sei anni che stiamo insieme. Non che ti lasci e te ne vai il giorno successivo", conclude Alvarez.
Rocco Casalino, indiscrezione di Dagospia: "Anticipo di 100mila euro per la sua biografia". Libero Quotidiano il 27 luglio 2020. Un lauto anticipo da 100mila euro per la biografia dell'ex-Grande Fratello Rocco Casalino, divenuto portavoce del presidente del Consiglio dei Ministri. La notizia, comparsa sul sito Dagospia e corredata da foto della coppia in una località balneare, non trova tuttavia conferme presso Mondadori Editore, presso il quale dovrebbe essere pubblicata l'opera. Anche se ridotta, una discreta somma di denaro potrebbe comunque far comodo al compagno cubano di Casalino, Jose Carlos Alvarez, segnalato all'antiriciclaggio per alcuni movimenti di denaro sospetti attraverso il conto corrente di Casalino. Il portavoce di Giuseppe Conte, ieri, ha tenuto a precisare che il compagno è «una vittima del trading online», che ha provocato un «continuo passaggio in modo compulsivo di soldi dal suo conto alla carta prepagata con cui faceva transazioni sul sito (da qui, presumibilmente, la segnalazione alla Banca d'Italia). Alvarez è arrivato a perdere in solo due mesi 18mila euro dei suoi risparmi».
Da huffingtonpost.it il 28 luglio 2020. “Avevamo già problemi, ma questo è stato il colpo di grazia. Ormai è finita al 100%. Questa bomba mediatica ha scatenato tra noi litigi su litigi”. A parlare in un’intervista a Repubblica è Jose Carlos Alvarez, ormai ex fidanzato del portavoce del presidente del Consiglio Rocco Casalino, con il quale era legato da sei anni, il cui nome è rimbalzato su tutti i media per aver perso molti soldi investendo nel trading online e per essere stato segnalato all’Ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. Vicenda che ha costretto Casalino a diramare una nota per chiarire la situazione e dirsi estraneo da ogni responsabilità. “Ci tengo a raccontare come stanno le cose, non sono un ludopatico, sono una vittima” spiega Alvarez, “le notizie che sono trapelate hanno il solo scopo di screditare Rocco. L’obiettivo di tutto questo è costringerlo a farsi da parte”. Racconta come è iniziato tutto, “all’inizio del lockdown, mi sono imbattuto nel trading online, cliccando su una pubblicità”. Attirato da un investimento nel petrolio che lo ha portato a perdere molti soldi. Nessun ruolo, chiarisce, di Rocco Casalino. "Io non credevo fosse un problema per il suo lavoro. Noi siamo gay, non siamo sposati, siamo solo fidanzati. Non credevo che dal mio nome arrivassero a lui. Anzi, appena lo ha scoperto mi ha detto: "Meno male che hai investito in petrolio e non in titoli italiani, sarebbe stata una tragedia". Mi vergognavo di parlarne con lui, sono caduto in una profonda depressione, ho anche pensato di suicidarmi. Ed è da quel momento che è iniziato il nostro distacco”. Come ha reagito? ”C’è stato un bel casino. È stato molto duro. Mi ha detto: “Adesso vai a lavorare per 10 anni per pagare il debito con la banca e in più dovrai comprarti da mangiare, pagarti l’affitto, aiutare tua madre. Quindi devi trovarti un lavoro, minimo, da 2 mila euro al mese”.
Rocco Casalino, il giornalista del Corsera a casa del portavoce: "Amo', non ti far querelare". I dialoghi grotteschi con Josè. Libero Quotidiano il 27 luglio 2020. José Alvarez, il fidanzato di Rocco Casalino, scommette in Borsa e avrebbe chiesto allo stesso Casalino in prestito dei soldi per aprire insieme un sushi bar. Si parla del trading online di Alvarez e della segnalazione dell'Antiriciclaggio della Banca d'Italia e dei sospetti di "conflitto di interessi" che ricadono sul portavoce del premier. "Sapevo solo che stava facendo un corso per trading, non che avesse investito e perso soldi. Non mi ha mai detto nulla e non ha puntato su titoli italiani o che abbiano a che fare con il mio lavoro", spiega Casalino. C'è tensione in casa, quando il cronista del Corriere della Sera li va a trovare per farsi raccontare tutta la storia. "Amò, non ti fare querelare", dice teneramente Casalino al compagno, quando questi si inalbera raccontando come è stato raggirato. "José è stato adescato, è vittima di ludopatia. Basta vedere i versamenti compulsivi che ha fatto. Si è giocato 18 mila euro in due mesi. Questi siti online sono pericolosi, molti ci cascano. Non è giusto". Ma è il trading il problema. I continui versamenti sollevano i dubbi dell'Antiriciclaggio. ll conto corrente intestato al fidanzato del portavoce del premier, scrive il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, ha registrato movimenti per circa 150 mila euro, nonostante fosse "alimentato" solo dal sussidio di disoccupazione e da "modesti bonifici senza causale provenienti dal compagno". Casalino smentisce: "Non capisco cosa siano questi 150 mila euro. I conti sono qui, li potete verificare". Alvarez, dopo l'articolo della Verità , confessa a Casalino: "Ho perso 18 mila euro. Tutta colpa del petrolio, che è andato sotto zero. Mi avevano detto che potevo guadagnare 20 mila euro, e invece ho perso tutto. Ero disperato, ho pensato al peggio". Ora però Alvarez vuole continuare: "Ho comprato un corso da 500 euro, voglio imparare. Rocco non c’entra niente, vogliono infangarlo usando me".
Antonino Monteleone, inviato de ''Le Iene'', su Facebook il 27 luglio 2020. Rocco Casalino è al centro di una bufera mediatica: la filiale di banca dove il suo compagno convivente ha il conto avrebbe formulato una segnalazione all’unità anti-riciclaggio della Banca d’Italia: la ragione? Discrepanze tra le entrate a regime di quel conto e alcune movimentazioni. Josè Carlos Alvarez avrebbe perso circa 18mila euro su due piattaforme di trading on line Plus500 e Fortissio. Chi è estraneo a questo mondo potrebbe farsi impressionare. Addirittura si è paventato che il compagno di Rocco Casalino, visto il delicato incarico ricoperto da quest’ultimo, avrebbe “speculato” sui mercati sfruttando informazioni privilegiate. Possibile? Oh sì che sarebbe possibile. Ma chi specula grazie a informazioni di mercato privilegiate, state tranquilli, non userà mai né Plus500 né Fortissio. Ma soprattutto non perderebbe 18mila euro come quel pollo di Josè. Per capire cosa è successo bisogna sapere come funzionano queste piattaforme, solo una volta capito questo, osservando l’intera vicenda, vi accorgerete che è investita da tutt’altra luce. Sfruttiamo questa storia per parlare brevemente – e non esaustivamente – di un mondo pieno di gente che ci rimette quattrini. I fatti che sono stati raccontati dai giornali negli ultimi due giorni per crocifiggere Rocco Casalino ci offrono l’occasione per parlare di un tema poco dibattuto nel nostro paese. Ci concentriamo spesso sui danni che fanno i giochi e le scommesse e non si parla mai del trading online che attira migliaia e migliaia di persone anche grazie a pubblicità invasive e ingannevoli che fanno leva sulla formula “piccolo investimento iniziale, ampie possibilità di guadagno”. Il trading on-line, per chi non è esperto, è una bestia nera. È un mercato che si basa sui CFD. Contratti per differenza. Pensi di “aver comprato”, che ne so, Apple. In realtà hai comprato un contratto che è legato all’andamento di quel titolo e che offre una vincita o una perdita a seconda del tipo di scommessa. Perché un CFD è una scommessa sull’andamento del titolo al quale si riferisce. E si può scommettere sul rialzo (long) o sul ribasso (short). Ed è possibile, con 1000 euro, acquistare l’equivalente di 100000 euro di quel prodotto. Esponendosi però alle eventuali perdite non solo del capitale iniziale, ma (anche) fino alla concorrenza del massimo della leva. In questo caso 1:100.
Le piattaforme scrivono a caratteri molto piccoli sui loro siti che “L’80% degli investitori perdono denaro a causa delle negoziazioni in CFD”. Anche perché scrivere in Home Page “Benvenuti Polli, adesso vi spenniamo” pare brutto. Cerco di elencare brevemente le insidie principali di queste piattaforme. Una volta iscritti riceverete diverse richieste di “integrazioni” documentali a pena di “blocco dei fondi” o peggio di “segnalazioni alle autorità di vigilanza bancaria”. Capita che spesso queste piattaforme ritengano insufficienti i vostri documenti e bloccano il conto sia dalla chiusura che dal prelievo di capitale. Guarda caso, finché versate soldini non se ne accorgono. Regola generale: con pochi soldi duri come un sedicenne al suo primo rapporto sessuale. Poi c’è il meccanismo della “leva finanziaria”: il meccanismo della “leva finanziaria” funziona a vantaggio dell’investitore se la quantità di denaro movimentata è altissima. Nell’ordine di CENTINAIA DI MIGLIAIA di euro. Diversamente accade sempre che una fluttuazione del titolo acquistato, anche di pochi secondi, sia sufficiente ad azzerare l’intero capitale disponibile, o addirittura, ci obblighi a saldare un doloroso scoperto. Giocare in borsa su queste piattaforme è sempre una fregatura per l’utente inesperto per via di un banale, ma fondamentale, aspetto psicologico. Le perdite innescano un meccanismo difensivo che spinge – nella convinzione di limitare le perdite o, peggio, poter “rientrare” da perdite precedenti – a mosse che sembrano prudenti, ma che in realtà sono in contrasto con la “razionalità” del mondo del trading. La paura di perdere fa entrare il giocatore in una spirale dalla quale si esce solo perdendo tutto. Ci sono molti altri aspetti che si potrebbero approfondire, ma non è il mio mestiere. Qui c’è da capire se Rocco Casalino ha fatto qualcosa di illecito e mi pare evidente che l’unica sua colpa è stata quella di avere aiutato il compagno in difficoltà economica, quando si è trattato di piccoli versamenti tra due persone che convivono. E di avere quindi messo in contatto il suo rapporto bancario con quello del compagno che “trafficando” con poca prudenza i versamenti tra il suo conto corrente e la carta di credito ricaricabile ha acceso le spie di controllo della sua banca. Qui piccola riflessione: molto bene la banca nel suo comportamento. Ma mi permetto di osservare che se questa solerzia fosse sistematicamente adoperata avremmo risolto il problema del riciclaggio di denaro che in Italia non mi sembra una questione secondaria. Come non mi sembra secondario come sia stato possibile che informazioni così delicate, riferite alla posizione bancaria di un privato cittadino (il compagno di Casalino), siano finite sui giornali. Sono un giornalista anch’io e non mi sorprendo che siano “una notizia” perché chiunque l’avesse avuta l’avrebbe pubblicata, ma mi inquieta quel tipo di “spiffero” su una situazione oggettivamente trascurabile. Ora va bene fare le pulci al Governo, staff compreso, senza sosta. E Rocco Casalino è testimone di quanto e quante volte gli rompo i coglioni. Ma pur riconoscendo la bravura dei colleghi autori dello “scoop” devo dire che si è persa una buona occasione per parlare un tema più grande pur di tirare uno schiaffetto al portavoce del Presidente del Consiglio.
Per riassumere:
1) Rocco Casalino e il suo compagno non hanno speculato sfruttando informazioni privilegiate.
2) Rocco Casalino e il suo compagno non sono coinvolti in alcuna attività di “riciclaggio”.
3) Il trading online su piattaforme improvvisate, fuori dai sistemi offerti dalle banche, è un modo per approfittare della scarsa conoscenza di investitori improvvisati.
4) Chi sfrutta veramente informazioni privilegiate e fa i soldi veri non lo scoprirete mai leggendo i giornali italiani.
5) La “notizia” (ovvero i guai del compagno del portavoce) esiste, ma è quella di un ragazzo tra migliaia, appena trentenne, fregato dalla réclame del trading online.
Ecco tutto quello che non torna nella versione di Casalino e Josè. L’ex di Rocco Casalino è finito del mirino dell’Antiriciclaggio per operazioni sospette con una carta prepagata. Casalino lo difende e si smarca, ma qualcosa non torna. Alberto Giorgi, Giovedì 30/07/2020 su Il Giornale. C’è ancora molto da chiarire nella strana vicenda della carta prepagata e del trading online che ha come protagonisti José Carlos Alvarez Aguila e Rocco Casalino. Il caso è scoppiato una manciata di giorni fa quando è stata data notizia della segnalazione dell’Antiriciclaggio, che ha appunto attenzionato il trentunenne cubano per aver movimentato circa 150 mila euro su un conto. L’ex compagno del capo ufficio stampa del premier Giuseppe Conte giocava in borsa, e lo faceva servendosi di due piattaforme di trading online, la Plus500 e Fortissia, peraltro perdendo circa 18mila euro in poche settimane. Il caso, ovviamente, ha messo in imbarazzo il braccio destro del presidente del Consiglio, dal momento che essendo figura chiave dell’esecutivo potrebbe essere a conoscenza di informazioni riservate.
Segnalato all'antiriciclaggio: guai per il fidanzato di Casalino. In settimana l’ex gieffino si è smarcato da ogni accusa: "Io sapevo solamente che Josè stava facendo un corso di trading online, non che avesse investito e perso soldi. Non mi ha mai detto nulla e non ha puntato su titoli italiani o che abbiano a che fare con il mio lavoro...". Per poi aggiungere: "Josè è stato adescato, è vittima di ludopatia. Basta vedere i versamenti compulsivi che ha fatto. Si è giocato diciotto mila euro in due mesi. Questi siti online sono pericolosi, molti ci cascano. Non è giusto". Ad oggi resta il nodo del gruzzoletto utilizzato da Alvarez Aguila per scommettere: la somma, come ricostruito da La Verità, sarebbe stata messa insieme un po’ con un’indennità di disoccupazione, un po’ con un bonifico dalla Plus500 e, infine, con alcuni bonifici effettuati da Casalino stesso.
I dialoghi tra Casalino e Josè: "Amò non ti fare querelare..." Ecco, è proprio a quest’ultimo proposito che qualcosa non torna. L’Antiriciclaggio vuole vederci chiaro sugli "scambi di bonifici tra rapporti collegati tra di loro con causali generiche, unitamente a operazioni di trading probabilmente eseguite da soggetto terzo". In questo caso i sospetti ricadono proprio su Casalino e su quello strano bonifico in data 12 giugno 2020 da 7.558 euro. La data, in realtà, potrebbe essere sia riferita al giorno effettivo del bonifico, sia al giorno in cui l’operazione è stata attenzionata dall’Antiriciclaggio di Unicredit. Rocco Casalino è quindi tornato a difendersi dall’accusa di speculare in borsa, prima sostenendo di non aver dato all’ex fidanzato alcuna informazione riservata per scommettere in modo ficcante in borsa, poi che per lui non avrebbe alcun senso speculare in borsa visto che all’anno si porta a casa 170 mila euro. E settemila, parole sue, "li guadagna in una settimana di lavoro".
La difesa di Casalino: "7mila euro? Li guadagno in una settimana". Sarà, intanto adesso anche la Consob vuole vederci chiare e ha acceso un faro sulla vicenda, che avrà certamente nuovi sviluppi.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 27 luglio 2020. L' Italia è davvero un Paese straordinario, capace di sorprenderci ogni giorno con le sue contraddizioni. Chi mai infatti avrebbe potuto immaginare che un ex concorrente del Grande Fratello arrivasse un giorno a invocare il rispetto della privacy dopo essersi sottoposto all' occhio di milioni di telespettatori? Un po' come dire che Antonella Elia, la soubrette che campa di apparizioni televisive, dopo aver messo per anni i fatti suoi in piazza, domani sollecitasse il silenzio stampa, dichiarando di attraversare un momento difficile per i suoi affari di cuore. Se poi, oltre ad aver sbandierato la vostra vita privata in tv, aveste aderito a un movimento che della diretta streaming, cioè della ripresa della vita pubblica con le telecamere, ha fatto una ragione di vita, sostenendo di non aver nulla da nascondere a differenza degli appartenenti alla Casta, beh allora l' appello alla privacy risulterebbe ancora più paradossale. Soprattutto risulterebbe incredibile la tesi che si voglia parlare di una segnalazione dell' ufficio antiriciclaggio della Banca d' Italia per colpire il portavoce del presidente del Consiglio. Come avrete capito, stiamo parlando di Rocco Casalino e dei suoi fardelli. Anzi, di un fardello che risponde al nome di José Carlos Alvarez, ex vicedirettore cubano di un ristorante romano. Il fidanzato dell' uomo più vicino a Giuseppe Conte è finito al centro delle attenzioni di un ufficio che registra tutte le operazioni finanziarie sospette. Nei mesi di lockdown, quando la maggioranza degli italiani era chiusa in casa, il compagno di Rocco Casalino avrebbe passato il tempo a giocare in Borsa. Pur non avendo una competenza specifica in mercati azionari, l' ex cameriere si sarebbe messo a investire migliaia di euro utilizzando carte prepagate alimentate da un conto su cui sarebbero transitati anche soldi del portavoce del presidente del Consiglio. In tutto, le operazioni registrate ammonterebbero a 150.000 euro, cifra che avrebbe destato l' attenzione dei funzionari della banca, perché un cameriere in genere non dispone di simili somme. La notizia è stata rivelata dal nostro giornale, che ha anche sottolineato il profilo delicato della faccenda. Già, perché da Palazzo Chigi, dove Rocco Casalino ha un ufficio guarda caso proprio a fianco di quello del capo del governo, passano informazioni sensibili, legate ai mercati. Non soltanto a quelli azionari, ma anche a quelli delle valute e delle merci, come è ovvio che sia visto che quello è il centro di potere che monitora l' economia italiana. È normale che il fidanzato cubano del portavoce del premier giochi in Borsa, speculando su petrolio e commodities? L' uomo che si accomoda a fianco di Giuseppe Conte negli incontri con Angela Merkel ed Emmanuel Macron e che sfila sul tappeto rosso riservato ai grandi della terra, dice di sì. Purtroppo, il fidanzato sarebbe affetto da una sindrome che rasenta la ludopatia, ovvero dalla voglia compulsiva di acquistare titoli e trattare investimenti, manco fosse un lupo di Wall Street. Il gioco gli sarebbe costato ben 18.000 euro, soldi che non erano i risparmi del fidanzato di Casalino, ma denaro che la banca gli avrebbe prestato in vista dell' apertura di un ristorante, operazione commerciale condivisa con il compagno. Il portavoce aggiunge che il denaro trasferito dal suo conto corrente a quello del fidanzato cubano non era destinato a essere investito nelle operazioni di trading online, ma era il contributo alle spese quotidiane della coppia. Ogni giorno, quando José Carlos faceva la spesa, lo scontrino veniva inoltrato al cellulare dell' uomo immagine di Giuseppe Conte, e Rocco provvedeva pro quota a saldare il conto. Un po' come succede con la colf, quando ti presenta la lista della spesa. Insomma, si trattava di un ménage normale, che vedeva Casalino provvedere anche a un contributo per la madre del partner, che a Cuba non se la passava benissimo. Certamente noi non ci permettiamo di mettere in discussione il rapporto tra i due, anche perché visto il clima che si profila con la legge Zan patrocinata dalla maggioranza giallorossa, quella che, con l' accusa di omofobia, minaccia di tappare la bocca a chiunque si permetta di accennare parole riferibili alle tendenze sessuali, è meglio evitare di finire nei guai. Tuttavia, ci chiediamo una cosa e lo facciamo premettendo di non avere alcuna prevenzione né nei confronti di Casalino, né verso il suo compagno. Ma è così facile per un ex cameriere che ha perso il lavoro, che vive di sussidi e non ha proprietà alla luce del sole ma si fa dare 100 euro per mantenere la mamma rimasta a Cuba, avere un finanziamento bancario di alcune decine di migliaia di euro e poi sputtanarseli in Borsa? La domanda ci viene spontanea pensando ai molti commercianti e ristoratori che in questo periodo faticano a ottenere un qualsiasi aiuto pur avendo già attività avviate. L' altro giorno, per esempio, è arrivata in redazione la lettera del titolare di una lavanderia che si lamentava perché nessuno era disposto ad aiutarlo. Né la banca, né l' Inps, ma neppure un santo in paradiso. Certo, il piccolo imprenditore che ci ha scritto non si chiamava José Carlos e non aveva un fidanzato che sfila sul tappeto rosso. Men che meno poteva dirsi vittima della ludopatia. Però, nella sua lettera, non invocava il diritto alla privacy. Anzi, sembrava invocare la diretta streaming sul suo caso. Che contraddizione. E dire che non era grillino.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 29 luglio 2020. Nelle versioni che il portavoce del presidente del Consiglio e il suo fidanzato cubano forniscono a proposito della famosa segnalazione all'ufficio antiriciclaggio c'è qualche cosa che non va. Come è noto, la banca presso cui José Carlos Alvarez operava, vedendo un andirivieni di somme e l'uso di prepagate da parte di un soggetto legato a un personaggio politicamente esposto, alias Rocco Casalino, ha inviato una relazione all'Uif e La Verità ne ha dato conto. Secondo l'ombra di Giuseppe Conte, il compagno sarebbe stato coinvolto in un gioco più grande di lui, ovvero in operazioni di trading online. Chiuso in casa per colpa del lockdown, Alvarez si sarebbe messo a giocare in Borsa, speculando sul petrolio e forse su altro, investendo le somme avute in prestito da una banca per l'apertura di un locale, ossia un ristorante sushi, investimento a cui, secondo i piani, avrebbe partecipato lo stesso Rocco. José Carlos sarebbe stato attirato dai lauti guadagni, ma poi la fortuna gli avrebbe voltato le spalle, al punto che il fidanzato del portavoce del premier avrebbe perso 18 mila euro. «È una vittima», ha sentenziato Casalino, spiegando che gli acquisti compulsivi avrebbero rasentato la ludopatia, ovvero la malattia che colpisce chi gioca d'azzardo e non sa più come fermarsi, neppure di fronte ai rischi di perdere ingenti somme. Ecco, la ricostruzione del quadro familiare e anche della tragedia di un fidanzato preda degli speculatori è molto efficace. Tuttavia ci sono vari fattori che non tornano. Il primo riguarda la questione dei soldi che Alvarez avrebbe investito nelle sue scorribande tra le quotazioni petrolifere, comprando barili o scommesse sulla quotazione del greggio. La versione ufficiale è che il compagno di Casalino aveva ottenuto il prestito di una banca in vista appunto dell'apertura di un suo ristorante. La cifra dovrebbe essere di circa 25.000 euro. Due giorni fa ci siamo chiesti come fosse possibile che un disoccupato, per di più straniero, ottenesse credito bancario con tanta facilità. E da Palazzo Chigi era trapelato che all'epoca dell'affidamento José Carlos era vicedirettore di un ristorante e dunque con contratto e stipendio di tutto rispetto. Falso. Quando il fidanzato di Casalino richiese i soldi era senza lavoro, tanto è vero che alla fine del 2018 gli unici suoi introiti sono l'assegno Naspi, mentre poi si arrabatta con lavori part-time. Falso anche che il fido sia stato concesso a José Carlos Alvarez senza che pesasse sulla pratica il nome del compagno, perché la banca, nella sua segnalazione, dimostra di conoscere perfettamente i rapporti tra il correntista cubano e Rocco Casalino, non a caso la segnalazione all'Uif viene fatta in quanto il portavoce di Giuseppe Conte è persona politicamente esposta. Ma la parte oscura della faccenda è un'altra. Casalino dice che i soldi sono stati concessi ad Alvarez in vista dell'apertura di un ristorante. A questo proposito, pare fosse stata costituita una società, di cui José Carlos era amministratore dal novembre del 2019, proprio quando ricevette il fido. Bene. Ma se a ottenere il prestito fu la società, come mai i soldi sono stati dati personalmente al compagno del portavoce? Se cioè i due, Casalino e il fidanzato, si apprestavano ad aprire un locale, il denaro della banca avrebbe dovuto incanalarsi verso la nuova impresa e invece, a quanto pare, è finito nella disponibilità del cameriere rimasto disoccupato che, non avendo altro da fare, durante il lockdown l'ha giocato in Borsa, perdendo tutto. O per lo meno questo è quel che dice Casalino, il quale mostra un estratto conto con segno negativo. Ma i movimenti documentati si fermano alle uscite e mai alle entrate, dal che è difficile capire quale realmente sia stato il flusso di denaro che ha destato l'allarme della banca, al punto da indurla a segnalare i movimenti all'autorità anti riciclaggio. C'è poi un aspetto che colpisce in tutta questa faccenda. Da un lato il portavoce del premier invoca la privacy per una vicenda che riguarda una persona a lui cara che sarebbe stata raggirata da abili speculatori, dall'altro, sia lui che il fidanzato si concedono lunghe dichiarazioni, quando non addirittura ampie interviste, in cui entrano quasi nei dettagli della loro vita coniugale. Per quanto ci riguarda, in discussione non c'è la relazione fra Rocco Casalino e José Carlos Alvarez: ognuno infatti è libero di vivere con chi gli pare e non saremo noi a discutere di chi debba portar fuori la spazzatura o provvedere alle mansioni di casa. Le questioni di coppia non ci interessano. Diversa è la faccenda che abbiamo raccontato, che non ha nulla di rosa, ma semmai di rosso, se non addirittura di nero. Certo, parole chiare, che non raccontino di barboncini o altro, aiuterebbero di più. Soprattutto un contributo lo darebbe l'estratto conto, insieme naturalmente alla spiegazione di come sia facile per un disoccupato trovare credito. Penso che molte persone senza lavoro e in attesa di trovarlo siano ansiose di imparare la lezione.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per "la Verità" il 29 luglio 2020. Nel pasticciaccio dei movimenti finanziari di José Carlos Alvarez Aguila, aspirante trader e fidanzato (ex?) di Rocco Casalino, portavoce del premier Giuseppe Conte, ci sono ancora troppi punti oscuri. Ad aggiungerne qualcuno ci ha pensato lo stesso Alvarez Aguila, legato a Casalino da quando è sbarcato in Italia, ovvero nel 2014. Nella versione del cubano e del suo uomo qualcosa non torna. Ieri per esempio Alvarez Aguila ha rilasciato un' intervista alla Repubblica e ha parlato dei movimenti sul suo conto corrente (e della carta ad esso collegata) che hanno insospettito i risk manager di Unicredit. La giornalista ha chiesto: «In tutti questi mesi ha ricevuto una chiamata dalla sua banca?». Risposta: «Mai, ho anche parlato col direttore che mi ha detto di non saperne assolutamente niente». Ma nella segnalazione inviata all' Antiriciclaggio dai risk manager di Unicredit si legge: Alvarez Aguila «interpellato dalla filiale per chiarimenti riferisce che la carta pare sia in possesso della madre che vive a Cuba []. Tuttavia l' utilizzo fisico della carta non esclude la possibilità di compiere operazioni online». E hanno puntato l' attenzione sugli «scambi di bonifici tra rapporti collegati tra di loro con causali generiche, unitamente a operazioni di trading probabilmente eseguite da soggetto terzo». Ovviamente i sospetti portano a Rocco Casalino (è il suo, con ogni probabilità il conto corrente collegato), tanto che da Unicredit lo hanno inserito con nome, cognome e codice fiscale nell' intestazione della segnalazione all' Ufficio antiriciclaggio della Banca d' Italia, essendo lui persona politicamente esposta e socio del segnalato Alvarez Aguila nella Riomaki, società a responsabilità limitata semplificata. In essa, in particolare, viene attenzionato un «bonifico in arrivo» da 7.558 euro, proveniente dall' Unione europea. Poi c' è una data: 12 giugno 2020. Non sappiamo se sia quella della segnalazione o del versamento sospetto. Nel documento si fa riferimento in particolare a un bonifico proveniente da un conto tedesco della Plus500», la piattaforma di trading online a cui Alvarez Aguila sarebbe ancora iscritto. La banca evidenzia anche che «la movimentazione complessiva dei rapporti del segnalato è pari a complessivi 150.000 euro». Alvarez Aguila su questo è stato tranciante: «Si tratta di una cifra inventata, da quando ho aperto il mio conto, sei anni fa, non ho mai avuto più di 30.000 euro. Abbiamo contato i movimenti e non superano, per tutto l' arco di tempo, i 90.000 euro. Sono pulito e con Rocco sono stato chiaro: "Se vogliono indagare, amore, che indaghino pure», gli ho detto. Io l' unica cosa che ho fatto è stato perdere i miei 18.000 euro"». Rocco Casalino ci ha inviato gli estratti di carta e conto corrente del (ex?) fidanzato. Di quest' ultimo, però, ci sono solo i movimenti che vanno dal 25 maggio al 26 giugno; per quanto riguarda la carta, una Genius card, dal 4 maggio al 17 luglio. Le altre pagine non ce le ha inviate sostenendo di rischiare la denuncia da parte di José Carlos. Fatto sta che del bonifico in entrata dalla Germania, quello che probabilmente ha fatto scattare la segnalazione, in quelle due pagine non c' è traccia. Nella paginetta dell' estratto che ci ha spedito Casalino apprendiamo che il 20 giugno sono stati prelevati 500,12 euro per il pagamento di tre diversi mutui/prestiti: un prelievo mensile da 279,71 (per la trentasettesima rata del finanziamento), di cui avrebbe rimborsato 10.323 euro, uno da 184,99 euro (per la quinta rata), uno da 35,42 (sempre per la quinta rata). Quali sono gli esatti importi e quando sono stati accesi i mutui? Al Corriere della sera Casalino aveva parlato di due mutui, da 15.000 e da 9.000, per comprare una casa alla madre di José Carlos a Cuba ottenuti al tempo in cui il ragazzo lavorava al Temakinho. Con noi ha fatto riferimento a tre prestiti: uno da 14.000, uno da oltre 7.000 (a novembre) e uno da 4.000 (a gennaio, che servirebbe per un motorino). Ma ha anche scritto in un messaggio: «José Carlos il prestito lo aveva chiesto quando aveva un contratto a tempo indeterminato come vicedirettore di Temakinho. Ha chiesto prima 15.000. Poi quando la banca ha visto che pagava regolarmente gli ha concesso un ulteriore finanziamento di 10.000 euro. Il mio nome non c' entra davvero nulla». Ma se a ogni messaggio o intervista i numeri cambiano, sembra assodato che due finanziamenti siano stati concessi non ai tempi del Temakinho, ma a inizio 2020, visto che a giugno è stata pagata la quinta rata. Lo stesso Alvarez a Repubblica ha ammesso che ai suoi risparmi personali andavano aggiunti «circa 20.000 euro di un prestito che ho chiesto prima del lockdown perché volevo aprire un ristorante». Purtroppo adesso i soldi sono andati in fumo a causa del trading online e non sono stati utilizzati per la Riomaki. Infatti la ditta oggi risulta ancora inattiva e Casalino e il compagno hanno ritirato il capitale sociale depositato il 13 novembre scorso al momento della costituzione. Con quali garanzie Unicredit ha concesso i finanziamenti che parrebbero ammontare a circa 25.000 euro, ottenuti in tre tranche? Alvarez a Repubblica ha dichiarato: «Ho sempre lavorato bene: il mio ultimo contratto, in un locale a piazza Argentina, mi garantiva 1.800 euro. Stavo bene []. Ma dal lockdown sono in cassa integrazione (percepisce l' assegno del Fondo d' integrazione salariale, ndr) e prendo molto meno». Eppure la storia lavorativa di Alvarez Aguila non sembra tale da giustificare tre prestiti bancari. A noi risulta che il trentenne cubano dal settembre 2015 al luglio 2017 abbia lavorato come dipendente per una società di ristorazione, la Vigevano 20 Srl, dove, però, ha marcato visita, rimanendo a casa circa diverso tempo per malattia/infortunio. Ai cinque mesi da «vicedirettore» di sala alla Temakinho, ristorante nippo-brasiliano, vanno aggiunti altri periodi, assai lunghi, di malattia/infortunio. Poi 58 settimane di indennità di disoccupazione (la Naspi). Infine nell' ottobre del 2019 un contrattino part-time della durata di due mesi con un ristorante del ghetto ebraico. In pratica gli ultimi due finanziamenti sarebbero arrivati dopo la Naspi e il part-time e aver firmato un contratto da 1.800 euro (lordi) con l' Antico forno di piazza Argentina, che, però, ad aprile lo ha messo in cassa integrazione. Chissà quanti italiani si sono visti rifiutare un prestito con una situazione di lavoro tanto precaria e ballerina. Nell' intervista a Repubblica sugli investimenti di Alvarez Aguila con le piattaforme di trading online, c' è un altro passaggio lunare, questo: «Ho investito inizialmente 2.000 euro, per accaparrarmi i titoli di 5.000 barili a 19 dollari a barile». In sostanza avrebbe speso 2.000 euro per ottenere 95.000 dollari (81.000 euro) di quote di oro nero. Un affare che neanche Wanna Marchi avrebbe osato proporre. Casalino per giustificarlo ci ha inviato uno specchietto catturato con il cellulare dalla piattaforma online di Plus500 da cui si apprende che il sito offre proprio quel tipo di investimento. Intanto Giulio Centemero, deputato della Lega ha presentato un' interrogazione su tutta la vicenda. Dal ministero dell' Economia e delle finanze ha risposto descrivendo le attività di Plus500 e di Fortissio.com, le piattaforme compulsate da José Carlos. Ma in coda ha inserito una notizia: «Tutto ciò considerato si evidenzia che i fatti rappresentati sono tuttora oggetto di analisi da parte della Consob anche al fine di verificare eventuali ulteriori aspetti di propria competenza».
Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 30 luglio 2020. Mentre José Carlos Alvarez Aguila, aspirante trader e fidanzato (ex?) di Rocco Casalino, portavoce del premier Giuseppe Conte, comincia a parlare di «indagini della procura», continuano le manfrine sui finanziamenti ottenuti dalla banca. Dopo le domande della Verità sui prestiti concessi ad Alvarez Aguila tra la NasPi (l' indennità di disoccupazione) e i lavoretti precari e in costanza di un finanziamento in corso dal 2017 e non ancora estinto, il compagno cubano del portavoce di Giuseppi ha scritto alla banca che l' ha segnalato all' Ufficio antiriciclaggio di Bankitalia (una faccenda sulla quale sta indagando anche Consob). La mail è indirizzata a Emanuele Leonelli, preposto della filiale di largo di Torre Argentina a Roma, agenzia 00706 di UniCredit. Il tono è confidenziale: «Puoi dirmi in che data e di quale importo sono i miei finanziamenti con la banca? Mi risultano diversi prestiti». Dei quali i Casalino non sembrano avere le idee molto chiare. La Verità, studiando gli estratti conto di Alvarez Aguila, ha scoperto che il 20 giugno sono stati prelevati 500,12 euro per il pagamento di tre diversi mutui/prestiti: un prelievo mensile da 279,71 (per la trentasettesima rata di un finanziamento), di cui avrebbe rimborsato 10.323 euro, uno da 184,99 euro (per la quinta rata), uno da 35,42 (sempre per la quinta rata). Ma quali sono gli esatti importi e quando sono stati accesi i mutui? Al Corriere della sera Casalino aveva parlato di due mutui, da 15.000 e da 9.000, per comprare una casa alla madre di José Carlos a Cuba, ottenuti al tempo in cui il ragazzo lavorava al Temakinho, un ristorante nippo-brasiliano. Con noi, invece, i prestiti sono diventati tre: uno da 14.000, uno da oltre 7.000 (a novembre) e uno da 4.000 (a gennaio, che servirebbe per un motorino). Poi ha scritto un messaggio per spiegare che «José Carlos il prestito lo aveva chiesto quando aveva un contratto a tempo indeterminato come vicedirettore di Temakinho». Avrebbe chiesto prima 15.000. «Poi quando la banca ha visto che pagava regolarmente gli ha concesso un ulteriore finanziamento di 10.000 euro». A ogni messaggio o intervista, però, i numeri cambiano. Alvarez, infatti, con Repubblica ha ammesso che ai suoi risparmi personali andavano aggiunti circa 20.000 euro di un prestito che aveva chiesto «prima del lockdown, perché volevo aprire un ristorante». Comprendere la faccenda dei finanziamenti è una delle strade per ricostruire come abbia fatto Alvarez Aguila a movimentare sul suo conto i 150.000 euro che sono al centro della segnalazione dei risk manager della banca. Il cubano, però, quella somma la liquida così: «Si tratta di una cifra inventata, da quando ho aperto il mio conto, sei anni fa, non ho mai avuto più di 30.000 euro. Abbiamo contato i movimenti e non superano, per tutto l' arco di tempo, i 90.000 euro». E ora, nella mail inviata al direttore della filiale UniCredit, scrive: «Ricordo di circa 15.000 euro e poi di 10.000 euro. Ricordo di aver chiuso un finanziamento e poi riaperto uno nuovo? Cioè può darmi informazioni sui miei finanziamenti. Inoltre le chiedo anche se a lei risulta un accredito di 7.558 euro a maggio o a giugno. Perché a me non risulta dalla app UniCredit. Grazie. Jose Carlos Alvarez». Quei 7.558 euro sono la cifra contenuta nella segnalazione. Il bonifico è proveniente dall' Unione europea. Poi, nel documento inviato a Bankitalia, c' è una data: 12 giugno 2020. Dalla lettura del documento non si evince se sia quella della segnalazione o del versamento sospetto. Nel testo si fa, però, riferimento in particolare a un bonifico proveniente da un conto tedesco della Plus500, la piattaforma di trading online a cui Alvarez Aguila sarebbe ancora iscritto. Nell' attesa che la banca risponda, l' aspirante scommettitore continua a dribblare le domande dei cronisti della Verità. Ieri siamo tornati a casa Casalino. Salite le scale fino all' ultimo piano del palazzo in cui abitano Casalino e il suo compagno suoniamo il campanello che, però, non fa rumore all' esterno. Dentro si sente abbaiare più di una volta il jack russel del cubano. Circostanza che fa supporre che in casa ci sia qualcuno. Dopo una manciata di minuti Alvarez Aguila apre. I toni della conversazione, che avviene sulla soglia, sono pacati e quasi mai Josè alza la voce. Qualcuno deve avergli messo in testa che di questa faccenda si sta occupando la magistratura. Nel corso della chiacchierata, infatti, il cubano la spiattella così: «Adesso la procura dovrà indagare, aspettiamo». Dalla Procura però non è stato notificato alcun atto. «Io aspetto che mi arriva la segnalazione», dice il cubano, che ancora non riesce a raccapezzarsi nei conti. «Io ai giornali non ci credo». Inutile chiedergli del bonifico di Plus500 e della data riportata sulla segnalazione: 12 giugno 2020. Quel giorno sul suo conto c' è una sola voce in entrata: un bonifico da 25 euro inviato da Casalino. «La mia banca dice che è tutto ok», ripete il cubano. E scarica sul direttore: «Se mi dice una bugia c' è anche lui in mezzo, non mi dovrebbe dire una bugia. Devono trovare la l' irregolarità e non c' è l' irregolarità». Poi torna sulla storia delle scommesse sul petrolio: «Ho perso solo 18.000 euro». E il bonifico da 7.558? «Non è vero, quella è la tua opinione, quello è falso. Io c' ho il mio conto corrente. L' abbiamo fatto vedere al Corriere della sera, che è venuto qua e non c' è un bonifico da nessuna parte. È tutto inventato». E anche alla fine rilancia il coinvolgimento della magistratura: «Va bene, allora aspettiamo la Procura, se dovrà indagare uscirà la verità».
Giuseppe China per “la Verità” il 29 luglio 2020. È un caso ancora aperto e scottante quello che ha travolto il portavoce del premier Rocco Casalino e il suo compagno José Carlos Alvarez Aguila. All' origine della vicenda, un alert dell' Ufficio antiriciclaggio della Banca d' Italia sulla carta prepagata del giovane caraibico che quest' ultimo utilizzava per giocare in Borsa attraverso delle piattaforme online. Non è bastato neanche un incontro, avvenuto nel centrale quartiere romano di Prati, fra chi scrive e l' ex concorrente del Grande fratello per fare chiarezza. Anzi. «Lo sai in quanto li guadagno 7.000 euro? In una settimana». Una somma di denaro non casuale, visto che a Casalino abbiamo chiesto lumi su un bonifico in entrata di 7.558 euro (cifra che conviene tenere a mente), effettuato da Plus500, sul conto del suo fidanzato per un' operazione vincente. Non è un mistero che l'uomo della comunicazione di Palazzo Chigi porta a casa un lauto stipendio, 170.000 euro lordi l' anno. Non ci perdiamo d' animo e più volte durante l' appuntamento cerchiamo di approfondire la questione sul bonifico in entrata. Vista l' entità della vincita è lecito domandare se José Alvarez, anche indirettamente, abbia ricevuto da Casalino informazioni riservate che poi sarebbero servite per scommettere su Internet. Un' ipotesi che proprio non va giù al portavoce del premier: «Ma di che cosa». Ribadiamo che molti consigli avrebbero potuto aiutare José Alvarez. «Dovrebbe essere che ne so Autostrade?». Poi si domanda: «Che faccio un' operazione per 7.000 euro?». No, perché per l' appunto impiega una «settimana» per guadagnarli. Incalziamo il nostro interlocutore, dicendogli che «il denaro chiama altro denaro». «No», ci confida Rocco Casalino, «io posso fare un' operazione come ha fatto De Benedetti che ci ha fatto centinaia di migliaia di euro». Il riferimento è alla vicenda in cui l' ingegnere Carlo De Benedetti nel 2015 acquistò attraverso un suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo, (assolto lo scorso febbraio) milioni di azioni delle banche popolari che di lì a poco sarebbero state salvate dal governo Renzi: un' operazione che gli fruttò poco più 600.000 euro e su cui indagò anche la Procura della Repubblica di Roma. Insistiamo perché ci sembra plausibile il fatto che Rocco Casalino quantomeno potrebbe essere a conoscenza di eventi rilevanti di cui la maggior parte degli investitori non sa nulla. Però la sua replica è netta: «A parte che io non sono in possesso di dati sensibili perché li ha il presidente (Giuseppe Conte ndr)». Una giustificazione lecita ma strana, considerando che i due lavorano fianco a fianco. Accantoniamo la tesi del passaggio di informazioni da Casalino al compagno cubano. Però continuiamo a ribadire che il giovane caraibico con la passione per la ristorazione ha ricevuto un accredito anomalo da 7.558 euro. È una delle circostanze segnalate dalla filiale bancaria di Largo di Torre Argentina e che ha portato poi all'alert dell' ufficio antiriciclaggio della Banca d' Italia. L'uomo immagine di Palazzo Chigi con il telefono in mano scorre i vari documenti che ci mostra, si tratta degli estratti conto di José Alvarez. «Qua non c' è nientee poi questo è invece l' estratto conto [] qua sono invece uscite che lui ricarica continuamente (la carta prepagata ndr). [] 800 euro, 1.000 euro, sempre uscite, vedi entrate non ce ne sono: 2.300..questi i soldi, vedi, Riomaki. Questi sono i soldi che noi avevamo nella società che erano tornati». Il tempo trascorre visionando i documenti che Casalino ha portato con sé, ma la famosa somma di denaro che è stata una delle cause principali della segnalazione fatta da Unicredit non spunta. Facciamo presente a Casalino che la documentazione che chi sta mostrando potrebbe essere incompleta, inoltre gli domandiamo più volte se acconsente ad inviarcelo. Ma su questo è categorico, facendoci capire che il suo gesto è già un gesto di favore. «No non posso perché José non vuole che dia i suoi dati. Non vuole che si diffondano, capito?». Per fare piena luce al portavoce del premier non resta che chiamare il compagno. E la prima domanda è d' obbligo: «Ma tu 7.000 euro li hai mai avuti (nel senso di vinti)?». José non ci sta: «Ma stai scherzando [] 7.000 euro di cosa?». Quando la conversazione telefonica si sta per concludere José afferma: «Qui bisogna guardare il conto corrente: lo hai già visto dalla A alla Z, non c' è un cazzo. Domani andrò in banca». I due si salutano affettuosamente con «un abbraccio, stai tranquillo amore». Anche noi andiamo alla filiale Unicredit di Largo Torre Argentina per saperne di più. Ma il direttore prima si chiude a riccio ripetendo più volte: «Non posso dire nulla». Poi ci dà il benservito con un «si accomodi fuori».
Catiuscia Ceccarelli per ildigitale.it il 9 settembre 2020. Rocco Casalino è una calamita di curiosità. Sul portavoce del Premier vi è interesse non solo per il lavoro che fa ma, ma soprattutto per quanto guadagna. Forse perché è un ex personaggio televisivo che si è fatto conoscere al grande pubblico nella prima edizione del Grande Fratello? O forse perché il lavoro che fa ora è uno dei più invidiati d’Italia? Ai posteri le ardue sentenze ma c’è una domanda che in molti si chiedono ed è questa: quanto guadagna Rocco Casalino?
Chi è Rocco Casalino. La sua biografia su Wikipedia ci ricorda che Rocco Casalino è un personaggio televisivo e consulente politico. Rocco Casalino portavoce del Governo Conte, è nato in Germania, classe 1972 ma scorre in lui sangue pugliese. La sua famiglia è originaria di Ceglie Messapica, luogo in cui lo scorso agosto proprio il Premier Conte è stato ospitato per un’intervista importante nell’ambito di un evento. Non ha avuto un’infanzia facile, Casalino, a causa di un padre violento. Si laurea in ingegneria elettronica all’Università di Bologna. Sempre fonte wikipedia, pare che nel curriculum vitae di Rocco Casalino presentato in occasione della sua candidatura alle primarie per le elezioni regionali in Lombardia del 2013, sia menzionato un titolo derivante da un Master Universitario MBA conseguito presso una prestigiosa Università americana. Titolo, però, che sembrerebbe essere stato smentito dalla stessa Università.
Rocco Casalino e la tv. L’attuale portavoce del Premier Giuseppe Conte ha mosso i suoi primi passi in tv con la prima edizione del reality show Grande Fratello. Con lui, tra i più noti, Pietro Taricone, Eleonora Daniele, Marina La Rosa e Cristina Plevani. Casalino ha partecipato anche ad altre trasmissioni televisive, tra cui Buona Domenica con Maurizio Costanzo, per poi darsi alla politica.
Rocco Casalino, dalla tv alla comunicazione politica. Dapprima militante nel Movimento 5 Stelle, Rocco Casalino ha provato a buttarsi in politica ma gli è andata meglio nel dietro le quinte. Prima è stato vice di Claudio Messora, responsabile della comunicazione del gruppo parlamentare pentastellato al Senato, poi responsabile per la comunicazione con i media e successivamente portavoce e capo comunicazione sempre dello stesso gruppo. Oggi è il portavoce del Governo Conte.
Quanto guadagna Rocco Casalino. La domanda che molti si pongono, riguarda proprio il Rocco Casalino stipendio. A quanto ammonta il compenso dell’ombra comunicativa del Premier? Secondo Termometro politico, in base ai compensi dei collaboratori resi noti da Palazzo Chigi, Rocco Casalino guadagna 169.556,86 euro all’anno. Per essere più precisi, allo stipendio base di Casalino che dovrebbe essere di 91.696,86 euro vanno aggiunti 59.500 euro di accessori e 18.360 euro di indennità. Rocco Casalino portavoce risulterebbe essere più pagato di un parlamentare, ma dai dati Casalino guadagna più di Conte.
Simone Canettieri per ilmessaggero.it il 22 giugno 2020. Giù le mani da Rocco. Guai a chi critica Casalino, per i detrattori il Grande Fratello della comunicazione del governo. Nel forum con il fattoquotidiano.it il premier Conte blinda il suo portavoce, criticato dalle opposizioni per la gestione delle informazioni e a volte in conflitto anche con pezzi della maggioranza, dal Pd al M5S, il partito da cui proviene Casalino. E così Rocco, croce e delizia di tutti i giornalisti alla caccia di notizie sul governo e rinomato per i suoi modi felpati ma anche sbrigativi, si vede rinnovare la fiducia da parte dell'avvocato del popolo, il suo principale. Dice infatti il premier: «Io non ho studiato da premier a differenza di tanti politici di carriera. Quando sono stato nominato non avevo neanche un account Facebook. A quel punto ho scelto i miei collaboratori e ho scelto i migliori, i più talentuosi. Ho scelto Casalino dopo aver parlato con lui. Io credo che un premier non debba circondarsi di yes men ma di professionisti che sappiano dare il loro contributo». Casalino - 48 anni, una laurea in Ingegneria e una partecipazione alla prima edizione del Grande Fratello che lo rese subito famoso - è portavoce e capo ufficiostampa del governo. Ruolo che ricopre fin dal Conte I, il governo con la Lega a fronte di uno stipendio di 169.556,86 euro lordi l’anno. Nel 2018, con la nascita dell'esecutivo gialloverde fu indicato dai vertici del M5S (Luigi Di Maio, allora capo politico) a Palazzo Chigi. Avrebbe dovuto "controllare", secondo la vulgata del tempo, le mosse mediatiche di Conte, indicato dai grillini per la poltrona di premier. Ma con il passar del tempo, Casalino è diventato sempre più contiano e sempre meno pentastellato. E su Instagram è arrivata la risposta di Casalino ai complimenti del presidente del Consiglio: «Grazie Presidente, quando si lavora tanto fa piacere che la propria professionalità venga riconosciuta da parte di una persona di cui si ha grande stima. Ma soprattutto dopo tanti insulti e minacce che ho ricevuto sul web quotidinamente - perché si ignora il lavoro che faccio e perché si giudica semplicemente con il pregiudizio - fa piacere ricevere complimenti».
Guglielmo Sano per termometropolitico.it il 22 giugno 2020. Rocco Casalino è il portavoce e il capo ufficio stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Prima di arrivare a Palazzo Chigi, il responsabile della comunicazione è stato un personaggio televisivo: gran parte della sua fama proveniva dalla partecipazione a reality show e talk televisivi.
Rocco Casalino: la biografia. Rocco Casalino è nato il primo luglio 1972 nella cittadina tedesca di Frankental da una famiglia di origine pugliese e, più precisamente, originaria della Provincia di Brindisi. Resta in Germania per 16 anni, vivendo un’infanzia complicata a causa delle violenze del padre nei confronti della madre. Successivamente torna in Italia dove si diploma tecnico commerciale per poi conseguire una laurea in Ingegneria. Nel 2000, partecipa alla prima edizione del Grande Fratello: infine, si classificherà quarto, dopo essere stato eliminato nel corso della penultima puntata. Finita l’esperienza all’interno della “casa”, comincia quella da opinionista in numerosi salotti televisivi, soprattutto, a riguardo di temi relativi all’omosessualità e alla bi-sessualità. Nel 2007, Rocco Casalino diventa giornalista professionista e diventa inviato speciale di diversi programmi e poi anche conduttore. Nel 2011, invece, passa alla politica tra le fila del Movimento 5 Stelle: nel 2013 assume il ruolo di vice del responsabile della comunicazione del gruppo pentastellato al Senato Claudio Messora. In seguito prenderà il ruolo di responsabile della comunicazione dei 5 stelle al Parlamento Europeo sostituendo lo stesso Messora. Nel 2014 è portavoce del gruppo M5S a Palazzo Madama e coordinatore della comunicazione a livello nazionale del Movimento. Infine, nel 2018, viene nominato portavoce del Presidente del Consiglio Conte.
Quanto guadagna? Per quello che è dato sapere, in base ai compensi dei collaboratori resi noti da Palazzo Chigi, Rocco Casalino percepisce 169.556,86 euro all’anno. Per precisione, il portavoce del Presidente del Consiglio ha uno stipendio base di 91.696,86 euro a cui bisogna aggiungere 59.500 euro di emolumenti accessori e 18.360 euro di indennità. A conti fatti, quindi, Casalino prende più non solo di un semplice parlamentare, deputato o senatore che sia, ma anche dello stesso Conte.
Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2020. Da annotare: chiusi, blindati hanno cominciato. Blindati finiscono. Loro - quelli dello streaming, della trasparenza - laggiù, dentro lo sfarzo assoluto di Villa Doria Pamphili, distanti e impenetrabili in quel reality dell'economia chiamato Stati generali, e tutti noi, il pattuglione di cronisti, fotografi e cameramen, lasciati fuori dal cancello per una settimana, costretti a cercarci un sentiero che da via Aurelia Antica s' infilasse nella boscaglia, su per lo stesso pratone che nel 1849 risalirono i garibaldini della Repubblica Romana, le camicie rosse con i cannoni da puntare contro i francesi, noi con i teleobiettivi per capire almeno se il premier Giuseppe Conte avesse la pochette. È arrivata la protesta ufficiale dell'Associazione stampa parlamentare e dell'Ordine nazionale dei giornalisti (con grande imbarazzo del Pd). Ma è poi arrivata anche la polizia a cavallo. Tutto questo fa molto casta. Proprio quella che Di Maio e Bonafede e tutti gli altri grillini di governo promettevano di combattere. E invece: risucchiati. Dentro fino al collo. Golosi di potere, cacciatori di poltrone, sensibili al lusso. Eccoli laggiù salire sulle loro auto blu, le scorte armate, i lampeggianti, un corteo dopo l'altro: e quando poi Di Maio l'altro giorno è arrivato a Mendrisio, Svizzera, in visita ufficiale, le autorità elvetiche hanno pensato bene di allestirgliene uno proprio di prima classe, con sette macchine seguite da tre furgoni. Informalmente, lo scorso fine settimana Di Maio è invece andato a spiaggiarsi con la fidanzata Virginia Saba da Saporetti, a Sabaudia, sotto gli ombrelloni dello storico stabilimento del generone romano. Giuseppe Conte, qualche chilometro più in là, al Circeo. All'Hotel Punta Rossa, il preferito dagli oligarchi russi in vacanza. Gli ultimi segnali di una mutazione ormai compiuta. Da valutare con rigore, senza cedere alla meraviglia, e cominciata forse la mattina in cui Rocco Casalino, entrando a Palazzo Chigi, osservò - lo sguardo che era un miscuglio di delusione e fastidio - la stanza che di solito veniva assegnata al portavoce del premier. «Ma è troppo piccola!», urlò, dopo lunghi secondi. I funzionari, mortificati, chinarono la testa: ora Rocco siede in una stanza adeguata, grande quasi come un campo da calcetto, adiacente a un ufficio dove alloggiano una ventina di collaboratori, alcuni dei quali si definiscono «sottoproletariato dell'informazione». Dalla sua scrivania, ogni giorno, Casalino spedisce decine di whatsapp a decine di giornalisti. Rocco allude, promette, blandisce, annuncia, rimprovera, drammatizza, poi perdona e, quasi sempre, viene perdonato (ora vediamo come finisce il bisticcio con il sito Dagospia, «sebbene sia chiaro - diceva perfido un ministro grillino l'altra sera in un salotto con vista su piazza Campo de' Fiori - che Casalino non conosca la barzelletta del "Cavaliere bianco e del Cavaliere nero" di Gigi Proietti»). Il rapporto del M5S con i giornalisti è profondamente cambiato. Gianroberto Casaleggio teorizzava che se ne potesse fare a meno. Vito Crimi - ossequioso - esplicitò: «Mi stanno sul cazzo!». Beppe Grillo lanciò una vera fatwa contro i talk show. «Chi vi partecipa sarà scomunicato». Vabbè. Era per dire. Ormai, ogni volta che cambi canale, trovi un grillino. Alcuni passaggi restano memorabili. Tipo quello dell'ex ministro per il Sud, Barbara Lezzi, che andò da David Parenzo su La7 a spiegare «come il Pil dell'Italia sia cresciuto grazie ai condizionatori d'aria». Solo nell'ultima settimana, Alessandro Di Battista è stato ospite sulla Nove e poi due volte a Retequattro. Dalla cronista di Quarta Repubblica ha finto di farsi sorprendere in strada, molto piacione come sempre, dico e non dico, ma poi dice, certo che dice, ormai tutti i cronisti conoscono la debolezza del Dibba, che adora comparire, sia pure in ruoli diversi: dissidente polemico, poi rivoluzionario in Chiapas, scrittore di reportage modesti, quindi aspirante falegname, provocatore e però eccolo subito di nuovo ragionevole e mansueto, non appena ascolta le promesse di Crimi e Patuanelli, Bonafede e Spadafora, tutti perfettamente a loro agio negli abiti scuri, nel caminetto da Prima Repubblica. Dove si decidono strategie, alleanze e - soprattutto - poltrone. Gli specialisti sono Stefano Buffagni e Riccardo Fraccaro. Buffagni gira proprio con una cartellina rossa. Dentro ci sono i dossier per decidere, o condizionare. Eni, Enel, Poste, Terna, Leonardo, Alitalia. E Rai. I vertici del Movimento ormai vengono interpellati anche per la nomina di un caporedattore qualsiasi. Così è ripartita la vecchia liturgia romana inaugurata dai satrapi socialisti al tempo dorato (per loro) che fu. Li trovavi seduti ai Due Ladroni in piazza Nicosia, o da Fortunato al Pantheon. Li salutavi, un sorriso da tavolo a tavolo, c'è gente che ci ha costruito carriere. Adesso conduttori ambiziosi e showgirl disoccupate sperano di incontrare la nomenklatura grillina nei locali della movida, da Maccheroni o da PaStation, il ristorante del figlio di Denis Verdini, a sua volta suocero di Matteo Salvini. Incurante delle parentele ingombranti, ci capita anche la senatrice Paola Taverna, quella che si alzava nell'emiciclo di Palazzo Madama e urlava: «Io so' der popolo e ve lo dico in faccia: a zozzoniiiii!» - vestita come se stesse al Tibidabo di Ostia, zatteroni di sughero e jeans strappati, mentre oggi invece gira tutta in ghingheri, con la sua Louis Vuitton d'ordinanza. All'inizio, nemmeno entravano alla buvette di Montecitorio. «Noi - dicevano schifati i deputati a 5 stelle - il caffè ce lo andiamo a bere al bar, come cittadini normali». Però dopo qualche settimana erano già tutti lì al leggendario bancone, perché il caffè in se è una ciofeca, ma poi le papille iniziano a sentire un certo retrogusto dolciastro e stordente, sorseggi e sai di poter fare cose importanti: per esempio, sistemare nella tua segreteria i vecchi compagni di scuola (Di Maio li fa arrivare quasi tutti da Pomigliano d'Arco e Acerra). Così adesso nessun parlamentare vuole tornarsene a casa. Secondo il sacro limite dei due mandati, a fine legislatura dovrebbero trovarsi un posto di lavoro in tanti: da Bonafede a Fico, dalla Castelli a Fraccaro, a Di Stefano, Crimi, Ruocco, Toninelli, Taverna e Di Maio. Che infatti ha cercato di scardinare la regola cominciando a introdurre per i consiglieri comunali il «mandato zero». «Giggino, scusa, ma cos' è?», chiese, ingenuo, Crimi. «Che cos' è? Semplice: il primo mandato non lo contiamo più», rispose Giggino (con freddezza andreottiana).
· Il Nepotismo – Favoritismo Stellare.
Luigi Di Maio e il liceo dei “Pomigliano boys”: studiare qui porta fortuna? Le Iene News il 16 giugno 2020. Roberta Rei incontra Nello Nazaria, un attivista Cinque Stelle deluso dal Movimento che accusa di aver conferito nomine ad amici e parenti dei vertici. E in effetti, se andiamo a sfogliare la lista degli ex compagni di liceo classico di Luigi Di Maio, scopriamo coincidenze molto particolari. Roberta Rei ci racconta del liceo classico Imbriani di Pomigliano d’Arco, nel Napoletano. Un liceo pubblico, dal quale proviene anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che a 27 anni è stato il più giovane vicepresidente della Camera di tutta la storia repubblicana. ”A tutti quelli che erano con me quando ero al liceo, devo dire che vi porto tutti nel cuore”, aveva detto il ministro durante un suo recente ritorno in quella scuola. Moltissimi di quei compagni di Di Maio hanno fatto grandi carriere pubbliche, dal Movimento cinque stelle ad aziende partecipate dallo Stato fino ai suoi stessi ministeri. Come è accaduto per Dario De Falco, che da giovane marciava accanto a Luigi Di Maio durante le manifestazioni studentesche a cui partecipava il liceo classico Imbriani. Oggi De Falco è capo della segreteria del Ministro Di Maio. Prima però di mostrarvi altri casi di un presunto “nepotismo”, perché De Falco non sarebbe l’unico, Roberta Rei incontra un uomo che non ha studiato a Pomigliano e che dice: ”Qua abbiamo sbagliato tutti liceo: dovevamo andare a Pomigliano!”. Si chiama Aniello Nazaria, detto Nello. È un attivista del movimento Cinque stelle della prima ora ma oggi è davvero amareggiato: “Come si fa a non esserlo? Noi battevamo tanto sul fatto di non assumere parenti e amici, fidanzati, mariti, e invece lo abbiamo fatto anche noi e peggio pure. Alle politiche del 2018 si decide che uno di noi aveva la credibilità per potersi candidare e vengo scelto per la Camera dei Deputati. Tutti mi hanno detto che secondo la legge e i calcoli ero stato eletto, ma loro dicono di no”. Consultando lo speciale elezioni che troviamo sul sito di Repubblica, Nello risulta effettivamente eletto ma in Parlamento non ci è mai andato: “Inizialmente pensavo a una svista, poi cominci a pensare e ti poni qualche interrogativo in più”. In effetti, anziché applicare l’articolo 84 della legge elettorale per l’assegnazione dei seggi avanzati in altre circoscrizioni, sarebbero stati applicati altri articoli e criteri con il benestare del Movimento. Nello racconta: “Contattai Vito Crimi che rispose testualmente: ’Avete ragione ma guardando gli articoli precedenti hanno fatto bene la distribuzione’. Una cosa che secondo me non significa niente, perché devo guardare gli articoli precedenti?”. Tra i candidati che sarebbero invece stati favoriti al suo posto ci sarebbe l’attuale ministro all’Istruzione Lucia Azzolina. “Dal Movimento risposte, chiarimenti, umanità e solidarietà zero”, aggiunge ancora Nello. Crede però nella politica e si ricandida in seguito alle elezioni per il Parlamento Europeo. Ma la storia sembra ripetersi: ”Ho preso 925 voti dagli iscritti sulla piattaforma Rousseau, sono tantissimi... Mi sono classificato come primo in Campania. Mi sono preparato per le elezioni, ho fatto anche la fotografia ufficiale ma il giorno prima vengo escluso con una email, mandata dallo staff che non si sa chi sia”. L’email gli contesta un’incoerenza sulla candidatura, rispetto alla quale Nello chiede subito spiegazioni, che però non sarebbero arrivate: “Nessuna risposta, sono stato fatto fuori senza nemmeno una spiegazione”. A dare parere negativo sulla sua candidatura è stato proprio il capo politico del movimento, all’epoca Luigi Di Maio. “Non mi ha mai chiamato”, sostiene Nello, “mai detto una spiegazione, mai visto, mai sentito. Il più votato della sua regione viene escluso da lui senza alcun motivo? Questi hanno massacrato anche la democrazia diretta!”. Al posto di Nello, come primo dei non eletti, entra Luigi Napolitano, un altro degli amici di studio di Di Maio, questa volta dai tempi dell’Università. “Non voglio pensare a questo ma mi chiedo perché le cose strane succedano tutte a me”, interviene ancora l’attivista. “Vengono assunte persone di Pomigliano in consigli di amministrazione un po' ovunque , dappertutto...”. E in effetti la lista degli ex compagni di liceo di Di Maio che sono entrati nelle stanze dei bottoni in questi anni è piuttosto lunga. A partire da Dario De Falco, di cui vi abbiamo già parlato, ora nello staff di un altro Cinque stelle, il sottosegretario Riccardo Fraccaro con stipendio pubblico da 100mila euro. Nel curriculum di Dario De Falco ci sarebbe però poco più di una collaborazione nello studio di un commercialista, Pasquale De Falco, anche lui ex alunno dell’Imbriani di Pomigliano. Quest’ultimo, dopo essere stato scelto dal ministero della Salute guidato nel primo governo Conte dalla Cinque stelle Giulia Grillo come rappresentante del collegio sindacale dell’Asl di Salerno, è entrato come sindaco nel collegio sindacale di Fincantieri, controllata dal ministero delle Finanze. Anche Valeria Ciarambino è di Pomigliano e ha studiato al liceo classico Imbriani. La donna è stata candidata a governatore della Campania nonostante il curriculum riportasse perfino un evento molto particolare: aver salvato un capitone dal cenone natalizio e averlo allevato in una bacinella per mesi… Oggi è capogruppo in Regione Campania del Movimento Cinque Stelle. Anche il marito della Ciarambino, dicono alcuni attivisti infuriati, è stato assunto come assistente al Parlamento europeo dalla capolista voluta da Di Maio, Chiara Gemma. L’incarico più prestigioso tra gli ex compagni dell’Imbriani di Pomigliano è toccato a Carmine America, portato da Di Maio al ministero dello Sviluppo economico nel primo governo Conte con un incarico da 70mila euro. Da lì poi al ministero degli Esteri con uno stipendio da 80mila euro e pochi giorni fa infine nel Cda del colosso industriale Leonardo per altri 80mila euro annui di compenso. Ma non sono i soli perché la lista è davvero lunga e tutti hanno il comune denominatore di aver studiato al liceo classico Imbriani di Pomigliano d’Arco. Proviamo ad avvicinare proprio Luigi Di Maio per chiedergli del caso di Nello Nazaria e dei cosiddetti “Pomigliano boys” ma il ministro tira dritto e non dice una parola. E noi la domanda gliela poniamo lo stesso: Ministro, non è che qui uno vale uno ma se ha studiato con di Maio o viene da Pomigliano vale di più?
Paolo Bracalini per “il Giornale” il 21 maggio 2020. Negli Stati Uniti hanno Harvard, il Mit di Boston, Yale. In Francia c'è l' École nationale d' administration (da dove è uscito Macron) e SciencesPo a Parigi (dove ha studiato Chirac). In Italia invece abbiamo il liceo Imbriani di Pomigliano d' Arco, che a prima vista potrebbe apparire una scuola più modesta, e invece sforna pure lei alti dirigenti pubblici con una frequenza portentosa. Altro che college americani con rette altissime, i figli conviene mandarli a studiare lì, nella ridente Pomigliano, almeno finché c' è Di Maio al governo, lui una poltrona pubblica per i diplomati al suo ex liceo di paese la trova sempre, tanto la pagano gli altri. Ieri ci siamo occupati di Carmine America, appunto un ex scolaro del suddetto liceo proprio negli anni in cui lo frequentava il più illustre suo ex alunno, il tre volte ministro e già vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. L'amico America la sua America l'ha trovata nei palazzi del potere romano, grazie a Luigino, prima con una sontuosa collaborazione al Mise, poi con un prestigioso incarico agli Esteri sempre al seguito di Di Maio, ed ora addirittura nel cda di Leonardo Finmeccanica, roba grossa, come lo stipendio pubblico che incasserà (180mila euro tra tutto). Ma non è che il diploma del liceo Imbriani assicuri carriera e prestigio soltanto a loro due, nossignore, altri fior di cervelli forgiati sui banchi di Pomigliano hanno avuto il loro giusto riconoscimento pubblico. In queste ore ha fatto il suo ingresso a Fincantieri, ovviamente su indicazione del Movimento Cinque Stelle, un altro compaesano pomiglianese ed ex studente del liceo Imbriani, tale Pasquale De Falco, sconosciuto commercialista ovviamente di Pomigliano d' Arco, titolare di studio sito a soli 800 metri dalla casa dei Di Maio. Nel suo curriculum - scrive il Foglio - un incarico presso l' Azienda Speciale Multiservizi di Pomigliano d' Arco, e poi nel collegio sindacale della Asl di Salerno, come rappresentante del ministero della Salute quando ministro era la pentastellata Giulia Grillo. Lottizzazione selvaggia, insomma. Quindi con tutte le carte in regola per diventare nuovo rappresentante nel collegio dei sindaci di Fincantieri, una delle più importanti aziende pubbliche italiane e mondiali nel settore della cantieristica navale. Anche Pasquale De Falco può esibire il diploma dall' Imbriani, magari da appendere nel nuovo ufficio a Fincantieri. Si è ricordato di lui al momento delle nomine Luigi Di Maio, ma anche un altro ex alunno di successo del medesimo liceo, Dario De Falco (stesso cognome o parentela, non sappiamo). Quest' ultimo, amico d' infanzia di Luigino, è un altro dei Pomigliano boys che hanno occupato poltrone a Roma grazie all' ascesa miracolosa (o miracolata) di Luigi Di Maio. Che da vicepremier aveva chiamato Dario De Falco, malgrado il curriculum modestissimo, come capo della segreteria politica a Palazzo Chigi, sincerandosi che si sistemasse a dovere anche col nuovo governo, infatti è rimasto a Palazzo Chigi come consigliere del sottosegretario Riccardo Fraccaro. Ebbene, nello scarno curriculum di Dario c' è un triennio come «collaboratore presso lo studio del dottor commercialista Pasquale De Falco presso il quale ho gestito la segreteria oltre che tutta la comunicazione delle attività dello Studio» (cosa mai debba comunicare uno studio tributario resta un mistero). Proprio lui, l'amico Pasquale, piazzato ora dal M5s a Fincantieri. Ma poi c' è un' altra pomiglianese educata nella Harvard con la pummarole n' coppe, il liceo Imbriani. Parliamo di Valeria Ciarambino, fedelissima di Di Maio e in quanto tale diventata capataz locale del M5s e capogruppo del M5s in Regione Campania. La Ciarambino può vantare anche di avere avuto Di Maio come testimone di nozze, mentre suo marito è stato assunto come portaborse da una europarlamentare M5s. Fortunati anche quelli che hanno incrociato Di Maio non solo al liceo, ma pure all' Università di Napoli, alla facoltà di giurisprudenza, mai finita da Luigino. Il suo ex collega di ateneo, Enrico Esposito, che invece è riuscito a laurearsi, grazie a Di Maio è diventato nientemeno che capo dell' ufficio legislativo al ministero dello Sviluppo Economico quando Luigino era ministro (ma ci è rimasto), pur senza avere il diploma dell' Imbriani. E così è bastata la comune origine pomiglianese per Assia Montanino, premiata da Di Maio con una poltrona d' oro al Mise, capo segreteria del ministro, anche se la Montanino ha ottenuto la maturità non all' Imbriani ma dalla concorrenza, al liceo Salvatore Cantone di Pomigliano d' Arco. È tutta una catena di affetti che non si può spezzare, direbbe il professore Sassaroli di Amici miei.
Emiliano Fittipaldi per “l’Espresso” il 21 maggio 2020. Negli ultimi giorni Luigi Di Maio ha deciso che doveva dare un colpo di reni. Una sterzata. Al governo, al M5S e al suo futuro personale. E così l' ex leader dei Cinque Stelle prima ha redarguito il suo "successore" Vito Crimi, reo di non aver subito stoppato le ipotesi democrat di una «sanatoria erga omnes» dei migranti agricoli. Poi ha messo in minoranza l' ala sinistra del movimento, secondo lui pericolosamente appiattita sul Pd su questioni divisive come Mes e immigrati. Infine s'è scontrato (ufficiosamente, s' intende) su quello che considera il più pericoloso dei rivali interni, Giuseppe Conte. Il tema del contendere, stavolta, è stato il ritorno di Silvia Romano. «Dal 2012 a oggi su 20 casi una sola volta, ai tempi di Renzi, il rilascio di un nostro connazionale rapito era stato annunciato dal presidente del Consiglio», ha protestato con i suoi. «Prassi e logica vogliono che sia sempre la Farnesina a farlo. Serve rispetto istituzionale». La scaramuccia è solo l'ultima del match per la leadership. Partita destinata a concludersi in autunno, quando sono previsti, Covid permettendo, gli Stati generali dei grillini per la nomina del nuovo capo politico. Il ministro, ad ora, ha deciso di non ricandidarsi. Ma sa che chiunque vorrà avere speranze di succedergli, dovrà bussare alla sua porta. È infatti vero che l' ex «bibitaro del San Paolo», «inabile al modo congiuntivo», Di Maio è ancora irriso e dileggiato dagli antipatizzanti. Ma dietro l' ombra del gaffeur, gli avversari interni e gli amici in cerca di riscatto (in primis Alessandro Di Battista) sanno che è cresciuto un altro Di Maio. Un politico scaltro e calcolatore, con una rete di potere di tutto rispetto, che sarà comunque decisivo per il futuro del Movimento. A due anni dal trionfo dei grillini alle elezioni del 2018, giostrandosi tra due governi, tre ministeri e una vicepresidenza a Palazzo Chigi, il ragazzo di Pomigliano ha dimostrato che il potere lo sa maneggiare. Nei palazzi ha imparato a muoversi con cinismo e imperio, e una capacità di lottizzazione seriale che nessuno gli accreditava. Nell' ultimo anno, soprattutto, il ministro si è infatti dedicato anima e corpo alla costruzione di una galassia relazionale dentro gli apparati statali. Mettendo in piedi, ben oltre il suo storico cerchio magico targato Pomigliano, un gruppo di burocrati, amministratori delegati, vertici ministeriali e commis di società pubbliche che non rispondono né al movimento, né a Beppe Grillo né a Casaleggio. Ma direttamente a lui. Partiamo dai dicasteri.
Di Maio ne controlla, direttamente o indirettamente, almeno tre. Alla Farnesina, poco influente ai tempi di Enzo Moavero Milanesi, ha accentrato nelle mani sue e dei suoi centurioni (tra cui s' annovera il portavoce Augusto Rubei e l' ambasciatore Ettore Sequi, ex feluca a Pechino e oggi capo di gabinetto) non solo la diplomazia, ma pure la gestione del Commercio estero dell' Ice.
L' istituto che cura il Made in Italy da sempre era ente vigilato dal Mise. Ma Stefano Patuanelli, messo lì a fare il ministro anche grazie ai rapporti stretti con Di Maio, è stato costretto ad accettare il ratto.
Anche la Simest, società di Cassa depositi e prestiti votata allo sviluppo all' estero delle nostre imprese, è finita sotto il controllo del Mae a inizio 2020: come presidente Di Maio ha voluto Pasquale Salzano, ex ambasciatore italiano in Qatar oggi pure a capo degli Affari internazionali in Cdp (guidata da un manager che a Di Maio deve più di qualcosa, Fabrizio Palermo). Il numero uno di Ice è invece Carlo Ferro, che fu indicato al ministro direttamente da Assolombarda: il rapporto tra i due è ottimo, e Luigi spera che possa ora fare anche da "sherpa" con il nuovo leader di Confindustria Carlo Bonomi, che ha iniziato il mandato accusando Palazzo Chigi di essere "unfit" ad affrontare lo tsunami economico del Dopo Covid.
Nell' Ice anche il direttore generale Roberto Luongo è considerato vicinissimo a Di Maio: spostato da Carlo Calenda ad altri incarichi nel 2016, è stato richiamato dal grillino e rimesso sulla sua vecchia poltrona.
Al ministero, oltre i Casaleggio Boys Cristiana Belotti e Pietro Dettori, nell' esercito di Luigi militava fino a qualche giorno fa anche Carmine America: l' ex compagno di scuola a Pomigliano d' Arco per 80 mila euro l' anno era «consulente per la sicurezza e difesa». Adesso è stato promosso (inopinatamente secondo i più) nel cda di Leonardo, il nostro colosso degli armamenti. A Piazza Monte Grappa il ministro a piazzato anche la professoressa del Link Campus Paola Giannetakis.
Alla Farnesina Di Maio e Sequi, ovviamente, comandano a braccetto con Elisabetta Belloni. Il segretario generale della Farnesina, stimata dall' intero arco costituzionale e dal Quirinale, è il perno di tutta la macchina da quattro anni, e non ha mai rischiato il posto. Anzi: nelle ultime settimane l' ipotesi accarezzata da Giuseppe Conte di sistemare sulla sua poltrona il fidato consigliere Pietro Benassi (con spostamento della Belloni ad altro incarico di rilievo, come i servizi di intelligence esterni che finiranno a Gianni Caravelli) s' è infranta sul niet di Di Maio. Il grillino, ça va sans dire, ha poi lasciato allo Sviluppo economico una parte delle sue truppe. Patuanelli è circondato dalla segretaria Assia Montanino, assunta da Di Maio nel 2018, dal capo della segreteria tecnica Daniel De Vito, dal numero uno dell' ufficio legislativo Enrico Esposito, ex collega di università di Gigi scoperto dall' Espresso a twittare spazzatura omofoba.
E se il fidato Salvatore Barca, figura centrale del Mise, è rimasto segretario generale con pieni poteri, l' ex capo di gabinetto del Mise Vito Cozzoli è stato invece spostato in una posizione di peso e prestigio: oggi è presidente di Sport e Salute, spa in house del ministero dell' Economia.
Anche Girgis "Giorgio" Sorial, dimaiano di ferro al centro di polemiche feroci per la mancanza di un' esperienza adeguata a gestire le difficili crisi aziendali che planano sui tavoli degli uffici di via Molise, sarà sostituito con un classico promoveatur ut amoveatur: per lui pare sia pronta una sedia da presidente della società Traforo del Monte Bianco (gli azionisti di maggioranza sono Autostrade e Anas), in sostituzione dell' ex senatore forzista Aldo Scarabosio in scadenza.
Al ministero del Lavoro i fedelissimi riferibili strettamente a Di Maio, oltre alla stessa ministra Nunzia Catalfo, non sono tantissimi: tra loro, c' è di sicuro il portavoce Luigi Falco. Ma quasi tutti i vertici delle agenzie chiave del settore sono ancora appannaggio della corrente di Gigi: all' Inps siede il presidente Pasquale Tridico e, nel cda, Rosario De Luca (Di Maio l' ha conosciuto ai tempi della vicepresidenza della Camera, e fu colpito da alcune sue proposte sul microcredito).
All' Inail siede il vicepresidente Paolo Lazzara, professore che scrisse per Di Maio il decreto per i rider e che, ancora oggi, si interfaccia spesso e volentieri con il ministro per consigli e suggerimenti.
Anche il capo dell' Ispettorato nazionale del lavoro, il generale dei carabinieri Leonardo Alestra, è stato chiamato direttamente da Luigi per vegliare sui possibili furbetti del reddito di cittadinanza: il nome gli fu fatto dal comandante Giovanni Nistri, con cui Di Maio mantiene da sempre un ottimo rapporto.
«Non c' è bisogno di fischiare: da oggi lo Stato siamo noi», aizzava Luigi Di Maio da un palco davanti alla Bocca della Verità a inizio giugno 2018, un giorno dopo aver festeggiato la festa della Repubblica e giurato come ministro del Mise. Giustificò l' infelice uscita spiegando di star solo citando un libro del giurista Piero Calamandrei («uno dei più belli che ho letto», disse).
Ma - visto l' abbuffata di nomine e incarichi nelle stanze dei bottoni - sembra che il ministro abbia studiato, più che il grande giurista, soprattutto i meccanismi del manuale Cencelli.
Negli ultimi mesi ha affondato gli artigli nel deep state chiamando all' Agenzia del Demanio (come direttore) Antonio Agostini, un funzionario in forze a Palazzo Chigi diventato amico di Luigi anni fa. Poi è stato il turno di Marcello Minenna al Demanio.
Tra i due si contano alti e bassi: l' economista, considerato vicino a Roberta Lombardi, si dimise dalla giunta Raggi per via degli scontri con l'allora vicecapo di gabinetto Raffaele Marra. Una mossa che lo allontanò dal cuore dei vertici pentastellati. Di Maio racconta oggi che è stato lui a recuperare il rapporto chiamandolo alle Dogane: ultimamente i due si sentono spesso, anche perché hanno lavorato insieme all' approvigionamento all' estero dei dispositivi sanitari anti-Covid.
Totalmente "dimaizzata" appare anche l' Anpal, l' Agenzia per le politiche del lavoro. Qui Luigi ha prima ha chiamato dal Missisipi, come presidente, Mimmo Parisi, l' uomo che con un app avrebbe dovuto mettere in contatto "navigator" e i beneficiari del reddito di cittadinanza, e che - fallito l' obiettivo - si deve difendere per i rimborsi spese per voli in business class. Poi, ha infilato nel cda dell' agenzia pure Giovanni Capizzuto, il suo ex segretario tecnico del ministero del Lavoro. «La rete di Giggino è gigantesca: voi parlate solo le nomine più discutibili, dei protegè più implausibili. Ma lui in pochi mesi ha allungato i tentacoli dappertutto», ragionano i nemici interni, tuttora orfani dei clichè delle origini in cui uno valeva uno e ogni scelta veniva ponderata e votata da tutti.
All' Enav Di Maio, senza chiedere il permesso a nessuno, nell' ultimo giro nelle partecipate ha invece piazzato Paolo Simioni, che fu ad di Atac dietro cooptazione diretta di Luigi (e dell' allora assessore casaleggiano Massimo Colomban); di seguito ha miracolato alla presidenza dell' Eni Lucia Calvosa (già nel cda del Fatto Quotidiano) in una partita difficilissima, vista la concorrenza di pezzi da novanta come Franco Bernabé (per Di Maio troppo vicino a Davide Casaleggio) e Gianni De Gennaro.
Ancora, ha incoronato come presidente di Enel Michele Crisostomo, poi Elisabetta Lunati nel cda di Poste. «È in quota Stefano Buffagni», dicono i più preparati, «ma Di Maio ha dato il via libera».
Anche Stefano Donnarumma, nuovo ad Terna, è considerato uomo dell' entourage di Buffagni, ma Alessandra Faella, cooptata nel cda dell' azienda che gestisce la rete elettrica nazionale, ha stretto rapporti solidi con Di Maio da anni. «Da quando l' ha conosciuta in Avio Aero, spa di General Electric che ha uno stabilimento a Pomigliano», spiega una fonte al Mise.
Se negli enti pubblici i dimaiani nelle posizioni di vertice sono una ventina (ci sono pure l' ex ministro Alberto Bonisoli riciclato alla presidenza del Formez, Giuseppe Morsillo al Centro italiano ricerche aerospaziali, Domenico De Maio - campano e grande amico anche di Vincenzo Spadafora - all' Agenzia nazionale per i giovani), il ministro degli Esteri ha voluto una trentina di accoliti nelle partecipate.
Nella cruciale Cassa depositi e prestiti, che gestisce i 300 miliardi dei risparmi postali degli italiani, non c' è solo Palermo, ma Di Maio può contare anche sull' amicizia di Francesco Floro Flores (imprenditore napoletano che risulta all' Espresso essere gestore dell' Arena Flegrea, dove si svolse "Italia a Cinque Stelle" nel 2019) e Fabiana Massa, napoletana e professoressa di diritto commerciale considerata una volta in quota Tria, oggi stimata dal pomiglianese.
Il sodale Emanuele Piccinno è finito all' Eni (è stato in passato consulente al Mise), mentre Marco Bellezza (suo ex consigliere all' innovazione allo Sviluppo economico) a gennaio è diventato amministratore delegato di Infratel, società in house del Mise che si occupa di banda larga. Non solo: Bellezza siede anche nel cda di Cdp Venture Capital, a cui fa capo il Fondo nazionale innovazione. Anche il presidente del fondo, Enrico Resmini, con Di Maio ha un eccellente rapporto.
La lista è sterminata. Comprende pedine importanti nelle banche, al Monte dei Paschi il nuovo ad Guido Bastianini è stato chiamato da lui e Riccardo Fraccaro. In Anas: l' ad Massimo Simonini è targato Cinque Stelle, e da poco ha assunto Massimiliano Gattoni, ex capo della segreteria di Danilo Toninelli ai Trasporti, come direttore di un dipartimento dedicato all' Innovazione.
Nelle Ferrovie, nell' Ilva di Taranto, (qui Di Maio rimosse un anno fa i tre commissari Piero Gnudi, Corrado Carrubba e Enrico Laghi sostituendoli con Francesco Ardito, Antonio Cattaneo e Antonio Lupo).
Pure nel cda di Invitalia il grillino ha chiamato qualche settimana fa fa una sodale di ferro: Paola Ciannavei, sorella dello storico avvocato dei grillini Andrea.
Gli Stati generali del Movimento sono alle porte. Chiunque voglia succedere a Di Maio, dovrà fare i conti con lui e la sua rete.
· I Conflitti d’Interesse.
M5S, Max Bugani vice di Casaleggio lascia l’associazione Rousseau. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. Addio di Max Bugani dall’associazione Rousseau che gestisce l’omonima piattaforma online legata al M5S. Come anticipato prima di Natale dal Corriere e ora confermato dal Messaggero, il numero due di Rousseau e pioniere dei Cinque Stelle nonché braccio destro di Davide Casaleggio, avrebbe deciso di interrompere il rapporto con l’associazione di cui è il secondo socio (gli altri sono Pietro Dettori e Enrica Sabatini) dopo Davide Casaleggio figlio del fondatore del Movimento, Gianroberto. Secondo il quotidiano romano, la scelta sarebbe già stata comunicata ai vertici del M5S. Bugani lascerebbe nei giorni del caos tra i pentastellati e delle forti critiche interne nei confronti dei rapporti tra Cinque Stelle e Rousseau, ora al vaglio di una riforma (che include anche più poteri decisionali ai cosiddetti facilitatori e ai gruppi parlamentari). Già in agosto Bugani, considerato tra i più influenti rappresentanti della ortodossia grillina, molto legato a Beppe Grillo e consigliere comunale a Bologna con il M5S, aveva lasciato l’incarico di vicecapo della segreteria di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, oltre che quello di referente del Movimento in Emilia-Romagna. «Non sono attaccato alle poltrone», disse. In ottobre era diventato capo staff di Virginia Raggi sindaca di Roma. A motivare ora lo strappo da Rousseau, le polemiche sui conflitti d’interesse, i rapporti con Casaleggio con il quale Bugani non è più in sintonia come un tempo, la visione politica non condivisa con Di Maio e la prospettiva di un netto insuccesso alle regionali in Emilia-Romagna del 26 gennaio: qui Bugani era favorevole a una desistenza o al più a un patto con il Pd, cosa poi non accaduta.
Davide Casaleggio a Porta a Porta: “Nessun conflitto d’interessi. Mai influenzato la politica”. Davide Casaleggio è andato a Porta a Porta, da Bruno Vespa, per difendersi dalle accuse di conflitto di interessi: “Non ho mai influenzato la politica a favore dei miei clienti, neanche i più critici potranno mai dirlo, non firmo decreti e non voto leggi. Nemmeno il mio più acerrimo nemico può dire che ho influenzato una votazione. Ci sono invece 120 parlamentari che possiedono un’azienda, siamo sicuri che non abbiano mai presentato una legge o votato una legge che favoriva la loro azienda?”, ha detto. Annalisa Girardi il 14 febbraio 2020 su Fanpage. "Il mio presunto conflitto d’interessi dov’è? Non ho mai influenzato la politica a favore dei miei clienti, neanche i più critici potranno mai dirlo, non firmo decreti e non voto leggi. Nemmeno il mio più acerrimo nemico può dire che ho influenzato una votazione. Ci sono invece 120 parlamentari che possiedono un’azienda, siamo sicuri che non abbiano mai presentato una legge o votato una legge che favoriva la loro azienda?": così Davide Casaleggio, presidente della Casaleggio Associati, la società legata al Movimento Cinque Stelle per la gestione della piattaforma Rousseau, difende il suo lavoro e l'operato del padre dopo le accuse di appropriazione e riutilizzo dei dati personali degli iscritti. La trasmissione di Rai 3, Presa Diretta su Rai3, a inizio settimana aveva mandato in onda un'inchiesta su un presunto conflitto di interessi avente a che fare con un evento sponsorizzato da Nexi e Deliveroo. Inoltre aveva accusato la Casaleggio Associati di utilizzare i dati personali degli utenti Facebook per i propri fini: "Mio padre mi ha chiesto di portare avanti il progetto Rousseau e di esserne custode. A me non piacciono i riflettori, ma credo sia necessario difendere pubblicamente il lavoro di mio padre, delle persone che ci hanno lavorato in questi anni, di quelle che ci lavorano e di quelle che lo sostengono. Nei prossimi giorni andrò in tv per farlo", aveva annunciato Casaleggio, criticando duramente quanto affermato nel servizio. Il conduttore, Riccardo Iacona, aveva invitato Casaleggio in modo che questi potesse replicare, ma il presidente della Casaleggio Associati ha preferito commentare dal salotto di Porta a Porta, la trasmissione di Bruno Vespa: è la seconda apparizione in televisione, dopo l'intervista con Lilli Gruber del 2017. Casaleggio ha anche commentato le polemiche interne al Movimento Cinque Stelle che lo hanno visto coinvolto negli ultimi mesi. Un documento di alcuni parlamentari pentastellati aveva infatti richiesto che la gestione di Rousseau passasse sotto il controllo diretto del Movimento e non rimasse nelle mani di una società esterna. Riguardo al controverso contributo dovuto dai deputati Cinque Stelle alla piattaforma, Casaleggio taglia corto: "I parlamentari del M5S sono contenti di supportare, con un loro contributo economico, la piattaforma Rousseau, proprio perché è la voce degli iscritti". E ancora: "I padroni, gli utilizzatori del M5S sono gli iscritti. Questo è sempre stato il centro, la partecipazione degli iscritti. Gli iscritti hanno fatto partire il Conte 1 e il Conte 2, hanno scritto il programma del 2018. Anche la costruzione delle liste elettorali è fatta dagli iscritti: è un unicum in Italia. Le organizzazioni del Novecento pensavano che il potere fosse illimitato, con il M5S abbiamo cambiato questo schema. A settembre abbiamo fatto il record mondiale di partecipazione a un voto online". Secondo Casaleggio l'obiettivo del M5s deve essere quello di "mettere nel Dna dei cittadini italiani la partecipazione alla vita pubblica". Sulla correttezza del voto online: "Ci sono due notai che certificano i risultati del voto e una società esterna, informatica, che verifica se ci sono anomalie durante le votazioni online. Mio padre quando parlava di certificazione esterna del voto si riferiva proprio a questo", ha aggiunto Casaleggio in merito ai dubbi sulla privacy degli utenti. E infine ha commentato la salute politica del Movimento: "Penso che il M5S debba rimanere al governo fino a quando riuscirà a portare a casa quei temi per cui è stato votato. La questione dell'alleanza con il Partito democratico è un tema non mi appassiona per niente, a me appassiona parlare di progetti. Finché è una questione di tifoserie, non mi interessa". Conclude intervenendo sull'ex capo politico: "Se ho condiviso le dimissioni di Di Maio? Ho condiviso il suo auspicio per un focus sui temi e non sulle persone. Di Maio ha fatto un passo indietro da capo politico ma è sempre in prima linea, come sabato prossimo in piazza contro i vitalizi dei parlamentari".
M5s, Casaleggio a Porta a Porta: “Miei conflitti di interessi? Io non firmo decreti né voto leggi. Di Maio resta sempre in prima linea”. Il Fatto Quotidiano il 13 febbraio 2020. Il presidente dell’Associazione Rousseau va per la seconda volta in tv per difendere il lavoro del padre: "I padroni, gli utilizzatori del M5S sono gli iscritti. Le organizzazioni del Novecento pensavano che il potere fosse illimitato, abbiamo cambiato questo schema". L’obiettivo del M5S per il figlio del cofondatore è "mettere nel Dna dei cittadini italiani la partecipazione alla vita pubblica". E sui dubbi rispetto alla vulnerabilità del sistema di voto rivendica: "Ci sono due notai che certificano i risultati e una società esterna che verifica se ci sono anomalie". “Il mio presunto conflitto d’interessi dov’è? Non ho mai influenzato la politica a favore dei miei clienti, neanche i più critici potranno mai dirlo, non firmo decreti e non voto leggi. Nemmeno il mio più acerrimo nemico può dire che ho influenzato una votazione. Ci sono invece 120 parlamentari che possiedono un’azienda, siamo sicuri che non abbiano mai presentato una legge o votato una legge che favoriva la loro azienda?”. Dopo l’inchiesta di Presa Diretta dedicata alla questione dell’utilizzo dei dati personali degli utenti di Facebook da parte della Casaleggio Associati, Davide Casaleggio aveva annunciato che sarebbe andato in televisione a difendere il lavoro di suo padre. E lo ha fatto, nel salotto di Porta a Porta su Rai1. E’ la sua seconda volta in televisione, dopo l’intervista data a Lilli Gruber nell’aprile 2017. Dopo aver risposto sul presunto conflitto di interessi per un evento sponsorizzato tra l’altro da Nexi e Deliveroo, il presidente dell’Associazione Rousseau e figlio del cofondatore del Movimento ha anche parlato delle recenti evoluzioni nel Movimento 5 Stelle: “Se ho condiviso le dimissioni di Di Maio? Ho condiviso il suo auspicio per un focus sui temi e non sulle persone. Di Maio ha fatto un passo indietro da capo politico ma è sempre in prima linea, come sabato prossimo in piazza contro i vitalizi dei parlamentari”. A gennaio un documento dei senatori Primo Di Nicola, Emanuele Dessì e Mattia Crucioli oltre ad auspicare la sostituzione del capo politico con un organismo collegiale ha chiesto che non fosse più Davide Casaleggio, o meglio l’associazione Rousseau da lui presieduta, a occuparsi della gestione della piattaforma, ma che dati e proprietà della piattaforma fossero affidati al Movimento stesso. “Quando qualcuno me lo dirà sarò informato anche io, ho sentito di questi 3 senatori, non ho ancora letto il documento che hanno fatto leggere a tutti ma che non ho ancora ricevuto”, ha ripetuto Casaleggio. Sostenendo anche che “i parlamentari sono contenti di supportare Rousseau con il contributo di 300 euro perché è la voce degli iscritti”. Infatti secondo Casaleggio “i padroni, gli utilizzatori del M5S sono gli iscritti. Questo è sempre stato il centro, la partecipazione degli iscritti. Gli iscritti hanno fatto partire il Conte 1 e il Conte 2, hanno scritto il programma del 2018. Anche la costruzione delle liste elettorali è fatta dagli iscritti. E’ un unicum in Italia”. E ancora: “Le organizzazioni del Novecento pensavano che il potere fosse illimitato, con il M5S abbiamo cambiato questo schema”, ha rivendicato il figlio del cofondatore del Movimento. “A settembre abbiamo fatto il record mondiale di partecipazione a un voto online” e da allora “abbiamo università, associazioni e anche partiti che ci chiedono come abbiamo fatto a realizzare questo record“. L’obiettivo del M5S per Casaleggio è “mettere nel Dna dei cittadini italiani la partecipazione alla vita pubblica. Quando questo risultato sarà raggiunto penso che anche il Movimento avrà raggiunto il suo fine ultimo. Ci vorrà del tempo, ma penso che sia importante”. “Ci sono due notai che certificano i risultati del voto e una società esterna, informatica, che verifica se ci sono anomalie durante le votazioni online”, ha detto poi rispondendo ai dubbi sulla vulnerabilità del sistema evidenziati anche dal Garante della Privacy. “Mio padre quando parlava di certificazione esterna del voto si riferiva proprio a questo”. Quanto all’esperienza di governo, “penso che il M5S debba rimanere al governo fino a quando riuscirà a portare a casa quei temi per cui è stato votato”. Stare o no col Pd? “Questo tema non mi appassiona per niente, a me appassiona parlare di progetti. finché è una questione di tifoserie, non mi interessa”. E in alcuni casi vede già dei risultati: “Le autostrade hanno un contratto con lo Stato fatto 20 anni fa e per anni è rimasto secretato. Fino all’arrivo del M5S quel contratto era segreto”. E il reddito di cittadinanza già nella prima fase “ha avuto un effetto imponente. Non solo a sostegno” di chi si trova in una condizione di povertà, “ma ad esempio sulla spesa e i consumi delle famiglie, quindi anche sul Pil italiano”.
Il debunking dell’intervista di Casaleggio a Porta a Porta. L'erede di Gianroberto glissa o non risponde alle domande di Bruno Vespa. Da Rousseau ai rapporti tra l'omonima associazione e il M5s fino al conflitto di interessi. Lorenzo Andraghetti su Lettera 43 il 14 Febbraio 2020. Non risposte. Questo sostanzialmente ha dato Davide Casaleggio a Bruno Vespa. Ospite di Porta a Porta, l’erede di Gianroberto come al solito non ha trovato contradittorio e ha ripetuto il solito copione. Ecco qualche passaggio dell’intervista.
Chi controlla il M5s sono coloro che fanno parte dell’Associazione Movimento 5 stelle, costituita il 20 Dicembre 2017 nello studio del notaio milanese Valerio Tacchini. E cioè Davide Casaleggio e Luigi Di Maio.
V: Perché non ha pubblicato immediatamente l’atto di costituzione dell’Associazione M5s fatta tra lei e Di Maio nel dicembre 2017?
C: Lo Statuto è stato pubblicato 10 giorni dopo. La nuova associazione è stata fatta per motivi di adeguamento alla legge elettorale.
Vespa ha chiesto “l’atto” e Casaleggio risponde “Statuto”. Come ricorda l’avvocato Lorenzo Borrè, «quello che è stato pubblicato dieci giorni dopo la fondazione della nuova associazione è lo Statuto, che nulla diceva sull’identità dei due fondatori e sulle dinamiche inerenti all’attribuzione della cariche apicali e all’appalto dei servizi di comunicazione all’associazione Rousseau, di cui Casaleggio era – al contempo – presidente.
Né è predicabile che la nuova associazione sia nata per le necessità correlate alla nuova legge elettorale (il cosiddetto Rosatellum) per le quali bastava l’associazione ancillare del 2012 capeggiata da Beppe Grillo».
V: Da Statuto del M5s, Rousseau si lega al M5s in maniera irreversibile, giusto?
C: Rousseau è un metodo.
Un’altra non risposta. Tra l’altro Rousseau non è un metodo, è una Associazione e una piattaforma per il voto online.
V: Ma il M5s potrebbe scegliere un altro “metodo”?
C: Può farlo come quando uno fa un trapianto di cuore a suo rischio e pericolo.
Per farlo bisognerebbe cambiare lo Statuto che identifica la piattaforma Rousseau come luogo delle votazioni del partito. Non è esattamente una passeggiata anche perché l’operazione dovrebbe essere vidimata da Casaleggio.
V: Quindi M5s e Rousseau sono inscindibili?!
C: Rousseau è parte del M5s.
Da Statuto M5s e Rousseau sono di fatto inscindibili.
V: Quindi che ruolo ha lei? Luigi Di Maio la presenta come un tecnico informatico, mi sembra riduttivo.
C: Io do un mano al M5s…e siamo al primo posto al mondo per partecipazione online.
Casaleggio è il dominus dell’Associazione Rousseau, tramite la cui piattaforma vengono decise le politiche e la selezione dei candidati del M5s.
V: Ma lei ha ricevuto finanziamenti/donazioni per 1,5 milioni di euro per Rousseau nell’ultimo anno.
C: Abbiamo dimostrato che la politica si può fare senza soldi, i partiti spendono di più.
Avrebbe potuto dire “con meno soldi” dato che il gruppo Camera e Senato del M5S costano svariati milioni di euro all’anno di soldi pubblici. Detto questo nelle casse di Rousseau arrivano 300 euro mensili da ogni eletto circa 1,1 milioni di euro l’anno. Come ha scritto il Corriere della Sera, la piattaforma dal 2017 al 2018 «ha quasi triplicato i suoi costi. Le spese sono passate da 493 mila euro a 1,1 milioni di euro».
V: Lei è in conflitto di interessi? Tra i suoi clienti c’è Moby Line, per esempio. Potrebbe favorirli anche solo in linea teorica?!
C: Nessuno può affermare di avere influito a favore di un mio cliente.
In linea teorica può favorirli, è ovvio. Quindi il suo ruolo è in conflitto di interessi. Il fatto che non vi siano prove non vuol dire che non ci sia un potenziale conflitto di interessi.
V: L’ex ministro Lorenzo Fioramonti ha detto che, dopo due anni al governo, non capisce chi comanda nel M5s.
C: Comandano i cittadini.
La solita risposta “non sense”. Quando non sa cosa dire “comandano i cittadini”.
V: Ma il voto online non è certificato e non basta un notaio.
C: C’è una società esterna che certifica.
E qual è il nome della società terza? Con questa domanda Vespa lo avrebbe messo k.o. Casaleggio stesso dichiarava al Fatto Quotidiano il 24 febbraio 2019 che il ricorso a un ente esterno «è stato escluso perché ha costi troppo alti. Oggi abbiamo uno strumento di certificazione del voto che passa da una serie di procedure che noi seguiamo e da un notaio che ne valuta l’adozione e fotografa il risultato finale. In futuro adotteremo la certificazione distribuita (blockchain ndr)». Sul Blog delle Stelle si spiegava: «Le votazioni sono certificate da un notaio che ha accesso in tempo reale al monitoraggio del sistema di voto. Questo permette di verificare e certificare eventuali anomalie».
V: Profilavate utenti tramite l’app “attivista a 5 stelle” nel 2013?
C: L’ app è vecchia, di 6 anni fa, e non esiste più.
Ciò non vuol dire che non abbiano potuto profilare gli utenti all’epoca e che poi abbiano cancellato l’app. Un’altra “non risposta” a una domanda molto scomoda.
V: Il Garante vi ha multati perché non custodivate adeguatamente i dati degli iscritti.
C: Era una multa relativa alla vecchia piattaforma, oggi è sicura.
Sono stati cambiati lo strumento di login e il server. E il Garante ha multato Casaleggio anche perché non garantiva l’anonimato del voto online. Ergo, Casaleggio avrebbe potuto sapere come votavano gli iscritti.
Porta a Porta, tutte le domande che Bruno Vespa non ha fatto a Davide Casaleggio su Rousseau. Paolo Becchi de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Un servizio pubblico televisivo dovrebbe dare un’informazione completa, così come un programma di approfondimento dovrebbe approfondire il tema trattato. Non sempre è così, e a mio avviso non lo è stato, in occasione della puntata di Porta a porta dedicata a Davide Casaleggio, all’Associazione Rousseau e ai rapporti con il MoVimento 5 Stelle. Intendiamoci: Vespa è una delle eccellenze del giornalismo italiano, ma è proprio da questa constatazione che nasce la mia critica sulla puntata. Se Vespa avesse voluto avrebbe ben potuto incalzare Casaleggio quando è stato evasivo e cioè durante tutta l’intervista. E anche se gli fosse sembrato di poco riguardo, avrebbe dovuto compulsare il presidente di Rousseau invitandolo a non ciurlare nel manico ad esempio quando, alla domanda di come mai l’atto costitutivo del nuovo MoVimento 5 Stelle creato il 20 dicembre 2017 fosse stato reso pubblico solo a distanza di 15 mesi Casaleggio ha risposto che “in realtà” lo Statuto era stato pubblicato dieci giorni dopo la costituzione della neoassociazione. Vespa avrebbe potuto ricordargli che l’atto costitutivo non è lo Statuto, ma l’atto di fondazione dell’associazione da cui risulta l’identità dei fondatori e la modalità dell’attribuzione delle cariche di potere. E allora Casaleggio avrebbe dovuto spiegare perché la nuova associazione è stata creata da due soggetti, lui e Luigi Di Maio, che non avevano alcuna carica statutaria nella precedente, scalzata, omonima associazione, quella fondata dal padre e da Grillo il 4 ottobre 2009. A quel punto Vespa avrebbe potuto domandargli se non fosse ravvisabile un conflitto d’interessi nel fatto che l’atto costitutivo imponeva uno statuto che prevedeva che il servizio tecnologico per l’informazione del nuovo M5S fosse appaltato all’Associazione Rousseau di cui egli, Davide Casaleggio, era contestualmente il Presidente. E ancora: Vespa non avrebbe dovuto appagarsi dell’affermazione che la costituzione di una nuova associazione con un nuovo statuto era un passaggio obbligato dalla nuova legge elettorale. Avrebbe potuto chiedergli: «Bene e ci dice qual è esattamente la norma che lo imponeva?». Oppure: «perché non era possibile seguire la stessa prassi seguita nel 2013, allorché le liste furono presentate dalla distinta associazione, anch’essa denominata Movimento 5 Stelle, creata da Grillo insieme al nipote e a suo commercialista nel dicembre 2012»? Dulcis in fundo è strano che Vespa non sappia dei numerosi contenziosi giudiziari pendenti alla data della creazione della nuova associazione e aventi ad oggetto l’impugnazione dei regolamenti autocratici e limitanti il diritto alle candidature, contenziosi portati avanti dall’ avv. Lorenzo Borrè in nome del rispetto dei principi del Non Statuto di Gianroberto Casaleggio. Non voglio insegnare il mestiere a nessuno, soprattutto un mestiere che non è il mio, ma forse Vespa non si sarebbe dovuto limitare, senza alcun contraddittorio, a fare soltanto da cassa di risonanza del Presidente dell’Associazione Rousseau e della Casaleggio & Associati.
Davide Casaleggio e la faida interna al M5s, l'accusa a quei 120 parlamentari con quote in aziende. Libero Quotidiano il 31 Dicembre 2019. Davide Casaleggio entra a gamba tesa nella faida interna al Movimento 5 stelle in merito alla questione dei soldi: "Casaleggio Associati non gestisce in alcun modo soldi dei parlamentari o del M5s. Nonostante decine di smentite, ancora oggi testate a livello nazionale continuano a diffondere questa informazione completamente falsa. Non c'è alcuna questione di opacità o ruoli poco chiari, è solo una bufala. Chi ha insistito su questo punto in passato, ha già perso in tribunale", si sfoga il presidente dell'associazione Rousseau in un lungo post su Facebook. "Il cosiddetto conflitti di interessi - aggiunge - si manifesta quando una persona ha potere di firma su due lati dello stesso tavolo di contrattazione. Non sono parlamentare né ho incarichi di governo, non voto e non firmo leggi. Eppure da anni prosegue la litania del conflitto di interessi, con teorie al limite dell'assurdo, in cui viene continuamente messa in discussione la mia integrità e quella di Casaleggio Associati". Poi la bordata: "Sarebbe interessante sapere se i parlamentari che oggi si riempiono la bocca con attacchi nei miei confronti abbiano società di proprietà o quote in diverse di esse per le quali abbiano presentato direttamente in qualità di parlamentari, qui sì con potere di firma, delle leggi o emendamenti che abbiano avuto impatto sulle loro aziende. Mi risulta che 120 parlamentari abbiano una quota di un'azienda. Immagino che qualche giornalista le andrà a verificare prima o poi".
Dagospia il 16 gennaio 2020. Dal profilo Twitter di Jacopo Iacoboni il 16 gennaio 2020. Il 14 gennaio l'Authority per la protezione dei dati e la privacy ha scritto all'Associazione M5S e all'Associazione Rousseau chiedendo "spiegazioni" e risposte sulla vicenda (rivelata da Linkiesta) della app 5S che avrebbe potuto profilare terze parti. Ha dato 15 giorni di tempo. Voi capite per quale motivo il M5S e Casaleggio devono stare assolutamente fuori da qualunque indicazione di nomi per il nuovo Garante.
L’Inkiesta il 4 dicembre 2019. Scoop, la Casaleggio ha sottratto i dati personali di utenti Facebook tre anni prima di Cambridge Analytica. La società inglese aveva sottratto 87 milioni di profili per aiutare Trump e Brexit, ma il sistema era già stato testato nel 2013 in Italia con un’app scaricabile dal blog di Grillo. La denuncia di Marco Canestrari, l’ex braccio destro del cofondatore del Movimento. Ricordate lo scandalo che ha travolto Facebook e Cambridge Analytica, 87 milioni di profili su Facebook utilizzati per sponsorizzare la candidatura di Donald Trump e la campagna pro-Brexit? Non è successo solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma anche qui in Italia. Anzi, quel metodo è stato testato per la prima volta nel nostro paese. Ad aver anticipato i metodi di Cambridge Analytica è stata Casaleggio Associati, la srl milanese che ha fondato e gestito fino al 2016 il Movimento Cinque stelle. Ad accorgersene è stato Marco Canestrari, ad oggi il primo e unico whistleblower dell’azienda-partito, attualmente programmatore informatico a Londra. Era il febbraio 2013 quando sul blog di Beppe Grillo gestito dall’azienda milanese viene dato l'annuncio del rilascio di un’app per sostenere la campagna elettorale del Movimento. «Tu puoi fare molto per restituire l'Italia ai suoi cittadini. Lo puoi fare diffondendo le idee e il programma del MoVimento 5 Stelle. Diventa Attivista 5 Stelle. Se hai un profilo Facebook puoi iniziare subito». Era il manuale del perfetto grillino, bastava accedere all'applicazione Facebook dal blog, accettare le condizioni e l'utente poteva aggiungere il logo ufficiale alla sua foto profilo, promuovere lo Tsunami Tour, diffondere il programma e appoggiare i candidati del M5s. E ovviamente raccogliere fondi. Solo che quella chiamata alle armi celava un inganno, una gigantesca cessione di dati personali. Consentire l’accesso al proprio profilo a quell’app, e accettare le condizioni, significava però fornire in automatico le proprie informazioni base del profilo Facebook, dall'indirizzo e-mail fino al proprio luogo di nascita, quello di residenza e l’orientamento politico e religioso. Richiedere tutti questi dati è il primo passo di una potenziale e gigantesca profilazione di massa di cittadini comuni e anche dei futuri parlamentari che di lì a poche settimane il Movimento avrebbe messo in lista e poi eletto. Un’operazione simile sarà ripetuta anche nel 2014, in occasione delle elezioni europee. Rimangono aperti molti interrogativi. Quante sono le persone profilate da Casaleggio Associati e che fine hanno fatto i dati raccolti? Era legale? Questi dati sono stati ceduti per fini commerciali? E a chi? Secondo Canestrari, «l’app consentiva agli amministratori di Casaleggio Associati una serie di operazioni. Tra cui monitorare le attività dell’utente attivista: infatti c'era una sorta di concorso, i più attivi sarebbero stati premiati con una cena con Grillo». Canestrari spiega che «l’app non è più attiva, ma web Archive conserva le informazioni che permettono di risalire ai permessi richiesti da Casaleggio Associati». Questa è la pagina recuperata. Casaleggio scelse di richiedere il maggior numero di permessi, ossia di dati, anche quelli non pertinenti all'attività politica. Ma non solo: esattamente come è successo con Cambridge Analytica, la srl milanese ha potuto ottenere pressoché ogni dato disponibile non solo sugli attivisti che avevano scaricato l’app, ma anche sui loro amici di Facebook, quindi chiunque avesse avuto tra gli amici un attivista del movimento che si era scaricato l’app potrebbe aver subito un accesso ai propri dati da parte della Casaleggio. Una stima delle intrusioni è impossibile, ma si tratterebbe di una delle più ampie operazioni di raccolta di dati personali mai avvenuta in Italia. Un patrimonio inestimabile sia dal punto di vista del marketing politico che commerciale. Ad aver gestito l’intera operazione era Casaleggio Associati come responsabile dei dati per conto di Beppe Grillo, mentre Pietro Dettori si occupava del funzionamento dell’applicazione Facebook secondo il ricordo di alcuni ex-dipendenti. Oggi Dettori è socio di Rousseau e social media manager di Luigi Di Maio. Rimangono aperti molti interrogativi. Quante sono le persone profilate da Casaleggio Associati e che fine hanno fatto i dati raccolti? Era legale? Questi dati sono stati ceduti per fini commerciali? E a chi? I fatti raccontano che la Cambridge Analytica italiana ha aperto la strada e che altri hanno percorso la via tracciata. Fatti che gettano una nuova luce sugli incontri che i Casaleggio hanno avuto con esponenti di punta della società inglese, della Brexit, come Liz Bilney, e Steve Bannon. L’operazione è stata replicata anche nel 2014 (qui il link) e nel 2018, in occasione delle due tornate elettorali europee e nazionali, anche qui attraverso un’app di Facebook, ospitata sul sito di Luigi Di Maio, ma la piattaforma, secondo Canestrari, «aveva probabilmente già limitato la possibilità di accedere ai dati, proprio in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica. Non possiamo sapere - dice l’ex braccio destro di Gianroberto Casaleggio - se li hanno effettivamente scaricati, né che cosa ne abbiano fatto. Bisognerebbe chiedere al Garante se hanno tabelle da poter confrontare, oppure indurlo ad aprire una nuova istruttoria ma credo sia passato troppo tempo». I fatti raccontano che la Cambridge Analytica italiana ha aperto la strada e che altri hanno percorso la via tracciata. Fatti che gettano una nuova luce sugli incontri che i Casaleggio hanno avuto con esponenti di punta della società inglese, della Brexit, come Liz Bilney, e Steve Bannon. Il metodo Casaleggio, dunque, pare sia stato esportato altrove. Quando è scoppiato lo scandalo dei dati sottratti a Facebook da Cambridge Analytica, Davide Casaleggio disse «non ho ancora capito che cosa è successo, mi informerò». Intervistata da Linkiesta, l’ex-analista di Cambridge Analytica Brittany Kaiser ha detto: «So per esperienza diretta che esistono molti dati a disposizione sui comportamenti degli elettori italiani. Dati che i vostri partiti potrebbero comprare senza problemi, se volessero usarli». C’era un filo sottile sull’asse Milano-Londra che doveva rimanere segreto. E che oggi è possibile vedere più chiaramente. Quello che è avvenuto tra Londra e Washington venne testato per la prima volta in Italia. Le cavie eravamo noi.
La querela di cittadinanza di Casaleggio. Francesco Maria Del Vigo, Domenica 12/01/2020 su Il Giornale. Vietato parlare dei Cinque Stelle, Casaleggio ti ascolta. Partiamo dall'inizio: Davide Casaleggio vuole portare in tribunale il quotidiano di un centenario: L'Incontro. Probabilmente non lo conoscete, perché è una piccolissima ma storica testata di Torino. Ed è proprio nelle sue modeste dimensioni che sta la grandezza della notizia. L'Incontro è un giornale fondato nel 1949 dal partigiano Bruno Segre, il quale, alla tenera età di cento anni, decide di riporre in cantina la macchina per scrivere. Ma la storica testata viene rilevata da un gruppo di soci e si trasferisce on line. Così L'Incontro, dopo settant'anni di attività, è salvo, la «fiammella liberale» può ancora ardere. Fino all'arrivo di Casaleggio jr. Sul sito del giornale, lo scorso 26 novembre, viene pubblicato un articolo di Riccardo Rossotto dal titolo: «Rousseau, oblio su una distorsione paradossale della democrazia». Un titolo fattuale. Lo strumento di democrazia interna al Movimento 5 Stelle - quello che dovrebbe far decidere tutto ai militanti -, è di proprietà del padrone stesso del Movimento e quindi avanzare dubbi sul suo funzionamento è più che legittimo. L'ha fatto anche il garante della Privacy, per intenderci. Fattuale il titolo e fattuale il pezzo, che mette in fila tutte le critiche che osservatori e giornalisti hanno rivolto, nel corso degli anni, alla piattaforma grillina. Non c'è nulla di diffamante. Ma per Casaleggio è troppo. Se non dici che è bello, bravo e ha fondato il marchingegno per la democrazia diretta più efficace del mondo lui ti querela. E così ha fatto con il giornale di Segre. Solo che L'Incontro non è esattamente il New York Times e, a detta dei suoi stessi giornalisti, al momento, è letto da amici e conoscenti (oltre che da Casaleggio). Un post su un profilo di un utente medio di Facebook probabilmente ha più lettori. Ma a Casaleggio non interessa, vuole zittire tutti, tra poco non si potrà più parlare di lui nemmeno ai videocitofoni: la censura di cittadinanza. Dietro questa storia di ordinaria illiberalità a Cinque Stelle c'è un metodo: il metodo Casaleggio. Cioè querelare preventivamente chiunque parli delle sue attività, monitorare in modo maniacale tutte le fonti di informazione per poi portarle in tribunale. Poi, magari, la questione si risolve in un nulla di fatto - come succederà in questo caso - ma intanto la testata e il giornalista sono avvisati, intimiditi. E più la testata è piccola, più sarà influenzata e rischierà di chiudere i battenti per fare fronte alle spese processuali. È il metodo dell'eliminazione sistematica di tutte le voci anche solo leggermente fuori dal coro: vale per i giornalisti (da querelare) e per i propri politici (da espellere). È successo a Paragone la settimana scorsa e qualcosa di simile succederà anche a Luigi Di Maio, l'ex enfant prodige del Movimento, ora ritenuto inutile e pernicioso. La Casaleggio & Associati, dopo averlo programmato e manovrato in questi anni, lo formatterà e lo metterà nello sgabuzzino insieme ai ferri vecchi. Non c'è dubbio: a Casaleggio piace molto la democrazia diretta. Ma diretta da lui.
Ottavia Giustetti per repubblica.it l'11 gennaio 2020. Il controllo tentacolare che l’associazione Rousseau di Davide Casaleggio effettua sistematicamente sulla Rete che dissente o, anche solo, discute della struttura che governa il Movimento Cinquestelle, è arrivato fino al giornale fondato nel 1949 dal partigiano Bruno Segre, “L’incontro”, diventato da pochi mesi una testata online, grazie a un gruppo di 18 soci torinesi e milanesi che hanno deciso di non disperdere l’eredità dell’avvocato e giornalista che ha fatto dell’impegno un simbolo per la città e non solo. Un articolo dal titolo “ Rousseau, una distorsione paradossale della democrazia”, pubblicato a novembre 2019 a firma di Riccardo Rossotto, ha scatenato la reazione dell’associazione milanese proprietaria della piattaforma digitale da cui partono tutte le più importanti scelte del Movimento, e Davide Casaleggio ha deciso di intentare una causa civile al giornale di Bruno Segre per chiedere i danni. La prima udienza è stata fissata per il 14 gennaio in tribunale per un primo tentativo di mediazione. Ma difficilmente si arriverà a un accordo tra i due alle prime battute, perché al”l’Incontro”, al momento, nessuno è intenzionato a fare un passo indietro e rimuovere l’articolo dal Web. D’altra parte è lo stesso Segre a incoraggiare i suoi eredi. «La denuncia di Davide Casaleggio ( che mi sembra del tutto infondata) - dice Segre - dimostra che L’Incontro che ho fondato e diretto per settant’anni continua la sua tradizione di rivista indipendente che ha lo scopo di informare il pubblico su tutti gli aspetti della realtà politica che ci circonda, anche quelli critici affrontati nell’articolo. Mi sorprende che il denunciante non si renda conto che fra i diritti civili di libertà, quello relativo alla libertà di stampa è fondamento e garanzia di ogni ordine democratico». In effetti, l’articolo del giornalista e avvocato esperto di diritto della Rete, è soprattutto un invito a non far cadere nell’oblio il dibattito sui meccanismi che regolano quotidianamente le decisioni nel Movimento fondato da Beppe Grillo. A partire dall’ambiguo intreccio tra le attività private dell’associazione di Davide Casaleggio e la propagandata “democrazia diretta” di cui la piattaforma della stessa associazione si fa garante. « Noi come giornale abbiamo l’ambizione quella di informare e fare approfondimenti in modo libero su temi che ci sembrano decisivi come questo - dice il direttore responsabile Beniamino Bonardi - affermiamo il diritto di discutere senza condizionamenti in un luogo che è aperto a tutte le opinioni, in cui ci si scrive, si ragiona sulle forme di democrazia dei partiti». Senza contare che l’impatto del dibattito non può essere andato molto lontano dalla cinta daziaria della città. L’Incontro è una piccola testata, uscita in formato cartaceo fino alla fine del 2018 quando Bruno Segre, compiuti i cento anni, ha annunciato di voler chiudere per «raggiunti limiti di età». Solo un gruppo di professionisti, tra cui ci sono l’ex presidente dell’Ordine degli avvocati, Mario Napoli, l’avvocato Fabio Ghiberti, l’ex assessore Andrea Bairati ( che è l’amministratore delegato) ha deciso di investirci. «Spegnere questa fiammella di pensiero liberale mi preoccupava guardando ai miei figli e nipoti » aveva detto Rossotto in quella occasione. Ma la trasformazione è ancora in fase di lancio, e il pubblico in pochi mesi è rimasto circoscritto a conoscenti e amici uniti dagli stessi interessi.
Guai a chi tocca il "manovratore". Casaleggio fa causa al giornale fondato dal partigiano Segre. Il Corriere del Giorno l'11 Gennaio 2020. L’azione civile è stata intrapresa nei confronti di un articolo che definiva la piattaforma Rousseau “una distorsione della democrazia”. La prima udienza è stata fissata per martedì 14 gennaio in tribunale per un primo tentativo di mediazione. Ma questi grillini hanno mai letto l’art. 21 della Costituzione Italiana? E’ stato un articolo dal titolo “ Rousseau, una distorsione paradossale della democrazia”(leggi QUI), pubblicato nello scorso mese di novembre 2019 a firma di Riccardo Rossotto, a scatenare la reazione legale dell’Associazione Rousseau proprietaria della piattaforma digitale da cui partono tutte le più importanti scelte del Movimento 5 Stelle, presieduta da Davide Casaleggio il quale ha deciso di intraprendere una causa civile al giornale di Bruno Segre per chiedere un risarcimento danni. La prima udienza è stata fissata per martedì 14 gennaio in tribunale per un primo tentativo di mediazione. Difficilmente alle prime battute si arriverà ad un accordo tra alle parti, perché al” l’Incontro”, attualmente nessuno è intenzionato a fare un passo indietro e rimuovere l’articolo. “Il controllo tentacolare che l’Associazione Rousseau di Davide Casaleggio effettua sistematicamente sulla Rete che dissente o, anche solo, discute della struttura che governa il Movimento Cinquestelle ” come scrive questa mattina il quotidiano La Repubblica è arrivato fino al giornale “L’incontro” fondato nel 1949 dal partigiano Bruno Segre, che diventato da pochi mesi una testata online, grazie a un gruppo di 18 soci torinesi e milanesi che hanno deciso di non disperdere l’eredità dell’avvocato e giornalista che ha fatto dell’impegno un simbolo per la città e non solo. Infatti è stato lo stesso Segre a incoraggiare i suoi eredi. ” La denuncia di Davide Casaleggio ( che mi sembra del tutto infondata) – ha dichiarato Segre – dimostra che L’Incontro che ho fondato e diretto per settant’anni continua la sua tradizione di rivista indipendente che ha lo scopo di informare il pubblico su tutti gli aspetti della realtà politica che ci circonda, anche quelli critici affrontati nell’articolo. Mi sorprende che il denunciante non si renda conto che fra i diritti civili di libertà, quello relativo alla libertà di stampa è fondamento e garanzia di ogni ordine democratico». In effetti, l’articolo del giornalista e avvocato esperto di diritto della Rete, è soprattutto un invito a non far cadere nell’oblio il dibattito sui meccanismi che regolano quotidianamente le decisioni nel Movimento fondato da Beppe Grillo. A partire dall’ambiguo intreccio tra le attività private dell’associazione di Davide Casaleggio e la propagandata “democrazia diretta” di cui la piattaforma della stessa associazione si fa garante. “Noi come giornale abbiamo l’ambizione quella di informare e fare approfondimenti in modo libero su temi che ci sembrano decisivi come questo – dice il direttore responsabile Beniamino Bonardi – affermiamo il diritto di discutere senza condizionamenti in un luogo che è aperto a tutte le opinioni, in cui ci si scrive, si ragiona sulle forme di democrazia dei partiti».Senza contare che l’impatto del dibattito non può essere andato molto lontano dalla cinta daziaria della città. L’Incontro è una piccola testata, uscita in formato cartaceo fino alla fine del 2018 quando Bruno Segre, compiuti i cento anni, ha annunciato di voler chiudere per “raggiunti limiti di età” “. Solo un gruppo di professionisti, tra cui ci sono l’ex presidente dell’Ordine degli avvocati, Mario Napoli, l’avvocato Fabio Ghiberti, l’ex assessore Andrea Bairati ( che è l’amministratore delegato della società editrice) ha deciso di investirci. “Rivendichiamo la nostra libertà di potere affrontare un tema così importante, su queste cose non si può mediare. “Il nostro è un giornalino ed è molto singolare che Casaleggio monitori tutto, anche pubblicazioni così piccole, un controllo che pare essere totale. Non è il nostro caso, ma un giornale di queste dimensioni non può sopportare una causa” ha dichiarato l’ avvocato Ghirardi socio de “L’Incontro” che aggiunge “L’articolo si interroga sui rapporti tra gli enti privatistici che rispondono a Casaleggio e un partito politico, crediamo sia un tema di importanza democratica sul quale la stampa deve essere libera”. “Casaleggio denunci anche noi”. Così in una nota gli esponenti di Radicali Italiani e +Europa a proposito della denuncia da parte di Davide Casaleggio nei confronti della testata torinese “L’Incontro”.
Casaleggio fa causa all’Incontro ma è boomerang: tutti difendono e parlano del giornale torinese. Giulia Merlo il 23 gennaio 2020 su Il Dubbio. Chiesti I danni per un articolo su “Rousseau”. Fallito il tentativo di mediazione. L’autore dell’articolo “incriminato”, Riccardo Rossotto: «indisponibili ad abiure, rettifiche e tantomeno a parlare di danni». Niente mediazione, si va a giudizio. È fallito il tentativo obbligatorio di mediazione del 14 gennaio tra la Casaleggio associati e gli avvocati che hanno rilevato la testata torinese L’Incontro, fondato settant’anni fa dall’avvocato e partigiano Bruno Segre e da meno di un anno rilevato da un gruppo di avvocati torinesi e milanesi, che continuano ad animare la testa online. I tentacoli della Casaleggio, infatti, si sono imbattuti nel web in un articolo dal titolo: «Rousseau, oblio su una distorsione paradossale della democrazia» e hanno scelto le vie leali, intentando una causa civile per danni. Dal canto loro, gli avvocati non hanno alcuna intenzione di arretrare o di eliminare dal sito del giornale l’articolo, come ha ribadito il direttore responsabile, Beniamino Bonardi. Dello stesso avviso anche l’ultracentenario Bruno Segre, che ha voluto partecipare al tentativo di mediazione, alla quale Casaleggio e i suoi difensori erano presente in collegamento Skype. «Sono venuto soprattutto ha scherzato Segre – per ringraziare la controparte, che ci ha fatto una pubblicità incredibile, e poi perché la libertà di stampa è un presupposto della democrazia e un diritto civile fondamentale, che evidentemente la controparte ignora». L’autore dell’articolo, Riccardo Rossotto, legale torinese esperto di diritto della Rete ha spiegato al Dubbio: «In sede di mediazione ci siamo dichiarati indisponibili ad abiure, rettifiche e tantomeno a parlare di danni: la sorpresa per la contestazione di Casaleggio è stata grande: ci aspettavamo che, come da tradizione dell’Incontro, nascesse un confronto dialettico, invece abbiamo ottenuto una risposta giudiziaria che lascia molta amarezza». Per spiegare il contenuto dell’articolo “incriminato” ha aggiunto: «Voi siete la testata più giusta per dirlo, perchè il mio articolo voleva appunto sollevare dubbi sulle relazioni tra 5 Stelle, piattaforma Rousseau e Casaleggio srl, aprendo un dibattito». La Casaleggio, evidentemente, era di altro avviso. L’articolo, tuttavia, ha sortito l’effetto che l’autore auspicava: «Mi auguravo che venisse letto come un grido di allarme e, speravo, appunto di sollevare dubbi nei lettori. Dopo quanto è successo, il tema è tornato centrale e l’Incontro ha ricevuto attestati di stima assolutamente inattesi: ci hanno scritto sindaci, parlamentari e da ultimo anche il Direttore della Fondazione Feltrinelli, Massimiliano Tarantino, che è intervenuto esprimendoci solidarietà, in un video pubblicato sul nostro sito». Lo spirito del giornale, dunque, rimane quello voluto dal fondatore Segre. «Quando ho detto a Bruno della denuncia per il mio articolo – ha raccontato Rossotto – lui è scattato in piedi come un ragazzino e mi ha teso la mano. Mi ha detto che era orgoglioso del fatto che stiamo proseguendo nel percorso che lui ha tracciato settant’anni fa, per una testata che si batte contro ogni intimidazione al valore supremo della libertà di stampa». Come ha notato Segre, tuttavia, la richiesta di danni della Casaleggio rischia di essere un boomerang per la società milanese. La notizia, infatti, è stata riportata da moltissimi giornali nazionali e molti politici ed intellettuali hanno espresso la loro vicinanza all’Incontro, commentando l’articolo di Rossotto. Una pubblicità che senza dubbio ha fatto volare il numero di letture e i click sul sito del periodico online. Quel che si dice l’eterogenesi dei fini.
M5S e la verità di Casaleggio su soldi, lobbying, conflitti d’interesse: «Ecco tutte le falsità contro di noi». Pubblicato lunedì, 30 dicembre 2019 su Corriere.it da Franco Stefanoni. «Se c’è un auspicio per il 2020 per i direttori dei giornali italiani è che ogni tanto si possano occupare anche della Luna e non solo sempre del dito che la indica». Finisce così il lungo post su Facebook di Davide Casaleggio, dove viene elencata una serie di punti ritenuti falsi dal figlio del cofondatore del M5S. «Ho letto molte cose completamente inventate e altre verosimili, ma appositamente incomplete», scrive Casaleggio, «credo sia opportuno chiarire alcuni punti, per evitare che alla prossima occasione si torni a diffondere notizie prive di fondamento. Per difendersi da numerosi attacchi, Casaleggio Associati si è tutelata più volte per vie legali. Dunque al termine delle cause si appurerà se i tanti declamati scoop sono stati tali o solo bufale per ingannare le persone». Casaleggio riporta uno dopo l’altro: «Falso che Casaleggio Associati guadagni di più con il Movimento in Parlamento e al governo. Falso che Davide Casaleggio assiste il Movimento per soldi. Falso che Casaleggio Associati è una società di lobbying. Falso che i nomi dei clienti di una società privata devono essere pubblici. Falso che Moby è stata favorita dal Movimento 5 stelle nella sua attività parlamentare e governativa grazie a Casaleggio Associati. Falso che la Casaleggio Associati è in conflitto di interessi. Falso che Grillo e Casaleggio siano in conflitto tra loro. Falso che Casaleggio scrive il piano dell’innovazione. Falso che Casaleggio è come Cambridge Analytica. Falso che Casaleggio Associati riceve soldi dai parlamentari». Secondo Davide Casaleggio, la sua società ha fatturato 2.7 milioni di euro e ha avuto un utile di 617 mila euro nel 2007 prima del MoVimento, mentre lo scorso anno il fatturato è stato di 2 milioni e l’utile di 181 mila euro. «Se fossi stato interessato ai soli soldi avrei forse potuto aspirare a una nomina da qualche centinaia di migliaia di euro di solo stipendio», spiega, «per le attività di Rousseau e per il Movimento non sono mai stato retribuito, se non dalla soddisfazione di aver contribuito ai risultati ottenuti». «Casaleggio Associati non ha mai fatto attività di lobbying, né attualmente lavora in ambito politico». «Nessun parlamentare o persona con incarichi governativi ha mai ricevuto pressioni di alcun tipo a favore di Moby (o per qualunque altro cliente di Casaleggio Associati) da parte mia o della mia azienda».
Davide Casaleggio su Facebook il 30 dicembre 2019. Il fine d'anno é stato pieno di fuochi d'artificio mediatici. Proprio contestualmente alla chiusura della manovra di bilancio ho letto molte cose completamente inventate e altre verosimili, ma appositamente incomplete. Ho preferito non alimentare le polveri in un momento delicato come la legge di bilancio visto che mi sembravano strumentali alla contrattazione in corso da parte delle forze parlamentari. Ora che la questione é chiusa credo tuttavia opportuno chiarire alcuni punti, per evitare che alla prossima occasione si torni a diffondere notizie prive di fondamento. Per difendersi da numerosi attacchi, Casaleggio Associati si è tutelata più volte per vie legali. Dunque al termine delle cause si appurerà se i tanti declamati scoop sono stati tali o solo bufale per ingannare le persone. Credo tuttavia opportuno chiarire alcuni punti:
1- Casaleggio Associati guadagna di più con il Movimento in Parlamento e al Governo. Casaleggio Associati produceva più utili prima della nascita del movimento. I fatti sono testardi e si possono verificare sui bilanci pubblici. 2.7 milioni di euro di fatturato e 617 mila euro di utile nel 2007 prima del MoVimento, lo scorso anno invece 2 milioni di fatturato e 181 mila euro di utile.
2- Davide Casaleggio assiste il Movimento per soldi. Seppur presente sui giornali neanche fosse una multinazionale, Casaleggio Associati rimane una PMI i cui utili corrispondono a meno di un qualunque stipendio di una nomina governativa di cui se ne vedono a centinaia in questi mesi. Se fossi stato interessato ai soli soldi avrei forse potuto aspirare a una nomina da qualche centinaia di migliaia di euro di solo stipendio. Per le attività di Rousseau e per il Movimento non sono mai stato retribuito, se non dalla soddisfazione di aver contribuito ai risultati ottenuti.
3- Casaleggio Associati é una società di lobbying. Il lavoro di Casaleggio Associati, fin dalla sua nascita, nel 2004 é legato allo studio e la consulenza sull'utilizzo delle tecnologie innovative per le imprese. Casaleggio Associati non ha mai fatto attivitá di lobbying, nè attualmente lavora in ambito politico. Gli unici "esempi" trovati (che non erano nemmeno esempi) dai detrattori, in realtà non sono mai stati clienti di Casaleggio Associati.
4- I nomi dei clienti di una società privata devono essere pubblici. Per permettere ai clienti di comunicare in autonomia i loro successi ed evitare attacchi per meri obiettivi politici, Casaleggio Associati lascia che siano i clienti stessi - se lo vogliono - a comunicare il lavoro svolto per loro. Moby ha deciso di farlo e siamo lieti di aver iniziato a lavorare per loro con un primo contratto legato all'e-commerce giá nel 2011.
5- Moby é stata favorita dal Movimento 5 stelle nella sua attività parlamentare e governativa grazie a Casaleggio Associati. Nessun parlamentare o persona con incarichi governativi ha mai ricevuto pressioni di alcun tipo a favore di Moby (o per qualunque altro cliente di Casaleggio Associati) da parte mia o della mia azienda e qualunque parlamentare che si sia occupato di trasporti lo può confermare. Tanto che in realtà per ció che riguarda i suoi rapporti con lo Stato e con il governo era spesso sotto attacco e non mi risulta alcun vantaggio "politico" ricevuto dall'azienda di traghetti.
6- La Casaleggio Associati é in conflitto di interessi. Il cosiddetto conflitto di interessi si manifesta quando una persona ha potere di firma su due lati dello stesso tavolo di contrattazione. Non sono parlamentare né ho incarichi di governo, non voto e non firmo leggi. Eppure da anni prosegue la litania del conflitto di interessi, con teorie al limite dell’assurdo, in cui viene continuamente messa in discussione la mia integrità e quella di Casaleggio Associati. Sarebbe interessante sapere se i parlamentari che oggi si riempiono la bocca con attacchi nei miei confronti abbiano societá di proprietà o quote in diverse di esse per le quali abbiano presentato direttamente in qualitá di parlamentari, qui sí con potere di firma, delle leggi o emendamenti che abbiano avuto impatto sulle loro aziende. Mi risulta che 120 parlamentari abbiano una quota di un'azienda. Immagino che qualche giornalista le andrá a verificare prima o poi.
7- Grillo e Casaleggio in conflitto tra loro. Certa stampa mi vorrebbe in conflitto perenne con Beppe arrivando ad inventarsi situazioni e virgolettati mai detti. Mentre i virgolettati purtroppo sono difficili da smentire anche se chiaramente falsi, le ambientazioni sono piú facili. Il Corriere della Sera diretto da Luciano Fontana é riuscito ad inventare di sana pianta un mio incontro con Beppe e l'avvocato Ciannavei presso il suo albergo corredato di dettagli e virgolettati su quanto detto. Peccato che non sia così e chiunque mi abbia visto al Campidoglio all'ora indicata dal Corriere lo potrà confermare.
8- Casaleggio scrive il piano dell'innovazione. Quando si parla di problemi di occupazione in Italia, all’origine spesso c’è il fatto che il Paese non ha investito in modo strategico in innovazione. Mentre lo hanno fatto gli Stati e le aziende all'estero che oggi si prendono il mercato italiano. Vedere ridurre la discussione sul Piano Innovazione italiano al fatto che dovesse o meno avere il mio nome tra i ringraziamenti é veramente avvilente. Sono contento di aver messo a disposizione gratuitamente tutti gli studi che ho pubblicato in questi anni e spero siano serviti nell'elaborazione della strategia. Se puó servire a parlare di innovazione in Italia si tolga pure il mio nome dai ringraziamenti di quel documento. Ma se non si riesce neanche a parlare del merito di quella strategia, non lamentiamoci quando l'ennesima società italiana chiuderà per non aver investito per tempo o non aver avuto le infrastrutture statali necessarie.
9- Casaleggio come Cambridge Analytica. Tra le varie storie di questi giorni si é anche parlato di un'applicazione realizzata sei anni fa (6!) da parte di Casaleggio Associati quando ancora gestiva il blog di Beppe Grillo. L'applicazione era stata realizzata secondo i principi di legge e secondo le indicazioni di Facebook, come migliaia di applicazioni analoghe, e i dati sono stati utilizzati esclusivamente per le funzioni pubbliche a tutti e poi cancellati. Chiunque abbia scritto il contrario é già stato invitato in tribunale per diffamazione.
10- Casaleggio Associati riceve soldi dai parlamentari. Casaleggio Associati non gestisce in alcun modo soldi dei parlamentari o del Movimento 5 stelle. Nonostante decine di smentite, ancora oggi testate a livello nazionale continuano a diffondere questa informazione completamente falsa. Non c’è alcuna questione di “opacità” o “ruoli poco chiari”, è solo una bufala. Chi ha insistito su questo punto in passato, ha giá perso in tribunale.
Se c'è un auspicio per il 2020 per i direttori dei giornali italiani é che ogni tanto si possano occupare anche della Luna e non solo sempre del dito che la indica.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 2 gennaio 2020. Un triangolo che vede impegnati: un' importante azienda farmaceutica mondiale, una società di consulenza digitale milanese, e infine una società di web marketing e dati ben nota, la Casaleggio associati. È una stagione assai propizia, per le attività economiche di Davide Casaleggio. La Stampa è in grado di rivelare un altro lavoro arrivato a Casaleggio, che è anche presidente dell' Associazione Rousseau, l' ente che gestisce dati e iscritti del primo partito in Parlamento. Il lavoro di cui parliamo è una ricerca legittimamente affidatagli, ma la cosa va conosciuta, poiché Casaleggio, secondo la definizione dell' Uif di Bankitalia, è persona «politicamente esposta». E tutti i suoi clienti interessano la pubblica opinione. I fatti sono questi: il 21 giugno del 2018 si è tenuto a Milano un evento riservato (i presenti erano impegnati a tenerlo tale) dal titolo "La sanità esponenziale. Come l' innovazione digitale migliorerà la salute". La Sg-Company - una società di consulenza digitale nei campi B2B, B2C e BTL, che valorizza diverse controllate - aveva organizzato una tavola rotonda e un rapporto di consulenza per Gilead Sciences, grande azienda biofarmaceutica americana, con una divisione italiana. «La ricerca - sta scritto nella mail di invito firmata da Ludovico Landi di Chiavenna, di Sg Company - verrà presentata da Davide Casaleggio a un panel selezionato di esperti e medici a porte chiuse () Gilead ha voluto che l' evento si tenesse in maniera riservata, a porte chiuse, senza darne visibilità all' esterno», avvertiva Landi. Invitati: i professori Adriano Lazzarin, Massimo Galli, Enzo Grossi, Francesco Saverio Mennini, Riccardo Baicchi e Mauro Zaninelli (dell' ultimo non si assicurava la presenza). «Oltre ovviamente ai vertici di Casaleggio associati, lo Studio Legale VisVerbi (chiamato curiosamente, nel documento, "studio legale") e Core Sg Company». Le fonti di questa informazione ci avevano parlato di una consulenza di entità «assai rilevante». Abbiamo chiesto notizie a Gilead, la quale ci ha risposto che il rapporto era stato offerto da Sg Company a Gilead, che aveva deciso di accettare: «Gilead ha ricevuto una proposta di collaborazione da parte di SG Core alla stesura di un rapporto sul tema "La Sanità esponenziale, come l'innovazione digitale migliorerà la salute", rapporto la cui redazione la SG Core ha affidato alla Casaleggio Associati. Il valore riconosciuto da SG Core alla Casaleggio per la stesura del rapporto è di 15mila euro, in linea col valore di mercato di analisi di natura simile. Il rapporto è poi stato oggetto di una tavola rotonda che ha avuto luogo a Milano il 21 Giugno di quest' anno con clinici, mondo accademico ed istituzioni». Altri 10mila euro, sostiene Gilead, sono stati corrisposti appunto per l' organizzazione della tavola rotonda, per un totale di 25mila euro. Abbiamo quindi chiesto a Landi, di Sg Company: l'importo è stato pagato da chi a chi? Da Gilead a voi, che poi avete pagato la Casaleggio? «Da Gilead a noi. Il nostro progetto prevedeva di far realizzare la ricerca e organizzare un evento per presentarla ad operatori, medici, luminari eccetera. Cosa che per altro abbiamo fatto», ha risposto Landi, che aggiunge anche: «Confermiamo di avere commissionato alla Casaleggio Associati la ricerca "Innovazione e Salute" in quanto la società suddetta è riconosciuta come una delle maggiori esperte su queste tematiche. Al momento non abbiamo altri rapporti commerciali con la Casaleggio». In realtà esistono numerose società di consulenza con competenze assai maggiori sulla materia specifica. Ma è stato scelto di affidare la ricerca alla Casaleggio associati. Abbiamo chiesto un commento anche a Casaleggio, attraverso il suo ufficio stampa Visverbi. Non abbiamo ottenuto risposta. Inutile dire quanto la sanità sia uno snodo chiave anche di questa stagione, in politica. Il M5S ha guidato il ministero nel Conte 1, con la ministra Giulia Grillo. Nel Conte 2 la casella sanità è toccata al partito di Massimo D' Alema. Gilead, a novembre, ha intanto annunciato che anche il farmaco Gilead contro il linfoma (oltre al farmaco Novartis) è stato ammesso alla rimborsabilità dall' Agenzia italiana del farmaco. Non risultano interventi diretti di Casaleggio su questa vicenda.
Da marcocanestrari.it il 2 gennaio 2020. Casaleggio è un po’ così: gli parte l’embolo e conferma quel che vuole smentire, tra uno strafalcione grammaticale e l’altro. Non so da dove iniziare il commento al post di fine anno di Davide Casaleggio. C’è un errore grammaticale nelle prime 4 parole, è riuscito a sbagliare tutti – dicasi tutti – gli accenti delle “e”, come al solito conferma quanto vorrebbe smentire. Come sempre, nell’arco di quest’anno. Non era facile farlo con questa costanza per dodici mesi. Il post merita il commento ragionato per due motivi: non lo ha fatto nessuno, tra i giornalisti e commentatori, e soprattutto è un pezzo di rara comicità contenutistica e linguistica.
L’introduzione. Partiamo dall’introduzione dei soliti dieci punti che Casaleggio espone. Come saprete, nelle ultime settimane si è molto parlato di Casaleggio Associati, per vari motivi. Emerge sempre più chiaramente che la posizione di Davide Casaleggio, presidente dell’azienda e dell’Associazione Rousseau, è in palese conflitto d’interessi. Il potere d’influenza dell’Erede sta diventando ingombrante. Davidavi imposta il suo messaggio, quindi, con l’intento di smorzare questa percezione. Lui è solo un tecnico che dà una mano a titolo gratuito, ha sempre detto. A conferma, nei primi paragrafi dice: “Ho preferito non alimentare le polveri in un momento delicato come la legge di bilancio visto che mi sembravano strumentali alla contrattazione in corso da parte delle forze parlamentari.” Rileggete ad alta voce, due volte. Fatto? Perfetto. Sì, apparentemente non ha senso. Non in italiano, almeno. Non si capisce cosa voglia dire che “le polveri”, se “alimentate” (con cosa? Curcuma? Pizza?) dovrebbero “essere strumentali da parte delle forze”. Ma voi avete me, che in tre anni e mezzo ho potuto imparare a tradurre dal casaleggese all’italiano. Quello che vorrebbe dire è che, responsabilmente, ha evitato di parlare durante la formazione della legge di bilancio. Ohibò! Un suo sospiro quindi avrebbe potuto influenzare il governo! E chi l’avrebbe detto che Casaleggio ha una forte influenza sul partito e sul governo del Paese!!! Insomma, come sempre quando gli parte l’embolo e non consulta il suo ufficio stampa, che almeno avrebbe corretto la grammatica e la sintassi, alla seconda frase si è legato il cappio attorno ai gioielli di famiglia, confermando con le sue parole quello che avrebbe dovuto, e voluto, smentire.
I conti dell’azienda. Come sempre da quando il Movimento è al governo e Casaleggio Associati ha ripreso a macinare fatturato, Davide cerca di negare l’evidenza. In questo caso, cita un paio di dati presi arbitrariamente dallo storico dei bilanci dell’azienda che, apparentemente, dimostrano che il M5s è stato causa di perdite finanziare per la società di famiglia. Lo è stato in alcuni momenti, appena prima della morte di Gianroberto Casaleggio, pessimo manager. Quando Davide subentra e prende il controllo di partito e azienda, opera immediatamente una riorganizzazione delle risorse, spostando Pietro Dettori da Casaleggio Associati a Rousseau, costituita in circostanze molto singolari mentre suo padre, in condizioni gravi di salute, era sul letto di morte. Grazie al Partito, salva i conti dell’azienda che, nel 2018 – primo anno del M5s al governo – raddoppia il fatturato e quasi decuplica gli utili. Qui trovate un’analisi più approfondita. Casaleggio Continua spiegando che no, non assiste il Movimento per soldi. Non specifica chi abbia insinuato una simile corbelleria, ma tiene a precisare che, se volesse, potrebbe ottenere una nomina da “centinaia di migliaia di euro di solo stipendio”. Confermando di nuovo la sua influenza sul governo, a cui potrebbe chiedere una nomina col solo schiocco delle dita, per ottenere un sacco di soldi “di solo stipendio”. Per non parlare del resto. Quale sia il suo retropensiero sul resto, lo lascio immaginare al lettore. Ancora una volta, conferma il suo potere di fatto, che deriva dall’essere sostanzialmente il capo del primo partito di governo. Lo scrivo, chiaro, qui a futura memoria, caso mai qualcuno deputato per legge a farlo volesse appurare la circostanza.
Le attività sospette di Casaleggio Associati. Di attività sospette non parlo io ma l’ufficio anti riciclaggio della Banca D’Italia. Attraverso degli accertamenti della Guardia di Finanzia, si è appurata l’esistenza di alcuni contratti che hanno portato a movimentazioni sospette di denaro. In particolare, sotto controllo è stato messo il rapporto contrattuale con Moby, azienda concessionaria di Stato. Perché il contratto Casaleggio-Moby è ritenuto a rischio? Perché Davide Casaleggio è Persona Esposta Politicamente (PEP). Significa che il suo ruolo politico viene considerato quello di dirigente nazionale di un partito. Uno status che impone il controllo perché, potenzialmente, lo mette tecnicamente in condizione di eventualmente commettere reati tipici come corruzione o traffico illecito d’influenze. Per questo motivo, le persone con quello status sono sottoposte alla verifica delle movimentazioni sui conti correnti loro, dei familiari e delle loro aziende. Moby ha un contratto che prevede, tra le altre cose, la “sensibilizzazione” delle istituzioni circa delle normative a cui l’azienda è interessata. Solo che le “istituzioni” sono il partito che Casaleggio guida e 600.000 euro più bonus sono un sacco di soldi. Il problema non è, come vorrebbe far credere Casaleggio, che Moby avrebbe ottenuto effettivamente vantaggi da questo contratto nel suo rapporto col governo. Sarebbe vietato anche che qualcuno gliel’avesse ventilato. Per questo sono in corso gli accertamenti. E in effetti, date le circostanze, la questione potrebbe essere anche più grave. Casaleggio conferma che Moby era “sotto attacco” dei responsabili trasporti del governo. Il ministro competente era Toninelli che, guarda un po’, è stato poi rimosso dal suo incarico. Fatto che a Moby non può che far piacere. Tutto bene?
Il conflitto di interessi di Davide Casaleggio. Non è Casaleggio Associati ad essere accusata di conflitto di interessi, come scrive l’Erede, ma proprio Davide Casaleggio. Probabilmente i suoi soci si sono stancati di lavorare sotto questa costante pressione. Però se la definizione di conflitto d’interessi fosse quella di Davide (“quando una persona ha potere di firma su due lati dello stesso tavolo di contrattazione”), allora con Berlusconi abbiamo preso tutti un’enorme cantonata. No, non c’entra il potere di firma, ma l’influenza (c’è pure un apposito reato) che una persona può operare per cui può decidere di fare i propri interessi o quelli della collettività. Ma qui il conflitto d’interessi non è presunto: è certo. Come già detto, Casaleggio è Persona Esposta Politicamente. È un dirigente politico nazionale, quindi qualsiasi suo interesse privato è potenzialmente in conflitto con quello pubblico. E fa niente se la considera una “litania”, questa denuncia. Continueremo a recitarla finché l’inferno non ghiaccerà, se sarà necessario. Nonostante le minacce che Casaleggio esprime nei confronti del parlamento, alludendo a “120 parlamentari con quote in un’azienda”. Ancora una volta, mettendo se stesso sullo stesso piano di ruoli apicali della politica italiana. Un genio. Questo problema, peraltro, non si manifesta solo per il contratto con Moby. Casaleggio, per la natura delle sue attività commerciali, non dovrebbe nemmeno parlare dei piani sull’innovazione del Governo. Invece, non solo compare nei ringraziamenti del Ministro ma conferma di aver contribuito alla sua formazioni facendo consulenza gratuita. Casaleggio ha rapporti commerciali anche con società di Fintech, di Food Delivery, di logistica. Tutte legittimamente interessate a normative che favoriscano i rispettivi business. Ma Casaleggio non se ne dovrebbe occupare, avendo responsabilità politiche che possono favorire quelle commerciali. Che quella consulenza “gratuita” gli porti vantaggi indiretti? Piccola nota di colore è il passaggio in cui rassicura sui suoi rapporti con Grillo. L’osservazione più interessante è quella in cui rivela di essere stato al Campidoglio quando il Corriere sosteneva fosse a colloquio col suo avvocato. Ma, di grazia, cosa ci faceva in Campidoglio visto che non è nemmeno residente a Roma? Parlava di faccende politiche o amministrative col sindaco o col suo staff? Di business? Possiamo saperlo?
Cambridge Analytica. Infine, tra minacce di querela assortite come suo solito, Casaleggio precisa di non avere nulla a che fare con Cambridge Analytica. Il riferimento è allo scoop di Nicola Biondo sull’applicazione sviluppata da Casaleggio Associati che, potenzialmente, può avergli permesso di profilare milioni di profili Facebook senza che gli interessati ne fossero al corrente. Su questo indaga, come al solito, il Garante della Privacy. Che peraltro dovrà essere rinnovato: di nuovo il conflitto di interessi, visto che Casaleggio ha potere di influenza su questa nomina ed è – direi quasi costantemente – sottoposto a verifiche sulle sue condotte da parte dell’Autorità. Sono sicuro che il 2020 ci regalerà meravigliosi sviluppi di queste vicende. Io ho le dita che mi prudono, chissà che il Nostro non ci regali argomenti per nuovi approfondimenti che valgano una nuova fatica letteraria!
Simone Canettieri per “il Messaggero” il 31 dicembre 2019. Se Beppe Grillo è ancora incerto sul consueto «controdiscorso» di questa sera (un forfait sarebbe un evento storico), Davide Casaleggio saluta il 2019 andando all'attacco. Il figlio di Gianroberto, socio di Rousseau ed erede dell'azienda di famiglia, con un lungo post su Facebook si toglie diversi macigni dalle scarpe. A partire dalle accuse sul presunto conflitto d'interessi che riguarderebbe la sua azienda, la Casaleggio associati, e le attività parlamentari e governative del M5S. «Non sono parlamentare né ho incarichi di governo, non voto e non firmo leggi. Sarebbe interessante - spiega Casaleggio - sapere se i parlamentari che oggi si riempiono la bocca con attacchi nei miei confronti abbiano società di proprietà o quote in diverse di esse per le quali abbiano presentato direttamente in qualità di parlamentari, qui sì con potere di firma, delle leggi o emendamenti che abbiano avuto impatto sulle loro aziende. Mi risulta che 120 parlamentari abbiano una quota di un'azienda». Il problema, però, è che tra i parlamentari che lo accusano ci sono anche quelli del Movimento 5 Stelle. Molti dei quali scontenti, per usare un eufemismo, del finanziamento obbligatorio che sulla carta devono erogare tutti i mesi a Rousseau, la piattaforma di democrazia digitale creata appunto Casaleggio jr. «Per le attività di Rousseau e per il Movimento non sono mai stato retribuito, se non dalla soddisfazione di aver contribuito ai risultati ottenuti». Fatta questa premessa, «la Casaleggio associati non gestisce in alcun modo soldi dei parlamentari o del Movimento 5 stelle». Il cuore dell'autodifesa del big del M5S è però sul caso Moby. Secondo una segnalazione dell'unità antiriciclaggio di Bankitalia l'armatore Onorato avrebbe stipulato dei contratti con la Casaleggio Associati (600mila euro) e con Beppe Grillo. La notizia è uscita nelle scorse settimane, tra le piaghe dell'inchiesta sulla fondazione di Matteo Renzi. Anche su questo punto Casaleggio dà la sua versione: «Nessun parlamentare o persona con incarichi governativi ha mai ricevuto pressioni di alcun tipo a favore di Moby (o per qualunque altro cliente di Casaleggio Associati) da parte mia o della mia azienda e qualunque parlamentare che si sia occupato di trasporti lo può confermare». «Tanto che, in realtà - spiega - per ciò che riguarda i suoi rapporti con lo Stato e con il governo era spesso sotto attacco e non mi risulta alcun vantaggio politico ricevuto dall'azienda di traghetti». Ma l'ombra ingombrante di Casaleggio è sinonimo anche di polemiche a Palazzo Chigi. Il piano per l'innovazione è stato stoppato dal Pd per via dei ringraziamenti del ministro Pisano proprio al figlio di uno dei fondatori del Movimento. Anche qui per un presunto conflitto d'interessi. «Un fatto veramente avvilente», sottolinea Casaleggio. Che conclude: «Sono contento di aver messo a disposizione gratuitamente tutti gli studi che ho pubblicato in questi anni e spero siano serviti nell'elaborazione della strategia. Se può servire a parlare di innovazione in Italia si tolga pure il mio nome dai ringraziamenti di quel documento». Sarà che è la fine dell'anno, sarà che i mondo grillino è alle prese con le restituzioni, ma l'uscita di Casaleggio non riscuote molto interesse né commenti. Eccetto il deputato del Pd Filippo Sensi: «Pare che Casaleggio trovi avvilente la polemica scaturita dal suo credit al Piano Innovazione della ministra Paola Pisano. Io, pensa un po', trovo avvilente che la ministra, già assessora della Appendino, paghi pegno a Casaleggio in calce al suo documento».
Davide Casaleggio, dubbi sui suoi affari: cosa non torna ai M5s sulle consulenze per il governo. Libero Quotidiano il 26 Dicembre 2019. I cospicui affari di Davide Casaleggio nel mirino dei Cinque Stelle. Tra le più agguerrite critiche c'è senz'altro quella dell'ex grillina Elena Fattori: "Davide organizzava i gruppi di lavoro per il programma elettorale e poi metteva in contatto gli organizzatori di questi gruppi con persone che dicevano di avere affari in comune con lui". Fattori ha riferito a Linkiesta di aver incontrato Gianfranco Grieci, un imprenditore nel campo dell'agroalimentare, che le avrebbe detto di "lavorare a un progetto con Davide Casaleggio". Circostanza però subito smentita dalla Casaleggio Associati. A puntare il dito contro il figlio di Gianroberto, sul presunto "conflitto di interessi" dovuto alla consulenza prestata al governo per il Piano Innovazione (dove c'era anche la sua azienda), è l'ex dipendente della srl milanese Marco Canestrari. In un'intervista a La Repubblica, l'informatico si è chiesto: "Casaleggio ottiene consulenze perché è bravo o perché può condizionare il governo?". Una questione, questa, che potrebbe arrivare presto in Aula, così come ammettono gli stessi azzurri.
Domenico Di Sanzo per ilgiornale.it il 26 dicembre 2019. Chi è dentro, di solito prima di criticarlo chiede l'anonimato. Chi poi va fuori lo mette subito nel mirino. All'ultima categoria appartengono alcuni ex grillini, o personaggi che comunque gravitavano intorno all'universo del M5s. Tra di loro, l'ultima a parlare è stata la senatrice Elena Fattori, uscita dal Movimento due mesi fa dopo aver votato contro i due decreti sicurezza voluti dal leader della Lega Matteo Salvini. In un'intervista al giornale online Linkiesta ha rivelato, tra le altre cose: «Davide organizzava i gruppi di lavoro per il programma elettorale e poi metteva in contatto gli organizzatori di questi gruppi con persone che dicevano di avere affari in comune con lui». Fattori ha detto anche di aver incontrato nel suo ufficio Gianfranco Grieci, un imprenditore nel campo dell'agroalimentare, che le avrebbe detto di «lavorare a un progetto con Davide Casaleggio». Circostanza smentita dalla Casaleggio Associati, che ha precisato che Grieci non è mai stato cliente dell'azienda guidata dal presidente dell'Associazione Rousseau. E ieri, sempre a proposito dei presunti conflitti di interesse di Casaleggio, è tornato sulla vicenda l'ex dipendente della srl milanese Marco Canestrari. In un'intervista a La Repubblica, l'informatico si è posto delle domande sull'operato di Casaleggio, dopo la consulenza prestata al governo per il Piano Innovazione e il contratto del guru grillino con la società dell'armatore Onorato: «Casaleggio ottiene consulenze perché è bravo o perché può condizionare il governo?» si è chiesto l'ex dipendente e coautore, insieme al giornalista Nicola Biondo, dei libri Supernova e Il sistema Casaleggio. Biondo, che è stato capo dell'ufficio comunicazione del M5s alla Camera, ha firmato l'intervista alla Fattori. Ed è un altro personaggio adesso attivissimo nella denuncia dei presunti conflitti di interesse di Casaleggio. Con una battuta al veleno, al Giornale dice: «Siamo passati da Salvini che chiedeva i pieni poteri per sé, a Casaleggio che vuole i pieni poteri per il suo business». Poi chiede a Casaleggio: «Dato che lui ha fatto una bandiera della trasparenza, dovrebbe rendere pubblica la lista dei suoi clienti e dei suoi fornitori». Una questione, quella degli affari del figlio del fondatore del M5s, che secondo alcuni rumors parlamentari potrebbe arrivare presto in Aula. Si parla di richieste formali al governo da parte dell'opposizione, con Forza Italia in prima linea, di riferire ufficialmente sulle ombre di conflitto di interessi che aleggiano sulla società del capo dell'Associazione Rousseau. Un ex grillino che è finito in Tribunale per aver criticato Casaleggio è Giovanni Favia. Già astro nascente del Movimento, ex consigliere regionale del M5s in Emilia Romagna, infine espulso senza tanti complimenti. È stato querelato dal fondatore Gianroberto, perché nel 2014 aveva espresso dubbi sui bilanci della Casaleggio Associati in merito ai guadagni che arrivavano dal Blog di Beppe Grillo, allora gestito dalla società milanese. Molto più duro l'ex attivista napoletano Angelo Ferrillo, poi espulso per alcune frasi su Facebook, che è stato querelato da Casaleggio nel 2015 per averlo definito «un fallito e truffatore con sede legale a Milano».
Decreto innovazione, no di Italia Viva: “Vi ha contribuito Casaleggio”. Jacopo Bongini il 21/12/2019 su Notizie.it. Italia Viva ha bloccato il piano per l'innovazione contenuto all'interno del decreto milleproroghe. Nel testo vi è una menzione a Davide Casaleggio. Italia Viva ha deciso di bloccare l’iter legislativo del cosiddetto decreto innovazione, presentato lo scorso 17 dicembre e contenuto all’interno del decreto milleproroghe. Il partito di Matteo Renzi ha infatti sollevato alcune perplessità in merito al piano per l’innovazione digitale del Paese, che nei suoi documenti ufficiali ringrazia Davide Casaleggio inserendolo tra i contributori del testo. Alla richiesta dei renziani di sospendere fino a nuovo ordine il dibattito sul decreto innovazione si è aggiunto anche il ministro della Cultura del Pd Dario Franceschini. La presa di posizione di Italia Viva (esplicitata dalla capodelegazione del partito Teresa Bellanova) arriva a seguito della pubblicazione di un articolo de Linkiesta in cui viene mostrato come nel piano dal titolo “2025. Strategia per l’innovazione tecnologica e digitale del Paese” la ministra per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione Paola Pisano – espressione del M5s – ringrazi esplicitamente l’eminenza grigia del Movimento come contributore del testo del decreto. Nel giustificare i suddetti ringraziamenti al figlio del fondatore del M5s, il ministero ha spiegato che si trattavano semplicemente di note a titolo personale scritte di suo pugno dalla ministra Pisano: “[Con Davide Casaleggio non c’è stata] nessuna consulenza, di nessun tipo. […] I ringraziamenti sono personali e vanno alle tante persone che, nel corso di questi mesi, sono stati importanti interlocutori e hanno contribuito con idee e stimoli”.
Le parole di Dario Franceschini. A fianco di Italia Viva si è successivamente schierata l’intera delegazione del Pd con a capo il ministro della Cultura Dario Franceschini, anche lui perplesso riguardo la citazione a Casaleggio nel testo del decreto. L’ex segretario Dem ha infatti richiesto ulteriore tempo per esaminare dettagliatamente il piano: “Oggi non c’erano le condizioni per approvare in Consiglio dei ministri il Piano per l’Innovazione digitale. C’è bisogno di un approfondimento e le norme, frutto di un’intesa nella maggioranza, potranno essere inserite in un emendamento in sede di conversione del decreto”.
Emanuele Lauria per repubblica.it il 21 dicembre 2019. Il piano del governo per l'innovazione tecnologica e digitale del Paese? E' stato scritto "con il contributo" di Davide Casaleggio. Ovvero del figlio del co-fondatore di 5 Stelle ma soprattutto del titolare di un'azienda privata che questo tema ha al centro dei suoi interessi. A rendere pubblica la consulenza fornita da Casaleggio non è una chat segreta dei grillini ma direttamente colei che quel piano l'ha firmato, ovvero il ministro per l'Innovazione Paola Pisano, ex assessore comunale dei 5S nella giunta torinese di Chiara Appendino: il nome di Casaleggio, infatti, figura fra gli esperti ringraziati in fondo al documento di trenta pagine pubblicato sul sito istituzionale del dicastero. Una circostanza che solleva l'ombra di un non secondario conflitto d'interessi dentro il perimetro del governo giallo-rosso. A che titolo e in che modo Casaleggio ha dato un apporto alla "strategia 2025 per la digitalizzazione del Paese"? Lo staff della ministra Pisano fa sapere che il piano è stato scritto "di proprio pugno" dall'esponente dell'esecutivo Conte e che "i ringraziamenti sono personali e vanno alle tante persone che nel corso di questi mesi sono stati importanti interlocutori". Ma questa affermazione, secondo l'ex responsabile della comunicazione M5S alla Camera Nicola Biondo, che oggi si occupa del caso su "Linkiesta", "è la conferma che Casaleggio è interlocutore del governo sui temi che intrecciano i suoi affari privati e le consulenze della sua impresa". Fra gli altri esperti ingraziati per il contributo offerto - senza alcun corrispettivo - anche un altro imprenditore in buoni rapporti con Casaleggio come Vincenzo Di Nicola, che ha progettato un sistema di voto anonimo su blockchain per conto dell'associazione Rousseau, dopo i problemi sanzionati dal Garante per la privacy. E poi altre personalità più o meno conosciute, non legate alla galassia pentastellata, accademici e rettori come Guido Saracco e Marco Calderini, Roberto Cingolani e Giorgio Ventre, l'ex presidente del giovani di Confindustria Marco Gay, l'ex ministro Francesco Profumo. "Io il braccio destro di Davide Casaleggio? Ma no...", aveva detto il giorno del giuramento la ministra Pisano, aggiungendo che "Casaleggio è una persona molto attenta e competente". "L'ho seguita negli anni - aggiunse - è persona attenta e competente e il suo modello di democrazia digitale è da tenere in considerazione". Ma soprattutto la Pisano, a inizio ottobre, difese il titolare della Casaleggio associati dalle polemiche per la sua relazione all'Onu su invito del governo italiano: "Non è stato un endorsement", precisò la ministra in un question time alla Camera. Davide Casaleggio, di certo, rimane al suo fianco. Rialimentando sospetti sulla terzietà del governo rispetto a un imprenditore privato.
· La candidatura a punti.
Il dentista di Grillo: anch’io in lista a 83 anni. L’ho detto a Beppe, i suoi non sono all’altezza. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. «In famiglia me lo rimproverano sempre. Inutile criticare se quando ti chiedono di impegnarti in prima persona rifiuti». Ed è così che Flavio Gaggero, all’alba degli 83 anni, per la prima volta ha rotto gli indugi (sarà nella lista di Ferruccio Sansa nella corsa alla conquista della Regione Liguria). Una scelta opposta a quella di una decina d’anni fa quando, nel lanciare l’idea del Movimento 5 Stelle sulla collina di Pegli in una serata con Adriano Celentano e Gino Paoli, il suo amico e cliente Beppe Grillo gli chiese di spendersi in prima persona («ho ricevuto tanto dalla vita e voglio provare a restituire qualcosa. Mi dai una mano?»). Allora rifiutò, oggi è pronto a dare il suo contributo in una lista civica. Socialista anarchico, amico di famiglia di Sandro Pertini e molto legato a don Andrea Gallo negli ultimi anni della sua vita, negli articoli di giornale è finito spesso per essere il dentista dei genovesi vip, da Renzo Piano a Gino Paoli (oltre a Grillo, naturalmente). Ma Gaggero è tanto e molto di più perché cura gratuitamente gli immigrati e presta la sua opera per chiunque ne abbia bisogno sei giorni su sette e per non meno di 14-16 ore al giorno. «Ho deciso di accettare la proposta di Ferruccio Sansa perché credo che tutti debbano dare il loro contributo per cercare di battere questa destra» osserva. «Il candidato governatore lo conosco fin da quando era ragazzino e sono molto amico del padre Adriano, magistrato ed ex sindaco. So in quali valori crede, sono uguali ai miei. Ferruccio è cresciuto bevendo il latte della politica. E anche da giornalista se ne è sempre preoccupato. Ecco perché mi fido». E non è una sottolineatura casuale. Rimanda a tante discussioni che Gaggero ha sostenuto, tra una visita e l’altra nel suo studio, con Grillo. L’ultima è di poco più di un mese fa. «A Beppe l’ho detto tante volte. Gli ideali tuoi e del Movimento 5 Stelle sono apprezzabili. Ma le persone che li devono portare avanti, purtroppo, non sono all’altezza». L’anziano dentista torna con la memoria alla sua gioventù, quando, grazie all’amicizia con suo padre Giovanni (segretario della sezione socialista di Pegli), Pertini lo ammise tra gli allievi della sua scuola di politica. «Siete onesti e quindi siete socialisti — ci diceva quello che poi sarebbe diventato uno dei più stimati presidenti della Repubblica — ma questo non basta. Bisogna saper fare politica. Studiare i problemi, ascoltare le esigenze della gente, provare a trovare soluzioni. Altrimenti, lasciate perdere». Malgrado quella lezione, nemmeno Gaggero ha voluto fare politica in prima linea. «Ho seguito l’attività del Psi, dando una mano in sezione, fino a che non è arrivato Craxi. Poi mi sono allontanato. Quella non era più la mia politica». Il suo impegno «pubblico» lo ha riversato nel sociale, aiutando gli ultimi. Come fa ogni giorno con gli immigrati della comunità di don Gallo («era come un fratello»). Alla «chiamata alle armi» di Sansa ha risposto obbedisco. «Ma non ho alcuna velleità — mette in chiaro Gaggero —. So bene che sarà una partita difficilissima, direi disperata. Il governatore uscente Toti può contare su uomini e mezzi che gli vengono messi a disposizione da più parti, noi abbiamo solo un gruppo di straordinari volontari. Ma è una battaglia ideale che merita di essere combattuta». Vada come vada, la Liguria ha però già portato a casa un obiettivo per cui il dentista si è speso più volte con Grillo (nel 2013 fece perfino da intermediario con Pierluigi Bersani che cercava un abboccamento per un’alleanza). «Questa è l’unica regione dove il candidato è sostenuto da un’intesa tra Pd e M5S — spiega Gaggero —. È una strada sensata, più che obbligata. I 5 Stelle hanno ottimi ideali ma personale politico non all’altezza. Tra i democratici, invece, le persone di valore non mancano. Sì, a me pare un matrimonio perfetto».
Gaggero, il dentista di Grillo (e dei poveri) in lista con Sansa in Liguria: "Sono socialista e anarchico. Il mio maestro? Pertini". È stato compagno di scuola di Renzo Piano, medico di Gino Paoli, amico di vecchia data del cofondatore M5S. Fuori dal suo studio c'è la fila di persone che non possono pagare. Ora si candida alle Regionali: "Sono entusiasta dell'alleanza. Il M5s porta i temi ambientali e sociali, ma gli manca l'esperienza politica che ha il Pd". Michela Bompani su La Repubblica il 27 agosto 2020. "Finalmente ho trovato cosa fare quando andrò in pensione": Flavio Gaggero, 83 anni, amico di don Gallo, compagno di scuola di Renzo Piano, dentista di Beppe Grillo e Gino Paoli, ma anche di tutti quelli che non avrebbero i soldi per curarsi, oltre a lavorare ancora 18 ore al giorno nel suo studio di Pegli, è il candidato senior nella lista di Ferruccio Sansa, in corsa per la presidenza della Regione in Liguria, sotto le insegne incrociate di Pd, M5s e sinistre. Sopracciglia folte, capelli candidi e arruffati, sprizza entusiasmo adolescenziale per questa nuova avventura, che poi è declinazione di ciò che fa da una vita: mettersi al servizio degli altri.
Dottor Gaggero, perché ha deciso di candidarsi?
"L'ha deciso Sansa, non ho mica potuto scegliere. Mi ha telefonato e mi ha informato: guarda che ti ho messo in lista. È un amico carissimo, cresciuto a latte e politica. Così ho finalmente trovato cosa fare quando andrò in pensione, tra vent'anni. Mi tormentava non sapere "cosa farò da grande", come dice il mio amico Gino Paoli. Ora lo so: il consigliere regionale".
Anche Beppe Grillo le aveva chiesto di candidarsi dieci anni fa: perché gli disse no?
"Allora, non me la sentivo di abbandonare tutto".
La chiamano dentista dei Vip, ma fuori del suo studio c'è la fila di persone che non hanno la possibilità di pagarla. Anche don Gallo non la voleva pagare?
"Non voleva curarsi i denti per non "sprecare" denari che voleva usare per la sua comunità. Lo hanno trascinato da me i suoi collaboratori. E siamo diventati grandi amici. Lo so, il mio studio è un pellegrinaggio continuo. Ma quando c'è da aiutare, bisogna aiutare, me lo hanno insegnato mio padre e Pertini".
Come ha conosciuto Pertini?
"Mio padre era socialista e antifascista. E Pertini era amico di famiglia e ci diceva: 'Siete onesti e quindi siete socialisti'. Così sono socialista, anarchico però".
Adesso è anche giallorosso: è vero che pur di costruire l'alleanza ha anche litigato con Grillo?
"Abbiamo discusso un po'. Però Grillo, quando si è rotto il governo gialloverde, mi ha detto: 'Pensa in che mani eravamo'. Sono entusiasta dell'alleanza. Il M5s porta i temi ambientali e sociali, ma gli manca l'esperienza politica che ha il Pd. Cui serviva il rinnovamento che gli assicura il M5s".
Dottor Gaggero casa farà, se sarà eletto?
"Voglio entrare nella commissione sanità e riorganizzare i pronto soccorso. Quando accompagnai Renzo Piano all'inaugurazione del santuario che ha progettato per Padre Pio, a San Giovanni Rotondo, lui andò nella chiesa, io marinai la cerimonia e andai a visitare l'ospedale: quello è il modello che vorrei realizzare".
Scusi, ma come fa a fare tutte queste cose a 83 anni?
"Merito del mio bioritmo, non soffro il sonno, è ereditario: nella mia famiglia siamo tutti così".
Come hanno reagito i suoi amici alla sua candidatura?
"Gino Paoli e Renzo Piano sono entusiasti, mi hanno detto che mi voteranno. Mia moglie Gisella si è messa le mani nei capelli e ha detto: ci mancava anche questa!".
Mattia Feltri per “la Stampa”l'11 febbraio 2020. La storia della candidatura a punti nel Movimento cinque stelle sta fra la Cina e il Mago Otelma. Sentite il meccanismo: se partecipi alle iniziative della piattaforma Rousseau, se voti regolarmente le proposte della piattaforma Rousseau, se depositi progetti di legge sulla piattaforma Rousseau, se fai il ballo del qua qua sulla piattaforma Rousseau ottieni un punteggio, e chi raggranella quello più alto è premiato con la candidatura. Né più né meno - soltanto in una fase più primitiva e circoscritta - del Sistema di Credito Sociale in attuazione in Cina, dove i cittadini raggiungono un rating in seguito ai loro comportamenti: per chi attraversa col rosso, tarda a pagare una multa, non si dedica al volontariato, il rating si abbassa, viceversa si alza. E fin qui siamo nei dintorni del mostruoso. Ma non basta. L' obiettivo è arrivare al controllo di ogni comportamento privato, per esempio attraverso la cronologia di Internet. Se uno se ne sta tutte le sere a giocare ai videogiochi avrà una decurtazione, e un incremento se invece leggerà i discorsi di Xi Jinping. E così i buoni potranno mandare i figli nelle scuole migliori, ambire ai posti di lavoro più remunerativi, avere la connessione internet veloce; e ai cattivi niente. In Cina, come su Rousseau, trasformate l' una e l' altra in entità divine, il premio va ai fedeli, agli ubbidienti, in definitiva a chi si astiene dal pensare, dallo scegliere e dal decidere. È questo che i Cinque stelle hanno in testa non solo per sé, ma per tutti noi. Per fortuna, visti gli ultimi risultati elettorali, siamo sempre meno in zona Cina e sempre più in zona Otelma.
Thread di Jacopo Iacoboni l'11 febbraio 2020. Nel post di Davide Casaleggio rivolto, con toni molto forti, alla trasmissione Presa diretta di ieri sera, c'è una sola cosa interessante. Casaleggio dice: Volete sapere quali sono i clienti italiani di Cambridge Analytica? Vi do un indizio. Il Movimento non lo è stato". Casaleggio prosegue: "I giornalisti lo sanno bene e hanno già gli elementi per identificare chi invece lo è stato, ma forse per qualche motivo non vogliono andare fino in fondo". Non so se i giornalisti lo sanno, io no. ma proviamo a fare un po' di chiarezza sul tema. 24 marzo. Salvini categorico all'Agi: "Mai visti né sentiti". Christopher Wylie, il primo e fondamentale whistleblower di Cambridge Analytica, disse a Repubblica: "L'unico Paese europeo di cui so per certo che ha lavorato con Cambridge Analytica è l'Italia". Sul sito di SCL - la società parente di Cambridge Analytica - si leggeva: “Nel 2012 CA ha realizzato un progetto per un partito italiano che stava rinascendo e che aveva avuto successo per l’ultima volta negli anni ottanta”questo identikit, in effetti, non corrisponde in apparenza al M5S. Può essere un riferimento alla Lega (la nuova Lega di Salvini)? Salvini stesso smentì categoricamente all'Agi: "Mai visti né sentiti". Analoga smentita è arrivata da Fratelli d'Italia. Dunque, per essere precisi, già questo rende problematiche le parole di Casaleggio: lui smentisce. ma smentiscono anche tutti gli altri. E quindi? Qualcuno (non so chi) smentisce falsamente. E dunque non è vero, come dice Casaleggio, che "i giornalisti sanno bene". Forse lo sa invece lui? Benissimo, gentile Davide, allora ce lo dica lei, se lo sa e ha delle prove: chi dei partiti italiani (visto che voi non siete) che lavorava con Cambridge? Bisogna poi aggiungere una cosa, a questo quadro. CA non ha operato in Italia solo nel 2012. Una sua dipendente, Jordanna Zetter, ha scritto per email, nell'ottobre 2015 (l'anno in cui nasce LeaveEU, e entra in contatto con CA), che "siamo in seri colloqui in Italia". Con chi? Ricapitolando, 2012, e 2015. Due situazioni molto differenti. Su cui è bene non fare confusione. La mail di Zetter fa parte dei leaks forniti da Brittany Kaiser. Non siamo in grado di dire di più, ma se Casaleggio lo sa, perché non ci aiuta e ce lo dice lui?
· I Finanziamenti a 5 Stelle.
M5s e Venezuela, la Procura di Milano apre un'inchiesta: un pesantissimo sospetto politico. Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Sul caso M5s e Venezuela apre un'inchiesta la Procura di Milano. Le toghe, spiega il Corriere della Sera, vorrebbero vederci chiaro su quei 3,5 milioni di euro che secondo il giornale spagnolo Abc il regime chavista nel 2010 avrebbe versato a Gianroberto Casaleggio. Per il momento non ci sono indagati né ipotesi di reato, ma il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli vorrebbe chiarire anche se tutta la vicenda non sia stata organizzata in realtà solo per danneggiare i 5 Stelle. La classica polpetta avvelenata. La territorialità è della Procura milanese in quanto secondo Abc l'allora ministro degli Esteri di Hugo Chavez, l'attuale presidente Nicolas Maduro, avrebbe fatto arrivare quei soldi attraverso il consolato a Milano destinandolo "nella sua totalità" a Casaleggio, "promotore di un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista". Molti i dubbi: innanzitutto, la legge non vieterebbe tout court elargizioni da Stati stranieri e si potrebbe trattare di una "semplice" violazione fiscale, Ma anche se si trattasse di un reato di finanziamento illecito ai partiti, sarebbe prescritto dopo 6 anni dal suo avvenimento, quindi dal 2016. E se Casaleggio, avanza l'ipotesi il Corsera, deceduto proprio in quell'anno, "si fosse tenuto tutto per sé?", magari occultando i fondi nella sua società? Anche in quel caso, tutto prescritto. Resta una brutta ombra politica, questa sì, sui 5 Stelle e i loro rapporti con il regime. Su questo giudicheranno gli elettori, non i magistrati.
Giuseppe Guastella per corriere.it il 17 giugno 2020. Vuole vederci chiaro la Procura di Milano nella storia, molto presunta e dai contorni estremamente incerti, dei 3,5 milioni di euro che nel 2010 sarebbero partiti dal Venezuela per finire a Gianroberto Casaleggio, nella veste di fondatore del M5S con Beppe Grillo. Un fascicolo conoscitivo, senza indagati né ipotesi di reato, è stato aperto dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli con l’obiettivo di indagare anche per capire se non si tratti di una manovra messa in piedi ad arte per danneggiare i 5 Stelle.
Le altre ipotesi. Già da come ha raccontato questa vicenda il quotidiano spagnolo Abc, ammesso di superare i dubbi sulla sua fondatezza, emerge che l’allora ministro degli esteri venezuelano Nicolás Maduro (attuale presidente della Repubblica) avrebbe fatto arrivare il denaro in Italia attraverso il consolato a Milano destinandolo «nella sua totalità» a Casaleggio, «promotore di un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista». Ammettendo che i soldi davvero siano andati al M5S, un ipotetico reato di finanziamento illecito dei partiti sarebbe prescritto dal 2016, passati 6 anni dal suo verificarsi. Ma sarebbe un illecito? In Procura ragionano anche su questo. La legge prevede che il reato si realizzi quando i fondi vengono elargiti da una società senza una delibera dei suoi organi e senza iscrizione a bilancio: uno stato straniero non è una società. E se, sempre per guardare a tutto tondo, Casaleggio, deceduto nel 2016, si fosse tenuto tutto per sé? Potrebbero esserci state violazioni fiscali o falso in bilancio, se avesse occultato i fondi nella sua società, ma anche così è già tutto prescritto. Se invece si tratta di notizia totalmente falsa, allora il Movimento vittima di una diffamazione prima in Spagna e poi in Italia da chi ha ripreso l’articolo acriticamente. Un semplice «errore» giornalistico o una manovra, magari ordita per fare cadere il governo? Su tutto questo potrebbe lavorare la Procura guidata da Francesco Greco.
Conte: «Nulla da chiarire». Sul fronte politico, ieri c’è stato un flash mob di Forza Italia davanti all’ambasciata venezuelana a Roma. Mentre il presidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento Ue, Antonio Tajani, ha presentato un’interrogazione per chiedere quali azioni la Commissione intende avviare per verificare se partiti nazionali ed europei abbiano ricevuto finanziamenti dal Venezuela e per quanto tempo. Per Matteo Renzi, in maggioranza, «è giusto che si indaghi, come si è indagato su Salvini per la vicenda russa. Siccome sono un italiano, spero che sia tutto falso e spero che siano delle fake news». Andrea Marcucci, capogruppo dem in Senato, avverte: «Sono e resto garantista, ma il ora il M5S faccia chiarezza». Il premier Giuseppe Conte chiude: «I responsabili del M5S hanno già assicurato che si tratta di una fake news. Penso che non ci sia nulla da chiarire».
Estratto dell’articolo di Marco Mensurati per “la Repubblica” il 17 giugno 2020. L'"affaire Venezuela- 5stelle" potrebbe sbarcare in Parlamento già oggi durante la riunione dell'ufficio di presidenza del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica). Per opposte ragioni, infatti, sia gli esponenti della destra (Lega e Fratelli d'Italia) sia quelli del M5S ancora ieri sera stavano riflettendo circa l'opportunità di chiedere ufficialmente di ascoltare i responsabili di Aise e Aisi in merito al documento pubblicato due giorni fa dal quotidiano spagnolo Abc. Stiamo parlando dell'informativa - o presunta tale - nella quale i servizi segreti di Caracas riassumono la vicenda del 2010 relativa al pagamento di 3,5 milioni di euro a Gianroberto Casaleggio. La mossa servirebbe alla Lega per cercare di equiparare, quantomeno a livello mediatico, questa storia a quella del Metropol. Mentre i grillini lo farebbero per il motivo esattamente opposto, quello cioè di sentirsi dire - ufficialmente - che il pezzo di carta tirato fuori da Abc è un falso. (...)
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 17 giugno 2020. Se i grillini non hanno mai preso i soldi del Venezuela e il documento dell'intelligence che lo dimostrerebbe è falso, le foto e la realtà politica dei rapporti con il regime di Nicolas Maduro sono veri e autentici. Intanto, da ieri, c'è anche la Procura di Milano che indaga sui 3,5 milioni di euro che nel 2010 sarebbero finiti a Gianroberto Casaleggio: un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato è stato aperto dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli per capire anche se si possa trattare di un'operazione studiata per danneggiare il M5s. Tornando alle foto, una delle immagini, nel febbraio dello scorso anno, mostra una schiera di senatori pentastellati con il viceministro degli Esteri venezuelano, Yvan Gil, che ancora propugna «la via del socialismo» e attacca «l'ingerenza neo coloniale dell'Europa». Per non parlare degli scatti del 2017 della delegazione grillina in Venezuela capitanata dall'attuale sottosegretario della Farnesina, Manlio Di Stefano, assieme all'allora ministro degli Esteri, Delcy Rodriguez. Pochi mesi dopo sono cominciati a fioccare sulla testa di Rodriguez sanzioni da mezzo mondo, comprese Ue e Usa «per corruzione e avere minato la democrazia». Non è un caso che l'Italia sia l'unico paese Ue, assieme a Cipro e Slovacchia, a non riconoscere il leader dell'opposizione venezuelana Juan Guaidò. Al contrario il 30 aprile dello scorso anno, i senatori pentastellati «esprimevano preoccupazione per il tentativo di colpo di stato in Venezuela e per il rischio di una deriva violenta dalla crisi politica» imputata agli Usa e a Guaidò. Un gruppetto di senatori si era fatto immortalare il 13 febbraio assieme al viceministro venezuelano per l'Europa, Yvan Gil, in visita a Roma. Nella fotografia si notano l'ex direttore di Tg nazionali, Emilio Carelli, Alberto Airola, Gianluca Ferrara, e altri parlamentari grillini. Neppure la Farnesina voleva incontrare l'uomo di Maduro e il caso scatenò le ire dei pentastellati. Nell'ottobre dello scorso anno Gil, ribadiva all'associazione di amicizia Italia-Cuba, che «possiamo vincere contro tutti gli attacchi che ci vengono portati per aver ripreso la via del socialismo». E identificava l'Occidente come «polo imperialista» accusando «l'Europa di ingerenza coloniale» in Venezuela. Per Gil il problema è che «una gran parte dell'immigrazione italiana ed europea (nel suo paese, nda) sia vincolata alla destra». Alla fine proponeva il regime di Maduro come «l'alternativa concreta al modello capitalista depredatore». E spiegava che «occorrono cambiamenti strutturali nei paesi capitalisti () che cerchiamo di favorire nonostante la complessità e la frammentazione esistente nei movimenti popolari in Europa. Guardando ai risultati ottenuti nella campagna in difesa della Palestina, di Cuba () credo si possa riuscire». Fra i movimenti è lecito supporre che pensava pure ai Cinquestelle. Altre foto testimoniano degli incontri a Caracas di Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, assieme ad una mini delegazione grillina nel marzo 2017 per l'anniversario della morte del «caudillo» Hugo Chavez. Un sorridente Di Stefano è immortalato con Delcy Rodriguez, allora ministro degli Esteri. Nel quadretto ci sono anche Ornella Bertorotta, senatrice nel 2017 e Vito Petrocelli, oggi a capo della commissione Esteri del Senato. Rodriguez, pezzo grosso del regime, è stata nominata vicepresidente del Venezuela il 14 giugno 2018 con la delega politica sul famigerato Sebin, il servizio segreto. Cinque mesi dopo la foto con i grillini sono fioccate le prime sanzioni dal Canada. L'Unione europea l'ha inserita nella lista nera vietandole i visti e congelando i suoi beni per «avere minato la democrazia e lo stato di diritto in Venezuela». Pure la Svizzera l'ha messa al bando e gli Stati Uniti hanno lanciato pesanti accuse di «corruzione». Il sottosegretario Di Stefano purtroppo non rilascia dichiarazioni sul Venezuela. Sarebbe stato interessante capire i rapporti con Rodriguez e Raul Li Causi, un viceministro degli Esteri con delega per i Caraibi e non l'Italia. Il 5 marzo 2017 i grillini giunti a Caracas si facevano fotografare anche con lui. Poco conosciuto è in realtà ben posizionato in alcuni gangli finanziari del regime. Presidente della West Indies Oil Company Limeted, società costituita con il governo di Antigua e Barbuda, che serve a piazzare il petrolio venezuelano, giugulare del regime. Li Causi è pure presidente del Banco de la Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América, una banca forziere di stampo chavista. E tratta con i cinesi alleati di ferro nella penetrazione in America Latina.
Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. L'ipotesi di reato potrebbe essere quella di finanziamento illecito ai partiti, anche se, al momento, non è ipotizzata: la procura di Milano ha comunque deciso di vederci chiaro e ha aperto un fascicolo per valutare l'autenticità e gli obiettivi del documento arrivato dal Venezuela. Nel frattempo, Davide Casaleggio, così come aveva annunciato, ha presentato una denuncia contro il giornale spagnolo Abc che ha diffuso il report riservato dei servizi di intelligence venezuelana, dal quale emergerebbe il passaggio di 3,5 milioni di dollari dal regime di Chàvez con Maduro ministro degli Esteri, al movimento di Gianroberto Casaleggio. E un'altra querela sarebbe partita anche dal console del Venezuela a Milano, Gian Carlo Di Martino. Al netto delle denunce per diffamazione, c'è da dire che il documento è stato costruito con grande abilità: sono morti tutti e due i protagonisti, Chàvez e Casaleggio, non si possono effettuare verifiche con la fonte, i contanti non lasciano traccia. E dunque, è facile immaginare, che i riscontri saranno difficili, se non impossibili. Una perizia verrà anche effettuata dal ministero della Difesa di Caracas, che è convinto di poter smontare quella che definisce una bufala. La vicenda del Venezuela e il momento in cui è stata diffusa la notizia resta comunque monitorata dai nostri servizi di intelligence. I dettagli alimentano il sospetto. Gli 007 italiani si sono attivati per ricostruire ogni passaggio, individuare i protagonisti, scoprire se possano esserci state altre valigie piene di soldi. E così valutare se quanto accaduto rientri in realtà in un vero e proprio attacco agli interessi nazionali. Tre gli errori segnalati dagli esperti. Il primo riguarda l'intestazione del «Ministero de la Defensa», da cui manca «del potere popolare» («del Podel Popular») che invece era obbligatorio apporre sulla base di un decreto dell'8 gennaio del 2007. Dubbio anche il timbro con il cavallo bianco che viene sottolineato dovrebbe correre verso sinistra e invece va verso destra, con la testa girata all'indietro. Infine la data: un timbro in blu, con l'abbreviazione del mese di luglio («jul») per la ricezione da parte dell'Archivio generale e una firma in nero con il giorno 5 e l'anno 2010 che sembrano aggiunti. Dettagli di forma che diventano sostanza quando si parla di un documento proveniente dai servizi segreti. E su cui l'Aise, l'agenzia per la sicurezza estera, ha già avviato verifiche proprio per controllare se si tratti in realtà di un report contraffatto. In attesa dei risultati sullo scritto, l'indagine si concentra sulla sua veicolazione e sul contenuto. Si torna indietro di dieci anni per stabilire se ci siano mai stati contatti, anche indiretti, tra Casaleggio e i personaggi al potere in Venezuela in quel periodo. Senza poter escludere che, anche se falso, contenga informazioni potenzialmente vere. La tempistica diventa dunque fondamentale per individuare i passaggi chiave della storia. Tenendo conto che il 2010 è proprio l'anno in cui i 5 Stelle si affacciano sulla scena politica italiana. Il sospetto che ci sia una manovra in atto viene accreditato evidenziando quanto sta accadendo proprio in queste ore con le guerre interne al Movimento. E ora sarà compito anche della magistratura, se riterrà che ci siano elementi sufficienti, avviare un'indagine sui soldi, proprio come accaduto per il denaro che sarebbe arrivato dalla Russia nelle casse della Lega.
Estratto dell’articolo di Alessandro Da Rold per “la Verità” il 17 giugno 2020. (…) Il documento pubblicato dal quotidiano spagnolo Abc, ha destato notevoli dubbi sia nell' intelligence italiana sia tra militari e investigatori che lo hanno visto e scansionato. Ci sono troppi errori marchiani e mancano dettagli essenziali rispetto ai documenti classificati tipici dei servizi segreti. Al momento quindi, «la bomba di Caracas» ha acceso solo il dibattito politico, sia interno ai 5 stelle sempre più divisi, sia nazionale, con le opposizioni che chiedono alla magistratura di indagare sul presunto finanziamento venezuelano. Per capire qualcosa di più della notizia di Abc che sta scuotendo la politica italiana, bisogna però partire da due personaggi chiave del regime venezuelano, prima governato da Hugo Chavez e poi da Nicolas Maduro. Sono Hugo Carvajal e Tarek El Aissami. Entrambi sono stati (e sono) due politici chiave per capire la politica estera del Venezuela e soprattutto il modo in cui il regime venezuelano si è mosso in questi anni per influenzare i partiti politici all' estero. Il primo, Carvajal, è l' ex capo dell' unità di intelligence militare, fedelissimo di Chavez e numero uno dei servizi segreti proprio nel 2010. Sarebbe stato lui quindi ad autorizzare il documento incriminato. E sempre lui avrebbe impartito l' ordine al console di Milano Gian Carlo di Martino, accusato dal quotidiano Abc di essere l' intermediario dei soldi, «di non continuare a riferire sulla questione, che potrebbe diventare un problema diplomatico». Ora si trova in Spagna, con l' accusa di traffico di droga e terrorismo. Gli Stati Uniti hanno chiesto l' estradizione. El Aissami è invece uno dei politici più importanti del Venezuela, dal momento che è stato appena nominato (il 27 aprile) ministro del Petrolio: è l' uomo di fiducia del presidente. In passato è stato anche ministro dell' Industria, mentre nel luglio del 2010 era ministro degli Interni. All' epoca aveva appena 35 anni, ma una rete di relazioni impressionante in Medio oriente, a partire dalla sua famiglia libanese con entrate nel partito Baath irakeno, negli Hezbollah in Libano e Siria fino all' ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Secondo alcuni dissidenti regime, in quegli anni El Aissami sarebbe stato il vero protagonista di un programma clandestino per fornire passaporti venezuelani ai terroristi a Damasco. E questo accadeva perché era a capo di Onidex, l' agenzia che gestisce il programma di immigrazione. Ma i pezzi di carta non erano solo diplomatici, sarebbero stati soprattutto i soldi il vero punto forte di El Aissami. Il regime di Chavez ne avrebbe dati a gruppi terroristici come gli stessi Hezbollah o Hamas in Palestina. Non a caso, nel 2016 la Drug enforcement administration (Dea) sospettava che proprio i libanesi di Hezbollah avrebbero avuto legami con i cartelli sudamericani del traffico di droga per finanziare le loro attività terroristiche. El Aissami, in sostanza, è un punto di raccordo fondamentale tra Teheran, Cuba ma anche la Turchia, la punta di diamante del network chavista e antiamericano in tutto il mondo. Non solo. Negli anni il regime ha avuto anche rapporti con la Russia e la Cina. Proprio i cinesi sono impegnati in Venezuela nelle miniere di uranio, altro punto di forza dell' industria di Caracas. Del resto è vero che negli anni El Aissami ha gestito le casse dello stato, per la maggior parte dalla Pdvsa, l' industria petrolifera che con Chavez ha tenuto i rapporti con tutti i partiti di sinistra in Europa, in particolare con quelli francesi, italiani e spagnoli. Nei mesi scorsi era già esploso un altro scandalo su un presunto finanziamento a Podemos, con cui Chavez aveva avuto rapporti molto stretti. Anche qui, come nel caso del movimento 5 stelle, i finanziamenti sarebbero avvenuti prima dello sbarco in Parlamento. E questo sempre nell' ottica di finanziare un partito «rivoluzionario di sinistra e anticapitalista» in questo caso nella Repubblica italiana. Il documento che informa sui soldi a Casaleggio mette in relazione l' attuale ministro del petrolio con Carvajal. Perché, come recita la presunta nota dei servizi venezuelani, i fondi da cui sarebbero stati presi i 3,5 milioni di euro sarebbero appunto quelli segreti dell' intelligence «amministrati dal ministro dell' Interno, Tarek El Aissami, approvato e autorizzato dal cancelliere Nicolas Maduro». Le smentite e le accuse di fake news ormai non si contano più. «Per smentire qualcosa ed essere convincenti, conviene ripassare la propria storia», scrive in un' editoriale Abc. Ma intanto anche El Mundo proprio ieri scriveva che in questo traffico di corruzione sarebbe rimasto invischiato anche l' ex ambasciatore spagnolo Raul Morodo, uomo vicinissimo all' ex presidente José Luis Rodríguez Zapatero. Il Caracas gate, insomma, non è ancora finito.
M5s, il deputato venezuelano: "Il regime pagò", pesantissime conferme su soldi e valigette.
Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Nel 2015 Mariela Magallanes e Américo De Grazia furono i due deputati eletti di La Causa Radical: un partito di sinistra venezuelano fondato da ex-guerriglieri e sindacalisti, che all'inizio aveva mostrato molto interesse per la proposta di riforma di Hugo Chávez, partecipando anche alla sua coalizione e al suo governo. Ma presto ruppe con lui, ed è entrato stabilmente nel fronte dell'opposizione. L'anno scorso Mariela Magallanes e De Grazia si rifugiarono entrambi nell'ambasciata italiana a Caracas, per scampare a una minaccia di arresto. Da notare che i Cinque Stelle chiesero di riconsegnare entrambi alle autorità venezuelane, benchè Mariela Magallanes come donna fosse sotto minaccia di stupro in carcere, e De Grazia fosse il presidente della Commissoone che stava indagando proprio sull'eventialità che il regime stesse finanziando gli stessi Cinque Stelle. Entrambi furono portati in Italia da Pier Ferdinando Casini, e Mariela Magallanes è oggi rappresentante dell'Assemblea Nazionale in Italia. «Ovvianente noi non emettiamo sentenze e ci aspettiamo che siano le autorità competenti a stabilire la verità», dice a proposito dei fondi di Caracas ai grillini. «Però questa notizia è arrivata subito dopo quell'altra dell'arresto a Capo Verde di Alex Saab». È un faccendiere colombiano grande prestanome di Maduro nelle operazioni per evadere embarghi e sanzioni e che era collegato all'Italia tramite sua moglie Camilla Fabri: una commessa romana con uno stipendio di 1800 euro al mese aveva intestato a suo nome un appartamento di 5 milioni di euro a via Condotti, si è resa uccel di bosco dopo essere stata accusata per frode fiscale ed è oggi indagata per un giro di riciclaggio internazionale. «Sappiamo che Saab è un personaggio centrale in questo intreccio attraverso il quale il regime di Maduro continua a evadere le sanzioni internazionali e nel contempo a far uscire dal Venezuela le sue ricchezze, utilizzando le risorse venezuelane per continuare a vendere e consegnare il Paese nel mentre il suo popolo è alla fame. Il finanziamento ai Cinque Stelle è per ora presunto, ma purtroppo sappiamo che ci sono precedenti anche in Europa. Con Podemos, ad esempio. Non sarebbe la prima volta che dal Venezuela escono risorse per finanziare campagne politiche al servizio di un progetto che trascende il Venezuela e la regione per distendere i propri tentacoli in tutto il mondo. Adesso forse anche in Italia». De Grazia, lo ricordiamo, stava indagando sui finanziamenti del regime su movimenti politici stranieri, quando fu costretto a rifugiarsi nella nostra ambasciata. Quel che dice è dunque pesante. «Quella di fronte alla quale ci troviamo in Venezuela è una impresa criminale, che finito il petrolio traffica con oro, diamanti e coltan. Così come finanzia Hezbollah, Hamas, l'Eln, le Farc, gruppi collettivi armati, delinquenti e bande organizzate, il Cartello dei Soli, così come si associa con altri cartelli della droga, allo stesso modo finanzia tutti i partiti politici che possano sostenere i suoi abusi e danneggiare la nostra lotta per recuperare la libertà e la democrazia in Venezuela. In ciò è coinvolto ad esempio il Partito Giustizialista in Argentina: non voglio dire tutti i suoi aderenti, ma sicuramente Cristina Kirchner. Come Lula da Silva in Brasile, Evo Morales in Bolivia, Correa in Ecuador, Petro in Colombia, Iglesias in Spagna. Adesso anche qui in Italia salta fuori il nome di Grillo. Ripeto, non possiamo accusare tutto il partito. Sicuramente nella loro stragrande maggioranza militanti e dirigenti sono innocenti rispetto a certi maneggi torbidi. Noi accusiamo Zapatero che è del Partito Socialista Operaio Spagnolo, ma non il Partito Socialista Operaio Spagnolo nel suo complesso. Accusiamo il signor Zapatero». Comunque i Cinque Stelle hanno impedito che l'Italia riconoscesse Guaidó. «E noi appunto vogliamo lavorare perché l'Italia riconosca non solo ufficialmente Juan Guaidó come presidente a interim, ma anche l'eventuale governo di emergenza nazionale che abbiamo intenzione di firmare quanto prima».
O ci hanno venduti o siamo sotto attacco. Alessandro Sallusti, Martedì 16/06/2020 su Il Giornale. Gli schizzi di vernice sulla statua di Montanelli sono poca cosa a confronto di quelli che ieri hanno colpito il Movimento Cinque Stelle e in particolare il suo fondatore Gianroberto Casaleggio, che forse troppo frettolosamente è stato innalzato a monumento nazionale. Il quotidiano spagnolo Abc ha infatti pubblicato documenti che proverebbero un versamento di tre milioni e mezzo fatto nel 2010 a Casaleggio dal dittatore venezuelano Chavez e dall'allora suo braccio destro Maduro (oggi presidente non riconosciuto da buona parte della comunità internazionale). Il motivo? Sostenere in Italia - si legge nei documenti - la nascita di un movimento di sinistra, rivoluzionario e anticapitalista. Ovviamente dagli interessati sono piovute smentite e querele, ma non credo che la questione possa essere archiviata tanto facilmente, anche perché l'insana e fino a ieri incomprensibile passione dei leader Cinque Stelle, e quindi del nostro governo, per Maduro è un fatto noto che ha provocato anche l'irritazione dei nostri alleati occidentali. Se si dovesse provare che il fatto è realmente accaduto, non saremmo di fronte a una banale, per quanto sgradevole, tangente o a una questione di finanziamento illecito. Se così fosse, si tratterebbe infatti del tentativo (riuscito) da parte di una criminale dittatura comunista di inquinare la democrazia occidentale e insediare nel cuore dell'Europa un governo amico. Ce ne sarebbe abbastanza per riscrivere la storia recente della politica italiana, non solo quella della verginità dei grillini. Verginità presunta, autoproclamata e in ogni caso già abbondantemente persa in questi pochi anni di governo. Ma altrettanto inquietante l'ipotesi inversa, cioè se lo scoop di Abc (che in serata ha confermato tutto) si rivelasse un falso. A quel punto dovremmo capire chi e perché sta cercando di destabilizzare il governo italiano con un pizzino via Spagna verosimile dal punto di vista della logica politica (l'amicizia tra i Cinque Stelle e Maduro). E qui si entra in pieno nei giochi dei servizi segreti, deviati o no, un sottobosco che i Cinque Stelle ben conoscono e dal quale - attraverso la Link University di Roma - hanno tratto più volte linfa per la loro crescita. I casi sono quindi due. O Casaleggio e soci hanno provato a vendere l'Italia a una dittatura sudamericana, o qualcuno sta usando i Cinque Stelle per mettere le mani sul nostro Paese. Entrambe le ipotesi sono di una gravità estrema, più che querele serve un'approfondita indagine.
Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Messaggero” il 16 giugno 2020. […] Una serie di fatti in vorticosa sequenza - per ultima, appunto, c'è la vicenda dei presunti fondi dati dal regime venezuelano al padre Gianroberto nel 2010 - che fa pensare ai suoi collaboratori a «un dossieraggio interno». «Anche perché si tratta di una vicenda già uscita», ammettono fonti governative del Movimento ostili a Davide, ma comunque oggettive. […]
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 16 giugno 2020. Sono i dettagli ad alimentare il sospetto che il documento pubblicato dal quotidiano spagnolo Abc possa essere falso. Questo non vuol dire che il finanziamento venezuelano da tre milioni e mezzo al Movimento 5 Stelle e in particolare a Gianroberto Casaleggio nel 2010 non ci sia stato, ma l'analisi del report lascia dubbi sulla sua attendibilità. E alimenta numerosi interrogativi sia sulla tempistica, sia sulle modalità di diffusione. Il sospetto che possa trattarsi di un attacco per screditare i grillini in un momento già molto delicato, e soprattutto il governo italiano, visto che si tratta di una delle forze politiche che lo sostengono, non è affatto fugato. Proprio per questo l'intelligence si è attivata subito dopo la pubblicazione dell'articolo per ricostruire ogni passaggio, individuare i protagonisti, scoprire se possano esserci stati altri passaggi di soldi. E così valutare se quanto accaduto ieri rientri in realtà in un vero e proprio attacco agli interessi nazionali. Gli analisti rilevano più di un'anomalia nella confezione del documento. Alcuni esperti citati dall'agenzia «Nova» segnalano tre errori. Il primo riguarda l'intestazione del «Ministero de la Defensa», da cui manca «del potere popolare» («del Podel Popular») che invece era obbligatorio apporre sulla base di un decreto dell'8 gennaio del 2007. Dubbio anche il timbro con il cavallo bianco che - viene notato - dovrebbe correre verso sinistra e invece va verso destra, con la testa girata all'indietro. Infine la data: un timbro in blu, con l'abbreviazione del mese di luglio («jul») per la ricezione da parte dell'Archivio generale e una firma in nero con il giorno 5 e l'anno 2010 che sembrano aggiunti. Dettagli di forma che diventano sostanza per una nota riservata proveniente dai servizi segreti. E su cui l'Aise, l'Agenzia per la sicurezza estera, ha già avviato verifiche proprio per controllare se si tratti in realtà di un report contraffatto. In attesa dei risultati sullo scritto, l'indagine si concentra dunque sulla sua veicolazione e sul suo contenuto. In gioco entra anche l'Aisi, l'Agenzia per la sicurezza interna, visto che la consegna della valigetta con il contante sarebbe avvenuta a Milano, nella sede del consolato. Si torna indietro di dieci anni per stabilire se ci siano mai stati contatti, anche indiretti, tra Casaleggio e i personaggi al potere in Venezuela in quel periodo. Per capire che tipo di origine possa avere il documento, soprattutto per le conseguenze che sta provocando. Dunque per scoprire se ci sia una «manina» che proprio in questi giorni abbia deciso di far deflagare il «caso» portando ulteriore scompiglio all'interno del Movimento 5 Stelle. Senza poter escludere che il documento, anche se falso, contenga comunque informazioni vere. La tempistica diventa dunque fondamentale per individuare i passaggi chiave della storia. Tenendo conto che il 2010 è proprio l'anno in cui i 5 Stelle si affacciano sulla scena politica italiana. Perché il Venezuela avrebbe avuto interesse a finanziarli? E se davvero si era deciso di scommettere sul fatto che sarebbero diventati una forza determinante per lo scenario italiano, è credibile che si sia deciso di farlo con la consegna di una valigetta piena di contanti? Mentre si cerca di rispondere a queste domande, l'interrogativo principale per gli apparati di intelligence è un altro: chi ha interesse in questo momento a minarne la credibilità con una vicenda di finanziamenti occulti dunque illegali? Il sospetto che ci sia una manovra in atto viene accreditato evidenziando quanto sta accadendo proprio in queste ore con le guerre interne ai 5 Stelle, la battaglia sulla leadership del Movimento e il dibattito sulla figura del presidente del Consiglio che, pur non essendo un attivista, è stato indicato dai 5 Stelle a guidare l'esecutivo sia quando l'alleanza era con la Lega, sia quando si è deciso di rimanere a palazzo Chigi con Pd, Italia Viva e Leu. Sarà compito della magistratura, se riterrà che ci siano elementi sufficienti, avviare un'indagine sui soldi, proprio come accaduto per il denaro che sarebbe arrivato dalla Russia nelle casse della Lega. Priorità e urgenza dei servizi segreti è invece stabilire se l'Italia sia finita al centro di una trama che ha come obiettivo quello di minare la tenuta del governo.
Enzo Reale e Federico Punzi per atlanticoquotidiano.it il 16 giugno 2020. Un’intera prima pagina, la foto di un documento ufficiale attribuito al governo venezuelano, un titolo che non lascia spazio a interpretazioni: “Il chavismo finanzió il Movimento 5 Stelle”. È lo scoop del giornale della destra spagnola ABC, piombato sulla politica italiana un lunedì mattina di giugno. Non proprio un fulmine a ciel sereno, se si considera che le affinità ideologiche e le dimostrazioni di appoggio dei grillini nei confronti del regime social-comunista di Maduro sono state frequenti nel corso degli anni: dai convegni organizzati da Di Battista dove si inneggiava al chavismo “contro il capitalismo e l’impero”, ai pellegrinaggi dei rappresentanti del movimento (tra cui il sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano) a Caracas, fino al mancato riconoscimento di Guaidò come legittimo presidente ad interim del Paese, in rottura con la Lega di Salvini in quel momento alleata di governo. Insomma, le premesse politiche per attribuire credibilità all’informazione di ABC ci sono tutte. Certo, se venisse confermata l’autenticità di quel documento, saremmo di fronte a un salto di qualità in grado di far traballare le fondamenta se non dell’Esecutivo guidato da Giuseppe Conte, almeno del dicastero degli Esteri occupato da Luigi Di Maio. Il documento pubblicato dal quotidiano spagnolo risale al luglio 2010 e contiene un’informativa interna al servizio segreto militare venezuelano, in cui si specifica che la “valigetta inviata al console della Repubblica Bolivariana a Milano” conteneva “3,5 milioni di euro in contanti”, e che il loro destinatario era “un cittadino italiano di nome Gianroberto Casaleggio”. L’invio era stato avallato e autorizzato dall’allora ministro degli esteri Nicolás Maduro e la quantità di denaro era stata prelevata da fondi riservati amministrati da Tarek el Aissami, titolare degli interni all’epoca dei fatti, per appoggiare “un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista” in Italia. Il testo si conclude riferendo delle “istruzioni date al nostro funzionario in Italia a non continuare a dare informazioni sull’affare”, al fine di evitare incidenti diplomatici tra i due Paesi. Insomma, nero su bianco, un finanziamento illecito di un Paese straniero a un partito italiano agli inizi della sua folgorante ascesa politica. ABC non cita ovviamente la sua fonte e non spiega nemmeno come sia entrato in possesso del documento. L’informazione è stata immediatamente qualificata come “falsa” sia da fonti governative venezuelane che da Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto deceduto nel 2016, che ha minacciato querele. E alcuni dubbi sono emersi nelle ultime ore: il timbro, raffigurante un simbolo un po’ datato, pre-riforma del 2006, sarebbe la prova del falso. La storia dei finanziamenti del regime chavista a forze politiche di stati esteri per esportare i principi della “rivoluzione bolivariana” è lunga e tristemente nota: dai rapporti più che amichevoli con esponenti di primo piano di Podemos in Spagna (si parla di pagamenti al partito di Iglesias per un totale di 7 milioni di dollari, veicolati in parte tramite fondazioni in parte attraverso le frequenze dell’emittente iraniana HispanTv), alla penetrazione del chavismo in Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Argentina, dove Cristina Fernández Kirchner è ancora sotto inchiesta per i presunti finanziamenti ricevuti da Caracas in occasione della campagna elettorale del 2007 che l’avrebbe portata alla presidenza. Quindi, il versamento al Movimento 5 Stelle non dovrebbe destare alcuna sorpresa, non sarebbe un unicum, ma coerente con una pratica consolidata del regime di Caracas. Ma per comprendere le ramificazioni che lo scoop di ABC lascia solo intravedere, e cercare di risalire all’origine del leak, a chi possa aver passato il documento alla testata spagnola, vale la pena soffermarsi sui personaggi coinvolti e sulla natura del narco-stato chavista. Il primo nome, forse decisivo, che balza agli occhi nella possibile trama svelata da ABC, è quello di Hugo Carvajal, detto “il pollo“, che nel luglio 2010 si trovava precisamente al vertice dell’intelligence militare di Hugo Chávez. In pratica, l’informazione sui 3,5 milioni a Casaleggio era diretta a lui. Come già riportato su Atlantico Quotidiano, Carvajal fu arrestato nell’aprile del 2019 dalla polizia spagnola su richiesta degli Stati Uniti, con le accuse di traffico di stupefacenti e riciclaggio, come molti esponenti del regime, e per il suo sostegno alle Farc colombiane. L’Audiencia Nacional si pronunciò a favore dell’estradizione solo sette mesi dopo: nel frattempo Carvajal, rilasciato in via provvisoria, era già scappato. Attualmente nessuno sa dove si trovi, almeno ufficialmente: in realtà alcune fonti indicano che l’ex generale stia trattando le condizioni della sua estradizione attraverso i servizi segreti spagnoli direttamente con le autorità americane. Al momento del suo arresto il senatore repubblicano Marco Rubio, uno degli artefici della strategia della Casa Bianca sul Venezuela, dichiarò: “Hugo Carvajal sarà presto negli Stati Uniti dove rivelerà informazioni importanti sul regime di Maduro. Una brutta giornata per la famiglia criminale madurista”. La possibilità, se non la certezza, che Carvajal possa aprire le porte degli affari illeciti del regime e svelarne l’entità e la penetrazione a livello internazionale è ad oggi uno degli incubi ricorrenti del palazzo di Miraflores (la sede della presidenza a Caracas). E in un momento di stallo come l’attuale, in cui diplomazia e opzione militare sembrano avere le polveri bagnate, questa prospettiva potrebbe rappresentare l’unica alternativa possibile per ottenere la fine del regime chavista senza tamburi di guerra. È lecito pensare che Carvajal (o qualche ex funzionario del regime a lui vicino) sia la fonte del documento pubblicato da ABC? La presenza di Carvajal in territorio spagnolo durante mesi, il suo appoggio esplicito a Guaidò, le trattative in corso con il governo degli Stati Uniti indicano che si tratta di un’ipotesi verosimile. Potrebbero essere molti i documenti di Carvajal già nelle mani delle autorità statunitensi con le quali l’ex generale starebbe trattando. D’altra parte, è in chiave italiana, non venezuelana, che le tempistiche della rivelazione appaiono piuttosto significative: un governo in piena sindrome cinese, con il “pechinese” Di Maio alla Farnesina, un Movimento 5 Stelle in fase di smottamento interno, un alleato di governo (il Pd) in confusione sul da farsi e quindi politicamente vulnerabile. Sul piano internazionale, l’ennesima dimostrazione dell’azione di disturbo del chavismo sui tradizionali alleati Usa, da inserire nel contesto globale da nuova Guerra Fredda che si sta riproponendo sull’asse Pechino-Washington (con ricadute sui rispettivi satelliti). Dunque, sia l’opposizione venezuelana, che ha visto i 5 Stelle mettersi di traverso al riconoscimento di Guaidò da parte dell’Italia, sia Washington, sempre più insofferente per la deriva filo-cinese del governo Conte, avrebbero buoni motivi per colpire il Movimento nel suo momento di maggior debolezza e divisione interna. Un secondo nome importante che compare nel documento è quello di Tarek el Aissami, ministro dell’interno che con i suoi fondi riservati avrebbe riempito la valigetta destinata ai grillini. Come avevamo provato a spiegare in un precedente articolo pubblicato su Atlantico Quotidiano più di un anno fa, circa il 60 per cento della droga che entra in Europa e negli Stati Uniti proviene da traffici gestiti dal territorio venezuelano. Il denaro sporco transita nella rete delle imprese statali controllate dal regime, su tutte il gigante petrolifero (PDVSA), oggi sotto il controllo proprio di el Aissami. Di origini sirio-libanesi, è un uomo di fiducia di Maduro, una sorta di factotum passato attraverso le pieghe del sistema messo in piedi da Chávez e proseguito dal suo successore: all’inizio viceministro della sicurezza, poi agli Interni e Giustizia, successivamente incaricato di rimettere ordine nel partito, infine designato al vertice dell’Industria e della Produzione, con competenze dirette sul settore petrolifero (PDVSA, appunto). Ma soprattutto, el Aissami è sulla lista nera della giustizia americana, ricercato dai servizi di immigrazione per narcotraffico e riciclaggio di denaro sporco, con una causa aperta davanti alla Corte federale di Manhattan. Dal febbraio 2017 è anche sotto sanzioni del Dipartimento del Tesoro. Perfino l’Unione europea lo ha sanzionato recentemente in qualità di alto funzionario del Sebin (il servizio segreto del regime) per reiterate “violazioni dei diritti umani”, tra cui arresti arbitrari e torture sui detenuti politici. Insomma, un pezzo da novanta del socialismo del XXI secolo. Ma anche sulle sue connessioni mediorientali, complice l’origine della sua famiglia (il padre, un emigrante druso siriano, è stato a capo della sezione venezuelana del partito Ba’ath, quello di Saddam Hussein e Bashar al Assad), ci sono diversi dossier aperti: in cima a tutti quello che svela i legami economici e politici tra Venezuela e Iran, in una strategia congiunta che da una parte prevede la penetrazione diretta a livello commerciale e militare di Teheran in America Latina e dall’altra il finanziamento in loco di gruppi terroristici come Hamas e Hezbollah. Una relazione che continua attualmente, come dimostra tra l’altro l’arrivo di cinque navi iraniane cariche di petrolio nel porto venezuelano di El Palito, in piena crisi produttiva interna. El Aissami è ritenuto l’anello di congiunzione tra il regime venezuelano e Hezbollah, quindi Teheran. Secondo il procuratore distrettuale di Manhattan Robert M. Morgenthau, El Aissami, quando era a capo di Onidex, l’agenzia venezuelana che gestisce il rilascio dei passaporti e le naturalizzazioni per il Ministero dell’interno, “è sospettato di aver emesso passaporti a membri di Hamas e Hezbollah”, entrambe organizzazioni terroristiche che rispondono al regime iraniano. Inoltre, riferiva Morgenthau ad una conferenza della Brookings Institution l’8 settembre 2009, “ci sono anche accuse secondo cui el Aissami e altri affiliati a Hezbollah siano responsabili del reclutamento di giovani arabi venezuelani che ora vengono addestrati nei campi di Hezbollah nel Sud del Libano”. Accuse, sia quelle relative al narcotraffico che ai legami con Hezbollah, confermate da un dossier della stessa intelligence venezuelana citato un anno fa dal New York Times. Secondo le testimonianze raccolte nel dossier, el Aissami e il padre avrebbero fatto entrare nel Paese e addestrato militanti di Hezbollah al fine di espandere reti sia di spionaggio che di narcotraffico in America Latina. Se, quindi, il denaro che sarebbe arrivato a Casaleggio tramite il consolato venezuelano di Milano è stato prelevato dai fondi riservati amministrati da el Aissami, non si può escludere un coinvolgimento iraniano, essendo quel tesoretto il frutto presumibilmente di attività congiunte tra i due regimi. Come abbiamo ricordato, anche nel caso del finanziamento a Podemos Teheran e Caracas hanno collaborato. Le questioni che si aprono dopo la rivelazione di ABC sono varie. Prima di tutto è rilevante, dal punto di vista politico, che Chávez avesse identificato il Movimento 5 Stelle come un potenziale partito anti-sistema fin dal principio, quattro anni prima della nascita di Podemos in Spagna, il che indicherebbe che la strategia del chavismo ha radici lontane; in secondo luogo, andrebbe accertato se si trattò di un pagamento una tantum o se i presunti finanziamenti si siano ripetuti nel corso degli anni: in questo caso saremmo di fronte a un déjà vu alquanto rivelatore, in un paese abituato ad avere a che fare con partiti finanziati da regimi socialisti, con l’aggravante che, mentre il PCI non fu mai forza di governo in Italia, il M5S esprime il presidente del Consiglio e il ministro degli esteri; infine, e torniamo allo scenario internazionale, proprio oggi un altro quotidiano spagnolo di orientamento conservatore (El Mundo) rivela che l’ex ambasciatore di Zapatero in Venezuela, Raúl Morodo, avrebbe consegnato somme di denaro a un rappresentante della vicepresidenza venezuelana nell’ambito di un giro di pagamenti del governo di Caracas alla famiglia del diplomatico, tramite l’onnipresente compagnia petrolifera statale (PDVSA). Insomma, tutto fa pensare che qualcuno, da qualche parte, stia parlando e che a Maduro (e alle sue “colonie europee”) nei prossimi giorni fischieranno le orecchie.
Da nextquotidiano.it il 15 giugno 2020. Il quotidiano spagnolo ABC scrive oggi che il governo del Venezuela, secondo alcuni documenti desecretati di cui è venuto in possesso, avrebbe finanziato il MoVimento 5 Stelle nel 2010 con 3,5 milioni di euro inviati in una valigia e consegnati a Gianroberto Casaleggio, cofondatore del M5S insieme a Beppe grillo deceduto nel 2016. Nella lettera pubblicata da ABC si scrive Casaleggio è il promotore di un “movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista” in Italia… Secondo il racconto del quotidiano Nicolás Maduro ha autorizzato l’invio di una valigia contenente 3,5 milioni di euro al Consolato del Venezuela a Milano per finanziare il partito nato nel 2009, secondo alcuni documenti classificati come segreti da parte dell’intelligence militare a cui ABC ha avuto accesso. Sempre secondo il quotidiano il console Gian Carlo Di Martino ha fatto da intermediario. I 3,5 milioni di euro sarebbero stati inviati “in modo sicuro” e attraverso una spedizione diplomatica dall’intelligence militare guidata da Hugo Carvajal, che oggi è indagato dagli Stati Uniti per crimini legati al traffico di droga e per aver fornito armi alle FARC colombiane. Sempre secondo ABC i soldi provenivano da fondi neri utilizzati dall’allora ministro degli Esteri Tareck el Aissami, persona di fiducia di Maduro indagato negli USA per reati di droga e riciclaggio di denaro. La storia della valigetta piena di soldi per il M5S ha anche un retroscena: uno dei funzionari del consolato l’aveva trovata e l’aveva segnalata a Carvajal, che aveva successivamente indagato sul motivo della spedizione ritenendola a posteriori valida, dicendo al funzionario di lasciar perdere la questione perché avrebbe potuto creare problemi nei rapporti tra Italia e Venezuela. Il governo del Venezuela non ha risposto a una richiesta di chiarimenti da parte di ABC, come come Vito Crimi, Luigi Di Maio e Beppe Grillo, interrogati dal quotidiano sulla vicenda. ABC ricorda poi che il governo Conte non ha riconosciuto la legittimità di Juan Guaidó come presidente ad interim del Venezuela nel febbraio del 2019, una decisione contro la quale aveva polemizzato all’epoca Matteo Salvini. #Salvini su #Venezuela: non stiamo facendo una bella figura. Capisco che ci siano sensibilità diverse nel Governo, ma è la Costituzione venezuelana che dice che, finito mandato di #Maduro, dittatore rosso, entra in carica il presidente della Camera, #Guaido. Poi ricorda come l’attuale sottosegretario agli Esteri M5S Manlio Di Stefano aveva guidato una delegazione del M5S nel 2017 a Caracas per partecipare agli eventi commemorativi del quarto anniversario della morte di Hugo Chávez. La delegazione era stata ricevuta dai leader del governo Maduro, tra cui il vicepresidente Delcy Rodríguez. Sempre secondo ABC i fondi neri usati dal governo del Venezuela derivavano dalle vendite del petrolio e nell’ultimo decennio Chavez e Maduro hanno finanziato movimenti politici e governi di paesi come Argentina, Bolivia e Cuba: l’FBI ha accusato Fernández Kirchner di aver ricevuto denaro dal governo di Chávez per finanziare la sua campagna elettorale del 2007 con 800mila dollari.
Il quotidiano spagnolo ABC: “Il governo di Chavez finanziò il M5S con 3,5 milioni nel 2010”. Il Corriere del Giorno il 15 Giugno 2020. Secondo il giornale conservatore, che pubblica in prima pagina anche lo stralcio di un documento dei servizi venezuelani, il denaro venne consegnato in contanti a Gianroberto Casaleggio attraverso il console venezuelano a Milano. Il noto quotidiano spagnolo ABC pubblica in prima pagina un articolo che riguarda il M5S. Secondo il giornale conservatore, il governo venezuelano di Hugo Chavez avrebbe finanziato nell’estate del 2010 con fondi in nero da tre milioni e mezzo di euro il nascente Movimento di Grillo e Casaleggio. Il denaro sarebbe stato consegnato in contanti in una valigetta attraverso l’intermediazione di Gian Carlo di Martino console venezuelano a Milano, a Gianroberto Casaleggio. Secondo il documento pubblicato da ABC lo scopo delle sovvenzioni di Chavez era quello di appoggiare un nuovo “movimento anticapitalista e di sinistra nella Repubblica italiana” e il destinatario finale sarebbe stato Gianroberto Casaleggio. Tutto avrebbe avuto iniziato per errore, quando un addetto militare del consolato venezuelano a Milano avrebbe trovato una valigetta contenente 3.5 milioni. Da qui la segnalazione a Hugo Carvajal, all’epoca a capo dell’intelligence di Caracas, e la necessità di stilare il report che è stato pubblicato oggi da Abc. “Sono state impartite istruzioni verbali al nostro funzionario in Italia per non continuare a riferire sulla questione – si legge nel documento – che potrebbe diventare un problema diplomatico” tra Italia e Venezuela. Il documento indica il cofondatore e ideologo del Movimento Cinquestelle, morto nel 2016, come “promotore di un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana”. I 3,5 milioni di euro – aggiunge il quotidiano citando il documento dell’intelligence, allora guidata da Hugo Carvajal – furono inviati “in modo sicuro e segreto attraverso valigia diplomatica“. La valigetta creò anche un problema interno alla diplomazia venezuelana, rivela il giornale, perchè era stata trovata dall’addetto militare che ne aveva informato Carvajal. Questi lo avrebbe tranquillizzato con un dispaccio in cui affermava: “Sono state impartite istruzioni verbali al nostro funzionario in Italia per non continuare a riferire sulla questione, che potrebbe diventare un problema diplomatico” tra Italia e Venezuela. Carvajal è latitante dal novembre scorso dopo l’approvazione della sua estradizione negli Stati Uniti, dove è accusato di narcotraffico e vendita di armi ai guerriglieri delle Farc colombiane. La Spagna, dove si era rifugiato – rimarca il quotidiano -, non era riuscita a impedire la sua fuga. La somma destinata al Movimento Cinquestelle sarebbe stata attinta da fondi riservati amministrati dall’allora ministro dell’Interno (oggi al dicastero dell’Economia), Tareck el Aissami, che era, ed è, considerato uomo di fiducia di Nicolas Maduro. Aissami – ricorda il quotidiano ABC – è stato oggetto di sanzioni da parte delle autorità statunitensi per reati legati al narcotraffico e al riciclaggio di denaro. Le stesse autorità che pochi mesi dopo adottarono sanzioni economiche contro Maduro accusandolo, subito dopo le elezioni che gli Usa considerano illegittime, “un dittatore che ignora la volontà del popolo“. Abc afferma di avere contattato i diretti interessati alla vicenda, compresi l’attuale leader dell’M5E, Vito Crimi, il suo ex capo politico, Luigi Di Maio, il console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino e lo stesso Beppe Grillo, ma che “nessuno di loro ha risposto alle domande”. Il M5 va ricordato nacque nel 2009, quando per la prima volta presentò le proprie liste alle elezioni amministrative. Il Movimento non ha mai nascosto la sua posizione di vicinanza al regime di Nicolas Maduro, che all’epoca dei fatti era ministro degli Esteri di Chavez, schierandosi apertamente contro Juan Guaidó, presidente ad interim del Venezuela. Di presunti finanziamenti ai 5Stelle peraltro a maggio 2019 parlava in un’intervista al quotidiano La Repubblica, proprio l’avversario dei “chavisti”: Juan Guaidò. Immediate le reazioni delle opposizioni. “Grazie a questo documento segreto pubblicato dallo spagnolo Abc si comprende l’atteggiamento del Governo italiano sul Venezuela e Maduro. Presenterò un’interrogazione urgente a Borrell per sapere chi in Europa e per quanto tempo ha ricevuto finanziamenti illeciti dal regime venezuelano“. Lo scrive su Twitter Antonio Tajani. La Lega parla di “vicenda gravissima”. “Mentre gridavano ‘vaffa’ al mondo politico e si presentavano come i garanti della legalità, i vertici del Movimento 5 Stelle nel 2010 avrebbero incassato 3,5 milioni di euro in contanti spediti a Gianroberto Casaleggio dentro una valigetta dall’attuale presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, allora ministro degli Esteri di Chavez. Se quanto riportato dal quotidiano spagnolo ‘Abc’, che cita un documento dell’intelligence venezuelana, fosse confermato, ci troveremmo di fronte ad un finanziamento irregolare e segreto da parte di uno dei governi più controversi del Sudamerica alla forza politica che oggi esprime il presidente del Consiglio e che ha la maggioranza relativa in Parlamento. Beppe Grillo, invece di difendere Conte dagli attacchi interni di Di Battista, potrebbe dare qualche immediata spiegazione. Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo, pensavamo anche noi di aver visto tutto…” afferma in una nota Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. “Se fossero confermate le rivelazioni del quotidiano spagnolo Abc, secondo cui il governo venezuelano guidato da Chavez, e con Maduro ministro degli Esteri, avrebbe finanziato con 3 milioni e mezzo di euro il Movimento 5 Stelle, saremmo di fronte a un fatto gravissimo“. Lo afferma Sandro Gozi, deputato europeo di Renew Europe. “Secondo il giornale spagnolo, nel luglio 2010 il regime venezuelano avrebbe inviato una valigetta con i contanti al consolato di Milano, da consegnare a Gianroberto Casaleggio, in quanto “promotore – si legge nel documento ufficiale dell’intelligence venezuelana riportato da ABC – di un movimento di sinistra, rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana“, prosegue Gozi secondo il quale “è opportuno che il Movimento 5 Stelle smentisca al più presto questa vicenda che, se fosse confermata, metterebbe in imbarazzo non solo il loro partito ma l’intero governo italiano“. “Il ministero degli Esteri del Venezuela sta valutando azioni legali da intraprendere” hanno fatto sapere delle fonti interne all’ambasciata venezuelana a Roma all’Agenzia Dire.
Soldi dal governo venezuelano di Hugo Chavez al nascente M5S con un finanziamento in nero da tre milioni e mezzo di euro? "Tutto totalmente falso. E' una fake news uscita più volte, l'ultima nel 2016. Dalle smentite ora passeremo alle querele". Così Davide Casaleggio, all'Adnkronos, sull'articolo pubblicato dal quotidiano spagnolo ABC.
(ANSA il 15 giugno 2020) - "Se fossero confermate le rivelazioni del quotidiano spagnolo Abc, secondo cui il governo venezuelano guidato da Chavez, e con Maduro ministro degli Esteri, avrebbe finanziato con 3 milioni e mezzo di euro il Movimento 5 Stelle, saremmo di fronte a un fatto gravissimo". Lo afferma Sandro Gozi, deputato europeo di Renew Europe. "Secondo il giornale spagnolo, nel luglio 2010 il regime venezuelano avrebbe inviato una valigetta con i contanti al consolato di Milano, da consegnare a Gianroberto Casaleggio, in quanto "promotore - si legge nel documento ufficiale dell'intelligence venezuelana riportato da ABC - di un movimento di sinistra, rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana", prosegue Gozi secondo il quale "è opportuno che il Movimento 5 Stelle smentisca al più presto questa vicenda che, se fosse confermata, metterebbe in imbarazzo non solo il loro partito ma l'intero governo italiano".
Fondi neri del Venezuela ai 5Stelle, Casaleggio: “Tutto falso”. Il dubbio il 15 giugno 2020. Secondo il quotidiano spagnolo Abc, nell’estate del 2010, il governo venezuelano ha inviato 3,5 milioni di euro al Consolato di Milano a copertura del partito fondato da Beppe Grillo. “Nicolás Maduro ha dato la sua autorizzazione nel 2010 a inviare una valigia contenente 3,5 milioni di euro al Consolato venezuelano di Milano per finanziare in nero il Movimento 5 stelle , un partito nato nell’ottobre 2009 che ora governa nel paese transalpino”. Inizia così l’articolo in esclusiva del giornale spagnolo Abc sui presunti fondi neri che il partito fondato da Chavez avrebbe elargito al Movimento fondato da Beppe Grillo. “Ciò si riflette nei documenti classificati come segreti della direzione generale dell’intelligence militare del paese caraibico a cui ABC ha avuto accesso. L’attuale amministratore delegato di Caracas era allora ministro degli Esteri”, spiega il giornale spagnolo. “Il governo venezuelano – si legge ancora – ha scelto di non rispondere al questionario fatto pervenire da ABC e destinato a Maduro e El Aissami. Possibilità di replica è stata offerta anche all’attuale leader del Movimento 5 Stelle Vito Crimi, al precedente leader politico Luigi di Maio, al console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino e allo stesso Grillo. Nessuno di loro ha risposto alle domande di questo quotidiano”, si legge ancora nell’articolo.
Casaleggio: “Tutto falso, ora querelo”. Soldi dal governo venezuelano di Hugo Chavez al nascente M5S con un finanziamento in nero da tre milioni e mezzo di euro? “Tutto totalmente falso. E’ una fake news uscita più volte, l’ultima nel 2016. Dalle smentite ora passeremo alle querele”. Così Davide Casaleggio, all’Adnkronos, sull’articolo pubblicato dal quotidiano spagnolo ABC.
Soldi da Chavez ai 5 Stelle, l'uomo indicato come intermediario: "E' tutto falso: questo è un complotto dell'ultradestra". Pubblicato lunedì, 15 giugno 2020 da Luca De Vito su La Repubblica.it. Parla Giancarlo Di Martino, console venezuelano a Milano, segnalato dal quotidiano Abc come il contatto tra il governo venezuelano e Casaleggio. Giancarlo Di Martino ci accoglie nel suo ufficio al consolato venezuelano a Milano, in Corso Europa 5. E' lui che, secondo quanto riportato dal quotidiano spagnolo Abc, avrebbe fatto da intermediario per il passaggio di denaro in contanti dal governo venezuelano a Casaleggio per finanziare il Movimento 5 stelle. Ha modi gentili, ci offre un bicchiere d'acqua. Il suo ufficio e tutto il consolato hanno le pareti tappezzate di fotografie e immagini del presidente Hugo Chavez (solo o con Di Martino), quadri con frasi che inneggiano alla rivoluzione e al comunismo. Sulla scrivania ha una bandierina gialla, blu e rossa, quella del Venezuela.
De Martino, lei è accusato di aver fatto da mediatore per il finanziamento ai 5 Stelle da parte del governo venezuelano. E' mai avvenuto quell'incontro e la consegna del denaro?
"Non è mai successo, è tutto falso quello che è stato scritto. Io sono arrivato qui nel 2010 - si alza e ci mostra un documento, firmato da Chavez, appeso al muro alle sue spalle - qui c'è la prova. Ero appena arrivato in Italia, non conoscevo nessuno. Cos'era all'epoca il Movimento 5 stelle?".
Quindi non avete mai fatto arrivare quel denaro in Italia?
"Assolutamente no. Riflettiamo su questo: come sarebbe possibile che tutti quei soldi siano arrivati in Italia, in contanti, senza che la vostra sicurezza si sia accorta di nulla? Senza controlli, senza verifiche della Digos? Se fosse, sarebbe davvero un problema per la vostra sicurezza".
Avete rapporti di qualche tipo con il Movimento 5 stelle?
"Non abbiamo nessun rapporto con loro. Noi siamo un movimento rivoluzionario, loro sono una struttura revisionista. Sono bravi, hanno organizzato un movimento italiano che ha avuto successo. E sono arrivati al potere. Ma noi siamo rivoluzionari, loro no. Non farebbero mai una costituente come abbiamo fatto noi, loro fanno parte del sistema".
Neanche rapporti politici?
"No. Certo, li ringraziamo perché non hanno riconosciuto Guaidò e questa è una cosa importante per noi. Hanno seguito la sapienza di Mattarella che è una persona che ammiro moltissimo: in quell'occasione il vostro presidente della Repubblica disse che la cosa più importante è la sovranità dei popoli".
Ha mai conosciuto o incontrato Roberto Casaleggio?
"Mai. Ho visto una volta Salvini, non mi sta simpatico".
Abc ha pubblicato un documento che sembra ricostruire con precisione quanto avvenuto.
"E' ovviamente un falso anche quello".
Come spiega queste accuse?
"Non è un segreto per nessuno che il giornale Abc sia finanziato dalla destra venezuelana. Vogliono attaccare noi e vogliono attaccare anche i 5 Stelle. Mi aspetto che il Movimento faccia delle azioni legali o almeno che dicano qualcosa: sono loro che sono stati presi di mira più di noi".
Ma chi vorrebbe fare questo attacco?
"L'ultradestra venezuelana insieme all'ultradestra italiana".
Perché vogliono attaccare voi?
"In Venezuela siamo vicini alle elezioni e le vinceremo noi. Ci attaccano per questo. Abbiamo fatto un lavoro straordinario durante la pandemia, nel paese ci sono pochissimi casi di coronavirus. Le opposizioni invece non hanno un leader, non hanno un progetto e non hanno un popolo".
Avete rapporti con qualche politico italiano?
"Con il sindaco di Milano, Beppe Sala ci siamo conosciuti durante Expo, lui è un uomo straordinario. Sono stato sindaco a Maracaibo, la seconda città del Venezuela, credo che il suo modo di agire sia molto simile a noi e alle nostre politiche. E' un uomo umile e accessibile. Io ammiro Sala. Come Mattarella".
L'inchiesta di Abc smentita da Casaleggio jr. Dal Venezuela di Chavez 3,5 milioni al Movimento 5 Stelle, i documenti segreti che “inguaiano” Grillo. Redazione de il Riformista il 15 Giugno 2020. Il Movimento 5 Stelle? Un partito “anticapitalista e di sinistra nella Repubblica italiana”. Per questo il Venezuela dell’ex presidente Hugo Chavez, scomparso nel 2013, lo avrebbe finanziato illegalmente con tre milioni e mezzo di euro nell’estate del 2010. Lo scoop è del quotidiano spagnolo Abc, che piazza in prima pagina la ‘bomba’ che rischia di terremotare la politica italiana. Denato, scrive Abc, che sarebbe stato consegnato in contanti all’interno di una valigetta dal console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino, direttamente nelle mani di Gianroberto Casaleggio, fondatore assieme a Beppe Grillo del Movimento. Nell’articolo del quotidiano spagnolo si legge infatti che i 3,5 milioni di euro “sono stati inviati “in modo sicuro e segretamente attraverso la borsa diplomatica”, come si evince letteralmente dal dossier dell’intelligence militare che Hugo Carvajal, un fuggitivo per la giustizia dallo scorso novembre. La giustizia americana lo sta indagando per crimini legati al traffico di droga e per aver fornito armi ai guerriglieri delle FARC colombiane. Fuggì dalla Spagna senza che le autorità giudiziarie e di polizia lo impedissero”. Quei soldi per Abc erano arrivati da un fondo a disposizione dell’allora ministro degli Interni (ora vicepresidente del ministero dell’Economia, ndr) Tareck el Aissami, nella ristretta cerchia degli uomini di fiducia dell’attuale presidente venezuelano Nicolas Maduro. Il quotidiano spagnolo spiega nella sua inchiesta da prima pagina che le richieste di chiarimento al governo venezuelano e agli stessi vertici pentastellati non hanno sortito alcun effetto. “Il governo venezuelano – spiega Abc – ha scelto di non rispondere alle domande inviate dalla ABC a Maduro ed El Aissami. Anche l’attuale leader dell’M5S, Vito Crimi, il suo ex capo politico, Luigi Di Maio, il console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino e lo stesso Beppe Grillo hanno avuto la possibilità di rispondere. Nessuno di loro ha risposto alle domande su questo giornale”. Una risposta è arrivata questa mattina da Davide Casaleggio, che all’Adnkronos ha definito l’inchiesta di Abc “una fake news uscita più volte, l’ultima nel 2016. Dalle smentite ora passeremo alle querele”. Uscita simile anche da Vito Crimi, col capo politico che in una note spiega come “quella dei presunti finanziamenti del Venezuela al Moviemento 5 Stelle è una fake news semplicemente ridicola e fantasiosa. Sulla questione non c’è altro dire, se non che del lontano 2010 ricordo quando ero candidato presidente alle regionali in Lombardia. Anche allora, così come negli anni a seguire, quella che realizzammo fu una campagna elettorale fatta con pochissime risorse e mezzi, frutto di micro donazioni dei cittadini italiani. Per il resto, valuteremo se adire alle vie legali. Certamente non ci lasciamo distrarre da certe sparate o intimidire da quei partiti e poteri che già le stanno cavalcando per cercare di indebolire la nostra posizione di baluardo a tutela degli interessi dei cittadini”. Secondo una fonte diplomatica dell’ambasciata venezuelana a Roma, sentita dall’Adnkronos, il documento pubblicato da Abc è “un falso, ci sono tanti punti incongruenti in una nota che è falsa e contraffatta”. “Il ministero degli Esteri agirà per vie legali contro il giornale”, annuncia la fonte.
Felice Florio per open.it il 15 giugno 2020. Il chavismo finanziò il Movimento 5 stelle che oggi governa l’Italia. L’autore di questo articolo pubblicato sul giornale Abc, è Marcos García Rey, un giornalista freelance spagnolo che da tempo segue le vicende interne al Venezuela. Oggi, 15 giugno, la sua inchiesta sta facendo tremare il partito italiano più rappresentato in parlamento: se dovesse essere confermato che a Gianroberto Casaleggio è stata consegnata una valigetta con 3,5 milioni di euro in contanti, potrebbe essere la fine dell’ultimo bastione della diversità dei Cinquestelle. Mentre Vito Crimi e Davide Casaleggio annunciano azioni legali, il console del Venezuela in Italia, Gian Carlo Di Martino, ha detto a Open che l’inchiesta è una ricostruzione fantasiosa per affossare i 5 stelle e che il documento a suo supporto sarebbe falso. «Faccio il giornalista investigativo da molti anni, ho fonti importanti in diversi Paesi – racconta García Rey -. Sono tre anni che porto avanti indagini in Venezuela. Quello che ho scritto è tutto verificato, ho consultato più fonti, sia pubbliche che interne dell’intelligence del Paese sudamericano».
García Rey, sei certo che questi 3,5 milioni di euro sono arrivati al Movimento 5 stelle?
«Sì, e se occorrerà sarò pronto a dimostrarlo in tutte le sedi opportune. Non so se ci siano stati altri flussi di denaro, ma per quanto riguarda i 3,5 milioni di euro più fonti dirette mi hanno confermato che sono arrivati nelle tasche dei 5 stelle».
Sei stupito dalla reazione che ha suscitato il tuo articolo?
«Capisco che in Italia questa notizia stia creando molto scalpore perché riguarda un partito di governo, ma in Spagna e negli altri Paesi no. Anche perché, almeno per quanto mi riguarda, il comportamento del Venezuela in questa vicenda non mi stupisce».
Come mai?
«Negli anni in cui Chavez poté approfittare di ingenti risorse derivanti dalla vendita del petrolio, sappiamo che lui e il suo governo favorirono i movimenti politici affini al socialismo. Non è successo solo in Italia, ma in molti altri Paesi. Per esempio ci sono indagini della polizia sul trasferimento di denaro dal Venezuela a movimenti politici in Argentina».
Davide Casaleggio e Vito Crimi hanno bollato il tuo pezzo come «fake news» e hanno annunciato una querela.
«Sono molto tranquillo, non pubblicherei mai qualcosa del genere senza verifiche. Nella mia vita ho ricevuto diverse azioni legali a mio carico, ma non ho mai perso una causa. Ribadisco, la mia tranquillità è estrema: riceverò attacchi tanto dal Movimento 5 stelle quanto dal governo venezuelano, ma sono abituato a lavorare sotto pressione».
Da dove è partita la tua indagine?
«Mi è arrivato un documento che racconta una storia. Quella storia l’ho interpretata per i lettori, consultando tutte le mie fonti. Non ho dubbi che questa valigetta con i contanti sia arrivata in Italia attraverso il consolato di Milano e che Di Martino, il console, ha fatto da intermediario tra il governo di Hugo Chavez e il Movimento 5 stelle. Ho pubblicato il documento, ma ho altre prove che ciò che è scritto in quel documento sia verità».
Il console Di Martino dice che quel documento è falso.
«Ho le prove, invece, che quel documento sia vero e che Di Martino abbia fatto da intermediario. Il console rientra nella vicenda perché era la voce del governo di Chavez in Italia e lui senz’altro sapeva del dialogo tra Venezuela e 5 stelle. La valigetta con i 3,5 milioni di euro è passata per il suo consolato».
A questo proposito, il console si difende sostenendo che fosse impossibile per lui, arrivato da un paio di mesi in Italia, avere dei legami con i 5 stelle.
«Capisco il suo tentativo di difesa, ma io ho le mie fonti che dicono il contrario. Quello che è sotto gli occhi di tutti, oggi, è che nel tempo ci sono state molte relazioni tra il Movimento 5 stelle e il Venezuela».
Marcos García Rey è un giornalista investigativo freelance. Fa parte dell’International Consortium of Investigative Journalists e coordina il master di giornalismo investigativo co-organizzato dall’Università Rey Juan Carlos e da Unidad Editorial.
M5S, finanziamento segreto dal Venezuela: "Le prove sono vere, mi querelino pure", parla l'autore dello scoop di Abc. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Quarantasei anni, Marcos García Rey è il giornalista investigativo spagnolo che in Italia è diventato improvvisamente famoso per il suo scoop sui finanziamenti del regime venezuelano ai Cinque Stelle. Alla storia della valigetta del consolato di Milano lei è arrivato dopo essersi occupato di molte cose diverse: sezione araba della Efe, membro dell'International Consortium of Investigative Journalists, co-organizzatore di un Master alla Università Rey Juan Carlos, indagini sui Panama Papers e sugli incendi forestali in Spagna, un libro sulle vittime dell'Eta, uno sull'11 settembre nella stampa araba, nel 2010 ha ricevuto sia il Tom Renner Award che Whitman Bassow Award. «Sul tema del Venezuela sto lavorando da oltre tre anni, e per ottenere questo documento ci ho lavorato per tre mesi. Non è una cosa estemporanea. Ho avuto buone fonti in molti Paesi, incluso il Venezuela. A febbraio mi è arrivato via posta quel documento, che raccontava una storia. Ho fatto tutte le verifiche necessarie per controllare se fosse autentico. Non lo ho pubblicato il giorno dopo. Solo dopo tre mesi di riscontri ho deciso di pubblicare l'articolo».
Per il quale i Cinque Stelle minacciano ora querele. «Uno dei riscontri che ho cercato in questi tre mesi è stato appunto quello sia del console Giancarlo Di Martino che di Luigi Di Maio, Vito Crimi e Beppe Grillo. Ho mandato appunto un paio di e-mail a testa, ed ho riscontrato che hanno letto. Nessuno ha risposto. Se lo ritengono opportuno, possono fare tutte le querele che vogliono. È un loro pieno diritto. Però io sono tranquillo». Sulla stampa italiana stanno apparendo alcune osservazioni su possibili tracce di falsificazione. Una è ad esempio che nel documento appaiono simboli riferiti al Venezuela di prima del 2010: il cavallo con la testa a destra invece che a sinistra come Chávez volle per soddisfare un capriccio della figlia; una dicitura del Ministero della Difesa senza l'aggiunta "Del Potere Popolare". L'altra ipotizza date e firme aggiunte. «Ci sono tutti i timbri regolari. I documenti sono stati assolutamente verificati da varie fonti, che ovviamente non posso rivelare neanche in Tribunale, per segreto professionale. Ma in caso di giudizio sono tranquillo. I documenti sono verificati con fonti tanto personali come documentali che tengono un loro contesto storico e determinati nomi. Non è come Podemos del quale non siamo mai riusciti a dimostrare che come partito avesse ricevuto soldi direttamente dal governo chavista. In questo caso la prova c'è».
Ma davvero il dittatore Maduro diede 3,5 milioni ai Cinque Stelle? Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Non si dava un’importanza simile ad una valigia dall’agosto 1977, da quella che conteneva Herbert Kappler il boia contorsionista delle Fosse Ardeatine evaso dal Celio. La differenza è che lì dentro c’era accartocciato un nazista, qui la reputazione del primo partito d’Italia. La reputazione e 3,5 milioni di euro in biglietti di piccolo e medio taglio, parrebbe. Dunque. C’è questo documento spuntato da un’inchiesta spagnola del quotidiano ABC, che pubblica la lettera top secret datata 5 luglio 2010 tra il ministero della Difesa di Caracas e i servizi di intelligence militari del Venezuela, in cui si parla del trasferimento di una valigetta, con tre milioni e mezzo di euro, appunto dal paese sudamericano a Milano per finanziare il Movimento 5 Stelle. Il mittente citato in calce è la “Repubblica bolivariana de Venezuela”, il protocollo pare autentico, il tono burocratico pure: “Tengo el honor de dirigime a usted en la oportunidad de informarle sobre situaciòn occurente en la Republica de Italia…”. Ossia: “Ho l’onore di rivolgermi a lei per informarla riguardo una situazione in corso in Italia, riferita da un nostro addetto militare in quel Paese. La questione riguarda la raccomandazione al nostro funzionario di indagare riguardo l’origine di una valigia contenente euro in contante, inviato al console del Venezuela a Milano”. Ed ecco subito la conferma: “Si è potuto sapere che effettivamente fu inviata una valigia con 3,5 milioni in contante, denaro proveniente da un fondo segreto del nostro Paese, amministrato da Tarek el Aissami (accusato dagli Usa di traffico di droga e per la cui cattura Washington offre 10 milioni di dollari) per conto del ministro dell’Interno, e avallato e autorizzato dallo stesso titolare dell’Interno Nicolas Maduro”. E poi, si legge ancora nel documento: “L’invio della valigia contenente il denaro avvenne in modo sicuro e segreto attraverso una “valigia diplomatica. La destinazione del denaro nella sua totalità era per un cittadino italiano di nome Gianroberto Casaleggio, promotore di un movimento (il M5S, ndr) di sinistra rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana”. E ancora i 3,5 milioni di euro sarebbero stati inviati “in modo sicuro e segretamente attraverso la borsa segreta”, si legge nel fascicolo dell’intelligence militare che Hugo Carvajal (allora capo dei Servizi), fuggitivo della giustizia dallo scorso novembre, dopo che era stata approvata la sua estradizione negli Stati Uniti. Insomma, ci sono tutti gli elementi del giallo. Un ministro compiacente che diverrà feroce dittatore condannato in seguito dall’universo mondo; i Servizi capeggiati da un delicato signore che, a causa delle sua indefessa attività di narcotraffico e forniture d’armi ai guerrilleri delle Farc, diverrà, negli anni, uno dei maggiori ricercati dall’Interpol; una valigetta utilizzata dalle rappresentanze diplomatiche che gode dell’immunità di perquisizione e sequestro, zeppa di contante per finanziare l’ennesima rivoluciòn di sinistra e anticapitalista; e un presunto destinatario della valigetta – Casaleggio Sr.- che probabilmente non ha mai saputo di essere un rivoluzionario anticapitalista. E che, essendo defunto, non può smentire, ma in sua vece lo fanno il figlio, il governo venezuelano e Vito Crimi che in questo momento minacciano di querelare ogni cosa in movimento. Ora, noi siamo garantisti e non abbiamo motivo di credere che i suddetti documenti non siano una fake news “ridicola e fantasiosa e vile”, come sbuffano i pentastellati. Però. Però, diamine la fonte è il più antico quotidiano spagnolo, uno dei più autorevoli e diffusi giornali iberici con 11 edizioni e 660mila lettori, e una posizione di rilievo a Madrid e Siviglia. Se andate sul suo sito la notizia “El Chavismo financiò el Movimiento 5 Estrellas que hoy gobierna en Italia” è la seconda nell’homepage dopo il Coronavirus. E ABC, alla minaccia di querele se fotte e risponde: “Il governo venezuelano ha scelto di non rispondere al questionario fatto pervenire da ABC e destinato a Maduro e El Aissami. Possibilità di replica è stata offerta anche all'attuale leader del Movimento 5 Stelle Vito Crimi, al precedente leader politico Luigi di Maio, al console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino e allo stesso Grillo. Nessuno di loro ha risposto alle domande di questo quotidiano”. E attraverso il vicedirettore Luis Ventoso conferma tutto “siamo un giornale serio e rispettabile, di massima qualità. Facciamo le nostre verifiche, non siamo dei pazzi che pubblicano le prime informazioni che ci capitano”. E lo stesso autore del pezzo Marcos Garcia Rey, considerato un ottimo giornalista investigativo (materia, quella dell’inchiesta, che insegna all’università) non ha mai perso una causa, e assicura: “Io sono tranquillo. Il mio lavoro è verificato da più fonti e non ho mai pubblicato alcun articolo basato su notizie false”. Sicché, diamine, qualche dubbio ci viene. Soprattutto tenendo conto degli spiazzanti discorsi a favore del dittatore Maduro pronunciati con insistenza da esponenti autorevoli dei 5 Stelle come Di Battista, Di Stefano e Di Maio, unici al mondo. E il sospetto è l’anticamera della verità, come direbbe Bonafede…
Giovanni Favia, l'ex M5s: "Quella email dal Venezuela la ho ricevuta, mi si è accesa una lampadina". Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Giovanni Favia, ex consigliere regionale M5s in Emilia-Romagna, in una intervista al Giorno parla del presunto finanziamento da 3 milioni e mezzo di euro dal Venezuela nei confronti del M5s. "Se fosse vera, e mi auguro che non lo sia e che sia tutta una montatura, sarebbe una notizia di una gravità assoluta. Mi ha indignato profondamente sentirla. E mi si è anche accesa una lampadina. Non so se altre persone abbiano ricevuto quella mail o altri contatti. Io però l'ho ricevuta", racconta Favia. "Poco dopo la mia elezione, nel 2010, fui contattato via mail da dei diplomatici venezuelani che mi invitarono in ambasciata. Si dicevano nella mail interessati a conoscere e a prendere contatto con il movimento. Non mi era mai successo di essere avvicinato da una potenza straniera". Favia entra nei dettagli: "All'epoca rimasi spiazzato e stupito. Ero un esponente di spicco all'epoca, certo, ma ero anche soltanto un consigliere regionale. Anche se Casaleggio non era ancora così famoso gestiva tutto lui il Movimento e io invece ero esposto, feci interviste anche con giornali stranieri. Col senno di poi quel contatto mi sembra credibile. Comunicai subito la cosa a Gianroberto Casaleggio e diedi i contatti ai diplomatici venezuelani", conclude Favia nella sua ricostruzione.
«Mi si è accesa la lampadina, ricevetti quella mail dal Venezuela…»: l’ex grillino inguaia i Cinquestelle. Augusta Cesari mercoledì 17 giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. «Mi si è accesa una lampadina»: Giovanni Favia, ex consigliere regionale M5s in Emilia-Romagna, fuoriuscito dal Movimento, ricorda circostanze ed e-mail. E sono guai per Grillo e grillini. In una intervista al Giorno si espone con precisione sull’imbarazzante vicenda del finanziamento di 3 miliardi e mezzo da Maduro al suo ex partito. “Mi ha indignato profondamente sentirla. E mi si è anche accesa una lampadina. Non so se altre persone abbiano ricevuto quella mail o altri contatti. Io però l’ho ricevuta”, racconta Favia.
“Quella mail io l’ho ricevuta”. “Non so se altre persone abbiano ricevuto quella mail o altri contatti. Io però l’ho ricevuta”, risponde a precisa domanda Favia. Questo il suo racconto: “Poco dopo la mia elezione, nel 2010, fui contattato via mail da dei diplomatici venezuelani che mi invitarono in ambasciata. Si dicevano nella mail interessati a conoscere e a prendere contatto con il movimento. Non mi era mai successo di essere avvicinato da una potenza straniera”. Favia era allora solo un consigliere regionale, dunque si stupì che lo avessero contattato dal Venezuela: “All’epoca rimasi spiazzato e stupito. Ero un esponente di spicco all’epoca, certo, ma ero anche soltanto un consigliere regionale. Anche se Casaleggio non era ancora così famoso gestiva tutto lui il Movimento. Col senno di poi quel contatto mi sembra credibile. Comunicai subito la cosa a Gianroberto Casaleggio e diedi i contatti ai diplomatici venezuelani”. Dunque l’ex m5S rispose alla mail: “Certo, parlai a nome mio, il movimento veniva gestito da Casaleggio e li dirottai su di lui. C’è stata questa coincidenza: nel 2010, l’anno in cui si svolgerebbe il presunto scoop raccontato dal quotidiano spagnolo Abc, io fui contattato da quei diplomatici. Poi, chiaro, per carità, tutto questo questo non significa nulla, non c’è nessun collegamento con quel presunto passaggio di soldi. Ma fu davvero insolito”, è il suo dubbio. Alla domanda: Casaleggio che cosa le disse all’epoca?, Favia risponde: “Assolutamente nulla, era uomo di poche parole”.
“Ci sono molte zone d’ombra sui soldi del M5S”. Poi la stoccata finale. Il M5s ha smentito seccamente la notizia parlando di enorme bufala, ribadendo di aver rinunciato a milioni e milioni pubblici. Commenta Favia: “Una litania che fa sorridere. Loro non hanno diritto ai rimborsi elettorali. Gli unici che hanno rinunciato sono stati i primi consiglieri regionali. Io ho rinunciato, non la Casaleggio associati. Dire di aver rinunciato ai soldi non può essere una risposta per fugare dubbi. Semmai si dimostrino eventuali innocenze in altri modi, non citando un’onestà che non esiste. Ci sono molte zone d’ombra sul tema dei soldi del M5s. Anche sugli stipendi: Grillo e Casaleggio non volevano quella rinuncia, il primo a proporla fui io”. Favia fu espulso dal Movimento nel 2012.
Giovanni Favia e la valigetta del compagno Chavez: il torbido-tanto-per di un grillino è per sempre. Libero Quotidiano il 17 giugno 2020. Metodo-Cinque Stelle. La cultura del sospetto. Dei punti esclamativi a cui sfugge un "1". Del torbido tanto per. Si parla della valigetta venezuelana, fior di milioni from Caracas, anno di grazia 2010, tutti a Gianorberto Casaleggio, dice l'inchiesta giornalistica piovuta dalla Spagna e accolta con fragore in Italia. Fragore scontato: valigetta, soldi, loro "duri e puri" che come un Preziosi qualunque filano via con una ventiquattrore piena zeppa di bigliettoni. Troppo bello. Forse anche troppo bello per essere vero, ammettiamolo. Poi, certo, il subcomandante Dibba e altri invasati un metaforico pugno chiuso, a Chavez y Maduro, negli anni, lo hanno rivolto con sommo gaudio in molteplici occasioni. Epperò quanti però, in questa succosa spy-story su sfondo politico che ci lascia parecchi dubbi. Ma si dicva: il metodo-Cinque Stelle, il grillino che perde le gialle stellette ma non il vizio del sospetto. Del torbido tanto per. Si parla del fu M5s Giovanni Favia, ex consigliere regionale in Emilia Romagna, che dal pianeta giallostellato fu cacciato dopo che in un furionda disse peste e corna dell'original Casleggio, proprio Gianroberto. E il fu grillino Favia, intervistato a valigetta caldissima dal Quotidiano Nazionale, mesta e rimesta, coltiva il sospetto e l'allusione. Parte col disclaimer anti-querela: "Se fosse vera, e mi auguro che non lo sia e che sia tutta una montatura, sarebbe una notizia di gravità assoluta. Mi ha indignato profondamente sentirla". Parla della valigetta, ovviamente. "E mi si è anche accesa una lampadina". Parbleu, l'illuminazione. Segue spiegazione della lampadina: "Poco dopo la mia elezione, nel 2010, fui contattato via mail da dei diplomatici venezuelani che mi invitarono in ambasciata. Si dicevano nella mail interessati a conoscere e prendere contatto con il Movimento. Non mi era mai successo di essere avvicinato da una potenza straniera", dice Favia. Già, la "potenza straniera", locuzione che crea suspense. Ma Favia non era neppure mai stato eletto a nulla, prima di quel 2010: suvvia, perché mai la "potenza straniera" avrebbe dovuto avvicinarlo, prima che diventasse "qualcuno" nell'universo pentastellato? "Ritenni di comunicare subito la cosa a Gianroberto Casaleggio e diedi i contatti ai diplomatici venezuelani", conclude Favia. Senza dilungarsi su considerazioni circa il normale e prevedibile ammiccare di una "potenza straniera" marginalizzata a un nuovo partito che in linea teorica - e successivamente anche pratica - al Chavismo non era così ostile, si nota come quella "email venezuelana", in cui di denari non si parlava, venga sventolata da Favia proprio per fomentare il sospetto. "Lampadina", direbbe lui. E ovviamente tira in ballo quel Casaleggio da cui, de facto, fu cacciato. La cultura del sospetto, del torbido tanto per. Il metodo-Cinque Stelle è per sempre. Non c'è espulsione che tenga.
La rivelazione del grillino dissidente: «Quando il Venezuela mi scrisse alla ricerca di un contatto col M5S». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 19 giugno 2020. Giovanni Favia racconta al Dubbio di quella strana email ricevuta dall’ambasciata venezuelana parecchio tempo fa, quando ancora era il volto fresco del M5S. Quando ha letto sui giornali la notizia di un presunto finanziamento venezuelano al Movimento 5 Stelle, Giovanni Favia, ex enfant prodige del grillismo poi sbattuto fuori per un fuorionda televisivo, ha fatto un balzo sulla sedia. Gli è tornata subito in mente una strana email ricevuta dall’ambasciata venezuelana parecchio tempo fa, quando ancora era il volto fresco del M5S, il primo eletto in un consiglio regionale della storia pentastellata da ostentare in ogni apparizione pubblica di Beppe Grillo.
Favia, di cosa si è ricordato dunque appena ha letto la notizia del presunto caso venezuelano?
«Di un’email ricevuta nel 2010, all’inizio del mio mandato. Funzionari della Repubblica bolivariana del Venezuela si dicevano interessati al mio Movimento e mi chiedevano un incontro per aprire un’interlocuzione con noi».
Ha ancora questa lettera?
«Sì, e la mostrerò se e quando sarà necessario».
Rispose alle richieste dell’ambasciata?
«Certo, ho spiegato che non ero io il responsabile della politica estera del Movimento. E li ho messi in contatto con i vertici del partito, cioè con Gianoberto Casaleggio. Posso dunque dire senza timore di smentita che almeno nel 2010 il Venezuela si interessò a noi. Questo non dimostra alcun finanziamento, ovviamente, solo che cercarono un contatto».
Dunque parlò con Casaleggio di questa email?
«Sì, se non ricordo male gli inoltrai proprio la lettera, sono passati 10 anni. Sono comunque certo di averlo messo al corrente di tutto. Perché non era una cosa normale all’epoca: una potenza straniera stava cercando un canale di comunicazione con noi».
Sa se Casaleggio proseguì questa interlocuzione?
«No, non mi fece sapere più niente».
Perché contattarono lei?
«All’epoca ero uno dei volti più noti del Movimento, andavo spesso in tv, venivo intervistato dai giornali esteri, ero il primo eletto nelle istituzioni ed ero di casa alla Casaleggio Associati. Contribuivo in maniera attiva all’elaborazione politica del M5S. Ma non è questo il punto, l’elemento rilevante è che il Venezuela riteneva interessante intercettarci. Eravamo una forza anti sistema».
Ma perché puntare su una forza ancora embrionale, senza neanche un parlamentare?
«Perché eravamo piccoli ma in crescita esponenziale. In Emilia Romagna avevamo già preso il 7 per cento delle preferenze, a Bologna quasi al 10. Non era folle puntare su un forza del genere, i movimenti si intercettano quando sono in ascesa. In più, in quel periodo Beppe Grillo era molto critico nei confronti dell’atalntismo».
Chi si occupava della politica estera del M5S?
«Noi eletti ci occupavamo semplicemente delle 5 stelle, i cinque temi su cui è nato il Movimento. Le linee di indirizzo che esulavano da questi temi le dava il Blog, che all’epoca non era troppo distante da certe posizioni. Ricordo il grande risalto dato alla lettera inviata da Aleida Guevara, la figlia del “Che”, o alle battaglie del popolo Mapuche in Cile. Le idee socialiste provenienti dal Sud America, che ben si sposavano con la lotta alle multinazionali, non erano distanti dal M5S di quel periodo».
Ci sono stati contatti con altre potenze straniere?
«Successivamente arrivarono gli Stati Uniti, con l’incontro di Grillo e Casaleggio all’ambasciata americana».
Quell’incontro cambiò le posizioni grilline in politica estera?
«Non lo so questo. Ma da un certo punto in poi il Movimento ha cominciato a essere amico di tutti, come faceva Berlusconi, amico di Bush, di Putin, di Erdogan. Mi pare evidente però che l’interlocutore privilegiato dei grillini oggi sia la Cina, e su questo di certo le posizioni sono cambiate, perché Grillo un tempo si scagliava contro le repressioni di Pechino».
Ha visto il presunto documento pubblicato dal giornale spagnolo Abc?
«Sì, ma non ho gli strumenti per giudicarlo. Può essere falso come vero. Io parlo di ciò che posso testimoniare con certezza».
Davide Casaleggio ha presentato querela contro Abc e ha chiesto ai pm di allegare il suo esposto al fascicolo aperto in Procura per far luce sul presunto finanziamento illecito. È una dimostrazione di trasparenza?
«Certo, ma lui potrebbe anche non essere a conoscenza di alcuni episodi. E non vale nemmeno l’autodifesa del Movimento 5 Stelle tutta concentrata sul fatto che già all’epoca il partito rinunciasse di propria volontà ai soldi pubblici: la notizia riportata da Abc non parla di un finanziamento illecito al M5S, ma di soldi destinati a singole persone. A rinunciare al finanziamento pubblico non era Casaleggio ma il partito».
Giovanni Favia racconta a Antonio Amorosi per affaritaliani.it il 18 giugno 2020.
Lei sostiene che nel 2010 i diplomatici venezuelani la contattarono!?
"Io racconto un fatto. Poi non ho elementi a riprova dell'accusa. Sicuramente è una coincidenza che nel 2010 ci furono questi contatti, un po' così, sorprendenti, diciamo, dell'ambasciata venezuelana... per aprire un contatto con il nostro movimento. In questo un po' le date coincidono. Poi non so se il documento è vero o è una montatura".
Si riferisce al documento pubblicato dal giornalista investigativo Marcos García Rey sulla testata spagnola Abc?
"Sì, non so se è stato ricostruito, se è vero o se...".
...o se è falso. Lei ricorda però di aver ricevuto questa mail ufficiale?
"Si, sì, sì. "
E cosa fece?
"Io semplicemente risposi che di questa cosa dovevano occuparsene i vertici e diedi i riferimenti di Casaleggio, anche se adesso nel dettaglio non ricordo i particolari”.
I riferimenti di Gianroberto Casaleggio?
"Sì."
Però i detrattori possono sempre pensare che lei abbia il dente avvelenato nei confronti del movimento e che lei abbia del risentimento...
"Io sto raccontando un fatto. Non sono né un accusatore né tifo per l'avvenuto passaggio di soldi. Io sto solo raccontando il fatto. È giusto che io lo racconti anche perché c'è un fascicolo d'indagine aperto. Per quello che può servire racconto che nel 2010 fui contattato dai diplomatici venezuelani che volevano prendere un contatto con il nostro movimento".
Lei quindi ce l’ha questa mail?
"Io non ce l'ho in mano, materialmente, ma potrei poterla recuperare dal back up del pc che ho fatto. La recupererò sicuramente se ce ne sarà la necessità".
Però lei ha un ricordo molto preciso di quest'evento, giusto?
"Io sono una testimonianza vivente di questo contatto. Di quello sono certo".
Al tempo, nel 2010, condivise con qualcun’altro questa comunicazione dei venezuelani che ha definito sorprendente?
"Non so se altri hanno ricevuto dei contatti, potrebbe essere. Io so quello che ho ricevuto e so che risposi io".
La mia domanda è: lei si confidò con qualcuno per l'arrivo di questa mail che cercava un contatto con il movimento?
"No, ma guardi non era una confessione. Era una cosa che… al tempo prendemmo con un po' di ilarità".
Prendemmo chi?
"Io e il mio staff in Regione Emilia-Romagna (Favia in quel momento era consigliere regionale del M5S)".
Quindi le persone che hanno lavorato con lei sono testimoni oculari di questo evento!?
"Sì ma non c'era nulla di..."
Volevo semplicemente capire quante persone potevano aver visto questa richiesta di comunicazione di cui stava parlando...
"La questione dello staff può essere nella memoria di qualcuno. Ma io ne sono certo al 100%. Dovrei trovare la mail per risalire alla data esatta. Ricordo che ero all'inizio del mio mandato in Regione. Anche se non ho la data esatta. Non ricordo da chi era firmata. Potrebbe essere lo stesso Di Martino o firmata dagli altri funzionari, non lo posso ricordare a distanza di 10 anni. È impossibile. Ricevevo centinaia di mail a settimana ".
In seguito alla telefonata con Favia abbiamo contattato Marco Vagnozzi che faceva parte del suo staff.
Lei era nello staff di Favia?
“Si!"
Ricorda di questa mail arrivata dai diplomatici venezuelani nel 2010?
“Si, si, si, si, arrivò dal Consolato”.
E quale fu la vostra reazione? Nel senso… eravate sopresi oppure no vi sembrò normale, una cosa tra le tante?
“Chiaramente siamo stati sorpresi anche perché non erano in tanti a livello internazionale a contattarci. Furono quelli del Venezuala poi, più avanti anche quelli degli Stati Uniti”
Vagnozzi ha scritto giorni fa una nota sulla sua pagina Facebook in cui solleva diversi dubbi sul caso.
“In merito alla notizia sul presunto finanziamento al M5S posso affermare alcune cose. Arrivò una mail del Consolato Venezuelano a tutti e quattro i consiglieri regionali nella mail istituzionale. Una semplice mail dove si chiedeva un incontro per conoscersi. Nessuno rispose e la mail venne inoltrata a Grillo e Casaleggio perché la materia non era di competenza regionale. Non sapemmo più nulla. Io ero presente in regione quando arrivò quella mail ma era decisamente dopo il 5 luglio. Se non ricordo male io iniziai a collaborare verso settembre del 2010. Gianroberto Casaleggio era presentato allora come semplice consulente di Grillo per la comunicazione solo dopo anni Beppe dichiarò che ne fosse cofondatore. Nel 2010 rifiutammo come Movimento 5 stelle diversi milioni di euro per i rimborsi elettorali proprio per i successi elettorali delle regionali. Ora io mi domando come possa un Paese che non si può certo definire ricco (con tutto il rispetto per il Venezuela) mobilitare milioni di euro verso una persona che a quei tempi nessuno sapesse che ruolo svolgesse all’interno del Movimento (ripeto era ufficialmente il mero gestore del Blog). Milioni per un Movimento che neanche rispose alla mail (magari poco istituzionale ma andò così). Milioni ben prima di avere un incontro ufficiale con gli interlocutori (ripeto che la mail arrivò sicuramente dopo settembre il mese della mia assunzione in regione). Per tutto questo ritengo sia una Fake News. Il Movimento non è più nelle mie simpatie (tranne alcune persone che stimo) ma accusarlo di cose che non ha fatto lo vedo becero, io preferisco sempre accusare qualcuno per i fatti, gli atti, le azioni e le dichiarazioni. Quando ero nel Movimento mi stavano sul cavolo TzeTze e la Fucina figuriamoci gli altri siti”.
Soldi al Movimento 5 Stelle dal Venezuela, perché Di Maio tace? Deborah Bergamini su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Sembra fatto apposta. In molti, in questi giorni, l’avranno pensato. Momento critico per i 5Stelle di lotta e di governo e spunta la notizia giornalistica di una valigetta di finanziamenti illeciti dal Venezuela di Chavez e Maduro consegnata nelle mani di Gianroberto Casaleggio, quando del Movimento non c’era che un embrione organizzativo. È una bomba e potrebbe esplodere con 10 anni di ritardo per demolire la credibilità del partito che ha fatto dell’onestà e della trasparenza il proprio stemma. Sì, sembra fatto apposta. E le reazioni sono state in questa direzione, con Manlio Di Stefano che ha gridato alla più grande fake news della storia, il capo del Movimento Vito Crimi che ha detto «tutto ridicolo», e Davide Casaleggio che ha promesso querele. Ma fra le fila di ex membri del partito si è spalancato il cassetto dei ricordi scomodi e si è alzato più di un sopracciglio. «Spero che non abbia preso soldi» ha detto Giovanni Favia, ex consigliere regionale M5S. Un tempo tra gli elementi di spicco del Movimento, Favia all’epoca del presunto finanziamento rilasciava spesso interviste a testate italiane e straniere, raccontando del nascente movimento che all’epoca – parole sue – era rivoluzionario. Proprio Favia ha raccontato di essere stato contattato nel 2010 da diplomatici venezuelani interessati a stringere contatti con il Movimento. Una richiesta di confronto che lui avrebbe poi girato al fondatore Gianroberto Casaleggio. E le due ex senatrici pentastellate Nugnes e Fattori, oggi gruppo Misto, ci hanno messo il carico. Secondo Nugnes il Movimento avrebbe ricevuto «grandi sostegni internazionali per arrivare dove è arrivato nei tempi in cui è arrivato». Più pacata la Fattori: «Mi sembra tutto molto politicizzato. Se pure il blog o Casaleggio nel 2010 ebbero finanziamenti, era un’epoca che veramente non c’entra nulla col Movimento Cinque Stelle». E su questo secondo punto viene da storcere il naso, perché qualcosa a che fare con la democrazia, la libertà, la giustizia, se non con il M5S, ce l’aveva eccome. In questo frastuono, continua ad echeggiare il silenzio del ministro degli Esteri, nonché ex capo del Movimento, Luigi Di Maio. Un silenzio che stupisce proprio alla luce del ruolo di primo piano giocato dall’ex leader grillino sia nel partito sia, soprattutto, per il suo ruolo nella sicurezza internazionale dell’Italia. Il ministro degli Esteri e la Farnesina dovrebbero essere le prime sentinelle a guardia dell’indipendenza dell’Italia da ingerenze esterne. È lecito chiedersi, quindi, che reazioni dovrebbero avere. Certamente l’avvio di un’indagine diplomatica volta ad accertare i fatti, anche e attraverso il confronto con le autorità dello stato estero. Un confronto questo, che dovrebbe avvenire sotto l’occhio vigile degli organi parlamentari del nostro Paese. Quando, nel luglio 2019, sotto la lente d’inquisizione c’erano la Lega di Matteo Salvini e i presunti finanziamenti ricevuti dalla Russia, fu proprio Di Maio a chiedere l’istituzione di una commissione d’inchiesta che accertasse i fatti, rivendicando, tra l’altro, l’unicità della “purezza” del Movimento. «Mai un contatto con finanziatori occulti o petrolieri o altre nazioni per giochi geopolitici sotterranei», diceva. E noi, che non siamo schiavi di un’ideologia votata al sospetto, gli abbiamo creduto. Di Maio disse che i cittadini quando votano devono sapere se la forza politica a cui stanno dando il loro consenso fa i loro interessi o quelli di qualcun altro. E allora la domanda è una: perché tacere adesso? Perché non dare con la stessa sicumera di allora una risposta a una sempre più pressante esigenza di verità? Sì, perché la questione non è, come ha sottolineato l’altra sera ai microfoni di Myrta Merlino a L’aria che tira lo stesso Di Maio – nell’unico commento che ha dedicato alla vicenda – che «se il M5S voleva soldi, non si tagliava gli stipendi». La faccenda è un pò più complessa e ben più grave, e non è neanche se nel 2010 Maduro abbia davvero fatto recapitare una valigetta con 3,5 milioni all’indirizzo di Casaleggio. La faccenda è il sodalizio politico di un partito, che oggi è al governo, con un regime illiberale, noto per cercare di esercitare influenza e ingerenze negli affari interni dei suoi partner commerciali e strategici. E questo non in Italia, ma in tutta Europa da ormai quasi vent’anni. La questione è la puntuale incoerenza della politica estera grillina rispetto agli interessi nazionali, che ha portato il governo italiano a stringere accordi strategici affrettati come il memorandum sulla Via della Seta o a spostarsi riguardo paesi come Cina e Iran su posizioni molto più affini all’asse di Caracas che a quello filo-occidentale da sempre seguito. La questione è la totale assenza di posizione di un Ministero degli Esteri che, con le premesse da cui partivano i grillini, sarebbe dovuto essere il nume tutelare della trasparenza internazionale mentre ogni giorno di più si svela silente di fronte alla violenza che colpisce Hong Kong, o alla richiesta di istituire una commissione d’inchiesta sulle responsabilità di diffusione del Covid19 che potrebbero coinvolgere la Cina, ma che invece non ha avuto alcuna remora ad esporsi con forza quando si trattava nel 2017 di invocare Maduro come mediatore in Libia, o di inneggiare ai gilet gialli in Francia o persino, come fatto dal senatore grillino Ferrara e dal collega Alberto Airola, chiedere l’arresto immediato in Venezuela dei deputati di opposizione Amèrico De Grazia e Mariela Magallanes non appena questi si sono rifugiati nell’ambasciata italiana a Caracas. Tra l’altro, in un momento in cui De Grazia stava lavorando in una commissione particolarmente indigesta per il regime, perché incaricata di indagare i possibili finanziamenti del governo Maduro a partiti politici stranieri. Come detto all’inizio, sembra fatto apposta. Ma quel che è certo è che la politica estera grillina, e quindi oggi italiana, non ha nulla di trasparente e pare fatta di creta plasmabile. E la domanda è: nelle mani di chi? Lo chiederei al ministro, se solo facesse quello che ogni ministro degli Esteri dovrebbe fare nella sua posizione, ovvero venire in Parlamento: nelle mani di chi?
Vittorio Sgarbi sfotte Luigi Di Maio: "I 3,5 milioni di euro? Il Venezuela voleva investire nel settore delle gazzose". Libero Quotidiano il 18 giugno 2020. Un commento, tagliente ed irriverente, firmato Vittorio Sgarbi sulla vicenda della valigetta dal Venezuela, su quei 3,5 milioni di euro che secondo un'inchiesta spagnola, nel 2010, sarebbero stati consegnati dal regime comunista al M5s. Una vicenda su cui il critico d'arte non lesina ironia. Tanto che, su Twitter, cinguetta: "Maduro è semplicemente uno lungimirante. Con quei 3,5 milioni di euro voleva semplicemente investire nel settore delle gazzose. La parabola di Luigi Di Maio all’estero è vista con successo". Ovvio il riferimento al passato da "bibitaro" del San Paolo di Di Maio (passato che lui ha però recentemente smentito), anche se Sgarbi incappa in un piccolo errore: all'epoca della presunta consegna dei 3,5 milioni, al potere c'era Hugo Chavez e non ancora Maduro.
M5s e i milioni da Maduro, botta e risposta Di Battista-Gelmini: "Falso", "Gridavano 'vaffa' e incassavano contanti dentro una valigetta". Libero Quotidiano il 15 giugno 2020. Dopo lo scandalo emerso con il quotidiano spagnolo ABC per cui il M5s avrebbe ottenuto in nero 3 milioni e mezzo da Hugo Chavez, arriva la replica di Alessandro Di Battista. "L'attacco diffamatorio del quotidiano di destra e monarchico ABC nei confronti del M5S e soprattutto di Gianroberto Casaleggio è vile. Non vi è cosa più oscena che attaccare persone non più in vita, che non possono difendersi. Mi auguro che Davide - il figlio del cofondatore del M5S e presidente dell'associazione Rousseau - quereli immediatamente, per difendere l'onorabilità del M5S e del suo grande papà". Queste le parole di Dibba rilasciate all'Adnkronos. Ma a niente sembrano servire le rassicurazioni dei diretti interessati. A definire vergognoso quanto presumibilmente accaduto anche Maria Stella Gelmini. "Mentre gridavano 'vaffa' al mondo politico e si presentavano come i garanti della legalità, i vertici del Movimento 5 Stelle nel 2010 avrebbero incassato 3,5 milioni di euro in contanti spediti a Gianroberto Casaleggio dentro una valigetta dall'attuale presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, allora ministro degli Esteri di Chavez. Se quanto riportato dal quotidiano spagnolo 'Abc', che cita un documento dell'intelligence venezuelana, fosse confermato, ci troveremmo di fronte ad un finanziamento irregolare e segreto da parte di uno dei governi più controversi del Sudamerica alla forza politica che oggi esprime il presidente del Consiglio e che ha la maggioranza relativa in Parlamento. Beppe Grillo, invece di difendere Conte dagli attacchi interni di Di Battista, potrebbe dare qualche immediata spiegazione", tuona la capogruppo di Forza Italia alla Camera.
Gianni Riotta contro il M5s: "Chavez e Maduro? Non commento le carte, ma..." Libero Quotidiano il 16 giugno 2020. Un commento tagliente, quello di Gianni Riotta a Tagadà sulla vicenda M5s-Venezuela. Il giornalista, ospite di Tiziana Panella su La7, dice e non dice. Sulla vicenda che sta tenendo banco da ieri, afferma: "Non commento le carte, rilevo che molti cinquestelle erano entusiasti per Chavez e Maduro", sottolinea sornione, ricordando le vicinanze di parti del M5s, Alessandro Di Battista su tutti, col dittatore comunista venezuelano. Insomma, nessun commento sulle carte. Eppure Riotta non può fare a meno di notare un collegamento, un link, una certa affinità tra Maduro e Chavez e il M5s. Circostanza che rende verosimile - non vera, si ribadisce, ma verosimile - la questione. Almeno secondo Riotta...
Matteo Renzi contro il M5s per il caso-Venezuela: "Presupposti per l'accusa di alto tradimento". Libero Quotidiano il 16 giugno 2020. "Alto tradimento". Matteo Renzi bombarda il Movimento 5 Stelle sulla vicenda dei presunti finanziamenti del regime chavista del Venezuela a Gianroberto Casaleggio, 3,5 milioni di euro fatti arrivare nel 2010 secondo un'inchiesta del quotidiano spagnolo Abc. "Sulla politica estera - spiega il leader di Italia Viva in un'intervista a La Stampa - di affermazioni strampalate i Cinque stelle ne hanno fatte tante. Alessandro Di Battista è arrivato a dire che Obama è un golpista. Ma voglio sperare che siano state idiozie dette gratis e non a pagamento. Al tempo stesso occorre riconoscere che la gestione di Luigi Di Maio alla Farnesina, anche in rapporto alla vicenda del Venezuela, è stata sinora inappuntabile". Una carezza che non nasconde il nodo politico dentro la maggioranza: "Sono un patriota, faccio il tifo perché questa storia non sia vera e voglio credere alle smentite. E da garantista sincero attendo gli accertamenti del caso. Certo, se fosse vero, sarebbe alto tradimento della Patria". Non male, come granata su Palazzo Chigi.
Nicola Porro contro Marco Travaglio: "Soldi dal Venezuela per il M5s? Per lui è subito una balla". Libero Quotidiano il 16 giugno 2020. Il Movimento 5 Stelle è stato accusato dal quotidiano spagnolo Abc di aver ricevuto un finanziamento da 3,5 milioni dal Venezuela nel 2010. A corredo dell’inchiesta è stato pubblicato un documento dall’autenticità incerta: dovrebbe appartenere all’intelligence militare venezuelana, ma secondo Il Fatto Quotidiano si tratta di “carta-patacca con tre falsi” legati a intestazione, simbolo e data. “Tutti i giornali riportano l’indiscrezione sulla presunta mazzetta che avrebbe preso il M5S - dichiara Nicola Porro in apertura della sua Zuppa quotidiana - l’unico che non sospetta è ovviamente Marco Travaglio, che liquida con una parentesi l’intera vicenda. Per lui neanche si discute, il documento e l’intera vicenda sono un fake e basta”. Porro come tanti altri rispetta la smentita dei grillini, nonché quelle del consolato e dell’ambasciata venezuelana, ma a prescindere dall’indiscrezione rimane l’ambiguità del M5S nei confronti del regime chavista. “Come Mattia Feltri anche io non credo ai 3,5 milioni dati a Casaleggio, che non mi sembra fosse un approfittatore. Il loro problema - sottolinea Porro - è che erano e sono contro il ‘nazismo eurotedesco’ e a favore dell’alleanza sul modello Chavez-Castro. Non entro nella questione tecnica del presunto finanziamento, ma contesto l’assurda posizione politica”.
M5s e Venezuela, Castaldo a Stasera Italia: "Ho fatto 10 campagna elettorali, solo micro-donazioni e niente valigette". Libero Quotidiano il 15 giugno 2020. Il caso del presunto finanziamento del regime del Venezuela al Movimento 5 Stelle, sollevato dal quotidiano spagnolo Abc, scuote il mondo della politica nazionale e arriva, come prevedibile, fino a Strasburgo. L'europarlamentare grillino Fabio Massimo Castaldo, pentastellato di lungo corso, in collegamento con Veronica Gentili a Stasera Italia, si difende così: "Io sono nel Movimento dal 2011, in pratica ho fatto dieci campagne elettorali, amministrative, politiche ed europee. Io ricordo tutte campagne finanziate con micro-donazioni e dei cittadini, tra l'altro di contributo molto modesto, con massima trasparenza nelle forme di introito che abbiamo avuto. Tutt'altro che valigette o contributi strani...". Il pauperismo grillino, anche dopo che il Movimento è diventato il primo partito italiano, insomme, continua.
Piero Sansonetti contro Pedullà a Quarta Repubblica: "Venezuela e M5s, se c'era scritto Salvini tu cosa scrivevi?" Libero Quotidiano il 16 giugno 2020. Scontro al calor bianco tra Piero Sansonetti e Alfredo Pedullà a Quarta Repubblica. Si discute del presunto finanziamento del Venezuela al Movimento 5 Stelle e per il direttore de La Notizia Giornale, forse il più grande ultrà grillino della stampa italiana (supera perfino Marco Travaglio) lo scoop del quotidiano spagnolo Abc "è chiaramente una fake, si è mai vista una tangente con una fattura?". A questo punto Sansonetti, direttore del Riformista e super-garantista, perde la calma: "Se su quel documento c'era scritto il nome di Salvini succedeva l'inferno, siamo stati bombardati per 10 anni dai 5 Stelle per cui contano i sospetti. Fino a 5 minuti fa hanno detto che Fontana si deve dimettere e se riguarda loro è diverso?". Poi la domanda diretta a Pedullà: "Se c'era scritto Salvini, tu Pedullà cosa ci facevi sul tuo giornale?".
Da liberoquotidiano.it il 16 giugno 2020. Non si schiera tra gli accusatori del Movimento 5 Stelle, Antonio Di Pietro. L'ex magistrato di Mani Pulite, che da magistrato ha cavalcato tesi e sospetti talvolta molto scivolosi, si affida al proprio sesto senso e soprattutto alla propria esperienza personale. "Per me - spiega ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica - è una calunnia sostenere che Gianroberto Casaleggio nel 2010 ha ricevuto soldi da parte di qualcuno". Parole basate anche sulla frequentazione professionale che Di Pietro, allora leader di Italia dei Valori, ebbe con la Casaleggio Associati e il suo fondatore. Per l'ex toga, quindi, "è una polpetta avvelenata, ma per sputtanare le elezioni in Venezuela". I 5 Stelle insomma sarebbero solo uno strumento per una cospirazione internazionale ben più vasta.
Il giallo dei quattrini di Maduro ai grillini. Andrea Amata, 15 giugno 2020 su Nicolaporro.it. Il quotidiano spagnolo ABC pubblica in esclusiva la notizia sul finanziamento di 3,5 milioni di euro elargiti nel 2010 dal governo venezuelano di Hugo Chávez al Movimento 5 stelle. L’inchiesta di ABC riporta documenti riservati della Dirección general de inteligencia militar (Dgcim), agenzia di intelligence venezuelana, nei quali il cofondatore del M5s Gianroberto Casaleggio è descritto come “promotore di un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista”. ABC ha pubblicato sul suo sito uno di questi documenti. Qualora la notizia fosse confermata sarebbe grave che un Paese democratico come l’Italia annoveri un ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, espressione di un Movimento che ha intascato ingenti risorse in nero dal governo chavista. Ricordiamo che i grillini nella crisi venezuelana adottarono la formula ipocrita della neutralità, schierandosi di fatto con il dittatore comunista Nicolas Maduro, che all’epoca della presunta “donazione” era ministro degli Esteri, e boicottando l’autorità di Juan Guaidó come timoniere del processo di transizione, nonostante l’investitura dell’Assemblea nazionale di Caracas. I fautori del reddito di cittadinanza hanno pensato prima al reddito di sottomissione ideologica a un regime che ha affamato il suo popolo? I grillini, da parte loro, negano tutte le accuse e annunciano querele, ricordando che la notizia era uscita più volte, l’ultima nel 2016. Davide Casaleggio ha parlato di una vera e propria “fake news”. Fatto sta che la vicenda è l’occasione per tornare a discutere della posizione geopolitica del M5s. L’Italia ha una tradizione filoatlantica e di adesione ai valori della democrazia liberale e non può essere rappresentata nelle relazioni internazionali da un Movimento i cui esponenti hanno spesso difeso una dittatura comunista. Quanto alla vicenda dei presunti finanziamenti, il premier Giuseppe Conte ha la responsabilità dei servizi segreti e dovrebbe riferire alle Camere le informazioni in suo possesso, congedandosi dall’opacità della sontuosa residenza Pamphilj per ossequiare quei principi di trasparenza estranei a chi ne ha garantito l’ascesa nel Palazzo. Non ci scordiamo che Giggino Di Maio nel 2017 propose per la Libia una “conferenza di pace che coinvolga i sindaci e le tribù, mediata da Paesi senza interessi, tipo quelli sudamericani di Alba”. Il progetto Alba richiama l’alleanza bolivariana, con finalità di cooperazione politica, sociale ed economica, tra Paesi dell’America Latina e Paesi caraibici, caldeggiato dal Venezuela e da Cuba. Dunque, l’attuale titolare della Farnesina legittimava il dittatore comunista Maduro, al quale voleva affidare la mediazione nell’instabile teatro libico. Il Movimento 5 stelle è l’azionista principale del governo Conte, detenendo la maggioranza relativa in Parlamento, e sostiene una linea di politica estera filocinese, attestata con il memorandum per l’accordo sulla Via della Seta perorato e celebrato dalla nomenclatura grillina. I 5 stelle hanno sempre privilegiato i rapporti con la dittatura comunista, orientale e sudamericana, che stanno emulando con l’esautoramento del Parlamento e con i riti estetizzanti dei processi decisionali. Se i grillini fossero coerenti applicherebbero su se stessi quei parametri irragionevoli, che pretendono di infliggere agli altri, basati sul sospetto come anticamera della verità. Andrea Amata, 15 giugno 2020
Dov’è finito Juan Guaido? Giovanni Giacalone il 25 maggio 2020 su Inside Over. Il leader dell’opposizione venezuelana, Juan Guaido, sembra essere sparito dalla scena pubblica dopo la fallita invasione messa in atto da ex militari bolivariani dissidenti appoggiati da alcuni contractor statunitensi; la cosiddetta “operazione Gideon”, architettata dall’ex Berretto Verde Jordan Goudreau, che ha portato all’arresto di una sessantina di ribelli e dei due contractor americani Luke Denman e Airan Berry. Le accuse nei confronti di Guaido sono arrivate sia da Goudreau che dal controverso Cliver Antonio Alcalà Cordones, ex ufficiale dell’esercito bolivariano a capo dei ribelli, accusato da Washington di narcotraffico e consegnatosi improvvisamente alle autorità statunitensi a fine marzo. Secondo i due personaggi in questione, Guaido non avrebbe rispettato i patti prestabiliti tramite contratto e sarebbe dunque tra i responsabili del fallimento dell’operazione che aveva come obiettivo il rovesciamento del regime venezuelano e l’arresto di Maduro con tanto di trasferimento negli Usa. Goudreau aveva minacciato di rendere pubblico il contratto per dimostrare il coinvolgimento dell’entourage di Guaido e pochi giorni dopo il fiasco due suoi consiglieri, Juan Jose Rendon e Sergio Vergara, avevano rassegnato le dimissioni. Rendon aveva ammesso di aver preso accordi con Goudreau, spiegando però che si trattava di un contratto dagli obiettivi prettamente esplorativi, poi interrotto in seguito a problemi tra le due parti. Sempre secondo il consigliere di Guaidò, a Goudreau sarebbero stati pagati soltanto 50mila dollari per le spese iniziali. Goudreau dal canto suo ha accusato l’opposizione politica venezuelana di aver causato più problemi che vantaggi ed ha reclamato il pagamento di 1,5 milioni di dollari. Secondo la documentazione, è però emerso come l’entourage di Guaido avesse interrotto i rapporti con la Silvercorp (la società di sicurezza privata fondata da Goudreau nel 2018) nell’ottobre del 2019. Goudreau avrebbe dunque proseguito con il piano di sua iniziativa; del resto per la cattura di Maduro gli Stati Uniti avevano messo in palio $15 milioni.
Dov’è finito Guaido? In seguito alla fallita invasione la Procura Generale venezuelana, guidata da Tarek Saab, emanava un ordine di arresto per Juan Guaido ma anche per Juan Josè Rendon e Jordan Goudreau (quest’ultimo risulta tra l’altro ora indagato negli Usa per traffico di armi). Misure più che prevedibili, ma mentre Rendon e Goudreau fino a pochi giorni fa risultavano rispettivamente in territorio statunitense e colombiano, nulla si sa di Juan Guaido che sembra sparito nel nulla. Le ultime voci indicavano una sua fuga all’interno di una sede diplomatica europea a Caracas, ma non vi sono al momento conferme ufficiali. Il 19 maggio l’Assemblea Nazionale venezuelana, in mano all’opposizione, rinnovava l’appoggio a Guaido ma un’analisi pubblicata dal sito “Meganalisis” lo scorso 9 maggio mostra una chiara perdita di consenso da parte di Guaido, indicando addirittura che l’88% dei venezuelani riterrebbe il lavoro svolto dal leader dell’opposizione come inadeguato. L’11 di maggio veniva inoltre reso noto che l’economista Alejandro Grisanti Capriles e l’ingegnere Maria Lizardo Gramcko, due membri del team economico di Guaido e del direttivo “parallelo” della compagnia petrolifera venezuelana Pdv hanno rassegnato le dimissioni. Un ulteriore problema dunque per l’entourage del leader dell’opposizione. Tornando alla fallita invasione, è difficile credere che possa realmente essere stata architettata da Guaido col supporto degli Stati Uniti; Trump non ha torto quando afferma “se fossimo stati noi, le cose sarebbero andate diversamente”. L’iniziativa, talmente maldestra e mal organizzata, genera ben pochi dubbi sul fatto che sia stata intrapresa da personaggi privi delle più basilari capacità analitiche e strategiche, molto probabilmente infiltrati in profondità dall’intelligence di Caracas che ha poi provveduto ad “accompagnare” l’operazione per poter poi suonare la gran cassa sull’efficienza e la forza del regime e dei propri servizi di sicurezza. Nonostante ciò, l’immagine di Guaido è comunque stata compromessa in un momento certamente non dei migliori per un’opposizione che appare divisa e disorganizzata. Sono in molti infatti a chiedersi cosa sapesse realmente Guaido e per quale motivo Reondon abbia deciso di contrattare proprio Goudreau.
La propaganda di regime. Sul fronte pro-Maduro non si possono certo non notare tutta una serie di elementi che mirano ad amplificare il megafono della propaganda del regime di Maduro, con l’agenzia di stampa russa Tass che il 23 aprile ipotizzava il fatto che l’amministrazione Trump non confidasse più in Guaido visto che “l’annuncio per una transizione democratica in Venezuela veniva dato dal Segretario di Stato Mike Pompeo e non dallo stesso Guaido”, un elemento non particolarmente solido per sostenere tale ipotesi, anche perché al momento non emergono figure di rilievo all’interno dell’opposizione venezuelana che possano rimpiazzare Guaido. Ci sono poi tutta una serie di curiose confessioni fatte quasi in contemporanea dai mercenari catturati durante l’invasione che puntano tutte il dito contro Guaido. Tra questi, il capitano Antonio Sequea e il contractor statunitense Luke Denman con confessioni fatte davanti alle telecamere di regime che sollevano molti dubbi sulla spontaneità e la veridicità delle dichiarazioni e non può che essere così del resto. Quella fatta da Denman in particolare sembra quasi una “professione di fede” imposta e ripetuta ad hoc: “Credo che Jordan (Goudreau) non avesse alcun motivo per non fidarsi di Juan Guaido. Credo che se c’è qualcuno che ha preso decisioni sbagliate, questo qualcuno è il signor Guaidò. Credo che abbia ingannato parecchie persone….A questo punto, dopo aver visto tutto ciò, credo che la Silvercorp e molti altri siano stati ampiamente sviati dal signor Juan Guaido”. Ora Washington si ritrova con la patata bollente del dover riportare a casa i due contractors statunitensi e la faccenda rischia di andare per le lunghe. Trump sta per lanciarsi in una campagna elettorale che potrebbe confermarne la rielezione e il riportare a casa Denman e Berry sarebbe certamente un bel colpo, ma Maduro è ben consapevole di ciò e difficilmente lo agevolerà.
Soldi venezuelani al M5S, Casaleggio smentisce ma dal 2002 Caracas cercava sponde politiche in Europa. Angela Nocioni su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Nicolás Maduro avrebbe finanziato nel 2010 i Cinque stelle. Lo scrive il quotidiano spagnolo Abc, foglio conservatore tradizionalmente filomonarchico, citando un documento che verrebbe dagli archivi dei servizi segreti venezuelani. Del documento Abc pubblica una foto di cui andrà verificata l’origine. Maduro, allora ministro degli Esteri del governo di Hugo Chávez, avrebbe spedito una valigetta con 3 milioni e mezzo di euro al consolato venezuelano a Milano destinati a Gianroberto Casaleggio per finanziare il movimento di Grillo, fondato nel 2009. I Cinque stelle e il figlio di Casaleggio smentiscono. Il giornale conferma tutto. «Non siamo dei pazzi, facciamo le nostre verifiche. Non pubblichiamo le prime informazioni che ci capitano in mano» dice il vicedirettore Luis Ventoso. Della spedizione della valigia non ci sono al momento altri riscontri. C’è soltanto la denuncia del quotidiano che spesso dispone d’informazioni di prima mano sulle questioni riguardanti l’ala militare del regime Maduro. Abc è il punto di riferimento degli antichavisti di destra emigrati in Spagna, con ottimi contatti nella ex élite militare venezuelana degli anni Ottanta e Novanta riciclatasi in parte nel regime. Di quei generaloni di epoca prechavista, accomodatisi poi nella dirigenza della rivoluzione proclamata da Chàvez arrivato al potere tramite elezioni nel ‘98, alcuni sono furiosi con Maduro che, succeduto al presidente nel 2013 e ostaggio da subito di una parte della dirigenza militare, non rifocilla di petrodollari alla stessa maniera tutti quanti. Molti degli esclusi, soprattutto nei servizi e nell’aeronautica, rimangono al loro posto, tramano a tempo pieno e, a volte, riescono a consumare personali vendette. Abc scrive che il console venezuelano a Milano, Gian Carlo di Martino, avrebbe fatto da intermediario per la transazione finale a Gianroberto Casaleggio. Il documento definisce Casaleggio “promotore di un movimento di sinistra rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana”. I 3 milioni e mezzo – aggiunge il quotidiano citando il documento dell’intelligence, allora guidata da Hugo Carvajal – furono inviati “in modo sicuro e segreto attraverso valigia diplomatica”. La valigetta sarebbe stata trovata da un ignaro addetto militare che ne aveva informato Carvajal. Quest’ultimo gli averebbe impartito l’ordine di lasciar stare attraverso un dispaccio: “Sono state impartite istruzioni verbali al nostro funzionario in Italia per non continuare a riferire sulla questione, che potrebbe diventare un problema diplomatico”. Carvajal, scappato in Spagna, è latitante dal novembre scorso dopo l’approvazione della sua estradizione negli Stati Uniti, dove è accusato di narcotraffico e vendita di armi alle Farc colombiane, la più vecchia e ormai disciolta (tranne un gruppetto di dissidenti) guerriglia latinoamericana. La somma spedita a Milano sarebbe stata prelevata da fondi riservati amministrati dall’allora ministro dell’Interno Tareck el Aissami, tuttora uomo di fiducia di Nicolas Maduro. Fin qui la ricostruzione di Abc. Ora: di rapporti stabili tra Caracas e il Movimento 5stelle, a parte sporadici contatti e millantate relazioni individuali, non si ha notizia certa. Quel che è sicuro è che da parte della presidenza della Repubblica venezuelana esiste dal 2002 un grande interesse a tutto ciò che in Europa, vecchio partito o movimento nascente che sia, possa essere coltivato come sponda amica. Finché era vivo Hugo Chávez questo delicato lavoro di ricerca di potenziali alleati europei da annaffiare poi, una volta accertatane l’affidabilità, con la riserva infinita di quattrini in arrivo da Pdvsa (l’industria pubblica del greggio venezuelano) era affidato a un apposito ufficio con quattro trentenni poliglotti cresciuti all’estero che Chávez, per evitare interferenze, aveva installato a palazzo Miraflores a due metri dalla sua porta. Da lì, per esempio, Chávez curò i legami con la sinistra francese, in parte con quella italiana, con quella londinese e, più tardi, con il movimento spagnolo Podemos prima che diventasse forza di governo. I legami con i primi spagnoli dell’allora nascente Podemos arrivati a Caracas, ad esempio, furono stabiliti in fugaci contatti e poi messi alla prova durante gli anni della costruzione di una diplomazia continentale alternativa a quella tradizionale che garantisse alleati fedeli a Hugo Chávez. Due spagnoli che si presentavano come «los amigos de Podemos» furono spediti da Chávez nella primavera del 2006 a fare da angeli custodi a Ollanta Humala – poi diventato presidente del Perù – mentre era in corsa per l’elezione. Si tratta di Roberto Viciano e di Rubén Martínez, due scalcagnati professori di Valencia. Humala allora era l’outsider che faceva paura alla politica peruviana. Di outsider che partono in sordina e vincono le elezioni in volata è piena la storia del Perù. Chávez aveva visto bene. Humala all’inizio del 2006 era la grande incognita a Lima. Da destra lo accusavano di essere un pericoloso sovversivo. Da sinistra lo temevano come convinto militarista. Lui diceva di avere solo due miti: il generale Charles de Gaulle e Napoleone. Al leader venezuelano piaceva moltissimo, lo chiamava «la promessa del nazionalismo andino». Figlio di militari, ex colonnello dell’esercito peruviano, implicato nel 2000 nel tentativo di insurrezione di giovani ufficiali contro l’allora presidente Alberto Fujimori, Humala era stato liberato subito dopo la fuga di Fujimori in Giappone, reintegrato nell’esercito e spedito come addetto militare prima in Francia e poi in Corea del Sud. Tornato in Perù, aveva fondato dal nulla il Partito nazionalista peruviano, per candidarsi alle elezioni presidenziali del aprile 2006. Era molto seguito da Caracas, che lo stava studiando ben bene. I due spagnoli, Viciano e Martínez, erano parte integrante della delegazione diplomatica venezuelana in tournée continentale. Venivano presentati a Lima dagli inviati venezuelani come «i due che curano Ollanta per conto di Chávez». Loro, allargandosi parecchio, dicevano d’essere due stretti consiglieri del presidente venezuelano per la politica europea. In realtà erano due professori malmessi dell’Università di Valencia che a Caracas avevano trovato l’America. Due innamorati delle cause radicali, il genere tipico e un po’ triste del so-tutto-io europeo che s’appassiona con ideologico fervore alle rivoluzioni a casa d’altri. Dall’Avana, dopo il 1959, di tipi antropologici simili, se ne perde il conto. Qualche illuso, numerosi sfaccendati, parecchi scrocconi. Negli anni Novanta ne era pieno anche il Chiapas del “Subcomandante Marcos”, che a differenza della Caracas chavista, però, non era gonfio di petrodollari. Nel caso dei due valenziani si trattava di due funzionari informali del chavismo. Andavano in missione ovunque. Marcavano tanto stretto Ollanta, da occuparsene anche quando lui andava dal presidente boliviano Evo Morales a la Paz. Roberto Viciano compare a sorpresa come presidente di una fondazione culturale dalla storia curiosa, il Centro di studi politici e sociali, il Ceps. Il luogo di costituzione è sempre Valencia. Lo mettono su Viciano, Martinez e altri amici loro del giro chavista spagnolo. Secondo quanto risulta al giornale venezuelano El Nacional, vecchio giornale borghese che ha resistito a lungo – finché ha potuto – all’invasività del regime, fu il Ceps a fare da tramite tra i Venezuela e la Spagna per far piovere su Podemos milioni di petrodollari chavisti. Podemos ha sempre negato che ci siano stati vincoli tra il Ceps e il movimento politico di Iglesias e compagni. Al Nacional risulta invece che da quando, il 26 novembre del 2002, il Ceps aprì un ufficio a Caracas e autorizzò una cittadina spagnola a rappresentarlo di fronte alle istituzioni locali, si aprì un’autostrada per carichi di quattrini spostati a vario titolo dalle casse chaviste a quelle della fondazione. Nell’atto di nascita dell’istituto Ceps c’è scritto che l’obiettivo è «l’aiuto ai paesi in via di sviluppo, specialmente in America latina e in Africa». A seguire la rotta dei soldi denunciata più volte dal Nacional, invece, si direbbe che l’aiuto, copioso, è sempre arrivato in senso inverso. Meta finale, la Spagna. Uno dei miracolati del Ceps pare essere proprio Pablo Iglesias di Podemos. Non si sa bene a quale titolo, lo chiamarono a Caracas per impartire corsi per funzionari del ministero degli interni e della giustizia già nel 2006. Cinque giorni di corso, dal 5 al 9 giugno di quattordici anni fa, per farcire i poveri quadri chavisti di letture su neoliberismo e critiche alla globalizzazione. Evidenza di legami innegabili tra Podemos e Ceps non c’è. Nemmeno è possibile inchiodare Viciano all’ammissione che fa parte del Ceps. Ci sono, quelle sì, curiose coincidenze. Per esempio c’è il premio Libertador al Pensiero critico, premio in denaro dato dal ministero della cultura venezuelano a insindacabile giudizio dei suoi esperti, che viene dato nel 2010 a Luis Alegre, ex membro del consiglio esecutivo di Podemos, poi passato ad altri incarichi organizzativi. Mai stata trovata nessuna pistola fumante, però. Di certo c’è solo che tra il 2004 e il 2012 i soldi arrivati dalle casse pubbliche venezuelane alla Ceps, quelli arrivati direttamente, furono 3 milioni e duecentomila dollari, trasferiti in 52 operazioni diverse. Nel 2014, dopo la stretta ai cordoni della cassa chavista, resa necessaria dalla crisi di liquidità sofferta dal Venezuela – che è sì esportatore di greggio, ma ha già venduto (soprattutto ai cinesi) i profitti del suo export del prossimo futuro in cambio di una linea di credito – il Ceps ha continuato a ricevere soldi e risulta essere stata una delle tre fondazioni culturali alle quali il Cencoex, il temibilissimo ente autorizzato dallo Stato a distribuire dollari, ha accordato elargizioni di denaro. L’ultimo pagamento della Banca centrale venezuelana risalirebbe al Natale del 2014. 60.000 dollari. Questa notizia, non minuscola, saltò fuori per la prima volta dalle colonne del solito Abc che diede notizia di un contratto firmato tra il primo vicepresidente della Banca centrale venezuelana, Edomar Tovar, e il rappresentante legale della Fondazione Ceps, Sergio Pascal Peña. Il numero dell’operazione è: 009-2014. Nella pagina due del contratto c’è scritto che la conversione dei bolívares, moneta nazionale venezuelana, doveva essere fatta al tasso preferenziale che si usava per l’importazione di alimenti e medicine. I servizi prestati dalla persona che risulta pagata in questo ultimo giro di soldi, Manuel Cerezal Callizo, sono di consulenza per l’analisi periodica della congiuntura economica nazionale ed internazionale. C’è un precedente, l’anno prima. Un contratto per una devoluzione di soldi della Banca centrale alla Ceps, sempre firmato da Edomar Tovar, per un ammontare di 20 mila euro. Il giornale spagnolo, che si era scatenato nell’inchiesta sui supposti finanziamenti venezuelani a Podemos durante le ultime settimane di campagna per elezioni amministrative spagnole, sostenne allora di aver avuto accesso a due contratti sottoscritti da Tovar e da Pascal Peña, nel 2013 e nel 2014. I soldi sarebbero arrivati solo quella volta direttamente dalla Banca centrale. Fino a quel momento avrebbero fatto da tramite diverse istituzioni, comprese la Compagnia nazionale di telecomunicazioni e la Segreteria della presidenza della Repubblica. Innegabile è l’incontro avvenuto nel 2015 a Ginevra tra Juan Carlos Monedero, allora numero tre di Podemos, e due chavisti, a ridosso di una conferenza sui diritti umani tenuta nella sede delle Nazioni unite. Qualche giorno dopo Podemos si rifiutò di appoggiare una risoluzione del Parlamento europeo di condanna alla detenzione di personaggi dell’opposizione venezuela. Podemos contestava la definizione di «arresto arbitrario», anche se i leader dell’opposizione finiti in carcere erano stati arrestati con ogni evidenza a causa dello svolgimento della loro attività politica. I cronisti locali del Nacional raccontano un episodio, accaduto a Caracas nel 2013, subito dopo la morte di Hugo Chávez. Seduti al ristorante “La Hostería”, nella zona dei palazzoni di cemento del Parque central, un gruppo di spagnoli stava parlando a voce alta di un documentario sulle conquiste sociali della rivoluzione chavista. L’atmosfera era tesa in quei giorni. Non si sapeva che direzione avrebbe preso il governo, né se avrebbe resistito. I chavisti dicevano di temere il colpo di stato. Gli antichavisti di temere un autogolpe. Il clima in giro era molto cupo. Un tavolo di clienti caraqueñi ascolta la conversazione dei militanti europei e qualcuno alza la voce. «Venite a vivere un periodo qui nei quartieri, venite a vedete come vanno le cose da queste parti, no?» dice agli spagnoli. Segue breve discussione, abbastanza civile. Poi zitti tutti. Al Nacional giurano che tra gli spagnoli c’erano Pablo Iglesias e Juan Carlos Monedero. Dicono che i camerieri della “Hostería” confermano. Il documentario, propaganda pura, di cui stavano discutendo è quello su Chávez fatto da Iglesias per la televisione iraniana HispanTv, uscito nell’agosto del 2013, dove compare a più riprese Monedero, che è il principale intervistato. Come indipendente osservatore estero.
La storia del rapporto tra Cinque Stelle e Venezuela. Andrea Muratore il 15 giugno 2020 su Inside Over. Il quotidiano spagnolo Abc ha recentemente accusato il Movimento Cinque Stelle di aver ricevuto finanziamenti da parte del governo venezuelano di Hugo Chavez nel 2010, quando i pentastellati, allora nella fase iniziale della loro costituzione politica, un finanziamento di 3,5 milioni di euro funzionale alla costituzione di un movimento “di sinistra rivoluzionario e anticapitalista” in Italia. Il Venezuela di Chavez, socialista bolivariano sul fronte interno, non ha mai avuto problemi a commerciare e muoversi secondo le logiche del capitalismo internazionale, e viene da chiedersi dove un Paese che già allora subiva i primi scossoni di una crisi economica e sociale che sarebbe divenuta palese dopo la morte di Chavez avrebbe potuto trovare i fondi per finanziare Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio disponendo di solidi e attivi interlocutori nella Sinistra italiana. Al di là delle accuse, il tema offre l’occasione di discutere dei lunghi rapporti tra la formazione pentastellata e Caracas. Risulta interessante constatare come dalla sinistra italiana il Movimento Cinque Stelle abbia in diverse sue frange, ereditato l’interesse verso l’esperimento socialista bolivariano, concentrandosi su di esso dopo la transizione tra Chavez e Nicolas Maduro, quando cioè prendevano forma l’indebolimento politico e lo sfascio economico seguiti al decesso di Chavez. Cosa, nel movimento chavista, attraeva i pentastellati? Frange radicali come quella di Alessandro Di Battista ne elogiavano le battaglie politiche ed economiche contro le disuguaglianze e la contrapposizione agli Stati Uniti. L’ala di Manlio Di Stefano riteneva l’Alba, l’alleanza bolivariana delle Americhe centrata su Caracas, un importante tassello del multipolarismo ritenuto centrale nella strategia grillina di politica estera. Chavez era il “ribelle mondiale”, il contestatore permanente che nello stile più ricordava la forma mentis di Grillo e Casaleggio padre: posizioni forti, toni radicali, forte vis polemica. Lo stesso non si può dire di Maduro, burocrate di partito asceso alla presidenza per meriti di fedeltà e arroccatosi attorno a una cerchia di militari e fedelissimi della prima ora. Il 13 marzo 2015 il Movimento Cinque Stelle organizzò alla Camera dei Deputati un convegno sull’Alba e il Venezuela, in cui l’allora onorevole Alessandro Di Battista tenne gli onori di casa di fronte a ospiti del calibro di Gianni Minà, giornalista e grande esperto di America Latina, Bernardo Álvarez, segretario dell’Alba (uomo fidato di Chávez e confermato da Nicolas Maduro), Veronica Rojas Berrios, viceministro degli Esteri del Nicaragua, e Luciano Vasapollo, economista e sostenitore del governo Venezuelano che nell’occasione mostrò apertamente le sue posizioni dichiarando: “L’Alba subisce attacchi violentissimi dal capitalismo e dell’impero. Voglio fare un grande applauso al governo Maduro, al popolo bolivariano, ai compagni venezuelani che stanno subendo un attacco senza precedenti di guerra militare, terroristica. Siamo tutti Chávez, dobbiamo esserlo tutti i giorni”. Nel marzo 2017 una delegazione pentastellata formata da Manlio Di Stefano, capogruppo alla commissione Affari esteri della Camera, Ornella Bertorotta, capogruppo alla commissione Affari esteri del Senato, e Vito Petrocelli, vicepresidente del Comitato italiani all’estero, si recò a Caracas per incontrare autorità del Paese, esponenti del mondo economico e rappresentanti della comunità italiana. Il Foglio diede allora una lettura molto critica della visita, sottolineando come i pentastellati avrebbero compreso scarsamente le problematiche legate all’inflazione galoppante, alla criminalità in aumento e alla crisi sistemica galoppante nel Paese. Ma al contempo, risulta difficile pensare che i chavisti abbiano influenzato direttamente i programmi politici dei Cinque Stelle. Il regime venezuelano è socialista, ma anche radicato enormemente nello sfruttamento della rendita petrolifera. Ciò mal si concilia con l’anti-industrialismo e l’ostilità al settore energetico dei Cinque Stelle, la cui fascinazione verso il Venezuela appare più che altro una continuazione del mito terzomondista di parte della Sinistra italiana. Non a caso, una volta entrato nel governo al fianco della Lega prima e del Pd poi il Movimento Cinque Stelle ha difeso il Venezuela di Maduro solo indirettamente, senza mai cercare di approfondire realmente le relazioni bilaterali. Allo scoppio della crisi tra Maduro e Juan Guaidò i pentastellati, nel gennaio 2019, presero una posizione pilatesca: né con l’uno né con l’altro. Di Battista, allora, ritrattò perfino il suo sostegno a Caracas in un’intervista a Lucia Annunziata: “Avere una posizione neutrale è una posizione di buon senso, che non significa stare con Maduro, non l’ho mai detto in vita mia, sono fake news raccontate dai giornali”. Indirettamente questo, bisogna ammetterlo, preservò l’Italia dal sostenere incondizionatamente Guaidò, la cui autoproclamazione alla presidenza si è presto rivelata come un bluff. Anche sul Venezuela, come in altri scenari di politica estera (Cina-Usa, Tap, F-35 e così via) i pentastellati hanno più che altro dimostrato ingenuità e eccessivo zelo ideologico. I rapporti sono stati sentimentali, mai fondati su reali interessi: se Caracas ha investito 3,5 milioni di euro nella creatura di Grillo e Casaleggio dieci anni fa possiamo ragionevolmente ammettere che si sia trattato di un investimento infruttuoso. Spicca, anche sul Venezuela, l’incoerenza del movimento grillino. Pronto a ritrattare in nome del quieto vivere le stesse posizioni della prima ora.
Movimento 5 Stelle e Venezuela, gli "storici rapporti" di amicizia tra grillini e il regime sudamericano. Carmine Di Niro de il Riformista il 15 Giugno 2020. Davide Casaleggio l’ha definita “fake news”, ma l’inchiesta del quotidiano spagnolo Abc sui rapporti tra il regime venezuelano di Hugo Chavez e il Movimento 5 Stelle, con l’accusa di aver finanziato illegalmente con 3,5 milioni di euro il nascente partito, riporta d’attualità i rapporti pericolosi tra pentastellati e il paese del Sud America. Una vicinanza storica al regime, guidato ora dal "delfino" di Chavez, Nicolas Maduro, suo ex ministro degli Esteri. L’Italia infatti, proprio per la contrarietà grillina, è tra i paesi europei (gli altri sono Slovacchia e Cipro) che nel febbraio 2019 non ha riconosciuto come presidente ad interim Juan Guaidó, rivale proprio di Maduro in patria. Una decisione arrivata al tempo del governo giallo-verde con Matteo Salvini, al contrario schierato apertamente contro Maduro, definito “dittatore”. In quell’occasione l’Italia si schierò per una ‘terza via’, non riconoscendo Guaidó come leader del Venezuela ma che definiva le elezioni che avevano riconfermato Maduro alla guida del Paese illegittime. Andando più indietro nel tempo, nel 2017, una delegazione del Movimento 5 Stelle guidato da Manlio Di Stefano, attuale sottosegretario agli Esteri, si recò in viaggio nel paese sudamericano in occasione del quarto anniversario della morte di Chavez. Pentastellati che denunciavano quindi alla Camera, in una risoluzione del 2017 firmata tra gli altri da Alessandro Di Battista, “indebita ingerenza da parte della comunità internazionale” in Venezuela. Una delle ultime uscite dei 5 Stelle sul Venezuela arriva dall’intervista del parlamentare Pino Cabras a ‘Il Foglio’. Il deputato, che fa parte della commissione Esteri della Camera, aveva spiegato nel gennaio 2019 che “quello che succede in Venezuela è affare dei venezuelani”. “Non dico che ci sia un complotto americano, ma si sta ponendo grande enfasi sui diritti umani per usarli come un grimaldello contro il governo del Venezuela e gli Stati Uniti stanno torcendo la mano alla situazione”, aveva spiegato Cabras nell’intervista con Francesco Merlo, a conferma di una linea politica grillina schierata col regime di Maduro, che alla luce dello scoop di Abc, se confermato, mette nei guai il Movimento.
Davide Casaleggio: “Papà malato aggredito da uno de Le Iene”. Ma non era uno dei nostri! Le Iene News il 15 giugno 2020. In un passaggio di un suo articolo sul Blog delle stelle il figlio di Gianroberto, fondatore con Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle, attacca i metodi aggressivi con suo padre poco prima che morisse di “due persone che si qualificarono come giornalisti freelance per conto delle Iene”. Caro Davide Casaleggio, noi non c’entriamo, non erano dei nostri. “Adesso basta”. Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto fondatore con Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle, si scaglia dal Blog delle stelle contro le fake news sul M5S in questo articolo partendo dal caso odierno dei presunti finanziamenti dal Venezuela ai Cinque Stelle smentiti ora da molti. In un passaggio Davide Casaleggio scrive a proposito del padre morto a 61 anni nel 2016: “Quello che hanno fatto a mio padre in vita è incredibile, forse un giorno avrò anche il tempo di raccontarlo. Ma credo che un video che mi hanno inoltrato pochi giorni fa possa essere una buona sintesi. Non pensavo in realtà che il “giornalista” avrebbe mai avuto il coraggio di pubblicarlo, ma visto che a 4 anni dalla morte di mio padre ha deciso di rendere visibile un video dell’ultimo giorno in cui mio padre uscì di casa sulle sue gambe penso sia giusto che tutti sappiano. Quel giorno andai a prenderlo a casa per portarlo in ufficio dove volle andare fino all’ultimo. Davanti al portone trovammo due persone che si qualificarono come giornalisti freelance per conto delle Iene. Nonostante l’evidente difficoltà a reggersi in piedi di mio padre fecero comunque il loro “servizio” aggressivo basato ora come allora sul nulla. Dopo quel giorno mio padre vide solo la sua camera d’ospedale”. Noi però non c’entriamo nulla. Quei due giornalisti di cui parla Casaleggio non erano inviati de Le Iene, non c’entravano in alcun modo con noi e non erano quindi certo qualificati, nel caso, a parlare a nome della nostra redazione.
Davide Casaleggio da Bruno Vespa un’omelia da parrocchia. Wolfbreak il 14 Febbraio, 2020. Ieri sera Davide Casaleggio il presidente dell’Associazione Rousseau, è stato ospite di Bruno Vespa per la seconda volta in tv per difendere il lavoro del padre: “I padroni, gli utilizzatori del M5S sono gli iscritti. Le organizzazioni del Novecento pensavano che il potere fosse illimitato, abbiamo cambiato questo schema“. L’obiettivo del M5S per il figlio del cofondatore è “mettere nel Dna dei cittadini italiani la partecipazione alla vita pubblica”. E sui dubbi circa la debolezza del principio di voto rivendica: “Ci sono due notai che certificano i risultati e una società esterna che verifica se ci sono anomalie”. Dopo aver risposto sul presunto conflitto di interessi per un evento sponsorizzato tra l’altro da Nexi e Deliveroo, Davide Casaleggio ha anche parlato dei recenti cambamiameti nel Movimento 5 Stelle: “Se ho condiviso le dimissioni di Di Maio? Ho condiviso il suo auspicio per un focus sui temi e non sulle persone. Di Maio ha fatto un passo indietro da capo politico ma è sempre in prima linea, come sabato prossimo in piazza contro i vitalizi dei parlamentari”. A gennaio un documento dei senatori Primo Di Nicola, Emanuele Dessi, Mattia Crucioli oltre ad auspicare la sostituzione del capo politico con un organismo collegiale ha chiesto che non fosse più Davide Casaleggio, o meglio l’associazione Rousseau da lui presieduta, a occuparsi della gestione della piattaforma, ma che dati e proprietà della piattaforma fossero affidati al Movimento stesso. “Quando qualcuno me lo dirà sarò informato anche io, ho sentito di questi 3 senatori, non ho ancora letto il documento che hanno fatto leggere a tutti ma che non ho ancora ricevuto”. Affermando anche che “i parlamentari sono contenti di supportare Rousseau con il contributo di 300 euro perché è la voce degli iscritti”. Infatti secondo Casaleggio “i padroni, gli utilizzatori del M5S sono gli iscritti. Questo è sempre stato il centro, la partecipazione degli iscritti. Gli iscritti hanno fatto partire il Conte 1 e il Conte 2, hanno scritto il programma del 2018. Anche la costruzione delle liste elettorali è fatta dagli iscritti. E’ un unicum in Italia”. “Le organizzazioni del Novecento pensavano che il potere fosse illimitato, con il M5S abbiamo cambiato questo schema”. “A settembre abbiamo fatto il record mondiale di partecipazione a un voto online” e da allora “abbiamo università, associazioni e anche partiti che ci chiedono come abbiamo fatto a realizzare questo record“. L’obiettivo del M5S per Casaleggio è “mettere nel Dna dei cittadini italiani la partecipazione alla vita pubblica. Quando questo risultato sarà raggiunto penso che anche il Movimento avrà raggiunto il suo fine ultimo. Ci vorrà del tempo, ma penso che sia importante”. “Ci sono due notai che certificano i risultati del voto e una società esterna, informatica, che verifica se ci sono anomalie durante le votazioni online”, ha replicato poi rispondendo ai dubbi sulla debolezza del criterio evidenziato anche dal Garante della Privacy. “Mio padre quando parlava di certificazione esterna del voto si riferiva proprio a questo”. In riferimento all’esperienza attuale di governo, “penso che il M5S debba rimanere al governo fino a quando riuscirà a portare a casa quei temi per cui è stato votato”. Stare o no col Pd? “Questo tema non mi appassiona per niente, a me appassiona parlare di progetti. finché è una questione di tifoserie, non mi interessa”. Sui risultati da lui intravisti: “Le autostrade hanno un contratto con lo Stato fatto 20 anni fa e per anni è rimasto secretato. Fino all’arrivo del M5S quel contratto era segreto”. E il reddito di cittadinanza già nella prima fase “ha avuto un effetto imponente. Non solo a sostegno” di chi si trova in una condizione di povertà, “ma ad esempio sulla spesa e i consumi delle famiglie, quindi anche sul Pil italiano”.
Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 24 dicembre 2019. Una delle poche certezze, dietro i verbi coniugati al futuro di Davide Casaleggio, sono i cari vecchi danè, per dirla alla milanese. Ovvero i soldi che spuntano dall' ultimo bilancio disponibile della sua azienda, la Casaleggio associati: giro d' affari passato da 1,17 a 2,05 milioni di euro, e utili che si sono moltiplicati per nove, balzando da 20 mila a 181 mila euro. Il tutto, valga almeno la coincidenza temporale, nel primo anno dei 5 Stelle al governo. Un dato che colui che viene indicato come il vero capo del movimento - si legge nella relazione al bilancio - ricava «dall' attività consulenziale verso aree di business in forte espansione» come «la digital strategy, l' intelligenza artificiale, il blockchain, i sistemi di finanziamento dell' innovazione e modelli di integrazione fisicodigitale». Quegli stessi, medesimi campi in cui interviene direttamente il piano del governo che la ministra grillina Paola Pisano, che - giusto per non lasciar cadere nel vuoto i sospetti dopo l' accentramento di tutte le competenze sull' innovazione sul suo dipartimento - ha pensato bene di corredare con ringraziamenti espliciti a Casaleggio junior. Ma così vanno le cose, di questi tempi, in casa grillina: il piano per l' Innovazione è stato bloccato ma l' alone del conflitto d' interessi ogni giorno di più avvolge Davide Casaleggio, che ora si scopre anche destinatario di 600 mila euro da Vincenzo Onorato, capo della compagnia di navigazione "Moby": nel giugno del 2028, quando il governo gialloverde era agli esordi, il figlio di Gianroberto ricevette da Onorato un finanziamento per un piano strategico e di comunicazione chiamato #navigoitaliano, con l' obiettivo di «sensibilizzare l' opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla tematica della limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionali alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani». La Casaleggio associati, insomma, ha ricevuto da un armatore denaro per promuovere benefici in un settore di competenza di un ministro di 5 Stelle, quale era - allora - Danilo Toninelli. «Ma Toninelli mi ha sempe attaccato», dice adesso un po' candidamente Onorato, che ha pagato anche contenuti pubblicitari sul blog di Beppe Grillo per un esborso annuo di 120 mila euro, sul quale si è acceso il faro dell' antiriciclaggio di Bankitalia. Onorato ha finanziato pure l' associazione Open di Matteo Renzi ma qui siamo in un campo diverso: il pur nebuloso mondo delle fondazioni è al centro del decreto anti-corruzione di Bonafede, che invece non si applica alla Casaleggio associati, la quale formalmente non ha rapporti diretti con i 5S. Eppure, in questi anni, chi ha avuto legami commerciali con la Casaleggio Associati ha nei fatti sostenuto Grillo o il movimento. Le partnership note sono tante: da Nexi (ex Cartasì) a Deliveroo, la società di food delivering con cui il governo gialloverde aveva aperto un tavolo di trattativa, con tanto di sdegno dei riders che si sono detti sfruttati (dall' azienda) e illusi (da Di Maio). Ma il portafoglio clienti della Casaleggio associati resta in gran parte misterioso e ciò contribuisce ad alimentare quel deficit di trasparenza che è diventato - a dispetto dei proclami iniziali - il tratto distintivo dei 5S. Una senatrice che ha curato il programma del Movimento racconta di avere incontrato, a inizio 2018, Gianfranco Grieci, imprenditore campano del settore agroalimentare, che si era presentato dicendo di «lavorare a un progetto con Casaleggio ». «Ma è vicino a Forza Italia», fece sapere la senatrice. L' invito da parte dell' entourage di Casaleggio fu quello di ascoltarlo lo stesso. Davide è uno e trino, ormai: imprenditore, riferimento politico sempre presente alle riunioni chiave del Movimento (fra cui quelle che battezzarono il governo giallo-rosso) capo di Rousseau, la società ascesa quasi a rango costituzionale con il referendum sul via libera al Conte- bis alla quale, in modo sempre meno convinto, gli eletti M5S versano mensilmente 300 euro. Saranno 5 milioni, a fine legislatura, gli introiti delle restituzioni degli eletti nelle casse di Rousseau. «E se ci fossero elezioni anticipate a chi andrebbero i soldi già versati?», è la domanda che ha animato l' estate pentastellata. L' inverno invece, illumina l' orizzonte cinese, frontiera di sviluppo economico e digitale: ieri il ministro Stefano Patuanelli ha aperto la strada a Huawei per lo sviluppo del 5G («Soluzione migliore nei tempi migliori »), malgrado i dubbi sulla sicurezza nazionale espressi dal Copasir. Chi si stupisce per la improvvisa passione orientale dei pentastellati può rintracciare sul web una foto scattata nella sede della Casaleggio il 24 giugno 2013, in cui si vede Grillo, il cofondatore di 5Stelle Gianroberto e l' ambasciatore Ding Wei. «Abbiamo scambiato vedute sui temi di comuni interesse», disse Wei. Fra quei temi di comune interesse, racconta chi è vicino a Davide Casaleggio, c' erano proprio le nuove tecnologie. E i danè, che poi chissà come si traduce in cinese mandarino.
La Moby di Onorato e i contratti con Grillo e Casaleggio. I sospetti dell’Antiriciclaggio. Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. La Moby di Onorato avrebbe cercato sponde politiche non solo appoggiando Renzi. Ha finanziato la Fondazione Open di Matteo Renzi, ma non solo. Perché la «Moby spa» di Vincenzo Onorato avrebbe cercato sponde politiche versando denaro per sostenere pure il blog di Beppe Grillo e la Casaleggio Associati. Bonifici che però sono stati segnalati come «operazioni sospette» dall’Uif, l’Unità antiriciclaggio di Bankitalia. E adesso sono in corso accertamenti per verificare gli accordi economici presi tra il 2018 e il 2019. Ma anche per stabilire se questi contributi abbiano portato vantaggi alla compagnia di navigazione che ha ereditato la Tirrenia ed è titolare di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno il monopolio di alcune rotte marittime. Sull’accordo l’Unione Europea ha avviato un’istruttoria per verificare se si tratti di un «aiuto di Stato». E proprio questo avvalora l’ipotesi che Onorato abbia sovvenzionato fondazioni e società per ottenere appoggi per le attività delle sue aziende in Italia e all’estero e che si sia adoperato per ottenere la «modifica delle norme sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane». Il «contratto di partnership» segnalato dall’Uif è quello siglato per due anni — 2018/2019 — con l’azienda che gestisce il blog di Grillo e prevede un esborso annuo di 120 mila euro l’anno. In cambio la società garantisce sia l’inserimento di messaggi pubblicitari, sia «“contenuti redazionali” con interviste a testimonial della Moby da pubblicare anche su Facebook, Twitter e Instagram». Il patto prevede «la pubblicazione di uno “spot” al mese» e ciò ha alimentato il sospetto che la cifra pattuita fosse in realtà un finanziamento politico mascherato. Per questo sono scattate le verifiche che prevedono controlli sui prezzi offerti ad altre aziende proprio per accertare la congruità della somma, ma anche accertamenti per stabilire se i soldi siano in realtà la contropartita versata dall’armatore per ottenere interventi di tipo normativo. Grillo e Onorato sono amici da tempo. Nel settembre 2018, quando il Movimento 5 Stelle in Sardegna si schierò contro la convenzione siglata con la Moby, fu proprio il fondatore a difenderla attaccando le altre compagnie e rilanciando su Twitter gli articoli del suo blog, proprio come previsto dal contratto. Un patto che evidentemente Onorato non riteneva sufficiente a tutelare i propri interessi e dunque ha deciso di rivolgersi anche alla Casaleggio Associati. L’accordo con la piattaforma specializzata nelle strategie digitali di Davide Casaleggio — il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle Gianroberto — è stato sottoscritto il 7 giugno 2018 e prevede la «stesura di un piano strategico e la gestione di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeolder del settore marittimo sulla limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Il mandato è duplice: «Sensibilizzare le istituzioni e raggiungere una community di un milione di persone». In questo caso la cifra pattuita è di 600 mila euro ma con ulteriori clausole legate al raggiungimento del risultato. È stato infatti deciso il versamento di 250 mila euro ad obiettivo entro 12 mesi e 150mila euro ad obiettivo tra i 12 e i 24 mesi. L’inchiesta della Procura di Firenze mira a verificare i reali rapporti tra la Open di Renzi e le centinaia di finanziatori tra il 2012 e il 2018 con un’attenzione particolare agli ultimi anni, quando Renzi è diventato presidente del Consiglio. A fine novembre sono scattate le perquisizioni negli uffici e nelle abitazioni di imprenditori e manager proprio alla ricerca di documenti per ricostruire il percorso dei soldi e nell’elenco c’era anche Onorato. Sotto osservazione, i 50 mila euro versati dall’armatore «a titolo personale» e i 100 mila elargiti dalla società. «Credo e crederò sempre negli ideali sociali di Renzi ed ho sostenuto la sua fondazione con un contributo pubblico perché chiaro, visibile e trasparente», ha dichiarato l’armatore. Il sospetto è che quei soldi fossero in realtà una contropartita per interventi normativi. nelle informative della Finanza viene evidenziata l’approvazione della legge proposta dal deputato renziano Roberto Cociancich per disciplinare il regime fiscale che gli era falso il ringraziamento pubblico proprio di Onorato.
Scoppia il "Caso Moby": 840mila euro a Grillo e Casaleggio. Il M5S tace....Il Corriere del Giorno il 23 Dicembre 2019. Divampa la polemica con Italia Viva che attacca. La compagnia di navigazione Moby ha ereditato la Tirrenia ed è titolare di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno il monopolio di alcune rotte marittime. Sull’accordo l’Unione Europea ha avviato un’istruttoria per verificare se si tratti di un «aiuto di Stato». Gasparri (Forza Italia) : "Vogliamo la verità". Il M5S tace…..“Un’azienda dà 60mila euro a Open: perquisizioni, accuse, aperture dei Tg. La stessa azienda ne dà poi 600mila a Casaleggio e 240mila al blog di Grillo. Tutti zitti: media proni, giudici silenti“. Lo scrive su Twitter Luciano Nobili, deputato romano di Italia Viva, in relazione delle notizie emerse sui finanziamenti della società Moby alla Casaleggio & Associati e al blog di Beppe Grillo. L’inchiesta della Procura di Firenze puntava a verificare i reali rapporti tra la Fondazione Open di Matteo Renzi e le centinaia di finanziatori tra il 2012 e il 2018 con un’attenzione particolare agli ultimi anni, quando Renzi è diventato presidente del Consiglio. A fine novembre sono scattate le perquisizioni negli uffici e nelle abitazioni di imprenditori e manager proprio alla ricerca di documenti per ricostruire il percorso dei soldi e nell’elenco c’era anche Onorato. Sotto osservazione, i 50 mila euro versati dall’armatore “a titolo personale” e i 100 mila elargiti dalla società Moby spa. “Credo e crederò sempre negli ideali sociali di Renzi ed ho sostenuto la sua fondazione con un contributo pubblico perché chiaro, visibile e trasparente“, ha spiegato l’armatore. Il sospetto è però che quei soldi fossero in realtà una contropartita per interventi normativi. Infatti, nelle informative redatte dalla Guardia Finanza viene evidenziata l’approvazione della legge proposta dal deputato renziano Roberto Cociancich per disciplinare il regime fiscale che gli era valso il ringraziamento pubblico proprio di Vincenzo Onorato. Ma la vicenda non coinvolge solo Renzi, ma anche il M5S . In un articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera si parla di contratti pubblicitari da parte della società di navigazione Moby spa di Vincenzo Onorato con Bello Grillo e “lobbistici” con Davide Casaleggio, il reale “padrone-controllore” del M5S, che avrebbe cercato appoggi non solo appoggiando Matteo Renzi e finanziando la Fondazione Open ma anche versando denaro per sostenere il blog dell’ex comico e la Casaleggio Associati. “Noi siamo garantisti: speriamo non perquisiscano Beppe e Casaleggio il giorno di Natale” aggiunge con ironia il deputato Nobili. Nell’articolo pubblicato sul Corriere a firma della solita brava collega Fiorenza Sarzanini si legge che Onorato “Ha finanziato la Fondazione Open di Matteo Renzi, ma non solo. Perché la «Moby spa» di Vincenzo Onorato avrebbe cercato sponde politiche versando denaro per sostenere pure il blog di Beppe Grillo e la Casaleggio Associati. Bonifici che però sono stati segnalati come «operazioni sospette» dall’Uif, l’Unità antiriciclaggio di Bankitalia. E adesso sono in corso accertamenti per verificare gli accordi economici presi tra il 2018 e il 2019. Ma anche per stabilire se questi contributi abbiano portato vantaggi alla compagnia di navigazione che ha ereditato la Tirrenia ed è titolare di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno il monopolio di alcune rotte marittime. Sull’accordo l’Unione Europea ha avviato un’istruttoria per verificare se si tratti di un «aiuto di Stato». E proprio questo avvalora l’ipotesi che Onorato abbia sovvenzionato fondazioni e società per ottenere appoggi per le attività delle sue aziende in Italia e all’estero e che si sia adoperato per ottenere la «modifica delle norme sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane“. Il «contratto di partnership» segnalato dall’Uif è quello siglato per due anni — 2018/2019 — con l’azienda che gestisce il blog di Grillo e prevede un esborso annuo di 120 mila euro l’anno. In cambio la società garantisce sia l’inserimento di messaggi pubblicitari, sia «”contenuti redazionali” con interviste a testimonial della Moby da pubblicare anche su Facebook, Twitter e Instagram». Il patto prevede «la pubblicazione di uno “spot” al mese» e tutto ciò ha alimentato il sospetto che la cifra pattuita fosse in realtà un finanziamento politico mascherato. E’ stato questo il motivo che ha attivato le verifiche che prevedono controlli sui prezzi offerti ad altre aziende proprio per accertare la congruità della somma, ma anche accertamenti per stabilire se i soldi siano in realtà la contropartita versata dall’armatore per ottenere interventi di tipo normativo. Grillo e Onorato sono amici da tempo. Nel settembre 2018, quando il Movimento 5 Stelle in Sardegna si schierò contro la convenzione siglata con la Moby, guarda caso fu proprio il fondatore del M5S a difenderla attaccando le altre compagnie e rilanciando su Twitter gli articoli del suo blog, esattamente come previsto dal contratto pubblicitario. Un accordo, quello con Grillo che evidentemente Onorato non riteneva sufficiente a tutelare i propri interessi e quindi ha deciso di rivolgersi anche alla Casaleggio Associati. L’accordo con la società specializzata nelle strategie digitali di Davide Casaleggio — il figlio di Gianroberto, fondatore del Movimento 5 Stelle — è stato sottoscritto il 7 giugno 2018 e prevedeva la «stesura di un piano strategico e la gestione di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeolder del settore marittimo sulla limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Il mandato di Onorato aveva un duplice scopo, e cioè quello: di “Sensibilizzare le istituzioni e raggiungere una community di un milione di persone“. In questo caso la cifra pattuita era di 600 mila euro ma con ulteriori clausole legate al raggiungimento del risultato. È stato infatti deciso il versamento di 250 mila euro ad obiettivo entro 12 mesi e 150mila euro ad obiettivo tra i 12 e i 24 mesi. Cioè un milione di euro! Dello stesso “peso” di Nobili, l’intervento di Maurizio Gasparri di Forza Italia. “Vogliamo la verità, tutta la verità. I grillini hanno fatto della loro diversità l’unico codice identificativo. Poi abbiamo visto i casi Trenta, Di Battista, Di Maio, Taverna, con piccole e grandi vicende che hanno dimostrato quali fossero i difetti di questa galassia. Ora sui soldi di Onorato vogliamo tutta la verità. Non li molleremo per un secondo. Non si illudano di farla franca. Grillo deve spiegare anche molte cose della sua vita personale e familiare. Ma intanto spieghino tutto quello che è avvenuto con i soldi della Moby di Onorato“. Gasparri aggiunge: “Quali sono stati i rapporti tra Onorato e il mondo grillino? Onorato ha disonorato Grillo? Hanno preso soldi? Per quali prestazioni? Per quali spazi pubblicitari? Quali posizioni hanno preso i parlamentari grillini in merito alle normative riguardanti le società di navigazione? Vogliamo sapere se Onorato con i soldi ha condizionato o meno quella galassia. È tutto trasparente? Uno vale uno, e Onorato quanto vale?” aggiunge il senatore che dice: “la questione non può finire qui“. Nel frattempo il M5S, che gridava “Onestà, onestà” tace . Avranno perso la voce, dopo la faccia ?
Inchiesta su Open, adesso Casaleggio è un caso: riveli i suoi clienti. Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Virgilio Poccolillo. «Non mi aspettavo favoritismi». Si difende così l’armatore della Moby, Vincenzo Onorato, finito sotto la lente della Uif, l’Unità antiriciclaggio di Bankitalia, per aver versato fondi alla Fondazione Open di Matteo Renzi, ma anche alla società che gestisce il blog di Beppe Grillo e alla Casaleggio associati, per consulenze di comunicazione. «Operazioni sospette» che hanno fatto scattare un’indagine mirata ad accertare che non ci siano state contropartite normative in suo favore. Ma siccome una legge sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane è stata varata (e salutata con favore da Onorato) anche la Ue ha aperto un’istruttoria su presunti «aiuti di Stato» alla Moby, che ha ereditato la Tirrenia ed è titolare di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l’anno per il monopolio di alcune rotte. E così accuse di «conflitto di interessi» arrivano per voce di Anna Maria Bernini dal partito di Silvio Berlusconi, da sempre bersaglio di analoghi attacchi dai 5 Stelle. Ma cosa è accaduto? La Moby ha stilato un «contratto di partnership» da 120 mila euro in due anni con l’azienda che gestisce il blog di Grillo, in cambio di pubblicità. E un altro da 600 mila euro con la Casaleggio associati per la stesura di un piano strategico: «Sensibilizzare le istituzioni e raggiungere una community di un milione di persone» e «iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica». Il sospetto da fugare é che gli interventi di Grillo in difesa di Moby non rientrassero in questa strategia. Onorato respinge i sospetti: «Mi sono rivolto alla Casaleggio perché per quel tipo di lavoro sono leader in Italia. Le somme pagate sono cifre di mercato. Né più né meno». Assicura di non essersi aspettato un trattamento di favore: «Non a caso il ministro Toninelli (con cui più volte ho duramente polemizzato) ha sempre attaccato, non conoscendo i fatti, la mia compagnia». Quanto ai versamenti da 60 milioni di euro alla fondazione renziana, l’armatore dei traghetti precisa: «Ho finanziato Open perché credo nelle idee sociali di Matteo Renzi. E l’ho finanziata in modo libero, chiaro e trasparente». Ma attira l’attenzione degli investigatori la coincidenza che la legge è stata proposta proprio da un deputato renziano, Roberto Cociancich, per disciplinare il regime fiscale. Onorato all’AdnKronos ribatte che «la legge Cociancich, su cui mi sono battuto e continuerò a farlo, non prevede aiuti e sgravi per gli armatori, che già esistono da più di 20 anni, bensì occupazione per i marittimi italiani. Le mie navi viaggiano con stipendi base di 1.600 euro al mese, quelle dei miei colleghi armatori con 300 dollari al mese con lavoratori extracomunitari sfruttati e sottopagati». Ma Forza Italia attacca: «Vogliamo la verità su cosa è stato fatto con i soldi della Moby. Onorato ha disonorato Grillo?», chiede Maurizio Gasparri. Mariastella Gelmini rincara: «È intollerabile che il “controllore” di fatto del primo partito in Parlamento sia anche il vertice di un’azienda privata della quale si disconosce quasi tutto. Soprattutto i clienti e le attività “vendute”. Casaleggio, fuori i nomi». Il renziano Luciano Nobili, invece, lamenta: «Un’azienda dà 60 mila euro a Open: perquisizioni, accuse, aperture dei Tg. La stessa azienda ne dà poi 600 mila a Casaleggio e 240 mila al blog di Grillo. Tutti zitti: media proni, giudici silenti».
Nuova fuga di notizie: stavolta è un siluro a Grillo. Piero Sansonetti il 24 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ancora ieri (forse anche oggi) il blog di Beppe Grillo, in testa alla sua home page ha una bella pubblicità della Moby, cioè la compagnia di traghetti più potente d’Italia, quella che ha diverse rotte in esclusiva e le fa pagare ben care.
Che c’è di male nella pubblicità della Moby? Niente, assolutamente niente. Si è saputo però che c’è una indagine dell’Unità antiriciclaggio della Banca d’Italia (si chiama Uif) sui soldi pagati a Grillo (non è chiaro se 120 mila o 240 mila euro per due anni) e soprattutto sui soldi versati al suo compagno di avventure politiche, Davide Casaleggio, il quale invece avrebbe incassato ben 600mila euro, dalla Moby, per delle consulenze. Sembra anche che nella motivazione della consulenze ci sia scritto, tra l’altro, “per sensibilizzare le istituzioni”. Ahi, ahi ahi. Oltretutto pare anche che l’Europa abbia iniziato degli accertamenti sulla Moby (e sulla Tirrenia, compagnia fagocitata tempo fa dalla Moby) per via delle convenzioni (una cosina da 72 milioni) che ha sottoscritto con lo Stato e che gli organi di vigilanza europea sospettano possa configurare l’ipotesi di aiuti (proibiti) di Stato. Vedremo cosa deciderà l’Europa. Per ora possiamo dire un paio di cose. La prima è che – a occhio – anche stavolta (come nelle precedenti indagini sulla fondazione Open e sulla casa di Renzi) non c’è reato. La seconda è che invece il reato c’è, e cioè l’abituale fuga di notizie, ma è un reato del quale esiste un vero e proprio divieto a occuparsene da parte della magistratura. E anche degli organismi vari che dovrebbero controllare l’attività della magistratura ma, essendo in prevalenza costituiti di magistrati, tendono a non occuparsene. I reati in Italia possono essere di tre tipi: dolosi, colposi o magistrali (cioè commessi dalla magistratura). Nel terzo caso si estinguono. E tuttavia la storia dei finanziamenti di Moby, o Tirrenia, a Grillo e Casaleggio, un pochino pochino stupisce. E un pochino fa anche sorridere. Perché? Perché l’inchiesta – ironia della sorte – è partita dall’inchiesta “Open” cioè quella voluta dai 5Stelle e dai giornali grillini e para-grillini contro Renzi. L’inchiesta contro Renzi si sta risolvendo in un buco nell’acqua, si è scoperto solo che Open era una fondazione amica di Renzi e che riceveva finanziamenti tutti a norma di legge, e poi si è saputo che Renzi ha comprato un appartamento (come Formigli ma se dice che Formigli ha comprato un appartamento sei un nemico della libertà di stampa). E però i seguaci dell’antiriciclaggio, cercando di capire perché la Moby aveva versato, apertamente, 60mila euro alla Open, hanno scoperto che la stessa Moby ne aveva versati dieci volte di più alla Casaleggio, per “sensibilizzare le istituzioni”. Cosa voglia dire questo “sensibilizzare” ognuno lo decide per conto suo. È uno scandalo? No, a me non sembra. Il problema è che per quindici giorni i giornali della destra populista (soprattutto la Verità e Il Fatto), ma anche molti giornali – una volta si diceva “borghesi”, a partire dall’Espresso, hanno condotto una campagna battente contro Renzi, accusato di niente ma accusato in modo roboante. Conflitto di interessi, addirittura “tangenti” ha detto Travaglio. Tangenti? E allora quelle di Casaleggio come le chiamiamo? Beh, invece ieri Il Fatto ha dedicato alla notizia una colonnina piccola piccola piccola, a pagina tre, acquattata contro il margine della pagina. Titolo sobrio sobrio: “Bankitalia svela fondi di Onorato al blog di Grillo e alla Casaleggio”. Bankitalia, eh. Poi chissà se è vero. E poi chi sarebbe questo Onorato (per la cronaca è il proprietario di Moby)? In prima pagina il capolavoro. Scrive il giornale di Travaglio, due righe in tutto: “Non è reato e neppure conflitto di interessi. Però non era opportuno”. Ve l’immaginate se avesse risolto il caso Open con due righe uguali? Non è reato ma non è opportuno: punto e basta. Non fece proprio così. Volete dare un’occhiata ai titoli del Fatto su Renzi dei giorni scorsi? Ne riportiamo solo pochissimi, così, presi a caso. Tutti in prima pagina, a tutta pagina, tutti con gigantesche foto di Renzi formato poster. 27 novembre: “Caccia al tesoro e ai bancomat di Renzi”. 28 novembre: “Open, il bancomat a Lotti e i soldi alla villa di Renzi”. 1 dicembre: “ Tariffario Renzi: 40mila euro”. 5 dicembre: “Open, altre marchette”. Capite? Voi dite: ma questo è giornalismo? È inutile che protestiate: oggi il giornalismo è questa roba qui. Non ha niente a che fare con l’informazione: è forcaiolismo e sottomissione, e tu non puoi farci niente. E non crediate che questo ragionamento riguardi solo il Fatto. Magari.
· Il Grillismo.
Il grande bluff. Stati Generali del M5S, i grillini sono zombie e non lo sanno. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 17 Novembre 2020. Madonna, sembra di sognare. Vai su Internet e digiti soltanto: “cinque stelle”. Viene fuori Natale: “Five Star Movement, sono di destra o di sinistra, vanno servite con i frutti di bosco, le avete provate all’amatriciana?” Fantastico. Sono parte della dieta mediterranea, il buco nero digerente della sinistra senza meta. Ricordate Eugenio Scalfari di pochi mesi fa: pontificava da vegliardo quale si vanta di essere che «i Cinque stelle sono parte della sinistra perché loro vengono dalla sinistra con i suoi voti, sicché se il Pd vuole rimettersi in relazione con la sua gente perduta, deve semplicemente allearsi con i pentastellati ed è fatta: tutti a casa». Gli hanno dato retta. Tutti a casa. No, tutti sull’albero della cuccagna. No, tutti nel firmamento. Adesso si radunano in simposio tipo piccolo gruppo per cercare niente di meno di “capire chi siano”. L’hanno capito? Manco per il cazzo. Non hanno capito niente, ma è bello interrogarsi, spalmarsi il dubbio sulle ferite, il dubbio spacciato per virtù mentre significa semplicemente che non sai nulla, non sai se sei di destra e vuoi fare coppia gay con Salvini o se sei di una sinistra da fiera di paese e vuoi fare razza col celebre Dibba, che imperversa come un fumetto, un logo, un passero solitario. Sanno solo che non vogliono il Mef perché poi devi rendere conto euro per euro e noi già ci siamo giocati tutto il salvadanaio col reddito di cittadinanza, i monopattini, i banchi a rotelle, la pista ciclabile, i Gormiti, I Robot-Plus, i panini monouso e le mutande usa e getta. Abbiamo spremuto fino a farci uscire il pus, ultimo fluido di quel marcio sistema sanguigno. Che volete da noi, perché ci trattate male? In realtà non li trattano poi così male: benché dannosi all’agricoltura e al congiuntivo, seguitano a stare in piedi come se fossero vivi. Al raduno esistenziale per scoprire se sono davvero esistenti e se lasciano tracce nello specchio e se fanno ombra, una ragazza – ravveduta – ha detto che Dibba ha veramente, ma proprio veramente rotto i coglioni. A un certo punto le difese immunitarie escono fuori. Ma avete mai provato a sentire davvero un discorso di Dibba? E di Fico? Lo sappiamo, l’ultima unica persona con la testa sulle spalle è il viceministro della Sanità, Pierpaolo Sileri. Anche a me piace molto Sileri. Il motivo è semplice: non è cinque stelle ma è capitato tra loro per caso. Viene da un paese che io adoro e dove i miei genitori avevano una casetta. Un paesino dell’Alto Lazio che si chiama Casperia. La famiglia Sileri era amica dei miei: Pierpaolo lo ricordavo bambino e lo ritrovo viceministro e anche bravo: l’unico che dice e fa cose sensate. Quando ci siamo ritrovati seduti a Stasera Italia lui mi ha ricordato questa antica nostra relazione d’amicizia. Eravamo e siamo tutti sorpresi. E questo perché Sileri tutti lo vogliono: se lo contendono in televisione perché è una persona normale, è un medico credo anche molto bravo, ma come essere umano è certamente nella norma e anche con dei punti in più. La sua avventura è esemplare. Tutti non fanno che chiedergli: scusi, Sileri, ma lei, saprebbe con un certo margine di certezza dirci esattamente che cazzo ci fa nei Cinque Stelle? Lui ormai è abituato e sa che deve rispondere con faccia di pietra e fare la persona seria ma dentro di sé gongola perché è l’unico con un elettroencefalogramma normale. Ma ritorniamo a loro e cerchiamo – promettiamoci – di ricordare le loro immagini nel futuro. Sono certamente in via di estinzione, ma altrettanto lenta quanto l’illusoria percezione del tempo, come diceva Einstein. Il vero dramma, come ognuno può capire, non sta nella loro esistenza e logora esistenza. Il vero problema sono i diessini, è lo Zinga e tutti quelli che facevano l’occhiolino affinché si votasse “no” al referendum perché si vergognavano arrossendo di pudore represso, facendo finta di stare con il sì. È nel Pd che si misura l’antimateria delle cinque stelle, questo modesto e patetico luna-park per poveracci, popolato da gente incapace di distinguere i tempi verbali dell’ipotesi, della certezza, della realtà. Al Bottegone – verrebbe da dire – anzi al Nazza dove vive Zinga che si divide uno e bino con la Regione, ala casa diessina dicevamo, lo vedono bene come stanno le cose e sono consapevoli dell’immane scemenza che hanno fatto. Lo sanno e sono incapaci di tornare indietro per pura codardia. Il Covid non c’entra. Il Covid che va a rotta di collo ammazzandoci a mezzo migliaio al giorno con il ritmo dell’immaginaria ghigliottina a vapore che secondo il Giusti era stata inventata dai cinesi per ammazzare la gente; e meno male che ci sono i maledetti americani che sotto il criminale impulso e i biechi investimenti pubblici di quel porco mascalzone (sempre sia dannato) di Donald Trump, hanno messo in campo il primo di tre vaccini cui seguiranno a ruota i farmaci per curare per chi ha contratto la malattia – è tutto e soltanto colpa del loro pescimbarilismo e della codardia dei piddini al comando e che sanno soltanto investire per il proprio tornaconto sulla loro tresca con pentastelluti. E lo hanno fatto e lo fanno fino al punto di vendersi come un valore l’unità politica con questa banda di incapaci, arroganti, sgrammaticati, supponenti, iettatori, trattandoli da esseri politicamente umani. Solo per stare in cadrega. Costretti a dire che Berlusconi – il quale si è giustamente infilato di traverso – in fondo non era poi così male. E perché no. Viene veramente voglia di aprire un pubblico concorso per titoli ed esami per stabilire chi ha la più spessa faccia di tolla e altro materiale di nessun pregio e metterli in cornice. Hanno sbagliato – i penta, ma con loro i Pidda, o Zanza, o Zuzza, fate voi – sia nel lockdown che nell’anti-lockdown, non sanno che fare e che dire e questo solo perché vanno dietro ai grillacei, a questa genia di falsari, di opportunisti e anzi di parassiti che hanno trovato tette da mungere premendo sul disfacimento dell’elettorato italiano, stupito e instupidito dalle pulizie etniche di Mani Pulite, dei Manettari, di quelli della trattativa, da quelli della scorciatoia, quelli che sapevano ma facevano finta. Questa è la tragedia: se parliamo dei pentastellati, una volta sbrigata la pratica certificando che non esistono se non come residuo secco di un liquido ormai essudato nelle falde della terra, dobbiamo immediatamente dirla tutta e spiegare perché costoro esistono ed esercitano il potere. Salvini non mi piaceva affatto anche per quel che ha fatto con loro. Pessimo e rigettabile. Ma almeno era della loro pasta, si baciavano negli angoli bui, lui e Luigino, ed erano una coppia di fatto e di diritto, fecondi che sprizzavano Dna comune. Ma che cosa c’entrano oggi quelli del Partito democratico? Ma non lo vedete che mentre stanno con loro gli vengono i conati di vomito e poi parlano come sempre di rifondarsi? Anche i penta dice che si stanno a rifondare. Tutti rifondaroli, tutti a guardarsi fra le dita dei piedi, a esaminarsi il colon, a farsi il monoclonale tutte le mattine per capire chi sono, se ci sono e perché. Ma a quale risultato siamo arrivati? La destra liberale che era il grande baluardo prima quadripartito poi riassorbito nel berlusconismo, è ristretto in un coacervo in cui la Meloni brilla solo perché non dice tutte le cazzate che dice Salvini. Il resto è decrepito. Rifondazione? Sì, ma dell’elettorato italiano che ha bisogno di essere svegliato dal coma farmaceutico in cui è stato intubato in posizione prona come tutti i moribondi di oggi. I pentastellati sono da tempo al capolinea: fategli arrivare questi vagoni speciali che li mettano in pensione su un binario morto, sul Mar morto, su un prato biologico ecocompatibile. Amen.
Sarina Biraghi per “la Verità” il 16 novembre 2020. Giuseppe Conte ieri è intervenuto agli Stati generali del M5s lanciando una bella stoccata ad Alessandro Di Battista senza mai nominarlo: «Ci si imbatte spesso nel dilemma tra coerenza delle proprie idee e possibilità di cambiare opinione. È un dilemma mal posto, la coerenza è sicuramente un valore, ma quando governi devi valutare la complessità e avere il coraggio di cambiare le idee, quando ti accorgi che le nuove sono migliori di quelle che avevamo. E se la coerenza delle stesse idee fa male al Paese si ha l' obbligo morale di cambiarle, spiegando perché il cambiare idea è una cosa giusta». Poco prima Dibba, infatti, aveva scritto un post durissimo su Facebook contro i vertici del Movimento: «Si pubblichino i voti che ciascuno dei 30 delegati nazionali ha ottenuto. Perché è giusto conoscere il peso specifico delle idee di coloro che sono stati scelti e per smetterla una volta per tutte di definire "dissidenti" coloro che, su molti aspetti, hanno il solo torto di non aver cambiato opinione». Il premier e il dissidente alla riunione più tipica della liturgia dei partiti a testimoniare lo stato di un Movimento «che è una truffa politica in corso, l' opposto della forza popolare che doveva essere, che sta truffando gli elettori rinnegando tutte le promesse sulle questioni basilari, dall' Europa al green all' acqua pubblica», dice il senatore ex grillino Gianluigi Paragone che incalza: «Del resto lo stato del M5s è rappresentato dalla plastificazione della scenografia e dalle persone finte che hanno messo in questi Stati generali: un partito plastificato che dice cose finte. L' ambizione di questi simil piddini era di fare le damigelle del Pd, e pensare che erano quelli che andavano sugli autobus e invece oggi non hanno capito che servivano più mezzi pubblici per combattere il Covid. Però abbiamo un super commissario come Domenico Arcuri che si occupa di Covid e Ilva». Ieri il premier ha detto che è bene cambiare idea. «Conte è il grande pavone nel mondo siliconato dei 5 stelle, un testimonial perfetto, quando non fa il Papa col Natale» mentre Beppe Grillo diserta «perché si vergogna, dovrebbe fare uno spettacolo contro sé stesso e i suoi figli». Neanche le accuse di Di Battista serviranno a smuovere il M5s perché «lui resterà una minoranza con tanti voti, sono sicuro che alla conta lui sarà il più votato ma sta dentro un partito che ha già tutto apparecchiato, un Movimento che ha tradito, rinnegato e ucciso il padre, e che ha come scopo tutto tranne che la verità». La mancanza di trasparenza per Paragone è il nuovo corso del M5s come dimostrerebbero i pentastellati al governo. «Lucia Azzolina che nasconde i dati del suo concorso; Alfonso Bonafede, che ha liquidato Nino Di Matteo e ha scarcerato i boss; Stefano Patuanelli che incontra Giovanni Castellucci, che non dovrebbe contare niente e invece si scopre essere un manovratore dei Benetton, con una senatrice ex assistente di volo e quindi esperta di Alitalia. Se fosse accaduto con un ministro di un altro partito Marco Travaglio avrebbe scritto paginate. Senza dimenticare un vice ministro al Mef come Laura Castelli che andrebbe bene per dare ripetizioni serali a ragioneria o un gaffeur come il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano che confonde libanesi con libici». Per Paragone il M5s ha perso la dignità nel momento in cui «si è ammogliato col Pd e ha deciso di diventare junior partner del governo dimenticando la raccolta delle firme per uscire dall' euro e abbracciando follemente Bruxelles e le sue regole facendosi portare per mano da dirigenti e boiardi di Stato». Insomma Stati generali fatti di botulino mentre i grillini rischiano di sparire alle prossime elezioni. Intanto però Di Maio punta sempre alla leadership. «È il politico perfetto, non democristiano perché faremmo torto alla scuola Dc, vuole sopravvivere a tutto perché fuori dal Palazzo è niente. E così inciucia, rinnega, si accoda, piazza i suoi uomini», conclude Paragone, che oggi mette insieme in Italexit, unica forza antieuropeista, tutti quelli convinti che Bruxelles sia un grande inganno.
«Di sinistra e anti populista. Ecco il nuovo Movimento 5Stelle». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 ottobre 2020. Intervista al sociologo Domenico de Masi: “Credo che l’esperienza di governo abbia cambiato radicalmente le prospettive dei 5Stelle. Quando devi fare le cose, non solo contestarle, guardi alla realtà con occhi diversi. Hanno capito il valore delle competenze”. «Per piacere non chiamatemi grillino. Se proprio volete darmi un’etichetta, definitemi “demasiano”». Il sociologo Domenico De Masi ormai ci scherza su, ma essere quotidianamente accostato al M5S comincia a stargli stretto. Da scienziato sociale, si limita a svolgere le ricerche che qualsiasi partito commissiona. Compresi i pentastellati, ovviamente, per i quali ha appena consegnato Cultura politica del Movimento 5 Stelle dopo il Coronavirus.
Professore, dunque come è cambiato il M5S dopo il Covid?
«Mi faccia fare una premessa: ho fatto per loro una ricerca su commessa di una senatrice e il risultato di questo lavoro ricalca , parola per parola, ciò che hanno detto gli esponenti del M5S rispondendo a delle interviste scritte. Io ho messo solo il metodo scientifico. I 15 intervistati sono big del Movimento: ci sono Grillo, i ministri Di Maio, Azzolina, Pisano, alcuni sottosegretari, parlamentari e facilitatori».
Che tipo di domande ha posto?
«Il questionario era composto da 11 blocchi di domande sull’ambiente, sulla demografia, sulla salute, sulla società, sulla politica, l’immigrazione, sulla cultura e così via».
Sull’immigrazione ci sono cambiamenti significativi?
«Senza dubbio. Ma mi faccia prima dire che in generale si possono riscontrare delle opinioni su cui c’è una persistenza, cioè rimangono quelle di sempre, ma ci sono soprattutto tante novità. Restano le parole d’ordine: onestà, trasparenza, ambiente, terza via, interclassismo, progresso scientifico e tecnologico, democrazia diretta, welfare».
E le cose nuove?
«Un europeismo nettissimo, tanto per cominciare. Ma anche il riconoscimento dell’importanza dell’immigrazione e della necessità di integrare gli immigrati, quindi in netta contrapposizione e discontinuità con i decreti Sicurezza salviniani. Emergono pure una forte avversione al populismo e un rifiuto del neoliberismo. E inoltre, finisce l’era dell’uno vale uno a vantaggio della meritocrazia».
È uno spostamento a sinistra dell’asse grillino?
«Non c’è dubbio. Dimenticavo che tra le novità più importanti svetta anche il bisogno di recuperare un rapporto col sindacato».
Un movimento di sinistra ma interclassista?
«Anche mezza Democrazia cristiana era così, da Fanfani a Dossetti».
Da cosa deriva questi mutamento?
«Credo che l’esperienza di governo abbia cambiato radicalmente le prospettive. Quando devi fare le cose, non solo contestarle, guardi alla realtà con occhi diversi. Hanno capito il valore delle competenze: se c’è il coronavirus ci vuole un virologo, c’è poco da fare. Sono convinto che se anche Alessandro Di Battista fosse entrato al governo oggi la penserebbe in un altro modo».
A proposito, perché Di Battista non ha accettato di rispondere al questionario?
«No, non si è rifiutato, in realtà. Aveva accettato di rispondere, ma mi mi ha chiesto più volte di rinviare la scadenza perché non aveva molto tempo. Al terzo rinvio ho deciso di proseguire con la ricerca perché non potevamo aspettare oltre. Ma lui è stato gentilissimo e si è pure scusato.
Luigi Di Maio ha detto al Corriere della sera: «Malgrado il lavoro intenso al ministero, l’ho fatto». Forse anche Di Battista, che di mestiere non fa il ministro, avrebbe potuto trovare un po’ di tempo per rispondere…
«Le dico la verità, un po’ l’ho pensato pure io all’inizio. Ma sono sicuro che Di Battista abbia avuto davvero dei problemi. Mi ha scritto ben tre lettere in cui mi chiedeva di rinviare di una settimana la consegna, uno che non ha intenzione di rispondere non fa così. E comunque Di Battista non è stato l’unico a non rispondere».
Chi altro?
«Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Ma lo capisco, immagino che in pieno lockdown avesse sulla sua scrivania un bel po’ di dossier da risolvere».
Quanta sintonia c’è tra le risposte di Beppe Grillo e quelle degli altri esponenti M5S?
«Tutto quello che è andato a finire nella sintesi della ricerca ha registrato almeno 10 consensi su quindici. Su 1.800 items, solo una parte minima, un centinaio, non ha riscontrato condivisione generale. Quindi possiamo dire che nel 90 per cento dei casi il parere di Grillo coincide con quello degli altri».
L’elemento connotante del Movimento di ieri era la lotta alla casta. Quale sarà quello di domani?
«L’anti liberismo, la democrazia diretta e l’ambiente. Sono questi i temi che rendono unico il Movimento 5 Stelle».
Cosa si dice del rapporto col Pd?
«Il Pd viene considerato un partito lento a cambiare e incapace di raccogliere l’eredità della sua storia».
Prima ha nominato la Dc. È possibile paragonare il M5S a un partito della Prima Repubblica?
«Assolutamente. Ma tutti i partiti sono nati come movimenti. Quelli che non si strutturano si sciolgono. Un movimento è un mucchio di sabbia con granelli di tutti i tipi uniti da un obiettivo, un bersaglio. Il partito è un mattone».
Il M5S si è trasformato in mattone?
«Sta per farlo, è ancora a metà strada, forse un po’ più avanti. Di certo non può essere più considerato movimento una forza di governo. Oggi il M5S è più definito politicamente. A differenza della prima fase, in cui il corpo elettorale era equamente distribuito tra destra e sinistra, oggi la maggior parte degli elettori sono orientati a sinistra, quelli che guardavano a destra si sono spostati sulla Lega».
Dunque il campo non può che essere il centrosinistra?
«E dove può andare altrimenti?»
Quanto potrà pesare nel Paese?
«Se, come credo, dagli Stati generali usciranno in maniera unitaria, il Movimento potrà ambire a rappresentare attorno al 15 per cento degli italiani».
La sua ricerca verrà presentata agli stati generali del M5S e rappresenterà il punto di partenza per il confronto interno…
«Questo lavoro ha un valore importante per una serie di motivi: perché riporta fedelmente le parole di esponenti di spicco del M5S e perché è stato realizzato con metodo scientifico. Fino a due giorni fa nessuno degli intervistati aveva idea di chi fossero gli altri 14».
Antonello Piroso per “la Verità” il 24 ottobre 2020. Il sociologo da tv Domenico De Masi vaga da anni alla ricerca della sinistra. Pare l' abbia trovata nei 5 stelle, i quali, nel corso degli anni, gli hanno commissionato varie (e costose) ricerche. E pensare che, solo un anno fa, li definiva «privi di cultura politica». Gabriella Ferri, eccelsa interprete degli stornelli popolari romani, gorgheggiava: «Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo, chissà dove sarà». Domenico De Masi, sociologo ottantaduenne di chiara fama, si aggira invece a caccia della sinistra. Socialdemocratica. In salsa europea, intendiamoci, mica quella alle vongole del Psdi di Mario Tanassi e Pietro Longo. In Italia, si sa, la sinistra è sempre in attesa di trovare un suo ubi consistam, un centro di gravità permanente, divisa com' è tra Pd, Italia viva, socialisti, comunisti, Liberi e Uguali eccetera, senza tralasciare una parte del M5s, di cui De Masi è considerato un apprezzato consigliori. De Masi è così costretto a vagare come un intellettuale peripatetico tra le diverse anime di quel composito purgatorio. Come di un buon vino, di De Masi si possono apprezzare le annate. Due anni fa, il Sole 24 Ore annunciò la svolta: lo spostamento dal M5s a LeU, da Luigi Di Maio a Stefano Fassina, che è pur sempre una bella evoluzione. «Cerco la sinistra dove spero di trovarla, con la stessa curiosità che mi spinse a cercare nei cinque stelle», spiegava al quotidiano di Confindustria che lo vedeva come il «surfista-pontiere» tra le due formazioni. Lunedì scorso, invece, eccolo riavvicinato ai pentastellati, con la presentazione in Senato dell' indagine commissionatagli dal Movimento. E qui c' è la prima novità: perché nel luglio 2018, dopo le polemiche - ci tornerò a breve su tre ricerche sfornate per il M5s, al Corriere della Sera De Masi aveva confessato: «Oggi avrei difficoltà a collaborare con un partito: tanta fatica, retribuzione risicata e, per di più, l' obbligo di giustificarsi davanti all' opinione pubblica...». Un momento di disagio esistenziale evidentemente superato. Dopo il Coronavirus: la cultura politica del M5s, questo il titolo del volume (che può sembrare un ossimoro, per via dell' accostamento cultura politica/M5s, accusato l' anno scorso proprio da De Masi di esserne sprovvisto) che immagina il Movimento nella fase post-Covid, quando ci arriveremo: «Promuoverà un totale ripensamento dell' attuale modello di sviluppo e un assetto sociale fondato su solidarietà, localismo, riscoperta delle relazioni interpersonali». Capperi. Non solo: la decrescita cesserà di essere felice, diventando «serena», per una «graduale riduzione, pianificata e condivisa, degli eccessi patologici del sistema consumistico». Ah però. E la sinistra? Ussignur! È una categoria dello spirito superata, come la destra. De Masi è colpito dalla voglia dei grillini di «attenuare le distanze tra le classi sociali», indirizzati verso «la terza via». Quanto al Pd, socio di governo, la sentenza è tranchant: «È sempre meno in grado di raccogliere l' eredità della sua storia. Mentre le sinistre radicali resteranno litigiose, con schemi antichi, scollegate dai cambiamenti tecnologici», forse un modo obliquo di ammiccare alle meraviglie della piattaforma Rousseau, ma vai a sapere. Basta? Macchè. Ecco la bomba che scoppia e rimbomba: «Nei cinque stelle l' uno-vale-uno non si trova più». Maddai. Qualche sospetto lo avevamo maturato anche noi, ma transeat. Non è la prima volta che De Masi pone la sua sapienza al servizio del grillismo: «Subito dopo le elezioni del 2013 mi telefonarono alcuni deputati 5 stelle della commissione Lavoro per organizzare un seminario. Da qui, l' idea di una ricerca su come si sarebbe trasformato il mercato del lavoro nella società post-industriale nel decennio successivo». Cui poi se ne sono aggiunte almeno altre due: sul futuro del turismo e su quello della cultura. Solo che quando furono rivelate le parcelle (nel rendiconto di esercizio del M5s per il 2016, 56.771 euro, in quello del 2017, 183.643) i suoi detrattori maramaldeggiarono: ma come, lui che ha scritto il pamphlet Lavorare gratis, lavorare tutti si fa pagare così? Eh, ma quello era «un mio libro provocatorio», signora mia, ha replicato al Corriere della Sera nel 2018. Al sito di Tiscali, l' anno prima, aveva puntualizzato: «Non è vero che io predico il lavoro gratis. Dico solamente che può essere usato come una forma di protesta. Gli occupati possono scioperare, chi un lavoro invece non ce l' ha può solamente lavorare gratis per 1 o 2 giorni come fosse uno sciopero bianco». Sfugge chi sarebbe danneggiato dall' iniziativa, ma tant' è. I soldi, poi, «non sono serviti solo per pagare il mio lavoro ma anche tante altre cose: tre persone che hanno lavorato alla ricerca per quattro mesi, le spese di un convegno durato due giorni che ha avuto seicento presenze, la cessione dei diritti del libro. Hanno fatturato tutto a me per semplificare le cose e bypassare la burocrazia». Bene: velocizziamo le procedure, sbrigatività che potrebbe sembrare un omaggio alla weltanshauung (neo)liberista, ma tiremm innanz. Il balzo nei compensi è dovuto anche al fatto che si è avvalso, come riferito dall' agenzia AdnKronos, «di appositi team di ricercatori» per le altre due analisi citate, sempre con libro a seguire perché «era una delle condizioni: non volevo che quegli studi restassero appannaggio esclusivo dei 5 stelle». Refrain del 2018: «Le ricerche costano. E i soldi non li ho presi tutti io: ogni volta ha collaborato per 3-4 mesi una quindicina di persone. È un prezzo normale». Attenzione, però: il fatto che De Masi sia l' uomo che sussurra ai cinque stelle non fa di lui un pasdaran della causa grillonza. Lui non è così, lo disegnano così, come Roger Rabbit: «Mi hanno appiccicato tale etichetta ma più volte ho ripetuto che non sono né grillino, né renziano. Sono demasiano: un socialdemocratico (aridanga) contrario alle riforme liberali». Autonomo, ma coerente: il suo perimetro è sempre quello dell' oscuro oggetto del desiderio, la sinistra. Anzi: La sinistra, la formazione (unione di Sinistra Italiana, Rifondazione comunista, Altra Europa per Tsipras eccetera) per cui invita a votare, dopo aver traghettato dal M5s a LeU nel 2018, alle europee del 2019. Risultato nelle urne: 1,75% di voti, nessun eurodeputato eletto. «È andata male», notò il Manifesto. E lui: «Sapevo che molti delusi dei 5 stelle non avrebbero votato Pd». Sapeva. «Quindi il mio era soprattutto un appello contro la scheda bianca». Ecco. «Il Pd invece ha recuperato» lo punzecchiò il quotidiano comunista. Eh, ma non basta, secondo il Nostro: il partito di Nicola Zingaretti si deve liberare dalla zavorra neoliberista, incarnata «in modo raffinato e colto da Enrico Letta, in modo industriale (?) da Carlo Calenda, in modo politico da Matteo Renzi». «Il M5s è in crisi nera» infierì il giornale. E De Masi: «L' avevo previsto dall' inizio che la sua alleanza con la Lega si sarebbe risolta nel trionfo di Matteo Salvini». L' aveva previsto. «È il leone che si mangia a poco a poco la gazzella» (l' anno prima al Corriere aveva in verità detto cose analoghe: «Salvini è di destra, più scaltro e spregiudicato, e mangerà Di Maio, che di sinistra non è», ah no?). Ma perché stupirsi? I grillini, continua De Masi, denunciano «una carenza di classe dirigente, non hanno un modello politico né cultura politica. Stimo Di Maio ma non ha una base teorica e quindi dice le fesserie di Casaleggio. Solo che dette da Casaleggio padre avevano una loro fosforescenza, dette dal figlio Davide Casaleggio non hanno senso. Dovrebbero trovare la scusa buona per rompere. Ma non lo faranno: perché quando uno va al potere non lo molla. E perché molti stanno al secondo mandato». In effetti, la rottura fu opera del kamikaze Salvini, con la conversione a 180 gradi di Di Maio e Beppe Grillo: abbarbicati al Pd, per di più con la regia di Renzi, con a palazzo Chigi lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che nel 2018 De Masi dipingeva come «un professore universitario neofita da un giorno all' altro catapultato al tavolo con Emmanuel Macron e Angela Merkel». Arriviamo al 2020, et voilà: altra revisione. L' 11 settembre con il Fatto Quotidiano, house organ a trazione grillina del Conte 2 (martedì ha recensito il convegno in Senato, giovedì ha ospitato un estratto a tutta pagina dall' ultimo libro di De Masi sullo smart working), si scaglia contro gli «intellettuali di finta sinistra che hanno il tic dell' antigrillismo e che ogni giorno attaccano il governo facendo il gioco di Salvini. Quindi o sono complici della destra pre-fascista (ma come, non era una categoria superata? nda) o sono cretini». Nientemeno. E chi sarebbero questi reprobi? «Non solo Roberto Saviano o Massimo Giannini ma sto parlando anche di tutto il gruppo Repubblica, pagato da un padrone che si chiama Fca. Essere di sinistra significa stare dalla parte degli ultimi e non da quella dei potenti». Uno tsunami, De Masi, che scortica tutti coloro che sono di destra ma «si autodefiniscono di sinistra, ingenerando confusione». Se poi se ne accorgono, e continuano, allora «sono degli imbroglioni. Pensano che il loro problema sia il M5s: un preconcetto che è anche una spocchia antropologica. Il confronto con i 5 Stelle, che ritengono inferiori a loro, li fa sentire intellettuali di alto livello». Ma scusi, De Masi, è andato avanti lei a ripetere che il M5s non aveva personale politico adeguato né competente, senza una visione di valore, che si aspettava? Aspettava di licenziare la ricerca che fotografa la «cultura politica» del M5s, quella di cui, secondo il sociologo annata 2019, era totalmente carente. «Non sono un paraguru» si è auto assolto una volta De Masi. Allora definiamolo un qualificato sociologo «situazionista». Nel senso, sia detto simpaticamente alla buona: della situazione sua.
Perché non posso dire che i grillini sono "fascisti"? Iuri Maria Prado su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Scriveva Giuseppe Antonio Borgese: «Cesare morì e la tirannia continuò. Perché la tirannia non risiedeva nel cuore di Cesare, ma era nel cuore dei Romani». Era quel che Borgese – che non prestò giuramento al fascismo, e non a caso è pressoché straniero nella Repubblica che si pretende fondata sull’antifascismo – pensava di quel regime e delle ragioni profonde che ne determinarono l’accreditamento. E cioè che gli italiani erano disponibili a sottomettervisi, desiderosi di uniformarvisi, e che non avrebbero conquistato una genuina condizione di libertà se non avessero prima soppresso la propria propensione alla tragica facilità della soluzione autoritaria. La verità – tanto ovvia quanto denegata – è che il fascismo non ha rappresentato una carambola imprevedibile della storia italiana, l’agente estraneo e tossico incomprensibilmente inoculato in un corpo altrimenti sano: ma la consacrazione di una vocazione originaria degli italiani. Morto Mussolini, il fascismo è continuato perché esso non risiedeva nel manganello usato per conculcare la libertà, ma nella buona disposizione degli italiani a rinunciarvi spontaneamente. E i tratti essenziali del fascismo sarebbero perdurati lungo il corso repubblicano esattamente perché non era morto negli italiani quell’anelito illiberale, questa malattia della tempra civile che il fascismo si limitò a coltivare e a irreggimentare. Se in Italia manca una genuina cultura antifascista, e cioè un criterio capace di vedere il fascismo dove esso veramente si manifesta, è perché il Paese ha sempre rifiutato di riconoscere se stesso nel fascismo che ha imperato, un accidente simbolicamente risolto (e anche questo è assai significativo) con cinque cadaveri appesi in Piazzale Loreto. Ed è a causa di questo mancato riconoscimento che la persistenza fascista è disconosciuta, e semmai identificata nel perimetro di qualche modesto assembramento a braccio teso. È in questo senso e in questo quadro che il Movimento 5 Stelle si giustappone in perfetta continuità fascista. Non in modo inedito, ovviamente, ma mai prima l’eterno fascismo italiano di cui scriveva Sciascia aveva assunto una simile compiutezza e mai prima, banalmente, si era trasferito dal luogo comune alle aule parlamentari, dalla società in cui ribolliva informe al potere di governo. Proviamo a cambiare una parola, solo una, in queste righe di Gadda (Eros e Priapo): «Si trattava per lo più di gingilloni, di zuzzurulloni, di senza-mestiere dotati soltanto d’un prurito e d’un appetito che chiamavano virilità, che tentavano il cortocircuito della carriera attraverso la “politica”. Qual è la parola da (innocuamente) sostituire? È “virilità”, e non serve scrivere qual è quella che la sostituisce, perché si scrive da sola: “onestà”. La cultura rozza di Mussolini era comunque quella di un uomo che aveva studiato in un’Italia in cui almeno alcuni studiavano: l’analfabetismo grillino è la versione aggiornata di quell’arretratezza in un’Italia dove semplicemente non si studia. Ma così nel fascismo mussoliniano come in quello grillino è il medesimo imparaticcio a sostituire la fatica dello studio: e mentre quello, oscuramente, detestava la cultura che non possedeva, quest’altro, platealmente, ne rigetta il valore senza nemmeno dolersi di esserne privo semplicemente perché cent’anni dopo il curriculum di un venditore di lupini è sufficiente a gridare dal balcone che la povertà è abolita. La radice della soluzione autoritaria è rigidamente impiantata in questo desiderio di scorciatoia umana e formativa, che è poi lo stesso che si scatena quando si tratta di informare l’economia alla nazionalizzazione, il controllo sociale alla delazione, la giustizia all’inquisizione, il potere di governo al capriccio della decretazione sbrigliata: tutti segni di quel medesimo, drammatico ripiego che esclude l’impegno della disciplina, della preparazione, del cimento in un lavoro serio. E che sotto sotto è di tipo usurpativo: non il popolo che riempie il potere, ma i suoi pretesi rappresentanti che se ne riempiono ottenendo in forma di titolo parlamentare e di stipendio per quanto dimezzato la propria consistenza sociale, quella lividamente invidiata in chi – necessariamente corrotto, usuraio, ladro – se l’è costruita secondo la regola antipatica del merito. Il carattere neofascista del Movimento 5 Stelle è infine nella violenza delle forbici che fanno a pezzi quello striscione, che preconizza lo sfregio costituzionale tra pochi giorni affidato alle cure di un popolo chiamato a dire “Sì” a quella cultura piuttosto che a un discutibile emendamento dell’ordine repubblicano. Ovviamente è possibile non essere d’accordo. Ma non si citino, a contrasto, l’olio di ricino e l’omicidio di Matteotti: perché l’olio di ricino non serve, e un Matteotti da ammazzare semplicemente non c’è.
Ma quale riedizione del fascismo! Il referendum è un golpe fatto con le barzellette da Grillo e la sua banda. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 16 Settembre 2020. La vogliamo finire con questa invereconda sceneggiata al capezzale della Repubblica? Perché non dirlo apertamente? Il Movimento cinque stelle è una associazione golpista. Lo è in modo dichiarato. È un movimento che nasce come insurrezione contro il Parlamento e le istituzioni repubblicane con il proposito di aprirlo e aprirle, come la famosa scatola di tonno: dall’aula per il bivacco delle truppe di Mussolini, al picnic col tonno. Ma a parte il comune disprezzo per le aule sorde e grigie, non c’è altro che permetta di liquidare i pentastellati come una riedizione di un movimento fascista. Non c’entra niente. È invece un movimento organizzato allo scopo di intimidire con la minaccia della violenza la democrazia parlamentare che questo Paese si è dato. Questi non somigliano ad alcuno scarto del passato anche perché la Storia non si ripete mai neppure in versione di farsa. Ma la cosa più grave ed importante è che si debba registrare questa riluttanza a dichiararlo: il Movimento Cinque Stelle è una associazione che ha come scopo dichiarato quello di far cadere la democrazia e instaurare un nuovo ordine fondato su algoritmi di una ditta e sulle funebri barzellette di un comico tristissimo. La minaccia alle istituzioni è consistita nel dichiarare che il movimento ha il potere di contenere o anche scatenare disordini sanguinosi secondo la nota teoria dei forconi “che soltanto noi a stento riusciamo a contenere”. Il forconismo-leninismo non è una novità. È anche il risultato di una somma di eventi e comportamenti. Caduto l’impero dell’Est sovietico, l’operazione Mani Pulite, accuratamente preparata (e totalmente priva di risultati) sterminò la Repubblica e i politici tentando di sostituire in corsa la vecchia classe dirigente con un’altra ricavata dall’ex Partito comunista innestato su segmenti della vecchia democrazia cristiana. Ma, prima ancora, aveva già attecchito l’idea moralista berlingueriana della supremazia ariana comunista: i comunisti e soltanto loro sono moralmente e sono geneticamente superiori. Cominciò quella che oggi si chiama narrazione, traducendo il termine “narrative” inglese, secondo cui non è importante che chi governa sappia amministrare e fare il bene della collettività, ma che sia irreprensibile e incorruttibile secondo la linea che nella rivoluzione francese dettava Saint-Just, detto anche l’angelo sterminatore. Fu dunque accreditata la favola dei buoni contro i cattivi. è così intuitiva! Anche i bambini, anzi specialmente loro, possono capirla. E in quella favola era un elemento spontaneo della narrazione che i politici fossero tutti una manica di ladri e che cacciarli a calci nel culo fosse il compito delle nuove energie giovani, ignorando che l’immagine della scopa che caccia dal tempio e dal Parlamento i mercanti, è vecchia come il cucco. Venne di conseguenza un sommovimento intestinale e sociale detto anche popolo dei fax e fu fabbricato in provetta un linguaggio eccitato, febbricitante, allucinato e accusatorio. Le monetine contro Craxi all’uscita dell’Hotel Raphael. La Lega partecipava con gioia e mostrava i cappi. Il Movimento Cinque Stelle si è irrobustito sfruttando gli effetti di una tossina con una molecola in più: l’attacco frontale alla democrazia parlamentare come nemico da corrodere e abbattere. Nessuno aveva mai osato tanto. Loro hanno osato e nessuno li ha arrestati. Neanche una contravvenzione per divieto di sosta. Anzi, prego accomodatevi, voi dell’interessante fenomeno. Ovviamente nessuno è così cretino da dire che vuole proprio distruggere la democrazia: il golpista dirà sempre che vuole distruggere “questa” democrazia (marcia, corrotta, inefficace e nemica del popolo) per insediare la “vera democrazia” controllata dal popolo (basta un clic) per il popolo e con il popolo per un totale di mille dita sulla stessa piattaforma. Il golpismo è diventato manifesto quando si è sollevato, senza incontrare resistenza, contro il Parlamento. Il nazismo prese in prestito dalle purghe staliniane in Unione sovietica l’abitudine di trascinare le vittime sacrificali in tribunale in condizioni ridicola; privi di cintura e bretelle, senza camicia, futuri giustiziati potevano essere esibiti come figure miserabili. Per decenni le istituzioni repubblicane, Parlamento in testa, erano considerate sacre e che il vilipendio del Parlamento più che un reato era considerato uno scandalo che soltanto i neofascisti affrontavano per la loro storia nera. Quella sacralità repubblicana fu ammainata come una lercia bandiera con il primo movimento dei girotondini che come comunicazione politica avevano scelto la beffa contro il Parlamento e i parlamentari, tutti insieme chiamati “i politici”. Il grillismo venne fuori per i rivoli come le formiche con un diluvio di idee strampalate e paradossali, alcune anche divertenti; altre sciagurate essendo tutte il background di un ragazzo di bottega che mentre teneva i conti in ordine per la ditta di famiglia sognava il mondo di conseguenza come perfezione algoritmica. I passi successivi furono la costituzione di un movimento retto da regole sconosciute a qualsiasi formazione democratica, in cui veniva recuperata, come funzione e come titolo, la parola “il capo”. The Boss. Sopra al Boss ci sono ancora altri capi, visibili e invisibili, nascosti in un labirinto di aggeggi elettronici e capaci di contatti social moltiplicati. Obiettivo finale dichiarato: far saltare la democrazia parlamentare per sostituirla col nostro sistema che chiameremo “democrazia diretta on line”, qualcosa come l’assemblea dei soviet elettronici. Le parole d’ordine sono quelle del populismo urlato e perentorio, con le sue tricoteuses spiritate come se davvero potessero fare la maglia sotto la ghigliottina che sale e che scende. I capi un giorno portarono su al Quirinale uno sconosciuto e lo presentarono a Mattarella: «Questi qui lo vogliamo come capo del governo» dissero. Anche Salvini annuiva contento, un po’ come il Franti del libro Cuore, che rideva. Mai la Repubblica era stata così apertamente umiliata: un Capo dello Stato costretto a prendere ordini da un ex addetto allo stadio di Napoli il quale gli portava un amico da insediare a Palazzo Chigi. Uno stesso Parlamento con gli stessi uomini e donne ha dato vita, sotto l’impulso di golpisti, a due maggioranze opposte, una di destra e una di sinistra, guidate entrambe da quel signore sconosciuto portato a Palazzo e che da allora è diventato un salvaschermo del televisore degli italiani: è sempre lì, in qualsiasi telegiornale, dalla mattina alla sera, di qualsiasi cosa si parli. Ora siamo al referendum. Questi maledetti golpisti se lo sono fabbricato bene per poter fottere gli italiani, molto inclini a questa disposizione, ed eliminare una fetta numerica dei parlamentari. Il resto verrà. I telegiornali e i giornali sono sopraffatti dalla libidine quando possono accoppiarsi con i golpisti evitando di porre loro qualsiasi domanda possa lontanamente imbarazzarli: «Dica, signor ministro, le piace la torta col cioccolato?». «Oh sì, moltissimo, ma non troppa perché ingrassa». Salvini ha una tonnellata di colpe in tutto questo, salvandosi momentaneamente in corner dopo essersi dato la zappa sui piedi. E sarebbe un sogno se il No andasse almeno abbastanza bene da mostrare l’esistenza di un fronte che non accetta i golpisti. Essendo garantista e contrario a ogni persecuzione non chiedo che cosa facciano quei magistrati che vedono consumarsi tutti i reati di vilipendio indicati dalle leggi, perché non vorrei mai una democrazia al guinzaglio dei giudici. Il golpe durerà ancora il tempo necessario per arrivare ad eleggere il successore di Mattarella con questo stesso Parlamento per sua natura già morto e sepolto. Ogni nefandezza sarà abbonata e perdonata, ogni gaffe sanata, ogni ministro demenziale penserà di essere eterno e intanto – ohibò, ohibò – quei partigiani di ferro che stanno nel Partito democratico si pongono in posizione interrogativa problematica: vuoi vedere che stiamo facendo la più grande cazzata della storia e poi tutti diranno che la colpa è stata nostra? Oh, yes! Lo state facendo. E se un giorno riusciremo a fare i conti di questa storia e della porcata che state infliggendo alla Repubblica, dio vi salvi. Invece, a quegli altri, i golpisti pentastellati non li salverà nessuno dalla pedata che li aspetta, questione di poco.
L'intervista alla senatrice di Forza Italia. “Tra Pd e grillini un patto scellerato per commettere un delitto”, l’accusa di Stefania Craxi. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 16 Settembre 2020.
Senatrice Craxi, a meno di una settimana dal voto referendario, i partiti hanno chiarito la loro posizione…
«A me non sembra proprio. Dopo tanti pentimenti e le contraddizioni in corso d’opera vedo ancora molte ambiguità. Sono rimasta basita dal mutare delle posizioni di molti parlamentari, addirittura nei 5Stelle! Mi sembra la classica reazione di chi vuol chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. E non da oggi. Perché è dal ’93 che è in atto un attacco contro la politica, la rappresentanza. Dico dal ’93, quando il Parlamento votò sotto ricatto la modifica dell’articolo 68 sull’immunità, cedendo sotto le pressioni della magistratura e dei grandi giornali non a caso appartenenti a un certo mondo economico-finanziario. In questi ventisette anni nessuno ha avuto la forza e la volontà di contrastare questo disegno. Non vedo come oggi, a ridosso di questa ennesima deformazione della Costituzione che i cittadini sono chiamati a votare, la politica possa avere la forza ma anche la credibilità per reagire».
Come interpreta la presa di posizione ufficiale del Partito democratico a favore del Sì?
«La trovo una cosa ridicola se non fosse drammatica. Il Pd è un partito che in questi anni ha chiamato il suo popolo in piazza con lo slogan “la Costituzione non si tocca”. La “Costituzione più bella del mondo”. E poi è stata la forza politica che in questi anni l’ha toccata troppo, troppo spesso e malamente. Siamo ancora oggi a fronteggiare il conflitto che si è aperto, anche in questo periodo di Covid, tra le Regioni e lo Stato centrale, con quella pessima riforma dell’articolo V che fu fatta da una maggioranza di centrosinistra. Penso che la Costituzione debba essere aggiornata in profondità. Serve una visione, un piano organico, una “grande riforma”, quella stessa che Craxi invocava dal ’79. Il tema resta il sistema di governo, o il suo rapporto con il processo legislativo che deve dare risposte in termini di efficienza, di velocità, di modernità, senza ledere la rappresentanza. Qui invece si stanno progressivamente smantellando le garanzie, gli equilibri. Si taglia la rappresentanza. Io non sto qui a ribadire le tante ragioni del No che tanti altri colleghi hanno in questi giorni raffermato, ma non v’è dubbio che il taglio dei parlamentari è parte di un processo di delegittimazione della democrazia rappresentativa che parte dalla demolizione dei partiti e della politica e oggi investe le istituzioni. E, tornando al Pd, è assurdo pensare che basti una riforma elettorale per risolvere il problema. I partiti non hanno neanche organi collegiali di vero confronto. Altro che “pacta sunt servanda”! Quello del Pd con il M5S è un “pactum sceleris”!»
Al fondo del Sì c’è una idea di democrazia, quale quella dei 5Stelle, per cui la Costituzione non conta ma ciò che conta è l’uno vale uno?
«A questa cosa dell’uno vale uno, a parte che l’hanno smentita loro stessi, io non credo. Democrazia e rappresentanza non si scindono. La democrazia diretta non esiste. È l’anticamera di forme autoritarie e illiberali. Sono in atto operazioni funzionali a delegittimare la politica e metterla agli ordini di poteri terzi e non democratici. Altro che trasparenza! Quali interessi ci sono dietro la Casaleggio associati e la piattaforma Rousseau? Più viene ristretta la rappresentanza e più facile è porre la politica e le stesse istituzioni agli ordini di qualcuno».
Rino Formica dice che il vero deficit della politica in Italia non sta nell’assenza di leadership all’altezza, ma nel vuoto assoluto di pensiero.
«Si sono fatte riformicchie che non rispondono ad alcun disegno se non a quello di una politica che continui a contare poco e quindi può continuamente essere permeata da finanza ed economica. Negli anni ’90 hanno distrutto il sistema politico, e adesso stanno distruggendo quel che nel frattempo è rimasto delle istituzioni. Ormai il Parlamento è ridotto al simulacro di se stesso, costretto a votare decreti leggi preconfezionati, fiducie sugli stessi decreti legge, con l’iniziativa parlamentare ridotta praticamente a zero, senza che ciò abbia rafforzato minimamente l’azione degli esecutivi sempre più deboli anche sotto il profilo della legittimità democratica. Ridurre la rappresentanza è comunque un vulnus rispetto agli elettori. Dopodiché c’è l’altro vulnus di cui in parte sono responsabili gli stessi elettori: invece di chiedere ai parlamentari gli scontrini, chiedessero loro competenza, esperienza, impegno e soluzioni. Fatto sta che hanno chiesto gli scontrini, sotto l’onda di questa campagna anti-politica. Dopodiché ci sono alcune cose che se le dico la faranno rabbrividire. Posso? I vitalizi per esempio. I vitalizi non sono a garanzia del parlamentare, perché in quel momento non è la persona che conta ma è l’istituzione che va difesa e resa libera e autonoma. E i vitalizi sono a garanzia degli elettori…»
Beh, è un’affermazione molto poco popolare.
«Lo sarà pure, ma di questo sono fermamente convinta: i vitalizi erano a garanzia degli elettori perché il parlamentare, nell’espletamento della sua funzione, deve essere libero, prima, durante e dopo. Il vitalizio serviva a questo, senza contare era stato concepito in un mondo in cui la “politica” era un percorso di vita, non un’avventura. Qual è il risultato dell’aver tagliato i vitalizi? Che tu hai dei parlamentari che fanno di tutto per rimanere lì, quindi prescindono dal giudizio sul governo, prescindono dal giudizio sul lavoro del Parlamento ma vogliono star lì per conservare il posto e lo stipendio. Prima si aveva molto meno l’assillo del dopo, quindi non erano alla ricerca di rendite, erano meno esposti alle sirene delle lobby, delle grandi imprese, perché la politica doveva essere libera. Per questo dico che tutti questi provvedimenti fatti in questi anni sotto questa spinta dell’anti politica, e alcuni in gestazione come l’abominio del “vincolo di mandato”, sono provvedimenti che vanno a detrimento dell’elettorato. Se tu togli il finanziamento pubblico ai partiti, come vive la democrazia? In che mani finisce? Tra l’altro negli anni della prima Repubblica, in piena Guerra Fredda i partiti erano sotto finanziati rispetto al sistema dei partiti europeo e ai tanti compiti che realmente svolgevano. Ma ripeto: è sempre la stessa logica. I soldi per la politica sono “armi” e negandoli tu metti la politica alla mercé di poteri altri. Il sistema dei partiti della prima Repubblica non era privo di difetti, ma quei partiti erano fondamentali. La nostra è, nonostante tutto, ancora una democrazia dei partiti. Ma oggi non abbiamo forza realmente rappresentative, perché poco inclusive e partecipative. Una volta con le sezioni, col rapporto con il territorio, avevano un interscambio continuo tra politica e istituzioni con la società, nel senso che avevano antenne per capire che cosa evolveva nelle diverse realtà. Adesso i soldi per la politica sono solo i soldi per le elezioni, che sono importanti ma non sono il tutto in un tessuto democratico sano. La campagna elettorale non può essere la sola cosa importante nella vita democratica, salvo che non immaginiamo di adottare in toto, ammesso che sia trasferibile, un sistema all’americana, con tutto il corollario di lobby, regole di finanziamento e altro. Con la nostra magistrature ne vedremmo delle belle! Qualcuno ha ipotizzato poi che bastava arruolare i “tecnici” nel governo per avere soluzioni. Anche lì, al netto del conflitto democrazia-tecnocrazia, abbiamo visto alla fine non funziona. Insomma, serve la politica».
In Hammamet, il film di Gianni Amelio, c’è la scena del Congresso del Psi, quando al termine del discorso di Bettino Craxi, viene intonata l’Internazionale. Quel modo di concepire i congressi, le stesse parole “internazionalismo” e “socialismo” sono banditi dalla memoria?
«Indubbiamente dalla memoria collettiva, in particolare quella della politica, sì quelle parole sono state rimosse. Se tu chiedi ad alcuni “politici” di oggi la storia italiana, la storia repubblicana, non la conoscono. Qui si pone un’altra questione ineludibile se parliamo di socialismo: io sono socialista e da tanti anni milito, rispettata e senza abiure, nel centrodestra. La mia non è una militanza solitaria o peregrina. I numeri in politica sono importanti. E allora, se tu sommi il 20-21% che raccoglie il Pd, e il 15% che hanno i 5Stelle, che è ormai gran parte un elettorato di sinistra, perché quando prendevano il 30% c’era anche un voto di centrodestra che è rientrato, siamo al 35% del vecchio Pci. Il voto dell’elettorato riformista del pentapartito è finito nel centrodestra. Punto. Lascia perdere che sono cambiate le rappresentanze, che la lotta politica si è imbarbarita, resta il fatto che in questi vent’anni e passa l’elettorato non si è mai spostato. Il centrosinistra, anche nella versione Pd – M5S, continua a raccogliere l’elettorato radicale e massimalista della vecchia sinistra di matrice comunista a cui si è aggiunto un pezzo della sinistra democristiana che compensa alcune perdite e frange di astensione. L’elettorato del pentapartito, soprattutto l’elettorato socialista, dal ’94 vota centrodestra. Tant’è che la cosiddetta frangia riformista – il riformismo era una precisa corrente del Partito socialista – quanto pesa a sinistra? Pesa il 3-4%? Un’assoluta minoranza incapace di incidere e di sovvertire gli assetti di quell’area politica. Dopodiché la diaspora socialista è tale solo nel vecchio gruppo dirigente, ormai irrilevante e autoreferenziale, non negli elettori che leggono e aggiornano molto bene le loro coordinate alla luce delle profonde mutazioni che la nuova realtà politica nazionale e internazionale presenta».
Caro Giuliano Ferrara, non sono i radicali l’origine e la causa dei grillini. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 15 Settembre 2020. No, non ci sto. Sono disposto ad affrontare un dibattito razionale e civile fra le ragioni del Sì e quelle del No. Sono anche disposto a mettere a confronto le ragioni di una scelta di opposizione costruttiva con le ragioni di chi spesso sostiene, a mio avviso, passivamente e acriticamente l’attuale alleanza di governo. Ma se qualcuno, per controbattere alle mie ragioni, pretende di farmi passare e di fare passare i radicali, con Pannella, come i precursori di Grillo e del populismo, si merita una risposta altrettanto tranchant. Populisti un accidente. Non eravamo populisti quando negli anni ‘60 chiedevamo e ci sforzavamo di operare per il passaggio da una democrazia bloccata a una democrazia compiuta; quando negli anni ‘70 lottavamo per il divorzio e per la riforma dei diritti civili o proponevamo di mettere mano alle strutture e alle leggi fasciste sopravvissute all’avvento della democrazia e della Repubblica e chiedevamo a gran voce l’unità, il rinnovamento e l’alternativa della sinistra; quando negli anni ‘80 e ‘90 tentammo inutilmente la strada dell’unità dei partiti laici e socialisti e, con i referendum Segni, la riforma del sistema politico che obbligasse i maggiori protagonisti della politica italiana, a cominciare dal PCI, a fare i conti con i problemi di governo della società e dello Stato, creando alleanze compatibili con questo scopo. Che funzionò pure per più di un decennio e almeno tre legislature, fin quando il Mattarellum non fu sostituito dal Porcellum di Berlusconi e Calderoli. La lotta alle degenerazioni della partitocrazia è sempre stata condotta in nome della legalità costituzionale e per riconquistare un pieno e corretto funzionamento della democrazia. E lo stesso referendum sul finanziamento dei partiti era tutt’altro che antipolitico (ma scherziamo? Nessuno più di noi si è battuto per la nobiltà, la necessità, l’efficacia della politica, della buona politica, cioè del governo della polis). Nasceva al contrario dall’esigenza di congegnare un sistema alternativo, che proponemmo, di sostegno pubblico all’attività politica, che non fosse di esclusivo appannaggio dei partiti esistenti e dominanti nel campo dell’opposizione e della maggioranza. E teneva conto della necessità di riportare alle loro funzioni democratiche partiti politici che avevano ereditato dal fascismo la mostruosa concezione del “partito-Stato”, del partito che occupa e prevarica le istituzioni, come peraltro sta oggi facendo il M5S dietro lo schermo dell’onestà e di una “diversità antropologica”, di cui proprio i radicali hanno sempre insegnato a diffidare, da chiunque venisse proclamata. Non è guardando alla nostra storia che Ferrara troverà l’origine e la causa degli attuali populismi. Li deve cercare piuttosto nelle numerose pratiche partitocratiche che ha frequentato e sostenuto nella sua lunga attività di giornalista e di politico: nella incapacità di partiti che hanno solo cambiato i loro nomi e non sono mai riusciti a cambiare se stessi e tanto meno le istituzioni e lo Stato democratico. È vero, Grillo è arrivato buon ultimo, ma non dopo Pannella: è arrivato dopo Bossi e la Lega, dopo la Rete e l’Italia dei Valori, dopo Orlando e Di Pietro: precedenti che una classe dirigente per così dire “di sistema”, da Ferrara sempre difesa e sostenuta, ha sistematicamente ignorato, sperando di poterli esorcizzare o neutralizzare, coinvolgendoli nelle proprie pratiche di potere. È in base a queste logiche che oggi siamo arrivati al M5S di Di Maio, alla Lega di Salvini e ai Fratelli d’Italia della Meloni. In quel terribile incubatore dell’antipolitica che è stata la retorica di Mani Pulite e l’illusione della moralizzazione per via giudiziaria della Repubblica, Pannella è stato dall’altra parte e c’è stato praticamente da solo, con il “Parlamento degli inquisiti”, mentre la “nuova” destra e sinistra secondo repubblicana, compresa quella berlusconiana, in quel frangente soffiava forte sul repulisti, sull’ordalia, sulla rimozione delle ragioni politiche del default economico e civile dell’Italia e sulla ricerca di comodi capri espiatori. Non c’è stato politico più lontano di Pannella dal populismo e dall’idea di una semplice followership dei sentimenti prevalenti dell’elettorato. Non c’è stato partito politico più alieno di quello radicale dal “facilismo” economico-sociale o istituzionale, che ha dilagato nella politica ridotta a perenne inseguimento dei desideri e delle illusioni di una opinione pubblica smarrita. Certo anche noi abbiamo le nostre responsabilità. Ma la nostra responsabilità è stata quella di non essere riusciti a convincere le classi dirigenti dei partiti politici (dalla Dc al PCI e ai partiti laici e socialista, nella prima repubblica, “berlusconiani” e “antiberlusconiani” nella seconda) che abbiamo sempre avversato per le loro politiche, ma con i quali abbiamo sempre, sempre dialogato. La nostra responsabilità è di non avere avuto la forza di realizzare quella democrazia dell’alternanza che presupponeva una alternativa di sinistra democratica (e un centro destra liberale e non biecamente conservatore, quando non reazionario). L’attacco di Ferrara ci dice però che, nonostante le nostre divisioni, anche questa volta i radicali sono pericolosi per i difensori dello status quo. E le sue parole alzano un polverone che serve ad allontanare l’attenzione degli elettori del 20 e 21 settembre dal simbolo grillino di questa pseudo riforma: le forbici. Per impedire che tutto si riduca a una sforbiciata occorre un significativo successo dei No. Solo se questo si verificherà, e non con le assicurazioni di Ferrara o con le parole – che restano spesso solo parole – di Zingaretti, si potrà sperare di riaprire in Italia un vero e serio dibattito sulle riforme (che includa e non escluda anche il discorso sulla legge elettorale e l’ineluttabilità della restaurazione proporzionale): riforma costituzionale, certo, riforma elettorale e dei regolamenti parlamentari pure ma, anche, riforma della giustizia, riforma di una economia bloccata, di una amministrazione pubblica ingolfata da mille intralci e blocchi burocratici e da una inammissibile sovrapposizione e contrapposizione di poteri.
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 23 dicembre 2019. «Davide, ci sarebbe poi quest' altra parcella». «Avvocato, l' Associazione Rousseau non sarà più disposta a pagare per le cause di Beppe. Se dovesse continuare a farsi querelare per diffamazione o altro, che paghi di tasca sua. Perché noi non possiamo né vogliamo più continuare a pagare per lui». L'«avvocato» di questa storia si chiama Andrea Ciannavei e da anni è uno dei legali che, in giro per l' Italia, difende sia il Movimento 5 Stelle sia Beppe Grillo. Il «Davide», facile, è Davide Casaleggio, presidente della Casaleggio associati oltre che dell'Associazione Rousseau. E «Beppe», ovviamente, è Grillo. I tre si sono ritrovati nel chiuso di una stanza all' Hotel Forum di Roma esattamente una settimana fa. E sono i protagonisti del giro di contatti incrociati su cui, negli ultimi mesi, s'è misurata la distanza ormai incolmabile che separa Casaleggio e Grillo. I due, di fatto, non si parlano più. E la decisione di Casaleggio di togliere a Grillo quella specie di «scudo legale» di cui usufruiva in qualità di garante del M5S - di fatto, l'Associazione Rousseau si faceva carico di sostenere le spese legali del comico genovese - è un po' causa e un po' effetto di un divorzio ormai consumato ma tenuto al riparo tanto dalle comunicazioni ufficiali quanto da quelle ufficiose. «I parlamentari non pagano più la quota mensile a Rousseau. E questa storia va avanti ormai da mesi. Sono più quelli che non pagano che quelli che pagano», si è lamentato nelle ultime settimane Casaleggio. Nei bilanci dell' Asssociazione Rousseau del 2018, divisi in più voci, ci sono quasi trecentomila euro di uscite alla voce «spese legali». Nella distribuzione della torta che si vede da un documento interno, la voce pesa il 16,6 per cento delle uscite, seconda soltanto al personale (20,8 per cento). Tanto per capirci, nel bilancio di Rousseau le spese legali hanno pesato molto di più della somma delle uscite per la «struttura tecnologica» (5,1) e la «sicurezza» (6,1) della piattaforma su cu votano e agiscono i militanti del M5S. Tra le uscite ci sono ottantaseimila allo studio Lanzalone, quaranta allo studio Campoli Bellocchio per «consulenze», ventiquattro per «transazioni e cause locali», più sessantaquattromila con la dicitura «multa del Garante della privacy a Rousseau e a Beppe». Tolti i cinquantamila euro della multa del Garante e «dodicimila euro per le spese legali di un consigliere regionale abruzzese», quasi tutto il resto è finito in cause di Grillo. In alcuni casi, come i sessantacinquemila euro di parcelle dell' avvocato Ciannavei, il pagamento è stato posticipato a quest' anno, e quindi al 2019. Con l' arrivo del primo gennaio prossimo, e su questo le indicazioni di Casaleggio sono state nettissime, si chiude anche la copertura delle spese di Grillo garantita da Rousseau. È come se calasse il sipario su un' epoca. Grillo da una parte, Casaleggio dall' altra. E la situazione interna all'Associazione Rousseau è pronta a esplodere con le dimissioni che Max Bugani, custode dell' ortodossia del Movimento e anello di congiunzione tra Casaleggio padre e Grillo, potrebbe presentare già oggi. Ufficialmente, per allontanare da sé i sospetti di un conflitto d' interessi tra la sua posizione di socio di Rousseau e l'incarico al Comune di Roma; in realtà, per essere stato scavalcato nella scelta di varare quel pacchetto di mischia di «facilitatori» di cui avrebbe scoperto l' identità solo a cose fatte, oltre che per aver visto sconfessata la sua idea di chiamarsi fuori dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. A meno di colpi di scena dell' ultim' ora, quindi, con le dimissioni di Bugani - oggi o nei prossimi giorni - lo psicodramma dell' Associazione Rousseau sarà visibile a occhio nudo. E i sondaggi arrivati negli ultimi giorni sulla scrivania di Davide Casaleggio raccontano che, fuori dalle segrete stanze del Movimento, la situazione non è migliore. In Emilia-Romagna, lista e candidato non supererebbero il 5 per cento, con un trend in discesa. Certo, in teoria c' è un mese e passa di lavoro per rovesciare quei dati, visto che si vota il 26 gennaio. Il resto no, pare perso per sempre. Come l' amicizia, forse mai decollata per davvero, tra Grillo e Casaleggio.
· Pensioni d’oro e vitalizi. Noi siamo Noi.
Vitalizi: i 5 stelle devono incolpare solo la loro ignoranza. Massimo Teodori il 27 Giugno 2020 su Il Corriere del Giorno. I grillini, per affermare le loro demagogie, hanno inoltre fatto uso dell’ostruzionismo della maggioranza, del boicottaggio e delle dimissioni nell’organo di garanzia con l’obiettivo di paralizzare il corso della giustizia interna di rango costituzionale. Le proteste dei pentastellati contro la “Commissione contenzioso” del Senato che ha dichiarato nulla la deliberazione della presidenza sui vitalizi dovrebbero essere rivolte contro se stessi. La commissione è un organo giurisdizionale di garanzia che fa le veci del sistema giudiziario incompetente negli affari interni degli organi costituzionali che seguono il regime della cosiddetta “autodichia”. Il deliberato della presidenza del Senato, fotocopiato dalla Camera di Fico, è il risultato dell’ignoranza del diritto costituzionale e parlamentare, dell’arroganza antiparlamentare di chi vuole travolgere qualsiasi regola dello Stato di diritto, e della demagogia di chi intende governare ingannando a suon di slogan l’opinione pubblica. I vitalizi non possono essere reintrodotti perché non esistono più dal 2012, quando le presidenze delle Camere introdussero anche per i parlamentari, come per la pubblica amministrazione, il sistema pensionistico contributivo a posto di quello retributivo. I vitalizi “retributivi” sono relativi al periodo pre-2012, seguiti poi dalle pensioni “contributive”. In origine i vitalizi erano legati allo stipendio dei parlamentari che, a sua volta, era parametrato sul primo presidente della Corte di Cassazione. Ho fatto parte negli anni ’80 da deputato radicale del consiglio di presidenza della Camera, e ripetutamente ho proposto di tagliare stipendi e vitalizi parlamentari sganciandoli dal meccanismo che determinava l’importo, quello degli alti magistrati. Ritenevo che fosse al contrario opportuno aumentare il bilancio dei servizi parlamentari benissimo svolti da valenti funzionari con l’obiettivo di tagliare il cordone con i consiglieri esterni. Allora, a più riprese i vitalizi furono ridotti nella misura del 10% come consentito dalle norme generali sulla retroattività. Perché le delibere delle presidenze di Camera e Senato volute dai Cinquestelle e accettate passivamente per conformismo demagogico dai rappresentanti degli altri gruppi, a cominciare dal Partito Democratico, sono state sbagliate e destinate ad essere, prima o poi, annullate? Il contrasto delle delibere con le norme costituzionali e giurisprudenziali ha diversi aspetti : 1) la retroattività; 2) il taglio retroattivo (dal 40 all’80%) ai vitalizi in vigore fino al 2011; 3) l’applicazione di una tabella fantasiosa di cui non si conosce la paternità; 4) l’applicazione del taglio ai soli parlamentari del passato (denominati spregiativamente casta) e non già a tutti i membri degli organi costituzionali in analogo regime di autodichia (Presidenza della repubblica, Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura, Cnel, Consiglio di Stato ); 5) il contrasto con i principi della Corte europea di giustizia. L’operazione dei 5 stelle, digerita da quasi tutti gli altri gruppi, è stata compiuta non sulla base di possibili norme di diritto (e ce ne erano) ma facendo leva su una effimera maggioranza nei consigli di presidenza delle Camere, costituiti per la prima volta nella storia non con metodo proporzionale ma a vantaggio in questa legislatura di M5S e Lega. I grillini, per affermare le loro demagogie, hanno inoltre fatto uso dell’ostruzionismo della maggioranza, del boicottaggio e delle dimissioni nell’organo di garanzia con l’obiettivo di paralizzare il corso della giustizia interna di rango costituzionale. Sarebbe stato possibile incidere significativamente (ma non discrezionalmente) su stipendi e pensioni dei parlamentari presenti e passati con una legge votata dal Parlamento riguardante (in misura ragionevole), oltre a tutti gli organi costituzionali, centinaia di migliaia di pensioni analogamente calcolate con metodo retributivo nella pubblica amministrazione. La verità è che questa penosa vicenda – penosa per coloro che l’hanno promossa andando in piazza con poltrone e forbicioni di cartapesta che era più opportuno fossero rivolte ai propri comportamenti lottizzatori – non è altro che un capitolo dell’antiparlamentarismo dei seguaci populisti di Grillo e Casaleggio, e della Lega, che non sanno – e non vogliono sapere – che cosa è lo Stato di diritto.
Pensioni d’oro e vitalizi per 1,2 miliardi. Chi sono i 30 mila che ne godono e perché. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Enrico Marro. Le pensioni medie del personale della Camera (4.700 i pensionati) e del Senato (2.500) oscillano intorno ai 58-59 mila euro lordi all’anno (4.800-4.900 euro al mese). Quelle del personale della presidenza della Repubblica (1.783 pensionati) sui 53 mila euro mentre gli ex lavoratori della Regione siciliana (17.741) stanno decisamente sotto, prendendo mediamente circa 25.500 euro. Variano molto invece i vitalizi degli ex parlamentari (851 diretti più 444 di reversibilità al Senato, 1.020 diretti più 520 di reversibilità alla Camera) perché dipendono dal numero di legislature svolte. Tuttavia, in media, l’importo erogato alla Camera è di 70 mila euro per i vitalizi diretti e di 37 mila per quelli di reversibilità. In tutto, i circa 2.700 vitalizi erogati agli ex parlamentari costano 200 milioni l’anno, in media 74mila euro. Per i 35 vitalizi (24 diretti e 11 di reversibilità) degli ex giudici della Corte costituzionale la spesa è invece di circa 4,3 milioni, in media 125mila euro lordi. Il censimento delle 30 mila pensioni d’oro che formano un mondo pensionistico a parte è contenuto in un capitolo del Rapporto sul welfare di Itinerari previdenziali che presentato il 12 febbraio alla Camera. I dati, si legge, «sono a volte non completi poiché queste istituzioni spesso non comunicano le posizioni all’anagrafe generale gestita dal Ministero del Lavoro tramite l’INPS in base alla legge n. 243/04».Non rientrano nel sistema generale Camera e Senato, che, in virtù dell’«autodichia» garantita dalla Costituzione, hanno proprie regole previdenziali approvate dagli stessi parlamentari sia per i propri dipendenti sia per deputati e senatori; la Regione Sicilia, «che gestisce un fondo di previdenza sostitutivo per i propri dipendenti», quindi fuori dal regime Inps; la Corte costituzionale per i giudici e i propri dipendenti (anche qui vige un regolamento interno); la Presidenza della Repubblica per il proprio personale; le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale per le cariche elettive. Infine c’è, chissà perché, il Fama, il Fondo agenti marittimi ed aerei, con sede a Genova, che gestisce la previdenza per gli agenti marittimi. Dal primo gennaio 2019 è entrato in vigore il taglio dei vitalizi per gli ex deputati ed ex senatori, fortemente voluto dai 5 Stelle. I vitalizi, si chiamano così le pensioni dei parlamentari, sono stati tagliati, «nella maggioranza dei casi tra il 40 e il 60%», prevedendo un risparmio tra Camera e Senato di «circa 56 milioni all’anno, 280 milioni a legislatura». Il Rapporto ricorda che «pendono ancora molti ricorsi». E proprio in questi giorni è scoppiato il caso della commissione del Senato sul contenzioso orientata ad accoglierli. Per i nuovi parlamentari eletti dal primo gennaio 2012, c’era invece già stata una riforma che aboliva i vitalizi sostituendoli con un sistema pensionistico con regole che tendono a quelle generali. «La prestazione sarà calcolata con il metodo contributivo. Per i parlamentari che possono vantare legislature precedenti è previsto un regime transitorio pro-rata, che tiene conto della quota di assegno vitalizio maturato fino al 31 dicembre 2011 e di quella soggetta al nuovo regime contributivo». Fino al 1997 bastava aver fatto una legislatura (anche se le Camere erano state sciolte anticipatamente) per andare in pensione a 60 anni e per ogni ulteriore legislatura il limite per ottenere il vitalizio si abbassava di 5 anni. Con la riforma, dal 2012 l’età di pensionamento è stata portata a 65 anni e servono 5 anni effettivi di legislatura. Ma per ogni anno in più di presenza in Parlamento l’età pensionabile scende di un anno fino al limite dei 60 anni. Per il 2018, si legge nel Rapporto, si può stimare che il numero di assegni corrisposti a titolo di vitalizio per le cariche elettive delle Regioni sono stati 3.300, compresi quelli di reversibilità per una spesa complessiva di 150 milioni di euro, circa 45mila euro medi a testa. La legge di Bilancio per il 2019 ha previsto l’obbligo per le Regioni di procedere al taglio dei vitalizi degli ex consiglieri e, in caso di inadempienza, un taglio del 20% dei trasferimenti erariali a loro favore. Il 3 aprile 2019 è stato poi siglato l’accordo fra Stato e Regioni che ha previsto l’utilizzo del metodo contributivo per il ricalcolo dei vitalizi, sul modello dei parlamentari. «In base ai dati forniti dai consigli regionali (al netto di quello della Sicilia), il risparmio complessivo dovrebbe ammontare ad almeno 22 milioni annui».
NOI SIAMO NOI. Mattia Feltri per “la Stampa” il 18 febbraio 2020. Quasi otto anni fa - i suoi ancora non erano entrati nella scatoletta di tonno - Beppe Grillo confessò un sogno: «Un premier di trent' anni che va a lavorare in bicicletta, e non con l' auto blu». Arrivò poi un vicepremier che trent' anni li aveva ma la bicicletta no. Pazienza. Ma intanto Grillo rapiva le piazze con la prospettiva di bucolica onestà di una nuova classe dirigente popolare e popolana, allergica ai privilegi di casta e dunque, anzitutto, «basta auto blu» (gennaio 2013) e «via le auto blu» (febbraio 2013). E non erano fantasticherie: nel marzo del 2018, Roberto Fico arrivò in treno da Napoli per affrontare il suo primo giorno da presidente della Camera, e alla stazione Termini salì su un autobus diretto a Montecitorio. Questo giornale si augurò che, da ragazzo intelligente, Fico avrebbe presto compreso che gli uomini di Stato vanno protetti, anche con un' auto blu, perché se si colpisce un uomo di Stato si colpisce tutto lo Stato, e se lo Stato non difende lo statista, lo Stato non esiste. Fico lo comprese subito, al punto da applicarlo in modo estensivo prestando la sua auto blu a Grillo perché fosse comodamente condotto al ministero di Bonafede. Il cerchio s' è infine chiuso l' altro giorno, quando i ministri stellati sono arrivati alla manifestazione contro i privilegi di casta (vitalizi) accompagnati da privilegi di casta (auto blu). Ragioni di sicurezza, hanno detto. Perfetto. Impeccabile. Ci stiamo arrivando a dire le cose dal lato più irrimediabile, antipatico e onesto, e si sottolinea onesto, come le avrebbe dette Sordi ispirato dal Belli: perché noi siamo noi, e voi non siete un...
Dal “Fatto quotidiano” il 18 febbraio 2020. I politici “di lotta e di governo”, si sa, fanno sempre discutere. Dai tempi di Fausto Bertinotti e Romano Prodi al più recente caso di Matteo Salvini che quando era ministro dell’Interno passava più tempo nelle piazze che al Viminale. Stavolta tocca ai cinquestelle Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio, ministro della Giustizia e degli Esteri, che dall’opposizione tuonavano contro le auto blu e la “casta” e sabato si sono presentati “con l’auto blu” alla manifestazione per il taglio dei vitalizi in piazza Santi Apostoli. Da Vittorio Sgarbi all’Huffington Post, dal Messaggero a siti certamente improbabili e ai social network, tutti a ironizzare, con più o meno garbo, sui ministri in auto blu che manifestavano contro i vitalizi della “casta”di cui fanno ormai parte. Proprio loro che promettevano di aprire i palazzi del potere “come una scatoletta di tonno”. È perfino troppo facile. Però siccome parliamo dei ministri degli Esteri e della Giustizia, occorre ricordare che quelle non sono “auto blu” nel senso della macchina con autista che porta a spasso il privilegiato, ma vetture, peraltro blindate, che fanno parte dei dispositivi di sicurezza previsti per i titolari di alcuni incarichi pubblici. Non sono benefit. Né gli interessati possono rinunciarvi completamente.
Carmelo Caruso per ''il Giornale'' il 16 febbraio 2020. «A ladri! A maledetti! A fiji de na mignotta! Se vojono rubare tutto! Tutto! Vergogna, vergogna, vergogna-a-a-.a». Il rutto è così diventato unico, ed era l' antico rutto del M5s, che si è propagato nell' aria, a piazza Sant' Apostoli, dove ieri si sono radunati i disposti ancora a tutto («Siete grandi. Semo l' unici! Daje! Scassamo!»), i 5 stelle delle origini, ma anche i manifestanti per un pomeriggio, i turisti dell' «annamo un po' a fa casino». Dai 90 autobus che sono giunti a Roma è sceso ogni carattere italiano, ma a distinguersi era il ciociaro Livio Mascia, fan di Paola Taverna («Ce voi tu! Vojamo te») fino al catanese Concetto Musumeci che sogna per il movimento un nuovo leader, «insomma uno come Andreotti. Cioè volevo dire uno come Luigi Di Maio». E a quel punto le idee erano tanto confuse e sottosopra che ogni partecipante diceva la sua contro il mondo, il clima, la giustizia, la democrazia, solo per ultimi i vitalizi («Ripetete! Maledetti! Basta!»). E però, il momento fatale del situazionismo, del «ma che ce stò a fare qui», si è registrato quando Ermanno Marziali ha retto, a sua insaputa, uno dei quattro bastoni del lenzuolo «Rivoluzione gentile». Tutti hanno pensato che fosse una sardina imbucata e invece era solo un pover'uomo chiamato a dare una mano: «Un so proprio che c' è sta scritto. Boh. Semo venuti. M' hanno detto de venì». Chi ha partecipato all' evento organizzato dal M5s «Basta vitalizi» ha avuto la possibilità di ricevere una copia de La Notizia Giornale, nuovo giornale del popolo, («Pijatelo. O regalano»), che ha scalzato come riferimento cartaceo Il Fatto Quotidiano, e che ieri titolava sul suo sito «Arrendetevi siete circondati». Davvero si era circondati, ma da onorevoli, sottosegretari, ministri, nomenklatura che a ogni passo si muoveva con almeno tre uomini di scorta e perfino con l' auto blu (Di Maio e Alfonso Bonafede) eccetto il senatore Elio Lannutti, a cui è stata scippata («Brucia ancora» riconosce) la presidenza della Commissione Banche e che sconsolato dice: «Il problema di questo paese è la massoneria. Senti a me». E per Massimo Angeloni sono invece i magistrati: «Ho 34 procedimenti penali aperti. Sono venuto per parlare con Bonafede») mentre per Adriano Burelli, tassista e autore di un libro che non può che chiamarsi «Una vita in movimento» (sta cercando un editore), il problema sono quelli del palazzo. Intende i 5 stelle? «Quelli de prima. I nostri so' puliti. Sono er mejo che abbiamo». In una piazza da boia chi molla, per un paio d' ore, il M5s ha provato a fare dimenticare di essere forza di governo ed è tornato ad abbracciare la vecchia umanità che pensa sempre all' Italia non come una nazione in crisi, ma come una terra marcia («A corpa è dei burattinai»). Sono tornati infatti i vecchi insulti ai giornalisti («Siete il cancro»), ha rischiato l' aggressione l' inviato de Le Iene, Filippo Roma («Venduto de merda»). Il più pacifico è risultato essere il venditore di fischietti Giuseppe. Militante 5s? «Disoccupato. Pe' me, so tutti uguali. Solo un euro, un euro».
Francesco Maria Del Vigo per ''il Giornale'' il 16 febbraio 2020. In un Paese nel quale le Sardine fanno l'opposizione all'opposizione invece che al governo, sembra quasi normale che il governo si metta a fare opposizione. Ma non dobbiamo assuefarci: è una follia. Ieri il Movimento 5 Stelle è sceso in piazza per manifestare contro il ripristino dei vitalizi. Vitalizi che loro hanno deciso di tagliare, ma il cui taglio al momento è in discussione alla Commissione contenziosa del Senato, in seguito ai ricorsi presentati da centinaia di ex parlamentari. La principale accusa rivolta dai giuristi è l' incostituzionalità della norma, scritta e approvata nel 2018 dal governo gialloverde. Quindi se il provvedimento non rispetta la Carta dovrebbero prendersela solo con loro stessi, che lo hanno stilato. Così ieri, i supporter grillini e quindi del governo, si sono radunati a Roma, nel cuore del potere, per manifestare contro il potere della casta. Potere del quale loro stessi, legittimamente e schizofrenicamente, fanno parte. È l'autovaffanculo del Movimento 5 Stelle che, in uno sdoppiamento di personalità, si fa da solo l' opposizione. Le immagini di Piazza Santi Apostoli, gremita di attivisti anti casta, sembra l' istantanea di una qualunque manifestazione grillina degli ultimi anni. Tutto identico: stesse facce, stessi slogan, stessa rabbia. Solo che ora al governo ci sono loro. Ma forse non lo sanno, hanno rimosso di avere vinto le elezioni, di avere dato vita a due esecutivi e di aver espresso un presidente del Consiglio. Il ritorno alla piazza, in questo caso, non è una esibizione muscolare, ma una manifestazione di impotenza. Sui cartelloni troneggiano frasi del tipo: «In piazza contro i vitalizi», dimostrando a caratteri cubitali che, evidentemente, nel palazzo non riescono a fare niente. Anche il vecchio motto «Onestà! Onestà!», rispolverato per l' occorrenza, ora suona come l' autocertificazione di un fallimento: se c' è ancora bisogno di scandirlo ad alta voce significa che qualcosa non è andato come doveva andare. Così la piazza diventa la mimesi di un partito allo sbando, prossimo alla scissione: con i militanti che chiedono «basta alleanze» e insultano Matteo Renzi e il Pd, mentre a due passi da loro, imbambolati in un silenzio accondiscendente, ci sono Luigi Di Maio e Vito Crimi, che si sono alleati con tutti - dai leghisti di Salvini ai comunisti di Leu, passando per i democratici di Zingaretti - e con Matteo Renzi sono al governo. Dall' autovaffa all' autodistruzione il passo è brevissimo.
Vitalizi d'oro ai parlamentari: sta tornando la casta? Le Iene News il 21 febbraio 2020. In questi giorni è pendente in Senato il ricorso di 771 ex senatori, ai quali la riforma di un anno fa ha tagliato pesantemente i vitalizi d’oro che avevano maturato, per tornare al vecchio sistema. Filippo Roma ha sentito alcuni senatori, tra cui Caliendo, il presidente della commissione che deciderà se ripristinare i vitalizi di un tempo. Tornano i vitalizi per la casta dei politici? In questi giorni al Senato si deve decidere se i vitalizi d’oro di cui godevano deputati e senatori fino a un anno fa, debbano essere riassegnati nella stessa misura. Questo grazie al ricorso pendente di 771 ex senatori, che hanno subìto pesanti decurtazioni dell’indennità dopo la riforma congiunta di Camera e Senato. Ce lo conferma Sergio Rizzo, uno che dal libro “La Casta” in poi si è occupato spesso e bene delle furbate dei nostri politici. “Che sta succedendo? Bella domanda…Si sta discutendo di un ricorso: al Senato pare siano circa 700 che vogliono riavere il vitalizio come prima, prima del taglio che è stato imposto”. Nel dibattito che inevitabilmente ne è scaturito, c’è chi dice che si tratterebbe di “diritti acquisiti” e quindi da non toccare. Ma Sergio Rizzo, su questo punto, non ha dubbi: "Vorrei ricordare a chi dice questa cosa che noi comuni mortali i diritti acquisiti ce li siamo visti toccare migliaia di volte, soprattutto sul versante delle pensioni. Basta dire che facciamo il caso di un lavoratore che è stato assunto con un contratto e con un sistema che prevedeva la possibilità di andare in pensione con 35 anni di contributi. Adesso si trova a doverne avere 42, e questo che cos’è se non un intervento sui diritti acquisiti, no? A un certo punto hanno deciso che la rivalutazione Istat non si faceva più secondo, appunto, i parametri stabiliti per tutte le pensioni ma soltanto per quelle fino a un certo importo. Quelli sopra si attaccavano, no? E quello che cos’è se non un intervento sui diritti acquisiti…” Filippo Roma e Marco Occhipinti, in questo nuovo servizio, indagano sul rischio reale del ritorno della casta, recandosi alla manifestazione romana indetta dai 5 Stelle proprio contro i vitalizi. Una manifestazione che non ha accolto Filippo Roma e la sua troupe proprio benissimo. Prima però di raccontarvi quello che è successo alla manifestazione, facciamo un passo indietro. Circa un anno fa la Camera approva il provvedimento che taglia i vitalizi ai parlamentari, i cui assegni vengono adesso ricalcolati in base al metodo contributivo. Prima di allora infatti deputati e senatori avevano dei vitalizi che maturavano con delle regole molto vantaggiose rispetto al resto dei pensionati italiani: bastava anche solo un giorno o una settimana da parlamentare per maturare un vitalizio di molto superiore ai contributi versati e a volte percepito già a un’età molto giovane. Gli esempi negativi, a questo proposito, davvero non mancano. Come nel caso dell'ex onorevole Giuseppe Gambale, uno dei tanti baby pensionati del parlamento italiano che con soli 14 anni di lavoro alla Camera dei Deputati si è ritirato nel 2006 alla tenera età di 42 anni e da allora ogni mese “si becca” ben 8.445 euro al mese di vitalizio. O come l'onorevole Pezzana, ex deputato radicale, a cui sono bastati soli otto giorni in carica alla Camera per portare a casa un vitalizio di circa 2.200 euro al mese. O come ancora Piero Craveri, anche lui ex radicale, con i suoi 2.159 euro al mese, un vero “recordman” considerato che non ha mai partecipato neanche a una seduta del Senato. Filippo Roma lo incontra: ”È un immenso piacere conoscere il recordman in assoluto dei baby pensionati in parlamento, è un fenomeno lei, con sette…”. Ma lui non la prende benissimo:”Devo prendere un treno! Cristo!”. “Al Senato lei non c’è mai stato giusto?”, gli chiede la Iena. “Al Senato ci sono stato, in biblioteca”, è la sua disarmante risposta. “Non ha mai pensato di rinunciare a 'sta pensioncina?”, chiede ancora Filippo Roma. “No…eh ce l’ho…” Qualche tempo fa avevamo incontrato anche l’ex consigliera regionale e pasionaria della causa irredentista Eva Klotz, con i suoi 946.000 euro intascati addirittura in anticipo. E lei, che in passato aveva detto che con una scopa avrebbe voluto spazzare via il tricolore italiano e "tutti i mali che l’Italia ha portato al Sudtirolo", si era giustificata così: ”Allora prima lei lavori come io, 31 anni come consigliera regionale…” A dire il vero, prima della riforma dei vitalizi, noi de Le Iene avevamo provato a far mettere d’accordo le due forze politiche che sulla carta si dicevano concordi a ridimensionare questi insostenibili privilegi: 5stelle e Pd. Avevamo infatti provato a far impegnare i 5 stelle a votare la proposta dell’esponente Pd Richetti, proprio sul ricalcolo dei vitalizi d’oro di una volta. Lo stesso esponente M5S Alessandro Di Battista ci aveva detto: “Se finalmente questi decidono di mettere in calendario questa proposta Richetti noi la votiamo! La votiamo e facciamo tre capriole insieme, se loro dovessero votarla”. Ma nonostante lo stesso Richetti ci aveva confermato: “Abbiamo la maggioranza per ricalcolare i vitalizi”, dopo un pressing asfissiante su di lui, il capogruppo del partito democratico Rosato ci aveva gelato”. Della proposta Richetti non c’è traccia sul calendario. Non so perché”. Nulla di fatto, insomma. All’improvviso però accade quello che non ci saremmo mai aspettati, abituati come siamo alla politica del Belpaese: gli uffici di presidenza di Camera e Senato riescono ad approvare un nuovo regolamento, che prevede il ricalcolo dei vitalizi del passato già maturati. Un ricalcolo non più basato sullo stipendio percepito, cioè con il metodo retributivo, ma sulla base dei contributi effettivamente versati, cioè con il metodo contributivo (vale a dire lo stesso imposto a tutti italiani dalla riforma del ministro Fornero nel 2012, ndr). Una riforma “epocale”, che Sergio Rizzo sintetizza con queste parole. "C’è stato chi si è ritrovato la busta paga tagliata del 70%, addirittura dell’86%”. E questo forse il motivo principale per cui adesso, proprio quei senatori che si sono visti decurtare in modo così importante il proprio vitalizio, hanno deciso di fare ricorso... E non manca neanche, in tutta questa vicenda, un vero paradosso. “Fanno come gli pare", spiega ancora Rizzo. "Tant’è che la commissione che dovrebbe giudicare il ricorso è formata dai senatori, che devono essere loro a dire se i loro colleghi devono avere il taglio oppure no”. Facciamo due conti. Se la commissione del Senato dovesse ora accogliere il ricorso dei 771 senatori, abolendo il ricalcolo dei vitalizi di un tempo, questo porterebbe a un esborso per le nostre tasche di ben 339 milioni di euro a legislatura! Filippo Roma decide allora di andare a sentire il parere di alcuni senatori, per conoscere la loro opinione sul possibile ripristino dei vecchi vitalizi alla “casta”. Si parte con il senatore Martelli, che non la prende benissimo: “Io con lei non parlerò mai più in vita mia, se non mi toglie quel microfono glielo spacco in testa”. Lo avevamo incontrato ai tempi dello scandalo “Rimborsopoli”, cioè quello di alcuni onorevoli pentastellati che dichiaravano di restituire parte del loro stipendio in un fondo per i piccoli imprenditori mentre invece di nascosto revocavano il bonifico, per tenersi i soldi in tasca. Uno scandalo a seguito del quale proprio il senatore Martelli aveva lasciato i cinque stelle, approdando al gruppo misto. Andiamo poi dal senatore Caliendo, presidente della “Commissione contenziosa” che dovrà decidere sul ricorso, al quale Filippo Roma fa notare: “Detto fra noi, voi parlamentari avete avuto per tanti anni un trattamento previdenziale di super favore che i cittadini se lo sognano…”. Ma lui risponde così: “Lo vuol capire, lo vuol capire che avrei avuto applicando il taglio fatto l’anno scorso dalla camera e dal senato avrei diritto a 150 euro in più basta… Se ne rende conto quindi che tutte le fesserie dette in questi giorni”. Filippo Roma lo incalza: “Io dico, una volta tanto che i politici vengono equiparati agli italiani, questi subito a fare ricorso”. E lui: “Non è vero che vengono equiparati agli italiani”. “Beh il vitalizio è stato ricalcolato con il sistema contributivo come tutti gli italiani”, gli ricordiamo, ma il senatore Caliendo ribatte: “Agli italiani è mai stato ricalcolato, no, né con la legge Dini né con la legge Fornero, basta!”
“Vabbè, lei non ci vuol dire se però è vera sta storia che gira che in realtà è tutto già deciso?”. “Ma guardi scusi ma è talmente ridicolo, ecco, non posso mai discutere di cose ridicole”. E se la senatrice Cinque Stelle Paola Taverna e la Presidente del Senato Casellati si rifiutano di rilasciare dichiarazioni sull’argomento, il senatore Gasparri spiega: “Tutti hanno diritto a fare un ricorso, anche lei. Credo che gli sprechi vadano combattuti e che vadano combattuti a 360 gradi… perché l’indignometro… io ho inventato l’indignometro: una macchina, tu metti i fatti e si vede quant’è l’indignazione, scatta in alcuni casi che comprendo, non scatta in altri, è un mistero, ci sono sprechi giganteschi…” Per la senatrice di Forza Italia Gabriella Giammanco “si tratta di diritti acquisiti che purtroppo è anche difficile scalfire e dovrebbe essere anche secondo me una legge ordinaria a regolare tutto ciò”. E propone a Filippo Roma: “Dovrebbe andare da chi magari ha anche programmato io direi una vecchiaia considerando quell’assegno a fine mese…”. Anche il senatore Renato Schifani prova a mettersi nei panni dei parlamentari “decurtati” del vitalizio: “Vi sono dei colleghi nel passato che magari non hanno esercitato l’attività professionale sapendo che poi avrebbero avuto un certo tipo di vitalizio e quindi tornando all’attività professionale avevano lo studio chiuso, mentre i pubblici dipendenti sono rientrati e magari hanno avuto ricostruita la carriera…”. Gli fa eco il collega di Forza Italia Paolo Romani, che di quei 700 ex senatori che hanno fatto ricorso per avere indietro il vitalizio, spiega: “Pensavano che fosse un diritto acquisito… dal loro punto di vista, sì è una cosa ingiusta”. E poi però precisa: “Penso che uno dovrebbe avere la pensione commisurata a quanto ha pagato nel corso dell’attività parlamentare…Come tutti gli italiani, sì”. Da subito solidale con la nostra posizione è invece il senatore leghista Roberto Calderoli, che spiega: “Abbiamo votato per l’abolizione, continueremo a mantenere quella posizione. Noi facciamo l’appello al nostro che non voterà per l’accoglimento del ricorso e quindi manterremo il taglio dei vitalizi”.
· La coerenza dei Grillini.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 25 novembre 2020.
Frase numero uno: «Le tre reti Mediaset sono di Berlusconi di nome e di fatto. Una seria legge sul conflitto d' interessi non esiste».
Frase numero due: «Serve una legge forte e seria sul conflitto d' interessi. Non può funzionare così (per Berlusconi e Mediaset)».
Frase numero tre: «Mediaset fa da megafono alla voce del padrone».
Frase numero quattro: «I notiziari Mediaset sono indegni per l'informazione di un Paese democratico».
Frase numero cinque: «Una parte del Paese crede ancora alle promesse senza senso di Berlusconi e delle sue tv».
Frase numero sei: «È assurdo che Berlusconi abbia ancora il potere di parola per fare il male dell' Italia».
Frase numero sette: «Renzi e Berlusconi al largo del Nazareno hanno siglato un accordo segreto sulla svendita di Raiway (che è tuttora della Rai, ndr) al gruppo Mediaset. Una ruberia. Ma noi ci opporremo».
Frase numero otto: «Denuncio, denuncio e ancora denuncio quello che sta accadendo sotto gli occhi indifferenti di tutti: la svendita del bene pubblico Raiway a Mediaset».
Frase numero nove: «Ci troviamo di fronte a plurime violazioni della legge e a una evidente ed ingiustificata predilezione del governo Renzi nei riguardi di Mediaset».
Frase numero dieci: «Mediaset è una azienda italiana e come tale va tutelata. È strategica nel campo delle telecomunicazioni applicate alle comunicazioni e il paese deve fare delle norme per tutelare queste aziende». Bene, che differenza c' è fra le prime nove frasi e la decima? Che le prime nove sono state pronunciate negli ultimi sette anni da Roberto Fico e la decima è stata pronunciata l'altro giorno da Roberto Fichissimo.
Paolo Bracalini per “il Giornale” il 3 dicembre 2020. Stavolta, dopo tanti anni in cui gli è andata bene, dovrà preparare gli scatoloni e bussare ad una agenzia immobiliare, come fanno milioni di italiani senza santi in paradiso. Emanuele Dessì, il senatore M5s con megastipendio parlamentare e alloggio popolare dovrà cambiare casa. Quella nel pieno centro di Frascati, abitata a lungo anche al ridicolo canone di 7 euro al mese, destinata come edilizia residenziale pubblica a persone in condizioni economiche disagiate, non può essere certo occupata da un senatore con oltre diecimila euro al mese di stipendio. Un'ovvietà che sembrerebbe lapalissiana, ma che in Italia, specie quando ci sono di mezzo i grillini, non lo è affatto. Infatti solo dopo che è diventato un caso nazionale grazie al Giornale, e poi indagato anche dalla troupe di Fuori dal Coro, il Comune di Frascati si è finalmente svegliato e si è accorto dell'anomalia e dell'ingiustizia del caso Dessì, il grillino così vicino al popolo da occupare una casa popolare. Molti cittadini indignati dal privilegio del senatore Cinque Stelle (quelli dell'anticasta, solo a chiacchiere però) hanno chiesto spiegazioni e il Comune di Frascati ha dovuto darle, nella persona del vicesindaco nonchè assessore al Bilancio e Patrimonio, Claudio Gori. La risposta è che presto Dessì dovrà traslocare, perché il suo reddito è incompatibile con i parametri richiesti per avere diritto ad un alloggio popolare. La legge regionale in materia, infatti, prevede che il limite di reddito previsto per quelle case «possa essere superato per non più di due anni». Come è ovvio, se l'inquilino di una casa popolare risolve, per qualsiasi motivo, la propria situazione di difficoltà economica e passa ad un reddito più elevato dello standard previsto, se ne deve andare. Il limite temporale è due anni, abbondantemente scaduto per Dessì che già dal marzo 2018 percepisce il lauto compenso da senatore della Repubblica. Finora il Comune di Frascati, di cui è stato consigliere comunale, non gli ha certo messo fretta, e probabilmente la sua speranza era che l'avviso di «sfratto» non arrivasse mai, perchè l'immobile rientra in un piano di dismissioni, che procede anche quello con tempi biblici come spesso nell'amministrazione pubblica italica. Invece stavolta il vicesindaco ci ha messo la faccia e l'impegno, «gli uffici comunali stanno verificando il possesso dei requisiti reddituali, saranno applicati tutti i provvedimenti, siamo ampiamente nei termini di legge per comunicare eventuali decadenze». Quella di Dessì si intende, già fuori tempo massimo. Con i soldi messi da parte in cinque anni di legislatura (se durerà fino al 2023), il senatore grillino potrà tranquillamente comprarsene una. E diventerà così un piccolo proprietario immobiliare, quelli che proprio lui vorrebbe colpire con l'emendamento «salva-furbetti dell'affitto», finalizzato ad impedire ai proprietari di tornare in possesso di casa propria occupata da inquilini che non pagano, vietandone lo sfratto. Un esproprio, una follia da regime venezuelano. Quasi quanto un senatore da 100mila euro di reddito in una casa popolare.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 23 novembre 2020. "i grillini governano senza trasparenza. La Azzolina che nasconde i dati del suo concorso. Bonafede che ha liquidato Di Matteo e scarcerato i boss. Patuanelli che incontra Castellucci con una senatrice ex assistente di volo e quindi esperta di Alitalia. La Castelli che andrebbe bene per dare ripetizioni serali a ragioneria. Un gaffeur come Di Stefano. Di Maio che inciucia, rinnega, si accoda, piazza i suoi uomini" (Gianluigi Paragone, senatore ex M5S , ora leader di Italexit, La Verità, 16.11). E dimentica la più bella: quei dementi hanno fatto eleggere addirittura Paragone.
Fabio Rubini per “Libero quotidiano” il 23 novembre 2020. «Il Movimento Cinquestelle è una truffa politica e vi spiego perché». L' accusa, pesante, è di Gianluigi Paragone deputato ex grillino, oggi leader di Italexit, «l' unico movimento politico che vuole davvero l' uscita dell' Italia dall' euro».
Paragone, nell' elencare le nefandezze dei pentastellati partiamo dalla fine, dal "caso Morra" e da quelle parole davvero inaccettabili su Jole Santelli e la sua malattia. L' ha fatta davvero grossa non crede?
«Le parole di Morra sono semplicemente offensive. Seguendo il suo ragionamento Gianroberto Casaleggio, che aveva un tumore al cervello, sarebbe stato inabile a gestire il Movimento Cinquestelle, e quindi non sarebbe nemmeno dovuto nascere. E questa è solo una delle cento contraddizioni di Morra».
Parla degli attacchi ai cittadini calabresi?
Gli stessi che solo un paio d' anni prima avevano votato in massa M5S?
«Se lui in causa i cittadini in una specie di responsabilità oggettiva, allora che lui è corresponsabile di un governo che ha finito per difendere i Benetton, per difendere Profumo condannato per i bilanci di Montepaschi o Descalzi sotto inchiesta per le mazzette Eni. E poi Morra è un ipocrita anche quando attacca la Lega che ne chiede le dimissioni».
Perché?
«Perché finge di dimenticare che è diventato presidente della Commissione Antimafia proprio grazie ai voti della Lega. Il Carroccio gli fa schifo? Si dimetta dal suo incarico. E così facciano tutti quelli che, nel Movimento, hanno ottenuto una poltrona grazie all' alleanza con Salvini».
Seguendo il suo ragionamento, però, Morra è solo la punta dell' iceberg del problema grillino, corretto?
«Vogliamo parlare di Patuanelli? Come può rifarsi alla trasparenza predicata da M5S un ministro che incontra in segreto Castellucci, perno degli affari della famiglia Benetton? E la cosa più grave è che tutti noi siamo venuti a conoscenza di questi colloqui solo grazie alle intercettazioni.
Almeno Di Maio l' aiuto ai Benetton per salvare Alitalia lo ha chiesto alla luce del sole. Non che abbia fatto una figura migliore, anzi direi che era proprio un controsenso visto che chiedeva la revoca delle concessione autostradali, ma almeno non lo ha fatto di nascosto».
Anche sulla vicenda legata alla clausola salva Mediaset il ministro per lo sviluppo poteva fare meglio non crede?
«Ha semplicemente "mentito". Per togliersi dall' impiccio ha spiegato pubblicamente che quella clausola è stata "voluta dall' Europa". Poi però il ministro dell' Economia si è precipitato a chiamare l' ad di Vivendì, che minacciava una denuncia in sede europea contro l' Italia, per spiegargli che quella norma sarebbe solo temporanea».
Recentemente l' Europa ha condannato il nostro Paese per i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione. Anche qui Patuanelli ha più di una responsabilità...
«Anche questa vicenda è rivelatrice dell' incredibile ipocrisia dei grillini. Pensate solo che parte dei soldi per questi pagamenti sono stati usati per rimpinguare le casse del decreti ristori bis. Una scelta che le Pmi pagheranno carissima. Queste categorie sono state abbandonate dal governo. Dicono che vogliono salvare l' italianità delle imprese, ma in Francia hanno rinviato il black friday di Amazon per non fare concorrenza sleale ai piccoli commercianti; qui non hanno mosso un dito».
Una volta finita l' emergenza Covid, bisognerà fare i conti con la crisi economica.
«Servirà un giubileo fiscale, perché avanti di questo passo la situazione non potrà tenere ancora a lungo».
Onorevole, un altro esponente Cinquestelle che lei critica spesso è Roberto Fico. Recentemente il presidente della Camera è tornato a parlare di acqua pubblica...
«Sì, peccato che la legge sia bloccata proprio alla Camera che lui presiede. E che il Forum sull' acqua pubblica, stanco di aspettare, un anno fa abbia restituito la "stella" a Beppe Grillo. Del resto Fico è quello che appena eletto si faceva fotografare sul bus. Perché non ci andava con la pandemia in corsa a vedere la folla nelle ore di punta? Forse si è abituato alle auto blu. Come Patuanelli che vive al Mise e ha bloccato la mia battaglia sulle bollette di luce e gas. Forse perché lui a Roma non le paga? Per non dire del ministro Bonafede che non ha ancora chiarito del tutto la vicenda Nino Di Matteo. O della Azzolina che nega la trasparenza sugli atti del suo concorso».
Tutti questi episodi messi in fila a che conclusione portano?
«Che i Cinquestelle sono i cani da guardia del sistema, del loro conto in banca e delle loro pensioni future. Gente che ha completamente tradito gli ideali inziali del Movimento. Una vera truffa politica».
Chiudiamo con la sua Italexit. Pescherà voti dai delusi Cinquestelle?
«Sì. La gente non si farà più fregare dai grillini. Ormai da destra a sinistra sta crescendo il malcontento verso l' Europa. Quindi Italexit punta ad intercettare voti in maniera trasversale».
Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 6 dicembre 2020. Niente da fare. Beppe Grillo si è rimesso i panni del guastatore. O, per meglio dire, si è calato di nuovo nella parte di chi, del resto, prima che capo politico è stato capo-comico anti-tutto. Così, adesso, eccolo in versione «Te lo do io il Mes». È più forte di lui: periodicamente - e fragorosamente - il fool e il trickster riaffiorano, e spaccano ogni cosa (come succedeva ai malcapitati pc di certi suoi vecchi show). Grillo vs. Grillo. Grillo bifronte. E questo è lo stesso Grillo che, pochi mesi fa, aveva detto di non credere al Parlamento (da sostituire con il consueto feticcio della «democrazia diretta»). E dire che questo dovrebbe essere il momento della responsabilità. Invece, uno dei massimi influencer dell'esecutivo si inventa un veto sovranista. Non così diverso, nei fatti, da quello dei due Paesi del Gruppo di Visegrad.
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 5 dicembre 2020. La Mes è finita, andate in pace. Beppe Grillo l'Elevato è pronto a ogni evenienza e, di fatto, autorizza i suoi a un liberi tutti sull'ex Fondo Salva Stati. Grillo dice e non dice, parla sempre dell'utilizzo del Mes «sanitario» e mai del voto sulla riforma dello strumento europeo, eppure la sua articolessa rischia di mandare all'aria la mediazione dei governisti in vista della prova parlamentare del 9 dicembre. «Così legittima la lettera dei "sovranisti" e mette in difficoltà il governo», dicono i pontieri grillini. E la lettera in questione è quella firmata mercoledì da sedici senatori e una quarantina di deputati del M5s, in cui i ribelli minacciano di non votare la risoluzione sulla riforma del Mes, che mercoledì sarà alla prova dell'Aula del Senato. Una ipotetica spaccatura dei pentastellati farebbe mancare la maggioranza al governo. Ma cos' ha detto Grillo? «La Mes è finita», appunto. Questo è il titolo del post comparso in mattinata sul Blog. Per Beppe il Mes è «uno strumento non solo inadatto ma anche del tutto inutile per fare fronte alle esigenze del nostro Paese in un momento così delicato». Il messaggio in bottiglia sembra un richiamo della foresta per i comunisti nostalgici delle origini. Infatti le soluzioni indicate dal Garante per dribblare il ricorso al Mes sono «Far pagare l'Imu e l'Ici non versata sui beni immobili alla Chiesa» e «Una patrimoniale ai super ricchi», per i patrimoni al di sopra dei 50 milioni di euro. Fuoco per le polveri delle divisioni interne. Che esplodono come una mina sulla maggioranza durante l'assemblea congiunta convocata in serata. La zuffa su Zoom la apre Vito Crimi. «La riforma del Mes non ci piace, certo, ma ho detto che non faremo ostruzionismo», ribadisce il capo politico dettando la linea ufficiale sul voto di mercoledì prossimo. Crimi dà un colpo al cerchio e uno alla botte dei ribelli, provando a tranquillizzarli: «Con noi al Governo il Mes non sarà mai attivato», dice in riunione. Poco più tardi il capodelegazione al governo Alfonso Bonafede attacca i firmatari della famigerata lettera anti-Mes: «È stata un grave errore, ha indebolito il M5s davanti agli altri partiti alleati». Il Guardasigilli viene descritto come uno dei più contrariati dal documento, insieme a Crimi che denuncia il metodo «della conta. Luigi Di Maio lancia una sorta di ultimatum: «Chi non voterà quella risoluzione voterà contro il Presidente del Consiglio dei Ministri e il suo Governo che viene in aula a chiedere la fiducia del Parlamento per andare in Europa anche a trattare lo sblocco dei fondi del Recovery fund. Lo trovo francamente folle e irresponsabile». Nel rodeo in streaming poi è la volta dei ribelli «sovranisti». La deputata Manuela Corda sbotta: «Questo è fascismo!». Il suo collega Francesco Forciniti stacca il collegamento urlando: «A Bonafede e Di Maio avete dato mezz' ora senza contraddittorio per fare comizi, senza dati ma esprimendo solo la loro opinione. A noi non ci fate nemmeno parlare. Allora non ve la voto (la risoluzione, ndr)! Ciao». Anche il senatore Mattia Crucioli minaccia di votare contro il 9 dicembre. Il finale dell'assemblea è incandescente. Tanto che perfino l'agenzia di rating Fitch esprime preoccupazione per un dibattito interno al M5s che «potrebbe essere fonte di instabilità per il governo nei prossimi mesi». Ma i governisti mostrano i muscoli: «Alla fine voteranno contro o non voteranno i soliti matti», dice al Giornale un deputato grillino di lungo corso. Staremo a vedere.
Maurizio Belpietro per “la Verità” l'8 dicembre 2020. Non so se il governo di Giuseppe Conte cadrà a causa del Mes: conoscendo i miei polli, cioè gli onorevoli che razzolano in Parlamento, dubito che abbiano voglia di finire in padella, cioè di sacrificare la loro carriera politica in nome di un principio di coerenza. Come ha mandato a dire Sergio Mattarella, se l'esecutivo non riesce a far approvare la riforma del Fondo salva Stati deve gettare la spugna. Il che tecnicamente non è affatto vero, anzi è una grossa balla che il Quirinale ha messo in circolo per dare una mano a Giuseppi. Tuttavia, pur non essendoci alcun obbligo di dimissioni, credo che la minaccia del Colle sortirà l'effetto voluto, cioè ricondurrà a più miti consigli i ribelli pentastellati e così l'avvocato di Volturara Appula potrà continuare a cincischiare a Palazzo Chigi. Ciò detto, in attesa di vedere ciò che accadrà domani e cioè se ancora una volta i grillini saranno costretti a rimangiarsi la parola con cui si sono presentati agli elettori, permettetemi di fare un passo indietro e di ritornare alle elezioni di tre anni fa. Lo so che il 2018 sembra un'era geologica lontanissima, però credo che riprendere tra le mani il programma con cui il Movimento 5 stelle si presentò agli italiani sia utile per capire chi stia imbrogliando chi. Tranquilli, non ho intenzione di ripassare a uno a uno i venti punti-qualità che Grillo e compagni avevano messo nero su bianco promettendo di migliorare la vita degli italiani. Mi basta ricordare il documento che gli elettori dei 5 stelle votarono in vista delle ultime elezioni politiche. A ogni iscritto del Movimento fu consentito di scegliere tre argomenti che dovevano far parte del programma e tra i 23.481 votanti che parteciparono alla consultazione, 6.589 indicarono tra i punti fondamentali lo «smantellamento della Troika». Sotto questo titolo si potevano leggere nel dettaglio le azioni desiderate dagli elettori e promesse dai grillini nel caso fossero entrati in Parlamento: «Il Movimento 5 stelle si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da "riforme". In particolare, si impegnerà allo smantellamento del Mes (Fondo salva Stati) e della cosiddetta "Troika", organismi sovranazionali che hanno appaltato la democrazia delle popolazioni imponendo, senza nessun mandato popolare, le famigerate "rigorose condizionalità"». Il testo, così come l'ho riportato, apparve sul Blog delle stelle, ossia sul sito ufficiale del grillismo, quello, per intenderci, su cui vengono pubblicate tutte le cose benedette dall'Elevato. Del resto, anche di recente il comico genovese si è schierato contro il Mes, così come contro il Fondo salva Stati negli ultimi due anni si sono pronunciati tutti i parlamentari grillini. Però ora il Mes, così come la Tav, il Tap e tante altre cose perse per strada in nome della Realpolitik, ossia per evitare le elezioni, deve essere approvato. Ne va del nostro rapporto con l'Europa, spiegano quelli del Pd, che ormai sono talmente allineati con la Germania che potrebbero cambiare nome e invece di Partito democratico chiamarsi Pro Deutschland, sostituendo, già che ci sono, il ramoscello d'ulivo con un'aquila tedesca. Ne va della nostra faccia, replicano i sempre più sparuti grillini che non si rassegnano al voltafaccia. Sta di fatto che il partito che in principio si unì a Nigel Farage, il politico inglese a favore della Brexit, oggi fa a gara per accreditarsi come il più europeista di tutti. Da quando Giggino Di Maio è diventato ministro degli Esteri, cioè gira il mondo invece di occuparsi delle aziende a rischio come fece nel primo governo Conte, ogni cosa è cambiata, in particolare sul Mes. Sì, quella che era una questione irrinunciabile del programma, al punto che alle Camere si votarono delle risoluzioni per legare le mani al governo e impedirgli di firmare un sì alla riforma, adesso è diventato rinunciabilissimo. Anzi, chi ancora tentenna sull'approvazione delle nuove regole del salva Stati rischia l'espulsione. Un ribaltamento dei ruoli che se non ci fossero di mezzo i soldi e il futuro degli italiani susciterebbe ilarità. Purtroppo per noi, su questa faccenda non c'è nulla da ridere, in quanto per come sono messe le cose si rischia che alla fine non solo il Parlamento autorizzi Conte a sottoscrivere le nuove regole, ma addirittura questo passaggio rafforzi il governo, consentendogli di arrivare al famoso semestre bianco, cioè all'elezione del presidente della Repubblica. Con il risultato che i compagni, dopo averci indebitato per bene, regalando un po' di miliardi alle banche straniere (la riforma del Mes serve a quello, non a rilanciare il Paese), potranno scegliersi un capo dello Stato su misura. Conclusione inevitabile: c'è chi, per non perdere la poltrona, è pronto a perdere la faccia e anche la dignità.
Umberto Rapetto per infosec.news il 25 novembre 2020. Giornata terribile quella di oggi, anche se non ci sarebbe bisogno di una specifica ricorrenza per rammentare la nostra bestialità. Le statistiche – tanto di moda di questi tempi – non rassicurano e le tendenze non lasciano spazio a grandi speranze perché la situazione cambi. I leader politici si accalcano a rilasciare dichiarazioni, a fare buoni propositi, a raccontare di sinergie istituzionali per contrastare certi crimini, a predicare che nessuno verrà perdonato per simili infamie. Quando si spegneranno i riflettori, chiacchiere e proclami finiranno in un cassetto per esser tirati fuori l’anno prossimo oppure per esser sventolati al verificarsi del prossimo episodio drammatico. Sarei curioso – e credo di non esser l’unico – di sentire la voce del capo supremo della compagine che alle ultime elezioni politiche ha guadagnato il maggior numero di consensi e che, quindi, più rappresenta(va) la gente di questo Paese. Il blog della guida carismatica del Movimento 5 Stelle riporta qualche articolo che tratta il delicato argomento e in uno di questi si dice che occorre “porre l’accento sulla necessità di azioni che mirino prima di tutto alla prevenzione, quindi inevitabilmente alla promozione della Cultura della non-violenza nel senso più ampio del termine e della figura della donna nella società”. Il testo, firmato dagli attivisti siciliani, segue di pochi giorni un appello (sempre sullo stesso sito web) che invita ad un passaparola perché ci sia tolleranza zero per la violenza contro le donne. I due link risalgono al 2012 e sembra difficile trovare qualcosa di effettivamente interessante successivo a tale data. Fanno eccezione – nel 2013 – un articolo dall’altisonante titolo “Il tanfo dei partiti sul decreto Femminicidio” e la notizia di un Protocollo d’Intesa tra la Provincia di Venezia e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, per l’attività di consulenza legale gratuita alle donne vittime di violenza (iniziativa non emulata nella provincia di Olbia-Tempio). Magari l’orientamento sul tema è cambiato con il passare degli anni. I “cittadini”, allora, forse si aspettano dal taumaturgico “Elevato” un tweet o un videomessaggio, magari lanciati con la stessa effervescenza con cui si commentavano i discussi e discutibili Bunga Bunga di altri personaggi per i quali, però, non si è mai parlato di “violenza”.
Da male assoluto a bene da proteggere: il “sì” a Mediaset è il punto di non-ritorno del M5S. Marzio Dalla Casta martedì 17 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Una volta superato, è impossibile tornare alla stato iniziale: così gli esperti definiscono il punto di non ritorno. Esattamente quello doppiato dal M5S nel momento in cui ha detto “sì” all’emendamento che corazza Mediaset contro le incursioni dei francesi di Vivendi. A questo punto, tutto è possibile. Persino il ripristino dei vitalizi o della prescrizione. Già, perché per i Cinquestelle nulla è più identitario dell’avversione al Biscione e al suo Padrone. In fondo è da lì che discendono. È quello il loro brodo primordiale, sapientemente versato nei talk-show dai vari Santoro, Travaglio, Gomez e altra compagnia ospitante. L’inciucio come sinonimo di accordo inconfessabile, al limite dell’illecito, l’hanno coniato loro. Non tanto in odio al Cavaliere, che pure non mancava, quanto per fottere il Pd. Abbattere il Dalemoni, mostruoso impasto tra D’Alema e Berlusconi, era il loro scopo di vita. L’aveva inventato Gianpaolo Pansa. Ma il club dei sinistri puri e duri ne fece la lettera scarlatta con cui marchiare a fuoco quelli che additava come i bavosi reggicoda del Signore di Arcore. «Con gente così non vinceremo mai», sentenziò il girotondino Nanni Moretti, incompreso precursore del grillismo. Che nacque proprio sull’onda di una radicalità anti-Mediaset non più cavalcata dalla sinistra ufficiale. Il sogno di un terzo polo riguardava prima la tv e poi il Parlamento. L’avvento dei social ha invertito la scaletta. È sorto solo quello politico, sotto forma di M5S. E siamo all’oggi con un Di Maio che sguaina la spada a difesa dell’italianità del Biscione. Fa bene, s’intende, non fosse altro per rendere la pariglia a chi non esitò ad espellere dal panorama televisivo francese la berlusconiana Le Cinq solo perché italiana. Ma dovrebbe ricordare che solo quattro anni fa il M5S diffidò Gentiloni dall’assumere decisioni a tutela del gruppo di Cologno Monzese. Che cosa è cambiato da allora ad oggi? Certo non Mediaset né il «pregiudicato» Berlusconi. E neppure Forza Italia, che resta il «partito fondato da un mafioso», come piace ripetere a Di Battista. È solo il conto (salato) che l’illusione si paga alla realtà. La narrazione grillina – l’Italia corrotta, la Casta, i professionisti della politica, la scatoletta di tonno – si è rivelata falsa e ingannatrice. È roba che Di Maio poteva permettersi quando faceva lo steward al San Paolo. Ora non più. Da stadista a statista, si sa, il passo è tutt’altro che breve.
Il M5s nega la libertà di stampa. Lucaselli (Fdi) a valanga sul caso Castelli. Il Corriere del Giorno il 20 Luglio 2020. Il sottosegretario del Movimento 5 Stelle, Carlo Sibilia, anziché invitare la sua compagna di partito e viceministro Laura Castelli a non dire sciocchezze in televisione contro i ristoratori “”Se i ristoranti non hanno più clienti, debbono cambiare mestiere”, ha attaccato i giornalisti del quotidiano Il Tempo, diffondendo un’autentica menzogna, accusandolo di aver diffuso una notizia falsa. Che invece era vera! La deputata Ylenja Lucaselli di Fratelli d’Italia non usa mezze misure. Ed attacca il M5S sul caso Castelli, per l’atteggiamento vessatorio sulla libertà di stampa. “Da parte del Movimento 5 Stelle è arrivata un`altra sagra della mistificazione“. “Se i ristoranti non hanno più clienti, debbono cambiare mestiere“. È l’ultima idea del governo di Giuseppe Conte, un po’ infastidito delle lamentele dei commercianti, commento manifestato dalla Castelli intervenendo al Tg2 Post. Il sottosegretario Carlo Sibilia, specialista in spericolati infortuni anziché invitare il suo viceministro Laura Castelli a non dire sciocchezze in televisione contro i ristoratori, ha attaccato il quotidiano Il Tempo, diffondendo un’autentica menzogna, accusando il quotidiano romano diretto da Franco Bechis di aver diffuso una notizia falsa. Notizia che invece è assolutamente vera, in quanto la Castelli ha invitato i ristoratori a cambiare mestiere. Probabilmente lo deve fare anche Sibilia. “Il viceministro Castelli ha pronunciato parole gravissime su un settore, quello della ristorazione, messo in ginocchio dai contraccolpi del Covid. E che rappresenta l`ossatura della tradizione italiana, nella sua gastronomia e nell’ eccellenza ricettiva. In pratica, l’esponente pentastellata ha invitato cordialmente quella parte della categoria che si trova in difficoltà ad orientarsi su un altro business”. ha aggiunto l’on. Lucaselli. Ferma la protesta dei ristoratori italiani con una lettera aperta al viceministro Laura Castelli firmata da numerose associazione tra cui Movimento Impresa Puglia: “Se si sbagliano i tempi ed i modi si fa danno. Per noi il commento del viceministro al servizio mandato in onda dal TG2 è bocciato. Non siamo più disposti a scusare, a capire o giustificare. Siamo diventati intolleranti a questi scivoloni televisivi che mettono alla gogna mediatica un intero comparto». “Ci hanno dato dei pigri, dei rivoluzionari, multati e adesso anche degli incapaci. Tutti questi appellativi non appartengono alla nostra categoria che rappresenta un importante colonna economica italiana (13% del Pil). I ristoratori non hanno mai chiesto clienti al Governo, hanno chiesto sostenibilità per le riaperture” conclude la lettera.
Il fallimento della propaganda del Movimento 5 Stelle, il ponte di Genova resta ai Benetton. Giulio Seminara su Il Riformista il 9 Luglio 2020. A Genova ieri è crollato un altro ponte, stavolta piccolo e invisibile: la già traballante passerella politica di chi cavalcava insieme dramma, rabbia, demagogia, farsa, cinismo e ragion di Stato. Improvvisamente caduta per l’eccessivo peso della realtà, che prima o poi arriva sempre e precipita tutto il resto. Una sola vittima: il populismo di para-governo del Movimento 5 Stelle, costretto dal diritto e da un proprio fallimento a dare incarichi ai tanti odiati “mostri” e a essere ferocemente contestato dalla gente ferita al quale ha invano e frettolosamente promesso in pompa magna una vendetta camuffata da giustizia. Ieri la ministra democratica delle Infrastrutture Paola De Micheli ha annunciato che il nuovo Ponte Morandi sarà gestito -temporaneamente- da Autostrade (Aspi), l’azienda controllata dalla famiglia Benetton e sulla quale pende da quasi due anni la minaccia della revoca delle concessioni autostradali italiane. Il nuovo viadotto genovese, realizzato a tempo di record grazie anche alla nomina a commissario speciale del sindaco di Genova Marco Bucci, sostituisce il vecchio ponte Morandi, crollato improvvisamente il 14 agosto del 2018 in una tragedia che è costata la vita a 43 persone. L’azienda Autostrade è stata ritenuta responsabile dell’incidente per mancata manutenzione da un pezzo dell’opinione pubblica e dal Movimento 5 Stelle -all’epoca al governo in coabitazione con la Lega- che da quel ferragosto parla dell’Aspi e dei Benetton alla stregua di sabotatori di viadotti e pericolosi nemici dello Stato ai quali “revocare immediatamente” la concessione sulle nostre autostrade e “ridurre i profitti perché è giusto così”. Questo capodanno il ministro degli Esteri Luigi Di Maio inaugurava il 2020 definendosi “non tranquillo” a causa di «quei signori (i Benetton, ndr) che non hanno mantenuto il ponte Morandi e che ora gestiscono 3 mila chilometri», Peccato che appena ieri la ministra De Micheli abbia dichiarato che il neonato viadotto, fondamentale per liberare le stressatissime linee interne liguri, necessita di una verifica di agibilità e di controlli necessari per mettere nero su bianco il via libera all’apertura del traffico, prevista per l’inizio di agosto. E chi dovrebbe compiere questo ultimo collaudo del nuovo ponte? L’azienda che lo gestisce, cioè la tanta vituperata Autostrade. È il diritto, la necessità di riaprire il traffico ligure il prima possibile, la paura di un nuovo e dispendioso contenzioso, la realtà. La ministra cita “un’ipotesi di revoca” ancora vigente ma il paradosso è servito: il governo di cui fa parte quel Movimento 5 stelle che in questi due anni ha attribuito, ancora prima che lo facciano i tribunali, ai Benetton e ai dirigenti di Autostrade la responsabilità indiretta del crollo del ponte e della morte di 43 persone, affida adesso la manutenzione del nuovo ponte a questi stessi “mostri”. Così vuole il regolamento: la gestione del viadotto è prerogativa del suo concessionario, Autostrade. E sarà così fino alla fantomatica revoca, annunciata tante volte dai pentastellati. L’annuncio di ieri ha solo ribadito l’ovvio e il già noto. Ne prende atto il premier Conte: «È una situazione paradossale, ma attualmente i concessionari sono loro, dovremo intervenire in settimana». Anche se nell’estate 2018 lo stesso premier, all’epoca alleato della Lega, diceva: «Non possiamo aspettare la giustizia penale, dobbiamo fare viaggiare i cittadini in sicurezza, attuando subito la revoca». Non si dà pace invece il reggente pentastellato Vito Crimi: «Il ponte di Genova non deve essere riconsegnato ai Benetton, questi irresponsabili devono ancora dare conto di quanto è successo. Il Movimento non arretra di un millimetro», in un tweet quasi auto-ironico. Il Pd è in imbarazzo, per un problema creato dagli alleati. Il governatore ligure Giovanni Toti, ricandidato alle regionali di settembre, infierisce: «Voi ridate il ponte ad Autostrade senza ottenere nulla. Per la tragedia del Morandi e per le sue 43 vittime nessuno ancora ha pagato. Mentre a Roma litigavate, noi in Liguria almeno abbiamo ricostruito il ponte. Forse abbiamo ringhiato meno di voi… ma visti i risultati…». Ma soprattutto fa rumore la rabbia dei familiari delle vittime, quelli che il Movimento 5 stelle ha coccolato e illuso per due anni, annunciando spesso e con fare solenne da giustiziere e il volto cangiante ora di Conte, ora di Di Maio, ora dell’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, “giustizia per le vittime di Genova”, “strade sicure in tutta Italia” e la “revoca immediata” delle concessioni per Autostrade, una sorta di vendetta a mezzo business. Il presidente dell’associazione “Quelli del Ponte Morandi” così si è espresso: «Siamo rimasti basiti, siamo stati due anni a sentire che quel ponte lì veniva ricostruito e non sarebbe più stato gestito da Autostrade. E noi ci abbiamo creduto». Egle Possetti, presidente del Comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi, invoca la “revoca immediata della concessione” e «notizie certe dal Governo entro la commemorazione del 14 agosto». Davanti a questa amarezza torna in mente l’immagine di Luigi Di Maio al governo e vice-premier da poco, applauditissimo -insieme a Matteo Salvini- due anni fa a Genova ai funerali delle vittime del crollo. L’ovazione a lui tributata coincideva con la speranza legittima e grossolana che il Movimento 5 stelle (e un po’ anche la Lega) finalmente al potere avrebbe elargito giustizia al popolo, inteso come deboli e offesi, contro i soliti ricchi e profittatori che stavolta non avevano rese sicure le nostre infrastrutture. E che l’avrebbe fatto subito e in barba al tempi lenti del diritto, ai compromessi della politica e dell’economia, alla ragion di Stato, alla realtà. Non è andata così. A Roma i pentastellati dopo aver promesso per anni la forca -tramite revoca delle concessioni - dei Benetton si adeguano obtorto collo al diritto e al business. Intanto la Consulta, giudica “non fondate” le questioni di legittimità sollevate dal Tar Liguria sulle norme del decreto Genova che hanno previsto l’esclusione di Aspi dalla ricostruzione del viadotto Polcevera. Legittimo, insomma escludere i Benetton dalla ricostruzione, a causa della “gravità della situazione”. Passo che però cambia la storia di dietrofront e battaglie (perse) dai grillini sulla Tav, la Tap e l’Ilva. Il colorito botta e risposta indiretto tra Toninelli e Salvini su chi tra M5S e Lega ha “protetto” Autostrade e impedito la revoca la dice lunga su quanto forse fossero prematuri quegli applausi al funerale. E quanto invece complicato sia governare. Ieri a Genova è caduto un secondo ponte, ma probabilmente era solo una passerella dalla quale qualcuno ha promesso miraggi e vendetta a gente disperata. E non è successo solo lì negli ultimi tempi. Che la (drammatica e complessa) realtà sia di lezione.
Fabrizio Roncone per corriere.it il 14 giugno 2020. Il personaggione di questa storia è un amico di Luigi Di Maio e stavolta non arriva a Roma con il solito charter che parte da Pomigliano d’Arco, ma viaggia in business class dalla Mississippi State University (non dimentichiamoci che Di Maio è anche ministro degli Esteri). Il personaggione un curriculum ce l’ha, sebbene pure lui inciampi sui congiuntivi («Io però ho la scusante di pensare in inglese», oh yeah).
Il personaggione: Domenico Parisi detto «Mimmo» o «Cowboy», 54 anni, guru italoamericano del reinserimento nel mondo del lavoro. L’incarico: guidare l’Anpal, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro, e realizzare quindi la parte finale del visionario progetto pentastellato, trovare un posto a chi percepisce il reddito di cittadinanza utilizzando i famosi tremila «navigator».
Problemino: queste creature mitologiche sono da tre mesi ferme ai bastioni di Orione, anche se prendono un regolare stipendio (1.700 euro netti) e pure i famosi 600 euro di bonus previsti per la crisi Covid; la app che dovrebbero usare, infatti, non c’è, non esiste, sebbene valga 25 milioni di soldi pubblici. In un Paese normale qui la storia dovrebbe finire. Dimissioni in serie, e una procura che magari s’incuriosisce. «Anche perché — dice Mimmo Parisi — a me risulta che sui sistemi informativi di milioni ne sono stati impegnati 80, e mi chiedo: che fine hanno fatto?» (starete pensando: scusa, ma non sei tu il capo? Giusto. Però tra un po’ capirete perché questo professore originario di Ostuni, Brindisi, è davvero un personaggione). La storia non si chiude allora proprio per niente. Anzi: in pochi giorni, tre lettere partite da due dirigenti di Anpal e dalla Commissione Lavoro della Conferenza delle Regioni attaccano Parisi sulla mancata rendicontazione delle sue spese personali: oltre 160 mila euro.
Per capirci: 71 mila euro per viaggi Roma-Mississippi in business class; 55 mila euro per noleggio auto con autista; 32 mila per un appartamento ai Parioli; 5 mila per spostamenti in Italia; 3 mila per pasti.
Adesso: vi ricorderete di quando Beppe Grillo, con le vene di fuori, imprecava contro gli sprechi, e poi del grande Di Battista, che per sembrare sobrio arrivava ai comizi grillini tutto piacione con il casco del motorino, o della senatrice Taverna, che si alzava nell’emiciclo di Palazzo Madama e urlava verso i banchi di Forza Italia — dove i Rolex sono piuttosto diffusi: «A zozzoniiiii!». Poi però Luigi Di Maio, da ministro del Lavoro, alza il telefono e chiama in Mississippi.
(Presidente Parisi, lei spende molto.
«Io spendo quello che mi spetta!».
Di Maio predicava misura nelle spese.
«Luigi può dire ciò che vuole. Io mica posso andare al lavoro a piedi…».
L’autista costa 55 mila euro l’anno.
«E allora? Il mio predecessore spendeva la stessa cifra. In più, era scortato. Io pure avrei potuto pretendere la scorta, ma ho rinunciato».
Lei viaggia in business class: 71 mila euro, solo nel 2019.
«Mia moglie vive negli Usa, questo Di Maio lo sapeva. Mica posso separarmi. Comunque: per rotte sopra le 5 ore, la legge è chiara, ho diritto alla business class».
In un’audizione alla Camera, lei ha detto che è costretto a viaggiare in business per colpa del mal di schiena.
«Sono stato sciocco. Volevo giustificarmi: invece è un mio diritto viaggiare in business. Punto».
Quanto guadagna?
«Mhmm… circa 160 mila euro l’anno».
È vero che ha cercato di alzarsi il compenso a 240 mila?
«Certo! Con Di Maio erano questi i patti».
Può essere più preciso?
«Gli dissi: amico mio, io lascio la cattedra di una università prestigiosa, e non posso rimetterci. Me li date 240 mila euro? Mi rispose che non c’erano problemi. Invece poi lo stipendio è stato molto più basso. Però okay, dai, non fa niente» — il professore tende a dare del tu, come usano gli anglosassoni».
Professore, senta: e la app? Perché ancora non c’è?
«Bella domanda!».
Perché non c’è?
«E lo chiede a me?».
Lei non è il capo di Anpal?
«Altra bella domanda!».
Non la seguo.
«Certo che sono il capo, ma il direttore generale, Paola Nicastro, se ne infischia».
È lei che la blocca?
«Tutti mi bloccano. Il prototipo della App è pronto. Ma non mi fanno lavorare».
Sta dicendo una cosa grave.
«Sto dicendo la verità. Poi, certo: io lo capisco che lei è frustrato…».
No, guardi: io, francamente, non mi sento frustrato.
«Okay okay… scusi, è che penso in inglese. Non volevo dire frustrato, ma deluso»).
Scena politica: l’attuale ministro del Lavoro, la grillina Nunzia Catalfo, è a dir poco mortificata. Il Pd, con il vicesegretario Andrea Orlando, ha fatto capire che la situazione è insostenibile. La Lega ha chiesto le dimissioni di Parisi e della Catalfo.
Il personaggione: «Dimettermi? Io? Ma siete pazzi?».
Daniela Ranieri per “il Fatto Quotidiano” il 22 dicembre 2019. "Io non vorrei mai appartenere a un club che conta se tra i suoi membri uno come me". Gli iscritti al M5S di prima e seconda ora e di prima e seconda fila dovrebbero portare stampigliata questa frase di Groucho Marx cara a Woody Allen sulla maglietta della salute, se non proprio tatuarsela sul petto. Da anni ormai l' Italia politica è occupata dalle crisi di coscienza di un esercito di fuoriusciti o fuoriuscenti dal MoVimento; MoVimento in cui sono entusiasticamente entrati accettandone le regole e da cui fuoriescono per l' improvvisa scoperta di regole, o per una versione da saga fantasy del riflusso scismatico espresso dalla formula "io sono rimasto fedele al movimento delle origini, sono loro che sono cambiati". Nell' ormai famoso passaggio da spina nel fianco a partito di potere seppure sui generis, il M5S è cambiato molto, o per opportunismo (come quando ha votato contro l' autorizzazione a procedere nel caso Diciotti), o per non cambiare; ma in questo caso, si parva licet, è come se periodicamente un fedele si sentisse autorizzato ad aprire uno scisma nella Chiesa cattolica perché i preti si rifiutano di dire che il pipistrello è un uccello, come è scritto nella Bibbia. L' ultimo fuoriuscente clamoroso (in senso etimologico) è Gianluigi Paragone, un giornalista eletto senatore nel proporzionale (fu battuto dal leghista Candiani all' uninominale nella sua Varese) nel 2018, quando s' è accorto che "non potevo sempre rifugiarmi dietro il paravento dell' essere giornalista", il che implica viceversa che il giornalista che non si candida a niente si rifugia dietro il paravento dell' essere sé stesso, oppure che uno dei due non è un giornalista. Direttore della Padania nel 2005, quindi vicedirettore di Libero, poi, nel 2009, "cooptato in Rai su indicazione della Lega" (ipse dixit), conduttore populista e vicedirettore di Rai 1 e Rai2, infine nel 2013 domatore a La7 di ospiti tenuti in piedi in una specie di gabbia da circo a urlare davanti a un microfono enorme (metonimia della voce del popolo) la cosa più caciarona e provocatoria possibile, se si voleva essere invitati di nuovo. Ora Paragone, che già aveva minacciato di dimettersi in caso di accordo col Pd e si astenne dal voto di fiducia al Conte 2, spiega ai grillini com' erano i grillini delle origini, quando lui era della o per la Lega. Un indizio che forse applica il principio di Groucho Marx è il fatto che non si sia ribellato alle perdite di innocenza e alle compravendite dell' anima, tra le quali bisognerebbe mettere pure l' aver imbarcato gente della Lega e di averci fatto un governo, ma alle scelte più consone e naturali per il M5S , con la rilevante eccezione del voto contro il Tav, "un' opera antimoderna ordinata dal sistema", voluta dalla Lega in quanto "partito di sistema". Sicché fatalmente "il caso Paragone" è un caso M5S , dato che chi fosse Paragone si poteva apprendere consultando la sua opera omnia: L' invasione. Come gli stranieri ci stanno conquistando e noi ci arrendiamo (con Francesco Borgonovo, Aliberti, 2009); GangBank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita (Piemme, 2017); Noi no! Viaggio nell' Italia ribelle (Piemme, 2018); La vita a rate. Il grande inganno della modernità: soldi in prestito in cambio dei diritti (Piemme, 2019). La domanda è perché Paragone non se n' è andato al momento dell' accordo col Pd, sebbene avesse minacciato di farlo per tornare a fare il giornalista, pardon: a rifugiarsi dietro il paravento dell' esserlo. La crisi di coscienza scoppia ora, quando il M5S gli chiede di votare la fiducia su una Legge di Bilancio non abbastanza leghista, cioè una legge che Salvini si è guardato bene dal fare, inventandosi la crisi etilica del Papeete, e per votare la quale era comunque meglio stare nella Lega, contro l' Europa "cattiva, ingiusta, generatrice di conflitti sociali" (una cosa che non dice manco più Salvini, che vuole Mario Draghi al Quirinale). Siamo andati a controllare: il Codice etico prevede all' art. 3 l' obbligo di "votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle", a proposito di fedeltà ai princìpi. Il problema non è tanto che il M5S non è rimasto fedele a sé stesso, visto che tutte le infedeltà a sé stesso sono state commesse prima di oggi e soprattutto che la Legge di Bilancio bisognava pur farla, e farla col Pd, non con lo spettro nostalgico di Borghi e Salvini; bizzarro è che l' agnizione di essere sovranisti e anti-Ue avvenga ora, con altri tre senatori della Repubblica - tali Urraro, Grassi e Lucidi - che prendono cappello lamentando "la totale mancanza di democrazia" dentro il M5S , infatti vanno nella Lega dove comanda solo Salvini insieme ai suoi bestiofori, o bestiogeni, insomma i gestori della Bestia. Una transumanza che ha costretto Gian Marco Centinaio, ex ministro leghista, a una scrematura: "Abbiamo detto dei no? Certo, non prendiamo tutti. Alcuni non rientravano nei nostri standard", che è tutto dire. Altri dieci "grillini fedeli alle origini" sarebbero pronti a seguire Paragone per fare un gruppo-canaglia di sostegno e pressione psicologica al governo, tipo Italia Viva, al che si aprirebbe l' aporia di qualcuno che spiega ai Cinquestelle cosa sono i Cinquestelle diventando come Renzi.
· L’Onestà dei Grillini.
Estratto dall'articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it il 6 novembre 2020. (…) Marcello De Vito. Il quasi ex grillino arrestato per corruzione (provvedimento poi annulato dalla Cassazione) nell’inchiesta sullo stadio della Roma a Tor di Valle (già ippodromo di solenni mandrakate, ovvio), ma ora libero di presiedere l’assemblea capitolina. Candidato sconfitto nel 2013 e sindaco mancato nel 2016 (vittima di un raggiro interno, stile Manzotin), Marcellone ha avuto l’onore di aspettare il feretro di Proietti in piazza del Campidoglio. Era la carica istituzionale più alta in grado, disponibile in città. Con la fascia tricolore al petto, De Vito si è goduto, in diretta tv, il momento di visibilità più lucente di questa scalcagnata amministrazione. S’è ariconsolato cò l’ajetto, come avrebbe chiosato il sor maestro. (…)
M5S, la procura di Milano apre inchiesta sui fondi di Italia 5 Stelle trasferiti all'associazione Rousseau. La Repubblica il 3 novembre 2020. Nel 2017 il movimento organizzò una manifestazione a Rimini, l'avanzo di cassa di 120mila euro trasferito all'associazione di Casaleggio: a giugno l'avvocato dei dissidenti grillini aveva presentato un esposto. La Procura di Milano, secondo quanto apprende l'Adnkronos da fonti giudiziarie, indaga sulla vicenda dei 119.800 euro trasferiti dal 'Comitato eventi nazionali', già 'Comitato Italia 5 Stelle', che organizzò la festa di 'Italia 5 Stellè a Rimini nel 2017, all'Associazione Rousseau. Il fascicolo aperto contro ignoti è sul tavolo della pm Alessia Menegazzo che starebbe valutando il titolo di reato. Con un esposto presentato a giugno l'avvocato dei dissidenti grillini Lorenzo Borrè aveva chiesto alla procura di valutare l'operato del Comitato Italia 5 Stelle del 2017 in merito alle informazioni fornite al pubblico al momento della raccolta delle donazioni per la kermesse di Rimini e al trasferimento dell'avanzo di cassa in favore dell'Associazione presieduta da Davide Casaleggio. "Quel Comitato fu creato da Casaleggio, Massimo Bugani e David Borrelli, i quali erano anche soci di Rousseau, ovvero l'Associazione che poi avrebbe beneficiato di quel versamento", spiegò Borrè al momento della presentazione dell'esposto. Attualmente Bugani e Borrelli non fanno più parte del 'board' di Rousseau. Secondo l'avvocato, i simpatizzanti che nel 2017 contribuirono all'organizzazione della festa con le loro donazioni non potevano sapere che le eccedenze sarebbero state devolute a Rousseau, perché all'epoca dei fatti l'atto costitutivo del Comitato non era stato pubblicato sul sito del M5S (cosa che, rimarca Borrè, "accadrà solo in seguito alla presentazione dell'esposto"). L'articolo 16 dell'atto costitutivo prevede infatti che "se allo scioglimento del Comitato dovessero restare fondi a disposizione, questi verranno devoluti all'Associazione Rousseau". Il caso nel M5S era esploso nel dicembre 2019, quando l'Adnkronos raccontò dei dubbi sollevati dai parlamentari per il passaggio di quei 120mila euro dal Comitato all'Associazione che gestisce la piattaforma telematica del Movimento 5 Stelle (dato contenuto nel bilancio 2018 di Rousseau). Alle accuse interne Rousseau aveva replicato ribadendo la correttezza del proprio operato: "A inizio 2018 il Comitato è stato chiuso e, come prevedeva lo statuto, l'avanzo è andato all'Associazione Rousseau. Tutti i donatori sapevano dunque quale sarebbe stata la finalità dei soldi donati e dove sarebbero finite le eccedenze, dato che da quando esiste Rousseau è prassi farlo per ogni Comitato del Movimento 5 Stelle". Ma nel comunicato "non viene spiegato come i donatori potessero effettivamente esserne a conoscenza, visto che all'epoca non era pubblicato sul sito", obietta Borrè. Una prassi, quella della devoluzione delle giacenze a Rousseau, abolita dopo le proteste degli eletti, come nel caso dello statuto Comitato le rendicontazioni, dove la clausola che destinava le eccedenze a Rousseau è stata modificata davanti al notaio: in caso di scioglimento le rimanenze andranno infatti al Microcredito e non più all'Associazione di Casaleggio, contro cui lo stato maggiore del Movimento ha ingaggiato negli ultimi tempi un braccio di ferro sulla gestione della piattaforma web.
I pm di Milano indagano su Rousseau. Centomila euro raccolti dai militanti finiti alla piattaforma di Casaleggio. Luca Fazzo, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. Credevano di aiutare il Movimento 5 Stelle a organizzare un evento, e invece stavano finanziando Rousseau, il Grande Fratello controllato da Davide Casaleggio che incombe sui grillini: e che per la sua incontrollabilità è finito di recente nel mirino di una parte del movimento. Che gli intrecci di affari tra partito e piattaforma sia spesso inestricabile è noto da tempo. Ma ora la Procura di Milano starebbe indagando - come riferisce ieri l'Adnkronos - sull'esposto che alcuni dissidenti hanno trasmesso nelle settimane scorse. Al centro della denuncia, un piccolo gruzzolo - poco più di centomila euro - approdati nel 2017 sui conti della creatura di Casaleggio. Fondi che provenivano dalle sottoscrizioni dei militanti per tutt'altro obiettivo, la realizzazione di Italia5Stelle, la kermesse di Rimini che nel settembre 2017 incoronò Luigi Di Maio come candidato premier. Una parte dei soldi raccolti tra la base vennero effettivamente utilizzati per l'evento in Riviera. Ma rimasero in cassa 119.800 euro, che vennero girati a Rousseau. Lo prevedeva l'atto costitutivo, che però era praticamente segreto: secondo i contestatori non era stato messo online, e vi apparve a cose fatte, dopo che erano partiti i mugugni. Il fascicolo, firmato dall'avvocato Lorenzo Borrè, ex militante del M5s, e da altri dissidenti, in Procura non è rimasto a dormire. É stato aperto un fascicolo contro ignoti, prefigurando una ipotesi di reato che per ora non è stata resa nota. Entrambe le strutture che compaiono nella vicenda, Movimento e Rousseau, sono soggetti di diritto privato, e quindi la sottrazione o lo spostamento di fondi, se non c'è una denuncia dei rappresentanti legali, potrebbe non costituire reato. E non siamo di fronte nemmeno a una ipotesi di finanziamento illecito, come quella che investì il Movimento nel giugno sorso, con la rivelazione del presunto versamento di tre milioni di euro proveniente dal governo venezuelano, che aveva portato la stessa Procura milanese interrogare come persona informata sui fatti un altro dissidente grillino, Giovanni Favia. È possibile, in astratto, che i pm meneghini configurino un reato di truffa ai danni dei militanti che hanno versato un obolo per un motivo, e che invece hanno finanziato un ente esterno. La sensazione è che pero ora l'indagine si ancora in fase esplorativa, con l'obiettivo prioritario di capire quali siano i legami apparenti e quelli reali tra Movimento e piattaforma, un po' come sta avvenendo nelle indagini sulla Lega che si occupano di ricostruire dapprima le dinamiche interne alla galassia. Per ipotizzare o non ipotizzare reati, c'è poi tutto il tempo.
Emanuele Buzzi per corriere.it il 21 settembre 2020. La sentenza di Torino e la tornata elettorale scombinano i piani dei governisti. L’idea di un direttivo guidato da Chiara Appendino naufraga con l’autosospensione della sindaca M5S dopo la condanna. Non potrà essere in corsa per la leadership. E ciò mette fine all’idea di Luigi Di Maio che prima aveva ipotizzato un ticket tra Appendino e Di Battista (parlandone con diversi esponenti nei giorni successivi alle sue dimissioni da capo politico) poi aveva accarezzato — una volta riscontrate le difficoltà di portare tra le fila dei governisti l’ex deputato romano —la possibilità di affidare ad Appendino la guida della futura eventuale struttura. E la stessa idea di un direttivo ora traballa. Viene meno con Appendino una figura di riferimento in grado di riscuotere apprezzamento trasversale tra le correnti. La condanna apre una faglia difficile da chiudere a breve. Se gli exit poll saranno confermati, il Movimento rischia di arretrate sotto la doppia cifra in metà delle Regioni al voto, con passi indietro sensibili come in Liguria o nelle Marche. Dati da confermare, che indeboliscono però ulteriormente la posizione dei governisti. Torna prepotentemente alla ribalta la possibilità di votare un nuovo capo politico. Anche perché l’idea di un direttivo andrebbe spiegata nei dettagli prima di un voto online proprio perché sarebbe oggetto di una variazione dello statuto. Una strada difficile da percorrere in tempi rapidi e senza una condivisione del gruppo parlamentare. Vito Crimi nei giorni scorsi ha parlato con i capigruppo assicurandoli - come ha fatto anche pubblicamente - della necessità di una scelta in tempi brevi. La soluzione più probabile porta quindi alla scelta di un nuovo leader a cui saranno demandate le decisioni per il rinnovamento del Movimento. Di Battista è in pole position e Di Maio e gli altri governisti ora saranno costretti a sfidarlo.
Giuseppe Conte indagato: ha obbligato Siri a dimettersi, ora resiste. Tutti i reati dei grillini "onesti". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 17 agosto 2020. Omicidio colposo, disastro, lesioni, abuso d'ufficio e falso in atto pubblico. Sono questi i reati per i quali la sindaca pentastellata di Torino, Chiara Appendino, è stata indagata, restando al suo posto, e poi rinviata a giudizio, restando ancora al suo posto, nonostante il principio da sempre proclamato con orgoglio dai grillini in base al quale "chi è indagato si deve dimettere senza ma e senza se". La prima cittadina torinese attualmente è imputata in due procedimenti e lo scorso 6 febbraio i procuratori hanno chiesto per lei, nell'ambito del processo Ream, una condanna a un anno e due mesi di carcere per falso e abuso d'ufficio. Anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, è stata indagata per abuso d'ufficio eppure i cinquestelle non hanno ritenuto in questo caso opportuno che ella facesse un passo indietro. E come dimenticare poi l'ex sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, il quale, mentre era sotto inchiesta per omicidio colposo plurimo per l'alluvione del Rio Maggiore che il 10 settembre del 2017 provocò la morte di otto persone tra cui un bimbo di appena quattro anni, fu candidato comunque dal M5s alle consultazione europee del 26 maggio del 2019. Quindi non soltanto chi è indagato permane sullo scranno ma gli viene permesso addirittura di presentarsi al cospetto degli elettori. La morale grillina si capovolge in un baleno, allorché ciò conviene. Essa si applica in maniera intransigente soltanto nei confronti dei nemici, in particolare dei leghisti. L'uomo tutto d'un pezzo Giuseppe Conte nel maggio scorso chiese e pretese le dimissioni del leghista Armando Siri, allora sottosegretario ai Trasporti nel governo gialloverde, poiché sotto indagine per corruzione: si diceva avesse intascato 30 mila euro, di cui non si è trovata traccia. L'inchiesta che coinvolgeva Siri riguardava un presunto giro di tangenti nell'ambito della industria eolica. Il sottosegretario incontrò Conte chiedendogli la possibilità di essere sentito dai magistrati prima di essere obbligato a dimettersi. L'avvocato del popolo rifiutò categoricamente la proposta con queste parole: «Le dimissioni o si danno o non si danno. Dimissioni future che vengono ricollegate a iniziative giurisdizionali non credo abbiano senso». Piccolo appunto: Siri non fu mai rinviato a giudizio eppure dovette ritirarsi. Che rigore morale questo Conte! È da ammirare, anzi no - pardon -, sarebbe da ammirare se egli adottasse la stessa inflessibilità nei confronti di se stesso. Invece no. Macché. Tutto scorre - I cinquestelle sono duri con gli avversari, mandano Matteo Salvini a processo per avere adempiuto ai suoi doveri in qualità di ministro dell'Interno, però si dimostrano poi morbidissimi tra di loro. Giustizialismo e clemenza convivono perfettamente, ovvero senza alcun imbarazzo, sotto giacca e cravatta. Regole cristalline e ferree si conformano alla loro convenienza, come quella dei due mandati, la cui funzione era impedire che un individuo facesse il politico di professione. E cosa accade ora che il premier e mezzo Consiglio dei ministri sono sotto inchiesta? Un bel niente. Tutto scorre come sempre. Come se nulla fosse. Eppure Conte & Company non sono mica sospettati di avere rubato la marmellata alla nonna o di avere lanciato aeroplanini di carta durante la riunione del comitato tecnico-scientifico. La carne sulla brace è tanta roba: il foggiano ed i ministri Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Roberto Gualtieri, Lorenzo Guerini, Luciana Lamorgese e Roberto Speranza sono indagati per i reati penali di epidemia colposa, attentato alla libertà dei cittadini, omicidio colposo, delitti colposi contro la salute, abuso d'ufficio (un classico dei grillini, a quanto sembra), attentato contro la Costituzione. La fedina penale di Al Capone era meno nutrita. Qui non si tratta di una tangentina da 30 mila euro né del presunto sequestro di persona di un centinaio di clandestini invasori, bensì di oltre 35mila morti. Tuttavia, la squadra di governo non si schioda. Nessuno che alzi la manina per dichiarare: «A questo punto ritengo doveroso mollare». È più facile che domani nevichi piuttosto che Giuseppi Churchill, per coerenza, si ritiri. Non siamo mai caduti tanto in basso. Ma i pentastellati, i quali ci riserveranno ancora numerosi colpi di scena, si ostinano. Per loro, dopotutto, si può ancora raschiare il fondo del barile.
Da iltempo.it il 13 agosto 2020. Sarebbe il deputato Marco Rizzone il parlamentare del Movimento 5 stelle "colpevole" di aver incassato il bonus di 600 euro destinato dal governo alle partite Iva in difficoltà per la crisi da Coronavirus. Lo si apprende da una nota del capo reggente del M5s Vito Crimi, che scrive: «In Relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite Iva, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei Probiviri chiedendone la sospensione immediata e massima severità nella sanzione». Domani, intanto, in parlamento andrà in scena l'audizione sul caso del presidente dell'Inps Pasquale Tridico, che sarà trasmessa in diretta sulla web tv della Camera.
Marco Rizzone: chi è il 5 Stelle che ha intascato il bonus da 600 euro. Nato nel 1983, è laureato in economia e commercio ed è un imprenditore del settore turistico. Crimi: "Deferito al Collegio dei probiviri". Angelo Scarano, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. E alla fine arrivò anche il nome del grillino. Dopo la sospensione dei due deputati leghisti, Murelli e Dara, arriva anche il terzo nome dei furbetti che hanno preso il bonus Partite Iva. È il pentatstellato Marco Rizzone. Ad annunciare il nome del pentastaellato che ha incassato l'assegno da 600 euro è stato il capo politico del Movimento, Vito Crimi: "In relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite Iva, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei probiviri chiedendone la sospensione immediata e massima severità nella sanzione". L'annuncio di fatto arriva a poche ore dall'audizione del presidente dell'Inps, Pasquale Tridico in Commissione Lavoro. Proprio domani il numero uno dell'Istituto di Previdenza Sociale dirà i nomi dei 5 furbetti che hanno incassato il bonus. Ricordiamo che 3 lo hanno ricevuto mentre altri due hanno fatto richiesta. Insomma anche i grillini si scoprono casta. Sono finiti i tempi del moralismo politico e gli attacchi al Palazzo. Anche tra i pentastellati c'è chi ha cercato di riempirsi le tasche nonostante lo stipendio da parlamentare. Marco Rizzone è stato eletto nel collegio uninominale di Genova San Fruttuoso. Nato nel 1983 , è laureato in economia e commercio ed è un imprenditore del settore turistico. A Montecitorio fa parte della commissione attività produttive. Amico di Luigi Di Maio, su facebook in questi mesi ha raccontato la sua attività politica in questi mesi di emergenza Covid. Un post appare curioso alla luce dei fatti di oggi e risale a qualche mese fa quando è stato varato il reddito di emergenza: "I beneficiari di questa misura, fortemente voluta dal MoVimento 5 Stelle, sono i nuclei familiari (composti anche da una sola persona) con #ISEE inferiore a 15 mila euro, che potranno ricevere per un bimestre un importo compreso tra 400 e 800 euro mensili". Sul bonus Partite Iva non ha scritto nulla perché probabilmente aveva già studiato bene le regole...Adesso dovrà fare i conti con il suo Movimento che sempre più sta perdendo la matrice anti-Casta. I Cinque Stelle infatti proprio in questi giorni stanno cambiando pelle diventando partito. Il voto su Rousseau molto probabilmente metterà la parola fine al divieto del doppio mandato e soprattutto spianerà la strada ad alleanze anche su base locale. Il gesto di Rizzone (non l'unico ad aver incassato nel mondo politico il bonus partite Iva) è il segno di come il Palazzo abbia radicalmente cambiato i penstastellati. Adesso vogliono mettere le mani sui bonus pur avendo il portafoglio pieno da parlamentari. Crollano dunque gli ultimi baluardi del finto moralismo grillino. E probabilmente il tramonto dei Cinque Stelle e la trasformazione in Casta è solo all'inizio...
Inps, Rizzone (M5S): Ci metto la faccia e prendo mie responsabilità. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Eccomi qua, sono pronto a metterci la faccia e ad assumermi le mie responsabilità, ma anche a mettervi in guardia da chi vi sta gettando fumo negli occhi". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su Facebook. "Voglio fare una premessa: pur non avendo materialmente richiesto io quanto previsto dalla legge per la mia categoria di partita iva, non incolperò (come hanno fatto altri) il mio commercialista dicendo che in automatico, sulla scia di altri assistiti, ha inoltrato la richiesta anche per me. Ne riconosco l’inopportunità e, consapevole che in ogni caso la responsabilità ultima è solo mia, sono pronto ad assumermela tutta e fino in fondo, come ho sempre fatto", aggiunge. "Però ora vi assicuro che pretenderò che si vada fino in fondo su una serie di altre “questioni morali” anche più serie di questa “leggerezza” e che forse sarebbe il caso di affrontare nel rispetto di chi ci ha eletti (e chi mi conosce sa che non demordo)", dice ancora.
Inps, Rizzone (M5S): Non sono disonesto, tiro al piccione mi disgusta. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Di essere dipinto come un disonesto, un infame o un ladro però non lo accetto, tantomeno da chi con la sua noncuranza ha consentito a migliaia di partite iva ben più facoltose di me di richiedere legittimamente il medesimo bonus". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su facebook. "A me questo tiro al piccione - ve lo devo dire - disgusta parecchio. E sapete perché? Perché significa non farsi il minimo scrupolo nel mettere alla gogna una persona pur di gettar fumo negli occhi di voi cittadini, illudervi che la colpa sia di chi in base a una legge dello Stato ottiene un contributo previsto per la sua categoria e non di chi quella legge è incapace di scriverla in modo che non vi siano eventuali distorsioni", aggiunge.
Inps, Rizzone (M5S): Comodo cavalcare rabbia in vista referendum. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "È comodo puntare il dito contro qualcuno per nascondere le proprie mancanze. Ma è ancor più comodo (nonché molto triste) cavalcare la rabbia delle persone per provare a riprendersi un po’ di consenso in vista del referendum sul taglio dei parlamentari o delle elezioni regionali...". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su facebook.
Inps, Rizzone: Fatto nulla di illecito, decreto è scritto male. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Qui on è stato fatto nulla di illecito, nulla di illegittimo. Tutto a norma di legge: un decreto scritto palesemente male (vuoi per la fretta - giustificabile -, vuoi per l’incapacità di alcuni soggetti - non giustificabile), un decreto su cui in Parlamento nessuno dei colleghi “moralizzatori” è intervenuto per apportare modifiche che evitassero che l’indennizzo fosse dato “a pioggia” a prescindere dal reddito (perché tanto ormai basta fare propaganda più che buone leggi)...". Così il deputato M5S sospeso, Marco Rizzone, su facebook.
Inps, Rizzone (M5S): Ci metto la faccia e prendo mie responsabilità. (LaPresse il 14 agosto 2020) - "Concludo rivolgendomi a tutti quegli italiani che si sono sentiti in qualche modo delusi da me: non sono come mi hanno dipinto e lo dimostrerò battendomi perché la grande farsa portata avanti da tempo da alcuni soggetti politici finisca presto, nel vostro interesse e nell’interesse del Paese tutto, perché chi pensa di ingannare il popolo con la caccia alle streghe e il populismo facile non ha capito che i cittadini sono più svegli di quanto si pensi. Goccia dopo goccia il vaso trabocca...e se è un vaso di Pandora - prima o poi - qualcuno lo dovrà aprire".
Bonus Inps, Rizzone (M5S): «Non sono né ladro né infame. Da deputato ho restituito 40mila euro». Silvia Morosi il 15/8/2020 su Il Corriere della Sera. Il deputato grillino sulla vicenda dei 600 euro: «Fumo negli occhi, io ci metto la faccia». E lancia la sfida: «Perché non pubblichiamo, come già fanno in 17 stati europei, i nomi di chi ha veramente rubato risorse allo Stato evadendo le tasse?». «Sono pronto a metterci la faccia e ad assumermi le mie responsabilità, ma devo anche mettervi in guardia da chi vi sta gettando fumo negli occhi». Il deputato M5s Marco Rizzone rompe il silenzio e interviene sulla vicenda del bonus da 600 euro richiesto all’Inps che lo vede tra i protagonisti. «Se avessi voluto intascarmi dei soldi non mi sarei tagliato più di 40mila euro del mio stipendio da parlamentare», precisa in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook. «È comodo — aggiunge il deputato genovese — puntare il dito contro qualcuno per nascondere le proprie mancanze. Ma è ancor più comodo, ma molto triste, cavalcare la rabbia delle persone per provare a riprendersi un po’ di consenso, magari in vista del referendum sul taglio dei parlamentari o delle elezioni regionali».
«Un decreto scritto palesemente male». «Questo tiro al piccione a me disgusta perché significa non farsi il minimo scrupolo nel mettere alla gogna una persona pur di gettare fumo negli occhi dei cittadini», ha aggiunto. Per il parlamentare deferito ai probiviri del Movimento è tutta colpa «di un decreto scritto palesemente male». «Di essere dipinto come un disonesto, un infame o un ladro non lo accetto. Qui non è stato fatto nulla di illecito, nulla di illegittimo», conclude, lanciando una sfida ai colleghi parlamentari e allo stesso Garante della Privacy «che sull’onda del populismo più becero hanno chiesto di fare i nomi dei parlamentari che hanno ottenuto (ripeto lecitamente) il bonus. Perché non pubblichiamo, come già fanno in 17 Stati europei, i nomi di chi ha veramente rubato risorse allo Stato evadendo le tasse?».
Giuseppe Alberto Falci per corriere.it il 14 agosto 2020. Da qualche giorno Marco Rizzone si era inabissato. Pochi lo avevano sentito e quei pochi avevano notato qualcosa di strano. «Non era più lo stesso», conferma un grillino. Come se volesse nascondere qualcosa. E allora non è un caso se il suo profilo facebook, solitamente aggiornato più di una volta al dì, sia fermo a sei giorni fa. Ma la prova che fosse lui il grillino che aveva richiesto e ottenuto il bonus destinato a partita Iva e lavoratori autonomi, i vertici l’hanno avuta quando si sono accorti che solo due parlamentari non avevano sottoscritto la liberatoria sulla privacy. E uno di loro era proprio “Marco”, classe ‘83, genovese come Beppe Grillo, non un’attivista della prima ora, ma uno di quelli che ha dovuto gareggiare nel collegio uninominale “Liguria-04” con un leghista come Edoardo Rixi. La sera del 4 marzo del 2018 Rizzone vince per un soffio. Un risultato, forse, inaspettato. «È uno di quei ragazzi si è ritrovato per caso parlamentare», racconta un viceministro 5 Stelle. Alle 21 una nota del capo politico Vito Crimi dà la notizia: «In relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite Iva, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei probiviri chiedendo la sospensione immediata e massima severità nella sanzione». Un minuto dopo nelle chat dei parlamentari si susseguono messaggi di stupore. «Sono sconvolto. Ditemi che non è vero», si lascia andare un deputato che ha conosciuto in questi due anni Rizzone, giorno dopo giorno. D’altro canto, quando varca l’ingresso di Montecitorio si fa notare per il suo carattere, ma anche per le sue intemerate «mai tenere, ma comunque costruttive». «Polemizzava sulle rendicontazioni. Poneva questioni del tipo: “Dove vanno i soldi? Da chi vengono gestite?”», raccontano. Nel frattempo questo 37 enne di Genova, laureato in economia, con un dottorato alla prestigiosa Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, amministratore unico di una start up “Zonzo Fox” che si occupa di tecnologia e dunque titolare di partita Iva, non versava più nulla al Movimento. Le sue rendicontazioni sono ferme al novembre del 2019. Non si può definire né vicino a Di Maio, né vicino a Crimi, né a Fico. Fatto sta che il terzo parlamentare che avrebbe ricevuto il bonus, assieme ai due leghisti Elena Murello e Andrea Dara, lo scorso 1 aprile scriveva su Faceboook : «Bastano cinque minuti per richiedere i 600 euro di bonus Covid per partite Iva e lavoratori autonomi». E poi spiegava per filo e per segno la procedura: «È velocissimo. In pochi semplici passaggi ti verrà chiesto di inserire numero di telefono, email e Iban del conto su cui accreditare la somma». Esattamente la procedura seguita da lui, il promotore dell’alleanza giallorossa in Liguria, il tessitore del laboratorio della sua Regione. Perché Rizzone si è messo in testa di unire Pd e Cinquestelle con a capo della coalizione Ferruccio Sansa. «È stato lui a trattare con Andrea Orlando», spiegano. Adesso, però, se la dovrà vedere con i probiviri. Ma prima, sottolinea un collega, «dovrà spiegare la ragione di questa furbata».
"Chiesta sospensione". Bonus ai deputati, è Marco Rizzone (M5S) l’ultimo parlamentare ad averlo intascato. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2020. “In relazione alla vicenda del bonus da 600 euro, destinato a partite IVA, lavoratori autonomi e professionisti, ho deferito il deputato Marco Rizzone al Collegio dei Probiviri chiedendone la sospensione immediata e massima severità nella sanzione”. Lo dichiara in una nota il capo politico del Movimento 5 Stelle Vito Crimi. Rizzone si aggiunge ai due deputati della Lega, Elena Murelli e Andrea Dara, sospesi ieri così come annunciato dal capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. “Pur non avendo violato alcuna legge – dice Molinari – è inopportuno che parlamentari abbiano aderito a tale misura e per questa ragione abbiamo deciso e condiviso con i diretti interessati il provvedimento della sospensione. E’ comunque incredibile che i vertici dell’Inps non abbiamo versato ai lavoratori che aspettano da marzo quanto dovuto e che abbiano invece versato a chi non era in difficoltà. In qualsiasi altro paese i parlamentari sarebbero stati sospesi ma il presidente dell’Inps sarebbe stato licenziato”.
Le regole? Valgono solo per gli altri. Andrea Indini il 12 agosto 2020 su Il Giornale. Sorride Luigi Di Maio. Fa cheese guardando il cellulare e sorride scattando il selfie. Non è da solo. “Una bella serata in compagnia di Andrea Scanzi e tanti altri amici a San Gavino in Sardegna – scrive sui social il ministro degli Esteri – ho avuto il piacere di assistere al suo spettacolo come sempre geniale e diretto, ve lo consiglio. Buona serata a tutti”. Dietro di lui, in mezzo all’allegra combriccola, c’è anche il giornalista del Fatto Quotidiano. Tutti belli assembrati. Senza mascherina, ovviamente. “La legge vale solo per gli altri?”, gli fanno notare. Io non sono certo un talebano delle misure anti Covid ma, se per mesi ci fai una testa tanta con l’obbligo della mascherina, il minimo è che tu dia il buon esempio. Tanto più se l’azionista di maggioranza del governo che ha imposto quelle regole. Ormai lo sappiamo, i grillini sono allergici alle regole. O, perlomeno, le ribaltano a loro uso e consumo. Lo dimostra, per esempio, l’ultima piroetta sul doppio mandato, una regola assurda che si era dato il Movimento 5 Stelle ai tempi dei Vaffa Day per contrastare i “politici di professione”. Ebbene, questo vincolo non varrà per Virginia Raggi che nelle scorse ore ha fatto sapere che correrà nuovamente come sindaco di Roma. Sarebbe il terzo mandato, ma se ne infischia. E non lo fa soltanto lei. Beppe Grillo la sostiene. L’ha persino incoraggiata con un romanesco “daje!”. Anche Di Maio è al suo fianco – probabilmente perché, guardando al suo futuro, non vuole cader vittima di questo cavillo. Eppure il 31 dicembre del 2018 diceva: “La regola dei due mandati non è mai stata messa in discussione e non si tocca. Né quest’anno, né il prossimo, né mai. Questo è certo come l’alternanza delle stagioni e come il fatto che certi giornalisti continueranno a mentire scrivendo il contrario”. Già. Lo strappo ha scatenato malcontento tra la base dura e pura, ma non è certo la prima volta in cui i pentastellati rinnegano loro stessi. La storia del movimento è costellata da deroghe alle regole. Prendete le alleanze con altri partiti: ci sono passati sopra a tal punto da essere riusciti a stringere accordi quasi con tutti. Le regole ci sono e talvolta vanno pure infrante. Ma è il moralismo che guasta. Perché le regole devono essere rispettate solo dagli altri? Lo “scandalo” del bonus Covid preso da un manipolo di politici la dice lunga su come i grillini siano sempre pronti a salire in cattedra e puntare il dito. Va detto subito per sgombrare ogni dubbio che, al di là delle motivazioni addotte, i “furbetti” non avrebbero dovuto fare richiesta dei 600 euro. È una questione di opportunità. Resta, tuttavia, il fatto che non hanno fatto nulla di illegale: moralmente inaccettabile, ma non hanno calpestato alcuna legge. A guardar bene, poi, la legge che stabilisce chi può prendere il bonus l’ha scritta lo stesso governo di cui Di Maio fa parte. Quest’ultimo, anziché ammettere l’errore, sta cavalcando la polemica in una crociata che sta generando non pochi sospetti. A che titolo, per esempio, l’Inps ha redatto la lista dei furbetti se questi non hanno infranto alcuna legge? Come mai quei nomi sono finiti nelle mani di Italia Viva? E perché ora e non tre mesi fa quando sono venuti a galla? E già che ci siamo ci spieghino anche perché non sono ancora arrivati i soldi ai cassaintegrati…Probabilmente non avremo mai le risposte a tutte queste domande. Ancora una volta, però, appare chiaro il ruolo di Di Maio e compagni: loro, che sono sempre pronti a “riscrivere” le regole quando gli fa comodo, non perdono mai occasione per moralizzare il Paese e gli italiani.
L'onestà grillina si scontra con le restituzioni fantasma. Mettono alla gogna chi si è approfittato del bonus Covid pur guadagnando 12mila euro al mese, ma uno dei motivi di tensione all'interno del M5s è rappresentato proprio dai soldi. Domenico Di Sanzo, Martedì 11/08/2020 su Il Giornale. Mettono alla gogna chi si è approfittato del bonus Covid pur guadagnando 12mila euro al mese, ma uno dei motivi di tensione all'interno del M5s è rappresentato proprio dai soldi. Quelli da versare per le restituzioni e i 300 euro mensili per la piattaforma Rousseau gestita da Davide Casaleggio. È recente la notizia dell'ennesimo ultimatum, spiccato dal collegio dei probiviri grillini all'indirizzo dei tanti «morosi» in perenne ritardo con i bonifici da caricare sul sito Tirendiconto.it. La deadline è il 24 agosto, data limite per mettersi in regola pena l'espulsione, anche se molti tra i ritardatari sono convinti che si tratti di una pistola scarica. Perché lo stato maggiore vorrebbe evitare di perdere altri pezzi nei gruppi parlamentari. Sul sito delle restituzioni in alto c'è l'avviso: «Ad oggi i portavoce devono avere completato la rendicontazione fino al mese di aprile 2020. I mesi successivi non sono da considerarsi come ritardo». Ciò nonostante qualche sparuto zelante è arrivato fino a luglio. Mentre ha fatto il minimo sindacale un ministro come Alfonso Bonafede. Con lui i colleghi di governo Vincenzo Spadafora, Fabiana Dadone, Lucia Azzolina, Stefano Patuanelli, il capo politico Vito Crimi e il presidente della Camera Roberto Fico. L'ex capo politico e ministro degli Esteri Luigi Di Maio è fermo a marzo, stando ai dati forniti da Tirendiconto.it. Il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo è bloccata a gennaio. Una big come Paola Taverna, vicepresidente del Senato e ancora in corsa per la leadership del Movimento, secondo il portale dei Cinque Stelle si è fermata a dicembre dell'anno scorso. E poi c'è la questione Rousseau. Un po' tutti i parlamentari non sopportano più il contributo mensile per il mantenimento della piattaforma di democrazia partecipativa, fiore all'occhiello di Casaleggio. Un ipotetico passaggio dello strumento dalle mani del guru alla struttura politica del M5s è all'ordine del giorno di tutte le assemblee degli eletti pentastellati. E solo qualche giorno fa il deputato Alessandro Melicchio, come riportato dall'Adnkronos, è stato bersagliato nelle chat per un ordine del giorno sulla riduzione dei rimborsi viaggio della Camera. «Basta con il populismo pauperista» lo hanno attaccato i colleghi di partito. Vatti a fidare del M5s che si ispirava ai francescani.
Dagospia il 2 luglio 2020. Da “Radio Cusano Campus”. Federico Pizzarotti, sindaco di Parma e fondatore di Italia in Comune, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. Sulla possibile revisione del reato di abuso d’ufficio. “Il M5S è diventato improvvisamente garantista, ovviamente solo per i suoi –ha affermato Pizzarotti-. E’ evidente che da opposizione a forza di governo comoda cambia il modo di vedere le cose. Io ho sempre detto che le cose vanno valutate, anche tanti magistrati hanno detto che l’abuso d’ufficio scritto così crea delle problematiche. E’ evidente che una riforma dell’abuso d’ufficio vada fatta. Va fatto in modo che sia più circostanziato. Secondo me comunque non è solo l’abuso d’ufficio che blocca gli amministratori e i sindaci, c’è tutta una serie di spauracchi, come il danno erariale. C’è una parte interpretativa così ampia che è tutto e il contrario di tutto. Il tema vero è la semplificazione. Se non agiamo sulla semplificazione saremo sempre fermi. A Parma abbiamo delle costruzioni abusive dagli anni 70, arriviamo noi e diciamo di volerle buttare giù, stiamo ancora aspettando il permesso del Tar. Questo è il problema”.
Francesco Grignetti e Giuseppe Legato per “la Stampa” l'1 luglio 2020. È il reato più temuto dagli amministratori, l'abuso d'ufficio. E ora il governo promette di riscriverlo radicalmente, circoscrivendo meglio quali condotte sono reato e quali no. Al nuovo «abuso d'ufficio» sarà dedicato un capitolo del Decreto Semplificazioni. In estrema sintesi, quando la legge concede un margine di interpretazione, non potrà essere contestato un reato se poi un sindaco sceglierà questa o quell'interpretazione. «Già, non è facile per gli ottomila sindaci - ironizza, con amarezza, Giuseppe Decaro, primo cittadino di Bari e presidente dell'associazione nazionale comuni italiani - terminare il mandato senza incappare in un'accusa di abuso d'ufficio. Per noi è una condanna anticipata con i titoli sui giornali e processo virtuale. E siccome abbiamo calcolato che solo il 2% dei procedimenti termina con una condanna, è una beffa». Decaro a nome dei suoi colleghi non chiede l'abolizione del reato. «Chiediamo che sia meglio determinato il perimetro». L'Anci ha calcolato che sono stati ben centomila i procedimenti per abuso d'ufficio contro i sindaci negli ultimi anni. «Il 60% dei quali è archiviato già in istruttoria. E indispensabile riscrivere il reato». Nel frattempo, non soltanto vi sono state carriere politiche rovinate, ma un'infinità di dossier si è incagliato. Ed è per questo motivo che a sostegno della riforma c'è un coro trasversale: sono a favore l'Anci e l'associazione costruttori, Matteo Renzi come Vincenzo De Luca. Forza Italia sarebbe pure a favore, ma Enrico Costa vuole capire meglio perché non s' è abolito proprio il reato. Una rapida carrellata degli ultimi mesi racconta tante assoluzioni: per il sindaco di Milano, Beppe Sala, finito a processo per un appalto Expo, come per Virginia Raggi, indagata per il nuovo stadio su esposto di ex Cinquestelle. Possono vantare un'assoluzione anche i Governatori della Lombardia Attilio Fontana (il caso era legato alla nomina in un organismo regionale di un suo ex socio di studio legale) o della Puglia Michele Emiliano (nomina nel cda di InnovaPuglia, società in house, dell'allora sindaco di Bisceglie). All'Aquila hanno appena assolto dalle accuse di abuso d'ufficio e falso ideologico anche l'ex presidente della Giunta d'Abruzzo Luciano D'Alfonso, attuale senatore. Ed è stato assolto l'ex presidente del Molise, Michele Iorio, per una vicenda legata allo zuccherificio. Anche De Luca in Campania ha superato indenne il processo Crescent, per un complesso immobiliare sul lungomare di Salerno. Tutti con il fiato sospeso fino all'ultimo perché una condanna per abuso d'ufficio, anche in primo grado, significa la decadenza per effetto della Legge Severino. Altri trattengono il sospiro. Il senatore leghista ed ex sindaco di Visso, Giuliano Pazzaglini, è stato rinviato a giudizio in relazione ad alcune donazioni per i terremotati. E la sindaca Chiara Appendino, sotto processo per un falso in bilancio e abuso d'ufficio, è in attesa di sentenza. I pm ne hanno chiesto la condanna a 1 anno e 2 mesi e negli ambienti della procura già si dice che se la bozza di riforma passerà cosi com'è, l'accusa diverrebbe quasi insostenibile: se non è contestabile l'abuso d'ufficio ogni volta che una norma di legge è suscettibile d'interpretazione, sarà molto complesso - e non solo nel processo Ream - sostenere un'accusa.
Fabiana Dadone collabora con uno studio albanese, ma non è avvocato: dopo l'Azzolina, un altro caso a 5 Stelle. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Fabiana Dadone e Andrea Colletti sono membri dello studio "Legale Albania", con sede a Tirana. È quanto riporta il Fatto Quotidiano nell'edizione del 14 gennaio: le ombre si allungano soprattutto sul ministro della Pubblica amministrazione, che ha sempre dichiarato di non aver finito la pratica forense prima di diventare parlamentare. Eppure risulta tra i collaboratori esterni dello studio legale albanese. "Collaborazioni che non avrebbero nulla di illecito - chiarisce Giacomo Salvini nell'articolo su Il Fatto - visto che l'attività parlamentare non è incompatibile con la libera professione". È però curioso che la pagina web che faceva riferimento alla Dadone sia stata immediatamente rimossa non appena è emerso che risultava in qualità di collaboratrice stabile dello studio. Contattata dal Fatto, la Dadone sostiene che quella con "Legale Albania" era solo una collaborazione a titolo gratuito, ma ciò non basta alla Lega, che vuole vederci chiaro. "Dopo i dubbi sollevati dalla stampa sulla tesi di specializzazione del ministro Lucia Azzolina - dichiara Rossano Sasso, componente leghista della commissione Cultura - chiederemo delucidazioni anche sul presunto titolo di abilitazione della professione di avvocato della Dadone. Se non è avvocato - chiosa Sasso - perché ha permesso allo studio per cui ha lavorato di millantare un titolo di cui non è in possesso?".
Palermo, 12 condannati per le firme false: ci sono anche tre ex-deputati del M5S. Redazione venerdì 10 gennaio 2020 su Il Secolo D'Italia. Dodici condanne e due assoluzioni. È il bilancio del processo “firme false” contro altrettanti imputati tra funzionari comunali e dirigenti del M5S di Palermo. Per tutti l’accusa era di falso e della violazione della legge regionale che ha recepito il testo unico in materia elettorale. Condannati anche gli ex deputati Riccardo Nuti, Claudia Mannino e Giulia Di Vita. Per loro il tribunale ha deciso una condanna a un anno e dieci mesi. Un anno ciascuno a Claudia La Rocca e Giorgio Ciaccio, già deputati nell’Assemblea regionale. Unici assolti, «per non aver commesso il fatto», Pietro Salvino e a Riccardo Ricciardi. Nuti, Di Vita e Mannino, sono stati sospesi dal comitato dei probiviri del M5s. La pena più alta era stata chiesta per il cancelliere Giovanni Scarpello e l’avvocato Francesco Menallo, entrambi condannati a un anno e mezzo.
I grillini falsificarono migliaia di firme dei sottoscrittori della lista. Secondo la Procura, nella notte del 3 aprile 2012, durante la campagna elettorale per le amministrative di Palermo, al comitato del M5S furono ricopiate migliaia di firme per provare a rimediare a un banale errore su un luogo di nascita di un sottoscrittore. Il timore era quello di non riuscire più a raccogliere, nei tre giorni residui, le firme necessarie per la presentazione delle liste. Tutto sarebbe avvenuto, secondo l’accusa, su input di Nuti, candidato sindaco all’epoca dei fatti. Per scongiurare il rischio di non presentare la lista, avrebbero deciso di ricopiare le sottoscrizioni in loro possesso, correggendo il vizio. Il cancelliere avrebbe dichiarato falsamente che le firme erano state apposte in sua presenza. «Tutti i moduli con le firme rischiavano di essere nulli – aveva spiegato in aula La Rocca non ricandidata nel 2017 perché sotto inchiesta -. Perciò si decise di ricopiarle. Eravamo inesperti, nessuno pensò che potesse essere una cosa tanto grave». Nel corso dell’arringa il suo difensore aveva attaccato Nuti, Mannino e Di Vita a testa bassa. In particolare il primo, accusato di «condotta calunniatoria» nei confronti di Ugo Forello, ex capogruppo M5S al consiglio comunale di Palermo. Tanto da chiedere al tribunale la trasmissione degli atti in Procura.
Michela Allegri per “il Messaggero” l'11 gennaio 2020. In marzo ci sarà il secondo round: il 16 Virginia Raggi tornerà sul banco degli imputati per il processo d' appello. E la procura ha già affilato le armi: nell' atto con cui impugna l' assoluzione di primo grado della sindaca di Roma dall' accusa di falso, i pm cercano di smontare punto per punto la sentenza del giudice Roberto Ranazzi. Raggi era accusata di avere mentito alla responsabile Anticorruzione del Comune in relazione alla nomina di Renato Marra, fratello dell' ex braccio destro della prima cittadina, Raffaele - già condannato per corruzione e abuso d' ufficio - a capo del dipartimento Turismo di Roma Capitale, con un aumento di stipendio annuo pari a 20mila euro. Aveva detto all' Anac che in quel caso Raffaele, responsabile del Personale capitolino, si era astenuto dal seguire le procedure, svolgendo un ruolo «meramente compilativo delle disposizioni da lei assunte». Circostanza che, per i pm, è smentita da chat, testimonianze e anche dalle dichiarazioni rese in interrogatorio dalla stessa sindaca.
IL MOVENTE. Il giudice di primo grado sostiene che la Raggi sarebbe stata vittima di un «raggiro» ordito ai suoi danni dai Marra. Mentre per il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Francesco Dall' Olio - che avevano chiesto una condanna a 10 mesi - il movente della falsa dichiarazione è chiaro: la necessità di evitare a Raffaele Marra un procedimento penale per abuso d' ufficio che, riguardando un atto da lei firmato, «l' avrebbe inevitabilmente esposta» a un' iscrizione sul registro degli indagati, con la conseguenza che, «secondo le regole vigenti all' epoca all' interno del movimento - poi modificate, ndr - sarebbe stata costretta a dimettersi o a rimettersi al giudizio di terzi». Il giudice aveva invece sottolineato che le dimissioni non sarebbero state un atto necessario, perché «lo statuto consentiva, oltre all' autosospensione, la trasmissione della notizia ai capi del partito con una valutazione caso per caso». Per i pm, però, il Tribunale avrebbe «ritenuto vigente all' epoca dei fatti il codice etico attuale». Il Tribunale non ha avuto dubbi sulla buona fede della sindaca a fronte dei fratelli Marra che, si legge nelle motivazioni, avrebbero «operato strumentalizzando l' assessore al Turismo Adriano Meloni, con cui Renato (su consiglio di Raffaele), aveva intrapreso una fattiva collaborazione». Il giudice sottolinea in più passaggi che i Marra avrebbero agito «all' insaputa del sindaco, allo scopo di ottenere per Renato un ruolo da dirigente».
I RAPPORTI CON MARRA. Nell' atto d' appello si legge che alla base del falso ci sarebbe anche un altro movente: la volontà della sindaca di non pregiudicare il ruolo strategico del suo braccio destro. Ma nelle motivazioni il giudice scriveva: «L' imputata non aveva alcun interesse a tutelare né la persona né la figura di Marra Raffaele e non aveva un interesse proprio a dichiarare il falso». Ed è proprio su questo punto che si concentrerà la battaglia giudiziaria tra accusa e difesa in appello.
Ancora guai per i Cinque Stelle: politico indagato per rapina. Marco Gasperi sarebbe accusato di rapina aggravata in una sala scommesse. Lui si è detto sereno e nessuno gli ha chiesto le dimissioni. Per ora. Valentina Dardari, Domenica 22/12/2019, su Il Giornale. Ancora guai per il Movimento 5 Stelle. Adesso a finire sui giornali è Marco Gasperi, di anni trenta, vicepresidente del Consiglio comunale di Città di Castello, candidato sindaco nel 2016. L’accusa nei suoi confronti è tutt’altro che leggera: rapina aggravata. Gasperi si è detto però sereno ed estraneo ai fatti. Non proprio della stessa idea gli inquirenti.
La rapina alla sala scommesse. Secondo quanto riportato da La Nazione, lo scorso 10 aprile, proprio il politico sarebbe entrato in una sala scommesse con pistola alla mano e avrebbe intimato a una dipendente di consegnargli l’incasso, ben 4.500 euro. Gli è anche giunto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. De Gasperi ha detto di non temere nulla e di avere piena fiducia nella magistratura e nelle istituzioni. Oltre a sottolineare di non aver commesso alcun reato. E alla domanda se si sarebbe dimesso, ha risposto sicuro: “Sono sereno perché, anche se ci vorrà tempo, la verità verrà fuori. Non ho bisogno di dimettermi, non sono colpevole di nulla”. I militari che si sono occupati delle indagini non sarebbero proprio della stessa idea. Vi sarebbero infatti gravi indizi di colpevolezza e un quadro indiziario tutt’altro che leggero nei suoi confronti.
I filmati delle telecamere di sicurezza. Secondo quanto riferito dai militari il trentenne sarebbe un conosciuto frequentatore della sala scommesse Gold Faraone, la stessa dove è avvenuta la rapina. Inoltre le indagini “avevano già portato al sequestro dell’arma verosimilmente utilizzata nella rapina e legittimamente detenuta, nonché di alcuni capi di abbigliamento indossati dal presunto rapinatore”. E come se questo non bastasse, vi sono anche i filmati registrati dalle telecamere di sicurezza presenti nel locale che hanno ripreso tutto ciò che è avvenuto il 10 aprile. Come hanno ancora detto i carabinieri di Città di Castello, i video sono stati “oggetto di una approfondita relazione tecnica della Sezione fonica e audiovideo del Ris di Roma”.
Gasperi è sereno e certo della sua innocenza. Di fronte a tali prove inquirenti e magistratura non avrebbero dubbi sul colpevole. Gasperi però continua a dirsi innocente: “Non sono stato io. Ricordo esattamente dove ero quel giorno. Ormai celle telefoniche e gps delle auto possono tracciare ogni movimento. Non sono mai stato ascoltato dagli inquirenti e non sono destinatario di alcun provvedimento restrittivo: ho il passaporto, poche settimane fa ero in Israele, tiro di sciabola e posso portare armi in macchina. Sono assolutamente sereno”. A questo punto la pista del complotto politico si fa strada, almeno nella sua mente. Il politico infatti si sarebbe accorto di strane coincidenze: tutto sarebbe iniziato con le elezioni europee e terminato con quelle umbre. Gasperi ha assicurato di aver già comunicato tutto al Movimento e di non aver avuto richieste di dimissioni. I Cinque Stelle sarebbero quindi dalla sua parte. Almeno per il momento. Pochi giorni al Natale che il politico desidera passare in serenità con la sua famiglia.
Giorgia Meloni e "il conflitto d'interessi M5s": deputati grillini al concorso per consiglieri parlamentari. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 23 Dicembre 2019. Ecco un altro modo furbo per aggirare il limite dei due mandati: non farsi eleggere, ma farsi assumere dalla Camera. Così un tot di deputati grillini ha pensato di iscriversi al concorso per consiglieri parlamentari. La legge non lo vieta. Certo, si pone un serio problema di opportunità, visto che a presiedere Montecitorio c' è Roberto Fico, uno di loro. Il caso è stato sollevato dal deputato questore Edmondo Cirielli che, riferisce l' Adnkronos, ha inviato una lettera al presidente della Camera per saperne di più. Al momento vige una ferrea privacy sull' identità dei quindicimila candidati. È tuttavia opportuno, insiste l' esponente di Fratelli d' Italia, sapere se tra gli aspiranti consiglieri c' è qualcuno che già siede a Montecitorio, eletto dai cittadini. Un nome già c' è. Si tratta del portavoce Gianfranco Di Sarno. Lo ha scovato il Messaggero. Il deputato grillino, per tirarsi fuori dall' imbarazzo, ha dato una spiegazione curiosa: è stata una sua amica a presentare la domanda per lui. Iscritto al concorso sì, ma a sua insaputa. Nella polemica è intervenuta anche Giorgia Meloni: «Chiediamo che i parlamentari non possano partecipare per palese conflitto di interessi» al concorso indetto per consigliere parlamentare, «perché la Camera non può diventare il luogo dove diamo il reddito di cittadinanza a vita ai parlamentari Cinquestelle che non vengono rieletti», scrive la presidente di Fratelli d' Italia in un post su Facebook. Il posto fisso - D' altronde non è un periodo facile per i Cinquestelle. Ed è umano che, data l' incertezza del presente, qualcuno cerchi sicurezze nel futuro. Il posto fisso. Non è stato un bell' affare farsi eleggere con il M5s. Tra restituzioni e obolo all' associazione Rousseau, in mano agli onorevole grillini resta ben poco. Molti stanno pensando di andarsene. Soprattutto alla Camera ci sarebbero i numeri sufficienti (20) per costituire un gruppo autonomo. Gli scissionisti non vogliono far cadere il governo, ma sostenerlo al di fuori del perimetro pentastellato. E questa intenzione ha una forte tara economica. La politica c' entra poco. Ma anche tra chi si è rassegnato a rimanere vale la logica della disobbedienza. Il 70 per cento dei parlamentari, infatti, non è in regola con le restituzioni dell' indennità. Tanti non versano un euro da maggio. E non c' è solo la manovalanza, magari quella arrabbiata perché finita fuori dall' elenco dei posti di governo. Tra i morosi figura un ministro che finora ha versato zero. Manca poco tempo - Per mettersi in pari c' è poco tempo, fino al 31 dicembre, informava una circolare qualche settimana fa, dopo scatterà la gogna: «Le ricordiamo che gli impegni da Lei assunti, all' atto della sua candidatura con il MoVimento 5 Stelle, oltre a costituire una vera obbligazione giuridica, come di recente affermato dall' Agenzia delle Entrate, costituiscono anche e soprattutto un impegno morale nei confronti di tutti i cittadini italiani e, in particolare, di quelli che l' hanno votata». I toni della lettera non sono proprio amichevoli. Ma è il clima generale che è inquinato. Ieri si è tenuta una lunga riunione dei "facilitatori", la classe dirigente scelta da Luigi Di Maio (e Davide Casaleggio) per accorciare le distanze tra vertici e base parlamentare. Tante chiacchiere e l' impegno a rimettere in sesto le cose a partire da gennaio 2020. Nel frattempo però il malessere cova nei gruppi. Nelle prossime ore potrebbe trovare un detonatore nella fiducia sulla manovra economica. Alcuni deputati 5s hanno già fatto sapere di non volerla votare. Al Senato i tre che sono andati con la Lega - Ugo Grassi, Stefano Lucidi, Francesco Urraro - potrebbero essere seguiti da altri malpancisti. Il Carroccio sta facendo una corte spietata. Anche questa cosa dell' ultimatum sulle restituzioni potrebbe spingere vari morosi alla porta di uscita. Tra i "ritardatari" c' è il senatore Mario Michele Giarrusso, in rotta di collisione con Luigi Di Maio (non da oggi) e non ostile alla Lega. A dispetto del capo grillino, Giarrusso, che siede nella Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama, ha annunciato di voler leggere le carte del caso Gregoretti prima di decidere se Matteo Salvini debba essere mandato a giudizio o meno: «Sono un avvocato - ha evidenziato - e voglio esaminare la documentazione, cosa che allo stato non è ancora possibile fare. Poi prenderò una decisione». Salvatore Dama
Barbara Acquaviti per “il Messaggero” il 21 dicembre 2019. Il punto è che in questi mesi difficili per il futuro politico dei pentastellati, qualche eletto ha creduto bene di cercarsi un impiego alternativo se dovesse finir male. E chi meglio di un deputato potrebbe puntare a lavorare proprio alla Camera? La risposta, per ragioni di privacy, la sanno soltanto i professori universitari e i funzionari che fanno parte della commissione giudicatrice. E, poi, il presidente Roberto Fico che ne è a capo. La domanda l' ha sollevata il questore di Fratelli d' Italia, Edmondo Cirielli: è vero che tra i circa 15 mila candidati al concorso per 30 posti da consigliere parlamentare bandito dalla Camera - in programma a gennaio - ci sono anche dei deputati? L'interrogativo è contenuto in una lettera inviata da Cirielli al numero uno di Montecitorio lo scorso 11 dicembre e alla quale - spiega - non ha finora ricevuto risposta. Né, almeno per ora, il presidente della Camera ha preso posizione adesso che la questione è diventata di dominio pubblico. Lo stesso questore di Fratelli d' Italia ci tiene a precisare che non si tratta di un comportamento vietato né dalla legge né dal bando. Ma ne fa una questione di opportunità e di trasparenza. Anche perché - scrive nella lettera - lo stesso Fico è stato eletto da deputati in carica e in quanto presidente della commissione esaminatrice potrebbe ritrovarsi a giudicare deputati della sua stessa forza politica o comunque parlamentari con cui quotidianamente ha rapporti istituzionali. Il fatto, però, è che i rumors di cui sopra dicono anche un' altra cosa: e cioè che i parlamentari iscritti al concorso sarebbero appunto tutti grillini. Impossibile sapere quanti siano, ma qualche nome circola. Uno di questi è quello di Gianfranco Di Sarno, laurea in giurisprudenza, nato a Caserta, eletto in Campania nel collegio uninominale. L'interessato non nega e non conferma, ma dà una sua personale (e incredibile) versione dei fatti. «Ho un' amica con cui spesso partecipo ai bandi e magari mi ha iscritto lei. Ma non mi presenterò. Molto spesso mi iscrive a concorsi a cui non partecipo perché sono impegnativi e non ho tempo di prepararmi. Non so se mi ha iscritto a questo. Quando la vedo glielo chiedo». Il deputato ammette che c' è anche un problema di opportunità. «Essendo un bando parlamentare ritengo giusto non partecipare comunque. Ma ad ogni modo non ce l' ho con la mia amica perché sicuramente lo ha fatto in buona fede». Che si tratti o meno di iscrizioni a loro insaputa, per Cirielli il problema resta ed ha intenzione di sollevarlo anche nel prossimo ufficio di presidenza - previsto per lunedì - anche perché a breve sarà bandito anche un concorso per assistenti parlamentari. Per il questore di FdI si dovrebbe introdurre una norma apposita per escludere i parlamentari da questa selezione e nei concorsi futuri. A suo giudizio l' autodichia di Montecitorio lo consentirebbe. «Chiederò una votazione su questo», annuncia. C' è chi, tuttavia, ritiene che sarebbe incostituzionale. Finora il problema non si era mai posto perché questo tipo di candidature non si erano mai verificate. «Di solito - spiega un collega - al massimo è successo il contrario, abbiamo visto funzionari diventare deputati o entrare al governo». «È vergognoso, nemmeno nella prima Repubblica avevo mai visto una cosa del genere», sottolinea Cirielli. La prova selettiva del concorso per 30 posti da consigliere parlamentare si terrà presso la Fiera di Roma il 21, 22 e 23 gennaio 2020: la banca dati per la prova sarà pubblicata a partire dal 30 dicembre 2019.
Deputati 5s partecipano al concorso della Camera. Ma esplode la bufera. Al concorso per consiglieri parlamentari (25mila candidati per 30 posti) ci sarebbero anche alcuni deputati del Movimento 5 Stelle. A presiedere la commissione d'esame sarà il presidente della Camera, Roberto Fico. Fdi: "Vergognoso". Gianni Carotenuto, Sabato 21/12/2019, su Il Giornale. Alcuni deputati del Movimento 5 Stelle iscritti al concorso per consiglieri parlamentari. Concorso in cui la commissione d'esame sarà diretta dal presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, eletto allo scranno più alto di Montecitorio dai deputati che potrebbe ritrovarsi a giudicare. Una situazione di eventuale conflitto d'interessi che, come scrive Il Messaggero, è stata messa in luce da Edmondo Cirielli, deputato e questore della Camera per Fratelli d'Italia. Cirielli ha espresso i suoi dubbi sulla vicenda in una lettera inviata al presidente Fico lo scorso 11 dicembre. Lettera a cui l'esponente dell'ala più progressista del Movimento 5 Stelle non ha ancora risposto. Neppure adesso che la questione è diventata di dominio pubblico. E che lascia non pochi dubbi.
Di Sarno (M5s): "Mi ha iscritto un'amica". Al concorso, che mette in palio 30 posti da consigliere parlamentare alla Camera dei Deputati per oltre 25mila candidati provenienti da tutta Italia, si sarebbero iscritti alcuni deputati. Tutti grillini. Tra i nomi che circolano, spunta quello di Gianfranco Di Sarno. Laureato in giurisprudenza ed eletto in Campania nel collegio uninominale, ha spiegato: "Ho un'amica con cui spesso partecipo ai bandi e magari mi ha iscritto lei. Ma non mi presenterò. Molto spesso mi iscrive a concorsi a cui non partecipo perché sono impegnativi e non ho tempo di prepararmi. Non so se mi ha iscritto a questo. Quando la vedo glielo chiedo". Evidentemente, il problema è di opportunità. E di potenziale conflitto d'interessi. Come ammette al Messaggero lo stesso Di Sarno: "Essendo un bando parlamentare ritengo giusto non partecipare comunque. Ma ad ogni modo - precisa - non ce l'ho con la mia amica perché sicuramente lo ha fatto in buona fede", spiega l'onorevole grillino, prima di promettere che chiederà una "votazione" su questo. Fratelli d'Italia: "Una vicenda vergognosa". "È vergognoso, nemmeno nella prima Repubblica avevo mai visto una cosa del genere", denuncia Edmondo Cirielli. Pur sottolineando che si tratta di un comportamento non vietato dalla legge ordinaria né dal bando, per il deputato di Fdi la Camera dovrebbe garantire un livello ancora più elevato di liceità nello svolgimento dei concorsi, al fine di salvaguardare la massima trasparenza dell'istituzione. Dunque, secondo Cirielli, l'Ufficio di Presidenza dovrebbe affrontare il tema introducendo una apposita norma finalizzata ad escludere dalla selezione i parlamentari in carica, per scongiurare il rischio di potenziali conflitti di interesse. D'accordo anche Andrea Delmastro, deputato di Fratelli d'Italia: "Grazie al Questore di Fratelli d'Italia Edmondo Cirielli scopriamo che i deputati grillini partecipano al concorso bandito dalla Camera per consiglieri parlamentari. Inaudito! Arraffano tutto! Tirano su tutto! Oggi stesso presenterò interrogazione parlamentare per sapere i nomi e li pubblicherò perché vengano sommersi dai 'vaffa' che loro evocavano. Che epilogo! Che fine immorale! Ora tutto è chiaro: il loro livore non era contro la casta, ma era perché loro stessi non erano casta". Sulla stella falsariga di Delmastro anche il collega e responsbile organizzazione di Fratelli d'Italia, Giovanni Donzelli: "Erano entrati in Parlamento giurando di volerlo aprire come una scatoletta di tonno. Ormai non solo sono il tonno ma sono così avidi che, dopo aver messo la colla alle poltrone di governo, da parlamentari provano ad infilarsi persino nei concorsi. Posti a cui puntano persone che magari, dopo anni di sacrifici, vivono da anni nel precariato e sognano un impiego stabile nella pubblica amministrazione. I 5 Stelle sono indegni: il Presidente Fico faccia chiarezza e risponda al più presto alla lettera del questore Edmondo Cirielli".
"Il concorso più duro degli ultimi 50 anni". In effetti, nella storia della Camera è successo che un consigliere parlamentare, o comunque un funzionario, sia diventato onorevole. Mai il contrario. Inevitabile distorsione di un sistema che porta nella più importante assemblea rappresentativa italiana uomini e donne che non hanno mai avuto a che fare con i meccanismi parlamentari, per conoscere i quali è richiesta un'eccezionale preparazione. Vedi i requisiti richiesti ai 25mila candidati al concorso per consiglieri parlamentari, che comincerà il 21 gennaio con la prova preselettiva. Ne rimarranno solo 400, ammessi alla prova scritta e alla successiva prova orale. Le materie oggetto della prova? Diritto costituzionale, storia d'Italia dal 1848 a oggi, diritto e procedura parlamentare, diritto amministrativo o politica economica, diritto civile o dell'Unione Europea, più l'ottima conoscenza dell'inglese. Tutto questo solo per la prova scritta, visto che all'orale i candidati dovranno prepararsi anche su contabilità dello Stato e degli enti pubblici e organizzazione aziendale, oltre alla possibilità di una seconda lingua straniera opzionale. "È il concorso più duro in Italia degli ultimi 50 anni, ed è volutamente arduo per una corretta selezione del personale che lavorerà alla Camera. E' anche una risposta implicita all'antipolitica. Chi entrerà a lavorare a Montecitorio dovrà davvero sapersi destreggiare tra leggi, codici, lingue, storia ed economia", ha detto a Repubblica uno dei docenti responsabili dei corsi di preparazione al concorso. Che ingolosisce un po' tutti. Onorevoli M5s compresi.
· La Rimborsopoli.
Emanuele Lauria per repubblica.it il 17 novembre 2020. La "pratica" è già arrivata sul tavolo del capo politico Vito Crimi. L'eurodeputato Dino Giarrusso, ex giornalista de Le Iene, rischia una pesante sanzione che potrebbe giungere sino all'espulsione dal Movimento 5 Stelle per avere incassato contributi da lobbisti durante la campagna elettorale del 2019.
I finanziamenti. Il caso, rilanciato ieri da Report, riguarda tre finanziamenti per un totale di 14.700 euro. Uno (5 mila euro) arriva da Carmela Vitter, moglie di Piero Di Lorenzo, presidente della Irbm di Pomezia, la società che si occupa di biotecnologie e che peraltro collabora con l'Università di Oxford per la realizzazione di un vaccino contro il Covid. Società che, con un tweet del 13 marzo, Giarrusso loda come "grande eccellenza italiana". Un altro sostegno economico, di 4.800 euro, giunge da Ezia Ferrucci, socia della Bdl lobbying srl, che vede fra i fondatori lo stesso Piero Di Lorenzo, e che vede fra i propri clienti come scritto da Fanpage.it in un servizio dell'anno scorso - alcuni colossi quali il gruppo Hera, multiutility bolognese che è leader nel settore dei rifiuti e nei servizi idrici ed energetici, la British American Tobacco e Bracco, società che opera nel campo della sanità (diagnostica per immagini). Quasi cinquemila euro (4.900) sono invece stati donati a Giarrusso dalla Promedica Srl di San Giovanni La Punta. Tutti contributi che superano la soglia minima di tremila euro fissata dal Movimento 5 Stelle e che soprattutto violano un principio fondante di M5S, quello che vieta ai candidati di ricevere risorse da lobbisti.
L'autodifesa. Giarrusso, componente della commissione Agricoltura nell'Europarlamento, replica: "Donazioni sopra i tremila euro vietate dal vademecum dei 5S? Mi era sfuggito". Inoltre, si difende in un video parlando del finanziamento ricevuto da Ferrucci. Dice che lui non conosceva la signora e aggiunge: "Mi sono informato e ho saputo che la sua azienda aveva già sostenuto il comitato elettorale dei 5S alle politiche del 2018". Giarrusso mostra anche la ricevuta di quel versamento, ma ciò non convince i big dei 5Stelle, visto che una cosa è un contributo dato all'intero Movimento e altra un finanziamento, peraltro di importo superiore, a un singolo esponente. Malumori e fuoco amico su Giarrusso. Ignazio Corrao, collega di gruppo a Bruxelles, spara ad alzo zero: "Nessuno nel M5S si è mai fatto finanziare personalmente da lobbisti. Se qualcuno lo facesse, verrebbe espulso immediatamente". Di certo il caso è stato denunciato al collegio dei probiviri e se ne sta occupando direttamente Crimi. Paolo Becchi, ex ideologo del Movimento, profetizza su Twitter: "Oggi Giarrusso sarà espulso". Ma aggiunge una notazione che sembra difendere l'eurodeputato: "Accadrà questo perché agli Stati generali ha preso più voti di Di Maio". Dichiarazione che mette in circolo altri veleni. I 5Stelle sono scossi da un'altra polemica.
Dagospia il 17 novembre 2020. Lettera di Dino Giarrusso a Dagospia. Caro Dago, preciso due cose: come ho detto nella mia diretta, non solo il finanziamento è assolutamente regolare, ma io lo ho accettato solo DOPO aver saputo che nel 2018 la stessa Ezia Ferrucci ha finanziato ESATTAMENTE ALLO STESSO MODO la campagna elettorale di TUTTO il Movimento Cinquestelle. Allego foto che lo prova. Se una persona ha contribuito alla campagna del M5S nel 2018, non vedo perché non accettare la sua proposta di contribuire alla mia nel 2019, rispettando la legge e pubblicando in modo trasparente i contributi. Per il resto invito tutti a guardare il video che ho pubblicato sulla mia pagina Facebook dove spiego nel dettaglio e in assoluta trasparenza i fatti. ''Report'' racconta che Dino Giarrusso, europarlamentare del M5S, ha ricevuto 10mila euro di finanziamento elettorale da Carmela Ritter, moglie di Piero Di Lorenzo (IRBM Pomezia), ed Ezia Ferrucci, lobbista per British American Tobacco (BAT). Di Lorenzo: ''Se ho un amico che si candida e ci ho un buon rapporto, lo finanzio. Ho tanti amici. Non dico chi sono ma lo faccio per loro, non per me, io non avrei problemi a rivelarne i nomi''. Il suo collega Piernicola Pedicini, anche lui a Strasburgo coi 5 Stelle, dopo il servizio ha pubblicato il regolamento del Movimento sulle donazioni: vietato ricevere più di 5mila euro da singoli soggetti. E chiude così: ''I nostri lobbisti erano i cittadini''.
Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 17 novembre 2020. La partita è ancora aperta. Alessandro Di Battista, nei colloqui con chi gli sta più vicino, è stato perentorio: «Devono concedere le garanzie che ho chiesto. Nessuna esclusa. Altrimenti faremo le nostre valutazioni». Valutazioni che, raccontano gli stessi fedelissimi dell' ex deputato, non potranno che condurre fuori dal Movimento. La scissione, insomma, non è scongiurata, all' indomani degli Stati generali che hanno sancito la vittoria dell' ala governista e la definitiva trasformazione di M5S in un partito. Non arretra, "Dibba", sulle sei condizioni poste per un rientro "in prima linea", dalla revoca delle concessioni autostradali ai Benetton al tetto dei due mandati. E continua a battere sul tasto più delicato: l' istituzione di un giurì d' onore sulle nomine pubbliche che dovrebbe smascherare scelte "non meritocratiche" fatte dai 5S in questi due anni di governo. Dietro l' ariete romano, interprete della linea ortodossa, c' è una rete di portavoce a vari livelli (dal Parlamento europeo ai consigli comuna-li), che attendono di leggere il documento di sintesi delle conclusioni degli Stati Generali al quale lavora il capo politico Vito Crimi, di capire che tipo di direttorio sarà formato e soprattutto di verificare se le istanze di Di Battista saranno accolte, per decidere se continuare il viaggio dentro i 5Stelle. «La scissione? Io direi una cosa semplice: se l' attuale classe dirigente - dice l' ex ministra Barbara Lezzi - rifiuta le condizioni poste da Alessandro, che sono quelle sentite da migliaia di attivisti, vorrà dire semplicemente che M5S non c' è più. Il resto sarà una conseguenza ». L' eurodeputato Ignazio Corrao amplia il concetto: «Di Battista ha messo sul tavolo quei presupposti identitari che ancora tengono con noi tante persone. Se i vertici dovessero sbarrargli la strada, sposerebbero il modello Udeur o Ncd. Una scelta di campo, per noi, a quel punto sarebbe inevitabile. E netta». Un' altra ex ministra come Elisabetta Trenta, che pure non può definirsi una "dibattistiana" d' ordinanza, si iscrive al partito dei delusi: «Agli Stati generali c' è stato un lodevole, tentativo di parlare di nuovo con gli attivisti ma è mancata l' autocritica. Siamo scesi dal 33 al 15 per cento e nessuno si è chiesto perché. Di Battista? Se andasse via lo seguirebbero in tanti, il Movimento sarebbe perso. Anche io non voglio più vivere di compromessi, vediamo cosa succede nei prossimi giorni». Frasi che nascondono piccoli e grandi movimenti tellurici. Quasi metà del gruppo a Bruxelles è in rotta e per nulla intenzionato a finire nel Ppe e in Sd, come da indicazioni dei big. Alla Camera c' è un gruppetto di deputati già sull' uscio: da Antonio Lombardo a Fabio Berardini, da Carlo Ugo de Girolamo e Paolo Romano. Su posizioni critiche Elisa Siracusa e Jessica Costanzo. «Attendiamo i documenti finali degli Stati generali prima di decidere il da farsi - dice Lombardo - Non pretendiamo che si recuperi l' intera forza innovatrice degli inizi ma certo non possiamo accettare che il Movimento perda il suo Dna». Il collega Giorgio Trizzino è già con un piede nel Misto: «Ho assistito a un congresso in cui non si è deciso nulla, con riti degni della Prima Repubblica: l' idea di Di Maio, e della sua corte campana, è quella democristiana dei pacchetti di voti. Che tristezza...». Al gruppo Misto, ma a Palazzo Madama, è già passato Gianni Marilotti. Con "Dibba" sta pure la senatrice campana Luisa Anfrisani. E poi una squadra di frontman di provincia, fra i quali - in Campania - la consigliera regionale Maria Muscarà e il consigliere comunale napoletano Alberto Brambilla, che agli Stati generali ha rinfacciato a Di Maio e Crimi di aver tradito il territorio citando Charlie Wulson: «Abbiamo cambiato il mondo ma abbiamo sbagliato il finale».
Il contrappasso grillino: dal mito "restituzioni" alle liti sui soldi in cassa. Altro che "politica per passione". Ora nei 5s l'unica partita è sulla gestione dei fondi. Domenico Di Sanzo, Lunedì 19/10/2020 su Il Giornale. In principio era San Francesco, patrono d'Italia e dei Cinque Stelle. Ma per passare dal Poverello di Assisi ai litigi sul vil denaro sono bastati due anni e mezzo di potere. Agli inizi il M5s era contro l'austerity europea e a favore dell'austerità nei comportamenti personali e nella gestione del partito-non partito. Proprio ad agosto scorso, il fondatore Beppe Grillo dalla sua villa ribadiva i princìpi delle origini. «Il sogno M5s era un Movimento senza sedi, né tesori», l'ammonizione ai nuovi leader. Eppure le parole dell'Elevato sono cadute nel vuoto. I pentastellati si accapigliano anche sui soldi. Di sabato l'ultima polemica a tema pecuniario. Davide Casaleggio, di fronte alla richiesta di diventare un semplice fornitore di servizi, ha risposto con una proposta esosa. Un contratto di servizio da 1 milione e 200mila euro l'anno. Idea considerata «irricevibile» dal capo politico reggente Vito Crimi. Ma tutto lo scontro con il capo di Rousseau verte su questioni di tasca. La situazione è precipitata quando i parlamentari hanno cominciato a disertare in massa l'appuntamento mensile con il pagamento dei 300 euro per il mantenimento della piattaforma. Casaleggio ha avvertito che senza i soldi di deputati e senatori non si va avanti. Tagliate otto funzioni del sito della democrazia diretta. La lite è proseguita con la minaccia di rendere pubblici i nomi dei morosi e con l'invito, disatteso, recapitato dal guru ai probiviri, di espellere senza pietà chi non vuole scucire il denaro per la tassa Rousseau. «Siamo stufi di pagare», si ribellano i portavoce. Ma l'Associazione di Casaleggio fa comunque comodo al Garante Grillo perché si occupa di coprire le spese legali per le querele collezionate dal fondatore nell'esercizio del suo ruolo politico. Sempre ai soldi si torna. E non si cambia argomento per quanto riguarda un altro dei motivi di tensione all'interno del gruppone stellato in Parlamento. Parliamo del taglio degli stipendi. Le famigerate restituzioni. Che sono ormai il principale motivo di espulsione dal M5s. Infatti non ci sono soltanto i 300 euro da dare per la causa della democrazia digitale. I grillini da sempre si fanno un vanto della scelta di tagliarsi le indennità per restituirle alla collettività. Ma tanti degli eletti di Camera e Senato sono stufi di rinunciare allo stipendio. O perlomeno vorrebbero decidere autonomamente la destinazione dei loro soldi. Invece esiste un conto intestato al capo politico e ai capigruppo a Montecitorio e Palazzo Madama dove accreditare il bonifico. Maledetti bonifici. Causa di un vero e proprio caso mediatico più di due anni fa, quando Le Iene scoprirono il trucchetto per tenersi i soldi escogitato da alcuni parlamentari della scorsa legislatura. Il sistema consisteva nella pubblicazione del bonifico sul sito Tirendiconto.it per poi annullare il versamento entro le 24 ore successive. In questo modo la restituzione risultava effettuata ma gli euro non arrivavano dove promesso. Nel Movimento senza denaro ispirato a San Francesco d'Assisi non si fa altro che parlare di soldi.
Barba e capelli: M5s anti-Casaleggio? Per capire la rivolta seguite la pista dei soldi.
Paolo Guzzanti il 18 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quando sei in un labirinto umano di eventi e persone e non ci capisci più niente, affidati alla vecchia regola: “Follow the money”. Segui il denaro e vedrai che trovi il bandolo della matassa e anche la via d’uscita. Unica variante ammessa – ma in realtà coassiale: “Segui il potere”. Così, se vogliamo capire che cosa sta accadendo dentro la ex premiata ditta Casaleggio e il meno premiato e un diroccato Movimento Cinque stelle, possiamo usare entrambe i marker: i soldi e il potere. E cominceremo con capire che i deputati e senatori del movimento cinque stelle si sono stufati di versare ogni mese trecento euro alla Casaleggio della piattaforma Rousseau, e che il giovane Casaleggio, puro erede dinastico del padre si accorge di non essere più il re di un piccolo reame e neanche di una Scatola di Monopoli.
MANOVRA SILENZIOSA. Dunque, è cominciata una lenta e sotterranea manovra per scardinare le giunture che un tempo collegavano la creatura della piattaforma al movimento, che di fatto si doveva – si dovrebbe – comportare come i membri di un “cult”, cioè essere obbedienti e osservare le precise regole del convento. Tutto è cominciato quando le regole tassative sono cominciate a saltare come sulle cuciture della pancia di uno che ingrassa e gli saltano i bottoni. Il divieto di non rielezione è saltato, il divieto di allearsi è saltato. Il divieto di parlare in pubblico è morto e sepolto da tempo. Come nella vecchia canzone di Charles Trenet, c’è da chiedersi “Que reste-t-il?” che cosa rimane di tutto ciò che rendeva questo aggeggio artificiale, una macchina da guerra. In principio, se ricordiamo bene, c’era il verbo che era Grillo il quale parlava, parlava, sfotteva, sentenziava, condannava, rifiutava e dall’altra parte c’era questo mondo cyber politico della piattaforma di una società privata che si dichiarava proprietaria di un movimento politico rappresentato in Parlamento (roba da Corte Costituzionale del Nicaragua, dove bazzica il Dibba) e che guai a chi fa questo e guai a chi fa quell’altro. Una cosa da regime cinese dell’epoca imperiale, misto caccia alle streghe e ai conigli di campagna. E allora, che cosa c’è di nuovo, qual è la notizia? La notizia è che il movimento della piccola costellazione di cartapesta arricchita da lampadine mignon per Luna Park, si sono resi conto di far parte del genere umano. E che ciò che stanno facendo è un partito. E che nei partiti deve comandare la maggioranza, oppure chi dà lo stipendio a tutti: non chi se lo frega, lo stipendio.
IL MAPPAMONDO DI LUIGINO. Così Di Maio se ne sta alla Farnesina a giocare col mappamondo come faceva Charlie Chaplin e intanto tiene d’occhio il partito, teleguidando col joystick quel poveraccio di Crimi che deve far finta di essere il “capo”. Capo di che? Non si sa. Intanto Beppe Grillo, dovendo fare comunque un matrimonio d’interesse con la sposa più ricca anche se meno illibata, ha scelto di impalmare Zinga con tutto il PD. Così facendo ha riscosso la benedizione di Scalfari che da anni dice che il M5S è soltanto una manica di scappati di casa, nel senso del Pd. Dunque, qualsiasi ritorno del figliol prodigo è benvenuto, tanto siamo tutti parenti e si ammazzi il vitello grasso, che non si capisce se dovrebbe o no essere il presidente del Consiglio al quale lo stesso Di Maio ha consigliato di riprendere la tessera, ma senza dargli prospettive. Così Conte è rimasto un po’ sul valà senza sapere bene se farsi il partito suo o di un altro. Dibba, gira sempre nella notte, ma anche di giorno mascherato da spazzacamino. Fico lo saluta e gli cala giù il paniere con la corda e intanto – Fico – fa sapere che a lui quelli del Rousseau gli fanno un baffo e così il Casaleggio baby diventa sempre più triste e scrive proclami tutto da solo, sentendosi sempre più solo. I parlamentari dicono che non vogliono più scucire un dollaro o tallero o euro, quanto alla rieleggibilità fanno come gli pare, il Casaleggio si butta sulla Raggi, pur sapendo che è un caso estinto, chiuso, irrevocabile, catastrofico e chiama a raccolta le sue truppe sfidando così Zinga che, presidente della Regione Lazio, fa a capelli e torte in faccia con la Raggi dalla mattina alla sera e si odiano che è una bellezza. Que reste-t-il? Un vecchio campanile.? Un volto fra le nubi? Nulla. Non resta un cavolo. E allora, spettacolo meraviglioso, le meglio penne della giornalistica ermeneutica proparossitona diagonale, si mettono al violino e fanno il pezzo dell’analisi accurata del caciocavallo della politica e danno il meglio di sé del semolino. Eppure, il fatto è semplice. Prendete il famoso 25 luglio quando cadde il fascismo. Come cadde? Una rivoluzione? Ma no. Un colpo di Stato? Non esattamente, fuochino. E allora?
ACCADDE AL DUCE. Allora il piccolo re che c’era a quei tempi si mise d’accordo con alcuni membri del Gran Consiglio del Fascismo (che era, pensate, un organo costituzionale) e quelli votarono un semplice ordine del giorno che diceva: da oggi il supremo comando militare torna nelle mani del Re. Punto. La mattina dopo Mussolini andò a villa Savoia sperando di rappezzare e fu arrestato e portato via con un’ambulanza piena di carabinieri. Fine del ventennio. Il principio di realtà era tornato in sella dopo il bombardamento di Roma perché è nelle disgrazie che si forgia la disgrazia. Ora, i Cinque Stelle sanno benissimo che sono sovrarappresentati in Parlamento ma sanno anche che nessuno li schioda per altri due anni durante i quali possono fare quello che vogliono. Per esempio, mandare a quel Paese i piattaformisti e i terrapiattisti, facendo marameo quando gli chiedono il denaro. Poi si vogliono fare le liste in modo da avere qualche straccio di probabilità di essere rieletti. Come tutti. E cambiano casacca e voltano gabbana. Se si tratta di salvare la pelle. Si coagulano in correntine e cordatelle, e non ne vogliono più sacre del Casaleggio baby, che anche Beppe lo snobba perché mica si crederà di essere suo padre e poi semmai dice lui che cosa si deve fare e Grillo vuole maritarsi, l’abbiamo detto con lo Zinga, perché dal PD si sente protetto, sia di spalla che di petto, mentre con quella roba del filosofo ginevrino si sente – finalmente – ridicolo.
BASTA PIZZO. Quindi se segui il denaro, scopri che questa frenata di metropolitana arrivata in Parlamento e altre assemblee elettive si è stufata di pagare il pizzo, ha capito come si fa la politica e anzi possono insegnarlo al ragazzo che ancora pensa di avere in casa il vaso del Sacro Graal quando al massimo ha Topo Gigio. E allora, siccome non il coraggio proprio la prima delle loro virtù, anziché dire papale papale come stanno le cose, hanno cominciato una manovra di contorsionismo da valigia col mago che mangia il fuoco e poi ingoia spade e carte e sputa sentenze. E parlano di modifiche del regolamento e puntualizzano, e fingono di accapigliarsi su delle note a margine e fanno molta ammuina, che poi è la loro ultima spiaggia. Ma intanto hanno cominciato ad avere il rispetto che la realtà sia la realtà, che la politica segua una logica storica che non è piattaforma e dunque tira miglior vento per la per perché il sistema delle votazioni in famiglia e dei clic fra carbonari porta soltanto ridicolo e povertà, oltre che io ladri in casa. È ancora presto per dirlo, ma se questi sono i segni, allora potremmo dire che è cominciata una metamorfosi che è anche una dissoluzione del movimento che in pratica sta rinnegando sé stesso, e questo è un bene, ma non ha la più pallida idea della propria identità: che cosa sia, chi ce l’abbia e dove abiti.
Rimborsi M5S, pioggia di milioni per Casaleggio e la sua Rousseau. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Luglio 2020. I conti vedono la maggioranza in bilico: si rivive l’atmosfera dei giorni finali del governo Prodi, quando bastava un’assenza, una indisposizione fisica a mandare l’esecutivo al tappeto. Gli occhi sono puntati sull’emorragia dei grillini che non si ferma, anche se prende direzioni diverse. La senatrice Alessandra Riccardi ha lasciato il Movimento per entrare nel porto sicuro della Lega. Altri però escono dal Movimento a causa del continuo tira-e-molla sulle “restituzioni”: le quote dell’emolumento parlamentare che ciascun eletto deve devolvere all’apposito fondo, rispetto al quale la piattaforma Rousseau dispone le causali di versamento. È di questi giorni la pubblicazione da parte di Transparency International Italia – Associazione contro la corruzione, di una prima grande panoramica sulle quote versate da ciascun deputato nel 2019. La matrice, aggiornata e completa, agevola lo screening che il sito interno del Movimento, tirendiconto.it, propone in modo più disarticolato. Transparency indica il beneficiario nel Comitato per la rendicontazione/rimborsi del M5s ed evidenzia una classifica di puntuale correttezza nell’adesione al principio-cardine dell’esperienza parlamentare dei “portavoce dei cittadini”: la principale finanziatrice del Comitato, che nel 2019 ha ricevuto 7,8 milioni di euro, è Giulia Sarti con 64mila euro. È interessante che sia la prima donatrice, perché è stata proprio lei la parlamentare che poco prima delle politiche del 2018 era finita al centro del cosiddetto scandalo Rimborsopoli, quando “Le Iene” fecero notare che non aveva versato una somma pari a 23mila euro. Niente di illegale, ovviamente, ma una questione di allineamento con le regole del Movimento. È proprio Sarti però, con la sua pedissequa corresponsione dei rimborsi, a evidenziare le mancanze degli altri. Ma non è l’unica: sono cinque i parlamentari che hanno restituito oltre cinquantamila euro al M5s. Una cifra ben superiore ai 40mila euro del ministro di Grazia e Giustizia Alfonso Bonafede e più che doppia rispetto ai 28mila euro bonificati dal titolare degli Esteri Luigi Di Maio e da quella dell’Istruzione Lucia Azzolina. Per tacere del reggente provvisorio, Vito Crimi, fermo per il 2019 a soli 22mila euro: un terzo di quanto ha versato Giulia Sarti. Danilo Toninelli, che pure nel 2019 era stato ministro dei Trasporti, secondo il report ha versato solo 18.573 euro, a dimostrazione che le “restituzioni” non sono proporzionali ai trattamenti stipendiali di cui si è goduto. E d’altronde mentre il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi versava 46.756 euro, per lo stesso periodo il suo diretto superiore, il ministro Bonafede, ne versava 44.599, suddivise in quindici operazioni di cui tre erano versamenti in favore dell’Associazione Rousseau. Transparency registra infatti tutte le attività legate ai conti bancari della galassia grillina: il Comitato Italia a 5 Stelle ha ricevuto 128mila euro, il Comitato Italia a 5 Stelle 2019 525mila. E poi c’è l’associazione Rousseau, che ne ha ottenuti 475mila. Si ha dunque la sensazione che a pagare siano chiamati soprattutto pesci piccoli, con provvedimenti individuali che vanno ad invelenire il clima.
Ilario Lombardo per ''La Stampa'' il 15 settembre 2020. «Ora è guerra aperta». È il messaggio che intasa le chat dei parlamentari del M5S non appena sulla loro casella appare la mail di Davide Casaleggio, inviata agli oltre centomila iscritti della piattaforma Rousseau. Apparentemente serve ad annunciare che, a causa «delle gravi morosità» di diversi eletti, l'omonima Associazione che gestisce l'infrastruttura digitale a servizio del M5S, e che Casaleggio jr presiede, è costretta «a ridurre progressivamente diversi servizi e strumenti le cui spese di funzionamento, in assenza delle entrate previste, non risultano più sostenibili». In realtà la mail è un messaggio chiaro che l'imprenditore, figlio del co-fondatore del M5S Gianroberto, intende sbattere in faccia ai parlamentari che da settimane chiedono di sfilargli la piattaforma in nome di un controllo diretto del software da parte degli eletti. Lo fa rinunciando del tutto alla diplomazia, mettendo in vetrina la lacerazione interna al Movimento, usando una modalità che dai parlamentari viene percepita come una vera gogna pubblica. Infatti, scorrendo il testo, Casaleggio jr invita gli iscritti a cliccare sul link che contiene l'elenco di chi non ha ancora pagato la rata dei 300 euro mensili che ogni eletto si era impegnato a versare. È considerato in regola chi ha pagato fino ad aprile 2020 compreso. In totale, i morosi sono 48 su 294 tra deputati e senatori, circa un sesto. Tra i nomi più noti ci sono le senatrici Paola Taverna e Giulia Grillo (entrambe ferme al dicembre 2019). «Credo - scrive l'imprenditore - che nessuno debba essere al di sopra delle regole che ci siamo dati». Il clima nel M5S è pessimo. Mentre si riaffacciano con insistenza ipotesi di scissioni, la richiesta di convocare gli Stati Generali continua a cadere nel vuoto. Ma, come spiega una fonte autorevole del M5S, prima di far partire la controffensiva Casaleggio ha voluto il via libera del garante Beppe Grillo. Ha informato il reggente Vito Crimi e l'ex capo politico Luigi Di Maio. In sintesi, sostiene il figlio del fondatore, se Rousseau va in mano ai parlamentari «è la fine del sogno di mio padre, dell'uno vale uno. Diventeremo come tutti gli altri». Un concetto che non troppo diversamente esprime nella mail, augurandosi che «chi ha la responsabilità di far rispettare le regole la eserciti con giustizia ed equità». Se epurazione di massa deve essere epurazione di massa sarà: «Ho promesso che avrei custodito il progetto di partecipazione e di democrazia diretta che mio padre sognava e lo porterò avanti con tutte le mie forze». Ora tocca ai parlamentari fare la prossima mossa. Se avranno il coraggio di dare seguito alle minacce di lasciare il M5S se Casaleggio non dovesse farsi da parte. La guerra è appena agli inizi.
Da repubblica.it il 15 settembre 2020. Sostenitore e garante dell'alleanza col Pd al governo, Beppe Grillo interviene nello scontro sulla leadership: getta acqua sul fuoco e lancia un messaggio di riconoscenza. All'indomani della ritorsione messa in atto da Davide Casaleggio contro i grillini, infatti, il garante del Movimento interviene nella diatriba tutta interna ai 5 Stelle, quella tra i gruppi parlamentari e la piattaforma Rousseau gestita dal figlio di Gianroberto. Lo fa per dire pubblicamente grazie a entrambi - padre e figlio, s'intende - e per difendere "una tecnologia che è tutta nostra". "I cittadini - ha detto collegandosi con la conferenza stampa al Senato sulla presentazione del decreto Mise - devono poter dire la loro con sistemi tecnologici che noi per primi al mondo abbiamo fatto. Non è una difesa di Rousseau ma di una tecnologia che abbiamo fatto noi e dobbiamo ringraziare le persone che l'hanno fatta, Casaleggio padre e figlio". Parole che arrivano dopo lo strappo di ieri. Quando Davide Casaleggio decide di far saltare il banco e, da presidente dell'associazione Rousseau, invia una lettera agli iscritti per denunciare "i troppi morosi" che non versano il contributo da 300 euro al mese. Conseguenza? Il giovane imprenditore prefigura il taglio di alcuni servizi, assistenza legale in primis. Due sono i piani di lettura della vicenda. Il primo è squisitamente economico giacché da tempo una nutrita rappresentanza di eletti contesta la gestione della "cassa", autonoma rispetto al movimento, nella quale confluiscono i soldi versati. Il secondo è chiaramente politico e si riallaccia alle divisioni interne ai 5S, con Luigi Di Maio tessitore di un accordo che lavora per una gestione collegiale ai vertici e una dirigenza condivisa (con un occhio quindi al modello più tradizionale di partito) contro chi insiste invece per una guida unica del movimento. Davide Casaleggio, appunto.
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 2 luglio 2020. C'è chi si è messo in regola, chi si sta arrabattando, tra scartoffie e pdf, con gli scontrini da caricare sul sito e chi non vuole versare più un euro. Quasi ventiquattro ore dopo la scadenza dell'ultimatum per le restituzioni, i parlamentari grillini nuotano a fatica nel caos del taglio degli stipendi. E sul portale Tirendiconto.it, creato dal M5s per esigenze di trasparenza, ci sono ancora troppi spazi vuoti. Mentre scriviamo sono soltanto 75 sui 296 totali i deputati e i senatori che hanno dato quanto dovuto e rendicontato le spese fino al mese di aprile, così come chiedevano i vertici del partito e del gruppo parlamentare in una mail inviata nella tarda serata del 21 maggio, indicando come data limite il 30 giugno. Ed era stata stabilita un'altra deadline per il 6 giugno per i versamenti fino a dicembre 2019. Negli ultimi giorni, complici i problemi per i numeri della maggioranza al Senato, era girata voce di una proroga dei termini per consentire ai parlamentari di dare i soldi senza incorrere in sanzioni ed espulsioni che in questo momento potrebbero mettere a dura prova la già pericolante tenuta del governo guidato da Giuseppe Conte. La fatidica mail con il rinvio della scadenza per rendicontare, però, ancora non è arrivata. Anche se la proroga c'è già nei fatti, con gli eletti che si stanno affannando per inserire gli scontrini e fare i versamenti sul conto intestato al capo politico Vito Crimi e ai due capigruppo di Camera e Senato Davide Crippa e Gianluca Perilli. Dal M5s minimizzano. Fonti parlamentari spiegano che si tratta di «ritardi burocratici» dovuti al fatto che «tanti non caricano mese per mese, ma lo fanno ogni quattro o sei mesi». Un parlamentare se la prende con Tirendiconto.it, «lo dobbiamo cambiare 'sto sito». Ma c'è anche chi ha ben poca voglia di tagliarsi lo stipendio. E tira fuori problemi di privacy: «Io sto rendicontando tutto, ma non ho intenzione di metterli sul sito perché non voglio cedere al M5s le mie informazioni personali e non voglio violare la privacy dei miei consulenti o semplicemente dei titolari di alberghi e ristoranti dove sono stato», riflette un grillino. Intanto la home page del portale piange. Ci sono persino alcuni big che non hanno pubblicato i versamenti del 2020. Paola Taverna è ferma a dicembre. Il capo politico Vito Crimi ha inserito tutti i bonifici solo nel pomeriggio di ieri, ma fino alla mattinata era bloccato a dicembre. Al momento il sottosegretario Riccardo Fraccaro è fermo alla fine dell'anno scorso. Con lui il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra e il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora si è fermato a gennaio. L'ex capo politico Luigi Di Maio deve recuperare solo il mese di aprile. Non manca chi cerca il casus belli per farsi espellere. Tra questi le sospettate principali sono le senatrici Tiziana Drago e Marinella Pacifico. Entrambe date in approdo verso la Lega. Drago non versa da dicembre. Pacifico è ferma a maggio, ma del 2019. E si susseguono le indiscrezioni su un probabile annullamento della kermesse Italia 5 Stelle, che si è svolta ogni anno tra settembre e ottobre a partire dal 2014. Tra i motivi del forfait le norme per il contenimento del Covid e la concomitanza con gli Stati generali, che dovrebbero essere convocati proprio in autunno.
Pasquale Napolitano per ''il Giornale'' il 20 maggio 2020. Stop alle restituzioni: i parlamentari grillini (ora) intascano lo stipendio. Addio politica francescana. La regola madre della propaganda Cinque stelle salta in piena emergenza coronavirus. La crisi si fa sentire per deputati e senatori. Alla data del 19 maggio 2020, i parlamentari in regola con le restituzioni sono 49 su 299. Il dato è consultabile sul sito Tirendiconto.it. E dunque, circa l' 84% del gruppo parlamentare intasca l' indennità completa. Insomma, si comporta al pari dell' odiata casta. Il regolamento interno dei 5 stelle impone a ogni portavoce (deputato o senatore) di restituire una somma forfettaria di 2mila euro. A cui va cumulata la parte dei fondi non spesi (che varia di mese in mese). Ma la vera sorpresa arriva spulciando i nomi dei parlamentari non in regola. Vito Crimi, il capo politico del Movimento chiamato a far rispettare le regole per tutti, guida il gruppo dei morosi: le rendicontazioni sono ferme a ottobre 2019. Crimi deve restituire 8 mila euro. Un paradosso: il leader dei Cinque stelle, che il 22 aprile ha firmato la lettera di espulsione (per le mancate restituzioni) del deputato Nicola Acunzo e del senatore Mario Michele Giarrusso, è il primo a infrangere la regola. Ma per il capo la «legge grillina» non vale. E non vale nemmeno per l' ex capo politico dei Cinque stelle Luigi Di Maio: il ministro degli Esteri ha sospeso la restituzione dello stipendio (come si legge sul sito Tirendiconto.it) da novembre 2019. Di Maio ha un debito di 6mila euro. Al pari degli epurati Giarrusso e Acunzo, il titolare della Farnesina intasca da novembre lo stipendio. Ma Di Maio non è l' unico ministro furbetto: Stefano Patuanelli non risulta in regola. L' ultima rendicontazione del ministro dello Sviluppo economico risale al mese di dicembre: debito di 4mila euro. E così, scorrendo l' elenco spunta tra i morosi anche il nome del Guardasigilli Alfonso Bonafede fermo a gennaio 2020. Il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ha smesso di rendicontare (e restituire metà dello stipendio) da dicembre 2019. Dovrebbe restituire 4mila euro. Nella situazione analoga si trova il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D' Incà. Tra i super-morosi spicca il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro che dovrebbe restituire 8mila euro. Non risulta in regola il senatore Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia. Un mese di ritardo nella rendicontazione per il capogruppo a Palazzo Madama Gianluca Perilli. Mentre per il capogruppo Cinque stelle alla Camera Davide Crippa l' ultima restituzione è avvenuta nel mese di dicembre. Ma non tutti sono furbetti: c' è chi (in 49) continua a rendicontare e restituire una parte dello stipendio. Il presidente della Camera Roberto Fico è tra i virtuosi. Doppio pallino verde (che certifica la regolarità delle restituzioni) per il viceministro dell' Economia Laura Castelli. E anche il ministro della Pubblica istruzione Lucia Azzolina risulta in regola con le restituzioni. Nella pattuglia dei parlamentari virtuosi c' è il nome di Luigi Iovino, deputato campano e molto vicino al ministro degli Esteri. Disco verde per Emanuela Corda e Mario Turco. Con l' ultima grana, la questione rimborsi ritorna a tenere banco nel Movimento: a dicembre scorso, l' ex capo politico Di Maio è stato costretto, in seguito a forti malumori, a modificare il sistema di restituzioni. Estromettendo il ruolo dell' associazione Rousseau di Davide Casaleggio.
Annalisa Cuzzocrea per repubblica.it il 22 aprile 2020. Resa dei conti all'interno dei Cinquestelle. Il senatore Mario Michele Giarrusso e il deputato Nicola Acunzo, 43 anni, di professione attore, sono stati espulsi dal Movimento 5 Stelle per questioni legate alla rendicontazione dei rimborsi. L’ultima scenata, Giarrusso l’aveva fatta per la conferma di Claudio Descalzi come ad dell'Eni. Ma di fatto non c'è scelta del Movimento 5 stelle di governo che il senatore non abbia contestato. Senza però arrivare a farsi espellere, sempre giocando sull’importanza dei numeri in Senato, dove la maggioranza giallo-rossa ha poco margine di manovra rispetto alla Camera e ogni voto è prezioso. Ma la decisione dei probiviri, a lungo rinviata contro ogni evidenza, è arrivata oggi: il senatore è stato espulso dai 5 stelle per non aver restituito la parte degli stipendi promessa, come hanno fatto i suoi colleghi. E per non essersi impegnato in alcun modo a rientrare, dicendo che i soldi gli servono per alcune cause legali in corso. Secondo il sito Tirendiconto, il senatore non ha restituito nulla per oltre un anno. La motivazione, dopo mesi di tentennamento e di inutili tentativi di persuasione, non è stata accolta perché potrebbe valere per qualsiasi cosa. Quindi per chiunque. E vanificare la regola delle restituzioni cui i 5 stelle non hanno rinunciato.
Giarrusso, il manettaro moralista cacciato per le mancate restituzioni. Avvocato di Catania, esordì con La Rete di Orlando: trombato. Miracolato coi grillini ha sempre fatto il tifo per i magistrati. Domenico Di Sanzo, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Essere fuori dalle righe è da sempre il suo marchio di fabbrica. Vietato passare inosservati. Tanto che nemmeno la pandemia da Coronavirus è riuscita a oscurare la notizia della cacciata del senatore Mario Michele Giarrusso dal M5s. Per non parlare dell'altro espulso grillino di giornata, il deputato Nicola Acunzo, passato in cavalleria. E c'è da dire che Acunzo era anche un attore abbastanza famoso. Ma è solo un carneade in confronto a Giarrusso. Un avvocato catanese di 55 anni che sembra investito della missione di fare notizia. Con le parole, certo. E anche con le immagini e la stazza pantagruelica di un corpo gettato nel campo di battaglia della politica. Una delle ultime istantanee della giarrusseide risale al 19 febbraio dell'anno scorso, era gialloverde, quando la Giunta delle Immunità del Senato non concede l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini per il caso Diciotti. Sembra uno smacco per un politico autodefinitosi «manettaro». Ed ecco il colpo di teatro. All'uscita dell'Aula a Sant'Ivo alla Sapienza, il nostro affronta i senatori del Pd che lo contestano e mima il gesto delle manette. Cameraman e fotografi vanno in visibilio, consegnando alla cronaca di quei giorni un'altra immagine della piccola storia buffa del grillismo. «Io non ho i miei genitori agli arresti domiciliari» dice Giarrusso rispondendo agli insulti dei dem, riferito all'allora senatore del Pd Matteo Renzi. Esattamente un anno dopo, sul caso Gregoretti, Salvini va a processo e il senatore commenta: «I casi sono tutti diversi». Nella hit parade delle sparate del più manettaro tra i manettari c'è questa su Renzi, pronunciata alla Zanzara nel 2015: «Sarebbe da impiccare». L'uscita è fuori dalle righe, il titolo assicurato. Il giustizialismo è il tratto distintivo della biografia politica di Giarrusso. Sin dal 1992, anno di Mani Pulite, quando si candida alla Camera con La Rete di Leoluca Orlando, finito in fondo alla lista dei consensi con poco meno di 700 preferenze. Missione fallita alle Regionali del 2008 con gli Amici di Beppe Grillo, poco più di 300 voti personali. In mezzo la militanza antimafia nella Fondazione Caponnetto e proteste ambientaliste. L'uscita dall'anonimato arriva nel 2013 quando entra a Palazzo Madama. Bissa la candidatura nel 2018, nonostante il continuo oscillare tra la fronda e l'ortodossia. Due anni fa risponde così su Facebook a chi gli chiede se facesse ancora parte del M5s: «Sono capolista del M5s nel collegio plurinominale Sicilia 2. Praticamente già eletto». Al solito l'eloquio è senza fronzoli, per usare un eufemismo. Come quando insulta sui social, pur senza citarla con nome e cognome, la giornalista Debora Borgese che lo denuncia per diffamazione. Gli ultimi mesi sono stati vissuti sul filo del rasoio. Tra inviti a Di Maio a fare un passo indietro (poi arrivato) e provocazioni nei confronti dei vertici, ad esempio la firma, in seguito ritirata, per il referendum sul taglio dei parlamentari. Infine la sottoscrizione dell'appello di Di Battista sulle nomine. Quindi l'espulsione arrivata per le mancate rendicontazioni dei tagli allo stipendio. Lui commenta: «Sto valutando se fare ricorso». Sopra le righe, ma fuori dal M5s.
Simone Canettieri per ''il Messaggero'' il 19 gennaio 2020. La citazione è già scritta. Perché i vertici del M5S volevano presentarla a settembre, quando la senatrice Gelsomina Vono passò a Italia Viva. Ma alla fine si preferì lasciarla in un cassetto, invece di depositarla in tribunale. Ora le cose sono cambiate: il Movimento è pronto a chiedere ai parlamentari che se ne sono andati, e a quelli che saranno espulsi in quanto morosi, i soldi non restituiti dello stipendio, come da contratto sottoscritto quando accettarono la candidatura nel 2018. A dare solidità a questa nuova battaglia legale è un documento dell' Agenzia delle Entrate che proprio lo scorso settembre stabilì che le restituzioni (minimo 2mila euro al mese) vanno inquadrate «non si tratta di donazioni ma dell' adempimento di un obbligo giuridico che i parlamentari eletti della XVIII legislatura sono tenuti ad assolvere proprio in virtù della qualifica soggettiva di eletti quali parlamentari». Un pezzo di carta pesante, per il M5S, che punta così di incanalare la causa verso una vittoria dai contorni clamorosi. Nell' atto di citazione - di cui Il Messaggero è venuto a conoscenza - si spinge anche su un' altra leva per punire le tasche dei parlamentari che hanno deciso di lasciare il M5S: il rimborso per la campagna elettorale. Tecnicamente, infatti, al momento della candidatura tutti si impegnano a pagare una multa da 100mila euro in caso di passaggi di casacca. Nessuno finora lo ha mai fatto spontaneamente. Il M5S vuole convincere i giudici che da parte dei transfughi c' è stato comunque un impegno non rispettato perché, a fronte di una campagna elettorale totalmente a carico dei vertici, chi se ne va fa mancare il rispetto «dell' obbligo giuridico» con le restituzioni e reca, inoltre, un ulteriore danno economico al partito che gli pagò la corsa verso gli scranni di Palazzo Madama o Montecitorio. In questa nuova guerra legale pronta a scoppiare sono importanti i giorni: la prossima settimana infatti scadranno i 10 giorni che i probiviri hanno dato di tempo ai morosi per mettersi in regola. Sono circa una trentina le lettere partite. Per chi non lo ha fatto e per le situazioni più gravi si procederà con l' espulsione o con la sospensione. Due evenienze che spingeranno comunque i deputati e senatori nel mirino (i casi più gravi girano intorno alle otto unità) verso il gruppo Misto, dove Lorenzo Fioramonti sta brigando per costruire la sua nuova creatura, Eco. Anche l' ex ministro potrebbe finire in tribunale in quanto moroso: nel 2019 non ha verso un euro al Movimento. «E pensare che i 2 milioni raccolti dai parlamentari andranno per le scuole italiane», annotano con perfidia i vertici M5S. In questi giorni, i parlamentari indietro con le restituzioni si stanno attivando per cercare un compromesso con i vertici grillini. Adesso, però è pronta a piombare sulla partita interna la mossa legale che potrebbe convincere molti a pagare o addirittura a non spingersi verso il grande salto. Uno spauracchio anti-scissione? «In un certo senso sì, o meglio partendo dal diritto potrebbe sortire anche questi effetti politici», dice chi sta lavorando al dossier. D' altronde sono giorni caldi nell' universo pentastellato. Di Maio assicura che nulla sarà come prima: la gestione collegiale del partito viene considerato uno scenario scontato. Il migliore. Perché c' è anche una fronda di ribelli che spinge per una dimissione netta del ministro degli Esteri.
M5S, il rebus dei rimborsi non onorati Chi è nel mirino (e per quali cifre). Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. Il verdetto dei probiviri del M5S sui parlamentari morosi riguardo i rimborsi previsti dalle regole dei Cinque Stelle era previsto entro oggi. Probabilmente slitterà. Le indiscrezioni parlano di 35 situazioni analizzate, e dovrebbero essere decisa una serie di sanzioni, forse con una quindicina di sospensioni e un paio di espulsioni. Alla Camera dei deputati e al Senato, alcuni parlamentari negli ultimi tempi hanno sanato i mancati versamenti ma altri sono rimasti fermi nelle proprie posizioni. Altri ancora si ritengono danneggiati per il trattamento subito, contestano i regolamenti e annunciano azioni legali. Un ulteriore fronda starebbe per lasciare i Cinque Stelle destinazione gruppo misto. A Montecitorio in tutto il 2019 (ultimo aggiornamento a novembre), secondo il sito Tirendiconto.it risultano ancora a zero rimborsi Nicola Acunzo, Nadia Aprile (da poco passata al gruppo misto), Flora Frate, Paolo Romano e Andrea Vallascas. Al Così come al Senato risultano a zero rimborsi Cristiano Anastasi, Vittoria Bogo, Mario Giarrusso e Alfonso Ciampolillo. Altri parlamentari sono morosi ma con meno mesi di ritardo. Le cifre da restituire possono variare poiché tengono conto di quote praticamente fisse (circa 2 mila euro al mese più 300 da versare a Rousseau) e il rimborso per l’attività politica, opzionale però, e variabile da onorevole a onorevole. Considerando soltanto la cifra base e moltiplicandola per i mesi ancora da onorare, si può avere una prima indicazione del dovuto almeno per chi ha iniziato a bloccare i pagamenti dalla scorsa primavera. Acunzo e Aprile, che a inizio 2019 risultavano entrambi aver restituito 18.500 euro, dovrebbero per esempio 25.300 euro a testa. Maria Elisabetta Barbuto quasi 13 mila euro (37.816 il restituito a inizio anno). Massimo Enrico Baroni circa 11.750 (240 mila il precedente restituito). Andrea Colletti 23 mila (restituito stock doi 275.681 mila euro). Sebastiano Cubeddu 17.490 (49.282 il rimborso a inizio 2019). Giuseppe D’Ippolito 18.400 (26.500 il restituito). Paola Deiana 13.800 (30.500 il restituito a inizio anno). Frate 25.300 euro in quanto morosa totale (18.500 il rimborsato di partenza). Francesca Galizia 23 mila (22.500 i soldi restituiti fino a inizio 2019). Felice Mariani 13.800 euro (31.243 lo stock già consegnato). Dalila Nesci 23 mila (170.177 il restituito storico). Michele Nitti 18.400 appena passato al gruppo misto (26.500 versati a inizio anno). Paolo Parentela 16.100 (202.402 il restituito). Romano 25.300 (182.265) e Vallascas con 25.300 (218.800). Analoghi conti valgono anche per i senatori Mauro Coltorti, Fabio Di Miccio, Tiziana Drago, Matteo Mantero, Marinella Pacifico, Giuseppe Pisani e Fabio Di Miccio.
Il M5S perde pezzi: lasciano De Lorenzo e Drago. Notizie.it il 28/10/2020. La senatrice Drago e la deputata De Lorenzo, tutte e due insegnanti, lasciano il Movimento 5 Stelle. I grillini puntano il dito sulle restituzioni. Perde ancora pezzi il Movimento 5 Stelle e l’emorragia di parlamentari continua. A lasciare il gruppo parlamentare del Movimento a palazzo Madama è la senatrice Tiziana Drago, da tempo in rotta col M5S, mentre a Montecitorio l’ultimo addio in ordine di tempo lo ha fato registrare Rina De Lorenzo, che ha deciso di aderire a Liberi e Uguali. “L’annuncio del mio passaggio dal Movimento 5 Stelle a Leu – dice la parlamentare – non dovrebbe creare scalpore né generare malumori. Fare parte di un gruppo significa essere parte di un progetto comune, significa lavorare insieme, confrontarsi, ma anche scontrarsi ed essere liberi di dissentire senza per questo finire sotto processo”.
Il M5S perde pezzi, le ragioni di De Lorenzo. Secondo voci del Movimento il motivo dell’addio si dovrebbe invece cercare nel fatto che la De Lorenzo era finita nel mirino dei probiviri a 5 Stelle per le mancate restituzioni. La deputata calabrese, eletta nel collegio Campania 1 e insegnante di scuola secondaria superiore però ha sempre respinto le accuse, difendendo la scelta di versare eccedenze della sua indennità al Microcredito invece che sul conto gestito dal Comitato restituzioni M5S. Tra le ragioni effettive ci potrebbe essere anche l’ulteriore rinvio degli Stati Generali del Movimento. “Sia chiaro che non sono stata io a lasciare – spiega – bensì il Movimento a farmi capire di essere diventata una persona scomoda, fastidiosa, da mettere alla gogna per aver espresso legittimamente posizione contraria al referendum costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari. Ma anche prima, la scelta di restituire al Microcredito piuttosto che al conto privato dei big 5 Stelle, o quella di non votare il Dl Scuola mi hanno resa "disorganica" al Movimento che attraverso i probiviri lo ha costantemente fatto pesare”. “Sono stata trascinata in un contenzioso per difendere la mia immagine, la mia dignità e la libertà di pensiero che appartiene ad ogni cittadino, nel rispetto dei valori costituzionali che ho sempre difeso. Sono stata costretta ad una scelta obbligata e dolorosa, trascinata in un contenzioso del tutto infondato che non appartiene alla dialettica politica” dice ancora la De Lorenzo, la quale fa sapere che si riserva di adire le vie legali “contro chi mi ha inserito in vergognose liste di proscrizione”. “Non ho lasciato il M5S perché non si può lasciare chi non ti vuole al suo fianco. Ai miei ex colleghi pentastellati – conclude la parlamentare calabrese – l’augurio di tornare ad essere squadra e a me quello di lavorare con maggiore serenità ed efficacia all’interno di Leu, il partito che mi accoglie e che ringrazio”.
Tiziana Drago lamenta il tradimento delle proposte. Non è stato un gesto d’impulso invece l’abbandono della senatrice Tiziana Carmela Rosaria Drago, siciliana e anche lei insegnante che ha spiegato in una nota le ragioni del suo addio: “Il M5S mi ha scelta per il mio impegno civile nell’Associazione Nazionale Famiglie Numerose, nel Forum delle associazioni familiari e per la mia attenzione rivolta al mondo dell’istruzione e del sociale. Attenzione – ha detto la Drago – che purtroppo è stata tradita rispetto alle tante proposte avanzate”.
M5s, la senatrice Drago dice addio: "Tradita attenzione a famiglie". L’addio al M5s della Drago sarà formalizzata oggi pomeriggio al Senato con un intervento di fine seduta. Possibili ripercussioni sui numeri della maggioranza a palazzo Madama. Gabriele Laganà, Martedì 27/10/2020 su Il Giornale. Nuovo addio in casa M5s. La senatrice Tiziana Drago annuncia, infatti, la sua ferma intenzione di lasciare il gruppo pentastellato. La mossa, che assottiglia ancor di più i già non floridi numeri della maggioranza a palazzo Madama, sarà formalizzata oggi pomeriggio al Senato con un intervento di fine seduta. È stata la stessa parlamentare a spiegare il perché abbia deciso di abbandonare Di Maio e soci. "Sin dal primo giorno ho lavorato per ripagare la fiducia degli oltre 120mila elettori che mi hanno scelta nel collegio di Acireale. E il Movimento Cinque Stelle mi ha scelta per la mia essenza, per il mio impegno civile nell'Associazione nazionale famiglie numerose (Anfn) e nel Forum delle associazioni familiari e per la mia attenzione rivolta al mondo dell'istruzione e del sociale". "Attenzione – ha proseguito - che purtroppo è stata tradita rispetto alle tante proposte avanzate”. Tra le altre questioni, la Drago fa riferimento al "grande piano legislativo che ho proposto contro l'inverno demografico che vive il nostro Paese. Un piano basato sul riordino dei cicli scolastici, sulla scuola, sulla modifica dei parametri Isee con sette ministeri coinvolti e una visione ad ampio raggio". Nonostante questo grande impegno, ha sottolineato la senatrice, nel Movimento "ha fatto rumore solamente la mia partecipazione al Forum per la Famiglia di Verona". Molte furono le polemiche per la presenza e l’intervento dal palco della Drago all’evento tenutosi alla fine di marzo dello scorso anno. Senza dimenticare che la vicenda che non fu apprezzata dagli attivisti pentastellati che attaccarono la senatrice sui social. Quella partecipazione, ha spiegato ancora la senatrice, venne "contestata come reato di lesa maestà, mentre venne ignorata la mia presenza a L'Aquila Film Festival, il giorno prima, dove venni invitata a partecipare ad una tavola rotonda, con esponenti di vari schieramenti, organizzata dal mondo Lgbt e famiglie arcobaleno, per parlare di vari temi, come unioni civili ,coppie di fatto ,single, adozioni. Sono per il dialogo e l'ascolto". Secondo la Drago il M5s ha tradito gli impegni presi sulla famiglia e non solo. Vi sono state, infatti, anche "pochissime attenzioni per i docenti vincitori di concorso ed esiliati al Nord, senza aver dato loro la possibilità di poter rientrare nelle città di residenza. Ma anche le tante battaglie per la mia amata isola sono cadute in un cantuccio: poche risposte sull'emergenza sisma, nessun grande piano per le infrastrutture, il tema della sperequazione fiscale mai affrontato, l'istituzione delle zone franche montane in standby". Per tutti questi motivi la senatrice ammette di provare dispiacere nei confronti degli elettori, dei siciliani, degli italiani ma garantisce che la battaglia continuerà perché "c'è ancora molto da fare e molti cittadini attendono, giustamente, risposte dai palazzi della politica". "Auguro buona prosecuzione ai colleghi M5s e, come ebbe a dire Moro, "la persona prima di tutto" e ci saranno altri modi e altre forme per essere al servizio della mia terra", ha infine concluso la Drago.
M5s, emorragia senza fine: addii ed espulsioni, in media perdono 1,5 seggi al mese. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2020. Non sembra arrestarsi la grave emorragia interna al M5s, che dura in verità da anni. Dopo gli ultimi addii, quello della senatrice Tiziana Drago e quello della deputata Rina De Lorenzo, la nave grillina in Parlamento è sul punto di affondare. Come spiega il Corriere della Sera, ora il Movimento conta 196 pentastellati alla Camera e 93 al Senato. Ma se confrontiamo questi numeri con quelli del 2018, non si può non notare un'enorme differenza. Alle Politiche di due anni fa, infatti, i 5s avevano ottenuto 227 seggi a Montecitorio e 111 a Palazzo Madama. Tra fuoriuscite volontarie, espulsioni e decessi, il Movimento è passato da 338 parlamentari a 289, 49 seggi in meno in 31 mesi di legislatura, una media di 1,5 al mese. Il Corriere, poi, mette a confronto gli addii nelle due legislature. Nella prima, i fuoriusciti furono 40 sui 163 eletti, uno su quattro. Adesso, invece, la proporzione è di uno su sette, ma la situazione non sembra essere migliore visto che si rincorrono le voci di nuove espulsioni e di scissioni ipotetiche. Interessante notare che quasi due parlamentari grillini su tre hanno abbandonato la nave negli ultimi 13 mesi, esattamente da quando è nata l'alleanza con il Partito democratico.
M5s, anche Rina De Lorenzo lascia i grillini: addio alla Camera, va con "Liberi e Uguali". Libero Quotidiano il 28 ottobre 2020. La senatrice Tiziana Drago, da tempo in rotta, e la deputata Rina De Lorenzo hanno lasciato Il Movimento 5 Stelle. La De Lorenzo ha deciso di aderire a Liberi e Uguali. "L'annuncio del mio passaggio dal Movimento 5 Stelle a Leu", dice la parlamentare all'Adnkronos, "non dovrebbe creare scalpore né generare malumori. Essere parte di un gruppo significa far parte di un progetto comune, lavorare insieme, confrontarsi, scontrarsi ed essere liberi di dissentire". De Lorenzo era finita nel mirino dei probiviri per le mancate restituzioni. La deputata però ha sempre respinto le accuse. Anche lei da mesi era in rotta con il movimento. La senatrice Drago ha spiegato le ragioni del suo addio: "Il MSS mi ha scelta per il mio impegno nell'Associazione Nazionale Famiglie Numerose, nel Forum delle associazioni familiari e per la mia attenzione rivolta al mondo dell'istruzione e del sociale. Attenzione che è stata tradita". Preoccupazione nel governo perché al Senato la maggioranza giallorossa ha i voti risicati e l'addio di una altra senatrice potrebbe influire sul futuro della coalizione.
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2020. La diaspora infinita. I Cinque Stelle continuano a perdere pezzi: dopo l' addio della senatrice Tiziana Drago e della deputata Rina De Lorenzo, la truppa parlamentare si assottiglia sempre di più. Ora il Movimento conta alla Camera 196 deputati mentre al Senato il pallottoliere è fermo a quota 93. Nel 2018, alle Politiche, il M5S aveva ottenuto 227 seggi a Montecitorio e 111 a Palazzo Madama, ma sette parlamentari erano stati cacciati dal gruppo prima ancora di potere approdare in Aula. Ora, tenendo conto di addii volontari, espulsioni e decessi, la truppa pentastellata è calata da 338 esponenti a 289: 49 seggi in meno in 31 mesi di legislatura, una media di 1,5 al mese. Un piccolo esercito che ha un peso specifico nell' attuale Parlamento superiore a Italia viva, che esprime 30 deputati (gli scranni ex M5S sono 31) e 18 senatori (pari agli ex M5S) e ha però voce in capitolo nell' esecutivo. Nella scorsa legislatura i fuoriusciti dal Movimento furono «solo» 40 sui 163 eletti: praticamente uno su quattro. Ora la proporzione è di circa uno su sette, ma è anche vero che si è da poco superato il giro di boa di metà legislatura e che le voci di nuove espulsioni e di scissioni ipotetiche continuano a trovare una forte eco all' interno del gruppo. C' è da notare che quasi due parlamentari su tre hanno lasciato i Cinque Stelle negli ultimi tredici mesi (la percentuale sale a quattro su cinque se non si tiene conto degli espulsi prima dello sbarco in Parlamento), dall' inizio del governo giallorosso. L'armata di ex si è dispersa in vari rivoli - a volte opposti - in Aula. Praticamente è coperto tutto l' arco costituzionale e ci sono fuoriusciti in quasi tutte le forze politiche. Si va da Popolo protagonista lanciato da Tiziana Drago per strizzare l' occhio al mondo cattolico, a Fratelli d' Italia (dove si trova l' ex M5S Salvatore Caiata, ora in sciopero della fame contro le scelte dei suoi ex colleghi) a Leu (come nel caso di Rina De Lorenzo e Paola Nugnes), ai renziani (come Gelsomina Vono e Catello Vitiello), al forzista Matteo Dall' Osso. In realtà, la truppa più numerosa si è concentrata nel gruppo Misto, anche se il partito che ha riscosso maggior appeal è l' ex alleato di governo, la Lega, che a Palazzo Madama conta quattro ex M5S tra le sue file. E il futuro? I casi a rischio sanzione tra i pentastellati sono circa una decina (espulsione compresa) per le mancate rendicontazioni, ma nel Movimento si attende l' esito degli Stati generali per prendere posizione decidendo il da farsi. Nel frattempo montano i malumori: secondo quanto trapela da fonti interne ai Cinque Stelle, solo metà degli 8 mila iscritti ha preso parte alla prima fase della kermesse.
A due anni da Rimborsopoli 47 parlamentari 5S non in regola con le restituzioni. Le Iene l'8 gennaio 2020. Sono scattati gli accertamenti dei Probiviri nei confronti dei parlamentari che non hanno ancora restituito nel 2019 quanto previsto dalle regole del Movimento. Noi de Le Iene avevamo smascherato il sistema delle false restituzioni nella scorsa legislatura: tutto il mondo aveva parlato della Rimborsopoli a 5 stelle. I Cinque stelle perdono il pelo (e i pezzi) ma non il vizio? Mentre continua la diaspora degli eletti del Movimento verso altri lidi, tra chi è incantato dalle sirene sovraniste (e dai sondaggi) del capitano Salvini e chi invece viene sbattuto fuori come Gianluigi Paragone, sono di nuovo saltati fuori molti parlamentari che non avrebbero restituito parte dello stipendio da onorevole. Sono in totale 47 i parlamentari a non essere in regola con le restituzioni. Come si può vedere sul sito tirendiconto.it, piattaforma online dei 5 stelle che certifica la rendicontazione degli eletti, sono una decina gli onorevoli che non hanno versato nemmeno un euro nel 2019. I tre probiviri del Movimento hanno così stilato una lista che raccoglie tutti coloro che non sono in regola. "Abbiamo fatto il punto della situazione sulle restituzioni dei parlamentari”, hanno scritto i capigruppo di Camera e Senato Davide Crippa e Gianluca Perilli”. “Dall'inizio della legislatura i parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno restituito oltre 13 milioni di euro, denaro utilizzato per aiutare i cittadini e le piccole e medie imprese”, hanno tenuto a precisare i due capigruppo. "Facciamo notare che l'85% dei parlamentari è in regola con le rendicontazioni e con le restituzioni. Per quelli non in regola i probiviri ci hanno comunicato che, nelle prossime ore, verranno aperti, come da Statuto, i relativi procedimenti. I provvedimenti per chi non ha rispettato gli impegni presi con i cittadini, al momento della candidatura, saranno commisurati alla gravità della violazione”. A rischiare di più, cioè l’espulsione dal Movimento, sarebbero proprio quei dieci a non aver restituito nemmeno un euro. Ma i 5 Stelle se la sentiranno di mandare via così tanti parlamentari e rischiare di suonare il de profundis al governo Conte bis e probabilmente alla legislatura? In attesa di capire se i portavoce del popolo sono più legati all’onore o alla poltrona, a noi non può che tornare in mente la Rimborsopoli della scorsa legislatura, lo scandalo sollevato da noi de Le Iene con Filippo Roma e Marco Occhipinti. L’inchiesta, per la quale Filippo Roma e Marco Occhipinti hanno vinto il Premiolino nel 2018 e di cui si è parlato in tutto il mondo, ha svelato la mancata restituzione di parte dello stipendio da parlamentare al Fondo per il microcredito di alcuni esponenti del Movimento. Proprio questa restituzione è stato un cavallo di battaglia elettorale per i Cinque Stelle nel periodo della loro ascesa e un motivo di vanto politico, tanto che ogni bonifico effettuato viene ancora oggi mostrato sul sito tirendiconto.it. Alcuni parlamentari avrebbero fatto il bonifico e lo avrebbero pubblicato su quel sito, annullandolo successivamente, come è possibile fare entro 24 ore. In pratica, i soldi in pubblico risultavano versati, ma al Fondo per il microcredito non arrivavano mai. Successivamente si era scoperta l’esistenza di un altro metodo di “raggiro” delle restituzioni: alcuni parlamentari avrebbero sì effettuato il bonifico, ma modificando con un programma di fotoritocco la cifra effettivamente versata. La nostra inchiesta aveva fatto talmente rumore da convincere i 5 Stelle a modificare le regole per le restituzioni in questa nuova legislatura. Noi ovviamente ci auguriamo che tutto ritorni a posto e che i nuovi sistemi interni del Movimento funzionino a dovere. Due anni dopo, però, i 5 Stelle sembrano ancora fermi allo stesso punto.
Alessandro Sallusti per ''il Giornale'' il 7 gennaio 2020. Girala come vuoi, ma alla fine anche per i politici quello che conta sono i soldi, soprattutto se uno non è nato ricco o non ne ha saputi fare attraverso una professione prima di approdare in Parlamento. Chi teorizza che i soldi non sono tutto o è perché ne ha davvero tanti o perché ne ha talmente pochi che in qualche modo deve darsi una giustificazione. E tra quest' ultimi - sono in maggioranza, nella politica - chi scopre l' agiatezza, col cavolo che è disposto a mollarla. Il problema dell' implosione dei Cinque Stelle è innanzitutto economico, al di là delle ciance. Passata la sbornia moralista - il famoso «onestà, onestà» - deputati e senatori grillini senza futuro si sono resi conto che guadagnare quindicimila euro al mese è meglio che incassarne solo metà e così hanno sospeso alla chetichella di versare l' altra metà nelle casse di Di Maio e di Casaleggio come pattuito al momento della nomina. Il loro ragionamento ora è: se mi espellete fate pure, passo nel gruppo misto, guadagno il doppio e nessuno mi rompe le scatole un giorno sì e l' altro pure. Del resto il loro capo Beppe Grillo si è tirato fuori da responsabile del blog Cinque Stelle proprio per non dovere mettere mano al portafogli per le onerose condanne delle numerose querele. E un' ex ministra grillina, Elisabetta Trenta, non ha ancora lasciato la lussuosa casa ottenuta con un piccolo inganno quando era responsabile della Difesa. E che dire della deputata Yana Ehm: non paga le quote da un anno ma ha trascorso le vacanze alle Maldive con tanto di post per fare vedere ai vicini di casa che lei ora è nel mondo dei ricchi. Matteo Renzi non è da meno. Vanno bene gli ideali, ma anche per lui ora è meglio il portafogli. La sua denuncia dei redditi è in breve passata da cento a ottocentomila euro a suon di gettoni per comparsate e conferenze. E siccome l' appetito vien mangiando ha deciso di aumentare il bottino querelando - con richiesta di maxi risarcimenti - chiunque lo critichi (a volte basta citarlo). Davvero si può pensare che gente così metta fine alla legislatura per ragioni di onore, coerenza o scelte politiche? Ma va' là, a chi la vogliono raccontare. L' unica verifica che conta è quella del conto in banca. E su quel fronte, per loro, il barometro segna sempre bel tempo.
Pasquale Napolitano per ''il Giornale'' il 7 gennaio 2020. In tre sono in possesso di password e credenziali per accedere al conto corrente privato sul quale finiscono i soldi (restituiti) degli stipendi dei 315 parlamentari del M5s. I tre «fortunati» sono il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e gli ex capigruppo di Camera e Senato, Francesco D' Uva (oggi Questore della Camera) e Stefano Patuanelli (ministro dello Sviluppo economico). Da mesi una pattuglia di deputati e senatori ha messo nero su bianco, chiedendo formalmente (senza alcun riscontro) una copia degli estratti del conto corrente sul quale transitano parte delle indennità dei parlamentari grillini. L' ultima richiesta ufficiale porta la firma dell' ex senatrice Elena Fattori, espulsa dal Movimento. Di Maio, fino ad oggi, si è sempre rifiutato di fornire una copia della documentazione bancaria. L' unica concessione riservata ai parlamentari è la pubblicazione, per linee generali, dei progetti finanziati con i soldi restituiti dai gruppi parlamentari dei Cinque stelle. Ma nel dettaglio, nessuno, tra i 315 parlamentari del Movimento, conosce quali operazioni bancarie siano state effettuate dal 4 marzo 2018 ad oggi. Spese, bonifici e fatture: tutto in gran segreto. Eppure, Di Maio, Patuanelli e D' Uva gestiscono un tesoretto che si aggira sui 4 milioni e mezzo di euro: ogni parlamentare restituisce (dovrebbe restituire) mensilmente circa 2mila euro. Con il nuovo regolamento dei Cinque stelle è cambiato anche il meccanismo delle restituzioni. Nella passata legislatura, i parlamentari restituivano direttamente allo Stato (il fondo per il Microcredito) parte dell' indennità. Nella versione nuova, i soldi vengono depositati su un conto corrente privato, attivo alla Banca Profilo in Via Cerva 28, a Milano. L' istituto è controllato dal fondo Sator presieduto da Matteo Arpe, ex enfant prodige della finanza italiana ed ex amministratore delegato di Capitalia, protagonista nel 2007 di un duro scontro con l' allora presidente Cesare Geronzi. Il conto è intestato al comitato per le rendicontazioni nel quale figurano tre esponenti del Movimento: Di Maio, D' Uva e Patuanelli. Come vengono spesi i soldi? Da un lato, il Movimento finanzia alcuni interventi di pubblica utilità: dalla ricostruzione di scuole ai fondi per i paesi colpiti dal sisma. Ma rientrano anche altre spese? Vengono dirottati fondi per iniziative politiche? Nessuno è in grado di sapere. Perché fino ad oggi alla richiesta di trasparenza, Di Maio ha opposto un muro di silenzio. E c' è un altro punto contestato nel nuovo meccanismo: al momento dello scioglimento del comitato (a fine legislatura) i soldi rimasti sul conto finiranno nelle casse dell' associazione Rousseau di Davide Casaleggio. Ora con la coda di polemiche che sta accompagnando addii ed espulsioni nel Movimento, il tema delle restituzioni ritorna centrale. E anche la richiesta di trasparenza a Di Maio è stata riproposta. Giovedì è in programma una assemblea congiunta tra deputati e senatori: all' ordine del giorno ci sarà la questione delle rendicontazioni. E Di Maio dovrà fornire copia degli estratti conto, prima di adottare decisioni contro i parlamentari non in regola con le restituzioni. I morosi sarebbero 40. Di Maio vorrebbe adottare il pugno duro, mettendo alla porta i furbetti. C' è chi però suggerisce una sanatoria, una restituzione forfettaria per rimettersi in carreggiata. Si teme un esodo di massa dai gruppi parlamentari. E un altro smottamento avrebbe conseguenze pesanti per la tenuta del Movimento.
Nicola Acunzo accusa Luigi Di Maio: "Non rimborso i soldi sul suo conto, torniamo al vecchio sistema". Libero Quotidiano il 7 Gennaio 2020. Nicola Acunzo è uno dei deputati finiti nel mirino dei probiviri del Movimento 5 Stelle in merito alla questione rimborsi. In attesa di capire cosa decideranno di fare i vertici grillini con i morosi, Acunzo esce allo scoperto e dichiara di non aver rimborsato neanche un euro nel 2019 per una "questione politica". Intervistato dall'Adnkronos, ha spiegato di aver "sospeso le restituzioni affinché avvenga un chiarimento sul cambio di modalità dei versamenti. Mi devono ammazzare se non mantengo l'impegno con i cittadini e con il M5s, ma la modalità deve essere quella del 2018". Acunzo fa riferimento al fatto che nell'ultimo anno è stato aperto un conto ad hoc del comitato rimborsi, gestito direttamente da Luigi Di Maio e dai capigruppo di Camera e Senato". "Nel 2018 il sistema era molto trasparente - ha sottolineato il deputato grillino - nel 2019 è cambiato e quindi ho sospeso le restituzioni e spero si sblocchi la situazione. Con questo nuovo sistema non mi sento orgoglioso di far parte del Movimento". L'ex attore campano ne fa quindi una questione di principio, oltre che politica: "Io sono un uomo libero. Mi interessa che il popolo e le persone che mi hanno votato sappiano che Nicola Acunzo è un uomo d’onore e manterrà questo impegno, ma con le modalità del 2018. Abbiamo già cambiato troppe cose. Non sono entrato in politica per fare come hanno fatto negli altri partiti, altrimenti sarei rimasto sul set".
M5S e restituzioni: contributi decisivi per Rousseau. Costa oltre un milione, spese triplicate. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Emanuele Buzzi. Il fiore all’occhiello e la spada di Damocle del Movimento: le restituzioni rappresentano dall’epoca dei primi giorni in Parlamento le due facce dei Cinque Stelle. Rispetto alla scorsa legislatura, però, è sparita l’ansia degli scontrini e il fondo per il microcredito. Nel febbraio 2018, in piena campagna elettorale, i mancati bonifici di alcuni parlamentari furono al centro di un tormentone, tanto da convincere i vertici a cambiare regole per la seconda avventura in Parlamento. Ecco quindi la decisione di virare: stop al fondo per il microcredito e agli scontrini, restituzioni a forfait su un conto creato ad hoc. E intestato a Luigi Di Maio (capo politico e tesoriere) e ai capigruppo. Una mossa, quest’ultima, che nel corso dei mesi, ha fatto storcere il naso a diversi parlamentari e che è diventata oggetto di rimostranze in assemblea. Molti hanno chiesto l’estratto conto bancario, cercando di conoscere i movimenti. «Serve trasparenza» ripetono in queste ore anche i ritardatari delle donazioni. Sul sito tirendiconto.it sono presenti alcune destinazioni con tanto di importi devoluti: dalle popolazioni colpite dalle alluvioni, al fondo di ammortamento dei titoli di Stato. I detrattori contestano anche un altro punto: i 300 euro mensili (oltre ai 2000 forfettari) da versare come contributo per Rousseau. «Un po’ strano che ci sia chi firma una candidatura in cui viene messo nero su bianco quel versamento per la piattaforma, viene votato su quella piattaforma e poi la contesta», dicono alcuni nel M5S. I morosi (33-35 quelli che finiranno nel mirino dei probiviri sui 45-47 segnalati) contestano i costi e il ruolo di Davide Casaleggio. Troppi soldi da donare secondo alcuni: circa 1,1 milioni di euro annui. Una cifra che però serve come il pane alle casse di Rousseau. La piattaforma, infatti, dal 2017 al 2018 ha quasi triplicato i suoi costi. Le spese sono passate da 493mila euro a 1,1 milioni di euro. A fare la voce da padrone — oltre alle spese legali (24,3%) — anche quelle per il personale (29,8): oltre 335mila euro nel 2018 a fronte dei 103mila del 2017. I dipendenti sono dieci (prima erano 4 part time, 2 full time, uno stagista e un collaboratore coordinato e continuativo). Spese che rischiano di diventare una voce «fissa» del bilancio. Le cifre per la l’infrastruttura sono il 19,6%, mentre quelle per la comunicazione sono schizzate da 14mila a 87mila euro. «Poco se si considera che stiamo parlando della piattaforma che regge la vita politica del primo partito in parlamento», si difendono nel M5S. Costi che dovrebbero aumentare ancora: nel 2019 è stata sviluppata la nuova piattaforma (per supplire anche alle falle evidenziate dal garante della Privacy). Ma Rousseau, che doveva essere distribuito agli alleati europei (complice la débâcle degli alleati del M5S), è rimasto senza sponde a Bruxelles. E con costi che — al contrario di chi spinge nel M5S per il ritorno alle urne — solo una pattuglia di oltre 300 parlamentari può garantire.
Rousseau costa 1,1 milioni, addetti raddoppiati. Contributi M5S decisivi per sopravvivenza. Il Corriere del Giorno. Nel mirino dei vertici del M5S chi contesta le donazioni anche la gestione del conto corrente su cui si accantona parte degli stipendi dei parlamentari. I costi della piattaforma Rousseau sono lievitati da 493mila euro a 1,1 milioni di euro l’anno. Utilizzando soldi pubblici. Le restituzioni rappresentavano dall’epoca dei primi giorni in Parlamento le due facce dei “grillini”: una nota di merito e nello stesso tempo il grande controsenso del Movimento 5 Stelle . Pochi elettori e sostenitori del M5S sono a conoscenza che rispetto alla precedente legislatura, è sparita la trasparenza degli scontrini e sopratutto il fondo per il microcredito. Nel febbraio 2018, in piena campagna elettorale, i mancati bonifici (e quelli “taroccati”) di alcuni parlamentari furono al centro di una inchiesta televisiva del programma Le Iene , al punto tale da indurre i vertici a cambiare regole per la seconda legislatura in Parlamento. Da qui quindi la decisione di cambiare: stop al fondo per il microcredito e agli scontrini, restituzioni a forfait su un conto creato ad hoc. Che però è intestato a Luigi Di Maio (capo politico ed anche tesoriere) ed ai capigruppo della Camera e del Senato. Una decisione questa che nel corso dei mesi della seconda legislatura parlamentare corrente, ha creato il dissenso di deputati e senatori diventando oggetto nevralgici delle rimostranze in assemblea. Molti hanno chiesto l’estratto conto bancario, pretendendo di conoscere i movimenti. In queste ore agitate anche i ritardatari delle donazioni sono d’accordo con i dissenzienti: “E’ necessaria trasparenza” . Sul sito tirendiconto.it sono presenti alcune destinazioni con tanto di importi devoluti: dalle popolazioni colpite dalle alluvioni, al fondo di ammortamento dei titoli di Stato. I contestatori battono anche un altro punto, e cioè quello dei 300 euro mensili , oltre ai 2000 forfettari, da versare obbligatoriamente come contributo per l’ Associazione Rousseau che così facendo aggira le norme sul finanziamento ai partiti. I 33-35 “morosi” che finiranno nel mirino dei probiviri sui 45-47 segnalati, di fatto contestano i costi della piattaforma ma anche il ruolo di Davide Casaleggio. “Un po’ strano che ci sia chi firma una candidatura in cui viene messo nero su bianco quel versamento per la piattaforma, viene votato su quella piattaforma e poi la contesta“, reagiscono alcuni “fedelissimi” di Di Maio e Casaleggio. Secondo alcuni parlamentari grillini i soldi da versare obbligatoriamente sotto forma di donazione all’ Associazione Rousseau sono esagerati : in totale circa 1,1 milioni di euro l’anno. Una cifra che costituisce l’ossigeno per le casse di Rousseau. Infatti, dal 2017 al 2018 la piattaforma “controllata” da Davide Casaleggio ed i suoi soci, ha incredibilmente quasi triplicato i suoi costi di funzionamento. I costi sono lievitati da 493mila euro a 1,1 milioni di euro. A “pesare” oltre alle spese legali (24,3%) sono sopratutto quelle triplicate per il personale (29,8): dai 103mila del 2017 si è arrivati ai 335mila euro nel 2018. Attualmente i dipendenti sono 10 , mentre in precedenza erano 4 part time, 2 full time, uno stagista e un collaboratore coordinato e continuativo. Costi che rischiano di diventare una voce “fissa” e pesante nel bilancio dell’ Associazione Rousseau. I costi di mantenimento per la l’infrastruttura informatica pesano per il 19,6%, mentre sono schizzati i costi per la comunicazione balzati da 14mila a 87mila euro. I “pasdaran” del M5S si difendono: “Poco se si considera che stiamo parlando della piattaforma che regge la vita politica del primo partito in parlamento” , dimenticando però di non essere più il partito leader per voti in Italia motivo per cui alle prossime elezioni è prevedibile un forte ridimensionamento del peso politico. I costi dovrebbero ancora aumentare, in quanto nel 2019 è stata sviluppata una nuova versione della piattaforma per ovviare sopratutto alle falle evidenziate dal Garante della Privacy. . Ma la piattaforma Rousseau, che doveva essere messa a disposizione agli “alleati” europei è rimasto inutilizzato a Bruxelles, il che la dice tutta sulla inesistente influenza politica degli europarlamentari a 5 Stelle. Rimangono quindi elevati ed ingiustificati gli ingenti costi di mantenimento che solo una pattuglia di oltre 300 parlamentari potrebbe garantire . Ed è per questo che Di Maio e Casaleggio hanno paura del voto degli italiani.
M5S, i probiviri annunciano sanzioni per il 15% dei parlamentari. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Il collegio dei probiviri avvierà procedimenti disciplinari contro il 15 per cento dei parlamentari, che non hanno restituito quanto dovuto. È quanto si evince dalla nota uscita alla fine della lunga riunione, che sottolinea come siano stati restituiti già 13 milioni di euro e come l’85 per cento sia in regola. Per quanto riguarda gli altri, ecco la decisione: «I provvedimenti per chi non ha rispettato gli impegni presi con i cittadini, al momento della candidatura, saranno commisurati alla gravità della violazione. Inoltre, come previsto sempre dallo Statuto, a partire dall’apertura del procedimento, ci saranno dieci giorni per presentare le controdeduzioni». Dunque, non solo espulsioni, ma anche sospensioni. Stando al sito tirendiconto.it, gli inadempienti totali alla Camera erano l’attore Nicola Acunzo (che ha un ruolo da giardiniere nel film «I due papi»), Nadia Aprile, Flora Frate, Paolo Niccolò Romano e Andrea Vallascas. Per quanto riguarda il Senato, le caselle delle restituzioni a partire da gennaio 2019 sono ancora vuote per Cristiano Anastasi, Vittoria Bogo Deledda, Alfonso Ciampolillo, Luigi Di Marzio, Fabio Di Micco, Mario Michele Giarrusso. Da questi, però, si sono tolti la Bogo, fuori da tempo per ragioni personali, e Di Marzio, che starebbe provvedendo alle restituzioni. Il collegio dei probiviri è formato da Jacopo Berti (deputato), Fabiana Dadone (ministro) e Raffaella Andreola (consigliere comunale). Con loro si sono riuniti i due capigruppo di Camera e Senato, Davide Crippa e Gianluca Perilli. I cinque «giudici» del Movimento si rinchiusi in conclave alla Camera alle 14.30 e hanno discusso a lungo su come affrontare la situazione. Perché c’è un’esigenza di rigore, e di giustizia nei confronti degli altri parlamentari che hanno pagato. Ma c’è anche una preoccupazione sulla tenuta del gruppo e della maggioranza. Soprattutto al Senato, dove la soglia di maggioranza è di 161 ma attualmente si arriva a 163 senatori sulle posizioni del governo. In giornata aveva abbandonato il gruppo dei 5 Stelle il deputato siciliano Santi Cappellani. Con una lettera alla Sicilia, ha spiegato di provare «profonda frustrazione», aggiungendo: «Ci siamo imborghesiti, siamo finiti in una spirale di autoreferenzialità». Motivazioni nobili, subito smontate da Nicola Morra, che ricorda come solo il giorno prima Cappellano avesse spiegato di non poter pagare per aver «dimenticato la password». Dal gruppo Misto, per «lo smemorato di Collegno», come lo chiama Morra, non servono più password.
Rimborsi M5s: nomi e cognomi di chi non ha restituito al Movimento. Laura Pellegrini il 30/12/2019 su Notizie.it. Si torna a parlare dei (mancati) rimborsi dei parlamentari M5s: dopo i senatori rivelati da Gianluigi Paragone, infatti, arriva la lista completa di nomi e cognomi. Secondo alcune stime, sarebbero soltanto 15 in totale i grillini in regola con i pagamenti su un totale di 317. Il fenomeno si è aggravato con la crisi di governo agostiana e tuttora risulta un problema all’interno del Movimento stesso. Vediamo dunque chi sono coloro che non hanno restituito.
Rimborsi M5s: la lista completa. Tanti i big inseriti nella lista di coloro non hanno rispettato i rimborsi previsti da M5s. Tra questi ci sarebbero Giulia Grillo, Laura Castelli, Alfonso Bonafede e Federico d’Incà. Anche l’ex ministro Lorenzo Fioramonti, che assicurava di aver donato le sue indennità al Tecnopolo di Taranto, non avrebbe mai pagato nulla. Paragone aveva realizzato un video con alcuni dei nomi di coloro che non sarebbero in regola con i pagamenti. Ma la lista completa comprende molti altri parlamentari: Acunzo, Aprile, Cappellani, Del Grosso, Dieni, Frate, Galizia, Grande, Lapia, Romano, Vacca, Vallascas, Giarrusso. E ancora Nesci, che voleva lanciare la sua candidatura in Calabria, Carla Ruocco (ferma a tre mensilità), candidata alla presidenza della Commissione d’inchiesta sulle Banche. Nunzia Catalfo, ministro del Lavoro, è ferma invece a due mesi. Tra i nomi in elenco compaiono anche la ministra della PA, Fabiana Dadone (5 mensilità), la presidente della Commissione Esteri alla Camera Marta Grande (che non pagherebbe dall’inizio del 2019). In ritardo sui pagamenti ci sono invece il viceministro Stefano Buffagni (in stallo da agosto), Vito Crimi e l’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, (questi ultimi fermi a maggio). Infine, anche l’ex ministra della Salute Giulia Grillo è rimasta ferma a marzo.
Esisterebbero anche tre senatori che nel 2019 non hanno pagato nulla e nel 2018 hanno versato ben poco: si tratta di Vittoria Bogo Deledda, Alfonso Ciampolillo e Luigi Di Marzio.
Parlamentari M5s in regola. Dall’altro lato della medaglia, però, bisogna elogiare e congratularsi con i parlamentari di M5s che sono in regola con i pagamenti.
Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2019. Era volata alle Maldive, sull' atollo di Thoddoo, l'isola della frutta, assieme al suo compagno per trascorrere il Natale subito dopo la sofferta approvazione della manovra. Soltanto che, appena sbarcata sulla barriera corallina, Yana Chiara Ehm, deputata del M5S ha pubblicato sui social una sua foto mentre si dondola su un' altalena sul mare cristallino. Una mossa che le ha scatenato contro una raffica di polemiche, anche perché l' onorevole risulta tra le decine di morosi che non hanno restituito i 2.300 euro mensili della propria indennità. Da febbraio, per lei, il conto ha superato i 23 mila euro. Ehm, 29 anni, è arrivata a Montecitorio grazie a un ripescaggio a sorpresa, dopo una laurea in Scienze politiche e Scienze islamiche in Germania ha conseguito, in Scozia, un Master in studi sulla sicurezza in Medioriente, Caucaso e Asia centrale. Un curriculum di livello rispetto alla media del Movimento. Questi titoli, assieme ad alcune esperienze sul campo, avevano portato Ehm ad essere assunta presso l'ambasciata di Germania a Roma. Poi, a fine 2017, la scelta di candidarsi con il M5S, con relativa rocambolesca elezione. Yana Ehm, all' inizio del mandato, aveva tenuto un piglio piuttosto aggressivo sul rispetto delle regole, in asse con la linea dei Cinque Stelle. Il problema è che poi le regole ha iniziato a violarle lei stessa, contravvenendo a quelle interne al M5S, che impongono di restituire 2.300 mensili sottraendoli ai circa 10-12 mila netti che un parlamentare riceve a seconda dei casi e delle presenze alle votazioni. La deputata Ehm, secondo il sito tirendiconto.it, non versa più un euro da febbraio. Il fenomeno riguarda la stragrande maggioranza degli eletti, e anche Ehm è finita sotto il fuoco incrociato degli attivisti Cinque Stelle, molto arrabbiati. «Se non avessi i soldi da parlamentare col cavolo che ci saresti potuta andare», è il tono dei commenti riferibili. Il Corriere ha contattato più volte la deputata, per chiedere la propria versione dei fatti. Ma Ehm ha preferito affidarsi ancora una volta ai social. Prima il tentativo (vano) di giustificarsi: «È stato un regalo del mio compagno». Poi, davanti al dilagare delle proteste, una spiegazione più circostanziata: «Fornisco con piacere le necessarie delucidazioni - ha scritto su Facebook -: a causa di un problema tecnico non riesco a completare la rendicontazione del mese febbraio, dirimente per poter procedere a tutti i mesi successivi. Per spiegare ancora meglio: va "chiuso" il mese precedente per poter passare a quello successivo. Ho sollecitato più volte il webmaster in merito, abbiamo tentato svariate soluzioni, ma ancora il problema persiste. Spero che possa essere sbloccato al più presto, ho già preso prossimo appuntamento». Ma la toppa, almeno a leggere le reazioni, si è rivelata peggiore del buco.
Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 30 dicembre 2019. Sarà una strana forma di sovranismo mista a stakanovismo: da un lato il dovere di un parlamentare di non valicare mai i confini nazionali, dall' altro l' obbligo di lavorare in modo indefesso durante le feste. Più probabilmente però è solo una forma di invidia sociale quella che ha portato militanti dei 5 Stelle e odiatori del web a criticare la deputata grillina Yana Chiara Ehm, "rea" di essersi fatta una vacanza alle Maldive in tempo natalizio e di aver postato la foto su Facebook, con tanto di altalena e mare sullo sfondo. Apriti cielo. «Se non avessi i soldi da parlamentare, col cavolo che ci saresti potuta andare», scrive un utente, «beata lei che si fa una vacanza alla faccia degli italiani», rincara la dose un altro; e poi piovono epiteti non proprio elogiativi, della serie «patetica», «ipocrita», «duri e puri solo con gli altri». Alla colpa della vacanza si aggiungerebbe, per la Ehm, l' aggravante di essere tra quei grillini che non hanno ancora restituito le quote del compenso da parlamentare, come previsto dal regolamento 5 Stelle. La Ehm è morosa dallo scorso febbraio, per un ammanco di oltre 25mila euro. Lei si è giustificata attribuendo i mancati rimborsi a «un problema tecnico», e specificando che la vacanza «è stato un regalo del mio compagno». Queste spiegazioni potrebbero sembrare la classica pezza peggiore del buco. Tuttavia, prima di dare giudizi affrettati, bisogna spiegare il contesto in cui è avvenuta la mancata restituzione. La Ehm non è certo l' unica a non aver espletato la pratica del rimborso. Anzi, su 317 parlamentari grillini al momento solo 15 sono in regola: e, tra i "morosi", ci sono nomi illustri come quello dell' ex ministro dell' Istruzione Fioramonti e di altri capataz, vedi il ministro della Giustizia Bonafede, i viceministri Buffagni e Castelli, gli ex ministri Grillo, Lezzi e Toninelli e membri di primo piano come Carla Ruocco. E qui si aggiunge il problema più politico: costoro non restituiscono la quota solo perché venali e traditori dello spirito originario del partito, o perché non si fidano più della piattaforma Rousseau, presieduta da Casaleggio, a cui viene versata parte del rimborso, e perché nel Movimento è in atto una fronda che si appalesa attraverso atti di insubordinazione? Comunque sia, mettere in relazione la mancata restituzione di quei soldi con la possibilità di farsi una vacanza alle Maldive pare ingeneroso verso la Ehm. Che, a differenza di molti grillini, ha una storia professionale di tutto rispetto (con due lauree e un master, lavorava presso l' ambasciata di Germania a Roma) ed è verosimile che, già prima dell' ingresso in Parlamento, avesse i soldi necessari a pagarsi un viaggio nei paradisi esotici. Il problema semmai riguarda la sua coerenza personale e il destino di chiunque si candidi con i 5 Stelle. La Ehm, all' inizio del suo mandato, era stata tra le più rigorose nel chiedere il rispetto del regolamento del Movimento: il fatto che ora sia lei stessa a trasgredirlo stona con la sua immagine di oltranzista. In senso lato, la gogna mediatica di cui oggi è vittima dimostra il rischio di scendere in campo con un partito che coltiva il mito della Purezza: a furia di fare i puri, prima o poi si trova uno più puro che ti epura. La sua vicenda offre comunque uno spunto interessante su quale potrebbe essere la destinazione di tanti grillini che oggi occupano le stanze del potere: un trasferimento in massa e permanente nelle isole dell' Oceano Indiano, in modo che la smettano di fare danni da noi. Alla combriccola potrebbe aggiungersi anche Di Maio, sempre che sappia dove si trovano le Maldive e non le scambi per atolli del Mediterraneo riproduzione riservata La deputata grillina Yana Ehm presa di mira dai compagni di partito.
Mario Giarrusso (M5S): «Non rimborso da un anno per pagare gli avvocati. Mi cacciano? Lasci Di Maio». Pubblicato lunedì, 30 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudio Bozza. Al secondo mandato da senatore. Irreprensibile per 70 mesi, rispettando tutte le regole interne al Movimento. Poi, dall’inizio del 2019, Mario Michele Giarrusso, avvocato eletto in Sicilia, ha iniziato a non restituire più un euro al fondo gestito dal suo partito: circa 2.300 euro al mese, da detrarre dalla sua indennità. E ora il conto che gli viene contestato è di oltre 25 mila euro.
Senatore Giarrusso: lei è un esponente dei «duri e puri» del M5S. Perché non rimborsa da un anno, violando le regole?
«Perché questi soldi li ho dovuti accantonare per affrontare cause civili e penali che sono state intentate contro di me per quanto ho fatto nell’ambito della mia attività politica. Quella penale più rilevante, per cui sono stato rinviato a giudizio, riguarda la querela sporta dall’allora candidata sindaca di Agira, per un post sul blog di Beppe Grillo in cui denunciavo le ombre mafiose nella campagna elettorale del Pd di Enna. Per un altra causa civile a Porto Empedocle mi vengono invece chiesti 50 mila euro...».
Ma il M5S non vi appoggia, almeno in parte, sulle spese legali?
«Assolutamente no. Io sono ottimista sull’esito di tutte le cause, perché sono dalla parte della ragione. Però l’esito resta imprevedibile: così ho comunicato al mio capogruppo che devo accantonare i soldi, perché mi sta per arrivare un cospicuo saldo dai miei legali».
Solo 12% dei parlamentari del M5S è in regola coi rimborsi. Perché è iniziata una deriva così forte, in un partito iper legalitario come il vostro?
«Questo lo devo chiedere ai miei colleghi».
Il fenomeno si è molto acuito dopo il crollo dal 34% al 17%... Non è che molti di voi sanno che non saranno rieletti e quindi si tengono tutta l’indennità?
«Questo non glielo so dire».
Dopo l’addio del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti si parala sempre più spesso di un possibile gruppo autonomo. Lei ne farebbe parte?
«Non ho mai sentito Fioramonti, che peraltro sta alla Camera. Io dico che non ho alcuna intenzione di lasciare il Movimento. Sono uno vecchio stile. Semmai mi piacerebbe mandare via qualcuno, altroché!».
Si riferisce per caso a Luigi Di Maio?
«Abbiamo regalato un altro ministero ad un altro esponente di area Pd come Gaetano Manfredi. Un dicastero importante come l’Università lo abbiamo regalato a un barone. La nostra leadership nel governo è sempre più debole, praticamente siamo in minoranza pur avendo il 37% dei parlamentari. Di Maio deve lasciare: è lui il responsabile di tutto».
La sua collega deputata Yana Ehm, morosa come lei nei rimborsi dallo scorso febbraio, è stata duramente attaccata dagli attivisti M5S per aver postato sui social una foto dalle Maldive. Che ne pensa?
«I parlamentari sui social non devono comunicare la loro vita privata. Ma devono comunicare la loro attività. E quando anche Matteo Salvini comunica la sua attività privata, lo fa sempre associando un messaggio politico. Ovviamente mettere una foto delle Maldive mentre stiamo cercando di aiutare milioni di italiani con il reddito di cittadinanza è un pugno nello stomaco».
M5s, un "vaffa" di massa a Davide Casaleggio: anche Bonafede e Fioramonti tra i morosi. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019. Con il passare dei mesi aumentano i morosi in casa cinquestelle. A fine 2019 soltanto 10 deputati (su 216) e 5 senatori (su 101) sono in regola con le rendicontazioni di novembre. Se si guarda ottobre, non va così meglio: solo 27 deputati e 16 senatori in regola. Lo fa notare il Corriere della sera. Il ritardo nel versamento delle quote sta iniziando a creare un serio problema di risorse alla piattaforma Rousseau: nelle restituzioni sono inclusi, infatti, i 300 euro che ciascun parlamentare deve dare alla piattaforma presieduta da Davide Casaleggio (oltre al versamento mensile di almeno 2 mila euro sul conto di un comitato creato ad hoc, intestato a Luigi Di Maio e ai capigruppo di Camera e Senato). Ed è per questo che i vertici 5 Stelle stanno studiando la stretta: i ritardi potrebbero essere presto materia di lavoro per i probiviri, il comitato che decide sulle sanzioni. Intanto, i parlamentari sono stati avvertiti: chi non è in regola con i versamenti non potrà candidarsi al ruolo di facilitatore regionale. Richiamare al bonifico mensile deputati e senatori, tuttavia, non sarà un'operazione semplice. La lista è lunga. C' è chi nel 2019 non ha mai restituito. Su Tirendiconto.it , spiccano il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti e il ministro della giustizia Alfonso Bonafede.
Parlamentari M5S, solo il 12% è in regola. 14 super morosi non hanno restituito niente. Pubblicato lunedì, 30 dicembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Corsa a versare le «restituzioni» entro la fine dell’anno. Il fronte dei ribelli, che si sono tenuti i soldi, sfida le sanzioni. Se si vuole anticipare il prossimo futuro e capire chi uscirà dal Movimento 5 Stelle, un metodo rudimentale ma indicativo sarà quello di verificare l’elenco dei morosi, nei primi mesi di gennaio. È ovvio che chi si appresta a lasciare la casa natìa (si parla di una decina di deputati a gennaio e altrettanti più avanti), lo farà con il portafoglio pieno, senza aver versato balzelli vari a un Movimento nel quale non si riconosce più. Naturalmente c’è anche chi vuole far parte a pieno titolo del Movimento ma contesta «il metodo Casaleggio» e i versamenti. Nel pacchetto di mischia ci sarà anche chi ha scommesso sulla fine anticipata della legislatura (e sulla relativa fuga con bottino). È possibile che un effetto collaterale dell’ultimatum — pagare entro il 31 dicembre — sia portare allo scoperto il nucleo di dissenso radicale. Il sito di riferimento è tirendiconto.it. Qui si trova una messe di dati indicativa, ma non esauriente. Perché chi si è trovato nella lista nera, come Carla Ruocco, contesta il mancato aggiornamento del sito. E perché molti stanno pagando in questi giorni. Stando al sito, ci sono tre senatori che non hanno rendicontato nulla nel 2019 e ben poco nel 2018: sono Vittoria Bogo Deledda, Alfonso Ciampolillo (sotto processo per le posizioni sulla xylella) e Luigi Di Marzio (in odore di Misto). Ci sono ben 14 supermorosi, ovvero parlamentari che non hanno (ancora) restituito un centesimo nel 2019. Sono 11 deputati e 3 senatori. Tra i primi ci sono Acunzo, Aprile, Cappellani, Dieni, Fioramonti, Frate, Galizia, Grande, Lapia, Romano e Vallascas. Tra gli ultimi, Anastasi, Di Micco e Mario Giarrusso. Seguono molti altri che non hanno rendicontato diversi mesi, tra i quali Rachele Silvestri, Andrea Colletti, Yana Ehm, Paolo Lattanzio, Dalida Nesci, Gianluca Vacca. Ma sono dati parziali e in aggiornamento. Federica Dieni, per esempio, sta rendicontando tutto in questi giorni. I più solerti sono 39: a ora, secondo questi dati, sarebbe in regola solo il 12 per cento dei parlamentari. Il meccanismo è farraginoso. Lo stipendio di un deputato è composto da più voci: 5000 mila nette, più 3600 euro (per collaboratori ed eventi) e 3600 euro per affitti e diaria (decurtati in caso di assenze). Per il Movimento al deputato bastano 3000 euro per vivere. Il resto va speso o restituito. Il minimo da ridare è di 2000 euro al mese. La gestione di scontrini e spese fa impazzire molti e arrabbiare altri. Anche perché a questi versamenti si aggiungono i 300 mensili per Rousseau e quelli «volontari», a partire da 1500 euro per Italia 5 Stelle. E chi non paga? L’«audit» M5S minaccia maximulte, ma sono di dubbia legalità. Quanto alle espulsioni, il sistema sanzionatorio dei 5 Stelle è ancora più farraginoso. La laica inquisizione del Movimento prevede tre probiviri, al lavoro sulle segnalazioni. L’ultima traccia pubblica è stata data a giugno, quando si parlava di 109 procedimenti aperti. Nessuna news da allora. La prescrizione, per i processi interni M5S, è abolita. E c’è chi, come Elena Fattori, è restata sospesa sul burrone per mesi. E chi, come Giulia Sarti, lo è ancora. Nessuna forma di trasparenza, nessun sito, nessuna notizia su chi sia sotto processo e perché.
M5S, solo 15 onorevoli su 317 in regola con i rimborsi. Nulla da Fioramonti. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 su Corriere.it da Franco Stefanoni. L’indisciplina domina tra i parlamentari M5S che, in base alle regole del Movimento, dovrebbero restituire parte delle indennità ricevute e versare contributi alla piattaforma Rousseau. A novembre, a posto con i pagamenti risultano appena cinque senatori su 101 e dieci deputati su 216. Non a caso nei giorni scorsi il vertice dei Cinque Stelle ha messo all’ordine del giorno il tema dei rimborsi ormai da revisionare. Un nuovo meccanismo, già contestato da una ventina tra senatori e deputati del Movimento, prevede ora il versamento mensile di almeno 2 mila euro su un conto di un comitato creato ad hoc intestato a Luigi Di Maio e ai capigruppo di Camera e Senato. C’è una lista di parlamentari che nel 2019 non ha tuttavia mai aggiornato i versamenti. Tra questi, il senatore Michele Giarrusso e il deputato, nonché ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti. Gli altri sono, alla Camera: Nicola Acunzo, Nadia Aprile, Santi Cappellani, Daniele Del Grosso, Federica Dieni, Flora Frate, Francesca Galizia, Marta Grande, Mara Lapia, Paolo Romano, Gianluca Vacca e Andrea Vallascas. Mentre a Palazzo Madama si aggiungono: Cristiano Anastasi, Vittoria Bogo, Alfonso Ciampolillo, Luigi Di Marzio, Fabio Di Micco e Pietro Lorefice. Il quadro di chi nel 2019 ha pagato e poi a un certo punto ha smesso mette in rilievo un picco d’interruzioni a settembre, in corrispondenza degli effetti della crisi del primo governo Conte sostenuto da M5S-Lega e l’avvio del governo Conte II con l’appoggio in primis di M5S e Pd. Quel mese lo stop ai pagamenti ha coinvolto 94 deputati e 41 senatori pentastellati. Ma già a giugno, come segnalato sul sito Tirendiconto.it, le interruzioni erano state 30 a Montecitorio e 15 a Palazzo Madama. Tra i ritardatari figurano alla Camera Alfonso Bonafede (da agosto), Stefano Buffagni (settembre), Laura Castelli (ottobre), Federico d’Incà, Carla Ruocco e Giulia Grillo (aprile). Quanto al Senato, compaiono Nunzia Catalfo (da marzo), Barbara Lezzi (agosto), Vito Crimi e Danilo Toninelli (giugno). Nei confronti di chi non ha aggiornato i pagamenti, qualora entro l’anno non saldassero il dovuto, è previsto che scatti l’intervento dei probiviri del Movimento, con sanzioni disciplinari che potranno arrivare fino all’espulsione. A tenere duro, invece, è stato un manipolo di parlamentari che ha versato ciò che doveva versare in linea con le regole. Si tratta dei senatori Giorgio Fede, Barbara Floridia, Gabriele Lanzi, Arnaldo Lomuti e Fabrizio Trentacoste; e dei deputati Raffaele Bruno, Stefania Ascari, Lucia Azzolina, Antonio Federico, Riccardo Olgiati, Davide Serritelle, Carlo Sibilia, Arianna Spessotto, Luca Sut e Davide Tripiedi.
Franco Stefanoni per il ''Corriere della Sera'' il 24 dicembre 2019. A gennaio sono pochi i morosi, uno sparuto gruppo in una maggioranza disciplinata. Ma con il passare dei mesi le cose cambiano. E se oggi, a fine 2019, si guarda quanti sono i parlamentari cinquestelle in regola con le «rendicontazioni» - cioè quanti hanno restituito parte del proprio compenso, come il Movimento chiede, e hanno pubblicato le cifre su Tirendiconto.it - la situazione appare rovesciata: sono soltanto 10 deputati (su 216) e 5 senatori (su 101) a essere in regola con le rendicontazioni di novembre. Se si guarda ottobre, non va così meglio: solo 27 deputati e 16 senatori in regola. C'è uno spartiacque: è settembre. Mese in cui, dopo la crisi con la Lega, nasce il secondo governo Conte. Nel quale aumenta l' incertezza sulla durata della legislatura. E in cui, pure, crollano i rimborsi dei parlamentari cinquestelle. Così il sito Tirendiconto.it non restituisce soltanto un quadro di quanto versato - il «taglio» dei propri compensi è da sempre un cavallo di battaglia del Movimento -, ma anche delle difficoltà e delle tensioni nei gruppi M5S. Non a caso nei giorni scorsi il vertice del Movimento ha messo all' ordine del giorno il tema dei rimborsi. Il ritardo nel versamento delle quote sta iniziando a creare un serio problema di risorse alla piattaforma Rousseau: nelle restituzioni sono inclusi, infatti, i 300 euro che ciascun parlamentare deve dare alla piattaforma presieduta da Davide Casaleggio (oltre al versamento mensile di almeno 2 mila euro sul conto di un comitato creato ad hoc, intestato a Luigi Di Maio e ai capigruppo di Camera e Senato). Ed è per questo che i vertici 5 Stelle stanno studiando la stretta: i ritardi potrebbero essere presto materia di lavoro per i probiviri, il comitato che decide sulle sanzioni. Intanto, i parlamentari sono stati avvertiti: chi non è in regola con i versamenti non potrà candidarsi al ruolo di facilitatore regionale. Richiamare al bonifico mensile deputati e senatori, tuttavia, non sarà un' operazione semplice. La lista è lunga. C' è chi nel 2019 non ha mai restituito. Su Tirendiconto.it , spiccano il ministro dell' Istruzione Lorenzo Fioramonti e il senatore Michele Giarrusso. Gli altri sono alla Camera: Nicola Acunzo, Nadia Aprile, Santi Cappellani, Daniele Del Grosso, Federica Dieni, Flora Frate, Francesca Galizia, Marta Grande, Mara Lapia, Paolo Romano, Gianluca Vacca e Andrea Vallascas. Mentre a Palazzo Madama si aggiungono: Cristiano Anastasi, Alfonso Ciampolillo (che è già finito in passato sotto la lente dei probiviri), Luigi Di Marzio, Fabio Di Micco e Pietro Lorefice.
Tra i ritardatari figurano anche ministri e sottosegretari. Come Alfonso Bonafede (da agosto), Stefano Buffagni (settembre), Laura Castelli (ottobre), Federico d' Incà (aprile). Membri di primo piano come Carla Ruocco e l' ex ministra Giulia Grillo (da aprile). E ancora: Nunzia Catalfo (da marzo), Barbara Lezzi (agosto), Vito Crimi e Danilo Toninelli (giugno). A tenere duro, invece, è stato un manipolo di parlamentari che nel 2019 ha sempre versato ciò che doveva versare in linea con le regole (da oltre un mese è possibile rendicontare l' ultimo periodo). Si tratta dei senatori Giorgio Fede, Barbara Floridia, Gabriele Lanzi, Arnaldo Lomuti e Fabrizio Trentacoste; e dei deputati Raffaele Bruno, Stefania Ascari, Lucia Azzolina, Antonio Federico, Riccardo Olgiati, Davide Serritelle, Carlo Sibilia, Arianna Spessotto, Luca Sut e Davide Tripiedi.
Paragone fa i nomi dei 5Stelle morosi. Ecco chi non ha restituito un euro. Di Maio dov’era? Stefania Campitelli venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. «Ecco tutti i nomi di chi non ha restituito nulla o quasi!!!! E che segnalerò ai probiviri!». Parola di Gianluigi Paragone che su Facebook dedica un video ai colleghi “morosi”. «Ci sono ministri, presidenti di commissione… Mi sono rotto le scatole della gente che predica bene e razzola male! Ps. Io sono uno dei pochi perfettamente in regola!». Il senatore grillino, a rischio espulsione dopo il no alla manovra, cita uno per uno i colleghi pentastellati che non hanno versato i rimborsi (o solo in parte). Argomento spinoso, tornato d’attualità dopo l’accusa della dirigenza 5Stelle all’ex ministro Fioramonti di non aver versato i rimborsi alla cassa del movimento. Paragone vuota il sacco, ricordando di aver pagato tutto. A differenza di tanti altri. Poi va all’attacco del distratto Di Maio. «Il capo politico dov’era? Non lo sapeva o ha fatto finta di non vedere?». Tra i nomi compare anche la ministra della Pubblica amministrazione Fabiana Dadone. Tra le più accanite contro l’ex ministro dell’Istruzione («chi ha coraggio, non scappa»). «È un po’ incompatibile. Non puoi essere nel collegio dei probiviri – dice Paragone – ed essere anche ministro. Dadone è ferma a 5 mensilità. Te ne mancano un bel po’ figlia mia..». Ironizza il senatore e annuncia un esposto per chiedere la sua espulsione. Nemmeno Carla Ruocco risulta in regola secondo Paragone. «È presidente della commissione Finanze e vuole andare a fare la presidente della commissione di inchiesta sulle banche… È ferma soltanto a tre mensilità. Allora, non puoi sorvegliare sui conti degli altri e non essere in regola con qualcosa di identitario rispetto al Movimento». E lo stesso vale per il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, «ferma a due mesi..».
Claudio Bozza per corriere.it il 2 gennaio 2020. Il Collegio dei Probiviri, composto da Raffaella Andreola, Jacopo Berti e Fabiana Dadone, ha disposto l’espulsione dal Movimento 5 Stelle del senatore Gianluigi Paragone, che aveva presentato una memoria difensiva ritenuta però insufficiente ad evitare l’extrema ratio. L’espulsione è già stata comunicata all’interessato e, tra le altre cose, viene motivata anche con il voto espresso in difformità dal gruppo parlamentare sulla legge di bilancio. Ma i durissimi attacchi del conduttore tv eletto a Palazzo Madama erano iniziati già quando si profilò il ribaltone di governo: «Se passa l’accordo tra M5S e Pd torno a fare il giornalista», aveva annunciato in un’intervista al Corriere. A Paragone è stato contestato di essersi astenuto anche in occasione del voto sulle dichiarazioni del premier Giuseppe Conte e di aver violato in generale gli accordi presi al momento della sua candidatura al Senato nelle liste M5s. La cacciata di Paragone era nell’aria. Pronta la replica del Senatore: «Sono stato espulso dal nulla. Quando perdi 2 elettori su 3 ti espelle il nulla. Sono uno dei tanti elettori espulsi dal Movimento di Palazzo». Da tempo il senatore ex M5S non risparmiava critiche ai vertici e ai colleghi e sulla legge di Bilancio ha votato contro. Ma l’espulsione di Paragone suona anche come un avvertimento per gli altri dissidenti: i vertici, con Luigi Di Maio in testa, sono passati al contrattacco e, come già era accaduto nei mesi scorsi, non hanno alcuna remora a lasciare su malpancisti e fuoriusciti la responsabilità della tenuta della maggioranza. «Qualcuno va al Misto dicendo che c’è un problema di verticismo, ma sono gli stessi che venivano a chiedermi una carica», è la stoccata del capo politico all’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che non viene neanche citato dopo l’addio a dicastero e Movimento. E la scure dei vertici potrebbe abbattersi, con sanzioni disciplinari, anche sui ritardatari nei rimborsi. Pratica che Di Maio difende: «Non è vero che solo il 12%» dei parlamentari del M5S è in regola», sottolinea il ministro in una lunga diretta video su Fb. Chissà se la controffensiva dei vertici, e la contrarietà di Conte stesso, non freni il progetto di nuovo gruppo — il nome che gira nei rumors di palazzo è «Eco» — che Fioramonti ha in mente. Con lui ci sarebbe un drappello di deputati M5S e qualche ex dei Cinque stelle. Ma per avere un gruppo servono almeno 20 deputati. Possibile quindi che si componga, almeno inizialmente, una componente nel Misto. Di Maio, nel frattempo, tira dritto. Annuncia che presto verranno nominati i facilitatori regionali e punta sugli Stati generali di marzo, che nei piani del leader dovrebbe registrare una sorta di nuovo inizio del M5S. «Nel 2020 saremo determinanti e per esserlo dobbiamo essere più strutturati e compatti», afferma ancora Di Maio rivendicando i «40 provvedimenti approvati grazie al M5S».
Senza Matteo Salvini i 5 Stelle non rimborsano più un euro: Luigi Di Maio dà il cattivo esempio. Libero Quotidiano il 27 Dicembre 2019. Le dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro dell'Istruzione ha avuto l'effetto dell'apertura del vaso di Pandora. Tutti i nodi stanno venendo al pettine all'interno del Movimento 5 Stelle: proprio loro, quelli di 'onestà, onestà', in realtà non stanno mantenendo la parola data. Tanto da sbugiardarsi da soli, perché basta un attento sguardo al sito tirendiconto.it per scoprire che appena 23 parlamentari grillini su 317 sono in regola con i rimborsi, mentre 31 sono fermi a ottobre ma comunque in buona posizione. Fioramonti fa invece parte dei 20 che non hanno restituito neanche un euro nel corso del 2019, ma a far rumore è soprattutto il fatto che Luigi Di Maio abbia effettuato l'ultimo rimborso ad agosto. E come lui altri 119 rappresentanti del Movimento, che evidentemente si sono sentiti legittimati dal comportamento del loro capo politico. In sostanza da quando è caduta l'alleanza di governo con Matteo Salvini, oltre un terzo dei grillini non ha più restituito un euro. Difficile credere che sia un caso, forse i 5 Stelle non si sentono così tanto sicuri di andare avanti a lungo con il Pd? Nel dubbio allora è meglio intascare tutto, perché quando si tornerà al voto molti di loro resteranno a casa. Tra l'altro i ministri del Movimento sono tutti non in regola con i rimborsi: Alfonso Bonafede si è fermato ad agosto come Di Maio, la coppia Federico D'Incà e Vincenzo Spadafora sono fermi a giugno, Fabiana Dadone a maggio, mentre Nunzia Catalfo non restituisce i soldi addirittura da febbraio. Insomma, una delle principali battaglie condotte dal Movimento al grido di "onestà, onestà" si sta ritorcendo contro: in molti si sono lasciati tentare dal dio denaro, visto che per loro del domani non vi è certezza.
M5S, crollano i rimborsi al partito: in regola 15 parlamentari su 317. Il Corriere del Giorno il 26 Dicembre 2019. Il numero dei “non paganti” aumentato subito dopo la crisi di governo di agosto. Tra i “big” che non hanno versato alcunchè l’ex- ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ed il senatore Michele Giarrusso. Ritardatari da alcuni mesi Alfonso Bonafede, Laura Castelli, Carla Ruocco, Federico d’Incà e Giulia Grillo. Erano pochi i morosi a gennaio 2019, uno piccolo gruppo dinnanzi alla maggioranza dei parlamentari ligi al dovere e disciplinati. Ma mese dopo mese la situazione è cambiata sensibilmente. Consultando il sito Tirendiconto.it si apprende che la situazione alla fine del 2019, i parlamentari cinquestelle in regola con le “rendicontazioni”, cioè quelli che hanno restituito parte del proprio compenso, come il Movimento chiede, ed hanno pubblicato le cifre, la situazione appare letteralmente rovesciata: infatti sono appena 10 su 216 deputati e 5 su 101senatori ad essere in regola con le rendicontazioni di novembre. Analizzando ottobre, non va molto meglio: soltanto 27 deputati e 16 senatori sono in regola. Il mese della “svolta” negativa è stato settembre, cioè dopo la crisi con la Lega, allorquando nasce il secondo governo Conte, a seguito del quale, mentre aumenta l’incertezza sulla durata della legislatura, crollano i rimborsi dei parlamentari cinquestelle. Così il sito Tirendiconto.it non espone soltanto una situazione di quanto versato . Il “taglio” dei propri compensi è stato da sempre un cavallo di battaglia del Movimento, ma anche delle difficoltà e delle tensioni nei gruppi M5S. Nei giorni scorsi il vertice del Movimento 5 Stelle ha posto all’ordine del giorno il problema dei rimborsi. Il ritardo nel versamento delle quote sta iniziando a creare un serio problema di risorse sopratutto alla piattaforma Rousseau, poichè nelle restituzioni sono inclusi i 300 euro mensili che ogni parlamentare è tenuto a versare alla piattaforma dell’ Associazione presieduta da Davide Casaleggio , oltre al versamento mensile di almeno 2 mila euro sul conto di un comitato creato ad hoc, intestato a Luigi Di Maio e ai capigruppo della Camera e del Senato. Per questo motivo adesso i vertici del Movimento 5 Stelle stanno studiando la soluzione: i ritardi potrebbero essere conseguentemente molto presto materia di lavoro per i probiviri, il comitato che decide sulle sanzioni. I parlamentari nel frattempo sono stati avvertiti: chi non è in regola con i versamenti non potrà candidarsi al ruolo di “facilitatore” regionale. Non sarà certamente un’operazione semplice sollecitare la puntualità dei deputati e senatori grillini al bonifico mensile . La lista è lunga c’è persino chi nel 2019 non ha mai restituito nulla. Sul sito Tirendiconto.it, in prima fila ci sono l’ex- ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ed il senatore Michele Giarrusso. Gli altri sono alla Camera: Nicola Acunzo, Nadia Aprile, Santi Cappellani, Daniele Del Grosso, Federica Dieni, Flora Frate, Francesca Galizia, Marta Grande, Mara Lapia, Paolo Romano, Gianluca Vacca e Andrea Vallascas. Mentre a Palazzo Madama si aggiungono: Cristiano Anastasi, Alfonso Ciampolillo (che è già finito in passato sotto la lente dei probiviri), Luigi Di Marzio, Fabio Di Micco e Pietro Lorefice. Tra i ritardatari ci sono non pochi ministri e sottosegretari. Come il ministro di Giustizia che da agosto non versa un euro Alfonso Bonafede, i viceministri Stefano Buffagni da settembre, Laura Castelli da ottobre, Federico d’Incà da aprile. Fra i ritardatari….ci sono esponenti di primo piano del M5S come Carla Ruocco e l’ex ministra Giulia Grillo che non versa un euro dallo scorso aprile, così come Nunzia Catalfo ferma a marzo 2019, l’ex-ministra Barbara Lezzi che non versa nulla dallo scorso agosto, Vito Crimi e Danilo Toninelli fermi entrambi al giugno scorso. Per dovere di cronaca è giusto segnalare un gruppo di parlamentari pentastellati che ha sempre versato nel 2019 quanto dovevano versare in linea con le regole. Da oltre un mese è possibile rendicontare l’ultimo periodo.. Sono i senatori Giorgio Fede, Barbara Floridia, Gabriele Lanzi, Arnaldo Lomuti e Fabrizio Trentacoste; ed i deputati Stefania Ascari, Lucia Azzolina, Raffaele Bruno, Antonio Federico, Riccardo Olgiati, Davide Serritelle, Carlo Sibilia, Arianna Spessotto, Luca Sut e Davide Tripiedi.
· Cinquestellopoli.
Lo scoop del Riformista. Cinquestellopoli: “Via il regalo alla lobby”, da LeU a FdI scatta la rivolta. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Novembre 2020. I Cinquestelle, colti con le mani nella marmellata, fanno voto di silenzio e si chiudono in casa. Solo uno smilzo comunicato dove dicono feriti: noi con Phlilip Morris non c’entriamo. Passerà la buriana, pensano speranzosi. Intanto fingono di non esserci. Ma da Pd e Lega tutto tace. Un silenzio imbarazzante. Ma la casa brucia e se ne sono accorti tutti. Gianluigi Paragone non affonda sull’amico Casaleggio («Non so per quale motivo è stato pagato, lui fa attività di comunicazione digitale…»), ma se la prende con gli ex compagni: «I Cinque Stelle sono un partito fake, figuriamoci se potevano essere impermeabili alle lobbies», taglia corto. E adesso? «Si sta ragionando su un emendamento che restituisca pari dignità alle tassazioni dei prodotti da fumo». Un altro ex Cinque Stelle, l’ex ministro dell’Istruzione, Fioramonti, è ancora più netto. «Ho presentato un emendamento alla manovra di bilancio che abbatte l’aliquota sul tabacco riscaldato. Continua la battaglia già iniziata alla Camera mesi fa insieme alla collega Rossella Muroni, con un emendamento che porta la tassazione del tabacco riscaldato dal 25 al 60%. Obiettivo: porre fine a un privilegio fiscale ingiustificato per investire più risorse nella cura e nel benessere delle persone». E poi però il fondatore del movimento Eco, che sostiene Conte ma è contro i Cinque Stelle, si toglie un sassolino dalle scarpe: «Noi – spiega- , a differenza di altri, non prendiamo soldi dalle multinazionali del tabacco e non siamo disposti a fare nessun passo indietro. Chiediamo quindi al Governo di rivedere la propria posizione, soprattutto tra quelle forze politiche che hanno fatto orecchie da mercante e spesso ammiccato alle grandi multinazionali del fumo». Sinistra Italiana, con il portavoce Nicola Fratoianni, guarda al tema dell’opacità dei finanziamenti Casaleggio-politica. «Secondo l’inchiesta de Il Riformista, la multinazionale del tabacco Philip Morris ha pagato la Casaleggio associati per un totale di 2,4 milioni di euro di consulenze dal 2017 ad oggi. Davvero molti soldi. Io credo che per trasparenza e onestà, Casaleggio e anche il M5s debbano chiarire». La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, torna sulla nostra inchiesta: «Dalla Philip Morris più di 2 milioni di euro di “consulenze” alla Casaleggio associati, casa madre del M5s. Beh se Casaleggio junior e i suoi collaboratori sono esperti di chiara fama nel campo del tabacco e della tecnologia connessa alla combustione, tanto da poter ottenere parcelle da così elevate, allora non c’è nulla di male», ha scritto su Facebook la leader di Fdi Giorgia Meloni. «Viene il sospetto – prosegue – che quegli importi siano un modo per oliare gli ingranaggi di chi ha un chiaro e diretto collegamento con il M5s, partito di maggioranza e di governo. Per Forza Italia parla il senatore Lucio Malan. «Gli straordinari favori fatti dal governo, e in particolare dai suoi esponenti del M5S, alla Philip Morris sono collegati agli oltre 2 milioni versati da questa grande azienda alla ditta Casaleggio? Non possiamo saperlo, anzi, se non fosse per il Riformista, non sapremmo neppure dei 2 milioni. Ma una cosa la sappiamo di sicuro. Il governo ha violato, e continua a violare, il regolamento del Senato pur di non rispondere alle interrogazioni che riguardano la questione del tabacco riscaldato, che ha goduto di ribassi fiscali, pari a 250-500 milioni di Euro».
Cinquestellopoli, parla la leader di FdI. Intervista a Giorgia Meloni: “I grillini rispondano: soldi Philip Morris a Casaleggio, a cosa sono serviti?” Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. Quando lo scandalo di Cinquestellopoli ha preso forma, lei non si è tirata indietro. Giorgia Meloni è stata la prima leader politica nazionale a invocare l’attenzione delle istituzioni e della magistratura, dalla sua pagina Facebook. Con 32 deputati, 18 senatori e due governatori di Regione che rispondono a lei, Giorgia Meloni è seguita online da un paio di milioni di follower quotidianamente. La sua Fratelli d’Italia guadagna peso secondo tutti i sondaggi, anche se crescendo, anche di recente, si è resa conto di aver imbarcato qualche personaggio poco raccomandabile. Da due mesi presiede l’Acre, l’alleanza dei partiti europei Conservatori e Riformisti. L’enfant prodige della destra – più giovane Ministra della storia repubblicana, più giovane Vice presidente della Camera, unica donna leader di una forza politica – è stata inserita da Politico.eu nella lista dei 28 leader che maggiormente influenzano l’Europa: per l’Italia sono lei e il premier Conte. Meloni, che dopo aver smesso per anni di fumare avrebbe recentemente ricominciato con qualche sigaretta ogni tanto, rivendica l’attenzione alla trasparenza anche scagliandosi apertamente contro le ingerenze di Big Tobacco nelle scelte di bilancio. Ed è entrata di peso nella vicenda Casaleggio – Philip Morris, sulla quale invita ad indagare, per vederci chiaro.
Fratelli d’Italia cresce. C’è anche qualche crisi di crescita, ad esempio con la selezione della classe dirigente sul territorio?
«Sono molto orgogliosa dei risultati e della classe dirigente di Fratelli d’Italia. Abbiamo gruppi parlamentari sia alla Camera che al Senato e anche in Europa che tutti ci invidiano per compattezza e competenza, due governatori di Regione seri e affidabili e migliaia di amministratori locali molto capaci. Certo, crescendo può capitare di incappare in qualche personaggio meno trasparente, ma quando capita noi non ci facciamo scrupoli: chi pensa di utilizzare FdI per perseguire scopi illegali o non trasparenti sappia che questa non potrà mai essere casa sua. Non ho visto la stessa chiarezza e trasparenza da parte di molti altri, e non ho visto da parte di certa stampa, soprattutto del servizio “pubblico”, l’accanimento avuto con noi».
Formazione e selezione della classe dirigente sono punti deboli dei partiti. E l’altro vulnus è quello del finanziamento della politica. La demagogia dei populisti non ha aiutato. Qual è la sua ricetta?
«Il problema dell’Italia è questo sistema ibrido per il quale da una parte abbiamo abolito il finanziamento pubblico e dall’altro abbiamo consentito il finanziamento da parte dei privati, ma se uno decide di finanziare un partito secondo le regole viene demonizzato. Mi auguro che quando sarà finita la stagione della demagogia pentastellata, puntualmente smentita da vicende come l’ultima, si potrà tornare a ragionare di un argomento fondamentale per il futuro della nostra democrazia».
Quando ha letto la nostra inchiesta su Philip Morris e Casaleggio cosa ha pensato?
«Ho trovato bizzarro che la Casaleggio Associati e dunque la casa madre del Movimento cinque stelle possa aver incassato milioni di euro dalle lobby del tabacco per quelle che potremmo definire delle “consulenze” e che contestualmente in Parlamento i grillini abbiano presentato provvedimenti per tagliare pesantemente le tasse sulle sigarette elettroniche (prodotte in gran parte proprio dalla Philip Morris). E credo che i 5 stelle debbano chiarire su quanto scritto dal vostro giornale: ho sempre detto che il M5S era tutto fumo ma essere pagati dalle lobby del tabacco è un’altra cosa…»
C’è chi pensa che se al posto di Casaleggio e M5S ci fossero stati altri soggetti, la scure della magistratura avrebbe colpito subito e con durezza.
«Da parte mia continuo ad avere rispetto e fiducia nel lavoro della stragrande maggioranza dei magistrati italiani. Mi pare che la Procura di Milano abbia aperto un’inchiesta per accertare la natura delle consulenze che la Casaleggio Associati ha fornito negli ultimi tre anni a Philip Morris. Aspettiamo l’esito dell’indagine. Mi viene però da fare una considerazione: se Casaleggio junior e i suoi collaboratori fossero stati esperti di chiara fama nel campo del tabacco e della tecnologia connessa alla combustione, tanto da poter ottenere parcelle così elevate, allora non ci sarebbe stato nulla di male. Nessuno ha mai saputo di questa specifica competenza e preparazione. Allora viene il sospetto che quegli importi possano essere stati un modo per oliare gli ingranaggi di chi ha un chiaro e diretto collegamento con il M5S, partito di maggioranza e di governo. Fosse successo a un qualsiasi partito di destra una cosa del genere sarebbero già fioccati avvisi di garanzia, arresti, perquisizioni e sarebbe partita la solita grancassa dei media di regime. Ma forse quella strana immunità di cui storicamente gode la sinistra al governo si estende anche ai partiti che governo insieme alla sinistra».
Lo scandalo è enorme, chi ha interesse a insabbiarlo in fretta?
«Non so se vi sia qualcuno che abbia un interesse privato a far calare il silenzio sul caso. Certo non noi che infatti abbiamo chiesto chiarezza. Detto ciò spetta alla magistratura accertare se siamo in presenza di un uso privato delle Istituzioni. Però devo constare il forte imbarazzo non solo da parte di Casaleggio jr ma di tutti i vertici del M5S inchiodati per l’ennesima volta alle loro contraddizioni».
L’attività delle lobby in Parlamento va normata? E come?
«Io non criminalizzo la rappresentanza di interessi. È normale e legittimo che le aziende, le associazioni di categoria, i sindacati e tutti gli attori pubblici e privati rappresentino al meglio i loro interessi e quelli dei loro associati. È un’attività che deve essere regolamentata sempre meglio e in maniera trasparente. Meno opacità c’è e più la responsabilità delle scelte politiche sarà in capo alla classe politica. Ma gratuitamente ognuno è libero di sposare le scelte più vicine alle proprie posizioni politiche, un altro conto è se ti pago per cambiare delle leggi. Questo, nel nostro sistema attuale, non può essere accettato».
Come si possono recuperare adesso le risorse che servono per la sanità? Abbiamo capito che, anche usciti dalla crisi covid, è un capitolo su cui investire.
«Va fatta una premessa. La politica dei tagli e dell’austerità imposta all’Italia dai tecnocrati europei e appoggiata dai governi della sinistra ha duramente colpito il comparto della sanità. La pandemia ha messo a nudo, oltre l’impreparazione del governo ad affrontare un’emergenza, la debolezza del servizio sanitario. Come si recuperano le risorse? Innanzitutto eliminando gli sprechi, tagliando gli stipendi dei manager ed effettuando una vigilanza sulle procedure d’appalto. Ma credo sia un problema di priorità nelle scelte di governo. Le faccio un esempio: il reddito di cittadinanza è la misura bandiera dei governi Conte. Ecco, sa quanto ci costeranno fino al 2021 i navigator? 180 milioni di euro. Ecco, magari quei fondi potevano essere utilizzati per assumere medici, potenziare la rete ospedaliera».
Jacopo Iacoboni per "la Stampa" il 27 novembre 2020. Poco meno di due milioni e quattrocentomila euro lordi sarebbe la cifra pagata in consulenze dalla Philip Morris, la multinazionale del tabacco, alla Casaleggio associati, l' azienda guidata da Davide Casaleggio, il quale presiede anche la piattaforma web su cui vengono decise politiche e candidature parlamentari nel Movimento. Il caso è esploso ieri dopo un articolo del quotidiano Il Riformista sul presunto lavoro lobbistico svolto dalla Casaleggio associati. L' azienda - sostiene il quotidiano - avrebbe incassato due milioni a titolo di consulenza in tre anni, nel periodo in cui sono state drasticamente abbassate dal Parlamento le tasse sulle sigarette elettroniche. Casaleggio ha risposto a questa connessione annunciando querela al Riformista e parlando di «teorie fantasiose», «ho già dato mandato ai miei legali di procedere con una querela nei confronti di chi ha diffamato me e la società». Il manager milanese ha spiegato che non esiste conflitto d' interessi perché «io non firmo decreti, né voto leggi, e non ho mai fatto ingerenze. Questi sono i fatti». Ha invitato a guardare semmai in Parlamento: «Affrontiamo pure il tema del conflitto di interesse, a partire dai 120 parlamentari che possiedono un' azienda e firmano leggi». La storia però non sembra concludersi così. Intanto Piero Sansonetti nel pomeriggio ribadisce: «Casaleggio conferma di avere preso i soldi» e «non poteva fare altro». La Stampa è venuta a conoscenza di date, importi e successione di questa serie di fatture che sarebbero state pagate a Casaleggio Associati dal 30 settembre 2017 al 30 ottobre 2020. Si tratta di 49 fatture, ognuna con numero progressivo nella contabilità Philip Morris, con data e importi. Le fatture hanno cadenza mensile, variano da 40mila a 50mila euro mensili. Due fatture (14 novembre 2018 e 25 novembre 2019) appaiono eccentriche, ciascuna delle quali di 140mila euro. Il totale dei soldi che sarebbero stati corrisposti ammonta alla cifra lorda di 2.379.203,43, che sarebbe stata erogata per una «consulenza digitale». Poiché non era chiaro se Casaleggio querelerà Il Riformista sostenendo che sia falsa la notizia dei pagamenti, oppure negando di avere fatto pressioni lobbistiche sul M5S, abbiamo rivolto - sia alla Casaleggio associati, sia a Philip Morris - due domande di chiarimento molto specifiche. Uno, se la srl milanese ha ricevuto pagamenti per consulenze dalla Philip Morris in una lunga serie di fatture, con relative date. E, se sì, è corretta la cifra totale di quasi due milioni e 400mila euro lordi? Visverbi, ufficio stampa della Casaleggio, ci ha risposto così: «Per policy aziendale Casaleggio Associati non rilascia mai informazioni relative ai propri clienti». Nessuna risposta, alle nostre due domande sulla Casaleggio associati, è arrivata dalla comunicazione di Philip Morris. Il caso nel frattempo è ovviamente diventato politico. Gli attacchi più duri ieri sono venuti da Forza Italia (Deborah Bergamini si chiede «cosa avranno da dire a riguardo Crimi e Di Maio che, per molto meno, hanno crocifisso gli avversari politici, in nome di un presunto codice morale che a quanto pare deve valere per gli altri ma non per loro stessi») e da Giorgia Meloni, con parole forti, «aspetto i commenti dei parlamentari grillini su questo schifo». In altri tempi il Pd e Renzi (che per i finanziamenti alla fondazione Open è indagato), avrebbero probabilmente attaccato. Ieri invece silenzio.
Davide Casaleggio attacca Le Iene sorprendendosi che facciamo il nostro lavoro. Le Iene News l'1 dicembre 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, come potete vedere nel servizio qui sopra, hanno rivolto una domanda a Davide Casaleggio - presidente dell'Associazione Rousseau, che esercita un'influenza fondamentale nel Movimento 5 Stelle - sulla polemica a proposito di un contratto siglato con Philip Morris. Ci ha dirottato verso l'ufficio stampa, la cui risposta è arrivata ore dopo che Casaleggio aveva già attaccato il nostro programma sulla sua pagina Facebook. Il fatto che si senta disturbato per la domanda di un giornalista lascia senza parole. Davide Casaleggio, l'imprenditore digitale e presidente dell'Associazione Rousseau, che esercita un'influenza fondamentale nella vita del Movimento 5 Stelle, è al centro di un'accesa polemica che lo riguarda a proposito di un contratto milionario siglato con la multinazionale del tabacco Philip Morris. Gli abbiamo rivolto delle domande a cui non ha voluto rispondere, come potete vedere qui sopra nel servizio di Antonino Monteleone e di Marco Occhipinti, e qui vi spieghiamo, per filo e per segno, come sono avvenuti i fatti. Sabato scorso Antonino Monteleone ha contattato telefonicamente Davide Casaleggio per chiedergli di rispondere a una semplice domanda: per la somma di 50.000 euro al mese, ogni mese, per tre anni consecutivi, cosa ha fatto la Casaleggio Associati per Philip Morris Italia? Davide Casaleggio ha dirottato questa richiesta verso l'ufficio stampa, nella persona di Valentina Fontana dell'agenzia Visverbi alla quale Monteleone ha inoltrato la stessa domanda. La risposta, a mezzo comunicato, è arrivata oggi, martedì, alle 15.51, cinque ore dopo che Casaleggio aveva già attaccato il nostro programma sulla sua pagina Facebook. Nel comunicato, che elude interamente la domanda, Casaleggio si trincera dietro la "policy aziendale", ma è - questo sì, sorprendente - il fatto che Casaleggio sembra non voler cogliere l'ambiguità della sovrapposizione tra il suo ruolo di imprenditore e quello di presidente dell'Associazione Rousseau, con gli inevitabili risvolti in termini di maggiore attenzione alla sua figura e al merito delle sue iniziative economiche. Il fatto che uno dei volti più noti di un movimento politico oggi al governo, che mette in cima ai propri valori quello della trasparenza, si senta disturbato per la semplice domanda di un giornalista lascia senza parole. Il comunicato di Casaleggio, infatti, recita così: “In risposta alla domanda del vostro giornalista Antonino Monteleone ribadisco che per policy aziendale Casaleggio Associati non parla dei propri clienti così come non entra nel merito delle attività di consulenza che vengono svolte". Consulenze, però, che possono rischiare di avere grossi intrecci con la politica come potete vedere nel servizio qui sopra.
Contratto tra Casaleggio e Philip Morris, ora indaga anche la procura di Milano. Le Iene News il 4 dicembre 2020. Martedì scorso con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti vi abbiamo parlato della consulenza da due milioni di euro (50.000 euro al mese per tre anni) pagati da Philip Morris alla società Casaleggio Associati. Abbiamo cercato di parlare con il presidente Davide Casaleggio, presidente pure dell'Associazione Rousseau che esercita un'influenza fondamentale nella vita del Movimento 5 Stelle. Ora anche la procura di Milano indaga su eventuali legami tra quel contratto e la tassazione più “leggera” sostenuta dal M5S nel settore di mercato del tabacco riscaldato, fondamentale per la grande corporation. Indaga anche la magistratura sul contratto milionario tra la Casaleggio Associati e Philip Morris di cui vi abbiamo parlato in onda con Antonino Monteleone nel servizio di martedì scorso che vedete qui sopra. La procura di Milano ha aperto un’inchiesta, secondo quanto riporta La Stampa, per ora senza indagati o ipotesi di reato sulla consulenza da due milioni di euro della società di cui è presidente Davide Casaleggio. L'imprenditore digitale è presidente anche dell'Associazione Rousseau che esercita un'influenza fondamentale nella vita del Movimento 5 Stelle. L’obiettivo dell’indagine è capire la natura del contratto da 50.000 euro al mese per tre anni forniti da Philip Morris, di cui ha parlato per primo il quotidiano Il Riformista, e se ci possa essere un legame con gli interventi normativi sostenuti dal Movimento 5 Stelle in favore di una tassazione più “leggera” nel settore di mercato del tabacco riscaldato, fondamentale per la grande corporation. Antonino Monteleone ha cercato di parlare di tutto questo con Davide Casaleggio, come potete vedere qui sopra, con una semplice domanda: per 50mila euro al mese, ogni mese, per tre anni, cosa faceva Casaleggio Associati per Philip Morris Italia? Come risposta abbiamo avuto un attacco preventivo su Facebook, prima della messa in onda, con minaccia di querela. Cliccando qui potete leggere nel dettaglio come sono andate le cose. Siamo stati attaccati perché facciamo il nostro lavoro: fare domande appunto. Nel frattempo ora risulta oscurato uno dei siti che vi abbiamo mostrato nel servizio, ifuriosi.it, che sembrerebbe poter essere riconducibile a Philip Morris. Casaleggio, cinque ore dopo l’attacco social e sempre prima della messa in onda, con un comunicato ci ha fatto sapere: “In risposta alla domanda del vostro giornalista Antonino Monteleone ribadisco che per policy aziendale Casaleggio Associati non parla dei propri clienti così come non entra nel merito delle attività di consulenza che vengono svolte". Aspettando l’esito delle indagini aperte ora dalla magistratura sul caso, il fatto che uno dei volti più noti di un movimento politico oggi al governo, che mette in cima ai propri valori quello della trasparenza, si senta disturbato per la semplice domanda di un giornalista continua a lasciarci senza parole. Se per caso Casaleggio volesse scegliere la via della trasparenza e rispondere, noi siamo sempre disponibili.
L’intervista. Cinquestellopoli, ecco cosa faceva Casaleggio con i soldi di Philip Morris. Nicola Biondo su Il Riformista il 5 Dicembre 2020. “La rete non dimentica” diceva sempre Gianroberto Casaleggio l’ideatore del Movimento 5 Stelle. E la storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio. Per raccontarla e per addentrarci nei meandri della Rete abbiamo chiesto la consulenza di un esperto di cyber-sicurezza Fabio Pietrosanti. Perché questa è una storia di siti internet che scompaiono, di manipolazione del pubblico e di fake news. Questa è la storia segreta della consulenza che Philip Morris ha affidato alla Casaleggio Associati per l’importo di quasi 2 milioni di euro netti in tre anni. A cosa sono serviti quei due milioni di euro? Nessuna delle parti in causa vuole rivelarlo. L’“investigazione digitale” di Pietrosanti – che pubblichiamo integralmente – dimostra cosa faceva l’azienda milanese per promuovere il tabacco riscaldato targato Philip Morris, a cui come è noto, i governi Conte hanno dimezzato la tassazione. Partiamo da una data, il primo dicembre. Sui media è già esplosa la vicenda Casaleggio-Philip Morris. La trasmissione Le Iene denuncia che ci sono alcuni siti riconducibili a Casaleggio Associati che fanno pubblicità al tabacco riscaldato. Tra questi siti se ne cita uno, I furiosi.
Cosa succede a questo punto, Pietrosanti?
«La mia attenzione viene catturata da quella denuncia ma il sito I Furiosi è sparito. Da qui parte l’inchiesta e ricostruisco un archivio documentale di questo sito, i suoi collegamenti e autori. L’archivio con tutte le evidenze di indagine è liberamente consultabile e scaricabile dal mio profilo github github.com/fpietrosanti/ifuriosi/.
Iniziamo da qui. Di cosa si occupava questo sito? Cosa c’entra con la vicenda Casaleggio Philip Morris?
«Il dominio internet ifuriosi.it risulta registrato il 17-04-2018 da Matteo Blandford».
Di chi si tratta?
«È un web designer. Il suo curriculum indica la realizzazione di I Furiosi dal 2017 per Casaleggio Associati. Il suo rapporto con la Casaleggio Associati pur presente nel curriculum non risulta invece menzionato negli altri profili pubblici dell’autore. Di certo lavora per alcuni grandi progetti per l’azienda milanese, tra i quali le due edizioni di SUM, il convegno dedicato a Casaleggio padre, e la campagna a favore di Moby, un cliente di Davide».
Come fa a dire che il sito scomparso era gestito per conto della Casaleggio?
«Lo dice lo stesso web designer. Ed è l’indirizzo IP, una sorta di targa che identifica ogni sito, che ce lo dice: nello stesso blocco di indirizzi IP risultano presenti altri siti riconducibili a Casaleggio Associati Srl, Associazione Rousseau, Movimento 5 Stelle, Marco Travaglio, siti di altri clienti dell’azienda».
Entriamo nel dettaglio: di cosa si occupava I Furiosi?
«L’homepage del sito raccoglie vari articoli sul tema del fumo, del tabacco, enfatizzando le sigarette con tabacco riscaldato, criticando il consumo di sigarette tradizionali ed elettroniche criticando la validità dei report OMS sui danni del fumo, enfatizzando aspetti del fumo quali l’emancipazione delle donne».
Insomma, un caso di manipolazione dell’opinione pubblica?
«Esattamente. Ma con un’aggravante: qui si parla di salute pubblica, di pubblicità ingannevole.
Pietrosanti volta lo schermo e appaiono in sequenza una decina di pagine web provenienti dal sito scomparso. I titoli sono indicativi. Si va dalle accuse all‘OMS, ai minori danni del tabacco riscaldato rispetto alle sigarette tradizionali, al confronto tra due tipi di tabacco riscaldato (di cui uno è IQOS di Philip Morris)».
Cos’altro hai scoperto?
«I Furiosi aveva una forte presenza sui social. Tutti i profili sono spariti o resi privati. A partire da un account YouTube da 38.000 iscritti, dal quale ho reperito una preview di tutti i titoli dei video. Un account Facebook che alla data della sospensione aveva 103.882 likes, numero significativo da cui si può ipotizzare un ingente investimento pubblicitario che qualcuno avrà pagato. Anche l’account Twitter – @WeAreFuriosi – viene sospeso ma come si può notare dalle conversazioni c’è un peculiare intervento della Philip Morris International a seguito dei suoi post. L’account Instagram è stato cancellato e non è stato possibile reperirne copie».
Cosa contenevano i video?
«Nel sito c’era l’anteprima di un video che sembrerebbe voler dimostrare la differenza fra sigarette normali, elettroniche e riscaldate ma che non è più visibile, è stato reso privato all’indirizzo. Tale video è nella intestazione a piè di pagina del sito, in tutti i contenuti navigazionali. Ovviamente non ha nessuna validità scientifica».
Perché secondo te questo sito e tutti i suoi canali social sono stati cancellati?
«Perché è vietata la pubblicità di sigarette elettroniche comprese quelle a tabacco riscaldato, secondo l’articolo 21 comma 10 del decreto legislativo 12 gennaio 2016. Sono vietate le comunicazione commerciali che abbiano anche l’effetto indiretto di promuovere le sigarette. E questo vale anche per la comunicazione “nei servizi della società dell’informazione” cioè siti web e social media. Aldilà dell’aspetto etico e morale, tale pubblicità può prevedere sanzioni da 30.000 a 150.000 euro».
Quindi essendo vietata questo tipo di pubblicità andava fatto sparire tutto, giusto?
«Certo perché questo reticolo di informazioni riporta al caso Philip Morris Casaleggio. Ecco la risposta alle vostre domande. Questo era ciò che faceva Casaleggio per Philip Morris».
Cosa intendi fare di questa tua indagine?
«Quello che va fatto, consegnarla all’AGCOM, all’agenzia delle Dogane e Monopoli e all’autorità giudiziaria. Che siano loro a decidere se questo tipo di comunicazione è legale».
Palazzo Chigi ci scrive. Palazzo Chigi: “Norma su Philip Morris? Noi all’oscuro”. Ecco perché uno tra Casaleggio e Conte non dice il vero. Nicola Biondo su Il Riformista il 4 Dicembre 2020. «In riferimento all’articolo pubblicato oggi dal quotidiano Il Riformista dal titolo Casaleggio vide Conte e la legge antifumo sparì, l’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio precisa quanto segue: Nel corso dell’incontro avvenuto a Palazzo Chigi il 7 luglio 2020 tra il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e Davide Casaleggio non si è mai parlato, nel modo più assoluto, di norme o emendamenti a favore o contro qualcuno. Nel corso dell’incontro, che ha avuto una durata decisamente inferiore a quella riportata nell’articolo, il dottor Casaleggio si è limitato ad esporre il suo progetto di costituire un’associazione dedicata al padre Gianroberto Casaleggio. Della riunione non esiste un verbale né degli appunti per la semplice ragione che la Presidenza del Consiglio adotta questa modalità di documentazione degli incontri esclusivamente quando gli incontri coinvolgono altri capi di Stato o di Governo. Quanto allo specifico emendamento sul tabacco di cui si ragiona nell’articolo, si precisa che il Presidente Conte non ne è mai stato informato: né della sua presentazione né del suo stralcio». Prendiamo atto. Ma prendiamo atto anche del fatto che la Presidenza del Consiglio è stata smentita dallo stesso Casaleggio sull’oggetto del colloquio: di fronte a decine di giornalisti il fondatore del Movimento, all’uscita da Palazzo Chigi, disse che «si era parlato anche di elezioni regionali», e non quindi, come sostiene la replica di Palazzo Chigi «esclusivamente dell’associazione dedicata al padre». O Casaleggio o Palazzo Chigi non dice il vero. Poi ci permettiamo di fare una osservazione sull’affermazione che «quanto allo specifico emendamento sul tabacco di cui si ragiona nell’articolo (vicenda Philip Morris, ndr), si precisa che il Presidente Conte non ne è mai stato informato: né della sua presentazione né del suo stralcio». Dobbiamo quindi immaginare che la politica fiscale e sanitaria in tempo di Covid non è appannaggio del Presidente, né dei suoi uffici, in particolare del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi con i suoi valorosi consiglieri parlamentari? Palazzo Chigi tiene inoltre a precisare che l’incontro del luglio scorso tra il presidente del Consiglio e Davide Casaleggio, «ha avuto una durata decisamente inferiore a quella riportata nell’articolo». Ma se durò molto meno di tre ore, come abbiamo riportato ieri, perché il premier non ha mai smentito le cronache che il Corriere e Repubblica dedicarono a quello stesso incontro all’epoca? Entrambe le testate parlarono di una riunione di circa tre ore, ma da Palazzo Chigi non arrivò un fiato. Anche perché numerosi giornalisti, telecamere alla mano, videro Davide Casaleggio entrare a Palazzo Chigi alle 13 e 40, per uscirne ben dopo le 16. Effettivamente non sono tre ore ma, a occhio, circa due ore e mezzo. Detto ciò cogliamo l’occasione per rivolgere un appello al Presidente Conte. C’è un emendamento alla legge di Bilancio che prevede di finanziare un fondo per quei malati che non possono andare in ospedale a causa della pandemia. Il fondo va finanziato con l’innalzamento della tassazione a una multinazionale del tabacco (cliente di Davide Casaleggio). Il Presidente è pronto ad appoggiare questa misura a costo zero per le casse dello Stato e a favore di chi soffre in un momento così drammatico?
Alessandro Da Rold per “la Verità” il 6 dicembre 2020. Franco Bernabè, storico manager di Stato (il primo nel 2016 a fare le condoglianze sul Corriere alla famiglia per la morte del guru Gianroberto Casaleggio), a giugno definì la storia dei presunti 3,5 milioni di euro arrivati dal Venezuela ai grillini come «un pizzino». L'ex numero uno di Eni e Telecom ne parlò durante la trasmissione 8 e Mezzo, pochi giorni dopo le rivelazioni del quotidiano venezuelano Abc. Un report dei servizi di Caracas sosteneva che nel 2010 il presidente Hugo Chávez avesse finanziato la Casaleggio associati. Di quella vicenda si sono ormai perse le tracce. La Procura di Milano aprì un'indagine modello 45, ma di come (e se) è andata avanti non è dato sapere tra i corridoi del Palazzo di giustizia. Come del resto in tanti si sono dimenticati le parole di Bernabè che quella sera spiegò come la politica estera dei 5 stelle avesse di fondo fatto indispettire gli Stati Uniti, proprio come era accaduto nel 2019 con la Lega, finita nell'inchiesta sui fondi della Russia all'hotel Metropol di Mosca. Il problema è che, americani o meno, le inchieste intorno alla Casaleggio associati si sono triplicate negli ultimi mesi. Oltre a quella sui presunti 3,5 milioni venezuelani, contro cui Davide Casaleggio ha sporto querela, in novembre a Milano ne è stata aperta un'altra. Questa volta è legata a 119.800 euro che furono trasferiti dal Comitato eventi nazionali, già Comitato Italia 5 stelle, all'associazione Rousseau per la festa di Italia 5 stelle a Rimini nel 2017. Qui il modello è 44. C'è un fascicolo aperto contro ignoti sul tavolo della pm Alessia Menegazzo, dove le ipotesi di reato potrebbero essere appropriazione indebita o truffa. Tutto nasce da un esposto dell'avvocato dei dissidenti pentastellati, Lorenzo Borrè. Depositato a giugno, in quell'atto inviato alla Procura il legale, il legale degli espulsi aveva messo nel mirino proprio la presunta commistione economica tra il movimento e l'associazione Russeau gestita da Casaleggio. Non solo. Nell'esposto, oltre a chiedere copia dei rendiconti 2017 e 2018, Borrè invitava i magistrati a fare luce sulle consulenze e sulle collaborazioni messe in quegli anni a bilancio. E infine chiedeva di sentire il fondatore Beppe Grillo, «al fine di verificare se egli, alla data della pubblicazione del comunicato del 17.7.2017 (dove si chiedevano le donazioni, ndr) fosse al corrente che lo statuto del Comitato Italia 5 stelle prevedeva la possibilità di scioglimento anticipato di detto Comitato e la devoluzione dei fondi giacenti in favore dell'Associazione Rousseau e, in caso positivo, sul perché tale circostanza non sia stata chiarita nel suo annuncio né in quello cui rimandava il post del 17.7.2017». Di sicuro in questa vicenda c'è l'ombra della mancata trasparenza dei grillini, che non pubblicarono mai la delibera di scioglimento del Comitato Italia 5 stelle, né di fatto hanno ancora chiuso le associazioni nate nel 2009, nel 2012 e nel 2017 per sostenere il Movimento nelle sue battaglie politiche. L'ultimo caso in ordine di tempo è quello su Philip Morris. La Procura di Milano ha aperto anche qui un fascicolo conoscitivo a modello 45, senza ipotesi di reato né indagati. In ballo ci sarebbero consulenze per un totale di circa 24 milioni di euro. A occuparsene, come nel caso Venezuela, è il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. E anche in questo caso si parla di consulenze, quelle che Davide, presidente della piattaforma Rousseau e figlio di Gianroberto, ha ottenuto dalla multinazionale del tabacco. Le inchieste sono tutte separate, al momento. Ma per la prima volta dalla nascita del Movimento 5 stelle mettono nel mirino proprio Davide Casaleggio, contro cui negli ultimi mesi si è alzato un muro da parte di diversi esponenti grillini. Da tempo l'erede di Gianroberto viene criticato, soprattutto per la gestione dei contributi che i parlamentari devono versare all'associazione. Per di più l'attivismo di Casaleggio jr, soprattutto in politica estera, è sempre stato malvisto tra i pentastellati. Ancora adesso c'è chi ricorda un episodio del dicembre del 2017, a pochi mesi di distanza dalle elezioni politiche. Casaleggio jr incontrò l'ambasciatore inglese Jill Morris. Proprio lei con un tweet celebrò l'evento. «Lieta di incontrare ieri a Roma Davide Casaleggio per capire meglio il programma e gli obiettivi del M5s». Sulla vicinanza di Casaleggio jr a Londra esiste una certa letteratura su Internet, si parla anche di doppio passaporto, italiano e inglese. C'è chi si spinge più in là, ricordando che la Olivetti di Ivrea, dove iniziò a lavorare il guru, ha sin dalla seconda guerra mondiale un legame molto stretto con il Patto atlantico. Proprio Adriano Olivetti aveva rapporti con Allen Dulles, futuro direttore della Cia. Ma questa è un'altra storia.
Dagospia il 3 dicembre 2020. Philip Morris Italia questa mattina ha presentato una denuncia penale per diffamazione a seguito di alcuni articoli pubblicati sul quotidiano “Il Riformista” che rappresentano una grave campagna diffamatoria iniziata lo scorso 26 novembre e tuttora in corso. Diversamente da quanto riportato da “Il Riformista”, Philip Morris Italia non finanzia partiti, fondazioni o movimenti politici in Italia ed agisce nel pieno rispetto della legge. La Casaleggio Associati, che rappresenta una delle più qualificate agenzie nei servizi di comunicazione digitale, ha supportato Philip Morris Italia nella costruzione ed espansione della comunicazione corporate dell’azienda sui canali digitali. L’incarico ha previsto servizi quali la creazione di contenuti multimediali, la gestione dei profili social dell’azienda, il supporto per eventi aziendali e non, e il monitoraggio online. Contrariamente a quanto riportato da “Il Riformista”, il livello di tassazione vigente in Italia è in linea con quello previsto in altri Stati Membri dell’Unione Europea e non rappresenta un’eccezione. Contrariamente a quanto riportato da “Il Riformista”, l'emendamento al decreto fiscale adottato dal Parlamento nel 2018, contenente la riforma della tassazione per le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, ha avuto il supporto di una vasta maggioranza. Tale riforma della tassazione si applica ai prodotti di tutti gli operatori economici, dalle grandi aziende ai piccoli produttori. Accogliamo quindi con favore la notizia appresa oggi dalla stampa che la Procura della Repubblica di Milano ha aperto un fascicolo d’inchiesta sul rapporto tra Philip Morris Italia e la Casaleggio Associati che speriamo possa provare al più presto l’infondatezza delle accuse de “Il Riformista”. Philip Morris Italia è a completa disposizione per collaborare con le autorità. Philip Morris International è l’unica azienda del settore impegnata nella completa sostituzione delle sigarette con prodotti senza combustione, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, al fine di eliminare le sigarette nel più breve tempo possibile. Negli ultimi anni, milioni di fumatori sono passati a prodotti innovativi senza combustione, determinando un significativo calo nelle vendite di sigarette per tutto il comparto, in Italia come in molti altri Paesi. Appare ormai evidente come questo processo di profonda trasformazione globale del settore del tabacco veda l’opposizione di chi, invece di competere sul terreno dell’innovazione, cerca di proteggere il mercato delle sigarette e fermare il passaggio dei fumatori a valide alternative senza combustione. Questa trasformazione del settore avviene anche grazie al lavoro che Philip Morris Italia svolge quotidianamente insieme all’ampia filiera italiana del made in Italy, impegnata al proprio fianco nella produzione e distribuzione dei prodotti innovativi senza combustione. Una filiera che in Italia è composta da oltre 30.000 persone.
Aldo Torchiaro per ''il Riformista'' l'1 dicembre 2020. Senti parlare Lorenzo Fioramonti e capisci che il suo percorso non era esattamente quello del grillino-tipo, fedele alla linea per antonomasia. A 35 anni era docente di economia politica presso l'Università di Pretoria in Sudafrica, va a dirigere il Centro per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo. È membro del Center for Social Investment dell'Università di Heidelberg, della Hertie School of Governance e dell'Università delle Nazioni Unite. Quando il M5S lo chiama in Italia per fare politica – Vice ministro e quindi del Ministro dell’Istruzione, università e ricerca – la vive come un’esperienza dalla quale prenderà le distanze poco dopo. Oggi deputato, ha fondato la sua associazione politica, Eco. Una sigla che si può associare all’ecologia, ma che a qualcuno ricorda lo scetticismo di Eco per la Rete. Per un Gianroberto Casaleggio che predicava “Uno vale uno”, c’era un Umberto Eco che ricordava, amaramente, che “uno zero vale uno zero”. “Ho preso fischi da tanti, finché ero nel Movimento, per fortuna ne sono uscito e mi hanno rivalutato”, dice sorridendo.
Ma perché ne è uscito?
«Ho messo a nudo le criticità del Movimento. E sulle questioni fiscali sono sempre stato attento, sto seguendo la vostra inchiesta con interesse. Ho iniziato a fare politica da giovane attivista nelle periferie romane vent’anni fa, con CittadinanzAttiva. E già loro mi fecero notare qualche mistero di troppo sulle carte che riguardano la tassazione dei tabacchi».
In che circostanza?
«In un colloquio con CittadinanzAttiva mi fecero presente che c’era una grande sperequazione. E mi diedero un rapporto. Dissi subito che questa cosa andava sanata».
All’epoca in cui era ministro, con il Conte I?
«La prima osservazione sul tabacco riscaldato la feci con il governo Conte I, quando venne introdotta la riduzione dell’aliquota di sconto dal 50 al 75. Io lì storsi subito il naso, la cosa mi sembrò subito strana. Dissi: scusate, ma cos’è questa roba? Subito vidi un muro davanti. "Questa cosa s’ha da fare così", mi dissero. Adducendo mille motivi. L’indotto generato, il numero di persone che ci lavorano…»
Chi fu in particolare a fare pressioni?
«Fu Laura Castelli, una con cui io non ho mai avuto un buon rapporto. Lei era particolarmente favorevole, insieme con Alessio Villarosa. All’epoca ero Vice Ministro alla ricerca, chiesi di vedere le carte della ricerca scientifica. E vidi che se ne parlava mal volentieri. La cosa non mi convinse. Quando poi venne fatta la legge di bilancio successiva, ed io ero fuori dal Movimento, mi feci portavoce di questa istanza di CittadinanzAttiva che partiva dalla riparametrazione della tassazione sul tabacco riscaldato a favore dell’assistenza dei malati cronici che non possono andare in ospedale».
Parliamo della scorsa discussione sulla manovra di bilancio. Come andò?
«Presentammo questo emendamento io e la collega Muroni in commissione bilancio. Andai allo scontro finale. Laura Castelli e Luigi Marattin, che ai tempi era capogruppo in commissione per IV, erano estremamente contrari. Ebbi un alterco forte con loro. Anche a latere. Uscendo dalla commissione volarono delle parole non riferibili».
Ma lei ha percepito da Casaleggio una pressione su questi temi?
«Su di me non ha fatto pressione, poi devo dirle la verità: io nei governi Conte I e Conte II non ero mai parte delle chat che contano o degli incontri che contano. Perché io ero sempre un Ministro visto non bene dal capo del governo e dal mio partito».
E’ stato comunque un Ministro di peso.
«Deve capire una cosa centrale. Bisogna distinguere dall’avere responsabilità istituzionali e avere peso politico nel Movimento. Sono due cose diverse. Avere responsabilità istituzionali senza le coperture necessarie, significa avere grandi difficoltà. Perché rischi delle continue figuracce. La responsabilità deve implicare possibilità di esercitare l’azione di governo, altrimenti non riesci a produrre nessuna normativa».
E lei quell’appoggio di Casaleggio non lo ha mai avuto?
«No, non ero mai invitato nelle riunioni che contavano. Non ero mai presente nelle consultazioni in cui si prendevano le decisioni. Per questo le posso dire che Casaleggio io l’ho incontrato un paio di volte, e fino a oggi non ho mai scambiato con lui neanche una parola».
Questo le ha causato dei problemi di carriera…
«So, per aver visto le riunioni che contano da fuori, perché magari qualche volta in quelle sale ci capitavi per sbaglio, che nelle riunioni che contano Casaleggio c’è e c’è sempre stato. Non c’erano molti di noi. Magari non c’ero io che ero Ministro. Ma Casaleggio nelle riunioni politiche importanti è sempre presente».
Le riunioni presiedute da Casaleggio su cosa vertono? Lui dice di occuparsi di strategie digitali…
«I vertici presieduti da Casaleggio sono quelli sulla legge di bilancio, sul rimpasto di governo, la scelta dei Ministri. Questa roba qua».
E magari anche sulla tassazione sul tabacco.
«Però erano riunioni alle quali, come ho detto, io non prendevo parte».
Chi è che c’è sempre in questi vertici, in particolare in tema di leggi di bilancio?
«Il giro che conta. Davide Casaleggio, Luigi Di Maio, Riccardo Fraccaro, Alfonso Bonafede, Laura Castelli, Stefano Buffagni».
E il ministro Patuanelli?
«Ultimamente sì, è cresciuto negli ultimi due anni. Prima non era del giro».
Il giro del fumo, potremmo chiamarlo in questa vicenda.
«Io di questo presunto accordo non so e non posso dirlo. Il tema di fondo è il latente conflitto di interessi che c’è quando una azienda privata, che fa il proprio interesse, è all’interno della cabina di regìa di un movimento politico che è al governo, in questo momento. Al di là del dolo, è chiaro che in un Paese normale questa situazione è intollerabile».
Un conflitto di interessi che fa impallidire Berlusconi.
«E’ evidente. E’ identico, e noi all’inizio del M5S lo contestavamo. Quando parlavi con Confalonieri, parlavi con un rappresentante dell’azienda, un manager o un politico? Qui è la stessa cosa, di fatto. Magari anche un rapporto commerciale trasparente viene visto con sospetto, perché è chiaro che tutti i rapporti sono intrecciati in un modo tale che è difficilissimo districarli, e districarsi».
(Adnkronos l'1 dicembre 2020.) - "L'unico conflitto palese che sembra emergere da questo caso è quello del giornalista che ha scritto l'articolo, Aldo Torchiaro, che è anche Media relation director di Spencer&Lewis nota: mi spiace che nella giornata di ieri il suo nome sia stato rimosso dalla pagina, qui la versione precedente che annovera tra i propri clienti i due grandi concorrenti internazionali di PHILIP MORRIS. Due aziende che beneficerebbero della modifica della tassazione di cui scrive il giornalista, senza che però dichiari i suoi legami con queste due società nell'articolo". Lo scrive in un post su Facebook Davide Casaleggio, a proposito delle polemiche legate ai suoi rapporti con PHILIP MORRIS. "Le riduzioni delle tasse ad alcuni prodotti specifici a cui ci si riferisce negli articoli di giornale -prosegue la nota- sono state fatte da Renzi prima e dalla Lega successivamente. In questo senso credo possa essere qui si opportuno regolare eventuali conflitti di interesse ai 120 parlamentari che scrivono leggi possedendo aziende".
(Adnkronos l'1 dicembre 2020) - "L'inchiesta è del Riformista che ci ha lavorato da molto tempo con un pool guidato da Piero Sansonetti con Nicola Biondo e altri colleghi: abbiamo visto carte, documenti, e abbiamo lavorato su quelli con atti e interviste che si leggono tutti i giorni sul 'Riformista'. Non ho mai lavorato con nessuna azienda del tabacco". Lo dice all'Adnkronos Aldo Torchiaro, dopo il post di Davide CASALEGGIO su Facebook in merito a quanto pubblicato nei giorni scorsi dal giornalista sulla testata diretta da Piero Sansonetti. E poi aggiunge: "Anche altri giornali hanno scritto e documentato stessi bonifici".
(askanews l'1 dicembre 2020) - Spencer & Lewis dichiara "la propria estraneità all'inchiesta giornalistica de Il Riformista, di cui ha appreso l'esistenza solo all'esito della pubblicazione a firma di Aldo Torchiaro". E' quanto si legge in una nota diffusa in seguito al post su Facebook di Davide Casaleggio. Spencer & Lewis, si precisa, "è un'agenzia di comunicazione che si è in passato avvalsa della collaborazione esterna del signor Torchiaro, così come si è avvalsa e tuttora si avvale dell'opera di altri collaboratori esterni. Si precisa che il signor Torchiaro non si è mai occupato del settore tabacco per clienti della Spencer & Lewis. L'autonoma iniziativa del signor Torchiaro confligge con gli interessi di Spencer & Lewis e dei clienti che la stessa rappresenta, e l'ha costretta a prendere le distanze dall'autore dell'inchiesta e dalla testata giornalistica che l'ha ospitata". Spencer & Lewis, conclude la nota, "non si è mai occupata di inchieste giornalistiche che, nel rispetto della libertà di stampa e del diritto di cronaca, lascia ai professionisti del settore. Ogni diversa affermazione è falsa, e nuoce alla Spencer&Lewis che, estranea al polverone mediatico che altri stanno sollevando, si riserva di tutelare la propria immagine ed i propri interessi nelle sedi deputate.
Lo scandalo Cinquestellopoli. “Non solo Philip Morris, Casaleggio complice delle lobby”, la verità dell’ex 5S Saverio De Bonis. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 8 Dicembre 2020. Il Senatore Saverio De Bonis, in gioventù democristiano, poi sindacalista, è oggi senatore passato al Misto dopo una tormentata esperienza nel M5s. Da sempre legato al mondo dell’agricoltura, ha presentato una interrogazione parlamentare scritta al governo. “A tre ministri: quello della Salute, quella dell’Agricoltura e quello dell’Economia e Finanze, per conoscere le motivazioni e gli accordi che stanno dietro allo sconto voluto e praticato sulle accise del tabacco riscaldato”. «Il M5s – racconta – ha rinunciato a tante battaglie, si è sgretolato. Forse per inesperienza. Ma in tutto questo Casaleggio ha avuto un ruolo importante”. “Davide Casaleggio nega conflitto di interessi: dal 2017 il Movimento è suo e di Di Maio”, la verità della fondatrice del M5S Elena Fattori “Casaleggio deve smetterla di mentire, il M5S è suo e decide tutto”, l’accusa di Gregorio De Falco.
E lui li faceva, i conti.
«Solo che se sei un partito e queste cose le rendi pubbliche, è un discorso. Se sei il Movimento che aveva promesso di moralizzare la politica a partire dal contenimento delle lobby delle multinazionali, e invece ci vai a braccetto, c’è un problema. E Casaleggio oggi diventa complice di queste operazioni, così come è successo ad altri leader di altri partiti».
A questo punto inizio a difenderlo, Casaleggio, glielo dico. Ma secondo lei agiva da solo? Possibile che nessuno nel gruppo si sia reso conto di niente? E che non vi siate opposti quando c’era da opporsi?
«Io sono uscito dopo pochi mesi; mi sono confrontato con altri colleghi. Non so quanti abbiano avuto percezione della pressione delle lobby perché erano in pochi ad entrare in contatto con i decisori, per le indicazioni di voto. Solo i colleghi della Commissione bilancio erano avvertiti e potevano insospettirsi delle manine che inserivano gli emendamenti sul tabacco riscaldato».
Ma insomma non mi vorrà dire che è sempre e solo lui l’uomo che trama nell’ombra?
«È lui che ha dei rapporti privilegiati con alcuni portatori di interessi e quindi ha una corsia privilegiata su certe questioni. Ci può stare se c’è un interesse pubblico ma io qui l’interesse pubblico non lo vedo. Il Ministero della Salute si è pronunciato, non ci sono effetti positivi sulla salute dei consumatori, quindi a che titolo si deve difendere lo sconto sulle accise? Questo è il punto, perché qui si aprono questioni sensibilissime, legate ai benefici fiscali, alla concorrenza e alla situazione di Coldiretti, che ha favorito delle filiere…»
Me lo spiega bene? Cosa c’entra Coldiretti?
«Philip Morris ha stabilito un rapporto privilegiato con Coldiretti. Se un gruppo di agricoltori vuole beneficiare di finanziamenti europei e proporsi come soggetto attivo sul mercato, deve organizzare una O.P. (Organizzazione Produttori) e se più O.P. vogliono avere una forza di impatto ancora maggiore, devono aggregarsi in una O.I.P. (Organizzazione Interprofessionale). Sono strumenti che gestiscono i prezzi, l’offerta, i contratti, gli accordi. Cose in cui Coldiretti è molto brava. Ma nell’accentrare nelle proprie mani questi accordi con Philip Morris, cosa ha fatto Coldiretti? Ha siglato un accordo per escludere di fatto i piccoli produttori di tabacco».
E con quale meccanismo?
«Col tempo Coldiretti ha obbligato di fatto l’agricoltore che aveva il suo fascicolo presso un’altra associazione a portarlo nella sua associazione. Dicendogli chiaramente che se vuoi continuare a produrre il tabacco per Philip Morris, devi far parte della stessa associazione».
Facendo cartello, quindi.
«Ha fatto un cartello sindacale, un sistema che hanno usato anche per altre filiere, dal grano al pomodoro. E beneficiare così di vantaggi».
E il ruolo di Casaleggio qual è?
«Il ruolo di Casaleggio viene fuori con la blockchain, che i grillini hanno preso a cuore. Tra Casaleggio e Coldiretti c’è un contratto per la gestione della blockchain che emerge anche dalle carte pubblicate dal Riformista, dove ho visto tra i domini registrati da Casaleggio quello della blockchain di Coldiretti».
Mica mi vorrà dire che Casaleggio sta dietro anche a un triangolo tra Coldiretti e Philip Morris?
«Di questo non abbiamo prove. Ma Casaleggio collabora con entrambi e ho certamente le prove del rapporto tra Coldiretti e Philip Morris, che fa affluire a Philip Morris una serie di contributi dal Mipaf attraverso le filiere. È opportuno che i cittadini sappiano che c’è anche un contributo di 80 milioni all’anno per favorire l’acquisto di materia prima di qualità in Campania, Toscana, Umbria e Veneto. Le agevolazioni alla Philip Morris non derivano dunque solo da una riduzione del gettito sul tabacco riscaldato ma anche da questo aiuto che Coldiretti, facendosi intermediaria con il Ministero, è riuscita a far acquisire attraverso questo accordo di filiera, pari a 80 milioni all’anno».
Ma in questo modo Philip Morris garantisce di approvigionarsi di tabacco italiano, e non lo compra all’estero.
«È vero, abbiamo messo in sicurezza una filiera che stava morendo ma abbiamo tolto il monopolio pubblico all’ente italiano tabacchi per darlo a un monopolista privato, che da solo detiene il 99% del mercato del tabacco riscaldato. Allora perché non si è tenuto in piedi l’Ente tabacchi italiani? Se uno dei tre ministri si presenterà in aula al Senato giovedì, giornata di Question time, De Bonis è pronto a convertire l’interrogazione scritta in interrogazione urgente a risposta orale. Perché per una volta non vada tutto in fumo».
L'inchiesta Cinquestellopoli. Scandalo Casaleggio Philip Morris, il nodo della questione è politico. Salvatore Curreri su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. Può un parlamentare fare mercimonio della propria attività? Può accettare denaro per presentare un atto parlamentare (ad esempio un disegno di legge di legge o un’interrogazione) oppure per votare in un certo modo? Ancor prima: il parlamentare può essere considerato alla stregua di un pubblico ufficiale chiamato a rispondere per i reati contro la pubblica amministrazione? Oppure le sue alte funzioni sono in tal senso assolutamente incomparabili perché, per Costituzione, vanno esercitate liberamente “senza vincolo di mandato” (art. 67), ragion per cui, nel loro esercizio, il parlamentare non può essere chiamato “a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati” (c.d. insindacabilità: art. 68.1)? Sono queste le questioni che si agitano dietro alla vicenda, segnalata da questo quotidiano, del finanziamento di una multinazionale del tabacco alla Casaleggio & associati e dell’emendamento votato per diminuirne le imposte. Questioni non nuove se è vero che già il 31 gennaio 1893 la Camera dei deputati concesse l’autorizzazione a procedere nei confronti del deputato De Zerbi, imputato anche di corruzione per aver ricevuto somme per l’approvazione di un disegno di legge che interessava a una banca. Da allora, se si eccettua un lontano precedente rimasto isolato, favorevole a estendere l’insindacabilità anche al processo formativo della volontà alla base di ogni attività parlamentare (Camera dei deputati, 25 marzo 1971), l’indirizzo della giurisprudenza parlamentare che si è andato consolidando su questi casi negli ultimi decenni è univoco: il parlamentare può essere penalmente perseguito per quei fatti che possono denotare illecite interferenze con i corretti presupposti della funzione parlamentare. Tale indirizzo ha trovato conferma nei (per fortuna rari) casi in cui i giudici hanno dovuto pronunciarsi su parlamentari accusati di corruzione. Così la Cassazione, nel caso dell’ex deputato Volontè (sentenza 36769/2017), ha affermato l’applicabilità del reato di corruzione quando si tratta di atti non connessi allo svolgimento di compiti di rappresentanza e/o di “compromesso” politico ma frutto dello sfruttamento privato dell’alta funzione ricoperta. E nella famosa vicenda che ha visto Berlusconi processato per aver “comprato” il voto del sen. De Gregorio (sentenza 40347/2018) ha affermato sia l’applicabilità dei reati contro la pubblica amministrazione a quanti svolgono funzioni parlamentari, sia la sindacabilità solo di quei comportamenti antecedenti ed esterni al loro esercizio che ne denotano distorsioni, come nel caso di corruzione. Il divieto di remunerazione dell’ufficio pubblico, infatti, “esprime il valore della correttezza, quale dovere esterno, e che trova riscontro per ogni soggetto investito di pubbliche funzioni anche nel dovere di svolgerle con onore e disciplina, ai sensi dell’art. 54 Cost.”. È una precisazione importante per scongiurare l’opposto rischio, paventato già da Vittorio Emanuele Orlando, che un parlamentare potesse essere perseguito dal giudice penale anche per tutte quelle attività in cui si può sostanziare la vita politica-parlamentare, come per esempio il voto dato per «ottenere un Sottosegretariato di Stato». La stessa Corte costituzionale, quando è stata chiamata a pronunciarsi sulla perseguibilità dei parlamentari che votavano per altri (c.d. pianisti) per i reati di falso ideologico e sostituzione di persona, ha espressamente affermato che si trattava di fattispecie di competenza dell’autonomia regolamentare delle Camere, e quindi come tali insindacabili per il giudice penale; questi, però, di contro avrebbe potuto svolgere il proprio giudizio in ipotesi rispetto ad esse estranee, come “episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari, [e, per l’appunto] corruzione” (sentenza 379/1996). Che significa tutto questo in riferimento alla vicenda sopra segnalata? Che l’attività dei parlamentari del M5S rimane insindacabile quando si traduce in atti parlamentari tipici, come il voto, anche qualora fosse dimostrato che essi abbiano agito in conseguenza di un accordo corruttivo tra la Casaleggio s.r.l. e i rispettivi gruppi parlamentari. Ad opposta conclusione, invece, si deve pervenire per tutta quell’attività – precedente e antecedente – all’esercizio della funzione parlamentare che rimane pienamente sindacabile qualora penalmente rilevante, benché inutile nascondersi le difficoltà nel provare l’esistenza di un accordo in tal senso. In tutta questa vicenda rimane però sullo sfondo l’irrisolto problema del rapporto tra politica e danaro – ché la politica costa! – specie da parte di coloro che, se da un lato sdegnosamente rifiutano il finanziamento pubblico indiretto (così da non essere nemmeno obbligati a rispettare i requisiti minimi di democrazia interna), dall’altro ricorrono a forme alternative di finanziamento non sempre limpide e lineari. Ci ritorneremo.
Arriva il correttivo. Su Philip Morris si consuma la faida 5Stelle: parlamentari grillini scaricano Casaleggio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. «Ci siamo, finalmente ci siamo». In una giornata in cui il Movimento, votando il Mes, ha tenuto le cinture di sicurezza allacciate, l’onorevole Vita Martinciglio – M5s in VI commissione Finanze – prende fiato ed esala una boccata di ottimismo. «Dopo settimane incerte, il calendario è chiaro e l’approvazione del riassetto delle accise sarà spedita». E non sarà il solo nodo a essere affrontato: «Certamente è venuto il momento di chiarire i rapporti tra noi e Casaleggio, come ha detto in questi giorni anche il nostro deputato questore D’Uva. I contorni degli ambiti operativi devono essere delineati più chiaramente». Anche lo strano caso della tassazione scontata per il tabacco riscaldato volge al termine: l’emendamento Martinciglio è pronto. È stato sottoscritto da oltre 70 parlamentari di maggioranza, “segnalato” e sembra particolarmente gradito al governo, che dovrebbe dargli parere favorevole entro settimana prossima. La deputata siciliana che lo ha preparato, rivendica un impegno non nuovo: «Sono Cinque Stelle dall’inizio, e da sempre contraria a fare favori alle industrie del tabacco», ci assicura. Ciò nonostante, un trattamento di favore c’è stato. «E si è basato sull’equivoco, indotto da qualcuno, che il tabacco riscaldato fosse una via d’uscita dalla dipendenza, che disincentivasse il fumo e diminuisse la nocività sulla salute», riassume Martinciglio. La realtà si è incaricata di smentire tutto. «E oggi siamo allineati e coesi per riequilibrare la tassazione, riducendo lo sconto sulle accise in modo graduale, per non danneggiare chi lavora nella filiera». Ci dettaglia: «La riduzione dell’accise per il tabacco riscaldato sarà del 70% per il 2021, del 60% nel 2022 e del 50% nel 2023. Prevediamo un regime che diventerà pieno nel 2023, così da dare al mercato il tempo di attutire il colpo». L’emendamento è seguito da vicino da quello di Italia Viva, che va nello stesso senso. Potrebbe fugare anche i timori del Ministero dell’Agricoltura e della ministra Bellanova, che ieri ha riunito intorno al convegno “Filiera del tabacco, quale futuro?” alcuni degli attori coinvolti: Cia-Agricoltori Italiani, Confagricoltura, Unitab e Japan Tobacco International Italia. Il settore tabacchicolo è in crisi e dopo un felice periodo di sviluppo, che ha portato a impiegare 40mila lavoratori, registra negli ultimissimi anni una perdita del 92% delle aziende agricole produttrici, la diminuzione del 62% della superficie coltivata e un calo produttivo complessivo del 50%. Il Ministero ha precisato in una nota che quanto aveva dichiarato al nostro giornale dal senatore De Bonis, del gruppo Misto, va corretto: «Non esiste nessun contributo del Mipaaf a nessuna multinazionale del tabacco. Da anni il Ministero dell’Agricoltura, al fine di tutelare i tabacchicoltori e una filiera che occupa migliaia di persone, sottoscrive intese a titolo gratuito con i trasformatori di tabacco, compreso Philip Morris, per impegnarli ad acquistare tabacco in Italia». L’interessato, sentito dal Riformista, puntualizza: «Non si tratta di aiuti diretti, come erroneamente Coldiretti ha voluto far credere con la comunicazione fuorviante cui ci ha abituati, bensì di contributi di cui beneficia indirettamente l’azienda leader in Italia nella trasformazione del tabacco, attraverso fondi comunitari che arrivano ai produttori (mediante Pac-Agea; Psr regionali). Quantificando a spanne, da alcune verifiche che ho fatto stamattina, stiamo parlando di aiuti per circa 9-15 milioni di euro all’anno su 17.000 ettari di tabacco derivanti dalla Pac e di circa 10 milioni derivanti dai Psr regionali», specifica il senatore De Bonis. Che rilancia: «Il Ministero rettifichi queste cifre se sono inesatte: il nostro intento è unicamente quello di avere il quadro della situazione chiaro in un settore delicato come quello del tabacco. Infine, ci sono i contributi interprofessionali per i produttori e per i “trasformatori” per ogni campagna, il cui importo è fissato annualmente dall’Organizzazione interprofessionale – che, lo ribadisco, è composta non solo dai produttori ma anche dai trasformatori –. Il Ministero renda noto dunque anche l’importo annuale di queste contribuzioni». Nell’attesa di una risposta, il dicastero agroforestale tuona contro Palazzo Chigi. Italia Viva insiste per la revoca della task force sui fondi del Next generation EU. «Bonetti e Bellanova sono pronte alle dimissioni», fanno sapere.
Il caso Philip Morris. La giravolta dei 5S: “Gridavano non un euro ai partiti e poi hanno preso soldi dalle lobby”, parla Ugo Sposetti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Se nel mondo della politica c’è una persona universalmente riconosciuta come massimo esperto di finanziamento ai partiti, questa persona risponde al nome di Ugo Sposetti. Più volte parlamentare, nel 2001 diventa Tesoriere dei Democratici di Sinistra, successivamente dal 2004, co-tesoriere degli Uniti nell’Ulivo e poi de L’Unione. Una preziosa memoria storica, un combattente che anche dopo lo scioglimento dei DS, ha continuato a proporre finanziamenti pubblici ai partiti: nel 2011 propone una legge volta a raddoppiare i rimborsi elettorali ai partiti, iniziativa che non viene sostenuta dai Democratici di Sinistra. «Vedo che oggi – dice Sposetti a Il Riformista – il tema del finanziamento alla politica e ai partiti che secondo l’articolo 49 della Costituzione ne sono l’ossatura istituzionale – torna ad essere sollevato anche da parte di chi, in altri tempi, aveva cavalcato l’onda dell’antipolitica. Me ne compiaccio, ma non per rivincite personali che non ho mai cercato e che non appartengono alla mia storia politica, ma perché ritenevo allora e lo ritengo ancor più oggi che finanziare nella trasparenza i partiti è parte importante di una battaglia per la democrazia».
“Italia come la Bielorussia. Torniamo al finanziamento pubblico o addio alla democrazia”. È il titolo di prima pagina del Riformista di mercoledì. Senatore Sposetti, è un titolo troppo forte?
«No, è un titolo azzeccato. Perché coglie un aspetto fondamentale del funzionamento della vita pubblica in un Paese democratico come vuol continuare ad essere l’Italia. Per chi poi viene come me, da una storia di sinistra, da quella, del Pci in primo luogo, la questione del finanziamento pubblico della politica, e in essa dei partiti che anche costituzionalmente parlando, ne rappresentano l’architrave istituzionale, il titolo che hai citato rappresenta la sintesi di quella che ho sempre considerato una battaglia per la democrazia. Certo, i finanziamenti ai partiti devono assoggettarsi a regole certe di trasparenza, i cittadini devono essere messi nelle condizioni di poter avere contezza di come quei contributi sono stati utilizzati, ma non c’è dubbio che l’alternativa all’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti non è stata una politica più trasparente, puliti, ma semmai l’esatto contrario. A prevalere è stata l’opacità e anche un controllo della politica da parte di potentati economici e finanziari privati che nel finanziare questo o quel partito o movimento non l’hanno fatto certo per beneficenza».
«L’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti – ha scritto su questo giornale Gianluca Passarelli – è stata una resa al populismo, alla furia anti-democratica, alla propaganda ossessiva contro le istituzioni che ha lavorato come un maglio…». È così?
«Diciamo che le forze democratiche e progressiste a un certo punto hanno pensato di poter “svuotare” il Movimento5Stelle nuotando nelle sue stesse acque. Fuor di metafora, io credevo allora e purtroppo i fatti mi hanno dato ragione, che fu un errore politico quello che commise l’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, quando nel 2013 il Governo da lui presieduto decise di intervenire duramente sul finanziamento pubblico dei partiti e sugli stessi rimborsi elettorali che furono pesantemente ridotti. Dietro quella scelta c’era, per l’appunto, l’idea di togliere al movimento di Grillo e Casaleggio l’arma propagandistica contro i partiti che rubano i soldi dei contribuenti, che finanziano la casta. La politica come il regno dei ladroni patentati. Mi lasci aggiungere, per verità storica, che sempre nel 2013, in epoca di governo Letta, non superò il vaglio del Consiglio dei ministri una legge sulla regolamentazione delle lobby, mentre invece fu approvata l’abolizione dei rimborsi elettorali. Da vecchio comunista non pentito ma neanche fossilizzato, ho sempre creduto nell’importanza della politica delle alleanze. Ma lo sbracamento, no, questo è altra cosa. Non si contrasta il populismo e chi lo rappresenta andando sul loro terreno, mostrando una subalternità culturale prim’ancora politica. E poi mi lasci fare una battuta tagliente…»
Prego
«Alla fine, anche quelli che gridavano “neanche un euro ai partiti” oggi litigano per i soldi. Questo avviene nei 5Stelle: la resa dei conti interna, il braccio di ferro in atto con la Casaleggio associati, non ha niente a che vedere con divergenze politiche sul futuro del Paese, su cosa fare per rafforzare la sanità pubblica, in un momento così drammatico come quello che stiamo vivendo con il Covid-19…. Lo scontro è solo questione di soldi. E questo non riguarda, per onestà intellettuale bisogna dirlo, solo i grillini o pentastellati che si dica. Il discorso dei soldi c’entra e molto anche con le due scissioni che hanno riguardato il Partito democratico, in particolare quella di Italia Viva. Me lo lasci dire un po’ brutalmente, “alla Sposetti”: senza i finanziamenti giustamente, e sottolineo giustamente, destinati ai gruppi parlamentari, Italia Viva sarebbe già da tempo Italia Morta… La mia è una valutazione politica fondata sui fatti e non su narrazioni. Semmai ci sarebbe da discutere sul funzionamento del Parlamento e sulla salvaguardia del rapporto fiduciario tra elettore ed eletto. Alcune cose andrebbero dette…»
E le dica, senatore Sposetti…
«Pensi al recente referendum sul taglio dei parlamentari. Come non vedere l’esistenza di un filo rosso. Permeato dall’incultura dell’antipolitica, che lega l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti con l’idea che le istituzioni funzionano meglio se sono in meno a “mangiarci su”. Hai voglia a sostenere che esiste un disegno riformatore e riformista dietro il taglio dei parlamentari. Se mai ci fosse stato si sarebbe dovuto discutere se non prima, quanto meno dopo il referendum, di una nuova legge elettorale che salvaguardi il principio della rappresentanza dei territori. Così come, senza mettere in discussione il vincolo di mandato, si sarebbe dovuta aprire una discussione seria, dentro e fuori le aule parlamentari, sul vulnus operato da coloro che eletti in un partito finiscono per farne un altro o costruire un altro gruppo parlamentare, e non sempre per nobili ragioni. Invece, il nulla. È chiaro, e a oppormi non sarò certo io che per età sono un cittadino a rischio, che in piena crisi pandemica l’attenzione di chi governa sia indirizzata principalmente su come contrastare questo maledetto virus e su come far fronte ai devastanti effetti sociali che la pandemia sta determinando. Tuttavia, sono dell’avviso che anche in momenti di grande emergenza come quello che stiamo vivendo, discutere di regole che attengono al funzionamento del nostro sistema democratico, non significa perdere tempo o fare esercizi da salotto mediatico, perché, anche dentro il momento drammatico che non solo l’Itala ma il mondo intero, sta attraversando, discutere di democrazia è qualcosa di salutare. E bene fa Il Riformista a rilanciare questa discussione».
Da Tesoriere e parlamentare dei Ds, lei ha portato avanti in solitaria la battaglia perché non venisse abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Quell’isolamento è una ferita che ancora le brucia?
«No, non c’è ferita da lenire o rivincita personale da rivendicare. Io ho fatto allora la mia battaglia politica convinto della giustezza delle idee che ne erano alla base. Le battaglie politiche si vincono e si perdono, ma guai a ridurre il tutto a un fatto personale».
Lei parla di regole che presiedano al finanziamento della politica. A tal proposito, c’è chi guarda agli Stati Uniti dove il finanziamento delle lobby ai Democratici e ai Repubblicani, i grandi partiti americani, è trasparente, regolamentato. È a quel modello che dovremmo tendere?
«Direi di no. Negli Stati Uniti hanno altre regole e noi non siamo un paese anglosassone. Dovremmo fare piuttosto come la Germania, dove c’è il finanziamento pubblico, garantito dal ministero del Bilancio e da quello dell’Interno. In base ai voti ottenuti, un partito riceve i rimborsi. In più, ogni partito ha a fianco una fondazione. La Cdu per esempio ha la fondazione Adenauer, la Spd ne ha un’altra ancora, i Verdi uguale. Queste fondazioni non devono avere nessun collegamento con il partito, non accettano trasferimenti di denaro ma svolgono attività di studio e ricerca. La via tedesca mi pare più consona alla nostra storia e idea di democrazia che quella americana. E qui un merito me lo prendo, condividendolo con coloro che hanno lavorato a questo obiettivo: da quando abbiamo costituito le nostre fondazioni, come ex Ds, io ho detto di mettere tutto sul sito. Bilancio, sedi di proprietà, chi c’è in affitto. Più sei trasparente, più la politica ci guadagna. Quanto poi ai finanziamenti di privati, non sarò certo io a demonizzarli. Ci mancherebbe altro. Ma una cosa è che un operaio, un impiegato, un mezzadro, no quelli non ci sono più, un libero professionista decidano di dare dei soldi a un partito da cui si sentono rappresentati. Altra cosa è quando i finanziamenti vengono, ad esempio, da grandi multinazionali del tabacco. Penso alla vicenda del finanziamento della Philip Morris alla Casaleggio associati, che Il Riformista ha portato alla luce. In questo non vedo rilevanze penali, ma un problema politico questo sì, visto il peso che la Casaleggio associati, con la sua piattaforma Rousseau e altro, ha sempre avuto nel M5S. E qui ritorniamo al discorso fatto in precedenza sui 5 Stelle che litigano sui soldi…»
Tornando al titolo di questo giornale. Un elemento del quale è: i partiti ormai sono “fuorilegge”.
«Capisco il senso della provocazione, e in parte la condivido pure. Non so se i partiti siano “fuorilegge”. Di certo non stanno bene in salute, e non solo per una questione di soldi. Il fatto è che oggi è la politica ad essere morta. La politica come confronto e anche scontro di idee, di programmi, di visioni…»
È anche un problema di classe dirigente?
«Non voglio passare per un vecchio nostalgico, perché, al di là della carta d’identità che non mente, non mi sento tale. Che vuole che le dica: nel dopoguerra ci ha detto bene. Nel senso che in quel momento così drammatico per la vita, per il futuro dell’Italia, si è manifestata una classe politica che ha retto la sfida immane di una ricostruzione che non era solo fisica, materiale, ma anche morale e politica. Allora, con i De Gasperi, i Parri, i Togliatti, i Nenni, i Terracini, e l’elenco dei “padri costituenti” sarebbe lunghissimo, ci disse bene. Oggi un po’ meno».